Esporre ceramica
Giada Cerri
ESPORRE CERAMICA
Da secoli gli oggetti in ceramica sono parte del quotidiano delle persone. Le ceramiche d’uso sono testimonianze di culture, stili di vita e cambiamenti di gusto che nel tempo e nello spazio si sono avvicendate diventando “pezzi da museo”. C’è un’arte di esporre dedicata alla ceramica? Qual è il modo per raccontare la ceramica negli spazi museali? Come lo interpreta la museografia?
Il volume raccoglie riflessioni e spunti progettuali sul tema che lega l’arte del porgere e la ceramica, sull’importanza della cultura materiale nel contesto occidentale e sulle soluzioni allestitive che uniscono intenzione narrativa e necessità museali. Casi studio nazionali e internazionali e la presentazione di alcuni allestimenti in uno dei più importanti centri ceramici italiani, Montelupo Fiorentino (FI), esemplificano modalità di comunicazione e rappresentazione delle ceramiche negli spazi museali.
Esporre ceramica Giada Cerri
Collana Museo, allestimento, memoria | 01
Comitato scientifico:
Francesco Valerio Collotti, Università degli Studi di Firenze (direttore della collana)
Nicola Braghieri, EPFL Lausanne
Gioconda Cafiero, Università degli Studi di Napoli Federico II
Massimo Ferrari, Politecnico di Milano
Valeria Minucciani, Politecnico di Torino
Francesca Mugnai, Università degli Studi di Firenze
Esporre ceramica di Giada Cerri
ISBN 979-12-5953-197-1 (digitale)
ISBN 979-12-5953-075-2 (cartaceo)
Per caso sono capitata in un luogo dove la cultura si crea, si protegge e si valorizza, non senza difficoltà. Con la promessa di ringraziare le singole persone in un prossimo volume, è doveroso esprimere un sentito grazie alla Fondazione Museo Montelupo per la fiducia e per avere dato spazio anche a sperimentazioni allestitive, grazie al Comune di Montelupo Fiorentino e alla Giunta comunale per il supporto dimostrato in tutti questi anni. Grazie a Zeuler Lima per la generosità e lo scambio di pensieri, sempre fecondo. Grazie a Francesco Collotti che ha accolto e incoraggiato la pubblicazione di questo lavoro. Infine, un ringraziamento a tutti coloro che in qualche modo hanno costruito un viaggio di ceramiche e allestimenti.
Il volume è frutto dell’attività di ricerca svolta nell’ambito del Protocollo d’intesa tra il Comune di Montelupo Fiorentino, la Fondazione Museo Montelupo ONLUS e il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze (convenzione firmata il 20 febbraio 2019).
Dove non specificato le immagini e le fotografie sono da attribuirsi all’autrice del volume.
Editore
Anteferma Edizioni Srl via Asolo 12, Conegliano, TV edizioni@anteferma.it
prima edizione novembre 2024
Copertina di Ilaria Pittana
Copyright
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi
Prefazione
Zeuler R. Lima
Premessa
La resistenza dello spazio dell’esporre
Mostrare è comunicare
L’arte del porgere e la ceramica: vetrinismo, monumentalismo, collezionismo, site-specific e digitale
Esporre Imparare
Quali riferimenti?
I casi studio
Arti decorative e storia della ceramica
Victoria & Albert Museum, Londra, Gran Bretagna
Musei delle manifatture
Musée national Adrien Dubouché, Limoges, Francia
Arti decorative e allestimento musealizzato
Museo delle Arti Decorative, Complesso del Castello Sforzesco, Milano, Italia
Arti decorative e design
Cooper-Hewitt, Smithsonian Design Museum, Manhattan, New York City, USA
Allestimenti temporanei e ceramica storica
BGC Gallery, Manhattan, New York City, USA
Allestimenti temporanei e ceramica artistica contemporanea
Sei occasioni a Montelupo Fiorentino
About a vase
Mostra temporanea diffusa
Wunderkammer
Padiglione espositivo
Di Tutti i Colori - Palazzo Podestarile
Mostra temporanea
Di Tutti i Colori - Museo della ceramica
Mostra temporanea
Montelupo Rosso Secret
Mostra temporanea itinerante
La Fornace del Museo
Installazione permanente
Bibliografia
Zeuler R. Lima
Prefazione
La ceramica occupa un posto privilegiato e allo stesso tempo ambiguo tra l’artigianato utilitaristico, l’arte decorativa e l’arte di espressione sensoriale. La sua materialità, fluida e delicata, la mantiene vicina alla scala e ai sensi del corpo umano. Piccoli oggetti, documenti di tutti i giorni letteralmente a portata di mano, quando allestiti in mostra diventano monumenti in miniatura. Quando Michel Foucault mise in discussione, nel suo libro L’archeologia del sapere, la tensione tra ciò che definiamo come documenti e monumenti, lui intendeva stabilire una metodologia critica e una definizione di come lavoriamo con la memoria collettiva. Diversi decenni dopo, questo tema continua a essere all’ordine del giorno nelle pratiche museografiche, che stabiliscono relazioni tra oggetti concreti e narrazioni simboliche. È a questo percorso di valori e pratiche che ci invita questo libro analitico e sperimentale di Giada Cerri dedicato agli spazi espositivi delle opere in ceramica. Come ci mostra il libro, una delle sfide del lavoro di allestimento, visto dal punto di vista dell’architettura, è mantenere un discernimento creativo e aperto riguardo al rapporto tra realtà e immaginazione, tra fatto e discorso di questi oggetti che, nel caso della ceramica, appartengono alla sfera domestica e all’intimità sensoriale. Giada Cerri, che ha saputo conciliare la ricerca e la pratica progettuale e didattica, ci propone una struttura testuale che conferma i suoi interessi poliedrici.
