La fine del nuovo/The End of the New

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È qui l’ultima arrivata, la fotografia, arrivata dopo pittura e scultura, a presentarci ciò che ci ha preceduto, la pietra e la notte, il minerale coperto da muschi e dai loro colori sullo sfondo del buio della notte e ad aprire così, in questa mostra, lo spazio della rappresentazione manifestandone il limite nell’inorganico e il suo apparire/scomparire improvviso. Come alla luce di un flash. “Carnac o gli allineamenti”, pietre disposte nel nord della Francia in sequenza a tracciare percorsi in un qualche inizio, già in possesso di un passato, del nostro mondo. Pietre che rimandano alle altre pietre in sequenze e che, forse, non sono importanti in sé a Carnac ma che la fotografia ci presenta isolate, nel nero della notte, di tutte le notti, delle nostre notti, delle notti prodotte dai flash, dalle lenti, dalla tecnica. Pietre che diventano così figure autonome, sorta di grado zero della forma, sul supporto di un mondo minerale rappresentato e perciò assente. La fotografia per alcuni non è arte, è perlomeno problematico il suo statuto d’arte, essendo nella sua produzione, impressione della luce su un supporto, più prossima al fossile, impressione di una vita nella pietra, che all’opera dell’uomo, essendo più natura che intenzione. È quindi non senza ironia che Stefano Graziani, in una mostra intitolata “La fine del nuovo”, ci proponga, per rivendicare il valore artistico della fotografia, proprio fotografie che rappresentano cose (pietre) che hanno una vaga comunanza col fossile, che vengono addirittura prima di esso, supporti per esso, prima di ogni possibile figura. Si afferma per negazione, così mi pare considerando lo sfondo di queste riflessioni, che le figure sono sempre intenzionali, non si trovano date lì fuori, nell’esterno di un mondo supposto esterno ma si trovano e si producono nello sguardo e nella mano dell’uomo, nella ripetizione di un gesto, nella scelta di un ritaglio. Come non associare poi queste immagini, anche se probabilmente sbagliando dal punto di vista storico, a una qualche idea di monumento funebre, e per associazione al rapporto tra la fotografia e la morte, uno dei temi più affrontati nella riflessione sulla fotografia, a ben vedere, cosa più della rappresentazione di minerali ci avvicina a questo? Nel caso di queste foto però, ma in fondo di tutte le foto, la forma, l’inquadratura, le scelte del fotografo sono tracce di vita, seppur passata, che si rinnova


nello sguardo dello spettatore: avviene qualcosa di diverso nelle altre arti? Giulia Cenci è una scultrice che ha progressivamente concentrato la propria attenzione sugli oggetti più comuni che ci accompagnano ogni giorno e che, proprio per la loro insignificanza formale, non sono infatti disegnati da famosi designer e sono molto diffusi, ci sono quasi invisibili. Ci sediamo su sedie di plastica, usiamo secchi di plastica, usiamo aspirapolveri di polipropilene senza pensarci troppo, col solo obbiettivo di fare le cose che quegli oggetti-strumenti-protesi agevolano. L’attenzione agli oggetti comuni ha una lunga tradizione nella storia dell’arte, senza risalire troppo nel tempo e limitandosi all’ambito italiano nel suo esempio, in questa ricerca, più significativo, cos’è stata la pittura di Morandi se non un’interrogazione continua su alcuni oggetti della quotidianità, sul senso della loro presenza e durata di fronte alla nostra vita che, instancabilmente, ripete gesti che si infrangono come onde, accarezzando o colpendo quelle forme quasi fossero rive di un impossibile approdo, lasciando povera e umile testimonianza di sé nelle tracce del pennello e di colori sbiaditi. Analogamente Giulia Cenci accarezza, spesso ruvidamente, con le mani, i suoi oggetti per appropriarsene. Li riveste con i materiali del suo e del nostro tempo, poliuretani, plastiche, li consuma con lime che li trasfigurano in fossili di epoche remote o in fantasmi del presente. Oggetti che sono tracce, sempre, di un lavoro il cui senso ci sfugge ma che, allo stesso tempo, capiamo fin troppo bene perché ha a che fare con la nostra esperienza della vita e del tempo. Le sedie di plastica che popolano a milioni il nostro mondo, ormai prodotte in Cina o in altri paesi, non più esotici, della globalizzazione, vengono consumate, ridotte al limite strutturale della loro forma e fanno pensare, non senza un senso tragico di perdita di pienezza nella impossibilità di raffigurare l’uomo, a figure di Giacometti degradate, in un mondo di scarti. Un muro sbrecciato da un terremoto, da una demolizione, dall’abbandono, è tenuto insieme precariamente da una cinghia da imballaggio, come non ricordare i versi di Bertolt Brecht: “Son come quello che con sé portava / sempre un mattone per mostrare al mondo / com’era stata un giorno la sua casa”( Dem gleich ich, der den Backstein mit sich trug/Der Welt zu zeigen, wie sein Haus aussah).


