hike CHIARA

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STRADA Stai per partire per il tuo hike. Se non l’hai ancora fatto, prenditi solo qualche minuto, prima di incamminarti, per pensare all’esperienza che stai per fare. Guardati intorno e cerca di scorgere, intorno a te, la vita che si svela nella natura e nel paesaggio. Rilassati e respira a fondo. Sei parte di questa natura, di questo mondo! Lasciati emozionare, svuota lo zaino di tutto quello che non ti serve, lascia a casa i pensieri negativi, le paure o le preoccupazioni e vai con fiducia nella direzione che ti indica la strada.

Spiritualità della strada Ormai siamo in cammino, e la strada apre adagio i suoi misteri, offre via via le sue ricchezze, a chi le sa vedere e godere. Quando si cammina in auto o in moto, è la velocità che diventa la grande rivelazione, l’ebbrezza del correre, del vento che batte sul volto e fascia tutta la persona, il nastro d’asfalto che viene ingoiato dal cofano della macchina: sono sensazioni violente che danno l’euforia del sentirsi padroni delle cose, capaci di esprimere e di godere tutto quello che si vuole. Quando invece si cammina a piedi, la realtà è tutta diversa: sono sensazioni molto più tranquille, e danno la percezione inversa: fanno sentire di più la grandezza e la forza della natura, e la debolezza e piccolezza dell’uomo. Fanno nascere quel sentimento indefinibile di sovranità e di dipendenza, di larghezza e di vertigine di stabilità e di caducità, che formano il vero volto dell’uomo. Camminare a piedi aiuta a guardare, a vedere millimetro per millimetro la strada, il paesaggio, il cielo, le nubi, le ombre: si diventa attenti e si scoprono quei particolari che in altri modi mai si vedrebbero. Sui sentieri di montagna e di pianura, l’orizzonte, che sembra statico, rivela invece mille e mille sfumature, sempre nuove; emergono come per un incantesimo i volti diversi dei prati, dei pascoli, dei ruscelli, degli alberi, dei fiori nascosti; vengono all’orecchio le voci, i canti, i sussurri di una natura che svela i suoi più reconditi segreti. Se si cammina in silenzio, si resta avvolti nella sinfonia maestosa che ritma il passo. La canzone del vento nell’erba, nelle foglie degli alberi, nei tronchi altissimi dei pini; il ritornello degli uccelli, dei grilli e di altre piccole e invisibili voci; l’eco lontano di qualche richiamo umano o rumore del lavoro: sono come voci soliste nel concerto silenzioso di tutta la natura, ritmato magari dall’imponenza maestosa e severa di qualche catena montana. Tutto invita alla contemplazione, a bere a larghi sorsi quella bellezza e quella grandezza così aperta e offerta al piccolo uomo, l’unico essere capace di avvertire e godere questi immensi doni mai esauriti. Il silenzio si impone non come un peso o come un obbligo, non come un riposo o un invasione per non pensare: anzi, diventa l’unico modo per cogliere tutta questa ricchezza, per godere nel più profondo di sé l’eco di una parola immensa e perenne, per assaporare fino alla vertigine il senso dell’eterno e dell’infinito, che sembra traboccare da questa realtà come nuova e diversa, e pur sempre costante e intramontabile. Nasce e cresce nel cuore lo stupore, quella profonda sensazione di apertura al nuovo, quella capacità d’emozione al fascino di tutto ciò che circonda e rivela il suo senso più profondo. La strada, vissuta così, entra profondamente nella carne e nello spirito. "La route entra dai piedi", si dice nel gergo scout. Ed è vero.