L’ipotesi centrale del suo lavoro è che sia gli oggetti esposti che le modalità con cui vengono presentati al pubblico rappresentino narrazioni storiche e generino
nuovi significati. Per sostenere la sua pratica curatoriale e didattica e illustrare come la ceramica può essere esposta, lei ci invita, all’inizio, a scoprire alcuni casi studio di gallerie e musei contemporanei. In questi esempi, le pratiche espositive spaziano dalla comprensione della catalogazione storica e dallo studio delle tradizioni all’abbattimento delle barriere con l’arte e le installazioni contemporanee. Questa contestualizzazione delle modalità discorsive e di rappresentazione ci apre la strada per approfondire la sua esperienza personale e professionale in alcune sperimentazioni realizzate a Montelupo Fiorentino, in Toscana. L’analisi critica e l’autoanalisi di questi progetti rivelano un atteggiamento in cui allestimento, ricerca e didattica si completano in un processo di lavoro in cui presenza e indagine sono parte del dialogo con i visitatori.
L’atto di allestire una mostra, che implica una persona attenta – e spesso imprevedibile – chiede all’architetto, come ci mostra Giada Cerri, non solo criteri tecnici, spaziali, estetici, ma anche la prospettiva di un regista teatrale. Questa visione progettuale che pensa lo spazio vissuto e non solo visivo fa parte del suo insegnamento. Il suo scopo è di mettere il corpo sensibile e pensante sulla scena culturale. In questo modo, anticipa lo stabilire relazioni tra il mondo fisico e la dimensione temporale degli oggetti, andando oltre la percezione contemplativa per includere la nostra capacità di raccontare storie che diano significato alla nostra esperienza individuale e collettiva.
Nel mondo contemporaneo la nozione di digitale è passata dal segno delle dita, del tatto, al segno dei numeri. Ricercare e mettere in mostra e in evidenza la ceramica come pratica creativa ancestrale che sopravvive e si ricrea, ci ricorda l’importanza del nostro contatto – nel suo senso etimologico – creativo con il mondo. Quando piccoli pezzi di ceramica si presentano come documenti e monumenti, ci confrontiamo con la memoria e la storia come architetti archeologi, registi teatrali, e principalmente come cittadini – nel senso più ampio del termine – presenti con il nostro pensiero e il nostro corpo.
Dott. Zeuler R. Lima
Professore Associato School of Design and Visual Arts
Washington University in St. Louis, USA
Premessa
Sono solo cocci, falso!1
Visitando un museo o una sezione dedicati alla ceramica sarà capitato di aver origliato un pensiero che tradiva una certa insofferenza alla visita. Per chi non è un appassionato o un addetto ai lavori, la vista di una sequenza di vetrine cariche di oggetti ceramici che sembrano simili tra loro può creare un effetto barriera. È una situazione che porta ad assumere un atteggiamento di chiusura e indisponibilità verso ciò che è in mostra (Bitgood, 2011). Cela il pensiero “visto uno visti tutti” o “sono solo cocci”, e in quel caso la visita si riduce ad un passaggio veloce tra gli oggetti (pratica codificata che prende il nome di surfing museale). Eppure, la ceramica è un materiale popolare. È parte della vita di tutti i giorni e lo è da secoli. Non è una sorpresa che più musei conservino e raccolgano oggetti realizzati in argilla cotta e decorata e che le espongano al pubblico con varie modalità e narrazioni. La ceramica racchiude un mondo: di storie, di persone, di tradizioni manifatturiere, di sperimentazioni e avanzamenti tecnologici, di gusto e costume ma anche di simboli e leggende. La Storia e le storie si intrecciano e le ceramiche possono essere proprio testimoni involontari di tanti episodi, recenti e del passato. Allora la ceramica può non essere solo un coccio, bisogna però che possa parlare.
1 Il titolo di questa sezione omaggia il format dei titoli della serie Idòla edita da Laterza. Tra questi si segnala l’interessante lettura di Paola Dubini (2018) Con la cultura non si mangia, falso!, che affronta, dal punto di vista del management culturale, la sostenibilità, i limiti e le potenzialità di vari settori della cultura italiana.
Per varie coincidenze e occasioni, ho avuto a che fare con la ceramica, quella di Montelupo Fiorentino. Storicamente legato alla ceramica, Montelupo è un Comune di poco meno di quindicimila abitanti sito nella Città Metropolitana di Firenze. La storia della ceramica a Montelupo è affascinante perché fino agli anni ’70 del Novecento si era persa memoria dell’importanza che l’avamposto arroccato tra l’Arno e la Pesa ricopriva nelle logiche mercantili della Firenze Repubblicana, prima, e Medicea, poi. Montelupo era in quel periodo “fabbrica di ceramica di Firenze”. Il tempo ne aveva cancellato le tracce. Nel 1973 dei lavori di manutenzione della rete fognaria hanno condotto a una fortuita e importante scoperta archeologica. È stato scoperto un pozzo esausto, il cosiddetto Pozzo dei Lavatoi, di poco più di due metri diametro e profondo circa trentuno metri, completamente riempito di scarti ceramici provenienti da fornaci limitrofe. Lo studio dei frammenti e la successiva scoperta di altri pozzi hanno riscritto sia la storia del luogo che la storia della ceramica, portando anche alla riattribuzione di importanti collezioni ceramiche custodite nei più importanti musei del mondo. Fino ad allora, la tradizione manifatturiera ceramica di Montelupo era legata alle botteghe preindustriali ottocentesche. La scoperta ha sortito anche un certo rilancio della produzione delle manifatture locali nonché un’azione continua e crescente da parte degli enti pubblici che hanno investito sia nella protezione e valorizzazione del patrimonio esistente che nella nuova produzione artistica in generale. Montelupo si presenta oggi come centro culturale fecondo e creativo.
