OFFICINA* 48

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Moment Éphémère di Michele Zammattio

L’opera temporanea dell’artista Christo avvolge il monumento in un drappo argentato, trasformandolo da emblema di solidità storica in un’architettura fragile e temporanea. Il tessuto, leggero e vulnerabile, ricopre la pietra massiccia, creando un contrasto tra la permanenza del monumento e la transitorietà dell’installazione. Così come la tela che danza al vento è destinata a scomparire, anche la storia e la memoria che l’Arco rappresenta appaiono, per un istante, fragili e precarie. In questo momento unico, l’Arco di Trionfo si trasforma in un’immagine della nostra stessa vulnerabilità, ricordandoci che anche le opere più monumentali possono essere ridefinite in una dimensione effimera, che, pur breve, lascia un impatto duraturo. Un omaggio alla bellezza della fragilità e alla poesia del tempo che scorre.

Successo o fallimento

Nell’accezione comune il termine ‘fragile’ viene associato a una caratteristica ben specifica, ossia la facilità con cui un oggetto – ma non solo – si rompe, specialmente in caso di urto. Nelle discipline tecniche o mediche il concetto di fragilità viene spesso esteso anche ad altri soggetti come possono essere una persona, un carattere, una teoria, un ambiente o anche un intero ecosistema. Siamo così abituati a sentire frasi del tipo: “il vetro è un materiale fragile” o “Mario è una persona fragile” o ancora “l’ecosistema marino è fragile”, associando normalmente questa caratteristica a una condizione negativa e di debolezza. Alla fragilità viene spesso contrapposta – come soluzione o come aspirazione – la resilienza, ossia la capacità di resistere a un’azione dinamica, senza alcuna rottura, cioè senza mostrare di essere fragile. Entrambe le definizioni contengono però, in modo intrinseco, un concetto chiave per una lettura differente di queste condizioni. Sebbene sia vero che fragilità e resilienza sono condizioni tipiche di vari materiali e sistemi, è altrettanto vero che queste caratteristiche non sono palesi, ma si manifestano in caso di urto, o comunque in seguito a un’azione esterna al materiale/sistema che ne induce, o meno, la rottura e quindi la fragilità. Dimentichiamo quindi che un vetro si rompe perché lo abbiamo colpito, che una persona ha un “carattere fragile” perché ha subito dei comportamenti che l’hanno resa tale, o che un ecosistema è fragile perché su di esso insistono azioni – in genere antropiche – che lo mettono a rischio di collasso.

Ma non basta, la fragilità si manifesta anche per un’altra condizione che ha sempre origine al di fuori dell’oggetto definito fragile. Prendiamo ad esempio un materiale fragile come il vetro che, pur con una storia millenaria alle spalle, vede un picco di innovazione produttiva solo a metà del Novecento, quando l’invenzione del processo float consente di produrre lastre di vetro sempre più sottili – anche meno di 2 mm – e di lunghezza potenzialmente infinita, entro i limiti produttivi legati allo stabilimento e alle successive operazioni di spostamento delle lastre. Ecco, è proprio su questo concetto di limite che si vuole soffermare il ragionamento sulla fragilità. Il desiderio umano – ma forse è più corretto definirla smania – di superare ogni limite, porta le azioni e i processi antropici verso livelli di efficienza sempre maggiori per ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio di risorse; se ciò consente di aumentare le performance di un prodotto o di un’azione, porta anche alla luce alcune caratteristiche, quali la fragilità, che ci mostrano come non tutti i limiti possono essere superati e che, nel caso, c’è sempre un prezzo da pagare nel farlo.

La fragilità non può quindi essere letta solo come una qualità negativa intrinseca a un oggetto ma anche come un monito a misurare il limite che, in ogni azione, separa il successo dal fallimento. Emilio Antoniol

Direttore editoriale Emilio Antoniol

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OFFICINA*

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.48 gennaio-febbraio-marzo 2025 Fragile

Il dossier di OFFICINA*48 – Fragile è a cura di Alberto Cervesato.

Hanno collaborato a OFFICINA* 48: Alina Applauso, Luigi Arcopinto, Giulia Azzini, Davide Baggio, Federica Battarello, Paolo Bianco, Sabrina Borgiani, Giona Carlotto, Fabrizio Chella, Stefano Colombini, Giorgio Danesi, Martina Di Prisco, Marco Manfra, Filiberto Martina, Luca Marzi, Samantha Minozzi, Vincenzo Moschetti, Gianfranco Orsenigo, Gianluca Panichi, Stefano Pasquali, Andrea Pertoldeo, Erica Scalcione, Giuseppina Scavuzzo, Alberto Stangherlin, Monica Vitti, Michele Zammattio.

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08.

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INTRODUZIONE

La forma fragile The Fragile Form

Alberto Cervesato

Ripari necessari e sensibili Necessary and Sensitive Refuges

Giuseppina Scavuzzo, Federica Battarello, Martina Di Prisco

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Fragile n•48•gen•feb•mar•2025

Moment Éphémère Ephemeral Moment

Michele Zammattio

SCIENTIFIC DOSSIER

Per un carcere antifragile Towards an Antifragile Prison

Gianfranco Orsenigo

Conservare la materia per preservare la memoria urbana Preserving Material to Safeguard Urban Memory

Giorgio Danesi

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Architettura euclidea Euclidean Architecture

Luigi Arcopinto

L’effimero in proprio The Ephemeral on its own Marco Manfra, Alina Applauso

INFONDO

Movimenti verticali e azioni orizzontali Vertical Movements and Horizontal Actions

62 80 32

22 52

Paolo Bianco

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ESPLORARE

Spunti da visitare a cura di Eleonora Fanini

82

Platea di fondazione con calcestruzzo armato a forma di parallelepipedo Foundation Platform with Parallelepiped Reinforced Concrete

Andrea Pertoldeo

88

Sulla doppia origine On the Double Origin

Vincenzo Moschetti

L’accessibilità delle strutture ospedaliere Accessibility of Hospital Facilities

Luca Marzi, Monica Vitti, Sabrina Borgianni, Stefano Colombini, Gianluca Panichi

COLUMNS

90 92

I codici di ZEDAPLUS architetti The Urban Codes of ZEDAPLUS

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Siamo così fragili? Are we that Fragile?

Stefania Mangini

94

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Erica Scalcione, Fabrizio Chella

Costruire a 2491 metri s.l.m. Building at 2491 m a.s.l.

Samantha Minozzi, Alberto Stangherlin, Stefano Pasquali

L’IMMERSIONE

Adattamento parassitario Parasitic Adaptation

Giona Carlotto

Infrastrutture idrauliche e progetto Hydraulic Infrastructure and Design

Giulia Azzini

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La duplicità dell’estuario. Estuario Nantes<>SaintNazaire The Duplicity of the Estuary. Estuary Nantes<>Saint-Nazaire

Letizia Goretti

Sulla debolezza del progetto (Un)breakable Project

Davide Baggio

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Così richiedeva la stagione So the Season demanded a cura di Margherita Ferrari

Senza limiti Without Limits

Emilio Antoniol

Franco Fontana. Retrospective 13 settembre 2024 – 31 agosto 2025 Ara Pacis, Roma arapacis.it

Oltre 200 fotografie, selezionate da un vasto archivio, si intrecciano in un racconto poco rigido cronologicamente ma fluido, che si espande come le stesse geometrie che Franco Fontana ha immortalato con i suoi intimi scatti. Le linee si dissolvono in tessuti di colore in cui emergono paesaggi apparentemente quotidiani, che si trasformano in composizioni astratte, in frammenti di un mondo sospeso, lontano da quello concretamente percepito. La fotografia perciò diviene un atto di decodifica della realtà, la quale non è documentata ma rivelata. L’esposizione si configura in una metafora visiva della sua prospettiva artistica: un esercizio di sottrazione, tale da non far apparire il paesaggio come mera rappresentazione geografica, ma come idea, forma, e visione.

Architettura instabile.

Diller Scofidio + Renfro 25 ottobre 2024 – 16 marzo 2025 MAXXI, Roma maxxi.art

La mostra curata da Diller Scofidio + Renfro, inserendosi in un contesto di riflessione critica sull’evoluzione dell’architettura, esplora una dimensione in costante trasformazione, dove funzioni come mobilità, adattabilità, operatività ed ecodinamica si mostrano reali risposte al contemporaneo.

L’idea di un’architettura mobile che può essere smontata e ricollocata, come nel caso della Instant City o della Makoko Floating School, genera frammenti di città in grado di spostarsi e conformarsi a seconda delle circostanze.

L’elemento dell’adattabilità intende tracciare una linea diretta tra passato e futuro tramite progetti come la Nakagin Capsule Tower, in cui la struttura cambia nel tempo, addentrandosi in una questione fondamentale: come progettare per l’incertezza, per un’era in cui la vita umana diventa sempre più nomade?

L’aspetto operativo, dirotta alcuni organismi verso un concetto di interconnessione continua, in cui la tecnologia digitale consente un certo grado di personalizzazione, come la Maison à Bordeaux, la quale si delinea come una vera macchina interattiva.

Infine, l’ecodinamica che si fa portavoce di spazi che non si limitano a resistere alle forze della natura, ma le accolgono, come nella Villa Girasole e nei progetti di Frei Otto, che costituiscono rappresentazioni tangibili di come una struttura possa riorientarsi e adeguarsi alle condizioni climatiche.

Mettendo in discussione la stasi tradizionale del costruito, un tema tanto urgente quanto provocatorio, l’architettura può terminare di essere percepita come un’entità stabile e immodificabile? In un’epoca segnata da continui sconvolgimenti, perché dovrebbe restare immobile, mentre tutto è in continua mutazione?

A cabinet of Wonders. Una celebrazione di arte e natura. The George Laudon Collection 15 dicembre 2024 – 11 maggio 2025 Palazzo Grimani, Venezia cultura.gov.it

A Cabinet of Wonders è un viaggio affascinante nel tempo, che affonda le radici nelle Wunderkammern rinascimentali, spazi di raccolta di curiosità da ogni angolo del mondo. Ogni oggetto, sia di origine naturale che artigianale, si rivela un omaggio al mondo vegetale, che emerge in tutta la sua maestosità e perfezione. L’eccezionale abilità artigianale dimostra come la bellezza possa rispondere al desiderio di comprensione e conoscenza, svelando il potere della curiosità come forza propulsiva nella scoperta. Dietro questo meticoloso lavoro non si cela solo la volontà di suscitare meraviglia, ma anche una precisa finalità scientifica, soprattutto nell’accurata indagine e rappresentazione delle specie botaniche.

La camera oscura di Giacomelli

13 dicembre 2024 – 06 aprile 2025 Palazzo del Duca, Senigallia (AN) senigalliacittadellafotografia.it

Guido Guidi. Col tempo 1956 -2024

13 dicembre 2024 – 20 aprile 2025 MAXXI, Roma maxxi.art

Architettura instabile. Diller Scofidio + Renfro, 2024. Vincenzo
Labellarte

FRAGILE

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A cura di Alberto Cervesato
Contributi di Alina Applauso, Luigi Arcopinto, Federica Battarello, Paolo Bianco, Sabrina Borgianni, Stefano Colombini, Giorgio Danesi, Martina di Prisco, Marco Manfra, Luca Marzi, Gianfranco Orsenigo, Gianluca Panichi, Giuseppina Scavuzzo, Monica Vitti.

Alberto Cervesato

Architetto, PhD, Assegnista di ricerca e docente a contratto, Università degli Studi di Udine. alberto.cervesato@uniud.it

La forma fragile

Le Corbusier definiva l’architettura come “la costruzione di un rifugio” dove “si mette al riparo il corpo, il cuore e il pensiero” (Le Corbusier, 1937). La postmodernità ha poi scoperto la fragilità delle grandi narrazioni – tra cui quella del Moderno – che si traduce oggi nella coscienza della fragilità degli ecosistemi (Mosco, 2023). Pensare il progetto come qualcosa di fragile può risultare paradossale, quasi una sconfitta, ma si tratta di un destino al quale non è possibile sottrarsi: possiamo quindi impegnarci per convivere, collaborare e includere nel progetto tale condizione, che da criticità può diventare risorsa. Il Novecento ha prodotto l’agenda architettonica del XXI secolo: le tipologie di manufatti che hanno dato struttura e forma alla città dalla fine del XIX secolo, oggi si pongono come “oggetti” disponibili e complessi da riutilizzare (La Varra, 2023). Il progetto della modificazione implica un ripensamento del concetto di “patrimonio”, da bene ereditato da conservare immutato, verso una sua accezione più ampia che ne preveda l’uso presente e la trasmissione alle generazioni future (Andriani, 2010; Ashworth e Graham, 2016). Fragile vuole indagare il ruolo che, su questo tema, possono assumere le discipline del progetto, richiamando la distribuzione di nuovi orizzonti teorici, rimarcando il ruolo della teoria come guida del progetto (Marini e Gambardella, 2024) e stimolando l’utilizzo di nuovi dispositivi e strumenti per accogliere sguardi trasversali. Si vuole indagare la fragilità per mettere a fuoco gli aspetti critici e le possibili opportunità, avviando un dibattito interdisciplinare intorno a un tema ritenuto significativo. In un’epoca in cui gli scarti superano le risorse, l’architettura diviene la “misura” sia per valutare che per affrontare il mondo (Turan, 2019) alla luce della policrisi planetaria che stiamo vivendo, che ci spinge a cercare di comprendere la complessità dei problemi, senza mai cedere a una visione parziale, verificando le informazioni e accettando le incertezze (Morin e Kern, 2019). Nella condizione di costante evoluzione, che contraddistingue il contemporaneo, attraverso il racconto di architettura, Fragile vuole provare a influenzare la percezione collettiva facendo emergere dei possibili approcci innovativi (Corbellini, 2016). Preso atto che la condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai “naturale” (Deregibus, 2013), vengono di seguito esposte, raggruppate in due macrocatego-

The Fragile Form

Le Corbusier defined architecture as “the construction of a shelter” where “one shelters the body, heart and thought” (Le Corbusier, 1937). Postmodernity has since discovered the fragility of grand narratives – including that of the Modern –which translates today into an awareness of the fragility of ecosystems (Mosco, 2023). Thinking of the project as something fragile may be paradoxical, almost defeatist, but it is a destiny which it is impossible to escape from: we can therefore undertake to live with, collaborate with and include in the project such a condition, which from a criticality can become a resource. The 20th century has delivered the architectural agenda of the 21st century: the types of artefacts that have given structure and form to the city since the end of the 19th century now stand as available and complex “objects” to be reused (La Varra, 2023). The modification project implies a rethinking of the concept of “heritage”, from an inherited asset to be preserved unchanged, to a broader meaning of it that provides for its present use and transfer to future generations (Andriani, 2010; Ashworth and Graham, 2016).

Fragile wants to examine the role that the disciplines of design can play on this issue, calling for the distribution of new theoretical horizons, emphasising the role of theory as a guide to design (Marini and Gambardella, 2024) and stimulating the use of new devices and tools to accommodate transversal views. The aim is to investigate fragility in order to focus on critical aspects and possible opportunities, initiating an interdisciplinary discussion around a topic deemed significant. At a time when waste outstrips resources, architecture becomes the “measure” for both evaluating and facing the world (Turan, 2019) in view of the planetary polycrisis we are currently experiencing, which pushes us to try to understand the complexity of problems, without ever giving in to a partial vision, verifying information and accepting uncertainties (Morin and Kern, 2019). In a state of continuous evolution, which characterises the contemporary, Fragile wants to try to influence collective perceptions by bringing out possible innovative approaches through the narrative of architecture (Corbellini, 2016).

Taking into account that the condition of fragility in contemporary architecture is now “natural” (Deregibus, 2013), some possible ways of interpreting the concept of fragile

Golia. F. Martina

rie, alcune possibili modalità per interpretare il concetto di fragile. Si apre un dibattito negli ambiti di ricerca dell’architettura, del design e della tecnologia per tentare di offrire alcuni possibili spunti e riflessioni sul futuro del progetto in ambito architettonico, tecnologico e ambientale.

Il progetto antifragile opera nella direzione di una rigenerazione abilitante delle architetture, delle città e degli spazi in cui viviamo. Nelle attuali condizioni il progetto si presenta perlopiù come processo di “alta manutenzione” attraverso processi di ricucitura, ricostruzione e riparazione (Gregotti, 1991), anche dell’umano (Scavuzzo, Pratali Maffei e Guaragna, 2019).

L’architettura come risposta alla fragilità: come possiamo “curare” ciò che è fragile attraverso il progetto?

Ad esempio creando spazi-rifugio per rendere maggiormente fruibili a tutti gli ambienti collettivi – evitando sovraccarichi sensoriali – passando dal piano teorico offerto dalla letteratura a una verifica attraverso la sperimentazione partecipata (Scavuzzo et al., 2023). Ripensando luoghi di estrema fragilità come le carceri, segnate da criticità strutturali e sovraffollamento, partendo dall’idea che per riabilitare le persone bisogna anche “riabilitare gli spazi” (Giofrè e Posocco, 2020) proponendo prototipi spaziali per rendere questi luoghi più rispettosi della dignità umana di chi li abita. Affrontando il tema dell’accessibilità e dell’inclusione “che la progettazione deve valutare proponendo una molteplicità di soluzioni, sviluppando strategie e modelli di intervento in grado di porsi come processi virtuosi e pratiche ripetibili, [...] progetti che integrano l’architettura con i servizi e con il territorio e la comunità, che riescono a spostare il concetto di disabilità dalla mancanza delle persone alle possibilità intrinseche degli spazi di essere fruiti” (Baratta, Conti e Tatano, 2019, p. 168).

Il progetto effimero interpreta la fragilità come temporaneità e “progetto debole” (Branzi, 2006), ovverosia un’aggiornata attitudine progettuale che metta in primo piano le delicate sfide e necessità attuali, ponendo in secondo piano l’autorialità dell’opera, anche attraverso forme effimere, temporanee, smontabili (Rocca, 2017), non escludendo strategie parassitarie (Marini, 2008).

are set out below, grouped into two macro-categories. It opens a debate in the research fields of architecture, design and technology in an attempt to offer some possible insights and reflections on the future of design in architecture, technology and the environment.

The antifragile project works in the direction of an enabling regeneration of the architecture, cities and spaces in which we live. Under the current conditions, the project is mostly a process of “high maintenance” through processes of mending, reconstruction and repair (Gregotti, 1991), including of the human (Scavuzzo, Pratali Maffei and Guaragna, 2019).

Architecture as a response to fragility: how can we “heal” what is fragile through design?

For example, by creating refuge-spaces to make collective environments more usable for all – avoiding sensory overload – moving from the theoretical level offered by literature to verification through participatory experimentation (Scavuzzo et al., 2023). Rethinking places of extreme fragility such as prisons, marked by structural criticality and overcrowding, starting from the idea that in order to rehabilitate people we must also “rehabilitate spaces” (Giofrè and Posocco, 2020) by proposing spatial prototypes to make these places more respectful of the human dignity of those who inhabit them.

Addressing the theme of accessibility and inclusion “that design must evaluate by proposing a multiplicity of solutions, developing strategies and intervention models capable of presenting themselves as virtuous processes and repeatable practices, [...] projects that integrate architecture with services, and with the territory and the community, that succeed in shifting the concept of disability from the lack of people to the intrinsic possibilities of spaces to be enjoyed” (Baratta, Conti and Tatano, 2019, p. 168).

The ephemeral project interprets fragility as a temporary and “weak project” (Branzi, 2006), in other words, an updated design approach that places the delicate challenges and current needs in the foreground, putting the authorship of the work in the background, even through ephemeral, temporary, dismountable forms (Rocca, 2017), not excluding parasitic strategies (Marini, 2008).

La fragilità come nuovo archetipo: quali forme assume la fragilità nel progetto?

Un tema scottante riguarda il cambiamento climatico, la cui trattazione deve partire dalla constatazione che gli umani sono gli ultimi arrivati nella vita del pianeta e sono in una condizione più simile a quella di ospiti temporanei che padroni esclusivi (Chakrabarty, 2021). In questa direzione assume importanza il progetto di transizione, un ripensamento del rapporto tra umano e natura, per prepararci al grande cambiamento che trasformerà tutti noi e il nostro pianeta con fenomeni climatici estremi, un continuo calo demografico e intere aree del pianeta che diventeranno inabitabili (Vince, 2023). Anche le Alpi stanno vivendo trasformazioni profonde e necessitano di nuovi modelli di sviluppo sostenibile, basati su reti locali e nuove forme di abitare. Se da un lato la montagna attira nuovi abitanti, al tempo stesso si va però fragilizzando a causa di frane, eventi estremi, abbandono dei terreni, siccità e invecchiamento delle popolazioni locali. È importante ricreare un rapporto paritario ed ecosistemico tra montagna e pianura, dentro nuove forme di equilibrio metromontano (Membretti, Barbera e Tartari, 2024).

In altra direzione si orienta l’approccio adattivo e formalista che propone di intervenire sul costruito, considerando la fragilità come valore estetico, funzionale e progettuale, generatore di architetture mutevoli. Costruire nelle “lacune delle costruzioni” sovrascrivendo il senso delle cose – senza temere di lasciare nuovi segni – stratificando l’esistente e aprendo la strada a “singolari dualità in bilico tra apparenza e realtà” (Arcopinto, 2023).

Nella disciplina del restauro, il fragile emerge come eredità del passato da preservare, per scongiurare la ricostruzione in stile e il falso storico a scapito della conservazione della “patina del tempo” quale elemento cardine per conservare l’autenticità dell’opera (Brandi, 1968). L’architettura liberty di Trieste rappresenta un esempio di memoria da preservare attraverso la conservazione della materia.

La disciplina del design della comunicazione si confronta con il progetto fragile anche attraverso le riviste indipendenti, intese come strumento comunicativo effimero, cata-

Fragility as a new archetype: what forms does fragility take in design?

A pressing issue relates to climate change, the focus of which must begin with the realisation that humans are the latest arrivals in the life of the planet and are in a position more resembling temporary guests than exclusive masters (Chakrabarty, 2021). In this direction, the transition project, a rethinking of the relationship between humans and nature, takes on importance in order to prepare us for the great change that will transform all of us and our planet with extreme climatic phenomena, a continuing demographic decline and entire areas of the planet becoming uninhabitable (Vince, 2023). The Alps are also experiencing profound transformation and require new models of sustainable development, based on local networks and new forms of living. While the mountains are attracting new inhabitants, at the same time they become increasingly fragile due to landslides, extreme events, land abandonment, drought and ageing local populations. It is important to recreate an equal and ecosystemic relationship between the mountains and the plains, within new forms of metromontane balance (Membretti, Barbera and Tartari, 2024).

In another direction it is the adaptive and formalist approach that proposes intervention in the built environment, considering fragility as an aesthetic, functional and design value, a generator of changeable architecture. Building in the “gaps of constructions” by overwriting the meaning of things – without fear of leaving new marks – layering the existing and leading the way to “singular dualities poised between appearance and reality” (Arcopinto, 2023).

Within the discipline of restoration, the fragile emerges as a legacy of the past to be preserved, avoiding stylised reconstruction and historical fakes at the expense of preserving the “patina of time” as a pivotal element in preserving the authenticity of the work (Brandi, 1968). The Liberty architecture of Trieste is an example of memory to be preserved through the conservation of matter.

The discipline of communication design also approaches the fragile project through independent magazines, understood as ephemeral communication tools, socio-cultural

lizzatori socioculturali che possono offrire nuove narrazioni e nuove realtà, restituendo importanza alla corrispondenza, intesa come pratica di scambio intellettuale ed emotivo.

Le concrete realtà e gli immaginari narrati provano a delineare i tratti di un’immagine fragile dell’architettura e rappresentano al tempo stesso dei tentativi di mutare il canonico approccio al “bello”: come nella tradizione giapponese del kintsugi, il bello avrà a che fare con una certa dose di imperfezione, di irregolarità e di fragilità, anche dal punto di vista architettonico, tecnologico e ambientale. Può darsi che sia necessario raccogliere i frammenti del nostro fragile presente e costruire con essi le nostre nuove architetture, definire nuovi spazi, ridisegnare il paesaggio.

La bellezza salverà il mondo (Dostoevskij, 1961)?

“Sì, se sapremo riconoscerla: è la bellezza che salverà il mondo” (Zagari, 2013), se sapremo accettare che può esserci bellezza nella disarmonia e che esiste un al di là della bellezza, nel senso classico del termine, in cui l’emozione può sorgere da un “orrore estetizzato” (Morin, 2019). È proprio dalle crepe che può iniziare una nuova realtà (Clément, 2021).*

catalysts that can offer new narratives and new perspectives, restoring importance to correspondence, understood as a practice of intellectual and emotional exchange.

The concrete realities and imagery narrated try to delineate the traits of a fragile image of architecture and at the same time represent attempts to change the canonical approach to “beauty”: as in the Japanese tradition of kintsugi, beauty involves a certain amount of imperfection, irregularity and fragility, also from an architectural, technological and environmental point of view. It may be that we need to assemble the fragments of our fragile present and build our new architectures with them, define new spaces, redesign the landscape.

Can beauty save the world (Dostoevskij, 1961)?

“Yes, if we know how to recognise it: beauty will save the world” (Zagari, 2013), if we know how to accept that there can be beauty in disharmony and that there is something beyond beauty, in the classical sense of the term, where emotion can arise from an “aestheticised horror” (Morin, 2019). It is precisely from the cracks that a new reality can begin (Clément, 2021).*

REFERENCES

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Scavuzzo, G. et al. (2023). Senshome. Architettura e sensibilità atipiche. Siracusa: LetteraVentidue. – Scavuzzo, G., Pratali Maffei, S., Guaragna, G. (a cura di) (2019). Riparare l’umano. Lezioni da un manicomio di frontiera. Siracusa: LetteraVentidue.

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– Vince, G. (2023). Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico. Torino: Bollati Boringhieri.

– Zagari, F. (2013). Sul paesaggio. Lettera aperta. Melfi: Libria.

Materia instabile. F. Martina

Giuseppina Scavuzzo

Professore associato, ICAR/14, Università degli Studi di Trieste. gscavuzzo@units.it

Federica Battarello

Assegnista di ricerca, ICAR/14-INGIND/22, Università degli Studi di Trieste. fbettarello@units.it

Martina Di Prisco

Assegnista di ricerca, ICAR/14, Università degli Studi di Trieste. martinadiprisco@gmail.com

Ripari necessari e sensibili

01. Spazio di recupero sensoriale con poltrona Alone-together sit realizzato presso il museo Immaginario Scientifico di Trieste dal gruppo di ricerca BeSENSHome, 2024 | Alone-toghether sit, a sensory recovery space created at the Immaginario Scientifico museum in Trieste by the BeSENSHome research group, 2024. CCO

Necessary and Sensitive Refuges The Interreg Italy-Austria 21-27

BeSENSHome project aims to study the accessibility of refuge spaces equipped with a sensor system that monitors well-being or discomfort conditions. Such spaces can improve the usability of collective environments – shopping centers, hospital waiting rooms, and railway stations – where neurodiverse individuals, hypersensitive persons, or those experiencing anxiety may encounter sensory overload. The paper illustrates, among the methods adopted in the project, a codesign experience with users, specifically young adults on the autism spectrum, who become cocreators of spaces where the senses of place can be recalibrated. The challenges faced by individuals identified as “vulnerable” can help create more inclusive environments for the entire community.*

Il progetto Interreg Italia Austria 21-27 BeSENSHome si propone di studiare l’accessibilità a spazi-rifugio coadiuvati da un sistema di sensori che consentano di monitorarne le condizioni di benessere o discomfort. Tali spazi possono rendere maggiormente fruibili ambienti collettivi – centri commerciali, sale d’attesa di ospedali e stazioni ferroviarie – in cui persone neurodiverse, ipersensibili o ansiose possono esperire un sovraccarico sensoriale. Il paper illustra, tra i metodi adottati nel progetto, un’esperienza di codesign con gli utenti, giovani adulti nello spettro autistico che diventano cocreatori di luoghi per la ricalibrazione sensoriale. Le sfide affrontate dalle persone definite “fragili” possono contribuire a creare ambienti più inclusivi per l’intera comunità.*

La coprogettazione di spazi-rifugio dal sovraccarico sensoriale

ntroduzione

Le Corbusier definiva l’architettura “costruzione di un rifugio” (Le Corbusier, 1937). L’architettura moderna, tuttavia, sembra aver preferito l’altra, più celebre, sua definizione di architettura come “gioco sapiente, magnifico e corretto dei volumi assemblati sotto la luce” (Le Corbusier, 1923). Seguendo questa aspirazione alla magnificenza, il rifugio descritto da Le Corbusier – che cita la botte di Diogene, il “fragile riparo, quello necessario e sufficiente, che mette al riparo corpo, cuore e pensiero” – quasi scompare dall’agenda della città del XXI secolo. Qui domina il performante e l’efficienza dei luoghi di lavoro e di quelli del divertimento pervasivo su cui si fonda l’experience economy

Eppure, in questa roboante macchina del funzionamento-divertimento, emerge una domanda di protezione, di corpo e pensieri, che segnala forme di fragilità.

Le persone neurodivergenti1 – ovvero con un funzionamento neurologico diverso da quello più diffuso, come le persone nello spettro autistico o altre atipicità sensoriali – si confrontano con il mondo attraverso un modello percettivo diverso da quello previsto dalla standardizzazione modernista e dalle normative contemporanee. La diversità percettiva può esporli a situazioni di disagio, specie in ambienti che non tengono conto delle esigenze sensoriali degli utenti, aumentando il rischio di sovraccarico percepito, legato all’iper o all’iposensibilità (Sanchez et al., 2011). L’ingresso in uno spazio sconosciuto, ad esempio, può intensificare stress e ansia, così come sostare in luoghi affollati o circoscritti come una sala d’attesa. Studi recenti mettono in luce l’importanza di progettare spazi che trasmettano sicurezza e consentano una transizione graduale tra ambienti esterni, aperti e sociali, e quelli interni, raccolti e personali, al fine di fronteggiare il possibile sovraccarico sensoriale (Di Prisco, 2022).

KEYWORDS: INCLUSIONE | INCLUSION; SOVRACCARICO SENSORIALE | SENSORY OVERLOAD; SPAZI PUBBLICI | PUBLIC SPACES

L’installazione A Case for Sensory Decolonisation. Autistic Escape, presentata alla Biennale di Architettura di Venezia del 2023 dall’architetta e docente dell’American University

del Cairo Magda Mostafa, declina il tema della decolonizzazione, centrale nella mostra veneziana, in termini di percezione sensoriale (Mostafa, 2021).

Mostafa denuncia quanto, nelle città contemporanee, spazi e superfici siano divenuti supporti per media che si contendono la nostra attenzione di potenziali consumatori. La nostra percezione sensoriale è divenuta una merce e il nostro stesso mondo sensoriale è colonizzato da questa logica, esponendo a un sovraccarico di stimoli (luci, suo-

Il

progetto BeSENSHome

con autismo in età adulta e l’ambiente costruito, si è focalizzata sull’aspetto residenziale (Limoncin e Dordolin, 2023), occupazionale (Jelic et al., 2024), educativo (Mostafa, 2014) o virtuale (Lee, 2018); la dimensione comunitaria, in cui il soggetto affronta un contesto più ampio e sconosciuto, sentendosi più vulnerabile, richiede ancora un maggior grado di approfondimento.

si prefigge di costruire approdi sicuri in spazi affollati e rumorosi

ni, odori) che rende certi ambienti faticosi soprattutto per persone in una condizione di vulnerabilità legata all’età o a sensorialità atipiche (Spence, 2020).

L’onere di adattarsi alle sfide sensoriali ricade quasi interamente sugli utenti fragili, perché chi progetta gli spazi è sollevato da responsabilità nei confronti di queste esigenze, ancora poco previste dalle normative.

L’Autistic Escape (img. 02) – una postazione circondata da una tenda oscurante e fonoassorbente – è il manifesto di una strategia spaziale di decolonizzazione delle città e degli ambienti in cui viviamo. L’obiettivo dichiarato è imparare dalle sfide affrontate dalle persone con disabilità a creare ambienti più inclusivi per l’intera comunità.

Per farlo diventa essenziale comprendere nel processo progettuale tutti i possibili fruitori, con diversi background, competenze e capacità nel processo di adattamento sensoriale, ovvero scegliere un percorso di progettazione partecipata.

Obiettivi

La maggior parte delle ricerche e sperimentazioni sulle relazioni tra le diverse percezioni sensoriali delle persone

Il progetto di ricerca BeSENSHome2 muove da questi obiettivi, proponendosi di studiare l’accessibilità a luoghi aperti al pubblico attraverso la progettazione integrata di spazi-rifugio. L’architettura di tali ambienti, coadiuvata da un sistema di sensori che consentano di monitorare le condizioni di benessere o discomfort ambientale, ha lo scopo di rendere maggiormente fruibili spazi collettivi – centri commerciali, sale d’attesa di ospedali e stazioni ferroviarie – dove persone neurodiverse, ipersensibili o ansiose possono esperire un sovraccarico sensoriale. Il concetto di decolonizzazione del mondo sensoriale, come inteso da Magda Mostafa, implica anche un nuovo modo di progettare lo spazio, che includa le persone, con le loro diverse peculiarità, nei processi decisionali, anche attraverso processi di coprogettazione.

Per affrontare la prima definizione di questi spazi calmi, capire dove potrebbero risultare di primaria utilità e come dovrebbero essere sviluppati per poter diventare davvero fruibili, è stato scelto un approccio di codesign condotto insieme ai possibili utenti. Il valore di tale approccio è dimostrato da esperienze analoghe disponibili in letteratura (Maun et al., 2021) nonché dall’esperienza già consolidata dal gruppo di ricerca nello studio sugli spazi domestici3. La progettazione partecipata traduce il motto “Nothing about us without us” in soluzioni spaziali che rispondano ai bisogni degli utenti, coinvolgendoli come cocreatori attivi di luoghi destinati, in questo caso, alla ricalibrazione sensoriale, in cui regolare le risposte allo stress e ritrovare la concentrazione.

02. Un caso studio di decolonizzazione sensoriale: un rifugio per l’autismo, M. Mostafa, Biennale di Venezia 2023 | A Case for Sensory Decolonisation: Autistic Escape, M. Mostafa, Venice Biennale 2023. Foto autrici

Approcci e metodi

L’attività di codesign è stata condotta dalle tre autrici attraverso un workshop di progettazione che ha coinvolto tre giovani adulti nello spettro autistico ad alto funzionamento (HFASD)4 che frequentano il centro diurno della Fondazione Progettoautismo FVG Onlus, partner del progetto BeSENSHome.

Il workshop ha offerto l’occasione di approfondire e confermare quanto la presenza di spazi rifugio all’interno di ambienti ad alto impatto sensoriale possa rispondere alle esigenze di persone con sensibilità atipiche.

Articolato in cinque incontri, il workshop inizialmente intitolato My spot, aveva l’obiettivo del codesign di box in cui inserire i sensori per la rilevazione dei diversi parametri ambientali. Le prime discussioni con i partecipanti hanno fatto emergere, tuttavia, l’esigenza di immaginare prima gli spazi piuttosto che solo un oggetto. Questo ha dato avvio a un confronto sui bisogni dei partecipanti rispetto a diversi luoghi pubblici.

Tra i principali problemi di sovrastimolazione riscontrati all’interno di questi luoghi sono stati segnalati condizioni climatiche poco confortevoli, rumore eccessivo e affollamento. Questi fattori rendono tali ambienti talmente an-

goscianti che qualcuno tra i partecipanti preferisce evitarli. Dalle discussioni è emerso che la consapevolezza della presenza di uno spazio-rifugio dedicato al riequilibrio sensoriale in luoghi come sale d’attesa ospedaliere, stazioni aeroportuali o ferroviarie, o nelle hall di centri commerciali, potrebbe rappresentare una soluzione rassicurante, efficace a rendere questi ambienti più fruibili e meno opprimenti, consentendo di frequentarli con maggiore serenità.

Il workshop ha preso quindi una diversa direzione per cui è stato scelto un nuovo titolo: My spot, il mio posto, un posto per me. Ogni partecipante ha individuato luoghi particolarmente impegnativi e definito le forme e le caratteristiche di possibili spazi calmi al loro interno. Individuati i luoghi, si è passati all’elaborazione di una pianta in scala 1:20 e, successivamente, di modelli tridimensionali in scala (img. 03).

Risultati e discussione

Uno dei partecipanti ha immaginato un luogo di sosta all’interno di un ambiente caotico come un aeroporto (img. 04). Questo locus amoenus, come definito dal suo autore, è uno spazio rettangolare, luminoso e tranquillo, rigorosamente simmetrico, ritmato da elementi posti a distanze costanti,

03. Fase di lavoro durante il workshop di codesign My spot condotto dalle autrici coi giovani ospiti del centro diurno di Progettoautismo FVG, 2024 | Work phase during the My spot codesign workshop conducted by the authors with the young guests of the Progettoautismo FVG day centre, 2024. Foto autrici

caratteristiche ritenute ideali per ritrovare la quiete. Una delle pareti è completamente vetrata e dotata di pannelli oscuranti bianchi opachi, disposti su binari verticali che consentono diversi assetti per filtrare la luce garantendo una vista sul paesaggio esterno. Tre elementi verticali, possibili supporti per le box dei sensori, proteggono la zona con le sedute dallo spazio di circolazione e passaggio tra entrata e uscita. Lo spazio di attesa presenta un tavolo ovale attorno al quale sono disposte due poltrone per lato. Sul tavolo si trova lo schermo che fornisce ai viaggiatori le informazioni

locato un quadro con un paesaggio al tramonto, ritenuto un’immagine rilassante.

Uno dei metodi adottati nel progetto è il codesign condotto insieme agli utenti

sui voli fungendo da separazione visiva tra le poltrone. Alle pareti, dietro alle poltrone, sono appese tele bianche o con composizioni astratte di colori tenui, che rendono confortevole l’ambiente senza imporre immagini precise. Lo spazio è pensato per accogliere al massimo quattro persone che possono modificare la neutralità dell’ambiente mediante l’attivazione dei sensori che monitorano diversi parametri e danno la possibilità di regolare intensità e colore della luce. La seconda partecipante ha proposto una stanza per il rilassamento e l’isolamento da inserire all’interno di una biblioteca pubblica (img. 05). La stanza è quadrata e guarda all’esterno attraverso un’ampia finestra incorniciata da tende bianche. Gli arredi sono costituiti da una postazione con scrivania e sedia, un tappeto verde leggermente decentrato, una poltrona rossa affiancata da un tavolino circolare e una panca posta di fronte a un distributore di caffè e snack. I tavolini, il pavimento e anche il dettaglio del battiscopa sono in legno chiaro mentre per le pareti è stata scelta una carta da parati che rappresenta e trasporta dentro una foresta tropicale. Su una parete, visibile dalla scrivania, è col-

Il terzo partecipante ha immaginato uno spazio tranquillo da collocare in contesti legati alla salute, come sale d’aspetto di studi medici o di ospedali (img. 06). Anche in questo caso la stanza è quadrata e la collocazione degli accessi – due ingressi laterali e uno centrale – e delle finestre è simmetrica. L’ingresso centrale dà accesso a un corpo ribassato inserito nella stanza e coperto da una volta a botte. Questo elemento chiuso su tre lati presenta verso la stanza un bancone in legno e funge da reception. Il pavimento è in legno chiaro, il blocco centrale è rivestito in pietra, le altre pareti sono in stucco rosato con effetto spatolato o nuvolato. Gli arredi sono minimali: una poltrona e un tavolino quadrato in legno posizionati in angolo.