Dai piedi, cioè dall’esperienza vissuta con pazienza e con pienezza, entra nella persona qualcosa di grande e di vero, qualcosa che resterà per sempre e che, nei giorni comuni e monotoni, terrà vivo il desiderio, la ricerca, la tensione verso le «grandi cose», godute e conquistate sulla strada. Una nostalgia si insinua nell’animo: non un sentimento passivo e sterile, ma realmente, come dice la parola, la «sofferenza del lontano»; e quindi lo sforzo per fare rinascere ciò che è rimasto lontano, per vivere ancora le stesse grandezze in altre dimensioni. Si diventa amanti del silenzio: oggi è un grande pericolo quello di non saper tacere, di lasciarsi riempire orecchi e cuore dal frastuono di cose e di parole che conducono solo all’evasione, ad abbandonare se stessi accontentandosi di apparenze. Si ritorna al silenzio, al colloquio con se stessi, all’ascolto di quelle parole profonde che abitano in noi, e di quella Parola che è Dio stesso incarnato nell’umanità. Nasce il desiderio della preghiera, dei luoghi tempi di silenzio, in cui ritrovare la pienezza di sé. Si diventa molto più attenti alle persone, perché si è scoperto come si è superficiali, come si è ciechi e miopi, si è toccato con mano di quanta grossolanità siamo coperti. Le sfumature, le profondità, il mistero delle persone, diventano una ricerca perenne, e ci liberano da quei rapporti vuoti ed egoisti che purtroppo formano il tessuto della vita sociale e portano alla sfiducia a all’individualismo. Si diventa «poeti» non nel senso di scrivere poesie, ma nella capacità di godere ciò che non si vede e che si intuisce e si sente; capaci di cogliere il mistero profondo delle cose e delle situazioni, capaci di attingere al di dentro delle cose il loro valore di simbolo. Si scopre un nuovo linguaggio, quello senza parole ma ricco di espressioni, quello della comunicazione profonda: anche le parole prendono un significato più personale e più vivo. La propria sensibilità si affina, e via via si arriva a cogliere anche le più piccole sfumature, a restare segnati dal più piccolo soffio, e così si diventa più pronti a capire e ad aiutare, più pronti a servire: sempre, anche nella monotonia dei soliti giorni. La mentalità umana si arricchisce del valore del simbolismo, che entra in tutto il meccanismo del conoscere, e lo rende più acuto e più aperto: il valore religioso, il proprio rapporto con Dio diventa una realtà seria e profonda, proprio perché va al di là del visibile e dell’evidente e acquista la vitalità dell’esperienza.

Giorgio Basadonna

COMUNITA’ Il luogo dove stai andando è una comunità., un ambiente diverso da quello in cui sei abituata a vivere ogni giorno e anche dalla comunità del clan, che tra poco lascerai. Il mondo è pieno di comunità formate da individui con obiettivi comuni, magari diversi dai nostri, con idee, modi di agire e pensare, linguaggio, atteggiamenti diversi. E ciascuno porta dentro di sé una ricchezza enorme che sta a noi scoprire. E altrettanto sta a noi farci scoprire dall’altro, dalla comunità con cui entriamo in contatto…e l’atteggiamento con cui ci poniamo è fondamentale.

La comunità come luogo del perdono In una comunità, in un gruppo, è facile giudicare e condannare gli altri. Chiudiamo le persone in categorie: “Il tale o la tale è così o cosà”. Facendo in questo modo, rifiutiamo loro la possibilità di crescere. Gesù ci chiede di non giudicare e non condannare. È il peccato della vita comunitaria. Quando giudichiamo, rifiutiamo gli altri, costruiamo un muro, una barriera. Quando perdoniamo, distruggiamo le barriere e ci avviciniamo agli altri. Non possiamo accettare veramente gli altri così come sono e perdonarli se non scopriamo che Dio ci accetta veramente così come siamo e che ci perdona. È un’esperienza profonda


quella di sentirsi amati e portati da Dio con tutte le nostre ferite e la nostra piccolezza. Per me è stata una grazia e un dono, in questi anni vissuti in comunità, poter verbalizzare i miei peccati e chiedere perdono a un prete che ascolta e che dice: “Io ti perdono nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo”. Accettare la responsabilità del nostro peccato e della nostra durezza di cuore e sapere che siamo perdonati, è una reale liberazione. Non devo più nascondere la mia colpa. Non possiamo amare veramente i nostri nemici e tutto ciò che in loro è spezzato se non iniziamo ad amare ciò che in noi è spezzato. Il figlio prodigo, dopo aver scoperto in quale modo straordinario è amato dal Padre, non potrà mai giudicare alcuno. Come potrebbe rifiutare qualcuno, quando vede come il Padre l’ha accettato così com’era, con tutto ciò che dentro di lui era andato storto. La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti che prevaricano, situazioni nelle quali le suscettibilità si urtano. Perdonare è anche capire che cosa si nasconde dietro questa collera o questo comportamento anti-sociale, capire quello che le persone vogliono dire attraverso il loro comportamento. Forse si sentono rifiutate. Forse hanno l’impressione che nessuno ascolti quello che hanno da dire oppure si sentono incapaci di esprimere ciò che è in loro. Occorre anche cercare di vedere lealmente le qualità del nemico. Dovrà pure averne qualcuna! Ma poiché ho paura di lui, lui forse ha paura di me. Se ho dei blocchi, deve averne anche lui. È difficile per due persone che hanno paura l’una dell’altra, scoprire le loro reciproche qualità. Ci vuole un mediatore, un artefice di pace, una persona in cui ho confidenza e in cui anche l’altro abbia confidenza. Se confesso le mie difficoltà a questa terza persona, essa potrà forse aiutarmi a scoprire le qualità del “nemico”o almeno a capire i miei atteggiamenti e i miei blocchi. E poi, dopo aver visto le sue qualità, potrò utilizzare un giorno la lingua per dire bene di lui. È un lungo cammino che porterà, in un dato momento, al gesto finale, quello con cui chiederò all’antico nemico un consiglio o un servizio. Il fatto che vi si chieda aiuto o un servizio qualunque tocca molto di più del fatto di volervi rendere servizio o farvi del bene. (Jean Vanier, La comunità: luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 2000, pp. 55-59). SERVIZIO