In questo contesto, alcune occasioni di allestimento hanno portato ad approfondire il tema della ceramica, a ragionare sulle modalità e le soluzioni per esporla e sui possibili modi di raccontarla. Mi interessava confrontarmi su questo tema, capire quali sono stati le modalità di esposizione nel tempo, la fortuna museale delle collezioni ceramiche e l’atteggiamento odierno intorno a una tipologia di oggetto, la ceramica d’uso e il design, che rappresenta un elemento di prossimità ma anche una potenziale raccolta di storie.
Il volume ragiona e si interroga sul significato e sulla pratica di esporre la ceramica. Si affrontano le implicazioni tecniche dell’exhibit, sulla sua natura interdisciplinare, sugli obiettivi narrativi, sul temporaneo e il permanente. Articolandosi in tre parti, la prima introduce l’argomento della ceramica come oggetto da museo riferendosi al contesto della cultura materiale occidentale. In termini generali, affronta il tema delle varie e possibili modalità di esposizione, dalla vetrina e il vetrinismo alle soluzioni digitali, ma anche la questione del mostrare come atto per comunicare e dell’importanza dei ruoli del curatore e dell’architetto in quanto interpreti di un messaggio. La seconda parte si prefigge di definire alcune modalità di esporre ceramica. Per farlo sono stati presi in esame sei casi studio, quattro allestimenti permanenti e due temporanei, localizzati in paesi occidentali. Gli elementi compositivi e le caratteristiche distintive dei sei allestimenti sono stati analizzati e discussi. La terza parte tiene conto dei presupposti teorici e degli studi sui riferimenti e presenta sei occasioni di progetto di allestimento che ho realizzato a Montelupo tra il 2018 e il 2021.
Tutti i progetti derivano da uno sguardo complessivo al territorio montelupino e portano una voglia di sperimentazione che li pone come possibili risposte a domande sulle diverse modalità di esporre ceramica. I progetti, inoltre, si inseriscono all’interno di un ragionamento complessivo sul sistema museale civico che è parte di un progetto di ricerca sviluppato in seno ad una convenzione di ricerca tra il Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi di Firenze, il Comune di Montelupo Fiorentino e la Fondazione Museo Montelupo.
Esporre
La resistenza dello spazio dell’esporre
Il museo moderno, ovvero quello Ottocentesco, rappresentava la sintesi dei saperi e delle meraviglie del mondo. Era erede del gusto collezionistico dei privati (Pomian, 2021), le sue sale erano stipate di oggetti e si rivolgeva a un pubblico erudito. Le arti cosiddette minori, tra cui la ceramica, entrarono fin da subito a far parte delle collezioni museali in quanto parte di raccolte private, ma i musei prediligevano le arti maggiori. Gli spazi principali erano riservati a quadri e sculture mentre “l’oggettistica” era organizzata per sezioni tematiche in sale accessorie. Per un lungo periodo, i princìpi ordinativi che determinavano la disposizione degli oggetti nello spazio sono stati il gusto e criteri, quali comparazione tipologica, epoca e provenienza.
D’altra parte, è vero che la pratica della curatela è cambiata nel tempo ed è stata campo di discussione. Già Wilhelm Bode nel 1891, descrivendo le ragioni dell’ordinamento dei suoi musei berlinesi, l’Altes Museum e il Kaiser Friedrich Museum, ora Bode Museum, criticava l’affastellamento di opere nello spazio, sentenziando: “la maggior parte dei musei sono ormai dei contenitori più o meno grandi in cui quadri e sculture sono come aringhe uno sopra l’altro” (Bode, 1891). La proposta di Bode si distingueva dalla pratica dell’epoca allestendo sale organizzate per periodi storici. In ognuna individuava un pezzo principale che guidasse l’attenzione del visitatore e a contorno sistemava una selezione di oggetti, sculture, pitture e arti applicate, organizzati secondo un disegno simmetrico. Questo approccio disegnava ogni stanza come una sequenza di mondi tematici. Rispetto agli standard del periodo gli spazi risultavano alleggeriti e ordinati (Marini Clarelli, 2021; Baker, 1996).
Lo stravolgimento dell’organizzazione degli allestimenti museali è arrivato con le avanguardie di inizio Novecento. La possibilità di azione diretta degli autori nella disposizione delle proprie opere negli spazi museali ha infatti determinato un radicale cambiamento nell’allestimento degli spazi. L’azione curatoriale interpretava l’opera come “oggetto alienato perché separato dal proprio contesto di origine” (Criconia, 2011). Le opere erano disposte in spazi semivuoti e l’isolamento dell’oggetto era totale. L’inaugurazione del MOMA, Museum of Modern Art, di New York ha segnato un deciso cambio di passo nell’ordinamento e sistemazione delle collezioni. Sebbene il
MOMA si dedicasse inizialmente solo all’arte contemporanea e al design, la sua attività ha avuto un’importante influenza anche su altri tipi di museo (Wallach, 1992). La scelta di diluire il percorso tra le sale, limitando il numero dei pezzi in mostra, ha condotto a una diversa gestione degli ambienti museali e ha determinato la necessità di dotarsi di depositi sempre più grandi e tecnologicamente avanzati, in grado di rispondere alle esigenze conservative e di turnazione degli oggetti esposti.