I tre progetti si distinguono nettamente tra loro rispetto alle scelte cromatiche e i riferimenti stilistici, rispecchiando i gusti diversi degli autori. Come già emerso dalle precedenti esperienze del gruppo di ricerca, “le discordanze e i riscontri rispetto al piano teorico della letteratura hanno confermato la necessità di una verifica attraverso la sperimentazione partecipata” (Scavuzzo et al., 2023) con il coinvolgimento degli utenti, delle loro culture dell’abitare e immaginari spaziali. Gli esiti del workshop presentano anche alcune costanti, confermando, rispetto alla letteratura, la preferenza delle persone nello spettro autistico per spazi simmetrici o che consentano una chiara comprensione della disposizione generale e una “controllabilità” degli accessi, caratteristiche che contribuiscono a una sensazione di sicurezza. Dai progetti emerge che la vista verso l’esterno, preferibilmente verso spazi aperti e verdi, contribuisce a stemperare la tensione legata alle diverse attività da affrontare – il viaggio, la visita medica, l’impegno dello studio. Alcune scelte, pur col ricorso a materiali diversi, hanno in comune la volontà di conferire un’atmosfera intima e ca-

04. Primo modello di spazio di recupero sensoriale realizzato nell’ambito del workshop di codesign My spot: sala d’attesa di stazione aeroportuale | First model of sensory recovery space created as part of the My spot codesign workshop: airport station waiting room. Foto autrici

05. Secondo modello di spazio di recupero sensoriale realizzato nell’ambito del workshop di codesign My spot: spazio calmo per biblioteca | Second model of sensory recovery space created as part of the My spot codesign workshop: calm space for library. Foto autrici

06. Terzo modello di spazio di recupero sensoriale realizzato nell’ambito del workshop di codesign My spot: sala d’attesa per ospedale/ambulatorio medico. Third model of sensory recovery space created as part of the My spot codesign workshop: waiting room for hospital/ medical clinic. Foto autrici

ratteri di domesticità: il tappeto, le tende, i quadri, la carta da parati. La prima e la terza soluzione sembrano anche animate dalla preoccupazione di non imporre, a chi vi si rifugia, scelte troppo invadenti, in un caso lasciando anche margini di personalizzazione all’utente.

I risultati di questa esperienza, sommati agli esiti di un precedente progetto Interreg in cui le autrici stesse erano state coinvolte, hanno permesso al gruppo di ricerca BeSENSHome di realizzare un primo esempio di spazio per la decompressione sensoriale negli spazi espositivi dell’Immaginario Scientifico di Trieste (img. 01), per offrire ai visitatori del museo un angolo protetto dal troppo rumore che

Il workshop ha coinvolto tre giovani

seduta all’interno, mantenendo in secondo piano i rumori provenienti dall’esterno e fornendo un temporaneo riparo da livelli sonori “triggeranti”. La dimensione del rifugio, pensato originariamente per utilizzo in ambito domestico5, è studiata per ospitare fino a due persone o permettere di assumere anche posizioni diverse, fino a voltare le spalle all’ambiente circostante. Intorno alla seduta sono posizionati pannelli in materiale fonoassorbente, alle pareti o freestanding a delimitare visivamente l’area e ridurvi il riverbero interno. Alcuni pannelli fonoassorbenti sono anche esplicativi: raccontano ai visitatori cosa siano le sensorialità atipiche, quali difficoltà possano comportare e come le proprietà acustiche di alcuni materiali possano ridurre il disagio.

adulti nello spettro autistico ad alto

funzionamento

può sovrastare il percorso di visita quando molto affollato.

La forma avvolgente della seduta Alone-toghether sit e il particolare rivestimento interno in materiale fonoassorbente intervengono sul campo sonoro vicino della persona

Qualunque utente può sperimentare il valore del corner rifugio per isolarsi e ricalibrare il proprio equilibrio sensoriale prima di immergersi nuovamente nel percorso di visita, acquisendo maggiore consapevolezza della propria sensorialità, della molteplicità delle sensibilità in altri soggetti e della pressione eccessiva a cui tutti, spesso, siamo sottoposti. In questo modo l’area rifugio amplia l’accessibilità del museo divenendo anche

04. Diagramma delle fasi di lavoro del workshop di codesign My spot | Diagram of the work phases of the My spot codesign workshop. Immagine autrici

strumento di divulgazione scientifica e diffusione di una cultura dell’inclusione.

I dispositivi smart coadiuvati da intelligenza artificiale, previsti come ulteriore ausilio dal progetto BeSENSHome, permetteranno all’utente con atipicità sensoriale di modificare sulle proprie preferenze quei parametri di illuminazione, suono, temperatura e qualità dell’aria che possono influire fortemente sul comfort personale all’interno di ambienti che espongono al rischio di stress e sovrastimolazione.

Conclusioni

In La poetica dello spazio, tra le immagini archetipiche dell’abitare, compare il nido, piccolo rifugio in cui trovare una calda protezione. Il nido è caratterizzato dal paradosso per cui la sicurezza che assicura, “il nido accudisce, al nido si ritorna” (Bachelard, 1957), coesiste con la fragilità della costruzione effimera di ramoscelli e pagliuzze. Il paradosso fragile/sicuro rappresenta per l’autore la fiducia di potersi avventurare nel mondo, purché si possa contare su un minimo rifugio rassicurante.

I ripari, oggetto della ricerca descritta e ancora in fase sperimentale, intendono essere discreti e rassicuranti come nidi che, coadiuvati dalle tecnologie più sensibili, siano in grado di offrire protezione a chi è più esposto al sovraccarico di impulsi. Dare voce a chi non si adegua alla colonizzazione e al sovraccarico sensoriale, perché non può, non riesce o preferisce evitarlo, può favorire la consapevolezza diffusa che ritmi, rumori, luminosità eccessive sono faticose non solo per le persone autistiche e promuovere una progettazione degli spazi collettivi più rispettosa di tutti gli utenti.*

NOTE

1 – Judy Singer, sociologa con tratti autistici, nel 1998 conia il termine “neurodiversità”, enfatizzando le qualità e le risorse delle persone neurodiverse, viste come variazioni normali della neurologia umana.

2 – Progetto Interreg Italia-Austria 2021-2027 BeSENSHome. Sensori applicati ad ambienti sensibili. Spazi inclusivi dove è normale essere speciali, CUP: J93C23001580002 (besenshome.units.it, ultimo accesso febbraio 2025).

3 – Il seguente gruppo di ricerca aveva svolto nel 2021, con il progetto SENSHome, una prima esperienza di codesign attraverso il workshop In my room, finalizzato alla progettazione di uno spazio residenziale.

4 – L’High Functioning Autism Spectrum Disorder, HFASD, sulla base del DSM-5 può essere ricondotto a una diagnosi di ASD con il livello di gravità più basso, cioè senza deficit cognitivi e della comunicazione verbale (Narzisi, 2017).

5 – La seduta era stata già studiata dall’unità di ricerca dell’Università di Trieste, responsabile scientifico prof.ssa Giuseppina Scavuzzo, nell’ambito del progetto Interreg Italia-Austria 2014-2020 SENSHome, che aveva come obiettivo l’abitare, quanto più autonomo possibile, delle persone autistiche.

REFERENCES

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Introduction

Le Corbusier described architecture as the “construction of a shelter” (Le Corbusier, 1937), but modern architecture seems to have favoured his other, more celebrated definition of architecture as “skilful, rigorous and magnificent play of volumes assembled in light” (Le Corbusier, 1923). In aspiring to this magnificence, the refuge Le Corbusier depicted – referencing Diogenes’ barrel, the “fragile shelter, the one that is necessary and sufficient, providing a haven for body, heart, and thought” – has nearly disappeared from the agenda of 21st century cities. Here, the pursuit of performance and efficiency dominates, shaping workspaces and the pervasive entertainment environments that underpin the experience economy.

Yet, amid this clamorous machinery of function and leisure, there arises a demand for protection – of body and mind – that reveals forms of vulnerability.

Neurodiverse individuals1 – those with neurological functioning that differs from the norm, such as people on the autism spectrum or with other sensory atypicalities – perceive the world through models that diverge from those anticipated by regulations and modernist standardisation. This perceptual diversity can expose them to discomfort, particularly in environments that fail to account for specific sensory needs, heightening the risk of sensory overload linked to hyper- or hyposensitivity (Sanchez et al., 2011). For example, entering an unfamiliar space may exacerbate stress and anxiety, as can remaining in crowded or confined places like waiting rooms. Recent studies highlight the importance of designing spaces that convey safety and allow for a gradual transition between external, open, social environments and internal, intimate, personal ones to mitigate potential sensory overload (Di Prisco, 2022).

At the 2023 Venice Architecture Biennale, the installation A Case for Sensory Decolonisation: Autistic Escape by architect and American University in Cairo professor Magda Mostafa re-

Giuseppina Scavuzzo, Federica Battarello,

Necessary and Sensitive Refuges

Codesigning Spaces as a Refuge from Sensory Overload

framed the central theme of decolonisation in terms of sensory perception (Mostafa, 2021).

Mostafa critiques how, in contemporary cities, spaces and surfaces have become platforms for media competing for our attention as potential consumers. Our very sensory perception has been commodified, colonised by this logic, subjecting us to an overload of stimuli (light, sound, smells) that renders certain environments overwhelming – particularly for individuals facing vulnerabilities related to age or atypical sensory processing (Spence, 2020).

The burden of adapting to sensory challenges falls almost entirely on vulnerable users, while those designing spaces are largely exempt from responsibility for these needs, which remain poorly addressed in current regulations.

The Autistic Escape (img. 02) – a spot enclosed by a darkening, sound-absorbing curtain – is a manifesto for a spatial strategy of decolonising cities and the environments we inhabit. Its stated goal is to learn from the challenges faced by disabled individuals in order to create more inclusive spaces for the wider community.

Achieving this requires integrating all potential users – each with different backgrounds, skills, and capacities for sensory adaptation – into the design process. In other words, it calls for adopting participatory design approaches.

Targets

Most research and experiments investigating the relationship between sensory perceptions of autistic adults and the built environment have focused on residential (Limoncin and Dordolin, 2023), occupational (Jelic et al., 2024), educational (Mostafa, 2014), or virtual settings (Lee, 2018). However, the community dimension – where individuals encounter broader, unfamiliar contexts and feel more vulnerable –remains an area requiring further exploration. The research project BeSENSHome2 addresses these objectives, aiming to study the accessibility of public spaces through the integrated design of calming environments. The architecture of such spaces, supported by a sensor sys-

tem that monitors environmental well-being or discomfort, seeks to enhance the usability of collective environments such as shopping centres, hospital waiting rooms, and railway stations, where neurodiverse, hypersensitive, or anxious individuals may experience sensory overload.

The concept of decolonising the sensory world, as articulated by Magda Mostafa, also suggests a new way of designing spaces – one that includes people with diverse characteristics in decision-making processes, often through codesign methods.

To define these calming spaces effectively, determine their areas of greatest utility, and develop them to ensure true usability, a codesign approach was selected, conducted in collaboration with potential users. The value of this approach is supported by analogous experiences in the literature (Maun et al., 2021) and by the research team’s prior work on domestic spaces3. Participatory design translates the ethos of “Nothing about us without us” into spatial solutions that meet users’ needs, engaging them as active cocreators of spaces for sensory recalibration, where stress responses can be regulated, and concentration restored.

Approaches and Methods

The codesign activity was led by the three authors through a design workshop involving three high-functioning autistic young adults (HFASD)4 who attend the day centre of the Progettoautismo FVG Onlus Foundation, a partner in the BeSENSHome project.

The workshop provided an opportunity to deepen and confirm how the presence of refuge spaces within high-sensory-impact environments could address the needs of people with atypical sensitivities.

Structured into five sessions, the workshop –initially titled My Box – focused on the codesign of boxes to house sensors for detecting various environmental parameters. However, early discussions with participants revealed a need to envision the spaces themselves rath-

er than just an object. This shift prompted a broader discussion about the participants’ needs in different public places.

Key challenges of sensory overstimulation reported in these spaces included uncomfortable climatic conditions, excessive noise, and overcrowding. These factors made such environments so distressing that some participants preferred to avoid them altogether. The discussions revealed that knowing a dedicated sensory refuge space existed – within hospital waiting rooms, airport or train stations, or shopping centre halls – could provide reassurance and make these environments more accessible and less overwhelming, allowing individuals to navigate them with greater ease. As a result, the workshop took a different direction and was renamed My Spot – my place, a place for me. Each participant identified particularly challenging locations and defined the forms and characteristics of potential calming spaces within them. Once these locations were identified, participants developed scaled floor plans (1:20) and subsequently created threedimensional scale models (img. 03).

Results and Discussion

One participant envisioned a rest area within a chaotic environment such as an airport (img. 04). This locus amoenus, as they called it, is a rectangular, bright, and tranquil space, characterised by strict symmetry and rhythmically spaced elements – features deemed ideal for fostering a sense of calm. One wall is fully glazed and fitted with opaque white blackout panels mounted on vertical tracks, allowing various configurations to filter light while maintaining a view of the external landscape. Three vertical elements, which could serve as supports for sensor boxes, shield the seating area from the circulation and transit space between the entrance and exit. The waiting area features an oval table surrounded by two armchairs on each side. A screen on the table provides travellers with flight information while also acting as a visual partition between the chairs. On the walls behind the chairs are white canvases or abstract compositions in muted tones, which enhance the comfort of the environment without imposing specific imagery. The space is designed to accommodate a maximum of four people, with the option to customise the environment’s neutrality through sensor systems that monitor various parameters and allow for adjustments in colour and lighting.

A second participant proposed a room for relaxation and isolation to be incorporated into a public library (img. 05). This square room features a large window framed by white curtains, offering an external view. The furnishings include a workstation with a desk and chair, a slightly off-centre green rug, a comfortable red armchair paired with a small circular side table, and a bench positioned opposite a coffee and snack dispensing machine. The tables, flooring, and even the skirting boards are made of light wood, while the walls are adorned with wallpaper depicting a tropical forest. A painting of a sunset, intended as a relaxing image, is hung on a wall visible from the desk.

The third participant imagined a tranquil space to be located in healthcare settings, such as waiting rooms in medical practices or hospitals (img. 06). This square room features a symmetrical arrangement of access points – two lateral entrances and one central – and windows. The central entrance leads to a lowered structure within the room, covered by a barrelvaulted ceiling. This enclosed element, open on one side with a wooden counter facing the room, functions as a reception area. The flooring is light wood, and the walls feature textured finishes: the central block is clad in stone, while the other walls are finished in pink stucco with a spatula or cloud effect. The furnishings are minimal, consisting of a single armchair and a square wooden side table positioned in the corner.

The three designs differ significantly in their colour choices and stylistic references, reflecting the diverse tastes of their creators.

As observed in previous experiences of the research group, “discrepancies and feedback compared to the theoretical framework in the literature confirmed the need for validation through participatory experimentation” (Scavuzzo et al., 2023), involving users, their living cultures, and spatial imaginaries. Nonetheless, the workshop outcomes also reveal certain constants, confirming, in line with the literature, that autistic individuals often prefer spaces that are symmetrical or allow for a clear understanding of layout and the possibility of controlling access points, which are features that contribute to a sense of security. The projects and discussions also highlight that views of the outdoors, particularly open green spaces, help alleviate tension associated with various activities, such as travel, medical visits, or study commitments.

Some design choices, despite using different materials, share a common intention to create an intimate atmosphere with a sense of domesticity: rugs, curtains, paintings, and wallpaper. The first and third solutions also demonstrate a concern for not imposing overly intrusive choices on those seeking refuge, allowing some degree of personalisation in one case.

The results of this experience, supported by the findings of a previous Interreg project in which the authors were involved, enabled the BeSENSHome research group to create a prototype sensory decompression space in the exhibition area of the Immaginario Scientifico in Trieste (img. 01). This space offers museum visitors a “preferential escape route” to momentarily retreat from the excessive noise that can overwhelm the experience when the exhibition itinerary is very crowded.

The enveloping shape of the seating and its special internal lining of sound-absorbing material reduce the nearby sound field of the seated individual, muting external noise and creating a temporary refuge from “triggering” sound levels. Originally designed for domestic use5, the refuge’s dimensions accommodate up to two people or allow for different postures, including turning one’s back to the surrounding environment. Around the seating are sound-absorbing panels, either wall-mounted or freestanding, to visually delimit the area and

reduce internal reverberation. Some panels also serve an educational purpose, explaining atypical sensory experiences, the challenges they pose, and how the acoustic properties of certain materials can alleviate discomfort. All users can experience the value of this sensory refuge corner, isolating themselves and recalibrating their sensory balance before reengaging with the museum’s exhibits. This fosters greater awareness of one’s own sensory experiences, the diversity of sensitivities in others, and the excessive pressures to which we are all often subjected. This way, the refuge area enhances the museum’s accessibility while also serving as a tool for scientific dissemination and promoting a culture of inclusion.

The development of smart devices supported by artificial intelligence, as envisioned in the BeSENSHome project, will further empower sensory-diverse users to adapt environmental parameters – lighting, sound, temperature, and air quality – to their needs, significantly improving comfort within inherently challenging spaces.

Conclusions

In The Poetics of Space, among the archetypal images of dwelling, the nest appears – a place where warm security coexists with the fragility of its ephemeral construction. Specifically, the nest embodies the paradox whereby the comforting safety it provides – “the nest shelters; one returns to the nest” (Bachelard, 1957) – exists alongside the fragility of its fleeting assembly of twigs and straw. This fragile/secure paradox seems to represent the confidence to venture into the world, provided one can rely on a minimal, reassuring refuge.

The shelters explored in this research, which are still in the experimental phase, aim to be as discreet and reassuring as nests. Assisted by the most sensitive technologies, they are capable of offering protection to those most susceptible to sensory overload. Giving a voice to those who cannot, are unable to, or prefer not to give in to sensory colonisation and overload can foster widespread awareness that excessive rhythms, noise, and brightness are taxing not only for autistic individuals. This, in turn, promotes the design of collective spaces that are more respectful of all users.*

NOTES

1 – In 1998, sociologist Judy Singer, who is herself autistic, coined the term “neurodiversity,” highlighting the qualities and strengths of neurodiverse individuals, recognising them as normal variations of human neurology.

2 – Interreg Italy-Austria Project 2021-2027: BeSENSHome. Sensors Applied to Sensitive Environments. Being Normally Special In Inclusive Spaces, CUP: J93C23001580002 (besenshome.units.it).

3 – The research group previously undertook a codesign experience in 2021 as part of the SENSHome project, through the workshop In My Room, which focused on the design of a residential space.

4 – High-Functioning Autism Spectrum Disorder (HFASD), as classified under the DSM-5, corresponds to a diagnosis of ASD with the lowest severity level, characterised by the absence of cognitive and verbal communication deficits (Narzisi, 2017).

5 – The seating had already been developed by the research unit at the University of Trieste, under the scientific supervision of Prof. Giuseppina Scavuzzo, as part of the 2014-2020 Interreg Italy-Austria SENSHome project, which aimed to promote the most autonomous living possible for autistic individuals.

Paolo

PhD, Ricercatore, Transitional Morphologies Joint Research Unit, Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino. paolo.bianco@polito.it

Movimenti verticali e azioni orizzontali

01. Seduced and Abandoned. T. Clavarino, 2019

Vertical Movements and Horizontal Actions The Alps are undergoing profound transformations driven by the climate crisis: rising temperatures and decreasing snowfall threaten local economies, particularly winter tourism. This contribution examines initiatives at various scales that foster the transition of Alpine communities through new territorial development models. In this historical moment, the growing interest in sustainable tourism and trends in vertical migration present opportunities to rethink the region. Innovative tools, design approaches, and shared experiences can help enhance existing heritage and local resources while addressing challenges such as uncontrolled urbanization and eco-gentrification.*

Le Alpi stanno vivendo trasformazioni profonde sotto la spinta della crisi climatica: l’aumento delle temperature e la riduzione dell’innevamento mettono in crisi le economie locali, in particolare il turismo invernale. Questo contributo esplora iniziative a diverse scale che promuovono la transizione delle comunità alpine attraverso nuovi modelli di sviluppo territoriale. In questo momento storico, il crescente interesse per un turismo sostenibile e i fenomeni di migrazione verticale rappresentano opportunità per ripensare il territorio. Strumenti innovativi, progettualità ed esperienze condivise possono aiutare a valorizzare il patrimonio esistente e le risorse locali, affrontando al contempo sfide come l’urbanizzazione incontrollata e l’ecogentrificazione.*

Strategie di transizione e reinsediamento nelle Alpi della crisi climatica

Temperature che salgono e scenari che mutano

La fragilità ecologica ha messo in crisi le attribuzioni di senso che hanno visto le Alpi passare da terribile terra di ghiacci e demoni a luogo sublime e immutabile, per divenire infine un’appendice urbana votata al tempo libero (De Rossi, 2014). Definite nel 1871 da Leslie Stephen The Playground of Europe, negli ultimi 200 anni le Alpi sono state narrate come un luogo del divertimento e degli sport estremi, dove schiere di alpinisti e sciatori mossi da cliché di superomismo, feticismo tecnico e disamore per la natura (Stile Alpino, 2020) hanno cercato di superare i limiti della configurazione ambientale. Queste narrative, oggi superate, limitano l’uso consapevole del territorio, soprattutto alla luce del “nuovo regime climatico” (Latour, 2020) che accelera a un ritmo senza precedenti in questi luoghi, particolarmente vulnerabili al riscaldamento globale. Nell’ultimo decennio le temperature sulle Alpi sono aumentate due volte più velocemente rispetto al resto d’Europa, provocando una riduzione nell’innevamento e il ritiro dei ghiacciai (Legambiente, 2024). Presso l’Osservatorio del Gran San Bernardo, nel periodo tra il 1864 e il 2023, è stata misurata una variazione di +2,3°C (Mercalli, 2024) e le previsioni indicano un ulteriore aumento per il prossimo trentennio di +1,5-2°C nel periodo estivo e di +1°C nel periodo invernale (Faggian, 2015). Le stesse previsioni, per le aree alpine, indicano un aumento di +2°C che avrà ripercussioni su 14 milioni di abitanti, trentamila specie animali e tredicimila vegetali (Convenzione delle Alpi, 2021). I cambiamenti negli equilibri della criosfera stanno esponendo sempre più frequentemente infrastrutture e centri abitati a eventi di rischio idrogeologico, mentre la scarsità di precipitazioni e l’estinzione dei ghiacciai stanno riducendo la portata dei bacini idrici di diversi Paesi europei (IPCC, 2022; Agenzia europea dell’ambiente, 2009), con impatti importanti sulle economie locali.

KEYWORDS: ALPI | ALPS; CAMBIAMENTO CLIMATICO | CLIMATE CHANGE; TRANSIZIONE | TRANSITION

La crisi climatica ha evidenti ricadute sul turismo della neve: la durata del manto nevoso, tra i 1.000 e 2.000 m, si è

ridotto in media di 34 giorni nell’ultimo secolo (Legambiente, 2024), comportando un accorciamento della stagione sciistica e il sempre più frequente ricorso all’innevamento artificiale, con alti costi economici e ambientali. Sotto i 1.800 m la mancanza di neve sta causando la chiusura degli impianti e delle attività correlate, con ingenti perdite in termini di posti di lavoro: una vera e propria crisi delle comunità alpine che per decenni hanno investito esclusivamente in questo comparto e si trovano oggi senza alternative economiche e occupazionali. In Piemonte, ad esempio, il 15% delle stazioni sciistiche è già stato dismesso e le previsioni indicano che anche stazioni come Bardonecchia e Sestriere chiuderanno entro i prossimi trent’anni (Legambiente, 2024; Ferrari, 2023).

daranno luogo a estati insopportabili, soprattutto in Pianura padana (Mercalli, 2024), al punto da spingere coloro che possono a cercare refrigerio altrove. Questo fenomeno di spostamento, iniziato nel 2008 con la crisi del modello di sviluppo dei grandi centri urbani (Balducci, 2019), con l’emergenza del COVID-19 ha subito un’accelerazione (Barbera et al., 2024) e oggi è favorito anche da altri fattori come il minor costo della vita, le flessibilità lavorative e gli incentivi a favore delle imprese e dei giovani che si trasferiscono nelle aree rurali (Pagliuca, 2021).

Nell’ultimo decennio, le temperature sulle Alpi sono aumentate due volte più velocemente rispetto al resto d’Europa

Gli effetti del cambiamento climatico non coinvolgono solo i territori montani, ma colpiscono soprattutto le aree urbane di valle. Gli aumenti esponenziali delle temperature e la concentrazione di inquinanti nell’aria, entro fine secolo,

Senza cadere in narrazioni eccessivamente ottimistiche, questi pull e push factors rendono i territori montani più attrattivi. Anche se il cambiamento nella relazione tra città e montagna sta richiedendo una sostanziale revisione delle narrazioni urbanocentriche (Cinieri e Tognon, 2021), che relegavano la montagna a semplice luogo di loisir, negli ultimi decenni sono diversi i segnali di controtendenza. Sebbene frammentario e circoscritto, il fenomeno di ritorno e reinsediamento nei territori montani suggerisce una rinnovata attenzione verso le risorse e le opportunità locali offerte dalle “terre alte” (Corrado et al., 2014). In questo quadro, il recente incremento demografico registrato nell’ultimo triennio (ISTAT, 2020) rappresenta un primo segnale di una possibile risalita in montagna che, pur non essendo un

02. Seduced and Abandoned. T. Clavarino, 2019

destino obbligato, è un fenomeno reale che sta causando problematiche inaspettate, come l’aumento del consumo di suolo e lo stress di infrastrutture e servizi, impreparati a gestire i numeri in crescita (Dematteis, 2020).

I dubbi della crisi

Il turismo della neve sulle Alpi è da tempo in crisi, ma il fenomeno persiste a causa di comunità locali che sottovalutano l’entità del problema e di una classe politica concentrata sul consenso elettorale (Ferrari, 2023). Anche se oggi si assiste a un ripensamento che privilegia esperienze autentiche ed ecologicamente sostenibili (Dematteis, 2024), questo nuovo modello di turismo, se non regolamentato, rischia di intensificare il consumo delle risorse naturali e di aggravare fenomeni come overtourism ed eco-gentrification (Perlik, 2011). Parallelamente, il reinsediamento alpino potrebbe rappresentare un’opportunità per rilanciare l’economia montana, ma una gestione inadeguata rischia di aggravare un sistema già fragile. Le migrazioni verticali, pur portando innovazione, potrebbero generare nuove disuguaglianze, con la formazione di gated communities (Membretti, 2024) e un’ulteriore urbanizzazione delle Alpi, già profondamente modificate dalla proliferazione di seconde case, complessi alberghieri e impianti di risalita.

In questo contesto è fondamentale interrogarsi sulle potenzialità trasformative del patrimonio edilizio esistente e delle infrastrutture del turismo, che dovranno adeguarsi

alle esigenze di nuovi residenti, spesso provenienti dallo stesso ambito metropolitano e quindi poco inclini a rinunciare ai comfort della vita urbana (Keeling, 2024). A questo, si aggiunge la scarsa capacità dei “nuovi montanari” di utilizzare efficacemente i fondi, sia pubblici che privati, soprattutto a causa della mancanza di competenze specifiche.

Strategie di transizione

Oggi le Alpi possono essere considerate come un laboratorio di sperimentazione, dove mettere alla prova strategie territoriali e politiche e governance che pongono al centro lo sviluppo locale attraverso azioni multiscalari. Anche se manca una vera e propria progettualità alla scala architettonica, sono molti i seminari e i progetti di ricerca che si concentrano sul futuro del patrimonio costruito, nel tentativo di dare risposta alle necessità emerse con la pandemia (Cinieri e Tognon, 2021). Sono più che altro esperienze che indagano le potenzialità dello spazio e che, attraverso usi temporanei e azioni collettive, provano a innescare nuove prospettive e opportunità.

Un esempio è Dolomiti Contemporanee, che dal 2011 promuove la riattivazione di spazi dismessi nelle Dolomiti reinterpretando il territorio come un laboratorio culturale e artistico, piuttosto che un luogo di turismo passivo. Attraverso un approccio alternativo, il progetto rigenera siti industriali, fabbriche abbandonate e complessi turistici dismessi, trasformandoli temporaneamente in centri di pro-

03. Seduced and Abandoned. T. Clavarino, 2019

duzione culturale, residenze artistiche e spazi espositivi. Questi interventi, sostenuti da una vasta rete di collaborazioni pubblico-private, mirano a ridare valore economico e sociale a luoghi trascurati, combinando arte, cultura e territorio in processi di rigenerazione che favoriscono anche la loro reintegrazione nel tessuto economico e sociale.

Un caso diverso è quello della prestigiosa Crans-Montana che, a partire dal 1987, ha vissuto un lungo periodo di crisi fino a quando, nel 2000, l’Ufficio federale della sanità pubblica la sceglie come luogo di sperimentazione del Piano d’azione per l’ambiente e la salute. A partire da questo, viene redatto un nuovo Piano generale intercomunale che pone al centro una riflessione sugli spazi pubblici e riconosce la natura collettiva del territorio, attraverso la riqualificazione degli spazi connettivi tra gli edifici privati (Giromini, 2020). Vengono quindi valorizzate le aree pedonali e creato un nuovo polmone verde che mette in relazione le varie specificità e attenua le incoerenze urbane, introducendo un’attenzione e una qualità dello spazio aperto del tutto inedita per un centro turistico con frequentazioni stagionali.

Ambiti locali, spesso chiusi e più conservatori, possono essere l’esempio di approcci di grande efficacia, che pongono le caratteristiche del territorio non come svantaggio ma come risorsa (Cinieri e Tognon, 2021). È questo il caso di forme di riadattamento del modello invernale a scala locale, come quello di Prali (TO) in val Germanasca, trasformatosi tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta in una stazione sci-

istica. Nel 2004, a causa degli alti costi di manutenzione, gli impianti vengono costretti a chiudere per poi essere riaperti due anni dopo, grazie a opere di adeguamento finanziate dai fondi olimpici di Torino 2006. La gestione degli impianti passa alla società Nuova 13 Laghi, costituita da trenta soci locali che decidono di non investire solo nel turismo della neve, ma di mantenere aperta la seggiovia tutto l’anno e rendere più flessibile la stagione invernale. Quando non è più possibile sciare, le piste vengono adattate per altri sport come il trekking, e-bike, mountain bike, downhill e, anche se i margini di profitto rimangono bassi, l’iniziativa riesce: ristoranti e negozi restano aperti tutto l’anno e aumentano le imprese a gestione famigliare, come aziende agricole e affittacamere, anche attraverso iniziative a sostegno dei proprietari di immobili sfitti (Dematteis, 2024).

La Sambuy-Seythenex rappresenta non solo un laboratorio di buone pratiche ma anche un riferimento a scala europea: realizzato nel 1960 nel comune di Favarges, in Alta Savoia, l’impianto era equipaggiato da tre skilift e una seggiovia che collegavano un sistema di dieci piste da sci distribuite tra i 1.000 e i 2.000 m. Benché l’impianto fosse aperto anche in estate, gli alti costi di gestione richiedevano continui contributi pubblici, divenuti insostenibili. A partire dal 2020, l’amministrazione comunale pianifica una serie di incontri con l’indotto e, assieme a un gruppo di facilitatori ed esperti di bilancio, definisce una serie di scenari per il sito. A partire da uno di questi, nel 2023, vengono chiusi

04. Ma qui non c’è niente! F. Covre, 2007

gli impianti di risalita e avviato un progetto di transizione dell’area basato sul ritorno alla natura. Assieme a questo, viene istituito un gruppo di lavoro con l’obiettivo di costruire assieme agli stakeholder locali, estremamente contrari alla chiusura degli impianti, una serie di azioni di riadattamento delle attività economiche in funzione delle strategie di valorizzazione degli elementi attrattivi del territorio.

Traiettorie e visioni comuni

Le esperienze locali, per quanto virtuose e di rilievo, non sono sempre rappresentative dei tanti fallimenti imprenditoriali che hanno lasciato i segni nel paesaggio e nelle comunità alpine, ma hanno un compito significativo: quello di creare un modello per altri territori e assolvere il compito di traino per altre azioni e iniziative (Marchetti et al., 2017). Se i casi di Dolomiti Contemporanee e di Crans-Montana rimangono ad oggi esperienze sporadiche (per quanto virtuose), le iniziative di matrice più programmatica a scala locale come Prali e La Sambuy evidenziano come, da parte delle località alpine, sia in corso la ricerca di una strategia di adattamento alla crisi climatica e ai cambi di paradigma ad esso collegati. Il passaggio dal turismo di massa invernale a un modello di sviluppo alternativo, orientato verso attività distribuite sul territorio, a basso impatto ambientale e diver-

sificate durante l’anno, rappresenta una scelta necessaria, ma complessa (Zappini, 2023) e anche nonostante l’apparente nuova attrattività delle Alpi e la bontà dei modelli di turismo sostenibile, rimangono alcuni rischi che devono essere attentamente gestiti.

L’importanza di creare una struttura che accompagni la transizione dei territori alpini è sottolineata dalla nascita di diversi progetti a scala nazionale e sovranazionale, che attecchiscono proprio dalle strategie sviluppate a livello locale. In questa direzione sembra andare anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), che proprio nello sviluppo sostenibile dei territori rurali montani ha previsto un investimento di circa tre milioni di euro. Questo tipo di processi deve poi includere in modo orizzontale gli abitan-

È fondamentale interrogarsi sulle potenzialità trasformative del patrimonio edilizio esistente e delle infrastrutture del turismo

ti del territorio, che vanno seguiti in percorsi di crescita e di apprendimento continui, in modo che le comunità locali accettino con consapevolezza le trasformazioni necessarie. Una di queste iniziative, che prende a riferimento proprio

05. Ma qui non c’è niente! F. Covre, 2007

il caso di La Sambuy, è BeyondSnow1, un progetto promosso dall’UE nell’ambito del programma Interreg Alpine Space con l’obiettivo di aiutare le località turistiche delle Alpi ad affrontare gli effetti del cambiamento climatico e superare la dipendenza da neve (Legambiente, 2023). Il progetto coinvolge sei Paesi alpini che, assieme a esperti ed enti pubblici e privati, stanno elaborando dei percorsi di transizione a uno sviluppo sostenibile attraverso soluzioni attuabili. Il progetto, che trova supporto anche nel coinvolgimento della popolazione e dei principali stakeholder locali, prevede la creazione di un Resilience Adaptation Model-RAM (Orehar et al., 2024) su dieci aree pilota situate nei sei Paesi. Attraverso questo modello, sarà possibile ottenere una Mappa delle Vulnerabilità (Omizzolo et al., 2023) che aiuterà comunità locali e gli operatori turistici attraverso importanti indicazioni operative. Sempre a partire dal RAM, verrà progettato uno strumento digitale open access, il Resilience Decision-Making Digital Tool (RDMDT) che attraverso informazioni inserite di volta in volta, genererà modelli di transizione sostenibili.

Conclusioni: partire da quello che funziona I tool come la Mappa delle Vulnerabilità e il Resilience Decision-Making Digital Tool (RDMDT), sviluppati nel progetto BeyondSnow, possono essere strumenti promettenti per affrontare questi momenti di crisi, uniti però alla capacità delle comunità locali e degli operatori del turismo di

implementare le soluzioni proposte dai modelli predittivi, attraverso una sempre maggiore consapevolezza e fiducia nelle pratiche sostenibili. Questi processi richiedono tempo e una visione politica a lungo termine che a volte sembra mancare: la dipendenza storica dalle attività legate alla neve e il ritardo nel riconoscere la crisi climatica hanno spesso portato le comunità alpine a rimanere vincolate a modelli economici insostenibili, con poche alternative concrete (Ferrari, 2023; Legambiente, 2024).

La tensione tra conservazione dell’identità territoriale e necessità di innovazione trova espressione nel progetto di transizione, che non solo promuove l’adattamento, ma ridefinisce le relazioni tra uomo e montagna (Corradini et al., 2024). Gli interventi spaziali, in questo contesto, non si limitano a rispondere a necessità climatiche o economiche, ma diventano motori di innovazione sociale. Da BeyondSnow alla piccola Prali, i casi qui presentati evidenziano come le comunità stiano rispondendo in modo proattivo, reinterpretando spazi dismessi e infrastrutture abbandonate come luoghi di opportunità. Le Alpi quindi, si configurano come un nuovo modello di sviluppo sostenibile, basato su reti locali e nuove forme di abitare. In questo contesto, i progetti e le iniziative non si limitano a essere adattamenti climatici o economici, ma diventano veri e propri laboratori di sperimentazione sociale, dove stakeholder e comunità locali giocano un ruolo centrale nel ripensamento del rapporto tra uomo e montagna.*

06. Attraverso le Alpi | Across the Alps. A. Guida, 2020

NOTE

1 – Il progetto BeyondSnow coinvolge enti pubblici e privati di Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria e Slovenia. Avviato nel novembre 2022 si concluderà nell’ottobre 2025 e durante i tre anni di attività, grazie a iniziative di sensibilizzazione e formazione, il progetto mira a coinvolgere cittadini, tecnici e decisori politici, affinché i modelli sviluppati e i percorsi tracciati rispondano alle esigenze delle comunità locali e dell’ambiente. Tra le competenze dei partner di progetto si annoverano la ricerca scientifica e applicata a livello internazionale, lo sviluppo di tecnologie innovative e un approccio ecologico e divulgativo. Guidato da Eurac Research, il team include, per la parte italiana, Legambiente Lombardia, il Dipartimento DIST del Politecnico di Torino, la Città Metropolitana di Torino e la Comunità Montana della Carnia. Il team è incaricato di elaborare linee guida per le politiche di adattamento climatico delle destinazioni turistiche della neve e di attuare attività di sensibilizzazione nelle dieci aree pilota selezionate. In Italia, le aree pilota sono quattro: Ala di Stura e Balme (TO), Monesi di Triora (IM), Piani d’Erna (LC) e Pradibosco (UD) (Legambiente, 2023).

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07. Attraverso le Alpi | Across the Alps. A. Guida, 2020

Temperature rising, landscapes changing

The ecological fragility of the Alps has challenged long-standing narratives, transforming perceptions of these mountains from fearsome lands of ice and demons to sublime and immutable places and finally to urban extensions dedicated to leisure (De Rossi, 2014). Defined by Leslie Stephen in 1871 as “The playground of Europe,” the Alps have, over the past two centuries, been framed as a playground for extreme sports and adventure, where generations of climbers and skiers, driven by clichés of heroism, technological fetishism, and disregard for nature (Stile Alpino, 2020), have sought to transcend environmental limitations. Today, these narratives significantly hinder a more conscious use of Alpine territories as the “new climate regime” (Latour, 2020) accelerates unprecedented transformations in this highly vulnerable region. Over the last decade, temperatures in the Alps have risen twice the European average, reducing snow cover and retreating glaciers (Legambiente, 2024). At the Gran San Bernardo Observatory, a temperature increase of +2.3°C was recorded between 1864 and 2023 (Mercalli, 2024), with projections indicating an additional rise of +1.5-2°C in summer and +1°C in winter over the next 30 years (Faggian, 2015). These changes could result in a +2°C rise in Alpine areas, directly impacting 14 million inhabitants, 30.000 animal species, and 13.000 plant species (Alpine Convention, 2021). The shifts in the cryosphere increasingly expose infrastructure and settlements to hydrogeological risks meanwhile, reduced precipitation and glacier loss are shrinking water reservoirs across European countries (IPCC, 2022; European Environment Agency, 2009), with significant consequences for local economies.