E il secchio, l’originale senz’altro di Moplen, rivestito, manipolato, trasformato in un oggetto allo stesso tempo purificato e sporco, rotto ma che allude, per assenza, ad una perfezione della forma, ad una forma perfetta, sia pure industriale, e anche qui non senza ironia. Tracce anche nella pittura di Piotr Makowskj, tracce di uno scorrere di immagini che sembrano affiorare da uno stream of consciousness originato dall’immaginario mainstream di ciò che rappresenta il successo in pittura in questo inizio di millennio e identificato, da Piotr come dalla maggior parte di noi, nella Pop Art americana. Un mondo di immagini “paradossalmente ideali”, vista la loro umile origine, che viene minato da libere associazioni e da un’apparente velocità di esecuzione, anche se le composizioni sono accuratamente progettate come testimoniato dai disegni preparatori, favorita dall’uso di inchiostri che fluidificano e rendono instabile là fissità originaria delle icone Pop di riferimento. Icone che affiorano come dietro un velo o come nelle sfuocate immagini condensate dei sogni. Makowskj riesce ad ottenere il risultato paradossale, confermato dai lavori più recenti non presenti in mostra, di produrre opere in cui gestualità e fissità iconica convivono, libertà del gesto e costrizione della figura si confrontano in una originale dialettica. Questa pittura, l’inchiostro usato, la tela a trama sottile di supporto appartengono ad un mondo morbido, tra i lavori esposti questi quadri sono i più amichevoli per i nostri corpi di osservatori, più dei muri a pezzi o dei vasi scheggiati, più delle fotografie incorniciate sotto vetro. È difficile inquadrare questo lavoro che spiazza programmaticamente le attese, che di volta in volta è citazione, indiretta, di figure della tradizione, arte sull’arte, e/o flusso di gesti tracciati a formare macchie di colori puri dalle incerte geometrie, gesti sempre differiti, mediati da figure, mai nella supposta immediatezza tipica, ad esempio,dell’espressionismo astratto, di cui però conservano un’eco. È un immaginario che filtra sempre il rapporto col mondo, incarnato nel gesto pittorico. Non si dà pura presenza del gesto nel quadro, sembrano dirci queste tele, ma proprio in questo manifestare un’impossibilità, per assenza, ecco che sembra affiorarne l’eco e la possibilità. Infine, in questo gioco di rimandi tra le tecniche, ecco altre fotografie di Stefano


Graziani che cercano di farsi carico di un po’ di morbidezza, che questa volta cercano di fissare l’altro dal minerale, il morbido e il commestibile della frutta e la dolcezza dei suoi colori. Durata e corruzione, pietra e frutta accanto, sul medesimo supporto di carta e getti di inchiostro, unificate, loro così diverse, dalla identica materia e durata di questa stessa base che le fa esistere per noi, nell’arte. C’è qualcosa che accomuna questi tre artisti? O semplicemente li abbiamo fatti partecipare a una mostra e solo questo è ciò che li accomuna, un occasionale incontro? Ma è occasionale? Siamo noi, noi che li abbiamo scelti ciò che li accomuna? Ciò che li accomuna è semplicemente il fatto di essere artisti oggi? Domande a cui forse è meglio non dare risposta, è meglio lasciar aleggiare nella loro apertura, se questo non produce disagio, ma non è forse disagio ciò che chiediamo all’arte? “Avventure della e nella rappresentazione, della e nella messa in figura” potrebbe essere il titolo di questa mostra, rappresentazione che si sviluppa e si declina nelle tre forme canoniche di pittura, scultura e fotografia. Rappresentazioni che hanno per oggetto l’organico della frutta, l’inorganico della pietra, le cose quotidiane e l’immaginario dell’arte nelle sue icone di maggior diffusione, in tutti e tre i casi con modi di rappresentazione che utilizzano i propri mezzi a mettere in crisi ciò che rappresentano. I lavori di tutti e tre gli artisti sono sempre sospesi tra figurazione e astrazione in quell’indecisione tipica della ricerca artistica contemporanea in cui, ormai superata la loro opposizione, astrazione e figurazione convivono senza scontro a manifestare una sensibilità che è ormai molto lontana dalle eroiche battaglie del modernismo. Ciò che resta, ma in fondo è forse ciò che sempre è restato, è questa necessità di manifestazione del proprio essere nel mondo con la massima qualità possibile, qualità che, ormai abbiamo capito, va cercata caso per caso e senza garanzie di riuscita affondando il corpo (occhi e mani solo?) nella materia visibile e mutevole del mondo per cercare di trarne qualche figura che, miracolosamente, funzioni.




