OFFICINA* 37

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ISSN 2532-1218

n. 37, aprile-maggio-giugno 2022

Mediterraneo Foriero


Tavli Forse il modello escatologico è un paradigma dovuto alla nostra limitata percezione, la quale porta inevitabilmente al superamento di modelli di vita, costumi, spazi, oggetti che per tanto tempo hanno accompagnato le società. Diversamente, una visione di un tempo ciclico, permette di recuperare e reinventare spazi e oggetti con diversa vocazione. In questa ottica il disegno, nella sua astrazione, vuole essere immagine che contiene il passato e preannuncia il futuro in un continuo divenire. Dalla crasi nata dalla stilizzazione dei due ingressi del Mediterraneo, le Colonne d’Ercole e il Bosforo, con lo schema di un gioco (il tavli) conosciuto da millenni dalle civiltà che hanno vissuto in questo mare, sono generate, come per incanto, nuove immagini enigmatiche. Giorgios Papaevangeliou


Mare Plasticum

Stefania Mangini

Che il Mediterraneo abbia sempre ricoperto un ruolo di centralità nella storia dell’Occidente è un fatto noto e documentato da molti secoli. Il suo carattere anticipatore e resiliente ha visto la nascita e il declino di molte civiltà e lo sviluppo di economie sempre più prospere e globalizzate, che hanno fatto del Mediterraneo un elemento di centralità e vantaggio competitivo. Tuttavia, il Mare Nostrum è foriero anche di primati ben meno lusinghieri, che anticipano situazioni globali per nulla rassicuranti. Il Mar Mediterraneo, in quanto bacino chiuso, è infatti l’ecosistema marino più minacciato da una speciale tipologia di rifiuti: le plastiche. Secondo la Commissione europea, oltre l’80% dei rifiuti marini è costituito da plastica che, a causa della sua lenta decomposizione, si accumula nei mari diventando cibo per gli organismi marini che a loro volta introducono tali sostanze nell’alimentazione umana. Ogni anno nel Mediterraneo sono disperse una media di 229.000 tonnellate di plastiche costituite dal 94% di macroplastiche e dal 6% di microplastiche (Boucher e Bilard, 2020, The Mediterranean: Mare plasticum). I livelli di quest’ultime sono particolarmente preoccupanti. Secondo le misurazioni degli ultimi dieci anni condotte dal WWF, nel nostro mare sono dispersi una media di 1,9 milioni di frammenti plastici ogni metro quadro di superficie. Questo significa che il Mediterraneo contiene circa il 7% delle microplastiche globalmente disperse in mare pur rappresentando soltanto l’1% delle acque mondiali. Mantenendo questo trend, entro il 2050 il peso delle plastiche presenti nel mare sarà superiore a quello dei pesci (WWF Italia, 2020). Anche per questi motivi l’azione normativa negli ultimi anni si è molto rafforzata grazie all’approvazione della Direttiva (UE) 2019/904 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente che impone il divieto di produzione di prodotti monouso per i quali esistono alternative, quali posate, piatti, bastoncini cotonati, cannucce, mescolatori per bevande che rappresentano tra i principali rifiuti plastici rinvenuti in mare. Il divieto è esteso anche ai prodotti di plastica oxodegradabile, ossia materie plastiche alle quali vengono aggiunti additivi per accelerarne la frammentazione in frazioni minuscole per effetto della radiazione ultravioletta. Allo stesso tempo la normativa fissa elevati indici di raccolta e riciclo di prodotti plastici quali bottiglie e contenitori che non possono, allo stato attuale, essere eliminati anche incentivando e promuovendo operazioni di sensibilizzazione, come l’iniziativa Plastic Radar di Greenpeace, la cui finalità è quella di segnalare attraverso il social network WhatsApp la presenza di rifiuti in mare, raccogliendoli per poi differenziarli correttamente. Emilio Antoniol


Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato editoriale Letizia Goretti, Stefania Mangini, Rosaria Revellini, Elisa Zatta Comitato scientifico Federica Angelucci, Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, Eduardo Bassolino, MariaAntonia Barucco, Martina Belmonte, Viola Bertini, Giacomo Biagi, Paolo Borin, Alessandra Bosco, Laura Calcagnini, Federico Camerin, Piero Campalani, Fabio Cian, Sara Codarin, Silvio Cristiano, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Paolo Franzo, Jacopo Galli, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Gian Andrea Giacobone, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Beatrice Lerma, Elena Longhin, Filippo Magni, Michele Manigrasso, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Fabiano Micocci, Mickeal Milocco Borlini, Magda Minguzzi, Massimo Mucci, Corinna Nicosia, Maurizia Onori, Valerio Palma, Damiana Paternò, Elisa Pegorin, Laura Pujia, Silvia Santato, Roberto Sega, Gerardo Semprebon, Chiara Scarpitti, Giulia Setti, Francesca Talevi, Oana Tiganea, Ianira Vassallo, Luca Velo, Alberto Verde, Barbara Villa, Paola Zanotto Redazione Martina Belmonte, Paola Careno, Silvia Micali, Arianna Mion, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari, Marta Possiedi, Tommaso Maria Vezzosi Web Emilio Antoniol Progetto grafico Margherita Ferrari

OFFICINA* “Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.37 aprile-maggio-giugno 2022

Mediterraneo Foriero

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Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2022 32,00 € | 4 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08. Hanno collaborato a OFFICINA* 37: Maria Pia Amore, Chiara Andrich, Stefanos Antoniadis, Matteo Benedetti, Angelo Bertolazzi, Roshan Borsato, Francesco Cantini, Paola Careno, Stefano Centenaro, Christina Conti, Gabriella D’Agostino, Carlo Federico dall’Omo, Filippo De Benedetti, Caterina Di Felice, Agnese Di Quirico, Cinzia Didonna, Maria Fierro, Paolo Fortini, Giovanni La Varra, Giovanni Litt, Roberta Lotto, Marco Manfra, Marco Marseglia, Elisa Matteucci, Fabiano Micocci, Andrea Mura, Giorgios Papaevangeliu, Ambra Pecile, Lucia Pierro, Giulia Pistoresi, Enrico Polloni, Grazia Pota, Alessia Sala, Emanuele Salvagno, Paola Scala, Marco Scarpinato, Alessio Tanzini, Margherita Vacca, Elisa Zatta.


Mediterraneo Foriero

Mediterranean Forerunner n•37•apr•giu•2022 Tavli Giorgios Papaevangeliou

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INTRODUZIONE

Niente di nuovo sotto la vernice Nothing New Under the Paint Stefanos Antoniadis

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Resourcefulness mediterranea Mediterranean Resourcefulness Elisa Zatta

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ESPLORARE Margherita Ferrari

PORTFOLIO

Mediterraneo stadia di memoria Mediterranean Stadia of Memory

18 24 30 68 70

Roberta Lotto, Emanuele Salvagno

58 60 64

IL LIBRO

Capire la natura Understanding Nature Paolo Fortini L’ARCHITETTO

Un arcipelago di giardini An Archipelago of Gardens Marco Scarpinato, Lucia Pierro

Industria e sostenibilità Industry and Sustainability Ambra Pecile, Christina Conti, Giovanni La Varra

Vuoti a rendere Returnable Containers Angelo Bertolazzi, Fabiano Micocci

Design(-ing) New Lives Marco Manfra, Agnese Di Quirico

Design complexus

74 78

Ritorno a un sincretismo foriero Return to a Harbinger Syncretism Carlo Federico dall’Omo, Giovanni Litt

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Verso una forma Towards a Form Matteo Benedetti

Marco Marseglia, Francesco Cantini, Margherita Vacca, Elisa Matteucci, Alessio Tanzini, Giulia Pistoresi

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INFONDO

I CORTI

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SOUVENIR

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IN PRODUZIONE

Il mare ritrovato The Rediscovered Sea Caterina Di Felice

Antica Medma, una città attuale Ancient Medma, a Contemporary City Cinzia Didonna

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Imparare dall’informale Learning from Informal Paola Scala, Maria Pia Amore, Grazia Pota, Maria Fierro L’IMMERSIONE

Lavorazioni, prodotti e rifiuti: upcycle approach in Murano Processes, Products and Waste: Upcycle Approach in Murano Paola Careno, Stefano Centenaro, Filippo De Benedetti

a cura di Stefania Mangini

La casetta dei mugnai The Miller’s Small House Letizia Goretti

Innovazione, economia circolare e sostenibilità Innovation, Circular Economy and Sustainability Roshan Borsato, Enrico Polloni

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Archetipi contemporanei Contemporary Archetypes Alessia Sala

Traffici marittimi

90 112

AL MICROFONO

Umane visioni Human Visions con Chiara Andrich, Andrea Mura, Gabriella D’Agostino, a cura di Arianna Mion CELLULOSA

Il Mediterraneo è... a cura dei Librai della Marco Polo (S)COMPOSIZIONE

Per colpa di chi? Emilio Antoniol


Musei Civici Treviso

Torna a giugno la nuova edizione di Illustri Festival, appuntamento biennale a Vicenza che riunisce talenti dell’illustrazione italiana e giovani emergenti. Ogni edizione del Festival ospita un artista internazionale, e dopo Pablo Lobato (2015), Noma Bar (2017), Malika Favre (2019), le Gallerie d’Italia di Palazzo Leoni Montanari quest’anno accoglieranno le opere di Christoph Niemann. La mostra sarà una retrospettiva sulla sua carriera, ripercorrendo opere pubblicate e non. Dai progetti personali come i Sunday Sketches ai suoi libri, dalle sue riflessioni sulla creatività ai suoi libri, fino al lavoro fatto per i magazine – come le cover firmate per The New Yorker, National Geographic e The New York Times Magazine nel corso degli anni. Il festival prosegue nella Basilica Palladiana, che ospiterà illustratori provenienti da tutta Italia, e nel resto della città con un programma “off” di eventi e iniziate.

Anselm Kiefer Venezia, Palazzo Ducale, photo Georges Poncet

Illustri Festival 17-19 giugno 2022 Vicenza illustrifestival.org

Canova, gloria trevigiana. Dalla bellezza classica all’annuncio romantico 14 maggio – 25 settembre 2022 Museo Bailo, Treviso museicivicitreviso.it

“Nato trevigiano”, a Possagno, è a Treviso che nacque il suo mito e la riscoperta critica della sua opera. Già a partire dalla leggenda del bambino prodigio che, in casa Falier ad Asolo, inventò su due piedi una scultura a forma di leone da un pezzo di burro per sopperire a una mancanza durante un banchetto, messa in circolo a Treviso nel 1803. Dalla prima grande mostra monografica dedicata a Canova, di Luigi Coletti nel 1957, prende le mosse la mostra Canova gloria trevigiana: dalla bellezza classica all’annuncio romantico, a cura di Fabrizio Malachin, Giuseppe Pavanello e Nico Stringa. Il Museo Bailo accoglie opere scultoree che per la prima volta vengono esposte sui loro basamenti originali, restaurati per l’occasione. E sempre per la prima volta, la mostra propone il gesso del cavallo che Canova utilizzò per realizzare il gruppo Il Teseo in lotta con il centauro (Vienna), e per il quale studiò un cavallo in fin di vita. Opere e gruppi scultorei, ritratti, incisioni, celebrazioni canoviane e fotografia: un percorso ricco di oltre di oltre 150 opere, sviluppato in 11 sezioni, volto a celebrare il bicentenario della scomparsa dello scultore.

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Anselm Kiefer. Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo) 26 marzo – 29 ottobre 2022 Palazzo Ducale, Venezia palazzoducale.visitmuve.it

“A volte succede che ci sia una convergenza tra momenti passati e presenti, e quando questi si incontrano si sperimenta qualcosa di simile all’immobilità nell’incavo dell’onda che sta per infrangersi. Avendo origine nel passato ma appartenendo in fondo a qualcosa di più di esso, questi momenti fanno parte tanto del presente quanto del passato, e ciò che generano è importantissimo” (Kiefer). Il ciclo di dipinti creati appositamente per Palazzo Ducale nel corso del 2020 e 2021, si dispiega nella Sala dello Scrutinio, in serrato confronto con le tele monumentali del soffitto e con la valenza eroica dell’intero ciclo decorativo del Palazzo, a sottolineare il ruolo dell’arte contemporanea nella riflessione su temi universali, che trascende Venezia per aprirsi a visioni filosofiche attuali. I riferimenti filosofici e letterari sono sempre stati centrali per la comprensione del lavoro di Anselm Kiefer. La mostra prende il titolo dalle parole del filosofo veneto Andrea Emo (1901-1983), i cui scritti Kiefer ha incontrato per la prima volta sei anni fa e oggi ci svela e racconta attraverso la sua arte immersiva.

ESPLORARE


MEDITERRANEO FORIERO A cura di Stefanos Antoniadis. Contributi di Matteo Benedetti, Angelo Bertolazzi, Francesco Cantini, Carlo Federico dall’Omo, Agnese Di Quirico, Giovanni Litt, Marco Manfra, Marco Marseglia, Elisa Matteucci, Fabiano Micocci, Giulia Pistoresi, Alessio Tanzini, Margherita Vacca, Elisa Zatta.


Stefanos Antoniadis Professore a contratto, ICEA, Università degli Studi di Padova. stefanos.antoniadis@unipd.it

Niente di nuovo sotto la vernice

Nothing New Under the Paint

Voglio pensare che il privilegio di scrivere l’introduzione per un numero di una rivista autorizzi il distacco, per un momento, dall’osservanza della stesura di un articolo scientifico-compilativo, bordeggiando senza comunque perdere di vista la costa, la terra ferma, sulla quale è possibile edificare ragionamenti che per il conforto di molti si accosterebbero, così, alle scienze dure, in una navigazione anomala ed evocativa fatta di reminiscenze, osservazioni e intuizioni comunque strutturanti una rotta. Del Mediterraneo è stata detta ogni cosa. In seno ad esso, come primo sale, hanno preso vita narrazioni, congetture e miti che si ripetono e trasformano all’infinito in un fiume carsico che continua a scorrere: un magma che talvolta esce allo scoperto, si cristallizza in tutto e nel suo contrario. Il Mediterraneo è il luogo in grado di mettere pericolosamente in crisi la formula forse più cara agli architetti, less is more, in favore di quel sovrabbondante accatastamento di elementi tangibili e intangibili che rende possibile ogni cosa. Nella storia, osservatori sufficientemente distanti da esso hanno attinto e generato visioni lontane dalla realtà: sensazionali equivoci durati secoli che hanno funzionato molto meglio come speculazioni intellettive e invenzioni progettuali che come analisi del reame meridiano. Ma nemmeno per chi può considerarsi in maggior misura vicino al pensiero mediterraneo, per ragioni geografico-culturali, risulta agevole leggerne lo schema e la parabola: immersi nella corrente che attraversa questo mare, non viviamo un adeguato distanziamento storico né emotivo. Tesi tra Alfeo e Aretusa, in un profluvio inventato che manipola fonti e obiettivi, possiamo tuttalpiù azzardare cronache intersoggettive alla maniera dei portolani: carte nautiche ibride, dalla componente misurabile e narrativa, utili per riconoscere un ambito, per non smarrire una rotta, per identificare un traguardo o, in caso di pericolo, quantomeno rientrare in un porto sicuro. Lungo il bordi di questa misurabile ma difficilmente trattabile condizione, mito e passato, componenti assai ingombranti quando si parla di Mediterraneo, prendono spesso il sopravvento in favore di una marcata e confortante celebrazione di un’identità dell’essere piuttosto che del fare. In viaggio tra l’Italia e la Grecia, da bambino restavo ammaliato dalle navi su cui m’imbarcavo: com’era possibile che l’uomo mettesse assieme materiali, tecniche, aspirazioni e costruisse quelle macchine di metallo candido, accecanti

I want to think that the privilege of writing the introduction for a journal issue authorizes the detachment, for a moment, from the compilation of scientific-structured paper, skirting without losing sight of the coast, the mainland, on which it is possible to build arguments that, for the comfort of the most, would thus approach the hard science, in an anomalous and evocative navigation made up of reminiscences, observations and intuitions, however structuring a route. Everything has been said about the Mediterranean. Within it, as first salt, narratives, conjectures and myths have come to life, repeated and infinitely transformed into a karst river that continues to flow: a magma that sometimes springs out, crystallizes in everything and its opposite. The Mediterranean is the place capable of dangerously undermining the “less is more” statement, beloved to the architects, in favor of that overabundant stacking of tangible and intangible elements that makes everything possible. In history observers sufficiently distant from it have drawn and generated visions far from reality: sensational misunderstandings spanning centuries that worked much better as intellectual speculations and design inventions, than as analysis of the meridian realm. Even for those who can consider themselves closer to Mediterranean thought, for geographical-cultural reasons, it’s not easy to read its scheme and trend: immersed in the sea current that crosses this sea, we do not experience an adequate historical or emotional distance. In tension between Alpheus and Arethusa, in an invented flood that manipulates sources and arrival points, we can at best risk inter-subjective chronicles in the manner of pilot books: hybrid nautical charts, with a measurable and narrative component, useful for recognizing an area, not to lose a route, to identify a destination or, in case of danger, at least return to a safe harbor. Along the edges of this measurable but difficult condition, myth and past, very cumbersome components dealing with the Mediterranean, often take over in favor of a marked and comforting celebration of an identity of being rather than doing. Traveling between Italy and Greece I was fascinated as a child by the ships I embarked on: how was it possible that mankind could combine materials, techniques, aspirations and build those white steel machines, blinding under the sun and dreaming of the night with their lights? I loved looking at

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MEDITERRANEO FORIERO


Antoniadis, 2020


sotto il sole e sognanti la notte con le loro luci? Amavo guardare dal ponte, attraverso i correnti orizzontali dei parapetti, le luci della costa, quasi sempre osservabili, solcando bracci di mare misurabili con lo sguardo e confortevolmente omologhi. Le navi avevano nomi mitologici, di antichi toponimi preclassici ed eroi per lo più minoici – ancora una volta la supremazia del passato – ma nascondevano una natura assai diversa: altri enigmatici lemmi, in alfabeti lontani, si potevano scorgere su boccaporti o sotto lo smalto bianco, leggibili in rilievo. Che choc apprendere sul campo, e da rivelazioni riservate, che quelle stesse navi in apparenza così ineluttabilmente mediterranee e nuove, non erano altro che traghetti molto più vecchi, fatti arrivare dal Sol Levante, trasformati da carpentieri di modesti cantieri della baia di Salamina. Ecco l’inganno mediterraneo! Ancora il fiume carsico della trasformazione continua e dissimulata. Ancora una volta il rinominare una medesima entità (una nave, in questo caso, in luogo di un dio o di un eroe) preesistente, prelevata altrove, trasformata. Ripensandoci, a bordo di quelle navi un bambino viveva, in piccolo, lo stesso trauma da imprevista evidenza della policromia dei reperti greci quando nell’Ottocento gli archeologi studiarono sistematicamente le testimonianze dell’antichità. Allo stesso tempo questi riscontri e ricordi d’infanzia rilevavano già esperienze di up-cycle e circular economy su vasta scala (parliamo delle principali flotte commerciali del Mediterraneo). È guardando a questa attitudine che OFFICINA* 37 ha raccolto contributi in grado di muovere la barra della ricerca da una rotta retrospettiva a una visionarietà prospettiva, per descrivere la spiccata contemporaneità rigenerativa di un Mediterraneo foriero. All’inizio di questo terzo millennio – ma già dai decenni precedenti – è possibile decifrare tra le pieghe di storie e geografie mediterranee una certa anticipazione di paradigmi che solo in seguito vengono riconosciuti, codificati e, in qualche modo, persino brandizzati come inediti. Pensare a pratiche circolari non significa, però, solo intervenire in ambito economico e di produzione. Il paradigma presuppone l’affinamento di abilità di riuso che trascende la produzione tangibile e sconfina nell’ambito delle idee. Questo numero è occasione per fare il punto su tali speculazioni di riuso e trasformazione, anche apparentemente meno eclatanti e sfuggite all’occhio assuefatto da un certo tipo di celebrazione, nascoste nell’inesauribile fiume sotterraneo che continua a scorrere e a trasfigurare ogni cosa.*

the lights of the coast from the deck, through the horizontal currents of the protections, almost always observable, crossing sea arms that can be measured with the eye and comfortably homologous. The ferries had mythological names, of ancient pre-classical toponyms and mostly Minoan heroes – once again the supremacy of the past – but they hid a very different origin: other enigmatic letterings, in distant alphabets, were observable on hatches or under the white paint, legible in relief. What a shock to learn on board, and from confidential revelations, that those same ships, apparently so ineluctably Mediterranean and brand new, were nothing more than much older ferries, brought there from the Rising Sun, transformed by carpenters of modest shipyards in the Bay of Salamis. There it is the Mediterranean deception! Still the karst river of continuous and disguised transformation. Once again the renaming of the same entity (a vessel, in this case, in the place of a god or a hero) pre-existing, taken elsewhere, transformed. Thinking back, on board those ships a child experienced, in a nutshell, the same trauma from unexpected evidence of the polychromy of the Greek finds when in the nineteenth century archaeologists systematically studied the evidence of antiquity. At the same time, these findings and childhood memories already revealed up-cycling and circular economy practices on a large scale (we are talking about the main commercial fleets in the Mediterranean). It is by looking at this attitude that OFFICINA* 37 has collected papers that move the pace of research from a retrospective route to a visionary perspective, to describe the marked contemporaneity of a premonitory Mediterranean. At the beginning of this third millennium – but already in previous decades – in the folds of Mediterranean history and geography it is possible to decipher a certain anticipation of paradigms that are only later recognized, codified and, in some way, even branded as new. Thinking about circular practices does not only mean, however, only intervening in the economic and production fields. The paradigm presupposes the refinement of reuse skills that transcend tangible production and cross over into the intangible context of the thought. This issue is an opportunity to make a point of reuse speculations, even apparently less striking and far away from the addicted celebration sight, hidden into the inexhaustible underground river that continues to flow and transfigure everything.*

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MEDITERRANEO FORIERO


Bertolazzi, 2017


Elisa Zatta Dottoressa di ricerca in Tecnologia dell’architettura, Università Iuav di Venezia. ezatta@iuav.it

Resourcefulness mediterranea

01. Kastro di Paros, dettaglio | Kastro of Paros, detail. Olaf Tausch, Wikicommons

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MEDITERRANEO FORIERO


Riflessioni sulla continuità di riuso e reimpiego in architettura tra economia materiale e valore culturale ntiche radici di strategie attuali Frammenti, porzioni, discontinuità di materia o tessitura: attraverso dissonanze evidenti o quasi impercettibili, gli insediamenti mediterranei serbano, impresse sulle superfici, tracce del proprio passato. Stratificazioni che, fin dall’Età antica, hanno fatto uso di “ciò che c’era già”. Se le strategie volte all’economia di materiali ed energia caratterizzano tutte le tradizioni costruttive preindustriali, nel Mediterraneo esse riflettono, sedimentate, le molteplici civiltà che nei millenni lo hanno attraversato. In tal senso, “ciò che c’era già” ha assunto forme diverse. Sono innumerevoli gli organismi edilizi destinati a nuova funzione per mezzo di progressive integrazioni e sottrazioni, processi di riuso dal differente grado di alterazione fisica e spaziale di un costruito in cui fosse individuato un valore di risorsa (Di Battista et al., 1995). Tale valore, se riconosciuto in singoli elementi edilizi, rinvenuti in loco o ubicati in città in declino al di là del Mare Nostrum, ne ha prodotto il recupero e il seguente reimpiego con analoga o difforme funzione (img. 03). Individuando delle potenzialità nelle risorse materiali preformate (Ghyoot et al., 2018), l’ingegno umano ha così dato forma a una tabula scripta (Jencks e Silver, 2013) di segni e culture, ma anche di significati (Manzini, 1990; Esch, 1998). L’architettura mediterranea del passato rappresenta dunque un esempio ante litteram di applicazione dei principi circolari, dalle strategie più efficaci nel conservare risorse materiali come il riuso adattivo1 alla preservazione degli elementi mediante il reimpiego. Seppur semanticamente quasi equivalenti nella lingua italiana, in architettura i termini “riuso” e “reimpiego” hanno accezioni diverse. Il primo descrive il processo in cui un organismo edilizio viene dotato di nuova e compatibile destinazione d’uso (Di Battista et al., 1995), il secondo il caso in cui un singolo elemento architettonico sia recuperato da un edificio e utilizzato in una differente costruzione, in continuità con la funzione che rivestiva in precedenza o meno (Esch, 1998).

Mediterranean Resourcefulness The Mediterranean’s own history, product of a cultural melting pot, lies as a sedimentation on the buildings’ surfaces. Architectural complexes and elements, which in the past were considered material resources and subject to reuse processes, can nowadays be interpreted as results of an unintentional application of circular principles fostering a comprehensive sustainability. Is it possible to recognize the same potential in contemporary design approaches? The strategies focused on resource efficiency could represent, for the Mediterranean architecture, solid roots to draw upon.* Il Mediterraneo, crocevia di culture, vede sedimentata la propria storia sulle superfici del costruito. Organismi edilizi ed elementi architettonici, nel passato risorse materiali oggetto di riuso, consentono oggi una lettura di tali trasformazioni quali esito di una inconsapevole applicazione dei principi circolari capace di promuovere una sostenibilità trasversale. È possibile riconoscere negli approcci progettuali contemporanei il medesimo potenziale? Le strategie volte all’efficienza delle risorse potrebbero rappresentare, per l’architettura mediterranea, radici consolidate da cui attingere.*

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02. Palazzo di Diocleziano a Spalato, 2019, dettaglio | Diocletian’s Palace in Split, 2019, detail. Elisa Zatta

Rispetto ad altri contesti geografici, il Mediterraneo ha visto un ricorso sistematico a tali pratiche, la cui capacità di veicolare cultura materiale e valore simbolico ne evidenzia il potenziale sostenibile in termini non solo ambientali, ma anche in chiave trasversale a più domini. Tale interpretazione è in linea con le Dichiarazioni di Leeuwarden e di Davos (davosdeclaration2018. ch), le quali mettono esplicitamente in relazione il riuso del patrimonio edilizio con lo sviluppo di pratiche virtuose da un punto di vista culturale, sociale, ambientale ed economico, legando la Baukultur – ovvero la “cultura della costruzione di qualità” – a un approccio adattivo al costruito, “radicato nella cultura, che rafforzi attivamente la coesione sociale, garantisca la sostenibilità dell’ambiente”2. Una prospettiva che la recente iniziativa Renovation Wave estende allo stock edilizio europeo intero, “espressione della diversità culturale e della storia del nostro con-

tinente [...] unico nella sua eterogeneità” (Commissione Europea, 2020). Il concetto di costruito come risorsa è essenziale nell’approccio circolare in architettura, strettamente connesso ai temi di ciclo di vita e impatti incorporati3 (Politi e Antonini, 2017). In Europa, le attività di costruzione e demolizione hanno prodotto nel 2018 più di 370 tonnellate di rifiuti (Eurostat, 2021). Se il tasso medio di recupero di questi materiali si attesta al di sopra del 70%4, esso comprende operazioni poco vantaggiose in ottica ambientale, come il recupero di energia o il riempimento, e percentuali di conferimento in discarica ancora rilevanti (Wahlström et al., 2020). In tale scenario, le strategie mediterranee del passato dimostrano la capacità di suggerire soluzioni efficaci per la gestione del costruito del presente, ma anche un potenziale di sostenibilità trasversale che va oltre l’accezione di gestione durevole o Nachhaltigkei5.

