OFFICINA* 47

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Re(Think)Sources di Matteo Macciò

Qual’è la miglior soluzione per dare una nuova vita alle eredità del passato che abbiamo tra le mani evitandone così un possibile abbandono?

“Dai diamanti non nasce niente / Dal letame nascono i fior”. Come scritto dal maestro Fabrizio De André nella canzone Via del Campo, è fondamentale non fermarsi all’apparenza delle cose, facendo passare il nostro sguardo attraverso una visione critica della realtà.

Conoscere le modalità di recupero delle “eredità tossiche” –abbandonate o prossime alla chiusura – e la loro percezione, costituiscono la chiave per aprire un dibattito.

La speranza in mezzo al degrado è l’unica scintilla capace di dare luce ad una situazione ormai ritenuta spenta e immobile.

Tossico o velenoso

Sebbene nel linguaggio quotidiano gli aggettivi “tossico” e “velenoso” assumano comunemente il ruolo di sinonimi, in ambito scientifico essi definiscono due concetti che, seppur collegati, sono ben distinguibili. Il termine tossico – senza entrare nei dettagli della disciplina tossicologica – si riferisce generalmente a sostanze che, se ingerite o se entrate in contatto con la pelle, possono causare danni più o meno gravi a un organismo vivente. Velenoso invece è un termine che viene associato a organismi capaci di produrre sostanze tossiche, sia in modo volontario che involontario. Ciò che cambia quindi è il soggetto a cui i due termini possono essere associati: un serpente, ad esempio, si dice velenoso in quanto capace di produrre una sostanza che è tossica per altri organismi.

In biologia viene però attuata un’ulteriore distinzione tra i due termini. Un animale, o una pianta, sono definiti tossici quando producono o accumulano sostanze tossiche che usano come strumento passivo di difesa dai predatori; al contrario si dicono velenosi quegli esseri viventi che usano in modo attivo e offensivo le loro tossine per stordire o uccidere le proprie prede. Caratteristica comune di quasi tutti gli animali, sia tossici che velenosi, è però quella di essere generalmente immuni alle tossine prodotte, grazie a svariati meccanismi, fisici o biologici, che proteggono il produttore del veleno dai suoi effetti collaterali.

In questo quadro, l’essere umano rappresenta un’eccezione piuttosto singolare. Sebbene non sia classificato come animale tossico, né tanto meno come velenoso, l’uomo produce una grande quantità di sostanze nocive per gli altri organismi viventi. Nei vari processi industriali, che l’uomo ha sviluppato nel corso dei secoli, vengono prodotte sostanze e materiali che nel tempo possono rilasciare molecole pericolose per la salute delle specie viventi del Pianeta. A ciò si aggiunge il fatto che generalmente queste sostanze sono tossiche anche per l’uomo stesso, ossia per l’organismo che le ha prodotte in modo più o meno consapevole. Se infatti da un lato la produzione di sostanze tossiche per fini offensivi o militari – come gas tossici, armi biologiche o batteriologiche – è oggi condannata e, per lo più, vietata, la produzione di inquinanti, sostanze nocive o con possibili effetti dannosi per la salute umana e non solo, sebbene disincentivata e regolamenta, è comunque permessa in molti ambiti della produzione.

Nonostante la ricerca scientifica sia fortemente impegnata non solo nell’individuazione di cause e correlazioni tra la produzione di queste sostanze nocive e la salute umana, e anche nella definizione di processi produttivi meno impattanti sugli ecosistemi viventi, ad oggi, l’eredità tossica lasciata alle generazioni future da questo “strano animale velenoso” che è l’uomo è più rilevante che mai. Emilio Antoniol

Direttore editoriale Emilio Antoniol

Vicedirettrice Rosaria Revellini

Direttrice artistica Margherita Ferrari

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Redazione Davide Baggio, Luca Ballarin, Martina Belmonte, Giulia Conti, Eleonora Fanini, Alice Gasparini, Silvia Micali, Libreria Marco Polo, Sofia Portinari, Marta Possiedi, Tommaso Maria Vezzosi

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OFFICINA*

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.47 ottobre-novembre-dicembre 2024 Eredità tossiche

Il dossier di OFFICINA*47 – Eredità tossiche è a cura di Nathan Brenu, Gloria Pessina, Oana Cristina Tiganea.

Hanno collaborato a OFFICINA* 47: Giorgia Aprosio, Thomas Bisiani, Andrea Cadelano, Mariateresa Campolongo, Elisa Donini, Maria Fierro, Chiara Iacovetti, Matteo Macciò, Andrea Manca, Giulia Mangilli, Giuseppe Miotto, Federica Pompejano, Elisa Privitera, Sara Rocco, Nicola Russolo, Francesco Stefano Sammarco, Chiara Semenzin, Luca Velo, Adriano Venudo, Amanda Zaramella, Luca Zecchin.

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Tutti gli articoli di OFFICINA* sono sottoposti a valutazione mediante procedura di double blind review da parte del comitato scientifico della rivista. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. OFFICINA* è inserita nell’elenco ANVUR delle riviste scientifiche per l’Area 08.

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INTRODUZIONE

Un’allegoria mistificata A Mystified Allegory

Nathan Brenu, Gloria Pessina, Oana C. Țiganea

Troubled Waters

Nicola Russolo, Luca Velo

Re(Think)Sources

Matteo Macciò

SCIENTIFIC DOSSIER

Relitti della cortina di ferro Iron Curtain Wreckage

Thomas Bisiani, Adriano Venudo

(Counter)Mapping Toxic Legacies Contro-mappare le eredità tossiche

Navi dismesse e abbandonate Retired and Abandoned Ships Mariateresa Campolongo

22 50

Elisa Privitera

Siti orfani Orphan Sites

Luca Zecchin

80 32

Presidi militari costieri in Sardegna Coastal Military Posts in Sardinia

Andrea Cadelano, Andrea Manca

70 Punk a bestia

Tangible and Intangible in (post)Industrial Landscapes Il tangibile e l’intangibile nei paesaggi (post)industriali

Sara Rocco, Federica Pompejano

INFONDO

Stefania Mangini

COLUMNS

4

ESPLORARE

Spunti da visitare a cura di Margherita Ferrari

IL PORTFOLIO

82

98 102 90 92

Il racconto dei luoghi liminari The Story of Liminal Places

Francesco Stefano Sammarco

I CORTI

Lost: memoria locale negli spazi industriali in disuso Lost: Local Memory in Disused Industrial Areas

Chiara Semenzin

Da bonifica a rigenerazione urbana: il caso Landschaftspark From Reclamation to Urban Regeneration: the Landschaftspark Case

Amanda Zaramella, Giuseppe Miotto

Bikini

Giorgia Aprosio

Ecologie industriali postbelliche

Post-War Industrial Ecologies

Elisa Donini

La Storia umana Human History

Letizia Goretti

Toxic Landscapes

Luca Zecchin, Giulia Mangilli

CELLULOSA (S)COMPOSIZIONE

I felini volano Felines fly a cura di Emilio Antoniol

Elisir Tossico Toxic Elixir

Emilio Antoniol

Le storie straordinarie. Alberto Martini ed Edgar Allan Poe

27/09/2024 – 25/03/2025

Fondazione Oderzo Cultura oderzocultura.it

[Dall’incipit del catalogo della mostra Alberto Martini ed Egar Allan Poe. Le storie straordinarie, a cura di Alessandro Botta e Paola Bonifacio, Dario Cimorelli Editore, 2024] “Nell’ampia e articolata produzione artistica di Alberto Martini, che dalle ricerche tardottocentesche connotate da un recupero di temi e linguaggi del passato transita verso orizzonti d’indagine pienamente novecenteschi, la serie di disegni ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe rappresenta una prova indiscussa di modernità, tale da conferire all’artista una notorietà che valica la congiuntura del suo tempo. Il lavoro di illustrazione, intrapreso nel 1905, si protrae per oltre trent’anni

con un’intensità e dedizione inaspettate, confermate dall’esteso numero di tavole (più di cento in totale) prodotte dall’artista. Non è un caso che proprio le tavole dedicate ai Tales dello scrittore americano rappresentino, in qualche misura, una delle vie privilegiate per la riscoperta postuma dell’artista, per lungo tempo dimenticato; ma anche un episodio utile per rileggere in senso più ampio quel periodo – che dagli anni novanta dell’Ottocento si estende all’avvio delle avanguardie –, obliato nel dibattito storiografico e artistico almeno sino al secondo dopoguerra inoltrato. Siamo all’inizio degli anni sessanta. L’importante sezione Grafica Simbolista Italiana curata da Guido Ballo alla XXXI Biennale si muove proprio in questo senso, presentando un’ampia selezione di tavole martiniane per i racconti di Poe, affiancate alle opere dei più significativi autori di quella

generazione (Umberto Boccioni, Romolo Romani, Adolfo Wildt, tra gli altri). La premessa di Ballo, “Appare sempre più profonda oggi – nel clima europeo – l’azione del simbolismo sullo sviluppo della cultura artistica delle avanguardie”, mette a fuoco le intenzioni, segnando retrospettivamente una riscoperta di tecniche e tendenze figurative (ancora limitata, comunque, entro gli ambiti nazionali) fondamentali per la nascita e lo sviluppo del Futurismo e della Metafisica [...].”

Marina Apollonio. Oltre il cerchio

12/10/2024 – 03/03/2025

Museo Peggy Guggenheim (VE) guggenheim-venice.it

La mostra a cura di Marianna Gelussi costiuisce la più ampia restrospettiva in ambito museale in Italia dedicata a Marina Apollonio (1940). L’artista tristina è tra le maggiori esponenti dell’arte optical internazionale. La mostra presenta oltre cento opere, che delinenano la varietà creativa dell’artista: monocromatismi e colori, pittura e scultura, disegno e modellazione, staticità e dinamismo, e materie differenti. Marina Apollonio. Oltre il cerchio ripercorre la carriera dell’artista dal 1963 a oggi.

Niki de Saint Phalle

5/10/2024 – 16/02/2025

MUDEC, Milano mudec.it

Fortunato Depero. Sete di futurismo, fame d’America

25/09/2024 – 01/03/2025

Stazione Frigorifera Specializzata di Verona earthfoundation.it/arthouse/

Gradazione 16N, 1966, acrilico su legno, 70 x 70 cm. Collezione Holler

TOSSICHE EREDITÀ

A

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cura di Nathan Brenu, Gloria Pessina, Oana C. Țiganea
Contributi di Thomas Bisiani, Andrea Cadelano, Mariateresa Campolongo, Andrea Manca, Federica Pompejano, Elisa Privitera, Sara Rocco, Nicola Russolo, Luca Velo, Adriano Venudo, Luca Zecchin.

Nathan Brenu

Professore e assegnista di ricerca, Storia ambientale, ENSA Nantes Université, DAFIST Università degli studi di Genova. nathan.brenu@nantes.archi

Gloria Pessina

Ricercatrice tdA, Tecnica e pianificazione urbanistica, DAStU, Politecnico di Milano. gloria.pessina@polimi.it

Un’allegoria mistificata

In epoca industriale, e in particolare nel corso del XX secolo, l’impatto delle attività produttive sul territorio ha coinvolto nuove scale, tanto da condurre studiosi di diverse discipline a rilevare come il mondo nel suo complesso fosse stato contaminato (Moore, 2015; Jarrige e Le Roux, 2017). Tuttavia, tale contaminazione non è distribuita in maniera uniforme e permane una forte disparità tra territori (Keil, 2020) che hanno ereditato suoli più o meno degradati, infrastrutture più o meno pericolose e che sono variamente esposti a forme di violenza ambientale (Pessina, 2022). Pertanto, la tipologia stessa di queste eredità tossiche è varia. Quali sono dunque le specificità locali di questi “negative commons” (BennholdtThomsen e Mies, 2001)? Come vengono percepiti dai vari attori locali (o anche regionali e nazionali)? Come viene gestita la situazione e trasmessa come eredità al futuro?

Poiché il patrimonio è un fenomeno “human-centred” e non possiamo controllare ciò che ereditiamo (Bangstad e Peturdottir, 2022), le eredità tossiche sono patrimoni scomodi, tangibili e intangibili, oggetti collettivi di domande, conflitti, dibattiti e talvolta negazione. Queste eredità si estendono oltre i confini fisici e le narrazioni immaginarie di un sito specifico o di un certo caso studio, e sono spesso rivelatrici dei modi in cui gli attori possono pensare a un’epoca, nella sua continuità o nelle sue rotture. Esaminare queste eredità da una prospettiva patrimoniale è inoltre un modo per comprendere il loro ruolo come possibili fattori nelle riconfigurazioni socio-politiche e culturali. Mentre i monumenti culturali sono sempre più riconosciuti come componenti di territori e paesaggi più ampi, l’approccio a questi manufatti a volte privilegia il valore estetico, come nel caso dei siti post-industriali (Choay 1992; Ioan et al., 2007; Picon 2000). Questo porta a una rappresentazione romanticizzata e a un’allegoria mistificata delle eredità scomode, come si osserva nella crescente popolarità di pratiche come l’urban exploration (Urbex) e i film post-apocalittici, che spesso contribuiscono alla proliferazione di cliché generici attorno alla catastrofe (Brenu, 2023). Inoltre, in un momento in cui si sottolinea la necessità di considerare il patrimonio da una prospettiva ecologica (Bangstad e Petur-

Oana C. Țiganea Ricercatrice TT, Restauro architettonico, DAStU, Politecnico di Milano. oanacristina.tiganea@polimi.it

A Mystified Allegory

In the industrial age, and particularly during the 20 th century, a change of scale took place in terms of the impact of productive activities on the territory. The world, in its complex manifestation, was contaminated (Moore, 2015; Jarrrige and Le Roux, 2017). An environmental disparity remains, however, and while territories have inherited soils that are degraded, infrastructures that are potentially dangerous, the typology itself of these toxic legacies varies greatly (Keil, 2020; Pessina, 2022). So, what are the local specificities of these “negative commons” (Bennholdt-Thomsen and Mies, 2001)? How are they perceived by the various local, or even regional and national, players? How is the situation managed and transmitted as an inheritance to the future?

As heritage is a “human-centred phenomenon” and we cannot control what we inherit (Bangstad and Peturdottir, 2022), toxic legacies refer to all these inconvenient tangible and intangible inheritances, collective objects of questioning, conflict, debate, and sometimes denial. These legacies extend beyond the physical boundaries and imaginary narratives of a specific site or case study, shedding light on how different actors perceive an era, both in its continuity and its disruptions. Looking at these legacies from a heritage angle is, moreover, a way of understanding their role as possible factors in socio-political and cultural reconfigurations. While cultural monuments are increasingly recognized as components of broader heritage territories and landscapes, the approach to these buildings sometimes prioritize the aesthetic value as in the case of post-industrial sites (Choay 1992; Ioan et al., 2007; Picon 2000). This is further triggering a romanticized portrayal and mystified allegory of inconvenient legacies as seen in the contemporary popularity of practices like urban exploration (Urbex) and post-apocalyptic films, which often contribute to the proliferation of generic clichés surrounding catastrophe (Brenu, 2023).

Furthermore, in a moment in which heritage needs to be considered from an ecological approach (Bangstad and Peturdottir 2022), we aim to distance from this “aesthetic interpre-

(Ana)tossica: l’eredità delle città post-industriali. Maria Fierro

dottir 2022), ci proponiamo di distaccarci da questa “interpretazione estetica” di ciò che potrebbe essere considerato e percepito attualmente come “toxic heritage” (Kryder-Reid e May, 2024). Al contrario, considerando la questione in una relazione più diretta con il territorio, ad esempio analizzando progetti di recupero e riqualificazione, senza escludere l’esplorazione di un campo critico della “comunicazione”, questo numero tematico mira ad avvicinarsi a una molteplicità di casi da angolazioni diverse. Inoltre, con l’obiettivo di mettere in luce il lavoro di giovani ricercatori su questo tema, la raccolta di articoli mira a promuovere spazi di riflessione, presentando un ampio quadro metodologico e disciplinare attraverso una selezione di progetti di ricerca in corso.

tation” of what could be considered and perceived currently as “toxic heritage” (Kryder-Reid and May, 2024). On the contrary, by considering the question in a more direct relationship to the territory and its tangible and its traces and by looking at recovery and requalification projects with some explorations in the field of a critical history of “communication”, this thematic issue aims to approach a multiplicity of cases from angles that are themselves diverse. Furthermore, with the goal of highlighting the work of emerging researchers in this field, the initiative aims to create opportunities for reflection. This is emphasized by the selection of a broad disciplinary and methodological framework and a variety of ongoing research projects.

Queste eredità si estendono oltre i confini fisici e le narrazioni
immaginarie di un sito specifico o di un certo caso studio, e sono spesso rivelatrici dei modi in cui gli attori possono pensare a un’epoca, nella sua continuità o nelle sue rotture

Alcuni articoli non esitano a parlare di problemi irreversibili, di difficoltà a incanalarne gli effetti, o addirittura a limitarli, in aree che appaiono così sacrificate, nonostante l’obbligo di pensare al futuro di queste zone. È il caso del disastro della contaminazione idrica in Veneto, prodotto di una lunga storia territoriale di contaminazione a catena tracciata da Nicola Russolo e Luca Velo. “Irreversibilità territoriale” è un’espressione che per altri motivi viene in mente anche leggendo l’articolo di Tho -

Some articles do not hesitate to speak of irreversible problems, of difficulties in channelling their effects, or even limiting them, in areas that thus appear to be sacrificed, despite the obligation to think about the future in these areas. This is the case with the water contamination in Veneto Region, the product of a long territorial history of chain contamination traced by Nicola Russolo and Luca Velo. “Territorial irreversibility” is an expression that for other reasons also comes to mind when reading the article by Thomas Bisiana and Adriana Venudo on the fall of the Iron Curtain and the very cumbersome legacy of hundreds of abandoned military sites in Friuli Venezia Giulia, even if it suggests the possibility of a new futures based on this “inconvenient” heritage. But, as demonstrated in the previous article by Mariatesa Campolongo on the phenomenon of abandoned ships on the coasts, it is never easy to find unequivocal solutions to manage such traces of the past, and very active traces in this case since they constitute an environmental problem, also regulatory, which extends over time.

Faced with the difficulty that various situations represent,

mas Bisiana e Adriana Venudo sulla caduta della cortina di ferro e l’ingombrante eredità di centinaia di siti militari abbandonati in Friuli-Venezia Giulia, anche se suggerisce la possibilità di un nuovo futuro basato su questa eredità scomoda. Ma, come dimostra l’articolo di Mariatesa Campolongo sul fenomeno delle navi abbandonate sulle coste, non è mai facile trovare soluzioni univoche per gestire tali tracce del passato, molto attive in questo caso, poiché costituiscono un problema ambientale e normativo che si estende nel tempo.

Di fronte alla difficoltà che le diverse situazioni rappresentano, è anche necessario sperimentare nuovi approcci, come suggerisce Elisa Privitera a proposito del caso di Gela, in Sicilia, una città che ha ereditato una storia petrolchimica inscritta nel suolo, ma anche nel mare, nell’aria e nel sottosuolo. L’oggetto di studio è vasto ed è qui affrontato attraverso diversi approcci qualitativi, al livello del suolo, o meglio della strada, secondo storie di abitanti che permettono di elaborare lo sviluppo di nuove mappe della tossicità.

Non mancano casi particolari, che permettono di sollevare la questione delle eredità tossiche in modo nuovo, quando architettura, paesaggio e sostanze tossiche si intrecciano. Essi coinvolgono diversi attori, in particolare istituzionali, e possono talvolta diventare il terreno per nuove strategie di adattamento, come nel caso delle vecchie miniere di Guzzurra-Arghentaria studiate da Luca Zecchin. E a volte, non è tanto l’inquinamento l’eredità scomoda da gestire, quanto la realtà geopolitica che esso richiama. Il patrimonio sembra allora porsi come ferita aperta e visibile di una memoria collettiva, come le basi militari sulla costa sarda che convivono con altre attività e paesaggi, come spiegano Andrea Cadelano e Andrea Manca.

it is also always necessary to seek new approaches, as Elisa Privitera suggests using the case of the Sicilian city of Gela, a city that has inherited a petrochemical history that has always been inscribed on the ground, in the sea, in the air and in the subsoil. The object of study is vast, and it is here tackled through diverse qualitative approaches, at ground level, or rather on the street corner, according to residential histories that allow us to consider the development of new maps of toxicity, that the author invites us to approach it.

There is no shortage of special cases, nor of types of infrastructure, to constantly raise the question of toxic legacies in a new way, when architecture, landscape and toxic substances become intertwined. They involve various actors, notably

These legacies extend beyond the physical boundaries and imaginary narratives of a specific site or case study, shedding light on how different actors perceive an era, both in its continuity and its disruptions

institutional, and can sometimes become the terrain for new strategies of adaptation attempts, notably project-based as in the case of the old mines of Guzzura-Arghentaria studied by Luca Zecchin. Sometimes, it is not so much pollution that is the inconvenient legacy to manage as the geopolitical reality that it recalls. Heritage then seems to pose itself as an open and visible wound of a collective memory, like all these military bases on the Sardinian coast that come to coexist with other activities and other types of landscapes, as Andrea Cad-

Oltre alla qualità delle immagini e delle mappe, riteniamo che il valore degli articoli qui raccolti consista anche nella diversità dei casi, delle questioni e degli approcci. Esistono molteplici modi di affrontare ciò che costituisce la memoria materializzata in un territorio, per quanto repressa possa essere. È in questa diacronia paesaggistica, o meglio attraverso la biografia paesaggistica, che Sara Rocco e Federica Pompejano ci invitano, ad esempio, a interrogare l’eredità industriale della Valle Bormida, in un territorio in cui le attività si sono trasformate, dall’agricoltura alla parziale deindustrializzazione, ma in cui rimane la complessa eredità delle tracce molto presenti della storia industriale che nel frattempo ha lasciato un segno duraturo nei luoghi.

Come gli articoli mostrano in vario modo, il tempo è spesso messo in discussione nello spazio, attraverso continuità, rotture, congiunture più o meno lunghe e la loro territorializzazione. Per questo le rovine industriali o militari ci interrogano in maniera retrospettiva sulla sostenibilità delle società che le hanno prodotte, e ci consentono di immaginare alcune possibilità prospettiche. Come mostra la selezione di fotografie di Francesco Stefano Sammarco, i luoghi dismessi sono parte del nostro presente e ci spingono a interrogarci sul futuro, come ci ricorda anche Elisa Donini attraverso un approccio paesaggistico. Ma perché questo accada, non dobbiamo lasciarci confondere dalla forza politica e mediatica delle immagini, dal loro potere di distrazione, come sembra avvertirci Giorgia Aprosio nel suo originale articolo sui sorprendenti legami tra la promozione del bikini e la bomba nucleare.

Le eredità tossiche sono un oggetto plurale che i giovani ricercatori coinvolti in questo numero della rivista hanno colto, mettendo in luce l’esigenza di continuare a occuparsene attraverso un dialogo tra più discipline.*

REFERENCES

– Bangstad, T.R., Peturdottir P. (eds.) (2022). Heritage Ecologies. London-New York: Routledge.

– Bennholdt-Thomsen, V., Mies, M. (2001). Defending, Reclaiming and Reinventing the Commons. Canadian Journal of Development Studies, 22 (4), pp. 997-1023.

– Brenu, N. (2023). Esprit (des lieux), es-tu là ? Imaginaire spectral, lieux fantômes et industrie audiovisuelle. Territoire en mouvement, 57. doi.org/10.4000/tem.10637

– Choay, F. (1992). L’allégorie du patrimoine. Paris: Seuil.

– Ioan, A. et al. (2007). Kombinat. The Industrial Ruins of the Golden Era. Bucharest: Igloo Media (photographs by Bonciocat Ș).

– Jarrige, F., Le Roux, T. (2017). La contamination du monde. Une histoire des pollutions à l’âge industriel. Paris: Seuil.

– Keil, R. (2020). An urban political ecology for a world of cities. Urban Studies, 20(57), pp. 2357-2370.

– Kryder-Reid, E., May, S. (eds) (2024). Toxic Heritage. Legacies, Futures, and Environmental Injustice. London-New York: Routledge.

– Moor, J. (2015). Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital. London: Verso.

– Pessina, G. (2022). Environmental violence. In Pellizzoni L., Leonardi E., Asara V. (eds), Handbook of Critical Environmental Politics. Cheltenham: Edward Elgar Publishing.

– Picon, A. (2000). Anxious Landscapes: From the Ruin to Rust. Grey Room, n. 1, pp. 64-83.

elano and Andrea Manca explain to us.

It is therefore not only the quality of the images and maps that make the quality of all the articles here, but also the diversity of cases, issues and approaches. There are multiple ways of approaching what constitutes materialized memory in a territory, however repressed it may be. It is in this landscape diachrony or rather through landscape biography that Sara Rocco and Federica Pompejano invite us to question the industrial heritage of the Valle Bormida, in a territory where activities have been transformed, from agriculture to partial deindustrialization, but where the complex legacy remains of the very present traces of the industrial history that has in the meantime left a lasting mark on the places. Because in the end, it is always the time that is questioned here in space. Time that continues, time that degrades, long conjunctures and their territorialization, when industrial or military ruins question us on the sustainability of the society that produced them, and especially on its capacity to seize these retrospectives that are necessary to trace some prospective possibilities. Conducive to photographic capture, as Francesco Stefano Sammarco shows, disused places also make our present and in fact push us to question the future, as Elisa Donini reminds us through a landscape approach. But for this to happen, we must not let ourselves be confused by the political and media force of images, by their power of diversion, as Giorgia Aprosio seems to warn us in her original article on the surprising links between the promotion of the bikini and the nuclear bomb.

In short, it will have been well understood that toxic legacies were a plural object that young researchers seized upon, and who, therefore, deserved an issue of OFFICINA* highlighting such current events that have clearly not finished being talked about from many angles.*

Anthromes. Chiara Iacovetti

Nicola Russolo

Architetto e dottorando in Urbanistica, Università Iuav di Venezia e IUSS Pavia. nrussolo@iuav.it

Luca Velo

Professore associato in Urbanistica, Università Iuav di Venezia. lucavelo@iuav.it

Troubled Waters

01. Still life? Abitare lungo l’argine del fiume Guà a Santo Stefano di Zimella, Verona | Dwelling along the levee of the Guà river in Santo Stefano di Zimella, Verona. G. Miotto, A. Zaramella

Troubled Waters The legacy of water contamination is difficult to trace and circumscribe, with dangerous effects especially in the context of global and local water crises. Water scarcity, exacerbated by increasing drought periods and climate change, becomes paradoxical in areas where water is abundant but unusable. PFAS (per- and polyfluoroalkyl substances) pollution in the Veneto Region has created an irreversible toxic legacy for which communities are paying a huge health and social toll. It is therefore essential to investigate scenarios in order to develop appropriate projects and policies for the compromised territorial context.*

Il lascito rappresentato dalla contaminazione delle acque è difficile da perimetrare e controllare, con effetti pericolosi soprattutto nel contesto della crisi idrica globale e locale. La scarsità d’acqua, acuita dai periodi siccitosi in aumento e dai cambiamenti climatici, diventa paradossale in aree dove l’acqua è abbondante ma inutilizzabile. L’inquinamento da PFAS (sostanze per- e polifluoroalchiliche) in Veneto ha creato un’eredità tossica irreversibile di cui le comunità stanno pagando un conto sanitario e sociale ingente. Diventa necessario elaborare scenari per progetti e politiche in risposta al contesto territoriale compromesso.*

Territori del paradosso: esplorazioni della contaminazione in Veneto

ntroduzione

I lasciti dei processi industriali, oltre ai “beni immobili” e alle grandi quantità di “beni mobili” che si sono accumulati sul pianeta, forniscono una terza categoria di elementi, mobili ma allo stesso tempo legati al luogo e alla dimensione territoriale. Ancorati al suolo talvolta più stabilmente dei manufatti edilizi, questi elementi sono i più difficili da gestire e quantificare, in termini di dimensioni e di effetti. All’interno di questa terza categoria, la contaminazione delle acque dolci (Kumaraswamy et al., 2020) ha effetti pervasivi, profondi e duraturi, rappresentando un’eredità particolarmente tossica, tanto più se considerata nella prospettiva dell’attuale crisi idrica globale: “A livello globale, due miliardi di persone (26% della popolazione) non dispongono di acqua potabile sicura e 3,6 miliardi (46%) non hanno accesso a servizi igienici adeguati [...]. Tra i due e i tre miliardi di persone soffrono di carenza d’acqua per almeno un mese all’anno.” (trad. libera da: UNESCO, 2023). Questo aspetto è rilevante soprattutto se consideriamo le interconnessioni planetarie che modellano a livello globale il consumo, l’estrazione delle risorse e i processi produttivi (Brenner, 2014).

Il contributo si concentra sull’acqua contaminata e sugli effetti ambientali, valutando le principali tensioni emerse e indagando il progetto territoriale di bonifica, con uno sguardo particolare al Veneto come punto focale dell’inquinamento da PFAS. L’obiettivo è indagare le implicazioni territoriali di questa specifica eredità tossica, che richiede l’esplorazione di scenari progettuali che attraversino non solo la dimensione temporale ma anche quella sociale e spaziale. Tali considerazioni sono precedute da riflessioni sulla scarsità idrica e sul paradosso delle condizioni di siccità in un contesto ricco d’acqua.

Scarsità idrica, in un contesto di abbondanza

L’acqua è la più essenziale delle risorse e tutti gli organismi viventi ne dipendono per i processi biologici, come afferma la Carta dell’acqua dell’UE: “I. There is no life without

Water infrastructure system

di carico e sedimentazione

il

water”; se ci soffermiamo sugli ecosistemi terrestri, questi dipendono da meno dell’1% dell’acqua del pianeta: acqua dolce superficiale e sotterranea. La scarsità è definita come carenza o mancanza di qualcosa, per cui la disponibilità è insufficiente a soddisfare la domanda (Park e Allaby, 2017).

La natura dinamica, fragile e articolata dei sistemi idrici, insieme ai molti impatti causati dai processi antropici, rendono complicato delineare un quadro stabile per la “disponibilità” della risorsa. Per questo motivo, la scarsità d’acqua è una questione complessa che coinvolge sia la dimensione spaziale che quella temporale, rivela molteplici cause e può manifestarsi entro diverse condizioni.

Il concetto di dryness coincide con l’assenza o carenza complessiva di umidità e si presenta sotto forma di aridità, cioè “the long-term average dryness of a region” (EEA, 2021),

(insufficiente disponibilità di acqua rispetto alla domanda)” (trad. libera da: EEA, 2021a). Questa distinzione con livelli successivi di gravità del fenomeno siccitoso collega le cause (mancanza di precipitazioni) e le conseguenze della siccità. Da un punto di vista semantico, i quattro tipi condividono il concetto di “deficit”, definendo così la siccità come una misura relativa.

Anche la scarsità idrica è legata a uno squilibrio o deficit, dunque una condizione paradossale di scarsità d’acqua può verificarsi in un contesto di assoluta abbondanza, a seconda del grado di stress idrico, che “provoca il deterioramento delle risorse di acqua dolce in termini di quantità [...] e qualità (eutrofizzazione, inquinamento, intrusione salina, ecc.)” (trad. libera da: EEA, 2021a), incidendo così sulla disponibilità di acqua. Per questo motivo, i lasciti tossici ereditati da circa 100 comuni di tre province venete sono causa di una vera e propria scarsità idrica, definibile come “la conseguenza degli impatti antropici sulla disponibilità di risorse idriche” (EEA, 2021b), causa di squilibrio tra la quantità rinnovabile di acqua dolce di un sito e la quantità di acqua consumata. Il Veneto è un territorio ricco d’acqua: secondo i dati dell’ARPAV, la regione è una delle più grandi aree in UE con livelli medio-alti di capacità idrica disponibile (AWC). Tuttavia, l’estrazione e l’inquinamento dell’acqua da parte dei processi industriali e di altre attività antropiche nella regione superano la disponibilità, causando frequenti condizioni di scarsità idrica.