Dalla dilatazione della disposizione delle opere si è arrivati in alcuni casi fino alla smaterializzazione delle collezioni. La possibilità di fruire del patrimonio anche in maniera virtuale ha portato Steven Conn a chiedersi, in maniera provocatoria, se i musei abbiano ancora bisogno di esporre gli oggetti (Conn, 2010). La crescente necessità dei musei di dotarsi di sempre più servizi, la mercificazione degli spazi, la progressiva riduzione del numero delle opere esposte e l’uso diffuso di tecnologie impiegate potrebbero portare a concludere che la necessità di godere dei beni museali dal vero sia venuta meno. Le conclusioni di Conn affermano il contrario: c’è una necessità di mantenere accessibili e aperti quei luoghi che, insieme alle biblioteche, mantengono la possibilità di identificarsi come pubblici, aperti, democratici, parte del tessuto urbano e identificativi per una comunità. Nelle parole di Conn si ritrovano elementi di vicinanza con le tesi di Richard Sennett circa l’importanza di spazi per la collettività, essenziali per la vita pubblica
(Sendra e Sennett 2022; Sennett 2018; 2012). Sposando le tesi di Conn e Sennett e attualizzandole, il lavoro dei e nei musei assume quasi una valenza di resistenza culturale, data la portata democratica, inclusiva e pioneristica di certe buone pratiche museali. Insieme al museo, anche la biblioteca, la piazza e il centro culturale possono essere luoghi di incontri e incroci e avere un ruolo distintivo all’interno delle società e delle comunità. La specificità del museo è di custodire e insieme rendere viva una memoria. Il museo è un laboratorio di ricerca, realizza un dialogo tra passato, presente e futuro, è un terreno di contaminazioni e di sperimentazioni, anche digitali. È un luogo in cui vi si possono riconoscere più persone.
Esporre e visitare il luogo dell’esposizione continua ad avere senso. La possibilità di poter vedere l’oggetto dal vivo rimane un’esperienza unica. Il visitatore è interessato e attratto dagli oggetti poiché, soprattutto quello occidentale, si identifica in essi. La cultura occidentale, infatti, si relaziona e dà valore agli elementi tangibili (Appadurai, 1986). Si parla a questo proposito di cultura materiale. Tale locuzione è presa in prestito dagli studi antropologici e tradizionalmente indicava le collezioni di antropologia e etnografia (Dei e Meloni, 2015). Oggi identifica l’oggetto fisico in generale. Nell’ambito museale la discussione post-colonialista ha definitivamente messo in discussione molti degli aspetti legati all’interpretazione e alla definizione degli oggetti poiché la maggior parte di essi non è stata concepita come oggetto da museo ma realizzata per rispondere a un’esigenza (Desvalees Mairesse, 2009; Karp e Levine, 1991). L’allestimento museale quindi si fa carico di trasmettere significati e messaggi intangibili attraverso il patrimonio tangibile. Nel caso della ceramica, essa è testimone di gestualità e modi antichi che in gran parte sono rimasti immutati nel tempo. L’impronta su un pezzo, la sbavatura e l’errore, la capacità decorativa sono aspetti che solo la materialità dell’oggetto può comunicare. La visita perciò, parafrasando Rivière e De Varine1, è parte di un processo complesso che non inizia e finisce all’entrata del museo.
1 George Henry Rivière e Hugues De Varine sono considerati gli ideatori della forma museale dell’ecomuseo, definito per la prima volta nel 1971. Sull’ecomuseo si vedano: De Varine, 2007, 2005,1996; Rivière, 1992, 1976.
Mostrare è comunicare
Esporre viene dal latino exponĕre e si traduce con “mettere in mostra, offrire alla vista” (Treccani, 2006). È un’azione che più o meno inconsciamente tutti possono aver fatto. Prendendo come esempio un oggetto in ceramica, è probabile che a molti sia capitato di sistemare nell’ambiente domestico dei vasi su un mobile o di appendere piatti alla parete. Altri avranno soppesato l’acquisto di stoviglie confrontando serviti di piatti ben apparecchiati all’interno di negozi specializzati, oppure li avranno ammirati su una tavola adorna in occasioni speciali. In tutti questi casi è stata compiuta un’operazione di allestimento di uno spazio. Nel caso specifico degli allestimenti museali, oltre alla sistemazione degli oggetti intervengono aspetti che riguardano il contenuto scientifico, l’intento narrativo e la museografia. Un’ulteriore differenziazione è la rottura dal quotidiano: visitare uno spazio museale implica una pausa dalla routine e di conseguenza l’immersione in un tempo e uno spazio diverso dall’ordinario.
La particolarità delle esposizioni di ceramica è che spesso gli oggetti in mostra sono o possono essere paragonati a oggetti di uso quotidiano. È riscontrabile una prossimità e certa familiarità tra visitatore e oggetto2. Si potrebbe affermare che sono collezioni apparentemente “semplici” da comprendere. Un allestimento deve spiegare le ragioni di quelle collezioni, perché quegli oggetti sono così importanti da dover essere mostrati e conservati da un’istituzione museale. A differenza degli oggetti creati appositamente per un museo o una galleria, quando gli oggetti d’uso corrente, o storici, diventano “pezzi da museo” il loro valore e il loro significato cambiano3. Il fatto che un oggetto sia riconosciuto come meritevole di essere conservato, tramandato e valorizzato lo rende prezioso anche al di là delle sue caratteristiche intrinseche. Questo passaggio può essere meno immediato al visitatore ed è necessario che sia spiegato che cosa significa o simboleggia quell’oggetto.
2 Si vedano le riflessioni di Walter Benjamin (2000) su l’aura degli oggetti e le discussioni sulla possibilità della loro riproduzione in serie.
3 Ci si riferisce alla letteratura legata agli studi sulla cultura materiale, in particolare, dal punto di vista antropologico si vedano: Appadurai, 1986; Miller, 1987; Pearce, 1994; Karp e Levine, 1991; Clemente, 1996, 2023; Hooper-Greenhill 2000; Dei e Meloni, 2015.