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MEDITERRANEO FORIERO


03. Chiesa di San Donato a Zara, 2019, dettaglio | Church of San Donatus in Zadar, 2019, detail. Elisa Zatta

Obbiettivi e metodo Obbiettivo del contributo è analizzare la continuità delle pratiche costruttive circolari mediterranee, al fine di ricercare nella dimensione contemporanea il medesimo potenziale che emerge dal passato. A partire dalla letteratura sul tema, il saggio descrive le strategie di riuso o reimpiego più diffuse dall’Età antica, individuando tre indirizzi principali, ed esamina la fortuna di questi approcci nella contemporaneità ricorrendo ad alcuni esempi. La scelta dei casi studio ricade su interventi di piccola scala, lontani da architetture di consolidata importanza6, ed esula da interventi sul patrimonio monumentale o di matrice strettamente conservativa. Tale perimetro della ricerca, in virtù del concetto di “architettura diffusa” quale prodotto della cultura materiale e “terreno nutritizio dell’architettura monumentale” (Nardi, 1994), si dimostra infatti quello più adeguato in cui indagare il persistere delle strategie di economia materiale, nonché i loro esiti in termini progettuali. La riflessione critica condotta descrive questi particolari aspetti dell’architettura “circolare” del Mediterraneo allo scopo di ampliare il concetto di “valore di risorsa” del costruito, adottando la duplice prospettiva che definisce tali pratiche “una costante del fare umano, diversamente motivata nei differenti contesti storici ma pur sempre presente e, per molti versi, ineludibile” e, al contempo, di “auspicabile [...] ecologia industriale” (Carbonara, 2008).

sa [già] costruita”, rappresenta un connotato integrante dell’ambiente costruito mediterraneo per l’implementazione del quale, sin dall’Età antica, è possibile individuare due macro-indirizzi. Nel primo di questi, il riuso si esplicita attraverso l’addizione di nuove tracce su tracce precedenti (Gregotti, 1996), consentendo una lettura stratigrafica. Il sovrapporsi di linguaggi architettonici contraddistingue, tra gli altri, molti edifici pagani divenuti luoghi di culto cristiani – dal Tempio di Atena a Siracusa alla Mezquita di Cordoba. Il secondo tipo di approccio trasforma l’organismo edilizio per mezzo di un lento e progressivo infill di nuovi

Il riuso degli organismi edilizi nel tempo è un connotato integrante dell’ambiente costruito mediterraneo

Il valore culturale nell’economia materiale Nell’ottica dell’edificio come palinsesto (Machado, 1976), sul quale riuso e reimpiego agiscono per giustapposizione e co-presenza di linguaggi, le pratiche circolari si fanno portatrici di contenuto semantico impiegando strategie diverse. Il riuso degli organismi edilizi nel tempo, processo di riappropriazione dei fabbricati esistenti in qualità di “risor-

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volumi estranei all’esistente. Ciò ha interessato, nei secoli, molti manufatti civili, tra cui gli anfiteatri di Marcello, di Arles e di Lucca, e alcune cinte difensive urbane dell’Europa meridionale, tra le quali sono caso emblematico le mura del Palazzo di Diocleziano a Spalato (img. 02). I macro-indirizzi descritti delineano due differenti processi di riuso adattivo: generatori, i primi, di una sovrapposizione stratigrafica e operanti, i secondi, attraverso nuovi inserimenti volumetrici. Il riemergere di elementi di reimpiego nelle costruzioni del passato, “frammenti in cui la finalità è comunque riconoscibile” (Gregotti, 2002), è analogamente riscontrabile in tutto il bacino del Mediterraneo (img. 01). I processi ascrivibili al macro-indirizzo del reimpiego acquisiscono sfumature diversificate in base agli intenti. Le caratteristiche formali e il pregio dei componenti ne hanno spesso motivato l’integrazione in altri edifici: ciò è avvenuto in celebri manufatti come la casa detta dei Crescenzi a Roma o la bizantina Piccola Metropoli di Atene (Kiilerich, 2005)7. In altri contesti, la scelta di reimpiegare un elemento architettonico è

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04. Casa en Miraflores, Fuertes-Penedo Arquitectos, 2018. Héctor Santos-Diéz

stata dettata da vere e proprie strategie politiche, come nel caso della Basilica di San Marco a Venezia e dell’Arco di Costantino a Roma (De Lachenal, 1995), o è divenuta strumento comunicativo, come nel riutilizzo di iscrizioni lapidee in Asia Minore (Pallis, 2019; Stiz, 2019). Forme della continuità: riflessioni Indagando i caratteri del progetto dell’esistente nel Mediterraneo della contemporaneità, è possibile riconoscere come molti interventi progettuali sull’“architettura diffusa” siano riconducibili ai tre macro-indirizzi riscontrati nel passato. Le pratiche di riuso adattivo spesso adottano un linguaggio che è teso a formulare un rapporto con la preesistenza attraverso un contrasto materico e formale: processi il cui esito, come nel passato, prende le forme di una sovrapposizione stratigrafica o vede la marcata introduzione di

nell’alternanza di porzioni intonacate di Ferreries 16 (2009). Quando i progettisti adottano strategie di infill, la differenziazione geometrica e materiale tra inserimento e preesistenza appare ancor più marcata. Il volume introdotto nel sedime esistente si dimostra spesso estraneo in termini di linguaggio, ma coerente a livello di sagoma: tale ricercato contrasto viene dichiarato dalle tecniche costruttive adottate per il nuovo, dall’uso di proporzioni volutamente estranee, dalle texture impiegate. Sono riconducibili a questo approccio la Casa en Miraflores di Fuertes-Penedo (2018) (img. 04) e la Box House di Tiago Sousa a Romigarães (2021), che inseriscono nel sedime esistente, lapideo in entrambi i casi, involucri rispettivamente in calcestruzzo e in laterizio a vista. In alcuni casi i progettisti scelgono un approccio intermedio tra i due descritti, nel quale stratigrafia e infill si fondono, come la giustapposizione di un sistema costruttivo diverso, ma in continuità con la superficie storica, attuata da Sergio Sebastián Franco nell’Eremo di San Juan de Ruesta (2021) (img. 06). Al contrario delle azioni volte a trasformare l’intero fabbricato, le strategie di riuso di elementi edilizi nel Mediterraneo contemporaneo presentano un carattere sporadico. Esulando da interventi temporanei e di riqualificazione degli spazi pubblici, spesso forme partecipative Do It Yourself (DIY) che prevedono il reimpiego di componenti non necessariamente provenienti dalle costruzioni8, tale strategia appare ancora relegata a forme di artigianalità, mentre ricerca e sperimentazione sul tema sono più diffusi nel nord Europa. Seppur di entità contenuta, la progettualità del reimpiego nell’architettura mediterranea dimostra di individuare non solo un “valore di risorsa” formale nell’elemento di riuso, ma anche la piena consapevolezza del significato culturale proprio di tale strategia. Ne è esempio l’attento recupero delle tegole in laterizio di primo Novecento attuato dall’architetto Arturo Franco per la riqualificazione

La progettualità del reimpiego dimostra piena consapevolezza del significato culturale di tale strategia nuove volumetrie. Nel primo caso, le superfici esterne dei fabbricati divengono la sede in cui sedimentare tracce di una nuova fase costruttiva che si propone come la più recente dell’edificio. Il dialogo con la preesistenza dimostra particolare efficacia ove non siano alterate le tessiture originarie del fabbricato e vengano impiegati materiali e linguaggi dichiaratamente estranei negli elementi introdotti, come avviene per forometrie e serramenti del progetto FPA di Ciclostile Architettura (2017) (img. 05). In altri interventi, la nuova stratificazione è esplicitata da cromie e matericità che differenziano i trattamenti delle superfici dai layer preesistenti o introducono geometrie inedite nel disegno delle facciate, approccio impiegato da Cubus Arquitectura

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05. Francesca Pasquali Studio, Facciata nord, vista degli esterni. Bologna, Italy / Team: Ciclostile Architettura, EN7 & Ing M. Marchesini | Francesca Pasquali Studio, North Side, exterior view. Bologna, Italy / Team: Ciclostile Architettura, EN7 & Ing M. Marchesini. ©Fabio Mantovani

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06. San Juan de Ruesta Hermitage, Sergio Sebastián Franco, dettaglio della facciata, 2021 | San Juan de Ruesta Hermitage, Sergio Sebastián Franco, façade detail, 2021. Iñaki Bergera

del magazzino 8B Nave a Madrid (2009), riutilizzate nella costruzione delle partizioni interne del medesimo fabbricato (img. 07). Medesima logica segue il reimpiego dei rivestimenti ceramici originari ritrovati nel sito di cantiere di Casa Collage a Girona (2009), realizzato dallo studio Bosch Capdeferro e volto a “stabilire una certa relazione con il passato, o con i passati che si sono accumulati”. Si tratta di circostanze in cui “ciò che c’era già” torna a costituire un layer di intervento, ma attraverso una riproposizione inedita. Potenziale circolare intrinseco Dalla lettura fornita dello stato dell’arte di riuso e reimpiego nell’architettura mediterranea emergono due principali esiti. Se l’attitudine al riuso adattivo denota continuità nella pratica progettuale, tale considerazione può essere estesa ai macro-indirizzi che essa assume dall’Età antica: l’approccio “stratigrafico” e quello di infill. Tali processi, come nel

passato, si avvalgono della giustapposizione di linguaggi differenti quale elemento essenziale nella trasformazione dell’organismo edilizio. Al contrario, i meno diffusi processi di reimpiego appaiono legati a una tradizione conservativa poiché privilegiano gli elementi connessi alla storia della preesistenza, quando potrebbero – come in altri contesti geografici – adottare maggior flessibilità nell’approvvigionamento senza per questo rinunciare a perseguire il valore culturale proprio di tali strategie. In tal senso, le pratiche di reimpiego in area mediterranea non si avvalgono al giorno d’oggi della libertà formale e semantica che le contraddistingueva nell’antichità, la quale rendeva riconoscibili l’originale e la sua rielaborazione9 come distinti frammenti di un più ampio linguaggio (Benjamin, 2004). La pratica progettuale mediterranea attuale dimostra, nell’agire sulle risorse costruite dell’“architettura diffusa”, una forte propensione alla circolarità. Tale valorizzazione, sostenibile sotto il profilo ambientale e culturale, nel caso

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07. 8B Nave, Arturo Franco, dettaglio partizioni interne | 8B Nave, Arturo Franco, internal partitions detail. Carlos Fernandéz Piñar

del reimpiego di elementi si dimostra ancora legata a un approccio strettamente conservativo, che limita il potenziale di questi processi in termini semantici, culturali ed ecologici. Ove le caratteristiche della preesistenza lo consentano, l’architettura del Mediterraneo può ri-apprendere dalle proprie radici e comunicare attraverso singoli frammenti una narrazione composita, includendo nel progetto dell’esistente racconti di un passato “altrui” per farlo divenire proprio.* NOTE 1 – Conservando le porzioni massive dell’edificio, tale processo valorizza non solo le risorse materiali a disposizione ma anche l’energia e il carbonio in esse incorporati, i quali sono prodotti da tutte le attività connesse a estrazione, lavorazione e messa in opera di prodotti e componenti edilizi, fino alla loro dismissione. 2 – La Dichiarazione di Davos (2018) sostiene infatti che la Baukultur, si esprime “attraverso una progettazione ponderata e concertata di tutte le attività di costruzione e di pianificazione paesaggistica che non danno la priorità al profitto economico a breve termine, ma ai valori culturali” e che “non risponde dunque soltanto a esigenze funzionali, tecniche ed economiche”. 3 – Energia e carbonio incorporati rappresentano impatti ambientali “nascosti” perché non direttamente percepibili – contrariamente a consumi ed emissioni della fase operazionale. 4 – Raggiungendo così l’obbiettivo prefissato dalla 2008/98/CE, attualmente in fase di riformulazione. 5 – Il primo uso del termine “sostenibilità” risale al trattato Sylvicultura Oeconomica (1713) nel quale Von Carlowitz illustra un modello di gestione forestale che permettesse l’uso costante e duraturo delle risorse, impiegando, appunto, il termine Nachhaltigkeit. 6 – Non sono dunque presi in esame celebri interventi come quelli di Scarpa a Castelvecchio, Verona, o di De Carlo al Monastero Benedettino di Catania, né progetti di grande scala come il Caixaforum di Herzog e De Meuron a Madrid o il Neues Museum di Chipperfield a Berlino. 7 – Nota anche come Aghios Eleutherios o Panagia Gorgoepikoos. 8 – Si veda l’ormai pluridecennale operato di Recetas Urbanas [ES]. 9 – Sulla base di una lettura semantica di riuso e reimpiego, si propone un parallelo tra il binomio preesistenza-intervento nel progetto dell’esistente e quello originale-traduzione in letteratura, quest’ultimo tratto dal saggio di Benjamin.

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Angelo Bertolazzi Ricercatore universitario, Università degli Studi di Padova. angelo.bertolazzi@unipd.it

Fabiano Micocci Ricercatore, Università della Tessaglia. fmicocci@uth.gr

Vuoti a rendere

01. Natural Paths. Laoura Georgia Gonalaki, Stergios George Tsarouchas, Clio Georgia Chatzaki, Evanthia Kanaraki

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Strategie innovative per il riuso delle strutture alberghiere Returnable Containers In Greece, tourism represents the main economic activity but the impact of mass tourism provoked the abandonment of many hotels. Therefore, it is urgent to find new strategies for the development of touristic infrastructures based on the possibility to reuse what already exists. The paper presents the case-study of the Xenia Hotel of Tsagarada, abandoned since 2000, investigating the possibilities of reusing it through strategies based on a dialogue with the environment, the landscape and the Mediterranean climate. These strategies had been investigated in the workshop Tourism Habitat. The Reuse of the Abandoned Xenia Hotel in Tsagarada, Pelion, whose results will be presented here.* In Grecia il turismo costituisce l’attività economica principale, ma il turismo di massa ha determinato il progressivo abbandono di molte strutture alberghiere. Sembra dunque necessario individuare nuove strategie di sviluppo per gli insediamenti turistici basati sul riuso dell’esistente. Il paper presenta il caso dell’hotel Xenia di Tsagarada, in stato di abbandono dal 2000, indagandone la possibilità del suo riuso attraverso strategie progettuali fondate sul dialogo con l’ambiente, il paesaggio e il clima del Mediterraneo. Queste strategie sono state investigate nel workshop Tourism Habitat. The Reuse of the Abandoned Xenia Hotel in Tsagadara, Pelion, del quale verranno presentati i risultati.*

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ntroduzione Nei paesi del Mediterraneo il turismo rappresenta la principale attività economica. Risulta particolarmente esemplare il caso della Grecia, dove nel 2018 il 18% del PIL nazionale è dipeso dagli introiti provenienti dal settore turistico-ricettivo mentre gli edifici destinati a tale attività erano circa 35.260. Data l’estensione del fenomeno, è evidente come l’industria del turismo abbia avuto un impatto dirompente sull’organizzazione spaziale del territorio sfaldando definitivamente quel precario equilibrio tra uomo e natura che ha caratterizzato il Mediterraneo da secoli (Ribeiro, 1968; Braudel, 1987; Horden e Purcell, 2000). A causa della loro elevata impronta ecologica, queste trasformazioni hanno avuto ripercussioni significative non solamente sull’estetica del paesaggio ma anche sugli equilibri produttivi locali, sulla gestione del territorio e sul consumo di suolo. Se è vero, come intuisce il geografo portoghese Orlando Riberio (1968), che l’unicità del Mediterraneo risiede nella sua capacità di resistere al livellamento delle originalità regionali imposto dal mondo moderno, occorrerebbe chiedersi come il turismo globale possa trovare nuovi modelli che sappiano integrarsi con il complesso sistema delle specificità locali della regione. In Grecia, come in altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, la costruzione di strutture per il turismo si è sviluppata in maniera estensiva sin dagli anni ’50 grazie al riconoscimento dei benefici del sole per la salute, alla vasta operazione culturale dello storico francese Fernand Braudel, al riconoscimento dei pregi e dell’onestà della cucina locale e all’istituzionalizzazione del primo Club Med (Gordon, 2003). Ma l’impatto del turismo di massa, sviluppatosi in particolar modo dalla fine degli anni ’90, ha coinciso con la costruzione di molte nuove infrastrutture che hanno contribuito alla trasformazione di ampie porzioni della fascia costiera che fino a quel momento erano rimaste intatte. Questo tipo di sviluppo economico lineare, che richiede

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02. Disegno di progetto | Sketch of the project. Charalambos Sfaellos

la costante produzione di nuovi manufatti per produrre valore, ha provocato il progressivo abbandono di molte strutture esistenti sia perché considerate obsolete, ovvero non in grado di rispondere ai requisiti di comfort attuali, sia perché localizzate in aree geografiche meno attraenti o difficilmente raggiungibili. Di conseguenza, l’inattualità di tali edifici ha determinato la loro difficile re-immisione nel mercato. Tra queste strutture abbandonate vanno segnalati molti dei 39 Hotel Xenia (in particolare quelli di Andros, Iraklio, Paliouri, Kalampaka, Komotini, Tassos, Tsagarada, Vitinia e Ipati), progettati e realizzati dall’Ente Nazionale Greco per il Turismo (EOT) tra il 1950 e il 1968 con la firma di alcuni degli architetti più famosi e dotati del periodo, tra i quali Aris Konstantinidis, Dimitris Pikionis e Filippos Vokos. Il programma Xenia fu pensato al fine di costruire un’alternativa alla vita urbana che potesse avvicinare l’uomo alla natura e alla storia del Paese. In quest’ottica, tali edifici sono particolarmente rilevanti in quanto esempi di un modernismo riletto in chiave vernacolare e dunque capaci di stabilire un dialogo tra modelli internazionali e i caratteri ambientali del luogo (Nicolacopoulos, 2015). Il contributo

Lo Xenia di Tsagarada e il programma dell’Ente Nazionale Greco per il Turismo (EOT) Lo Xenia di Tsagarada, progettato in due fasi tra il 1952 e il 1965 dall’architetto greco Charalambos Sfaellos, che fu anche direttore della Direzione Tecnica dell’EOT dal 1950 al 1958, è un caso esemplare di un’architettura in grado di assorbire sia i caratteri del contesto naturale che delle tradizioni architettoniche locali. L’hotel si trova nel Pilio, una penisola montuosa alle spalle della città di Volos, nella Grecia Centrale, caratterizzata da uno stretto rapporto di vicinanza tra la zona costiera e la catena montuosa, e insediata con piccoli nuclei urbani organizzati come cluster aperti che permettono l’integrazione tra il paesaggio antropizzato e quello naturale. Riferendosi al programma Xenia, Sfaellos afferma che la vulnerabilità del sistema naturale impone forme e soluzioni architettoniche che possano guidare il progetto verso una completa armonizzazione con il luogo, seppur evitando ogni tentazione di romanticismo e falsificazione, peraltro inattuabili in relazione ai requisiti delle strutture alberghiere (Kolonas, 2015). L’hotel, che si presenta come una tipologia a “C”, risulta infatti volumetricamente integrato con il rado contesto urbano mentre non sono stati previsti né interventi architettonici né piantumazioni supplementari nelle aree circostanti al fine di valorizzare lo stato originale dei luoghi. Questa attenzione per il paesaggio naturale si sposa con una precisa rilettura dell’architettura vernacolare del Pilio che, assecondando i caratteri della casa tradizionale balcanica, si presenta composta di volumi stereometrici sovrapposti dei quali il corpo di fabbrica principale è realizzato in pietra mentre i corpi aggettanti dei piani superiori in intonaco e legno. Esulando dagli stereotipi del formalismo mediterraneo, l’architettura tradizionale del Pilio palesa la varietà e la ricchezza di forme e tradizioni che si sono raccolte nel tempo intorno al bacino.

L’unicità del Mediterraneo risiede nella sua capacità di resistere al livellamento delle originalità regionali proposto intende indagare lo Xenia di Tsagarada, che si trova in stato di abbandono dal 2000, come pretesto per ipotizzare nuove forme di insediamento temporaneo alternative all’omologazione e all’anonimato del turismo di massa attraverso il riadattamento dell’edificio al contesto specifico di un paese del Mediterraneo, dove gli aspetti di fattibilità tecnica ed economica sono necessariamente legati a quelli ambientali e culturali.

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03. Lo Xenia di Tsagarada oggi | The Xenia of Tsagarada today. Soumela Makanika

La rilettura delle espressioni anonime e vernacolari operata da Sfaellos nello Xenia prosegue il programma dell’architettura neo-ellenica iniziato da Dimitris Pikionis, suo insegnante e maestro, che individuava nella ricerca delle origini un approccio primitivo alla costruzione, esemplificato nella tipologia della capanna rurale come espressione del bisogno umano di riparo. I valori essenziali della vita quotidiana promossi dal progetto del Moderno sono dunque declinati nel contesto culturale della Grecia sotto forma di assorbimento delle tecniche costruttive e degli aspetti formali dell’architettura tradizionale in soluzioni architettoniche assolutamente originali (Theocharopoulou, 2010). Così, l’hotel di Tsagarada, nel quale si rintracciano elementi costruttivi contemporanei (ampie superfici vetrate, vetrocemento e cemento armato), ricorda forme d’abitare antecedenti allo sviluppo del turismo.

L’hotel, rimasto in funzione fino al 2000, è tuttora di proprietà pubblica e, nonostante il deperimento delle finiture interne, mantiene intatte le caratteristiche formali e architettoniche originali. È interessante notare come, nonostante il corrente stato di disuso, il ciclo di vita dell’edificio non si sia interrotto. Infatti, il manufatto continua a funzionare

Immaginare nuove modalità di abitazione temporanea legate alla faticosa conquista della terra e alla sobrietà

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come riparo in quanto è oggetto di varie forme di appropriazioni informali (graffiti) e di occupazioni temporanee (pernottamenti e camping) in un contesto in cui la vegetazione, rigogliosa e selvaggia, dichiara veementemente la simbiosi tra natura e rovine.

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04. Xenistis. Eleni Katsiampi, Niki-Anna Lefaki, Markella Metheniti, Maria Nikolopoulou, Athanasia Zioga

Dunque, lo Xenia di Tsagarada, sin dalla sua concezione secondo gli ideali dell’architettura neo-ellenica e seguendo i presupposti del programma promosso dall’EOT negli anni ’50 fino al suo corrente stato di abbandono, individua uno dei temi fondamentali dell’abitare, ovvero la questione del riparo come esigenza primordiale dell’uomo. Su questi presupposti, le possibilità di riuso di quest’edificio non si limitano al suo aggiornamento tecnologico fondato sull’idea di comfort

secondo quel modello di vita, tipicamente Mediterraneo, legato alla faticosa conquista della terra e dei suoi prodotti, alla sobrietà e al razionamento volontario (Braudel, 1987). Strategie sostenibili per un habitat turistico La questione che si pone riguarda dunque il come declinare tale stile di vita nel contesto del turismo odierno. Questo è stato il tema del workshop Tourism Habitat. The Reuse of the Abandoned Xenia Hotel in Tsagadara, Pelion, organizzato ad agosto 2021 presso il Dipartimento di Architettura della Scuola Politecnica dell’Università della Tessaglia a Volos1, all’interno del progetto di ricerca S.O.L.E.H. (Sustainable Operation Low-cost Energy for Hotels) Innovative tools and guidelines for the sustainable hotels refurbishment, finanziato dal Fondo Sociale Europeo che ha coinvolto le Università degli Studi di Padova, Università Iuav di Venezia e l’Università della

Il riciclo sostenibile dell’esistente può avverire solamente con strategie fondate sul ripensamento del turismo e del consumo delle risorse, ma possono espandersi fino a immaginare nuove modalità di abitazione temporanea intese a rinnovare il dialogo con l’ambiente, il paesaggio e il clima

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05. Re-lieving commons. Lydia Chatziioanou, Lydia Patra, Dimitra Vasiliadou, Kamil Zdunek

Tessaglia. La fascinazione per la rovina, la sua integrazione con la natura e le varie forme di appropriazione informale notate durante la visita a Tsagarada hanno guidato gli studenti verso la formulazione di proposte progettuali in grado di affrontare tematiche legate alla sostenibilità, alla riduzione dei consumi e all’adattamento climatico. Il termine habitat è stato affrontato estendendo la questione del riuso dell’edificio a tutto il territorio circostante alla ricerca di una sorta di equilibrio ecologico tra le forme di urbanizzazione locali e la struttura topografica montuosa caratteristica del Mediterraneo (McNeill, 2003). Questa commistione tra artificiale e naturale sembra così esautorata sul piano dell’esperienza piuttosto che su quello della contemplazione attraverso la revisione del programma dell’edificio in consonanza con nuove attività da svolgere negli ampi spazi naturali circostanti. In questo senso, il riuso è stato pensato più come l’adattamento del visitatore alle condizioni esistenti del luogo piuttosto che come aggiornamento dell’edificio alle richieste del turismo. Se da una parte, dunque, il riuso è stato immaginato con interventi di addizione minimi, economici e a basso impatto che lasciano intatte le caratteristiche architettoniche dell’edificio, dall’altra parte è stata prevista la fornitura di accessori, attrezzature ed equipaggiamenti al fine di riprogrammare il soggiorno dei visitatori. Seguendo questo stesso principio, l’adattamento climatico dell’edificio è stato pensato evitando l’installazione di ingombranti macchinari e tecnologie costose e dispendiose, e suggerendo invece sistemi naturali di raffrescamento a impatto minimo. Con l’obiettivo di ottenere una simbiosi profonda tra architettura e natura, si sono voluti dunque evitare condizioni di comfort aliene iniziando un processo di adattamento dell’edificio alle caratteristiche climatiche del contesto. Al concetto di comodità promosso dalla società contemporanea e inteso come riduzione dell’azione dell’uomo al minimo, il sociologo Franco Cassano (1996) contrappone la lentezza della cultura mediterranea come sapienza eco-

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logica. Di conseguenza, ridurre l’impatto ambientale e gli elevati consumi di solito richiesti dall’industria del turismo significa innanzitutto promuovere nuovi programmi di turismo alternativo che si fondano sulla commistione – e la contraddizione – tra attività fisica e riposo, e tra sacrificio e banchetti (Braudel, 1987). Lo Xenia Hotel è stato dunque un banco di prova per avanzare l’idea di come il riciclo sostenibile delle strutture alberghiere abbandonate possa realizzarsi solamente attraverso strategie fondate sul ripensamento delle stesse forme del turismo.* NOTE 1 – Coordinamento: Angelo Bertolazzi, Fabiano Micocci; Supervisor dei gruppi: Stefanos Antoniadis; Senior Tutor: Stefanos Adamakis, Stefanos Antoniadis, Efi Dimitrakopoulou, Fabiano Micocci, Dimitris Psychogios, Nicolas Remy; Junior Tutor: Elisa D’Agnolo, Petra Muneratti, Agata Tonetti; Presentazioni: Kostas Adamakis, Stefanos Antoniadis, Elisa D’Agnolo, Efi Dimitrakopoulou, K-studio, Petra Muneratti, Nicolas Remy, Luigi Stendardo, Agata Tonetti; Giuria finale: Massimo Rossetti, Nikos Samaras, Luigi Stendardo, Aris Tsangrassoulis; Supporto Tecnico: Soumela Makanika; Studenti: Sofia Bagana, Clio Georgia Chatzaki, Lydia Chatziioanou, Kornilia Christodoulou, Laoura Georgia Gonalaki, Pinelopi-Maria Gourgouleti, Christos Kalientzidis, Evanthia Kanaraki, Dimitra Kanellopoulou, Anastasia Karaghianni, Eleni Katsiampi, Evaggelos-Panagiotis Kontos, Magdalini Kotrotsou, Angelos Kouris, NikiAnna Lefaki, Markella Metheniti, Maria Nikolopoulou, Lydia Patra, Maro Polymerou, Venetia Siorou, Evanthia Soumelidou, Georgia Stamou, Mary Stavropoulou, Andriani Trikardou, Stergios George Tsarouchas, Dimitra Vasiliadou, Kamil Zdunek, Athanasia Zioga. BIBLIOGRAFIA – Braudel, F. (1987). Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni. Milano: Bompiani. – Cassano, F. (1996). Il pensiero meridiano. Bari: Laterza. – Gordon, B. M. (2003). The Mediterranean as a Tourist Destination from Classical Antiquity to Club Med. Mediterranean Studies, Vol. 12, pp. 203-226. – Horden, P., Purcell, N. (2000). The Corrupter Sea. A Study of Mediterranean History. Oxford: Wiley-Blackwell. – Kolonas, V. (2015). Tourist Facilities in Greece 1950-1974. In Aesopos, Y. (a cura di), Tourism Landscape. Remaking Greece. Atene: Domes, pp. 62-87. – McNeill, J. R. (2009). The Mountains of the Mediterranean World. Cambridge, Massachusetts: Cambridge University Press. – Nicolacopoulos, P. (2015). Xenia Hotel, 1950-1967: The Vision of Modernism. In Aesopos, Y. (a cura di), Tourism Landscape. Remaking Greece. Atene: Domes, pp. 140-147. – Ribeiro, O. (1968). Il Mediterraneo. Ambiente e tradizione. Milano: Mursia. – Theocharopoulou, I. (2010). The Vernacular and the Search for a True Greek Architecture. In Lejeune, J.F., Sabatino, M. (a cura di), Modern Architecture and the Mediterranean. Vernacular Dialogues and Contested Identities. Abingdon, Oxon: Routledge, pp. 111-130.

