a cura di
Patrizia Montini Zimolo
LABORATORIO AFRICA NUOVI PAESAGGI URBANI
a cura di
Patrizia Montini Zimolo
LABORATORIO AFRICA NUOVI PAESAGGI URBANI
LABORATORIO AFRICA Nuovi paesaggi urbani ISBN 978-88-32050-56-1
a cura di Patrizia Montini Zimolo con i contributi di Emilio Antoniol, Sandro Grispan, Lorenza Pistore, Matteo Silverio, Flavia Vaccher con la collaborazione di Emergency, TAMassociati, University of Rwanda
impaginazione e grafica copertina Federica Bozzolan, Giulia Demurtas, Bianca Mascellani foto Umberto Ferro, Luca Pilot
Editore: Anteferma Edizioni Srl via Asolo 12, Conegliano, TV edizioni@anteferma.it Prima edizione: settembre 2020
Copyright
This work is distributed under Creative Commons License Attribution - Non-commercial - No derivate works 4.0 International
Indice 5
Verso un altro paesaggio urbano Mara Rumiz - Emergency
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L’Africa di TAMassociati TAMassociati
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Introduzione Patrizia Montini Zimolo
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Designing the Complexity Sandro Grispan
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Il compound o delle distanze invisibili tra rurale e urbano Patrizia Montini Zimolo
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African Bio-loop Emilio Antoniol
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Nuove architetture circolari Matteo Silverio
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Appartenere alla terra Lorenza Pistore
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Geografie umane, geografie urbane Flavia Vaccher PROGETTI
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Benin - Sèmè-Kpodji Area 1
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Benin - Sèmè-Kpodji Area 2
146 Ruanda - Murama Area 3
Verso un altro paesaggio urbano Marta Rumiz – Emergency
Emergency è un’organizzazione indipendente e neutrale. Offre cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà. Dalla sua fondazione, nel 1994, a oggi ha curato più di 10 milioni di persone. Oggi è presente in sette Paesi: Afghanistan, Iraq, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone, Sudan, Uganda, Italia. Costruisce e gestisce ospedali aperti a tutti coloro che ne hanno bisogno e forma il personale locale perché possa diventare autonomo. La sua massima ambizione è quella di diventare inutile. Cosa c’entra, quindi, Emergency, che si occupa di sanità e di promozione di una cultura di pace, con il corso di Composizione Architettonica? È la domanda che mi sono fatta quando la prof.ssa Patrizia Montini ci ha chiesto di collaborare al Laboratorio “Verso un altro paesaggio urbano in Africa”. Subito, però, mi sono passate davanti agli occhi le immagini del Salam Centre, ospedale di cardiochirurgia a Khartoum; dell’Ambulatorio Pediatrico di Mayo, un gigantesco campo profughi sempre in Sudan; dell’ospedale realizzato in poche settimane in Sierra Leone per far fronte all’epidemia di ebola; del nuovo Ospedale Pediatrico di Entebbe, in Uganda, già terminato ma la cui attivazione e inaugurazione hanno dovuto essere rinviate a causa del COVID19. Oltre a queste immagini ho ripensato all’imput dato da Gino Strada ai progettisti per la costruzione dei nuovi ospedali: devono essere “scandalosamente belli”. 5
– Alla pagina precedente. Salam Centre Container compound_Cafeteria. Foto di TAMassociati/Raul Pantaleo. – Paediatric Hospital Port Sudan, entrata e sala d’attesa. Foto di Massimo Grimaldi. – Alla pagina seguente. Salam Centre, sala d’attesa. Foto di AKAA/Cemal Emden.
Lo studio TAMassociati ha mirabilmente attuato tale mandato e Renzo Piano, condividendo questa visione, ha progettato il nuovo ospedale di Entebbe. Sono la bellezza, la qualità, la gratuità, l’umanità, le caratteristiche che distinguono gli ospedali, gli ambulatori, i polibus di Emergency: non solo farmaci, non solo amputazioni, protesi, interventi chirurgici. È chi sta male che, più degli altri, ha bisogno di essere circondato di attenzioni, di cure, di cose belle intorno al letto e alla camera. La bellezza delle strutture, dei giardini, dell’ambiente circostante è elemento portante della cura. Ecco, è questa la ragione della collaborazione tra Emergency e Iuav per questo corso. La ricerca dell’eccellenza della cura e degli ambienti è stata anche fonte di discussioni e polemiche: perché portare la cardiochirurgia in Africa? Non bastano i vaccini e la penicillina? Perché costruire architetture di pregio quando per un ambulatorio basta una tenda o una stanza? Queste sono le domande che ancora ci fanno, come se un continente come l’Africa non avesse diritto alla qualità, alla sostenibilità, all’efficienza, alla bellezza. Il filo rosso che lega le architetture di Emergency è proprio questo: strutture belle anche nei dettagli, attente alle proporzioni, ecologicamente sostenibili, funzionali. Gli ospedali, i poliambulatori, gli uffici di Emergency si riconoscono, hanno dei segni identificativi forti ma, contemporaneamente, si adattano ai diversi contesti, “legano” con il territorio in cui sono inseriti. 6
La realizzazione di un ospedale, soprattutto se in una zona periferica o disabitata, genera nuovi insediamenti, nuove aggregazioni. Potremmo prendere il Salam Centre come caso scuola. L’ospedale è stato realizzato a Soba, un villaggio alla periferia di Khartoum. È stato progettato così perché è sulle rive del Nilo e il Nilo ha i suoi momenti di secca e quelli di piena; perché sai che prima o poi arriverà l’haboob, la tempesta di sabbia, che ti fa percepire il deserto, che ti riempie bocca e occhi, che si insinua dentro gli edifici se essi non sono specificatamente protetti; perché, essendo il Salam l’unico ospedale di cardiochirurgia di tutta l’Africa, i pazienti arrivano da lontano e quindi è bene pensare anche una guesthouse per ospitare, gratuitamente, i parenti, che possono usufruire anche di un ristorante, di uno splendido giardino, di uno spazio di meditazione e di preghiera per i credenti di ogni religione; perché, essendoci uno staff internazionale si è realizzato il compound residenziale immerso in un parco di alberi di mango. Questo, come tutti i centri di Emergency, impiega moltissimi lavoratori locali: medici, infermieri, giardinieri, cleaners, cuochi, tecnici. Con il tempo, intorno all’ospedale, si sono creati nuovi servizi: negozi, caffetterie, tabaccherie, piccole trattorie, punti di incontro e di aggregazione. E il villaggio si è sviluppato. L’ospedale, quindi, come generatore di un nuovo spazio abitato, di quel nuovo paesaggio urbano in Africa su cui questo corso indaga ed elabora.
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L’Africa di TAMassociati TAMassociati
TAMassociati è un team di architetti, grafici, ingegneri e ricercatori. Le nostre soluzioni progettuali hanno l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone, rafforzare le comunità e fornire soluzioni creative nel contrasto ai cambiamenti climatici. Da oltre 15 anni operiamo nel contesto africano, grazie soprattutto al lavoro svolto assieme ad Emergency per la realizzazione di strutture ospedaliere (in Sudan a Khartoum, Port Sudan e nella regione del Darfur, in Sierra Leone, in Uganda), e siamo tutt’oggi impegnati in progetti, a diverse scale, in Kenya, Ruanda, Cameroun e Uganda. L’invito della prof.ssa Montini a partecipare al Laboratorio di Composizione Architettonica “Verso un altro paesaggio urbano in Africa” è diventato per noi l’occasione per riflettere su alcune delle questioni che questi nostri lavori pongono e su come abbiano inciso nel nostro approccio alla professione. Gli ospedali che abbiamo progettato per Emergency in questi contesti sono l’esito di un lungo percorso alla ricerca di risposte semplici a problemi complessi dovuti al contesto climatico, sociale e ambientale; condizioni difficili che hanno reso queste esperienze uniche e spesso irripetibili. Sono progetti caratterizzati da una forte azione corale e partecipata, che ha individuato strade e strategie capaci di trasformare differenze e difficoltà in potenzialità. Sono edifici contemporanei ma con un forte richiamo al contesto, in un processo che diventa scambio di saperi e di 11
– Alla pagina precedente. Paediatric Hospital Port Sudan, entrata. Foto di Massimo Grimaldi. – Salam Centre Container percorso coperto. Foto di Marcello Bonfanti. – Paediatric Hospital Port Sudan. Foto di Massimo Grimaldi.
competenze, per una reinterpretazione di conoscenze e immagini che arrivano dal passato con lo sguardo della modernità e del progresso. È il messaggio lanciato da un’architettura efficace in grado di inserirsi con delicatezza nel proprio contesto. Estetica ed etica si legano così indissolubilmente in edifici realizzati senza spreco di risorse ma senza rinunciare alla qualità dell’architettura intesa come accoglienza, benessere e bellezza. Questa nostra storia ha il suo inizio alla fine del 2004, quando Gino Strada ha cominciato a lavorare alla realizzazione del Centro Salam di cardiochirurgia. Il Centro sorge a 20 chilometri da Khartoum sulle rive del Nilo. Fisicamente l’ospedale si è sviluppato intorno a due enormi alberi di mango, testimonianza concreta della centralità della natura nel progetto e figure simboliche che dominano uno spazio delimitato, protetto e protettivo, in contrapposizione a un macrocosmo esterno ostile e desertico. Una conformazione ispirata ai sistemi tipologici tradizionali, con edifici a padiglione a un solo piano che abbracciano il vuoto e che, grazie al limitato impatto dato dalla loro altezza ridotta, fanno percepire ai pazienti un forte senso domestico. In questo contesto anche il progetto degli alloggi per i medici è diventato un grande laboratorio. L’idea di utilizzarli per farne le case del personale medico è nata quasi per caso guardando la montagna di container parcheggiati intorno al cantiere durante la costruzione dell’ospedale. L’insediamento residenziale, organizzato in una grande corte con affaccio sul Nilo, sorge adiacente all’ospedale in un parco di manghi. È composto da 95 container da 20 piedi, adibiti a residenza, e da sette container da 40 piedi adibiti a caffetteria e servizi. 12
Il Salam costituisce il primo tassello di un complesso progetto regionale che ha preso il via appena conclusa la sua costruzione. A partire dal 2007, nei Paesi confinanti con il Sudan e non solo, sono sorte cliniche per l’assistenza pediatrica, realizzate con gli stessi principi che avevano guidato la costruzione del Salam. Ad esempio, la tipologia edilizia a corte ha caratterizzato la ricerca progettuale sviluppata negli ospedali, non solo perché è morfologicamente coerente a gran parte dei luoghi in cui si è operato, ma anche perché esprime concretamente e simbolicamente l’essenza dell’abitare. Il recinto, attraverso la sua forma chiusa, indica l’atto di difendere lo spazio che contiene e la struttura interna a corte comunica accoglienza e ospitalità. Come nei casi delle cliniche di Nyala, di Bangui o di Port Sudan, dove il recinto è l’elemento generatore di una spazialità in cui il vuoto ha la stessa importanza del pieno. I progetti degli ospedali che abbiamo realizzato per Emergency sono da leggere non soltanto come frammenti di un’esperienza professionale, ma soprattutto come passaggi di un percorso teso a sviluppare una nuova consapevolezza del rapporto tra architettura e progettualità sociale e che trova continuità di intenti e condivisione di questi valori nel più recente Centro di chirurgia pediatrica di Entebbe progettato assieme a Renzo Piano. Progettare questi ospedali, che in quanto tali sono spazio protettivo per eccellenza, ci ha obbligato a una riflessione profonda sui principi etici che stanno alla base del lavoro dell’architetto. Per questo potremmo definire il nostro come un viaggio di “andata e ritorno” dall’Italia all’Africa e dall’Africa all’Italia in cui l’architettura diviene mezzo comunicante per costruire una visione del mondo, in cui la possibilità di esercitare i propri diritti costituisce la ragione prima del progetto. 13
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Introduzione Patrizia Montini Zimolo
Nei casi più fortunati i Laboratori della Magistrale in Architettura si configurano all’interno del percorso universitario come una delle prime importanti occasioni per incrociare gli ultimi gradi della didattica alla ricerca sviluppata in campo dipartimentale. Nel caso del Laboratorio Integrato in Architettura Sostenibile, la linea di demarcazione si fa ancora più sottile e diventa quasi obbligatoria l’assunzione di una responsabilità diretta rispetto ad alcuni grandi temi che la nostra epoca pone, dalla crisi climatica – innalzamento del livello del mare, riscaldamento del pianeta, migrazioni di massa – alla sostenibilità ambientale e sociale – riciclo, risparmio energetico, nuova povertà e disuguaglianze, nuova dimensione urbana – tutti temi che acquistano in Africa un valore paradigmatico. Da qui la particolare natura di una didattica che sperimenta, e sente, la necessità di fornire chiavi di lettura e conoscenze inusuali, nuovi strumenti critici e operativi nell’ ampliare gli orizzonti verso “quei territori altri” a cui il nostro futuro è già in realtà così strettamente legato. L’anno accademico 2019/2020 appena trascorso, è stato un momento importante per l’attività del Laboratorio Integrato “Verso un altro paesaggio urbano in Africa” che ha goduto di un ricco calendario di incontri, seminari, tavole rotonde, svolte col contributo generoso apportato da Emergency e dagli architetti TAMassocia17
ti, permettendo agli studenti di conoscere e in parte appropriarsi di una lunga esperienza sviluppata nel territorio africano a partire dalla costruzione di strutture ospedaliere. Architetture che non solo sono poli all’avanguardia tra gli edifici sanitari, ma sono prima di tutto spazi dove vivere, lavorare, curarsi, luoghi dove un’intera comunità si ritrova e si riconosce, luoghi dove la bellezza delle strutture, dei giardini, dell’ambiente circostante sono elementi portanti della cura, come nota Mara Rumiz nel suo scritto introduttivo. In più ogni ospedale non è solo un ospedale, ma è anche l’inizio di un processo di urbanizzazione del territorio circostante. Intorno all’edificio si distribuiscono e mescolano spontaneamente le abitazioni e i servizi più elementari per interi gruppi di famiglie che arrivano da lontano e si fermano per essere vicini ai parenti, dando origine al disegno del primo nucleo di una nuova agglomerazione più o meno formale. Questo è un tipo di approccio specifico della questione africana volto a proporre una strategia abitativa più sicura, duratura e sostenibile nell’espansione dei villaggi e delle città per cercare di contrastare i drammatici fenomeni legati all’impetuosa urbanizzazione a cavallo tra i due secoli e che ha spinto il Laboratorio da più anni verso la sperimentazione di diversi modi di abitare, ivi compreso il recupero di antichi modelli insediativi. Il naturale sviluppo di pratiche di “attenzione ai contesti”, proprio del Laboratorio della Magistrale, ha oggi il vantaggio di incrociare un mutamento di una sensibilità diffusa nei confronti dell’ambiente naturale e di quello costruito che impone un continuo aggiornamento della conoscenza nei confronti di temi, tecniche, luoghi e immaginari culturali. La ripresa del compound come forma dell’abitare è stato oggetto della sperimentazione progettuale di quest’anno per la sua capacità di adattamento e innovazione nel tempo e per la stretta connessione che pone tra lo spazio intimo della domesticità a quello più ampio dell’orizzonte urbano. Il compound può infatti contribuire al disegno di nuovi nuclei abitativi e dei nuovi luoghi all’interno delle conurbazioni africane, che richiedono l’applicazione di più articolate modalità di uso del suolo, in risposta alla tradizionale opposizione tra difesa ambientale e sviluppo. L’attività del Laboratorio veneziano è stata condotta in parallelo con il Laboratorio di Progettazione del IV anno dell’Università di Kigali, Ruanda, in un processo comune di formazione volto a valorizzare le capacità e le risorse presenti nelle Università africane, 18
– Alla pagina precedente. Plastico di inquadramento territoriale del compound, Benin, Area 1. Sara Benetti, Federica Bozzolan, Bianca Mascellani. – Locandina della conferenza “Africa 2020” tenuta da Emergency e TAMassociati nel gennaio 2020.