La ceramica è allora portatrice di tante possibili storie. Un frammento medievale può raccontare una tradizione manifatturiera ma anche uno stile di vita. Un servizio di ceramiche degli inizi del Novecento di una tale bottega può parlare dell’azienda o del committente, o può essere espressione di un’alta capacità artigianale. Un singolo pezzo appartenuto ad un personaggio storico può essere il mezzo attraverso il quale lo si racconta, un altro può rappresentare una memoria collettiva. Ma le storie devono riuscire a parlare. L’allestimento è il risultato di un lavoro di lunga lena e riflette contingenze sociali, geografiche e culturali legate a un punto nel tempo e nello spazio. Le interpretazioni infatti non sono fisse e oggetti e concetti che hanno fortuna critica in un determinato periodo storico possono non averlo in altri. Nel caso della ceramica è interessante la trattazione che Laura Breen (2019) fa a proposito del dibattito sulla definizione di oggetto ceramico. Sebbene riferito al contesto britannico, discute sulla differenza che per anni è stata fatta tra produzione artigianale e industriale, fra quella autoriale e artigianale e sulla rispettiva dignità di essere esposti o non esposti in contesti museali. Affronta il tema della mancata inclusione per un lungo periodo degli oggetti in ceramica all’interno della categoria fine art (arti figurative) giacché considerate a priori parte delle applied art (arti applicate) proprio perché in materiale ceramico. Oggi nei musei britannici una scultura in ceramica la si considera scultura senza il dubbio che, poiché in ceramica, non possa far parte di quella categoria. Questa storica scissione ha riguardato soprattutto quei musei che ospitano più tipologie di collezioni e in cui tradizionalmente si dà spazio e enfasi alle arti maggiori. I dibattiti attuali e i nuovi approcci museologici hanno messo definitivamente in discussione tale approccio, preferendo un discorso multimaterico e interdisciplinare.
Mostrare vuol dire assumersi la responsabilità di offrire un’interpretazione. Generalmente è il curatore che determina l’impostazione della lettura delle collezioni. A questa, l’allestimento cerca di dare una forma, proponendone la versione tangibile e abitabile. Ovviamente il rapporto tra le due parti è di tipo dialettico e il risultato è il frutto di uno scambio continuo. Citando i “maestri”, il punto di vista di Carlo Scarpa negli allestimenti di Verona e Palermo ha il merito di favorire “l’intensa percezione delle opere e di servirsi dell’opera allestita per sottolineare le architetture che le contengono” (Cafiero, 1999, p. 48). I casi scarpiani sono noti anche per la lungimiranza e sapienza dei conservatori che hanno definito le linee scientifiche degli interventi, Licisco Magagnato per il Museo di Castelvecchio a Verona e Giorgio Vigni per la Galleria di Palazzo Abetellis a Palermo. Casi analoghi sono quelli celeberrimi di Albini con Caterina Marcenaro a Genova, dove compiono una raffinata operazione di allestimento nei musei civici (Bucci e Rossari, 2016), e dei BBBR e Nello Baroni al Castello Sforzesco, a Milano, dove curano il legame tra luogo e contenuto, l’esperienza di visita e fanno attenzione alla vita del museo, prevedendo che nel tempo sarebbero mutate le esigenze (Di Biase, 2012; Barbiano di Belgiojoso et al., 1956). La pratica museale contemporanea tende a mettere in relazione opere e
collezioni che hanno un dialogo intra-temporale e intra-disciplinare, prescindendo talvolta un racconto cronologico e tipologico. Uno degli esperimenti che si è mosso in questa direzione, tra i più noti e di maggiore successo a livello italiano, è quello della GNAM, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Sotto la direzione di Cristiana Collu (2015-2023) il nuovo ordinamento museale ha interpretato un verso di Shakespeare, “The time is out of joint: O cursèd spite/ That ever I was born to set it right!” (Amleto, Atto I, scena V), per affrontare il tema dell’elasticità del concetto del tempo. Le opere non sono presentate secondo un racconto cronologico poiché Time is out of Joint “si propone come luogo di scoperta, aperto alla ricerca e alla contemplazione, e spazio di riflessione sui linguaggi, sulle pratiche espositive e sul ruolo del museo contemporaneo” (Collu, 2016). L’allestimento è figlio di un dibattito culturale intorno al senso del tempo e sulla fisica (crf. Rovelli, 2014). L’esito ha ricevuto commenti discordanti da parte degli addetti ai lavori e curiosità da parte del pubblico, con il merito di aver rinnovato un seppur flebile dibattito culturale, in altri casi pressoché assente.
L’arte del porgere e la ceramica: vetrinismo, monumentalismo, collezionismo, site-specific e digitale
La tipologia di oggetto e le sue proprietà intrinseche orientano le scelte allestitive. Aspetti quali dimensioni, peso, stato di conservazione e forma delle opere sono indicazioni oggettive che definiscono dei vincoli per il progetto. Per la statuaria si considerano dimensioni e peculiarità specifiche, per esempio come l’opera pesca la luce, se è fatta per girarci intorno, se ci sono punti di vista privilegiati. Alto e basso rilievi, elementi architettonici o ceramica per edilizia (che sia storica o contemporanea) possono richiedere “contestualizzazioni” spaziali per dar conto della scala, del loro impiego o della relazione tra elementi. Nuclei di più oggetti hanno generalmente bisogno di spazi per dare agio al gruppo ma, per ragioni curatoriali, può anche essere fatta un’operazione di compressione.
Nel caso della ceramica d’uso ci possono essere varie variabili legate alle caratteristiche dell’oggetto. Si può voler mostrare la base di un boccale, o far risaltare un dettaglio di una decorazione, oppure dare la possibilità di vedere sia il verso che il tergo di una forma aperta. I modi per mostrare la ceramica sono potenzialmente infiniti: in appoggio, agganciata a superfici verticali, sospesa o appesa, protetta o libera. La preziosità o la fragilità di un oggetto obbliga a scegliere soluzioni protette. Per quanto riguarda gli aspetti conservativi, in generale la ceramica e le terrecotte ben conservate sono materiali molto resistenti. Il rischio maggiore è rappresentato dalla polvere. Uno degli accorgimenti che i conservatori richiedono quando vengono progettate e installate vetrine chiuse è che siano sigillate per evitare che vi penetri la povere, ma anche che siano facilmente apribili e accessibili per procedere in maniera agile alle azioni di spolveratura. Quelle non protette da vetri o teche occorre che siano periodicamente spolverate. Ciò implica includere nella programmazione e nel bilancio dell’istituzione una voce relativa alle pulizie ordinarie (Fabbri e Ravanelli Guidotti, 2004).