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Marco Manfra Dottorando in Architecture, design, planning, Università di Camerino. marco.manfra@unicam.it

Agnese Di Quirico Architetto e ricercatrice indipendente. agnesdq@gmail.com

Design(-ing) New Lives

01. Una sarta al lavoro nel laboratorio di Progetto Quid | A seamstress at work in the laboratory of Progetto Quid. Progetto Quid

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Manifattura e socio-circular design per l’inclusività Design(-ing) New Lives In the Mediterranean area, there are projects that make the circular economy coexist with ethical aspirations of egalitarianism. In these realities, the practice of reuse transcends only the productive aspect and becomes a way to re-evaluate the potential skills of people in vulnerable conditions. Within a wider theoretical reflection about the ethics of the project, social inclusion and culture of diversity, this short contribution aims to investigate and, therefore, bring to light emerging cases that can be taken as models to celebrate new forms of circular, mutual and popular manufacturing.* In area Mediterranea, esistono progettualità che fanno coesistere la circular economy con aspirazioni etiche di egualitarismo. In queste realtà, la pratica del riuso trascende il solo aspetto produttivo e assurge a mezzo per rivalutare anche le potenziali abilità delle persone in condizioni di vulnerabilità. All’interno di una più ampia riflessione teorica sull’etica del progetto, l’inclusione sociale e la cultura della diversità, questo breve contributo è volto a indagare e, dunque, portare a conoscenza casi emergenti che potranno essere presi come modelli per celebrare nuove forme di manifattura, circolari, mutue e popolari.*

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l bacino del Mediterraneo, in un intrecciarsi di integrazione e parcellizzazione, appare storicamente come un luogo d’incontro, confronto e ibridazione fra individui, culture e civiltà. Tuttavia, è proprio in questa stratificata complessità socioculturale che sono ancora visibili fenomeni quotidiani di esclusione e conflitto, che declinano la diversità ad accezione negativa e non, come dovrebbe essere, a valore aggiunto. In questo contesto, instabile e contradditorio, migranti, rifugiati e richiedenti asilo, insieme ad altre categorie fragili, socialmente svantaggiate, come persone con disabilità, anziani soli, ex detenuti, disoccupati da lungo periodo, vittime della tratta di esseri umani o di violenza domestica, rappresentano un segmento vivo e rilevante di abitanti della società e, in quanto tali, necessitano di interagire con essa, auspicabilmente in maniera dialogica e biunivoca (Rossi e Barcarolo, 2019). La loro presenza caratterizza il dibattito sociopolitico contemporaneo, sul quale i Paesi settentrionali del Mediterraneo si stanno da tempo confrontando. Tematiche, come il problema migratorio, la disuguaglianza sociale o la degradazione della democrazia, che Bruno Latour definisce matters of concern, cioè “materie di preoccupazione e interesse”, attorno alle quali si sviluppano tensioni, idee e nuove proposte che implicano una ristrutturazione dell’habitus del progetto, verso una più ampia trasformazione culturale. È il caso, ad esempio, dell’ipotesi dello scenario Dingpolitik (Latour, 2005), ovvero di una politica affrontata attraverso le “cose”, dove i designer, adottando una posizione prefigurativa piuttosto che reattiva, partecipano alla costruzione di politiche, anziché essere asserviti al potere dei governanti, delineando nuove traiettorie e pratiche di redirezione rispetto alle questioni della sostenibilità socio-eco-ambientale (Fry, 2020). In tal senso, gli oggetti possono svolgere un ruolo primario, articolando e supportando l’emersione di posizioni antagoniste rispetto ai paradigmi dominanti, capaci di promuovere azioni e abilità necessarie per sostenere la vita, le culture, gli immaginari, l’ambiente e le persone (Franzo, 2020); og-

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02. Rifùgiati è una collezione di microspazi per bambini, dalla forte connotazione grafica e realizzata da Talking Hands con materiali di riciclo, in collaborazione con il designer Matteo Zorzenoni | Rifùgiati is a collection of microspaces for children, with a strong graphic connotation and created by Talking Hands with recycled materials, in collaboration with designer Matteo Zorzenoni. Michele Amaglio

getti, catalizzatori del cambiamento, in grado di contestare lo status quo, provocare riflessioni e riorientare la politica (Moretti, 2019). Questa visione permette altresì di riconoscere l’etica non più unicamente entro il solo comportamento astratto di un individuo che agisce moralmente, ma viene di fatto reificata nell’oggetto, dunque materializzata: anche i

duttive etiche che mirano ad abilitare e includere il “diverso”, offrendo spazio e voce a coloro i quali si trovano in situazioni critiche o invalidanti, facendo dell’accessibilità e della partecipazione atti morali e attività fondative nella cultura del progetto contemporaneo (Margolin e Margolin, 2002). Innovare per orientare processi di cambiamento su larga scala sottolinea la necessità di considerare i progetti non solo dal punto di vista tecnologico e materiale ma anche da una più estesa prospettiva socioculturale (Manzini, 2015). Per innovazione sociale, centrata nell’ambito del design, si intende infatti una condizione nuova che è socialmente sostenibile tanto nel mezzo che impiega quanto nel fine che persegue, dove prodotti e azioni strutturate ambiscono al soddisfacimento dei bisogni sociali primari, come può essere l’esigenza di un soggetto fragile di sentirsi parte attiva di una comuni-

I designer, adottando una posizione prefigurativa, piuttosto che reattiva, partecipano alla costruzione di politiche manufatti e gli artefatti possono essere dotati di una propria etica “incarnata” (Fry, 2009). Con queste premesse, nell’alveo del socio-design, non autorevole ma aperto (Papanek, 1971; Brock, 1977), lontano dalla produzione di beni caritatevoli, emergono realtà pro-

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03. Consegnare i manufatti a domicilio è diventata una consuetudine di Talking Hands. Questa azione consente di entrare a contatto diretto con persone che inizialmente non si avvicinerebbero al progetto | Delivering manufactured goods to people’s homes has become a habit at Talking Hands. This action allows direct contact with people who initially would not approach the project. Talking Hands Archive

tà. In tal modo, facendo coesistere la circular economy con aspirazioni etiche di egualitarismo e mutuo aiuto, la pratica del riuso di scarti e rifiuti, generatrice di opportunità economiche e vantaggi ambientali, trascende il solo aspetto produttivo e assurge a mezzo per riconoscere e rivalutare – anche – le potenziali abilità, tacite o esplicite, delle persone in condizioni di svantaggio, insistendo sulla dignità e l’espressione creativa come linee guida per l’interazione umana e un futuro più desiderabile. A titolo esemplificativo si riportano di seguito e stringatamente alcune esperienze progettuali che propongono una lettura critica di tali riflessioni, con l’obiettivo di restituire la complessità dei fenomeni esplorati, squisitamente teorici, a un pubblico più vasto: casi studio, all’interno del panorama Mediterraneo, che avvalorano inedite narrazioni, feconde e circolari, atte al contempo a produrre manufatti sostenibili e a “disegnare” nuove vite, in cui compaiono rinnovate forme di riuso, di cooperazione, di craftivism1, di attenzione alle emergenze socio-ambientali, idonee a elevarsi a modelli per altre realtà e aree geografiche. I casi studio sono stati individuati, vagliati e selezionati, sulla base di cinque importati parametri quantitativi e qualitativi: la creazione di lavoro e l’ideazione di attività formative; l’impegno profuso nel recupero di materiali scartati e nel riutilizzo di oggetti a fine vita; le effettive ricadute positive in termini di inclusione sociale delle persone coinvolte; l’avvio di sinergie sul territorio per lo sviluppo e il mantenimento a lungo termine dei progetti; la premialità, la comunicazione e la risonanza mediatica complessiva del progetto. Progetto Quid è una cooperativa di moda etica nata nel veronese che, connaturando aspetti di natura economica, sociale e ambientale, adotta un approccio inclusivo al lavoro interpretando la condizione di vulnerabilità non come “scarto sociale” ma come punto di partenza (input): la sartoria assume sia individui con disabilità fisiche o ex carcerati,

per i quali si applicano incentivi all’occupazione, sia migranti o lavoratori vulnerabili, per i quali non sono in atto misure strutturate a supporto dell’inserimento lavorativo (img. 01). Rigorosamente handmade, i prodotti di Progetto Quid sono realizzati con tessuti di fine serie dismessi o invenduti donati da aziende tessili e marchi della moda, evitando così di destinare al macero stoffe ancora di pregio, consentendone il prolungamento del ciclo di vita (Mion, 2018). Anche Talking Hands è un progetto partecipato di innovazione sociale basato sulle relazioni dinamiche, sulla reciprocità e sulla prossimità a cui si aggiungono componenti

Inedite narrazioni, feconde e circolari, atte al contempo a produrre manufatti sostenibili e a “disegnare” nuove vite

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più spiccate di stimolo alla creatività individuale e collettiva, nonché di impatto comunicativo sul palcoscenico visivo delle azioni umanitarie (img. 02). Ideato da Fabrizio Urettini a Treviso, si presenta come un laboratorio permanente di moda, design e artigianato autogestito da designer mediatori e gruppi transitori di rifugiati provenienti principalmente dall’Africa subsahariana; finalizzato sì alla co-progettazione e alla co-produzione di abiti, tappeti ed elementi d’arredo, ma anche all’imprescindibile costruzione di “ponti relazionali”2 tra richiedenti asilo e comunità locale (Franzo, 2020) (img. 03). L’atelier, crogiuolo di esperienze molteplici, si converte in un luogo di sperimentazione per etiche ed estetiche di prodotto grazie alla condivisione di valori, capitale culturale e competenze tecniche diversificate (img. 04). A supportare il progetto, non solo relazioni endogene, certamente coese, ma una serie di aperture e partnership con aziende attente al territorio, come il Lanificio Paoletti, capace oggi di reimpiegare la lana delle pecore dell’Alpago, per molto tempo considerata scarto per via della sua fibra grossolana.

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Il riuso creativo e l’innovazione sociale si fondono nel concetto di socio-circular design Mamalyona3 nasce invece a Barcellona come proponimento collettivo di responsabilizzazione guidato da giovani o future madri con lo scopo di migliorare l’occupabilità delle partecipanti attraverso l’upcycling e l’economia solidale nel settore del design, promuovendo l’auto-imprenditorialità al femminile mediante l’empowerment delle donne che vi aderiscono. Con Mafric, MADE51 e Fabric Republic, rispettivamente attivi tra Italia, Turchia e Grecia, ancora una volta il riuso creativo e l’innovazione sociale si fondono nel concetto di socio-circular design, mentre il lavoro artigianale si fa attivatore di nuovi metabolismi produttivi sostenibili, garanti dell’inclusione sociale per chi, “fragile”, opera in queste attuali comunità di pratica (Wenger, 1998). Infine, in una tappa recente del connubio tra responsabilità sociale e ambientale, si collocano i Repair Cafè di matrice mediterranea, luoghi fisici idonei ad accogliere diversità e fragilità, dove è possibile incontrarsi per riparare, o imparare a riparare, elettrodomestici e dispositivi meccanici, abbigliamento e mobilio, con soluzioni ingegnose tipiche di un’arte dell’escogitare, consolidando, nel mentre, un’economia del dono intesa come sommatoria di scambi sociali e atti di generosità a buon rendere (img. 05). Queste nuove esperienze giocano un ruolo centrale nello sviluppo di un’economia parallela e collaborativa in grado di riportare, come sosteneva anzitempo Ernst Friedrich Schumacher, l’uomo al centro di un più equo agire sociale, permettendo di sperimentare soluzioni sostenibili anche nel campo del consumo (Schumacher, 1973). Ricorrente in tutti i progetti descritti, il sistema relazionale della cooperazione, applicato al design, seppur ancora nella limitatezza di soli articoli “ordinari” o correlati alla moda, può considerarsi come una fitta rete di attori le cui azioni sono strettamente interdipendenti. Progettare per connettere, individui, scopi e scarti, significa pertanto accordare le seguenti dinamiche: generare economie locali, di riuso, capaci di instaurare processi partecipativi e innovativi di produzione e di distribuzione (co-design); mobilitare

04. Woven stories, serie di sedute e complementi d’arredo realizzati dallo Studio Zanellato Bortotto in collaborazione con Talking Hands | Woven stories, a series of seating and furniture accessories made by Studio Zanellato Bortotto in collaboration with Talking Hands. Francesco de Luca

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05. Momenti di apprendimento conviviale in un Repair Cafè | Convivial learning moments in a Repair Cafe. Ville de Villeneuve d’Ascq

le persone ponendo le relazioni interpersonali al servizio della comunità attiva; produrre conoscenze e interazioni, continue e coordinate, che convergono verso la valorizzazione delle risorse territoriali, dei servizi sociali e del lavoro qualificato e qualificante (Wegener e Aakjær, 2016). In conclusione, i progetti osservati, seppur con i loro differenziati programmi, hanno tutti centrato l’obiettivo comune di far emergere “ecosistemi abilitanti” (Manzini, 2018) che permettono a diverse persone vulnerabili di essere proattive e creative nella definizione di proposte produttive. Così facendo, si rendono possibili incontri e azioni collaborative di qualità che, a loro volta, permettono, da un lato, di cambiare le prospettive di vita di coloro che in un modo o nell’altro vengono a contatto con queste iniziative, dall’altro, di innescare economie circolari e culturali, le quali, per mezzo della fabbricazione di oggetti “etici” deputati a corroborare la cultura della diversità, riverberano le loro azioni sul territorio e sulla collettività (Morelli e Sbordone, 2018). Sono infatti numerose le persone che ne hanno ricavato beneficio, inserendosi attivamente nelle varie comunità, “ridisegnando” le proprie vite grazie a un riscatto sociale, arrivando talvolta ad avviare anche le proprie micro attività imprenditoriali. In ultima istanza, ciò che si è inteso tracciare in questa breve pillola saggistica è dunque un’urgente considerazione sulla valorizzazione del tema dell’economia circolare per l’inclusione sociale in area Mediterranea, con l’intento di portarla a conoscenza ai più, per tentare di riprodurre tali impulsi in contesti differenti e avviare, nell’immediato futuro, una definizione di strategie che consentano di scalarle e consolidarle in network e realtà più ampie.*

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NOTE 1 – Il craftivism è una forma di attivismo, che in genere incorpora elementi di anticapitalismo, ambientalismo, solidarietà o femminismo, incentrato sulle pratiche artigianali. 2 – Quello ideato da Urettini è un sistema capace di abbattere i muri invisibili del “noi” e “loro” a favore della costruzione di “ponti relazionali”. Una costruzione insita, ad esempio, nella decisione di far consegnare a mano i prodotti venduti sempre da chi, quel prodotto, l’ha fabbricato, esponendo i rifugiati alla conoscenza della città e, viceversa, instaurando nuove relazioni. 3 – Questa iniziativa è una continuazione del progetto originale Samarretes, sviluppato dall’ABD Welfare and Development Association, in collaborazione con la BAU Design College of Barcelona e il supporto di Barcelona Activa nell’ambito dei bandi Impulsem el que Fas 2017, 2018 e 2019. BIBLIOGRAFIA – Brock, B. (1977). Ästhetik als Vermittlung. Arbeitsbiographie eines Generalisten. Köln: DuMont. – Franzo, P. (2020). Talking Hands. Ripensare il Made in Italy nella prospettiva del fashion futuring. MD Journal, n. 9 (1), pp. 186-199. – Fry, T. (2009). Design Futuring. Sustainability, Etichs and New Practice. London: Bloomsbury Visual Arts. – Fry, T. (2020). Defuturing. A New Design Philosophy. London: Bloomsbury Visual Arts. – Latour, B. (2005). From Realpolitik to Dingpolitik. Or How to Make Things Public. In Latour, B., Weibel, P. (a cura di), Making things public. Atmospheres of democracy. Cambridge (MA); London: The MIT Press, pp. 14-41. – Manzini, E. (2015). Design, when everybody designs. An introduction to design for social innovation. Cambridge (MA); London: The MIT Press. – Manzini, E. (2018). Politiche del quotidiano. Progetti di vita che cambiano il mondo. Roma: Edizioni comunità. – Margolin, V., Margolin, S. (2002). A “Social Model” of Design: Issues of Practice and Research. Design Issue, 18 (4), pp. 24-30. – Mion, A. (a cura di) (2018). Progetto Quid. OFFICINA*, luglio-settembre, n. 22 (online). In issuu.com/officina-artec/docs/officina22_web/104 (ultima consultazione gennaio 2022). – Morelli, N., Sbordone, M.A. (2018). Il territorio delle relazioni. Il Design infrastructuring per i contesti locali. MD Journal, n. 5 (1), pp. 176-185. – Moretti, M. (2019). Socio-Social-Design. Design Practices for New Prospective on Migration. Mantova: Corraini. – Papanek, V. (1971). Design for the Real World. Human Ecology and Social Change. New York: Pantheon Books. – Rossi, E., Barcarolo, P. (2019). Design for the Mediterranean Social Inclusion. PAD Journal, n. 16, pp. 13-34. – Schumacher, E.F. (1973). Small is beautiful. A study of economics as if people mattered. London: Blond and Briggs. – Wegener, C., Aakjær, M.K. (2016). Upcycling. A new perspective on waste in social innovation. Journal of Comparative Social Work, n. 11 (2), pp. 242-260. – Wenger, E. (1998). Communities of practice. Learning, meaning and identity. Cambridge: Cambridge University Press.

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Marco Marseglia Ricercatore a tempo determinato, Università degli studi di Firenze. marco.marseglia@unifi.it

Francesco Cantini Dottorando, Research Fellow, Università degli studi di Firenze. francesco.cantini@unifi.it

Alessio Tanzini Research Fellow, Università degli studi di Firenze. alessio.tanzini@unifi.it

Giulia Pistoresi Dottoranda, Research Fellow, Università degli studi di Firenze. giulia.pistoresi@unifi.it

Margherita Vacca Dottoranda, Research Fellow, Università degli studi di Firenze. margherita.vacca@unifi.it

Elisa Matteucci Dottoranda, Research Fellow, Università degli studi di Firenze. elisa.matteucci@unifi.it

Design complexus

01. Arazzo in fibre naturali e riuso di reti da pesca a tramaglio, 2021 | Natural fiber tapestry and trammel nets, 2021. Laboratorio di Design per la Sostenibilità (Laura De Cesare)

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Saperi, miti, mare e racconti Design Complexus The project aspires to activate innovation processes for the management of waste from fishing and aquaculture, through the development of a product system aimed at integrating product, service and communication strategies to trigger a circular supply chain. The interdisciplinary research project seeks to rediscover the founding characteristics of the Mare Nostrum, a space that is not only geographic, but a cultural ecosystem stratified over time. The design challenge is to establish a dialogic relationship with the key players in the context, in order to have a more participative design process.* Il progetto si propone di stimolare processi d’innovazione per la gestione di rifiuti derivanti da pesca e acquacoltura, attraverso lo sviluppo di un sistema prodotto volto a integrare strategie di prodotto, servizio e comunicazione per innescare una filiera circolare. Attraverso un lavoro di ricerca interdisciplinare, il progetto vuole riscoprire le caratteristiche fondanti del Mare Nostrum, uno spazio non solo geografico, ma un ecosistema culturale stratificato nel tempo. L’azione di design è volta a instaurare un rapporto dialogico con gli attori chiave del contesto, al fine di avere una visione quanto più partecipata del design process.*

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gni cosa esistente, dagli organismi viventi agli utensili, ha una sua traiettoria; ciascuna è un filo nel “grande arazzo della Natura che la storia intesse” (Ingold, 2020). In quest’ottica, molte delle problematiche ambientali di origine antropica sono viste come mancate corrispondenze tra la traiettoria dell’uomo e quella dell’ambiente entro cui si muove. Una dissonanza tra antroposfera e biosfera1. Secondo lo studio dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (Boucher e Bilard, 2020; Cózar et al., 2015) nel Mediterraneo sono presenti oltre un milione di tonnellate di rifiuti plastici non considerando le fishing net che secondo dati della Food and Agriculture Organization risultano essere responsabili di oltre il 10% dell’inquinamento da plastica nei mari. Questi scarti, oltre essere un problema dal punto di vista ambientale, rappresentano anche un elevato costo per le aziende del settore. Emerge dunque la responsabilità per il designer di promuovere modelli di sviluppo innovativi e narrazioni alternative. Con il Sustainable Development Goal 14 – Vita sott’acqua, la filiera ittica diventa campo di intervento per il design, nella prospettiva strategica di conservare e utilizzare sapientemente le risorse e i saperi per uno sviluppo sostenibile, punto di partenza per tracciare nuove traiettorie progettuali nello scenario contemporaneo. Muovendo da tali premesse, il progetto P.Ri.S.Ma-MED2 vuole contribuire a innovare la governance e la gestione integrata di rifiuti e scarti derivanti da pesca e acquacoltura, attraverso lo sviluppo di strategie sistemiche di prodotto, di servizio, di filiera e di comunicazione. Il lavoro di ricerca interdisciplinare allestito ha come obiettivo principale quello di riscoprire le caratteristiche fondanti il Mare Nostrum, comunicandolo come uno spazio non solo geografico, ma un ecosistema culturale stratificato nel tempo. La ricchezza di biodiversità, il rapporto tra specie diverse ma interconnesse, la complessità dell’immaginario mitologico prodotto

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dai popoli che lo hanno abitato, tutto ci dice che “Il mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio né nel tempo […] Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa” (Matvejević, 1987). Il progetto prende in analisi il tema dell’inquinamento nei mari, e in particolare quello legato alle reti da pesca e acquacoltura fuori uso. L’inquinamento da plastica nei mari può essere visto come un iperoggetto3, ovvero un oggetto che supera le capacità percettive degli esseri umani in termini di scala temporale e spaziale. L’iperoggetto può manifestarsi attraverso fenomeni locali come il cambiamento climatico e l’inquinamento da plastica. Emerge quindi la necessità e la responsabilità da parte del designer di elaborare metodi e approcci progettuali innovativi in grado di affrontare questi temi. L’obiettivo è quello di costruire una narrazione più ampia attorno alle caratteristiche peculiari di questo mare, così ricco di biodiversità e allo stesso tempo così complesso. È stato necessario attingere all’immaginario mitico e leggendario per comprendere in maniera più profonda ciò che il Mediterraneo ha rappresentato nei secoli per i popoli. Metodologia Le attività di progetto si sono sviluppate con un approccio sperimentale di participatory design svoltosi in due fasi. La prima fase ha visto la raccolta dati volta ad acquisire consapevolezza sul tema, utilizzando strumenti mirati quali analisi desk e field, insieme a interviste che hanno riguardato tutte le realtà coinvolte all’interno del design context. Nelle videointerviste ogni soggetto ha esposto la problematica osservandola attraverso il portato delle proprie competenze specifiche, portando lo strumento filmico ad essere utilizzato come un research tool propedeutico allo sviluppo di strategie mirate e contestuali. Il materiale raccolto rappresenta un prezioso archivio di informazioni che ha costituito la base per ottenere una prospettiva sistemica della problematica affrontata e degli scenari prefigurati dal progetto. Come output della prima fase è stato sviluppato un catalogo di schede che classifica-

Materiale: Dyneema Tipologia di pesca: Itticoltura Quantità (ml e/o kg): 500 kg/anno circa Dimensione maglia: 15x15 mm

Materiale: Multifilo Nylon alta tenacità Tipologia di pesca: Circuizione Quantità (ml e/o kg): poco rilevante Dimensione maglia: 10x10 mm

Materiale: Nylon Tipologia di pesca: Itticoltura Quantità (ml e/o kg): 2000 kg/anno circa Dimensione maglia: 20x20 mm

Materiale: Monofilo Nylon Tipologia di pesca: Imbrocco Quantità (ml e/o kg): molto rilevante Dimensione maglia: 35x35 mm

Materiale: Dyneema Tipologia di pesca: Strascico Quantità (ml e/o kg): Rilevante Dimensione maglia: 20x20 mm

Materiale: Polietilene Tipologia di pesca: Strascico Quantità (ml e/o kg): Rilevante Dimensione maglia: 25x25 mm 02. Classificazione delle reti da pesca dismesse utilizzate nel progetto, 2021 | Classification of discarded fishing nets used in the project, 2021. Laboratorio di Design per la Sostenibilità

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03. Prime sperimentazioni al telaio realizzate con l’artigiana Laura De Cesare, 2021 | First experiments on the loom carried out with the artisan Laura De Cesare, 2021. Laboratorio di Design per la Sostenibilità

no le tipologie di reti scartate per forma, materiale, quantità, tempo necessario al recupero e costi. Tali schede supportano l’elaborazione della cornice di senso costituita e vanno a corroborare il progetto di design per l’economia circolare (img. 02). Nella seconda fase il team, in stretta collaborazione con i produttori dei prototipi, ha sviluppato alcune sperimentazioni volte a esplorare le possibili strategie di riciclo e riuso, mediante metodi e strumenti del material tinkering4. Il design process si è sviluppato “con” e “tra” le parti interessate della design community costituita, secondo un approccio partecipativo, bottom up e co-creativo. La sperimentazione e prototipazione hanno portato a una collezione di provini studio da cui sono stati estratti i dati utili a comprendere il comportamento del materiale durante i processi di riciclo e di riuso. La raccolta di tali dati è stata fondamentale per il successo del progetto fina-

le: sono infatti emersi vantaggi e criticità della proposta, sia sul piano della sostenibilità del processo, sia sul piano della resa finale. Questa fase ha rappresentato un tentativo di predisporre il materiale in esame per un nuovo ciclo di vita.

Un catalogo per classificare le tipologie di reti scartate per forma, materiale, quantità, tempo necessario al recupero e costi

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Con Ingold, “Il creare, non è costruire secondo un disegno prefissato, bensì piuttosto spostare le cose oltre la soglia, prepararle o predisporle per una nuova vita” (Ingold, 2013). Il progetto P.Ri.S.Ma-MED vede come risultato collaterale il costituirsi di una rete di realtà, il cui agire coordinato dà il via a differenti traiettorie semantiche per il progetto: i rifiuti del sistema pesca-acquacoltura; le conoscenze tradizio-

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04. Hydra, karkinos, hippocampus, chelonia e cetus, 2021. Laboratorio di Design per la Sostenibilità

nali; la vita nei mari; le startup innovative; l’inquinamento nei mari. L’output progettuale verte su due livelli distinti ma in dialogo tra loro: il primo consiste nella produzione di oggetti dal forte valore simbolico, volti a contribuire alla “produzione di immaginario”, propria del design mediterraneo. Il secondo nello sviluppo di un sistema di comunicazione

zando i miti da sempre idealizzati attraverso materiali antropogenici ormai facenti parte, da intrusi, dell’ecosistema marino. La collezione smuove il bisogno atavico dell’uomo di stupirsi di fronte all’ignoto. Parallelamente è stata sviluppata una collezione di cinque spolette dal valore simbolico, legate ai cinque oggetti ispirati alle creature mitologiche del Mediterraneo. La strategia di riuso ha visto la collaborazione con Laura De Cesare, una maestra tessitrice del territorio pisano specializzata nell’elaborazione in chiave contemporanea di intrecci tessili antichi e di tradizione popolare. La prima fase relativa al processo di riuso delle reti da pesca è stata la definizione della metodologia attraverso la quale le reti vengono trasformate in strisce omogenee per essere utilizzabili nella fase di tessitura su telaio tradizionale. È stato poi necessario verificare la risposta delle varie tipologie di rete precedentemente classificate, attraverso la realizzazione di alcuni campioni e analizzando il comportamento che queste assumono durante la tessitura (img. 03). Sono stati inoltre identificati i materiali che hanno presentato prestazioni migliori, valutando la possibilità di impiego di tali materiali per la trama e l’ordito. I campioni realizzati sono risultati essenziali per determinare la possibilità di integrare diverse tipologie di materiale in un unico intreccio, definendo differenti lavorazioni (img. 05). A seguito degli studi di fattibilità, in ottica di collaborazione attiva tra diverse competenze e saperi, si è delineato il progetto che ha portato alla definizione di un arazzo realizzato in fibre naturali e riuso di reti da pesca a tramaglio. Il soggetto rappresentato nell’arazzo è una visione insolita di una porzione del Mediterraneo, che prende ispirazione dall’opera dell’artista francese Sabine Réthoré. Il cambio di prospettiva si pone come una riflessione critica di ciò che il mediterraneo era in passato, e ciò che è oggi, enfatizzando il passaggio da mare di storie e miti, a mare di plastica (img. 01).