Università Iuav di Venezia
D I PA R T I M E N T O D I C U LT U R E D E L P R O G E T T O
LAUREA MAGISTRALE IN ARCHITET TURA
E M E RG E N C Y O N G O N LU S
AFRICA
2020 nuovi paesaggi urbani Iuav, Emergency, TAMassociati giornata di studi relatore Enrico Vianello jr partner TAMassociati
23.1.2020 cotonificio aula M1 ore 10
Mara Rumiz Emergency Giudecca Patrizia Montini Zimolo, Flavia Vaccher laboratorio di Sostenibilità, Composizione Architettonica e Urbana
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– Foto dell’aula d’esame con tavole e modelli degli studenti.
dove sempre più spesso insegnano docenti che hanno studiato all’Università Iuav di Venezia . L’espansione della città di Kigali, Ruanda, segnata dalla forte presenza di un territorio rurale, ci ha consentito di introdurre una nota nuova nella sperimentazione progettuale, proponendo un adattamento del compound a un modo di abitare più legato alla comunità, a partire dagli usi e dalle modalità di occupazione del suolo propri della tradizionale dispersione africana. E più in particolare di affrontare le questioni legate alla mancanza di sviluppo in ambito rurale, innestando un’economia autosufficiente, frenando il processo di migrazione dalla campagna verso le grandi città e l’urbanizzazione incontrollata che ne consegue. Il risultato è piuttosto la messa a punto di quartieri autonomi rispetto agli agglomerati esistenti, destinati a moltiplicarsi nel tempo per dimensione e identità. Ne è nata la proposta di un modello di sviluppo nel quale la questione abitativa e delle infrastrutture si intreccia con la gestione delle risorse naturali, il ruolo dell’agricoltura familiare, le relazioni di reciprocità tra “campagna” e città. La documentazione rielaborata può diventare la premessa per la creazione di una struttura della formazione strettamente legata alla ricerca sull’abitare contemporaneo in Africa, una piattaforma per la discussione di ciò che significa “modernità” in Africa, offrendo al contempo una riflessione critica che possa essere d’aiuto per continuare una fase di “esplorazioni progettuali” nei differenti contesti.
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Designing the Complexity Un insediamento urbano di connessione a Murama Sandro Grispan
Molteplici sono i significati che nella sua traduzione italiana può assumere il termine “design”, tra i quali quelli di “idea”, “disegno” e “progetto”. Tenuti insieme, questi significati corrispondono al processo attraverso il quale agli studenti del quarto anno di Architettura della University of Rwanda è stato chiesto di elaborare e presentare i disegni di un nuovo insediamento urbano a Kigali, sul versante nord orientale della collina di Murama. Kigali, da una condizione fondativa di carattere militare, si sviluppa e cresce in quanto fenomeno urbano dopo essere stata proclamata capitale del Ruanda in seguito all’indipendenza dal Belgio nel 1962. Ma è soprattutto con gli spostamenti di massa post 1994 che la città intensifica la sua crescita e si costruisce in quanto tale, adagiandosi sull’insieme di colline tra il Monte Kigali e il Monte Jail e opponendosi a un modello di insediamento sparso, fino a quel momento diffuso in tutto il paese. Nell’attuale conformazione urbana di Kigali è riconoscibile una condizione di convivenza di due città: una legale, l’altra precaria, spontanea, informale. Informale è il termine più o meno recente, con cui oggi in Ruanda si definiscono infatti gli insediamenti urbani improvvisati, abusivi, non pianificati che, 23
– La veduta dall’alto del versante nord orientale della collina di Murama in cui il tessuto edificato si presenta come un insieme di amasibo o “gruppi di case” e intervalli verdi variamente disposti in ordine sparso in discesa e in salita su quasi tutto il fianco della collina. Al centro dell’umudugu o “villaggio”, un vuoto importante divide l’insieme di amasibo in due. Tale separazione consente di immaginare il nuovo insediamento urbano come insediamento urbano di connessione.
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– Un isibo o “gruppo di case” nel tessuto edificato di Murama composto di abitazioni fatte di terra secondo due sistemi di costruzione tradizionali: il sistema a torchis, e il sistema dell’adobe. Il sistema a torchis prevede l’inserimento a pressione manuale di un impasto di acqua, terra argillosa e fibre vegetali in una struttura a graticcio in legno che forma l’ossatura portante di murature e pareti divisorie, mentre l’adobe è formato da blocchi o mattoni in terra cruda spesso mescolata a paglia tritata.
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paradossalmente di più caratterizzano la forma della città. Da un punto di vista amministrativo, invece, Kigali è divisa in tre distretti, Nyarugenge a sud-ovest, Kicukiro a sud-est e Gasabo a nord, a loro volta suddivisi in imidugudu, ovvero “villaggi” o “quartieri”, ognuno dei quali composto da amasibo, ovvero “aggregati di abitazioni” o “gruppi di case”. È quindi all’interno di tale struttura che gli stessi studenti del quarto anno di Architettura della University of Rwanda sono stati invitati a svolgere l’esercizio progettuale loro assegnato, ossia intervenire in un contesto consolidato, quello di Murama, del quale comprendere per prima cosa, la logica, la forma, la composizione. La composizione soprattutto in quanto modus operandi in grado di conferire ordine sia a livello architettonico, sia a livello urbano. Murama è dunque un umudugudu sviluppatosi e definitosi negli ultimi decenni sul versante nord orientale di una delle colline nel distretto di Gasabo a Kigali. Pur essendo parte del territorio della città, la sua struttura è tuttavia più peri-urbana che urbana, più vicina cioè alla conformazione di “villaggio”
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– Alcuni studenti del quarto anno di Architettura 2019-2020 della University of Rwanda in visita all’area di progetto a Murama, e durante la costruzione di un modello del versante nord orientale della collina e dell’umudugudu di Murama.
che a quella di “quartiere”. Ma è proprio questa situazione ibrida di insediamento urbano con carattere rurale a offrire l’opportunità di pensare l’espansione o la densificazione di Kigali secondo equilibri che orientino le scelte progettuali verso nuovi modelli di città. Osservandolo dall’alto, il tessuto edificato di Murama si presenta infatti come un insieme di amasibo o “gruppi di case” e intervalli verdi variamente disposti in ordine sparso in discesa e in salita su quasi tutto il fianco della collina. Un vuoto importante al centro dello stesso tessuto edificato divide l’insieme di amasibo in due, e consente in tale separazione di immaginare il nuovo spazio urbano come insediamento urbano di connessione. Ecco quindi l’idea, suggerita dalla stessa situazione esistente, con la quale gli studenti hanno tracciato le loro prime proposte in relazione al contesto. Attraverso i sopralluoghi e la costruzione di un modello in scala 1:500, lo studio dell’area ha quindi preceduto una prima fase di disegno di impianto urbano che tenesse conto della morfologia del territorio, delle trame viarie, dei tipi di aggregazione di
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– Modello di studio in scala 1:500 del versante nord orientale della collina e dell’umudugudu di Murama costruito dagli studenti del quarto anno di Architettura 2019-2020 della University of Rwanda.
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case (isibo), delle tipologie abitative, della disposizione degli spazi aperti esistenti e della collocazione di edifici pubblici da prevedere – una scuola, un mercato, un centro comunitario e un centro sanitario – oggi mancanti a Murama. Considerando la casa (urugo1) come elemento base di composizione dell’impianto urbano disegnato, gli studenti hanno lavorato contemporaneamente alla scala urbana e architettonica, e presentato come esito progettuale individuale vari tipi di abitazioni fatte di terra, capaci insieme di costruire il nuovo modello di città immaginato. Le varie proposte di impianto urbano, dove la casa assume il ruolo di unità di controllo della stessa composizione urbana sono quindi proposte in fase di sviluppo la cui conformazione finale di progetto verrà definita nel prossimo semestre accademico. 1
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Cfr. Jean-Luc Galabert, Les enfants d’Imana, Editions Izuba, Kigali, 2011, p. 163: « [...] In Kinyarwanda, il termine rugo (al plurale ingo) indica contemporaneamente un’unità spaziale, architettonica e umana. Come unità spaziale, “rugo” si riferisce al recinto delimitato da una palizzata collocata di fronte alla capanna. Come unità architettonica, ”rugo” indica l’abitazione e suoi annessi. Come unità unama, “rugo” comprende gli abitanti della capanna [...]». Traduzione dell’autore.
– Veduta parziale del vuoto al centro del tessuto edificato di Murama lungo il tracciato viaro principale che divide il vuoto stesso in una parte alta a uso agricolo, e una parte bassa prevalentemente boschiva. – Proposta di insediamento urbano di connessione sul versante nord orientale della collina di Murama a Kigali. Idea e disegno di Daniel Gakwavu, Olivier Kaneza, Robert Nishimwe. – Alle pagine seguenti. Piante, prospetti e sezioni di una tipologia di casa fatta di terra con sistema di costruzione in pisé. Progetto di Robert Nishimwe.
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Il compound o delle distanze invisibili tra rurale e urbano Patrizia Montini Zimolo
La forte domanda di nuovi insediamenti, di “nuovi quartieri africani”, legati allo sviluppo delle città e del territorio non può che essere coniugata insieme all’urgenza che non è solo africana ma appartiene al nostro futuro di ritrovare una nuova Alleanza tra uomo e natura, impostata non solo sulla difesa e salvaguardia di un bene comune deturpato e in via di scomparsa, ma come consapevole ricerca di un modo nuovo dell’uomo di essere nel mondo, di costruire e abitare la terra. E l’Africa e la sua storia possono insegnarci molto. La rapida urbanizzazione è stata forse il più drammatico dei fenomeni, non solo sociali, che hanno segnato la fine dell’era coloniale, introducendo rilevanti trasformazioni nel paesaggio africano. Dopo un periodo iniziale, in cui l’urbanizzazione è stata accolta come una tendenza positiva nella modernizzazione del continente oggi davanti al fallimento di un’idea di sviluppo concretizzato nella realtà delle nuove megalopoli si avverte una nuova necessità di costruire comunità, «rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili […], garantendo a tutti l’accesso a alloggi adeguati, sicuri e accessibili»1. 1
Agenda 2030, Obiettivo per lo Sviluppo Sostenibile 11, su: https://archive.unric.org/ it/agenda-2030/30732-obiettivo-11-rendere-le-citta-e-gli-insediamenti-umani-inclusivi-sicuri-duraturi-e-sostenibili (ultimo accesso aprile 2020).
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Già agli inizi degli anni ’60, alle soglie dell’Indipendenza, lo sviluppo delle città africane, dovuto alla forte crescita di popolazione soprattutto nella fascia occidentale, risente della pesante eredità di un mondo coloniale che aveva costruito l’espansione delle sue città lontano dai territori agricoli e pastorali dell’interno continentale e spinto la migrazione verso la costa, ponendo le radici di un problema tuttora presente: il forte distacco delle megalopoli, Dakar, Cotonou, Lomé, Lagos da un entroterra che viene abbandonato. La stesura del piano per lo sviluppo del villaggio di Tema Manheim nel Ghana diventerà l’occasione cercata da M. Fry e J. Drew per introdurre forme di aggregazione alternative alla rigidità del tipico impianto di colonizzazione a griglia ortogonale. Il disegno urbano appoggia su una tipologia insediativa che rimanda all’antica tradizione di costruzione dei villaggi per aggregazione di compound2 ripreso per «la sua natura di spazio flessibile che cresce e si trasforma al ritmo della comunità e consente di creare un ponte tra rurale-piccola scala e grande scala dell’urbanizzazione». Nel libro Village housing in the tropics (2014), la casa africana è per i due architetti inglesi un «oggetto di studio speciale». La singola unità abitativa viene aggregata in chiave ancora del tutto sperimentale in una composizione di vaste aree residenziali, Communities, dove lo spazio dell’abitare si mescola con altre attività e servizi, in un unico disegno col verde e gli spazi aperti. Nella contradditoria realizzazione del piano per l’espansione della città di Thema Manhean, dal compound aperto, definito nel libro da una recinzione murata con una serie di stanze e un cortile esterno usato per cucinare, lavare, ricovero notturno animali, resta ben poco nella nuova disposizione a terrazze con cortili semi aperti che collegano dei compound chiusi, in piccoli cluster per 6/10 abitanti al massimo. Fry e Drew stessi devono riconoscere che il progetto realizzato è un fallimento. La soluzione troppo semplicista, che riduce la complessità degli spazi del compound alla scelta di un solo alloggio da modificare a seconda della crescita dei membri di una tribù, trasforma l’architettura in una schematica ripetizione di singole 2
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Il compound dei primi villaggi assume un carattere più legato alla produzione agricola e all’interno della corte include anche granai, magazzini, dormitori, l’architettura domestica si mescola allo spazio della collettività e rimanda non tanto a forme e figure quanto a significati simbolici e regole antropomorfiche. Nella cultura Dogon ad esempio, la pianta del villaggio dovrebbe rappresentare la posizione di un uomo disteso con la testa rivolta a nord, ma si trovano anche disposizioni assiali, a ferro di cavallo e a forma di quadrato.