Una condizione paradossale di scarsità idrica può verificarsi in un contesto di assoluta abbondanza

o di fenomeni di siccità, che sono invece limitati nel tempo. L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) distingue quattro tipi di siccità: “meteorologica (deficit di precipitazioni), agricola (deficit di umidità del suolo), idrologica (deficit di acqua superficiale e sub-superficiale), e socioeconomica

Inoltre, il cambiamento climatico renderà più secche le regioni dell’Europa meridionale, con fenomeni di siccità sempre più frequenti che stanno aggravando il deficit idrico. Secondo un rapporto del Joint Research Centre dell’UE, la siccità europea del 2022 è stata la peggiore degli ultimi cinquecento anni (Toreti et al., 2022), e secondo l’ARPAV, nel febbraio 2023 la Regione Veneto ha avuto una precipitazione media di 3 mm, rispetto ai 60 mm medi per il periodo compreso tra il 1994 e il 2022. La mancanza d’acqua ha un impatto negativo

02.
. Vasca
lungo
fiume Guà, collegata tramite un canale sotterraneo al fiume Bacchiglione | Loading and sedimentation basin along the Guà river, connected to the Bacchiglione river through an underground canal. G. Miotto, A. Zaramella

sugli ecosistemi e sulle attività economiche. Nonostante ciò, e in modo paradossale, il consumo non viene razionalizzato e presenta problemi “a monte”, per esempio l’impiego di quantità crescenti di acqua di falda per la produzione di neve artificiale (Vorkauf et al., 2024). Il rischio più preoccupante che ne consegue è legato al settore agricolo, che occupa 83mila aziende in Veneto. Un territorio ricco d’acqua si sta trasformando in un contesto di scarsità (img. 02).

Una lunga storia di contaminazione a catena: i PFAS in Veneto

Da oltre un decennio, la Regione Veneto è riconosciuta come uno degli “hotspot globali” per la contaminazione chimica da PFAS (Dagorn et al., 2023), uno dei più pericolosi gruppi di inquinanti. Questi composti si trovano in molti prodotti, dai tessuti antimacchia agli inchiostri, dalle pentole ai cosmetici, e sono noti come “inquinanti eterni”, in quanto non si degradano prima di diverse migliaia di anni. Gli effetti dei PFAS sulla salute umana sono noti da tempo, e sono ampiamente riconosciuti come contaminanti of high global concern (ad esempio dall’OCSE dal 2013), in quanto collegati “a cancro, danni riproduttivi, danni al sistema immunitario e altri gravi problemi di salute, anche a basse concentrazioni” (trad. libera da: UNEP, 2024).

Le cause dell’inquinamento da PFAS delle province di Verona, Padova e Vicenza sono state individuate principalmente nella Miteni Spa, azienda specializzata nella produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica fine (img. 03). Viene riportato che l’azienda, con sede a Trissino, abbia rilasciato sostanze tossiche nell’ambiente fin dagli anni Sessanta, anche se la contaminazione da PFAS è stata portata alla luce solo nel 2013, facendo emergere un sistema catastrofico di gestione del territorio. Inoltre, lo stesso impianto industriale sorge in un sito particolare che fino al Medioevo era una zona umida lungo il torrente Poscola, un affluente dell’Agno (Tomasi e Caniglia, 2004) che all’oggi conserva un valore ecologico rilevante1. Le acque reflue dell’impianto industriale sono state scari-

cate nel Poscola per decenni, con livelli di contaminazione estremamente elevati che si sono riversati in falda, data la stratigrafia della valle costituita da depositi alluvionali di ghiaie e sabbie altamente permeabili. La falda indifferenziata si trova a circa 15 m di profondità e, più a sud, si divide in vari strati di acquiferi in pressione che forniscono acqua dolce a un vasto territorio (Zampieri, 2023).

La prima e più diretta exposure pathway (Brown et al., 2020) per 350mila persone è stata identificata con la contaminazione dell’acqua potabile, il cui punto di contatto sono i rubinetti domestici. L’acqua contaminata dell’acquedotto è stato l’unico nodo su cui le autorità locali hanno tecnicamente agito2. La risposta governativa si è limitata principalmente all’esecuzione di controlli sanitari della cosiddetta “zona rossa” e alla depurazione dell’acqua degli acquedotti con filtri a carbone attivo. In un secondo tempo si è iniziato a costruire nuovi tratti di infrastrutture per l’approvvigionamento di acqua dolce da luoghi lontani dall’area contaminata (Ratai, 2024). L’azione ha risolto solo in parte il problema, in quanto circa 18mila residenti non sono ancora collegati alle infrastrutture idriche comunali (Pietrobelli, 2023). Da circa dieci anni parte della popolazione è costretta a comprare acqua in bottiglia per l’uso domestico, perché il loro approvvigionamento di acqua dolce proviene da pozzi che prelevano dalla falda acquifera compromessa. In realtà, l’acqua dell’acquedotto non è stato l’unico “punto di esposizione”, poiché tutte le colture (che comprendono produzioni intensive e mangimi) e gli ortaggi coltivati in casa sono irrigati con l’acqua della falda intossicata (Pietrobelli, 2023). Alti livelli di PFAS sono stati riscontrati in frutta e verdura, carne e uova provenienti dall’area, contribuendo alla presenza costante degli inquinanti nel sangue dei residenti (Pietrobelli, 2021). Questa contaminazione pervasiva e diffusa non può essere eliminata dalle acque sotterranee, che si spostano verso sud e verso est (Forti, 2020; ARPAV, 2016), rendendo questa eredità tossica una minaccia dinamica e ancora più pericolosa per l’intera regione3, esacerbando i fenomeni di scarsità idrica dell’area.

Oggi questo tratto di territorio è diventato un accumulo di sostanze tossiche invisibili e ineliminabili, trasformando così il rapporto tra la terra e gli abitanti, in una “zona di sacrificio” ereditata da un recente passato industriale (Zamperini e Menegatto, 2021). Permane l’imperativo di dare priorità alla produzione per creare ricchezza economica: dal livello amministrativo a quello dell’opinione pubblica, complici forse una certa ingenuità e una volontà politica, sembra ancora impossibile discutere questa eredità tossica in modo esaustivo a partire dalle sue radici e narrazioni (Zamperini e Menegatto, 2021, pp. 199-221).

Quali futuri per questo territorio?

Qualsiasi progetto per questo territorio parte dal rapporto tra l’acqua, il suolo e la comunità colpita. La realtà di una popolazione che vive in un territorio con alti livelli di pericolosi contaminanti “permanenti” obbliga a concepire un cambiamento radicale per il prossimo futuro (Morton, 2010), che può essere immaginato attraverso scenari di: 1) convivenza attraverso la costruzione di nuove infrastrutture; 2) abbandono pianificato; 3) definizione di possibili “spazi di rinegoziazione sociale”. Questi aspetti devono incorporare le istanze provenienti dalle organizzazioni di giustizia ambientale sulle proposte di decrescita (Koller, 2020), sui conflitti relativi all’estrazione delle risorse e allo smaltimento dei rifiuti a livello locale e globale (Agyeman et al., 2002).

del territorio fisicamente compromesso, in contrasto con la carta prodotta dalle autorità regionali, basata sui dati di emergenza sanitaria secondo confini comunali. Ogni nuovo supporto grafico dovrebbe tenere conto della dimensione temporale, con la migrazione degli inquinanti in seno alle acque; questo quadro conoscitivo di base per un progetto territoriale può essere redatto solo in base a una precisa serie di dati di contaminazione localizzati (imgg. 04-05).

Il primo scenario riflette le azioni che le autorità regionali hanno intrapreso finora: trasportare l’acqua dolce da altrove con nuove infrastrutture è il primo passo per una convivenza (Samson e Haldrup, 2023). Tuttavia, ci sono dubbi sulla sicurezza della rete idrica e delle tubature delle case che sono state a lungo esposte agli “inquinanti eterni”. Allo stesso tempo, tutti i pozzi della zona dovrebbero essere chiusi fino a quando l’acqua sotterranea non si sia spostata ad intossicare le pianure inferiori; l’acqua contaminata non potrà più essere utilizzata per l’irrigazione, né per l’allevamento. Vanno considerate specifiche misure per evitare agli abitanti il contatto fisico con il terreno compromesso. L’acqua piovana diventa fondamentale per diluire e aiutare la percolazione dei composti tossici presenti nel suolo e negli strati del terreno, diventando la sola risorsa utilizzabile per l’irrigazione dei terreni non compromessi.

Ogni progetto per questo territorio parte dal rapporto tra l’acqua, la terra e i suoi abitanti

Un’esplorazione dettagliata dello stato delle acque (e dei suoli) nella loro evoluzione dinamica all’interno dell’area contaminata, è necessaria e comune allo sviluppo dei tre scenari. Questa prelude alla definizione di una mappa

La prospettiva di abbandonare il vasto territorio contaminato rivela azioni che affrontano il peso della perdita degli investimenti, non solo in termini di edifici e infrastrutture, ma soprattutto in termini di valori. Tecnicamente non sembra impossibile ricollocare la popolazione, forse sfruttando il numero di case sfitte e di aree dismesse disponibili, con la possibilità di esplorare azioni di densificazione di alcuni tra i centri principali delle vicinanze. Le infrastrutture di mobilità a scala territoriale verrebbero mantenute, diventando il supporto per esperienze visive drive-through dei processi naturali che disegnano un nuovo

03. Trissino, Vicenza. Localizzazione dell’epicentro della contaminazione da PFAS, pedemonte veneto | Location of the PFAS contamination epicentre, Veneto piedmont. N. Russolo

04. Troubled waters in a contaminated territory, 1. Sulla base di dati ARPAV. In nero, l’idrografia. I retini rappresentano i gruppi idrologici dei suoli USDA: da gruppo A (elevata infiltrazione, ghiaia e sabbia profonde) retino più denso, a gruppo D (infiltrazione lenta, suoli argillosi) retino meno denso. In viola l’area indicativa della falda contaminata (figura ARPAV del 2018) con una concentrazione di PFAS ≥ 500 ng/l. I punti rappresentano i valori di contaminazione trovati nelle acque sotterranee, anno 2022, tra 6 ng/l (chiaro) a 43.725 ng/l (scuro) di PFAS totali. La mappa rappresenta il territorio fisicamente compromesso, includendo l’idrografia principale, i dati sulla contaminazione, la falda inquinata, in relazione alle caratteristiche idrologiche del terreno | Based on ARPAV data. In solid black, the hydrography. The halftone hatches represent the USDA hydrologic soil groups: from group A (high infiltration rates, deep gravel and sand) densest hatch, to group D (slow infiltration rates, clay soils) least dense hatch. The solid purple area portrays the indicative contaminated aquifer (2018 sketch by ARPAV) with a PFAS concentration ≥ 500 ng/l. The points represent the contamination values found in underground waters, year 2022, from 6 ng/l (light) to 43,725 ng/l (dark) of the PFAS sum. This map represents the physically compromised territory, including the main water features, the contamination data, the polluted aquifer, in relation to the hydrologic characteristics of the ground. N. Russolo

paesaggio post-antropico (Pasini, 2019). L’aspetto culturale dello spostamento ha anche a che fare con l’attaccamento al “luogo”, un tema ampio nel contesto peculiare della città diffusa (Indovina et al., 2006; Secchi, 1996). In quest’area, le forme specifiche a bassa densità di residenze sparse e di piccole imprese che si sono espanse nel secondo dopoguerra si intrecciano con le reti territoriali che per secoli hanno strutturato il ricco paesaggio agricolo, le infrastrutture di gestione delle acque e della mobilità, e le pratiche sociali. La rapidissima espansione di questi insediamenti ha consumato risorse e territorio, producendo al contempo ricchezza economica e pervasivi inquinanti. Queste caratteristiche territoriali “isotrope” rendono difficile prevedere e contenere gli effetti della contaminazione delle acque.

Una terza opzione parte dalla costruzione di “nuove alleanze sociali” per abitare il territorio compromesso, indagando forme di recupero, guidate da soluzioni compensative e redistributive. In questo caso, oltre all’intervento tecnico sull’in-

quinamento, la società è al centro della riflessione. Questi temi aprono a “nuove questioni di ingiustizia ambientale” che devono entrare a far parte dell’agenda pubblica (Secchi, 2011, pp. 83-92). Ogni progetto di bonifica comunitario, secondo un percorso bottom-up piuttosto che top-down, implica delineare un insieme di attori e politiche che possano interagire per discutere la costruzione di un processo credibile (con margini di incertezza sui suoi effetti). Le tracce tossiche lasciate dagli inquinanti nocivi e dalle loro fonti sono diventate parte di una società che scopre una nuova consapevolezza ambientale (Zamperini e Menegatto, 2021; Davies e Mah, 2023). Tuttavia, manca ancora una letteratura sulle implicazioni spaziali e sui futuri dei territori colpiti. Riflessioni di grande interesse e intensità hanno messo in relazione i paesaggi e le ecologie di altri contesti con i processi economici a livello locale e globale, a volte approdando a una proposta progettuale per trasformazioni a partire dello spazio fisico (Aberley, 1994; Hester, 2010; Orff, 2016).

Il caso studio presentato è un interessante esempio di “zona di sacrificio” insolitamente ricca, che è stata definita “zona di sacrificio ad alto reddito” (Peruffo, 2022). Anche in questo contesto, gli aspetti economici e sociali si intrecciano con le questioni di contaminazione, ma questa connessione è percepita solo superficialmente (se non mai) dalla popolazione – e ancora meno lo sono le implicazioni spaziali per il territorio.

La riflessione sugli scenari futuri per la “terra dei PFAS” è un punto di partenza che merita di essere approfondito e apre a nuovi interrogativi. La visualizzazione spazializzata, la raccolta e l’interpretazione dei dati sulla contaminazione dell’acqua – piuttosto che concentrarsi solo sui dati relativi alla salute –deve diventare non solo il mezzo per un monitoraggio continuo dell’evoluzione dinamica della situazione, ma anche uno strumento fondamentale per un approccio progettuale a una soluzione a lungo rimandata ma estremamente urgente.*

NOTE

1 – A monte di Trissino, nel 2018 è stata designata una Zona Speciale di Conversione, il Biotopo “Le Poscole” (Siti Natura 2000 - https://eunis.eea.europa.eu/sites/IT3220039)

2 – A scala nazionale, nel 2011 è iniziata una campagna del Ministero della Salute per la valutazione dell’inquinamento, dopo la pubblicazione dei risultati del programma europeo PERFORCE del 2004; nel frattempo il medico locale di Valdagno, Cordiano, non riusciva a spiegarsi l’alto numero di persone con malattie del sangue (Liva e Schirato, 2023)

3 – Anche i filtri a carbone attivo utilizzati per la pulizia delle acque dell’acquedotto diventano un problema quando esausti: se bruciati ad alte temperature, diffondono gli inquinanti nell’aria (Fortuna, 2024).

*Il presente articolo e la ricerca correlata sono stati condotti durante e con il supporto del corso di dottorato interateneo italiano in sviluppo sostenibile e cambiamenti climatici (www.phd-sdc.it).

**Nell’ambito di una riflessione congiunta il secondo paragrafo (Scarsità idrica, in un contesto di abbondanza) e il terzo (Una lunga storia di contaminazione a catena: i PFAS in Veneto) vanno attribuiti a Nicola Russolo, il primo paragrafo (Introduzione) e l’ultimo (Quali futuri per questo territorio?) vanno attribuiti a Luca Velo.

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05. Troubled waters in a contaminated territory, 2. La mappa rappresenta allo stesso modo dell’immagine 04 lo stato delle acque sotterranee con gli ultimi dati (ARPAV) dell’anno 2024: i valori di contaminazione sono tra 2 ng/l (chiaro) a 105.055 ng/l (scuro) di PFAS totali. La contaminazione degli acquiferi sembra aumentare ed estendersi verso sud-est | The map represents groundwater PFAS pollution in the same way as image 04 with the latest data (ARPAV) from year 2024: contamination values range from 2 ng/l (light) to 105,055 ng/l (dark) of the PFAS sum. The aquifer contamination appears to be increasing and extending towards southeast. N. Russolo

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06. A water-rich territory. Agricoltura meccanizzata nelle pianure ricche d’acqua, lungo il fiume Guà a Cologna Veneta, Verona | Mechanised agriculture in the water-rich plains, along the Guà river in Cologna Veneta, Verona. G. Miotto, A. Zaramella

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Introduction

The legacy of industrial processes, beyond the “immovable assets” and the vast quantities of “movable assets” that have accumulated on the planet, provides a third category of elements, which are mobile but at the same time inextricably linked to the place and the territory. Anchored to the ground sometimes more firmly than built artefacts, these elements appear to be the most difficult to manage and quantify, in terms of dimensions and setbacks. In this third category, the contamination of freshwater (Kumaraswamy et al., 2020) has pervasive, profound and long-lasting effects, thus representing a particularly toxic legacy, all the more so when considered in the perspective of the current global water crisis: “Globally, 2 billion people (26% of the population) do not have safe drinking water and 3.6 billion (46%) lack access to safely managed sanitation [...]. Between two and three billion people experience water shortages for at least one month per year.” (UNESCO, 2023). This is highly relevant especially if we consider the planetary interconnections that globally shape consumption, the extraction of resources, and production processes (Brenner, 2014). This paper focuses on contaminated water as a toxic agent and on its effects on the environment, by evaluating the main tensions that have arisen and by investigating the territorial project of remediation, with special focus on the Veneto Region as a PFAS (per- and polyfluoroalkyl substances) pollution hotspot. The aim is to investigate the territorial implications of this specific toxic legacy, which calls for the exploration of design scenarios in time and social dimensions. An examination of the concept of water scarcity and the paradox of drought conditions in the context of water abundance will precede these reflections.

Water Scarcity, in a Context of Abundance Water is the most essential of all substances and all living organisms depend on it to carry out biological processes, as stated by the EU Water Charter: “I. There is no life without water”; if we close-up on terrestrial ecosystems, these depend on less than 1% of all water on the planet:

Troubled Waters

Territories of Paradox: exploring Contamination in the Veneto Region

surface and underground freshwater. Scarcity is defined as “A shortage or lack of something (such as a particular natural resource), so that supply is insufficient to meet demand” (Park and Allaby, 2017). The dynamic, fragile and complex nature of water systems, together with the countless and major impacts caused by human processes, make it complicated to outline a stable framework describing the availability of this resource. For this reason, water scarcity is a complex issue that involves both spatial and temporal dimensions, it has multiple causes and can manifest itself in different “dryness” conditions. Dryness is the overall absence or deficiency of moisture, and it can take whether the form of aridity, i.e. “the long-term average dryness of a region” (EEA, 2021a), or of drought phenomena which, instead, are temporary. The European Environment Agency (EEA) identifies four main types of drought: “meteorological (rainfall deficit), agricultural (soil moisture deficit), hydrological and ground water drought (surface and sub-surface water deficit) and socio-economic drought (insufficient water availability vs. demand)” (EEA, 2021a). This distinction defines a scale of drought severity, linking the causes (lack of rainfall) and the consequences of drought (insufficient availability), which are intertwined and connected to the distinct concept of water scarcity. From a semantic point of view, these four types share the concept of “deficit”, thus always defining drought as a relative measurement. Water scarcity is also related to an imbalance or deficit, although its causes go beyond the absence of precipitation. A paradoxical water scarcity condition can occur in a context of absolute abundance, depending on the degree of water stress, which “causes deterioration of freshwater resources in terms of quantity [...] and quality (eutrophication, organic matter pollution, saline intrusion, etc.)” (EEA, 2021a).

For this reason, the toxic legacy inherited by around 100 municipalities in three provinces in Veneto (Verona, Padova and Vicenza) is a cause of water scarcity, which can be defined as “the consequence of anthropogenic impacts on the availability of water resources”, and can therefore be represented by the relationship between the renewable amount of freshwater of a site and the amount of water consumption (EEA, 2021b). The Veneto Region is indeed a water-rich territory: according to ARPAV (the Regional Agency for Environmental Protection and Prevention of Veneto) data, the region is one of the largest areas in the EU with AWC (available water capacity) rates between average and high. Nevertheless, abstraction and pollution of water by industrial processes and

other anthropic activities in the region outpaces the freshwater resources supply, resulting in frequent conditions of water scarcity.

Moreover, climate change is going to make Southern Europe drier, and the increasingly frequent drought phenomena are worsening the imbalance of water consumption. For example, according to the EU Joint Research Centre (JRC), Europe’s drought of 2022 was the worst in 500 years (Toreti et al., 2022); according to ARPAV, in February 2023 the Veneto Region territory registered an average precipitation of 3 mm, compared to an average of 60 mm for the 1994-2022 period. The lack of precipitation has a negative impact on ecosystems and economic activities, but quite paradoxically growing amounts of water are used for processes such as artificial snow production, thus impoverishing the aquifers (Vorkauf et al., 2024) and exacerbating water scarcity. The most worrying economic and social consequences are related to the water availability for the agricultural production sector, accounting for 83,000 enterprises in Veneto, a water-rich territory that is becoming a context of scarcity (img. 02).

A Long-chain Contamination Story: PFAS in the Veneto Region

For more than a decade, the Veneto Region has been considered one of the “global hotspots” for PFAS chemicals contamination (Dagorn et al., 2023), one of the most hazardous known groups of pollutants. These artificial compounds can be found in a large number of products, from stain resistant clothes to inks, cookware and cosmetics, and are known as “forever pollutants”, as “their lifespan is up to several thousand years”.

The effects of PFAS on human health have long been known, and they are widely recognised as contaminants of high global concern (e.g., since 2013 by OECD, Organisation for Economic Cooperation and Development), as “they have been linked to cancer, reproductive harm, immune system damage and other serious health problems, even at low levels’’ (UNEP, 2024).

The main subject responsible for the PFAS pollution in the Verona, Padova and Vicenza provinces has been identified with Miteni Spa, a chemical company specialised in the production of fluorinated intermediate products for agrochemicals, pharmaceuticals and fine chemicals (img. 03). The company, based in Trissino, has been reported discharging highly toxic substances into the watercourses since the 1960s, although the PFAS contamination was only discovered in 2013. The discovery brought to light a whole system of catastrophic land management. Moreover, the industrial plant itself is located in a unique site: until Me-

diaeval times this area used to be a wetland along the Poscola stream, one of the main tributaries to the Agno (Tomasi and Caniglia, 2004), and it still has an ecological value1

The industrial plant’s wastewater was discharged into the Poscola for decades, resulting in extremely high levels of contamination that leached directly into the aquifer, as the valley stratigraphy is characterised by a highly permeable gravel and sand alluvial deposit. The undifferentiated aquifer lies just around 15 m below the ground, and further south it splits into various layers of pressurised aquifers that provide freshwater to a vast territory (Zampieri, 2023).

The first and most direct “exposure pathway” (Brown et al., 2020) has been identified with drinking water contamination, the exposure point being the household taps: the contaminated aqueduct water has been the only issue the local authorities have practically acted upon2. The government’s response has mainly been performing health checks of the so-called “red zone” and cleaning the aqueducts’ water through active carbon filters. Subsequently, new stretches of infrastructure started to be built for sourcing freshwater farther away from the contaminated area (Ratai, 2024). These measures only partially solved the problem, as some 18,000 residents are still not connected to the municipal water infrastructure (Pietrobelli, 2023) and have been forced to rely on bottled water for around ten years - as their freshwater supply came from private wells, withdrawing from the now polluted aquifer. However, the aqueduct water hasn’t been the only “exposure point” for the around 350,000 people affected, as crops (which include intensive cultivations and production of animal feed) and homegrown vegetables irrigation comes from the contaminated aquifer (Pietrobelli, 2023). High levels of PFAS have been found in vegetables, meat and eggs coming from the polluted area: their consumption contributes to the toxic chemicals’ recurring presence in the residents’ blood (Pietrobelli, 2021). This pervasive and widespread contamination cannot be eliminated from the groundwater, which flows southwards and eastwards (Forti, 2020; ARPAV, 2016), making this toxic legacy a dynamic and even more dangerous threat to the wider region3, also in terms of water scarcity. Today, this stretch of territory has become an accumulation of invisible and ineradicable poisonous substances, thus transforming the relationship between the land and the inhabitants: a new condition of living in a context perceived as a “sacrifice zone” inherited from a recent industrial past (Zamperini and Menegatto, 2021). Still, the imperative of prioritising production to create economic wealth hasn’t generally been questioned. There is perhaps a naivety (and a political will) pervading both the public administration and the population, that makes it impossible to discuss this toxic legacy comprehensively, starting from its roots and narratives (Zamperini & Menegatto, 2021, pp. 199-221).

What Futures for this Territory?

Any project for this territory should start by reconsidering the relationship between the water and the ground, and secondly between the land and its inhabitants. The reality of a population

living on a land with high levels of very dangerous and “permanent” contaminants forces us to devise a radical change for the near future (Morton, 2010), that can contemplate three scenarios: 1) cohabitation by building new infrastructures; 2) planned abandonment; 3) definition of new spaces of social re-negotiation. These aspects must incorporate instances of environmental justice organisations (EJOs) about degrowth propositions (Koller, 2020) and conflicts concerning resource extraction and waste disposal at the local and global level (Agyeman et al., 2002). A preliminary action is necessary and common to the development of the three scenarios: a detailed exploration of the state of the waters (and soils) in terms of their dynamic evolution within the contaminated area. This allows drawing a map of the physically compromised territory - in contrast with the one produced by the regional authorities, based on limited health emergency data and drafted according to municipal boundaries. Any new graphic support should take into account the time dimension, as the pollutants migrate alongside the waters; this can provide the baseline knowledge for a territorial project, and can be drawn up only according to precise sets of geolocalised contamination data (imgg. 04-05).

The first scenario reflects the partial actions that the regional authorities have taken so far: bringing freshwater to all residents from elsewhere with new infrastructure is the first step for a future cohabitation (Samson and Haldrup, 2023). However, there are serious doubts about the safety of the water mains and houses’ pipes that were long exposed to the “forever chemicals”. At the same time, all wells in the area should be closed until the groundwater has moved on to pollute the fertile lower plains; contaminated water cannot be used for irrigation, or for farming, and measures must be taken so that the inhabitants avoid any physical contact with the compromised soil. Rainwater will be useful for diluting and helping to percolate the toxic compounds present in the ground strata, and would also be the only usable source for irrigation on any non-contaminated soil, becoming a very precious resource.

The option of abandoning the vast contaminated land must conceive strategies for tackling the consequences generated by the loss of territorial assets, not only in terms of buildings and infrastructure, but mainly in terms of values. Technically, it does not seem impossible to relocate the population, perhaps by taking advantage of the number of vacant houses and brownfield sites that are available in the European post-industrial age of shrinking cities, with the opportunity of densifying some of the major centres on the edges of the compromised land. Most territorial-scale mobility infrastructures would be maintained, becoming the support for drive-through visual experiences of the natural processes drawing a new post-anthropic landscape (Pasini, 2019). The cultural and social side of the displacement is also connected with the attachment to the “place”, a broad subject in the specific urban sprawl context of the città diffusa (Indovina et al., 2006; Secchi, 1996). In this area, the specific forms of scattered low-density dwellings and small businesses which expanded after World War Two are intertwined with the territorial patterns that for centuries

have structured the rich agricultural landscape, the water management and mobility infrastructures, and social practices. The very rapid expansion of these settlements has consumed resources and land at an extraordinary pace, while producing both economic wealth and persistent pollutants – all of this in a diffused manner. Such “isotropic” features of the pervasively inhabited territory make it hard to predict and contain the effects of water contamination.

A third option starts from the construction of “new social alliances” for inhabiting the compromised territory, investigating recovery forms driven by compensatory and redistribution solutions. In this case, besides the technical measures on pollution, society is at the centre of the reflection. These issues raise “new questions of environmental injustice” that need to become an integral part of public discourse (Secchi, 2011, pp. 83-92). Any social remediation project, according to a bottom-up rather than top-down strategy, implies gathering a set of actors and policies that interact in order to negotiate the construction of a possible process (with margins of uncertainty on its effects). The toxic traces left by harmful pollutants and by their sources have become part of a society that is discovering a new environmental awareness (Zamperini and Menegatto, 2021; Davies and Mah, 2023), but there is still a lack of literature about the spatial implications and the futures of the affected territories. In other contexts, extremely interesting and poignant reflections have linked landscapes and ecologies to the economic processes at the local and global level, although at times stopping short of a design proposal for the physical space transformation (Aberley, 1994; Hester, 2010; Orff, 2016).

The case study is an interesting example of an unusually wealthy “sacrifice zone”, that has been defined as a “high-income sacrifice zone” (Peruffo, 2022). In this context too, the economic and social aspects are entangled with the contamination issues, but this connection is only superficially (if ever) perceived by the population - and even less so are the spatial implications for the territory. The reflection on future scenarios for the polluted “PFAS land” is a starting point worthy of further investigation and posing new questions. The spatialised visualisation, collection and interpretation of data on water contamination – rather than focussing on health-related data only – must become not only the means for continuous monitoring of the dynamic evolution of the situation, but also a fundamental tool for a design approach to a long postponed and extremely urgent solution.*

NOTES

1 – Upstream from Trissino, a Special Area of Conversation was designated in 2018, the Biotopo “Le Poscole” (Siti Natura 2000 - eunis.eea.europa.eu/sites/IT3220039).

2 – At the national level, a Health Ministry campaign launched in 2011 to assess pollution, following the publication of the 2004 PERFORCE European programme results; meanwhile local doctor Cordiano, from Valdagno couldn’t explain the high number of people with blood disease (Liva and Schirato, 2023).

3 – Even the activated carbon filters used to clean the aqueduct waters become an issue when they are exhausted: if burnt at high temperatures, they spread the pollutants in the air (Fortuna, 2024).

*This paper and related research have been conducted during and with the support of the Italian inter-university PhD course in sustainable development and climate change (www.phd-sdc.it).

Mariateresa Campolongo

PhD in Architettura e Design, curriculum Design Navale e Nautico, docente a contratto, dAD, Università degli Studi di Genova. mariateresa.campolongo@unige.it

Navi dismesse e abbandonate

01. La Boughaz e l’Akdeniz durante la demolizione ad Aliağa il 23 settembre 2005 | The Boughaz and the Akdeniz during their scrapping at Aliağa on Septembre 23, 2005. F. Takmakli

Retired and Abandoned Ships The phenomenon of abandoned ships is growing constantly, and involves the most varied vessel types. Considering the large size and heavy weight of ships, it is easy to imagine the environmental impact of these means of transport when left, for an indefinite time, in a state of degradation. The issue of such “toxic legacies” is very complex and concerns not only the vessel itself but also the ecological recovery of the site.

However, associating abandoned ships only with the concept of inevitable waste would be truly reductive. Can other scenarios be opened up?*

Il fenomeno delle navi abbandonate è in continuo aumento e coinvolge le più svariate tipologie. Considerando le grandi dimensioni e l’elevato peso delle navi, è facile immaginare l’impatto ambientale di questi mezzi di trasporto lasciati, per un tempo indefinito, in stato di degrado. La questione di tali “eredità tossiche” è molto complessa e riguarda non solo l’oggetto stesso ma anche il recupero ecologico del sito.

Associare le navi abbandonate solo al concetto di inevitabile rifiuto sarebbe però davvero riduttivo. Si possono aprire altri scenari?*

Riflessioni sul fine vita delle navi e possibili strategie per un cambio di rotta del destino finale di queste “eredità tossiche”

ntroduzione

Secondo l’International Transport Workers Federation (ITF) sono 132 le navi abbandonate nel 2023 a livello globale: un numero preoccupante che segna un aumento del 10,92% rispetto all’anno precedente (International Transport Workers Federation, 2024) e una continua crescita negli ultimi venti anni.