Il Signore disse ad Abram: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore… Genesi. 12,1-4

Cosa c’entra la Genesi ed Abramo con la partenza? Ho una vita tranquilla…casa…studio…magari il ragazzo……poi vengo agli Scout già da tanti anni e ….il Clan ormai mi và stretto ho bisogno di qualche cosa di più adesso sono grande e potrei incominciare anche a pensare un po’ a me… C’è una voce dentro però che mi dice che la strada che mi porta verso gli altri non si può interrompere. Quante volte ho sentito la parola <Servire>…cosa vuol dire “SERVIRE”? Fare il capo dove mi piace, oppure fare un servizio dove c’è bisogno? Fare servizio per sentirmi appagata …finalmente anche io sarò un capo…

Appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti. Mt. 20,28 A noi non viene chiesto di dare la vita ma se Gesù si pone verso gli ”altri“ come servo noi come possiamo pretendere di metterci al disopra di Lui??? Vattene dal tuo paese ….partire lasciando dietro di sé le sicurezze, anche qualche amica che non se la sente di proseguire in questo servizio ma, ne sono sicuro, ne farà altri, anche se meno eclatanti.


Nessuna ragazza lascia il Clan, lo Scoutismo senza portarsi qualche cosa dentro…io a queste cose non ci credo……poi Dio è così lontano… ma Dio crede in te! Dio crede in ognuno di noi e sa aspettare che noi alla fine ci accorgiamo di Lui e di questo ne sono sicuro. Qualsiasi servizio andrai a fare o, anche se per il momento, volessi prenderti una pausa di riflessione, ci sarà sempre qualcuno che ha creduto in te e continuerà a crederci. Quella frase: penso quindi sono vivo si modifica in: sono pensato, quindi vivo! Non si parte per abbandonare, ma si parte per iniziare qualche cosa di nuovo. Verso il paese che t’indicherò …qualunque esso sia. Diventare una benedizione per gli “altri”, e allora la partenza avrà una motivazione profonda, una motivazione che nasce dal cuore, una motivazione d’amore. Rendo il mio lavoro un santo servizio pieno d'amore? Vivo il mio lavoro come preghiera? Lavoro veramente con spirito d'apertura verso coloro per i quali m’impegno? Fuggo i pregiudizi? Incontro Cristo in ogni persona angosciata e povera che servo?. Gli uomini, le donne che ho incontrato sono diventati migliori grazie a me? Sono consapevoli che il mio lavoro è frutto dell'apostolato della Comunità? Nel mio modo di lavorare, mi lascio spaventare dalle difficoltà e dagli ostacoli, dimenticando che tutto posso in colui che mi dà forza? Il primo servizio: ascoltare l’altro Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto. L’amore per Dio comincia con l’ascolto della sua parola, e analogamente l’amore per il fratello comincia con l’imparare ad ascoltarlo. L’amore di Dio agisce in noi, non limitandosi a darci la sua Parola, ma prestandoci anche ascolto. Allo stesso modo l’opera di Dio si riproduce nel nostro imparare a prestare ascolto al nostro fratello. I cristiani, soprattutto quelli impegnati nella predicazione, molto spesso pensano di dover “offrire” qualcosa agli altri con cui si incontrano, e ritengono che questo sia il loro unico compito. dimenticano che l’ascoltare potrebbe essere un servizio più importante del parlare. Molti cercano un orecchio disposto ad ascoltarli, e non lo trovano fra i cristiani, che parlano sempre, anche quando sarebbe il caso di ascoltare. Ma chi non sa più ascoltare il fratello, prima o poi non sarà più nemmeno capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare. Qui comincia la morte della vita spirituale, e alla fine non rimane che futile chiacchiericcio religioso, quella degnazione pretesca, che soffoca tutto il resto sotto un cumulo di parole devote. Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza, non sarà neppure capace di rivolgere veramente all’altro il proprio discorso, e alla fine non si accorgerà più nemmeno di lui. Chi pensa che il proprio tempo sia troppo prezioso perché sia speso nell’ascolto degli altri, non avrà mai tempo per Dio e per il fratello, ma lo riserverà solo a se stesso, per le proprie parole e i propri progetti. C’è anche un modo di ascoltare distrattamente, nella convinzione di sapere già ciò che l’altro vuole dire. È un modo di ascoltare impaziente, disattento, che disprezza il fratello e aspetta solo il momento di prendere la parola per liberarsi di lui. questo non è certo il modo di adempiere al nostro incarico, e anche qui il nostro modo di riferirci al fratelli rispecchia il modo di riferirci a Dio. (Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003, pp. 75-76) Buona Strada I Capi


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