The climate crisis has had particularly pronounced effects on snow tourism: between 1.000 and 2.000 meters, the duration of snow cover has decreased by an average of 34 days over the past century (Legambiente, 2024). This shortening of the ski season has forced more significant reliance on artificial snowmaking, leading to high economic and envi-

Vertical Movements and Horizontal Actions

Transition and Resettlement Strategies in the Alps amidst the Climate Crisis

ronmental costs. Below 1.800 meters, insufficient snowfall has caused the closure of ski resorts and associated businesses, resulting in significant job losses: for Alpine communities that have invested almost exclusively in winter tourism, this represents a severe economic and social crisis. In Piedmont, for instance, 15% of ski resorts have already been abandoned, with projections suggesting closures of major resorts like Bardonecchia and Sestriere within the next 30 years (Legambiente, 2024; Ferrari, 2023). These climate impacts extend beyond the mountains to urban areas in Alpine valleys. Rising temperatures and increasing pollution levels are making summers in regions like the Po Valley intolerable by the end of the century (Mercalli, 2024), prompting those who can seek relief elsewhere. This migratory trend, which began during the 2008 urban development crisis (Balducci, 2019), accelerated during the COVID-19 pandemic (Barbera et al., 2024), it is now driven by lower living costs, workplace flexibility, and incentives for young people and businesses relocating to rural areas (Pagliuca, 2021). While avoiding overly optimistic narratives, these push and pull factors have made mountain areas more attractive. The shifting relationship between cities and mountains necessitates a revaluation of urbancentric narratives (Cinieri and Tognon, 2021) that have relegated the Alps to mere leisure spaces. In recent decades, signs of countertrends have emerged, albeit fragmented and limited. The phenomenon of return and resettlement in mountain territories points to renewed attention to local resources and opportunities offered by “high lands” (Corrado et al., 2014). In this context, the recent demographic increase recorded over the past three years (ISTAT, 2020) is a preliminary signal of a possible upward migration to the mountains. Although not an inevitable trajectory, this phenomenon is causing unforeseen challenges, including increased land consumption and pressure on infrastructure and services, which are often unprepared to handle the rising numbers (Dematteis, 2020).

The doubts of the crisis

Snow tourism in the Alps has been in crisis for some time, however, the phenomenon persists due to local communities underestimating the problem’s severity and a political class focused on electoral consensus (Ferrari, 2023). While there is a growing shift toward more authentic and ecologically sustainable experiences (Dematteis, 2024), this new tourism model risks intensifying resource consumption and exacerbating issues like overtourism and eco-gentrification if left unregulated (Perlik, 2011). At the same time, Alpine resettlement could be an opportunity to revitalize mountain economies, but poor management may worsen an already fragile system. Vertical migrations, while bringing innovation, could create new inequalities, fostering gated communities (Membretti, 2024) and further urbanizing the Alps, significantly altered by the proliferation of second homes, hotel complexes, and ski infrastructure.

In this context, it is crucial to explore the transformative potential of existing buildings and tourism infrastructure, which must adapt to the needs of new residents. These newcomers, often from metropolitan areas, are typically reluctant to forgo urban comforts (Keeling, 2024). Additionally, the “new mountain dwellers” often lack the skills to manage public and private funds, limiting their impact effectively.

Transition strategies

The Alps today can be seen as a testing ground for strategies in territorial development, policymaking, and governance focused on local growth through multiscale actions. Although architectural-scale initiatives still need to be improved, many seminars and research projects now address the future of built heritage, attempting to respond to needs that emerged during the pandemic (Cinieri and Tognon, 2021). These efforts often explore the spatial potential of existing resources, leveraging temporary uses and collective actions to spark new opportunities and perspectives.

One example is Dolomiti Contemporanee,

which since 2011 has promoted the reactivation of disused spaces in the Dolomites, reinterpreting the territory as a cultural and artistic laboratory rather than a site of passive tourism. This project regenerates industrial sites, abandoned factories, and disused tourist complexes, temporarily transforming them into cultural production hubs, artist residences, and exhibition spaces. Supported by a vast network of public-private collaborations, these initiatives restore economic and social value to neglected areas, blending art, culture, and local identity in processes of regeneration that reintegrate these sites into the economic and social fabric.

Another case is Crans-Montana, which faced a prolonged crisis beginning in 1987. In 2000, Switzerland’s Federal Office of Public Health selected it as a test site for the Action Plan for Environment and Health. This led to a new Intercommunal Masterplan prioritizing public spaces and recognizing the collective nature of the territory. Pedestrian areas were enhanced, and a new green corridor was created to connect diverse features and reduce urban inconsistencies. This introduced unprecedented attention and quality to open spaces for a seasonal tourist hub (Giromini, 2020).

Smaller local contexts, often more conservative, can exemplify highly effective approaches that transform the territory’s characteristics from a perceived disadvantage into a resource (Cinieri and Tognon, 2021).

For instance, Prali (TO) in Val Germanasca, transformed into a ski resort between the 1950s and 1980s, faced the closure of its lifts in 2004 due to high maintenance costs, they were reopened two years later with funding from Turin 2006 Olympic funds. Management transitioned to Nuova 13 Laghi, a company of 30 local shareholders who diversified operations by keeping the chairlift open year-round and adapting winter facilities for summer activities like trekking, e-biking, mountain biking, downhill. Though profit margins remain low, the initiative has succeeded: restaurants and shops operate year-round, and family-run businesses such as farms and guesthouses have increased, aided by programs to support vacant property owners (Dematteis, 2024).

A different example is La Sambuy-Seythenex in Haute-Savoie. Built in 1960 in Faverges, the ski area featured three ski lifts and a chairlift connecting ten ski slopes at altitudes between 1.000 and 2.000 meters. Although the facility operated year-round, high maintenance costs required continuous public subsidies, which became unsustainable. In 2020, the local administration organized meetings with stakeholders and devised scenarios for the site’s future alongside facilitators and budget experts. One scenario led to the closure of the ski lifts in 2023, and the launch of a transition project focused on rewilding the area. A working group was established to collaborate with local stakeholders (initially opposed to the closure) to devise strategies for adapting economic activities and enhancing the territory’s attractions.

Trajectories and Common Visions

Local experiences, despite being virtuous and significant, don’t always represent the many business failures that have left marks

on the landscape and alpine communities, however, they have an essential task: to create a model for other regions and serve as a driving force for further actions and initiatives (Marchetti et al., 2017). While projects like Dolomiti Contemporanee and CransMontana remain sporadic experiences (albeit virtuous), more programmatic local initiatives such as those in Prali and La Sambuy highlight how alpine communities are actively seeking strategies to adapt to the climate crisis and associated paradigm shifts.

The shift from mass winter tourism to an alternative development model focused on activities spread across the region, with low environmental impact and year-round diversification, is a necessary but complex choice (Zappini, 2023). Even with the apparent new attractiveness of the Alps and the quality of sustainable tourism models, some risks remain that need careful management.

The importance of creating a structure to support the transition of alpine territories is underscored by the emergence of several national and supranational projects that draw from strategies developed at the local level. This direction is also reflected in the National Recovery and Resilience Plan (PNRR), which allocates an investment of almost three million euros to sustainable development in mountain rural areas. Such processes should inclusively include residents, ensuring continuous growth and learning pathways so local communities can embrace the necessary transformations with awareness.

One such initiative, drawing inspiration from La Sambuy, is BeyondSnow1, a project promoted by the EU under the Interreg Alpine Space program aimed at helping alpine tourist areas address the impacts of climate change and reduce their dependence on snow (Legambiente, 2023). The project involves six alpine countries that, together with experts and public and private bodies, are developing pathways for sustainable development through practical solutions. Supported by public engagement and local stakeholders, the project includes creating a Resilience Adaptation Model-RAM (Orehar et al., 2024) across ten pilot areas in six countries. This model will create a Vulnerability Map (Omizzolo et al., 2023) to help local communities and tourism operators with important operational guidelines.

An open-access digital tool, the Resilience Decision-Making Digital Tool-RDMDT, will be developed from this RAM. This tool, fed with updated information, will generate sustainable transition models.

Conclusions: Starting from What Works Tools like the Vulnerability Map and the Resilience Decision-Making Digital Tool-RDMDT, developed in the BeyondSnow project, can be promising instruments for addressing moments of crisis. However, they must be paired with the local communities and tourism operators’ ability to implement the solutions suggested by predictive models through greater awareness and trust in sustainable practices. These processes require time and a long-term political vision that is sometimes lacking: the historical dependence on snow-related activities and the delay in recognizing the climate crisis have often left alpine communities tied to unsustainable

economic models with few concrete alternatives (Ferrari, 2023; Legambiente, 2024). The tension between preserving territorial identity and the need for innovation is reflected in the transition project, which promotes adaptation and redefines the relationships between humans and the mountain (Corradini et al., 2024). In this context, spatial interventions don’t only respond to climatic or economic needs but become engines of social innovation. From BeyondSnow to the small village of Prali, the cases presented here show how communities proactively respond, reinterpreting disused spaces and abandoned infrastructure as opportunities. Therefore, the Alps emerged as a new model of sustainable development based on local networks and new forms of habitation. In this context, projects and initiatives go beyond climate or economic adaptations and become actual laboratories for social experimentation, where stakeholders and local communities play a central role in rethinking the relationship between humans and the mountain.*

NOTES

1

– The BeyondSnow project involves public and private entities from Italy, France, Switzerland, Germany, Austria, and Slovenia. Launched in November 2022, it will conclude in October 2025. Over three years, through awareness-raising and training initiatives, the project aims to engage citizens, technicians, and policymakers to ensure that the developed models and proposed pathways meet the needs of local communities and the environment. The project partners bring expertise in international scientific and applied research, the development of innovative technologies, and an ecological and educational approach. Led by Eurac Research, the team includes, for the Italian side, Legambiente Lombardia, the DIST Department of the Politecnico di Torino, the Metropolitan City of Turin, and the Carnia Mountain Community. The team is tasked with developing guidelines for climate adaptation policies in snow tourism destinations and implementing awareness-raising activities in the ten selected pilot areas. In Italy, the four pilot areas are Ala di Stura and Balme (TO), Monesi di Triora (IM), Piani d’Erna (LC), and Pradibosco (UD) (Legambiente, 2023).

Per un carcere antifragile

01. La Casetta Rossa nell’area colloqui all’aperto del carcere di Milano-Bollate | The Casetta Rossa in the outdoor visiting area of Milan-Bollate prison. I. Balena

Towards an Antifragile Prison Italian prisons are places of extreme fragility, marked by structural issues, overcrowding, and emergency working conditions. The Laboratorio Carcere, a research group from Politecnico di Milano, has been exploring for years the concept of an “antifragile prison,” capable of turning unforeseen challenges into opportunities for innovation. Through spatial prototypes, the laboratory experiments with new approaches to adapt prison spaces to the needs of their inhabitants and the constitutional mandate. Based on experiences shared with and within Milanese prisons, which have activated local capacity-building processes, the goal is to foster a broad debate and promote concrete change toward a prison system that better respects human dignity.*

Le carceri italiane sono luoghi di estrema fragilità, segnati da criticità strutturali, sovraffollamento e condizioni di lavoro emergenziali. Laboratorio Carcere, gruppo di ricerca del Politecnico di Milano, indaga da anni la possibilità di un “carcere antifragile” capace di trasformare l’imprevisto in opportunità di innovazione. Attraverso prototipi spaziali, il laboratorio sperimenta nuovi approcci per adattare gli spazi carcerari alle esigenze di chi li abita e al mandato costituzionale. Partendo dalle esperienze condivise con e nelle carceri milanesi, che hanno attivato percorsi di capacitazione locali, l’obiettivo è stimolare un ampio dibattito e favorire un cambiamento concreto verso un carcere più rispettoso della dignità umana.*

Esperienze progettuali e indizi di innovazione dal carcere di San Vittore per ripensare gli spazi detentivi in Italia

e carceri italiane sono luoghi di estrema fragilità, che si manifesta a diversi livelli: la vulnerabilità delle persone ospitate, provenienti spesso da contesti di marginalità sociale e migratori; le criticità strutturali di un patrimonio edilizio spesso vetusto, aggravate dal sovraffollamento cronico e dalla scarsa manutenzione degli ambienti; il tempo della reclusione che quasi sempre vuol dire inattività e attesa; la fragilità delle condizioni di lavoro di chi opera nelle carceri, spesso in condizioni emergenziali e in assenza di spazi adeguati. Questo scenario rende difficile per il sistema penitenziario adempiere al compito costituzionale di garantire una pena rispettosa della dignità umana e funzionale al reinserimento sociale. Il carcere continua a essere un “luogo reale fuori da tutti i luoghi” (Foucault, 1976). Di fronte a questo scenario, emerge sempre più forte la necessità di sperimentare azioni capaci di mettere a valore le condizioni di fragilità strutturali e operative dei luoghi di detenzione in Italia. A partire dalle risorse umane e spaziali degli istituti italiani, è oggi pensabile elaborare un progetto per un “carcere antifragile”? Ovvero un carcere che non si limita a resistere alle difficoltà, ma è capace di sviluppare un’attitudine a elaborare risposte flessibili e creative alle nuove esigenze e alle emergenze quotidiane, in continua trasformazione.

Verso un “carcere antifragile”

KEYWORDS: CARCERE | PRISON; ANTI-FRAGILE | ANTIFRAGILE; PROTOTIPI DI TRANSIZIONE | TRANSITION PROTOTYPES

Nella sua organizzazione, il carcere è concepito come una struttura rigida, progettata per evitare il caos, l’incertezza e il disordine. Le sue regole, spazi e modalità operative sono pensate per ridurre al minimo le variabili imprevedibili e garantire il controllo sulle persone e le attività. Tuttavia, la realtà quotidiana all’interno delle carceri italiane racconta una storia diversa: l’imprevisto, l’incertezza e i fattori di stress sono all’ordine del giorno. Ogni giorno chi vive e opera in carcere è chiamato a gestire forme di disordine e situazioni che richiedono flessibilità, adattamento e talvolta improvvisazione, mettendo alla prova la rigida struttura organizzativa.

Nassim Nicholas Taleb descrive la fragilità come “ciò che viene danneggiato dal disordine”, mentre ciò che è antifragile “non solo resiste agli urti, ma ne trae beneficio” (Taleb, 2012). È in questo scenario che emerge la possibilità di provare a ripensare il carcere non come una “fortezza robusta” che cerca di resistere al cambiamento, ma come un’istituzione capace di aprirsi ed evolversi attraverso il confronto con la vulnerabilità, sua interna ma anche della società esterna che lo ospita (Bozzuto e Di Franco, 2020). Osservando da vicino cosa accade in alcuni istituti italiani è possibile riconoscere alcuni indizi di un possibile progetto per un “carcere antifragile”, che non si limita a resistere agli shock, ma impara a trarne vantaggio per generare miglioramenti, trasformando le criticità in risorse per una rigenerazione attiva e partecipata degli spazi e delle relazioni al suo interno.

Laboratorio Carcere: sperimentare il cambiamento Da alcuni anni un gruppo di ricerca multidisciplinare del

Politecnico di Milano, Laboratorio Carcere, sperimenta sul campo azioni di cambiamento di e con il sistema carcerario italiano. Le sue attività mirano a riformulare la forma degli spazi carcerari e i modi di viverli, attraverso progetti puntuali di codesign, verificando se un differente progetto per gli spazi della pena sia possibile. Tali azioni cercano di tradurre l’imprevisto e l’emergenza in un’occasione per realizzare “qualcosa di semplice, ma decisivo nel mantenimento di una quotidianità che abbia il sapore dell’esterno, che faccia vivere momenti di vita normale nell’anormalità della situazione soggettiva vissuta” (Palma, 2020). Indagine condotta anche attraverso la realizzazione di “prototipi di transizione”: sperimentazioni concrete che affrontano problemi pratici attraverso il dialogo costante tra le parti coinvolte, provando a promuovere “assemblaggi creativi” (Deleuze e Guattari, 1980). Ciascun intervento non si limita a risolvere criticità funzionali, ma a partire da queste si propone di: innescare un cambiamento culturale nel

02. Action Track, un allenamento di atletica sulla nuova pista nel carcere di Milano-Bollate | Action Truck, an athletic training on the new track in the Milan-Bollate prison. Laboratorio Carcere

modo di concepire e vivere lo spazio ristretto, aprire a nuove domande di progetto, attivare un confronto continuo e serrato con l’amministrazione penitenziaria e il coinvolgere ampie reti di soggetti.

Negli anni, Laboratorio Carcere ha realizzato una serie di interventi nati da differenti occasioni. Un esempio è la Casetta Rossa, un padiglione rosso in legno progettato come luogo di gioco tra figli e genitori, per offrire una relazione più intima (img. 01). Realizzato nel carcere di Milano-Bollate, nato all’interno di un laboratorio di progettazione architettonica e realizzato grazie a una donazione liberale. Sempre in questo istituto e all’interno di una ricerca finanziata dall’ateneo (Polisocial Award 2019), Action Track è un anello per la corsa in materiale antitrauma rosso, creato aprendo due varchi nel muro di separazione dei cortili (img. 02). Questa azione, oltre ad avere un forte valore simbolico, offre uno spazio sicuro e confortevole per l’attività fisica. Legato al benessere fisico c’è poi Free Acting, che ha introdotto grafiche a muro e piccole attrezzature per l’esercizio fisico quotidiano negli spazi comuni del reparto femminile (img. 03). Progetti realizzati grazie al supporto di realtà imprenditoriali come Mapei e PARCfor. Anche gesti semplici, come la riorganizzazione delle sale d’attesa nell’Ufficio servizi sociali minorenni di Milano, con un nuovo sistema di arredi, hanno permesso di reimmaginare spazi più accoglienti e aperti alla singolarità di ciascuno. Questi interventi non si limitano a migliorare le condizioni materiali, ma stimolano nuove opportunità di relazione e modalità di convivenza all’interno del contesto carcerario.

L’esperienza di Off Campus San Vittore

possono condurre ricerca responsabile e coprogettare insieme agli stakeholder locali (img. 04). Questa apertura ha creato nuove condizioni per “stare all’interno del carcere”, ampliando le possibilità di fare ricerca sul campo. L’accesso settimanale2 senza vincoli di attività programmate permette, ad esempio, di poter misurare e valutare costantemen-

Laboratorio Carcere sperimenta sul campo azioni di cambiamento di e con il sistema carcerario italiano

te le condizioni di comfort termico, acustico e luminoso in vari spazi del carcere, e di instaurare relazioni quotidiane con chi vive e lavora all’interno, favorendo nuove opportunità progettuali.

San Vittore, inaugurato nel 1879, è il primo carcere moderno di Milano ed è stato costruito per ovviare all’inadeguatezza delle strutture esistenti. Collocato nell’allora periferica Porta Vercellina, il progetto si ispira al panopticon, ideato da Jeremy Bentham, il cui obiettivo era ottimizzare la sorveglianza. Nel tempo, San Vittore è passato da essere un carcere periferico a diventare una casa circondariale3 nel cuore della città. È stato il palcoscenico di significativi accadimenti storici, così come oggetto di continue trasformazioni in risposta al mutare delle normative e delle esigenze di chi abita e opera al suo interno. Questa stratificazione di interventi non coordinati ha creato forti criticità, come l’inadeguatezza degli spazi per l’alto numero di detenuti ospitati e la difficoltà ad eseguire una manutenzione costante dei fabbricati. Tuttavia, la posizione centrale del carcere rappresenta un’opportunità per facilitare il dialogo tra carcere e città, anche se nella quotidianità è difficile da realizzare.

A ottobre 2022, il Politecnico di Milano apre Off Campus San Vittore1, due locali all’interno dell’area detentiva della casa circondariale di Milano, dove ricercatori e docenti

Uno dei primi prototipi messi in campo è stata la ristrutturazione dei due locali di Off Campus, mostrando cosa il gruppo di ricerca poteva fare in quel contesto. Gli inter-

03. Free Acting, dimostrazione pratica di alcuni esercizi alla “parete attrezzata” nel reparto femminile del carcere di Milano-Bollate | Free Acting, practical demonstration of some exercises at the ‘equipped wall’ in the female ward of the Milan-Bollate prison. A. Danelli

venti, di minima, si sono focalizzati sulla qualità della luce, sia naturale che artificiale, e il disegno di quattro tavoli da lavoro realizzati in collaborazione con la falegnameria della casa circondariale di Monza e dell’IIS Meroni di Lissone che la gestisce quale sede del proprio polo scolastico. Sono seguiti altri progetti e prototipi. Tra i più significativi c’è l’intervento nella sezione CAR – celle ad alto rischio – che ospita persone in stato di forte fragilità psicologica. Il progetto mira a superare alcune criticità, come la mancanza di un presidio sanitario permanente e una adeguata postazione di monitoraggio per gli agenti che prestano servizio, migliorando allo stesso tempo le condizioni di comfort abitativo. Questo intervento, nato su richiesta del direttore del carcere, è stato finanziato con i fondi che l’associazione RiScatti ha raccolto con una mostra fotografica sulle carceri milanesi in collaborazione con il PAC di Milano4, e realizzato in collaborazione con Forme Tentative5. Gli spazi sono stati resi più accoglienti con l’uso di materiali e colori naturali. La riorganizzazione include pareti in legno e vetro (materiali raramente utilizzati nella gestione ordinaria), insieme a miglioramenti nel comfort termico e acustico, con un impianto di climatizzazione e pannelli fonoassorbenti (img. 05).

Sono

state riconosciute tre famiglie d’azione: minime, di implementazione e dotazione di nuovi spazi

Probabilmente, l’intervento a oggi più ambizioso è ReverseLab. Uno spazio per l’arte contemporanea tra il carcere e la città, un progetto che ha parzialmente riqualificato e riattivato uno spazio seminterrato inabitabile, rimasto chiuso dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento, trasformandolo in un luogo dedicato alla produzione artistica e culturale (img. 06).

Grazie al progetto, quest’area dismessa è stata convertita in un laboratorio permanente, che ospiterà attività formative rivolte alle persone detenute e sarà anche uno spazio espositivo aperto al pubblico, con l’obiettivo di creare forme di dialogo tra il carcere e la città. Uno spazio-ponte tra passato e presente, in cui l’arte diventa la lente attraverso cui carcere e città si guardano, e il mezzo attraverso il quale le persone possono esprimersi e condividere le loro storie. Cofinanziato da Fondazione Comunità di Milano e Politecnico di Milano, l’edizione pilota alla riqualificazione dello spazio ha affiancato la conduzione di un workshop artistico guidato dall’artista Maurice Pefura, coinvolgendo 40 detenuti nella creazione di un’opera d’arte site-specific. All’ideazione e conduzione del progetto hanno partecipato anche due associazioni: Forme Tentative e Philo-Pratiche filosofiche, che raccontano dell’interesse del gruppo di ricerca di promuovere e alimentare la costruzione di reti di collaborazione tra soggetti che operano sia all’interno delle mura sia al loro esterno. Con la mostra Gli artisti sono quelli che fanno casino. Frammenti dal carcere di San Vittore, a cura di Diego Sileo (PAC di Milano), per quasi due mesi lo spazio è stato aperto al pubblico6 (img. 07). Il progetto ha avuto inizio con lo sgombero e l’archiviazione degli oggetti accumulati nel corso dei decenni, seguiti dalla riqualificazione dell’area che ha adottato un approccio incrementale, pensando a un prosieguo anche dopo l’edizione pilota. L’attenzione si è focalizzata sulla galleria centrale, lunga 50 metri e larga cinque, che riproduce i corridoi del panottico. Sono stati risanati i muri, riattivato l’impianto sanitario ed elettrico di base, tinteggiate le pareti e installato un nuovo sistema di illuminazione. L’obiettivo era permettere fin da subito l’uso dello spazio e il suo carattere indeterminato è stata una scelta metodologica e formale, per lasciare aperta la possibilità a progettualità da sviluppare insieme al carcere e alla città.

04. Off Campus San Vittore, lo spazio di ricerca del Politecnico di Milano presso il carcere di Milano San Vittore | Off Campus San Vittore, the research place of the Politecnico di Milano at the Milan San Vittore prison. Laboratorio Carcere

Verso gli spazi della Costituzione

Come si può osservare, gli interventi descritti non rappresentano soluzioni definitive, ma frammenti di un percorso che si confronta operativamente con l’idea di un “carcere antifragile”, formulando domande e tracciando possibili argomentazioni. I prototipi non cercano di risolvere il sistema carcerario in modo radicale, ma attraverso puntuali innovazioni hanno l’ambizione di innescare processi di trasformazione. La necessità di fare sport in sicurezza (ACTS) ha permesso di affrontare il tema del colore in carcere, del riorganizzare gli spazi connettendoli, ma anche di interrogarsi sulle modalità più appropriate di gestire accesso e uso dello spazio aperto. Scoprendo poi che in alcuni reparti, ad esempio, lo spazio aperto è sovrabbondante e potrebbe essere riconvertito per spazi di lavoro: un’urgenza. A San Vittore, l’uso di materiali raramente impiegati come vetro, legno e pannelli fonoassorbenti provano a mostrare modalità per differenziare l’indistinto paesaggio del carcere, rispondendo a bisogni puntuali.

Nel succedersi i prototipi alimentano così un dibattito (a partire dall’interno, ma che si apre poi all’esterno) su cosa debba/possa essere oggi il carcere, che in un orizzonte di lungo periodo potrebbe condurre a un’istituzione “così diversa da quella attuale che il nome che ora usiamo per definirlo non lo identificherebbe più” (Colombo, 2022). È il caso di ReverseLab, che immagina San Vittore come luogo che ha una sua posizione nel panorama dell’arte contemporanea di Milano. Un modo per far sì che la città si appropri del carcere; l’interesse dimostrato da istituzioni e cittadini fa presupporre sia possibile.

L’esperienza sul campo, condotta nelle e con le carceri milanesi, attraverso il fare assieme (Ingold, 2013), ha permesso di attivare percorsi di capacitazione per tutti i partecipanti. Per chi arriva dall’esterno, è stata un’importante occasione per conoscere meglio la quotidianità, fisica e relazionale, del carcere, riconoscendo che ogni istituto ha le sue specificità. Per chi opera all’interno, i prototipi sono

05. CARe, una fase del montaggio della nuova parete in legno presso il carcere di Milano San Vittore | CARe, an assembly phase of the new wooden wall at the Milan San Vittore prison. Laboratorio Carcere

diventati un’opportunità per uscire dai percorsi consolidati e guardare alla contingenza come un’occasione per contribuire a innovare il carcere.

Osservando queste esperienze, è possibile rintracciare un metodo d’azione. Analizzando i vari interventi, è possibile costruire una casistica di interventi esemplari “che possono essere utilizzati come principi di generalizzazione” (Ferraris, 2009). Sono state riconosciute tre famiglie d’azione: minime, di implementazione architettonica, e dotazione di nuovi spazi.

Le azioni minime sono interventi concretizzabili nell’immediato che, utilizzando materiali facilmente reperibili e gestibili, sono in grado di aprire a nuovi usi spazi già agibili. A questa famiglia di azioni appartengono la realizzazione di grafiche, la predisposizione di piccole attrezzature alle pareti o anche la sottrazione di elementi lasciti di pratiche precedenti.

Le azioni di implementazione architettonica sono interventi di media complessità che ampliano le possibilità e modi di praticare uno spazio, sia in termini di attività che per livelli

di sicurezza di quella attività. Attuabili nel breve-medio termine, richiedono una progettazione edilizia e il reperimento di risorse. Possono includere, ad esempio, la realizzazione di nuove pavimentazioni o l’apertura di passaggi nei muri.

Infine, la dotazione di nuovi spazi include interventi più complessi e strutturali, che richiedono una programmazione a lungo termine e modificano definitivamente la dotazione di spazi per attività specifiche. Questi interventi includono la realizzazione di nuove infrastrutture o il recupero di aree al momento non utilizzate.

Questa prima sistematizzazione degli interventi vuole supportare la messa in campo di futuri progetti, anche in altri istituti detentivi, a opera di differenti soggetti. Allo stesso tempo, numerosi altri gruppi di lavoro e ricerca stanno operando nella direzione di ripensare il carcere partendo dalle risorse esistenti7. Appare sempre più necessario riattivare uno spazio di dialogo e confronto tra queste esperienze, per sviluppare percorsi che possano attuare un

06. ReverseLab, lo spazio seminterrato del carcere di San Vittore prima dell’intervento di riqualificazione | ReverseLab, the basement space of the San Vittore prison before redevelopment. Laboratorio Carcere

la

al

cambiamento concreto verso un modello di detenzione più vicino a quello tratteggiato dalla Costituzione, capace di rispettare la dignità della persona e promuovere il reinserimento sociale.*

NOTE

1 – Off Campus. Il cantiere per le periferie è un’iniziativa promossa da Polisocial con l’obiettivo di rafforzare la presenza del Politecnico di Milano nella città e l’idea di un’università più responsabile, più attenta alle sfide sociali, aperta e vicina ai territori.

2 – Off Campus San Vittore è aperto il martedì e il giovedì dalle 9.30 alle 17.30.

3 – Gli istituti detentivi in Italia si distinguono in case circondariali che ospitano persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni e case di reclusione per chi ha una condanna definitiva superiore ai cinque anni.

4 – RI-SCATTI. Per me si va tra la perduta gente, tenutasi al PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano dal 9 ottobre al 6 novembre 2022.

5 – In fase realizzativa alcuni interventi sono stati possibili grazie a un contributo aggiuntivo dell’amministrazione penitenziaria.

6 – La mostra, inaugurata il 24 settembre, è stata aperta al pubblico dal 28 settembre al 23 novembre 2024, esaurendo tutti gli oltre 500 posti disponibili.

7 – Negli ultimi dieci anni circa sono diversi i progetti e le ricerche che in ambito accademico nazionale si sono confrontati con il tema degli spazi detentivi (Santangelo, 2020; Giofrè, Posocco, 2020; La Varra, 2024).

REFERENCES

– Bozzuto, P., Di Franco, A. (2020). Lo spazio di relazione nel carcere. Una riflessione progettuale a partire dai casi milanesi. Siracusa: LetteraVentidue.

– Colombo, G. (2022). Prefazione. In Manconi, L., Anastasia, S., Calderone, V., Resta, F., (a cura di), Abolire il carcere. Milano: Chiarelettere.

– Deleuze, G., Guttari, F. (2010). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Roma: Castelvecchi.

– Ferraris, M. (2009). Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce. Roma-Bari: Laterza.

– Foucault, M. (1984). Des espaces autres (conférence au Cercle d’études architectura- les, 14 mars 1967). In Architecture, Mouvement, Continuité, n.5, pp. 46-49.

– Giofrè, F., Posocco, P. (2020). Donne in carcere: ricerche e progetti per Rebibbia. Siracusa: LetteraVentidue.

– Ingold, T. (2013). Making: Anthropology, Archeology, Art and Architecture. London, New York: Routledge.

– Santangelo, M. (2020). Progettare il carcere: esperienze didattiche di ricerca. Napoli: Clean.

– Palma, M. (2020). Un’architettura discreta. In Di Franco, A., Bozzuto, P., (a cura di), Lo spazio di relazione nel carcere. Una riflessione progettuale a partire dai casi milanesi. Siracusa: LetteraVentidue. – Taleb, N.N. (2012). Antifragile: Things That Gain from Disorder. Londra: Penguin Books.

La Varra, G. (2024). Indagare il carcere. Conegliano: Anteferma.

07. ReverseLab,
prima apertura
pubblico dello spazio con la mostra Gli artisti sono quelli che fanno casino di Maurice Pefura, curatela Diego Sileo (PAC di Milano) | ReverseLab, the first public opening of the space with the exhibition Gli artisti sono quelli che fanno casino by Maurice Pefura, curated by Diego Sileo (PAC, Milan). Imagis Lab

Italian prisons are places of extreme fragility, manifest on several levels: the vulnerability of the people they house, who often come from situations of social and migrant marginalization; the structural problems of usually outdated buildings, worsened by chronic overcrowding and poor maintenance; the time of imprisonment, almost always meaning inactivity and waiting; poor working conditions for prison staff, who often operate in a state of emergency and lack adequate spaces. This scenario makes it difficult for the penitentiary system to fulfil its constitutional mandate of guaranteeing a punishment that respects human dignity and is functional to social reintegration. Prison continues to be a “real place outside of all places” (Foucault, 1976). This situation highlights the growing need to experiment with actions to improve Italian detention centres’ structural and operative conditions. Starting from Italian institutions’ human and spatial resources, is it conceivable today to develop a project for an “antifragile prison”? An antifragile prison not only withstands difficulties but also adapts, developing flexible and creative responses to new needs and daily emergencies in continuous transformation.

Towards an “Antifragile Prison”

In its organization, prison is conceived as a rigid structure designed to avoid chaos, uncertainty and disorder. Its rules, spaces, and operational procedures are designed to minimize unpredictable variables and guarantee control over people and activities. However, the daily experience within Italian prisons tells a different story: the unexpected, uncertainty, and stress factors are commonplace. Every day, those who live and work in prison are called upon to manage forms of disorder and situations that require flexibility, adaptation, and sometimes improvisation. It tests the rigid organizational structure. As Nassim Nicholas Taleb states, “fragility is what is damaged by disorder,” while that which is antifragile “not only resists shocks but benefits from them” (Taleb, 2012). In this scenario, the possibility of rethinking prison emerges not as a “robust fortress” that tries to resist changes but as an institution capable of opening up and evolving through confrontation with vulnerabil-

Gianfranco Orsenigo

Towards an Antifragile Prison

Design Experiences and Innovation Clues from San

Vittore Prison to Rethink Detention

Spaces in

Italy

ity, both internally and in the external society (Bozzuto e Di Franco, 2020). By closely observing what happens in some Italian institutions, it is possible to recognize some hints of a potential project for an “antifragile prison,” which does not merely withstand shocks but learns to take advantage of them to generate improvements, transforming criticalities into resources for an active and participatory regeneration of spaces and relationships.

Laboratorio Carcere: Testing Change

For several years, Laboratorio Carcere (link 1), a multidisciplinary research group from the Politecnico di Milano, has been experimenting with actions of change for and with the Italian prison system. The group activities aim to reformulate the shape of prison spaces and the ways of inhabiting them. The research explores the potential for innovative designs in punishment spaces through specific codesign projects. These actions aim to transform unexpected events and emergencies into an opportunity for positive changes: “something simple, but decisive in maintaining a daily life that has the flavour of the outside, that allows one to experience moments of normal life within the abnormality of the subjective situation experienced” (Palma, 2020).

This investigation is conducted through the creation of “transition prototypes”: built experiments that address practical problems through constant dialogue between the players involved, attempting to promote “creative assemblages” (Deleuze and Guattari, 1980). While each intervention addresses practical concerns, it also aims to spark a broader cultural shift in how prison spaces are understood and experienced: opening up new design questions, activating a continuous and close comparison with the prison administration, and involving extensive networks of subjects.

Over the years, Laboratorio Carcere has carried out a series of interventions arising from different opportunities. One example is the Casetta Rossa (Little Red House), a red wooden pavilion designed as a play area for children and parents to foster more intimate relationships (img. 01). It was built in the Milan-Bollate prison and originated within an architectural design workshop.

It was made possible by a private donation. Within the same prison, the Action Track was created as part of a university-funded research project (Polisocial Award 2019). This running track, made of red anti-trauma material, was built by opening two doors in the wall that separated the courtyards (img. 02). This action has offered a safe and comfortable space for physical activity. Still, at the same time, it has a strong symbolic value. Following the issue of physical well-being, there is also Free Acting, which introduced wall graphics and small equipment for daily physical exercise in the common areas of the women’s ward (img. 03). It was possible to realize these projects thanks to the support of businesses such as Mapei and PARCfor. Even simple actions, like reorganizing the waiting rooms at the Juvenile Social Services Office of Milan with new furniture, helped create a more welcoming and personalized space. These interventions do not merely improve material conditions but stimulate new opportunities for relationships and ways of living together within the prison context.

The Off Campus San Vittore Experience In October 2022, Politecnico di Milano opened Off Campus San Vittore1, two rooms within the San Vittore prison detention area in Milan, where researchers and professors can conduct responsible research and codesign activities with local stakeholders (img. 04). The opening offered new conditions for “being inside the prison”, expanding the possibilities for conducting field studies. The weekly access2, without the constraints of scheduled activities, allows, for example, the continuous measurement and evaluation of thermal, acoustic, and luminous comfort conditions in various prison spaces. It facilitates daily interaction with inmates and staff, fostering new design opportunities. San Vittore, which opened in 1879, is the first modern prison in Milan and was built to address the inadequacy of existing facilities. Its design, inspired by Jeremy Bentham’s panopticon model for optimized surveillance, was initially located in the peripheral area of Porta Vercellina. Over time, San Vittore has transitioned from a prison on the edges to a pre-trial detention house3 in the city’s heart. It has been the stage

for significant historical events and continuous transformations in response to regulatory changes and the needs of those who live and work within it. This layering of uncoordinated interventions has created serious challenges, such as the need for more spaces for the high number of inmates housed and the difficulty of maintaining the buildings constantly. However, the prison’s central location also represents an opportunity to facilitate dialogue between the prison and the city, even if this is difficult to achieve in everyday life.

One of the first prototypes involved renovating two rooms for the Off Campus, demonstrating the research group’s capabilities. These minimal interventions focused on enhancing natural and artificial lighting quality and designing four desks. The tables were crafted in collaboration with the woodworking workshop at the Monza prison and IIS Meroni in Lissone, which runs it as the seat of its school.

Other projects and prototypes soon followed. Another significant project focused on the CAR section - high-risk cells - that houses individual with severe psychological fragility. The initiative addressed critical issues, such as the absence of a permanent healthcare room and an inadequate monitoring station for officers, while improving living conditions. Initially suggested by the prison director, the project was funded by the Ri-Scatti association through proceeds from a photographic exhibition on Milanese prisons4, held in collaboration with PAC Milan, and realized with the support of Forme Tentative5. The spaces were made more welcoming through the use of natural materials and colours. The reorganization featured wooden and glass partitions - materials rarely used in standard prison management - along with thermal and acoustic comfort improvements, including installing a climate control system and sound-absorbing panels (img. 05).