L’aspetto che più ci interessa in questa trattazione è capire come esporre la ceramica d’uso, sia storica che contemporanea. La maniera che potremmo definire “classica” per mostrare le ceramiche sono le vetrine. Sono una soluzione che rimane ancora oggi la più utilizzata e, in base all’articolazione interna, ha
anche un certo grado di flessibilità. Già dagli anni ’20 del Novecento, nel caso di mostre per la produzione contemporanea, il plinto o la teca iniziano ad essere un’alternativa (Breen, 2014). Adatto all’allestimento di sculture di piccole e medie dimensioni, il plinto definisce l’isolamento di un oggetto dal gruppo. È una soluzione che segnala una distinzione. Inoltre, l’elemento verticale offre flessibilità compositiva e lascia spazio all’inserimento di oggetti diversi, come pannelli o altri componenti scenografici. La possibilità di esaltare un singolo oggetto richiama nelle forme l’idea del monumento. Per la ceramica questa è una scelta allestitiva relativamente recente poiché è recente l’assimilazione di oggetti ceramici, antichi, moderni o contemporanei, all’idea di opera d’arte. Con il termine “monumentalismo” si sottolinea la scelta, ormai diffusa, di isolare un pezzo e di renderlo protagonista. Sempre il plinto permette di giocare sulla serialità, ripetendolo più volte e accogliendo oggetti omogenei. Quest’ultime sono soluzioni molto utilizzate in museografia. È il principio usato negli allestimenti archeologici di Bernard Tshumi per la Sala arcaica del Museo dell’acropoli ad Atene, o di Michele de Lucchi per l’intervento di allestimento dell’Armana Platform al Neues Museum a Berlino. In entrambi i casi, l’allestimento permanente attua una comparazione tra gli elementi, seppur mantenuti distinti nella loro unicità. La resa generale è esteticamente efficace e attraente, vi è un bilanciamento tra opere, apparati informativi, soluzioni ostensorie e sala. D’altra parte, la ripetizione di elementi verticali nello spazio è un tema che ricorre nella tradizione allestitiva dei maestri italiani. Si pensi alle installazioni di Albini per la mostra Scipione e del Bianco e Nero alla Pinacoteca di Brera a Milano e per la Sala degli Olandesi a Palazzo Bianco a Genova (Bucci e Rossari, 2005), o ai celebri cavaletes di Lina Bo Bardi per la sala principale del MASP, Museu de Arte de Sãn Paulo, a San Paolo del Brasile (Lima, 2013; Latorraca, 2014). La ripetizione di una figura verticale, come i totem o gli oggetti posti su plinti, possono definire un ritmo. È un lavoro sul gruppo che definisce una separazione tra le opere. La grande base o il piano orizzontale, al contrario, definiscono una linea, fisica o immaginaria, che aiuta a stabilire un confronto visivo diretto tra gli oggetti. Un’altra soluzione è l’installazione composta da molti oggetti che a prima vista compongono un intero. In questo caso, le piccole dimensioni degli oggetti aiutano a comporre un’unità apparente che poi, avvicinandosi, si scopre essere costituita da tanti elementi. Generalmente sono soluzioni che utilizzano oggetti molto simili. È interessante notare che spesso le installazioni contemporanee riprendono modalità di esposizione che citano i musei di arti e mestieri dove il grande numero di oggetti richiama un mestiere, una lavorazione, o perfino un’ossessione, si pensi al celebre Museo Ettore Guatelli vicino a Parma. Il fatto che un oggetto faccia parte di un gruppo o che sia separato non è legato al valore, semplicemente le due versioni comunicano messaggi diversi. Diverso è l’approccio collezionistico che tenta di mostrare l’interezza della collezione. È una modalità di presentazione oggi
desueta che trova però cultori soprattutto tra esperti e appassionati del tema in mostra. È un approccio curatoriale legato alla cultura museale ottocentesca che preferiva esporre la maggior parte del patrimonio posseduto e dare la possibilità a chi visitava le sale di poter vedere la quasi interezza delle collezioni possedute. Nel caso della ceramica il risultato allestitivo di questo approccio è la ripetitività e la saturazione degli spazi.
In generale la vetrina continua a essere la soluzione più utilizzata, sebbene sia legata a un modo di pensare il museo che richiama il collezionismo, il museo-tempio e il museo-scuola. Le possibilità tecniche e la potenziale flessibilità delle soluzioni brevettate da alcune aziende specializzate sono riuscite a svecchiarne le forme e l’idea. Le affascinanti ma ormai datate vetrine sono ancora visibili in alcuni allestimenti. Sebbene possano evocare un certo fascino ed essere considerate “testimonianza” museografica, spesso limitano il racconto museale contemporaneo e pongono difficoltà in termini di manutenzione ordinaria. La vetrina di nuova generazione si pone come una soluzione performante che viene adattata in base alle specifiche esigenze conservative e espositive del contenuto. Oltre agli aspetti conservativi queste strutture offrono la possibilità di articolare gli interni in base alle esigenze del progetto scientifico e allestitivo, con soluzioni fisse o mobili, consentendo flessibilità e variabilità dell’allestimento nel tempo. Il termine vetrina evoca chiaramente il corrispettivo commerciale. Un rischio concreto che si corre con oggetti ceramici, in particolare quelli della produzione contemporanea o quelli definiti “di design”, è la possibilità di essere scambiati per oggetti destinati alla vendita. Ovviamente, le azioni legate al rituale della visita museale e a quello dell’acquisto non danno adito a sovrapposizioni o errori di giudizio. L’aspetto che qui preme sottolineare riguarda il linguaggio formale con cui gli oggetti sono presentati. Analizzando vari casi studio è possibile notare che le modalità di esposizione commerciale sono comparabili ad alcune soluzioni museali. Le maggiori differenze sono l’obiettivo e il target di riferimento. Nei negozi il principio allestitivo è legato alle tecniche di marketing e di comunicazione commerciale dove il destinatario è il cliente. La sofisticazione di alcuni negozi però è tale che il linguaggio museale e quello commerciale possono sovrapporsi, così da trovare scenografie simili in entrambi i luoghi. È quindi l’apparato didascalico e la comunicazione integrata alla parte scenica che distingue l’allestimento museale. L’obiettivo è offrire al visitatore sia l’appagamento estetico, che può essere anche tangente al desiderio di possesso, come raccontato dall’installazione Throphy di Clare Twomley 4, che la trasmissione dei contenuti. D’altronde il legame museo-negozio appartiene in qualche misura alla tradizione allestitiva italiana. I maestri italiani del dopoguerra hanno lavorato su progetti di negozi e musei con esiti eccellenti, testando e sviluppando alcuni