Here we are, following on painting and sculpture, with photography which pictures what has already been, the stone and the night, minerals covered by mosses and their colours against the dark background of the night. It opens, in this exhibition, the space of representation by revealing its limit in the inorganic and its sudden apparition or disappearance. A series of flashes, like“ Carnac or Alignments”, stones arranged in northern France in order to trace paths at a possible beginning in time, already possessed with a past in our world. Stones that recall other stones in sequences, stones that, perhaps, are not important in themselves in Carnac but that these photographs represent as isolated, in the darkness of night, of all nights, our nights, the nights produced by flashes, lenses, by technology. Stones which thus become autonomous figures, a kind of zero degree in form, supported by a represented and therefore absent mineral world. For some people photography is not art; its statute as art is still as big an issue as ever, in so far as it is produced from an impression of light on a support and is thus closer to fossils, which are impressions of life in a stone, than to man’s work, being more a natural process than an intentional one. It is not therefore without irony that Stefano Graziani, in an exhibition entitled “The end of the new”, asserts the artistic value of photography by presenting pictures that represent things, i.e stones, that have a vague communality with fossils, pictures that even precede them and that become supports for them, even before any possible shape. Hence figures are claimed, through negation, as it were, to be always intentional, in so far as they are not simply out there, in a supposed external world, but they are always the product of the eye and of the hand of a man, in the repetition of a gesture, in the choice of a frame. We cannot help associate these images, although it is probably wrong from the historical point of view, with some idea of a funerary monument and with the relationship between photography and death, one of the most common issues about photography. On a closer view, what, from a metaphysical point of view, can draw us nearer to a reflection on death better than mineral representation ?But in the case of these pictures, as in any photo, the shape, the frame, the


photographer’s choices are traces of life, even if of past life, which is renewed in the viewer’s gaze. Does that make any difference with the other arts? Giulia Cenci is a sculptress who has progressively focused her attention on the most common objects that accompany us every day. Because of their formal insignificance, because they were not conceived by famous designers and because they have become extensively popular, they have become nearly invisible. We sit on plastic chairs, we use plastic buckets, we use vacuum cleaners made of polypropylene without thinking too much, with the only purpose of performing the tasks that those objects-tools-artificial limbs were meant for. The focus on everyday objects has a long tradition in the history of art. Without going back in time too much and limiting ourselves to the most significant Italian example in this field of research, what was Morandi’s painting if not a continuous query on some everyday objects, on the meaning of their presence and durability in our life, in which we tirelessly repeat gestures that crash like waves, caressing or hitting those forms as if they were shores of an impossible landing, leaving behind a poor, humble testimony of its pain in brush strokes and faded colours. Similarly, Giulia Cenci caresses, often rudely, with her naked hands her objects to take possession of them. She covers her objects with the materials of her time and ours, polyurethanes, plastics, or blunts and smoothes them with rasps that transfigure them into fossils from ancient times or ghosts of the present. Objects that are always traces of a work whose meaning eludes us but, at the same time, that we understand all too well because it has to do with our experience of life and time. The plastic chairs that populate our world to millions, now produced in China or other countries which are no longer exotic in our globalized world, are worn out and reduced to the structural limit of their shape and make you think, not without a tragic sense of loss and emptiness in front of the impossibility of portraying man, of some sort of degraded figures in a world of waste by Giacometti. A wall breached by an earthquake, a demolition, by abandonment is held together precariously by a packing belt, as Berthold Brecht puts it in his poem: “I am like the one that was carrying with him / always a brick to show the world / what his house once looked like”(Dem gleich ich, der