La tipologia più coinvolta in questo fenomeno è quella delle navi mercantili, ma nessuna tipologia navale ne viene elusa. Gli esempi possono essere i più vari: dalle navi oceanografiche fino alle navi da crociera, passando per i traghetti, le navi passeggeri, le ex unità militari e, perfino, navi realizzate come repliche di particolari tipologie storiche. La questione delle navi abbandonate è molto complessa e, quando sono ancora in servizio, non riguarda solo il mezzo di trasporto. Spesso, infatti, a bordo ci sono i marinai che rimangono bloccati nei porti per diversi mesi.

Esistono diverse motivazioni che determinano l’abbandono di navi in porti e canali; tra le cause principali ci sono soprattutto gli alti costi di dismissione e le difficoltà a essa connesse. Di tutti i manufatti che giungono a fine vita, le navi sono certamente tra i più ingombranti e difficili da trattare rispettando l’ambiente e nel Mediterraneo sono molto pochi i cantieri in grado di farlo secondo i dettami della Convenzione Internazionale di Hong Kong1 (Bratti, 2020).

La dismissione è una tematica molto delicata in campo navale che richiede approfonditi e mirati studi interdisciplinari, come dimostrato dal noto caso della nave da crociera Costa Concordia. A seguito dell’incidente, avvenuto il 13 gennaio 2012 in prossimità di Punta Gabbianara, sono state progettate, infatti, in maniera accurata le fasi della messa in sicurezza del relitto, della rimozione e della demolizione così come quelle del recupero dell’ambiente marino e del ripristino dei fondali. Il fine vita delle grandi navi riguarda diverse operazioni quali lo smantellamento, la rimozione di tutti i macchinari e le attrezzature, la rottamazione, lo smaltimento e il riciclaggio di alcune parti.

La demolizione delle navi si è sviluppata per la prima volta negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale per l’urgente domanda di acciaio. Negli anni Sessanta l’attività si è poi sviluppata in Spagna, Italia e Turchia per poi trasferirsi in Asia dagli anni Settanta, prima a Taiwan e nel sud Corea, e successivamente, in Cina, Bangladesh, India, Pakistan, Filippine e Vietnam (Demaria, 2010).

Come per diverse tipologie di rifiuti, ci possono essere gravi conseguenze tossiche (Alter, 1997). Secondo alcuni studi specifici sul più grande cantiere di demolizione navale del mondo, l’Alang Ship Breaking Yard situato in India, lo smaltimento dei rifiuti pericolosi è molto complesso e oggetto di controversie (Demaria, 2010); le sostanze liquide, gassose e solide rilasciate nell’ambiente hanno avuto, negli anni, dei rilevanti impatti socio-ambientali sia per quanto concerne il contesto ecologico costiero sia per la salute dei lavoratori e quella degli abitanti dei villaggi (Demaria, 2010).

Le svariate dispute e le problematiche legate alla rimozione del relitto fanno sì che le navi abbandonate si blocchino allo step ancora precedente lo smantellamento. Le navi che vengono lasciate in stato di abbandono spesso diventano parte integrante del paesaggio e preziosa memoria storica, come altre strutture che non svolgono più la funzione originale2

emergenze ambientali in mare. Questo è vero sia per navi appena affondate che rilasciano immediatamente il loro contenuto inquinante sia per relitti affondati da decenni, quando la corrosione marina determina la creazione di vie d’acqua per i combustibili e il carico (Alcaro et al., 2020).

La nave: da “grande serbatoio di immaginazione” a (in) evitabile rifiuto?

Perfetta sintesi di tecnologia, design e, in alcuni casi, artigianato che fotografa lo stato dell’arte di determinati periodi storici, la nave viene definita da M. Foucault: “[…] il più grande strumento dello sviluppo economico, ma anche il più grande serbatoio d’immaginazione” (Foucault, 1967).

Citata in letteratura dai più noti autori come metafora di libertà, inesauribile immagine carica di potenza evocativa senza pari, la nave ha avuto anche notevoli meriti pratici e ricadute progettuali in altri settori. Molte questioni tecniche e formali apparentemente esclusive e interne alla disciplina architettonica sono state anticipate – perché sperimentate prima – in ambito di progettazione navale in quanto, essenzialmente, per mare l’uomo doveva potersi avvalere delle soluzioni più all’avanguardia (Antoniadis, Bertolazzi, 2021).

La dismissione è una tematica

molto delicata in campo navale che richiede studi interdisciplinari

Considerando, però, che le navi abbondate superano spesso i 100 metri di lunghezza (in alcuni casi anche i 300) e che pesano decine di migliaia di tonnellate a causa della moltitudine di materiali presenti a bordo, è facile immaginare l’impatto ambientale di questi mezzi di trasporto lasciati, per un tempo indefinito, in stato di degrado. Spesso diventano relitti, che sono una tra le principali cause di

Ma che cosa diventano le navi quando viene tolta loro la possibilità della navigazione intrinseca nella loro natura? Sono solo un inevitabile rifiuto di cui disfarsi? Quali azioni e strategie si potrebbero attuare per un cambio di rotta del destino finale? Il fenomeno della dismissione delle navi è una problematica enorme, in continua crescita, che riguarda centinaia e centinaia di navi oggi e riguarderà migliaia di navi in futuro. Quando, in aggiunta, le navi vengono abbandonate la situazione diventa ancora più complessa e poco controllata. Le comunità locali si trovano spesso, loro malgrado, a dover fronteggiare il fenomeno delle barche abbandonate. A tali realtà viene lasciata, almeno in prima battuta, la complessa questione

di tali “eredità tossiche” che riguarda non solo l’oggetto stesso ma anche il recupero ecologico del sito: seppur non sia stato possibile quantificare l’impatto ambientale durante il presente studio, le navi abbandonate comportano sicuramente un inquinamento dell’ambiente circostante, a causa del degrado dei materiali a contatto con acqua e aria e dei liquidi che possono fuoriuscire dai serbatoi. È stato dimostrato, inoltre, che in alcune zone geografiche le barche abbandonate possono contribuire al proliferare di insetti potenzialmente dannosi per la salute umana (Dissanayake et al., 2022).

Basandosi sui dati di The International Transport Workers Federation (ITF) si evince che il fenomeno delle navi abbandonate nei porti, nei canali e in svariati siti è diffuso a livello globale; pertanto, non complessivamente circoscrivibile solo in determinate zone geografiche per analizzare gli effetti su un particolare territorio.

Reperire il numero esatto delle navi abbandonate è pressoché impossibile sia perché i valori possono variare quotidianamente sia perché non tutti gli abbandoni vengono registrati nell’immediato. Si stima che, dal 2008 in avanti, le imbarcazioni abbandonate nei porti italiani siano oltre 700 (Vitagliano, 2023), di cui un terzo composto da navi di dimensioni considerevoli. È difficile, però, dedurre esattamente la tipologia e la metratura per ciascuna unità.

Il contributo si propone di indagare la situazione attuale dello stato dell’arte delle navi dismesse e abbandonate, di fotografare l’istante per cercare di delineare gli aspetti tossici di queste eredità, le tendenze e i possibili futuri scenari.

Ferite e abbandonate: l’agonia terminale delle giganti del mare

Abbandonate, arenate e smantellate senza troppe precauzioni nei nostri ecosistemi, le navi dismesse appaiono, nelle immagini e nelle riprese dei droni che sorvolano alcuni siti, come giganti mutilati nell’attesa (a volte infinita) dell’atto finale.

Esaminando la situazione nazionali si evincono due siti in particolare, i cosiddetti cimiteri delle navi abbandonate. Il primo è ad Augusta (SR) ed è composto da una decina di navi di diversa metratura dismesse e abbandonate da anni, divorate dalla ruggine, mentre il secondo è a Ravenna. Quest’ultimo è stato portato all’attenzione pubblica svariate volte poiché, nel 2010, vi è stata abbandonata la motonave Berkan B (108 m di lunghezza); la complessità della situazione ha comportato anche lunghe vicende giudiziarie per l’inquinamento ambientale. Nel 2017, infatti, dopo l’inizio delle operazioni di demolizione, la motonave Berkan B si è spezzata iniziando a collassare e versando in mare liquidi inquinanti ancora presenti a bordo (Nardacchione, 2022).

Sempre a Ravenna, nel canale Candiano, sono state abbandonate nel 2006 altre tre navi mercantili di grandi dimensioni: V-Nicolaev, Vomvgaz, Orenburg Gazprom. Si tratta di navi di circa 110 m di lunghezza, in origine di proprietà della multinazionale Gazprom, attiva nel settore energetico-minerario, e oggi ridotte a carcasse arrugginite (Liva, 2021) proprio vicino all’area naturale protetta della Pialassa della Baiona.

Negli ultimi anni, a livello mondiale, ci sono state principalmente due cause che, sommandosi a quelle esistenti, hanno contribuito in maniera significativa all’aumento delle navi dismesse e abbandonate, soprattutto nel settore mercantile e crocieristico. A seguito dell’apertura nel 2016 di nuove chiuse del canale di Panama3, le dimensioni massime delle navi abilitate al passaggio sono diventate 366 m di lunghezza, 49 m di larghezza e 15 m di pescaggio. Questo ha comportato lo sviluppo di particolari tipologie di navi (conosciute con il termine Post-Panamax, PostPanamax e Over Panamax, di cui fanno parte le superpetroliere e le più grandi navi portacontainer) e la conseguente improvvisa obsolescenza di migliaia di unità, anche recenti e in buono stato, che nel settore navale vengono considerate di medie dimensioni4, però oggettivamente notevoli.

02. L’Akdeniz durante la demolizione ad Aliağa il 30 gennaio 2016 | The Boughaz and the Akdeniz during their scrapping at Aliağa on Septembre 23, 2005. F. Takmakli

Nel settore crocieristico l’impatto della pandemia è stato drastico: solo nelle prime settimane di crisi sanitaria diverse navi da crociera, partendo da quelle più datate, sono state inviate a demolizione in quanto risorse inutilizzabili e fonti esclusivamente di esborso (Antoniadis, 2023). Così i cantieri di demolizione di Alang, in India, hanno ricevuto non solo un numero record di navi da crociera e passeggeri tra il 2020 e il 2021, ma anche unità che hanno segnato la storia del design navale, come la nave Karnika di 245 m, entrata in servizio nel 1990 come Crown Princess della compagnia di navigazione Princess Cruises, i cui esterni furono progettati da Renzo Piano. Stesso destino per la nota Costa neoRomantica (ex Romantica) del 1993, che nel periodo post pandemico ha visto diversi cambi di proprietà, fino a quando è stata spiaggiata al termine del 2021 per la demolizione a Gadani, in Pakistan. I cantieri di Aliağa (imgg. 01-02), in Turchia, che prima della pandemia da Coronavirus si dedicavano prin-

cipalmente allo smantellamento di navi cargo e portacontainer, hanno ricevuto, negli ultimi anni, diversi giganti del mare dismessi prima del tempo dalle compagnie da crociera a causa della riduzione del volume di affari e alle conseguenti ingenti perdite economiche che tale situazione ha generato. Lo scenario è un seascape raccapricciante (Antoniadis, 2023). Lungo le coste dei diversi cantieri di smantellamento o dove vengono abbandonate, le navi appaiono ammassate, arrugginite, semiaffondate, private brutalmente di quell’immagine di sogno, di catalizzatore di modernità, di piattaforme sperimentali a cui vengono spesso – giustamente - associate.

Navi che non navigano: uno sguardo alla riconversione e a utilizzi alternativi

Non tutte le navi che non navigano diventano subito rifiuto da smaltire. Esistono alcuni esempi, infatti, in cui la riconversione estende il ciclo di vita della nave, quando

03. La SS Maheno sull’Isola di Fraser, Queensland, Australia | The S.S. Maheno on Fraser Island, Queensland, Australia. F. Chaveriat

questa viene considerata di indubbio interesse storico e progettuale. È il caso del transatlantico RMS “Queen Mary” di 311 m del 1934, ancorato a Long Beach e trasformato in un museo, ristorante e hotel galleggiante dopo l’ultimo viaggio del 1967, così come del successivo RMS “Queen Elizabeth 2” di 293,5 m del 1969, divenuto dal 2018 hotel galleggiante/museo a Dubai, o di HMY Britannia di 126 m del 1953 che è stato, invece, il panfilo della famiglia reale britannica ed è oggi conservato intatto come nave museo ancorato a Edimburgo, diventando così preziosa testimonianza dell’Heritage navale. Si tratta, però, di navi eccezionali, per la loro dimensione, la storia e la funzione. Non è però impossibile ritrovare casi di riconversione di navi non così uniche come quelle sopracitate: ad esempio, la nave cargo Ionion in disuso, at-

traccata nel porto del Pireo, è stata usata nel 1994 come set per l’installazione di una selezione di opere dei trent’anni del lavoro di Jannis Kounellis, o la flotta delle Liberty Ships5, navi cargo divenute musei galleggianti a San Francisco, Baltimora e al Pireo.

Che cosa diventa la nave senza la possibilità della navigazione intrinseca nella sua natura?

Esistono poi zone geografiche in cui le navi abbandonate non vengono intese come strutture tossiche e pericolose ma come risorse per migliorare la vita marina. È il fenomeno dell’affondamento volontario, prassi fortemente contrastata in alcuni luoghi, come l’Italia, ma diffusa in altri, come

04. Papahānaumokuākea Marine National Monument dove il relitto della Hoei Maru giace nelle acque poco profonde di Kure Atollo; la Hoei Maru era una nave baleniera giapponese che si incagliò durante una tempesta così feroce che la nave si ruppe a metà. Ora è un luogo privilegiato per l’allevamento di pesci come il pesce capra pinna gialla e il pesce capra striscia gialla | Papahānaumokuākea Marine National Monument where the Hoei Maru shipwreck lies in the shallow waters of Kure Atoll. The Hoei Maru was a Japanese whaling vessel that ran aground during such a ferocious storm that the ship broke in half. Now it is prime real estate for schooling fish such as yellowfin goatfish and yellowstripe goatfish. C. Fackler/NOAA

il Libano (Jereb et al., 2017). In questo caso, le carcasse delle navi, nonché altre strutture, rappresentano potenziali opportunità (Jereb et al., 2017). Questo ha promosso l’affondamento volontario di svariate navi commerciali o militari

Il

fenomeno

Possibili strategie e riflessioni conclusive

della dismissione delle

navi è una problematica enorme e in continua crescita

dismesse, comprese le portaerei, come la U.S. Oriskany in Florida, anche all’interno di aree marine protette (Jereb et al., 2017). Un altro esempio caratteristico è rappresentato dalle nove navi McCloskey che furono parzialmente affondate nel 1948 per formare un frangiflutti al largo della costa di Kiptopeke Beach, in Virginia, che protegge ancora la spiaggia e offre una casa ai pesci e agli uccelli costieri.

Le navi abbandonate costituiscono un problema ambientale, umano e normativo. Trovare una soluzione univoca non è certo semplice. Dalla ricerca svolta e da come vengono considerate le navi dismesse e abbandonate si evince che gli aspetti negativi a esse associati non siano però unicamente un fenomeno tangibile, ma anche intangibile. Se da un lato la tossicità delle navi abbandonate risiede nell’inquinamento socio-ambientale, dall’altro c’è un’idea diffusa alquanto nociva che porta a farle considerare solo come rifiuto da cui disfarsi. Ovviamente sarebbe assurdo e insostenibile ipotizzare una riconversione a fine vita di tutte le navi dismesse, attuabile solo per validi e puntuali casi. È auspicabile, invece, una maggior presa di coscienza e attenzione a tutto il ciclo vita dell’oggetto nave, ragionando soprattutto su strategie del Design for Disassembly  (DfD),

05. Relitto di una vecchia nave di una compagnia di traghetti, al largo di Tarfaya, Marocco | Wreck of an old ship of a ferry company, off the shore in Tarfaya, Morocco. Jeegfullcrum

prevedendo quindi prodotti che possano essere facilmente riparati, aggiornati o disassemblati ma anche anticipando, in fase di progettazione, possibili soluzioni legate alle problematiche dell’abbandono delle navi e dell’attesa dello smantellamento, come le incrostazioni di organismi sulla carena (fenomeno del biofouling) che possono generare anche gravi problemi alla biodiversità.

La compagnia di navigazione Maersk Line esplora, dal 2011, interessanti soluzioni Cradle to Cradle su come predisporre le navi portacontainer per un riciclaggio di qualità fin dalla fase di progettazione, con l’obiettivo di ottenere un maggiore controllo sui materiali utilizzati, arrivando a creare nuove navi partendo da quelle vecchie.

Il problema della dismissione delle navi riguarderà, in futuro, sempre più unità anche a causa del cambiamento climatico in atto: la siccità, ad esempio, sta già determinando lo stop, in alcune aree geografiche, del traffico di alcune navi la cui opera viva dello scafo rischierebbe di rimanere arenata nei fondali e questo potrebbe comportare nuove problematiche di obsolescenza.

Per un cambiamento di rotta del destino finale delle navi dismesse e abbandonate occorre ritrovare soluzioni che riguardano anche l’assunto teorico del controllo della forma, del riconoscimento del valore e, auspicabilmente, del mutamento dei paradigmi turistici.*

NOTE

1 – La Convenzione Internazionale di Hong Kong del 2009 mira a garantire che le navi, quando vengono riciclate al termine della loro vita operativa, non comportino rischi inutili per la salute umana, la sicurezza e l’ambiente. Per approfondire: imo.org/en/OurWork/Environment/Pages/ Ship-Recycling.aspx

2 – Un esempio interessante è costituito dagli artefatti che hanno connotato l’era spaziale disseminati nel territorio statunitense e che oggi testimoniano lo sforzo dello sviluppo culturale e tecnologico, sparsi nel paesaggio come tante ossa di dinosauro (Launius, 2016).

3 – Le nuove sezioni del Canale di Panama sono lunghe 426,72 m, larghe 54,86 m e profonde 18,29 m.

4 – Le dimensioni massime delle navi Panamax sono di 294 m di lunghezza, 32,3 m di larghezza e 12,04 m di pescaggio: attualmente queste navi vengono considerate di medie dimensioni in relazione alle moderne navi militari e mercantili che superano abbondantemente queste metrature.

5 – Le Liberty Ships grazie alla facilità e velocità di costruzione sono state realizzate in migliaia di unità e largamente impiegate nei convogli che dagli Stati Uniti erano diretti ai paesi Alleati nel corso della Seconda guerra mondiale.

REFERENCES

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06. Relitti nel porto dell’ex segheria Pateniemi, Oulu | Shipwrecks in the harbour of the former Pateniemi sawmill, Oulu. Estormiz, CC0

Introduction

According to the International Transport Workers Federation (ITF), there will be 132 abandoned ships globally in 2023: a worrying number that marks an increase of 10.92% compared to the previous year (International Transport Workers Federation, 2024) and a continuous growth over the last twenty years.

The typology most involved in this phenomenon is that of merchant ships, but no naval category is exempt. The examples can be the most varied: from oceanographic ships to cruise ships, as well as ferries, passenger ships, former military units and even ships built as historical replicas. The issue of abandoned ships is very complex and, if they are still in service, does not only concern the means of transport. In fact, there are often sailors on board who remain stranded in ports for several months. There are various reasons that determine the abandonment of ships in ports and canals; among the main causes are the high costs of disposal and the difficulties associated with this process. Of all the artefacts that reach the end of their life, ships are certainly among the bulkiest and most difficult to manage while respecting the environment. Indeed, in the Mediterranean there are very few shipyards capable of doing so according to the dictates of the Hong Kong International Convention1 (Bratti, 2020).

Decommissioning is a very delicate issue in the naval field which requires in-depth and targeted interdisciplinary studies, as demonstrated by the well-known case of the Costa Concordia cruise ship. Following the accident which occurred on 13 January 2012 near Punta Gabbianara, the phases of securing the wreck, its removal and demolition, as well as those of recovering the marine environment and restoring it were all carefully planned. The end of life of large ships involves various operations such as dismantling, removal of all machinery and equipment, scrapping, disposal and recycling of some parts. Ship breaking first developed in the United States, United Kingdom and Japan during World War II due to the urgent demand for steel. In the 1960s, the business developed in Spain, Italy and Turkey and then moved to Asia in the 1970s, first to Taiwan and South Korea, and subsequently to China, Bangladesh, India, Pakistan, the Philippines and Vietnam (Demaria, 2010).

Retired and Abandoned Ships

Reflections

on the end of Life of Ships and possible Strategies for a “Change in Course” in the final Fate of these “Toxic Legacies”

As with many types of waste, there can be serious toxic consequences (Alter, 1997). According to some specific studies on the largest ship breaking yard in the world, the Alang Ship Breaking Yard located in India, the disposal of hazardous waste is very complex and subject to controversy (Demaria, 2010). The liquid, gaseous and solid substances released into the environment have, over the years, had significant socio-environmental impacts, both as regards the coastal ecological context and for the health of workers and that of villagers (Demaria, 2010). The various disputes and problems related to the removal of a wreck mean that abandoned ships may be stuck in their initial stage, not even being dismantled. Ships that are left in a state of abandonment often become an integral part of the landscape and a precious historical memory, like other structures that no longer perform their original function2

Considering, however, that the loaded ships often exceed one hundred metres in length (in some cases even 300) and that they weigh tens of thousands of tonnes due to the multitude of materials present on board, it is easy to imagine the environmental impact of these means of transport left (for an indefinite time) in a state of decay. They often become wrecks, which represent one of the main causes of environmental emergencies at sea. This is true both for newly sunk ships that immediately release their polluting contents and for wrecks that have been sunk for decades until eventually marine corrosion leads to the leakage of fuels or toxic substances (Alcaro et al., 2020).

The Ship: from “Great Reservoir of Imagination” to (Un)Avoidable Waste?

A perfect synthesis of technology, design and, in some cases, craftsmanship that photographs the state of the art of certain historical periods, the ship is defined by M. Foucault as: “[...] the greatest instrument of economic development, but also the greatest reservoir of imagination” (Foucault, 1967).

Cited in literature by the most famous authors as a metaphor of freedom, inexhaustible images full of unparalleled evocative power, ships have also had notable practical merits and design implications in other sectors. Many technical and formal issues apparently exclusive and internal to the architectural discipline

were anticipated - because they were experimented before - in the field of naval design because, essentially, at sea man had to be able to make use of the most cutting-edge solutions (Antoniadis, Bertolazzi, 2021).

But what do ships become when the possibility of navigation which is “intrinsic to their nature” is taken away from them? Are they just an inevitable waste to be disposed of? What actions and strategies could be implemented to change the course of their final destiny? The phenomenon of ship decommissioning is a huge, widespread and continually growing problem, which affects hundreds and hundreds of ships today and will affect thousands more in the future. When the ships are abandoned, the situation becomes even more complex and poorly controlled. Local communities often find themselves having to deal with the phenomenon of abandoned boats. These realities are left, at least initially, with the complex question of such “toxic legacies” which concerns not only the object itself but also the ecological recovery of the site: even if it has not been possible to quantify the environmental impact during the present study, abandoned ships certainly cause pollution of the surrounding environment, due to the degradation of the materials in contact with water and air and the leakage of fuel and toxic substances from the tanks. Furthermore, it has been shown that in some geographical areas abandoned boats can contribute to the proliferation of insects potentially harmful to human health (Dissanayake et al., 2022). Based on data from The International Transport Workers Federation (ITF), the phenomenon of abandoned ships in ports, canals and various sites is widespread globally; therefore, not circumscribed only in certain geographical areas to analyse the effects on a particular territory. Finding the exact number of abandoned ships is almost impossible, both because the number changes daily and because not all abandonments are recorded immediately. It is estimated that, from 2008 onwards, there have been over 700 boats abandoned in Italian ports (Vitagliano, 2023), of which a third is made of ships of considerable size. It is difficult, however, to deduce exactly the type and square footage of each unit. This paper aims to investigate the current situation of the state of the art of decommissioned and

abandoned ships, to photograph the moment to try to outline the toxic aspects of these legacies, the trends and possible future scenarios.

Wounded and Abandoned: the Terminal Agony of the Giants of the Sea

Abandoned, stranded and dismantled without too many precautions in our ecosystems: from the images of drones flying over some sites of decommissioned ships, they appear like mutilated giants awaiting (sometimes infinitely) the final act. Examining the national situation, two sites emerge, the so-called cemeteries of abandoned ships. The first is in Augusta (SR) and is made up of about ten abandoned ships of different sizes, decommissioned and abandoned for years, devoured by rust, while the second is in Ravenna. The latter has been brought to public attention several times since, in 2010, the motor vessel Berkan B, 108 m long and 17 m wide, was abandoned in a complex scenario which also led to long legal proceedings centred on environmental pollution. In 2017, in fact, after the start of demolition operations, the Berkan B broke apart and began to collapse, spilling toxic substances still present on board into the sea (Nardacchione, 2022). Also in Ravenna, in the Candiano canal, three other large merchant ships were abandoned in 2006: V-Nicolaev, Vomvgaz, and Orenburg Gazprom. These are ships approximately 110 m long, originally owned by the multinational Gazprom (active in the energy-mining sector) and today reduced to rusty carcasses (Liva, 2021) right beside the protected natural area of Pialassa della Baiona. In recent years, at a global level, there have been mainly two causes which, added to the existing motives, have significantly contributed to the increase in decommissioned and abandoned ships, especially in the merchant and cruise sectors. Following the opening of new locks in the Panama Canal in 20163, the maximum dimensions of ships authorised to pass through (the new Panamax) was set at 366 m long, 49 m wide and 15 m draft. This has led to the development of particular types of ships (known by the terms Post-Panamax, PostPanamax and Over Panamax, which include super tankers and the largest container ships) and the consequent sudden obsolescence of thousands of units, even recently-built ones and in good condition, because they are now classed by the naval sector as medium-sized4 despite being relatively large. In the cruise sector, the impact of the pandemic was drastic: already in the first weeks of the health crisis, several cruise ships (starting with the older ones) were sent for demolition as they were unusable resources and represented merely a cost (Antoniadis, 2023). Thus, the demolition yards in Alang, India, received not only a record number of cruise and passenger ships between 2020 and 2021, but also vessels that marked the history of naval design, such as the 245 m Karnika, operated by the Indian company Jalesh Cruises until it went bankrupt during the pandemic. Built by Fincantieri, the cruise ship entered service in 1990 as the Crown Princess for American cruise line Princess Cruises: the exteriors (inspired by the form of a dolphin) were designed by Renzo

Piano. The same fate awaited the well-known Costa neoRomantica (formerly Romantica) from 1993, which in the post-pandemic period saw several changes of ownership until being beached in late 2021 ready for scrapping in Gadani, Pakistan. The shipyards of Aliağa (imgg. 01-02), in Turkey, which before the Coronavirus pandemic were mainly dedicated to the dismantling of cargo and container ships, have received, in recent years, several giants of the sea, which are being dismantled prematurely by cruise companies due to the reduction in turnover and the consequent huge economic losses that this situation has generated. The scenario is a gruesome seascape (Antoniadis, 2023). Along the coasts of the various dismantling yards or where they are abandoned, the ships are found piled up, rusty, half-sunken, brutally deprived of that image of a dream, of a catalyst for modernity, of experimental platforms with which they are often - rightly - associated.

Ships that no Longer Sail: a Look at Reconversion and Alternative Uses

Not all ships that do not sail immediately become waste to be disposed of. There are some examples, in fact, in which a conversion extends the life cycle of the ship, particularly when it is considered to be of significant historical and design interest. This is the case of the 311 m transatlantic RMS Queen Mary of 1934, anchored in Long Beach and transformed into a museum, restaurant and floating hotel after her last voyage in 1967, as well as of the subsequent RMS Queen Elizabeth 2 of 293.5 m from 1969, which has become a floating hotel/museum in Dubai since 2018 or the 126 m HMY Britannia from 1953 which was the yacht of the British royal family and is today preserved intact as a museum ship anchored in Edinburgh, thus becoming a precious testimony of naval heritage.

These are of course exceptional ships, due to their size, history and function. However, it is not impossible to find cases of conversion of ships that are not as unique as those mentioned above: for example, the disused cargo ship Ionion, docked in the port of Piraeus, was used in 1994 as a set for the installation of a selection of works from the thirty year career of Jannis Kounellis, or the fleet of Liberty Ships5 , cargo ships that have become floating museums in San Francisco, Baltimore and Piraeus. Then there are geographical areas in which abandoned ships are not understood as toxic and dangerous structures but as resources for improving marine life. This involves the phenomenon of voluntary sinking, a practice strongly opposed in some places, such as Italy, but widespread in others, such as Lebanon (Jereb et al., 2017). In this case, ship carcasses, as well as other structures, represent potential opportunities (Jereb et al., 2017). This has promoted the deliberate sinking of several decommissioned commercial or military vessels, including aircraft carriers, such as the U.S. Oriskany in Florida, also within marine protected areas (Jereb et al., 2017). Another distinctive example is the nine McCloskey ships that were partially sunk in 1948 to form a breakwa-

ter off the coast of Kiptopeke Beach, Virginia, which still protects the beach and provides a home for fish and shorebirds.

Possible Strategies and Final Reflections

Abandoned ships constitute an environmental, human and regulatory problem. Finding a single solution is certainly not easy. From the research carried out and from how decommissioned and abandoned ships are considered, the negative aspects associated with them are both tangible and intangible. While, on one hand, the toxicity of abandoned ships lies in socio-environmental pollution, on the other hand there is a widespread and rather harmful idea that leads to them being considered only as waste to be disposed of. Obviously, it would be absurd and unsustainable to hypothesise a reconversion of all decommissioned ships at the end of their life; this is a solution which can only be implemented in certain specific cases. It is desirable, however, to pay greater attention to the entire life cycle of the ship object, thinking above all about Design for Disassembly (DfD) strategies: thus, envisaging products that can be easily repaired, updated or disassembled but also anticipating (in the design phase) possible solutions linked to the problems of abandoning ships and waiting for dismantling, such as the incrustation of organisms on the hull (biofouling) which can also generate serious problems for biodiversity. Since 2011, the shipping company Maersk Line has been exploring interesting Cradle-toCradle solutions on how to prepare container ships for quality recycling directly from the design phase, with the aim of achieving greater control over the materials used and hopefully creating new ships from old ones. The problem of decommissioning of ships will, in the future, involve even greater numbers of vessels, also due to ongoing climate change: drought, for example, is already halting, in some geographical areas, the traffic of some ships whose hull would risk remaining stranded in the seabed and this could lead to new obsolescence problems. For a change of course in the final fate of decommissioned and abandoned ships, it is necessary to find solutions that also regard the theoretical assumption of control of form, recognition of value and, hopefully, a change in tourism paradigms.*

NOTES

1 – The 2009 Hong Kong International Convention aims to ensure that ships, when recycled at the end of their operational life, do not pose unnecessary risks to human health, safety and the environment. For further information: imo.org/en/OurWork/Environment/Pages/Ship-Recycling.aspx (last access March 2024).

2 – One interesting example is offered by the artefacts that characterised the Space Age and today testify to the effort of cultural and technological development, scattered across the United States landscape like a bunch of dinosaur bones (Launius, 2016).

3 – The new sections of the Panama Canal are 426.72 m long, 54.86 m wide and 18.29 m deep.

4 – The maximum dimensions of Panamax ships are 294 m in length, 32.3 m in width and 12.04 m in draft: these ships are currently considered medium-sized in relation to modern military and merchant ships, which considerably exceed these sizes.