Il cambio di prospettiva si pone come una riflessione critica di ciò che il Mediterraneo era in passato che elabora nuove narrazioni, superando una prospettiva razionale e vertendo verso immaginari altri. Risultati Gli output finali possono essere suddivisi secondo le strategie progettuali di riciclo, riuso e comunicazione (Lotti et al., 2020). Per la realizzazione dei prodotti si è reso necessario il coinvolgimento di figure specializzate in grado di valorizzare il materiale grezzo e creare valore aggiunto. Per la strategia di riciclo si è dimostrata fondamentale la collaborazione con Precious Plastic, startup che si occupa di riciclo meccanico della plastica attraverso un sistema di open hardware composto da macchinari e strumenti che macinano, fondono e stampano materiale polimerico, consentendo la creazione di nuovi prodotti su piccola scala. Il progetto consiste in una collezione di oggetti ispirati ad alcuni animali mitologici del Mediterraneo come: hydra (la creatura acquatica modello), karkinos (granchio), hippocampus (cavalluccio marino), chelonia (tartaruga), cetus (balena) (img. 04). La base, realizzata recuperando le reti in polietilene, rappresenta l’ambiente marino, le forme che si adagiano su di essa sono la sintesi dei miti presi come riferimento. Con questa collezione di oggetti si è cercato di costruire una narrazione concretiz-

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05. Alcuni campioni di studio realizzati con l’artigiana Laura De Cesare, 2021 | Some samples made with the artisan Laura De Cesare, 2021. Laboratorio di Design per la Sostenibilità

L’arazzo, in bicromia, rappresenta il mare realizzato con reti di colore rosso aranciato, mentre la terraferma è di colori neutri, per far emergere in maniera evidente l’area marina. Il Mediterraneo, dunque, non è più un confine che divide, ma una superficie che unisce. Per rendere esplicito l’impiego delle reti da pesca, l’arazzo risulta definito e compatto nella parte superiore, mentre nella parte inferiore assume tridimensionalità fino a tornare a essere rete. La strategia di comunicazione realizzata si concretizza in un sito web articolato in varie sezioni, che indaga e approfondisce il tema della plastica nel Mediterraneo, e non solo. Sul sito inoltre, è possibile visualizzare tutti i prodotti realizzati, a dimostrazione che un lavoro di ricerca interdisciplinare può aprire a scenari progettuali capaci di offrire soluzioni innovative al problema dello smaltimento della plastica nei mari e allo stesso tempo narrare storie di miti, leggende e incontro tra i popoli. Conclusioni In stretta sintonia con la natura visionaria del design, il progetto propone un cambio di prospettiva per il Mediterraneo, sperimentando nuovi metabolismi materiali e immateriali, attivando traiettorie progettuali originali e confutando il paradigma attuale. Le strategie progettuali sopra descritte vogliono quindi andare ad intrecciare vari metabolismi allo scopo di innescare un’innovazione sistemica e integrata per la governance dei rifiuti derivanti dalla filiera della pesca. Territorio complexus, dal latino “intrecciato insieme”, il Mediterraneo è da sempre un crocevia antichissimo di saperi, miti, popoli (Braudel, 1985), foriero dunque di nuove etiche, estetiche, pratiche. L’azione progettuale polifonica costituita dall’intreccio di queste traiettorie future rappresenta un’importante opportunità nello scenario della transizione ecologica. Esse possono ricoprire il ruolo strategico di alzare il tasso di innovazione circolare dimostrando un ventaglio di possibilità per alzare il valore intrinseco del flusso di materia residua.

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Lo scenario che si prefigura è dunque quello di un nuova opportunità per l’artigianato che, grazie all’alto margine di sperimentazione può proporre processi innovativi. Processi che, se adeguatamente integrati alla filiera di riferimento, possono contribuire a trovare il giusto spazio sui mercati ai flussi di materia di scarto, migliorando la governance dei rifiuti da pesca e acquacoltura. Il Mediterraneo si fa dunque foriero di un modello complesso di sviluppo ecologico altro e possibile, connettendo il suo capitale naturale e culturale.* NOTE 1 – Il testo è stato pensato e strutturato insieme dai sei autori. Tuttavia, si attribuisce il primo paragrafo “Introduzione” a Margherita Vacca, il secondo “Metodologia” a Francesco Cantini, il terzo “Risultati” Giulia Pistoresi fino al terzo capoverso e a Elisa Matteucci dal quarto capoverso all’ottavo. L’abstract e le conclusioni sono a cura di Marco Marseglia. Si attribuisce la raccolta iconografica ad Alessio Tanzini. 2 – P.Ri.S.Ma-MED è il Piano RIfiuti e Scarti in Mare di pesca, acquacoltura e diporto nel Mediterraneo. Progetto finalizzato a innovare la governance e la gestione integrata, nei porti commerciali, di rifiuti e scarti derivanti da pesca, acquacoltura e diporto attraverso l’adozione di un Piano rifiuti e scarti pesca/acquacoltura/diporto. Il progetto è finanziato nell’ambito del Programma di Cooperazione Territoriale Italia-Francia Marittimo. Il Dipartimento DIDA è stato incaricato dal DIstretto Interni e Design (Regione Toscana). 3 – Il concetto di iperoggetto proposto da Timothy Morton descrive qualcosa che raggiunge un’estensione così vasta che diventa quasi impossibile da cogliere concettualmente (Morton, 2018). 4 – Questa fase è caratterizzata da un approccio pratico ed empirico finalizzato a creare, mediante iterazioni precise e tracciate, concept di materiali alternativi. Il tinkering può essere visto come una forma di apprendimento esperienzale dal momento che il progettista/ ricercatore ha un incontro diretto con i fenomeni studiati (Parisi S. et al., 2017). BIBLIOGRAFIA – Boucher, J., Bilard, G. (2020). The Mediterranean: Mare plasticum. Gland, Switzerland: IUCN. – Braudel, F. (1985). Il Mediterraneo: lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Milano: Bompiani. – Cózar, A., Sanz-Martín, M., Martí, E., González-Gordillo, J.I., Ubeda, B., Gálvez, J.á., Irigoien, X., Duarte, C.M. (2015). Plastic Accumulation in the Mediterranean Sea. In PLoS ONE, 10(4): e0121762 (online). In doi.org/10.1371/journal.pone.0121762 (ultima consultazione gennaio 2022). – Ingold, T. (2013). Making: Antropologia, archeologia, arte e architettura. Milano: Raffaello Cortina Editore. – Ingold, T. (2020). Siamo Linee, per un’ecologia delle relazioni sociali. Milano: Treccani. – Lotti, G., Giorgi, D., Marseglia, M., Trivellin E. (2020). New perspective of making: Circular Craft. Firenze: DIDAPress. – Morton, T. (2018). Iperoggetti, Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo. Roma: Nero Edition. – Parisi, S., Rognoli, V., Sonneveld, M. (2017). Material Tinkering. An inspirational approach for experiential learning and envisioning in product design education. In The Design Journal, 20(sup1), S1167-S1184 (online). In doi.org/10.1080/14606925.2017.1353059 (ultima consultazione gennaio 2022).

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Carlo Federico dall’Omo Dottorando e assegnista di ricerca, Università Iuav di Venezia. cfdallomo@iuav.it

Giovanni Litt Dottorando e assegnista di ricerca, Università Iuav di Venezia. glitt@iuav.it

Ritorno a un sincretismo foriero

01. Acqua alta a Venezia | High tide in Venice. Servizio Comunicazione Iuav

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Verso un portolano Adriatico Return to a Harbinger Syncretism A pilot book seems the most suitable approach to point out Mediterranean phenomena and place complexities. The contribution proposes a ship’s logbook composed of assorted case studies to testify how some territories are returning to syncretic transformation practices. The paper focuses on the Adriatic Sea climate adaptation approaches, proposing the first chapter of a Mediterranean Cruising book. The objective is to describe ongoing evolutions as the result of community recombination, spatial reuses, and recolonization of urban spaces and landscapes.* Lo strumento del portolano sembra il più idoneo a raccontare fenomeni e luoghi che funzionano da punti nave nel leggere la rotta incerta del Mediterraneo. Il contributo ha l’obiettivo di proporre un portolano formato da diversi casi studio la cui somma vorrebbe dimostrare come alcuni processi testimonino che alcuni territori tornino a paradigmi e pratiche di sincretismo mediterraneo in cui i fenomeni di evoluzione della città e delle comunità hanno come esito una rilettura, un riuso e una ricolonizzazione di spazi urbani e di paesaggi.*

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rticolare un saggio riflessivo sulla mediterraneità foriera e su come indagare la fenomenologia minuta di cui oggi si costituisce – anche inconsapevolmente – una koinè dinamicissima e frammentata, fa pensare all’opera di Matvejević (Matvejević, 2010). Il portolano (img. 02) sembra lo strumento più idoneo a raccontare fenomeni e luoghi che possono funzionare da punti nave nel leggere la rotta incerta di questo territorio. Raccontare e leggere alcuni contesti che – loro malgrado – riescono a essere innovativi richiede di definire un punto di vista consapevole e personale con cui scientificamente leggere questo sistema di coste e acque. Per raccontare una visione di Mediterraneo senza farsi travolgere dal turbinio di suggestioni che genera in chi lo percepisce come patria è necessario avere a portata di mano alcuni riferimenti/sestante. Pensando al libro di Braudel (Braudel, 1985) pare condivisibile la lettura del Mediterraneo come agglomerato di mari, popoli connessi, civiltà complementari, paesaggi permeabili. Per raccontare come vi possano o meno essere nuove connessioni e fenomeni, bisogna scomporre l’artefatto mediterraneo in rotte più maneggevoli e navigabili. È possibile che quanto viviamo sia un ritorno ai fenomeni di sincretismo che hanno prodotto poetiche, urbanità e paesaggi che ora riscopriamo? Vi sono indicatori che testimonino questo orientamento? Un esempio sono le pratiche legate alla pianificazione dello spazio del mare o alla pianificazione dell’adattamento al Cambiamento Climatico (CC): prassi nuove che però si basano su collaborazioni e scambio di conoscenze informali e tradizionali sugli usi del paesaggio e del mare (Maragno et al., 2020). Tra i diversi casi studio il bacino Adriatico pare essere emblematico. Questa porzione di Mediterraneo presenta processi – senza manifesti esiti – di poiesi identitaria che possono testimoniare come vi sia un mutamento sottile, una ricucitura degli eventi di separazione che la storia ha imposto (Pupo, 2021). Il portolano, che si adatta all’intero Mediterraneo, qui affronta il contesto adriatico.

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02. Portolano del 1572, donato dal senato e dal popolo romano a Marcantonio Colonna | Portolano of 1572, donated by the senate and the Roman people to Marcantonio Colonna. Sailko, Wikicommons

L’obiettivo è tratteggiare i nostoi che stanno riportando questo territorio a modelli capaci di rispondere a criticità incombenti. Lo sguardo si volge ai contesti in cui i fenomeni di evoluzione di città e comunità hanno come esito riletture dei modelli di progettazione urbana e paesaggistica (Cervellati, 2020). L’indagine affronta questo bacino in una prospettiva introduttiva, spogliata dalla potenza evocativa dei suoi miti. Seguendo questo schema per raccontare la capacità foriera dell’Adriatico e per tratteggiarne la rappresentatività rispetto a moderne complessità, è necessario identificare due cardinalità: la prima di carattere climatico e la seconda di natura storico-culturale. È possibile riconoscere un esito inaspettato nel processo di aggiornamento delle pratiche di

stato belligerante che basarono la loro sopravvivenza sulla coesistenza. Il prosperare di questa regione si è fondato sulla permeabilità – anche contrabbandiera e piratesca – tra sponde, arrivando a momenti di paradossale sincretismo – si pensi agli equipaggi della battaglia di Lissa – che hanno influenzato tanto la letteratura alta quanto la vulgare2. Questa permeabilità, pur avendo subìto fasi di indebolimento negli scambi e nelle interazioni, è rimasta legata da pratiche comuni e comunità connesse. È forse limitante identificare nel momento della costituzione di specifici e novecenteschi stati nazionali il momento di trasformazione dell’Adriatico da limes a limen. Parrebbe di attribuire una responsabilità specifica all’uno o all’altro quando invece è più rappresentativo riconoscere nella fase storica narrata nella Marcia di Radetzkymarsch di Joseph Roth (1932) il mutamento di un sentimento continentale. È proprio da questa metamorfosi dell’Adriatico (Beck, 2016), da spazio di relazione tra genti a confine tra civiltà, e dei suoi porti, da snodi di sincretismo a muti luoghi dell’industria, che i cardini del portolano possono condurre alla prossima fase di riflessione. Il concatenarsi di una serie di eventi portò in un recentissimo passato alla dissoluzione dei muri che separarono per quasi un secolo le sponde adriatiche lasciandone altri e aprendo a ulteriori conflittualità. Quanto arrivato a noi è un territorio governato e regolamentato, ma decoeso e dimentico dei rapporti che ne caratterizzano la genesi e l’identità permeante. La struttura socio-economica delle sue sponde non è più impermeabile rispetto al suo asse verticale – mantenendo conflittualità transfrontaliere geograficamente orizzontali –, ma è frammentata nelle diverse località balneari e diportistiche occupate dalle passive pratiche turistiche postmoderne (Horciani e Zolo, 2005). La frammentazione non avviene solo tra sponde, ma si articola in complessità peculiari a livelli nazionali, regionali, comunali

Dopo secoli le comunità dell’adriatico stanno riprendendo gli scambi culturali che ne caratterizzarono la storia governo e delle progettualità territoriali guidate dal cosiddetto catastrofismo emancipativo (Beck, 2017). Affrontando la minaccia costituita dal mutare del clima (IPCC, 2021) il contesto adriatico ha avviato, in modo più o meno consapevole e coordinato, misure per l’adattamento di città e coste. Peculiare è il coordinamento a livello comunitario attraverso programmi, finanziamenti e iniziative che hanno coinvolto alcuni degli Stati che si affacciano sul bacino. La seconda cardinalità è relativa all’effetto di queste iniziative rispetto a lasciti, lacune e trasformazioni sedimentate tra genti e città. È utile affrontare una breve riflessione a partire dagli esiti involontari che i processi di emancipazione-adattamento stanno producendo. Il bacino Adriatico, a partire dal mito di Diomede1 e da evidenze archeologiche, è stato connaturato da un denso mescolarsi di civiltà tra loro spesso in

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(Cocco et al., 2013): i fronti di condivisione sono limitati ad azioni di tutela dell’ambiente e di sviluppo economico che assumono solo di recente una parvenza di coordinamento pur relegati alla spontaneità di specifiche amministrazioni. Il più interessante è quello legato all’azione di adattamento: sullo sfondo della crescente emergenza si sono progressivamente sistematizzate alcune agende che tendono a modificare e a portare le città a un’emancipazione dai precedenti modelli morfo-tipologici urbani3. Assume un’effettiva rilevanza la dualità nata da azione formale e pratiche informali, da azione normata e uso di città e territorio. Obiettivi In quale modo questo contesto può essere letto e rappresentato in questa prospettiva di frammentazione? Come può essere foriero di dinamiche che suggeriscono un inconsapevole ritorno a un modello permeabile? Rimanendo in una prospettiva adriatica, l’obiettivo è riconoscere le principali pratiche di coordinamento e le potenzialità di connessione supportate dagli strumenti disponibili per la lettura delle pratiche di collaborazione esistenti. L’obiettivo è riportare brevemente gli strumenti per l’azione sulle sponde dell’Adriatico e in particolare quelli finalizzati all’azione climatica identificando alcune sinergie rilevanti. L’assunto è che questi strumenti si basino sia su una collaborazione di carattere politico istituzionale quanto sulla collaborazione informale delle comunità che condividono paesaggi, mari, luoghi, tradizioni, credenze e usi che sono stati a lungo separati e che oggi costituiscono l’elemento centrale per il ri-progetto di questo territorio. Approccio e metodi Partendo dall’assunto che non sia possibile tracciare una rotta tra questi fatti in quanto risultano contingenti e poco sottomettibili a un’interpretazione, possono essere tratteggiate solo vicende e descrizioni di complessità prettamente locali. Il sistema adriatico presenta delle evidenze legate all’e-

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mergenza climatica (IPCC, 2021; EEA, 2016) che non consentono di abbattere le cesure definite dai confini amministrativi e che obbligano una ridefinizione e riorganizzazione delle energie per definire un nuovo sincretismo d’azione: il motto “l’unità che la storia contemporanea ha negato, è imposta dal cambiamento climatico” assume consistenza. Storicamente la lettura che si è occupata dell’antologia pelagica mediterranea ha enunciato quasi sempre nelle primissime pagine le ragioni del metodo di selezione dei casi; scelta spesso dettata da ragioni geografiche, didascaliche, sociali, ma il processo epistemologico basato su spazi interpretati ha rispecchiato la personale esperienza del narratore e intenzioni sufficientemente intime da poter essere recepite dal lettore. Tra questi diversi casi epici tentano di costituire un’enciclopedia tribale mediterranea: Odissea, Le Argonautiche, La Storia Vera, Terre d’Italia (Brandi, 1992), Breviario, Isolario Italiano (Fiori, 2021), Le Città Invisibili. L’intenzione è descrivere inesaustivamente alcune tensioni tentando di contrastare il fronte di burrasca – in senso stretto e lato – che incombe e che infuria sull’Adriatico. L’ordine scientificamente personale vorrà testimoniare come una risposta ai quesiti enunciati traspaia dai fatti. Risultati e discussione I risultati rappresentano l’esempio di questa tensione al ritorno a una permeabilità adriatica e come questo approccio possa essere – in nuce – una testimonianza di un mutamento della marea, di un cambiamento nelle intenzioni suscitato da una minaccia incombente e che potrebbe rappresentare una tensione mediterranea. L’esempio è la strategia macroregionale EUSAR che sottende agli Interreg che operativamente finanziano azioni innovative nel bacino Adriatico. Alcuni degli esempi di riuscita sono gli Interreg in supporto di strategie per l’adattamento al CC: AdriaMORE, iDEAL, READINESS, ADRIACLIM, STREAM, SECAP, RESPONSe, ecc. Queste iniziative si occupano a differenti scale di connettere territori resi prossimi da scenari climatici che ne accomunano le sorti

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03. Darzanà: l’imbarcazione che unisce gli arsenali di Venezia e Istanbul | Darzanà: the boat that joins the arsenals of Venice and Istanbul. Linea Light Group

e che obbligano una progettazione integrata. Il solo impegno dell’UE e dei governi nazionali pur arrivando alla scala urbana non sono sufficienti a dimostrare ed esplicitare la tensione a una riconnessione. Queste progettualità coinvolgono alcune delle principali città adriatiche: Venezia (imgg. 01, 04), Trieste, Ancona, Bari, Ragusa, Spalato, Pola,

iDEAL – grazie a un quadro di valutazione comune e condiviso – lo fa costruendo un Decision Support System per aiutare – a Pesaro, Misano Adriatico e nel Parco Dune Costiere, così come a Ragusa – le autorità locali a gestire i problemi legati al CC per rafforzare la capacità dei decisori politici di adottare decisioni più informate sulla pianificazione in relazione al CC ed incrementare il numero di abitanti che beneficiano della pianificazione dell’adattamento climatico. RESPONSe ampia lo sguardo responsabilizzando i decision makers – in Italia (Puglia, Friuli-Venezia Giulia, Veneto) e in Croazia – sostenendo approcci di governance climatiche intelligenti nell’Alto Adriatico. Attua questo in particolare con il climatemenu.eu, che contiene schede catalogate per obiettivo, risultati attesi, settore d’interesse, tempistiche di riferimento, criticità, a disposizione del decisore per adattarsi o mitigare i CC.

Il Mediterraneo si offre come supporto al progetto dell’architettura e del paesaggio come antologia di archetipi e artefatti Zara e Capodistria, e riescono a far interagire con processi di partecipazione e mainstreaming anche attori economici e cittadini, fornendo progettualità transadriatiche. Dopo secoli le comunità dell’adriatico riprendono strutturalmente quegli scambi culturali che ne caratterizzarono la storia.

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04. CLIMATE 04 Sea Level Rise di Andreco, Venezia | CLIMATE 04 Sea Level Rise by Andreco, Venice. Like agency web

AdriaMORE – in Abruzzo e a Bologna, a Ragusa e a Zagabria – sistematizza una piattaforma a supporto della decisione per aumentare le conoscenze sul rischio idrometeorologico, sulla gestione delle zone costiere e favorisce lo scambio di pratiche di governo istituzionale. READINESS infine – in Molise, nelle Marche e in Friuli-Venezia Giulia, a Spalato, Ragusa e Zara – favorisce pratiche di mitigazione dell’esposizione di cittadini, protezione civile, studenti, agli incendi e ai rischi sismici migliorando la risposta dei servizi di emergenza comuni e l’attuazione di procedure innovative di gestione delle crisi. Sono solo alcuni dei progetti che considerano impatti differenti, che coinvolgono attori variegati, che implementano soluzioni con obiettivi diversi, ma che uniscono le due sponde dell’Adriatico con progettualità comuni, metodologie condivise, sistemi informativi e basi conoscitive create o aggiornate congiuntamente. Conclusioni Il contributo si connatura come un’introduzione a una delle sezioni di un portolano mediterraneo: la sua conclusione non può che essere l’opera stessa. Questa chiave di lettura, costituita dalla cardinalità storico-culturale e dalla climatico-paesaggistica, rappresenta un approccio valevole per testimoniare il sottile progredire di una ricucitura e un riavvicinamento tra comunità del mediterraneo. Questo approccio applicato nel caso dell’Adriatico si limita a una visione di insieme, ma dovrebbe immergersi alle singole dimensioni per capire esiti, processi e fenomeni culturali e climatici. Questa dimensione traguarda altri contesti mediterranei: medesime dinamiche potrebbero essere lette sulle coste libanesi, turche, nel Golfo del Leone e della Sirte, nel Mare di Alborán. Nei diversi passaggi di scala del portolano emergerebbero poiesi che supporterebbero la teoria che il mediterraneo sia un effettivo ensemble di episodi precorritori e forieri e che vi sia una tensione al ritorno da cui poter apprendere reciprocamente. Il tentativo dell’approccio analogico è stato nel Mediterraneo efficace

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perché basato sulla sedimentazione di fasi di sincretismo – micenea, ellenistica, veneziana e ottomana. Viene da chiedersi se nell’affrontare le sfide del nostro tempo non sia possibile ripercorre l’eterotopia tra contesti affini. Il Mediterraneo, nelle diverse declinazioni, si offre come supporto al progetto dell’architettura e del paesaggio perché si offre come antologia di archetipi ibridi e artefatti progettuali, i cui confini sono confusi e gli esiti incerti, ma che possono trasmettere che la permeabilità tra civiltà4 è un valore che appartiene al presente.* NOTE 1 – Dioemede pare insegnò l’arte della navigazione alle genti adriatiche: il suo mito, in una qualche forma, ha unito i popoli marinari di questa regione. 2 – Come il ciclo antologico delle Maldobrie di Lino Carpinteri e di Mariano Faraguna (1965). 3 – Tra questi trovano posto i principali programmi di coordinamento, tra cui i Sustainable Development Goals dell’ONU. 4 – Sono beni culturali e beni paesaggistici “[...] le testimonianze aventi valore di civiltà”, Art. 2, D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. BIBLIOGRAFIA – Beck, U. (2016). The metamorphosis of the world: How climate change is transforming our concept of the world. Cambridge: John Wiley & Sons. – Beck, U. (2017). La metamorfosi del mondo. Roma-Bari: Editori Laterza. – Brandi, C. (1992). Terre d’Italia. Roma: Editori riuniti. – Braudel F. (1985). La Mediterranée. Milano: Bompiani. – Cervellati, P. L. (2000). L’arte di curare la città. Bologna: Società Editrice il Mulino. – Cocco, E., Sabatino, P. (2013). Turismo urbano e turismo nautico nella multi-città adriatica, 41-57. Milano: FrancoAngeli. – EEA (2016). Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2016. An indicator-based report. Bruxelles. doi:10.2800/534806. – Fiori, F. (2021). Isolario italiano. Storie, viaggi e fantasie. Portogruaro: Ediciclo Editore. – Horciani, F., Zolo, D. (2005). Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde. Roma: Jouvence. – IPCC (2021). Summary for Policymakers. In Climate Change 2021: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [MassonDelmotte, V., P. Zhai, A. Pirani, S.L. Connors, C. Péan, S. Berger, N. Caud, Y. Chen, L. Goldfarb, M.I. Gomis, M. Huang, K. Leitzell, E. Lonnoy, J.B.R. Matthews, T.K. Maycock, T. Waterfield, O. Yelekçi, R. Yu, and B. Zhou (eds.)]. Cambridge: Cambridge University Press. – Matvejević, P. (2010). Breviario mediterraneo. Milano: Garzanti. – Maragno, D., dall’Omo, C. F., Pozzer, G., Bassan, N., Musco, F. (2020). Land–Sea Interaction: Integrating Climate Adaptation Planning and Maritime Spatial Planning in the North Adriatic Basin. Sustainability. Vol.12(13):5319. doi.org/10.3390/su12135319. – Pupo, R. (2021). Adriatico amarissimo. Roma-Bari: Editori Laterza.

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Matteo Benedetti Architetto, PhD in Composizione Architettonica, Università Iuav di Venezia. info@matteobenedetti.com

Verso una forma

01. Origine, 2017. Matteo Benedetti

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Oltre il mediterraneismo Towards a Form Mediterraneanism is the exotic image of a mythical Mediterranean, borrowed from the Orientalism of the Thousand and One Nights, which sees the sea between Europe and Africa as a place of traditional values antithetical to the oceanic North. In a world made of increasingly advanced and therefore increasingly invisible techniques, an original mediterranean architectural paradigm could be profoundly discovered again in tune with the times to come. Times in which the active forms of an increasingly sophisticated technique will rest like an integral and invisible veil on the objects of our daily life.* Il mediterraneismo è l’immagine esotica di un mediterraneo mitizzato, mutuata dall’orientalismo delle Mille e una notte, che vede il mare tra Europa e Africa come luogo dei valori tradizionali antitetico al Nord oceanico. In un mondo fatto di tecnica sempre più avanzata e dunque sempre più invisibile, un paradigma architettonico profondamente mediterraneo potrebbe scoprirsi nuovamente in sintonia con i tempi a venire. Tempi in cui le forme attive di una tecnica sempre più sofisticata si poggeranno come un velo integrale e invisibile sugli oggetti della nostra vita quotidiana.*

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ran parte della costruzione del mito e dell’immagine del Mediterraneo proviene da voci esterne, è una visione essenzialmente nordica: il Mediterraneo sublime di Goethe e Stendhal, quello visuale di Guy de Maupassant ne La vita errante, quello notturno e germanico dei versi di Hölderlin, il Mediterraneo filologicamente plasmabile di Schinkel, il Mediterraneo fatto di luce e ombra di Le Corbusier, quello sintattico e logico di Mies van der Rohe, quello simbolico di Gunnar Asplund, infine, il Mediterraneo della sconfinata produzione pittorica che va da quello idealizzato di Lorrain al Mediterraneo densamente policromo di Klee. Tutte raffinate interpretazioni meridiane che riflettono su un oggetto dalla distanza. Dal Settecento in poi, attraverso la cultura del Grand Tour, il Mediterraneo ha rappresentato un serbatoio da cui attingere temi per un successivo mescolamento e ricomposizione dei linguaggi degli artisti. La sofisticata mitopoiesi e l’interpretazione dei luoghi erano imperniate nella dimensione del viaggio come atto conoscitivo. Il viaggio di chi, proveniente dal Nord moderno, attraversava terre in cui convivevano l’affascinante spettro dell’antico e fenomeni di profonda arretratezza. Un Mediterraneo che esiste nella rappresentazione e nel racconto, un luogo sublimato che ha il valore di simulacro, affascinante ma distante dalla realtà. Oggi osserviamo la versione deteriorata, pop-commerciale, di questo Mediterraneo inventato, quella a uso e consumo del turismo di massa. Un’immagine pubblicitaria tanto più potente quanto più sia trasferibile la comunicazione dell’esotismo e di un vagheggiato tradizionalismo. Un Mediterraneo fatto di pochi luoghi fotogenici per le immagini di impatto dei social network: i trulli della valle d’Itria rifunzionalizzati e circondati da prati all’inglese, le grotte di Matera o gli spazi ipogei di Matmata ricoperti all’interno di resine color terra, le ville bianche delle isole greche con piscine azzurre affacciate sul blu dell’Egeo. Più è potente l’ossimoro di questo esotismo in vendita, più è grande la distanza tra la particolarità paesaggistico-architettonica, l’atmosfera arcaica e

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le comodità di un’ospitalità di prima categoria, più funziona l’immagine estetizzante, la comunicazione e il successo commerciale di questo Sud come parco tematico. A questo Mediterraneo idealizzato, insignificante per estensione rispetto al tutto, fanno da contrappunto le zone di tensione sociale, le coste dense di case non finite e di cartelli vendesi ingialliti, gli enormi complessi turistici o le infrastrutture in disuso, i nuclei archeologici abbandonati perché fuori dalle rotte turistiche e i centri urbani che inesorabilmente si spopolano. Il Mediterraneo è dunque spesso definito, alterandone l’immagine reale, dal mediterraneismo, ampiamente descritto da Francescomaria Tedesco nel suo Mediterraneismo – Il pensiero antimeridiano (2017). Luogo arretrato, orientale, anti tecnico, statico, arcaico e proprio per questo liricizzato come alternativa al Nord spersonalizzato del capitalismo oceanico. Criticando il pensiero di autori come Franco Cassano o Franco Arminio, Tedesco riconduce la mitizzazione dello spazio mediterraneo a quanto già avvenuto con l’immagine edulcorata dell’Oriente dal punto di vista occidentale. “Siamo sicuri che l’approccio dell’alternativa mediterranea […] che ricorre in una diffusa sensibilità culturale che si è fatta strada negli anni e che ha puntato sul Sud e sul Mediterraneo esaltandone tradizioni e valori oppure rivendicando una eccezionalità mediterranea in ambito storico, filosofico, estetico, politico, si affranchi da una prospettiva orientalista? E che questo distanziarsi non conduca verso una forma più generale ma più sottile di orientalizzazione, ovvero di sclerotizzazione ed esotizzazione di caratteristiche date per generali e condivise nel tempo e nello spazio?” (Tedesco, 2017). Questa forma di alterazione della realtà, a ben vedere, proviene solitamente da una visione coloniale, dunque da una cultura egemone, nei confronti di realtà meno importanti e marginali. Infatti, i luoghi che si affacciano sul mar Mediterraneo pur conservando una centralità geografica tra continenti e culture diverse, hanno senza dubbio perso il ruolo di baricentro globale di produzione economica, culturale, geopolitica che hanno avuto, con vicende alterne, per diversi secoli.

