i am a pas se nge r
“Oh, the passenger He rides and he rides He sees things from under glass He looks through his window’s eye...” Iggy Pop, The Passenger,
1977
Mito del primo Novecento, ‘automobile è progressivamente divenuta protesi, congegno che determina inquadrature e tempi del vedere, per uno sguardo perso in un paesaggio che dalla macchina è stato radicalmente modificato. La mostra I am a passenger propone lavori realizzati tra il 1967 e il 2003 da artisti europei e americani che originano dalla trasformazione della percezione legata all’uso diffuso dell’automobile. Le opere presentate, per la loro qualità, per le generazioni cui appartengono gli autori e per la loro rilevanza storica, costituiscono significativi esempi del modo in cui l’arte contemporanea si è posta il problema del narrare e descrivere il presente. Avventure di quell’atteggiamento mimetico che, per molti, è ciò che caratterizza la conoscenza propria dell’arte e che ne costituisce la sua problematica ragion d’essere. Pop, minimalismo, arte concettuale, fotografia documentaria sono gli ambiti cui potrebbero essere ricondotti i lavori esposti, che però si sottraggono ad un’identificazione precisa con tendenze e movimenti. Essi si definiscono, piuttosto, in terrains vagues che interrogano e inquietano il nostro rapporto col mondo e con l’arte proprio in virtù del loro scarto, della loro posizione laterale. Artisti in mostra: Sylvie Fleury, Dan Graham, Ed Ruscha, Thomas Struth, Blair Thurman, Jeff Wall
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i am a pas se nge r
Sylvie Fleury (1961, Ginevra, vive e lavora a Ginevra)
Dalle calzature di lusso esposte accanto alle shopping bags e alle scatole d’imballaggio, dalle pitture murali eseguite con il fard o con motivi che riprendono una griffe, dai monocromi in pelliccia sintetica, alla riproduzione in formato gigante delle copertine di noti giornali femminili (Vogue, Playgirl), il lavoro di Sylvie Fleury è contrassegnato dai simboli della moda, della cosmetica e del lusso, che utilizza come linguaggio plastico. L’artista presenta oggetti investiti a priori dal desiderio femminile; in altre sue opere, per esempio con le lussuose macchine americane, ridipinte o ‘compresse’, o la serie dei First Spaceship on Venus, gioca anche con le fantasie maschili, guardando con ironia ai rituali del potere e alla loro forza distruttiva. Sylvie Fleury crea le sue opere con un insieme di buon gusto e trasandatezza, come in Gucci Satellite, dove, sistemato in un insolito e poco elegante porta-televisore in pelliccia sintetica verde, il video di un piede femminile calzato Gucci preme sull’acceleratore di un’automobile, mentre l’audio rimanda il rumore del motore. L’opera, non apertamente critica come vorrebbe un certo femminismo, e priva di riferimenti dotti, lascia al contempo affascinati e perplessi.
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Sylvi e fle ury
Gucci satellite, 1996
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Dan Graham (1942, Urbana, Illinois, USA)
Per più di cinquant’anni, Dan Graham ha seguito e documentato la simbiosi tra l’architettura e chi la vive e ci abita, con una pratica che comprende la scrittura, la performance, i video, le installazioni, la fotografia e la scultura. La sua tendenza critico-analitica è emersa con Homes for America (1966-67), non un’ opera d’arte, ma un articolo, in cui una sequenza di immagini dello sviluppo suburbano nel New Jersey è accompagnata da un testo che analizza l’uso del suolo, il decadimento dell’architettura e delle abilità costruttive (il dittico View Interior, New Highway Restaurant, Jersey City, N.J. è una riedizione di due fotografie della serie citata). Come nel lavoro successivo, l’intento di Graham è di superare, attraverso una sottile critica, il distacco dell’approccio minimal di Sol Lewitt o Carl Andre, utilizzando come materiale primo la realtà ripetitiva, anonima, priva di qualità del nuovo paesaggio di suburbia, «mai menzionato e quasi soppresso», a suo dire, dai, Minimalismo, che pure in esso aveva trovato la fonte prima di ispirazione e motivazione.
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dan graham
View Interior, New Highway Restaurant, Jersey City, N.Y., 1967-2003.