4 Si veda la sintetica introduzione al progetto di Clare Twomley nel seguente capitolo.
prototipi di mobili per questi due ambienti, per poi perfezionarne gli esiti con la conseguente messa in produzione. Ci si riferisce ancora una volta a Carlo Scarpa, a Franco Albini, ai fratelli Castiglioni. Per non rischiare che l’allestimento si presenti come un pezzo di un negozio è importante che questo non cada nella trappola del “vetrinismo” e che si distingua con i mezzi propri della disciplina. A questo proposito, è interessante il lavoro che alcuni musei fanno sulla differenziazione tra oggetti in mostra e le loro copie disponibili per la vendita al bookshop. Gli strumenti per determinare questo distinguo sono aspetti tecnici ma è soprattutto la collaborazione tra aspetti curatoriali e allestitivi che determina la separazione netta tra le due tipologie di allestimento.
La grande installazione urbana o paesaggistica non corre invece il rischio di sovrapposizioni con altri linguaggi, ma possono esservi rischi di altra natura, per esempio quello interpretativo. La scelta di installare un’opera pubblica, che sia in ceramica o in altro materiale, può avere varie ragioni. Il caso di Montelupo Fiorentino è un esempio di programmazione artistica e di uso dell’arte contemporanea come strumento per la rigenerazione del territorio 5. Il percorso di opere site-specific si sviluppa all’interno e all’esterno del centro storico e sono un esempio di collaborazione tra ceramisti locali e artisti. È importante sottolineare che l’operazione non è rilevante solo per l’esito finale o per l’eredità che si affida alla comunità quanto per il processo. L’opera d’arte in sé non ha e non può avere un potere salvifico o rigenerativo. Al contrario, tutto quello che viene messo in moto per realizzarla può avere un impatto significativo sul territorio e l’opera ne è un’espressione e una traccia tangibile. Questa è la differenza sostanziale tra maquillage urbano e arte pubblica.
Un altro aspetto è la peculiarità dell’installazione site-specific. Essa trae forza dalle relazioni che riesce a instaurare, prima fra tutti quella tra opera e spazio e poi tra opera e contesto, tra opera e materiali, tra autore e attori, come committenti, uffici tecnici e installatori. È un rapporto che si stabilisce infine tra opera e fruitori, comprendendo entusiasti e detrattori. Che sia urbana, rurale o paesaggistica, l’opera assume significati diversi in base alla sua posizione. A titolo di esempio, le installazioni di Mauro Staccioli nella campagna di Volterra richiamano un messaggio di affettività da parte dell’autore nei confronti del paesaggio della sua infanzia. La forza evocativa e l’assolutezza delle forme in relazione con il paesaggio, che è già potente di per sé, riescono a coinvolgere anche l’avventore a caccia di selfie o ignaro del messaggio dell’artista. L’opera nello spazio può quindi assumere accezioni o sfumature di significato diverso in base a come la si colloca. L’installazione site-specific nasce (o dovrebbe nascere) dal luogo in cui sorge, enfatizzando il dialogo tra luogo, oggetto e persone (Newhouse, 2005).
5 Si vedano i progetti di cantieri e residenze d’artista sul sito web della Fondazione Museo Montelupo https:// www.museomontelupo.it/mostre-eventi-in-programma/ (ultima consultazione agosto 2024).
In questa panoramica sui modi e modalità di esporre non può mancare il mondo del digitale che è ormai parte del vissuto contemporaneo ed è un elemento imprescindibile per le pratiche museali. È necessaria una piccola parentesi per definire che cosa si intenda per spazio digitale in questo momento, poiché la situazione è così dinamica che ciò che si afferma oggi potrebbe già essere superato domani. Alla voce ambiente digitale (a. d.), l’enciclopedia Treccani riporta che è uno:
“spazio immateriale creato attraverso l’uso del linguaggio informatico e reso accessibile da dispositivi elettronici e digitali. Gli a. d. sono generati dal computer e rendono altamente interattiva e immersiva l’esperienza dello spazio, sebbene fruibile soprattutto sul piano visivo e sonoro. Immagini e suoni riprodotti su schermi e altre interfacce esprimono un significativo effetto-realtà, grazie anche all’uso delle tecniche di grafica e animazione 3D, che rendono l’utente fruitore e al tempo stesso produttore di questi nuovi ambienti mediali. Gli a. d. possono essere considerati una risposta, tecnicamente sempre più avanzata e complessa, al bisogno dell’uomo di riprodurre, rappresentare e ricreare il mondo, producendo l’illusione del mondo stesso, ossia simulandolo”.
E anche il mondo delle mostre e dei musei è tra quelli rappresentati in questo ambiente. Si specifica infatti che:
“con gli ambienti digitali si enfatizza la dimensione simbolica dello spazio, riducendone l’accezione materiale e restituendo centralità a chi lo attraversa, lo abita e ne fa esperienza. La smaterializzazione dello spazio fisico in spazio virtuale fa dello spazio un costrutto e sempre più la metafora di un tempo in continuo divenire”.