Dovremmo riflettere sulla marginalità del Mediterraneo oggi, una marginalità che amplifica queste narrazioni, e intersecarla con quella dell’architettura. Luoghi, idee e discipline possono trovarsi in sintonia con un periodo della storia e dunque determinarlo. Analizzando il Mediterraneo come luogo e l’architettura come disciplina, in questo primo quarto di secolo, si constata la loro inattualità e lontananza dal centro propulsivo delle attività umane. La nostra è l’epoca che vede un ulteriore livello della tecnica permeare nel profondo ogni settore dell’umano. La tecnica, sempre più potente e autonoma, si è inserita nel momento in cui si sono disintegrate le idee del postmodernismo. La condizione neomoderna ribadisce alcuni concetti della modernità classica, modificati secondo una struttura più articolata e indefinita1. Oggi la tecnica non persegue un’idea di progresso generalmente condiviso come è accaduto in passato, ma aumenta a dismisura la propria potenza per raggiungere scopi, muovendosi caoticamente verso molte direzioni. Se nella modernità classica il cosiddetto progresso, dunque la scienza applicata e la tecnica, procedeva secondo un vettore lineare verso il futuro, oggi la tecnica è una sfera che si espande e si trasforma quantitativamente a dismisura. I temi relativi al postumano, alla biotecnologia, agli algoritmi e alla religione dei dati2, ai nuovi metodi di approvvigionamento di energia, monopolizzano il discorso mediatico e le agende politiche. Persino il capitalismo si trova al servizio di questa visione teleologica della tecnica. E come scrive Emanuele Severino a proposito del rapporto tra capitalismo e tecnica: “Quando una forma di azione non persegue più il proprio scopo originario, anche questa forma sparisce” (Severino, 2021). Nel traslare questa affermazione alla disciplina architettonica, si nota come questa abbia perduto alcuni dei suoi scopi originari, culturali, sociali, economici, estetici. Con il capitalismo avanzato e il calo della crescita demografica, soprattutto nelle nazioni più ricche del Pianeta, gli investimenti sono migrati verso plusvalenze maggiori e con minori condizionamenti fisici, depotenziando il ruolo dell’architettura in

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questo ambito. Anche sul fronte della comunicazione l’architettura non è più il medium preferito del potere o di alcune classi sociali per rappresentarsi. Inoltre, negli ultimi anni, lo spazio virtuale disciolto in quello fisico ha avuto un ruolo dominante rispetto a quest’ultimo. L’architettura da disciplina autorevole e autonoma è diventata spesso servizio al sofisticato gioco di sponda tra mercato e tecnologia, incapace di incidere nel profondo della vita. Gli architetti hanno rincorso la novità e la differenza che il mercato ha imposto di volta in volta e le questioni tecnologiche hanno condotto le fasi più sensibili del progetto architettonico. Oggi, il management che direziona e definisce l’investimento o i tecnici che progettano l’impiantistica e le componenti energetiche di un edificio, hanno un ruolo nelle scelte progettuali maggiore rispetto all’architetto, relegato alla definizione di un design epidermico e vendibile.

La disciplina ha risposto a questa situazione sostanzialmente in due modi: da una parte è confluita in questo ruolo di servizio marginale ai processi di trasformazione dello spazio attraverso un professionismo tanto avanzato quanto orfano di una visione profonda e strutturale dei fatti della forma, dall’altra si è arroccata in posizioni accademiche chiu-

La nostra è l’epoca che vede un ulteriore livello della tecnica permeare nel profondo ogni settore dell’umano

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se che, in maniera minoritaria e autoreferenziale, ricorrono a modelli aziendali di produttività, misurabilità ed efficientamento dei saperi che soffocano i modelli di conoscenza ibridi e trasversali di una visione più aperta e sistemica. È arduo delineare soluzioni semplici a problematiche così

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complesse che, tra l’altro, hanno implicazioni economiche, geopolitiche, tecnologiche, dunque esogene all’architettura. Si possono però ipotizzare alcuni temi utili per inserirsi tra le fratture e gli spiragli del nostro tempo e tentare di capire quali leve si possono attivare per riportare la cultura architettonica in fase con la realtà. Può l’architettura, e nello specifico quella di un’area mediterranea, perseguire ancora i propri scopi originari senza ricorrere a utopie regressive? Potrà partecipare alla definizione e al miglioramento dell’abitare umano attraverso la forma intesa come struttura complessa in cui concorrono tutti gli aspetti del progetto e non solamente operando sulla superficie delle cose e nei processi concettuali e comunicativi che la determinano? Come possono essere declinati alcuni caratteri di permanenza nell’architettura che abita lo spazio mediterraneo?

sono compenetrati negli anni. Questo dibattito sul linguaggio ha raramente rifiutato la tecnica all’interno del progetto che è stata ricondotta a strumento nella totalità della forma architettonica. Si pensi alle raffinate espressioni di architetti come Gio Ponti, nella cui opera sono ibridate posizioni novecentiste, atmosfere mediterranee mutuate dal collega e amico Bernard Rudofsky, avanzate tematiche produttive industriali e interpretazioni strutturali della migliore ingegneria italiana. La cultura italiana ha anche prodotto figure meticcie e trasversali come Leonardo Sinisgalli che ha combinato la conoscenza tecno-scientifica con una straordinaria capacità poetica: “Scienza e Poesia non possono camminare su strade divergenti […] Piero della Francesca, Leonardo e Durer, Cardano e Dalla Porta e Galilei hanno sempre beneficiato di una simbiosi fruttuosissima tra la logica e la fantasia” (Sinisgalli, 1951). La grande avventura della modernità architettonica di quel tempo aveva come base la modernità industriale, la quale ha avuto sviluppo importante in Italia, nonostante un sensibile ritardo rispetto ad altre nazioni. L’Italia, il Sud dell’Europa, il Mediterraneo in senso lato, non partecipano oggi al grande gioco della tecnologia avanzata che risiede in altre aree del Pianeta. Una tecnologia che sta costruendo un paesaggio mescolato tra realtà fisica e virtuale, tra infrastrutture e sensori, architettura e automazione degli edifici, tra corpo umano e dispositivi. Una tecnologia che più avanza e diventa pervasiva – anche con scenari inquietanti come descritto da Zuboff ne Il capitalismo della sorveglianza (Zuboff, 2019) – più arretra nella sua evidenza visiva, ricoprendo con un velo impalpabile qualsiasi oggetto e avverando la profezia di Mark Weiser: “Le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono. Si legano al tessuto della vita quotidiana fino a diventare indistinguibili da esso” (Weiser, 1991).

Può l’architettura, e nello specifico quella di un’area mediterranea europea, perseguire ancora i propri scopi originari senza ricorrere a utopie regressive? Vengono in mente la supremazia del visibile e dell’oggetto rispetto al processo, la materia declinata in forma come risvolto della resistenza alla luce e al consumo del tempo, paradigma essenziale di ogni vera sostenibilità, e un approccio alla tecnica in cui la disciplina non è esclusa ma è interiorizzata e sublimata in forma. Certa architettura dell’area mediterranea, per esempio quella italiana, avendo assorbito la modernità con ritardo, l’ha meditata e filtrata più lentamente3. I feroci dibattiti della prima metà del Novecento tra posizioni definite avanzate e quelle legate a una visione di conservazione, hanno creato infinite zone di grigio in cui gli estremi si

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Tra i temi più importanti che l’architettura del prossimo futuro dovrà affrontare, si evidenziano il rapporto con l’universo tecnico progressivamente più pervasivo e il confrontarsi con una mobilità sempre più diffusa e incessante dello spazio infrastrutturale. Riflettere su alcuni temi originari che sottendono la cultura architettonica mediterranea – temi profondi e universali dunque non malleabili alle liricizzazioni del mediterraneismo contingente – potrebbe portare a una più sofisticata comprensione e interpretazione della tecnica all’interno dello spazio architettonico. Dato per assunto che la tecnica si configura ormai come fine e non più come semplice strumento al servizio delle varie discipline, si possono tentare inedite sintonie tra tecnica e architettura. L’architettura, svincolandosi dal ruolo di inter­faccia con la creazione di dispositivi che diventeranno via via più sofisticati e invisibili, potrebbe accogliere funzioni sempre più indipendenti dalla forma. Le atmosfere silenziose, materiche, stabili, opache e essenzialmente formali dell’architettura mediterranea potrebbero ribaltare la marginalità subita degli ultimi anni in una inedita adeguatezza alla costruzione delle scene spaziali di questi mondi. L’high-tech, l’architettura come opera statica che simula il movimento e il flusso del mondo virtuale, l’architettura sommersa dal verde che tenta un’intesa superficiale con l’emergenza del momento, sembrano tutte espressioni linguistiche che vanno incontro a una obsolescenza rapida con l’avanzata della tecnica immateriale descritta prima. Un ragionamento tra quelle che sono le forme oggettuali e le forme attive, tra la loro indipendenza e il loro intreccio, può portare soluzioni che riabilitano una centralità dell’architettura nella trasformazione intensa e radicale dello spazio in cui viviamo4. In fin dei conti questo è l’aggiornamento, secondo un paradigma tecnologico, del rapporto tra vita e forma descritto da Georg Simmel più di un secolo fa5. E vita e forma sono elementi separati e indipendenti ma strutturalmente intrecciati e compenetrati tra di loro.*

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NOTE 1 – Si rimanda al testo La condizione neomoderna di Roberto Mordacci (2017). “L’età contemporanea è segnata dalla percezione diffusa di una fissità delle relazioni e dalla mancanza di un orientamento, ovvero di senso, dell’agire individuale e sociale. Questa percezione, paradossalmente, è prodotta dal dinamismo incessante della tecnologia […] Rispetto alla filosofia della storia moderna (il cui modello è sempre qui, in realtà, quello hegeliano), è stata soppressa l’idea di una direzione e di un unico orientamento per la storia mondiale.” 2 – Sulla religione dei dati e il dataismo è interessante l’intreccio di pensieri complementari rintracciabili in Homo Deus di Yuval Noah Harari (2015) e ne L’innominabile attuale di Roberto Calasso (2017) che cita, su questo tema, lo storico israeliano Harari. 3 – Nel libro La misura italiana dell’architettura (2008), Franco Purini ragiona in più punti su questi temi, in maniera più approfondita nel capitolo La singolarità italiana. 4 – Si rimanda al testo Lo spazio in cui ci muoviamo, l’infrastruttura come sistema operativo di Keller Easterling (Treccani, 2019). Nello specifico al capitolo La disposizione in cui si analizza il rapporto tra forme oggettuali e forme attive e all’equivoco di molti architetti di ricorrere alla simulazione e alla rappresentazione, nella forma oggettuale di una architettura, di una azione o una attività, invece di incorporarne i temi strutturali e profondi. 5 – La dialettica tra espressioni della forma e fluire della vita si ritrova nella filosofia di Simmel e, in ambito italiano, nel saggio L’umorismo di Luigi Pirandello. BIBLIOGRAFIA – Severino, E. (2021). Tecnica e Architettura. Milano: Mimesis. – Sinisgalli, L. (1951). Natura calcolo fantasia. Pirelli, IV, 3, maggio-giugno, p.56. – Tedesco, F. (2017). Mediterraneismo. Il pensiero antimeridiano. Milano: Meltemi. – Weiser, M. (1991). The Computer for the 21th Century. Scientific American, vol. 265, n.3, pp. 94-105. – Zuboff, S. (2019). Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Roma: Luiss University press.

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Traffici marittimi

COMMERCIO MARITTIMO INTERNAZIONALE PER TIPOLOGIA DI MERCE E DI NAVE. FONTE: MARINE TRAFFIC, 2019

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INFONDO


Il trasporto di merci su scala globale è oggi assorbito per il 90% dalla modalità marittima che si muove su quasi 100 mila navi solcando le principali rotte mondiali. Negli ultimi anni, con la forte delocalizzazione dei centri produttivi verso l’area dell’Estremo Oriente, il Mediterraneo, che è sempre stato uno spazio di connessione tra Est e Ovest, ha assunto un ruolo di crescente centralità nelle strategie di trasporto, registrando il transito del 20% del traffico mondiale e il 27% dei servizi di linea. In tale con-

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testo, tra i chokepoint – ossia i passaggi obbligati – il canale di Suez rappresenta uno degli snodi fondamentali: solo nel 2019 sono transitate 1,2 milioni di tonnellate di merci, circa 19 mila navi (più di 50 al giorno) e oltre 44 milioni di container. Richiamando con il suo nome l’epoca d’oro degli scambi nei grandi spazi euroasiatici, una nuova Via della Seta marittima si sta configurando proponendosi al tempo stesso come una strategia, un cambio di paradigma e, a suo modo, un auspicio.

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Roberta Lotto Fotografa, FTW Follow the Women; Una Strada Onlus. roberta.lotto@gmail.com

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a carriera di Antoine-Laurent de Lavoisier, chimico e fisico francese vissuto nella seconda metà del XVIII secolo, padre della chimica moderna, partendo dai suoi studi mineralogici sui cristalli di gesso, arrivando alla scoperta di come aria e acqua siano un assieme di elementi, culminerà nella redazione della Legge di conservazione della massa, della quale tutti ricordiamo il principio base del “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Postulato di Lavoisier, 1789). Basandosi su questo principio, facilmente applicabile a una varietà di analisi anche con approccio storico e filosofico, Roberta Lotto si è accorta di come il suo documentare una moltitudine di luoghi e popolazioni, anche geograficamente lontane ma in qualche modo comunicanti, la mettesse di fronte alla prova tangibile di come tutto ciò che c’era prima si ritrovi anche dopo l’avvenuta azione/reazione. In quanto esseri umani, nella questione che ci riguarda, la trasformazione diviene il prodotto della contaminazione e dell‘integrazione che, arrivate fino a noi, sviluppano nuove rotte per orientare il percorso dell’uomo verso il proprio futuro. L’incessante scambio culturale avvenuto tra popolazioni in qualche modo Mediterraneo-tributarie è stato mantenuto senza posa influenzando fatalmente tutto ciò che entra in contatto con la costante produzione di idee, nate e sviluppate in ambienti disparati ma collegati. La pelle, come la parola e gli edifici tramandati tra le generazioni, ovvero tutte le tangibili e spirituali testimonianze antropomorfe, sono a proprio modo inequivocabile simbolo di ereditaria dignità, del segno di chi è stato qui-allora per un nuovo qui-e-ora. Il tempo e la decadenza che ne con-

Emanuele Salvagno Stampatore, curatore, editor – Spazio Cartabianca. hello@emanuelesalvagno.it

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segue non sono la manifestazione di una fine, ma altro non fanno che rigenerare e fertilizzare il terreno di una crisis di naturale evoluzione, come la silenziosa forza di un vulcano. Antiochia, Rodi, Atene, Creta, Cartagine, Alessandria, Roma, Bisanzio, Marsiglia e Venezia sono solo alcuni dei grandi poli fatti di persone e marmo, di scambio e conservazione della ricchezza culturale e antropologica. Tutti si sono alternati nello scorrere del tempo, ognuno con il suo apporto e il suo assorbimento, in quanto vasi osmotici di un Mediterraneo tanto mezzo di trasporto quanto custode e misura della memoria e del progresso. Siamo quindi noi multiple popolazioni, di fatto eredi portatori della inesauribile ricchezza tangibile e intangibile di un patrimonio millenario, ad essere dal Mediterraneo continuamente e direttamente attraversate.* Emanuele Salvagno Mediterranean Stadia of Memory “Nothing is created, nothing is destroyed, everything is transformed”: according to this formula, contaminations and integrations, which have reached us, develop new routes of the human journey. The incessant cultural exchange between Mediterranean populations has been constantly maintained, fatally influencing everything that comes in contact with the constant production of ideas born and developed in its basin. We are, as several populations, heirs bearers of the inexhaustible tangible and intangible wealth of a millenary heritage, continuously and directly crossed by the Mediterranean Sea.*

01. La forma umana | The human form. Dodecanese (Greece), Lipsi, 2021


Mediterraneo stadia di memoria


Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma

02. Diffusione e diaspora umana | Spread and human diaspora. Dodecanese (Greece), Nisyros, 2021 03. Pietra, base della prosperità | Stone, the basis of prosperity. Thassos (Greece), Skidia, 2016 04. Marmo, la pietra nobile | Marble, the noble stone. Thassos (Greece), Skidia, 2016 05. Il mare, in luogo della storia | The sea, instead of history. Dodecanese (Greece), Leros, 2015



06. Asclepion vs Kusama. Dodecanese (Greece), Kos, 2021 07. Evoluzione del pensiero, maturazione e sfida | Evolution of thinking, maturation and challenge. Thassos (Greece), Metalia, 2016 08. Le Cariatidi di Venezia | The Caryatids of Venice. Biblioteca Marciana, Venezia (Italia), 2020 09. Le Cariatidi di Venezia | The Caryatids of Venice. Piazzetta San Marco, Venezia (Italia), 2020


In quanto esseri umani la trasformazione diviene il prodotto della contaminazione e dell‘integrazione


Siamo noi multiple popolazioni ad essere dal Mediterraneo continuamente attraversate

10. Tetraktys. Thassos (Greece), cava di marmo, 2016 11. Mnemosine e Lete, equilibrio tra memoria e oblio | Mnemosine and Lete, balance between memory and oblivion. Somewhere, 2015 12. La sorprendente questione della fusione, del divenire, della molteplicità | The surprising question of fusion, of becoming, of multiplicity. Rhodes (Greece), Prasonisi, 2014



Paolo Fortini Architetto, Dottorando di ricerca, Politecnico di Bari. paolo.fortini@poliba.it

Progetto urbano e geografia Giuseppe Tupputi Aión Edizioni, 2021

Understanding Nature The contemporary city, in its expansion and fragmentation, has lost much of its symbolic-representative content. Tupputi’s work tries to re-establish a relationship of conformity and correspondence between the principles and forms of the city and the forms of the Earth, a relationship that has ancient origins. “There is a way of copying nature and there is a way of understanding nature” (Munari, 1996). Without any imitative intent, the author proposes the urban project as an interpretation of morphologies of the territory, through a “geographical thinking” and a critical cartographic representation.*

Capire la natura el corso della storia molti insediamenti sono sorti in seguito a lenti processi di riconoscimento e interpretazione di quelle specifiche qualità formali e spaziali insite negli elementi geografici che compongono la superficie terrestre” . L’uomo, nel tempo, ha stretto legami di dipendenza e appartenenza con alcune di queste “forme elettive” della Terra. Nella contemporaneità però, lo sviluppo della città, dalla metà del XX secolo in poi, ha progressivamente disgregato la sua unità di forma, disperdendosi nel territorio, in modalità frammentarie e senza regole definite. Il superamento dei limiti della città ha generato gli spazi di margine delle periferie, che sono i luoghi che oggi mostrano maggiori caratteri di degrado fisico e sociale. Progetto urbano e geografia di Giuseppe Tupputi parte da qui: dal ricordare la lezione alla radice della relazione tra l’uomo e lo spazio, che egli vive e abita; e dal “denunciare” i fenomeni e le cause della crisi della città contemporanea, riferendoli chiaramente allo smarrimento del rapporto tra le forme della città (o le forme della architettura) e le forme della Terra. Tupputi sembra suggerire una riflessione sul nomos della Terra (Schmitt,1991), inteso come ordine che soggiace alla relazione tra territorio e modalità di abitarlo. Egli intende stu-

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diare e recuperare il rapporto di corrispondenza che si instaura tra le forme del sostrato orografico o degli elementi naturali, e le forme dell’architettura, che è stata a lungo una modalità teoretica di costruzione della città, soprattutto nell’alveo dell’esperienza italiana del Secondo dopoguerra. Una “teoria delle corrispondenze” nella quale non vi è alcuna “pratica imitativa” della natura. Una tensione all’imitazione che è invece un carattere prominente in molti progetti contemporanei, dove si manifesta un annullamento dell’architettura verso la configurazione di una città “fatta” di natura, che prova a sostituirsi, artificialmente, alla natura stessa dei luoghi. Appare dunque necessario avviare una sperimentazione di nuovi strumenti di lettura delle qualità delle forme naturali del territorio, che pre-esistono alla costruzione dei modelli insediativi e formali. L’autore propone l’elaborazione di un nuovo modello concettuale e metodologico, attraverso la “descrizione geografica”. Essa assume la condizione di unicum antropogeografico (Gregotti, 1966), in “dialogante unità” tra città-natura; favorisce una indagine multiscalare dei fenomeni osservati e, non essendo dotata di una sua teoria scientifica, le viene affidato il compito di rappresentare le “metafore della realtà” (Dematteis, 1985). Il “metodo geografico” che viene approfondito in categorie, modelli e tec-

IL LIBRO


Corsi urbani sui crinali – Varianti I e II

Corsi urbani sui crinali – Varianti III a

Corsi urbani sui crinali – Varianti III b

Corsi urbani sui crinali – Varianti III c

01. Planimetrie e modelli tridimensionali delle differenti ipotesi di aggregazioni urbane per il quartiere alto della Magliana di Saverio Muratori | Plans and models of different hypotheses of urban aggregations for the upper district of Magliana by Saverio Muratori.

niche, è posto in continuità al lavoro di due maestri italiani, Saverio Muratori e Agostino Renna, che in modi differenti e quasi complementari hanno contribuito a identificarne il campo di studi. È importante notare come nel cambio di paradigma, da “architettura della città” ad “architettura del territorio”, il lavoro che svolge Tupputi nel libro si affidi sempre alla dimensione di progetto operante. Non vi è infatti alcun abbandono a una condizione di “territoriologia involontaria”, a una città che si fa da sé. Gli esempi dei progetti riportati rimarcano la condizione di “intenzionalità”, dove la geografia diventa non più analisi ma tesi di progetto, e la descrizione diventa “invenzione del modo di fare mentre si fa” (Semerani, 2008). C’è di più: vengono presentate quattro esperienze progettuali che si riferiscono direttamente alle condizioni topografiche e quindi topologiche del

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sostrato fisico (città di crinale, città lagunare, città pedecollinare, città d’altura). Tali esempi sono proposti come modelli che afferiscono tutti alla medesima idea di città geografica, come se quelle fissate fossero condizioni estendibili all’intera superficie terrestre, riportando così il progetto di architettura a “progetto del mondo”. Emblematica è l’immagine del confronto tra gli ideogrammi dei progetti moderni con i modelli antichi. Nonostante i progetti presentino tecniche diverse, tutti si impostano chiaramente su un più profondo rapporto sintattico con le forme della geografia. I princìpi operati assumono carattere di generalità e atemporalità e sembrano riferirsi non più alle condizioni isolate di quei luoghi ma a nuove grammatiche, proprie della città geografica. In questo vi è uno dei contributi più significativi del lavoro di Tupputi alla ricerca contemporanea sul pro-

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getto urbano. L’autore, rispondendo al “quale” sia la città di oggi, propone la teoria della città geografica; e, problematizzando il “come” essa si possa costruire, descrive un nuovo ordine, impostato su grammatiche arricchite di “temi e variazioni, di corrispondenze e contrappunti, di rimandi continui, di forme che mutano, pur mantenendo un legame indissolubile con la loro origine di senso, come la struttura di una danza, e che misurano le forme dell’uomo sulle forme della Terra.* BIBLIOGRAFIA – Dematteis, G. (1985). Le metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza. Milano: Feltrinelli. – Gregotti, V. (1966). Il Territorio dell’architettura. Milano: Feltrinelli. – Munari, B. (1966). Arte come mestiere. Bari: Laterza. – Schmitt, C. (1991). Il Nomos della Terra. Milano: Adelphi. – Semerani, L. (2008). Prefazione. In Ravagnati, C., Dimenticare la città. Pratiche analitiche e costruzioni teoriche per una prospettiva geografica dell’architettura. MIlano: FrancoAngeli.


Marco Scarpinato Architetto, paesaggista, PhD, gruppo di ricerca Deserti•Tascabili. archmarcoscarpinato@gmail.com Lucia Pierro Architetto, PhD, co-fondatrice di AutonomeForme. Architettura. arch.luciapierro@gmail.com

An Archipelago of Gardens Mazara del Vallo, a Sicilian city located less than 200 km from the Tunisian coast, is a syncretic and multifaceted place, where the landscape and the urban spaces, with their churches, monumental buildings, and the Kasbah, are shaped by the long coexistence of multiple identities, narratives, and cultures. The current vegetal colonisation of numerous temporarily abandoned areas outlines new ways of circular and sustainable ways of living, providing a range of solutions that can be disseminated and hybridised to implement new alliances between humans and nature in the Mediterranean and elsewhere.* 01. La Cattedrale di Mazara del Vallo | Mazara del Vallo Cathedral. Marco Scarpinato

azara del Vallo, città siciliana distante meno di 200 km dalle coste tunisine, è un luogo sincretico e multiforme dove il “Mediterraneo parla con molte voci” (Braudel, 1987, p. 13) e dove la “natura nella quale la civiltà rispecchia se stessa” (Assunto, 1973, p. 29) racconta sia la fatica degli agricoltori che coltivano viti e ulivi secolari sia il lavoro dei pescatori che, partendo dal Porto Canale, si spingono a lambire le coste del nord Africa.