5 – The Liberty Ships, thanks to the ease and speed of their construction, were built in thousands of units and widely used in the convoys that headed from the United States to the Allied countries during the Second World War.

Thomas Bisiani PhD, ricercatore in Progettazione architettonica e urbana, DIA, Università degli Studi di Trieste.  tbisiani@units.it

Adriano Venudo PhD, ricercatore in Progettazione architettonica e urbana, DIA, Università degli Studi di Trieste.  avenudo@units.it

Relitti della cortina di ferro

01. Vedute aerea della polveriera di Romans | Aerial view of the Romans powder magazine. T. Bisiani, A.Venudo

Iron Curtain Wreckage The fall of the Iron Curtain left a legacy of hundreds of vacant military sites in the hands of communities of Friuli Venezia Giulia. A massive, extremely vast heritage, both in terms of a ramified network constituting a parallel geography on a regional scale and in terms of single, large complexes on a local scale. This abundance of space and possibilities has in fact led to a dangerous paralysis. Small administrative realities do not have the resources to physically operate in these places, but above all they do not have the tools to re-imagine something that is bigger than themselves.*

La caduta della cortina di ferro ha lasciato in eredità alle comunità del Friuli Venezia Giulia centinaia di siti militari abbandonati. Un patrimonio ingombrante, estremamente vasto, sia nei termini di una ramificata rete che costituisce una geografia parallela alla scala regionale, sia nei termini di singoli, grandi complessi alla scala locale. Questa abbondanza di spazi e di possibilità ha provocato nei fatti una pericolosa paralisi. Le piccole realtà amministrative non dispongono infatti di risorse per intervenire fisicamente in questi luoghi, ma soprattutto non hanno gli strumenti per re-immaginare qualcosa che è più grande di loro.*

Il fenomeno dell’inversione scalare delle grandi caserme in Friuli Venezia Giulia, tecniche e progetti

no studio comparativo

Dopo la caduta della cortina di ferro, il patrimonio militare del Friuli Venezia Giulia è stato messo a disposizione delle amministrazioni locali. Un insieme di manufatti di qualità modesta, composto da elementi incongrui rispetto a tessuti urbani e usi. I dati dicono che nel 2006 le aree militari occupavano 119,2 km2 (Baccichet, 2015, p. 157), mentre le servitù militari hanno influenzato un territorio la cui estensione è arrivata a 3.928 km2, pari alla metà della superficie regionale (Santarossa, 2010, p. 11): 195 di questi siti sono stati dismessi ex lege tra il 2001 e il 2007 (Baccichet, 2015, p. 143), una ulteriore mappatura ne ha individuati 285 (Santarossa, 2016, p. 89). Facendo una semplice media, oggi in ognuno dei 215 Comuni del Friuli Venezia Giulia è teoricamente possibile trovare un sito militare dismesso (img. 03).

Il Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste ha affiancato due di queste piccole amministrazioni, Romans d’Isonzo (3.648 abitanti) e Cividale del Friuli (10.816 abitanti). L’obiettivo consisteva nello sviluppare delle strategie di rigenerazione efficaci con le limitate risorse di questi comuni, in assenza di strumenti sovraordinati o di un “programma complessivo” (Baccichet, 2015, p. 145) regionale.

La comparazione di questi casi, simili ma diversi, prova a individuare approcci elastici per superare l’apparente contraddizione tra le metodologie sistematiche della ricerca scientifica e la specificità del progetto architettonico. L’ipotesi di lavoro è quella di individuare i principi e i concetti generali che hanno permesso lo sviluppo dei due progetti, identificandone i tratti comuni.

In questo quadro, la questione della grande dimensione è il comune denominatore delle due diverse tipologie di complesso militare, una ex polveriera e una ex caserma (imgg. 01-02). Le vaste superfici messe in gioco diventano l’elemento qualificante delle trasformazioni attraverso forme di ricucitura urbana in un caso, e ambientale nell’altro. In particolare, le metodologie progettuali adottate sono state individuate con l’obiettivo di superare la paralisi del-

le piccole comunità locali, legata alla mancanza di “idee di riutilizzo” (Baccichet, 2015, p. 146). Per l’ex polveriera di Romans d’Isonzo si è proceduto sviluppando scenari evolutivi con l’obiettivo di esplorare le diverse vocazioni funzionali dell’area. Per l’ex caserma di Cividale del Friuli la strategia progettuale è stata declinata in fasi temporali, con l’obiettivo di definire una proposta capace di adattarsi nel tempo al mutare delle condizioni e delle contingenze.

L’inversione scalare e Lo shock del futuro

Le aree militari dismesse risultano oggetto di politiche regionali piuttosto limitate. La Legge regionale n. 45 del 2017, offre un contributo per spese tecniche di 20mila euro, per attività relative alla riqualificazione di aree ex militari. La Legge regionale n. 2 del 2000, invece concede un contributo una tantum di 30mila euro per la riqualificazione dei centri minori con una premialità di punteggio per gli immobili ex militari. Si tratta di contributi utili, ma insufficienti in rapporto all’entità delle aree e delle trasformazioni che implicano. Uno dei principali problemi è rappresentato dal fatto che gli Enti locali devono farsi carico di processi di trasformazione i cui impatti, non solo economici, sono significativamente maggiori rispetto alla loro effettiva capacità di agire. In particolare, la disparità di scala tra piccoli centri e grandi spazi, rende

Tuttavia questi ambiti, grazie alle ampie dimensioni e alla qualità relativa dei manufatti, offrono una grande libertà di trasformazione e la possibilità di esplorare molteplici alternative progettuali (imgg. 04-05).

Le ricerche inerenti l’ex caserma Francescatto a Cividale del Friuli (7 ha) e l’ex polveriera di Romans d’Isonzo (10 ha) investigano il futuro di queste aree attraverso il progetto, inteso come un elemento dinamico. Le metriche dei due progetti sono differenti perché appartengono a classi diverse per scala e geometrie, l’ex caserma Francescatto è inserita in continuità con l’ambito urbano, l’ex polveriera di Romans è localizzata in un’area aperta e isolata. L’una si confronta con la storia della città stratificata e l’altra con la storia del paesaggio agrario. Le premesse iniziali e le ragioni del progetto sono però analoghe: riconvertire un sito militare dalle dimensioni rilevanti, che necessita di grandi risorse e tempi lunghi, e che incide su un insediamento di piccole dimensioni che rientra all’interno della tradizione storico-insediativa friulana, riconosciuta nella lettura delle “piccole città del Friuli” (Polesello, 1979).

Questa inversione di scala, tra dimensione dell’insediamento e taglia del progetto, crea una condizione di disorientamento e di stress. Le piccole comunità non hanno la capacità di visualizzare le possibilità di trasformazione, perché la complessità che ne deriva e i possibili molteplici impatti producono una sorta di paralisi: è lo Shock del futuro (Toffler, 1971).

La disparità di scala rende inapplicabili le tipiche domande di trasformazione delle comunità

inapplicabili le tipiche domande di trasformazione delle comunità, veicolando incertezze e interrogativi che non consentono alle collettività di esprimere visioni condivise e ancor meno alle amministrazioni di sviluppare strategie efficaci.

Progetti, trasformazioni e modelli I due studi, adottano un approccio metodologico basato sull’evoluzione incrementale del progetto secondo due diverse strategie. A Romans, sono state sviluppate due generazioni di scenari, intesi come futuri possibili. La prima generazione, basata su sette programmi alternativi è stata sottoposta all’amministrazione e ai portatori d’interesse. I programmi degli scenari accettati

02. Veduta aerea della caserma Francescatto di Cividale | Aerial view of the Francescatto Barracks in Cividale. T. Bisiani, A.Venudo

Linee difensive:

1 - Carso e Basso Isonzo

2 - Gorizia e Monte Calvario, confluenza del Torre e del Natisone

3 - Valli dello Judrio e del Natisone

4 - Valli del Torre e del Natisone

5 - Fiume Tagliamento

6 - Valli del Fella e del Tagliamento

7 - Valle del But

• Basi militari Area di progetto

sono stati incrociati per individuare una seconda generazione costituita da tre scenari con programmi misti. Di questi sono state poi identificate le invarianti funzionali e formali su cui investire prioritariamente risorse ed energie e di conseguenza gli elementi variabili, che consentono libertà di scelta e possibilità di adattamento nel tempo.

L’assetto morfologico che ne deriva è costituito da una sequenza di spazi aperti e da una forma di ricucitura ambientale a partire dal riconoscimento del paleoalveo dell’Isonzo nella parte meridionale dell’area. Il resto delle aree aperte è il frutto di una riconfigurazione, sviluppato in accordo con il Servizio Biodiversità della Regione Friuli Venezia Giulia, delle superfici di prato arido che si sono formate durante gli anni di abbandono dell’area. La frammentazione delle superfici, dovuta alla presenza dei numerosi manufatti dell’ex polveriera è stata ridotta individuando una serie di

edifici destinati alla demolizione. Il grande prato stabile a nord assume così un valore territoriale in quanto donatore di fiorume per il ripristino di quelle praterie che sono oggetto di tutela regionale. Gli edifici mantenuti infine possono essere trasformati per ospitare programmi funzionali misti caratterizzati da un basso carico urbanistico.

La definizione formale delle composizioni riempie il vuoto di visione, assorbe lo shock del futuro

A Cividale invece la strategia per fasi modella il progetto nel tempo come un percorso. Attraverso la programmazione, vengono stabilite le azioni da anticipare strategicamente (le invarianti del caso precedente) rispetto ad altre successive (variabili). Le fasi consentono in itinere di mo -

03. Il sistema delle fortificazioni e delle linee difensive della cortina di ferro in Friuli Venezia Giulia | The system of fortifications and defensive lines of the Iron Curtain in Friuli Venezia Giulia. T. Bisiani, A.Venudo

dulare le risorse rispetto alle contingenze, di valutare gli effetti delle trasformazioni, di ridefinire nuovi percorsi per realizzarle. Le fasi riducono la complessità del progetto ad una sequenza lineare, che diventa comunicativa e di facile comprensione per la comunità. La proposta si configura attraverso un castro e un decumano, con l’obiettivo di mettere in comunicazione gli impianti sportivi a nord con il fiume Natisone a sud, e il centro storico posto ad est, con il plesso scolastico collocato a ovest. L’ambito risulta così diviso in quadranti legati alle fasi stesse, i quali sono connotati da un sistema di parchi e piazze alberate nella zona ovest, e da giardini porticati nella zona est. Demolizioni selettive definiscono l’impianto architettonico e gli spazi aperti. Nel quadrante sud-est, una Casa della Musica è intesa quale attrattore di area vasta, mentre ai due edifici degli alloggi militari, grazie al taglio tipologico e dimensionale, è affidata la flessibilità del programma funzionale.

Si ottiene così una forma progettuale aperta, destinata a conformarsi nel tempo, in cui la flessibilità tipologica e funzionale dei manufatti assume un ruolo cruciale quale strumento per rispondere alle incertezze e alle contingenze.

Scenari e congetture esplorano futuri possibili, utilizzando il tempo

come materiale di

progetto

Inoltre in ambedue gli studi la figura alla base dei rispettivi impianti gioca un ruolo significativo, la definizione formale delle due composizioni riempie il vuoto di visione, assorbe lo “shock del futuro” delle comunità e soprattutto assume, attraverso una funzione di orientamento per le scelte successive, un ruolo di strumento volto a indirizzare un processo.

Le attività di ricerca hanno prodotto due livelli di risultati: uno pratico attraverso l’avvio delle trasformazioni, ed uno metodologico-culturale con la costruzione di modelli.

L’esito concreto dello studio per Romans d’Isonzo riguarda l’ottenimento di un finanziamento che ha permesso al Comune di sviluppare la progettazione e gli strumenti per l’attuazione della trasformazione, coinvolgendo anche attori privati. È infatti in atto già la trattativa per la riconversione di un primo ambito dell’ex polveriera; per Cividale del Friuli l’attività di ricerca ha permesso di identificare le problematiche amministrative e tecniche legate al passaggio di proprietà dell’ex caserma per attivare la fase zero, considerata propedeutica a tutto il processo di riconversione. Così è stato possibile attivare le prime forme di appropriazione da parte della cittadinanza, fondamentali per innescare quella dinamica della trasformazione, che sconta una forte inerzia di partenza, mitigando la percezione pubblica di questi complessi quali corpi estranei. Il secondo livello degli esiti riguarda il consolidamento di una cultura del riuso dei siti ex militari, sia in termini progettuali che di politiche. Il tema posto da queste grandi aree è recente, anche se in Italia e all’estero è stato affrontato in molti studi (Camerin, 2021; Storelli et al., 2014; Bagaeen et al., 2016). Tuttavia in Friuli Venezia Giulia, dal punto di vista metodologico e scientifico, è stato finora approfondito, nella sua complessità alla scala territoriale, in poche occasioni (Baccichet, 2015; Santarossa et al., 2016; Marchigiani, 2022). Mentre, dal punto di vista operativo, le amministrazioni locali hanno spesso agito in termini di necessità e urgenza, optando per la demolizione piuttosto che per la valorizzazione. Le due esperienze presentate invece propongono modelli operativi basati sulla flessibilità sia del processo che dell’assetto morfologico, offrendo così un ponte tra la progettazione architettonica, urbana e paesaggistica e la pianificazione strategica. Tale approccio può essere replicato in tutti quei casi, anche al di fuori degli ambiti ex militari, dove si affrontano trasformazioni su vasta scala e a lungo termine

04. Alcune fasi del progetto di riconversione della caserma Francescatto | Some phases of the development of the Francescatto Barracks conversion project. T. Bisiani, A.Venudo

che possono provocare nelle piccole comunità disorientamento e crisi per i potenziali impatti di questi cambiamenti.

Conclusioni

In conclusione va rilevata in primis l’assenza di politiche o piani di rigenerazione del patrimonio dismesso alla scala regionale, capaci di alleggerire le amministrazioni locali dal peso della gestione di queste trasformazioni. Tale carico, sintetizzato dal tema della grande dimensione che esorbita rispetto alle piccole realtà amministrative su cui insistono di queste aree, connota non solo i progetti discussi, ma anche e soprattutto la domanda di ricerca alla quale si è cercato di rispondere.

I sedimi dei complessi studiati equivalgono ai centri storici di Cividale e Romans, e pongono due questioni: esplorare la capacità di trasformazione delle aree in relazione ai centri di riferimento e individuare metodi adeguati allo sforzo di previsione richiesto al progetto. A partire da condizioni incerte, attraverso congetture e scenari è stato possibile esplorare il campo del problema attraverso la definizione di futuri possibili, utilizzando il tempo come un materiale di progetto.

I risultati consentono inoltre di individuare uno slittamento, in quanto il principale problema emerso è stato, non tanto l’esigenza di una soluzione tecnica, ma il disagio per la mancanza di una morfologia significativa a cui poter riferirsi. Un acceleratore capace di dare consistenza alla volontà di trasformazione delle comunità e di superare l’inerzia iniziale al cambiamento. In sintesi sono tre gli aspetti caratterizzanti i due studi: il valore progettuale degli spazi aperti, l’individuazione di funzioni sovracomunali e la flessibilità attribuita al patrimonio architettonico. Il disegno degli spazi aperti si è dimostrato un elemento strategico per controllare progettualmente la morfologia delle ipotesi e per costituire una base di discussione con amministrazioni e portatori d’interesse. La dimensione degli interventi ha

indirizzato, in entrambi gli studi, all’individuazione di una funzione di interesse territoriale, il che presuppone implicitamente la necessità di un livello di coordinamento alla scala regionale. La dimensione e il numero di edifici presenti in questi complessi ha infine consentito di garantire la flessibilità dei programmi funzionali in termini di trasformazioni alternative possibili. Dal punto di vista della ricerca, vista l’ampia disponibilità e la diffusione sul territorio del patrimonio ex militare, quest’ultimo aspetto sembra offrire ulteriori ambiti di approfondimento, legati allo sviluppo di metodologie operative che consentano di qualificare il grado di trasformabilità degli edifici militari dismessi a partire dall’analisi delle caratteristiche morfotipologiche.*

REFERENCES

– Baccichet, M. (a cura di) (2015). Fortezza FVG. Dalla guerra fredda alle aree militari dismesse. Monfalcone: Edicom.

– Bagaeen, S., Clark, C. (a cura di) (2016). Sustainable Regeneration of Former Military Sites. New York: Routledge.

– Camerin, F. (2021) Regenerating Former Military Sites in Italy. The Dichotomy between ‘Profit-Driven Spaces’ and ‘Urban Commons’. Global Jurist, vol. 21, n. 3. New York: De Gruyter, pp. 497-523.

– Marchigiani, E., Cigalotto, P. (2022). Il riuso delle caserme in piccole e medie città. Questioni di progetto a partire dal Friuli Venezia Giulia. Trieste: Edizioni Università di Trieste.

– Polesello, G. (1979). Le città piccole del Friuli. In Mor, C.G. (a cura di), Studi e documenti nel 1050 di San Daniele. San Daniele del Friuli: Edizioni Comune di San Daniele del Friuli, pp. 83-94.

– Santarossa, A., Scirè Risichella, G. (2016). Un paese di primule e caserme. Pordenone: Cinemazero.

– Santarossa, A. (2010). La fortezza Friuli Venezia Giulia. Architettiregione n. 46. Trieste: Federazione degli Ordini degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori del Friuli Venezia Giulia, pp. 10-13.

– Storelli, F., Turri, F. (a cura di) (2014). Le caserme e la città. I beni immobili della difesa tra abbandoni, dismissioni e riusi. Roma: Palombi & Partner.

– Toffler, A. (1971). Lo shock del futuro. Milano: Rizzoli.

05. Piani struttura dei sette scenari alternativi sviluppati per la polveriera di Romans | Configuration diagrams of the seven alternative scenarios developed for the Romans powder magazine. T. Bisiani, A.Venudo

A Comperative Study

After the fall of the Iron Curtain, the military heritage of Friuli Venezia Giulia was made available to local administrations. A collection of artifacts of modest quality, composed of elements incongruous with urban fabrics and uses. Data illustrates that, in 2006, military sites occupied 119,2 km2 (Baccichet, 2015, p. 157), while a much larger portion of territory, whose extension came to be 3.928 km2 (Santarossa, 2010, p. 11), equal to half of the regional surface, was bound by military constraints. One hundred and ninety-five of these sites were decommissioned ex lege between 2001 and 2007 (Baccichet, 2015, p. 143), and further mappings identified two hundred and eighty-five of them (Santarossa, 2016, p. 89). By calculating a simple average, today in each of the two hundred and fifteen municipalities of Friuli Venezia Giulia it is theoretically possible to find a disused military site (img. 03). The Department of Engineering and Architecture of the University of Trieste worked alongside two of these small administrations, Romans d’Isonzo (3,648 inhabitants) and Cividale del Friuli (10,816 inhabitants). The objective was to develop effective regeneration strategies with the limited resources of these municipalities, in the absence of superordinate instruments of a regional “comprehensive program” (Baccichet, 2015, p. 145).

The comparison of these similar but different cases tries to identify flexible approaches to overcome the apparent contradiction between the systematic methodologies of scientific research and the specificity of architectural design. The working hypothesis is to identify the general principles and concepts that enable the development of two projects and reveal their common features. Within this framework, the issue of large scale embodies the common denominator of the two different military complexes, one a former powder warehouse, the other

Iron Curtain Wreckage

The Phenomenon of the scalar Inversion of large Barracks in Friuli Venezia Giulia, Techniques and Projects.

former barracks (imgg. 01-02). The vast areas brought into play become the qualifying element of the transformations through forms of reconnections, urban in one case, and environmental in the other. In particular, the design methodologies adopted were identified with the aim of overcoming the paralysis of small local communities, linked to the lack of “reuse ideas” (Baccichet, 2015, p. 146). For the former powder warehouse in Romans d’Isonzo, evolutionary scenarios were developed with the aim of exploring the different functional vocations of the area. For the former barracks in Cividale del Friuli, the design strategy was organized in temporal phases, with the aim of defining a proposal capable of adapting over time to changing conditions and contingencies.

Scalar Inversion and The shock of the future Disused military areas appear to be the subject of rather limited regional policies. Regional Law No. 45 of 2017, offers a technical expense grant of euro 20,000 for activities related to the redevelopment of former military areas. Regional Law No. 2 of 2000, on the other hand, grants a una tantum contribution of euro 30,000 for the redevelopment of smaller centers with a score premium for former military properties. These are useful contributions, but insufficient in relation to the size of the areas and the scale of transformations they imply. One of the main problems is that local authorities have to take on transformation processes whose impacts, not only economic, are significantly greater than their actual capacity to act. In particular, the disparity in scale between small towns and large areas makes typical community transformation demands inapplicable, conveying uncertainties and questions that do not allow communities to express shared visions, much less administrations to develop effective strategies. However, these areas, due to the large size and relative quality of the artifacts, offer

great freedom for transformation and the possibility to explore multiple design alternatives (imgg. 04-05).

The research on the former Francescato barracks in Cividale del Friuli (7 ha) and the former powder warehouse in Romans d’Isonzo (10 ha) investigates the future of these areas through the project, understood as a dynamic element. The metrics of the two projects are different because they belong to different classes in terms of scale and geometry, the former Francescato barracks are inserted in continuity with the urban area, the former powder warehouse of Romans is located in an open and isolated area. The first one is confronted with the history of the stratified city and the other with the history of the agrarian landscape. However, the initial premises and the reasons for the projects are similar: to reconvert a military site of a significant size, requiring large resources and long transformation time, and affecting a small settlement that falls within the Friulian historical-settlement tradition, recognized in the reading of the “small towns of Friuli” (Polesello, 1979).

This reversal of scale, between settlement size and project size, creates a condition of disorientation and stress. Small communities lack the capacity to visualize the possibilities of transformation, because the resulting complexity and possible multiple impacts produce a kind of paralysis: it is The Shock of the Future (Toffler, 1971).

Projects, Transformations and Models

The two studies adopt a methodological approach based on incremental project evaluation, according to two different strategies. In Romans, two generations of scenarios, understood as possible futures, were developed. The first generation based on seven alternative programs was submitted to the administration and stakeholders. The programs of the accepted scenarios were cross-referenced to identify a second gen-

eration, consisting of three scenarios with mixed programs. Of these, functional and formal invariants were then identified on which to prioritize investment of resources and energies, and consequently variable elements, which allow freedom of choice and possibility of adaptation over time.

The derived morphological arrangement consists of a sequence of open spaces and a form of environmental reconnection starting from the recognition of the paleoalveum of the Isonzo river in the southern part of the area. The rest of the open areas are the result of a reconfiguration, developed in agreement with the Biodiversity Service of the Friuli Venezia Giulia region, of the dry meadow surfaces that were formed during the years of abandonment of the area. The fragmentation of the open spaces, due to the presence of the numerous artifacts of the former powder warehouse, has been reduced by identifying a series of buildings intended for demolition. The large stable meadow to the north thus takes on territorial value as a donor of flowering for the restoration of those grasslands that are subject to regional protection. Finally, the retained buildings can be transformed to accommodate mixed functional programs characterized by a low urban load.

In Cividale, on the other hand, the strategy based on steps models the project over time as a series of consequent phases. Through planning, actions to be strategically anticipated (the invariants previously mentioned) are determined with respect to subsequent ones (variables). The phases allow to modulate resources in itinere with respect to contingencies, to evaluate the effects of transformations, and to redefine new paths to achieve them. The phases reduce the complexity of the project to a linear sequence, which becomes communicative and easy for the community to understand. The proposal is configured through a castro and decumanus, with the objective of connecting the sports facilities to the north with the Natisone river to the south, and the historic center located to the east, with the school complex located to the west. The area is thus divided into quadrants related to the phases themselves, which are both connoted by a system of parks and tree-lined squares in the west, and porched gardens in the east. Selective demolitions define the architectural layout and open spaces. In the southeast quadrant, a House of Music is intended as a large-area attractor, while the two military housing buildings, due to their typological and dimensional qualities, ensure flexibility to the functional program. This results in an open design form, intended to conform over time, in which typological and functional flexibility of artifacts takes on a crucial role as a means of responding to uncertainties and contingencies. Moreover, in both studies, the figure that summarizes each respective project system plays a significant role, the formal definition of the two compositions fills the vi-

sion gap, absorbs the “shock of the future” of the communities, and above all takes on, through a function of orientation for subsequent choices, the role of a tool aimed at directing process. The research activities produced two levels of results: a practical one through the initiation of transformations, and a methodological-cultural one through the construction of models.

The concrete outcome of the study for Romans d’Isonzo is the obtained funding that has enabled the municipality to develop the design and tools for implementing the transformation, also involving private actors. In fact, the negotiation for the reconversion of a first area of the former powder warehouse is already underway; in the case of Cividale del Friuli, the research activity has allowed to identify the administrative and technical issues related to the transfer of ownership of the former barracks in order to activate “phase zero”, considered preparatory to the whole reconversion process. Thus, it was possible to activate the first forms of appropriation by the citizens, fundamental to trigger that dynamic of transformation, usually suffering from a strong starting inertia, mitigating the public perception of these complexes as foreign bodies.

The second level of outcomes concerns the consolidation of a culture of reuse of former military sites, both in terms of design and policy. The issue posed by these large areas is recent, although it has been addressed in many studies in Italy and abroad (Camerin, 2021; Storelli et al., 2014; Bagaeen et al., 2016). However, in Friuli Venezia Giulia, it has been explored in its complexity at the territorial scale on few occasions so far (Baccichet, 2015; Santarossa et al., 2016; Marchigiani, 2022), with both a methodological and scientific point of view. From an operational perspective, local governments often acted in terms of necessity and urgency, opting for demolition rather than valorization. The two presented experiences, propose operational models based on the flexibility of both process and morphological arrangement, instead offering a bridge between architectural, urban and landscape design along with strategic planning. This approach can be replicated in all those cases, even outside of former military areas, where large-scale and long-term transformations are tackled which can cause disorientation and crisis in small communities due to the potential impacts of these changes.

Conclusions

In conclusion, it should be noted in primis, the absence of policies or plans for the regeneration of disused assets at the regional scale, capable of relieving local governments of the burden of managing these transformations.

This burden, summarized with the problem of large, exorbitant if compared to the small administrative realities on which these areas insist, connotes not only the projects discussed, but also and above all,

the research question that this study attempted to address.

The footprints of the studied complexes are equivalent to the historic centers of Cividale and Romans, and they pose two questions: to explore the transformation capacity of the areas in relation to the centers of reference, and to identify methods appropriate to the forecasting effort required of the project. Starting from uncertain conditions, through conjectures and scenarios it was possible to explore the problem scope by defining possible futures, using time as a project material.

The results also allow for the identification of a slippage, in which the main problem that emerged was not the need to for a technical solution, but rather a discomfort for the lack of meaningful morphology to refer to. For this reason, it was necessary to find an accelerator capable of giving consistency to the communities’ desire for transformation and overcoming the initial inertia to change. In summary, three aspects characterized the two studies: the design value of open spaces, the identification of outer-municipal functions, and the flexibility attributed to the architectural heritage. The design of open spaces proved to be a strategic element to control the morphology of the hypotheses through design and to provide basis for discussion with administrations and stakeholders. The size of the interventions directed, in both studies, the identification of a function of territorial interest, which implicitly assumes the need for a level of coordination at the regional scale. Finally, the size and number of buildings in these complexes has allowed to guarantee the flexibility of functional programs in terms of possible alternative transformations. From a research point of view, given the wide availability and spread throughout the territory of former military heritage, the latter aspect seems to offer further areas for in-depth study, related to the development of operational methodologies that allow to qualify the degree of transformability of the decommissioned military buildings, starting from the analysis of morpho-typological characteristics.*

(Counter)Mapping Toxic Legacies

01. The contrast between the Greek acropolis in the foreground, the industrial plant in the background | Il contrasto tra l’acropoli greca in primo piano, lo stabilimento industriale sullo sfondo. E. Privitera

Contro-mappare le eredità tossiche Le trasformazioni socio-ecologiche causate dal rischio industriale sono difficili da cogliere in quanto si verificano in maniera graduale nel tempo e diffusa nello spazio. I ricercatori devono cambiare il proprio approccio per riuscire a intercettare le varie sfaccettature delle eredità tossiche. Questo articolo intende dimostrare che un approccio, piccolo, lento e di strada riesca a far comprendere e mappare le diverse eredità tossiche e a tal fine presenterà una serie di riflessioni euristiche riguardanti alcune esperienze condotte con delle comunità nella cittadina petrolchimica di Gela.*

Socio-ecological transformations due to industrial risk are difficult to intercept as they occur gradually over time and in a dispersed way across space. Researchers must shift methodologically and epistemologically their approach to capture the multi-faceted toxic legacies. This paper aims to demonstrate that a “small, slow, and street” approach is suitable to understand and map various forms of tangible and intangible, humanand non-human toxic legacies. It will achieve so, by presenting heuristic reflections on community-based experiences in the Sicilian petrochemical town of Gela.*

A Small, Slow, and Street Approach in the Risk Landscapes of Gela

oxic Legacies in Risk Landscapes

The acceleration of global industrialization (McNeill and Engelke, 2014) across our earth1 during the last centuries has led to a series of socio-ecological transformations that have unevenly impacted countries and communities. Targeted sacrifice zones2 have turned into risk landscapes. Originally referred to urban areas in North America characterized by a difference in distribution of emissions and risk along lines of class and race (e.g., Morello-Frosch and Lopez, 2006), the concept of risk landscapes has expanded in meaning (Gravagno and Messina, 2008; Privitera et al., 2021) encompassing all contexts where processes of ecological violence (Pessina, 2022) occur out of sight, slowly over time (Nixon, 2011), and widespread in space. Slow-burning and unspectacular toxic exposure (Mah, 2017) makes it challenging for people, including researchers, to recognize the pollution embedded in all aspects of everyday life. This extended definition of risk landscapes facilitates understanding of the cultural, economic, environmental, and psychological aspects of toxic legacies.

I maintain that researchers should reverse their gaze in a methodological and epistemological sense. In this paper, I intend to argue that a “small, slow, and street” approach is suitable to obtain a deeper comprehension of the multifaceted toxic legacies in risk landscapes, in particular the three dimensions of toxic legacies: narrative, material, and immaterial. I do so by presenting some heuristic reflections coming from community-based experiences in Gela, one of the historical and biggest petrochemical town in Europe.

A Small, Slow, and Street Approach

A small, slow, and street approach echoes the idea that “street science” (Corburn, 2005) does not devalue science but rather enriches it by generating “socially robust knowledge” (Gibbs, 1994). To this end, it is important that the researcher comes into direct contact with those who experience firsthand living in contaminated places and es-

Type of method Explanation

Interview

Walking interview

The applied interviews are a mix between semi-structured interviews and in-depth interviews. Semi-structured interviews contain essential questions, but leave participants free to share their lived experiences. In-depth interviews are used to gather detailed and comprehensive information from individuals about people’s experiences, perceptions, opinions, and feelings regarding a specific topic of interest. Unlike a structured or semi-structured interview that follows a predetermined set of questions, an in-depth interview is more flexible and allows for a deeper exploration of the participant's responses. Many of the carried-out interviews can be considered “toxic autobiographies”.

Walking interviews are a format of interview where the interviewer and the interviewee engage in a conversation while walking. This approach ensures that the data generated through interviews are deeply influenced by the landscapes in which they occur, highlighting the significance of environmental features in shaping discussions. These interviews are typically conducted with activists and locals.

Toxic tours are expeditions to polluted places, often led by members of communities that have historically been disadvantaged and have borne an undue burden of industrial pollution. They emerged in the environmental justice movement in the mid-1980s, as activists in North America began to articulate the tight link between race, class, and environmental harms. Toxic tours invite outsiders into spaces perceived as “sacrifice zones”.

categories, and details of interviews, walking

tablishes a relationship of trust that is consolidated over a slow period of time (Stengers, 2018). By embracing such an approach, researchers can be able to intercept a whole series of “small data”. I defined small data “a set of qualitative information “embodied into the texture of life of human and non-human communities” (Privitera et al., 2021, p. 851).