Arguably, the most ambitious intervention to date is ReverseLab. Uno spazio per l’arte contemporanea tra il carcere e la città (a space for contemporary art bridging the prison and the city). This project partially renovated and reactivated an uninhabitable basement space, closed since the mid-1980s, transforming it into a place dedicated to artistic and cultural production. This project transformed the disused area into a permanent workshop (img. 06). It hosts educational activities for inmates and serves as an exhibition space open to the public. Its goal is to foster dialogue between the prison and the city — a bridge between past and present where art becomes the lens through which prison and society view each other. It provides a medium for people to express themselves and share their stories, fostering mutual understanding between “inside and outside.” Cofunded by the Fondazione Comunità di Milano and the Politecnico di Milano, the pilot edition renovated the space and facilitated an artistic workshop led by artist Maurice Pefura, involving 40 inmates in creating site-specific artwork. The project’s conception and execution also involved two associations, Forme Tentative and Philo-Pratiche Filosofiche, reflecting the research group’s commitment to building collaborative networks among stakeholders both inside and outside the prison walls.

With the exhibition Gli artisti sono quelli che fanno casino. Frammenti dal carcere di San Vittore (The Artists Are the Ones Who Make a Mess: Fragments from San Vittore Prison), curated by Diego Sileo (PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano), the space was open for almost two months to the public6 (img. 07). The project began with the clearing and archiving of objects accumulated over decades, followed by the renovation of the area, which adopted an incremental approach to ensure continuity beyond the pilot phase.

The focus was on the central gallery, 50 meters long and five meters wide, replicating the corridors of the panopticon. The walls were repaired, the basic plumbing and electrical systems were reactivated, the walls were repainted, and a new lighting system was installed. The goal was to enable immediate use of the space. Its indeterminate character was a deliberate methodological and formal choice, leaving room for future projects to be developed collaboratively between the prison and the city.

Toward Constitutional Spaces

As observed, the interventions described are not intended as definitive solutions. Instead, they represent steps in an ongoing process of exploring and implementing the concept of an “antifragile prison,” posing questions and outlining possible approaches. The prototypes do not aim to radically overhaul the prison system but, through targeted innovations, aspire to trigger transformative processes.

For instance, addressing the need for safe sports spaces (ACTS) opened up discussions on the use of color in prisons, the reorganization of spaces to create connections, and the appropriate ways to manage access and use of open spaces. It was discovered that in some sections, for example, open spaces were overly abundant and could be repurposed into work areas—a pressing need.

At San Vittore, the use of materials rarely employed in prisons, such as glass, wood, and sound-absorbing panels, demonstrates methods for differentiating the otherwise indistinct landscape of the prison, while responding to specific needs.

Through their development, the prototypes spark a debate (originating from within but eventually extending outward) about what prisons should or might be today. Over the long term, this dialogue might lead to a prison institution “so different from the current one that the name we now use to describe it would no longer apply” (Colombo, 2022).

ReverseLab exemplifies this vision by imagining envisioning San Vittore as a space with a recognized role in Milan’s contemporary art scene. It represents a way for the city to reclaim the prison, and the interest shown by institutions and citizens suggests that such a transformation is indeed possible.

The fieldwork conducted in and with the Milanese prisons, through “making together” (Ingold, 2013), has allowed the activation of empowerment paths for all participants. For those who come from outside, it was an important opportunity to learn more about the daily life of the prison, physical and relational, recognizing that each institution has its own specificities.

For those who work inside, the prototypes have become an opportunity to break out of consolidated paths and look at contingency as an opportunity to contribute to prison innovation. Observing these experiences, it is possible to trace a method of action. Tracing the various interventions, it is possible to construct a case study of exemplary actions “that can be used as principles of generalization” (Ferraris, 2009). Three families of actions have been identified: minimal, architectural implementation, and provision of new spaces.

Minimal actions are interventions that can be implemented immediately, using easily available and manageable materials to enable new uses for already accessible spaces. This category includes creating graphics, installing small wallmounted equipment, or removing remnants elements of leftover from previous practices. Architectural implementations are moderately complex interventions that expand the possibilities and ways of practicing a space, both in terms of activities and safety levels. Achievable in the short-medium term, these actions require architectural planning and resource allocation. Examples include the construction of new floors or the opening of passageways in the walls. Finally, the provision of new spaces involves more complex and structural interventions that require long-term planning and permanently modify the allocation of spaces for specific activities. These interventions include the construction of new infrastructure or the recovery of currently unused areas.

This first systematization of the interventions aims to support the implementation of future projects, even in other detention facilities, carried out by various stakeholders. At the same time, many other working and research groups are working towards rethinking the prison starting from existing resources7. It seems increasingly necessary to reactivate a space for dialogue and comparison between these experiences, to develop paths that can implement a concrete change towards a detention model to that outlined by the Constitution, capable of respecting the dignity of the person and promoting social reintegration.*

NOTES

1 – Off-Campus. The construction site for the peripheries is an initiative promoted by Polisocial to strengthen the presence of the Politecnico di Milano in the city and the idea of a more responsible university that is more attentive to social challenges and close to the territories.

2 – Off-Campus, San Vittore is open from 9:30 AM to 5:30 PM on Tuesdays and Thursdays.

3 – Detention facilities in Italy are divided into “Case Circondariali” (pre-trial detention house), which house people awaiting trial or sentenced to terms of less than five years, and “Case di Reclusione” (penitentiaries), for those with a final sentence of more than five years.

4 – Ri-Scatti. Per me si va tra la perduta gente, was held at the PAC Pavilion of Contemporary Art in Milan from October 9th to November 6th, 2022.

5 – During the construction phase, some interventions were made possible thanks to additional contributions from the prison administration.

6 – The exhibition, inaugurated on September 24th, was open to the public from September 28th to November 23rd, 2024, with all over 500 available slots fully booked.

7 – Over the last ten years, many academic projects and studies in Italy have focused on prison spaces (Santangelo, 2020), (Giofrè e Posocco, 2020) e (La Varra, 2024).

Giorgio Danesi

Assegnista di ricerca in Restauro architettonico, DICEA, Università Politecnica delle Marche. giorgioisedanesi@gmail.com

Conservare la materia per preservare la memoria urbana

01. Palazzo residenziale in via Commerciale 25, Trieste. Realizzato da G. Zaninovich nel 1908. Fotografia dello stato attuale, 2024 | Residential building on Via Commerciale 25, Trieste. Built by G. Zaninovich in 1908. Photograph of the present condition, 2024. G. Danesi

Preserving Material to Safeguard Urban Memory The architecture inherited from the past embodies an intrinsic fragility. Human perception and the values we choose to preserve inevitably influence the conservation or loss of specific aspects of the built heritage. In Trieste, many buildings from the Liberty period have recently undergone controversial transformations. These changes are not the result of natural decay but rather human interventions that have ignored key principles of the contemporary restoration culture, prioritizing stylistic reconstruction and historical falsification over preserving the “patina of time”. This paper explores the fragility of these buildings as a value, advocating for the preservation of material as a tool to safeguard memory.*

L’architettura ereditata dal passato racchiude una fragilità intrinseca. La percezione umana e i valori che scegliamo di preservare influenzano inevitabilmente la conservazione o la perdita di specifiche sfumature del patrimonio costruito. A Trieste, molti edifici del periodo Liberty hanno subito recenti trasformazioni dai tratti controversi. Questi cambiamenti non sono il risultato del naturale degrado, ma di interventi dell’uomo che hanno ignorato alcuni principi fondamentali della cultura contemporanea del restauro, privilegiando la ricostruzione in stile e il falso storico a scapito della conservazione della “patina del tempo”. Questo saggio esamina la fragilità di queste architetture come un valore, sostenendo la conservazione della materia come strumento per proteggere la memoria.*

Le fragilità contemporanee della Trieste Liberty

ntroduzione: l’etica della polvere

KEYWORDS: LIBERTY; TRIESTE; CONSERVAZIONE | CONSERVATION

L’architettura che ereditiamo dal passato racchiude una fragilità intrinseca. La percezione umana e i valori che scegliamo di preservare influenzano inevitabilmente la conservazione o la perdita di specifiche sfumature del patrimonio costruito. L’etica della polvere è il titolo suggestivo di una celebre installazione di Jorge Otero-Pailos presentata al Palazzo Ducale di Venezia nel 2009 (Ebersberger e Zyman, 2009), che ci invita a riflettere proprio su questo tema. Otero-Pailos, architetto, artista e studioso della Columbia University, sceglie di citare a sua volta il titolo di un testo meno noto di John Ruskin dedicato all’esplorazione dei temi della verità e della bellezza nell’arte e nella vita quotidiana (Ruskin, 1866). Non tanto i contenuti di questa specifica opera del teorico inglese, quanto la poetica racchiusa nelle parole scelte per il titolo costituisce il nucleo della riflessione di Otero-Pailos. L’architetto applica sottili pellicole di lattice sulle superfici stratificate di Palazzo Ducale, rimuovendole poi con cura, portando via uno strato infinitesimale e impercettibile di materia. Queste tele, profondamente espressive e ricche di segni, vengono poi esposte in una mostra temporanea, dimostrando come pochi micron sottratti alle possenti mura dell’architettura veneziana possano raccontare secoli di modificazioni e alterazioni, di fenomeni patologici ma anche fisiologici. Con un gesto carico di significati simbolici, l’architetto pone l’accento sull’inestimabile valore delle superfici segnate dal tempo, richiamando le teorie di Paul Philippot e di Cesare Brandi, che notoriamente difendevano la conservazione della cosiddetta “patina del tempo” quale elemento cardine del principio di autenticità (Brandi, 1963, p. 27). Nell’ambito del restauro contemporaneo, emerge una chiara tendenza a respingere gli interventi volti al ripristino di una perfezione utopica delle superfici. Questa fragilità intrinseca della materia, infatti, rappresenta spesso una parte imprescindibile della storia e dell’identità di un’architettura e del suo contesto. Partendo da questi riferimenti culturali, la riflessione

si inserisce nella realtà di una città che, forse più di altre, ha fatto del Decadentismo una delle sue molteplici qualità da offrire al visitatore e al cittadino. Trieste, al contempo italiana e mitteleuropea, porto e frontiera, crocevia di idee e luogo prediletto di intellettuali come Italo Svevo, Umberto Saba e James Joyce, si configura come un territorio liminare e complesso. Come molte altre città ricche di storia, Trieste è fragile, e lo sono in particolare i suoi palazzi Liberty, segnati dal tempo e paradossalmente minacciati dalle recenti prassi operative nei cantieri di restauro delle loro facciate, che dovrebbero invece preservarli. Una fragilità che, proprio per questi motivi, diventa un valore che necessita di essere compreso dai tecnici, spiegato ai cittadini e difeso dagli enti di tutela.

L’architettura Liberty di Trieste e il valore delle superfici

La città di Trieste alla fine dell’Ottocento vive un periodo di grande trasformazione sociale e culturale, in cui l’architettura diventa uno strumento di espressione delle nuove aspirazioni borghesi. In questo contesto, il Liberty trova un terreno fertile per il suo sviluppo grazie a una crescente prosperità economica, in parte dovuta alla posizione strategica della città come principale porto dell’Impero Austro-Ungarico (Campailla, 1980). Uno degli elementi distintivi di questo stile è l’attenzione meticolosa riservata ai caratteri decorativi delle superfici. I prospetti non sono mai semplici elementi funzionali, ma veri e propri manifesti estetici, che esprimono la creatività degli architetti e degli artigiani dell’epoca. Le superfici, spesso riccamente decorate con dettagli ornamentali, conferiscono agli edifici una qualità scultorea che li rende immediatamente

L’architettura

che ereditiamo

riconoscibili. Mascheroni, ghirlande, cornici e motivi floreali dominano le facciate, creando un gioco continuo di chiaroscuri che varia a seconda della luce naturale (img. 01). Questo effetto plastico e dinamico è uno degli aspetti fondamentali del Liberty triestino, raggiunto grazie all’equilibrio tra conoscenze della tradizione e sperimentazioni di nuovi composti “moderni” come quelli a base di cemento. La pietra artificiale cementizia è uno dei materiali che ha permesso questa ricca produzione. Nella Trieste di fine Ottocento e inizio Novecento, questa tecnica rappresentava una soluzione economica ed efficace per decorare le architetture senza ricorrere ai costi elevati della pietra naturale. Il materiale, composto da un conglomerato di cemento, acqua, polveri lapidee e pigmenti, consentiva di imitare l’aspetto della pietra, ma con un consistente risparmio e una discreta versatilità nella modellazione delle forme (Cavallini e Chimenti, 2010). La sua diffusione fu rapida, soprattutto nell’ambito dell’edilizia residenziale borghese, dove i palazzi dovevano esprimere la modernità e il gusto estetico della nuova classe dirigente senza però gravare eccessivamente sui costi di costruzione.

dal passato racchiude una fragilità intrinseca

Le superfici in pietra artificiale cementizia non solo permettevano una decorazione raffinata e complessa, con risultati estetici del tutto equiparabili alla pietra naturale, ma offrivano anche una buona resistenza agli agenti atmosferici e all’usura, superiore rispetto ad altri materiali più tradizionali come gli stucchi a base di gesso o calce. Questo fattore contribuì alla loro larga diffusione in città, dove le condizioni climatiche spesso difficili rendevano necessarie soluzioni durevoli. Le decorazioni realizzate con questi conglomerati “moderni” assumono un significato particolare: non sono solo ornamento, ma espressione di una sintesi tra arte, artigianato e sperimentazione tecnica. Grazie a miscele calibrate di polveri cementizie e inerti, le pietre artificiali potevano acquisire colori, granulometrie e riflessi peculiari, esito di una lavorazione artigianale so-

stenuta dalla produzione industriale. Nei primi decenni del Novecento, nel Nord-est, si iniziavano infatti a produrre nuovi cementi più resistenti, come il Duralbo, più bianchi, come il Portland Bianco, o più facilmente lavorabili, come il Cemento Fuso Durapid; materiali prodotti dalla Società Istriana dei Cementi di Emilio Stock a Pola e dalla Società Anonima Cementi Isonzo a Trieste (Fabbri e Rocchi, 2014).

John Ruskin, impegnato nella sua battaglia contro il restauro stilistico di derivazione francese, scriveva nel suo Le sette lampade dell’architettura: “Che riproduzione si può eseguire di superfici che sono consumate di mezzo pollice? Tutt’intera la rifinitura superficiale dell’opera stava in quel mezzo pollice” (Ruskin, 1849). La maggiore forza espressiva delle pietre artificiali cementizie risiede proprio nelle loro caratteristiche di superficie: granulometrie, riflessi e colorazioni in pasta. L’importanza di preservare la materia originaria di cui sono costituite appare dunque centrale nel dibattito sulla conservazione del patrimonio Liberty di

Per comprendere l’entità dei recenti interventi sulle superfici è possile visualizzare lo stato di conservazione nel 2020, come documentato da Google Street View al seguente link | To understand the extent of recent interventions on the surfaces, it is possible to view the state of conservation in 2020, as documented by Google Street View at the following link (last access Januray 2025): maps.app.goo.gl/FaD8zy76ew5rNmzx6

Trieste. Le decorazioni e i dettagli ornamentali rappresentano non solo una testimonianza dell’abilità degli artigiani e della visione degli architetti dell’epoca, ma anche una sfumatura fondamentale dell’identità della città. Il rischio, tuttavia, è che queste superfici vengano trattate con interventi inadeguati, perdendo così la loro autenticità e la loro capacità di trasmettere al futuro uno specifico momento storico, ricco di sperimentazione tecnica e formale.

I processi in atto nei cantieri della città: la prassi e i rischi Nel 2011, la mostra Trieste Liberty ha offerto una preziosa occasione per riflettere sulla salvaguardia di questo patrimonio, documentando lo stato di conservazione di edifici emblematici progettati da figure significative come Max Fabiani, Giuseppe Sommaruga e Giorgio Zaninovich (Rovello et al., 2011). Tuttavia, a meno di quindici anni di distanza, alcune di queste architetture appaiono oggi molto diverse dalle immagini raccolte nel catalogo della mostra. Non per

02-03. Palazzo residenziale in via Vercellio 1, Trieste. Realizzato da F. Ferluga nel 1902. Fotografia dello stato attuale, 2024 | Residential building on Via Vercellio 1, Trieste. Built by F. Ferluga in 1902. Photograph of the present condition, 2024. G. Danesi

04-05. Palazzo residenziale in via Giulia 33, Trieste. Realizzato da G. M. Mosco e G. Righetti nel 1903. Fotografia dello stato attuale, 2024 | Residential building on Via Giulia 33, Trieste. Built by G. M. Mosco and G. Righetti in 1903. Photograph of the present condition, 2024. G. Danesi

Per comprendere l’entità dei recenti interventi sulle superfici è possile visualizzare lo stato di conservazione nel 2020, come documentato da Google Street View al seguente link | To understand the extent of recent interventions on the surfaces, it is possible to view the state of conservation in 2020, as documented by Google Street View at the following link (last access Januray 2025): maps.app.goo.gl/5A67j331VPKKK2Cv5

un fisiologico avanzamento delle condizioni di degrado ma, al contrario, perché molte di esse hanno subìto interventi di recupero particolarmente invasivi, spesso in contraddizione con i principi del restauro conservativo. Operazioni recenti, caratterizzate dalla stesura di nuove colorazioni patinate e da decorazioni ricostruite con una logica di completamento all’identique, hanno alterato profondamente e rapidamente la percezione visiva della città. Questi interventi non solo hanno restituito a molte facciate una completezza forzata che rasenta il falso storico, ma in alcuni casi hanno anche tradito l’aspetto originario attraverso l’applicazione di colorazioni del tutto arbitrarie, che sembrano evocare stratigrafie mai realmente esistite (imgg. 02-03).

In questo contesto, le decorazioni in pietra artificiale cementizia sono spesso le più colpite, con conseguenze discutibili per le loro caratteristiche materiche. Due sono le tipologie di interventi più comuni, entrambe dannose: da un lato, puliture eccessivamente abrasive che, rimuovendo strati di materiale,

rendono le superfici più ruvide e predisposte all’accumulo di futuri depositi; dall’altro, ridipinture complete delle decorazioni, che cancellano le qualità originarie di colore, riflesso e granulometria, compromettendo irrimediabilmente la percezione complessiva delle facciate (imgg. 04-05).

Spesso, in nome dell’estetica e di una ricerca spasmodica di compiutezza e perfezione, si è trascurata la sostanza, dimenticando concetti chiave della cultura contemporanea del restauro, come la conservazione della patina del tempo e il principio di distinguibilità nell’integrazione delle lacune. Incentivate da recenti strumenti fiscali come il Bonus Facciate, seppur mosse da buone intenzioni, queste azioni hanno talvolta ignorato la complessità dei materiali e delle tecniche costruttive tipiche del patrimonio architettonico di inizio Novecento. Gli approcci adottati nei cantieri aperti tra il 2022 e il 2024, che hanno coinvolto oltre cinquanta architetture realizzate tra il 1900 e il 1913, sembrano aver trascurato il valore intrinseco racchiuso nella condizione fragile e frammentata di questi manufatti1 (img. 08). Il reiterarsi di queste pratiche ha portato a un proliferare di palazzi ridipinti con colori estremamente vivaci, talvolta senza alcun riferimento a uno studio stratigrafico delle cromie originarie. È tuttavia importante segnalare che tutte le operazioni di cui si parla sono state svolte nel pieno della legalità, rispettando i regolamenti edilizi e l’attuale normativa in termini di tutela. Uno degli aspetti più preoccupanti è proprio la scelta di ridipingere alcune di queste architetture con tinte che, pur compatibili con il Piano del Colore della città, non riflettono le qualità storiche dei manufatti. D’altro canto, la rapidità con cui vengono condotti molti di questi interventi, spesso dettata dalla necessità di rispettare scadenze fiscali, rappresenta il principale rischio per il patrimonio, riducendo il tempo e le risorse per un’adeguata analisi dello stato conservativo e la conseguente scelta delle tecniche d’intervento più appropriate.

Conservare la materia per preservare la memoria Il tema della fragilità dei centri storici e della pericolosità di strumenti fiscali come i Bonus Facciate ha assunto un’importanza di livello nazionale, attirando crescente attenzione nel contesto culturale italiano, anche grazie a iniziative e convegni sostenuti da rilevanti società scientifiche del settore (Della Torre e Russo 2023; Ippoliti e Svalduz 2023). Sebbene si possano ancora riscontrare, in contesti privilegiati, alcuni esempi di “buone pratiche” (Trovò e Barbieri, 2022), è fondamentale sottolineare l’ampia presenza di situazioni simili a quella triestina in realtà diversificate. Tra questi, si riporta, ad esempio, l’appello della Soprintendente siciliana Donatella Aprile, che ha di recente denunciato gli esiti di alcuni cantieri di restauro di facciate a Catania, utilizzando l’espressione evocativa “Palazzo dell’Ottocento dipinto come una torta alla panna” per descrivere la gravità della situazione e mettere in evidenza i significativi rischi culturali che gli strumenti fiscali rappresentano per il patrimonio architettonico locale (Leocata 2022).

Il reiterarsi di questa prassi rischia di compromettere in modo irreversibile l’autenticità delle architetture

Liberty di Trieste

Il reiterarsi di queste prassi rischia di compromettere in modo irreversibile l’autenticità delle architetture Liberty di Trieste, così come di molte altre opere in diversi contesti italiani. Tuttavia, è ancora possibile invertire questa tendenza, adottando un approccio più consapevole e orientato alla conservazione dei valori storici e culturali insiti in tali manufatti. Gli incentivi economici, sebbene abbiano aumentato il numero di cantieri, spesso hanno compromesso la qualità, portando a soluzioni tecniche affrettate e talvolta inadegua-

te. Per salvaguardare correttamente questo patrimonio, è auspicabile che i futuri interventi si basino su progetti diagnostici accurati, volti a comprendere la natura dei materiali, delle tecniche costruttive e delle stratigrafie, anche se molte di queste architetture private non sono tutelate dal vincolo monumentale previsto dal Codice dei Beni Culturali.

Per comprendere l’entità dei recenti interventi sulle superfici è possile visualizzare lo stato di conservazione nel 2020, come documentato da Google Street View al seguente link | To understand the extent of recent interventions on the surfaces, it is possible to view the state of conservation in 2020, as documented by Google Street View at the following link (last access Januray 2025): maps.app.goo.gl/Li3GMjs4mh39yFm36

specificità dell’architettura Liberty e sulle esigenze conservative di materiali complessi, come la pietra artificiale cementizia (Cupelloni, 2017, pp. 80-85). Solo una formazione continua e una maggiore consapevolezza delle tecniche costruttive possono prevenire ulteriori danni al patrimonio. È essenziale che gli operatori comprendano l’importanza di saper interpretare le tracce del tempo e di rispettare le stratificazioni storiche al pari delle cromie originarie, evitando così di introdurre reinterpretazioni estetiche che si configurano sostanzialmente come “falsi storici” (imgg. 06-07).

Trieste, come l’immaginaria Zaira e molte altre città reali, si arricchisce di imperfezioni, tracce e segni del tempo

Un aspetto altrettanto cruciale è la sensibilizzazione dei professionisti coinvolti nei restauri. Architetti, restauratori e maestranze devono essere adeguatamente formati sulle

Un tema forse ancora più sfidante riguarda l’educazione del pubblico ai temi della conservazione, attraverso la divulgazione di contenuti che permettano ai non specialisti di riconoscere e apprezzare i valori storici e architettonici promossi dalla cultura contemporanea del restauro. È cruciale

06-07. Palazzo residenziale in via dei Piccardi 11, Trieste. Realizzato da G. Widmer nel 1906. Fotografia dello stato attuale, 2024 | Residential building on Via dei Piccardi 11, Trieste. Built by G. Widmer in 1906. Photograph of the present condition, 2024. G. Danesi

far comprendere che non si tratta di “rendere più bella la città” – come proclamano alcuni cartelloni di cantiere – ma di preservare la memoria di un luogo. Oltre al coinvolgimento di operatori, tecnici e istituzioni, è infatti indispensabile informare e sensibilizzare la comunità locale. I cittadini devono essere resi consapevoli del valore testimoniale di queste architetture e delle conseguenze che interventi inappropriati possono avere sulla memoria collettiva del paesaggio urbano. Altrimenti, la presenza di cantieri che restituiscono edifici dai colori sgargianti rischia di essere erroneamente percepita come un’operazione virtuosa di “restauro” della città.

Promuovere una cultura diffusa della conservazione, che includa la consapevolezza dell’importanza del concetto di autenticità e della necessità di distinguibilità degli interventi, può incentivare anche i proprietari degli edifici a seguire pratiche conservative corrette, non necessariamente rivolte alla sola ricerca di una compiutezza artificiosa, che rimuove il prezioso contributo del tempo dalla facies urbana. La conservazione del patrimonio non deve essere vista come una mera questione tecnica o burocratica, ma come una responsabilità collettiva che riguarda tutti i fruitori della città. Un adeguato sistema di tutela delle architetture Liberty di Trieste richiede investimenti significativi, ma soprattutto un progetto culturale fondato sulla comprensione più profonda della città e della sua storia, evitando di offrire un’immagine fittizia e patinata di una realtà invece complessa e stratificata.

Come scriveva Italo Calvino, riflettendo sul tema della memoria nelle sue utopiche Città invisibili: “Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, […] in ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole” (Calvino, 1973, p. 11). Trieste, come l’immaginaria Zaira e molte altre città reali, si arricchisce di imperfezioni, tracce e segni del tempo. È una città fatta di memoria e di frammenti, e questi valori devono essere preservati.*

08. Montaggio della planimetria di Trieste con indicate le principali architetture Liberty della città (1900-1913) con una fotografia attuale del palazzo residenziale in via Cologna 5, Trieste. Realizzato da G. Welss nel 1912. Fotografia dello stato attuale, 2024. Si notino le fratturazioni nella pietra artificiale cementizia, dalle quali emergono i ferri utilizzati per irrobustire gli elementi decorativi a stampo | Composite map of Trieste indicating the city’s main Art Nouveau architecture (1900–1913) with a current photograph of the residential building on Via Cologna 5, Trieste. Built by G. Welss in 1912. Photograph of the present condition, 2024. Note the fractures in the cementbased artificial stone, revealing the iron reinforcements used to strengthen the molded decorative elements. G. Danesi

NOTE

1 – Una prima indagine sulle architetture Liberty di Trieste, qui integrata ed approfondita, è stata svolta dall’autore nel corso di un Assegno di ricerca Post-Doc presso l’Università degli studi di Udine, DPIA (2021).

REFERENCES

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Introduction: The Ethics of Dust

The architecture inherited from the past contains an intrinsic fragility. Human perception and the values we choose to preserve, inevitably shape the conservation or loss of specific nuances in built heritage. The Ethics of Dust is the evocative title of a renowned installation by Jorge Otero-Pailos, exhibited at Palazzo Ducale in Venice in 2009 (Ebersberger and Zyman, 2009), inviting reflection on this theme. Otero-Pailos, architect, artist and professor at the Columbia University, chose this title in honour to a lesser-known text by John Ruskin exploring themes of truth and beauty in art and daily life (Ruskin, 1866). It is not Ruskin’s specific work itself, but the poetic resonance of the mere title that forms the core of Otero-Pailos’ meditation. The architect applied thin layers of latex to the layered surfaces of the Palazzo Ducale, carefully removing them to carry away an infinitesimal, almost imperceptible layer of material. These sheets, deeply expressive and rich in marks, were then displayed in a temporary exhibition, demonstrating how a few microns removed from the sturdy walls of this Venetian palace could narrate centuries of changes and alterations – some pathological, some other physiological. In a gesture laden with symbolic meaning, the architect emphasizes the invaluable worth of surfaces marked by time, invoking the theories of Paul Philippot and Cesare Brandi, who famously argued for the preservation of the so-called “patina of time” as a cornerstone of authenticity (Brandi, 1963, p. 27). In contemporary conservation practices, there is a distinct trend toward rejecting interventions aimed at achieving a utopian perfection of surfaces. Indeed, this intrinsic material fragility often represents an indispensable part of the history and identity of a given building and its context. From these cultural references, the reflection situates itself within the reality of a city that, perhaps more than others, has made Decadence one of its multiple qualities offered to both the visitor and the citizen alike. Trieste, both Italian and

Giorgio Danesi Preserving Material to Safeguard Urban Memory

The Contemporary Fragilities of Art Nouveau in Trieste

Central European, port and border, crossroads of ideas and a favourite haunt of intellectuals such as Italo Svevo, Umberto Saba and James Joyce, emerges as a complex, liminal territory. Like many other historically rich cities, Trieste is fragile, especially in the case of its Art Nouveau buildings, marked by time and paradoxically threatened by the recent operational practices in the restoration sites that should instead protect them. This fragility therefore becomes a value that needs to be understood by technicians, explained to citizens, and defended by the protection authorities.

Art Nouveau Architecture in Trieste and the Value of Surfaces

In the late nineteenth century, the city of Trieste experienced a period of deep social and cultural transformation, where architecture became a mean for expressing new bourgeois aspirations. Within this context, Art Nouveau found fertile ground for its development thanks to the city growing economic prosperity, partly due to its strategic position as the main port of the Austro-Hungarian Empire (Campailla, 1980). One distinctive element of this style is the meticulous attention given to decorative features of surfaces. Facades were never merely functional elements but aesthetic manifestos, expressing the creativity of the architects and artisans of the time. Surfaces, often richly adorned with ornamental details, gave buildings a sculptural quality presenting them as instantly recognizable. Masks, garlands, cornices and floral motifs dominated the facades, creating a continuous play of light and shadow that varied according to the natural light (img. 01). This dynamic, plastic effect is one of the fundamental aspects of Triestine Art Nouveau, achieved through a balance between traditional knowledge and experimentation with new “modern” compounds such as cement-based ones. Artificial cement stone was one material that enabled this rich decorative output. In late nineteenth and early twentieth century, this technique represented

an economic, effective solution for decorating architecture avoiding the high costs of natural stone. Composed of a conglomerate of cement, water, stone dust and pigments, this material allowed the imitation of stone while achieving substantial savings and versatility in shape modelling (Cavallini and Chimenti, 2010). Its use became widespread, especially in bourgeois residential buildings where architecture had to express the modernity and aesthetic tastes of the new ruling class without significantly increasing construction costs. Artificial cement stone surfaces not only permitted refined, complex decoration with aesthetically comparable results to natural stone but also offered good resistance to atmospheric agents and wear, surpassing more traditional materials like gypsum or lime-based stuccos. This factor contributed to their wide adoption in the city, where difficult climatic conditions often needed durable solutions. Decorations made with these “modern” conglomerates assume particular significance: they are not mere ornamentation but expressions of a synthesis between art, craftsmanship, and technical experimentation. By carefully calibrating mixtures of cement powder and aggregates, artificial stones could achieve unique colours, granularity, and reflections, celebrating the result of artisanal work supported by industrial production. In the early twentieth century, new, more resistant cements began to be produced in northeastern Italy, such as “Duralbo”, the whiter “Portland White”, and the more easily workable “Durapid Fused Cement”, materials manufactured by Emilio Stock’s Istrian Cement Company in Pula and the Isonzo Cement Company in Trieste (Fabbri and Rocchi, 2014).

John Ruskin, engaged in his crusade against stylistic restoration derived from the French context, wrote in The Seven Lamps of Architecture: “What reproduction can be executed of surfaces that are worn down by half an inch? The entire surface finish of the work lay in that half inch” (Ruskin, 1849). The greatest expressive strength of artificial cement stones lies precisely

in their surface characteristics: granularity, reflections, and inherent colour. The importance of preserving the original material from which they are made is therefore central to the debate on conserving Trieste’s Art Nouveau heritage. Decorations and ornamental details are not only a testament to the skill of the artisans and the vision of the architects of that time but also a fundamental shade in the city’s identity. The risk, however, is that these surfaces are subjected to inappropriate interventions, thereby losing their authenticity and their ability to convey to the future a specific historical moment, rich in technical and formal experimentation.

Current Practices in the City’s Restoration Building Sites: Routines and Risks

In 2011, the exhibition Trieste Liberty provided a valuable opportunity to reflect on the preservation of this heritage, documenting the conservation state of emblematic buildings designed by significant figures such as Max Fabiani, Giuseppe Sommaruga, and Giorgio Zaninovich (Rovello et al., 2011). Yet, less than fifteen years later, some of these buildings appear very different from the images collected in the exhibition catalogue. This is not due to a physiological progression of degradation but, on the contrary, to the many that have undergone particularly invasive recovery interventions, often contradicting the principles of conservation theory. Recent operations, characterized by the application of new patinated colorations and decorations reconstructed according to a logic of “completion à l’identique”, have deeply and rapidly altered the city visual perception. These interventions have not only returned to many facades a forced completeness bordering on “historical forgery” but, in some cases, have also betrayed the original appearance through the application of entirely arbitrary colorations, evoking stratigraphies that never really existed (imgg. 02-03). In this context, artificial cement stone decorations are often the most affected, with questionable consequences for their material characteristics. Two types of interventions are most common and both damaging: on the one hand, excessively abrasive cleaning which, by removing layers of material, makes surfaces rougher and more prone to future deposits; on the other hand, complete repainting of decorations, erasing original qualities of colour, reflection and granularity, irreparably compromises the overall perception of facades (imgg. 04-05).

In the name of aesthetics and a frenzied pursuit of completeness and perfection, substance has often been neglected, overlooking key concepts in contemporary conservation culture, such as the preservation of the “patina of time” and the principle of distinguishability in filling in gaps. Although driven by good intentions, recent fiscal tools like the Bonus Facciate have sometimes ignored the complexity of materials and construction techniques typical of early twentieth-century architectural heritage. The approaches adopted in worksites opened between 2022 and 2024, involving more than fifty buildings constructed between 1900 and 1915, seem to have disregarded the intrin-

sic value embedded in the fragile, fragmented condition of these structures1 (img. 08). The reiteration of these practices has led to a proliferation of buildings repainted in highly vivid colours, often without any reference to a stratigraphic study of the original hues. Nevertheless, it is important to note that all the operations mentioned were carried out within the law, complying with building regulations and current protective legislation. One of the most concerning aspects focuses on the choice to repaint some of these buildings with colours that, although compatible with the City Colour Plan, do not reflect the historical qualities of the structures. Furthermore, the speed with which many of these interventions are conducted, often driven by the need to meet fiscal deadlines, poses the primary risk to heritage, reducing the time and resources for an adequate analysis of the conservation state and the consequent selection of the most appropriate intervention techniques.

Preserving Material to Safeguard Memory

The theme of historic centres fragility and the risks associated to fiscal tools like Bonus Facciate has gained national importance, drawing increasing attention within the Italian cultural context, supported by initiatives and conferences organized by prominent scientific societies in the field (Della Torre and Russo 2023; Ippoliti and Svalduz 2023). While some “best practices” can still be observed in selecting contexts (Trovò and Barbieri, 2022), it is crucial to highlight the widespread nature of situations like the one described in Trieste, across different backgrounds. Among these, for example, the petition of the Sicilian Superintendent Donatella Aprile, who recently raised concerns about the results of some facade restoration projects in Catania. She used the evocative expression “Nineteenth-century palace painted like a whipped-cream cake” to describe the severity of the situation and emphasise the significant cultural risks that fiscal tools pose to the local architectural heritage (Leocata, 2022).

The repetition of these practices risks an irreversible alteration of the authenticity of Trieste’s Art Nouveau architecture, as well as that of many other works in various Italian contexts. However, it is still possible to reverse this trend by adopting a more conscious approach, oriented towards the preservation of historical and cultural values inherent in such structures. While financial incentives have increased the number of worksites, they have often compromised quality, leading to hasty and sometimes inadequate technical solutions. To properly safeguard this heritage, it is desirable for future interventions to be based on accurate diagnostic projects aimed at understanding the nature of materials, construction techniques and stratigraphies, even if many of these private buildings are not protected by the Italian legislative framework on Cultural Heritage. An equally crucial aspect is raising awareness among professionals involved in restorations. Architects, artisans, and workers must be adequately trained on the specifics of Art Nou-

veau architecture and the conservative needs of complex materials, such as cement-based artificial stones (Cupelloni, 2017, pp. 80-85). Only continuous training and a greater understanding of construction techniques can prevent further damage to heritage. It is essential that operators understand the importance of interpreting the traces of time and respecting historical stratifications as much as the original colour schemes, thereby avoiding the introduction of aesthetic reinterpretations that essentially constitute “historical falsifications” (imgg. 06-07).

A perhaps even more challenging theme concerns educating the public on conservation issues, through disseminating content that enables non-specialists to recognize and appreciate the historical and architectural values promoted by contemporary conservation culture. It is crucial to make people understand that it is not about “making the city more beautiful” – as some construction site signs proclaim – but about preserving the memory of a place. In addition to involving technical operators and institutions, it is indeed essential to inform and raise awareness within the local community. Citizens must be made aware of the testimonial value of these architectures and of the consequences that inappropriate interventions can have on the collective memory of the urban landscape. Otherwise, the presence of construction sites that return buildings with vibrant colours risks being mistakenly perceived as a virtuous “restoration” of the city. Promoting a widespread conservation culture, including awareness of the concept of authenticity and the need for distinguishable interventions, can also encourage building owners to follow correct conservative practices, not necessarily aimed solely at an artificial search for completeness that removes the precious contribution of time from the urban facades. Heritage conservation should not be seen as a mere technical or bureaucratic matter but as a collective responsibility concerning all city users. An adequate system for protecting Trieste’s Art Nouveau architecture requires significant investments but, above all, a cultural project founded on a deeper understanding of the city and its history, avoiding the offer of a fictitious, polished image of an otherwise complex and stratified reality.

As Italo Calvino wrote, reflecting on the theme of memory in his utopian Invisible Cities: “A description of Zaira as it is today should contain all of Zaira’s past. But the city does not tell its past; it contains it like the lines of a hand, written in the corners of streets, in the grilles of windows, […] in every segment lined with scratches, serrations, cuts, commas” (Calvino, 1973, p. 11). Trieste, like the imaginary Zaira or many other real cities, is enriched by imperfections, traces and signs of time. It is a city made of memory and fragments, and these values must be preserved.*

NOTES

1 – An initial investigation into Trieste’s Art Nouveau architecture, here expanded and further developed, was conducted by the author during a Post-Doc Research Fellowship at the University of Udine, DPIA (2021).