– Alla pagina precedente. Planivolumetrico, Ruanda. Cecilia Bettini, Giada Guarriello, Nicole Loachamin. – Planimetria del piano terra del compound, sezione e prospetto, Ruanda. Cecilia Bettini, Giada Guarriello, Nicole Loachamin.
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– Planivolumetrico di un compound, Benin, Area 1. Matteo Ergazzori, Isabella Lovato, Francesco Tassello.
unità monofamiliari che viene rifiutata dagli abitanti. Nuovi spazi vengono introdotti liberamente all’interno e all’esterno, spazi liberi dove è difficile fissare un confine rigido tra la vita privata e quella della comunità che modificano il progetto e creano dei collegamenti con il paesaggio circostante. Nel progetto per la città lineare di Candillis e Wood a Fort Lamy, capitale della giovane Repubblica del Ciad, la ripresa del compound rientra in un disegno più complessivo di sviluppo in “orizzontale” della città con gli alloggi che raggiungono al massimo due piani e disegnano un fronte urbano spezzato ma compatto. La città può crescere senza limiti nel tempo lungo l’asse infrastrutturale su cui si organizzano gli spazi comuni della nuova espansione che può modificarsi mantenendo un forte legame col disegno del territorio, del villaggio e dell’agglomerazione urbana e assumere dimensioni anche molto differenziate a seconda delle necessità e della crescita degli abitanti. Esperienze che fanno ormai parte di una storia per lungo tempo dimenticata e rimossa dopo l’Indipendenza. I modelli di riferimento nella crescita della città del XX secolo rimandano spesso al mondo occidentale e, in particolare, ai paesi del mondo tecnologicamente avanzato – Cina, Giappone, ma anche Dubai e gli Stati Arabi. Per raccontare la storia del progresso africano, nel passaggio dall’Africa dei villaggi all’Africa delle città si riparte da zero, invece che radicarsi nelle loro infinite tradizioni, la città esistente viene negata, valga ad esempio La Cité du Fleuve a Kinshasa e la Ville Fantôme del senegalese Kingelez. Le ambiziose architetture in altezza entrano a far parte della città africana con gli agglomerati di capanne, le architetture coloniali, gli edifici costruiti dopo la seconda guerra e nel periodo dell’Indipendenza, le imponenti distese orizzontali delle favelas. Le megalopoli di oggi sono il risultato di un’architettura ibrida, tutto è mobile e veloce e diventa subito passato. Ma anche la tradizione si muove ed entra a far parte del presente, sotto l’onda del tutto nuova e imprevista di varie forme migratorie che hanno travolto l’Africa a partire dagli anni ’80 del XX secolo, improntando una svolta decisiva nella trasformazione del paesaggio architettonico africano. Del resto nell’etimologia del termine “migrare” è insito non solo il significato di “trasferirsi” ma anche quello di “mutare/mutarsi”, indicando con ciò la doppia e mutua influenza tra ciò che viene trasferito e ciò che accoglie tramite operazioni di ibridazione, contaminazione, reinterpretazione, per cui elementi della tradizione trovano una nuova collocazione 41
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– Attacco a terra e profilo altimetrico con sezione del nuovo insediamento, Ruanda. Daniel Scattolin, Kevin Bertazzon, Simone Stocco.
nel quadro della contemporaneità. L’architettura diventa un’arte migratoria, dove le soluzioni formali e costruttive viaggiano da una cultura all’altra attraverso il tempo e lo spazio. Architetti africani tornano in patria con le nuove conoscenze tecniche acquisite nelle università europee; Francis Dablo Keré da Berlino approda nel Burkina Faso e ridisegna con le sue molteplici architetture l’espansione del suo villaggio natale Gando, Kunle Adejemi da Londra porta nella laguna di Lagos le sue architetture galleggianti per riqualificare le povere favelas sull’acqua, e sono solo i capofila di una nutrita schiera di architetti africani ma anche europei, quali le finlandesi Hollmén, Reuter e Sandman, con la nuova espansinone di Rufiske, a Dakar, o l’americana Sharon Davis, con il Rwanda Woman Centre, che danno voce a un modo diverso di abitare realizzato con pochi mezzi, con un controllo delle risorse che garantisca da una parte la conservazione di un patrimonio ambientale unico e dall’altro l’uso di energie naturali in un mix di soluzioni che tiene insieme una ricca e varia cultura d’origine con le possibilità tecniche offerte dal nostro tempo, in un continuo processo di traduzione e trasposizione e di adattamento a una situazione climatica, geografica e culturale completamente diversa. E in questo passaggio per nulla scontato avvengono molte cose, nuove forme si aggiungono a quelle già date e ridisegnano le città e la geografia del territorio africano. Non possiamo dimenticare che ancor oggi gran parte della popolazione proviene dai territori rurali circostanti e che i nuovi nuclei abitati cercano di recuperare usi e modalità di occupazione del suolo propri della tradizionale dispersione africana, spingendo a trapiantare nelle conurbazioni, nei terrens vagues delle megalopoli, una cultura dell’abitare di un mondo che sta orgogliosamente riscoprendo la sua tradizione ma che non vuole rinunciare alle esigenze più attuali del vivere, alimentata dalla pressante richiesta dalla diaspora, da chi sta percorrendo la strada del ritorno. Nei compounds del XXI secolo si sommano spazi più o meno conosciuti della cultura dell’abitare, africana e non solo, e disegnano i luoghi della comunità, in una mixité di usi propri di un habitat più attaccato alla comunità e alla natura, che può essere una risposta ai problemi generati da processi di migrazione in atto dalla campagna alla città, ma anche una soluzione per contribuire a migliorare le condizioni di vita nei quartieri degradati delle grandi città di oggi, introducendo differenti pratiche di uso e consumo del suolo nelle conurbazioni dove la linea di divisione tra i villaggi e la zona metropolitana si va facendo via via più confusa. 43
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– Pianta e sezione del compound organizzato attorno a una corte centrale, Ruanda. Alberto Rocco, Riccardo Rodighiero. – Modello di un compound organizzato attorno a piccole corti semiprivate, Ruanda. Kevin Bertazzon, Daniel Scattolin, Simone Stocco.
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Questioni come l’abitare in rapporto con il clima, il luogo e il territorio, a grande e a piccola scala, sono talmente intrecciati tra loro che non si può certo dire siano solo locali. Certamente la questione, qui sopra posta, nella sua declinazione africana merita attenzione più di altre, per quanto possiamo imparare oggi che stiamo rivedendo il nostro modo di guardare la città. Oggi più che mai, davanti al cambiamento globale in atto, le risposte date a fenomeni epocali, da quelli legati al cambio climatico, alla sostenibilità ambientale, acquistano in Africa un valore paradigmatico e richiedono di rideclinare pratiche e strategie d’intervento in un paese in forte crescita, secondo modalità nuove ma che affondano le loro radici in una storia antica. Più in generale la ripresa del compound come forma di crescita possibile, declinato in aree del territorio anche molto diverse tra loro, quali il Ruanda e il Benin, ci ha consentito di avviare una riflessione sui temi sopra enunciati attraverso la progettazione dei nuovi insediamenti che tengano insieme la scala ambientale, paesaggistica e architettonica. Le forme aggregative dell’abitare vengono ripensate e modificate nell’accettazione della condizione presente in stretta connessione con una peculiarità dello sviluppo urbano africano, che sta da sempre in quel continuum di aree rurali, villaggi, paesi e città strettamente interconnessi tra di loro. La riformulazione del nuovo tessuto urbano per composizione di compounds riporta alla luce una mai sopita vocazione agricola, i compounds diventano frammenti di verde, di campagna, incastonati nella città. La tentazione è stata quella di immaginare un’interferenza, un remix, città meno dense e più campagnole, città che, come è già stato, ricominciano a produrre almeno in parte il loro cibo, ma anche campagne meno isolate e con meno spazio. Architettura e agricoltura diventano due momenti dell’abitare che trovano nel paesaggio la loro connessione, parte di un unico processo che vuole prendersi “cura” del pianeta che abitiamo. Le nuove abitazioni si mescolano con gli spazi di lavoro: laboratori artigiani, negozi tessili, aziende agricole, orti e frutteti, nonché aree dedicate all’istruzione e formazione, e spazi dedicati all’incontro e al lavoro, come espressione di un’intera comunità, i nuovi luoghi dove fare città, con i suoi dentro e i suoi fuori, con le sue corti, cortili, recinti, alberi, possiedono una carica identitaria che non può essere ignorata. In questo modo il design dell’intero complesso residenziale diventa uno strumento destinato a cambiare la realtà, che dà vita in una sorta di coreografia collettiva, a forme future di abitare connesse con la natura circostante e con le persone che ci vivono. 46
– Attacco a terra e profilo altimetrico con sezione del nuovo insediamento, Ruanda. Mattia Azzalin, Annachiara Colombari, Nicola Rudi.
African Bio-loop Nuovi materiali per l’Africa del XXI secolo Emilio Antoniol
Nell’Africa subsahariana, il fenomeno della migrazione demografica dai villaggi rurali alle grandi città è particolarmente evidente1, con significative influenze sia sulla struttura dei villaggi agricoli, sempre più spopolati e meno produttivi, che sulle grandi metropoli: enormi agglomerati di case e baracche che ospitano milioni di persone in condizioni spesso ai limiti della vivibilità. Questo fenomeno pone importanti quesiti a livello di sostenibilità, quando questa viene letta nella sua più ampia accezione di sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Se infatti da un lato la realizzazione di nuovi quartieri residenziali alle periferie della grandi metropoli africane deve garantire una qualità di vita idonea alle richieste di salute, benessere ed efficienza tipiche dell’architettura sostenibile, dall’altro deve tener presente di un contesto socio-economico molto diverso da quello che conosciamo in ambito europeo. Le tradizioni costruttive e le forme dell’abitare africano sono un patrimonio culturale da preservare e le condizioni climatiche, molto diverse da quelle europee, richiedono una revisione di quelli che sono i canoni dell’architettura sostenibile del Vecchio continente. 1
Cfr. Mercandalli, S., Losch, B., (a cura di) Rural Africa in motion. Dynamics and drivers of migration South of the Sahara, Rome, FAO and CIRAD, 2017.
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– Alla pagina precedente. Pianta e sezione tecnologica, Ruanda. Cristina Bicego, Manuel Revoltella, Alessandro Zanin. – Plastico in scala 1:20 del sistema costruttivo, Ruanda. In evidenza il sistema di schermatura solare di facciata realizzato in laterizio e le pale del sistema micro-eolico posto in copertura. Althea Andreoni, Francesco Deiro.
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Affrontare poi la sfida del progetto in due aree molto diverse – Cotonou in Benin e Kigali in Ruanda – apre ad altre importanti considerazioni che riguardano la disponibilità di risorse, in primis di acqua e manodopera, ma anche di strutture produttive in grado di sostenere lo sviluppo costruttivo previsto. Un’analisi accurata delle criticità e delle potenzialità delle due aree ha fatto però emergere interessanti elementi di riflessione progettuale che riguardano in primo luogo la geografia del sito – esposizione, orientamento, venti dominanti, ecc. – e in seconda battuta, ma non meno importante, la disponibilità di risorse “alternative” ai tradizionali materiali da costruzione. L’area pianeggiante di Sèmè-Kpodji, in Benin, è un territorio costiero caratterizzato dai palmeti e dall’agricoltura che si sviluppa fiorente grazie alla grande presenza di acqua. Il sito è tagliato da una grande arteria stradale costeggiata da depositi di auto, strutture commerciali e produttive che ne fanno uno dei poli economici più importanti del golfo, con grandi potenzialità di espansione verso nord su suoli che, pur diventando via via più paludosi avvicinandosi al lago, offrono spazio per un’agricoltura prospera e produttiva, non solo a livello alimentare ma anche come risorsa per la costruzione di nuovi villaggi, lo sviluppo di comunità autosufficienti e, non da ultimo, la produzione di energia. L’area progetto in Ruanda è invece un terreno collinare, ancora una volta dedito alla produzione agricola ma al di fuori dei grandi traffici economico-commerciali della capitale Kigali. Caratterizzata da un folta vegetazione e dalla presenza di un fiume a valle della collina, si presenta come un lotto terrazzato, adatto per la coltivazione ma anche per lo sviluppo di un insediamento residenziale integrato con la produzione agricola. La posizione e la conformazione del suolo la rendono un’area meno aperta alle relazioni ma comunque ricca di possibilità legate anche in questo caso all’orografia del suolo che, data la pendenza, offre l’occasione di ragionare su temi quali la raccolta dell’acqua piovana, lo sfruttamento dei venti che corrono lungo i pendii, e sullo sviluppo di economie agricole a scala di compound atte a produrre cibo e risorse per la comunità locale. Partendo da queste considerazioni la ricerca si è quindi spinta verso proposte che fossero capaci di integrare soluzioni abitative e costruttive tradizionali con nuove tecnologie, volte a sfruttare al massimo le risorse locali, in particolare quelle naturali o derivanti dal recupero/riciclo di materiali di scarto. Tema del progetto è stata quindi la definizione di quello che può essere definito un 51
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– Sistema costruttivo in blocchi di adobe realizzato usando bottiglie di riciclo come cassero a perdere per realizzare delle intercapedini per la ventilazione interna alle murature. In basso sezione tecnologica con camino del vento per sfruttare la ventilazione naturale degli ambienti, Ruanda. Filippo Ambrosini, Tommaso Fiorati, Edoardo Miletti.