From a practical and methodological standpoint, implementing such approach involves a “jazz of practices” (Corburn, 2005) from various disciplines, with a particular attention to oral storytelling (Privitera, 2021b; Armiero et al., forthcoming). What sets this approach apart from other qualitative methodologies is its emphasis on fostering spaces for self-narrative having a transformative horizon.

The toxic legacies discussed in this article mainly stem from the systematization and spatialization of small data collected between 2018 and 2022 through immersive fieldwork in Gela3, including semi-structured and in-depth interviews, walking interviews, and toxic tours (tab. 01).

Details

n. 44 interviews of which: n. 34 with self-organized civil society and community-organizations; n. 4 with trade unions; n. 1 with private entrepreneur; n. 1 with a city councilor; n. 1 with an ex-mayor; n. 1 with an employee of the refinery; n. 2 architects involved into the elaboration of Gela town plan.

n. 6 of which: n. 1. with two ex-members of “NO Eni Committee”; n. 1. with a farmer since generations; n.2 with the members of two community organizations; n.2. with the co-founders of two agro-ecological projects in the plain of Gela; n. 1 with ex-mayor of Gela and ex-president Legambiente Gela in the ’80s.

n. 2 with a local journalist, ex-member of “NO Eni Committee” and co-founder of the Sicilian branch of the non-profit organization “A Sud”

and toxic tours

adequately captured in the current data and official narratives. In addition, I engaged in numerous informal conversations and conducted several participatory observations, site inspections, and attended local public events as both observer and speaker. At one of these events, I presented my ongoing research firsthand and received feedback that partly influenced the direction it followed.

Mapping Toxic Legacies in Gela

A small, slow, and street approach is suitable to capture the multifaceted toxic legacies

Interviewees were selected using the “snowball effect,” starting with key community figures who have taken critical positions about the industrial presence. This choice allowed me to emphasize the toxic legacies according to alternative and community-based voices, which barely have been an object of systematic listening. Consequently, only a few institutional actors have been involved. When obtaining consent, I recorded the conversations and took notes. Many interviews can be seen as “toxic autobiographies” (Armiero et al., 2019) which reveal the daily toxicity human and nonhuman inhabitants live with, but which is not currently or

Gela is an emblematic lens from which to investigate toxic legacies in terms of the relationship between industrial heritage and environmental issues. Nestled between a wide sandy bay and a clay plain on the South coast of Sicily, Gela was one of the first colonies of Magna Grecia, of which the remains of its acropolis attest (img. 01). It entered into the global oilscape in the late 1950s, when oil was discovered in its gulf. Gela became one of the key-places where top-down national strategies centered on “poles of industrial development”4 were tested. In less than ten years, Gela experienced a rapid industrialization process (Morpurgo et al., 2022) culminating in 1965 with the inauguration of one of Europe’s then largest petrochemical plants. Hytten and Marchione (1970) shed light on the company’s5 triumphalist narrative, which glorified the economic prosperity and social redemption brought about by modern industrialization, while diminishing its negative consequences.

The industrial change transformed the urban fabric of Gela. The plant covers approximately 500 ha, a considerable extent compared to Gela at that time (img. 02). It was situated on an area previously characterized by a dune system called “macconi”, whose disappearance is a first example of direct material legacy. At an urban level, the realization of the company’s residential neighborhood “Macchitella”, ini-

Table 01. Table illustrating number,
interviews,
| Tabella che illustra il numero, le categorie e i dettagli delle interviste a piedi e dei tour tossici E. Privitera

tially intended solely for housing skilled plant employees brought into Gela, is an example of direct material legacy. The illegal development led by the industry-drew-newly arrived people resulted in both aesthetic and ecological degradation of the town and forms another example of indirect material legacy.

The larger plain of Gela has also been affected. Blinded by the myth of industrial modernization, many individuals decided to forsake their farming jobs as soon as possible. However, this dream of petrochemical employment quickly faded, as production declined from the 1980s onward. As one resident recalls.

“You have to know that today the few farms in the plain of Gela are usually owned by people coming from other villages [...] wherein people were not blinded by the illusion to work in the plant. [...] The new generations of Gela were not interested in working in agriculture anymore, [as a consequence] nowadays, in Gela […] there are many derelict fields’’ (January 2019).

This excerpt provides the explanation of one of the keyphenomena happening right after the plant was activated, i.e. the radical cutting off of any relationships with rural work and culture, which caused a break in the transmission of traditional farming knowledge. This “loss of memory” facilitated either the abandonment of the agriculture sector or the embrace of a modern, production-based agricultural philosophy, which views soil as “an empty dead thing from which to extract as much as possible” (Shiva, 2016, p. 33). Thus, the few crop fields that resisted were mainly6 converted into intensive monocultures or covered by greenhouses, further contributing to pollution and coastal erosion. Their alteration is another piece of small data revealing an indirect but larger toxic legacy.

According to a study of the soil of the plain of Gela (Salvo et al., 2018), areas near the plant contain high concentrations of arsenic, lead, and nickel, exceeding the limits established by national law. Nevertheless, the potential pollution of the plain is still a debated topic, surrounded by

02. Original cartography depicting the size of the plant in comparison to the size of the town of Gela. | Cartografia originale che illustra le dimensioni dell’impianto rispetto alle dimensioni della città di Gela. Il Gatto Selvatico, archivio ENI

distrust and controversial behaviors, as evidenced by the following residents’ accounts:

“Honestly, from the person who has the small local shop […] and tells you that their products are grown privately in their garden, well, I don’t buy anything from this person because their land is near the industrial plant” (October 2020).

Other approaches are more fatalistic:

“I think we prefer to eat our foods […]. After all, if you don’t get pollution from the air, then you get it from the ground, so here in Gela you have no escape gate” (October 2020).

having strange moles of different colors, and then we understood that these were a kind of tumor […] Other times some fishes are affected by something similar to spina bifida” (April 2021).

“Many species of fish are now impossible to find, such as the cefalo (mugil cephalus) , the Occhi di Santa Lucia (bolma rugosa) and also muccuni (nassarius mutabilis) ; in the past we used to fish at least 20-30 boxes of them on each ship” (January 2019).

At least three dimensions of toxic legacies can be recognized: narrative, material, and immaterial

Doubts about contamination extend to human health. Gela has one of the highest rates of cancer and childhood malformations in Italy. For years these illnesses were considered a private issue to be concealed. Uncertainty about the causes and the likelihood of becoming ill persisted for decades, exacerbating anxiety and stress. Only recently have popular epidemiology initiatives by local activists (Privitera, 2021a; Saitta and Pellizzoni, 2009), along with three national epidemiological studies7, revealed and quantified the toxic legacies embedded in the bodies of the residents. The heightened levels of toxics found in residents regardless of age are an example of trans-generational toxic legacies (Sandlos and Keeling, 2016).

While humans, even when subaltern, can denounce the toxic legacies, plants and animals are voiceless but yet can “speak through the environment” (Biasillo and Tizzoni, 2020). Examples of trans-corporeal toxic legacies can be read in the dramatic alteration of the sea flora and fauna, as two fishermen explained to me:

“A few strange things have occurred in these years […] For instance, in a few cases, we have found some fishes

These conversations recount the negative impacts on the marine ecosystem and on other species’ health and body due to prolonged industrial exposure. These trans-species toxic legacies emerged from the firsthand and daily experience of fishermen and make up for the (guilty) absence of systematic scientific reports on seawater contamination. By taking a simple walk on the shore between the plant and the urbanized area, many scattered black seashells narrate, via their polluted matter, the story of the toxicity of Gela’s territory (img. 04). The contaminated bodies, both human and non-human, are small data that provide an eloquent example of material toxic legacies.

Although the intensity of exposure to toxic sea pollution decreased drastically after 2014, when the plant was closed and underwent a process of reconversion toward a green refinery – an operation that has raised some criticism 8 – the legacies of industrial presence remain vivid in the memories of local people:

“When I was 7-8 years (the early 70s) the sea color was often between yellow and brown because the company drained its sewage and leftovers in the mouth of the river Gela. At that time, the law was not so strict, but we used to swim there. In the following years, perhaps in the 80s, residents started to dislike more this area and frequent the waterfront less” (January 2019).

Narrative

Material

All those legacies in the public discourse and the collective imaginaries after many years of triumphalist and toxic narratives that, incited by the state and the corporation, have imposed official truths, dismissed any alternative point of view as anti-modern, while silencing and normalizing any injustice and side effects of the industrial development.

Direct

All those tangible and patrimonial legacies that are directly or indirectly connected with the presence of the industrial plant. They are usually evident, and they can be easily intercepted, measured, and quantified.

Immaterial

All those intangible toxic legacies that are directly or indirectly connected with the presence and activity of the industrial plant. Most of the time they are not evident, and they cannot be easily intercepted and quantified: small, slow, and street approach can facilitate their identification.

Indirect

1. Erasure of the multi-layered legacies from the “glorious” pre-plant past;

2. Monopolization of the public discourse on fomenting the rhetoric of industrialization as the only way to get modernization and well-being;

3. Normalization of injustices, and silencing the alternative views;

4. Appropriation of the new local narratives;

5. Occupation of the future imaginaries: disempowerment of people’s capability to envision a non-industrial-centric future in Gela.

The elimination of entire ecosystems (e.g. the dune system); the industrial plant; plant-related infrastructures; The Seashell; Macchitella neighborhood; The coastal erosion due to the plant; The increase/reduction/disappearance of sea flora and fauna; The contamination of non-human communities’ bodies (e.g. the black seashell on the shoreline); The quantifiable high rate of congenital malformation and cancer; The quantifiable high concentration of toxic matters in human bodies (see. epidemiological studies); The several acres of the plain of Gela used, both illegally and legally, as a landfill and awaiting recovery interventions.

The illegal urban development; The coastal erosion due to greenhouses; The changes in the agroecological system of the plain of Gela (i.e., gradual abandonment of crops and increase of greenhouses and monocultures).

Direct The drastic shift in the labor system and the abandonment of traditional jobs (farming, fishing, pottery craft, etc.).

Indirect

These words highlight the strained relationship with the daily environment, leading people to avoid certain areas, especially beaches, which are perceived as neglected or have indeed become so. These alterations in people’s behaviors and feelings are a case in point of intangible and relational toxic legacies. The ghost of a magnificent beach resort called “The Seashell” is an illustrative case. Built contemporaneously after the oil was discovered, for several years, it was one of the premier tourist destinations in Sicily, until when upon the plant’s activation constant tar stains marred the shoreline, prompting visitors to seek alternative beaches. For approximately four decades, only its skeletal remains endured, serving, similarly to the beforementioned black seashells, as a tangible testament to the industry’s toxic legacy 9 .

The break in the transmission of traditional job knowledge and following “lack of memory”; The diffuse feeling of mistrust and uncertainty about human health both for the present and future generations (transgenerational); Perceptive and/or traumatic memories of people about the daily contact with toxic environments; The collective behavior change and feeling of uncertainty about the consumption of local products; The wounded relationship with the life environment, leading people to avoid certain areas, being perceived as or turned to be neglected.

naries 10. After the several decades of exposition to a toxic narrative 11 exalting the company’s role in the drive towards well-being and modernization, while silencing any criticism, nowadays the residents of Gela struggle to envision any alternative to the industrial-centric development (Privitera, forthcoming ).

The spatialization of small data delivers a counter-cartography of the multi-nuanced toxic legacies

Conclusion

Other infrastructures and derelict areas, such as the “Cipolla landfill,” are scattered across the Gela plain. These sites, which have hosted tons of toxic materials both illegally and legally, remain inaccessible to the public while awaiting recovery. They represent another form of unjust dispossession that has tainted people’s relationship with their daily landscape.

Finally, one of the least tangible yet crucial toxic legacies consists in the occupation of the collective imagi -

By applying what I defined a “small, slow, and street” approach, I could intercept small data that elucidate different types of toxic legacies, including those that are more hidden and intangible. At least three dimensions of toxic legacies can be recognized: narrative, material, and immaterial (tab. 02). The first regards the contamination of the public discourse which, fomented by state and corporations, has imposed official truths while dismissing any alternative point of view and silencing and normalizing injustice. The second dimension encompasses physical and patrimonial legacies of industrial risk, including plants, pipes, infrastructure, buildings, and landfills, as well as those affecting the bodies of human and more-than-human

Table 02. Chart of the different types of toxic legacies | Tabella dei diversi tipi di eredità tossiche. E. Privitera

communities in these areas. The third dimension involves imperceptible forms of slow violence that develop gradually over time and across space, often related to memories, socio-spatial relations, perceptions, and personal or collective traum. Moreover, for each category, I identified two subcategories: direct and indirect. The former includes all those legacies which have been directly caused by the realization and activation of the plant; the indirect, instead, lack a straight forward connection. It is worth pointing out that such categorizations, while facilitating the navigation of several nuanced legacies, are actually often more blurred. For instance, the coastal erosion has been caused directly from the construction of the plant destroying the dunes and altering the wave system, and indirectly from the increase of greenhouses along the shoreline (img. 04).

In sum, shifting the methodological and epistemological approach to risk landscapes has allowed me to capture and interpret multifaceted toxic legacies that might otherwise be lost from official records. This paper demonstrates that the small, slow, and street approach can generate valuable

community-based cartographies. The spatialization of the collected small data (img. 03) geo-reference the complex toxic legacies embedded in the stories and bodies of both human and non-human communities in Gela.

It is worth noting that, while this paper focuses on a specific case study of risk landscapes in Italy, a small, slow, and street approach could be applied to other risk landscapes worldwide with necessary local adjustments. Furthermore, this approach is not only relevant to academic debates on research methodologies but also presents a challenge for integrating such knowledge into public planning policies. As I have argued elsewhere, mapping toxic legacies with frontline communities can spark critical reflections and potentially reveal alternative visions for the future (Privitera, forthcoming). Therefore, such community-based endevors should be integrated into mainstream planning tools to offer a more comprehensive understanding of toxic legacies and involve local communities in the co-production of knowledge and re-appropriation of projects and narratives for their own communities.*

03. Community-Based Counter-Cartography of Toxic Legacies in Gela. Each viewpoint number corresponds to a picture with a caption | Contro-cartografia basata sulla comunità delle eredità tossiche a Gela. Ogni numero corrisponde a un’immagine con didascalia. E. Privitera

ACKNOWLEDGEMENT

I would like to thank the reviewers and editors of the special issue for thoroughly reviewing this paper. I sincerely appreciate their valuable comments and suggestions, which helped improve the quality of the manuscript. I am grateful to Prof. Filippo Gravagno, Prof. Giusy Pappalardo, and Prof. Marco Armiero, who supported the envisioning and realization of a “small, slow, and street” research approach since its inception at the beginning of my PhD. I also want to express my gratitude to all the residents and activists in Gela who dedicated their time to share their stories with me; without them, this article could not have been written. Lastly, I would like to thank some brilliant colleagues and early-stage scholars from the University of Toronto who offered insightful suggestions during the writing process. This further confirms that knowledge is always the result of co-production.

di Gela. E. Privitera

NOTES

1 – See the special issue edited by Rosignoli, Privitera, and Pappalardo (2023).

2 – “Sacrifice zones” are areas or communities that bear a disproportionate burden of environmental degradation, pollution, and health risks due to industrial activities, resource extraction, or other forms of development.

3 – The immersive fieldwork in Gela has been a substantial component of my Ph.D. research, forming the basis of my dissertation (Privitera, 2022).

4 – The goal of this policy was to reduce the South-North gap by spurring industrial growth and modernization in less-developed regions. The concentration of investments and resources in specific “poles,” should have served as the driving force of multiscale cascade effects.

5 – The founder company was Anic, a state-owned company, then acquired by ENI in 1984, which converted into a joint-stock company in 1992. Nowadays, ENI is one of the seven “Supermajor” oil companies in the world.

6 –Among the few exceptions in the plain of Gela are the permaculture projects of Il Giardino delle Belle and Geloi Wetland

7 – Sepias, Sebiomag, and Sentieri.

8 – The triumphalist company’s tale has taken different shapes over years (De Filippo, 2016), until the most recent green economy narrative promoting a “magic redemption for Gela” (Lutri, 2018), which has been identified as a form of greenwashing (Peca and Turco, 2019).

9 – D’orsi (2023) frames the Seashell as an example of the nostalgia and ruination on future expectations, fueling the yearning for lost opportunities that characterizes the Gela’s population.

10 – I intentionally use the term “imaginaries” rather than “imagination.” The latter often refers to an individual creative faculty that expands from internal experience into the external world, broadening the boundaries of what is conceivable. In contrast, “imaginaries” encompass how people envision their social existence, perceive interactions with others, and understand the dynamics between individuals. It also includes the expectations they encounter and the deeper normative notions that underlie these expectations.

11 – Paraphrasing Marco Armiero et al. (2019) with reference to the work of the Wu Ming collective, “toxic narrative” is one that contaminates the public discourse by imposing official truths while simultaneously diminishing any alternative viewpoints.

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04. The alteration of the coastal ecosystem narrates the toxic legacies of Gela’s territory | L’alterazione dell’ecosistema costiero racconta le eredità tossiche del territorio

Le eredità tossiche nei paesaggi del rischio L’accelerazione dell’industrializzazione a livello globale (McNeill e Engelke, 2014) negli ultimi due secoli ha causato trasformazioni socioecologiche che hanno impattato in maniera diseguale su paesi e comunità. Le “zone di sacrificio” si sono trasformate in paesaggi del rischio. Originariamente riferito alle aree urbane in Nord America, caratterizzate da una diversa distribuzione delle emissioni e dei rischi in base alla classe/razza (Morello-Frosch e Lopez, 2006), il concetto di “paesaggio del rischio” è stato ampliato di recente (Gravagno e Messina, 2008; Privitera et al., 2021) al fine di includere tutti i contesti in cui i processi di “violenza ecologica” (Pessina, 2022) si verificano in maniera “lenta” (Nixon, 2011) nel tempo e in maniera diffusa ma non immediatamente percettibile nello spazio. Tale definizione riguarda non solo quei luoghi in cui i danni sono il risultato di eventi improvvisi, ma anche quelli in cui essi derivano da processi lunghi e graduali. “Un’esposizione tossica lenta e non spettacolare” (Mah, 2017, p. 127) rende difficile per le persone coinvolte riconoscere la pericolosità dei fattori inquinanti incorporati in tutti gli aspetti della loro vita quotidiana. Questa definizione estesa di paesaggi del rischio facilita la comprensione delle diverse eredità tossiche derivanti da anni di degrado ambientale, privazione culturale, difficoltà economiche e conseguenze psicologiche. I ricercatori dovrebbero modificare il loro sguardo in senso metodologico ed epistemologico per ottenere una comprensione più profonda delle eredità diffuse nei paesaggi del rischio. In questo articolo, intendo sostenere che un approccio “piccolo, lento e di strada” è più idoneo a far emergere le molteplici eredità tossiche riscontrabili nei paesaggi del rischio; in particolare, mi propongo di identificare le tre dimensioni delle eredità tossiche, narrativa, materiale e immateriale, tramite la discussione di alcune riflessioni euristiche provenienti da un’esperienza immersiva svolta a Gela, una delle città petrolchimiche di più lunga data presenti in Europa.

(Contro)mappare le eredità tossiche

Un approccio piccolo, lento e di strada nei paesaggi del rischio di Gela

Un approccio piccolo, lento e di strada Un approccio “piccolo, lento e di strada” si ispira all’idea che la “scienza di strada” (Corburn, 2005) non svaluta la scienza ma la arricchisce generando un “sapere socialmente robusto” (Gibbs, 1994). A tal fine, è importante che il ricercatore entri in contatto diretto con gli abitanti e si prenda il tempo necessario per stabilire una relazione di fiducia (Stengers, 2018). Solo adottando tale approccio, i ricercatori saranno in grado di intercettare una serie di piccoli dati, ossia un insieme di informazioni qualitative “incorporate nella trama della vita delle comunità umane e non umane” (Privitera et al., 2021, p. 851). Dal punto di vista pratico e metodologico, l’implementazione di tale approccio comporta un “mix di pratiche” (Corburn, 2005) provenienti da varie discipline, con particolare attenzione allo storytelling (Privitera, 2021b; Armiero et al., in stampa). Ciò che distingue questo approccio da altre metodologie qualitative è il rilievo dato alla promozione di spazi per l’autonarrazione da parte degli abitanti con finalità trasformative.

Le eredità tossiche discusse in questo articolo derivano principalmente dalla sistematizzazione e spazializzazione dei piccoli dati raccolti dal 2018 al 2022 attraverso un lavoro immersivo sul campo compiuto a Gela e che comprende circa 50 occasioni di approfondimento, tra interviste semistrutturate e in profondità, walking interviews e toxic tours (tab. 01). Gli intervistati sono stati selezionati tramite “l’effetto palla di neve”, ovvero partendo da figure chiave della comunità che hanno assunto posizioni critiche nei confronti dell’attività industriale. Nei casi in cui ho ottenuto il consenso, ho registrato le conversazioni e preso appunti. Ho condotto sia interviste in profondità che semistrutturate. Molte interviste possono essere intese come “autobiografie tossiche” (Armiero et al., 2019) poiché mettono in luce la “tossicità quotidiana” con cui gli abitanti umani e non umani sono stati costretti a convivere.

Inoltre, ho avuto numerose conversazioni informali, ho effettuato svariati sopralluoghi, preso appunti durante momenti di osservazione partecipante, e ho preso parte a diversi eventi pubblici sia come osservatrice che come relatrice. In una di queste circostanze, ho presentato la mia ricerca in fieri e ho ricevuto feedback preziosi per il mio studio.

La mappatura delle eredità tossiche di Gela Gela offre un’angolazione esemplare per indagare le eredità tossiche in termini di relazione tra patrimonio industriale e problemi ambientali. Situata tra un vasto golfo di sabbia dorata e una pianura argillosa sulla costa meridionale della Sicilia, Gela è stata una delle prime colonie della Magna Grecia, come testimoniano le rovine della sua acropoli (img. 01). Essa è entrata nel panorama dell’industria petrolifera globale alla fine degli anni ’50 allorché fu scoperto il petrolio al largo del golfo antistante. La cittadina divenne uno dei luoghi in cui vennero sperimentate le strategie nazionali top-down, incentrate su “poli di sviluppo industriale”. In meno di dieci anni, visse un repentino processo di industrializzazione (Morpurgo et al., 2022), culminato nel 1965 con l’inaugurazione di uno dei più grandi impianti petrolchimici d’Europa. Hytten e Marchione (1970) criticarono la narrazione trionfalistica dell’azienda, che mentre esaltava la prosperità economica e la redenzione sociale portate dalla modernizzazione industriale alle “terre arretrate, povere e marginalizzate di Gela”, sminuiva gli effetti negativi e le ingiustizie connesse con esse.

La svolta industriale ha impattato fortemente sul tessuto urbano di Gela. L’impianto occupa circa 500 ha, una superficie considerevole rispetto all’estensione della cittadina all’epoca (img. 02). Esso è stato realizzato su un’area precedentemente caratterizzata da un tipico sistema di dune, chiamato “macconi”, la cui scomparsa è un primo esempio di eredità materiale diretta. A livello urbano, la realizzazione del quartiere residenziale Macchitella da parte dell’azienda, inizialmente destinato esclusivamente ai dipendenti specializzati dell’impianto provenienti dal Nord Italia, è un altro esempio di eredità materiale diretta. Contemporaneamente, lo sviluppo abusivo di interi quartieri attuato dagli immigrati arrivati dalle aree rurali circostanti in cerca di lavoro nell’industria, ha ingenerato un fenomeno di degrado estetico ed ecologico della città che costituisce un esempio di eredità materiale indiretta. Anche il resto della vita socioeconomica della pianura circostante ne è stato influenzato. Infatti, accecati dal mito del lavoro moderno, molti contadini abbandonarono le loro attività non appena fu loro possibile. Però, il sogno del lavoro nell’industria svanì rapidamente, poiché quel tipo di

produzione industriale iniziò a entrare in crisi a partire dagli anni Ottanta, come ricorda un residente: “Devi sapere che oggi le poche aziende agricole nella pianura di Gela sono di proprietà di persone provenienti da altre cittadine [...] dove la gente non è stata accecata dall’illusione di lavorare nell’impianto. [...] Ecco perché l’agricoltura è ancora un settore redditizio della loro economia […]. Le nuove generazioni di Gela non erano più interessate a lavorare in agricoltura [...]. Ora ci sono molti disoccupati così come molti campi abbandonati” (Gennaio 2019). La drastica interruzione del rapporto delle popolazioni locali con le loro origini rurali ha causato una rottura nella trasmissione dei saperi agricoli tradizionali. Questa “mancanza di memoria” ha agevolato la diffusione di un modo di pensare produttivista che considera il suolo come “una cosa vuota e morta da cui estrarre il più possibile” (Shiva, 2016, p. 33).

Di conseguenza, i pochi campi coltivati nella pianura sono stati per lo più convertiti in monoculture intensive e serre, che contribuiscono ulteriormente a incrementare inquinamento ed erosione costiera. La loro alterazione è un altro “piccolo dato” che rivela un’eredità tossica indiretta (img. 03). Secondo uno studio di alcuni anni fa (Salvo et al., 2018), i terreni della piana di Gela vicini alla raffineria contengono concentrazioni di arsenico, piombo e nichel superiori ai limiti stabiliti dalla legge. Tuttavia, la potenziale contaminazione della pianura, dovuta ai pesticidi e alla presenza industriale, è ancora oggetto di dibattito, nonché fonte di dubbi e di valutazioni controverse, come dimostrano gli stralci delle interviste con due residenti: “Onestamente, dalla persona che ha il piccolo negozio locale […] e ti dice che i suoi prodotti sono coltivati nel suo giardino, non ci vado per comprare qualcosa perché il suo giardino è vicino all’impianto industriale” (Ottobre 2020).

Il primo punto di vista ha un tono più pessimista, il secondo più fatalistico: “Penso che preferiamo mangiare i prodotti locali […]. Dopotutto, se non subisci l’inquinamento dall’aria, allora lo ricevi dal terreno, insomma, qui a Gela non c’è via di scampo” (Ottobre 2020).

Il diffuso sentimento di sfiducia e insicurezza riguarda anche la salute umana. Per diversi anni, le malattie sono state considerate una questione privata da nascondere e di cui vergognarsi. Il senso di incertezza sulle cause e sulla probabilità di ammalarsi ha aleggiato per anni. Solo di recente, le iniziative di “epidemiologia popolare” da parte di attivisti locali (Privitera, 2021; Saitta e Pellizzoni, 2007), insieme a tre studi epidemiologici nazionali, hanno svelato e quantificato le eredità tossiche riscontrate nei corpi dei residenti e messo in luce l’alta incidenza di alcune malattie, come il cancro e le malformazioni neonatali. I dati rilevati interessano tutta la popolazione di Gela, indipendentemente dall’età, e sono esemplificativi dell’impatto transgenerazionale della contaminazione e delle sue eredità tossiche (Sandlos e Keeling, 2016). Mentre gli esseri umani, se subalterni, possono denunciare verbalmente le eredità tossiche, gli animali e le piante sono privi di voce, ma possono “parlare attraverso l’ambiente” (Biasillo e Tizzoni, 2020). Esempi di eredità

tossiche transcorporee possono essere letti in manifestazioni di alterazione drammatica della fauna e della flora marine, come mi hanno spiegato due pescatori: “Si sono verificati dei fatti insoliti […] Ad esempio, in alcuni casi, abbiamo trovato dei pesci con escrescenze e alterazioni cromatiche delle squame. In seguito, ci siamo resi conto che si trattava di una sorta di tumore […] Altre volte alcuni pesci sono stati colpiti da qualcosa di simile alla spina bifida” (Aprile 2021). “Molte specie di pesci sono ormai impossibili da trovare in questo tratto di mare, come il ‘cefalo’ (mugil cephalus), gli ‘Occhi di Santa Lucia’ (bolma rugosa) e anche i ‘muccuni’ (nassarius mutabilis), mentre in passato pescavamo almeno 20-30 casse di essi per ogni nave” (Gennaio 2019).

Le conversazioni con i pescatori compensano l’assenza (colpevole) di studi scientifici sistematici sulla contaminazione dell’acqua di mare. Sebbene l’intensità dell’esposizione del mare all’inquinamento sia diminuita dopo la chiusura dell’impianto nel 2014 e dopo che è iniziato il processo di riconversione verso una raffineria verde – un’operazione che ha sollevato non pochi dubbi – l’eredità della presenza industriale è ancora viva nei ricordi delle persone: “Quando avevo 7-8 anni (i primi anni Settanta) il colore del mare era spesso tra il giallo e il marrone perché gli scarichi e residui dell’industria venivano versati nella foce del fiume Gela. A quel tempo, la legge non era così severa, ma noi ci facevamo il bagno. Negli anni successivi, ce ne siamo resi conto e abbiamo cominciato a frequentare meno il lungomare” (Gennaio 2019). La relazione lacerata con il proprio ambiente di vita ha portato gli abitanti a evitare alcune aree, soprattutto le spiagge, perché percepite come insalubri e pericolose. Lo scheletro di uno stabilimento balneare chiamato “La Conchiglia” ne è una evidenza emblematica. Costruito contemporaneamente alla scoperta del petrolio, esso è stato per diversi anni una delle principali destinazioni turistiche in Sicilia, fino a quando, la messa in funzione dell’impianto e l’apparizione di macchie di catrame sulla spiaggia hanno indotto i bagnanti a cercare alternative. Sono presenti nella pianura di Gela anche altre infrastrutture abbandonate, come la “discarica Cipolla”, che hanno accolto tonnellate di materiali tossici. In attesa di interventi di recupero, queste aree sono inaccessibili al pubblico, e rappresentano un’altra forma di ingiusta espropriazione che ha lasciato cicatrici nel rapporto delle persone con il proprio paesaggio. Infine, una delle eredità tossiche meno tangibili, ma cruciali, consiste nell’occupazione dell’immaginario collettivo. Dopo decenni di propaganda tossica, che ha esaltato l’attività dell’azienda come l’unico percorso verso il benessere e la modernizzazione, che però silenziava ogni critica, oggi i residenti di Gela faticano a immaginare un’alternativa allo sviluppo disgiunto dall’attività industriale (Privitera, in stampa).

Conclusione

L’approccio “small, slow, and street” applicato a Gela ha permesso di intercettare piccoli dati che mettono in evidenza diversi tipi di eredità

tossiche, comprese quelle più nascoste. Possono essere riconosciute almeno tre dimensioni di eredità tossiche: narrativa, materiale e immateriale. La prima riguarda la contaminazione del discorso pubblico che, promosso dallo stato e dalle corporazioni, ha imposto verità ufficiali, mettendo a tacere i punti di vista alternativi e normalizzando le ingiustizie. La seconda, quella materiale, è relativa sia agli stravolgimenti paesaggistici dell’impatto industriale – infrastrutture, impianti, edifici, condutture, discariche, ecc. -, sia alle conseguenze sulla salute fisica e psicologica delle comunità umane e non umane. La terza, eredità tossiche immateriali, riguarda tutte quelle forme di eredità impercettibili, spesso causate da una forma di violenza lenta che si verifica gradualmente nel tempo e in modo diffuso nello spazio. Esse sono spesso legate a memorie, relazioni socio-spaziali, percezioni, traumi personali e collettivi.