Luca Marzi

Professore associato in Tecnologia dell’architettura, DIDA, Università degli Studi di Firenze. luca.marzi@unifi.it

Stefano Colombini Ing. PhD, Direttore UO Progettazione di AOUP. stefano.colombini@ao-pisa.toscana.it

Monica Vitti

Architetto, borsista di ricerca, DIDA, Università degli Studi di Firenze. monica.viti@unifi.it

Gianluca Panichi Architetto afferente all’area tecnica di AOUP. g.panichi@ao-pisa.toscana.it

Sabrina Borgianni PhD in Tecnologia dell’architettura, DIDA, Università degli Studi di Firenze. sabrina.borgianni@gmail.com

L’accessibilità delle strutture ospedaliere

01. Ingresso principale del polo ospedaliero di Cisanello | Main entrance of the Cisanello hospital complex. L. Marzi

Accessibility of Hospital Facilities Plans for the Elimination of Architectural Barriers (PEBAs) are planning tools aimed at identifying, classifying and overcoming situations of impediment, risk and obstacle to the use of public buildings and spaces by weak users. The article illustrates the research project that the DIDA Department of Architecture, University of Florence, put together for the definition of the accessibility plan for the Cisanello University Hospital in Pisa. The research was developed in phases, defining the operational methodology and tools with the main purpose of producing an intervention model that indicates the methods of analysis and evaluation of intervention priorities and design strategies that facilitate user accessibility of healthcare environments.*

I Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA) sono strumenti pianificatori che hanno la finalità di individuare, classificare e superare le situazioni di impedimento, rischio e ostacolo alla fruizione di edifici e spazi pubblici da parte delle utenze deboli. Uno strumento metaprogettuale, necessario alle pubbliche amministrazioni ad avviare procedure di superamento delle barriere architettoniche. L’articolo illustra il progetto di ricerca che il dipartimento di architettura DIDA, dell’Università degli studi di Firenze, ha messo a punto per la definizione del piano dell’accessibilità dell’Ospedale Universitario di Cisanello a Pisa. La ricerca si è sviluppata per fasi, definendo la metodologia operativa e gli strumenti con il fine principale di produrre un modello d’intervento che indichi le metodologie di analisi e di valutazione delle priorità di intervento e le strategie progettuali che agevolano il fruitore nell’accessibilità degli ambienti sanitari.*

Il caso studio del piano per il Policlinico di Cisanello dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Pisa

ntroduzione

I Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA) sono strumenti pianificatori, la cui finalità è individuare, classificare e superare rischi e ostacoli alla fruizione di edifici e spazi pubblici (Marzi, 2023). In Italia la cogenza dei PEBA è resa obbligatoria per le Pubbliche Amministrazioni (PA), con la legge 41 del 1986, integrata e ampliata dalla legge 104 del 1996. In questo ambito le aziende sanitarie e ospedaliere, in quanto enti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico, sono tenute, al pari delle amministrazioni comunali, a predisporre un proprio PEBA. Al di là degli obblighi di legge, il tema dell’accessibilità degli edifici ospedalieri è un presupposto fondamentale rispetto a tutti i metodi di approccio1 alla progettazione e gestione, delle strutture sanitarie (Devlin e Arneill, 2003). Approcci che assumono connotazioni differenti ma che hanno in comune l’obiettivo di definire un design degli spazi complementare agli effetti curativi dei trattamenti sanitari, e che quindi può favorire il processo di guarigione del paziente (Ulrich, 1991). In questo ambito l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Pisa (AOUP) ha incaricato il dipartimento di architettura dell’Università degli Studi di Firenze (DIDA) di definire, attraverso un progetto di ricerca (PdR), la predisposizione del piano dell’accessibilità del plesso Ospedaliero Universitario di Cisanello con il fine di dotarsi degli strumenti definiti dalle normative cogenti e, contestualmente, di iniziare un piano degli interventi secondo una governace condivisa nei diversi settori operativi che caratterizzano la gestione delle aziende sanitarie.

Obiettivi

KEYWORDS: PIANIFICAZIONE DELL’ACCESSIBILITÀ | ACCESSIBILITY PLANNING; EDILIZIA OSPEDALIERA | HOSPITAL BUILDING; PEBA | PEBAS

L’accessibilità delle strutture sanitarie è tra i capisaldi della Carta europea dei diritti del malato che, così come previsto dal “modello sociale europeo”, garantisce a pazienti, utenti, famiglie e soggetti deboli il diritto di usufruire dei servizi dei sistemi sanitari nazionali. La Carta, quale strumento di indirizzo, identifica l’accessibilità come “diritto di

ogni utente di accedere ai servizi sanitari in base al suo stato di salute”. Su questa spinta, nel 2023, la commissione affari sociali del governo italiano ha adottato una risoluzione per migliorare l’accessibilità ai servizi sanitari e ospedalieri, in linea con l’art.25 della CRPD2. La risoluzione prevede l’attivazione di un sistema di monitoraggio del livello di accessibilità degli ospedali italiani, che prevede la mappatura degli ostacoli, materiali e immateriali, fonti di discriminazione alla fruizione degli spazi e attrezzature, valutando il livello di fruibilità delle stesse in base alle diverse tipologie di utenza afferenti alle così dette utenze deboli, coerentemente con le normative cogenti sulla pianificazione del superamento delle barriere architettoniche. Il PdR ha il principale obiettivo di produrre un modello d’intervento che indichi le metodologie di analisi e di valutazione delle priorità di intervento e le relative strategie progettuali che agevolano il fruitore nell’accessibilità degli ambienti sanitari.

L’accessibilità

delle strutture

sulla base delle prestazioni delle componenti che formano gli habitat (Torricelli et al., 2015). Tale approccio mira a produrre un supporto operativo, un quadro conoscitivo e valutativo, che fornisca indicazioni strategiche per facilitare la transizione tra la fase di istruttoria del progetto e quella della sua formalizzazione e sintesi (Del Nord e Peretti 2012). In questo contesto, il PdR è stato suddiviso in cinque principali fasi operative, ciascuna volta a raggiungere obiettivi specifici coerenti con il quadro normativo di riferimento:

– Prima fase: Predisposizione del piano. Contestualizzazione del progetto e raccolta dei dati, inclusa la definizione dei supporti di rilievo e del loro ambito di applicazione;

– Seconda fase: Rilevazione dei dati. Analisi dettagliata dello stato di fatto attraverso attività di rilievo sul campo;

– Terza fase: Valutazione dei dati raccolti. Interpretazione e valutazione delle informazioni ottenute per identificare criticità e punti di forza;

sanitarie è tra i capisaldi della carta europea dei diritti del malato

Approccio e metodi

In questo ambito operativo il PEBA analizza l’accessibilità intesa come sommatoria di dati relativi alla raggiungibilità, alla usabilità, alla sicurezza e alla fruibilità. Questi aspetti contribuiscono a definire il “microclima ambientale” (Alberti e Marzi, 2022) che determina il livello di funzionalità di uno spazio. L’approccio metodologico adottato, basato su un’ottica esigenziale-prestazionale, si colloca nel campo del metaprogetto, operando a una scala intermedia tra architettura e urbanistica. L’approccio prestazionale all’accessibilità ambientale è volto a verificare l’accessibilità all’ambiente fisico sulla base dell’analisi delle esigenze (e delle aspettative) di uso di differenti categorie di utenza e

– Quarta fase: Pianificazione degli interventi. Definizione delle priorità e pianificazione delle azioni necessarie per migliorare l’accessibilità.

A queste quattro fasi si aggiunge una Quinta fase, trasversale alle altre, che ha previsto la costituzione di un gruppo di lavoro interdisciplinare. Questo gruppo, composto da rappresentanti dei settori dirigenziali dell’Azienda Ospedaliera (area tecnica, direzione sanitaria, URP, RSPP, ecc.) e da associazioni che rappresentano persone con disabilità motoria, percettiva e cognitiva, ha collaborato nell’individuazione e valutazione delle criticità ambientali, tecnologiche e organizzative, oltre che nella definizione delle possibili soluzioni progettuali.

Un elemento chiave del progetto è l’impiego di strumenti digitali per la raccolta, gestione e analisi dei dati. L’organizzazione digitale facilita non solo l’elaborazione e l’implementazione del PEBA, ma ne garantisce trasparenza, efficacia e gli aggiornamenti periodici necessari. Il PdR ha predisposto il sistema di gestione dei dati secondo opportu-

02. Vista prospettica del nuovo plesso ospedaliero di Cisanello | Perspective view of the new Cisanello hospital complex. Immagine autori e autrici

ni dataset interoperabili alla piattaforma AT.2.0, un sistema afferente ai sistemi CAFM (Computer Aided Facilities Management) in uso in AOUP. Questa interoperabilità consente di ottimizzare la gestione del patrimonio edilizio e supporta la pianificazione futura.

I metodi sviluppati, riguardanti la definizione degli strumenti, dei soggetti coinvolti e delle regole per la raccolta, gestione, classificazione e valutazione delle informazioni, sono funzionali alla condizione dello scenario di riferimento relativo al progetto di ampliamento e ristrutturazione del plesso di Cisanello. L’obiettivo del PdR è quello di verificare le condizioni dell’esistente per poi porre delle buone prassi da utilizzare nella realizzazione delle nuove strutture e di formare un gruppo di esperti necessari al feedback del processo.

Il caso studio

Il progetto del Policlinico di Pisa, che comprende il recupero del complesso di Santa Chiara e la costruzione del nuovo ospedale a Cisanello, rappresenta un’importante riorganizzazione della rete sanitaria toscana. Attualmente, il campus ospedaliero è caratterizzato da un insieme di edifici dedicati a prestazioni specialistiche. Alcuni di essi sono collegati internamente, favorendo la continuità delle attività, mentre altri risultano completamente separati. Questa configurazione, con strutture interconnesse principalmente attraverso percorsi esterni, genera una significativa complessità dal punto di vista distributivo e organizzativo. Ogni edificio dispone di uno o più accessi destinati agli utenti, affiancati da ingressi riservati al personale e uscite di emergenza, il tutto inserito in una rete articolata di percorsi diversificati per utenti, mezzi e attrezzature. Tale complessità implica una gestione onerosa in termini di controllo e manutenzione. Per affrontare queste criticità e migliorare la funzionalità complessiva, nel 2019 sono stati avviati i lavori per la costruzione di un nuovo monoblocco. Questa struttura integrerà parte dell’ospedale esistente e accoglierà la maggior parte delle funzioni sanitarie e am-

INDIVIDUAZIONE DEGLI ITINERARI ANALISI DEI FLUSSI E DEI MODI D’USO DELL’AMBIENTE

FASE 2

ANALISI DELLA ACCESSIBILITÀ, SICUREZZA, COMFORT RILEVAZIONE DELLO STATO DI FATTO

FASE 1

RACCOLTA DI INFORMAZIONI PRELIMINARI DEFINIZIONE DEL GRUPPO DI LAVORO

OSSERVATORIO DELL’ACCESSIBILITÀ

FASE 4

PIANO D’ABBATTIMENTO DELLE BARRIERE ARCHITETTONICHE E DELLE CONDIZIONI DI CONFLITTO UOMO AMBIENTE

REDAZIONE DEI RAPPORTI E PRIORITÀ D’INTERVENTO PROGETTI DI SUPERAMENTO DELLE BARRIERE RILEVATE

CLASSIFICAZIONE DELLE CONDIZIONI DI CONFLITTO UOMO AMBIENTE RILEVATE

FASE 3

VALUTAZIONE E VALIDAZIONE DELLO STATO DI ACCESSIBILITÀ VERIFICA REQUISITI

REDAZIONE DELLA MAPPA DEL’ACCESSIBILITÀ SISTEMI INFORMATIVI PER LA PUBBLICAZIONE DATI COMUNICAZIONE

03. Il modello di intervento proposto. IL PEBA si articola in quattro fasi principali. Le fasi prevedono la regia del gruppo di lavoro multidisciplinare formato dal personale afferente ai servizi tecnici, dal personale sanitario e dalle associazioni portatrici di interessi | The proposed intervention model. The PEBA consists of four main phases. The phases provide the direction of the multidisciplinary working group formed by staff pertaining to technical services, health personnel and stakeholder associations.

ministrative attualmente distribuite tra i vari padiglioni del campus e altre sedi esterne (Donati, 2019). Il progetto, che si concluderà nel 2026, include un piano per migliorare i collegamenti viari con l’esterno, integrandolo alla rete dei trasporti esistente e garantendo una migliore accessibilità al complesso ospedaliero. Il monoblocco avrà un corpo principale pensato come una main street, punto di riferimento centrale di accesso e smistamento ai vari percorsi sanitari, a regime ospiterà 1.650 posti letto e prevede un flusso di circa 15.000 accessi giornalieri. In questo scenario il PEBA ha l’obiettivo di carattere anticipatorio, ovvero di definire delle prassi che dovranno essere accolte nella realizzazione del nuovo macroblocco.

Le fasi del piano

L’assunto che “la pianificazione dell’accessibilità sia un processo piuttosto che un prodotto” (Lauria, 2014) evidenzia la natura dinamica e adattiva di questa attività. In questa

04. Metodologia di rilievo. Il rilievo si è articolato secondo una metodologia basata sull’analisi degli spazi-funzione, analizzando la rete dei percorsi di afferenza agli edifici, gli accessi, e la rete dei percorsi interni. Ogni percorso raggiunge un punto di presa in carico del utente | Methodology of analysis. The survey was structured according to a methodology based on space-function analysis, analyzing the network of building afferent routes, accesses, and the network of internal routes.

05. Metodologia di classificazione degli elementi rilevati. Sistema ambientale: insieme strutturato delle unità ambientali e degli elementi spaziali, definiti nelle loro prestazioni e nelle loro relazioni. Unità ambientale: raggruppamento di attività dell’utente, derivanti da una destinazione d’uso dell’organismo edilizio, compatibili spazialmente e temporalmente fra loro. Elemento spaziale: porzione di spazio fruibile destinata allo svolgimento delle attività di una unità ambientale | Methodology of classification of surveyed elements. Environmental system: Structured set of environmental units and spatial elements, defined in their performance and in their relationships. Environmental unit: Grouping of user activities, deriving from a designated use of the building organism, compatible spatially and temporally with each other. Spatial element: Portion of usable space intended for carrying out the activities of an environmental unit.

prospettiva, le fasi di un piano di accessibilità devono seguire un flusso circolare e iterativo, anziché lineare e conclusivo. Rilievo, pianificazione e attuazione degli interventi diventano momenti interconnessi di un ciclo continuo di aggiornamento, verifica e miglioramento. Questo approccio rende il piano uno strumento dinamico, capace di evolversi in risposta ai cambiamenti del contesto e alle nuove esigenze degli utenti. Tale principio ha guidato la strutturazione delle cinque macrofasi del PEBA.

La prima fase è stata incentrata sulla definizione del gruppo di lavoro, sulla scelta dei requisiti informativi dell’azienda e sulle metodologie operative relative ai metodi di rilevazione ambientale. Per tale attività sono stati definiti specifici supporti, nel quale si identificano e classificano i fattori dell’accessibilità secondo cluster di sistemi ambientali, unità ambientali ed elementi spaziali.

La seconda fase, di rilievo, si è articolata partendo dai punti nodali di arrivo dell’utenza al plesso ospedaliero (parcheggi e fermate dei mezzi pubblici, ecc.), passando dai percorsi pedonali fino all’ingresso di ogni padiglione. Definita la rete dei percorsi esterni sono stati analizzati i sistemi di accesso ai padiglioni e quindi la rete dei percorsi (orizzontali–verticali, esterni–interni) di afferenza ai reparti (unità operative), valutandone il livello di percorribilità (accessibilità, leggibilità, sicurezza) e di usabilità dei relativi servizi afferenti (sale di attesa, servizi igienici, box informazioni e front office, ecc.). Fra tutti i percorsi interni sono stati rilevati quelli necessari a raggiungere gli spazi con funzione di accoglienza, accettazione e presa in carico del paziente, ovvero spazi nei quali il fruitore/paziente si può muovere senza il supporto del personale sanitario. In questa fase sono stati identificati anche i percorsi afferenti a specifici quadri esigenziali, quali ad esempio i percorsi assistenziali per i soggetti con bisogni speciali legati al progetto PASS3 o i percorsi di accesso utilizzati dal personale di servizio per far accedere persone in condizione di disabilità. Il rilievo,

06. Mappa dei percorsi esterni e delle nodalità. La mappa rappresenta la rete dei percorsi esterni che dipartono dalle nodalità di trasporto pubblico/privato e raggiungono i sistemi di accesso ai padiglioni | Mapping of external routes and nodal routes. The map represents the network of external routes departing from public/private transport nodalites and reaching the hall access systems. Immagine autori e autrici

di tipo visivo e dimensionale, effettuato tramite misurazioni, video e campagne fotografiche, è stato restituito su due supporti informativi: le schede di dettaglio e le tavole sinottiche. Le schede raccolgono informazioni di tipo dimensionale, tecnologico e organizzativo relativo all’unità ambientale e relativi elementi spaziali. Le tavole localizzano e identificano le tipologie dei percorsi, il sistema dei servizi, il sistema degli accessi e l’individuazione delle condizioni di conflitto fra uomo e ambiente (barriere architettoniche).

Schede e tavole restituiscono il quadro generale dei dati necessari alla valutazione di accessibilità di ogni unità rilevata, identificando sia i parametri normativi, sia una serie di condizioni migliorative che possono agevolare i fruitori nell’utilizzo degli spazi e delle loro funzioni. Il presupposto conoscitivo è essenziale per individuare interventi mirati al fine di risolvere le criticità o migliorarne comunque l’accessibilità tramite strategie progettuali attuabili nel tempo secondo le priorità riscontrate.

In questa terza fase, gli spazi e le attrezzature sono stati valutati rispetto a profili di utenza rappresentativi di diverse tipologie di disabilità. Perciò sono state analizzate barriere fisiche, percettive e comunicative, in relazione per esempio all’uso di sedia a ruote a trazione manuale e a trazione meccanizzata, in relazione all’utente cieco che si muove in autonomia con il bastone secondo le tecniche definite dalla scuola di orientamento e mobilità dell’UIC, e dell’utente sordo. Sono state elaborate quindi le mappe dell’accessibilità, che rappresentano graficamente i livelli di accessibilità e individuano i punti di interruzione che ostacolano la continuità nella fruizione degli spazi. La valutazione è stata definita mediante una classificazione che prevede l’introduzione del cosiddetto mediatore ambientale, ovvero un soggetto, più o meno esperto, che agevola l’utente nella fruizione degli ambienti. Si propone così un sistema basato su una scala di valutazioni che va dalla piena accessibilità in autonomia, alla completa inaccessibilità anche con l’ausilio di un accompagnatore.

Gli elaborati della quarta fase definiscono le priorità di intervento, ovvero quelle condizioni che necessitano di azioni progettuali dedicate alla loro risoluzione. Gli interventi sono catalogati sia per ambiti operativi (manutenzioni, ristrutturazioni, ecc.) sia per ordine di priorità. La priorità alta afferisce a situazioni con mancate rispondenze normative, la media è relativa a opere che aumentano la qualità ambientale ma che comunque non riguardano interventi necessari a rendere accessibile un’unità ambientale e la priorità bassa riguarda interventi differibili nel tempo.

A questa valutazione viene sovrapposta un’analisi delle priorità legate alla frequenza di utilizzo degli ambienti e degli interventi edilizi programmati, avulsi dalle specifiche indicazioni del PEBA.

La metodologia di rilievo e di identificazione e classificazione delle caratteristiche, degli elementi tecnologici e ambientali è stata realizzata secondo una logica di gestione dei contenuti informativi appositamente progettata per

interoperare con il sistema di gestione digitale degli spazi, AT.2.0, in uso presso AOUP. Il sistema lavora alla scala del singolo ambiente georeferenziando le informazioni e rendendole fruibili attraverso un’interfaccia web. I dati raccolti nell’ambito del PdR sono stati classificati e gestiti in modo da alimentare AT2.0 con il fine duplice di allinearsi ai modi operandi dell’azienda e di favorire il processo di aggiornamento ed implementazione dei dati e del monitoraggio, necessari specie in un ambiente dinamico come un ospedale.

Conclusione

Misurare l’accessibilità di un sistema complesso come un Policlinico richiede la definizione di strumenti e metodi in grado di raccogliere informazioni sulle condizioni prestazionali degli spazi e sulle modalità di utilizzo. La ricerca si propone di creare una matrice di riferimento, un insieme di strumenti che consentano di oggettivare le

07. Mappa dei percorsi esterni e delle nodalità. La mappa identifica le tipologie dei percorsi | Mapping of external routes and nodal routes. The map identifies the types of routes. Immagine autori e autrici

08. Schede tipo di analisi dei percorsi interni ai padiglioni. Le schede riuniscono, per unità ambientali omogenee, i dati relativi agli elementi spaziali rilevati | Model sheets for the analysis of paths inside pavilions. The sheets bring together, by homogeneous environmental units, data on the spatial elements analyzed. Immagine autori e autrici

criticità riscontrate, supportando così i decisori nelle fasi progettuali necessarie per superare tali problematiche. Le esperienze nella pianificazione per l’eliminazione delle barriere architettoniche in contesti urbani dimostrano che, per conseguire gli obiettivi stabiliti, è fondamentale un’attività di monitoraggio che garantisca l’implementazione del piano e assista i tecnici nelle decisioni da prendere. In questo contesto, sono stati definiti i presupposti del piano di accessibilità dell’AOUP.*

NOTE

1 – Di questi i più noti sono: Humanistic Design, Design that Cares, Evidence-Based Design, HealingEnvironments; nel campo della progettazione universale: Design for All, Inclusive Design, Human Factory

2 – Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. L’Art 25 sancisce il diritto alla salute senza discriminazioni per le persone con disabilità.

3 – Percorsi Assistenziali per i Soggetti con bisogni Speciali è un programma della Regione Toscana nato per andare incontro alle esigenze di salute dei cittadini con disabilità, adeguare l’offerta sanitaria e garantire equità.

REFERENCES

– Alberti, F., Marzi, L. (2022). Visioni e strumenti per un’urbanistica dell’accessibilità. URBANISTICA, n. 164, pp. 75 -82.

– Del Nord, R., Peretti, G. (2012). L’umanizzazione degli spazi di cura. Linee guida, Ministero della Salute. Firenze: Tesis.

– Devlin, A., Arneill, A. (2003). Health Care Environments and Patient Outcomes A Review of the Literature. Environment and Behavior, n. 35, pp. 665-694.

– Donati, C. (2019). L’ospedale di eccellenza del terzo millennio. Il modello di Cisanello. Progettare per la Sanità, n. 5, pp. 6-13.

– Laurìa, A. (2014). L’Accessibilità come sapere abilitante per lo Sviluppo Umano: il Piano per l’Accessibilità. Techne, n. 7, pp. 125-131.

– Marzi, L. (2023). Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche. In Baratta, A. Tatano, V., Conti, C. (a cura di), Manifesto lessicale per l’Accessibilità Ambientale Conegliano: Anteferma Edizioni, pp 239 -245.

– Torricelli, M.C. (2015). ES-LCA e patrimonio naturale. Life Cicle Analisi ambientale e sociale di un’area protetta. Firenze: Firenze University Press.

– Ulrich, R.S. (1991). Effects of interior design on wellness: theory and recent scientific research. Journal of Health Care Interior Design: Proceedings From the Symposium on Health Care Interior Design, n. 3, pp. 97-109.

Introduction

The Plans for the Elimination of Architectural Barriers (PEBAs) are planning tools aimed at identifying, classifying, and overcoming risks and obstacles to the use of public buildings and spaces (Marzi, 2023). In Italy, the implementation of PEAB was made mandatory for Public Administrations by Law 41 of 1986, and further refined and expanded in scope by Law 104 of 1996. Within this framework, healthcare and hospital organizations, as well as entities with public legal personality like municipal administrations, are required to develop their own PEAB.

Beyond legal obligations, which vary in complexity depending on specific regional regulations, the issue of accessibility in hospital buildings is a fundamental prerequisite for all approaches to the design and management of healthcare facilities (Devlin and Arneill, 2003). These approaches may differ in methodology but share a common goal: to define a design of spaces that complements the therapeutic effects of medical treatments, thereby promoting the patient’s healing process (Ulrich, 1991).

In context, the Pisa University Hospital (Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, AOUP) has commissioned the Department of Architecture at the University of Florence (DIDA) to develop an accessibility plan for the Cisanello University Hospital complex through a research project (RP). The aim is to equip the facility with the tools required by current regulations, while simultaneously starting an intervention plan based on a shared governance framework across the various operational sectors that characterize the management of healthcare organizations.

Research objectives

The accessibility of healthcare facilities is one of the cornerstones of the European Charter of Patients’ Rights, which, as outlined by the “European social model,” ensures patients, consumers, users, families, and vulnerable individuals the right to access national health system services. The Charter, as a guiding instrument,

Accessibility of Hospital Facilities

The Case Study of the Plan for the Cisanello Polyclinic of the University Hospital Corporation of Pisa

defines accessibility as “the right of every user to access healthcare services based on their health condition”.

In this context, in 2023, the Social Affairs Committee of the Chamber of Deputies adopted a resolution to improve access to healthcare and hospital services, in line with Article 25 of the UN Convention, which ensures the right to health without discrimination for persons with disabilities. The resolution includes a series of actions to be implemented, including a system to monitor the accessibility level of Italian hospitals. This monitoring will involve mapping both physical and non-physical barriers that represent sources of discrimination in the use of healthcare spaces and equipment.

The aim of the research is to assess the accessibility of hospitals through an extensive data collection campaign and the creation of detailed analysis sheets. These sheets will provide a clear snapshot of the current situation, offering an evaluation of the accessibility of the facilities and existing elements. The analysis will be carried out in accordance with current regulations and will take into account the needs of different user categories, with particular attention to so-called “vulnerable users”.

The goal is to create informational frameworks in which Public administrations can act through “environmental remediation actions”, verifying the long-term outcomes through continuous monitoring and control. The research project for the preparation of the PEBAs for the AOUP facilities primarily aims to develop an intervention model that outlines the methodologies for analysis and priority evaluation, as well as design and communication strategies that facilitate user accessibility to the environments.

PEBAs Methodology and Phases for Enhancing Accessibility

In this operational context, the Plans for the Elimination of Architectural Barriers (PEBAs) analyses accessibility as a sum of data related to reachability, safety, and usability. These aspects help define the “environmental mi-

croclimate”, which determines the functional level of a space. The adopted methodological approach, based on a performance-needs perspective, falls within the field of metaprojects, operating at an intermediate scale between architecture and urban planning. This approach aims to develop an informative and evaluative framework that provides strategic indications to facilitate the transition between the project’s preparatory phase and its formalization and synthesis. In this context, the RP (Research Project) was divided into five operational phases, each aimed at achieving specific objectives in line with the relevant regulatory framework:

– First phase: Preparation of the plan. Contextualization of the project and data collection, including the definition of survey supports and their scope of application;

– Second phase: Data survey. Detailed analysis of the current situation through field survey activities;

– Third phase: Evaluation of collected data. Interpretation and evaluation of the information gathered to identify critical issues and strengths;

– Fourth phase: Planning of interventions. Definition of priorities and planning of necessary actions to improve accessibility. Added to these four phases is a Fifth phase, cross-cutting the others. This provided for the involvement of an interdisciplinary working group, consisting of representatives from the hospital’s management sectors (technical area, medical direction, URP, RSPP, etc.), as well as associations representing people with motor, sensory, and cognitive disabilities. This group collaborated both in identifying and evaluating environmental, technological, and organizational criticalities and in defining possible design solutions.

A key element of the project is the use of digital tools for the collection, management, and analysis of data. The digital organization not only facilitates the elaboration and implementation of the PEBA, but also ensures transparency, effectiveness, and periodic updates (every 3-5 years, as required by regulations). The

technical area of AOUP manages its building assets using CAFM (Computer Aided Facilities Management) systems. The RP has been prepared according to appropriate, aligned, and interoperable data sets with the space management systems used by AOUP. This interoperability optimizes building asset management and supports future planning.

The methods developed for defining the tools, involved parties, and rules for the collection, management, classification, and evaluation of information are functional to the scenario concerning the expansion and renovation project of the Cisanello complex. The objective of the RP is to verify the condition of the existing structures and establish best practices to be used in the construction of new facilities, as well as to form a group of experts necessary for providing feedback throughout the process.

Case Study: the Pisa University Hospital Project

The Pisa University Hospital project, which includes the redevelopment of the Santa Chiara complex and the construction of the new hospital at Cisanello, represents a significant reorganization of the Tuscan healthcare network. Currently, the hospital campus consists of a set of buildings dedicated to specialized services. Some of these are internally connected, promoting continuity of activities, while others are completely separated. This configuration, with structures mainly interconnected through external paths, creates significant complexity from both a distributional and organizational perspective. Each building has one or more entrances for users, along with entrances reserved for staff and emergency exits, all integrated into a network of diverse pathways for users, vehicles, and equipment. This complexity leads to a costly management process in terms of control and maintenance.

To address these challenges and improve overall functionality, construction began in 2019 on a new “monoblock” building. This structure will integrate part of the existing hospital and accommodate the majority of healthcare and administrative functions currently spread across various buildings on the campus and external locations. The project, which is expected to be completed in 2026, includes a plan to improve road connections to the surrounding area, linking the hospital campus to the existing transportation network to ensure better accessibility.

The monoblock will feature a main body designed as a “main street”, a central reference point for access and routing to various healthcare pathways. Once fully operational, it will host 1,650 beds and anticipate a daily flow of approximately 15,000 visitors. In this context, the PEBA (Environmental Barrier Removal Plan) has a proactive role, aimed at defining best practices to be implemented in the construction of the new monoblock.

The PEBAs Process and Phases: a Dynamic Approach to Accessibility

The assertion that “accessibility planning is more of a process than a product” (Laurìa, 2014) highlights the dynamic and adaptive nature of

this activity. From this perspective, the phases of an accessibility plan should follow a circular and iterative flow rather than a linear and conclusive one. Surveying, planning, and implementing interventions become interconnected moments within a continuous cycle of updating, verification, and improvement. This approach makes the plan a dynamic tool, capable of evolving in response to changes in the context and the new needs of users. This principle guided the structuring of the five major phases of the PEBAs.

The first phase focused on defining the working group, selecting the informational requirements of the company, and determining the operational methodologies related to environmental surveying techniques. Specific tools were defined for this activity, which identify and classify accessibility factors into clusters of environmental systems, environmental units, and spatial elements.

The second phase, the surveying phase, started from the key arrival points for users at the hospital complex (parking areas, public transport stops, etc.) and moved along pedestrian pathways up to the entrance of each building. Once the network of external paths was defined, the access systems to the buildings were analysed, including horizontal and vertical pathways, external and internal routes, and those leading to various departments (operating units). The level of walkability (accessibility, legibility, safety) and usability of related services (waiting rooms, restrooms, information desks, front offices, etc.) were evaluated. Internal pathways necessary to reach spaces with reception, acceptance, and patient intake functions were also surveyed, as these are spaces where users/patients can move independently without the support of healthcare staff. During this phase, pathways related to specific needs were identified, such as healthcare routes for individuals with special needs, or access routes used by service staff to assist people with disabilities. The surveying, which was visual and dimensional, was carried out through measurements, video recordings, and photographic campaigns. The results were presented on two types of informational supports: detailed sheets and synoptic maps. The sheets collect dimensional, technological, and organizational information related to the environmental unit and its spatial elements. The maps locate and identify the types of pathways, the service systems, the access systems, and highlight areas where conflicts between people and the environment (architectural barriers) exist. The sheets and maps together provide a comprehensive view of the data necessary for evaluating the accessibility of each surveyed unit, identifying both normative parameters and a series of improvements that can facilitate users in utilizing the spaces and their functions. This knowledge base is essential for identifying targeted interventions aimed at resolving issues or improving accessibility through design strategies that can be implemented over time, according to the priorities identified.

In the third phase, the spaces and equipment were assessed based on user profiles that

represent physical, sensory, and communicative barriers, including: manual and motorized wheelchair users, blind individuals moving independently with a cane using techniques defined by the orientation and mobility school of the Italian Union for the Blind (UIC), and deaf users. Accessibility maps were created to graphically represent the levels of accessibility and identify points of interruption that hinder continuous use of spaces. The assessment was carried out using a classification system that introduces the concept of an “environmental mediator” – a person, whether expert or not, who helps users navigate the environment. A scale of judgments was proposed, ranging from full autonomy in accessing spaces to complete inaccessibility, even with the assistance of a companion.

The documents from the fourth phase define the intervention priorities, i.e., conditions that require dedicated project actions for resolution. The interventions are catalogued both by operational areas (maintenance, renovations, etc.) and by priority level. High priority is given to situations that do not meet regulatory requirements, medium priority concerns works that enhance the environmental quality but are not essential to making a unit accessible, while low priority involves interventions that can be postponed. This evaluation is combined with an analysis of priorities based on the frequency of use of spaces and planned building interventions, separate from the specific guidelines of the PEBAs.

The methodology for surveying and identifying and classifying the characteristics of technological and environmental elements was designed according to a content management logic, specifically created to interoperate with the digital space management system used by AOUP. The system in use, named AT2.0, operates at the level of individual environments, georeferencing the data and making it accessible through a web interface. The data collected for the RP are classified and managed to feed into AT2.0, with the dual purpose of aligning with the company’s operational methods and facilitating the process of updating, implementing data, and monitoring, which is especially important in a dynamic environment such as a hospital.

Conclusion

Measuring the accessibility of a complex system such as a University Hospital requires the definition of tools and methods capable of collecting information on the performance conditions of spaces and their usage patterns. The research aims to create a reference matrix, a set of tools that allow for the objective identification of the critical issues encountered, thereby supporting decision-makers in the design phases necessary to overcome these challenges. Experiences in planning for the removal of architectural barriers in urban contexts demonstrate that, in order to achieve the established objectives, a monitoring activity is essential. This ensures the implementation of the plan and assists technicians in making the necessary decisions. In this context, the foundational principles for the Accessibility Plan of AOUP have been defined.*

Architettura euclidea

01. Soffitto del corridoio dal basso, 2023 | Ceiling of the corridor from below, 2023. L. Arcopinto

Euclidean Architecture The text analyzes fragility in architecture as a creative value: an opportunity to adopt an adaptive and formalist approach to interventions on existing structures. A practical example is the project for a factory in Casoria, where minimal interventions and geometric solutions emphasized light and chiaroscuro. The methodology is based on a Euclidean approach that flattens spatial complexity onto a two-dimensional plane and explore the relationship between composition and design, not to create absolute beauty, but to articulate new and meaningful spaces in harmony with pre-existing conditions. Fragility thus emerges as an aesthetic, functional, and design value, capable of inspiring architecture that evolves and dares to test its figurative nature.*

Il testo analizza la fragilità in architettura come valore creativo: un’opportunità per adottare un approccio adattivo e formalista per l’intervento sul costruito. Un esempio pratico è il progetto di una fabbrica a Casoria, dove interventi minimi e soluzioni geometriche hanno enfatizzato luce e chiaroscuro. La metodologia utilizzata si basa su un approccio euclideo che appiattisce la complessità spaziale su un piano bidimensionale ed esplora la relazione tra composizione e progettazione: non per creare bellezza assoluta, ma per articolare spazi nuovi e significativi attraverso una consonanza con le condizioni pregresse. La fragilità emerge così come valore estetico, funzionale e progettuale, capace di ispirare un’architettura mutevole e che non teme di testare il suo statuto figurale.*

Un abaco per l’azione adattiva

Introduzione

L’architettura oggi deve accettare la fragilità come ente derivante dalle limitate possibilità di espressione e dal budget, sovente molto corto, messo a disposizione dalla committenza.

Questa circostanza non deve spaventare, perché attraverso la molteplicità del progetto enti diversi possono coabitare nello stesso corpo, concorrendo – anche in senso intuitivo – alla determinazione della forma. Anzi, le sterminate possibilità espressive del progetto, se autorizzate a subire la fascinazione della fragilità, potrebbero dimostrare che l’architettura non è obbligata a essere a tutti i costi apodittica, perentoria e immutabile.

Valerio Paolo Mosco nella sua disamina della fragilità in architettura parte dal ribaltamento del concetto di gravitas e dalla necessità del suo superamento, già a partire dalla prima rivoluzione industriale, per indagare una nuova via espressiva che dimostra essere declinata in diversi modi nel corso della storia dell’architettura (Mosco, 2024, pp. 9-12). Perciò, anche se nell’immaginario collettivo la fragilità è un concetto distante dalla composizione, si potrebbe affermare che l’architettura moderna l’abbia postulata per prima come eventualità connessa alla costruzione, vista l’incredibile sperimentazione strutturale attorno ai temi dell’assottigliamento della massa architettonica. Basti pensare a quanto siano straordinariamente belli e problematici edifici come la Ville Savoye di Le Corbusier o la casa Farnsworth di Ludwig Mies van der Rohe: oggetti architettonici, come squisiti giochi di linguaggio, inabitabili per i loro proprietari e fragili al punto da richiedere costanti interventi di restauro negli anni per permettere la loro conservazione.

Adattamento e formalismo

KEYWORDS: ADATTAMENTO | ADAPTATION; GEOMETRIA | GEOMETRY; OMBRA | SHADOW

La necessità dell’azione adattiva in architettura – come approccio permeato dalla disponibilità a riqualificare piuttosto che a sostituire – si palesa come un appressamento contingente ma imprescindibile. Questa è una condotta che passa attra-

02. Esploso assonometrico, 2023 | Exploded axonometric view, 2023. L. Arcopinto

verso la costruzione di oggetti temporanei come allestimenti, esili nel loro corpo e caratterizzati da una ricerca geometrica e chiaroscurale spinta in direzione di una dinamicità filmica quasi ridotta a un solo frame, come in un fermo immagine.

L’operato del progettista, perciò, dovrebbe essere volto alla ricerca di una consonanza indispensabile tra ciò che esiste e la necessità del suo accomodamento a un’altra forma, senza la pretesa di creare un assetto spaziale necessariamente più “bello” ma semplicemente diverso da quello che era prima. È una modalità compositiva formalista, scevra da sensi colpa, che è profondamente generosa verso il costruito minore che popola l’Italia e aderisce all’intendimento che tutto – sia le condizioni pregresse, che gli elementi introdotti con l’intervento adattivo – può essere convocato a parlare nella forma finale del progetto.

In questi termini la fragilità è duplice. Se da una parte, l’ente si manifesta come dato oggettivo connesso al corpo costruito e alla sua durata nel tempo, per cui, se si pensa al segmento

lungo un metro che Franco Purini individuava in Comporre l’architettura (Purini, 2000, pp. 58-60) per schematizzare la vita e il tempo del progetto, è inevitabile constatare una contrazione di quei tempi nella vita di un’architettura fragile. Dall’altra parte, la fragilità opera attraverso l’instabilità dell’immagine che l’architettura è in grado di restituire come esito di una precarietà chiaroscurale. Lavorare con dei segni geometrici e con la loro euritmia significa sperimentare con la sostanziale incontrollabilità dell’ente ombra e usarlo come materiale di progetto. Francesco Venezia definiva l’ombra come qualcosa continuamente in bilico tra realtà e apparenza, perché anche se il suo andamento può essere previsto con calcoli di geometria descrittiva o con un qualsiasi software di renderizzazione; basta una minima variazione atmosferica a mutarne gli esiti estetici e l’intensità sull’oggetto costruito (Venezia, 1978, p. 18). Disegnare l’architettura considerando l’ombra in una versione geometrica e astratta che non esisterà mai nella realtà, può arricchire il progetto di un nuovo senso e aiutare il progettista

a immaginare i possibili esiti chiaroscurali del suo lavoro. Così facendo, il disegno diviene un ente autonomo che duplica la realtà, le assomiglia abbastanza da rendersi credibile, senza mai sovrapporsi a essa completamente.

Il metodo euclideo Perseguire l’adattamento come obiettivo di un approccio alla riqualificazione formalista spinge il progettista a lavorare nel binomio composizione-progettazione con il metodo euclideo. Un metodo simultaneo e bidimensionale, in cui l’architetto pratica una sorta di paratassi dei piani di proiezione, considerandoli contemporaneamente come singoli e interconnessi. Il progettista euclideo, allora, può lavorare liberamente nell’ambito dell’antinomia composizione-progettazione senza schierarsi a favore dell’una o dell’altra tendenza: può spostarsi dal comporre al progettare, mescolando i due approcci a seconda di come si rende necessario.

dei piani di proiezione e tende a curarsi dalla facilità tridimensionale che inquina il progetto di architettura, ovvero quella consuetudine poco elegante che popola la figurazione architettonica e la fa parlare solo con immagini fintamente suadenti e iperrealistiche.