“African Bio-loop”2, ossia un percorso di recupero, riutilizzo e reintroduzione nelle filiere produttive di materiali e risorse seconde derivanti da altre attività già insediate in quelle aree, in un’ottica di economia circolare3. Questo aspetto, sempre più cruciale in contesti economici molto sviluppati come quello europeo, trova interessanti applicazioni anche in ambiti come quello africano dove la limitatezza delle risorse si può trasformare in opportunità progettuale. Per questo motivo tutti i progetti sviluppati nel laboratorio hanno tentato di coniugare ambiti tipicamente abitativi con funzioni agricole o produttive, realizzando una piena integrazione tra compound e sito di progetto. La produzione agricola, sotto forma di orti privati, aree comuni coltivate o veri e propri appezzamenti terrieri, recupera la dimensione tipica del villaggio africano, autonomo e autosufficiente, offrendo contemporaneamente lavoro e sostentamento agli abitanti. Allo stesso tempo la produzione agroalimentare offre un’ampia gamma di scarti, rifiuti e materie prime seconde reimpiegabili nella produzione di nuovi componenti edilizi necessari per la progressiva espansione dell’abitato e della città. L’integrazione agricola nel compound residenziale ha poi richiesto l’inserimento di alcuni sistemi tecnologici volti a fornire una risorsa fondamentale per la produzione alimentare: l’acqua. Per questo, nei progetti sono stati proposti muri per la raccolta e la distribuzione dell’acqua piovana, vasche di fitodepurazione, bacini di stoccaggio e impianti di distribuzione che, uniti ai sistemi di produzione energetica da fonti rinnovabili, hanno costituito l’ossatura tecnologica dei nuovi insediamenti. Dalla tradizione all’innovazione Punto di partenza comune per il progetto dei nuovi insediamenti sono state le tecniche costruttive tradizionali, in particolare le costruzioni in argilla cruda e cotta. Usare la terra del luogo come materiale da costruzione è parte integrante delle tradizioni costruttive locali che vedono nei mattoni di argilla, nell’adobe e nel pisé alcune delle tecniche di costruzione più antiche. La diffusione più recente di mattoni in argilla cotta completa il ventaglio di possibilità costruttive offerte per l’elevazione delle chiusure esterne lasciando però ampio margine di innovazione. 2
Il termine è ispirato alla ricerca The Urban Bio-loop. Growing, Making And Regenerating condotta da Guglielmo Carra (et alii) per ARUP nel 2016, accessibile al sito: https://www.arup.com/perspectives/publications/research/section/the-urban-bioloop (ultima consultazione aprile 2020).
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Si veda Bompan Emanuela, Brambilla Ilaria Nicoletta, Che cosa è l’Economia circolare, Edizioni Ambiente, Milano, 2016.
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Come testimoniano le recenti esperienze progettuali di WASP4, la costruzione in terra cruda può offrire grandi possibilità di innovazione sia tecnica che formale. La stampa 3D delle murature mediante le stampanti architettoniche di WASP, o il muro in pisé del recente ospedale pediatrico di Renzo Piano e TAMassociati5, sono solo alcuni esempi delle innovazioni che tecniche antiche come quelle in terra cruda possono mettere in campo. La miscela di terra e paglia, tipica dell’adobe, trova nuove possibilità di esecuzione sostituendo la paglia con altri scarti vegetali derivanti da produzioni agricole locali. Ma non solo, la sperimentazione nell’ambito della produzione dei mattoni trova nuove opportunità nella combinazione con materiali differenti: una poco distante discarica di vetro offre l’occasione per sperimentare la produzione di mattoni in vetro riciclato, prodotti e assemblati a secco, reinterpretando in chiave contemporanea il progetto WOBO6 che Heineken propone negli anni ’60. Filiere produttive locali sono state occasione di sperimentazione architettonica come nel caso del caffè – pianta ampiamente diffusa in Ruanda – che ha dato modo di ipotizzare la produzione di piastrelle realizzate pressando a freddo gli scarti di lavorazione del frutto della pianta; o come nel caso della produzione di funghi, la cui filiera diviene spunto per la realizzazione di mattoni cotti ottenuti dalla maturazione e cementificazione del micelio fungino all’interno di scarti agricoli. L’agricoltura offre poi molte fibre derivanti, ad esempio, dalla lavorazione delle palme presenti nell’area del Benin o dagli steli di vari cereali, da cui è possibile ottenere isolanti e pannelli rigidi, prodotti tramite la compressione delle fibre vegetali miscelate con resine organiche. Tutti questi prodotti possono essere utilizzabili per la realizzazione di pareti a secco, facilmente smontabili e rimodulabili per riorganizzare l’assetto distributivo dell’abitazione o per aggiungere nuove stanze a quelle esistenti.
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WASP è un’azienda italiana leader nella produzione di stampanti 3D. Da alcuni anni ha sviluppato un settore di ricerca sulla stampa architettonica dell’argilla realizzando una prima casa prototipo, Gaia, e un secondo progetto Tecla – in fase di realizzazione – con la collaborazione tra gli altri di Mario Cucinella Architects. Per approfondire si veda il sito https://www.3dwasp.com/case-costruite-con-stampante-3d/ (ultima consultazione aprile 2020).
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Il Centro di eccellenza in chirurgia pediatrica di Entebbe, in Uganda, è stato progettato per EMERGENCY da Renzo Piano e dal suo Studio RPBW in collaborazione con lo Studio TAMassociati e l’Ufficio tecnico di EMERGENCY. Iniziato nel 2017, è ora in fase di completamento e presenta un colossale muro in pisé come chiusura verticale esterna dei corpi ambulatoriali.
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Cfr. Faresin Anna, Casa WoBo, in Tatano Valeria (a cura di), Oltre la Trasparenza. Riflessioni sull’impiego del vetro in architettura, Officina Edizioni, Roma, 2008, pp. 135-138.
– Alla pagina precedente. Sezione tecnologica e analisi provenienza dei materiali usati nella costruzione, Ruanda. In particolare il bambù e il vetro di riciclo proveniente da una vicina discarica usato per la produzione di mattoni. Cecilia Bettini, Giada Guarriello, Nicole Loachamin. – Sezione prospettica ed esploso tecnologico, Ruanda. In primo piano il muro-dispositivo per la raccolta e la distribuzione dell’acqua piovana. Daniel Scattolin, Kevin Bertazzon, Simone Stocco.
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– Sezione tecnologica con analisi dei materiali impiegati nel progetto, Benin, Area 1. In evidenza il riuso di vecchi container mercantili come base per la realizzazione di ampliamenti del compound. Sara Benetti, Federica Bozzolan, Bianca Mascellani.
È infatti in questa direzione che molte ricerche si sono mosse, proponendo soluzioni di ampliamento nel tempo che combinano strutture tradizionali con nuove porzioni di edificio realizzate con sistemi a secco, caratterizzati dalla leggerezza dei componenti, dalla facilità di montaggio e dalla possibilità di riuso e riciclo a fine vita. Interessante caso di applicazione di questo concetto è il riuso dei container mercantili in disuso del vicino porto di Cotonou per la realizzazione di ampliamenti residenziali – due container per dar forma a una nuova stanza completa di bagno e zona giorno7 – da addossare all’edificio esistente integrandoli a esso con sapienti schermature esterne in foglie di palma e frangisole interni ottenuti da lastre in fibrocemento traforate con macchine a controllo numerico. Anche a livello strutturale le soluzioni hanno tentato di innovare quanto offerto dalla tradizione costruttiva locale. Alla massa delle pareti in muratura o in terra si contrappongono generalmente coperture leggere e telai in legno – materia ampiamente presente nelle due aree progetto – che completano i sistemi costruttivi tradizionali. La ricerca progettuale ha cercato in questi casi di affiancare alle soluzioni lignee altre possibilità materiche, come l’uso dei profili pultrusi in vetroresina o in acciaio sagomato a freddo, entrambe soluzioni leggere, di facile produzione e durevoli. In Ruanda ha poi trovato ampia applicazione il bambù, materiale naturale dall’accrescimento molto rapido, che offre un’interessante alternativa al legno massiccio sia in termini di resistenza meccanica che di flessibilità nelle applicazioni, che spaziano dalla realizzazione di elementi strutturali alla produzione di componenti di finitura per pavimenti e coperture.
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Si veda ad esempio il Container medical compound progettato da TAMassociati per il Salam Centre for Cardiac Surgery in Sudan nel 2013. Il progetto è stato premiato nello stesso anno con l’Aga Khan Award for Architecture.
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Nuove architetture circolari Dal micelio all’argilla del luogo Matteo Silverio
I progetti sviluppati dagli studenti non solo prevedono di sfruttare al massimo le risorse locali, ma immaginano di poter utilizzare materiali derivanti dal recupero/riciclo di “rifiuti” provenienti da filiere produttive non direttamente connesse al settore delle costruzioni (in sintonia con il concetto di “African Bio-loop” enenciato nel saggio precedente). La presenza significativa – sia in Ruanda che in Benin – di terreni coltivati ha spinto gli studenti a elaborare soluzioni costruttive in grado di sfruttare gli scarti connessi a queste attività. A vario titolo, infatti, le fibre vegetali e gli scarti agricoli sono stati utilizzati per la realizzazione di materiale termoisolante e pannelli per il controllo solare. Un’applicazione interessante di questi materiali è stata invece associata alla produzione di funghi, permettendo di ottenere contemporaneamente prodotti commestibili e materiale da costruzione 100% naturale e 100% nuovamente riciclabile. Questa ipotesi è stata elaborata partendo dagli studi del prof. Shu Ting Chang8, che negli anni ’90 ha dimostrato come gli scarti di 8
Shu Ting Chang è professore emerito di Biologia all’Università cinese di Hong Kong, specializzato in micologia e interessato ai processi di crescita dei funghi. I suoi studi hanno permesso importanti innovazioni nel campo della coltivazione intensiva dei funghi, soprattutto mediante l’utilizzo di rifiuti agricoli. Le sue ricerche hanno ricevuto riconoscimenti da istituzioni come la FAO e l’UNESCO, con le quali ha collaborato in progetti in aree del mondo in via di sviluppo.
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produzione del caffè siano il substrato ideale per la coltivazione di funghi commestibili; con le sue sperimentazioni, il prof. Chang ha dato prova di poter sfruttare le tonnellate di rifiuti generati ogni anno dalla filiera del caffè (99,8% del materiale prodotto è scarto e viene normalmente gettato) per produrre cibo. Questo “potere”, però, è tipico anche di altre biomasse di scarto derivanti da attività agricola, come i cereali e la palma (particolarmente diffuse nei territori oggetto di studio). Nelle ipotesi degli studenti, gli scarti agricoli – normalmente lasciati macerare al sole – potrebbero essere sfruttati per produrre cibo, ma non solo: se il corpo fruttifero del fungo è commestibile e può quindi diventare alimento, le radici (micelio) possono diventare un materiale da costruzione naturale e dal bassissimo impatto ambientale. Il micelio assorbe nutrimento dall’ambiente che lo ospita (solitamente bio-materia in decomposizione come gli scarti agricoli); durante questo processo di “digestione”, genera dei reticoli (ife) particolarmente fitti che vengono utilizzati per la crescita, lo spostamento e la ricerca di nuove fonti di nutrimento. Dopo un adeguato periodo di sviluppo del micelio (mediamente cinque giorni in condizioni favorevoli) è possibile bloccarne la crescita con la cottura: si ottiene così un materiale caratterizzato da un rivestimento “resistente” e protettivo a base di chitina, dotato di una moderata resistenza all’acqua, una buona resistenza a compressione, e un interno poroso dalle buone capacità termoisolanti e acustiche. La forma di questo materiale può essere facilmente controllata ponendo la biomassa di partenza su di un cassero; questo accorgimento può essere utile, ad esempio, nella realizzazione di geometrie e giunti maschio/femmina in grado di facilitare il montaggio di una struttura. I blocchi così ottenuti possono essere utilizzati per realizzare tamponamenti non portanti in sostituzione dei classici mattoni in laterizio, in quanto estremamente più leggeri e dalle migliori prestazioni termo-acustiche. Tra i tanti progetti pilota ad oggi realizzati con i blocchi in micelio, il più interessante è sicuramente “Hy-Fi”, padiglione temporaneo realizzato dal gruppo The Living ed esposto nel cortile del MOMA PS1 di New York nel 2014, all’interno del “Young Architects Program”. L’edificio si componeva di una torre circolare tripartita in sommità; costruita con mattoni di micelio legati tra loro da malta organica, era irrigidita da costoloni in legno. L’estrema leggerezza del materiale permise di raggiungere un’altezza di circa 12 metri. 62
– Alla pagina precedente. Dettaglio del plastico 1:20 con in primo piano il muro per l’acqua realizzato con la tecnica del pisé, Benin, Area 2. Anna Acciarino, Sara Bars. – Plastico e sezione tecnologica con studio del ciclo dei materiali impiegati nel progetto, Benin, Area 1. In particolare si evidenzia l’uso di mattoni ottenuti dalla cottura del micelio fungino cementificato. Giulia Demurtas, Viola Volpato.