Inoltre, per ogni categoria, ho identificato due sottocategorie: diretta e indiretta. La prima include tutte quelle eredità che sono state direttamente causate dalla realizzazione e attivazione dell’impianto; la seconda, invece, ha un legame causa-effetto meno immediatamente riconducibile ad essa. Tuttavia, è opportuno sottolineare che tali categorizzazioni, pur facilitando l’interpretazione delle diverse dimensioni delle eredità tossiche, nella realtà sono spesso più sfumate. Ad esempio, l’erosione costiera è stata causata direttamente dalla costruzione dell’impianto, che ha danneggiato le dune e alterato l’ecosistema costiero, ma anche, indirettamente, dalla diffusione delle serre in prossimità della linea costiera. Inoltre, questo contributo dimostra che l’approccio “small, slow, e street” è idoneo e utile per la creazione di cartografie basate sulla esperienza degli abitanti. La spazializzazione dei piccoli dati raccolti (img. 03) rivela le varie e multisfaccettate eredità tossiche incorporate nelle storie e nei corpi delle comunità umane e non umane di Gela. Questo articolo, benché centrato su uno studio di caso specifico in Italia, dimostra che un approccio “small, slow, and street” può essere applicato in altri paesaggi del rischio nel mondo, con i dovuti adattamenti richiesti dai diversi contesti.

Infine, cambiare metodologicamente ed epistemologicamente l’approccio dei ricercatori ai paesaggi del rischio non solo ha permesso di catturare e interpretare le molteplici sfumature delle eredità tossiche, ma lancia la sfida su come tale conoscenza possa essere utile alle politiche di pianificazione pubblica nei paesaggi del rischio, come Gela. Come ho argomentato altrove, la mappatura delle eredità tossiche, condotta assieme alle comunità, ha il potenziale di generare nuove riflessioni critiche e, immaginare visioni alternative per il futuro (Privitera, in stampa). Per questo motivo, tale tipo di approccio basato sulla comunità dovrebbe essere previsto tra gli strumenti di pianificazione mainstream applicati nei paesaggi del rischio, al fine di favorire una comprensione più completa delle eredità tossiche e di coinvolgere le comunità locali in percorsi di coproduzione della conoscenza e di riappropriazione della progettualità legato al territorio.*

Luca Zecchin

PhD, ricercatore in Composizione architettonica e urbana, DPIA, Università degli Studi di Udine. luca.zecchin@uniud.it

Siti orfani

01. La rovina della laveria di Arghentaria | The ruin of the laveria of Arghentaria. L. Zecchin, 2023

Orphan Sites Industrial pollution has left a legacy of many abandoned sites and toxic residues. Added to the areas officially recognized in remediation plans are so-called orphan sites. Under the PNRR, investment in orphan site remediation aims to recover the potentially contaminated soil of abandoned industrial areas for which the polluter cannot be identified, encouraging their regeneration and promoting the circular economy of territories. This research is deepened through the case study of the ex-mines of GuzzurraArghentaria in Sardinia.*

L’inquinamento industriale ha lasciato in eredità molti siti abbandonati e residui tossici. Alle aree riconosciute ufficialmente nei piani di bonifica si sommano i cosiddetti siti orfani. Nell’ambito del PNRR, l’investimento per la bonifica dei siti orfani mira a recuperare il suolo potenzialmente contaminato delle aree industriali abbandonate per cui non è individuabile il responsabile dell’inquinamento, favorendone la rigenerazione e promuovendo l’economia circolare dei territori.

La ricerca è approfondita attraverso il caso studio delle ex miniere di Guzzurra-Arghentaria in Sardegna.*

Il caso delle ex miniere di GuzzurraArghentaria

ndizi. Topografie più che umane

Abitiamo una nuova chimica della vita dove i genomi, l’atmosfera, l’acqua, il suolo, i nutrienti, le materie, i corpi, sono costretti in relazioni molecolari potenzialmente tossiche (Murphy, 2006).

Nel 1966 Mary Douglas contribuisce a sviluppare la comprensione delle sostanze tossiche e delinea i fondamenti delle ricerche sui rifiuti, l’inquinamento, l’ecologia (Douglas, 1966). Gli studi successivi rivelano chimiche, molecole, presenze ed eventi associati alle sostanze tossiche. È la costruzione dello strumentario cardine per sondare le questioni connesse all’eredità tossica, presente e potenziale futura (TenHoor et al. 2023). Le teorie della diluizione, le soglie e i limiti di tossicità descrivono i rischi in termini di capacità, presupponendo che i sistemi naturali e fisici possano resistere a specifici livelli di danno. Si tratta di un “nuovo materialismo” che va “oltre l’umano” (Liboiron, 2017), supera la durata della vita, connota gli spazi, altera il ritmo del tempo, interferisce con la crescita degli organismi. La sua eredità comprende la storia delle sostanze, i processi, le memorie, tra il fisico e il metaforico, entro la percezione dei luoghi come valore e come perdita. Le sostanze tossiche, prodotte artificialmente, si scoprono essere vere e proprie forme caratteristiche, forme che informano i paesaggi postindustriali (Clément, 2005), le aree dismesse (Lynch, 1990), i “drosscapes” (Berger, 2006), i siti contaminati (Berger, 2007), con tutti i corpi a essi correlati.

La tossicità è un concetto antropocentrico, legato al modo in cui le società hanno iniziato a gestire un’emergenza che coinvolge direttamente o indirettamente gli esseri umani. In natura tutto si mescola, nello spazio, nel tempo, negli organismi. Nulla può essere separato nettamente; tutto risulta interconnesso. I concetti di tempo e spazio si inscrivono simultaneamente in topografie più che umane, riproponendo sviluppi circolari, ritmici, stagionali, lunghi, che pensavamo sorpassati dai sistemi lineari. È lo scontro tra il tempo industriale progressivo e i processi di formazione cellulare e biorisanamento molto più lenti, incrementali, accrescitivi.

02. I siti orfani individuati dal PNRR | The orphan sites identified by the PNRR. L. Zecchin, G. Mangilli, 2024 ne conseguono (Ingold, 2022). Questo saggio illustra i primi esiti di una ricerca che esplora il progetto rigenerativo nell’intersezione tra sostanze tossiche, architetture e paesaggi1

Le architetture e i paesaggi tossici ci obbligano a ragionare su condizioni spaziotemporali larghe, dove la bonifica è imprescindibile, eppure da sola non è sufficiente. I danni tossici vanno oltre i singoli siti, superano i confini fisici e normativi.

È lo scontro tra il tempo industriale progressivo e i processi di formazione cellulare e biorisanamento molto più lenti

Partire da questa consapevolezza è sostanziale per tentare una ricerca di senso sulle eredità tossiche che ci inglobano. Significa passare dalla visione dei carichi corporei intesi come impatti isolati, a quella delle relazioni interconnesse di ambienti e società, con tutti i riposizionamenti del progetto che

Materiali. Spazi bianchi e buchi neri In Europa sono stati identificati 1,38 milioni di siti potenzialmente inquinati, concentrati in undici Paesi (EEA, 2022). Una volta confermata la presenza di attività inquinanti sospette, questi siti vengono classificati come “siti contaminati”. Si stima che su un totale di 2,8 milioni di siti sospetti, almeno due milioni saranno riconosciuti “inquinati” al completarsi dei registri statali. Attualmente, senza una legislazione europea specifica sul suolo, la gestione di questi siti è affidata a iniziative nazionali. Nell’Unione Europea, al 2016, sono stati bonificati 115 mila siti contaminati, corrispondenti all’8,3% dei siti registrati. Mentre le tecniche

di bonifica sono in continuo miglioramento, il divario tra bonifica e rigenerazione si traduce spesso in uno scollamento che evidenzia la necessità di radicare una reale cultura del suolo (EC, 2006-2019).

La storia delle bonifiche italiane ha inizio nel 1976 con il disastro di Seveso. La Legge Merli del 1982 è un primo tentativo di agire in modo preventivo, ma si concentra principalmente sull’aria e l’acqua, trascurando il suolo. Solo negli anni Novanta si inizia ad affrontare la bonifica delle terre contaminate. Nel 1997 il Decreto Ronchi disciplina in modo organico il settore, obbligando il responsabile dell’inquinamento a intervenire. Nel 2006 il Testo Unico Ambientale (Codice dell’Ambiente) raggruppa tutte le precedenti normative sparse. I Siti di Interesse Nazionale (SIN) e quelli Regionali (SIR) sono aree contaminate che richiedono interventi di bonifica. A queste aree, riconosciute ufficialmente nei piani di bonifica, si sommano i cosiddetti siti orfani, quelli dove non è più possibile individuare il responsabile dell’inquinamento e per i quali l’UE richiede la

creazione di un meccanismo di finanziamento pubblico per attuare la bonifica (Ombuen, 2003). Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha recentemente posto l’attenzione sui circa duecentosettanta siti orfani che costellano l’Italia (img. 02). Tutti questi siti disegnano una mappa a macchia di leopardo dove gli spazi bianchi conosciuti e i buchi neri sconosciuti permangono latenti. In Sardegna il PNRR ha da poco individuato sette siti orfani prioritari da bonificare. Si tratta di frammenti obliterati dell’antica storia mineraria dell’isola che con le sue importanti risorse geominerarie ne ha influenzato l’economia, la società e la cultura, annodando dipendenza e sfruttamento (Simoni et al. 2021). La dismissione riguarda il costruito divenuto paesaggio, il sottosuolo, le infrastrutture, il sistema insediativo, ambientale e sociale. Il valore architettonico, le dimensioni imponenti, la precarietà delle rovine, i vincoli sul riutilizzo, creano un insieme difficile da gestire (Peghin, 2016). Al patrimonio emerso si aggiunge una dimensione nascosta: le montagne scavate, i fenomeni di subsidenza, l’innalzamento delle acque sotterranee, la contaminazione dei suoli e delle acque. Si tratta di fisicità sostenute da tossicità che congelano un’ambigua fascinazione (Bachis, 2018). La miniera è un luogo mitico che racchiude memorie e identità collettive e, al contempo, è il documento di una storia sociale che non può essere dimenticata. I suoi luoghi manipolati, drammatici, pericolosi, danneggiati, ci offrono immaginari feriti: una dipendenza da condannare, un’eredità da preservare, una tossicità da rigenerare. Sono eccessi con un destino incerto, dove l’abbandono si innesta sulla marginalità dovuta a crisi economiche e sociali, degrado ambientale, spopolamento e impoverimento delle attività agricole e pastorali. La bonifica di questi siti va dunque significata anche alla luce della fragilità delle aree interne insulari.

Obiettivi. Avete detto sito orfano?

L’inquinamento industriale ha lasciato in eredità molti siti abbandonati e residui tossici. In Italia, “le aree da bonificare,

03. Il sito orfano di Guzzurra-Arghentaria situato ai piedi del Monte Albo nei pressi del centro storico di Lula | The Guzzurra-Arghentaria orphan site located at the foot of Mount Albo near the historic center of Lula. L. Zecchin, 2024

avvelenate da rifiuti e inquinamento di ogni tipo, riguardano oltre centomila ettari di territorio” (Legambiente, 2014). Si tratta di un rischio sanitario per le popolazioni esposte, una minaccia alla qualità di acqua, suolo e aria, uno spazio d’oblio forzato per comunità e territori. Marginali, poco conosciuti, ancora più fragili, i siti orfani sono uno dei lasciti più problematici della logica dell’economia lineare. Nell’ambito del PNRR, l’investimento per la “bonifica dei siti orfani” mira a “recuperare il suolo potenzialmente contaminato delle aree industriali abbandonate per cui non è individuabile il responsabile dell’inquinamento”, favorendone la rigenerazione e promuovendo l’economia circolare dei territori (MASE PNRR, 2022).

Quando attivata, la bonifica è solitamente vista come una fase a sé nel ciclo di vita di un sito. Isolata dal prima e dal dopo, dotata di autonomia tecnica e normativa che sta tra il tempo dell’uso produttivo e quello del nuovo uso. Il tempo terzo della bonifica è così un passaggio regolato da parametri sanitari, ambientali, chimico-fisici, dove il futuro è spesso irrilevante come lo diventa il passato nell’uso successivo.

po di ricerca particolarmente disponibile alla sperimentazione di nuove pratiche del progetto.

I temi della ricerca sono qui approfonditi in un caso studio paradigmatico, l’area delle ex miniere di Guzzurra-Arghentaria in Sardegna (img. 03). L’attività estrattiva di minerali zinco-piombo-argentiferi lascia gallerie, infrastrutture e architetture su un’area di circa 2,4 ha da poco classificata sito orfano da bonificare nell’ambito del PNRR. Il sito rientra nel Parco Geominerario Ambientale Storico (UNESCO) della Sardegna (Mezzolani, 2012) e dista pochi chilometri dal ben più noto sito di Sos Enattos, oggi al centro del progetto internazionale Einstein Telescope (ET).

Un progetto basato sulla memoria preservata e su piccole percorrenze, decise messe in sicurezza, macchine idrauliche e arboree per un paesaggio in rigenerazione

Integrando i modi del progetto di architettura attraverso il paesaggio, la costruzione dei necessari green fields artificiali può organizzare le bonifiche come attivatrici di cicli lunghi, di compensazione e riproduzione dei luoghi in trasformazione. L’inquinamento delle matrici ambientali, l’inconsistenza di chi ha inquinato, la marginalità dei contesti, la sostenibilità connessa ai processi di bonifica, fanno dei siti orfani un cam-

Metodi. Attraversare, raccogliere, combinare Esplorare il legame tra architettura, paesaggio e sostanze tossiche reclama l’uso di metodi del progetto che sollevino interrogativi e significati. Testare i limiti della forma per analizzare i processi spaziali e temporali generati dalle relazioni tossiche sollecita un approccio compositivo fratello si quello ecologico (Rubio, 2016). Considerando i processi naturali come il decadimento, l’umidità, il degrado, la materialità degli organismi, e collegando la storia delle forme a quella della società e dell’estetica, tale composizione va dagli oggetti ai processi, dai corpi alle interrelazioni, per saggiare le interferenze scalari, dalle micro-cellule ai macro-paesaggi, e interpretare i legami tra materie nello spazio e fisicità nel tempo. È una composizione che ci costringe a riflettere sulle strutture della realtà, tra nature e artifici, tra umani e non umani.

Lo studio avvia una research by design, nella prospettiva di fare ricerca utilizzando il progetto e i suoi strumenti per produrre conoscenza, un processo empirico di costruzione di conoscenza attraverso il progetto. È un progetto che parte dalla scoperta: il viaggio attraverso i luoghi raccoglie ciò che

ancora è visibile e ciò che rimane implicito nei luoghi (img. 06). Lo scopo è restituire lo spessore logico, tuttavia opaco, di tutto quanto è destinato a durare. Queste corporeità, tangibili o incerte, operano su più dimensioni e rappresentano un nesso insostituibile su cui basare ogni intervento progettuale. Perché l’eredità tossica permane irrinunciabile per la storia, l’ambiente, il paesaggio, la comunità, entro un progettoprocesso che combina disvelamento e rigenerazione.

Risultati. Eredità tossica PbS-Zn-Ag

L’idea del parco geominerario della Sardegna tarda a diventare operativa e le bonifiche procedono con difficoltà. Le recenti politiche europee sulla rivalutazione del potenziale residuo presente nei bacini minerari hanno riacceso l’interesse per i depositi di scarto delle lavorazioni. Le operazioni di bonifica potrebbero estrarre un nuovo valore dalla filiera economica connessa al lavaggio degli sterili abbandonati: tuttavia si tratta di processi ancora incerti. E intanto il sel-

vatico si combina con l’eredità tossica come accade anche a Guzzurra-Arghentaria.

La miniera sotterranea di Arghentaria viene chiusa alla fine degli anni Venti, dopo che dal 1862 si estrae la galena dai vecchi scavi all’aperto di epoca romana. Il sito si trova lungo il versante meridionale di Bruncu Sa Rezza, in una stretta valle che scende dalle falde del Monte Albo. Sui versanti sono visibili piccoli accumuli di materiale sterile, situati a valle delle gallerie, e le rovine della laveria lungo il corso d’acqua (img. 01). Il sito contiene tre discariche su una superficie di 4.929 m2, con un volume di 9.858 m3. La miniera sotterranea di Guzzurra si trova alle pendici del Monte Albo, lungo due strette valli, dominato dai ruderi dell’ex villaggio operaio. Nel 1867 erano già stati scavati oltre mille metri di gallerie nei filoni di galena che affiora in superficie.

Nel 1870 viene realizzata una delle prime laverie meccaniche della Sardegna, di cui rimane la rovina massiccia (img. 04). Abbandonata alla fine degli anni Venti, negli anni Sessanta si

04. La rovina della laveria di Guzzurra | The ruin of the laveria of Guzzurra. L. Zecchin, 2023

tentò di riprendere l’attività, senza prestare attenzione alle questioni ambientali. Gli effetti dell’attività mineraria sono visibili lungo le linee di drenaggio, con accumuli di scarti di lavorazione, materiali sterili di tracciamento e imbocchi

Condizioni spaziotemporali

larghe, dove la bonifica è imprescindibile, eppure da sola non è sufficiente

di galleria non protetti. Il sito contiene sette discariche e due bacini di fanghi, su una superficie di 18.491 m2, con un volume di 36.982 m3. Lo stato di contaminazione classifica tutta l’area come sito come “potenzialmente inquinato con priorità 1” (RAS, 2003).

I processi naturali hanno iniziato ciò che l’uomo non ha fatto ancora. Le rovine instabili sono attese alla riappropriazione

vegetale e animale. L’attrazione esercitata su nuove comunità di camminatori e sui pochi conoscitori dei racconti dei minatori rianima saltuariamente alcuni percorsi in abbandono. Si tratta di azioni deboli che prefigurano una diversa fruibilità di questi luoghi. E sono segnali che indicano la necessità di prendere le distanze, di sondare un progetto basato sulla memoria preservata e su piccole percorrenze, decise messe in sicurezza, macchine idrauliche e arboree per un paesaggio in rigenerazione. Sono le operazioni compositive che verosimilmente possono costruire un progetto significativo, eppure discreto, misurato, processuale, in movimento.

Aperture. Rovine, macchine ibride, micropercorsi e percezioni

L’eredità tossica intesse relazioni del tempo nello spazio di non facile interpretazione e sensibile alla sperimenta-

05. Le macchine ibride e i micropercorsi percettivi della bonifica rigenerativa | The hybrid machines and perceptual micropaths of regenerative reclamation. L. Zecchin, 2023

06. Il visibile e l’implicito dell’eredità tossica di Guzzurra-Arghentaria | The visible and the implicit of Guzzurra-Arghentaria’s toxic legacy. L. Zecchin, 2023

zione progettuale. Il sito orfano di Guzzurra-Arghentaria mostra come le forme visibili e invisibili del contesto, desiderano un ripensamento dello strumentario del progetto di architettura attraverso il paesaggio, di conoscenza e interpretazione critica. Attraverso i luoghi, tale progetto raccoglie il mnemonico e il visibile, mostrando la trasformazione in atto come condizione di per sé significante. Non si tratta di una rinuncia al progetto; al contrario, tale approccio denuncia una scelta precisa.

Le risorse economiche e le possibilità di riutilizzo dei luoghi sono limitate. Il progetto dovrà quindi concentrarsi sulle misure di messa in sicurezza e sulla conservazione delle rovine nella natura artificiata. È una ricerca di senso che mira a una diversa accessibilità. Micro percorsi, soste e servizi dovranno sottolineare i rischi e stabilire le zone inaccessibili. Il riutilizzo limitato, il consolidamento e la messa in sicurezza potranno saldare le rovine come testimoni del passato e denunce degli impatti. Dispositivi paesaggistici come macchine ibride, di acque e vegetazioni, permetteranno ai cicli naturali di riassorbire i suoli contaminati, accettando il ruolo dell’uomo come mero osservatore. Il selvatico connoterà il paesaggio in funzione dell’avanzare della bonifica mediante il fitorimedio associato alle acque e al loro trattamento e riutilizzo per il lavaggio dei terreni e la subirrigazione delle nuove matrici arboree. La rinaturalizzazione estesa e il riuso prudente sono le operazioni rigenerative dello spazio nel tempo, minimizzando gli interventi basilari alla fruizione, per parti successive, organizzando un processo adattivo di natura artificiata che fa leva sul suolo, l’acqua, la vegetazione (img. 05). È un progetto di tipo adattivo, che sottende un ripensamento culturale, tecnico e procedurale della bonifica, superando le concezioni e le pratiche meramente settoriali, identificando la bonifica stessa come una forma. È la forma di uno strato ecologicamente orientato, capace di insediare percezioni di tipo esperienziale e induttivo, collaborando a innescare processi rigenerativi credibili e insieme architetture di paesaggio in transizione.*

NOTE

1 – Zecchin, L. (2023-in progress). ToxicTecture. Metodi e strumenti per interventi integrati di rigenerazione di insediamenti produttivi contaminati ai fini del miglioramento della resilienza La ricerca, sviluppata presso il DPIA, è finanziata dall’Università degli Studi di Udine nell’ambito delle iniziative a supporto del Piano Strategico di Ateneo 2022-25, Progetto Interdipartimentale ESPeRT (Energia, Sostenibilità dei Processi produttivi e Resilienza territoriale per la Transizione Ecologica).

REFERENCES

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Ombuen, S. (2003). Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati. AreaVasta, n. 6/7, pp. 110-114.

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Clues. More-than-human topographies

We inhabit a new chemistry of life where genomes, atmosphere, water, soil, nutrients, matter, bodies, are constrained in potentially toxic molecular relationships (Murphy, 2006). In 1966, Mary Douglas contributed to developing the understanding of toxic substances and outlined the foundations of research on waste, pollution, and ecology (Douglas, 1966). Subsequent studies reveal chemicals, molecules, presences, and events associated with toxic substances, thus building the toolkit for probing the present and potential future toxic legacy (TenHoor, Varner, 2023). Theories of dilution, thresholds and limits of toxicity describe risks in terms of capacity, assuming that natural and physical systems can withstand specific levels of harm. This “new materialism” goes “beyond the human” (Liboiron, 2017), transcends lifespan, connotes spaces, alters the rhythm of time, interferes with the growth of organisms. Its legacy includes the history of substances, processes, memories, between the physical and the metaphorical, within the perception of places as value and as loss. Toxic substances, artificially produced, turn out to be true characteristic forms, forms that inform post-industrial landscapes (Clément, 2005), brownfields (Lynch, 1990), “drosscapes” (Berger, 2006), and contaminated sites (Berger, 2007), with all related bodies.

Toxicity is an anthropocentric concept, related to the way societies have begun to deal with an emergency that directly or indirectly involves humans. Everything in nature is mixed, in space, in time, in organisms. Nothing can be cleanly separated; everything turns out to be interconnected. The concepts of time and space are simultaneously inscribed in morethan-human topographies, repurposing circular, rhythmic, seasonal, long developments that we thought overtaken by linear systems. Progressive industrial time collides with the much slower incremental and accretionary processes of cell formation and bioremediation. Toxic architectures and landscapes force us to think about broad spatiotemporal conditions,

Orphan Sites

The Case of the Ex-mines of Guzzurra-Arghentaria

where remediation is imperative, yet alone is not enough. Toxic damages go beyond individual sites, transcending physical and regulatory boundaries. To attempt a search for meaning about the toxic legacies that surround us, it is substantial to start with this awareness. It means moving from a view of body burdens understood as isolated impacts, to one of the interconnected relationships of environments and societies, with all the repositioning of project that entails (Ingold, 2022).

This essay illustrates the early outcomes of research exploring regenerative project at the intersection of toxic substances, architectures, and landscapes1.

Materials. White spaces and black holes

In Europe, 1,38 million potentially polluted sites have been identified, concentrated in eleven countries (EEA, 2022). Once the presence of suspected polluting activities is confirmed, these sites are classified as “contaminated sites.” It is estimated that out of a total of 2,8 million suspected sites, at least two million will be recognized as polluted when state registers are completed. Currently, with no specific European soil legislation, the management of these sites is left to national initiatives. In the European Union, as of 2016, 115 thousand contaminated sites have been remediated, corresponding to 8,3% of registered sites. While remediation techniques have been continuously improving, the gap between remediation and regeneration often results in a disconnection that highlights the need to root a real soil culture (EC, 2006, 2011, 2015, 2019).

The history of Italian remediation began in 1976 with the Seveso disaster. The 1982 Merli Law is an early attempt at preventive action, but it focuses mainly on air and water, neglecting soil. It was not until the 1990s that the remediation of contaminated land began to be addressed. In 1997, the Ronchi Decree organically regulated the sector, obliging the polluter to act. In 2006, the Environmental Consolidation Act (Environment Code) brought together all the previous scattered regulations. Sites of national interest

(SIN) and regional sites of interest (SIR) are contaminated areas that require remediation. Socalled orphan sites are added to these officially recognized areas in remediation plans. Orphan sites are those where the polluter can no longer be identified and for which the EU requires the creation of a public funding mechanism to implement remediation (Ombuen, 2003). The National Recovery and Resilience Plan (PNRR) has recently focused attention on the approximately two hundred and seventy orphan sites scattered throughout Italy (img. 02). All these sites draw a patchy map where known white spaces and unknown black holes remain latent. In Sardinia, the PNRR has recently identified seven priority orphan sites for reclamation. These are obliterated fragments of the island’s ancient mining history, which influenced its economy, society and culture with its important geo-mineral resources, knotting dependence and exploitation (Simoni, Zucca, Merlini, 2021). The decommissioning affects the built landscape, and subsoil, the settlement, environmental, and social systems. The architectural value, the imposing size, the precariousness of the ruins, and the constraints on reuse create a whole that is difficult to manage (Peghin, 2016). The invisible dimension of excavated mountains, subsidence phenomena, rising groundwater, and soil and water contamination adds to the visible heritage. These are physicalities sustained by toxicities that freeze an ambiguous fascination (Bachis, 2018). The mine is a mythical place that holds collective memories and identities and, at the same time, is the document of a social history that cannot be forgotten. Its manipulated, dramatic, dangerous, damaged places offer us wounded imaginaries; an addiction to condemn, a legacy to preserve, a toxicity to regenerate. They are excesses with an uncertain fate, where abandonment is grafted onto marginality due to economic and social crises, environmental degradation, depopulation, and impoverishment of agricultural and pastoral activities. The reclamation of these sites must therefore also be signified considering the fragility of inland areas.

Objectives. Did you say orphan site?

Industrial pollution has left a legacy of many abandoned sites and toxic residues. Recent studies reveal that in Italy the “areas to be reclaimed, poisoned by waste and pollution of all kinds, cover more than one hundred thousand hectares of land” (Legambiente, 2014). This is a health risk for exposed populations, a threat to the quality of water, soil and air, a space of forced oblivion for communities and territories. Marginal, little known, even more fragile, orphan sites are one of the most problematic legacies of the logic of the linear economy. Under the PNRR, investment in “orphan site remediation” aims to “recover the potentially contaminated soil of abandoned industrial areas for which the polluter cannot be identified”, encouraging their regeneration and promoting the circular economy of the territories (MASE PNRR, 2022). When activated, remediation is usually seen as a stand-alone phase in the life cycle of a site. Isolated from a before and an after, endowed with technical and regulatory autonomy that stands between the time of productive use and that of new use. The time of remediation is thus a passage regulated by sanitary, environmental, chemical and physical parameters. In this sort of intermediate time, the future is often irrelevant just as the past becomes irrelevant in the new use. By integrating the modes of architectural project through landscape, the construction of the necessary artificial green fields can organize reclamation as activators of long cycles, of compensation and reproduction of transforming places. The pollution of environmental matrices, the inconsistency of polluters, the marginality of contexts, and the sustainability associated with reclamation processes make orphan sites a field of research particularly available for experimentation with new project practices. The research themes are explored here in a paradigmatic case study, the area of the former Guzzurra-Arghentaria mines in Sardinia (img. 03). The zinc-lead-silver ore mining activity returns tunnels, infrastructure and architecture on an area of about 2.4 ha recently classified as an orphan site to be reclaimed under the PNRR. The site is part of the UNESCO Historical and Environmental Geo-mining Park of Sardinia (Mezzolani, 2012) and is a few kilometers from the much better-known site of Sos Enattos, now the focus of the international Einstein Telescope (ET) project.

Methods. Traverse, collect, combine Exploring the link between architecture, landscape, and toxic substances claims the use of project methods that raise questions and meanings. Testing the limits of form to analyze the spatial and temporal processes generated by toxic relationships urges a sibling compositional approach is that of ecology (Rubio, 2016). Considering natural processes such as decay, moisture, degradation, and the materiality of organisms, and linking the history of forms to that of society and aesthetics, such composition goes from objects to processes, from bodies to interrelationships. The aim is to essay scalar interferences, from microcells to macrolandscapes, and to interpret the links between

matter in space and physicality in time. It is a composition that forces us to reflect on the structures of reality, between natures and artifices, between humans and non-humans. The study initiates research by design, from the perspective of doing research using the architectural project and its tools to produce knowledge, an empirical process of knowledge construction through the architectural project. It is a research that starts from discovery. The journey through places gathers what is still visible and what remains implicit in places (img. 06). The aim is to restore the logical, yet opaque, thickness of all that is meant to last. These corporealities, tangible or uncertain, operate on multiple dimensions and represent an irreplaceable nexus on which to base any design intervention. For the toxic legacy remains inalienable to history, environment, landscape, community, within a project-process that combines unraveling and regeneration.

Results. PbS-Zn-Ag toxic legacy

Full realization of the idea of the geomineral park of Sardinia appears far off, and reclamation is proceeding with difficulty. Recent European policies on re-evaluating the residual potential present in mining basins have rekindled interest in processing waste deposits. Reclamation operations could extract new value from the economic chain associated with cleaning abandoned tailings. However, these are still uncertain processes, and in the meantime as is also happening in Guzzurra-Arghentaria, the wild is combining with the toxic legacy.

The underground mine at Arghentaria was closed in the late 1920s, after galena had been extracted from old open-air excavations dating back to Roman times since 1862. The site is located along the southern slope of Bruncu Sa Rezza, in a narrow valley descending from the slopes of Mount Albo. Small accumulations of barren material, located downstream of the galleries, and the ruins of the laveria along the watercourse are visible on the slopes (img. 01). The site contains three dumps over an area of 4,929 m2, with a volume of 9,858 m3. The Guzzurra underground mine is located on the slopes of Mount Albo, along two narrow valleys, dominated by the ruins of the former workers’ village. By 1867, more than a thousand meters of galleries had already been excavated in the strands of galena rising to the surface. In 1870 one of the first mechanical laverie in Sardinia was built, the massive ruin of which remains (img. 04) abandoned in the late 1920s, attempts were made to resume operations in the 1960s, without paying attention to environmental issues. The effects of mining can be seen along the drainage lines, with accumulations of processing waste, barren tracking materials and unprotected tunnel embankments. The site contains seven dumpsites and two sludge ponds, covering an area of 18,491 m2, with a volume of 9,858 m3. The contamination status classifies the entire area as a “potentially polluted site with priority 1” (RAS, 2003). Natural processes have initiated what man has not yet done. Unstable ruins are subject to plant and animal reappropriation, and the at-

traction exerted on new communities of walkers and the few connoisseurs of miners’ tales occasionally revives some abandoned routes. These are weak actions that foreshadow a different usability of these places, indicating the need to distance oneself, to probe a project based on preserved memory and small pathways, decisive securing, hydraulic and tree machines for a regenerating landscape. These are the compositional operations that are likely to build a meaningful, yet discrete, measured, processual, moving project.

Openings. Ruins, hybrid machines, micro paths and perceptions

Toxic legacy weaves relationships of time in space that are not easy to interpret and sensitive to project experimentation.