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Ed Ruscha (1937, Omaha, USA)
L’ordinario e il banale costituiscono il soggetto dei dipinti, delle fotografie, dei libri dei disegni e delle stampe di Ed Ruscha. Fotografie in bianco e nero di soggetti familiari e comuni, quali case ad appartamenti, parcheggi o piscine compaiono nei suoi libri, mentre le stazioni di benzina , il logo di Hollywood, gli edifici industriali e i marchi commerciali popolano i suoi dipinti, immagini innegabilmente radicate nella realtà americana, tradotte in un linguaggio facile, diretto e accessibile, elegantemente laconico. Ed Ruscha ha spesso ribadito che le sue fotografie e le sue opere sono semplicemente una raccolta di «fatti», una «collezione di ready made», una domanda posta —com’era per gli artisti concettuali— sulla natura dell’arte, sul ruolo e la funzione dell’artista nel mondo contemporaneo. Oltre che con l’arte concettuale, il lavoro di Ruscha ha forse qualcosa in comune con la Pop art, per l’appropriarsi del quotidiano, tuttavia il suo uso scanzonato dell’ironia, del paradosso e dell’assurda giustapposizione lo hanno messo assolutamente a parte rispetto a quel movimento. Royal Road Test è uno dei libri fotografici che Ruscha creò negli anni Sessanta e che semplicemente catalogavano le cose banali che si potevano incontrare in un normale viaggio in auto attraverso il West americano (Twentysix Gasoline Stations, 1962; Some Los Angeles Apartments, 1966; Nine Swimming Pools and a Broken Glass, 1968). I libri di Ruscha sono al contempo un tributo e una pungente parodia della romantica visione della strada descritta da artisti e scrittori come Jack Kerouac e Robert Frank. Questo è evidente proprio in Royal Road Test, in cui Ruscha meticolosamente documenta sé stesso mentre fa cadere una macchina da scrivere vintage da una Buick in corsa.
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e d rus cha
Royal road test, 1970.
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Ed Ruscha
(segue) ...Anche la serie Vacant Lots appartiene allo stesso tipo di produzione: le quattro immagini, edite nel 2003, derivano infatti dalle riprese fotografiche per il libro Real Estate Opportunities, del 1970, una raccolta di immagini che dovevano avere il carattere di convenzionali foto da agenzia immobiliare, di lotti vuoti ripresi con il contesto. L’effetto di shock e lo humor prodotti dai libri di Ruscha sono forse diminuiti, ma negli anni Sessanta, il lavoro andava letto come opposto a una produzione fotografica altamente estetizzante, quasi un sovvertimento del mercato di ciò che l’artista descriveva come «limited edition, individual, hand processed photos».
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e d rus c ha
Vacant lots, 1979-2003.
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Thomas Struth (1954 Geldern, Germany)
Thomas Struth è uno degli esponenti della cosiddetta ‘scuola di Düsseldorf ’, formatasi ai corsi di Bernd e Hilla Becher (ne fanno arte Andreas Gursky, Thomas Ruff, Axel Hütte, Candida Höfer). E’ noto al grande pubblico soprattutto per il ciclo delle Museum photographs, iniziato nel 1989, altrettanto note le immagini di architettura, i ritratti, dove la fotografia è strumento di esplorazione e di analisi psicologica, così come il ciclo Paradise, dove i paesaggi naturali entrano a far parte dei soggetti rappresentati, con foto scattate nelle foreste, nei deserti e nelle giungle del Giappone, dell’Australia, della Cina, dell’America e dell’Europa. Viale Eritrea, Roma, del 1988, appartiene al periodo inziale del lavoro di Struth, centrato sulla rappresentazione —sobria, in bianco e nero e senza rielaborazione dell’immagine — di paesaggi urbani. Si tratta di vedute inespressive e impassibili, prese spesso al centro di qualche incrocio, che offrono vedute prospettiche punteggiate e scandite da un ritmo apparentemente senza fine di facciate, case e condomini ordinari, piazze, strade e crocevia senza nessun valore. Privi di persone e di movimento, immagini come Viale Eritrea fanno zittire la cacofonia tradizionalmente associata all’esperienza urbana. Nella loro accurata composizione e per l’attenzione al dettaglio topografico, richiamano alla mente le vedute di fotografi dell’Ottocento quali Eugène Atget e Charles Marville.
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Thomas Stru th
Viale Eritrea, Roma, 1988.