Il caso Casoria2

L’edificio che illustra questo testo è un tentativo di mettere in pratica la modalità descritta e testarla per la riqualificazione di un immobile industriale degli anni Ottanta vicino Napoli. Al fine di adattare questa singolare fabbrica composta da due ampi volumi voltati, destinati ai processi produttivi, e da un piccolo corpo annesso, originariamente adibito a servizi igienici e uffici; la committenza aveva la necessità di sostituire l’impianto elettrico e di modificare blandamente il layout planimetrico a causa delle rinnovate esigenze funzio-

La fragilità opera attraverso

Se al progettare si può attribuire un significato dinamico e fortemente fisico, comporre può avere a che fare col piano combinatorio, sintattico e della relazione reciproca fra le parti finite: trasformazione e progresso nel progetto, contro il complesso di nozioni aprioristiche e totalmente accademiche del comporre; genericità della progettazione in quanto trasfigurazione attraverso un manifesto materiale, contro la specificità artistica della procedura compositiva; perciò, lavoro in prospetto contro quello in sezione (Gregotti, 1986, pp. 2-3).

l’instabilità dell’immagine che l’architettura è in grado di restituire

nali (img. 02). Il budget a disposizione era di appena 85mila euro per ristrutturare un edificio di circa 500 m2 .

L’azione progettuale, allora, ha aderito ai segnali di qualcosa che esisteva già – sottotraccia – nello stato di fatto, senza rinunciare alle possibilità metamorfiche di una nuova architettura.

Tuttavia, grazie al metodo euclideo, l’architetto, che utilizza liberamente le due tendenze, non privilegia solo la sezione o il prospetto ma declina tutto il complesso della “triade ortogonale”1 (Arcopinto, 2024, pp. 28-31) a uso e servizio del progetto di architettura. In questo modo, il disegno assume un carattere quasi sacrale: è uno e trino, individua in maniera scientifica il progetto euclideo e introduce un’astrazione indispensabile per il progettista che si allena all’interrelazione

Come regola generale: le demolizioni sono state ridotte al minimo indispensabile per adattare gli spazi alle funzioni e, mentre per gli ambienti degli uffici si è lavorato con il completo mascheramento dello stato pregresso, nei due volumi voltati, la presenza stessa delle volte delineava una potenza plastico-spaziale dominata dalla luce interstiziale dei lucernari che necessitava solo di essere ripristinata e potenziata attraverso l’inserimento di nuovi elementi.

03. Ambiente per la lavorazione dei materiali: stanza del traliccio elettrificato, 2023 | Room for material processing: room with the electrified truss, 2023. L. Arcopinto

Negli uffici, l’impianto elettrico è stato rimosso dalle pareti in modo tale che, nel disegnare gli ambienti con trame dal ritmo mai regolare, potesse divenire il protagonista chiaroscurale di una improbabile boiserie diffusa; il vecchio pavimento è stato sostituito da una ceramica bianca posata “a griglia” che si estende a rivestire anche le superfici verticali quando serve; infine, tutti gli arredi disegnati su misura per il progetto sono stati realizzati in strutture impilabili di muratura e lamiera mandorlata o in tubolare leggero di ferro zincato (imgg. 01, 04).

Nei due ambienti voltati invece il problema della sostituzione di un manto pavimentale plastico deteriorato si è

ti orizzontali all’imposta che servivano a sostenere alcuni dispositivi del primo processo produttivo ospitato dalla fabbrica. In uno di questi due ambienti voltati un traliccio metallico sghembo è stato elettrificato per consentire la realizzazione di un’estesa isola di lavoro sottostante: la sua struttura trafigge lo spazio della volta, enfatizza l’andamento della sua luce e prova a instaurare un rapporto dialettico con la partizione orizzontale (img. 03).

Nella parte esterna, l’edificio era sottoposto a vincoli cromatici dettati dal complesso condominiale, così si è proceduto al ripristino in forma e colore di tutte le superfici e si sono disposte due pensiline sugli ingressi pedonali della reception e dell’ufficio. Tali dispositivi, che servono a segnalare gli ingressi e a ripararli dal sole e dalla pioggia, sono concepiti al fine di variare l’assetto percepito delle facciate su cui sono collocati (img. 05).

Non può esistere un unico abaco sempre replicabile o declinabile nelle diverse occasioni di progetto, ma a ogni occasione il progettista dovrà definire il suo complesso di azioni

presentato come l’opportunità per riportare alla luce e restaurare un vecchio pavimento nero in piastrelle di materiale cementizio misto a bitume, contrappunto perfetto alla candida luce che filtra dal tetto; il sistema delle volte è stato sottoposto a un opportuno restauro degli intonaci e dei serramenti e si è proceduto alla rimozione degli elemen-

Alla ricerca di un metodo replicabile

Tutte le azioni introdotte a Casoria lavorano con elementi ben identificabili singolarmente ma che trovano nella loro unitarietà di intenti il senso di una possibile teoria adattiva. L’abaco geometrico e chiaroscurale approntato è una moodboard formale dell’intervento, ottenuta attraverso una modalità euclidea che anela l’appiattimento su un unico piano di proiezione di tutte le trame geometriche utilizzate nelle tre dimensioni spaziali del progetto. Questa modalità simulta-

04. Scorcio della reception verso il corridoio, 2023 | View of the reception towards the corridor. 2023. L. Arcopinto
05. Scorcio della facciata principale, 2023 | View of the main facade, 2023. L. Arcopinto

06. Abaco degli elementi, 2023 | Abacus of elements, 2023. L. Arcopinto

nea di rappresentazione e studio dell’intervento adattivo può sintetizzare i contenuti dell’architettura e fornire indicazioni sulla sua direzione. Se poi, alla tassellazione disegnata viene aggiunta l’ombra, il gioco cambia volto ed evidenzia la compresenza di tutti gli elementi chiaroscurali approntati.

È evidente una propensione euclidea bidimensionale che insegue la reificazione della linea, dell’euritmia del corpo costruito e dei suoi effetti sull’ombra, alla ricerca di un appagamento sostanzialmente ottico. Come negli elogi alla visione di Kazimir Severinovič Malevič non sembra esserci una regola strutturata che tenga, ma tutto passa di sbieco per la sensibilità del progettista, per il suo allenamento alla figuratività e per la sua propensione a medicare lo spazio costruito con azioni mutevoli.

L’approccio euclideo insito in questa modalità trova fondamento nelle speculazioni costruttiviste di Moisej JA. Ginzbug e nella definizione per cui il progettista deve allenarsi a lavorare con il complesso delle “figure piane” che compongono una singola “figura spaziale” (Ginzburg, 1977, p.10). In questo senso, l’appiattimento del complesso di segni convocati a comporre la forma su un solo piano, quello del disegno d’intenti, allena il progettista al salto immaginario da spazio a piano attraverso l’attitudine euclidea.

Perciò, non può esistere un unico abaco sempre replicabile o declinabile nelle diverse occasioni di progetto, ma ad ogni occasione il progettista dovrà definire il suo complesso di azioni al fine di perseguire la realizzazione di una nuova architettura (img. 06). Può essere individuata, forse, una mo-

dalità operativa euclidea che parta dal tentativo di mettersi in consonanza con le condizioni pregresse, per poi provare a definire una serie di alternative possibili attraverso un’azione non univoca. Un’azione che può nascere anche con dei punti di indefinizione che vanno poi chiarendosi nel corso della costruzione grazie a un processo con cui, più lungamente, l’architettura si costruisce disvelandosi nel tempo, testando il suo statuto figurale e adattando la sua forma alle eventualità che si presentano lungo questo percorso di definizione.*

NOTE

1 – Per triade ortogonale si intende il complesso delle proiezioni ortogonali pianta, prospetto e sezione e la loro astrazione nell’essere figure planari interrelate che rappresentano una singola figura spaziale.

2 – Questo paragrafo rielabora la relazione del progetto illustrato, pubblicata integralmente nel 2023 sul sito di Arkt. Space to architecture (arkt.space/restauro-e-adattamento-di-unedificio-industriale, ultimo accesso gennaio 2025).

CREDITI DI PROGETTO

Luogo: Casoria (NA) | Cronologia: Aprile 2022 - Maggio 2023 | Progetto e DL: Luigi Arcopinto | Realizzazione: Marzapane costruzioni | Superficie netta: 500 mq | Budget: 85.000,00 euro

REFERENCES

– Arcopinto, L. (2024). Grammatica euclidea. L’architettura delle geometrie elementari. Siracusa: LetteraVentidue.

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– Venezia, F. (1978). Torre d’Ombre o l’architettura delle apparenze reali. Napoli: Fiorentino Editrice.

Introduction

Today, architecture must accept fragility as an entity derived from the limited possibilities of expression and the often tight budgets provided by clients. This circumstance should not be feared, because through the multiplicity of the project, different entities can coexist within the same body, intuitively contributing to the determination of form. In fact, the vast expressive possibilities of the project, if allowed to undergo the allure of fragility, could demonstrate that architecture is not obliged to be apodictic, peremptory, and immutable at all costs.

Valerio Paolo Mosco, in his analysis of fragility in architecture, begins by overturning the concept of gravitas and the necessity of its overcoming, starting with the first industrial revolution, to explore a new expressive path that has been manifested in different ways throughout the history of architecture (Mosco, 2024, pp. 9-12). Therefore, although in the collective imagination fragility is a concept far removed from composition, one could argue that modern architecture was the first to postulate it as an eventuality connected to construction, given the incredible structural experimentation around the themes of thinning architectural mass. A prime example are the extraordinarily beautiful and problematic buildings such as Le Corbusier’s Ville Savoye or Ludwig Mies van der Rohe’s Farnsworth House: architectural objects, as exquisite language games, uninhabitable for their owners and fragile to the point that constant restoration interventions have been required over the years to preserve them.

Adaptation and Formalism

The need for adaptive action in architecture – as an approach imbued with the willingness to refurbish rather than replace – emerges as a contingent yet essential approach. This conduct is manifested through the construction of temporary objects, such as installations, delicate in their form and characterized by an intense geometric and chiaroscuro search directed toward a cine-

Luigi Arcopinto

Euclidean Architecture

An Abacus for Adaptive Action

matic dynamism, almost reduced to a single frame, like a still image. Therefore, the designer’s task should be aimed at seeking an essential consonance between what exists and the need to accommodate it into another form, without the pretense of creating a necessarily “beautiful” spatial arrangement but simply one that is different from what it was before. It is a formalist compositional mode, free from guilt, deeply generous toward the minor architecture that populates Italy, adhering to the idea that everything – both the pre-existing conditions and the elements introduced with the adaptive intervention –can be called upon to speak in the final form of the project.

In this sense, fragility is dual. On one hand, the entity manifests as an objective datum connected to the built body and its duration over time. If one thinks of the onemeter segment that Franco Purini identified in Comporre l’architettura (Purini, 2000, pp. 58-60) to schematize the life and time of a project, it is inevitable to notice a contraction of those timelines in the life of a fragile architecture. On the other hand, fragility operates through the instability of the image that architecture can return as the result of a chiaroscuro precariousness. Working with geometric signs and their eurhythmics means experimenting with the substantial uncontrollability of the shadow entity and using it as project material. Francesco Venezia defined the shadow as something constantly balanced between reality and appearance, because, even though its path can be predicted with descriptive geometry calculations or any rendering software, just a slight atmospheric variation can change its aesthetic outcomes and intensity on the built object (Venezia, 1978, p. 18). Designing architecture considering the shadow in a geometric and abstract version that will never exist in reality can enrich the project with new meaning and help the designer imagine the possible chiaroscuro outcomes of their work. In this way, the drawing becomes an autonomous entity that duplicates reality, resembling it

enough to be credible, without ever fully overlapping it.

The Euclidean Method

Pursuing adaptation as the goal of a formalist approach to refurbishment leads the designer to work within the compositiondesign pairing using the Euclidean method. This is a simultaneous and two-dimensional method in which the architect practices a kind of parataxis of projection planes, considering them both as individual and interconnected elements.

The Euclidean designer, therefore, can freely work within the antinomy of composition and design without favoring one tendency over the other: he can shift from composing to designing, mixing the two approaches as needed.

While designing can be attributed a dynamic and strongly physical meaning, composing may relate to the combinatorial, syntactical plane and the reciprocal relationship between finished parts: transformation and progress in the project, as opposed to the complex and entirely academic notions of composing; the generality of design as a transfiguration through a material manifesto, versus the artistic specificity of the compositional procedure; thus, work in elevation versus that in section (Gregotti, 1986, pp. 2-3). However, through the Euclidean method, the architect, freely using both tendencies, does not exclusively prioritize section or elevation but adapts the entire “orthogonal triad”1 (Arcopinto, 2024, pp. 28-31) for the architecture project’s use and service.

In this way, the drawing takes on an almost sacred character: it is one and three, scientifically identifying the Euclidean project and introducing an abstraction essential for the designer who trains in the interrelationship of projection planes and seeks to avoid the three-dimensional ease that contaminates the architectural project. This ease, a somewhat inelegant habit, populates architectural representation and makes it speak only through overly seductive and hyper realistic images.

The Casoria Case2

The building discussed in this text is an attempt to implement and test the described approach for the refurbishment of an industrial building from the 1980s near Naples. The aim was to adapt this distinctive factory, composed of two large vaulted volumes for production processes and a small attached structure originally used for bathrooms and offices. The client required the replacement of the electrical system and a slight modification of the floor plan due to new functional needs (img. 02). The available budget was just eighty-five thousand euros to renovate a building of about five hundred square meters. The design approach adhered to the signals of something that already existed – subtly –in the existing state, without renouncing the metamorphic potential of a new architecture. As a general rule, demolitions were kept to a minimum, only adjusting the spaces to accommodate new functions. While the office areas were entirely masked, the presence of the vaults in the two vaulted volumes defined a powerful spatial-plasticity dominated by the interstitial light from the skylights, which begged to be restored and enhanced with new elements.

In the office areas, the electrical system was expelled from the walls so that, in designing the spaces with irregular rhythms, it could become the chiaroscuro protagonist of an unlikely, diffuse boiserie. The old floor was replaced with white ceramic tiles laid in a “grid” pattern, extending to cover vertical surfaces when needed. Finally, all custommade furniture for the project was constructed from stackable masonry structures, corrugated sheet metal, or light galvanized steel tubing (imgg. 01, 04).

In the two vaulted spaces, the issue of replacing a deteriorated plastic flooring became an opportunity to uncover and restore an old black floor made of cement tiles mixed with bitumen, a perfect contrast to the pure light filtering from the roof. The vaulted ceiling was carefully restored, including the plaster and window frames, and horizontal elements supporting some equipment from the factory’s first production process were

removed. In one of the vaulted areas, a huge, slanted metal truss was electrified to create a large working island beneath it. Its structure pierced the vaulted space, enhancing the light dynamics and establishing a dialectical relationship with the horizontal partition (img. 03).

Regarding the exterior, the building was subject to a strict color scheme dictated by the condominium complex, so all surfaces were restored in their original form and color. Two canopies were placed over the pedestrian entrances to the reception and office. These elements, designed to signal the entrances and protect them from the sun and rain, were conceived to alter the perceived layout of the façades they are placed on (img. 05).

In Search of a Replicable Method

All the actions introduced in Casoria work with elements that are individually identifiable but find their meaning in their unified intent, which suggests the possibility of an adaptive theory. The geometric and chiaroscuro abacus prepared serves as a formal moodboard for the intervention, created through a Euclidean approach that aims to flatten all the geometric patterns used in the project’s three-dimensional space onto a single projection plane. This simultaneous mode of representation and study of the adaptive intervention can synthesize the contents of architecture and provide guidance for its direction. When shadows are added to the drawn tessellation, the game changes and highlights the coexistence of all the chiaroscuro elements.

There is a clear Euclidean two-dimensional tendency that seeks the reification of the line, the built body’s rhythm, and its effects on shadow, aiming for an essentially optical satisfaction. Like in the praises of Kazimir Severinovič Malevič’s vision, there does not seem to be a structured rule: everything filters through the designer’s sensitivity, their training in figuration, and their inclination to heal the built space with mutable actions.

The Euclidean approach inherent in this method is grounded in the constructivist speculations of Moisej JA. Ginzburg, whose

definition suggests that the designer must train to work with the complex of “flat figures” that form a single s”patial figure” (Ginzburg, 1977, p. 10). In this sense, the flattening of the signs that compose the form onto a single plane-specifically the drawing of intent-trains the designer to make an imaginary leap from space to plane through the Euclidean attitude.

Therefore, there cannot be a single abacus that is always replicable or applicable in different project circumstances. Instead, with each occasion, the designer must define their complex of actions to achieve the creation of a new architecture (img. 06). Perhaps, a Euclidean operational method can be identified that begins by attempting to attune to the pre-existing conditions, and then define a series of possible alternatives through a non-unique action. An action that can also start with points of indefinition, which become clearer over time as the architecture is built, revealing itself as it progresses, testing its figurative status and adapting its form to the eventualities that arise along this process of definition.*

NOTES

1 – The “orthogonal triad” refers to the complex of orthogonal projections-plan, elevation, and section-and their abstraction as interrelated “planar figures” representing a single spatial figure.

2 – This paragraph reinterprets the project relationship illustrated, published in full in 2023 on the Arkt. Space to architecture (arkt.space/restauro-e-adattamento-di-un-edificioindustriale, last access Januray 2025).

PROJECT CREDITS

Location: Casoria (NA) | Timeline: April 2022 - May 2023

| Project and Construction Management: Luigi Arcopinto | Construction: Marzapane Costruzioni | Net Area: 500 sqm | Budget: €85,000.00

Marco Manfra

PhD in Architecture, Design, Planning, Università di Camerino. marco.manfra@unicam.it

Alina Applauso Laureata magistrale in Design per l’innovazionecomunicazione visiva, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. applausoalina@gmail.com

L’effimero in proprio

01. Stewart Brand, editore del celebre Whole Earth Catalog, lavora all’ultimo numero del Whole Earth Catalog a Menlo Park, California, il 28 maggio 1971 | Stewart Brand, publisher of the famous Whole Earth Catalog works on the last issue of the Whole Earth Catalog at Menlo Park, California, May 28, 1971. AP/R. Drew

The Ephemeral on its own Although considered “ephemeral” communicative tools, independent journals are emerging as authentic “permanent” cultural objects, capable of challenging the logic of the mass market, combining visual and content radicalism. These periodicals, mostly on paper but also digital, act as sociocultural catalysts, offering thinking spaces that breach the shallowness of immediate consumption. Through exemplary magazines, the essay explores how editorial curatorship and transmediality mutate “underground journals” into dynamic cultural objects that generate new scriptural narratives and pave the way for new ways of making culture.*

Seppur considerate strumenti comunicativi “effimeri”, le riviste indipendenti possono affermarsi come autentici oggetti culturali “permanenti”, capaci di sfidare le logiche del mercato di massa, coniugando radicalità visiva e contenutistica. Questi periodici, perlopiù cartacei ma anche digitali, fungono da catalizzatori socioculturali, offrendo spazi di riflessione che valicano la superficialità del consumo immediato. Mediante esempi mirati di riviste, il saggio esplora come la curatela editoriale e la transmedialità mutino i “magazine underground” in oggetti culturali dinamici, in grado di generare nuove narrazioni scrittografiche, nonché di aprire la strada a nuovi modi di fare cultura.*

La rivista indipendente, da strumento comunicativo transitorio a oggetto culturale permanente

a rivista indipendente, strumento comunicativo effimero, fragile e temporaneo, si pone da sempre come traccia ed estensione della cultura umana (img. 01), la cui personalità si materializza – tra scelte grafiche originali e contenuti di rottura – mediante la periodicità lenta, la tiratura ridotta, la distribuzione che privilegia canali alternativi, le sperimentazioni sul formato e sui materiali, nonché nella dedizione alla dimensione collettiva e alla sopravvivenza delle nicchie di libero pensiero (Briggs e Burke, 2010). Attraverso la continua ricerca del “bello”, tracciando nuovi modi di fare cultura, le riviste indipendenti – sia cartacee che digitali –, diventano, in egual misura delle mostre temporanee, sistemi progettati, dal carattere esperienziale, i cui contenuti sono negoziati dal basso, e con cura, sul piano spaziale ed estetico, emotivo e narrativo (Marcadent, 2020). Graphic designer e visual editor, scrittori di varia formazione, illustratori e fotografi, giocano un ruolo chiave nella produzione di queste riviste, supportando l’intertestualità e rendendo eloquenti i materiali impaginati, contribuendo così alla loro performatività (Renard, 2006). Eppure, il discorso non si esaurisce unicamente tra le parole, che hanno sì un peso e una font, e le immagini, che occupano o lasciano vuoti, interagendo o meno tra esse. Oltre alle tendenze grafiche, anche la ripetitività temporale, così come la correlazione contenutistica tra i numeri di rivista – più o meno esplicitata – rappresentano ulteriori aspetti della progettazione editoriale (Leslie, 2013). Nel caso delle riviste cartacee poi, persino le più intime azioni del lettore correlate alla tattilità, come sfogliare, consultare, strappare, annotare o interagire in modi imprevisti con la pagina, rivelano le molteplici possibilità offerte da questi veri e propri “artefatti comunicativi” (Dal Buono, 2013; Baule e Caratti, 2022), stabilendo una connessione profonda e continuativa tra la rivista e il suo fruitore.

KEYWORDS: MAGAZINE RESEARCH; INNOVAZIONE SOCIALE | SOCIAL INNOVATION; COMMUNICATION DESIGN

Al contempo è nel campo dei media studies che la maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che le riviste indipendenti agiscano come catalizzatori della società e

della cultura, continuando a farlo – sembrerebbe – in misura maggiore di altri media, i quali, sì amplificano, ma non contribuiscono a generare tendenze socioculturali in atto (Abrahmason e Prior-Miller, 2015). Ciò vuol significare, come esamina Saul Marcadent nel volume Editoria come Curatela (2020), che la rivista è vieppiù intesa come forma di cultura in sé, come espressione della cultura circostante e come statement sull’identità culturale. È sulla scorta di queste riflessioni dunque che si continua ad avvertire l’urgenza di superare l’idea secondo cui la rivista indipendente sia una mera rappresentazione trascurabile della cultura consumistica (Schnapp e Michaels, 2012). Occorre, allora, continuare a sostenere la visione che queste pubblicazioni, seppur “effimere”, costituiscano processi dinamici, e spazi

È la tattilità della carta a continuare a offrire quel legame sensoriale imprescindibile per mantenere vivo, nella persona, un sentimento di autonomia e di memoria interna

tangibili, dotati di una robusta capacità di presenza, come pure di un carico visuale che è idoneo a veicolare, tradurre e accendere immaginari originali e autonomi. In questo senso l’essere “indipendenti” non implica solo una distanza da logiche di mercato tradizionali, bensì rappresenta piuttosto la volontà di esplorare linguaggi e temi che siano davvero sperimentali. Queste riviste, svincolate da pressioni commerciali, riescono a farsi portavoce di visioni radicali e di nuove estetiche, offrendo spazi creativi in cui la libertà editoriale consente loro di costruire immaginari visivi e narrativi che riflettono e al tempo stesso alimentano subculture spesso trascurate.

Come sostiene Carolyn Kitch (2001) infatti la rivista indipendente è sia forma di cultura che di comunità; non solo rispecchia la società, bensì la modella, trasmettendo tramite il “segno” messaggi su ciò che è e su ciò che dovrebbe essere, ingenerando ideali cui i lettori – liberamente – possono aspirare. Il pubblico di queste riviste può dirsi quindi costituito da gruppi sociali reali che, interpretanti, trascendono i limiti spaziali e temporali della pagina di rivista, esercitando forme di attivismo quotidiano come può essere ad esempio la partecipazione a incontri o laboratori di varia natura – sovente organizzati dagli editori stessi – utili all’evoluzione continua dei valori e delle dinamiche culturali. È in tale direzione che il saggio intende riconoscere il ruolo delle riviste indipendenti nell’attuale società, indagando il nesso sotteso tra design e contenuto e sollevando questioni che spaziano dalla teoria alla pratica curatoriale. Attraverso un’esegesi di pochi casi studio di riviste “effimere”, selezionate con cura dagli autori e provenienti dal panorama underground contemporaneo, l’intento è di reinterpretare il “baricentro” della rivista indipendente attorno al quale gravitano curatori i quali, accomunati da una medesima deontologia e tensione etica, concepiscono la pagina come processo, obiettivo e metodologia per confrontarsi con il mondo.

La scelta dei casi studio è stata guidata da un approccio di selezione intenzionale volto a identificare riviste indipendenti che rappresentano la transizione da oggetti effimeri, spesso associati a contenuti pubblicitari o di breve durata, a veicoli di valore culturale duraturo. I criteri di selezione hanno incluso l’indipendenza editoriale, la sperimentazione visiva e l’impatto sociale delle pubblicazioni, dando vita a una struttura articolata in due paragrafi: il primo, on paper, si immerge nel fenomeno dall’interno, osservando alcune riviste come oggetti culturale a sé stanti, mentre il secondo,

02. Progettate per il #94 dallo studio MuirMcNeil, è il primo esempio di copertine a “dati variabili”, 2017 | Designed for #94 by MuirMcNeil, it is the first example of “variable data” covers, 2017. Eye Magazine

off paper, offre una visuale esterna, inquadrando il contesto e le dinamiche sociali in cui i periodici operano.

In questa ricerca necessariamente fenomenologica e mai classificatoria, la prassi curatoriale emerge come chiave di lettura per principiare a riconoscere nuovi linguaggi visivi e modalità espressive, nonché per ridefinire il paradigma della relazione tra i contenuti della rivista e il lettore. Il contributo mostra come questi periodici, descrittivi e prescrittivi, possano dar vita a nuovi dialoghi e modi “permanenti” di fare cultura.

On paper: la rivista indipendente come oggetto culturale

La pagina effimera, di vari formati e materiali, diventa un palcoscenico su cui tipografia e figure si esibiscono come attori di una complessa coreografia, attraverso la quale le riviste indipendenti esplorano nuovi paradigmi espressivi. In questi spazi, la dicotomia tra forma e sostanza si annulla, abbandonando la tradizionale gerarchia editoriale per ab-

bracciare una riflessione autonoma su come il contenuto possa essere narrato e, dunque, fruito. La composizione visiva diventa così un compito intellettuale e creativo, un campo di sperimentazione in cui communication designer e illustratori si impegnano a decostruire i modelli visivi esistenti, offrendo una pluralità di interpretazioni.

Emblema di questa “tensione” verso la sperimentazione visiva è certamente Eye Magazine, una rivista che si definisce “the international review of graphic design”, e che, di fatto, può essere considerata come un manifesto del settore. Le pagine, tramite interviste, saggi e articoli, offrono una lettura critica delle arti visive intrecciando un dialogo approfondito tra le tendenze, storicizzate o contemporanee, e circoscrivendo, da molteplici prospettive teoriche, scenari futuri. La curatela si distingue principalmente per la prima di copertina, ciascuna concepita di volta in volta con un approccio enigmatico e sovversivo, invitando il lettore a decifrare autonomamente il contenuto di ogni numero. A tal proposito, è interessante se-

03. Il primo numero cartaceo progettato da Alice Sherwin e Harry Bennett, sotto la direzione artistica della fondatrice della piattaforma, Amber Weaver, 2020 | The first print issue designed by Alice Sherwin and Harry Bennett, under the artistic direction of the platform’s founder, Amber Weaver, 2020. Typeone

gnalare il numero 94, per il quale l’art director ha predisposto ottomila copertine distinte avvalendosi di un approccio basato sull’impiego di dati variabili, organizzati tramite il software HP Mosaic il quale, a partire da un unico pattern, genera automaticamente variazioni estetiche, combinando forme e colori (img. 02). Sempre all’interno di Eye Magazine, così come nella sua versione al digitale, si osserva un delicato equilibrio tra pieni e vuoti, organizzati in una gabbia modulare che, pur mantenendo un costante dinamismo, resta ancorata a un impianto formale tipico di un linguaggio critico. Con cadenza trimestrale, ogni numero è unico e riconoscibile, rendendo questo magazine un cult da collezione.

Espressa attraverso immagini, illustrazioni e caratteri, in cui la stessa sintassi si eleva a rappresentazione, la pratica

Le riviste indipendenti

si fanno portatrici di un’arte del tempo lungo

curatoriale non si riduce a un fine “estetico”, ma si configura come strumento per articolare il pensiero nello spazio, ispirandosi alle intuizioni del Futurismo. Un caso esplicativo è la rivista Typeone, che usa il carattere tipografico come forma concettuale per argomentare su cultura, business e tecnologia. Nata inizialmente come pubblicazione online, nel 2020 fa il suo debutto su carta (img. 03), dando voce a typedesigner emergenti con l’intento di esplorare il dialogo tra il typedesign e i grandi eventi globali, posizionando la tipografia come fulcro espressivo e critico. Ogni pagina è una composizione ritmica di tensioni visive, font, dimensioni e disposizioni che produce un “caos ordinato”, a metà strada tra avanguardismo e data visualization.

La sperimentazione delle possibilità editoriali si estende anche ai materiali che formano l’ossatura palpabile della rivista. La carta, con la sua texture, i suoi formati e

04. Quaderno della Gente di Mare, una produzione di Alberto Coretti con rilegatura filo refe a vista, copertina in carta d’alga Favini Shiro e l’interno in carta con fibre vegetali di scarto della lavorazione della lavanda, 2021 | Quaderno della Gente di Mare, a production by Alberto Coretti with visible thread binding, cover in Favini Shiro seaweed paper and the inside in paper with vegetable fibre waste from lavender processing, 2021. O. Sartor

le sue pieghe, non è più un supporto passivo, ma diviene parte integrante e dialogica del messaggio veicolato. Una carta trasparente, ad esempio, non solo evoca, ma reifica il concetto di trasparenza. L’idea di “carta comunicante” è in effetti l’incipit di Counterpoint, rivista rilegata a mano che unifica al giornalismo indipendente una forte componente illustrata. La sua fascinazione risiede nella stampa Risograph – inchiostri a base di soia e matrici di banano – che, su carta riciclata di grammatura consistente, a metà strada tra la serigrafia e la stampa offset, conserva la singolarità e la qualità dell’handmade. La pagina di carta, indipendentemente dal contenuto, può allora assumere forme impreviste divenendo affermazione di un’opera aperta. Questo punto di vista trova manifestazione in progetti editoriali come The European Review of Books, dove l’esperienza di lettura si fa atto interagente. Il lettore, chiamato a un ruolo attivo, è invitato a tagliare, piegare e ruotare le pagine a foliazione doppia, rivelando così saggi nascosti, brevi divagazioni e intricati giochi linguistici. In questo caso, il design editoriale diventa uno strumento di esplorazione e scoperta, stimolando un coinvolgimento partecipativo e riflessivo che trasforma la lettura in un’esperienza immersiva e creativa.

La prassi curatoriale appare dunque come un’estensione progettuale aperta e volutamente imperfetta, il cui valore risiede proprio nella sua duttilità. Seppur i fondatori delle riviste di nicchia riconoscono nel web un alleato cruciale per la diffusione del proprio lavoro, è la tattilità della carta a continuare a offrire quel legame sensoriale imprescindibile per mantenere vivo, nella persona, un sentimento di autonomia e di memoria interna (De Kerckhove e Rossignaud, 2020). È anche sulla scorta di questa riflessione che, oggi, l’editoria indipendente si fa pratica intellettuale, conducendo il lettore verso la codifica di un nuovo linguaggio per plasmare la personale interpretazione della realtà.

Off paper: la rivista indipendente come processo culturale

In un mondo che si muove sempre più verso una fruizione istantanea dei contenuti (De Kerckhove, 2024), le riviste indipendenti si fanno portatrici di un’arte del tempo lungo, rivolta a pubblici selezionati, opponendosi di fatto a una realtà in cui un’enorme mole di informazioni si confonde erroneamente con la conoscenza autentica. Queste pubblicazioni, grazie al loro impegno nel long form journalism e nella produzione di nuove narrazioni scrittografiche, congiuntamente all’adozione di rinnovate modalità di relazione con il lettore, offrono spazi di riflessione che vanno oltre la mera superficialità del consumo immediato, scandagliando l’essenza della cultura umanistica. È il caso, tra molte, di Sirene Journal, rivista nata grazie al crowdfunding, capace di celebrare l’ambiente marino con un forte impegno verso la sostenibilità ambientale. Con il pay-off “l’oceano fuori – l’oceano dentro”, ogni numero si apre con una copertina blu mare e l’iconica sirena stampata

su carta realizzata con alghe in eccesso provenienti da ambienti lagunari a rischio. La rivista, adottando un approccio curatoriale emozionale piuttosto che specialistico, non solo propone contenuti divergenti, ma dimostra come il coinvolgimento viscerale della comunità di lettori possa tradursi in un impegno civile significativo e in un impatto ecologico e sociale concreto, unendo gli appassionati verso una causa collettiva per la salvaguardia del mare (img. 04).

Lontane dalle logiche del mercato di massa e dalle grandi firme editoriali, queste riviste, spesso conseguenza di movimenti grassroots o sostenute da singoli finanziatori con intenti etici, emergono come fenomeni mediali complessi, atti a ridefinire i confini del pensiero e dell’espressione culturale tramite la nascita di comunità attorno a tematiche marginalizzate dal mainstream. Arabpop, ad esempio, si impegna a reinterpretare le culture popolari arabe, contrastando le narrazioni dominanti e offrendo uno sguardo critico e approfondito su una realtà spesso fraintesa,

05. Una fotografia scattata a sud del Cairo dove i colori testimoniano una distruzione parziale di centinaia di appartamenti. Progetto fotografico Desert City Jungle a cura di Urbano Urbani e Mina Ameen Fahmy. Estratto dal #4/Casa, pag. 64-65, 2023 | A photograph taken in southern Cairo where the colours bear witness to the partial destruction of hundreds of flats. Photographic project Desert City Jungle by Urbano Urbani and Mina Ameen Fahmy. Excerpt from #4/Casa, pp. 64-65, 2023. Arabpop

innescando così un dialogo che connette il mondo arabo al contesto globale, promuovendo altresì una comprensione più nitida delle proprie dinamiche socioculturali (img. 05). Allo stesso modo, Migrant Journal si colloca come un progetto editoriale che esplora accuratamente il movimento di persone, beni e informazioni in un mondo sempre più globalizzato. Broccoli, invece, con un approccio ironico, sfida i pregiudizi e ridefinisce l’immaginario della cannabis mediante una lente artistica, trasformando un tema di nicchia in un movimento corale,

Le riviste, nelle loro declinazioni di nicchia, contribuiscono ad arricchire il tessuto sociale

anche grazie all’uso di un’espansione transmediale come è il podcast Broccoli Talk, che esplora le molteplici sfaccettature creative, sociali e sovrastrutturali legate a questo mondo. La progettazione di piattaforme web e diverse estensioni off paper amplifica in effetti la voce delle riviste indipendenti, trasformandole in nodi di un’architettura transmediale composita (Scolari, 2013). In questo modo, molte riviste riescono

a produrre veri e propri luoghi d’incontro in cui viene abilitato l’attivismo, nonché programmi radiofonici, laboratori di idee, mostre ed eventi culturali, spaziando dall’ideazione di accessori e prodotti, allo sviluppo di libri e collane editoriali. La rivista Robida, in principio un collettivo, esemplifica perfettamente questa dinamica focalizzandosi su ruralità, architettura e paesaggio. Essa si distingue per la multidisciplinarità che unisce teoria e prassi, tradizione e innovazione, edificando un ponte tra realtà locali e scenari globali, con un’attenzione orientata alla propria comunità d’appartenenza, come pure all’innovazione sociale (img. 06). Tra il 2021 e il 2022, Robida ad esempio ha inaugurato uno spazio di co-working istituendo l’Academy of Margins, ovvero un luogo di incontro per autori di rilevanza e una giovane generazione che li legge.

Infine, riviste come APRI inaugurano modalità inedite – o forse ritrovate – di relazione con il lettore, trascendendo la semplice interazione per abbracciare processi maggiormente collaborativi. Come nelle epistole del passato, APRI si configura come un progetto di narrazioni epistolari, in cui ogni busta racchiude un racconto autoconclusivo, vergato da autori diversi e corredato da foto, cartoline o altri

06. Simposio Care of Margins organizzato da Robida. Un momento collettivo per ripensare il format delle residenze artistiche con professionisti dell’arte, professori, curatori e designer da tutta Europa. Topolò (UD), 2021 | Care of Margins symposium organised by Robida. A collective moment to rethink the format of artistic residencies with art professionals, professors, curators and designers from all over Europe. Topolò (UD), 2021. Robida

biglietti aggiuntivi (img. 07). Ogni dettaglio, dalla carta alla calligrafia, incluse le imperfezioni, le irregolarità e gli errori, arricchisce l’esperienza, rievocando una desueta pratica di scambio intellettuale ed emotivo (Ingold, 2021).