Produzione cibo
Micelio
Coperture biodegradabili
Mattoni organici cementificati
Coltivazione funghi Scarti agricoli
Costruzione abitazioni
Paglia Produzione cibo
Orti urbani
Il padiglione, realizzato con scarti agricoli di fattorie locali e successivamente “contaminato” da spore fungine, al termine dell’esposizione venne smantellato; in appena 60 giorni tutto il materiale che lo componeva era già stato completamente riassorbito dal terreno9. Un altro interessante riutilizzo degli scarti connessi alle attività agricole è stato invece associato alla produzione di murature in terra cruda, sfruttando tecnologie di fabbricazione digitale. Gli studenti hanno infatti immaginato di impastare la terra locale con fibre di scarto vegetali, e di utilizzare questo composto per stampare murature o altri elementi dei compound progettati. La soluzione sfrutta al massimo le risorse locali e quasi azzera il materiale di scarto durante la costruzione degli edifici; inoltre permette la realizzazione di manufatti costruttivamente complessi senza l’utilizzo di manodopera specializzata. Il processo ipotizzato è semplice: il progettista sviluppa una soluzione costruttiva adatta alla stampa 3D. Invia nel cantiere una stampante che – una volta assemblata – è in grado di ricevere e stampare il progetto. Gli operai dovranno solo verificare il funzionamento della stampante 3D e ricaricarla regolarmente con l’impasto di terra e fibre vegetali. Il cantiere quindi è semplificato: necessita di meno operai (soprattutto di pochissimi operai specializzati), non obbliga al trasporto di merci in quanto si utilizzano terra e fibre vegetali locali, e riduce notevolmente costi e tempi di costruzione (in pochi giorni è possibile realizzare un modulo abitativo a costi estremamente bassi). La completa automazione del processo di produzione degli edifici, che oltretutto possono essere facilmente replicabili infinite volte, permette lo sviluppo di soluzioni costruttive complesse altrimenti irrealizzabili, come la creazione di tasche interne alla muratura per la ventilazione. La stampa 3D di materiali fluido-densi (come la terra cruda o il cemento) è sempre più diffusa a livello internazionale: dai progetti pilota asiatici, fino al pioneristico progetto della NASA di spedire un modulo in grado di stampare la prima colonia umana su Marte10, molte aziende stanno sperimentando questa tecno-
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Per maggiori approfondimenti relativi al padiglione Hy-Fi o, più in generale, all’utilizzo di micelio per la produzione di materiale da costruzione si veda Dirk E. Hebel e Felix Heisel, Cultivated Building Materials: Industrialized Natural Resources for Architecture and Construction, Birkhauser Architecture, Monaco di Baviera, 2017.
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Nel 2017 la NASA ha bandito il “3D-printed habitat challenge”, nella quale chiedeva di sviluppare delle ipotesi di moduli abitativi che potessero essere stampati in 3D direttamente su Marte. Info: https://www.nasa.gov/directorates/spacetech/centennial_challenges/3DPHab/latest-updates-from-nasa-on-3d-printed-habitat-competition (ultima consultazione aprile 2020).
– Vista di una corte interna dei compound, Ruanda. Le stanze si aprono su di essa con sistemi schermi e frangisole in legno che consentono il ricircolo dell’aria. Alexander Regno, Valery Salviato, Giulio Silvestrini.
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– Modello costruttivo, Ruanda. Si noti in particolare il sistema costruttivo in muratura in laterizio portante e il tetto giardino in copertura che fornisce isolamento termico e protezione dal calore. Bordin Michael, Calzavara Jacopo.
logia al fine di ottimizzare lo sfruttamento di risorse naturali e rispondere alla sempre maggiore richiesta di abitazioni di qualità, spesso in ambienti difficilmente raggiungibili o con scarse risorse locali. In questo ambito vale la pena citare il contributo di WASP, azienda italiana che sviluppa e commercializza stampanti 3D con tecnologia FDM. Nel 2012 i tecnici di WASP hanno sviluppato e costruito la più grande stampante 3D al mondo, la “BIG Delta WASP” (12 metri di altezza), con la quale qualche anno più tardi sono riusciti a realizzare “Gaia”, il primo modulo abitativo italiano realizzato mediante stampa 3D. Il progetto è il risultato di un utilizzo di materiali locali (terreno) e di risorse agricole di scarto (rifiuti da agricoltura del riso come paglia e gusci, dalle naturali qualità isolanti); il loro mix è un materiale biodegradabile e dal minimo impatto ambientale, convertibile in edificio mediante stampa 3D. “Gaia” è un edifico a forma circolare le cui chiusure verticali sono date da un mix di fango e paglia; sono previste delle celle di ventilazione interna per regolare il microclima dell’edificio, oltre che degli spazi che – durante la stampa – sono stati riempiti con lolla di riso. Il mix di materiali locali e scarti ha permesso di ottimizzarne il prezzo e di minimizzare l’impatto ambientale. L’edificio infatti, se lasciato deperire, tornerebbe a essere terra e la paglia in esso contenuta andrebbe a decomporsi. Entrambi i processi sopra descritti sono stati usati dagli studenti per dimostrare come sia possibile produrre cibo e materiale edile sfruttando rifiuti attualmente privi di valore. Questi nuovi approcci produttivi – paralleli a quelli già esistenti – potrebbero essere utili nel processo di emancipazione di una parte della popolazione, aiutandola nella crescita economica e sociale, sempre nel rispetto dell’ambiente, perché i materiali edili così prodotti sarebbero naturali al 100% e totalmente riciclabili/ biodegradabili. Permetterebbero inoltre la costruzione di edifici dagli alti standard qualitativi a costi contenuti, dando la possibilità anche alle fasce più povere della popolazione di vivere in alloggi salubri e di qualità.
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Appartenere alla terra Lorenza Pistore
Già nel 1993, con la Dichiarazione di Indipendenza per un Futuro Sostenibile1, l’International Union of Architects (UIA) afferma chiaramente l’obiettivo della progettazione sostenibile, volta cioè a integrare l’uso consapevole delle risorse, i materiali e l’efficienza energetica, attraverso edifici salubri e un uso del territorio che sia ecologicamente e socialmente sensibile. Da questa definizione si può certamente partire per delineare i principi che, durante questo percorso, hanno accompagnato gli studenti nel pensiero e nel progetto architettonico. Una progettazione sostenibile si origina e si sviluppa dal territorio in cui viene concepita. Essa diventa la massima espressione di appartenenza al luogo, dove la costruzione del nuovo è nascita, risposta, dono, e non violenza, consumo o deturpamento dell’ecosistema esistente. Il ruolo dell’architetto si configura come quello di traduttore, colui che recupera la tradizione del luogo, ne comprende le risorse e le restituisce traducendole, con innovazione, in esigenze e linguaggi contemporanei. Da questo si origina automaticamente un pensiero strettamente legato al territorio di progetto, alle sue risorse, al clima, ma nondimeno alla cultura e alle persone che vi abitano. 1
International Union of Architects (UIA). Declaration of Interdependence for a Sustainable Future, Chicago, 1993.
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Laddove, negli ultimi decenni, si è dimenticata l’importanza del bilancio terrestre e si è prevaricato sui ritmi naturali e sugli ecosistemi, un’architettura sostenibile si propone di restaurare questo legame, attraverso un nuovo approccio alla progettazione che tiene conto delle esigenze, dei bisogni degli occupanti e dell’innovazione tecnologica, ma non tralasciando la responsabilità verso l’ambiente. Il tutto si traduce in un’architettura che minimizza l’impatto ambientale, che assorbe e va oltre il concetto di sostenibile, più reattiva al luogo e ai bisogni umani. Un primo passo in questa direzione è stato sicuramente condotto dall’architettura bioclimatica, che prende a vantaggio le caratteristiche insite nell’ambiente esterno per tradurle in benessere nell’ambiente costruito, con il minimo consumo di risorse. Un edificio che sorge dal luogo in cui viene pensato sarà un edificio che sfrutta meno risorse, che consuma meno, più economico, e con grandi benefici in termini di salute, benessere, un dono alla comunità. Con questi obiettivi, l’impegno è quello di utilizzare, nelle fasi del processo, strumenti passivi e fonti energetiche rinnovabili, e tutti gli accorgimenti che minimizzano il consumo dell’edificio, le dispersioni, ottimizzano i vantaggi dei materiali da costruzione, dell’area di progetto e la configurazione dell’edificio. Nulla di nuovo, in realtà, se pensiamo che a fronte di termini – come sostenibilità, bioclimatico – oggigiorno così abusati, prima dello sviluppo economico e industriale lo studio delle risorse naturalmente presenti sul territorio e delle peculiarità dell’ambiente erano i modi principali per mitigare l’effetto dei fenomeni climatici sulle condizioni dell’edificio. Tutti aspetti che ben conoscevano e avevano nel loro DNA i nostri predecessori, e che ritroviamo vivi ed evidenti se andiamo a riscoprire le architetture vernacolari o spontanee o, più provocatoriamente, non-pedigreed architecure. Ed è proprio il padre di questo termine, Bernard Rudofsky, che nel 1964 nel suo Architecture without Architects: A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture2 evidenzia come la bellezza dell’architettra “primitiva” sia spesso stata svalutata come accidentale, ma oggigiorno (ovvero già 60 anni fa) se ne riconosce la sua forma d’arte come risultato dell’umana intelligenza applicata a stili di vita unici. Ed è seguendo questo pensiero che ritroviamo nel tempo, fino ai giorni nostri, molteplici esempi di architettura che ha saputo 2
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Bernard Rudofsky, Architecture without Architects: A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture, University of New Mexico Press, Albuquerque, 1964.
– Alla pagina precedente. Attacco a terra e sezione tecnologica con in evidenza i sistemi di raccolta delle acque meteoriche, Benin, Area 2. Pietro Cirilli, Giacomo Lissandron. – Studi bioclimatici e prospetto della facciata con frangisole, Benin, Area 1. In particolare viene presentato lo studio dei venti dominanti e della ventilazione trasversale interna e lo studio del soleggiamento con l’analisi dei sistemi di schermatura in facciata. Althea Andreoni, Francesco Deiro.
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– Sezione bioclimatica e tecnologica, Benin, Area 2. Pietro Cirilli, Giacomo Lissandron.
Sistema micro-eolico Windflock (Emanidesign)
Ventilazione naturale
unire territorio, clima, energia, benessere e funzionalità. Alcuni esempi. I villaggi fluttuanti cinesi, che ritroviamo già in una veduta del 1668 nel Historischer Lustgarten di Erasmus Francisci. O le abitazioni nella terra della città di Pantelica, in Sicilia, concepite oltre 3000 anni fa come necropoli e riconvertite ad uso abitativo nel Medioevo. Similmente, il villaggio di Loyang, o gli insediamenti nella provincia dell’Honnan, in Cina, dove le abitazioni scavate nel terreno, così a preservarne le condizioni microclimatiche interne, prendevano luce e aria da una corte incavata nel terreno. Ancora la Ciudad Encantada, a circa 200 chilometri a est di Madrid, con le sue case costruite nella roccia; o gli alberi di baobab, così magnifici, da poter essere usati come alloggi nei territori dell’Africa. Potremmo citarne molteplici, tutti toccanti esempi di un felice e propositivo sodalizio tra l’uomo e l’ambiente, di rapporto reciproco, in cui la natura dona e l’uomo accoglie senza violentare. Ma si può restare anche più vicini nel tempo e nello spazio per trovare esempi a noi cari e familiari di architetture che seppero rispondere al territorio, al clima e al bisogno umano: basti pensare ai celebri portici delle nostre città, per esempio Padova e Bologna dove, così concepite, queste costruzioni proteggono dagli eventi atmosferici e permettono lo svolgersi della vita quotidiana. Vita quotidiana: saremmo in errore a dimenticarci l’obiettivo del nostro progetto, e cioè consegnare alla comunità uno spazio in cui vivere in maniera salubre, confortevole ed efficiente. L’edificio assume il ruolo fondamentale di “moderatore”, ai fini di un’interazione dinamica tra edificio, occupante e condizioni esterne. Ci si approccia al progetto in un’ottica olistica, che tiene in considerazione questi aspetti in una armoniosa totalità. Il primo passo di questo progetto, è in primis limitare le necessità con una progettazione attenta alle potenzialità del territorio. In secundis, utilizzare sistemi passivi che permettano di cogliere a pieno le potenzialità del territorio e tradurle in efficienza energetica e benessere per la persona. Ultima, ma non meno importante, l’integrazione impiantistica, laddove si renda necessario un ulteriore contributo al raggiungimento degli obiettivi prefissati – e necessari. Tuttavia, ad oggi, in un mondo oramai al limite del collasso, parlare di sostenibile non è più abbastanza. L’obiettivo, oggi, è un modello ambientale rigenerativo: stiamo sviluppando una visione del mondo che deriva dalla comprensione della nostra posizione nel pianeta, dove l’edificio ha un ruolo cruciale verso la consapevolezza di una sostenibilità rigenerativa e la compren74
sione della reale influenza dell’ambiente costruito3. In sintesi, ora l’obiettivo è quello di migliorare la vita umana e l’ecosistema naturale in una relazione di mutua condivisione, attraverso un modello progettuale – e di pensiero – rigenerativo e pro-attivo, che esplora le interazioni chiave tra i sistemi fisici, umani e naturali. Questo processo parte dal concetto di “sostenibile”, inteso come limitare l’impatto umano e dell’ambiente costruito, e raggiungiamo il punto di equilibrio tra quello che prendiamo e quello che restituiamo al pianeta. Il viaggio continua attraverso la nozione di “ristorativo”, animato dal desiderio di riportare gli ecosistemi sociale ed ecologico a uno stato di salute. Ma non potendoci più accontentare, a fronte dei danni fatti, il processo deve arrivare a un principio “rigenerativo”, che permetta agli ecosistemi di mantere uno stato salutare e di co-evolvere insieme, senza che l’umano prevarichi sul naturale. Da qui si delinea uno spirito proattivo nella progettazione architettonica e nel recupero dell’esistente, che passa attraverso un uso consapevole ed efficiente delle risorse, le connessioni sociali e umane, e la connessione con l’ambiente naturale4. E questo è quanto si propongono anche gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals) proclamati dalle Nazioni Unite nel 2015. È arrivato il momento che la progettazione architettonica assurga un ruolo responsabile nei confronti delle comunità e del pianeta, affrontando i temi di giustizia sociale, economia rigenerativa, cambiamento climatico e considerazione delle risorse. È il tempo di abbracciare la cosidetta Doughnut Economics e incontrare i bisogni delle persone, le esigenze sociali e i fondamenti necessari al genere umano, ma rimanendo all’interno di limiti ambientali ed ecologici. Questo è ancor più da considerarsi fondamentale nel momento in cui ci approacciamo a Paesi in via di sviluppo, dove è arrivato il momento che ci si riappropri del territorio, delle risorse, delle culture che per troppo tempo nei secoli precedenti sono stati usurpati e violentati. Spesso caratterizzati da climi e morfologie territoriali estremi, questi Paesi sono il più fertile dei luoghi dove restituire alla comunità edifici sostenibili, efficienti, salubri e funzionali, mantenendo quel legame ancestrale col territorio che le popolazioni hanno generalmente custodito con tradizione 3
M. Brown et al. (a cura di), Sustainability, Restorative to Regenerative. COST Action CA16114 RESTORE, 2018.
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W. Craft et al., Development of a regenerative design model for building retrofits, in Procedia Engineering, Vol. 180, 2017, pp. 658-668.