La coesistenza di molteplici identità, storie e culture si manifesta nelle forme urbane e nel paesaggio inteso secondo la Convenzione Europea¹ ed è connessa alla presenza del mare che conferma quanto, a Mazara del Vallo, sia applicabile la descrizione che Chambers fa del Mediterraneo “non tanto come frontiera o barriera […] quanto piuttosto come sede agitata di incontri e correnti”, di Chambers (2007, p. 34). A Mazara del Vallo l’incontro tra Europa e Africa e la compresenza di tradi-

zione urbanistica islamica ed europea permea la vita sociale e definisce gli spazi urbani dove si alternano grandi piazze, edifici barocchi, reticoli di aree private, vicoli e cortili – ben descritto da Gancitano (2004)² – e un tessuto di costruzioni abbandonate e dirute in cui la colonizzazione vegetale sta rendendo sempre più sfumato il confine tra artificio e natura. Il centro storico accoglie una straordinaria miscellanea di chiese e edifici monumentali come la Cattedrale, sede della più antica dio-

Un arcipelago di giardini

La colonizzazione vegetale degli spazi urbani di Mazara del Vallo come strategia sostenibile

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L'ARCHITETTO


Mazara del Vallo è un luogo sincretico e multiforme dove il “Mediterraneo parla con molte voci”

02. Il laboratorio ConnectingCity\Mediterranean Landscapes | The ConnectingCity\Mediterranean Landscapes lab. Lucia Pierro

cesi di Sicilia eretta dai Normanni nel 1093 (img. 01) sui resti di un precedente luogo di culto arabo; l’antica Kasbah ove vive una delle principali comunità tunisine d’Italia3, il cui stretto e complesso rapporto con la comunità mazarese dimostra che “ritornare al Mediterraneo non significa reificare il mare o qualunque altra regione come un’area di unità culturali, ma offrire nuove lenti per osservare al trasnazionalismo in tutto il mondo” (Ben-Yehoyada, 2019, p. 29). Sin dall’antichità, in gran parte del Mediterraneo, giardini ed elementi naturali hanno qualificato e strutturato lo spazio urbano; nel caso di Mazara del Vallo, la città accoglie varie forme di natura come il Porto Canale che attraversa lo spazio costruito per ricongiungersi al Parco del Miragliano con i Giardini dell’Emiro e il fiume Màzaro, le cave in disuso ove prospera una rigogliosa vegetazione spontanea, i giardini di varie dimensioni delimitati da mura o incuneati tra case e strade e le aree verdi dall’apparenza quasi selvaggia che s’appropriano di cortili, spazi abbandonati e edifici diruti. I molteplici gradienti di natura che si sovrappongono al costruito possono diventare elementi identificativi per riqualificare e valorizzare gli spazi urbani

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delineando nuove forme d’interazione tra edifici e paesaggi. Partendo da questa visione, il laboratorio itinerante di paesaggio e architettura ConnectingCity\Mediterranean Landscapes⁴ propone una serie di iniziative – come incontri, letture, mostre, passeggiate urbane e workshop (img. 02) – volte a esplorare e progettare nuove modalità per riattivare le aree temporaneamente abbandonate creando un arcipelago di molteplici giardini: delle piccole isole che, riportando la natura negli spazi costruiti, contribui­ scono a diminuire l’inquinamento e a creare nuove relazioni urbane. Quest’idea di isole-giardino definisce un arcipelago verde all’interno della città e può essere attuata con una strategia che, eliminando la barriera pubblico-privato, valorizza i giardini spontanei e riattiva gli spazi temporaneamente abbandonati. Per questo occorre usare la forza delle piante che “trasformano in vita tutto ciò che toccano, facendo della materia, dell’aria, della luce solare, ciò che per il resto dei viventi diventerà spazio da abitare” (Coccia, 2018, p. 18). Il nuovo sistema di giardini di Mazara del Vallo non sarà solo un’infrastruttura ecologica a servizio della città ma diventerà un ar-


L’arcipelago di giardini definisce una rete di luoghi urbani significativi e disponibili a nuovi usi

03. I giardini spontanei lungo la ferrovia in disuso | The spontaneous gardens along the disused railway. Lucia Pierro

cipelago di isole interconnesse capaci di creare una rete di luoghi urbani significativi, disponibili a nuovi usi e attività che possano intensificare i legami e creare nuove relazioni tra persone e culture diverse. La descrizione dei giardini islamici sorti nel Mediterraneo suggerisce che essi sono “i cosiddetti paradisi, pieni di tutte le cose belle e buone che la terra è solita produrre” (Zangheri et al., 2006, p. 18). Luoghi di colture e culture, i giardini sono “spazi chiusi e limitati dove il meglio della natura si combina con il meglio della cultura […], il giardino può essere usato per preghiera, meditazione, contemplazione, produzione, rifugio, nascondiglio, luogo d’amore” (Barbera, 2021, p. 99). Considerando le molte chiavi interpretative, l’arcipelago di giardini delineato nel laboratorio ConnectingCity\Mediterranean Landscapes è pensato per Mazara del Vallo ma propone strategie progettuali che possono essere ricalibrate sulle peculiarità di altri contesti: –– Le “facciate giardino” che, partendo dalla relazione del giardino con lo spazio urbano, riconsiderano bordi e confini stabilendo vari gradienti di permeabilità: dai giardini

che s’insinuano tra le rovine disegnando spazi contemplativi, riservati e segreti, ai giardini pubblici che offrono nuovi luoghi d’attività, incontro e socialità (img. 04); –– I “giardini sensibili” ove l’uso della multiforme varietà di essenze, alberi e arbusti del Mediterraneo e di elementi della tradizione mediterranea (come cisterne, fontane, pergole e ombraculi), oltre a offrire strumenti per progettare volumi, vuoti, spazi di luce, ombra, silenzio, suoni, trame e profumi, sollecita diverse esperienze e amplifica la dimensione multisensoriale del giardino offrendo diverse modalità di coinvolgimento e condivisione; –– Le “reti di giardini” che, riattivando aree temporaneamente abbandonate, generano nuove risorse per attività pubbliche (mostre, laboratori, market, eventi collettivi) e qualificano lo spazio pubblico contemporaneo creando anche dei corridoi verdi: luoghi d’incontro e attività che, nel caso di Mazara del Vallo, sono connessi anche alla valorizzazione del Porto Canale, delle cave urbane e della ferrovia dismessa (img. 03); –– Le “strade giardino” immaginate

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L'ARCHITETTO


radigma della colonizzazione vegetale delle aree temporaneamente abbandonate le città potranno accogliere arcipelaghi di giardini che interpretano nuove modalità di abitare circolare e sostenibile fornendo un ventaglio di idee e soluzioni che potranno essere disseminate e ibridate per realizzare nuove alleanze tra umani e natura nel Mediterraneo e altrove.*

04. La colonizzazione vegetale del costruito | The plant colonization of the built environment. Marco Scarpinato

come una sequenza di linee vegetali che sfruttano l’infrastruttura urbana per definire percorsi, ampliarsi e restringersi, adattarsi ai marciapiedi e guadagnare spazio. Le “strade giardino” delineano un sistema di vegetazione in movimento capace di connettere le aree verdi e costruite, definendo un macrosistema in cui il giardino è potenzialmente infinito poiché sfrutta la continuità vegetale per diventare entità e creare reti verdi diffuse e sostenibili. Attraverso un progetto volto a ripensarli e a renderli adatti alla contemporaneità, i giardini di varie dimensioni e carattere delineati dal laboratorio ConnectingCity\Mediterranean Landscapes possono diventare l’elemento qualificativo di un nuovo modo di abitare, creando delle nuove e sostenibili trame ecologiche in ambito urbano disponibili per attività pubbliche di vario tipo, come isole di rinaturalizzazione urbana, spazi per produrre risorse alimentari aggiuntive e luoghi ove sperimentare nuove e più virtuose pratiche di cooperazione tra tutte le forme di vita5. La colonizzazione vegetale dei contesti urbani serve a costruire nuovi paradigmi di sostenibilità e forme bilan-

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ciate di coesistenza tra la dimensione naturale e quella antropica mediante un processo che risignifica e riattiva le aree urbane contribuendo a sviluppare nuove infrastrutture. Favorire le piante e le essenze caratteristiche della biodiversità mediterranea nell’opera di riconquista degli spazi antropizzati significa far germogliare una nuova estetica del giardino capace di accogliere nuove forme di vita spontanee, pioniere e resistenti. Questo scenario di un Mediterraneo in movimento e l’idea del sistema di isole-giardino volte a creare un arcipelago verde all’interno della città evidenziano che “dal mare giungono le novità, gli stranieri e gli invasori, in prossimità dell’orizzonte la desiderata stabilità del senso sfugge” (Chambers, 2007, p. 100). Per rispondere alle sempre più difficili condizioni urbane e agli assetti climatici in continuo divenire, serve – non a caso – l’adattabilità delle specie mediterranee e la loro straordinaria capacità di viaggiare, di stabilirsi in tutti gli areali del pianeta6 e di cooperare per affermare quella “spinta alla diffusione della vita che ha portato le piante a colonizzare ogni possibile ambiente della terra” (Mancuso, 2018, p. 11). Attraverso la realizzazione del pa-

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NOTE 1 – Secondo la Convenzione Europea del Paesaggio, siglata nel 2000, esso “designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (art. 1, p. 1). Per ulteriori approfondimenti: http:// www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it/uploads/2010_10_12_11_22_02.pdf (ultimo accesso: 13/03/2022). 2 – Enzo Gancitano in Per le strade di Mazara descrive l’incrocio di culture che caratterizzano l’identità urbana sin dall’insediamento. 3 – Si rimanda al blog: https://www.terrelibere.org/ gabbie-dacqua-e-diffidenza/?fbclid=IwAR3PK7Z1hTPyJtT2 x954lxR7F3Jcy0x32EyBdqxdfMkWpjGVRY745y65HsY&cnreloaded=1#_ftn15 (ultimo accesso: 13/03/2022). 4 – ConnectingCity\Mediterranean Landscapes è un laboratorio di paesaggio e architettura promosso da AutonomeForme e Deserti•Tascabili che parte da Mazara del Vallo e, attraverso tappe successive in altre città, mira a individuare e connettere le molteplici identità del Mediterraneo. 5 – Stefano Mancuso ne La Nazione delle Piante descrive la straordinaria capacità delle piante di consorziarsi, cooperare e incrociarsi per affermare la vita anche in condizioni climatiche estreme. 6 – Formazioni arbustive e arborescenti simili a quelle della Macchia mediterranea si trovano in altre regioni del pianeta caratterizzate da condizioni climatiche simili: in California (Charrapal), in Sudafrica (Fynbos), in Australia Occidentale (Kwongan), in Australia Meridionale (Malle) e in Cile (Matorral). BIBLIOGRAFIA – Assunto, R. (1973). Il paesaggio e l’estetica. Napoli: Giannini. – Barbera, G. (2021). Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene. Milano: il Saggiatore. – Ben-Yehoyada, N. (2019). Incorporare il Mediterraneo: Formazione regionale tra Sicilia e Tunisia nel Secondo dopoguerra. Milano: Meltemi. – Braudel, F. (1987). Il Mediterraneo: lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Milano: Bompiani. – Chambers, I. (2007). Le molte voci del Mediterraneo. Milano: Raffaello Cortina Editore. – Coccia, E. (2018). La vita delle piante. Metafisica della mescolanza. Bologna: il Mulino. – Gancitano, E. (2004). Per le strade di Mazara: toponomastica, storia, cultura, arte, tradizione, religiosità, leggende. Castelvetrano: Angelo Mazzotta Editore. – Mancuso, S. (2018). L’incredibile viaggio delle piante. Bari; Roma: Laterza. – Zangheri, L., Lorenzi, B., Rahmati, N.M. (2006). Il giardino islamico. Firenze: L.S. Olschki.


Ambra Pecile Dottoranda in Ingegneria civile-ambientale e architettura, DPIA, Università degli Studi di Trieste e Università degli Studi di Udine. ambra.pecile@uniud.it Christina Conti Professore associato di Tecnologia dell’architettura, DPIA, Università degli Studi di Udine. christina.conti@uniud.it Giovanni La Varra Professore associato di Composizione architettonica e urbana, DPIA, Università degli Studi di Udine. giovanni.lavarra@uniud.it

Industry and Sustainability The contribution, based on the real case study of the Friuli-Venezia Giulia region, proposes a critical reflection on the model of Ecologically Equipped Production Areas (APEA), highlighting the importance of a broader vision that can integrate the different scales of intervention with the specificities of the contexts to which they belong, intertwining economic, social and spatial dynamics. From this point of view, Italy, as a center of the Mediterranean basin, can represent a context of experimentation for the reuse and regeneration of production areas, also increasing the competitiveness of the national productive system.* indagine, in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle principali politiche nazionali e internazionali, e spinta dall’obiettivo di ripensare logiche di pianificazione e rigenerazione dei paesaggi industriali, dopo aver analizzato il contesto di riferimento dei distretti industriali attivi,

01. Capannone dismesso nei pressi dell’Area Ex-Bertoli a Udine | Disused industrial building near the Ex-Bertoli industrial area in Udine. Laura Pecile

Industria e sostenibilità

Politiche, scelte pianificatorie e strumenti per la gestione dei paesaggi industriali italiani

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L'ARCHITETTO


La forma del territorio che oggi ne risulta risponde a logiche di pianificazione eterogenee, frutto delle decisioni politiche di diversi attori, pubblici e privati

propone una riflessione critica sul dispositivo delle Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate (APEA). Nello specifico, la sperimentazione ha concentrato la propria attenzione sul caso di studio del territorio del Friuli-Venezia Giulia, regione di confine del Nordest d’Italia con importanza transfrontaliera che conclude a nord il bacino del Mediterraneo. Le APEA, sulla scia delle esperienze internazionali degli Eco-Industrial Park (EIP), vengono introdotte nella legislazione italiana durante gli anni ’90 del secolo scorso quale strumento di gestione e pianificazione del territorio avente l’obiettivo di ridurre il consumo di risorse e l’impatto delle aziende insediate per mezzo dell’applicazione di prìncipi riconducibili all’ecologia industriale e di sistemi di gestione ambientale dell’area¹. Tuttavia, il dispositivo delle APEA risulta oggi disatteso per ragioni di diversa natura: da un lato, si riscontra un’attuazione molto diversificata a livello nazionale in quanto introdotto da un disciplinare non prescrittivo, che ha visto l’assenza di una “cascata legislativa” alle diverse scale; dall’altro, presenta un notevole grado di complessità nella progettazione archi-

mq edificabili coltura arborea in gestione al Consorzio nucleo servizi azienda A azienza B mq affitati da B in vista di un’espansione futura azienda C azienda D

02. Schematizzazione di un possibile sviluppo di un lotto industriale, dove il consumo del suolo è accompagnato da un nuovo uso del suolo, caratterizzato dalla presenza della materia verde per riempire le aree in attesa | Outline of a possible development of an industrial site, where land consumption is accompanied by a new use of the land, characterized by the presence of green matter to fill the areas waiting to be reused. Laura Pecile

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tettonica e urbana, data dalla necessità di dover leggere e interpretare in chiave sistemica il complesso produttivo (Gallo, 2013). Ciò è ulteriormente amplificato dal fatto che le APEA riflettono il modello degli EIP, concepiti per aree di nuova realizzazione e poco adattabili al contesto produttivo italiano. Dal confronto con il territorio del Friuli-Venezia Giulia e con i portatori di interesse (pubbliche amministrazioni, enti gestori dei consorzi di sviluppo economico locale, tecnici e industriali), è emersa, infatti, la difficoltà di dare attuazione pratica alla disciplina delle APEA a causa dell’elevata complessità degli strumenti urbanistici che regolano i siti produttivi, troppo prescrittivi, al contempo generici e poco aperti verso le specificità di ogni luogo² (Conti et al., 2020). Nel caso di studio analizzato (in linea con la tendenza nazionale), il sistema industriale, infatti, risulta ormai consolidato nella sua struttura dimensionale, settoriale e localizzativa e la mancanza di un quadro di riferimento alla scala dell’area vasta ha prodotto una certa miopia nella lettura dei processi territoriali in atto. Mentre leggi e strumenti si sono dimostrati incapaci di governare i fenomeni in corso, il territorio ha continuato a trasformarsi accogliendo, man mano, modelli di sviluppo produttivo che hanno prodotto geografie industriali diversificate (Marchigiani e Torbianelli, 2012). La struttura morfologica dei paesaggi industriali friulani, caratterizzata da un arcipelago di insediamenti dispersi (di cui il 78% costituiti da microimprese), riflette il modello di organizzazione spaziale degli ambienti produttivi italiani, esito non intenzionale di una pluralità di azioni e processi piuttosto che l’effetto di un progetto o un disegno unitario (Marchigiani e Torbianelli, 2012): una costellazione di piccoli e medi insediamenti produttivi che punteggiano in maniera abbastanza omogenea la superficie regionale. Da un punto di vista morfologico, è possibile identificare e sovrapporre diverse geografie che caratterizzano i paesaggi industriali friulani. Queste rispondono, da un lato, agli esiti di sviluppi storici e politici di governo del territorio; dall’altro a processi di urbanizzazione locali e


03. Sovrapposizione delle principali invarianti ambientali al mosaico industriale regionale | Superposition of the main environmental invariants on the regional industrial mosaic. Ambra Pecile

puntuali, che hanno avuto come modalità principale di occupazione del suolo la moltiplicazione di insediamenti per di più modulari, perimetrati e pianificati: aree sorte in seguito a piani di insediamento produttivo, a piani di lottizzazione per aree artigianali, a piani particolareggiati per attività terziarie e direzionali (Boeri et al., 1993). La forma del territorio che oggi ne risulta, pertanto, risponde a logiche di pianificazione eterogenee, frutto delle decisioni politiche di diversi attori, pubblici e privati. Volendosi, purtuttavia, concentrare sulla materia tangibile (e tralasciando in questa sede il livello non osservabile concretamente, ovverosia le politiche pianificatorie), è possibile riscontrare

quattro macrogeografie che caratterizzano i paesaggi industriali friulani, che rispondono ad altrettante logiche di organizzazione dello spazio. Da un lato, si rilevano i filamenti industriali, ovvero cordoni che si dipanano lungo le principali arterie infrastrutturali, divenuti le spine centrali di un sistema insediativo complesso, assumendo caratteristiche funzionali che tendono non solo alla produzione, ma anche al commercio e al terziario (Conti et al., 2021). A questi si aggiungono le aree industriali comunali, le quali cercano di dare risposta a una logica ambientale di occupazione del suolo per destinazioni d’uso; gli insediamenti sparsi, caratterizzati da un pattern spaziale disgregato nell’intorno

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urbano e periurbano nei quali è possibile riscontrare una mixité funzionale che interseca le funzioni produttive con le logiche di sviluppo urbano (Munarin e Tosi, 2001). Infine, i Consorzi di sviluppo economico locale (enti pubblici economici che raggruppano al loro interno proprietà pubbliche, private e comunali), organizzati secondo una logica di razionalizzazione produttiva che tende a raggruppare servizi e infrastrutture all’interno di un macrosistema di gestione comune. Alle “placche” industriali di cui sopra è utile sommare anche la presenza di interporti e porti marittimi, importanti piattaforme logistiche che è fondamentale integrare nella lettura sistemica territoriale in corso.

L'ARCHITETTO


Integrare le diverse scale di intervento con le specificità dei contesti di appartenenza

04. Area Ex-Safau a Udine | Ex-Safau industrial area in Udine. Laura Pecile

L’analisi condotta sul caso di studio reale ha fatto emergere l’importanza di una visione allargata che possa integrare le diverse scale di intervento con le specificità dei contesti di appartenenza, intrecciando dinamiche economiche, sociali e spaziali (Marchigiani, 2012). I progetti territoriali da calare sui singoli agglomerati industriali, pertanto, dovrebbero far parte di un disegno territoriale più ampio, coeso e strutturato in chiave olistica, in cui ogni singolo complesso produttivo entri a far parte di un progetto di paesaggio industriale più ampio e coordinato alle diverse scale e in cui la lettura dei “vuoti” e delle trame paesaggistiche e ambientali assuma la stessa importanza dell’analisi dei “pieni” (img. 03). Visioni territoriali strategiche, dunque, che prestino attenzione ai processi di relazione e alle componenti dei sistemi infrastrutturali, ambientali e edilizi identificabili alle diverse scale, piuttosto che ai singoli impianti e manufatti, abbandonando, così, la logica di “area industriale” (quale cittadella fortificata esclusa all’esperienza urbana e spesso concepita come luogo dequalificante e inquinante) e favorendo il concetto di “paesaggio industriale”. Il progetto di parchi industriali (volendo riprendere la disciplina delle APEA) e, più in generale, gli interventi sugli insediamenti produttivi e industriali in essere e in divenire, pertanto, dovrebbero rappresentare solo un tassello concreto di una più ampia visione sistemica del

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contesto territoriale regionale, che sappia dare uniformità sintattica alle singole realtà insediatesi. Il risultato di tale analisi non deve essere un programma funzionale rigidamente e univocamente definito (come nel caso delle linee guida APEA), bensì un quadro di potenzialità economiche e spaziali da sviluppare (Marchigiani e Torbianelli, 2012). Processi e progetti di territorio, pertanto, che, nell’ottica degli obiettivi UE e alla luce delle nuove rotte che stanno assegnando di nuovo centralità di carattere strategico e logistico al bacino del Mediterraneo, possano essere in grado di aumentare non solo la sostenibilità della produzione, ma anche, e conseguentemente, la competitività dei sistemi produttivi italiani. Per di più, in un contesto come quello oggetto di indagine, una strategia di riqualificazione essenzialmente basata sulla riconversione di siti esistenti può produrre importanti effetti economici su scala locale, connessi al rilancio dell’attività edilizia (Marchigiani e Torbianelli, 2012). Basti pensare che, nel caso analizzato, si conta uno stock catastale di capannoni industriali pari a circa 20.758 unità, dei quali 2.400 ad oggi dismessi ma riutilizzabili per il 60% a fronte di progetti di riqualificazione e rigenerazione urbana innovativi e flessibili (Confartigianato Udine, 2019) (img. 02). In quest’ottica, l’Italia, in quanto centro del Mar Mediterraneo, può rappresentare un contesto di sperimentazione per il riuso e la rigene-

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razione delle aree produttive combinando economia, ambiente, società e politiche del territorio, anche in contesti di dispersione urbana, superando l’ormai disatteso modello delle APEA3.* NOTE 1 – Le APEA vengono introdotte nella legislazione italiana per mezzo del Decreto Bassanini, D.Lgs. n.112 del 31 marzo 1998. 2 – Dal confronto con i portatori di interesse locali, emerge come in alcune aree industriali, ad esempio, risulterebbe ridondante la realizzazione di specifici servizi per i dipendenti (asilo, mensa, ecc.) in quanto lambite dal centro cittadino che a livello comunale già fornisce gran parte dei servizi in questione. Diverso il caso dei siti produttivi marginali rispetto ai tessuti urbani o che presentano un diverso livello di raggiungibilità e connessione con gli stessi. 3 – Il contributo degli autori è congiunto e riconoscibile nelle specifiche competenze disciplinari della Composizione architettonica e urbana (per l’analisi e l’approfondimento alla scala vasta) e della Tecnologia dell’architettura (per l’analisi delle soluzioni di dettaglio e per l’approccio di lettura sistemica) e si inserisce all’interno di un progetto di Dottorato di ricerca in collaborazione con la Regione Friuli-Venezia Giulia per la revisione del Piano di Governo del Territorio (PGT). BIBLIOGRAFIA – Boeri, S., Lanzani, A., Marini, E. (1993). Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese. Milano: Editrice Abitare Segesta. – Confartigianato Udine (2019). Una stima preliminare del numero di capannoni dismessi in Friuli Venezia Giulia (online). In www.confartigianatoudine.com/associazione/studi-estatistiche (ultima consultazione gennaio 2022). – Conti, C., La Varra, G., Pecile, A., Roveredo, L. (2020). Ecologically Equipped Industrial Areas. An integrated management of industrial sites. Sustainable Mediterranean Construction, n. 12, pp. 132-137. – Conti, C., La Varra, G., Pecile, A., Roveredo, L. (2021). Cantieri urbani e paesaggi industriali del Friuli Venezia Giulia. Udine: Forum Editrice. – Gallo, P. (2013). Pianificazione territoriale a basso impatto ambientale: il modello organizzativo delle APEA. Techne, n. 5, pp. 86-94. – Marchigiani, E., Torbianelli, V.A. (2012). I valori del territorio come matrice per differenti strategie di sviluppo e di progetto. In Torbianelli, V.A. (a cura di), Oltre le fabbriche: visioni evolutive per il distretto della sedia. Trieste: EUT, pp. 61-72. – Munarin, S., Tosi, M. C. (2001). Tracce di città: esplorazioni di un territorio abitato: l’area veneta. Milano: FrancoAngeli.



Il mare ritrovato The Rediscovered Sea

Caterina Di Felice Dottoranda di ricerca in Beni architettonici e paesaggistici, Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino. caterina.difelice@polito.it

Ecomuseo Mare Memoria Viva: l’allestimento interno. Ecomuseo Mare Memoria Viva: the inner exhibition. Caterina Di Felice

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Un progetto di riuso implica un processo di trasformazione dell’esistente, in cui la costruzione di nuove tracce e narrazioni deve confrontarsi con un radicamento nel passato e con la stratificazione dei luoghi, guardando al futuro ma al contempo costruendo continuità con la tradizione. Esso comporta un processo attivo, in cui una selezione di elementi esistenti viene riempita di un nuovo significato, dando continuità alla vita del bene (Bodei, 2009). Ciò avviene per esempio quando la riconversione dell’ex Deposito Locomotive S. Erasmo di Palermo, testimonianza di archeologia industriale di fine Ottocento, in un Ecomuseo diventa occasione tangibile per mantenere viva la memoria del luogo, in particolare del tratto di costa in cui si colloca, apparentemente dimenticata dai suoi abitanti. L’Ecomuseo Mare Memoria Viva si presenta infatti come un progetto di intervento territoriale dedicato al rapporto tra la città di Palermo e il mare, perduto nel corso del tempo1. La sua collezione ricompone una storia collettiva delle trasformazioni urbane della costa sud attraverso differenti materiali e testimonianze dei suoi abitanti, rapportandosi anche con le memorie “scomode” di questi luoghi2. Il lavoro di risemantizzazione del territorio non riguarda solo gli spazi fisici dei luoghi del patrimonio storico-architettonico in abbandono, ma anche gli spazi metaforici della facilitazione di relazioni, di un bisogno sociale non soddisfatto, che rimandano alla sfera delle relazioni sociali e del patrimonio immateriale. Oltre alla valorizzazione innovativa e democratica del patrimonio locale, infatti, innescando processi di rigenerazione urbana, l’intervento mira all’inclusione sociale, proponendosi come spazio di aggregazione culturale e attivando dinamiche di cambiamento in un quartiere degradato, dove non esiste un senso di comunità e dello stare insieme collettivo. L’osservazione del caso studio permette di riflettere su come al progetto di riuso, oltre alle implicazioni più recenti di carattere energetico e ambientale, in cui diviene una modalità riconosciuta del recupero sostenibile, si possa attribuire un modello di risposta di carattere socioculturale in aree marginali dello spazio urbano. Inoltre, in particolare rivolgendo lo sguardo alle criticità peculiari del Sud e dell’area

BIBLIOGRAFIA – Bodei, R. (2009). La vita delle cose. Roma: Laterza. – Carta, M. (a cura di) (2021). Palermo. Biografia progettuale di una città aumentata. Siracusa: LetteraVentidue Edizioni. – Consiglio, S., Riitano, A. (a cura di) (2015). Sud Innovation. Patrimonio Culturale, Innovazione Sociale e Nuova cittadinanza. Milano: FrancoAngeli.

NOTE 1 – “Facendo sì che Palermo da città di mare si sia accontentata di essere una città sul mare, considerando la cosa poco più di una casuale condizione geografica” (Carta, 2021, p.122). 2 – L’area di intervento, in particolare, è stata trasformata dagli abusi edilizi degli anni Settanta durante il tristemente famoso “sacco” di Palermo. 3 – Il caso studio nello specifico è frutto della sperimentazione di un nuovo modello di gestione pubblico-privato tra la Fondazione con il Sud, l’Amministrazione Comunale e CLAC, impresa culturale no-profit che ha ideato il progetto.

mediterranea, sperimentazioni di innovazione sociale, interventi autonomi e collettivi e non istituzionali3, restituendo diritto di cittadinanza ai propri luoghi, lasciano un messaggio fondamentale, ossia che si possa garantire una sopravvivenza dell’identità e della cultura mediterranea, guardando in modo nuovo la propria terra, avendone cura e trasformandola (Consiglio e Riitano, 2015). Si tratta forse di conoscere e affrontare problematiche specifiche di tale identità e cercare risposte partendo anziché dalle risorse economiche impiegabili da quelle umane, fatte di tradizioni, conoscenze, memorie. Attivando una presa di coscienza da parte dei cittadini del proprio territorio e un desiderio di partecipazione, la memoria resta viva e il passato diventa guida nel presente e stimolo per la visione di un futuro collettivo, attraverso nuove chiavi di interpretazione dell’esistente.*



Antica Medma, una città attuale Ancient Medma, a Contemporary City

Cinzia Didonna Dottoranda di ricerca, Progettazione architettonica, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II. c.didonnacinzia@gmail.com

La via di mezzaria taglia il pianoro di Rosarno. Crossing the plateau of Rosarno. Cinzia Didonna

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Alla ninfa delle acque Medma è dedicata la fondazione della città calabrese oggi conosciuta con il nome di Rosarno. Studi sulla colonizzazione del Mediterraneo da parte degli antichi Greci dimostrano come la collocatio della nuova colonia fosse condizionata dallo studio sul territorio, dalla presenza di risorse naturali, di corsi d’acqua e di terreni feritili. La città fu fondata dai Locri intorno al VII sec. a.C., una città di espansione per il popolo di origine greca che aveva insediato la costa jonica, con base nella città di Locri Epizefiri1 (Paoletti e Settis, 1981). I Locri, noti nel mondo greco per le visioni espansionistiche e di sviluppo, cercarono il controllo e un terreno fertile, ma bloccati a sud dalla città Rhegion e a nord da Kroton, stretti in un istmo tra il mar Jonio e la catena dell’Aspromonte, si spinsero al di là delle montagne dirigendosi verso la costa tirrenica (Francesconi, 2018). Percorrendo il torrente Torbido si raggiungeva l’altopiano per poi discendere seguendo il torrente Sciarapotamo sul lato tirrenico. Questo sentiero che collegava le due coste fu per secoli la via di collegamento tra i due versanti ed è ancora conosciuto come il “sentiero dei Greci”. La scelta del sito è ben studiata: su un piccolo promontorio che guarda una piana molto fertile, vicino a un corso d’acqua, il Mesima, e poco distante dal mare, viene fondata la città di Medma, città avamposto sul mar Tirreno del popolo locrese. Dai ritrovamenti è possibile rintracciare la presenza dal V sec. a.C. di un impianto urbanistico ad assi ortogonali orientato NE-SO, il quale probabilmente ha origine dalla via di mezzaria del pianoro di Rosarno, che conduce verso la campagna. Una strada palinsesto che testimonia l’evoluzione del paese, da sempre terra fertile e accogliente, crocevia di popoli e culture, dalla colonizzazione da parte dei Locri, dei Romani, fino ai primi del Novecento in cui si registra un flusso di agricoltori che cercavano fortuna nella coltivazione, tanto da chiamare Rosarno: Americanedda, piccola America. Oggi cosa resta dell’antica Medma? Continua a essere terra di accoglienza nel Mediterraneo per le popolazioni africane in cerca di speranza. La sua cultura mediterranea: nella struttura urbana che ha origine dagli assi della antica città, nello spazio di prossimità all’aperto riscaldato dai raggi del sole, nella sua agricoltura con la coltivazione di agrumi e olive. Ma, tut-

BIBLIOGRAFIA – AA. VV. (2016). Kiwi. Deliziosa guida di Rosarno/ Rosarno ulteriore. Foligno: Viaindustriae publishing. – Francesconi, A. (2018). La topografia di Medma: un repertorio aggiornato di studi e ricerche. West & Est, III, 66-77. – Paoletti, M., Settis, S. (a cura di) (1981). Medma e il suo territorio. Materiali per una carta archeologica. Bari: De Donato.