Conclusione

È tra l’on paper e l’off paper che le riviste indipendenti si affermano come fucine culturali, dotate di una struttura e una sovrastruttura, dove l’innovazione, come visto, trova ampio respiro non solo sul piano delle forme espressive e visuali, ma anche su quello delle dinamiche sociali. Tutti i periodici analizzati, a un primo sguardo “fragili” e transitori, coniugano forma e contenuto in modo sempre inatteso, sfidando le logiche del convenzionale e confermandosi come autentici oggetti culturali permanenti. Come sottolinea Samir Husni (2021), queste riviste, specialmente nelle loro declinazioni di nicchia, contribuiscono ad arricchire il tessuto sociale, descrivendo e, con risoluta costanza, prescrivendo la contemporaneità. Così, ingenerando un processo – che è “permanente” – di fare cultura, esse si fanno avamposti della sperimentazione e del libero pensiero, incentivando la riflessione critica e l’emergere di una costellazione di nuove narrazioni scrittografiche, certamente idonee a ridefinire futuri plurimi.*

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07. Lettera #35, Mezzo Avocado, di Valentina Della Seta, 2024 | Letter #35, Mezzo Avocado, by Valentina Della Seta, 2024. APRI

The independent magazine, an ephemeral, fragile and temporary means of communication, has always been a trace and extension of human culture (img 01), whose personality is materialised – between original graphic choices and groundbreaking content – in its slow periodicity, reduced circulation, distribution that favours alternative channels, experimentation with format and materials, as well as in its dedication to the collective dimension and the survival of free-thinking niches (Briggs and Burke, 2010). In the constant pursuit of the “beautiful” and the exploration of new ways of doing culture, independent magazines – both print and digital – are becoming, like temporary exhibitions, designed systems with an experiential character, whose content is negotiated from below and with care, spatially and aesthetically, emotionally and narratively (Marcadent, 2020). Graphic designers and visual editors, writers of various backgrounds, illustrators and photographers play a key role in the production of these magazines, supporting intertextuality and giving eloquence to paginated materials, thus contributing to their performativity (Renard, 2006). However, the discourse does not end merely between the words, which have a weight and a typeface, and the images, which occupy or leave gaps between them, interacting or not. In addition to graphic trends, temporal repetition and the more or less explicit correlation of content between magazine issues represent further aspects of editorial design (Leslie, 2013). In the case of printed magazines, even the most intimate actions of the reader related to tactility, such as leafing through, consulting, tearing, annotating or interacting with the page in unexpected ways, reveal the multiple possibilities offered by these veritable “communicative artefacts” (Dal Buono, 2013; Baule e Caratti, 2022), establishing a deep and continuous connection between the magazine and its user. At the same time, in the field of media studies, most researchers agree that independent magazines act as catalysts of society and culture and continue to do so – it seems – to a greater extent than other media, which amplify but do not contribute to the generation of ongoing socio-cultural trends (Abrahmason and Prior-Miller, 2015). This means, as Saul Marcadent explores in Editoria come Curatela (Edito-

The Ephemeral on its own

The Independent Magazine, from Transient Communicative Tool to Permanent Cultural Object

rial as Curatorship) (2020), that the magazine is increasingly understood as a form of culture in its own right, an expression of the surrounding culture and a statement of cultural identity. On the basis of these considerations, there is still an urgent need to overcome the idea that the independent magazine is merely a negligible representation of consumer culture (Schnapp and Michaels, 2012). It is therefore necessary to continue maintaining the view that these publications, although “ephemeral”, constitute dynamic processes and tangible spaces endowed with a robust capacity for presence, as well as a visual cargo capable of conveying, translating and igniting original and autonomous imaginaries. In this sense, “being independent” does not only imply a distance from traditional market logics, but rather a desire to explore languages and themes that are truly experimental. Freed from commercial pressures, these magazines manage to be spokespeople for radical visions and new aesthetics, offering creative spaces where editorial freedom allows them to construct visual and narrative images that reflect and at the same time nurture often neglected subcultures. In fact, as Carolyn Kitch (2001) argues, the independent magazine is both a form of culture and a community; it not only reflects society but also shapes it, conveying through the “sign” messages about what is and what should be, creating ideals to which readers can – freely –aspire. The public of these magazines can therefore be said to be made up of real social groups which, through their interpretation, transcend the spatial and temporal limits of the magazine page and exercise forms of daily activism, such as participation in meetings or workshops of various kinds – often organised by the editors themselves – which are useful for the continuous evolution of values and cultural dynamics. In this sense, the essay seeks to acknowledge the role of independent magazines in contemporary society, exploring the fundamental link between design and content and raising questions ranging from theory to curatorial practice. Through an exegesis of some case studies of “ephemeral” magazines, carefully selected by the authors and coming from the contemporary underground scene, the intention is to reinterpret the “barycentre” of the independent magazine, around which curators gravitate, who,

united by the same deontology and ethical tension, conceive the page as a process, an objective and a methodology to confront the world. The choice of case studies was guided by a deliberate selection approach aimed at identifying independent magazines that represent the transition from ephemeral objects, often associated with advertising or short-lived content, to vehicles of lasting cultural value. The selection criteria included editorial independence, visual experimentation and the social impact of the publications, resulting in a structure divided into two sections. The first, “on paper”, delves into the phenomenon from the inside, observing some magazines as cultural objects in their own right, while the second, “off paper”, offers an external view, framing the context and social dynamics in which the magazines operate. In this research, which is necessarily phenomenological and never classificatory, curatorial practice emerges as a key to beginning to recognise new visual languages and modes of expression, as well as to redefine the paradigm of the relationship between the magazine’s content and the reader. The contribution shows –again – how these descriptive and prescriptive magazines can give rise to new dialogues and “permanent” ways of doing culture.

On paper: the independent magazine as a cultural object

The ephemeral page, in a variety of formats and materials, becomes a stage on which typography and figures perform as actors in a complex choreography through which independent magazines explore new paradigms of expression. In these spaces, the dichotomy between form and content is abolished, and the traditional editorial hierarchy is abandoned in favour of an autonomous reflection on how content can be narrated and therefore enjoyed. Visual composition thus becomes an intellectual and creative task, a field of experimentation in which communication designers and illustrators strive to deconstruct existing visual models and offer a plurality of interpretations. Emblematic of this “tension” towards visual experimentation is certainly Eye Magazine, a magazine that defines itself as “the international review of graphic design” and which can, in fact, be considered a manifesto of the sector. Through

interviews, essays and articles, its pages offer a critical reading of the visual arts, weaving an indepth dialogue between historical and contemporary trends and outlining future scenarios from various theoretical perspectives. The curatorship is characterised above all by the front cover, which is conceived with an enigmatic and subversive approach, inviting the reader to decipher the content of each issue independently. In this respect, it is interesting to mention issue no. 94, for which the art director created 8.000 different covers, using a variable data approach organised by HP Mosaic software, which automatically generates aesthetic variations from a single pattern, combining shapes and colours (img. 02). Inside Eye Magazine, as well as in its digital version, one observes a delicate balance between solids and voids, organised in a modular cage that, while maintaining a constant dynamism, remains anchored to a formal layout typical of a critical language. Published quarterly, each issue is unique and instantly recognisable, making it a cult collector’s item. Expressed through images, illustrations and fonts in which syntax itself is elevated to representation, curatorial practice is not reduced to an “aesthetic” end but is configured as a tool for articulating thought in space, inspired by the insights of Futurism. A case in point is the magazine Typeone, which uses type as a conceptual form to argue about culture, business and technology. Initially an online publication, it makes its debut on paper in 2020 (img. 03), giving a voice to emerging typedesigners with the intention of exploring the dialogue between typedesign and major global events, by positioning typography as an expressive and critical focus. Each page is a rhythmic composition of visual tensions, fonts, dimensions and arrangements, producing an “ordered chaos” somewhere between avant-garde and data visualisation.

Experimentation with editorial possibilities also extends to the materials that form the tangible backbone of the magazine. Paper, with its textures, formats and folds, is no longer a passive support, but becomes an integral and dialogical part of the message conveyed. A transparent paper, for example, not only evokes the concept of transparency, but also reifies it. The idea of “communicating paper” is, in fact, at the incipit of Counterpoint, a hand-bound magazine that combines independent journalism with a strong illustrated component. Its fascination lies in its Risograph printing – soy-based inks and banana matrices – which preserves the uniqueness and quality of the handmade on recycled paper of a constant weight, halfway between screen printing and offset printing.

The paper page, regardless of its content, can then take on unforeseen forms and become a statement of an open work. This view is manifested in publishing projects such as The European Review of Books, where the reading experience becomes an interactive act. The reader, called upon to play an active role, is invited to cut, fold and rotate double-folded pages to reveal hidden essays, short digressions and intricate language games. In this case, editorial design becomes a tool for exploration and dis-

covery, stimulating a participatory and reflective engagement that transforms reading into an immersive and creative experience. Curatorial practice thus appears as an open and deliberately imperfect design extension whose value lies precisely in its pliability. Although the founders of niche magazines recognise the web as a crucial ally for the dissemination of their work, it is the tactility of paper that continues to provide the indispensable sensory link to keep alive in the person a sense of autonomy and internal memory (De Kerckhove and Rossignaud, 2020). It is also based on this reflection that independent publishing today becomes an intellectual practice, leading the reader towards the codification of a new language to shape the personal interpretation of reality.

Off paper: the independent magazine as a cultural process

In a world that is increasingly moving towards the instantaneous fruition of content (De Kerckhove, 2024), independent magazines are the bearers of an art of long form journalism aimed at a selected audience, effectively countering a reality in which an enormous amount of information is mistaken for authentic knowledge. These publications, thanks to their commitment to long form journalism and the production of new narratives, together with the adoption of renewed forms of relationship with the reader, offer spaces for reflection that go beyond the mere superficiality of immediate consumption, probing the essence of humanistic culture. This is the case, among many others, of Sirene Journal, a magazine born thanks to crowdfunding and capable of celebrating the marine environment with a strong commitment to environmental sustainability. Under the payoff “the ocean outside - the ocean inside”, each issue opens with a sea-blue cover and the iconic mermaid, printed on paper made from excess algae from endangered lagoon environments. By adopting an emotional rather than a specialised curatorial approach, the magazine not only proposes divergent content, but demonstrates how the visceral involvement of the reading community can translate into meaningful civic engagement and concrete ecological and social impact, uniting enthusiasts in a collective cause for the protection of the sea (img. 04).

Far from the logic of the mass market and the big publishing names, these magazines, often the result of grassroots movements or supported by individual financiers with ethical intentions, emerge as complex media phenomena capable of redefining the boundaries of thought and cultural expression through the emergence of communities around issues marginalised by the mainstream. Arabpop, for instance, is committed to reinterpreting Arab popular cultures, countering dominant narratives and offering a critical and in-depth look at an often misunderstood reality, thus stimulating a dialogue that connects the Arab world to the global context while promoting a sharper understanding of its own socio-cultural dynamics (img. 05). Similarly, Migrant Journal positions itself as a publishing project that closely examines the movement of people, goods and information in an increas-

ingly globalised world. Broccoli, on the other hand, takes an ironic approach to challenging prejudices and redefining the imaginary of cannabis through an artistic lens, transforming a niche topic into a choral movement, also thanks to the use of a transmedia expansion such as the Broccoli Talk podcast, which explores the multiple creative, social and superstructural facets associated with this world.

The design of web platforms and various “offpaper” extensions actually amplifies the voice of independent magazines, turning them into nodes of a composite transmedia architecture (Scolari, 2013). In this way, many magazines manage to produce real meeting places where activism is possible, as well as radio programmes, idea workshops, exhibitions and cultural events, ranging from the design of accessories and products to the development of books and book series. The magazine Robida, originally a collective, is a perfect example of this dynamic, focusing on rurality, architecture and landscape. It is characterised by a multidisciplinary approach that combines theory and practice, tradition and innovation, building a bridge between local realities and global scenarios, with a community-oriented focus and social innovation (img. 06). Between 2021 and 2022, for example, Robida opened a co-working space by founding the Academy of Margins, a meeting place for relevant authors and a young generation to read them.

Finally, magazines like APRI introduce new – or perhaps rediscovered – ways of relating to the reader, transcending simple interaction and embracing more collaborative processes. Like the epistles of the past, APRI is configured as a project of epistolary narratives, with each envelope containing a self-contained narrative written by different authors and accompanied by photos, postcards or other additional cards (img. 07). Every detail, from the paper to the calligraphy, including imperfections, irregularities and mistakes, enriches the experience and evokes an obsolete practice of intellectual and emotional exchange (Ingold, 2021).

Conclusion

It is between “on paper” and “off paper” that independent magazines establish themselves as cultural forges, endowed with structure and superstructure, where innovation, as we have seen, finds a wide scope, not only in terms of expressive and visual forms, but also in terms of social dynamics. All of the magazines analysed, seemingly “fragile” and ephemeral, combine form and content in unexpected ways, defying the conventional logic and confirming themselves as authentic, permanent cultural objects. As Samir Husni (2021) points out, these magazines, especially in their niche declinations, contribute to enriching the social fabric by describing and, with resolute constancy, prescribing contemporaneity. Hence, by generating a process of culture-making that is “permanent”, they become outposts of experimentation and free thinking, fostering critical reflection and the emergence of a constellation of new scriptural narratives certainly capable of redefining multiple futures.*

Siamo così fragili?

La popolazione mondiale conta 8 miliardi di persone, di cui 970 milioni convivono con un disturbo mentale; di queste, 300 milioni sono soggette a disturbi d’ansia, numero che negli ultimi anni ha subito un aumento del 30%.

Nel nostro Paese una persona su sei soffre di disturbi mentali e nel 64,8% dei casi registrati, tali fragilità colpiscono giovani e adulti in età lavorativa (20-64 anni), generando gravi ripercussioni sulla produttività e sul mercato del lavoro: il tasso di occupazione delle persone con problemi di salute mentale è solo del 42,7%, scendendo al 40,2% nei soggetti con disturbi complessi: si tratta di numeri ben inferiori rispetto al tasso di occupazione riferito a tutte le fasce d’età della popolazione italiana (circa il 60% del 2024).

Il costo economico associato è enorme, oltre ai costi diretti per il SSN, la ridotta produttività e l’assenteismo, che generano perdite di miliardi di euro ogni anno. E nonostante la pandemia abbia stimolato una crescente attenzione su questi temi, ad oggi solo il 57,9% delle persone con disturbi mentali riceve un trattamento adeguato.

Questi dati indicano che il disagio è parte integrante della vita di un essere umano. È difficile pensare che al mondo esista una persona che non si sia mai sentita fragile e vulnerabile. Ora più che mai, è necessario un cambio di paradigma che metta il benessere e la salute mentale al centro delle politiche pubbliche e della programmazione sanitaria.* Stefania Mangini

(SISM) - ANNO 2023

Andrea Pertoldeo

Fotografo, docente presso le università Iuav di Venezia, di Udine e di Padova. andrea.pertoldeo@gmail.com andrea.pertoldeo@gmail.com

architettura.uniud.it/personale/

Platea di fondazione con calcestruzzo armato a forma di parallelepipedo

Mi trovo sul bordo di un cantiere edile. Davanti a me si sviluppa la scena di una costruzione importante, nascerà una torre di diversi piani e in questo momento l’impresa è alle prese con tutto ciò che concerne le opere di fondazione. Una grande piscina di tondini di acciaio intrecciati sta servendo da pavimento provvisorio al lavoro degli operai; strati e strati di verghe metalliche cilindriche compongono un gigantesco sandwich di metallo; il tutto è perimetrato da enormi muri di cemento bordati da un giro di ferri di ripresa che servirà a proseguire verso l’alto la grande opera. Entro breve, tutto ciò che si vede sarà immerso da una marea di calcestruzzo che coprirà per sempre ciò che in questo momento è visibile e permetterà ai piani superiori di appoggiarsi stabilmente.

La possibile inquadratura mostra il proscenio di una rappresentazione vera, la scena di un cantiere come tanti. Sono interessato al fare, all’operare degli operai che si muovono con precisione e nettezza in uno spazio certamente non sicuro (purtroppo non indossavano gli elementi di protezione necessaria ma bisogna ricordare che erano anni in cui non era ben chiara l’importanza di questo aspetto). Alcuni elementi sono per me fortemente attrattivi, come la struttura di putrelle gialle che diventerà presumibilmente la base per la gru che dal suo interno innalzerà l’intero edificio, oppure ancora come le due grandi buche a forma geometrica che affondano dentro il mare di ferri, e questo è motivo sufficiente, ai miei occhi, per decidere di aprire la camera a banco ottico e caricare una pellicola di medio formato sul dorso 6x12.

Ecco che allora mi concentro di più e, prima di avvicinare l’occhio al lentino appoggiato al vetro smerigliato del dorso posteriore della mia Toyo 4x5, guardo con interesse gli altri elementi che mi aiutano a vedere meglio: gran parte di tutta la scena è immersa nell’ombra portata di un altro edificio prospiciente, l’ombra che ne deriva aiuta a delimitare l’ambiente e va presa in considerazione. Le barre di ferro che costituiscono l’armatura delle strutture in cemento armato hanno una curiosa regolarità irregolare che trovo visivamente molto interessante anche perché aiuta a scandire meglio il piano visivo. Decido quindi di ruotare la camera e di includere la grande putrella che funge da elemento di rigidità tra le pareti in cemento armato e dalla sua ombra subito sottostante. A questo punto l’ombra portata diventa un elemento comprensibile con una certa utile riconoscibilità che, in qualche modo, anticipa idealmente l’immagine dell’edificio che sta per sorgere. Mi accorgo che il balletto degli operai, costretti a camminare sulle verghe di metallo intrecciate, è molto interessante; alcuni cambiano spesso posizione e si spostano in continuazione mentre altri lavorano su punti fissi muovendosi pochissimo. In questo momento mi interessa il rapporto tra la pratica del lavoro e il piccolo paesaggio circostante. Opto per un cambio di focale e sostituisco il grandangolo con un’ottica più stretta e più simile a quella dell’occhio umano. In primo piano c’è la struttura di putrelle gialle e sopra di essa ci sono alcuni oggetti appoggiati: un’asse sottile di legno chiaro, un pacchetto di fazzoletti, un casco di un giallo più vivace, una matassa di corda rossa, forse dei guanti. Tutte

cose spicce che è meglio avere a portata di mano piuttosto di rischiare di perderle tra i fori del grande mare di metallo.

L’occhio adesso mi cade sulle due grandi cavità scure: la forma è precisa, una più piccola e rettangolare, l’altra più grande e quasi triangolare, un uomo sta lavorando al suo interno, un altro da sopra gli tiene fermi i ferri; sono attratto da un elemento non ben riconoscibile, ha una superficie chiara, come un piccolo cartonato fissato a una estremità della cavità più grande, ogni elemento, compreso questo piccolo oggetto, sembra costruito per sottrazione, per la grande colata di cemento che fra poco invaderà tutto quanto. Lo sviluppo del negativo mostrerà che la pellicola ha preso luce durante l’esposizione e si è quindi parzialmente rovinata. Nonostante questo inconveniente decido che, tutto sommato, la presenza di questo elemento di rivelazione all’interno delle fotografie è inerente al lavoro degli operai del cantiere e al senso di fragilità rispetto alla maestosità dell’operazione costruttiva e decido che mi sta bene.*

Foundation Platform with Parallelepiped Reinforced Concrete It is a small photographic series made more than fifteen years ago on the edge of a large construction site during the construction of foundations. The sequence shows the photographer’s movements in the space of the camera, while the accompanying text analyses the visual attitude that was the basis for the choices of selection of the space and therefore of the frames.*

Vincenzo Moschetti

Architetto, PhD, ricercatore in Composizione architettonica e urbana, Sapienza Università di Roma. vincenzo.moschetti@uniroma1.it

Fragilità

Valerio Paolo Mosco

LetteraVentidue, 2023

On the Double Origin Fragility in architecture remains, even today, a “contrary” theme for those who associate design solely with stability. However, employing it as a lens, as proposed in Valerio Paolo Mosco’s book, allows fragility to present us with a “parallel” history of architecture. This perspective updates established positions and situates a secondary origin in time, beyond that of the hut—or, more broadly, beyond the Western tradition. Aerostatic balloons, pylons, and frames describe a framework in which the traditional notion of stability assumes a new posture, and where the concept of “life,” partially neglected in our discipline, is restored to the domain of architecture.*

Sulla doppia origine La fragilità in architettura, una lente

ome spesso accade nella vita delle forme queste ultime riescono a esprimere compiutamente loro stesse allorquando incontrano lo stile di vita a esse conforme: solo a questo punto un tema, come la fragilità, diventa tale” (Mosco, 2024, p. 107).

Fragilità è il terzo, in ordine, di una serie di saggi frutto delle ricerche e delle occasioni didattiche di Valerio Paolo Mosco, dedicata “ai temi dell’architettura; più specificatamente alla frugalità, al kitsch, alla fragilità, alla stilizzazione, alla convenzionalità, alla nudità e al manierismo” (Mosco, 2024, p. 5). È la stessa collana, intitolata “temi”, nella quale i 7 saggi vengono ospitati, a indicare il materiale ma soprattutto l’obiettivo della ricerca, ovvero percorrere parte dell’architettura attraverso delle lenti capaci di mettere a fuoco autori e opere, così come condizioni, al fine di comprendere la nostra epoca, l’adesso.

La fragilità, almeno stando agli statuti del progetto, è un termine distante, respingente rispetto all’idea di stabilità che la disciplina convoca per essere riconosciuta come tale. Del resto, il lemma, almeno nella sua radice etimologica proposta da Pianigiani all’inizio del Novecento, è chiaro nel ritenere come fragile derivi “dalla stessa radice di fràngere (rompere), frag-méntum (pezzo, frammento) […]. Facile a rompersi; poco resistente” (Pianigiani, 1907, p. 558), dunque in apparenza qualcosa di con-

trastante rispetto alla solidità e inamovibilità destinata al costruire.

Tuttavia, la mancanza di forza, in realtà, manifesta uno degli elementi fondativi del progetto d’architettura che a partire dai discorsi ripresi ne La casa di Adamo in paradiso (Rykwert, 1972) è stata in grado di verificare e aggiornare le “strutture” spaziali per dirci qualcosa di più sul mondo. L’architettura sotto questa lente torna a essere parte del corpo, il nostro, ovvero lo stesso che portò Filarete1 a rappresentare Adamo nudo, fragile appunto, intento a ripararsi solo con le sue stesse mani sotto una tempesta. Un’esperienza richiamata da Rykwert e ampliata – pur riferendosi ad altro – nelle parole dello Stilfragen di Riegel, il quale scrisse come “all’inizio d’ogni creazione artistica sta la diretta riproduzione dei soggetti naturali nella compiutezza della loro appartenenza corporea, e cioè come manifestazione concreta di un impulso imitativo in base a un processo psichico” (Riegel, 1863, p. 30).

Il corpo è quindi il primo dispositivo di descrizione di una postura attraverso la quale leggere la fragilità dove il richiamo a un’origine occidentale, la cacciata di Adamo dal Paradiso terreste, ne incrocia un’altra, sul versante opposto al nostro, in Oriente, a partire dalla metà dell’Ottocento2. Siamo di fronte a una seconda origine dove la necessaria alleanza – ma anche collisione – con altre discipline, l’arte in prima linea,

L’architettura, anche se priva di “fondazioni” resta caparbiamente sé stessa

definisce il territorio dell’indagine proposta, dove la relazione tra segno e significato delle opere fissa i termini del discorso. In tal senso l’assenza di immagini o fotografie, sostituite da disegni a mano dal tratto schematico – di nuovo un ritorno del corpo nella costruzione del libro – rinforza il tema del saggio fissando le condizioni di un programma impostato su una sequenza temporale tesa al presente.

Corpi aerei, tralicci e telai, fra i tanti, testimoniano le figure di una storia dell’architettura letta attraverso l’assenza di “peso” e di stabilità di cui il progetto di macchina aerostatica di Jean-Jacques Leque, la Tribuna Lenin di El Lissitzky o il teatro trasportabile per via aerea di Buckminster Fuller definiscono un affresco di possibilità assai più concrete di molte altre che immergono le proprie fondazioni nella roccia. Così anche il richiamo alle “architetture ritratte da questi pittori [Giotto, Lorenzetti, ecc.] sono esili, tendenzialmente senza spessore, fragili scenografie che idealizzano le costru-

zioni medioevali in maniera tale da dare l’impressione che sia proprio la loro fragilità ad amplificare la portata sacra del messaggio” (Mosco, 2024, p. 71), configura un palinsesto di elementi e di spazi alla base della cultura progettuale del Novecento, anche la nostra, come ha più volte rievocato Luigi Moretti (Moretti, 1937; Bucci e Mulazzani, 2000, p. 159-160).

La fragilità pur ricordando per sua stessa definizione una condizione prossima alla rottura, a diventare frammento (che è questione, a tutto concedere, dell’architettura), propone di fatto una storia solo in apparenza parallela. La fragilità è elemento sempre presente nel processo di adesione del fare architettura che sia di necessità o di contrasto a ciò che si sta progettando.

Pertanto, la scoperta della cultura giapponese, questa che abbiamo chiamato “seconda origine” causata dallo sfondamento navale a opera della flotta americana nella baia di Tokyo, ha sostenuto la nascita di un nuovo sguardo fornendo gli strumenti necessari per interpretare parte di questioni probabilmente conosciute ma chiamate o codificate con termini diversi. È importante notare, e questo è fondante per il nostro tempo, come cambiando la lente si possa anche cambiare la storia; tuttavia, pur cambiandola, l’architettura, anche se priva di “fondazioni” o definita da esili elementi, resta caparbiamente sé stessa.*

NOTE

1 – “Antonio Averlino, detto Filarete, racconta che Adamo in un giorno di tempesta, di fronte a Dio che stava per cacciarlo dall’Eden, congiungeva le mani sul capo come per formare un tetto che lo proteggesse dall’ira divina e dalla pioggia. In quello stesso momento, attraverso quel gesto, compariva la prima architettura sulla terra”, in De Carlo, 1982, p. 17. 2 – “Il discorso sulla fragilità parte da un momento ben preciso: dall’arrivo della cultura giapponese in Occidente, da quel momento si assiste a quello che potremmo definire un progetto collettivo per quel che riguarda la forma architettonica: alleggerire la stessa al massimo eliminando il più possibile quella gravitas che fino a quel momento aveva caratterizzato il costruire nel mondo occidentale”, in Mosco, 2024, p. 30.

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sono pensati come spazi pubblici, ecosistemi di persone, luoghi e servizi che esprimono cura reciproca: si presentano come villaggi urbani ricchi di mix di funzioni aperte all’intero quartiere. Il progetto CodeCC a Pescara è pensato come un villaggio verticale di servizi alla comunità. L’edificio si sviluppa su un’altezza di cinque piani, oltre a un piano terra arricchito di attività collettive e una copertura praticabile. Gli spazi ibridi con funzioni sociali e attività collettive invaderanno anche il piano terra, prolungando i servizi di quartiere in un plan libre : un bordo violabile aperto a tutta la comunità dove potersi incontrare. CodeM di recente costruzione a Montesilvano ospita residenze sociali e un inedito spazio pubblico: una piazza sospesa multifunzionale e punto d’incontro per le persone di tutte le età. Si presenta come un’architettura ibrida e porosa capace di attivare relazioni e incontri per la vita di quartiere: un sistema aperto capace di modificare i contenuti relazionali nel tempo proponendo nuove dinamiche urbane. Codici Urbani è anche una sorta di manifesto programmatico da seguire partendo dalla rilettura dei punti caratteristici della progettazione dei quartieri popolari sorti nel dopoguerra, spesso falliti, e delineando una precisa dichiarazione di intenti per un possibile metodo progettuale. Le relazioni, gli incontri non sono entità progettabili ma lo sono gli spazi materiali che rendono tali azioni possibili. *

Spesso sconosciuti anche alla città che li ospitano i quartieri popolari si sono trasformati nel tempo in luoghi chiusi, monofunzionali, omogenei per visione, funzioni e popolazione, scoraggiando la sperimentazione e l’evoluzione della vita urbana e sociale. La mancata o tardiva realizzazione di spazi in grado di dare una risposta all’esigenza umana di attivare relazioni ha reso tali quartieri incapaci di evolvere al mutare delle esigenze dei propri abitanti. Partendo dall’analisi delle mancanze, l’ambizione dei nostri progetti è quella di voler trasformare i limiti impenetrabili di questi luoghi fragili in membrane porose e accessibili all’intera comunità, capaci di accogliere e gestire gruppi diversi così da rendere questi luoghi interessanti per l’intera città. Elaborate in piena emergenza COVID-19, le strategie progettuali di Codici Urbani nascono dalle riflessioni sulle criticità evidenziate dalla pandemia, dai limiti materiali e immateriali, peculiarità dei quartieri popolari, e propongono progetti di rigenerazione basati sulla lettura dei segni del luogo che ne raccontano la storia sociale, ambientale e culturale da (ri)scoprire, potenziare e, per mezzo dell’architettura dello spazio relazionale, integrare negli edifici e nei quartieri, trasformandoli in sistemi aperti e flessibili. Influenzati dalle teorie sociali e urbane di Sennett, l’intento è quello di arricchire tali luoghi con nuove forme spaziali, creando fratture all’interno di sistemi urbani rigidi, rendendoli incompleti e disordinati, permeabili e flessibili, capaci di cambiare funzione al mutare delle esigenze umane nel tempo.

I codici di ZEDAPLUS architetti

The Urban Codes of ZEDAPLUS

Erica Scalcione

Architetto, ZEDAPLUS architetti. studio@zedaplus.it

Fabrizio Chella

PhD, Architetto, ZEDAPLUS architetti. studio@zedaplus.it

CODECC: un villaggio verticale che reinventa lo stare insieme.

CODECC: a vertical village that reinvents being together. Zedaplus architetti

La progettazione di forme spaziali relazionali rappresenta un fatto sociologico che si forma spazialmente e per questo il punto di vista ricercato per la progettazione è quello del corpo che vive l’architettura, di chi potrà apprezzarne la qualità con gli occhi e con i sensi. Sono forme spaziali della condivisione delle emozioni, che diventeranno luoghi grazie all’attivazione di relazioni tra gli utenti: lo spazio fisico che le ospiterà ne è la predisposizione. Tali forme sono state chiamate spazi ibridi intermedi e assumeranno nel tempo una forma fisica capace di mutare in luogo umano e urbano: forme dotate di qualità oggettiva da interpretare in modo soggettivo. Posti tra lo spazio intimo della residenza e lo spazio pubblico esterno, gli spazi ibridi intermedi saranno luoghi di relazione come habitat della condivisione creando un senso di appartenenza a un luogo e a una società. Gli edifici progettati

tutto durante i momenti di nebbia intensa. Un grande tetto rosso e quattro finestre illuminate rappresentano sicurezza, offrendo, inoltre, una relazione visiva tra interno ed esterno. Il progetto prevede la sostituzione del terzo e ultimo piano in latero-cemento, con un sistema tecnologico a secco in XLAM, che minimizza i carichi strutturali sulle murature esistenti e la costruzione di una nuova scala esterna con basamento in lastre di cemento prefabbricato e struttura in acciaio. La scala assolve a più funzioni: torretta visiva, uscita di emergenza e riorganizzazione del sistema distributivo interno. I nuovi volumi sono rivestiti in lamiera metallica aggraffata, questa scelta mira a garantire durabilità nel tempo. Inoltre i materiali da costruzione utilizzati sono prevalentemente prefabbricati per facilitare il montaggio e il trasporto in elicottero durante le fasi di cantiere. La nuova copertura ha il colmo sfalsato che genera una falda asimmetrica, in cui la maggiore è esposta a sud-ovest e permette l’installazione dei pannelli fotovoltaici che, associati al sistema di accumulo a grafene, rispondono alla necessità di massimizzare l’autonomia energetica della struttura. Il progetto riflette sulla sopravvivenza idrica sostenibile del rifugio attraverso un complesso sistema, che comprende l’ampliamento delle vasche di accumulo e il recupero delle acque grigie e piovane. *

NOTE 1 –Il team di architetti composto da Stefano Pasquali, Samantha Minozzi e Alberto Stangherlin, insieme all’ingegnere Andrea Moser, ha vinto il bando di progettazione ad agosto del 2022 e ha ricevuto l’incarico di realizzare la progettazione definitiva ed esecutiva. L’intervento è in fase di realizzazione.

Costruire in alta quota a 2491 metri sul livello del mare, richiede una profonda consapevolezza delle peculiarità geografiche, climatiche, ecologiche e paesaggistiche uniche dell’ambiente montano che dettano le regole della progettazione. È un territorio da valorizzare e tutelare, reso sempre più fragile dal cambiamento climatico, con la conseguente scarsità delle risorse idriche e dall’uso turistico massivo, lontano dai valori intrinsechi del rispetto della montagna. Il Rifugio Tommaso Pedrotti alla Tosa sorge su un affioramento roccioso di natura geologica calcareadolomitica ai piedi delle cime Brenta Bassa e Brenta Alta, nel cuore delle Dolomiti di Brenta in Trentino. È inserito nel Parco Naturale Adamello Brenta, un’area protetta con una flora ricca di specie endemiche e animali in via di estinzione. Isolato dalle infrastrutture e situato in un crocivia di sentieri, il rifugio è una meta per escursionisti. L’edificio è stato costruito all’inizio del Novecento, ha una pianta rettangolare e si sviluppa in cinque livelli di cui tre sono destinati all’ospitalità. Nel corso degli anni è stato oggetto di diverse trasformazioni architettoniche, in cui al corpo di fabbrica principale sono stati addizionati dei volumi più piccoli, contribuendo così all’attuale immagine compositiva frammentata. La struttura portante dei primi quattro livelli è stata realizzata in muratura di pietra naturale, mentre l’ultimo livello è stato frutto di una successiva sopraelevazione in laterizio. L’edificio mostra chiaramente i segni del tempo, poiché le tecnologie utilizzate, sottoposte a fenomeni meteorologici estremi, sono vetuste rispetto alle condizioni attuali. Il progetto di ristrutturazione, frutto della vincita del bando di concorso, rappresenta un’opportunità per reinterpretare l’edificio nel suo complesso, rispondendo in modo resiliente alla necessità di affrontare le fragilità contemporanee e ridefinendone il ruolo nel contesto paesaggistico delle Dolomiti di Brenta. Partendo dalla consapevolezza che Rifugio T. Pedrotti ha conservato nel tempo il significato della parola rifugio come riparo per gli escursionisti, l’approccio progettuale si concentra sulla valorizzazione degli spazi collettivi dal carattere sobrio e che favoriscano la condivisione. Le camere per gli ospiti mantengono una capienza mista e i servizi sono ad uso comune. L’immagine che incarna il fulcro del progetto è il faro di montagna: data la visibilità dai vari sentieri, vuole essere un punto di riferimento visivo per gli escursionisti soprat -

Costruire a 2491 metri s.l.m. Building at 2491 m a.s.l.

Samantha Minozzi

Architetto, Dottoranda di ricerca, Composizione architettonica, DCP, Università Iuav di Venezia. sminozzi@iuav.it

Alberto Stangherlin Architetto. alberto@sta-mi.com

Stefano Pasquali Architetto. s.pasquali@hotmail.it

Arrivo al rifugio dal sentiero n° 303, 319. Arrival at the refuge from path no. 303, 319. Render di Sara Sagui

Giona Carlotto

Dottorando in Composizione architettonica, Università Iuav di Venezia.

gcarlotto@iuav.it

Parasitic adaptation Architecture is becoming a practice that increasingly focuses on giving new life to the existing. Architects sometimes need to reinvent themselves as bricoleurs, and the Boundary Window project is fundamentally this. The addition of just an architectural element, such as a window, can give new life to a building while safeguarding the original spatial relationships of the context in which you work. The original artifact was not considered to be of value and a hasty judgment would have favored its immediate demolition. A careful look instead decided to act with a controlled demolition, limited to the facade, and then mend and repair. Like a sort of surgical operation aimed at treating a sick patient. *

architettura sta diventando una pratica che si concentra sempre più sul restituire nuova vita all’esistente. Questo tema, necessario alla salvaguardia delle risorse e alla sostenibilità tout court delle opere, non deve però ostacolare la qualità del progetto, ma anzi esserne il motore che da vita a nuove idee e a nuove soluzioni verso non solo una rigenerazione abilitante delle architetture ma possibilmente di tutto il patrimonio in generale, buono o cattivo che sia. Infatti potrà essere il progetto

a dare nuova immagine a un manufatto apparentemente privo di alcun interesse o qualità estetica attraverso una ricerca di “strategie di riciclaggio degli spazi” (Marini, 2008, p. 19).

In questo senso il lavoro dello studio giapponese Shingo Masuda + Katsuhisa Otsubo emerge come caso esemplare di un nuovo approccio che, soprattutto considerando la città di Tokyo, si ritiene utile mettere in risalto a sostegno di questa tesi.

Questa strategia nei confronti dell’architettura non era pratica fre-

quente nella capitale del Paese del Sol Levante fino a pochi anni fa, dove le case diventano sempre più piccole con il passare delle generazioni e con una vita media di 26 anni (Kitayama et al., 2010, p. 29). A Tokyo, come schematizzato da Yoshinaru Tsukamoto in Escaping the Spiral of Intolerance: Fourth-Generation Houses and Void Metabolism (Ivi, pp. 29-43), negli ultimi cento anni un lotto è stato di norma diviso ogni qual volta doveva essere ereditato al fine di costruire più abitazioni, ma sempre più piccole.

Adattamento parassitario

Boundary Window, Shingo Masuda + Katsuhisa Otsubo, Tokyo

01. Fronte della parete vetrata dal giardino interno, 2019 | Front of the glass curtain wall from the internal garden, 2019. G. Carlotto

In una società che tende all’invecchiamento come quella del Giappone e dove le elevate tasse di successione o la volontà di monetizzare hanno visto la suddivisione degli immobili, i giovani architetti hanno dovuto trovare nuove opportunità adattandosi a lavorare anche con interventi minimi come dimostrano alcuni dei primi progetti di Masuda e Otsubo. Ad esempio, in una occasione gli architetti si sono limitati a disegnare un “muro” per delimitare lo spazio privato di una casa dallo pubblico della città utilizzando solo dei sottili profili metallici. Questa operazione ha permesso di creare un limite la cui trasparenza fa percepire lo spazio privato in connessione e continuità con quello pubblico della strada.

Progettare e costruire un edificio ex novo è in realtà l’obiettivo di molti architetti che a volte non si pongono troppo il problema di lavorare con il luogo, o con ciò che c’è. La tabula rasa infatti non vale solo per piani o grandi progetti utopici di cui se ne fa anche manifesto, ma è riscontrabile soprattutto nella quotidianità dei piccoli interventi. Se davvero gli architetti hanno bisogno di reinventarsi come bricoleurs, il progetto Boundary Window degli architetti Shingo Masuda e Katsuhisa Otsubo è fondamentalmente la traduzione pratica di questa attitudine. L’aggiunta di un solo elemento architettonico, come una finestra, può dare nuova vita a un edificio salvaguar-

dando inoltre le originali relazioni spaziali del contesto in cui si lavora. Il manufatto originale non era considerabile di alcun valore e un giudizio frettoloso avrebbe favorito la sua immediata demolizione. La preesistenza in questione era un banale edificio residenziale, colore giallino, a due livelli con una serie di finestre quadrate regolari e un ballatoio al piano primo. All’arrivo dalla strada l’edificio riqualificato rimane anonimo come all’origine al punto tale che non ci si accorge della sua presenza se non lo si cerca per qualche motivo. Il fronte strada infatti è stato pitturato di un colore grigio, le finestrature sono state rimosse e le bucature tamponate in muratura rendendo la facciata completamente cieca e muta con una scala che vi si aggrappa esternamente per connettere il piano primo alla copertura praticabile. L’accesso laterale da sul giardino interno di una corte vegetale dove, entrando in uno spazio semiprivato, si scopre il nuovo intervento vetrato. L’operazione di demolizione controllata ha portato a rimuovere il ballatoio e le finestrature e a liberare la facciata rimuovendo gli strati di intonaco che ricoprivano il cemento armato strutturale, ora a vista in trasparenza dietro la parete vetrata. Si tratta di una ricucitura, o riparazione, come una sorta di operazione chirurgica attuata allo scopo di curare un paziente malato, l’edificio preesistente viene operato da un architetto-chirurgo

Un solo elemento architettonico per dare nuova vita a un edificio
02. La casa prima dell’intervento di Masuda + Otsubo | The house before Masuda + Otsubo’s refurbishment. Shingo Masuda + Katsuhisa Otsubo Architects

nella sala operatoria della città. Così “il parassita si fa occasione per rianimare cadaveri architettonici” (Marini, 2008, p. 28). Da notare inoltre come ciò sia senza dubbio economicamente sostenibile e vantaggioso e potrebbe in molti casi far risparmiare molte risorse anche ai committenti.

La finestra è scalata di dimensione al punto da non essere più considerabile tale, così l’edificio diventa “tutto finestra” (Koolhaas, 2018, p. 702). Essa infatti è una grande parete vetrata che supera di un piano la dimensione del volume originale diventando anche parapetto per il tetto praticabile. Sorprende poi vedere che quasi in contraddizione con l’aggiunta di un solo elemento, quale la grande finestra, sia stato aggiunto alla preesistenza un livello di finte finestre alzando di un piano il fronte e dandone un aspetto quasi monumentale. Le nuove finestre sono vuoti che incorniciano il cielo e la parete vetrata vi si distacca di pochi centimetri creando una piccola camera d’aria. In realtà, spiegano i progettisti, la grande superficie in vetro ha anche la funzione di catturare in altezza i raggi solari che vengono riflessi sul giardino in quanto in precedenza lo spazio della corte era troppo buio.