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– Sezione costruttiva del sistema per la raccolta dell’acqua piovana, Ruanda. Daniel Scattolin, Kevin Bertazzon, Simone Stocco.
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– Sezione bioclimatica e modello in scala 1:20 dei sistemi di ventilazione naturale, Benin, Area 1. Il plastico mostra come la muratura a sacco in mattoni crudi si modifichi nella parte alta lasciando spazio a una trama di aperture per la ventilazione naturale. Matteo Ergazzori, Isabella Lovato, Francesco Tassello.
e sapienza. L’edificio qui, il mediatore, può diventare la spinta per molteplici tematiche: uso razionale ed efficiente delle risorse e dei materiali, giustizia ed eguaglianza sociale, ambienti interni salubri e confortevoli, immagazinamento delle risorse, efficienza energetica e funzionalità. Tutti questi aspetti sono stati tradotti nei progetti che ritroverete nelle sezioni successive. Qui il territorio è stato metabolizzato e declinato in soluzioni architettoniche attraverso cui l’edificio nasce dall’ecosistema e dai suoi elementi. Così il terreno diventa culla, contiene gli spazi e preserva le condizioni interne all’edificio, il vento raffresca e combatte l’umidità, il sole riscalda, nutre e dona il diritto alla luce, la pioggia viene purificata e contribuisce alla vita. Un primo passo di questi giovani studenti verso il loro ruolo nella comunità, verso il recupero del legame tra ambiente costruito ed ecosistema naturale, così che possano finalmente coevolvere insieme.
Geografie umane, geografie urbane Nuove possibili configurazioni Flavia Vaccher
«African cities are work in progress, at the same time exceedingly creative and extremely stalled» AbdouMaliq Simone1 In un articolo comparso nel 1997 nel Bulletin de la coopération française pour le développement urbain, l’habitat et l’aménagement spatial dedicato alle dinamiche dell’urbanizzazione in Africa, l’antropologo Alain Marie osserva che la città africana moderna è oggi considerata più correttamente “laboratorio sociale”, dove l’incontro con la modernità planetaria passa attraverso un migliaio di reinterpretazioni dinamiche della tradizione e dove la creatività è senza dubbio più originale delle tradizioni viventi, combinata con gli imperativi universali della modernizzazione2. Sulla créativité urbaine e sul fatto che la città non è uno spazio neutro bensì luogo di sistematiche reinterpretazioni delle organizzazioni [spaziali] tradizionali insiste anche Paul Mercier3, mentre George Sautter4 1
Simone AbdouMali, Abouhani Abdelghani (a cura di), Urban Africa. Changing Contours of Survival in the City, Codesria, 2005.
2
Marie Alain, La dialectique du particulier et de l’universel. Bulletin de la coopération française pour le développement urbain, l’habitat et l’aménagement spatial, 1997, p. 37.
3
Mercier Paul, Recherches quelques remarques sur le développement des études urbaines. Cahiers d’Études africaines, n.13 (51), 1974, pp. 397-404.
4
Sautter Georges, Recherches en cours sur les villes d’Afrique noire: thèmes et problèmes. Point de vue d’un géographe. Cahiers d’Études africaines, n.13 (51), pp. 405-416.
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si sofferma sull’individualité paysagique e sulla complessità del tessuto urbano, entro il quale i rapporti sociali si densificano e trovano nuove forme di espressione, anche spaziale. Sono modi di leggere le città d’Africa, investite da tempo dal processo della metropolizzazione e dagli effetti della globalizzazione, che invitano a coglierne non solo la vitalità, trasudante dinamismo, e i ritmi delle mutazioni, ma anche la loro capacità di produrre nuovi modi di occupare e abitare lo spazio. Ciò avviene secondo processi che talvolta mutano profondamente i modi tradizionali dell’abitare e l’organizzazione dello spazio urbano, talvolta li sradicano completamente, talvolta danno origine a soluzioni ibride, risultato della contaminazione di tradizione e modernità. Imprigionate ancor oggi dentro uno scenario fisico costruito e omologato alle forme dell’urbanistica occidentale, che hanno guidato il disegno coloniale delle città, le pratiche individuali e collettive d’uso dello spazio tendono in realtà a ignorare limiti fondiari, confini, perimetrazioni. Il complesso sistema delle relazioni geografiche e sociali5, ricopre la fitta trama delle strutture urbane, alla quale si sovrappone, imponendo il proprio imprinting attraverso continue operazioni di aggiustamento e adattamento, che generano nuovi paesaggi urbani, prototipi di nuova urbanità. Introdotto da Valentin Y. Mudimbe nel testo The Tales of Faith. Religion as Political Performance in Central Africa, l’espace métissé è presentato come una forma di acculturazione che non è da intendersi come un completo assorbimento né un’assunzione o un’integrazione di elementi della cultura dominante, quanto come la creazione di un nuovo mix culturale attraverso un processo di transculturazione. Esso porta in sé l’idea di un’operazione di contaminazione e di ibridazione, che dà ragione della persistenza, ancor oggi, di pratiche d’uso e di organizzazione dello spazio tradizionali negli spazi interstiziali della città così come negli insediamenti in espansione ai suoi margini. Le città africane sono territori, sono configurazioni e sono mobili6, lasciano trasparire forme di urbanità più fluide, capaci di esprimere nuovi paradigmi urbani nei quali si intrecciano le interrelazioni
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5
A questo proposito Achille Mbembe, «[…] il continente [africano] è stato e ancora è uno spazio di flussi, di movimento, di scambi […] come di “molteplicità - e quindi relazioni». Vd. Nuttall Sarah, Mbembe Achille, Johannesburg. Durham: Duke University Press, 2008, p. 351; Mbembe Achille, Planetary Africa. In: Michael Juul, Kallehauge Mette Marie, (a cura di), Africa. Architecture Culture Identity. Denmark: Louisiana Museum of Modern Art and contributors, 2015, p. 262.
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Sarr Felwine, Afrotopia, Edizioni dell’Asino, Roma, 2018, p. 119.
– Alla pagina precedente. Vista assonometrica, Ruanda. Daniel Scattolin, Kevin Bertazzon, Simone Stocco. – Planivolumetrico, Benin, Area 2. Pietro Cirilli, Giacomo Lissandron.
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– Planivolumetrico, Ruanda. Giulia Demurtas, Viola Volpato.
con il mondo rurale, l’eredità della cultura locale e della tradizione, le nuove tecnologie e gli effetti delle migrazioni internazionali di ritorno, per cui i returnees, portatori di nuovi bisogni, diventano creatori di nuovi quartieri, i quartieri della diaspora, e la loro estetica idiosincratica disegna il nuovo volto della città7. Accanto a queste forme di urbanità emergenti – oggetto di sempre più numerosi studi interdisciplinari – possibili modelli di convivenza tra modernità e tradizione, luoghi non solo disordinati ma anche spazi di sperimentazione in grado di cogliere il caos organizzato e ingegnoso della città africana e di offrire nuove modalità di uso del suolo, si insediano a pari modo iniziative ed interventi di sviluppo urbano su modello occidentale e asiatico. Negli ultimi dieci anni le grandi città hanno visto il loro paesaggio trasformarsi radicalmente con l’apparizione non solo di infrastrutture e attrezzature urbane, ma anche di quartieri residenziali di nuova costruzione – se non quando di vere e proprie città satelliti (edge cities)8 a pochi chilometri dalle grandi città – frutto di una domanda abitativa molto alta, stimolata dalla forte crescita demografica strettamente correlata alla crescita economica (il cosiddetto fenomeno dell’Africa rising). La nuova classe media e alta, benché in netta minoranza, ha iniziato ad avere un peso sulle trasformazioni dei territori urbani, sollecitando la richiesta di nuovi spazi insediativi che, pur presentando caratteristiche diverse in relazione al contesto, condividono tuttavia alcuni elementi formali e funzionali. In primis la ricerca di qualità architettonica – l’abitazione svolge una funzione simbolica e di affermazione sociale – e la separazione fisica dal contesto, che attribuisce ai nuovi insediamenti carattere di esclusività, trasformandoli in alcuni casi in vere e proprie gated communities. Benché la “verticalizzazione” ad uso residenziale in Africa sia solo nella fase iniziale, nel paesaggio urbano delle grandi città spiccano sempre più numerosi edifici multipiano, torri, spesso esiti di ostentazione celebrativa o autoreferenziale, alla quale fa da contrappunto un’occupazione del suolo “orizzontale” di case a 1-2 piani isolate su lotto con uno spazio privato (giardino), tipologia che rimanda al bungalow, modello coloniale per eccellenza. In entrambi i casi si tratta di modelli abitativi e urbani importati dal mondo occidentale e asiatico, fantasie urbane9 che mirano 7
ivi, p.112.
8
Garreau Joel, Edge City: Life on the New Frontier, Double-day, New York, 1980.
9
Bahn Gautam, The real lives of urban fantasies. Enviroment and urbanisation, 26, 1, pp. 235235.
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– Planimetria piano terra, Benin, Area 1. Matteo Coppe, Riccardo Dall’Osso.
a creare spazi di modernità globalizzate esteticamente e funzionalmente standardizzate, frutto di un mimetismo anestetizzante e mortifero10, ben lontane dalla tradizione insediativa dei luoghi e dai “modi di abitare la propria dimora”, responsabili tuttavia di profonde trasformazioni del territorio, così come della costruzione dell’immagine stessa delle città africane. Cotonou e Kigali, capitale economica del Benin la prima, capitale del Ruanda la seconda, non si sottraggono a tali processi di trasformazione urbana che, da nord a sud, stanno attraversando tutto il continente africano, contribuendo a modificarne pesantemente il paesaggio. Cotonou, Benin Costruita su una pianura costiera compresa tra l’Oceano Atlantico e la laguna di Porto-Novo, Cotonou, insieme ai comuni di Abomey Calavi e Sèmè-Kpodji, costituisce un esteso agglomerato urbano, facente parte della vasta conurbazione che da Abidjan (Costa d’Avorio) a Doula (Camerun) va rapidamente coagulandosi lungo il Golfo di Guinea, con Lagos (Nigeria) come fulcro. Nonostante la maggior parte del territorio sia ancora a vocazione rurale, il destino di Sèmè-Kpodji, collocato sul corridoio di transito tra Cotonou e la vicina Nigeria, appare ormai quello di essere assorbito, in un tempo breve, nel processo di espansione della città di Cotonou, ormai satura. Composto da 29 villaggi, una sorta di rete di piccoli insediamenti con bordi ben definiti sparsi in parte nelle aree paludose a confine con il lago Nokoué, Sèmè-Kpodji è una striscia di terra lunga poco meno di 30 km che dai margini periferici di Cotonou si estende sino al confine nigeriano. Lungo il bordo costiero sull’Oceano Atlantico, a ridosso della strada a scorrimento veloce RNIE1, si succedono senza soluzione di continuità estese aree di rivendita auto, palmeti, orti, piccole agglomerazioni, ma anche piccole attività commerciali, il mercato internazionale di Krakè, villaggio di confine con la Nigeria e la zona del porto franco che mira ad attrarre gli investitori nigeriani e conquistare questo mercato di diversi milioni di persone. Nel suo slancio di sviluppo Sèmè-Kpodji si presenta come un luogo senza un’identità ben precisa, senza disegno urbano, senza un piano di urbanizzazione, indifferente al sistema lagunare del lago Nokouè. 10
Sarr Felwine, op. cit. p.112.
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– Benin, Cotonou, il canale di collegamento del lago Nokoué all’Oceano Atlantico dall’autostrada RNIE1. – Benin, zona lacustre a Ekpé, villaggio sul lago Nokoué, a nord-est di Cotonou.
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L’esperienza progettuale in questi luoghi ha offerto l’occasione di avviare una riflessione sulle sue trasformazioni urbane, assumendoli come luogo di possibile invenzione territoriale, come spazio originale capace di garantire la connessione tra la fragile zona lagunare e quella costiera, diventando esso stesso parte di un più ampio e complessivo disegno del territorio che da Cotonou si estende sino al confine con la Nigeria. Kigali, Ruanda In Ruanda, nel “paese delle mille colline”, la capitale Kigali è una città di recente urbanizzazione di poco più di un milione di abitanti, le cui trasformazioni sono avvenute in un territorio distribuito su un paesaggio collinare, ancora oggi in gran parte agricolo. Il territorio del Ruanda è quasi interamente coltivato: ogni sua parte è una costruzione creata dall’uomo, di cui le colture a terrazze sono forse l’elemento caratterizzante insieme ai fondovalle, dove gli abitanti riescono a coltivare e produrre cibo per il sostentamento. A una iniziale occupazione del suolo più tesa alla dispersione che alla concentrazione – singole abitazioni rurali su appezzamento, collocate secondo una precisa gerarchia sociale – si è succeduta nel tempo una riorganizzazione e densificazione degli insediamenti (villagization11) che ha comunque consentito di mantenere nel tempo l’equilibrio dell’ecosistema. Potenti processi di urbanizzazione in atto, come l’ambizioso progetto Green City Kigali12, obiettivi strategici delle politiche governative, insieme alla regolarizzazione del possesso fondiario e alla riorganizzazione delle attività agricole, stanno modificando a ritmo incalzante il paesaggio e le dinamiche insediative nei contesti periurbani di Kigali, stravolgendo il millenario rapporto fra insediamenti e territorio rurale. Il lavoro progettuale svolto a Murama, area di margine a nord est di Kigali, ha sollecitato il ripensamento dei modelli insediativi strettamente intrecciati alla gestione delle risorse naturali, del ruolo dell’agricoltura familiare, delle relazioni di reciprocità tra urbano e rurale nell’ottica di un ridisegno complessivo dell’area a tutela del paesaggio e dell’ecosistema.