NOTE 1 – Per ulteriori approfondimenti si segnala l’articolo: Sapio, G. (2012). Il fascino dell’antica Medma a Rosarno. Corriere della Piana, 5, 35.

tavia, il territorio presenta delle criticità legate all’azione antropica: il porto, fonte di ricchezza, volge le spalle al paese e ai cittadini; l’autostrada e la ferrovia toccano tangenzialmente il centro urbano che resta isolato nella parte alta; molti edifici sono abbandonati o mai finiti, in attesa di completamento; le opere pubbliche abbandonate non hanno mai svolto la funzione per cui sono state progettate; le costruzioni abusive o autocostruite sono la risposta a necessità abitative (AA. VV., 2016). Rosarno, al centro del Mediterraneo, raccoglie questioni diverse: come altri casi del Sud Italia necessita di un’azione di rigenerazione urbana, partendo dai piccoli spazi in attesa di un processo di trasformazione per immaginare un nuovo futuro possibile, un cambio di rotta rispetto a quello che si prefigura oggi. Lo studio di realtà come Rosarno, quindi, permette di spostare l’attenzione su città considerate di periferia, ma custodi silenziosi di una eredità culturale da riscoprire.*



Imparare dall’informale Learning from Informal

Paola Scala Professore in Composizione architettonica e urbana, Diarc, Università degli Studi di Napoli Federico II. paola.scala@unina.it

Maria Pia Amore PhD in Architettura, Diarc, Università degli Studi di Napoli Federico II. mariapia.amore@unina.it

Grazia Pota PhD in Architettura, Diarc, Università degli Studi di Napoli Federico II. grazia.pota@unina.it

Maria Fierro Dottoranda di ricerca, Architettura, Diarc, Università degli Studi di Napoli Federico II. maria.fierro@unina.it

Informal City Design Studio, un laboratorio per Napoli. Informal City Design Studio, a lab for Naples. Maria Fierro

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La fine delle “grandi ideologie” (Lyotard, 1981) ha prodotto una cultura postmoderna che alle grandi narrazioni universali ha sostituito le storie “minime” degli individui. Questa condizione – che aggiunge numerosi gradi di complessità spaziale, culturale, sociale ed economica alla lettura della città – vede delinearsi nella realtà di Napoli, unica eppure emblematica, un caso significativo per descrivere le caratteristiche di un Mediterraneo foriero delle nuove logiche dell’abitare contemporaneo. La relazione tra Architettura e Mediterraneo, oggi, necessita di un superamento dell’immagine “mitica” a cui è generalmente associata, per muoversi verso un’accezione più ampia, che evade la sola questione della forma e del manufatto, presuppone una più articolata interpretazione degli aspetti materiali e immateriali della realtà e investe una diversa dimensione del progetto come processo (Scala, 2020). Napoli è una “città-mondo” (Augé, 2007) mediterranea e contemporanea: in essa le specificità legate al rapporto con il mare sono amplificate in una compresenza di diversità etniche e culturali e di polarizzazioni sociali che, generando una condizione caotica, configurano un assemblaggio instabile. In questo contesto le disuguaglianze si “spazializzano” configurando un equilibrio precario: in territori generalmente già caratterizzati da condizioni stratificate di disagio si possono osservare “molte pratiche abitative informali, pratiche di resistenza e di ricodificazione dell’umano abitare” (Staid, 2017, p. 156). In questa prospettiva un gruppo di docenti, ricercatori e studenti del DiARC1 ha attivato nel 2019 un laboratorio di ricerca sulla città informale, Informal City Design Studio (ICDS). Il laboratorio assume come caso studio Napoli in quanto paradigma di “complessità e contraddizioni” che coesistono, sovvertendo tutti i programmi in un “informale” assetto continuamente derogabile. Cross Point tra discipline diverse, l’ICDS – strutturato in 4 sezioni, Inclusive City, Multicultural City, Publicness, Commons – definisce uno spazio di confronto inedito sulla città, individuando parti non “tradizionalmente” indagate, scenari di pratiche informali da cui imparare un “fare città” altro. La tesi sottesa a questo plurale lavoro di ricerca è che un “pensiero creativo”, profondamente radicato

BIBLIOGRAFIA – Augé, M. (2007). Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni. Milano: Mondadori. – Lyotard, J.F. (1981). La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Milano: Giangiacomo Feltrinelli Editore. – Scala, P. (2020). Mediterráneos napolitanos. P+C. Proyecto y ciudad, 11, 5-16. – Staid, A. (2017). Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente. Milano: Milieu.

NOTE 1 – Il gruppo di ricerca afferente al Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II” è composto da M. Cerreta, L. Lieto, M.F. Palestino, M. Perriccioli, M. Santangelo, P. Scala, con M.P. Amore, A. Barbato, A. Bianco, F. Casalbordino, C. Chirianni, M. Fierro, G. Pota, F. Talevi, G. Vannelli.

in una cultura “mediterranea” stratificata, può rappresentare il fondamento per la ricerca di “nuove” soluzioni che “imparando dall’informale” sviluppino metodi di progetto alternativi, capaci di attivare processi di rigenerazione urbana né top down né bottom up. L’informalità, dunque, è assunta come strumento per leggere e interpretare la realtà, individuando nell’ “in between” tra l’architettura, intesa come soluzione univoca e inderogabile alle necessità dell’uomo, e l’autocostruzione, intesa come risposta pratica ai bisogni imminenti degli individui, lo spazio per un progetto/ processo capace di superare la dicotomia esistente tra le logiche di fissità dell’architettura e l’imprevedibilità del reale. Attraverso sperimentazioni progettuali, condotte in laboratori di tesi fortemente segnati da una dimensione di ricerca, al di là degli esiti formali, si propone un approccio che rivede l’architettura in termini meno “autoriali” ma ne rivendica un ruolo chiave nel processo di trasformazione dello spazio per elaborare strategie di modificazione, soluzioni definite ma non definitive, costantemente perfettibili.*


Alessia Sala Dott.ssa in Architettura, Università Iuav di Venezia. asala@iuav.it

Contemporary Archetypes At the beginning of the thirteenth century, in Anatolia, the Seljuks began to restore some routes in the wake of a new commercial policy due to the transition from a nomadic to a sedentary culture. Within this dense territorial redesign program, the construction of buildings to accommodate travelers and the control of routes played a central role and, despite through time most of these buildings were neglected, the model of the caravanserai represents a fertile cause for reflection, also, and perhaps above all, if we turn our gaze towards the contemporary world.* no dei più grandi paradossi contemporanei riguarda la questione del movimento all’interno del cosiddetto “mondo globale”. Due tendenze contrastanti interessano infatti lo spazio della frontiera: si affaccia all’orizzonte un nuovo modello di società che critica, attraversa e supera i confini geografici tradizionali a partire dal ritorno in forme inedite del movimento come chiave interpretativa della realtà (Braidotti, 2002); allo stesso tempo, però, il dibattito sociopolitico è animato da continue riflessioni su flussi migratori e frontiere che, nel frattempo, sono diventate più fortificate che mai (img. 02).

01. Dayr-e Gachin Caravanserai. Mostafameraji 2018, Wikicommons

Archetipi contemporanei Il caravanserraglio tra antiche rotte commerciali e nuovi percorsi globali

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In altre parole, il sistema-mondo globalizzato che dichiara a gran voce lo smantellamento delle barriere geografiche, culturali e simboliche, si confronta sempre più spesso con il moltiplicarsi di desideri di confini netti e di separazione psicologica tra due culture economicamente differenti. Desideri che rivelano fragilità e contraddizioni. All’interno di questo rapporto binario asimmetrico il luogo della frontiera assume un ruolo di primo piano non solo nella definizione dell’agenda politica internazionale ma anche nelle riflessioni sullo spazio contemporaneo. Aree di contrapposizione e di scontro, di negoziazione di identità culturali e di transizione, i confini sono probabilmente i luoghi, non solo fisici ma anche culturali e virtuali, in cui si contrattano molti dei diritti civili contemporanei e in cui si misurano alcune tra le maggiori contraddizioni della democrazia. In questo contesto l’architettura in quanto “specchio della consapevolezza collettiva, incapsulamento fisico degli stili di vita in continua evoluzione” (Hasegawa, 2010) è inevitabilmente chiamata a interrogarsi sulla natura di questi luoghi e sulla loro progettazione. Quello della frontiera è un sistema complesso che comprende non solo l’elemento fisico della barriera ma anche il suo intorno, producendo paesaggi fisici, culturali e sociali determinati

dall’interazione, dalla transizione e dallo scontro tra due luoghi contrapposti. Tra i molteplici piani di lettura che si possono apporre alla questione delle frontiere vi è sicuramente quello del loro attraversamento: il motivo, la ragione più intima della loro esistenza. Un continuo susseguirsi di frontiere e margini scandisce il ritmo della migrazione: per anni il migrante si trova in uno stato di transizione in cui costantemente vede cambiare condizioni sociali, ambientali e psicologiche. Allo stesso modo, per anni i territori interessati dalla migrazione diventano crocevia di rotte, di alleanze e di scontri che necessariamente hanno delle ricadute sulla morfologia dei territori stessi: dapprima tendenzialmente marginali negli equilibri geopolitici, in pochi anni stanno subendo infatti un grado di antropizzazione legato da una parte alla costruzione di elementi di blocco e sorveglianza, come muri, torri di controllo e filo spinato (img. 03), dall’altra

Un continuo susseguirsi di frontiere e margini scandisce il ritmo della migrazione Country: has built barriers has not built barriers

Borders with fenced sections: completed or under construction planned

02. Muri di confine e difese | Border walls and defences. Élisabeth Vallet, Josselyn Guillarmou, and Zoé Barry, Raoul–Dandurand Chair, University of Quebec in Montreal; The Economist

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E se, al di là di ogni retorica, si mettesse in crisi questo modello spaziale?

03. Al confine di Melilla, tra Spagna e Marocco | On the border of Melilla, between Spain and Morocco. Fronterasur 2007, Flickr

al riadattamento dei confini naturali e alla modificazione del paesaggio ai fini di una migliore possibilità di controllo (Goin, 1987). Grandi energie vengono continuamente investite per questo tipo di interventi che, però, rivelano la loro scarsa efficacia in termini di effettivo controllo dei flussi: appare evidente come una riflessione sul fenomeno migratorio e sulla necessità di una riumanizzazione del migrante sia urgente e non più procrastinabile. E se, al di là di ogni retorica, si mettesse in crisi questo modello spaziale? Se si guardasse a un sistema di controllo in grado di far fronte ai problemi logistici legati ai flussi migratori e, allo stesso tempo, di assicurare condizioni dignitose di ospitalità? In questo contesto una figura ar-

chitettonica che appartiene al passato potrebbe rivelarsi particolarmente fertile: il caravanserraglio. Architettura di tappa all’interno di un fitto programma politico di progettazione territoriale centrato sul movimento delle grandi carovane, il caravanserraglio è un edificio-infrastruttura posto lungo le grandi vie commerciali che hanno contribuito per secoli all’implementazione dei commerci transnazionali e alla definizione di nuovi equilibri geopolitici. Queste lunghe strade fecero del Mediterraneo il glorioso centro di scambi continui che conosciamo e che influenzò inevitabilmente i paradigmi culturali ed economici per secoli, collegando l’Europa, l’Asia e l’Africa. L’intenso programma a scala “nazionale” dei percorsi, che ha inizio in Asia Minore nel XIII secolo,

rientra all’interno di un modello di organizzazione e controllo dei territori che viene gestito, anche economicamente, a livello centrale ma che trova nella capillarità locale il suo sistema di amministrazione (Petruccioli, 1985). È un modello che si rifà alla tradizione nomade di arabi e conquistatori (Sims, 1984), costellando paesaggi aspri e inospitali di strutture e infrastrutture per la protezione dei viaggiatori, la loro accoglienza e il loro sostentamento (img. 04). Quella del caravanserraglio è tuttora una figura enigmatica che interpreta il tema del movimento e della protezione dei viandanti a partire dalla sua conformazione: un edificio estremamente introverso che si rivolge verso la corte centrale lasciando all’esterno un fronte compatto e impenetrabile se non dall’unico portale, presidiato.

04. Rappresentazione miniaturistica di una via carovaniera | The miniature representation of a caravan route. L. Ficarelli (2015)

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L’IMMERSIONE


05. Office KGDVS, Cité de Réfuge. officekgdvs.com

All’interno di un momento storico in cui la mobilità in quanto “esperienza paradigmatica della modernità” (Lash e Urry, 1994) diventa un fatto pervasivo all’interno della quotidianità contemporanea, figure come quella del caravanserraglio e del sistema in cui è inserito, possono aiutare a riflettere su paradigmi alternativi di gestione del movimento, dalle grandi masse ai milioni di individui che ogni giorno intraprendono un viaggio. La mobilità contemporanea, infatti, contempla una moltitudine di narrazioni e intenzioni estremamente diversificata: a una mobilità fisico-corporea che si riferisce alla condizione migratoria di milioni di individui che si spostano per migliorare la propria condizione di vita se ne accompagna, in uno sguardo il meno possibile dicotomico, una che parla di

Corporeo, immaginativo, virtuale, reale, quello del movimento è un luogo di grandi possibilità progettuali OFFICINA* N.37

crescente virtualizzazione (Mascheroni, 2007), di modelli di lavoro deterritorializzati (Attali, 2003), di “pulsione d’erranza” (Maffesoli, 1997). Corporeo, immaginativo, virtuale, reale, quello del movimento è un luogo di grandi possibilità progettuali che vede nella compenetrazione di queste diverse dimensioni un’occasione per pensare allo spazio che coinvolge. Un sistema di gestione a livello centrale del movimento transnazionale che preveda un’infrastrutturazione territoriale legata al ritmo del movimento e che possa offrire accoglienza e protezione e al contempo controllo dei flussi, potrebbe rappresentare una valida alternativa alla sempre più diffusa costruzione di barriere e posti di controllo che si rifanno alla violenza come strumento per la gestione del fenomeno migratorio. Non a caso, Office KGDVS alla Biennale di Rotterdam nel 2007 propone un progetto intitolato Cité de Réfuge (img. 05) che così descrive: “[that] is a project that was developed within the context of the 2007 Rotterdam Architecture Biennale, the theme of which was ‘Power’. Ceuta is a Spanish enclave on Moroccan soil. The project gives a face to the politicized border crossing at Ceuta: a refugee city in the no-man’s-land between two cities (Ceuta and Tangier), between two countries (Spain and Morocco), between two continents (Europe and Africa). This city is formed by a large square

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of 482x482 metres that is surrounded by a colonnaded structure, like a thick rampart. Within this wall all the infrastructure elements of a border crossing are to be found: offices, hotels, stores... The walled plaza is left undisturbed, without a programme. It is a market square, a reception space, like a quay. In this way the Cité de Réfuge reflects the powerlessness to achieve solutions to the problems occurring on this border. At the same time the project investigates the city in its most radical, concise form: as a deliberate act, a political decision” (Geers e Van Severen, 2017). In definitiva, un caravanserraglio.* BIBLIOGRAFIA – Attali, J. (2006). L’homme nomade. Paris: Fayard. – Braidotti, R., Crispino, A. M. (2002). Nuovi soggetti nomadi. Roma: L. Sossella. – Ficarelli, L. (2015). I caravanserragli. Architetture commerciali nei paesaggi mediterranei. Firenze: Aión. – Geers, K., Van Severen, D. (2017). Office Kersten Geers David Van Severen. Koln: Walther Konig. – Goin, P. (1987). Seguendo il confine. La frontiera messicano-americana. Spazio e società – Space and society, n. 39, Genova: Sagep editori, pp. 22-37. – Hasegawa, Y. (2010), in AA.VV (a cura di), People meet in Architecture, catalogo della 12 Mostra Internazionale di Architettura di Venezia (Venezia, 29 agosto 2010 – 21 novembre 2010). Venezia: Marsilio. – Lash, S., Urry, J. (1994). Economies of Sign & Space. London: Sage. – Maffesoli, M. (1997). Du nomadisme. Vagabondages initiatiques. Paris: Le Livre de Poche. – Mascheroni, G. (2007). Il new mobilities paradigm nelle scienze sociali. Studi di sociologia, n. 1., anno 45, Milano: Università Cattolica del S. Cuore, Vita e pensiero, pp. 99-113. – Petruccioli, A. (1985). Dar al islam. Architetture del territorio nei paesi islamici. Roma: Carucci. – Sims, E. (1984). Trade and travel. Markets and Caravanserais in Michell, G. (a cura di), Architecture of the islamic world. London: Thames and Hudson, 1984, pp. 80-111.


Paola Careno Architetta, laureata presso Università Iuav di Venezia. pcareno@iuav.it Stefano Centenaro Dottorando di ricerca, Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi dell’Università Ca’ Foscari Venezia. stefano.centenaro@unive.it Filippo De Benedetti Architetto, laureato presso Università Iuav di Venezia. fdebenedetti@iuav.it

Processes, Products and Waste: Upcycle Approach in Murano Murano and its glass, between art, craftsmanship and industry, are part of the lagoon ecosystem, and the crisis, before the current health emergency, has damaged the proper functioning of this system. In the light of these reasons, a research (POR-FSE) was launched in order to find new possible solutions to valorise the Murano glass supply chain and to identify potential recycling strategies for its waste. Studying Murano glass in the perspectives of both architectural technology and chemistry means bringing attention to several relationships and to new possible process dynamics, in addition to those already existing. At the same time, it means developing different paths to find new manufacturing methods and fields of application.* ntroduzione L’arte vetraria ha una storia millenaria, lunga più di quattromila anni, e percorrerne le tappe a ritroso significa tracciare un ingarbugliato filo di Arianna lungo tutto il Mediterraneo: dalla Siria, all’Egitto, alla Mesopotamia, all’Europa occidentale e settentriona-

le, fino ancora alle sponde oltreoceano (Barovier Mentasti et al., 2003). L’isola di Murano si distinse in questo panorama a partire dal XV secolo e non ha mai perso il suo primato grazie all’ineguagliabile qualità delle lavorazioni, alla manualità degli artigiani e alla capacità di resistere al susseguirsi di numerose crisi, con resilienza e innovazione. Oggi, la crisi economica e pandemica rappresentano un ulteriore banco di prova non solo per Murano ma anche per molte piccole realtà artigianali italiane che da anni soffrono per la mancanza di manodopera specializzata e per la complessità del dialogo con uno sviluppo tecnologico che spesso è incompatibile con le caratte-

ristiche delle lavorazioni tradizionali o che è insostenibile dal punto di vista economico. Quali proposte sviluppare al fine di tutelare i distretti artigianali e agevolarne lo sviluppo in uno scenario di industria 4.0? Come affrontare il tema della sostenibilità in contesti estranei alla logica dei grandi numeri? Obiettivi Il contributo descrive una ricerca condotta dalle università Iuav e Ca’ Foscari di Venezia, finanziata dalla Regione Veneto tramite il Fondo Sociale Europeo¹ e dedicata a strutturare risposte concrete per l’esigenza di investire in dinamiche di economia circolare, upcycle approach e industria

01. Scarti di lavorazione del vetro artistico di Murano | Murano glass waste. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti

Lavorazioni, prodotti e rifiuti: upcycle approach in Murano Un’isola unica, esemplare di una cultura e di una ricerca mediterranea 78

L’IMMERSIONE


Investire in dinamiche di economia circolare, upcycle approach e industria 4.0 per valorizzare il settore dell’artigianato artistico

4.0 per valorizzare il settore dell’artigianato artistico. Il progetto di ricerca, denominato Murano Pixel, ha indagato una delle problematiche che affligge le vetrerie dell’isola di Murano: lo smaltimento e l’accumulo degli sfridi di lavorazione (img. 01), in relazione alle dinamiche dell’ecosistema lagunare, individuando sia problematiche che pratiche virtuose. Per sperimentare il riciclo degli sfridi di vetro e per proporre scenari alternativi al loro conferimento in discarica, Murano Pixel ha trovato il supporto di tre vetrerie muranesi² che hanno collaborato per sviluppare un modello di “produzione zero” volto a riconoscere nello scarto una risorsa e non un problema volumetrico, sociale ed economico. Approccio e metodi Nel corso del XX secolo Sacca San Mattia era il luogo di raccolta e accumulo degli scarti della lavorazione del vetro di Murano: lì era possibile raccogliere parti di lampadari, gambi di bicchieri o pezzi informi di vetro (Marzo, 2019). In alternativa, gli sfridi di vetro venivano accumulati nei retrobottega e nei cortili, in attesa di nuove destinazioni. Il vetro è un materiale “permanente”, ossia può essere riciclato infinite volte senza che se ne alterino le proprietà intrinseche, tuttavia le peculiarità cromatiche del vetro di Murano rendono gli sfridi di lavorazione un rifiuto speciale e rappresentano anche la princi-

pale causa della complessità della loro gestione (Centro studi sintesi, 2015). Come il vetro, anche i suoi scarti hanno una storia lunga e negli scavi pompeiani sono stati rinvenuti grandi contenitori pieni di vetro rotto: è probabile che nel periodo imperiale romano fosse pratica comune, presso i ceti sociali più poveri, raccogliere e accumulare rottami di vetro per venderli a fornitori di laboratori secondari. Il vetro rotto veniva usato per abbassare la temperatura di fusione del vetro grezzo e pare che fosse pratica comune venderlo in cambio di zolfo (Barovier Mentasti et al., 2003). L’isola di Murano oggi non è del tutto estranea a virtuose pratiche di riciclo o riuso del vetro: il vetro di scarto proveniente dalla realizzazione delle vetrate, adeguatamente distinto per colore, spesso viene rifuso per realizzare nuovi rulli di vetro; i piccoli scarti della lavorazione a lume, gocce di vetro o fondi di canna, possono essere riutilizzati per decorare le “perle a macie” (img. 02); alcuni ritagli di vetro possono essere composti per dare origine a nuovi oggetti come vasi o svuota tasche. Il riuso e il riciclo del vetro di scarto muranese è stato anche al centro del lavoro di alcuni designer: l’esempio più innovativo è il progetto Vero Vero dello Studio Silverio che ha prototipato l’uso della polvere di vetro di scarto per la stampa 3D. Ogni anno la produzione del vetro a Murano conta dalle settecento alle

02. Scarti di vetro di Murano provenienti dalla lavorazione delle perle a lume | Murano glass waste from the manufacturing of lampwork beads. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti

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mille tonnellate di sfridi e duecento tonnellate circa di scarto di moleria (Bernardo et al., 2007). Il team di ricerca si è confrontato con questi dati analizzando tre lavorazioni caratteristiche dell’arte muranese: il vetro soffiato (img. 03), la realizzazione di vetrate a piombo (img. 04) e la produzione di perle a lume (img. 05); sono state osservate inoltre altre tecniche di lavorazione quali la molatura e l’incisione, e prodotti di lavorazioni ormai dismesse come quelli della produzione di perle di conteria. Le tre lavorazioni principali sono state lette e analizzate seguendo il metodo Life Cycle Assessment – LCA (Baldo et al., 2008)3, sono state individuate le fasi che comportano un accumulo di scarto e questo è stato quantificato in relazione al totale del vetro utilizzato e alla quantità di vetro costituente i prodotti finali. Questo tipo di analisi ha consentito di constatare la reale consistenza degli scarti e ha portato a un concreto coinvolgimento delle vetrerie muranesi: è stato uno strumento d’indagine e anche di dialogo, e il lavoro svolto ha consentito di costruire contatti e relazioni con Maestri vetrai e istituzioni. Risultati e discussione Sono state condotte anche delle sperimentazioni attraverso lavorazioni a freddo o a temperature inferiori a quelle consuete per la fusione del vetro. In questo modo sono stati evitati i problemi legati all’incompatibilità fisica tra vetri diversi e non sono state condotte lavorazioni energivore. Unendo frammenti di vetro e matrici, molte delle quali di origine naturale (img. 06), è stato perseguito l’obiettivo di realizzare prodotti di cui è possibile

Murano non è un’isola ma tante isole, non una sola cultura ma tante culture

03. Nicola Moretti durante la lavorazione di un oggetto in vetro | Nicola Moretti during the manufacturing of a glass object. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti

04. Stefano Bullo durante la realizzazione di una vetrata in vetro di Murano | Stefano Bullo during the realization of a glass window in Murano glass. Paola Careno, Stefano Centenaro, Filippo De Benedetti

05. Alessandro Moretti durante la lavorazione di una perla a lume | Alessandro Moretti during the processing of a glass bead. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti

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L’IMMERSIONE


Riconoscere nello scarto una risorsa e non un problema volumetrico, sociale ed economico

06. Fase sperimentale di ricerca | Experimental research phase. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti

il riciclo continuo o almeno il recupero dei frammenti di vetro (img. 07). Le sperimentazioni si sono avvalse dell’appoggio dei laboratori di analisi chimica dell’Università Ca’ Foscari, ma sono state strutturate in modo da non uscire dalla dimensione fisica e culturale delle vetrerie muranesi. Il team di ricerca ha cercato di valorizzare le peculiarità estetiche degli scarti di vetro, scartando la possibilità di reiterare la prassi di impiegare il vetro di scarto per realizzare sottofondi stradali o pannelli isolanti. A sostegno di queste riflessioni è stata utile anche la realizzazione di un database di casi studio, condivisibile e editabile nel tempo, come strumento di confronto e di riferimento. Conclusioni L’isola di Murano ha subìto molte trasformazioni nel tempo: nell’Ottocento era nota per la produzione di siringhe, contenitori e altri prodotti in vetro mentre oggi scommette la propria sopravvivenza quasi esclusivamente sull’eccellenza del vetro artistico rivolto a un mercato di nicchia; nel corso del tempo ha abbandonato alcune lavorazioni; certi colori non vengono più prodotti a causa dell’adeguamento alle normative europee; oggi affronta gli ingenti costi della gestione dei rifiuti tanto quanto quella degli imballaggi e cerca un riscatto dall’invasione del turismo mordi e fuggi per ripristinare un

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tessuto sociale capace di garantire un ricambio generazionale senza il quale qualsiasi futuro scenario di trasmissione e innovazione del suo patrimonio sarebbe impossibile. La ricerca svolta e raccolta nell’omonimo volume Murano Pixel (Anteferma, 2022), era stata immaginata e strutturata prima del COVID-19 per affrontare già un periodo di crisi attraverso la collaborazione di competenze diverse: Murano non è un’isola ma tante isole, non una sola cultura ma tante culture. La ricerca svolta e qui descritta non offre risposte e descrizioni di soluzioni univoche ma tratteggia possibili scenari di sviluppo di un’arte vetraria millenaria facendo della circular economy e della sostenibilità i capisaldi, i “pensieri portanti” di un ragionamento attorno all’innovazione e allo sviluppo.* NOTE 1 – Progetto “Il progetto circolare del vetro artistico di Murano: come gli scarti divengono risorse per l’industria artigiana 4.0.” Codice Progetto 2122-0001-1463-2019. Programma Operativo Regionale Fondo Sociale Europeo 2014-2020 – Obiettivo generale “Investimenti in favore della crescita e l’Occupazione – Reg. 1304/2013 – Asse I Occupabilità – “Le Strategie regionali per il sistema universitario – Innovazione e ricerca per un Veneto più competitivo” – Delibera della Giunta Regionale n. 1463 dell’8 ottobre 2019. 2 – Le vetrerie partner del progetto di ricerca sono state: Costantini Glassbeads di Alessandro Moretti; Nicola Moretti snc di Alberto e Nicola Moretti; Vetrate Artistiche Murano di Stefano Bullo. 3 – Il Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita) rappresenta uno degli strumenti fondamentali per l’attuazione di una Politica Integrata dei Prodotti, nonché il principale strumento operativo del Life Cycle Thinking: si tratta di un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici e ambientali e degli impatti potenziali associati a un prodotto/processo/attività lungo

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07. Prototipo sperimentale realizzato con frammenti di vetro e matrice di origine naturale | Experimental prototype made of glass fragments and matrix of natural origin. P. Careno, S. Centenaro, F. De Benedetti l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita (“dalla culla alla tomba”). Fonte: https://www. isprambiente.gov.it/it/attivita/certificazioni/ipp/lca BIBLIOGRAFIA – Baldo, G., Marino, M., Rossi, S. (2008). Analisi del ciclo di vita LCA: gli strumenti per la progettazione sostenibile di materiali, prodotti e processi. Milano: Edizioni Ambiente. – Barovier Mentasti, R., Mollo, R., Framarin, P., Sciaccaluga, M., Geotti, A.,(a cura di) (2003). L’età del vetro. Storia e tecnica del vetro dal mondo antico ad oggi. Milano: Skira Editore. – Bernardo, E., Cedro, R., Florean, M., and Hreglich, S. (2007). “Reutilization and stabilization of wastes by the production of glass foams”. Ceramics International, 33(6), pp. 963-968. – Centro Studi Sintesi (2015). Murano: un’economia fragile? I numeri, le problematiche, le prospettive. In www.dl.camcom. it/script.aspx?PRISMABIN=1&objectid=c961081f6b594fcd85 ae11445acbf6d5 (ultima consultazione 24.02.2021). – Marzo, M. (2019). Para un proyecto del limite entre tierra y agua en la laguna de Venecia. In Proyecto y ciudad, vol. 10, pp-111-126.