L’architettura è soggetta alle forze della natura e anche a esse deve adattarsi, come l’ampia vetrata di facciata che deve resistere ai forti venti: la sua struttura è stata calcolata per poter flettersi senza rompersi e resistere a forti venti fino a 34 m/s, ossia eventi come uragani.

L’edificio utilizzato come caso studio è un perfetto esempio di riuso quasi totale dell’esistente limitando le operazioni a un semplice gesto di manutenzione, aggiunta o adattamento parassitario.

In biologia, il parassita indica un animale o un vegetale il cui metabolismo dipende, per tutto o parte del ciclo vitale, da un altro organismo vivente, detto ospite, con il quale è associato più o meno intimamente. La grande finestra non sarebbe nulla senza la vecchia abitazione sulla quale si aggrappa e per la quale viene progettata, ma anziché causarne deperimento ne ridà nuovo splendore. Come un “corpo che costruisce

04. Scorcio della casa dalla strada, 2019 | View of the house from the street, 2019. G. Carlotto
03. Scorcio della casa e dell’accesso al giardino dalla strada, 2019 | View of the house and the way to the garden from the street, 2019. G. Carlotto

Il parassita si fa occasione per rianimare cadaveri architettonici

una relazione con un altro corpo ma anche come componente capace di stabilizzare un sistema per poi farlo evolvere in una nuova configurazione” (Ivi, p. 21).

“In realtà, non abbiamo mai pensato al fatto di parassitare – afferma Shingo Masuda – si tratta più di adattamento. Questa poi è una parola che abbiamo preso dal film Adaptation di Charlie Kaufman. L’interesse per questo film è più che altro sul come costruire una storia”1.

La semplice aggiunta di una facciata a una preesistenza nel tentativo di trasformare un manufatto caricandolo di significati storicamente non è di certo una novità, specialmente se pensiamo all’architettura italiana. Infatti nel nostro paese gli esempi sono molti e nel tentativo di trattare il tema con più ampio respiro si ritiene utile accennarne almeno qualcuno. L’idea di costruire una facciata per la Chiesa di San Lorenzo a Firenze, nata dopo la progettazione di un prospetto effimero, piacque a papa Leone X Medici a tal punto che nel 1516 ne fu affidato l’incarico a Michelangelo. Anche se non fu mai realizzata, lo scopo era quello di innestare su una chiesa preesistente, la cui facciata spoglia in mattoni a correre orizzontalmente era priva di alcun ornamento, un nuovo elemento che ne desse la necessaria importanza. Analogo anche il caso della facciata di Filippo Juvarra per Palazzo Madama a Torino eretta nella prima metà del Set-

06. Scorcio della parete vetrata dal giardino interno, 2019 | View of the glass curtain wall from the internal garden, 2019. G. Carlotto
05. Esploso assonometrico | Exploded Axonometric drawing. Shingo Masuda + Katsuhisa Otsubo Architects

07. Scorcio della casa dalla strada, 2019 | View of the house from the street, 2019. G. Carlotto tecento. La principale differenza tra questi celebri precedenti e il progetto dello studio giapponese in oggetto, sta nel valorizzare esclusivamente lo spazio esistente anziché crearne uno nuovo. Infatti nei progetti antichi citati l’aggiunta del nuovo volume di facciata abitabile è considerabile come un vero e proprio ampliamento dell’edificio in termini volumetrici, e di fatto ne diviene uno spazio filtro di accesso percorribile. Nel progetto Boundary Window questo non accade e inoltre la facciata viene ampliata oltre il necessario, falsificando la percezione del volume che ricopre. Forse più simile al lavoro di Masuda + Otsubo è il progetto per Palazzo Massimo alle Colonne di Baldassarre Peruzzi, della prima metà del Cinquecento. Infatti, in Boundary Window si tratta di un operazione limitata all’aggiunta di una superficie sul fronte aumentandolo in altezza, mentre in Palazzo Massimo alle Colonne la facciata è stata allungata in larghezza per raggiungere la simmetria voluta. I paragoni con gli edifici antichi, forse un po’ forzati, si ritengono comunque utili a sviluppare un ragionamento su questa piccola unità residenziale giapponese.

Inoltre, la nuova facciata trasparente amplifica lo spazio interno che riceve molta luce naturale e dal quale si ha l’impressione di essere in continuità con il giardino esterno e si potrebbe dire che il progetto giapponese è la smaterializzazione della facciata.

Infatti, per i Masuda + Otsubo fare architettura non significa perseguire la novità o pensare a un progetto giusto per un determinato momento, ma piuttosto porre delle domande fondamentali e ampie sul rapporto tra architettura e luogo. Così, un’architettura dovrebbe idealmente essere in grado di adattarsi a una situazione, al proprio ambiente, stabilendo essa stessa un luogo (Masuda e Otsubo, 2020, p. 9).

Di notevole interesse è inoltre una questione etimologica legata al termine “adattamento” nella lingua giapponese. Infatti, i due architetti, in una pubblicazione dei loro lavori, si soffermano a spiegare le sfumature di significato di alcune parole. “In giapponese, atehameru che significa ‘applicare’ e atehamaru che significa ‘adattare’, suonano simili ma il loro significato è totalmente diverso. La differenza è che ‘adattare’ significa adattare qualcosa a una particolare circostanza o

Fare architettura

significa

porre delle domande

sul

rapporto tra architettura e luogo

condizione mentre ‘applicare’ significa imporre unilateralmente una regola o un principio a qualcosa. Ad esempio, quando una creatura vivente si adatta a un determinato ambiente, modifica il modo in cui agisce e vive per adattarsi all’ambiente e soddisfare i suoi bisogni primari. Sviluppa da sola una nuova ecologia, mediata dall’ambiente dato e dalle varie relazioni con gli esseri viventi. Anche l’architettura dovrebbe adattarsi in modo flessibile alle circostanze date per costruire un luogo forte in un modo specifico” (Ivi, p. 7).

Durante un’intervista con l’architetto Shingo Masuda, condotta nell’agosto del 2024, presso il loro studio a Tokyo, sono emerse alcune riflessioni in merito al ruolo contemporaneo della figura dell’architetto:

GC [Giona Carlotto] Pensi che l’architettura stia diventando una pratica che si concentra sempre più sul lavorare sull’esistente?

SM [Shingo Masuda] Abbiamo appena terminato un progetto a Bruges in Belgio. È un piccolo padiglione in una città antica. I padiglioni proposti dagli altri architetti si sono discostati dalla preesistenza utilizzando

materiali diversi, per rendere visibile la presenza del contemporaneo. Noi abbiamo invece utilizzato lo stesso materiale del sito, i mattoni prodotti nella stessa regione, e volevamo che questi mattoni si comportassero in modo completamente diverso. Per noi si tratta sempre di dare una nuova prospettiva all’esistente. In sostanza gli architetti rinnovano costantemente i luoghi e la città, dando nuova vita o dando nuove prospettive all’esistente.

GC Qual è il vostro atteggiamento verso il progetto?

SM Il rapporto con il cliente sta cambiando nell’ultimo periodo. I clienti a volte sanno in modo molto preciso cosa vogliono. Ora possono cercare, possono trovare le loro immagini e hanno più tempo per farlo. Penso che cento anni fa la professione dell’architetto fosse di creare spazio, ma ora creare lo spazio non è più una professione perché è più facile per tutti farlo partendo dalle informazioni e dai dati esistenti, considerando anche l’avvento dell’intelligenza artificiale. Dobbiamo trovare un atteggiamento completamente nuovo nei confronti dell’architettura, un atteggiamento giusto nei confronti del progetto, altrimenti dovremo lottare costantemente con il cliente per convincerlo con le parole. Non siamo bravi con le parole. Noi vogliamo lavorare con l’atteggiamento giusto, su ciò che vogliamo progettare per una condizione specifica, come in Boundary Window.

GC Quanto è importante per la vostra pratica professionale la ricerca e l’attività didattica?

SM Per me è sempre una sfida. In genere insegnando voglio dare un tema di studio che nemmeno io riuscirei a produrre facilmente. Voglio sempre essere allo stesso livello con gli studenti così possiamo discutere e possiamo produrre qualcosa insieme. La cosa più importante è che penso che un architetto dovrebbe avere la capacità di osservare. Vedere le cose effimere della città e come queste sono legate e coinvolte con

l’esperienza delle persone. La finestra di Boundary Window ad esempio non è solo un materiale in vetro trasparente, ma è anche riflettente e se usato correttamente può diventare uno strumento di illuminazione per il giardino. Questi fatti spesso trascurati sono molto importanti quando progettiamo e questo è il punto di partenza di questa criticità del progettare. Voglio diventare più abile in questo e anche gli studenti dovrebbero lavorarci quando sono nella fase iniziale della formazione in architettura. Altrimenti si possono trovare tutti i modi per costruire, informazioni complete su come farlo, ma questa è architettura come metodo. In un certo senso, questo metodo è molto conservativo. Quindi, per fare un salto, dobbiamo osservare il mondo, e penso che questa sia la cosa di cui vorrei maggiormente discutere con gli studenti. Conoscere il sito e conoscere i fatti.

Dopo l’osservazione accurata dell’esistente il progetto deve relazionarsi criticamente a esso, ma come architettura dovrà avere la capacità di emozionare: “Sbalordiscili alla fine, e avrai un successo”2 *

NOTE

1 – Intervista a Shingo Masuda condotta da G. Carlotto, 13 agosto 2024, Tokyo.

2 – Tratto dal film Adaptation, nella scena in cui Charlie Kaufman incontra il guru della sceneggiatura Robert McKee. Regia di Spike Jonze, sceneggiatura di Charlie Kaufman e Donald Kaufman, 2002. In Italia il film è uscito nel 2003, con il titolo Il ladro di orchidee.

REFERENCES

– Kitayama, K., Tsukamoto, Y., Nishizawa, R., (2010). Tokyo metabolizing. Tokyo: TOTO publishing.

Koolhaas, R. (2018). Elements of Architecture. Köln: Taschen GmbH.

Marini, S. (2008). Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città. Macerata: Quodlibet.

Masuda, S., Otsubo, K. (2020). Adaptation. Shingo Masuda + Katsuhisa Otsubo. Tokyo: TOTO publishing.

08. Dettaglio del serramento che si aggancia alla preesistenza, 2019 | Detail of the window that attaches to the preexisting, 2019. G. Carlotto

Dottoranda in Architecture Urban and Interior Design, DAStU, Politecnico di Milano. giulia.azzini@polimi.it

Hydraulic Infrastructure and Design

Within the framework of current water fragility, this paper investigates water treatment architectures as tools for environmental and civic education.

Starting from a redefinition of the term “infrastructure,” which includes the examined typology, some case studies that establish a balance with the natural environment and raise community awareness of water resource care will be discussed. The outcome is to outline a replicable and adaptive infrastructure model in response to changes affecting the territory.*

Oggi la crisi climatica impone una riflessione urgente sulla gestione dell’acqua, risorsa preziosa che oscilla tra scarsità e sovrabbondanza: questo dualismo investe il territorio su scala globale, amplificandone la fragilità e l’esposizione al rischio (European Environment Agency, 2024). In un simile scenario, si rivela cruciale il progetto delle infrastrutture idrauliche, ossia di tutte le architetture volte a controllare la quantità e la qualità dell’acqua. Il termine “infrastruttura”, introdotto nel XIX secolo in ambito ferroviario (Stalder e Darò, 2017), ha progressivamente ampliato il proprio significato fino a includere ogni servizio essenziale

per lo sviluppo urbano, come la produzione e distribuzione di acqua potabile. Tale evoluzione riflette la vocazione adattiva delle opere infrastrutturali che, modificandosi nel tempo in relazione al territorio, risultano decisive nel rispondere alle sfide contemporanee. Secondo questa prospettiva, il progetto delle infrastrutture idrauliche è chiamato a perseguire un duplice obiettivo: da un lato, mitigare il proprio impatto ambientale, ripristinando la naturalità dei suoli e tutelando la risorsa idrica; dall’altro, cercare un dialogo con le comunità servite. Ciò significa superare un modello tradizionale di infrastruttura come sistema prettamente

funzionale e isolato (Martì Arìs, 2007), per abbracciarne, invece, uno aperto e inclusivo (Angélil e Siress, 2017).

Architetture per il trattamento acque: possibili configurazioni Tra le infrastrutture idrauliche, le architetture per produrre e distribuire acqua pulita costituiscono un campo di sperimentazione significativo, se si considera il loro carattere di pubblica utilità (Birney Vickery, 2020). Esse si offrono come opportunità per ridefinire il rapporto tra uomo e ambiente, trasformandosi in “macchine ibride” dove interagiscono processi artificiali, naturali e sociali (Viganò, 2012).

Infrastrutture idrauliche e progetto

Architetture per il trattamento acque come strumenti di educazione ambientale e civile

01. Impianto di depurazione di Gottlieb Paludan Architects | Purification plant by Gottlieb Paludan Architects. G. Azzini

Oggi la crisi climatica impone una riflessione urgente sulla gestione dell’acqua

In questa ottica, le architetture per il trattamento acque possono declinarsi in tre diversi modi: dispositivi adattivi, spazi fruibili, e strumenti di educazione ambientale e civile. Mentre la prima configurazione concerne prevalentemente la sfera tecnica, stabilendo strategie puntuali per contrastare la carenza e la sovrabbondanza idrica, la seconda afferisce all’architettura: il disegno dello spazio genera infatti strutture articolate in cui le funzioni produttive si mischiano a quelle pubbliche, dissolvendo il confine tra infrastruttura e paesaggio. Diversamente, il ruolo educativo implica una sintesi tra le due discipline: infatti, l’intersezione tra scelte tecniche e spaziali consente di catalizzare l’attenzione su temi critici quali l’ecologia e il rispetto per l’ambiente, oltre a consapevolizzare la comunità sul contributo della tecnologia nel trattare e restituire i capitali della terra.

A sostegno della tesi, il contributo propone alcuni casi studio emblematici che, interfacciandosi con la tipologia

descritta, coniugano qualità spaziale, sostenibilità ambientale e coinvolgimento sociale: essi dimostrano come la fragilità idrica possa influenzare positivamente il progetto delle infrastrutture idrauliche.

Infrastruttura come playground: Køge Waterworks

L’impianto di depurazione realizzato dallo studio Gottlieb Paludan Architects a Køge, in Danimarca, diventa occasione per sensibilizzare anche gli utenti più piccoli alla cura e al reimpiego delle risorse naturali (img. 01).

Le ampie vetrate, presenti su tutti e quattro i prospetti dell’edificio, esibiscono i processi di purificazione solitamente nascosti al suo interno, esplicitando l’apertura e l’attitudine pubblica del progetto. Inoltre, lo spazio esterno gravita attorno a un parco giochi caratterizzato da canali in acciaio corten che, mediante una copertura a falde inclinate, accolgono e indirizzano l’acqua piovana (img. 02). Questi ultimi, disposti in successione e secondo inclinazio-

ni differenti, definiscono un percorso che termina in un piccolo lago, pensato come serbatoio in caso di forti piogge: qui l’acqua viene gradualmente assorbita dal suolo o pompata nell’impianto, per poi essere trattata e riadattata al consumo pubblico.

Questo sistema, attraverso un approccio ludico, coniuga il disegno dello spazio a tecnologie semplici ma significative da un punto di vista ecologico, diventando un vero e proprio dispositivo di educazione ambientale e civile.

Infrastruttura come parco pubblico: Whitney Water Purification Facility and Park

Situato a Hamden, negli Stati Uniti, il progetto di Steven Holl per il Whitney Water Purification Facility and Park fonde un impianto per la depurazione dell’acqua a un parco pubblico (img. 03), recuperando una concezione di infrastruttura come opera tesa alla connessione e allo scambio (Heathcott, 2022).

Situato in una zona umida preesistente e ricamato di percorsi e luoghi di

02. Impianto di depurazione di Gottlieb Paludan Architects: dettaglio dei canali in acciaio corten | Purification plant by Gottlieb Paludan Architects: corten steel runnels’ detail. G. Azzini

sosta, il nuovo parco viene organizzato in settori corrispondenti alle diverse fasi del processo industriale: è dunque il disegno del paesaggio a fare evadere metaforicamente ciò che avviene all’interno dell’edificio.

Da un punto di vista ambientale, vengono ridotti i costi di manutenzione e irrigazione attraverso il mantenimento delle specie autoctone; la topografia del suolo e la presenza di uno stagno permettono di raccogliere e convogliare l’acqua piovana nell’impianto, dal quale viene trattata e redistribuita; infine, le superfici esterne pavimentate vengono limitate al minimo, garantendo il più possibile la permeabilità del terreno.

Il progetto di Steven Holl definisce un modus operandi in cui tecnica e architettura collaborano efficacemente: da un lato, la modellazione del suolo connette il processo di depurazione al ciclo naturale dell’acqua, minimizzando

gli impatti della struttura nell’area umida circostante; dall’altro, il disegno dello spazio apre l’infrastruttura idraulica alla comunità che sostiene, mettendo a disposizione un nuovo luogo pubblico.

Infrastruttura come parco pubblico: Solrødgård Climate and Environmental Park

Anche il Solrødgård Climate and Environmental Park, che vede la collaborazione tra lo studio Gottlieb Paludan e Henning Larsen Architects, rappresenta un esempio avanzato di integrazione tra infrastruttura idraulica e paesaggio (img. 04).

Prima dell’intervento (2020), l’area era prevalentemente interessata da terreni agricoli e dai corsi d’acqua Havelse Å e Slåenbækken; diversamente, gli architetti prevedono accanto al nuovo impianto zone umide, boschi e altre fasce di vegetazione, nel tentativo di ripristinare la naturalità del sito.

Da un punto di vista tecnico, il parco sintetizza una serie di soluzioni efficaci per contrastare il rischio idraulico: è pensato infatti come serbatoio in occasione di piogge torrenziali e area umida in condizioni normali. Schematicamente, l’acqua potabile proveniente dall’impianto è convogliata nell’Havelse Å e nel Slåenbækken: in caso di ingrossamento, questi sfociano in un lago realizzato sul modello di Køge e di Hamden, da cui l’acqua può defluire gradualmente nel suolo. Quest’ultimo costituisce materiale essenziale per il progetto: lo scavo di fossati, l’innalzamento di terrapieni e lo sfruttamento della topografia consentono di raccogliere, deviare e distribuire l’acqua prodotta o in eccesso. Al pari di Steven Holl, Gottlieb Paludan e Henning Larsen Architects concepiscono l’infrastruttura come spazio fruibile: qui sentieri, ponti e piste ciclabili si snodano (img. 05), talvolta interrompendosi in corrispondenza di

La collaborazione tra architettura e tecnica affronta la sovrabbondanza e la carenza idrica
03. Impianto di depurazione di Steven Holl | Water Purification Facility by Steven Holl. G. Azzini
04. Impianto di depurazione di Solrødgård | Solrødgård Water Treatment Plant. G. Azzini

piccoli luoghi di sosta come una casa per i pipistrelli, una torre per il birdwatching e altri elementi puntuali. Tra essi, l’edificio per il trattamento acque si impone come nodo principale nella trama del parco, offrendosi all’esperienza dei visitatori: lo si può attraversare percorrendo una strada che lo taglia in due corpi, entrambi caratterizzati da grandi vetrate; oppure, si può camminare in copertura, che collegandosi alla quota inferiore piega e diventa un belvedere, punteggiato da lucernari attraverso cui “spiare” gli interni.

La propensione alla trasparenza, come si evince dall’involucro esterno, e all’apertura, evidente nella scelta di innestarsi in un parco pubblico, sottolineano la ricerca di un coinvolgimento attivo della comunità. Così il progetto, promuovendo l’esperienza del luogo, porta alla luce i fragili fili che ci legano alla terra e alle sue risorse.

Conclusioni

Nel quadro della fragilità idrica attuale, il progetto delle infrastrutture necessita di essere sempre più orientato a favorire la conoscenza, la partecipazione e le connessioni autentiche con l’ambiente, mediante incessanti metamorfosi e ibridazioni (Barbieri, 2020). Muovendosi in questa direzione, le architetture per il trattamento acque analizzate nei paragrafi precedenti abbandonano il loro mandato puramente funzionale e si dimostrano sensibili, invece, ad alcune questioni centrali del nostro tempo: costruire in un territorio fragile, riformulare il concetto di infrastruttura, istruire la comunità alla cura delle risorse non riproducibili.

Ponendosi come spazi accessibili, dispositivi adattivi, e occasioni educative, i casi studio tracciano le linee guida per un modello progettuale applicabile a manufatti e contesti simili. Tale modello, ispirato ai principi vitruviani di firmitas, utilitas, e venustas, propone un’infrastruttura permanente, poiché modellata dalle fragilità e dalle trasformazioni del territorio; funzionale, in quanto orientata a soddisfare le esigenze della collettività; e proporzionata, nella sua capacità di relazionarsi con gli utenti, l’ambiente e le sue risorse.*

REFERENCES

– Angélil, M., Siress, C. (2017). Infrastructure Takes Command: Coming out of the Background. In Ruby, I., Ruby, A. (a cura di), Infrastructure space. Berlino: Ruby Press, pp. 11-24.

– Barbieri, P. (2020). Spazio Tempo Architettura. Le transizioni energetiche. In Capuano, A. (a cura di), Cinque temi del modernocontemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe. Macerata: Quodlibet.

– Birney Vickery, M. (2020). Landscape and Infrastructure. Reimagining the Pastoral Paradigm for the Twenty-First Century. Londra: Bloomsbury.

– European Environment Agency (2024). Responding to climate change impacts on human health in Europe: focus on floods, droughts and water quality. Lussemburgo: Publications Office of the European Union.

– Heathcott, J. (2022). The Routledge Handbook of Infrastructure Design. Global Perspectives from Architectural History. New York: Routledge.

– Martì Arìs, C. (2007). La cèntina e l’arco. Pensiero, teoria, progetto in architettura. Milano: Christian Marinotti Edizioni.

– Stalder, L., Darò, C. (2017). Eight Points of Infrastructure and Architecture. In Ruby, I., Ruby, A. (a cura di), Infrastructure space. Berlino: Ruby Press, pp. 26-29.

– Viganò, P. (2012). Infrastrutture e cambiamento climatico. Questioni per il progetto di città e territori. In Ferlenga, A., Biraghi, M., Albrecht, B. (a cura di), L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi. Milano: Compositori, pp. 182-187.

05. Parco climatico e ambientale di Solrødgård: percorsi | Solrødgård Climate and Environmental Park: paths. G. Azzini

La duplicità dell’estuario Estuario Nantes<>Saint-Nazaire, Francia, 2024

Il rapporto che la città di Saint-Nazaire intrattiene con la distruzione e la creazione è fatto di sofferenza e fascinazione, rivelando un carattere incompiuto e fragile, vivo e resistente.

Dalla fine del 1800, Saint-Nazaire è stata costruita in modo del tutto artificiale, come progetto economicopolitico, per accogliere e dare alloggio a lavoratori provenienti da fuori. Chiave dell’estuario, città transatlantica e navale, “californiana” nel XIX secolo, Saint-Nazaire ha dovuto fare i conti con uno spazio sia ostile che complice – l’oceano, le maree, i venti – ma anche con gli eventi storici: la città viene trasformata dall’arrivo degli americani nel 1917 e completamente distrutta nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale.*

The Duplicity of the Estuary

Estuary Nantes<>Saint-Nazaire, France, 2024

The relationship that the city of SaintNazaire has with destruction and creation is one of suffering and fascination, revealing a character of unfinishedness and fragile, alive and resistant. Since the end of the 19th century, SaintNazaire has been built quite artificially, as an economic-political project, to welcome and house workers from outside. A key to the estuary, a transatlantic and naval city, a Californian in the 19th century, Saint-Nazaire had to come to terms with a space both hostile and complicit - the ocean, the tides, the winds - but also with historical events: the city was transformed by the arrival of the Americans in 1917 and completely destroyed in 1944, during the Second World War.*

Letizia Goretti PhD Cultura visuale, fotografa e ricercatrice indipendente. letizia.goretti@yahoo.it

Davide Baggio

Dottore magistrale in Architettura, Università Iuav di Venezia. davidebaggio98@gmail.com

(Un)breakable Project Presenting the graduation thesis Utopia in the Age of Realisms: Designing the Aim, this contribution lays out the theoretical framework that enabled the renewal of a possible survival space for utopia in today’s design culture. The dialectic between modernity and postmodernity, and especially between the latter and the ‘new realist’ approach, achieves an unprecedented weakening of the possibility of acting to determine the fate of reality. However, the current shipwreck of utopia frees a void that, in its apparent fragility, turns into unfulfilled potentials of the possible.*

Il lavoro di ricerca qui introdotto è il risultato della Tesi di laurea magistrale L’utopia nell’età dei realismi: progettare la meta, condotta con la relazione della professoressa Sara Marini1. L’indagine teorica sonda posture, crisi e dinamiche evolutive della nozione di utopia nella cultura progettuale contemporanea. Il metodo di ricerca, fondato su analisi e interpretazione critica della letteratura specifica, estrae una plausibile dialettica fra utopia e realtà (Mumford, 1922), quest’ultima sublimata, oggi, nella forma di un “nuovo realismo” (Ferraris, 2012). Il superamento delle logiche progettuali novecentesche, tra positivismi e modestie, si muove al fine di rilanciare approdi possibili di uto-

pia; un terreno articolato tra la capacità di rinvenire criticamente le aporie di uno stato di realtà, e la proposta di un ideale alternativo allo status quo. È infatti proprio attribuendo ai più clamorosi fallimenti di utopia le cause della sfiducia verso l’ideale, che è possibile rimuovere dall’orizzonte culturale ogni pretesa di realizzare utopie. Un approccio letto dalla ricerca come esito della cultura tecnica, acquisita al pieno compimento delle rivoluzioni industriali. Rivoluzioni che ampliando il bacino del possibile, ridimensionano il ruolo indirizzante del pensiero. La proposta conclusiva, dunque, rilancia

l’ideale come definitivo indirizzamento del destino del reale, in un approccio che non cede tuttavia al realizzare. Questa proposta teorica viene infine verificata con la presentazione di un progetto, a chiusura della ricerca.

Nei suoi atti iniziali, la tesi attribuisce all’incidenza culturale fra eredità postmoderna e approdo “nuovo realista” l’attuale depotenziamento dell’attività progettuale, intesa come uno spendersi archetipico del pensiero verso la riflessione sui modelli di fondazione di società, città e architetture. La fragilità del progetto e la sfiducia verso l’utopia si rinviene quindi nello spazio

Sulla debolezza del progetto

Utopia, postmodernità, realismi

01. Assenze, rielaborazione fotografie a pellicola e digitali | Absences, reworking of film and digital photographs. D. Baggio

L’angelo

del progetto precipita nell’immanenza della concretezza del reale

dialettico tra i lasciti novecenteschi e l’odierna attitudine a considerare la realtà come inscalfibile da pressoché ogni schema mentale. Questa paralisi verso l’abilità dell’oggi a spendersi preventivamente per il domani rinuncia all’indirizzamento del futuro non solo sfidando la postura etimologica del progetto2, ma trascurando anche la prima metà dimenticata dell’etimo di “architettura”3

Se, nel primo Novecento, ideologia e progresso coincidono nell’affermarsi tecnico “dell’utopia borghese-capitalistica e industriale” (Tafuri, 1973), allora l’angelo del progetto, precipitato nell’immanenza, si rivela fragile dinanzi a ogni possibilità di emancipazione che dà fiducia al progresso tecnico e capitalistico.

In Delirious New York, Rem Koolhaas incide nel dibattito un rivolgimento del significato dell’azione progettuale. Qui l’autore legge a posteriori il realizzarsi di una metropoli senza alcun manifesto preventivo: il “delirante” modello fondativo di Manhattan è noto, il suo progetto superfluo e scrivibile, semmai, solo a posteriori.

La filosofia interviene con schieramenti anti-ideologici mossi a partire dagli esiti della modernità. Laddove Jean-François Lyotard apre a un deciso rifiuto della metafisica, Gianni Vattimo tratteggia il profilo di una finale “debolezza del pensiero” (Vattimo,

1983). Questa astensione dall’oggettivo abolisce ogni proposta ontologica di verità. L’Essere viene così a calarsi nel mondo nella propria immanenza, a spendersi come “progetto di volta in volta gettato” (Vattimo 1983, p. 13) nelle singole realtà: plurali, concrete e soggettive. Questa “svolta ermeneutica” imprime al pensiero un’inedita docilità, una convinta istituzionalizzazione della fragilità spesa verso il rifiuto radicale di ogni dominio dell’ontologia. Così, la natura incerta del “pensiero debole” (Vattimo, 1983) si considera incapace di svoltare in esiti drammatici, propri invece di quelle strutture “metateoriche” (Lyotard, 1979) che rendono la modernità capace delle peggiori atrocità.

L’architettura della postmodernità esplode allora in un salto scalare diminutivo che, consapevole dell’impossibilità di agire con piani e tracciati a grande scala, si involve nella molteplicità con direttrici impostate “di volta in volta” dai singoli autori. Utopia e ideologia, al pari della metafisica, vengono ora rinnegate nell’interpretazione che la modernità attribuisce loro, ovvero, nella nozione di utopia come pianificazione positiva strictu sensu4. Astenendosi dall’eroismo, la fragilità postmoderna riscopre il passato, la storia e le situazioni spaziali esistenti. Così, mentre la Strip di Las Vegas si offre per inediti “apprendimenti”

02. Profili dell’indominabile, rielaborazione di fotografie a pellicola e digitali | Profiles of the untamed, graphic reworking of film and digital photographs. D. Baggio
In questo paradiso con vista si

rinviene l’abisso in cui giace l’odierno disimpegno verso l’utopia

(Venturi, Scott Brown, Izenour, 1972), Paolo Portoghesi apre a Venezia la prima Biennale di Architettura dal titolo La presenza del passato, innestata negli spazi storici delle corderie dell’Arsenale (Portoghesi, 1980). Con la postmodernità, il progetto esprime quindi il proprio fragile equilibrio come ridimensionamento dell’ambizione: “a cosa avrei potuto aspirare nel mio mestiere? Certo a poche cose, visto che le grandi cose erano storicamente precluse” (Rossi 1981, p.44).

Tuttavia, se la New York di Koolhaas rivela come l’assenza del progetto liberi uno spazio immediatamente riempito dai modelli economici, allora il “dogmatismo” dell’ontologia slitta dal pensiero alla realtà; in altre parole, il progetto soccombe e il realismo avanza. Nel 1990 David Harvey scrive il saggio The Condition of Postmodernity sostenendo come la transizione postmoderna si debba anzitutto a mutamenti nel “regime di accumulazione” del capitale. Lo sguardo dell’autore, stretto tra l’antropologia e l’economia, associa al delinearsi di un regime di accumulo conseguenti riflessi culturali e stili di vita nelle società da esso abi-

tate. Mentre la società dei consumi di massa viene intesa come diretto risultato dell’affermazione del “fordismo” – un modello che induce un sostenuto ritmo dei consumi, al fine di reggere il battito accelerato della produzione in catena di montaggio – la postmodernità transita il capitalismo verso un “regime flessibile di accumulazione” (Harvey, 1990), inducendo nella società una decisiva apertura al primato dell’immateriale e dell’effimero. A realismo schierato quale modello fondativo della società, nell’abiurare contro l’ermeneutica postmoderna, la proposta “nuovo realista” di Maurizio Ferraris rilancia un’ontologia dalle sfumature neoilluministiche. L’autore propone un Essere nuovamente ontologico, fondato sull’inconfutabilità della maggior parte dei dati di realtà, questi ultimi ritenuti quasi del tutto inscalfibili da parte del pensiero. In un tale scenario si è costretti a perimetrare in spazi esigui gli ambiti in cui al progetto è concesso di indirizzare il destino del reale. Questo salto quantico della realtà in realismo paralizza oltremisura la già precaria fragilità del pensiero progettuale.

03. Diagramma evolutivo di utopia, secondo la gerarchica impostata da Mumford (1922) | Evolutionary diagram of utopia, according to the hierarchy established by Mumford (1922). D. Baggio

Stando a questo paesaggio culturale, quindi, l’eroismo teso a sabotare il reale sembra precluso all’odierna età dei realismi. Ma si tratta di un ambiente che perpetuando il mito mai affievolito del progresso tecnico-scientifico ottiene, in una parte limitata del mondo, un benessere inedito e diffuso che sottende lo spettro pudico e inquieto di una domanda impronunciabile: c’è bisogno, oggi e in questa parte di mondo, di un progetto alternativo alla realtà?

Lo stato di “crisi permanente” (Cacciari, 2013) sembra porsi come reale condizione contemporanea: la catastrofe, annunciata quotidianamente da giornali e media, si profila quale “iperoggetto” che sfugge al controllo politico degli uomini (Morton, 2018). Questa apparente “super-realtà” costruisce un impero dell’indominabile che induce dei principi di impotenza a supportare, di nuovo, la fragilità paralitica della progettualità odierna. Tuttavia, l’irrinunciabile welfare state è costruito proprio dal realismo capitalistico, industriale e tecnologico; una condizione che rivela, nell’età della comunicazione mediata, forme di estetizzazione occidentale di cata-

strofi vissute da altre parti del mondo (Tagliapietra, 2022). In questo spazio del benessere, un paradiso con vista sui drammi altrui, si rinviene oggi l’abisso in cui giace il disimpegno verso l’utopia.

La fragilità così tratteggiata fonda, nella ricerca di tesi, una seconda parte che propone uno spettro dei modi d’essere di utopia, tra archetipi primordiali e desideri contemporanei. Tali posture sottendono lo spazio di esistenza di utopia in ogni latente aporia del realismo, uno spazio marginale di incidenza tra destini già scritti e l’assenza di alternative. In questo spazio, in questa claustrofobica assenza di ogni possibile si rinviene, oggi, un terreno di crescita per lo sguardo critico di utopia. Una buia osservazione del reale che, distanziata ma presente in ogni sottaciuta e luminosa prosecuzione del realismo, ne carica le contraddizioni e ne restituisce degli indirizzi alternativi.*

NOTE

1 – L’utopia nell’età dei realismi. Progettare la meta, Tesi di laurea magistrale in Architettura, relatrice prof.ssa Sara Marini, Università Iuav di Venezia, A.A. 2023/24.

2 – “Progetto”, dal latino pro-jèctus, “gettare avanti”.

3 – “Architettura”, dal greco arché (“principio”, “sostanza originaria”) e tecnhé (“saper operare”, relativo alla concretezza).

4 – L’atteggiamento della modernità nei confronti della storia si palesa in alcuni paradigmi lecorbuseriani. Con il Plan Voisin per Parigi (1925), Le Corbusier tenta di dimostrare la sostenibilità economica di una seconda tabula rasa – dopo quella del Piano Haussmann nella seconda metà del XIX secolo – capace di emancipare la metropoli europea dalla storia, ricostruendola secondo principi e linguaggi propri della modernità. La città esistente, idealmente rasa al suolo, rivela l’origine del Plan Voisin, inizialmente pensato come generica Ville contemporaine (1922) inserita in un territorio ideale piano e spoglio. Con il Plan Obus per Algeri (1933), invece, l’architettura della città moderna viene condensata in una “megastruttura” lineare che corre su pilotis sopra la città esistente.

REFERENCES

Cacciari, M. (2013). Il potere che frena. Milano: Adelphi.

– Ferraris, M. (2012). Manifesto del nuovo realismo. Bari: Laterza.

– Harvey, D. (1990). The Condition of Postmodernity Cambridge Mass. (USA) e Oxford (UK): Blackwell Publishers.

– Koolhaas, R. (1978). Delirious New York. A Retroactive Manifesto for Manhattan. New York: The Monacelli Press.

– Lyotard, J. F. (1979). La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir. Paris: Les Éditions de Minuit.

– Morton, T. (2018). Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World. Minneapolis: University of Minnesota Press.

– Mumford, L. (1922). The History of Utopias. New York: Boni and Liveright.

– Portoghesi, P. (1980). La fine del proibizionismo. In Id. (a cura di), La presenza del passato. Venezia: La Biennale.

– Rossi, A. (1981). A Scientific Autobiography. Cambridge: MIT Press. Ed. it. Id. (2009). Autobiografia scientifica. Milano: Il Saggiatore.

– Tafuri, M. (1973). Progetto e utopia. Bari: Laterza.

– Tagliapietra, A. (2022). Filosofie della catastrofe. Milano: Raffaello Cortina.

– Vattimo, G. (1983). Dialettica, differenza, pensiero debole, in Id. e Rovatti, P. A. (a cura di), Il pensiero debole, Milano: Feltrinelli.

– Venturi, R., Scott Brown, D., Izenour, S. (1972). Learning from Las Vegas. Cambridge: MIT Press.

Così richiedeva la stagione

ho presa per le spalle vestite di nero e l’ho scossa senza riguardi.

“Allora trovo un giudice e vi denuncio tutti quanti. Gli racconto che vi scambiate una figlia come un giocattolo.”

Sono scappata via e sono rimasta fuori, presto è sceso il buio e mi ha gelato. Dall’angolo più nascosto del piazzale vedevo le finestre illuminarsi e, dietro, l’andirivieni delle sagome femminili affaccendate. Erano ai miei occhi le mamme normali, quelle che avevano partorito i figli e li avevano tenuti con sé. Alle cinque del pomeriggio erano già intente ai preparativi per la cena, cotture lunge, elaborate, così richiedeva la stagione.

sullo scaffale

108

L’arminuta

Donatella Di Pietrantonio Einaudi 2017

Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.

Quella sera è venuta Adriana a cercarmi. Due lampioni si erano fulminati e l’oscurità del piazzale la spaventava. Si è tenuta nei paraggi del portone e mi chiamava verso il buio. Resistere alle sue invocazioni di gatto smarrito era doloroso, ma ci provavo. La in-

travedevo, era scesa anche lei senza cappotto, batteva i piedi per scaldarsi e si frizionava le braccia. Vai, rientra, la pregavo dentro di me. Oppure, più segretamente: aspettami, aspetta che io sia pronta. Mi ha sentita e ha risposto a tutto, ad alta voce.

“Se non rivieni, rimango ecco e mi ammalo per colpa tua. Già mi cola il naso.”

Ho atteso ancora un po’ prima di cederle. Po mi sono portata sotto una luce funzionante e lei mi ha visto. È corsa ad abbracciarmi. “Sta mattarella... – ha detto strofindandomi la schiena intirizzita – Quando ti cala in mente di scappare, a me non ci pensi?”*

A cura di Margherita Ferrari

Una questione privata Beppe Fenoglio Einaudi, 2022

Il tempo del bosco Mario Calabresi Mondadori, 2024
rintocchi
Yoshimura Keiko Piemme, 2023

“Party girls don’t get hurt, Can’t feel anything, when will I learn”

Immagine di Emilio Antoniol
Sia, Chandelier, 1000 Forms of Fear, 2014
Senza limiti

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