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Berlanda Toma, Umujyi: Cities and human settlements in Rwanda, in Atti del convegno Sustainable Future: Architecture and Urbanism in the Global South, Kampala, Uganda, 27-30 giugno, 2012
12
Green City Kigali. Rwanda’s pilot towards green urbanisation. https://greencitykigali. org/ (ultimo accesso aprile 2020).
– Ruanda, paesaggi alla periferia di Kigali.
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– Ruanda, terrazzamenti agricoli nell’area progetto a Murama.
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Area 1 Sèmè-Kpodji - Benin
ATTRAVERSO I FUOCHI
Sara Benetti, Federica Bozzolan, Bianca Mascellani
AU-DELÀ DE LA PAROI PERFORÉE Laura Cavestro, Elisa Baldelli
LE MARCHÈ URBAIN
Matteo Coppe, Riccardo Dall’Osso
MESOS-CIVITAS
Francesca Giardina, Serena Martinelli, Valentina Zarantoniello
VIVERE L’IMPLUVIUM
Matteo Ergazzori, Isabella Lovato, Francesco Tassello
MURI D’ACQUA
Luca Muffato, Lorenzo Nigro, Lorenzo Zorzi
ATTRAVERSO I FUOCHI
Sara Benetti Federica Bozzolan Bianca Mascellani
Il culto del fuoco è una tradizione che riunisce gli abitanti dei compound e richiama la vita conviviale. Riunirsi nelle corti per cucinare, sulla strada per dialogare o nei mercati per lavorare, crea una cooperazione sociale ed economica. Gli spazi degli edifici dei compound dialogano fra di loro e sono progettati con sistemi costruttivi a secco, con strutture in pultruso e con materiali reperibili in loco, nel rispetto dell’ambiente circostante: legno di palma, typha e gomma di riciclo recuperata dalle molte automobili situate nei depositi limitrofi all’area progetto. I container del porto di Cotonou, diventano un ulteriore elemento di sviluppo temporale del compound offrendo la struttura per le espansioni dello spazio abitativo pensate per il progetto. 97
– Render del progetto che mostra i sistemi di schermatura composti da lastre in fibrocemento traforato con macchine a controllo numeri e cannucciati in typha. – Modello e planimetria del piano terra dei compound e della loro aggregazione spaziale a livello di quartiere.
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– Modello ed esploso costruttivo del compound che illustra il sistema tecnologico composto da strutture leggere in pultrusi in fibra di vetro tamponati con pannelli in fibrocemento (esterno) e in legno (interno). Le corti e le aperture sono schermate con pannelli in fibrocemento traforati mentre la copertura è realizzata in lamiera.
Si noti inoltre l’addizione volumetrica formata da container mercantili riconfigurati come nuove stanze per l’espansione del compound nel tempo. I container sono “rivestiti” da un cannucciato in typha che scherma gli spazi abitativi dal sole e funge da elemento di raccordo tra il progetto originario e la sua espansione.
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AU-DELÀ DE LA PAROI PERFORÉE
Laura Cavestro Elisa Baldelli
Il progetto si basa sulla realizzazione di differenti compound messi in relazione tra loro tramite corti e spazi comuni che permettono l’interazione tra le persone che vi abitano. Ciascun compound, unito agli altri, va a creare una griglia nella quale si incrociano strade e canali per la fitodepurazione; questi ultimi hanno come obiettivo quello di permettere il riutilizzo delle acque piovane depurate sia per la coltivazione, che per usi domestici. I compound sono realizzati con materiali tipici delle costruzioni africane della zona del Benin (terra cruda, blocchi di adobe, bambù, ecc.) così da permettere uno sviluppo sostenibile anche sul piano demografico ed economico. 103
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– Planimetria del piano terra del nuovo sviluppo urbano. – Pianta, prospetto e sezione del compound organizzato attorno alla corte centrale con ampi spazi coperti che estendono le stanze all’esterno.
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LE MARCHÈ URBAIN
Matteo Coppe Riccardo Dall’Osso
Il progetto si colloca in un’area pianeggiante compresa tra la strada principale di accesso e due piccoli canali che la tagliano da Nord a Sud. I nuovi compound sono organizzati secondo una griglia regolare tagliata da Est a Ovest da strade secondarie su cui si affacciano negozi e mercati. Due importanti spine di servizi tagliano invece l’area da Nord a Sud in corrispondenza dei canali d’acqua. La prima ospita un grande mercato coperto con strutture leggere, mentre la seconda, al limite dello sviluppo urbano, ospita orti comuni e vasche per la fitodepurazione dell’acqua. 107
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– Planivolumetrico del nuovo insediamento urbano con la porzione di orti e vasche per la fitodepurazione a ridosso del canale a Est. – Modello del compound organizzato con edifici di due piani collocati attorno a una corte centrale privata. In alto a sinistra si può notare il compluvium con la cisterna per la raccolta dell’acqua piovana.
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– Vista interna della corte. – Sezione prospettica che illustra la disposizione dei locali attorno alla corte centrale. L’accesso alle stanze avviene attraverso un ballatoio schermato con un frangisole in legno che protegge dall’irragiamento solare diretto e consente la ventilazione trasversale.
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MESOS-CIVITAS
Francesca Giardina Serena Martinelli Valentina Zarantoniello
L’area progetto è situata tra due piccoli corsi d’acqua e da qui nasce l’idea di MESOS-CIVITAS, la comunità centrale, la comunità che sta in mezzo. L’obiettivo principale del progetto è quello di dare vita non solo a nuovi compound, ma soprattutto dare vita a nuove comunità. Il nuovo tessuto urbano si svilupperà gradualmente e in totale prevede l’insediamento di una trentina di compound, ciascuno formato da quattro unità che danno forma a una corte (il recinto), al cui interno si svolge la vita domestica e sociale degli abitanti. Il villaggio è composto da spazi comuni e moduli abitativi autonomi dal punto di vista energetico e idrico. Si tratta di una progettazione partecipata, dove la comunità locale gioca un ruolo essenziale. 113
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– Planivolumentrico del nuovo sviluppo urbano.
– Vista della corte centrale (recinto).
– Pianta del compound formato da unità abitative sviluppate attorno alla corte centrale scoperta.
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VIVERE L’IMPLUVIUM
Matteo Ergazzori Isabella Lovato Francesco Tassello
Il progetto punta a realizzare un nuovo modello di aggregazione abitativa, costituita dall’alternanza di compound, spazi-percorsi pubblici e spazi agricoli. Il compound si rifà alla tradizionale forma ad impluvium, tutti gli ambienti infatti si rivolgono verso una corte centrale, ombreggiata e protetta da un’ampia copertura inclinata. Gli spazi interni del compound sono definiti da strutture leggere in cannucciato, mobili o fisse, e si dividono in una zona giorno con cucina comune e tre zone notte, più private, pensate per ospitare all’interno dello stesso compound tre nuclei familiari. 117
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– Modelli del progetto in scala 1:1000 e 1:200. La strattura del compound, organizzato attorno a una corte centrale, si compone in nuclei di quattro compound a formare il nuovo tessuto urbano.
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– Modello del compound e della loro aggrezione in gruppi da quattro. – Viste della corte interna. Sono poste in evidenza le murature estrerne traforate e i sistemi di schermatura leggera in cannucciato posti sul lato interno della corte per consentire la ventilazione trasversale. – Sezione trasversale dei compuond.
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MURI D’ACQUA
Luca Muffato Lorenzo Nigro Lorenzo Zorzi
Il progetto si è posto come vincolo il rispetto delle fasce di vegetazione che separano le varie zone residenziali cercando allo stesso tempo di dare forma a un tessuto urbano in continuità con l’esistente. L’insediamento si sviluppa in diverse fasi, la prima vede il posizionamento di 16 compound, raggruppati a 4 formando una “cellula”, lungo il fronte della strada che costeggia l’area di progetto. Con l’ultima fase si arriva alla saturazione dell’area con 76 compound che posso ospitare fino a 608 abitanti. 123
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– Planivolumetrico del progetto. – Modello dell’aggregazione di quattro compound a formare una “cellula” autonoma, dotata di spazi aperti comuni e spazi coperti più privati.
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– Planimetria del piano terra con la composizione dei compound. – Sezione trasversale con evidenziato il muro centrale per la raccolta dell’acqua piovana.
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– Esploso assonometrico del compound che illustra i principali sistemi costruttivi in laterizio e legno.
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– Modello dell’edificio in scala 1:20 che illustra le principali scelte tecnologiche e costruttive. In particolare è evidenziata la doppia facciata che funge da schermatura solare per gli ambienti interni realizzando, al tempo stesso, una continuità figurativa nei prospetti esterni. – Sezione prospettica del compuond.
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Area 2 Sèmè-Kpodji - Benin MURI D’ACQUA
Anna Acciarino, Sara Bars
UBUNTU
Pietro Cirilli, Giacomo Lissandron
MURI D’ACQUA
Anna Acciarino Sara Bars
Il progetto si fonda sulla realizzazione di muri in pisé che raccolgono l’acqua piovana e la conservano all’interno di cisterne. La loro disposizione caratterizza il luogo creando un nuovo paesaggio. Costituiscono il nucleo primario del sistema abitativo del compound: a essi si accostano le case e insieme formano una composizione di spazi coperti, corti e percorsi. I muri forniscono acqua alle case adiacenti, ma anche all’intera comunità attraverso delle fontane disposte verso la strada centrale dedicata al mercato, diventando muri che non dividono, ma che formano un luogo di unione tra gli abitanti. 133
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– Pianta del piano terra e sezione generale del progetto segnato in orizzontale dai grandi muri di spina in pisé per la raccolta dell’acqua piovana. – In basso. Modello costruttivo degli edifici residenziali con il muro in pisé e la struttura interna in legno.
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Camino di ventilazione
– Modello del compound che illustra l’articolazione tra spazi chiusi e spazi aperti/coperti. – In basso. Sezione bioclimatica del compound con i camini del vento per la ventilazione e il muro di spina che contiene i dispositivi impiantistici per la raccolta e la distribuzione dell’acqua piovana.
Muro per la raccolta dell’acqua
UBUNTU
Pietro Cirilli Giacomo Lissandron
“Ubuntu” è una parola africana che significa: “Io sono perché noi siamo”. Questa frase è stata la linea guida di tutto il nostro percorso progettuale che mostra un’interpretazione del compound africano. Il concetto da cui siamo partiti è la tradizione locale che tiene insieme nel medesimo spazio la residenza, il luogo della produzione e il luogo del commercio. La strategia adottata è stata quella di progettare usando tecnologie costruttive a secco che implementino una produzione in serie all’interno del compound stesso, ovvero creare un quartiere modulare, espandibile e autosufficiente. Le varie destinazioni d’uso, seppur differenti tra loro, trovano spazio all’interno di un unico grande insieme aggregativo di quaranta metri di larghezza e sessantacinque di lunghezza. Questo volume si alza di trenta centimetri rispetto al livello del suolo e si affaccia su assi principali del progetto e sulla “strada del mercato”. Tutti gli spazi generati all’interno del compound sono basati su una maglia portante di cinque per cinque metri realizzata in profili pultrusi in vetroresina. 139
– Vista assonometrica della massima espansione del lotto con schemi di progressiva densificazione. – In basso. Modello del compound.
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– Viste interne del compound. – Pianta e sezione di un compound, pensato come una piastra contenente un mix di funzioni quali abitazioni, laboratori artigianali, mercati e spazi comuni.
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– Modello e sezione costruttiva del compound. Viene in particolare evidenziato il sistema costruttivo totalmente a secco composto da una struttura in pultruso completata da pareti a telaio in legno locale tamponato con pannelli ottenuti dagli scarti della lavorazione del legno di palma. Anche l’isolamento interno alla parete è ottenuto dalla lavorazione della fibra di cocco.
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Area 3 Murama - Ruanda BLOOMING MURAMA
Cristina Bicego, Manuel Revoltella, Alessandro Zanin
CLÔTURES POUR LA VIE Alberto Rocco, Riccardo Rodighiero
WIND BREATH
Filippo Ambrosini, Tommaso Fiorati, Edoardo Miletti
WHITOUT LIMITS
Alexander Regno, Valery Salviato, Giulio Silvestrini
LA COLLINA DELLA CONDIVISIONE Cecilia Bettini, Giada Guarriello, Nicole Loachamin
JAMII
Althea Andreoni, Francesco Deiro
MURI D’ACQUA
Kevin Bertazzon, Daniel Scattolin, Simone Stocco
LA MAISON EST EN ESCALIER Michael Bordin, Jacopo Calzavara
VERDI COLLINE DEL RUANDA Giulia Demurtas, Viola Volpato
TESSERE IL PAESAGGIO
Mattia Azzalin, Annachiara Colombari, Nicola Rudi
BLOOMING MURAMA
Cristina Bicego Manuel Revoltella Alessandro Zanin
Blooming Murama si propone di dare una risposta efficace e in armonia con il territorio alla forte spinta demografica che interessa la città di Kigali. La zona di progetto presenta un terreno scosceso: la pendenza è stata sfruttata nel progetto per ottenere soluzioni architettoniche, tecnologiche e ambientali che valorizzano il contesto minimizando l’impatto degli edifici. Il compound è infatti semi-ipogeo, cresce dalla terra senza però distaccarsene. È così possibile sfruttare l’inerzia termica del terreno e garantire delle zone d’ombra dove l’aria si mantiene più fresca. Nelle zone dove la luce è diretta sono state inoltre previste schermature in tessuto. 149
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– Planivolumetrico e vista zenitale del modello che illustrano l’organizzazione spaziale dei compound semi-ipogei posti in continuità con i terrazzamenti agricoli che li circondano. Nel modello si possono notare le ampie corti interne alle abitazioni ombreggiate dai muri perimetrali e dalle tende in copertura.