The orphan site of Guzzurra-Arghentaria shows how the visible and invisible forms of context desire a rethinking of the instrumentarium of architectural project through landscape, knowledge and critical interpretation. This project brings together the mnemonic and the tangible in places, showing the ongoing transformation as a significant condition. Such an approach denounces a definite design choice. Economic resources and possibilities for reuse of the sites are limited. Therefore, the project should focus on securing measures and preserving the ruins in the artificial nature. It is a search for meaning that aims for a different accessibility. Micro paths, stops and services will have to emphasize risks and establish inaccessible areas. Limited reuse, consolidation and securing will be able to weld ruins as witnesses of the past and denunciations of impacts. Landscape devices as hybrid machines, of water and vegetation, will allow natural cycles to reabsorb contaminated soils, accepting the role of humans as mere observers. Phytoremediation associated with water and its treatment and reuse for soil washing and subirrigation of new tree matrices will connote the wild landscape as reclamation progresses. Extensive renaturalization and prudent reuse are the regenerative operations of space over time, minimizing basic interventions to fruition, by successive parts, organizing an adaptive process of an artificial nature that leverages soil, water, and vegetation (img. 05). It is an adaptive type of project, which underlies a cultural, technical and procedural rethinking of reclamation, going beyond merely sectoral conceptions and practices, identifying reclamation itself as a form. It is the form of an ecologically oriented stratum, able to settle experiential and inductive perceptions, collaborating to trigger credible regenerative processes and together transitional landscape architectures.*

NOTES

1 – Zecchin, L. (2023-in progress). ToxicTecture. Methods and tools for integrated interventions for the regeneration of contaminated productive settlements to improving resilience. This research, developed at DPIA, is funded by the University of Udine as part of initiatives supporting the University Strategic Plan 2022-25, Interdepartmental Project ESPeRT (Energy, Sustainability of Production Processes and Territorial Resilience for Ecological Transition.

Andrea Cadelano

Dottorando in Ingegneria civile e architettura, DICAAR, Università di Cagliari. andrea.cadelano@unica.it

Andrea Manca

PhD e borsista di ricerca in Composizione architettonica e urbana, DICAAR, Università di Cagliari. amanca@unica.it

Presidi militari costieri in Sardegna

01.

Manifesto della costa militare. Il territorio di Capo Teulada | Military Coastal Manifesto. The territory of Capo Teulada. C. Dasesson

Coastal Military Posts in Sardinia The Sardinian coast is characterised by the historical presence of military sites; today Capo San Lorenzo to the east, Capo Teulada to the south-west and Capo Frasca to the west remain. These sites cover considerable areas – 12,700, 7,500, and 1,400 hectares respectively – and correspond to large stretches of sea which, although occasionally used for training, are otherwise closed to access and use. This restriction hinders primary productive activities and the appreciation of the area’s environmental, historical, and cultural heritage. The research starts from recognising the landscape features and the different aspects that converge within the active military garrisons, aiming to identify new territorial strategies and settlement scenarios, thus moving towards a new level of palimpsest.*

Il litorale sardo è interessato dalla storica presenza di siti militari. Tra questi, oggi permangono Capo San Lorenzo a est, Capo Teulada a sud-ovest, e Capo Frasca a ovest. La loro notevole estensione, rispettivamente 12.700, 7.500 e 1.400 ha, corrisponde ad ampi tratti a mare; questi ultimi, pur utilizzati in maniera sporadica per scopi di addestramento, risultano tuttavia interdetti all’accesso e all’uso, impedendovi sia le attività produttive primarie, sia la fruizione del patrimonio ambientale e storico-culturale. La ricerca muove dal riconoscimento dei caratteri paesaggistici e dalle istanze, di varia natura, convergenti nei presidi militari in attività, con l’intento di individuare inediti dispositivi territoriali e scenari insediativi, volgendosi a un nuovo livello del palinsesto.*

Abbandoni latenti e coesistenze possibili

ntroduzione1

Negli anni Cinquanta, mentre il turismo di massa innesca una repentina e incontrollata colonizzazione della costa, un altro fenomeno di occupazione interessa il litorale sardo, attraverso l’insediamento di poligoni militari di addestramento e sperimentazione, di cui oggi permangono quello interforze del Salto di Quirra, quello per esercitazioni a fuoco di Teulada e quello per esercitazioni aeree di Capo Frasca.

Gli oltre 21.000 ha di estensione complessiva di questi ambiti, a cui si aggiungono i circa 14.000 ha gravati da servitù militare (img. 02), situano in Sardegna oltre il 60% dell’intero territorio difensivo nazionale; costituiti in buona misura da comparti litoranei, questi sono esclusi dalle dinamiche insediative e produttive, poiché continuativamente interdetti all’accesso.

A quasi settant’anni dall’insediamento militare nelle coste sarde, alcuni dei presidi risultano oggi sottoutilizzati, manifestando una condizione di abbandono latente. La loro prolungata esclusione dagli usi civili impone una più ampia riflessione che, scevra da pregiudiziali ideologiche, ne riconosca l’eccezionale valore paesaggistico e delinei un processo di valorizzazione ambientale capace di contemplare le storiche attività economiche primarie e promuovere un modello ecologico di sviluppo turistico.

Alla luce di ciò, la ricerca muove dal riconoscimento dei caratteri paesaggistici dei presidi militari costieri attualmente in attività, con l’intento di individuare nuovi dispositivi territoriali e inediti scenari insediativi fondati sulla possibile convivenza delle molteplici anime del territorio litoraneo sardo. A partire dalle letture cartografiche, sulla scorta di recenti ricerche e progettualità affini, lo studio esplora un nuovo livello nel palinsesto capace di integrare, alle condizioni di attività dei singoli poligoni militari, le esigenze produttive della pesca, dell’allevamento e dell’agricoltura, sviluppando inoltre le potenzialità turistiche del diffuso patrimonio ambientale e storico-culturale.

La cornice proiettiva presuppone che questo coordinamento avvenga attraverso dispositivi temporali e spaziali orientati all’alternanza d’uso, ridisegnando e declinando di volta in volta il sistema del limite e del bordo e definendo una armatura connettiva capace di mettere a sistema gli elementi costitutivi del territorio, fortemente compromesso da decenni di attività militare.

Presidi militari costieri in Sardegna

L’attribuzione, nei primi anni Cinquanta, del ruolo di punto operativo dell’apparato militare italiano alla Sardegna da parte della NATO, determina la comparsa, nel triennio 1956-1959, dei tre presidi addestrativi costieri di Salto di Quirra – Capo San Lorenzo, Capo Teulada e Capo Frasca-Decimomannu (Sistu e Strazzera, 2023), a cui si aggiungono, nella seconda metà degli anni Sessanta, i poli adibiti a deposito militare di Cagliari, nel promontorio della Sella del Diavolo, e della Maddalena, nell’Isola di Santo Stefano (Chiri e Fiorino, 2023).

Al progressivo incremento delle aree di proprietà del demanio militare, corrisponde, oltre il perimetro degli impianti, quello delle servitù militari che, per motivi di funzionalità e sicurezza, esercitano restrizioni del diritto di proprietà, d’uso e d’accesso, proiettate dalla terraferma al mare, in funzione del profilo di ciascun poligono.

Tralasciando i casi di Cagliari e della Maddalena, considerando che per il primo è in atto (Colavitti et al., 2023) e per il secondo è già avvenuta la definitiva dismissione (Colavitti et al., 2023; Chiri e Fiorino, 2023), attualmente le basi militari costiere presenti in territorio isolano sono tre. In ordine di estensione, la prima è il poligono sperimentale e di addestramento interforze di Salto di Quirra (img. 03) che, situato nella parte sud-orientale dell’isola, si estende su un vasto altopiano degradante verso la costa. La base è divisa in due grandi sottosistemi: un “poligono a terra” di 12.000 ha nel comune di Perdasdefogu, entro cui ha sede anche il comando, e un “poligono a mare” di

02. Transetti territoriali militari. Localizzazione ed estensione dei presidi costieri ancora attivi in Sardegna | Military Territorial Transects. Localisation and extension of the coastal garrisons still active in Sardinia. A. Cadelano, A. Manca

03. Diacronie dell’occupazione. Sequenze fotografiche e mistificazioni dei presidi costieri militari, Quirra-Capo San Lorenzo | Occupation diachronies. Photographic sequences and mystifications of military coastal garrisons, Quirra-Capo San Lorenzo. A. Cadelano, A. Manca duemila ha, a Capo San Lorenzo, nel comune di Villaputzu. Il poligono militare di Capo Teulada (img. 04), secondo per dimensioni, è situato nella parte sud-ovest della Sardegna, nel comune di Teulada; affidato all’esercito italiano e messo a disposizione dalla NATO, è adibito a esercitazioni terra-aria-mare. Quest’ultimo è anche il secondo poligono d’Italia per estensione, con oltre 7.000 ha di superficie a cui si aggiungono i 75.000 ha delle attigue servitù militari. Infine, il poligono di Capo Frasca (img. 05), sito sulla costa occidentale, nel comune di Arbus, è un presidio dell’aeronautica italiana a disposizione delle forze NATO, per esercitazioni di tiro a fuoco aria-terra e mare-terra. Esteso a terra per circa 1.400 ha, esso impegna anche una servitù marina interdetta alla navigazione nei comuni di Arbus e Terralba e si pone in diretta relazione funzionale con l’aeroporto militare di Decimomannu, sebbene distante circa 60 km.

Uno sguardo attento scorge, pur nell’attuale annichilimento imposto, il reale valore di queste aree, accomunate da palinsesti territoriali ricchi di valenze paesaggistiche di grande rilevanza. Sul piano ambientale, queste sono attestate, in primis, dalla natura litoranea e dalle relative caratteristiche morfologiche ed ecosistemiche, soprattutto se ciò si relaziona a un ambito lagunare e di zone umide ampie e complesse, come ad esempio avviene nei casi di Capo Teulada e Capo Frasca. Al contempo nell’immediato entroterra si presentano variamente sistemi dunali, distese di macchia mediterranea e aree boscate che, quando non compromesse dalle attività belliche, risultano proprio e pa-

radossalmente tutelate dalla presenza militare. Sul piano insediativo, anche solo considerando il loro attuale valore strategico, è possibile intavolare una preliminare riflessione sui caratteri morfologici che contraddistinguono questi ambiti, in prima istanza quello di essere propaggini costiere, aspetto storicamente orientante nelle scelte produttive e difensive, di cui permangono ben visibili testimonianze. Ciascuna delle aree, infatti, mostra presenze archeologiche riferibili alla cultura nuragica, cui si sovrappongono, a ridosso della costa, le torri di epoca aragonese e sabauda. Il perdurare della presenza umana è inoltre visibile dalle figure di paesaggio che attestano la stratificazione delle storiche attività primarie – agricoltura, pastorizia e pesca – la cui continuità viene bruscamente interrotta a seguito

Sistemi dunali, distese di macchia mediterranea e aree boscate che, quando non compromesse dalle attività belliche, risultano proprio e paradossalmente tutelate dalla presenza militare

della costruzione dei presidi militari. Infine, in prospettiva futura, è altrettanto doveroso soffermarsi sul valore dello stesso patrimonio architettonico difensivo del XX secolo, per il quale risulta necessario un pensiero capace di riabilitare il significato di questi segni della storia recente e controversa.

Nuovi paradigmi tra abbandoni latenti e coesistenze possibili

La straordinaria estensione dei territori ad appannaggio militare ha, come facilmente intuibile, determinato un controverso dibattito a livello nazionale e regionale già dai primi periodi di impianto, in considerazione del rapporto costi-benefici – di diversa natura – derivanti dalla presenza dei presidi nelle comunità locali. I piani critici su cui il dibattito si costituisce possono essere riassunti in quattro punti. Il primo, di natura amministrativa, considera la progressiva assimilazione degli organi regionali come parte in causa nella programmazione delle attività militari e nella tutela dei luoghi, nonché nella potenziale riacquisizione collettiva dei beni militari potenzialmente dismissibili2. Il secondo, di natura sanitaria,

Se in questi luoghi coesistere significa praticare l’alternanza degli usi, è altrettanto auspicabile sperimentare modalità di compresenza, nelle condizioni in cui le esercitazioni condotte siano “in bianco”, ovvero non prevedano l’uso di armi

si ricollega alle conseguenze delle esercitazioni militari e al rilevamento di elevate concentrazioni di uranio impoverito e altri materiali radioattivi all’interno dei poligoni di tiro, causa accertata da un’incidenza anomala e radicata di neoplasie, aborti spontanei e malformazioni denominata “sindrome di

Quirra”3 (Esu, 2024). Il terzo, di natura ambientale, pur ricollegandosi a quest’ultimo sul piano delle cause, si manifesta nella compromissione dei luoghi determinata da decenni di esercitazioni belliche, che hanno pregiudicato l’equilibrio ecosistemico, nonché dalla necessità di bonificare estese superfici interessate dalla presenza di ordigni inesplosi, oltre a scorie e rifiuti pericolosi (Sistu e Strazzera, 2023). Il quarto, di natura produttiva, prendendo in considerazione la condizione di limitazione all’accesso, alla proprietà e all’uso derivante dalla presenza militare, ne contempla gli effetti sulle attività primarie, agricole, pastorali e ittiche, così come per la mancata valorizzazione turistica. Lo studio condotto, individuando il suo campo problematico a partire da queste considerazioni, si volge all’individuazione di assetti proiettivi che considerino inedite modalità di apertura, muovendosi, nel campo delle ipotesi, verso scenari possibili di convivenza. Quest’ultima considerazione si fonda su un ragionamento deduttivo a partire dalla quantità e qualità delle attività di addestramento svolte, dalle modalità di programmazione e, soprattutto, dai dispositivi normativi in fase di definizione4 e dai paradigmi di apertura all’uso, sotto la pressione delle istanze locali, che nei decenni trovano adozione e implementazione. Il primo riscontro si identifica nel riconoscimento di un contributo annuo statale, a titolo di indennizzo, destinato ai proprietari di immobili e agli operatori del settore ittico nelle zone interessate dalle esercitazioni5. Un ruolo fondamentale in tutte le fasi di negoziazione è riconosciuto al coordinamento della calendarizzazione delle attività. Tra accordi e mancate attuazioni, ciò ha determinato, nei presidi di Capo Teulada e Capo

04. Diacronie dell’occupazione. Sequenze fotografiche e mistificazioni dei presidi costieri militari, Capo Teulada | Occupation diachronies. Photographic sequences and mystifications of military coastal garrisons, Capo Teuada. A. Cadelano, A. Manca

Frasca, dispositivi per il couso da parte della popolazione civile di 2.600 ha per il primo e 400 ha per il secondo6, nei periodi di inattività militare, sia in aree destinate al pascolo e all’agricoltura, sia lungo la fascia costiera, nonché la libera pesca nelle aree immediatamente prospicienti il poligono7. La graduale concessione ha inoltre considerato la possibilità d’utilizzo, a seguito della decisione di interrompere le attività esercitative nei mesi estivi, così come nelle festività principali dell’anno e durante i giorni festivi, di alcune aree litoranee ai fini turistici, favorendo così il potenziale di valorizzazione e il relativo sviluppo economico derivante dall’incremento dell’offerta di balneazione: negli ultimi anni sono stati allentati i vincoli per gli arenili di Porto Tramatzu e Sabbie Bianche relativamente a Capo Teulada, di Murtas presso Capo San Lorenzo e di S’Enna ’e S’Arca a Capo Frasca, per il quale, inoltre, è riconosciuta una speciale area di tutela archeologica, preludio all’auspicata fruizione storico-culturale8.

Tali riscontri sembrano mostrare una condizione di abbandono latente, supponendo un processo di inesorabile trasformazione dei beni demaniali militari: prima preclusi all’uso collettivo, anticommons, poi estendendo l’uso promiscuo militare e civile, semicommons, infine sdemanializzati nelle porzioni inutilizzate, definitivamente commons, ossia beni comuni (Balletto et al., 2020). Per compiere questo auspicabile processo è necessario operare tanto sul piano normativo, quanto su quello del progetto, attraverso la prefigurazione degli scenari di coesistenza possibile e incrementale tra usi e fruitori, contemplando un programma alternativo capace di mostrare prospettive di sviluppo territoriale fondate sulla tutela, la valorizzazione e l’accessibilità dei paesaggi. Un orizzonte che implica una sempre maggiore sinergia tra istituzioni e comunità del territorio, volgendosi a un nuovo immaginario diffuso, capace di al-

lontanare dall’idea di eredità tossica che tutt’ora segna questi luoghi, il cui lascito più marcante è la cronica incapacità di conciliare le vicendevoli istanze nell’ottica della tutela.

Progettare la coesistenza

Lo studio si propone di promuovere la valorizzazione e, al contempo, la riappropriazione collettiva di luoghi, attraverso la ricomposizione delle relazioni territoriali, a distanza e temporalità variabile, proiettando un sistema organico e intellegibile di elementi del paesaggio che generino un nuovo livello del palinsesto. Le coesistenze possibili si delineano a partire dalle forme di apertura in via di sperimentazione, all’interno delle quali avanzare progressivamente una nuova trama di relazioni fisiche e di senso, capaci di ricostituire quelle perdute e definirne di nuove.

In questa prospettiva, emerge il ruolo preminente del confine che, figurativamente declinato nell’accezione etimologica di lacerazione, rappresenta il luogo preferenziale per l’innesco del processo di “rimarginazione”. Letto nella duplice accezione di limite e di bordo, esso rappresenta il principio del luogo precluso e, al contempo, la soglia dove diverse parti interagiscono (Pirina e Comi, 2021); questo, nel proprio valore architettonico – spaziale e processuale – diviene il dispositivo su cui progressivamente restringere il campo di esistenza delle servitù e la sede su cui innestare, osmoticamente, azioni che accomunano interno ed esterno, riammagliando i lembi con reciproca rivitalizzazione.

Il processo di apertura ipotizzato può essere espresso in maniera ideogrammatica (img. 06); la rappresentazione mostra come all’interno delle coordinate spazio-temporali sintetizzate sia possibile riconoscere un andamento variamente sinusoidale della superficie interessata dalle servitù militari che corrisponde alla ciclica contrazione e dilatazione dello

05. Diacronie dell’occupazione. Sequenze fotografiche e mistificazioni dei presidi costieri militari, Capo Frasca | Occupation diachronies. Photographic sequences and mystifications of military coastal garrisons, Capo Frasca. A. Cadelano, A. Manca

06. Soglie della coesistenza. Rappresentazione ideogrammatica della ciclicità spazio-temporale del bordo e del suo processo di modificazione incrementale | Thresholds of coexistence. Ideogrammatic representation of the spatio-temporal cyclicity of the edge and the incremental modification process. A. Cadelano, A. Manca

spazio necessario alle esercitazioni. In questa soglia pulsante, marina e terrestre, si attesta la “superficie di coesistenza”, spazio di conquista, temporaneo ma potenzialmente incrementale, in cui si concentrano, rinnovate, le attività produttive storiche, assieme alle contemporanee potenzialità offerte dal territorio. Se in questi luoghi coesistere significa, in termini generali, praticare l’alternanza degli usi, è altrettanto auspicabile la possibilità di sperimentare modalità di compresenza, nelle condizioni, per esempio, in cui le esercitazioni condotte siano “in bianco”, ovvero non prevedendo l’uso di armi. All’interno di questo spazio dall’uso condiviso è possibile attuare una risemantizzazione della frontiera, sostituendo alla cesura netta della recinzione una buffer zone ecologica9 , attiva e narrante nel preludere e sancire il limite – comunque esistente – e il cui carattere simbolico non ne cela il segno. Una soluzione di naturale, prima che umana, riconquista delle aree interdette, al

Nuovi paradigmi d’uso, tra abbandoni latenti e coesistenze possibili

contempo capace di ripristinare gli equilibri ambientali, compromessi e interrotti, tra fasce litoranee, zone umide ed entroterra; in essa si attesta la progressiva capacità di riaccogliere le attività produttive di pastorizia e agricoltura, integrandovi la produzione energetica da fonti rinnovabili, così come il potenziamento dell’apparato strutturale volto all’introduzione di un nuovo modello sostenibile di turismo. Non limitandosi all’interfaccia, infatti, questa visione proiettiva contempla la presenza di elementi ambientali – spiagge, insenature, scogliere –e di patrimonio costruito storico – torri costiere, archeologie, percorsi storici – a partire dai quali si riscopre e ricostruisce

un’armatura paesaggistica, che dal bordo si insinua nel territorio, mettendoli in rete e convertendo elementi residuali, sbiaditi, inaccessibili in luoghi intellegibili e fruibili. Nei luoghi in cui la presenza militare ha compromesso, fino a cancellarle, le figure territoriali e le intrinseche strutture di relazione, il progetto processualmente ne determina di nuove. La pulsazione che condiziona l’avvicendamento degli usi non ostacola i nuovi apporti delle modificazioni, i quali permangono a prescindere dall’appannaggio momentaneo dei territori e che si muovono ripristinando le storiche figurazioni ma anche, quando necessario, definendone di nuove.

Nell’ottica del latente abbandono, in questo sistema trovano posto anche i segni derivanti dall’uso militare, ipotizzandone, nel futuro più prossimo, scenari di dual use, ovvero di occasionale condivisione tra il contesto difensivo e quello civile. Soluzioni già istituzionalmente vagliate, che prevedono l’integrazione sia di poli per la ricerca e sperimentazione tecnologico-industriale che di possibili attività di interesse condiviso militare e civile, così come di centri per la ricerca ambientale. Quest’ultima visione accoglie un principio di sostenibilità e di riuso adattivo che preserva l’identità storica dei manufatti considerandoli nella prospettiva del Young Heritage attraverso una prefigurazione volta a preservare anche le fasi più controverse e recenti di questi luoghi nel percorso progettuale (Fiorino, 2021).

Conclusioni

Il tema delle servitù militari rappresenta per la Sardegna un nodo problematico di primaria importanza10, condizione consolidata e fortemente controversa sedimentata nelle pieghe della memoria collettiva. Questa posizione idiosincratica, al netto delle criticità argomentate, ne alimenta il senso più profondo di eredità tossica.

07. Distanze obbligate. Il promontorio di Capo Frasca dal limite dell’area ristretta alla navigazione | Forced distances. The promontory of Capo Frasca from the limit of the restricted area. C. Dasesson

I margini di apertura – risultato di un processo iniziato negli anni Novanta – e la loro lettura proiettiva, sostanziano l’ipotesi che l’iter di dismissione delle aree militari sia oramai un processo in atto; attesta ciò la serie continua di accordi tra le parti volte ad allentare le maglie delle limitazioni, promuovendone l’uso promiscuo militare e civile e applicando inedite politiche di governance al fine di avviare la transizione volta a restituire a questi luoghi lo status di beni comuni. In questa prospettiva il progetto trova un ruolo introduttivo e orientante capace di mostrare nuovi assetti futuribili veicolati da principi poetici, poietici e politici. Riconoscendo, relazionando ed esaltando i segni peculiari dei paesaggi, restituendoli agli immaginari identitari delle comunità, si profila nel rispetto di tutte le esigenze, comprese quelle difensive, la progressiva distensione necessaria a ridurre il senso di radicata diffidenza. Attraverso i nuovi livelli del palinsesto si stabilisce un’alleanza tra memoria e oblio, tra limiti e visioni, che conferma o modifica connotati e significati e ne introduce di nuovi allo scopo di promuovere la valorizzazione e la riappropriazione collettiva dei luoghi. Una maniera di limitarne il latente abbandono e, al contempo, di accompagnarne lo storico sviluppo.*

NOTE

1 – Il presente studio si attesta nel contesto del Laboratorio Ricerche in Costa – UniCa e specificamente negli studi condotti da A. Manca sul progetto degli insediamenti e delle architetture costiere in Sardegna e da A. Cadelano sul progetto dei territori della pesca. Il documento è stato concepito dagli autori con unità di intenti e i paragrafi sono stati così elaborati: Introduzione , Presidi militari costieri in Sardegna , Conclusioni sono stati scritti congiuntamente; Nuovi paradigmi tra abbandoni latenti e coesistenze possibili è stato scritto da A. Cadelano; Progettare la coesistenza è stato scritto da A. Manca; l’apparato iconografico è stato concepito e realizzato unitariamente.

2 – In tal senso, già nel 1976 viene emanata la legge n. 898, implementata poi dalla legge n.104/1990, la quale istituisce un Comitato misto paritetico di controllo, un organo che affianca Stato e Regione nella programmazione delle attività militari e nella tutela dei luoghi.

3 – Nel 2012 si costituisce la Commissione d’inchiesta parlamentare della XVI Legislatura, nella quale viene presentata una mozione, firmata da 120 parlamentari, che prevede l’immediata chiusura delle basi di Capo Teulada e Capo Frasca e la riqualificazione del poligono interforze del Salto di Quirra in centro polivalente internazionale tecnologico-scientifico.

4 – Tra questi figura il recente Piano di Utilizzo del Litorale del Comune di Villaputzu, che sperimenta modalità di integrazione turistica e di tutela ecosistemica nelle aree gravate da vincoli militari.

5 – Il provvedimento trova piena applicazione nel 1999, attraverso un protocollo d’intesa tra il Ministero della Difesa e la Regione autonoma della Sardegna.

6 – Queste porzioni di territorio si collocano in prossimità della linea di separazione tra aree militare e civile; tale marginalità garantisce una sufficiente distanza dalle zone direttamente utilizzate per le esercitazioni militari. Pertanto esse risultano poco compromesse sul piano ambientale e non richiedono approfondite operazioni di bonifica.

7 – Il dispositivo è applicato a partire dal 2000 con la sottoscrizione del Disciplinare d’uso dell’area addestrativa a fuoco di Capo Teulada.

8 – Nel 2017, dopo 3 anni di trattative, si ottiene l’intesa per il ridimensionamento delle servitù militari e l’apertura selettiva della fascia litoranea ai fini turistici. L’accordo è stato confermato nel 2024.

9 – Un esempio simile, sebbene a scala ben più ampia, è rappresentato dal progetto European Green Belt: un sistema lineare che mette in relazione le valenze ambientali e i territori presenti lungo i 12.500 km che costituivano la “Cortina di ferro” (europeangreenbelt.org, ultima consultazione settembre 2024).

10 – La giunta regionale, guidata da Alessandra Todde e insediatasi ad aprile 2024, indica la risoluzione delle problematiche correlate alla presenza militare quale punto prioritario dell’agenda politica. In particolare, dalle prime affermazioni è emerso, in maniera non priva di ambiguità, l’intenzione di agire per “rendere sostenibili le esercitazioni militari”. Vedi: Sardegna, è ora. Programma politico per Alessandra Todde presidente (alessandratodde. com/wp-content/uploads/programma/Sardegna_ora_Todde_Presidente_programma_digitale.pdf. Ultima consultazione settembre 2024). Se da un lato ciò alimenta la prospettiva di un progressivo appianamento dei nodi critici, dall’altro appare paradossale l’accostamento di due termini così in antitesi.

REFERENCES

– Balletto, G., Milesi, A., Fenu, N., Borruso, G., Mundula, L. (2020). Military Training Areas as Semicommons: The Territorial Valorization of Quirra (Sardinia) from Easements to Ecosystem Services. Sustainability, n. 12(2), p. 622. doi.org/10.3390/su12020622

– Chiri, G.M., Fiorino, D. (2023). Militaria. Architetture e grandi conflitti. Trento-Barcellona: ListLab. – Colavitti, A.M., Floris, A., Serra, S. (2023). Patrimonio militare come bene comune. Questioni rilevanti per la territorializzazione e la conoscenza dei beni militari in Sardegna. In Sistu, G., Strazzera, E. (a cura di), Zone militari: limiti invalicabili? L’impatto della presenza militare in Sardegna. Roma: Gangemi.

– Damiani, G., Fiorino, D. (2017). Military landscapes. Scenari per il futuro del patrimonio militare: un confronto internazionale in occasione del 150° anniversario della dismissione delle piazzeforti militari in Italia. Milano: Skira.

– Esu, A. (2024). Violare gli spazi. Militarizzazione in tempo di pace e resistenza locale Verona: Ombre corte.

– Pirina, C., Comi, G. (2021). Re-immaginare il bordo. Il confine come opportunità. In Camerin, F., Gastaldi, F. (a cura di), Rigenerare le aree militari dismesse. Prospettive, dibattiti e riconversioni in Italia, Spagna e in contesti internazionali. Santarcangelo di Romagna: Maggioli.

– Sistu, G., Strazzera, E. (2023). Istituzioni e comunità nei poligoni di Capo Frasca e Teulada. In Sistu, G., Strazzera, E. (a cura di), Zone militari: limiti invalicabili? L’impatto della presenza militare in Sardegna. Roma: Gangemi.

Introduction

In the 1950s, while mass tourism led to a sudden and uncontrolled colonisation of the coast, another form of occupation affected the Sardinian coastline: the construction of military training and experimental ranges. Among these, the inter-force Salto di Quirra range, the Teulada polygon for firing exercises, and the Capo Frasca range for aerial manoeuvres are still in use today. The total area of these zones exceeds 21,000 ha, with an additional 14,000 ha designated for military use (img. 02). In total, this constitutes over 60% of the entire national defence area in Sardinia. Most of these zones are situated along the coastline and remain inaccessible to the public due to frequent closures. Nearly seven decades after the military occupation of the Sardinian coastline, some of these garrisons are now underused and in a state of latent abandonment. Their prolonged exclusion from civilian use requires a broader reflection, free of ideological bias, that recognises their exceptional landscape value and outlines a process of environmental valorisation. This process should aim to reconsider the region’s historical primary economic activities, while promoting an ecological model of tourism development. Considering the above, the research project focuses on recognizing the landscape characteristics of the coastal military garrisons currently in operation. The aim is to identify new territorial strategies and settlement scenarios that consider the potential coexistence of multiple uses of the Sardinian coastal territory.

Coastal Military Post in Sardinia

In the early 1950s, NATO identified Sardinia as a key operational area for the Italian military. This led to the creation of three coastal training garrisons between 1956 and 1959: Salto di Quirra - Capo San Lorenzo, Capo Teulada and Capo Frasca-Decimomannu (Sistu and Strazzera, 2023). In the second half of the 1960s, military posts were established in Cagliari, and in La Maddalena, on the island of Santo Stefano (Chiri and Fiorino, 2023).

Coastal Military Posts in Sardinia

Latent Abandonments and Possible Coexistences

As military territory expanded, so did the area subject to military easements, which imposed restrictions on ownership and access rights. In this discussion, Cagliari and La Maddalena are excluded. The former is currently undergoing a definitive decommissioning process (Colavitti et al., 2023), while the latter has already completed this process (Colavitti et al., 2023; Chiri and Fiorino, 2023). Consequently, there are currently three coastal military bases on the island. Among these, the largest is the Salto di Quirra experimental and interforce training polygon (img. 03), located in the southeastern part of the island. It encompasses a large plateau that descends towards the coast. The base is divided into two main sections: a twelve thousand ha onshore polygon in Perdasdefogu, which also houses the command and a two thousand ha maritime polygon at Capo San Lorenzo in the territory of Villaputzu. The Capo Teulada military polygon (img. 04), the second largest, is in the southwestern region of Sardinia. It is managed by the Italian Army and made available to NATO for land, air, and sea exercises. Covering over 7,000 ha, it is Italy’s second-largest military polygon, in addition to the 75,000 ha of adjacent military facilities. The Capo Frasca polygon (img. 05), situated on the western coast in the municipality of Arbus, serves as an Italian Air Force garrison available to NATO forces for airto-ground and sea-to-surface firing exercises. It spans approximately 1,400 ha of land and includes a marine easement prohibiting navigation in the municipalities of Arbus and Terralba.  A detailed examination reveals that, despite the current restrictions, these areas possess significant intrinsic value, characterized by diverse landscapes with considerable ecological importance. Paradoxically, while military activities continue, these natural features are often preserved by the very army presence that could otherwise jeopardize their integrity. In terms of settlement, a preliminary assessment of the morphological characteristics of these areas reveals their historical strategic value. These coastal areas have influenced both productive and defensive activities in the past, as evidenced by the remaining structures. Each site contains archaeological evidence from the Nuragic civilisation, further complemented by Aragonese and Savoy towers near the coastline.