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Blair Thurman (1961, La Nouvelle Orléans, USA, vive e lavora a New York)
Il lavoro di Blair Thurman (shaped canvas, installazioni, neon) reca le tracce di vari riferimenti, che si combinano e intersecano fra loro. Le sue opere, dalle forme astratte, sembrano ad un primo sguardo affini all’estetica minimalista, all’astrazione americana del dopoguerra e alla Pop-art. La sua riflessione è legata agli sviluppi dalla ricerca, negli anni Sessanta, condotti a partire dai primi dipinti di Frank Stella —la forma del telaio in legno, i suoi limiti, generano la pittura— sino alle prese di posizione del Post-minimalismo, nelle sperimentazioni con le diverse qualità visive e tattili dei materiali più comuni. Blair Thurman reinterpreta però il tutto a modo suo: al di là della Storia dell’arte, l’artista, che ama giocare con le ambivalenze, si ispira alla letteratura, al cinema, e soprattutto all’iconografia della cultura di massa —spesso presente l’automobile— allontanandosi dal carattere autoreferenziale proprio all’astrazione, per volgersi verso la rappresentazione di una soggettività inedita, lavorando con simboli e segni della realtà concreta. Come in Aurora, insieme frammentario in cui patterns in bianco e nero rimandano alla segnaletica stradale orizzontale e in cui il mito, cui il titolo dell’opera allude, è ricondotto al movimento perpetuo delle highways americane e al girovagare rappresentato nei road movies, come per esempio Easy rider.
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Bl ai r Thurman
Aurora, 1996.
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Jeff Wall (1946, Vancouver, British Columbia) Jeff Wall , noto per le lightboxes —grandi pellicole retroilluminate con un’importante presenza fisica, quasi scultorea— in cui le immagini, usualmente di forte impatto, rimandano alla storia della fotografia come pure, per i riferimenti nei contenuti e nei temi, alla pratica pittorica, ha ampliato la sua ricerca alla fotografia in bianco e nero e a colori. Il dialogo intrattenuto con la tradizione della Storia dell’arte (con gli antichi maestri, ma anche con le esperienze contemporanee) è stato più volte sottolineato dalla critica, ma non vi è nell’opera di Wall alcuna tentazione neo-accademica o il desiderio di ristabilire la nuova pienezza del linguaggio figurativo: d’altronde, l’osservatore è sempre costretto a confrontarsi con mises en scéne di cose e gesti che rimangono sospesi e oscuri, che minano la convinzione propria del senso comune della corrispondenza tra la fotografia realtà. From Landscape Manual, del 2003 è un’immagine tratta dal libro Landscape Manual” del 1969, e appartiene quindi agli esordi dell’attività di Wall, ma è tuttavia coerente e spiega gli esiti successivi del suo lavoro. Il libro Landscape Manual fu autoprodotto, e contiene un testo accompagnato una serie di immagini in bianco e nero di Vancouver, scattate dal finestrino di un’automobile: come in molti lavori successivi, soggetto principale delle inquadrature sono la desolazione delle periferie, le azioni senza scopo, i paesaggi senza qualità, un insieme di luoghi insignificanti che sembrano non appartenere ad una situazione precisa piuttosto essere il contesto generico, quindi universale, di un uomo generico; Landscape Manual è un’opera d’arte concettuale che utilizza testo e fotografia ed è al contempo, considerando i successivi sviluppi della produzione fotografica di Jeff Wall, critica in atto alla ripresa fotografica d’autore a favore di una foto che, nell’abbandono delle qualità estetiche convenzionali della fotografia artistica lette come an-estetizzazione del mondo, attraverso la mimesi di uno ‘stile amatoriale’, cerca un’apertura meno velata al reale.
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Je ff wall
From Landscape manual, 1969-2003.
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I am a passenger
“Oh, the passenger He rides and he rides He sees things from under glass He looks through his window’s eye...” Iggy Pop, The Passenger,
1977
works by Sylvie Fleury, Dan Graham, Ed Ruscha, Thomas Struth, Blair Thurman, Jeff Wall
opening April 24th 2105 from 6.00pm avoncampolin non profit art space via de paoli 23/a 33170 Pordenone Italy opening hours 4.00-7.00pm Thursday-Friday or by appointment
www.avoncampolin.it 0039 335 6103628 0039 335 6471184