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– Sopra. Schemi dello sviluppo nel tempo del progetto che si espande progressivamente a coprire l’intero versante della collina.
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– Sotto. Alcune viste del rapporto tra abitazioni e terrazzamenti coltivati a orto.
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ti più esportati,
azioni anti. erico uò
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– Sezione e dettagli costruttivi degli edifici. In particolare sono evidenziati i componenti edili quali mattonelle e tendaggi ottenuti dal recupero degli scarti del caffè, pianta di grande valore per l’economia del Ruanda. I fondi di caffè sono stati riutilizzati nel progetto per attivare processi di economia circolare volti a realizzare piastrelle (Wascoffee) per le pavimentazioni interne e per il trattamento dei tendaggi posti nei corridoi interni al compound, date le sue proprietà sanificanti. Le piastrelle Wascoffee sono composte dal 35 60% di fondi di caffè, da un legante polimerico e da polvere di legno riciclato; il materiale che si ottiene è estremamente versatile ed è inoltre di facile pulitura.
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CLÔTURES POUR LA VIE
Alberto Rocco Riccardo Rodighiero
Nato dall’accostamento di sei quadrati, il compound vuole diventare luogo di incontro, socializzazione, condivisione della vita, rapportandosi, attraverso strade terrazzate, con l’esistente. L’abitazione mette al centro lo spazio comunitario della casa; la zona giorno si estende nella corte centrale aperta. La presenza di sistemi di schermature e di fori nei muri, permettono il raffrescamento dell’abitazione. Attraverso le coperture inclinate e i muri di raccolta, l’acqua viene convogliata all’interno di cisterne sotterranee che servono all’irrigazione delle colture e ad alcuni servizi della casa. La presenza dell’orto e del mercato consente alle famiglie che vivono il compound di essere indipendenti nutrendosi e vendendo i prodotti della proria terra. 157
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– Alle pagine precedenti. Planivolumetrico e vista prospettica che illustrano l’organizzazione spaziale dei compound formati da aggregazioni di più unità abitative a corte alternate con spazi per il mercato o dedicati agli orti.
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– Il modello in scala 1:20 e le sezioni illustrano la particolare struttura sfalsata dei tetti a falde che permette l’ingresso di luce, la ventilazione naturale interna all’abitazione e consente la raccolta dell’acqua piovana.
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WIND BREATH
Filippo Ambrosini Tommaso Fiorati Edoardo Miletti
Il progetto Wind Breath ha come obiettivo quello di realizzare un complesso di abitazioni in un’ottica di sostenibilità circolare. L’elemento che plasma l’intero progetto è il vento delle colline del Ruanda, da cui scaturiscono le forme fluide degli edifici, a uno o due piani, e le torri del vento che permettono il raffrescamento degli ambienti interni. L’intero complesso si sviluppa su terrazzamenti che gli abitanti potranno coltivare con varie specie vegetali tra cui il bambù, che oltre a essere fondamentale per il sistema di fitodepurazione, viene utilizzato come principale materiale da costruzione. 163
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– Plastico del progetto che illustrano l’organizzazione spaziale dei compound lungo i terrazzamenti dell’area progetto. – Pianta del piano terra del nuovo isediamento urbano.
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– Vista del compound e modello delle unità abitative separate da terrazzamenti coltivati.
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– Vista della corte interna e modello costruttivo in scala 1:20. Nel progetto la ventilazione è un elemento fondamentale che si esplicita mediante la realizzazione delle torri del vento che portano all’interno dell’abitazione le brezze fresche che scendono lungo il pendio. Inoltre le murature sono realizzate con blocchi forati in adobe per consentire la ventilazione interna alla parete offrendo un miglior comfort ambietale interno agli spazi abitativi.
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WHITOUT LIMITS
Alexander Regno Valery Salviato Giulio Silvestrini
Il progetto prevede sia l’espansione in orizzontale a livello territoriale che in verticale, predisponendo le terrazze a evolversi in eventuali camere qualora il nucleo famigliare crescesse. Perciò il compound, composto da 4 nuclei abitativi, può accogliere da 16 a 24 persone massimo. Viene sfruttato l’importante dislivello del territorio per predisporre il compound su dei terrazzamenti e agevolare così l’esposizione alla ventilazione naturale di ogni unità abitativa. Le unità tra loro interagiscono perfettamente con la corte interna, come luogo di socializzazione, grazie alle pareti scorrevoli ai piani terra. Per un impatto ambientale meno incisivo, la terra asportata viene riutilizzata per creare mattoni di terracotta prodotta da una ditta locale. 171
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– Planivolumetrico del progetto nella fase di massimo sviluppo. In basso gli schemi esplicitano le fasi della progressiva espansione. – Modello costruttivo del compound che illustra le principali soluzioni costruttive adottate che trovano nel mattone e nel legno i due materiali prevalenti.
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– Modello del compound che evidenzia l’aggregazione degli spazi della casa attorno al cortile centrale. – In basso. Prospetto dei compound.
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LA COLLINA DELLA CONDIVISIONE
Cecilia Bettini Giada Guarriello Nicole Loachamin
Partendo dalle vicende del genocidio dei Tutsi del Ruanda che fu tra gli episodi più sanguinosi della storia dell’Africa del XX secolo, il progetto del sistema insediativo a Murama non vuole essere solamente un esercizio di architettura ma un esempio concreto per realizzare coesione sociale in un luogo martoriato dalle vicende del secolo scorso. Le relazioni fisiche e sociali che si realizzano tra i diversi compound vogliono essere un auspicio di condivisione e prosperità per un luogo segnato dalla violenza. Le botteghe artigianali sono state progettate per incentivare il commercio locale così come la strada mercato realizzata nella zona centrale dell’area di progetto, mentre le cucine condivise vogliono rappresentare un’occasione di scambio e condivisione tra gli abitanti del modulo abitativo. 177
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– Pianta del piano terra del compound progettato tenendo in considerazione le relazioni umane, in una idea di espansione e flessibilità nel tempo, con la trasformazione delle botteghe in spazi destinati alla zona notte.
– Modello del compound che illustra la disposizione degli ambienti attorno alle corti scoperte organizzate attorno al gruppo centrale delle cucine, pensate come luogo comune di aggregazione.
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– Modello ed esploso del compound. Il progetto è stato concepito sin dal principio con materiali locali come bambù, eucalipto e mattoni per rispettare quei principi di sviluppo sostenibile. Una maggiore ricerca e attenzione è stata affrontata per la scelta del materiale principale di costruzione: il mattone, che diventa in questo progetto l’elemento fondamentale e caratterizzante. Il materiale utilizzato è un mattone di vetro riciclato,
prodotto in un’azienda a Kigali, vicino all’area di progetto, utilizzato a secco in previsione di un futuro riuso. Tutte le scelta che sono state effettuate partono dal desiderio di creare delle relazioni non solo commerciali e lavorative ma bensì anche umane; dando vita a un progetto architettonico e sociale, solidale e sostenibile dove lo scambio diventa metafora di una condivisione di idee ed esperienze.
– Modello complessivo del compound e vista prospettica dei terrazzamenti posti tra i vari compound.
JAMII
Althea Andreoni Francesco Deiro
Il progetto si sviluppa longitudinalmente al pendio, seguendone la lenta discesa verso valle. I compound, disposti a coppie, sono intervallati da ampi spazi verdi a bosco o destinati alla coltivazione. Sfruttando il declivio naturale sono stati ricavati ampi terrazzamenti alcuni privati, destinati ad ampliare gli spazi interni della casa, altri pubblici o semipubblici. La conformazione del terreno consente poi di sfruttare in modo efficente i venti dominanti grazie ad ampie aperture schermate in facciata e attraverso l’inserimento di pale microeliche che trasformano il flusso del vento in energia rinnovabile disponibile per il compound. 185
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– Planivolumetrico e modello del compound con vista delle logge interne agli edifici schermate dal frangisole in cotto.
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– Pianta del piano terra e sezioni del compound. Oltre alla corte centrale ogni abitazione è dotata di ampie terrazze e corti minori più private raddoppiando lo spazio interno all’esterno dell’edificio.
– Render che evidenzia il sistema di schermatura in laterizio sul lato esposto a sud.
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MURI D’ACQUA
Kevin Bertazzon Daniel Scattolin Simone Stocco
L’elemento che dirige l’intero processo progettuale è una muratura continua di raccolta e distribuzione delle acque piovane e reflue, una sorta di “acquedotto pensile” che collega idealmente i vari agglomerati abitativi in un unicum urbano. Ogni compound è caratterizzato da un elemento di raccolta, filtraggio e distribuzione delle acque provenienti dalle piogge stagionali, utilizzate sia per l’irrigazione degli orti coltivati che per i bisogni sanitari primari, attraverso punti di distribuzione privati: elementi infrastrutturali a bassa tecnologia che vanno a determinare il nucleo di un sistema urbano in evoluzione. 191
– Modello del compound e relativa planimetria del piano terra. In basso a destra è possibile analizzare il sistema di aggregazione dei compound che si articolano attorno a dei muri per la raccolta dell’acqua piovana.
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– Vista prospettica del sistema di compound organizzato attorno a un muro per la raccolta dell’acqua. La disposizione degli edifici è riferita al miglior orientamento rispetto al soleggiamento. Le coperture in bambù e lamiera fungono da sistema per la raccolta dell’acqua.
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LA MAISON EST EN ESCALIER
Michael Bordin Jacopo Calzavara
La “maison est en escalier” racchiude il concetto della casa sviluppata a gradoni, integrandosi con l’ambiente collinare ruandese. Il progetto interagisce con il luogo, rispettandolo, ma sfruttando le risorse disponibili; ogni edificio risulta essere infatti autosufficiente e sostenibile, grazie alla raccolta dell’acqua piovana, la presenza di un impianto fotovoltaico, l’accesso diretto a campi e orti privati e la struttura stessa composta da mattoni prodotti in loco dalla popolazione. Il mattone richiama il calore e le origini della terra ruandese; gli edifici sembrano sorgere dalle colline come monoliti. 197
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– Pianta del piano terra del progetto e pianta del compound organizzato attorno all’ampia corte centrale.
– In basso. Sezione prospettica del compound.
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– Modello del compound. Oltre alla corte centrale ogni abitazione è dotata di ampie terrazze e corti minori più private raddoppiando lo spazio interno all’esterno dell’edificio.
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– Sezione costruttiva del compound che evidenzia l’uso del laterizio cotto come materiale principale per il progetto.
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VERDI COLLINE DEL RUANDA
Giulia Demurtas Viola Volpato
Il processo di trasformazione dell’area di progetto parte dal coinvolgimento delle comunità adiacenti attraverso la conoscenza e la pratica di nuove tecniche costruttive basate sul recupero e il riutilizzo di scarti agricoli. La prima fase costruttiva prevede, a sud, la realizzazione di terrazzamenti coltivati e di magazzini nei quali vengono lavorati gli scarti per la produzione di mattoni di micelio e la realizzazione con quest’ultimi dei primi compound produttivi. A ridosso della strada principale i compound, che inizialmente sono a corte e chiusi all’esterno, si aprono a formare ampie zone aperte coperte dedicate ad attività artigianali e di mercato. A nord, aperti verso il bosco, i compound residenziali aumentano, seguendo la conformazione del territorio, in base all’espansione demografica. 205
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– Alle pagine precedenti. Pianta del piano terra del compound e schema aggregativo del nuovo sviluppo urbano. – Modello e sezione costruttiva del compound che si sviluppa fino alla parte commerciale sul fronte sud, in corrispondenza della principale strada che taglia il lotto.
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TESSERE IL PAESAGGIO
Mattia Azzalin Annachiara Colombari Nicola Rudi
Trovandoci a intervenire nella realtà africana di Kigali in Ruanda, in un’area collinare, abbiamo realizzato un complesso di compound che andasse a relazionarsi con l’ambiente che lo circonda. Un progetto che nasce dal luogo: questo è stato l’obiettivo che ci siamo posti, da qui la disposizione in senso orizzontale dei compound che segue l’andamento del terreno. Un altro tema affrontato è quello della relazione-condivisione sia a livello di vita comunitaria sia a livello progettuale, questo ultimo attuato con terrazzamenti in cui si trovano, a diverse quote, orti comuni e collegamenti interni che confluiscono in piccole piazze. 211
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– Planivolumetrico del nuovo insediamento. I compound sono organizzati a coppie lungo file che seguono l’andamento delle curve di livello. – Modello costruttivo dell’edificio realizzato in muratura portante con copertura in legno e acciaio. Si notino le ampie aperture schermate con scuri rotanti in legno che consentono la ventilazione trasversale degli ambienti.
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– Modello e sezione del compound che illustrano la complessa articolazione dell’attacco a terra che sfrutta i dislivelli per dare forma a terrazzamenti coltivabili.
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settembre 2020 PRESS UP Roma
LABORATORIO AFRICA NUOVI PAESAGGI URBANI Il Laboratorio Integrato in Architettura Sostenibile 2019-2020 ha voluto assumersi una responsabilità diretta rispetto ad alcuni grandi temi che la nostra epoca pone, dalla crisi climatica – innalzamento del livello del mare, riscaldamento del pianeta, migrazioni di massa – alla sostenibilità ambientale e sociale – riciclo, risparmio energetico, nuova povertà e disuguaglianze, nuova dimensione urbana – tutti temi che acquistano in Africa un valore paradigmatico. Da qui la particolare natura di una didattica che sperimenta, e sente, la necessità di fornire chiavi di lettura e conoscenze inusuali, nuovi strumenti critici e operativi nell’ampliare gli orizzonti verso “quei territori altri” a cui il nostro futuro è già in realtà così strettamente legato.
9 788832 050561 Anteferma Edizioni
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