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SOUVENIR


Letizia Goretti PhD in Cultura visuale, ricercatrice associata BnF 2021/22. letizia.goretti@yahoo.it

La casetta dei mugnai Parco archeologico della Neapolis, Siracusa

“Niente di più pittoresco oltre a questa meravigliosa rovina, di cui si è impossessato un mugnaio e che nessuno contesta” (Alexandre Dumas, Le Spéronare, 1888). Questo piccolo edificio, sopra il Teatro Greco, è la traccia dei Mulini di Galerme, un antico complesso di mulini ad acqua, fatti costruire dal barone Pietro Gaetani e posti sopra la cavea del teatro. La loro costruzione, però, è stata molto discussa sia all’epoca sia nel corso del tempo, finendo così per diventare oggetto di controversie giudiziarie. I mulini furono demoliti uno dopo l’altro a partire dalla prima metà dell’Ottocento, riportando il parco alle sue origini: un luogo d’incontro e di spettacolo del Mediterraneo. Ma come mai la casetta è ancora lì?*

The Miller’s Small House Archaeological Park of Neapolis, Syracuse

“Nothing can be more picturesque than this marvellous ruin, which a miller has taken possession of and which no one contests” (Alexandre Dumas, Le Spéronare, 1888). This small building, above the Greek Theatre, is the trace of the Mulini di Galerme, an ancient complex of water mills, built by Baron Pietro Gaetani and placed above the auditorium of the theatre. Their construction, however, was much discussed both at the time and over time, thus ending up becoming the subject of legal disputes. The mills were demolished one after the other starting from the first half of the 19th century, bringing the park back to its origins: a meeting and performance place of the Mediterranean. But why is the small house still there?*

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Roshan Borsato Università Ca’ Foscari. roshan.borsato@unive.it Enrico Polloni Università Ca’ Foscari. enrico.polloni@unive.it

Innovation, Circular Economy and Sustainability Due to several economic, social and environmental factors, the current linear economymodel is no longer sustainable and seems about to be replaced by the circular economy model. This paper aims to analyse the relationship between sustainability and the emerging circularity paradigm, in order to highlight whether the circular economy can be considered as necessary condition for achieving sustainability. The methodology used for the drafting of this paper is based on the analysis of international and national scientific journals that address the topic.* economia circolare rappresenta senza dubbio uno degli strumenti più interessanti ai fini della realizzazione dell’Agenda 2030 e dei suoi target. Sembrano tanti i benefici che può apportare al sistema economico questo tipo di modello: dalla minor pressione ambientale alla riduzione dei costi degli input di processo. Ciò appare evidente essere funzionale alla sotenibilità. Ma che cosa è davvero l’economia circolare? Abbiamo tentato di dare una prima ricostruzione alla luce di una solida analisi della migliore letteratura nazionale e internazionale. Ad oggi si assiste

a una sovrapposizione di tante nozioni in tal senso e quindi abbiamo cercato di mettere in luce i principi base di questo sfidante modello economico. L’economia circolare: la definizione A partire dalla Rivoluzione Industriale dell’Ottocento, l’economia globale si è sviluppata intorno a un modello definito “economia lineare” che si basa su un processo semplice: estrarre, produrre, consumare e gettare via. Questo modello ha sempre dato una netta priorità agli obiettivi economici, conferendo loro il primato assoluto; tuttavia, diversi fattori sociali e ambientali fanno sì che oggi il modello lineare non sia più sostenibile. A tale proposito, nuovi emergenti modelli di business che migliorano la progettazione e incoraggiano il recupero dei materiali rappresentano un allontanamento dai sistemi storici di produzione e consumo. In contrapposizione al modello di economia lineare che ha dominato la società è quindi sorto un modello fondamentalmente differente: l’economia circolare. Questo nuovo modello mira a separare la prosperità economica dal consumo di risorse tramite la costruzione di circuiti chiusi. Più precisamente, l’economia circolare è un modello economico in cui pianificazione, risorse, approvvigionamento, produzione e ritrattamento sono progettati e gestiti, sia come input che come output, per massimizzare il funzionamento

dell’eco­sistema e il benessere umano (Murray, 2015). I principi che stanno alla base dell’economia circolare suggeriscono che, assumendo il pianeta come un sistema chiuso, la quantità di risorse esaurite in un periodo è pari alla quantità di rifiuti prodotti nello stesso periodo. Questo nuovo paradigma sostiene quindi la riduzione della necessità di nuovi input di materie prime nei sistemi di produzione, promuovendo materie prime rigenerative e la produzione di beni di lunga durata che possano venire riparati o facilmente riciclati (Geissdoerfer, 2017). L’economia circolare e la sostenibilità Pur trattandosi di un paradigma relativamente moderno, l’economia circolare è rapidamente diventata un tema centrale nelle azioni dei policymaker. Essa, inoltre, viene sempre più spesso associata ad altri concetti, in particolar modo alla sostenibilità. Questa relazione tra circolarità e sostenibilità è stata analizzata in letteratura principalmente attraverso tre chiavi di lettura: l’economia circolare può essere vista come una condizione necessaria per la sostenibilità, come solamente vantaggiosa per il raggiungimento della sostenibilità, oppure meramente come un compromesso tra le necessità economiche e quelle sostenibili. Per i primi, la circolarità nei modelli di business e nelle catene di approvvigionamento è ritenuta una precon-

Innovazione, economia circolare e sostenibilità

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IN PRODUZIONE


dizione e un elemento imprescindibile dello sviluppo sostenibile. Questo è l’approccio sostenuto dalle Nazioni Unite, che presentano l’economia circolare come condizione necessaria per la crescita economica sostenibile. Il secondo approccio descrive l’economia circolare come condizione necessaria ma non sufficiente per il raggiungimento della sostenibilità, per cui altre condizioni, come un cambiamento dello stile di vita, devono accompagnare il modello economico proposto per perseguire la sostenibilità a lungo termine. Una visione simile è sostenuta, ad esempio, dalla Commissione Europea. Infine, coloro che sostengono l’ultimo approccio del rapporto tra economia circolare e sostenibilità descrivono le strategie circolari solamente come un’opzione tra le tante. In particolare, questa è una visione che tende a evidenziare le problematiche nel rapporto tra circolarità e sostenibilità, come per esempio i costi dei sistemi circolari, l’impossibilità tecnica di creare un cerchio perfettamente chiuso in combinazione con la crescente domanda, oppure i problemi legati all’energia necessaria per riciclare i materiali (Geissdoerfer, 2017). In ogni caso i risultati dei modelli econometrici presenti in letteratura hanno sostanzialmente mostrato una forte e positiva correlazione tra un’economia circolare e la crescita economica, evidenziando allo stesso tempo il ruolo cruciale della circolarità nel promuovere la sostenibilità per ciascuna delle sue tre dimensioni (Hysa, 2020). Le tre dimensioni della sostenibilità Quando si parla di dimensioni della sostenibilità si fa riferimento a tre aspetti: economico, ambientale e sociale. Per ciò che concerne la dimensione economica della sostenibilità, è stato osservato come le catene di approvvigionamento circolari portino maggiori vantaggi rispetto a quelle lineari. A tale proposito l’Unione Europea stima che l’applicazione dei principi dell’economia circolare porterebbe a un aumento del PIL dell’Unione dello 0,5% entro il 2030 (Commissione Europea, 2020). Nondimeno, la loro fattibilità economica può venire messa in discussione, poiché i

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meccanismi per attuarle possono risultare molto fragili: ad esempio, possono essere legate alla longevità di un regime di sostegno economico del governo. Un caso pratico sono i sussidi nel Regno Unito necessari per rendere il biodiesel, il cui costo di produzione è di 75 p/l, economicamente conveniente rispetto al petrodiesel, il cui costo è di 52 p/l (Genovese, 2015). Tuttavia, data l’attuale centralità del tema nelle azioni dei policymaker, l’innovazione del modello di business affinché promuova circolarità e sostenibilità è oramai fondamentale per sostenere il vantaggio competitivo delle aziende (Pieroni, 2019). Riguardo alla dimensione ambientale dell’economia circolare, essa si rivela vitale per ridurre gli impatti ambientali attraverso la riprogettazione dei cicli di vita dei prodotti. Contemporaneamente, l’economia circolare deve però passare dalla focalizzazione sulla riduzione degli impatti alla conservazione, promuovendo l’impatto zero. Inoltre, l’applicazione dell’economia circolare, anche in vista dei futuri cambiamenti tecnologici, risulta rilevante anche ai fini di ripristino e di rigenerazione del capitale naturale che la porterebbe a esercitare un impatto estremamente positivo sulla dimensione ambientale della sostenibilità (Velenturf, 2021). Infine, dei tre pilastri della sostenibilità, la dimensione sociale è solitamente sottorappresentata nelle ricerche sull’economia circolare: vengono tralasciati i suoi aspetti intergenerazionali e spesso l’analisi dei benefici non va oltre la creazione di posti di lavoro. Ad esempio, l’UE stima che l’implementazione dei principi dell’economia circolare nel territorio dell’Unione creerebbe circa settecentomila nuovi posti di lavoro (Commissione Europea, 2020). Tuttavia, meriterebbero maggiore attenzione anche gli aspetti legati ai rapporti di potere nelle catene del valore e quelli legati alla distribuzione delle risorse. In ogni caso, l’importanza del cambiamento sociale e del sistema di valori risulta fondamentale per l’implementazione della circolarità, e da ciò deriva infatti la necessità di riorientare il pensiero del consumatore verso la valutazione di prodotti alternativi in termini di funzionalità, che dissocino il

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prodotto solamente dall’utilità che fornisce (Sauvé, 2015). Conclusione A conclusione di queste riflessioni si può pacificamente intuire come l’economia circolare costituisce un paradigma complesso: non si tratta solamente di un riuso degli scarti di produzione, ma di qualcosa che parte a monte. Una reale applicazione di questo modello richiede di partire a ripensare la prima fase di ogni processo produttivo: la progettazione. È da questa fase che inizia l’economia circolare che presuppone un attivo coinvolgimento però anche del consumatore che deve inevitabilmente richiedere una sua maggiore consapevolezza e un maggior coinvolgimento nella gestione dei prodotti (il modello circolare ambisce a un zero waste system). Una riflessione concreta però richiede anche una nuova consapevolezza, e quindi un ruolo attivo, anche da parte degli altri attori del sistema: organi di governo, amministrazioni pubbliche, imprese, università e centri di ricerca. Si tratta infatti di riconfigurare l’intero ciclo in tutte le sue fasi, in modo da conseguire, per quanto possibile, la sua chiusura, attuando profondi e diffusi interventi di innovazione, sia tecnologica, sia organizzativo-gestionale, sia dei valori individuali e sociali, e dei modelli di consumo.* BIBLIOGRAFIA – Commissione Europea (2020). Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare per un’Europa più pulita e più competitiva, COM (2020)98. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. – Geissdoerfer, M. et al. (2017). The Circular Economy – A new sustainability paradigm? Journal of Cleaner Production, n. 143, pp. 757-768. – Genovese, A. et al. (2015). Sustainable supply chain management and the transition towards a circular economy: Evidence and some applications. Omega, n. 66, pp. 344-357. – Hysa, E. et al. (2020). Circular Economy Innovation and Environmental Sustainability Impact on Economic Growth: An Integrated Model for Sustainable Development. Sustainability, n. 12, p. 4831. – Murray, A. et al. (2015). The Circular Economy: An Interdisciplinary Exploration of the Concept and Application in a Global Context. Journal of Business Ethics, n. 140, pp. 369-380. – Pieroni, M.P.P. et al. (2019). Business model innovation for circular economy and sustainability: A review of approaches. Journal of Cleaner Production, n. 215, pp. 198-216. – Sauvé, S. et al. (2015). Environmental sciences, sustainable development and circular economy: Alternative concepts for trans-disciplinary research. Environmental Development, n. 17, pp. 48-56. – Velenturf, A.P.M., Purnell, P. (2021). Principles for a sustainable circular economy. Sustainable Production and Consumption, n. 27, pp. 1437-1457.


Umane visioni

Da realtà a pellicola: fare arte attraverso la politica Arianna Mion ariannamion0@gmail.com

Human Visions The Sole Luna Doc Film Festival has been narrating society for years, through the form of the documentary. It does so by promoting the art of “real”, denouncing complex phenomena of the era in which we live. The Mediterranean is among the protagonists of the festival in the projections and provides the venue, given that every year it comes to life in Palermo and Treviso. We spoke with Chiara Andrich and Andrea Mura, artistic directors and Gabriella D’Agostino, scientific director of the festival.*

01. Chiara Andrich, Andrea Mura. Sole Luna Festival (SLF)

Il Sole Luna Doc Film Festival da anni narra la società, attraverso la forma del documentario. Lo fa promuovendo il cinema del “reale”, denunciando fenomeni complessi dell’era in cui viviamo. Il Mediterraneo è tra i protagonisti del festival tanto nelle proiezioni, quanto nei luoghi dello stesso, dato che ogni anno prende vita a Palermo e a Treviso. Abbiamo parlato con Chiara Andrich e Andrea Mura, direttori artistici e Gabriella D’Agostino, direttrice scientifica del festival. Può il documentario raccontare un’area così complessa e molteplice come il Mediterraneo, più fedelmente rispetto ad altri mezzi di comunicazione e media multidisciplinari? Chiara Andrich (CA) e Andrea Mura (AM) – Il documentario ha come suo specifico scopo quello di raccontare il “reale”, pur sempre da un punto di vista soggettivo, dando un contributo alla comprensione di fenomeni complessi attraverso la storia di personaggi reali. Molti sono i film che hanno raccontato l’area del Mediterraneo, dalla questione migratoria verso l’Europa – ricordiamo Fuocoammare di Giafranco Rosi (Italia, 2016) vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2016 – alle primavere arabe come ha fatto Stefano Savona in Tahrir Liberation square (Italia-Francia, 2011). Tra i film presentati al Festival, solo per fare alcuni esempi, vi sono stati il bel documentario Fiancées di Julia Bünter (Switzerland, 2019) che affronta il tema del matrimonio in Egitto, Upon the shadow di Nada Mezni Hafaiedh (Tunisia, 2017), sulla lotta per il riconoscimento dei diritti LGBT, Of fathers and sons di Talal Derki (Germania, Siria, Libano 2017) candidato all’Oscar nel 2018, sull’addestramento dei bambini nelle famiglie dei combattenti jihadisti. Sono dunque molteplici i temi e gli stili di racconto che hanno riguardato in questi anni il mondo mediterraneo, contribuendo a darne una visione sfaccettata e complessa, aggiungendo visioni e prospettive alla narrazione fornita dai media tradizionali, allo spettatore. Per altro, Sole Luna Doc Film Festival, fin dai suoi esordi nel 2006, ha scelto la forma del cinema del reale sia per la sua grande capacità di raccontare storie da vedute inedite e poco conosciute, sia per la sua inclinazione a percepire i cambiamenti in atto nella società. Il festival per alcuni anni ha guardato al Mediterraneo (e all’Islam), come ambito di riferimento privilegiato. Pur avendo in seguito eliminato l’ancoraggio areale e culturale specifico, per dare maggiore forza alla vocazione di apertura del festival, il Mediterraneo, nella sua complessità sociale e geografica, ha continuato a essere raccontato da scorci diversi.

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AL MICROFONO


Arte e manifestazioni di protesta: arte come forma di espressione o di ribellione? In paesi in continua ribellione una qualsiasi forma d’espressione artistica, anche documentaristica (come nel vostro caso), è più un gesto politico che estetico o di piacere. Una necessità di narrativa audiovisiva che colpisce chi guarda e ne diventa parte. Quanto, in questo, è fautore il documentario della promozione della libertà d’espressione? Gabriella D’Agostino (GA) – Direi che l’arte è stata spesso una forma di espressione della ribellione e della protesta anzi, in un certo senso e per certe fasi della sua storia, l’arte ha espresso, con i suoi codici, visioni alternative del mondo veicolate attraverso la dimensione estetica: una forma di lotta politica che si serve della forma estetica per sovvertire le narrazioni dominanti. Pensiamo, per fare solo qualche esempio recente, alla funzione dell’arte figurativa e performativa durante le primavere arabe (soprattutto nel caso della Tunisia), o agli allestimenti di Ai Weiwei. Nelle diverse edizioni del nostro festival, accanto ai documentari, spesso abbiamo presentato eventi mossi da questo tipo di tensione politica, come nella sezione di Video Art del 2018, intitolata Rinegoziare le identità. Per quanto riguarda invece i documentari, nella stragrande maggioranza dei casi essi sono forme di espressione politica perché prendono posizione, per il fatto stesso di scegliere certi temi, rispetto ad assetti vigenti. Parlo di Congo Lucha di Marlène Rabaud (Belgio, 2018), o della serie Freedom Women di Giancarlo Bocchi, o People of the Wasteland di Heba Khaled (Germania-Siria, 2018). Anche nei casi in cui questi documentari non sono incentrati su contesti in guerra, raccontare di violazione di diritti, di forme più o meno esplicite di discriminazione, o mettere il focus sull’ambiente e le sue relazioni tra umani e non umani, implica sempre un posizionamento, uno schieramento, un punto di vista sul mondo, per denunciare, ma anche per indicare visioni diverse. Questo è il caso di Island of the hungry ghosts di Gabrielle Brady (Germania-Gran Bretagna-Australia, 2018), o di Dark waters di Stéphanie Regnier (Francia 2018), o del vincitore della scorsa edizione del festival Il mio corpo di Michele Pennetta (Svizzera–Italia 2020). Che importanza ha avuto la nascita del documentario nella rappresentazione di conflitti incentrati sulla lotta per il potere nel processo di denuncia sociale e politica contemporaneo? CA, AM – Molto spesso i registi di documentario hanno uno sguardo engagé sul mondo e quindi raccontano situazioni di conflitto e tensione sociali da una prospettiva non allineata a quella del potere dominante, ma piuttosto da quella delle vittime. Il nostro festival ha una vocazione specifica nel selezionare documentari legati ai temi dei diritti umani e nel dare voci a storie poco conosciute fornendo punti di vista inediti su fenomeni sociopolitici complessi. Per fare qualche esempio della complessità e della molteplicità di sguardi: in questi 16 anni sono stati proposti diversi film sulla questione israelo-palestinese con produzioni e registi che hanno raccontato con sguardo acuto un fenomeno complesso, ma anche con approcci e stili differenti come quelli quasi da commedia in Women in sinc

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03. Sole Luna Doc Film Festival, Palermo 2021. SLF

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02. Gabriella D’Agostino. SLF


04. Sole Luna Doc Film Festival, Palermo 2021. SLF

di Iris Zaki (Israele, 2015), ambientato in un salone di parrucchiera frequentato sia da donne arabe che ebree, o quelli di denuncia sulla violazione dei diritti degli agricoltori palestinesi in The fading valley di Irit Gal (Israele, 2013), fino all’uso dell’animazione sperimentale per raccontare i check point in Memory of the land di Samira Badran (Spagna-Palestina, 2017). O ancora, rispetto alla questione nei Balcani, ci viene in mente il documentario Kosma di Sonja Blagojevic (Serbia, 2013) sul network radiofonico Kosma che rappresentava l’unico collegamento tra le comunità serbe del Kosovo a dieci anni dal conflitto; oppure, il vincitore del Festival di Locarno 2021 Brotherhood di Francesco Montagner (Repubblica Ceca-Italia, 2021), che racconta l’adolescenza di tre fratelli in Bosnia; o, per fare ancora un esempio, ricordiamo anche la serie di cortometraggi di Mario de la Torre che denuncia la violazione dei diritti LGBT raccolta nel progetto crossmediale La primavera rosa. Il legame tra colonizzazione italiana e cinema (documentaristico). Qual è la valenza del documentario come strumento per raccontare le azioni dell’Italia nel Corno d’Africa e nella Libia all’inizio dell’ultimo secolo? GA – L’Italia non ha ancora fatto i conti definitivamente con il proprio passato coloniale e ha avviato il processo di riflessione molto più tardi rispetto ad altri Paesi (come la Francia o l’Inghilterra). Se gli storici hanno fatto partire lo stesso dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, la riflessione antropologica arriva molto più tardi. Al nostro Festival, abbiamo di tanto in tanto dato spazio al racconto di questo passato, perché è importante conoscere tale fase della nostra storia

05. Sole Luna Doc Film Festival, Palermo 2021. SLF

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fuori da ogni retorica e da ogni visione assolutoria. A tal proposito, vi sono alcuni lavori di Martina Melilli, che è stata nostra ospite nel 2018 con i digital video The Fourth Day of School e Italian-African Rhyzome. A Choreography for Camera e nel 2019 con My Home in Lybia (Italia, 2018). Una narrazione più “classica”, in questo caso dell’esperienza coloniale italiana in Eritrea, è rappresentata da un lavoro di Giampaolo Montesanto di cui abbiamo presentato nel 2016 il primo documentario della sua trilogia sugli Italiani d’Eritrea, che narra quella vicenda storica attraverso la voce di 06. Sole Luna Doc Film Festival, Palermo 2021. SLF alcuni testimoni diretti; nella stessa edizione del festival avevamo in concorso anche Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos (Italia, 2015), un lavoro sugli eritrei e gli etiopi in Italia e le loro storie quotidiane. Ricordiamo infine l’interessante documentario prodotto dal Centro sperimentale di Cinematografia, Africa Bianca di Filippo Foscarini e Marta Violante (Italia, 2020), che racconta l’invasione dell’Etiopia del 1936 attraverso materiali di archivio visivi e sonori e i disegni del quaderno di un piccolo balilla. Guerre e conflitti nell’antropocene. La prossima edizione del festival avrà un focus particolare sulla sostenibilità ambientale e la transizione ecologica. È risaputo che il Mediteranneo è destinato a scomparire per i vari effetti del cambiamento climatico. (L’innalzamento della temperatura in quell’area è infatti 22% più veloce rispetto alla media globale.) L’impatto del cambiamento climatico è già devastante e ha contribuito, ad esempio, assieme ad altri fattori, allo scoppio della guerra in Siria. Quale pensiate sia il modo più efficace per rappresentare come l’antropocene stia irrimediabilmente influenzando quest’epoca e per convincere la società a un’azione concreta? CA, AM – Il tema e sottotitolo della 17esima edizione del Sole Luna Doc Film Festival è Docs for future, e sarà proposta una selezione di documentari che in modo più intrinseco parleranno delle problematiche legate alla transizione ecologica, alla sostenibilità ambientale, alla tutela dell’ambiente e alle energie rinnovabili. È ormai un fatto acquisito che se vogliamo assicurare un futuro al mondo in cui viviamo bisogna mettere al centro delle azioni politiche, sociali ed economiche l’idea di un nuovo umanesimo, un umanesimo rigenerato e capovolto, in cui la centralità è la Terra con i suoi ecosistemi. L’edizione 2022 del Sole Luna Doc Film Festival vuole riflettere su questa necessità e sulla complessità di un mondo che deve affrontare l’urgenza di adottare una politica ecologica radicale, solidale con gli esseri viventi che lo popolano e con le sue risorse naturali, in equilibrio necessario tra globalizzazione e deglobalizzazione, crescita e decrescita, per ridurre le disuguaglianze e per trovare l’unità nella diversità, fuori da ogni retorica. La selezione dei film in concorso proporrà opere che raccontino storie, progetti e visioni che indichino una nuova via, con una attenzione particolare al rapporto esseri umani-ecosistemi, ai progetti solidali, alla lotta per la protezione dei diritti umani, degli animali e delle piante, alla politica mondiale per l’acqua, alla valorizzazione delle pratiche rispettose di questi equilibri, di cui le cosiddette popolazioni indigene spesso sono state custodi e guide esemplari. Cercheremo inoltre di valorizzare autori emergenti, opere prime e promuovere produzioni di paesi scarsamente rappresentati a livello internazionale.*

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Il Mediterraneo è... Mediterraneo in barca Georges Simenon Adelphi 2019

orquerolles, 23 maggio 1934 Il Mediterraneo è... Il Mediterraneo è... Il Mediterraneo... Resto così, con la penna a mezz’aria, in seria diffcoltà, come quando da bambino, in piedi davanti alla lavagna, spostavo il peso da una gamba all’altra e intanto cercavo con la coda dell’occhio un compagno compassionevole. Il Mediterraneo è... Eppure una definizione vorrei riuscire a darla; o perlomeno vorrei delimitare sind’ora il campo delle mie osservazioni, con la stessa facilità con cui ho tracciato sulla carta nautica una linea spezzata che va da Marsiglia a Messina fino al Pireo, da Smirne a Beirut fino a Porto Said, da Malta alla Sardegna fino a Tunisi, Tangeri, Barcellona.

Il Mediterraneo è... Ad esempio, in un quadro di Raoul Dufy, il Mediterraneo è una distesa d’acqua di un azzurro color liscivia, con tante piccole onde, un pullulare confuso di vele bianche e, a volte, la scia grigia di un piroscafo. Per la maggior parte delle persone, il mare è questo: bagnanti in costume sulla spiaggia, giocatori nei casinò, pescatori nei porti, uomini in berretto bianco sugli yacht, e in lontananza, sulla linea dell’orizzonte, una nave che passa. Per costoro il Mediterraneo è un mare vastissimo, dai contorni imprecisi, dove compare qualche vago punto di riferimento: Tolone e la sua flotta, Nizza e la sua giostra, Napoli e il suo vulcano, il Pireo con il Parteno-

a cura di

ne; forse, da qualche parte, la Corsica e, sul lato opposto, gli arabi, i cammelli e la sabbia. Ma il Mediterraneo non è niente di tutto questo. Il Mediterraneo è... Tanto per cominciare, è piccolissimo. Non a caso viene definito bacino, ma faremmo meglio a chiamarlo córso. Ed è un córso, ve lo garantisco, che assomiglia più di quanto possiate immaginare alla strada principale di una città di provincia. Quando ci si incrocia, ci si saluta. Diciamo buongiorno a Pierre e a Emma, ad Akrim bey o a Pepito. Un altro esempio: voi forse pensate che ci siano migliaia di imbarcazioni. E invece a Porquerolles, dove mi trovo oggi, qualsiasi ragazzino sarebbe in grado di dirvi, nel veder passare le vele quadre di una goletta: “È una nave italiana che va a prendere un carico di ferraglia a Tolone”. E, osservandola più da vicino, preciserà: “Dev’essere il Toscana, di Livorno”. Questo non perché sia un mago, ma perché le golette italiane non sono tanto numerose e, quando vengono in Francia, lo fanno per portare il marmo e ripartire con la ferraglia. La ferraglia viene caricata a Tolone, dove si trova il cantiere di demolizione delle grandi navi. Vedrete che è proprio come incontrarsi sul córso principale di una piccola città.*

sullo scaffale

Conversazioni in alto mare Riccardo Gatti e Marco Aime Eleuthera, 2021

Corto Maltese. Oceano nero Hugo Pratt, Martin Quenehen, Bastien Vivès Cong, 2021

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Il fato di Fausto. Una favola dipinta Oliver Jeffers Zoolibri, 2021

CELLULOSA


per colpa di chi? “Milioni e milioni di buste, bottiglie, piattini e cosucce, metà del pianeta di plastica. Un bimbo gioca in spiaggia innocente, mi dice che la fine è imminente, che è stata colpa mia è evidente” Dolcenera, Amaremare, Singolo, 2019. Immagine di Emilio Antoniol

(S)COMPOSIZIONE



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