sich mit den Backstein trug / der Welt zu zeigen, wie sein Haus aussah). And the bucket, the original no doubt Moplen-coated, manipulated, transformed into an object which at the same time is purified and dirty, broken but alluding, in its very absence, to a perfection of form, to a perfect shape, albeit industrial, and even here not without irony. Traces can also be found in the paintings by Piotr Makowskj, who conjures a flow of images that seem to emerge from a stream of consciousness taking origin in the mainstream imaginary of what successful painting is at the beginning of our millennium and identified by Piotr, and by most of us, with the American Pop Art. A world of images “paradoxically ideal� because of their humble origin, which is undermined by free association and by an apparent quickness of execution, even if the compositions are carefully planned, as evidenced by the preparatory drawings, where speed is helped by the use of inks that make the original fixity of the reference pop icons unstable. Icons that emerge as if behind a veil or as in the blurred, condensed images of dreams. Makowskj achieves the paradoxical result, confirmed by the most recent works not on display, of producing works in which gestures and iconic fixity coexist, freedom of movement and constriction of the figure clash in an original dialectic. This painting technique, the ink used, the canvas and the subtle supporting texture belong to a soft world; among the works which are exhibited these paintings are the friendliest to our bodies as observers, softer than the broken walls or the chipped vases, softer than the images framed under glass. It is difficult to pinpoint this work that programmatically shatters expectations, which in turn is an indirect quote of figures belonging to the tradition, art upon art, and/or a flow of gestures that trace pure colour stains of an uncertain geometry, gestures forever deferred, mediated by figures, never in the expected immediacy typical for example of abstract expressionism, of which, however, they retain an echo. It is an imaginary world that always filters the relationship with the world, embodied in the painter’s gesture. There can be no pure presence of the gesture in painting, these works seem to tell us, but in this manifest impossibility, through absence, an echo of that possibility seems to surface.


Finally, in this game of references between techniques, there are other photos by Stefano Graziani which try to take on a little ‘softness, this time trying to secure the ‘other’ of the mineral: soft and edible fruit and the softness of its colours. Duration and corruption, stone and fruit side by side, on the same paper support and ink strokes, unified, so different as they are, by the identical matter and duration of the very same basis that make them exist for us, in Art. Do these three artists share anything in common? Or is it just that we had them participate in an exhibition, and this only is what unites them, a meeting by chance? But is it really occasional? Or is it us, who have chosen them, the element that they have in common? Or what they have in common is simply the fact of being artists today? Questions that are probably without an answer, which we had better let linger in their openness, if this does not produce discomfoBut is it not some sort of discomfort that we are looking for in art?

“Adventures of and in the representation, in and of the production of images” could be the title of this exhibition, a representation developed and declined in the three canonical forms of painting, sculpture and photography. Images that have as object the organic of fruit, the inorganic of stone, everyday things and the imaginary of art in its most widespread icons, in all three cases with modes of representation that use their own means to undermine what they represent. The work of each o f these three artists are always suspended between figuration and abstraction in the indecision typical of contemporary artistic research in which, their opposition once overcome, abstraction and figuration coexist without confrontation to demonstrate a sensitivity that is by now far from that of the heroic battles of modernism. What is left, but after all what perhaps has always remained, is this need to claim one’s existence in the world with the highest possible quality, a quality, as we now understand, to be sought case by case and with no guarantee of success, sinking our own entire body (or eyes and hands only?) in the visible and changing matter of the world to try to extract some figure that, miraculously, works.








Giulia Cenci Parete/ esercizio per una rottura, 2011 Calcestruzzo intonacato, cinghia a cricchetto, cm. 58X55X10 Giulia Cenci Senza titolo (3 pezzi), 2014 Poliestere colorato, 24X28X26 Piotr Makowsky Kompozycja S01, S02, S03, S04, 2010 Inchiostri su tela, cm.200x200 Stefano Graziani Carnac, Carnac 02, Carnac 03, Carnac 04, 2013 ink jet print, 20x25 cm, incorniciata 50x60cm Stefano Graziani Pere mele Conad, 01 Pere mele Conad, 2016 ink jet print, 40x50 cm, incorniciata 80x90 cm Foto aerea di Carnac, Brittany, France

ÂŤLa Fine del nuovo/The end of the newÂť cap. VII | Chiavi in Mano | Keys in hand 17.9>8.10.2016 Inaugurazione/opening sabato | saturday 17.9.2016 avoncampolin non profit art space Pordenone | Italia, via De Paoli, 23/A www.avoncampolin.it - info@avoncampolin.it grafica Annalisa Avon e Luciano Campolin testo Luciano Campolin

Si ringraziano: Liliana Cormons e Paolo Toffolutti - Neoassociazioneculturale; Giuseppe Alleruzzo, Galleria SpazioA, Pistoia; Nerina Ciaccia e Antoine Levi, Galerie Antoine Levi, Paris; Galleria Mazzoli, Modena,


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