Nel contesto dell’arte del porgere, il digitale si pone come ulteriore strumento per esperire il museo. Ron Lawler, ex digital director della Tate Gallery di Londra, in vari interventi a proposito del rapporto tra digitale e musei suggeriva che il digitale dovrebbe supportare la mission o il progetto di un’organizzazione e che una strategia digitale non dovrebbe mai essere separata da quella generale poiché anch’essa è un mezzo per raggiungere gli stessi obiettivi (MuseumNext, 2017). Così come le buone pratiche analogiche, anche quelle digitali pongono i pubblici al centro del loro operato, definiscono strategie e obiettivi generali riferiti al progetto espositivo nel suo complesso, si rivolgono e studiano i pubblici di riferimento, raccolgono e analizzano i dati per lo sviluppo dei progetti. Il modo di esporre o raccontare gli oggetti nel digitale è legato agli obiettivi generali e specifici che il progetto espositivo nel suo complesso si pone. I vantaggi del digitale sono la possibilità di integrare più contenuti, di poter agire
sulle azioni di inclusione e di facilitare l’esperienza di visita anche in tempi e luoghi diversi (Cerri e Camin, 2023). Per esempio una persona può preparare la visita a casa, approfondire alcuni aspetti da remoto a visita terminata, accedere a visite virtuali alternative. Sebbene le soluzioni digitali offrano punti di vista meno oggetto-centrici, l’oggetto continua a essere il protagonista della visita dal vivo ed è evocato in vari modi nelle soluzioni digitali. La digitalizzazione dei beni e la possibilità di fare ricerca o di consultare le opere negli archivi digitali delle istituzioni è una risorsa preziosa e necessaria, ma sono interessanti anche quelle soluzioni che possono creare prossimità con alcune nicchie di pubblico. Approcci ormai tradizionali prevedono l’esperienza immersiva all’interno di un ambiente reale ricreato con la tecnica del photomerge, la navigazione all’interno della mostra reale fotografata e proposta online, la creazione di uno spazio completamente digitale dove all’interno si trovano le opere, o spazi virtuali immersivi legati al mondo del gaming, come Fortnite , o il metaverso. La smaterializzazione dell’oggetto quindi implica la creazione di versioni di lettura alternative che mantengono il significato ma variano la forma di comunicazione. Lo spazio digitale può poi integrarsi con quello reale. Possono esserci elementi statici come QR Code, o un sistema che sfrutta la tecnologia beacon 6 che danno accesso a contenuti testuali, video o audioguide, oppure elementi di realtà aumentata, o ancora installazioni come per esempio gli ologrammi. Soluzioni più tradizionali sono schermi o elementi interattivi, proiezioni e videomapping . Anche la dimensione dei social media appartiene al mondo digitale e affronta il tema con un taglio e un linguaggio specifico delle piattaforme di riferimento ma con obiettivi legati più al marketing che alla disseminazione. L’intelligenza artificiale infine pone nuove sfide. Essa può rappresentare uno strumento utile a raggiungere un possibile obiettivo espositivo e di curatela, ma è necessario un uso accorto. È un campo di sperimentazione e varie istituzione ne stanno testando alcuni usi.
Come tutte le tecnologie anche quella digitale ha dei limiti. Uno può essere l’accessibilità, fisica e cognitiva. Come nota Ciaccheri (2022), le barriere sono prodotte da altri uomini, per garantire l’inclusione e l’accessibilità è fondamentale cercare di non costruirle. A titolo di esempio, tra le raccomandazioni e i suggerimenti per l’uso del visore per la realtà aumentata prodotto da Meta c’è un paragrafo dal titolo “Condizioni mediche preesistenti” che riporta: “Raccomandiamo una visita medica prima di utilizzare il visore se siete: in gravidanza, anziani, affetti da precedenti problemi di visione binoculare o disturbi psichiatrici o soffrite di problemi cardiaci o altri gravi problemi medici”. In questo caso, sebbene il visore offra opportunità progettuali potenti bisogna essere
6 I beacon sono dei sensori da interno che sfruttano la tecnologia BLE (Bluetooth Low Energy). Questo sistema riesce a collegarsi e a trasmettere dati a dispositivi come tablet e smartphone che devono però essere dotati di una applicazione specifica per leggere le informazioni trasmesse.
consapevoli che una porzione dei potenziali visitatori potrebbe non poterlo utilizzare. L’altro aspetto riguarda la responsabilità e l’impatto che alcune tecnologie hanno sull’ambiente. Per esempio, ad oggi, il costo energetico per la gestione di una grande installazione immersiva (schermi e proiezioni) collide con l’idea di ridurre l’impronta di carbonio ( carbon footprint ) dell’attività museali. Siamo in un momento di transizione e anche in questo campo il museo e l’allestimento devono continuare a essere luogo di esempio, sperimentazione e proposta.
Come provocazione si inserisce l’immagine di un allestimento creato con l’intelligenza artificiale. Chiara Simoncini, La modellabilità della materia tra tangibile e intangibile. Tra la storia delle lavorazione della terra cruda e la nuova realtà plasmabile (Crediti: Chiara Simoncini e Discord for Midjourney; Courtesy: Chiara Simoncini)
Architetta e Ph.D. in Management and Development of Cultural Heritage, ScuolaIMT Alti Studi Lucca. Si occupa di spazi museali alle varie scale e dimensioni: dal progetto museografico alla sicurezza e vulnerabilità sismica degli allestimenti, dal management e comunicazione del patrimonio alle strategie di riqualificazione culturale dei territori. Ha svolto esperienze professionali e di ricerca in Italia e all’estero ed è coinvolta in progetti e gruppi di ricerca nazionali ed europei.
Le ceramiche d’uso sono testimonianze di culture, stili di vita e cambiamenti di gusto che nel tempo e nello spazio si sono avvicendate diventando pezzi da museo.
Anteferma Edizioni 15,00 €
ISBN 979-12-5953-075-2