New Paradigms Between Latent Abandonment and Possible Coexistence From the start, the vast military-held territo-

ries have sparked a contentious national and regional debate over the cost-benefit ratio of military garrisons in local communities. This debate covers four key areas. The first is administrative, focusing on the growing role of regional authorities in planning military activities and protecting sites, as well as the potential for collective efforts to acquire and repurpose decommissioned military assets1. The second issue concerns the potential health impacts of military exercises, particularly the detection of elevated concentrations of depleted uranium and other radioactive materials within firing ranges. These factors are suspected to contribute to an increased prevalence of health problems such as neoplasms, miscarriages, and congenital anomalies, collectively referred to as “Quirra syndrome”2 (Esu, 2024). The third issue is environmental and is closely related to the preceding health concerns. It manifests as environmental degradation caused by decades of military activities, which have disrupted the natural ecosystem balance. There is also an urgent need to address the reclamation of large areas contaminated by unexploded ordnance, slag, and hazardous waste (Sistu and Strazzera, 2024). The fourth issue focuses on productivity, examining the impact of restricted access, ownership, and use due to the military presence. This includes the effects on primary activities such as agriculture, sheep farming, and fishing, as well as the hindered development of tourism. This reasoning begins with an analysis of the quantity and quality of training activities carried out, the programming methods used, and the regulatory frameworks and paradigms of openness of use that have been defined and implemented over the decades in response to local demands3

The first acknowledgment involves recognizing an annual state contribution, in the form of compensation, to property owners and fishermen in areas affected by military exercises4. Coordination of activity scheduling is crucial throughout the negotiation process. Consequently, agreements have led to arrangements allowing the joint use of 2,600 ha by civilians in the Capo Teulada garrison and four hundred hein the Capo Frasca garrison during periods of military inactivity5. These arrangements include designated grazing areas, coastal strips, and the right to free fishing in adjacent areas6 Additionally, gradual concessions have considered the potential for utilizing certain coastal areas for tourism purposes. This is planned for

periods when military exercises are suspended, including summer months, major holidays, and public holidays. This approach aims to enhance the area’s appeal and stimulate related economic development by increasing recreational opportunities. In recent years, regulations have been relaxed for the beaches of Porto Tramatzu and Sabbie Bianche at Capo Teulada, Murtas at Capo San Lorenzo, and S’Enna ’e S’Arca at Capo Frasca. Moreover, a special archaeological protection area has been established at Capo Frasca, which supports the potential for historical and cultural use7

The results indicate a state of latent abandonment, where military state property undergoes an inevitable transformation. Initially, such property is excluded from collective use and is classified as an “anti-commons”. Over time, it becomes accessible to both military and civilian entities, evolving into “semi-commons”. Ultimately, unused sections are fully decommissioned and become “commons” (Balletto et al., 2020). To facilitate this transition, it is essential to implement both regulatory and project-level initiatives. This involves conceptualizing potential coexistence scenarios between different uses and users and developing alternative programs that focus on advancing territorial development through the protection, enhancement, and accessibility of landscapes. Achieving this outlook requires enhanced collaboration between regional institutions and communities, which will foster the emergence of a new, shared narrative. This narrative should move beyond the current perception of a toxic legacy and address the persistent challenge of reconciling the interests of various stakeholders in environmental protection.

Designing the Coexistence

The study proposes the valorisation and collective re-appropriation of these areas through the re-establishment of territorial relationships across different scales of distance and time. This approach entails the creation of an organic and coherent system of landscape elements that contribute to a new layer of the territorial palimpsest. By examining current forms of openness, a new network of physical and symbolic connections can develop, essential for rebuilding lost ties and forging new relationships within the landscape. From this perspective, the border assumes a pivotal role, symbolically reflecting its etymological meaning of laceration. It thus becomes the primary site for initiating the “healing” process. Considering the dual meanings of “limit” and “border”, it can be argued that these terms represent both the concept of exclusion and the threshold where different parts interact (Pirina and Comi, 2021). Architecturally, this interaction pertains to spatial relationships, allowing for a gradual reduction of constraints while fostering osmotic integration of interior and exterior spaces, thus revitalizing their edges. The proposed opening process can be represented in diagrammatic form (img. 06). This illustration demonstrates how, within the condensed spatio-temporal coordinates, various sinusoidal patterns can be observed in the surface area subjected to military servitude. These patterns reflect the

cyclical contraction and expansion of space for exercises. The “coexistence surface,” which exists within the oscillating threshold of marine and terrestrial space, represents a temporarily accessible area with the potential for increased accessibility in the future, revitalizing historical productive activities alongside contemporary opportunities.

In general terms, the concept of coexistence can be understood as the alternation of uses. However, it is equally essential to experiment with diverse modes of coexistence. For instance, unarmed military exercises could foster different coexistence scenarios. In this shared space, the border can shift from a rigid division to a permeable ecological buffer zone8, transforming it into an active, symbolic transition area. This redefinition softens the border’s impact while retaining its significance as a limit, promoting a more fluid and connected environment.

The proposed solution is a natural regeneration of restricted areas, gradually rebalancing the ecosystem between coastal strips, wetlands and hinterland. This restoration would allow the reintroduction of traditional activities such as pastoralism and agriculture, as well as the integration of renewable energy sources. It would also facilitate the development of infrastructure adapted to a new sustainable tourism model.

This strategy goes beyond rethinking the border; it encompasses the broader natural environment and historical built heritage, including the restoration of coastal towers, archaeological sites, and historical routes. Collectively, these efforts aim to rediscover and reconstruct the landscape, transforming neglected areas into meaningful spaces. In regions where military presence has erased existing territorial features, the project seeks to establish new relational structures gradually. The alternating rhythm of land use due to military activities does not hinder ongoing modifications; these changes persist despite temporary land appropriation. When necessary, the project aims to restore historical features and define new ones, ensuring the territory evolves in a way that honors its past and future potential. In the context of latent abandonment, indicators of military use also play a role within this evolving system. This opens possibilities for dual-use scenarios soon, where occasional sharing between defence and civilian sectors could occur. Proposed solutions, which have been institutionally examined, envision integrating both military and civilian uses for technological-industrial research, experimentation, and activities of mutual interest. Among these, the establishment of environmental research centers stands out. This vision is grounded in principles of sustainability and adaptive reuse, aiming to preserve the historical identity of the sites by considering them as part of “Young Heritage”. This approach involves a forward-thinking design process that seeks to retain even the most controversial and recent phases of these areas’ histories (Fiorino, 2021).

Conclusions

The issue of military servitudes presents a significant and multifaceted challenge for Sardinia9 , deeply rooted in its history and ingrained in the collective memory of its people. This unique

context, when examined through the lens of the critical arguments discussed, reveals a profound and persistent legacy of toxicity. The margins of openness, which have developed through a process initiated in the 1990s, support the hypothesis that the decommissioning of military areas is now actively underway. This ongoing transformation is evidenced by a series of agreements between stakeholders aimed at easing restrictions, encouraging mixed military and civilian use of these areas, and implementing innovative governance policies to facilitate the transition of these spaces back to the status of “common goods”. From this perspective, the project assumes an introductory and guiding role, envisioning new future-oriented configurations inspired by poetic, poietic and political principles. By recognizing, connecting, and enhancing the unique characteristics of these landscapes, the project seeks to reintegrate them into the collective identity of the communities. This approach fosters the progressive détente necessary to alleviate long-standing distrust, while also respecting all interests, including those related to national defense. The new layers of the palimpsest foster an alliance between memory and forgetfulness, between boundaries and visions. This alliance plays a crucial role in affirming or altering existing connotations and meanings, while also introducing new ones. The objective is to promote the collective valorisation and re-appropriation of these spaces, thereby mitigating their latent abandonment and supporting their ongoing historical evolution.*

NOTES

1 – In this sense, Law n. 898, which was subsequently implemented by Law n. 104/1990, was enacted as early as 1976. This established a Joint Control Committee, a regulatory body tasked with assisting the State and the Region in the planning of military activities and the protection of sites.

2 – In 2012, the Parliamentary Commission of Inquiry of the 16th Legislature was established, comprising a motion signed by 120 parliamentarians. This motion called for the immediate closure of the military bases at Capo Teulada and Capo Frasca and the redevelopment of the Interforce Polygon of Salto di Quirra into an international multi-purpose technology and science centre.

3 – Such initiatives include the recent Coastal Use Plan of the Municipality of Villaputzu, which explores the potential for integrating tourism and ecosystem protection in areas constrained by military operations.

4 – The measure was fully implemented in 1999, through a Memorandum of Understanding between the Ministry of Defence and the Autonomous Region of Sardinia.

5 – The location of these land areas near the boundary between military and civilian zones ensures that they are situated at a sufficient distance from the areas directly utilized for military exercises. Consequently, they are not subject to significant environmental degradation and do not necessitate extensive reclamation operations.

6 – Since 2000, this approach has been employed in accordance with the regulations governing use of the Capo Teulada Fire Training Area.

7 – In 2017, following three years of negotiations, an agreement was reached on the reduction of military easements and the selective opening of the coastal strip for tourism. The agreement was subsequently confirmed in 2024.

8 – A comparable example, though on a considerably larger scale, is the European Green Belt initiative. This is a linear system that connects environmental values and territories along the 12,500 km that constituted the “Iron Curtain” (europeangreenbelt.org/, last access on September 2024).

9 – The regional government, led by Alessandra Todde and installed in April 2024, has indicated the resolution of issues related to the military presence as a priority point on the political agenda.

Sara Rocco

PhD, Assegnista di ricerca in Restauro dell’architettura, DAD, Università di Genova. sara.rocco@edu.unige.it

Federica Pompejano

PhD, Ricercatrice RTD-A in Restauro dell’architettura, DAD, Università di Genova. federica.pompejano@unige.it

Tangible and Intangible in (post)Industrial Landscapes

01. View of the Savona-San Giuseppe di Cairo coal cableway in Bragno, Cairo Montenotte, Bormida Valley | Veduta delle funivie Savona-San Giuseppe di Cairo a Bragno, Cairo Montenotte, Valle Bormida. Land-In-Pro, 2023

Il tangibile e l’intangibile nei paesaggi (post)industriali Questo articolo esplora i concetti di traccia, memoria, cicatrice, risonanza e risorsa, con l’obiettivo di definire il loro ruolo nell’analisi critica e nell’interpretazione del paesaggio (post)industriale della Valle Bormida attraverso la metodologia della Landscape Biography. Si tratta di un primo passo verso la comprensione delle eredità tangibili e intangibili strettamente interconnesse con i processi di (de)industrializzazione sul territorio attraverso una metodologia interdisciplinare, che combina studi di paesaggio e patrimonio, etnografia e analisi territoriale.*

This article explores the key concepts of trace, memory, scar, resonance and resource, with the aim of defining their role in the critical analysis and interpretation of the (post)industrial landscape of the Bormida Valley through the Landscape Biography

This is a first step towards the understanding of the tangible and intangible legacies closely interconnected with the processes of (de)industrialization in the territory through an interdisciplinary methodology, which combines landscape and heritage studies, ethnography and territorial analysis.*

A Landscape Biography Approach to the Industrial Legacy in the Bormida Valley (Italy)

ntroduction: A Complex (post)Industrial Landscape

This article1 draws upon the landscape conception set forth in the European Landscape Convention, emphasizing the importance of acknowledging the landscape as a result of the interplay between natural and human interactions, along with their complex interconnections (CoE, 2000).

Particularly, it delves into the liminal interstice between past and present, as well as tangible and intangible, within (post)industrial sites where the adoption of a Landscape Biography approach aids in heritage-making processes and cultural heritage transmission which are pivotal from the creation of collective memories and identities (Kolen et al., 2017).

In the Land-In-Pro research project, the Bormida Valley, at the border between Piedmont and Liguria, is chosen as a representative case study, with the former Ferrania-3M film factory which serves as a pilot site for experimenting the landscape biography approach.

Spanning from the mid-19th to the mid-20th century, the Ligurian region in northwest Italy underwent significant industrial transformations with the establishment of modern manufacturing facilities across both coastal zones and rural hinterlands. This development positioned Liguria at the forefront of international competitiveness across various industrial sectors, including metallurgy, mechanics, chemicals, naval construction, textiles, and food production (Cerisola, 1965; De Maestri Merello et al., 2011). The strategic placement and expansion of industrial activities were supported by infrastructure enhancements, leveraging transportation networks extending from the Genoa and Savona ports to the Po Valley via the less steep passages of the Ligurian Apennine.

The Bormida Valley, situated within the Savona district in the inner regions of the Ligurian Apennines, is representative of the unique 20th century chemical industrial past in Liguria (Cerisola, 1965; Cesarini, 1974; Zanini, 2000). The valley’s development into a hub for the chemical sector was

precipitated by infrastructure advancements, fostering settlements and industrial growth (img. 02). The Bormida Valley experienced a pronounced economic surge, which led to significant concentrations of chemical production sites in the Cengio and Cairo Montenotte territories.

In Cairo Montenotte, the 1960s saw the facilities of the newly formed Ferrania-3M continue the legacy of the former FILM Ferrania photographic film production. In Bragno, the Savona-S. Giuseppe’s coal cableway terminal, along with the Montecatini and CokItalia plants, created an interconnected network of production cycles. Additionally, in

The prefix (post) marks the temporal fractures from the industrial past in a specific place

Cengio, the transformation of the former SIPE (Società Italiana Prodotti Esplodenti) into the ACNA (Azienda Coloranti Nazionali e Affini) marked the small rural village as a central hub for heavy chemical industrial production (imgg. 01, 03).

The downturn of Italy’s economic growth in the 1970s, accompanied by the rise of service sector industries amidst

02. The location of Bormida Valley within the Liguria region (top-left), north-west Italy; the location of the Cengio and Cairo Montenotte territorial administrative boundaries within the Bormida Valley (top-right); and the location of the chemical industrial sites in the Cairo Montenotte and Cengio municipalities (down centred) – GIS maps | Localizzazione della Valle Bormida all’interno della regione Liguria (in alto a sinistra), Italia nord-occidentale; localizzazione dei confini amministrativi territoriali di Cengio e Cairo Montenotte all’interno della Valle Bormida (in alto a destra); localizzazione dei siti industriali chimici nei comuni di Cairo Montenotte e Cengio (in basso al centro)– mappe GIS. Land-In-Pro, 2023

shifting global economic paradigms, significantly affected Liguria’s industrial context, leading to the gradual abandonment of extensive and complex industrial sites (Musso, 2022). In the 1990s, due to the heavy environmental impact on both the Liguria and Piedmont borderlands, the former ACNA in Cengio, a 77-hectare area near the Bormida river, was designated a “Site of National Interest (SIN)” for environmental issues, addressing its importance for regional redevelopment and environmental reclamation efforts2. In 2016, the Ministry of Economic Development established the Savona area as a “complex industrial crisis area”, affecting 21 municipalities, including Altare, Carcare, Cairo Montenotte, and Cengio. Following this, the Liguria Region distinguished between “complex industrial crisis areas” and “non-complex industrial crisis areas” approving the Industrial Reconversion and Redevelopment Project (PRRI) to oversee recovery and reclamation efforts3

Today, traversing the Bormida Valley reveals the presence of decommissioned or partially active industrial sites along the Bormida riverbanks. This industrial legacy acts as a tangible trace and collective memory of the Valley’s industrial past, marking a significant phase in its present.

Liguria
Province of Savona
Municipality of Cengio
Municipality of Cairo M.tte
Bormida Valley
ex A.C.N.A. Chimica Organica
ex Agrimont-Montecatini
Italiana Coke Funivie Alto Tirreno S.p.A.
ex Ferrania Imaging Technologies S.p.A.
Bormida Valley

Objectives

The main objective of the research is to develop a complete understanding of the Bormida Valley’s (post)industrial landscape by examining both tangible and intangible factors, emphasizing the interrelation of people’s connections, perceptions, and experiences with the landscape facing the (post)industrial situation (Storm, 2014). This requires the adoption of an interdisciplinary research methodology that involves the collection, analysis, and critical interpretation of qualitative and quantitative data. A comprehensive approach should systematically apply literature and policy reviews, historical research, architectural and GIS territorial analysis, ethnographic methods, and fieldwork investigation.

It is necessary to stress how the use of the prefix (post) in the Land-In-Pro project underscores a discontinuity within chronological timelines, concurrently amplifying the emphasis on the legacies of the industrialization and deindustrialization processes (Rhodes II et al., 2023). The prefix marks the temporal fractures from the industrial past in a specific place, suggesting that (post)industrial landscapes are characterised by both absences and presences. This dialectical relationship between an industrial past and a de-industrialised present reflects the people’s

potential acts of remembering and forgetting, concerning what is often conceived as a toxic legacy due to unsolved environmental issues.

Drawing from Kolen & Renes’ (2015) Landscape Biography, this article emphasizes the importance of understanding change and transformation of (post)industrial legacy and sites more broadly. This is a fundamental step towards recognizing and critically analysing these past remnants. Therefore, in this conceptual framework the experimental use of key concepts such as trace, memory, scar, resonance, and resource, supports the understanding of the interaction between natural and human agency one the one hand, and between memory and oblivion on the other, in the (post)industrial landscape.

Approach and Methods: A Frame for the Critical Analysis of (post)Industrial Landscapes and Site Landscape Biography (Kolen et al., 2015) is at once an interpretative metaphor, approach, and practice. It transcends simple observation, offering a methodology to understand landscape dynamics by integrating history, cultural significance, territorial morphology, and anthropology. It emphasizes how the constant evolution of landscapes is driven by both natural and human agency, and

03. View of the former CokItalia plant (now Italiana Coke) in Bragno, Cairo Montenotte, Bormida Valley | Vista dell’ex stabilimento CokItalia (ora Italiana Coke) di Bragno, Cairo Montenotte, Valle Bormida. Land-In-Pro, 2023

how it is necessary to adopt a comprehensive view that studies transformations in detail and on a larger scale. Recognizing landscapes as evolving entities and repositories of collective memory, it argues for the importance of examining physical and symbolic transformations to fully understand the multiple meanings of (post)industrial sites and landscapes.

Through Landscape Biography , the key concepts (trace, memory, scar, resonance, and resource) are chosen to facilitate the interpretation, analysis, and assessment of (post)industrial landscapes from different insights. This approach investigates into diverse interrelations among the past, the present, and the future, as well as the dichotomies occurring in the interplay between material and immaterial aspects, the tension between static and dynamic features, the contrast between actuality and potentiality, the juxtaposition of the real and the imaginative, and the contrast between toxic legacies and healing processes (imgg. 04-05).

Delving into complexity of (post)industrial landscapes requires the implementation of research that integrates interdisciplinary competences, to provide a comprehensive understanding and in-depth knowledge of different perspectives that trigger diverse interpretations of the

same phenomenon. Research activities such as observations, fieldworks, historical archive investigations, and semi-structured and/or go-along interviews provide access to the biographies of places, tracing narratives and reconstructing memories.

Results and Discussion: Traces, Memories, Scars, Resonances, Resources

The five keywords are used as guiding-concepts in the in-depth analysis, interpretation, and evaluation of the (post)industrial landscape of the Bormida Valley and, on a smaller scale, of the former Ferrania-3M industrial site. In this way, the aim is to uncover the layers of meaning embedded within the case study context, to stimulate and advocate the debate on (post)industrial landscapes, with the purpose of triggering conscious heritage-making processes and sustainable initiatives for managing transformations. These terms shed light on collective memory and highlight the need to gather past and present narratives, along with future expectations regarding these places, facilitating new nuanced readings and interpretations.

Traces encompass both material and immaterial aspects, manifesting into tangible remains of past actions and their associated experiences. In other words, traces are physi-

04. View of the former FILM Ferrania film factory in Ferrania, Cairo Montenotte, Bormida Valley. End of 1940s ca | Veduta dell’ex fabbrica di materiale fotosensibile FILM Ferrania a Ferrania, Cairo Montenotte, Valle Bormida. Fine anni ’40 ca. Courtesy of Ferrania Film Museum

cally shown through artifacts, serving as tangible links that recall stories, events, and memories. However, traces are inherently partial, as they symbolise the absence or loss of complete meaning (Jones, 2007, pp. 19-22). In the Bormida Valley, industrial remains and spaces are characterised by a transformative nature, as they are clues to the intricate interconnections and changes that occur over time in an evolving landscape (img. 06).

Considering both individual and collective memories require an awareness of the influence that the perception of tangible traces has on the processes of reconciliation, remembering, and forgetting, and the subsequent recognition and attribution of current values. A preliminary analysis of the interviews with workers at the former Ferrania-3M film factory highlights how discussing place-related memories fosters a shared sense of community, despite inherent contradictions. As Walker (2021) notes, a landscape evokes a multiplicity of memories allowing for nuanced interpretations of places. Hence, a further detailed analysis of narratives could uncover a complex memory mosaic, unfolding multiple registers. Scars embody dual meanings: resilience and healing, as

well as reminders of past wounds, representing transformation as a whole (Storm, 2014, pp. 1-19). Unlike the palimpsest concept with its layered stories, scars signify a healing journey, reconciling differences and promoting interconnectedness from a different perspective. The case of the Bormida Valley, marked by difficult memories associated to environmental issues and Bormida river’s pollution (Sala-

Recognizing landscapes as evolving entities and repositories of collective memory

mano et al., 1982; Delmonte 1991), exemplifies this scarring, suggesting potential for renewal.

Resonance, transcending its physical meaning, weaves into the emotional sphere of communities, engendering connections across various registers of memories and a sense of belonging stemming from the perception of landscape. In other words, resonances are elicited by intense emotional and reflective experiences and associations in the present, with landscapes or sites invoking this depth of feeling (Walker, 2021, p. 54). In the Bormida

05. View of the current condition of the former film factory in Ferrania, Cairo Montenotte, Bormida Valley | Veduta dello stato attuale dell’ex stabilimento di materiale fotosensibile di Ferrania, Cairo Montenotte, Valle Bormida. Land-In-Pro, 2024

Valley, (post)industrial legacy reflects into tangible and intangible resonant elements which retain elusive characteristics (img. 07).

Finally, resources are linked with future scenario and uses. This term fits within the framework of heritagemaking processes, where remnants are officially or informally acknowledged and potentially transformed into

Conclusions

Trace, memory, scar, resonance, and resource contribute to understanding (post)industrial landscapes

resources, thus assuming multiple cultural, economic, and political meanings in the contemporary context (Ashworth et al., 2007, pp. 1-4). As the former Ferrania-3M film factory testifies, not only buildings already listed as heritage emerge as pivotal drivers for industrial and cultural tourism, but even those not yet perceived as heritage can serve as valuable resources for local community and tourists’ engagement.

In the debate on the analysis and interpretation of (post)industrial legacies, it is essential to adopt a highly interdisciplinary approach. As preliminarily highlighted by this brief contribution, Landscape Biography , integrated with ethnographic research methods, heritage and landscape studies, and territorial analysis, constitutes an effective research methodology. Concepts such as trace, memory, scar, resonance, and resource, can facilitate the exploration and understanding of (post) industrial landscapes, laying the foundation for recognising the richness and multiplicity of values associated with the landscape.

The transformation of the Bormida Valley, from an agricultural and proto-industrial economy to a relevant hub of the Ligurian chemical industry and the subsequent partial deindustrialization, has left a complex tangible and intangible legacy that now needs to be reinterpreted and re-evaluated as a local resource.

The use of landscape biography analysis highlights the importance of involving local communities as protagonists and witnesses of territorial transformation. Therefore, it

06. View of the contemporary (post)industrial landscape in Ferrania, Cairo Montenotte, Bormida Valley | Veduta del paesaggio (post)industriale contemporaneo a Ferrania, Cairo Montenotte, Valle Bormida. Land-In-Pro, 2024

07. Remains of a past working life: an information board at the entrance to the former

| Permanenze di una vita lavorativa passata: uno dei pannelli informativi all’ingresso dell’ex

di

Cairo Montenotte, Valle Bormida. Land-In-Pro, 2024

is essential to promote an inclusive approach in redevelopment and conservation initiatives by activating participatory processes. This perspective aims to reduce the risk of weakening socio-cultural bonds, stressing the close interaction between memory, place and collective identity that defines a community. Finally, it is crucial to recognise the important role of continuity and the accumulation of experiences in nurturing the community’s bonds to the territory (Apaydin, 2020, pp. 13-14).*

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– Kolen, J., Renes, J., Hermans, R. (Eds). (2015). Landscape Biographies: Geographical, Historical and Archaeological Perspectives on the Production and Transmission of Landscapes. Amsterdam: Amsterdam University Press.

NOTE

1 – This article is developed within the research project Landscapes of Industrial Production: Documenting and Assessing 20th century (post)Industrial Landscapes as Resources – Land-InPro that received funding from the National Recovery and Resilience Plan (PNNR) – Mission

4 “Education and Research” – Component 2 “From Research to Business” – Investment 1.2 “Funding projects presented by young researchers” and the European Union – Next Generation EU – Project no.100027-2022-FP-PNRR-YR_MSCA_0000005. Authors’ contribution is divided as follows: FP contributed to §Introduction, §Objectives; SR contributed to §Results and discussion. Both authors contributed to Abstract, §Approach and methods, Conclusions, and scientific writing editing. Research methodology and scientific supervision is by FP, Land-In-Pro project’s PI.

2 – See Law no. 426, December 9, 1998, New interventions in the environmental field (Nuovi interventi in campo ambientale) and Decree of the Ministry of the Environment, October 20, 1999, Perimeter of the site of national interest of Cengio e Saliceto (Perimetrazione del sito di interesse nazionale di Cengio e Saliceto)

3 – See Decree of the Ministry of Economic Development, September 21, 2016, Complex industrial crisis area of Savona (Area industriale complessa Savona).

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– Zanini, A. (2000). Le radici del futuro. Un secolo di industria chimica in provincia di Savona. Savona: Elio Ferraris Editore.

film factory in Ferrania, Cairo Montenotte, Bormida Valley
fabbrica
materiale fotosensibile di Ferrania,

Introduzione: un complesso paesaggio (post) industriale

Il presente contributo1 si basa sulla definizione di paesaggio delineata nel testo della Convenzione Europea del Paesaggio, riconoscendolo come il risultato dell’azione di fattori naturali e umani e delle loro complesse interrelazioni (CoE, 2000). Esplorando il confine tra passato e presente, tra tangibile e intangibile, all’interno dei siti (post) industriali, l’utilizzo della metodologia Landscape Biography può contribuire positivamente nei processi di patrimonializzazione e nella trasmissione del patrimonio culturale, momenti fondamentali nella creazione di memorie e di identità collettive (Kolen et al., 2017). Nel progetto di ricerca Land-In-Pro, la Valle Bormida, al confine tra Piemonte e Liguria, costituisce il caso studio a livello territoriale insieme all’ex area industriale di Ferrania-3M, quest’ultima individuata come sito pilota per la sperimentazione dell’approccio biografico al paesaggio. Dalla metà del XIX secolo alla metà del XX secolo, la Liguria subì significative trasformazioni industriali in seguito all’insediamento di fabbriche moderne sia nelle zone costiere sia nelle aree rurali interne. Questo sviluppo posizionò la Liguria tra le regioni all’avanguardia nella competitività internazionale in diversi settori industriali, tra cui la metallurgia, la meccanica, la chimica, le costruzioni navali, il tessile e la produzione alimentare (Cerisola, 1965; De Maestri Merello et al., 2011). La posizione strategica e l’espansione delle attività industriali furono supportate da un miglioramento della rete infrastrutturale, tra cui quella dei trasporti che, estendendosi dai porti di Genova e Savona fino alla Valle del Po, attraversava i passi meno impervi dell’Appennino ligure. La Valle Bormida, situata in provincia di Savona, in un’area interna dell’Appennino ligure, rappresenta un simbolo dell’eccezionale passato nel campo dell’industria chimica del XX secolo (Cerisola, 1965; Cesarini, 1974; Zanini, 2000). La trasformazione della valle in un polo del settore chimico fu accelerata dai progressi infrastrutturali sopra citati che favorirono lo sviluppo di insediamenti residenziali e la nascita di nuovi

Il tangibile e l’intangibile nei paesaggi

(post)industriali

L’eredità industriale della Valle Bormida (Italia) attraverso la metodologia della Landscape Biography

siti industriali (img. 02); un boom economico che comportò una significativa concentrazione di siti produttivi industriali nei territori dei comuni di Cengio e Cairo Montenotte.

A Cairo Montenotte, negli anni Sessanta, la consociata Ferrania-3M proseguì nella produzione di materiali fotosensibili, innovando i precedenti processi di fabbricazione delle pellicole fotografiche FILM Ferrania. A Bragno, il terminal delle funivie del carbone Savona-S. Giuseppe, insieme agli impianti della Montecatini e della CokItalia, favorirono la creazione di una rete interconnessa tra i rispettivi cicli produttivi. Inoltre, a Cengio, la trasformazione della SIPE (Società Italiana Prodotti Esplodenti) in ACNA (Azienda Coloranti Nazionali e Affini) trasformò un piccolo villaggio rurale in un centro per la produzione industriale della chimica pesante (imgg. 01, 03).

Il rallentamento della crescita economica italiana negli anni Settanta, accompagnato dall’ascesa del settore terziario in un’economia globale in forte cambiamento, influenzò significativamente il contesto industriale della Liguria, portando all’abbandono graduale di siti industriali estesi e complessi (Musso, 2022).

Negli anni Novanta, a causa del forte impatto ambientale sui territori di confine tra Liguria e Piemonte, l’ex ACNA di Cengio, un’area di 77 ha situata vicino al fiume Bormida, fu designata “Sito di Interesse Nazionale (SIN)” per ragioni ambientali, decretandone l’importanza strategica nei piani di riqualificazione e di bonifica ambientali a livello regionale2. Nel 2016, l’area di Savona fu nominata “area di crisi industriale complessa” dal Ministero dello Sviluppo Economico, includendo nella perimetrazione 21 comuni, tra cui Altare, Carcare, Cairo Montenotte e Cengio. Successivamente, la Regione Liguria riconobbe le “aree di crisi industriale complessa” e le “aree di crisi industriale non complessa”, approvando il Progetto di Riconversione e Riqualificazione Industriale (PRRI) al fine di supervisionare le iniziative di recupero e bonifica3 Attraversare oggi la Valle Bormida significa prendere coscienza della presenza di siti in-

dustriali, dismessi o parzialmente attivi, situati lungo le rive del fiume Bormida. L’eredità industriale si manifesta come traccia tangibile e memoria collettiva del passato industriale della valle, caratterizzandone in maniera significativa il presente.

Obiettivi

L’obiettivo principale della ricerca è sviluppare un’esaustiva conoscenza del paesaggio (post) industriale della Valle Bormida attraverso l’esplorazione di aspetti tangibili e intangibili e attraverso l’analisi dell’interrelazione tra persone e paesaggio, prendendo in esame le percezioni e le esperienze nel contesto (post)industriale (Storm, 2014). Ciò richiede l’adozione di una metodologia di ricerca interdisciplinare che preveda la raccolta, l’analisi e l’interpretazione critica di dati qualitativi e quantitativi.

A tal fine, lo sviluppo della ricerca mette a sistema diversi metodi: un’accurata ricerca bibliografica e revisione delle politiche vigenti, la ricerca storica, le analisi territoriali e architettoniche (tramite l’utilizzo di strumenti GIS), i metodi etnografici e i sopralluoghi. È importante sottolineare come l’uso del prefisso (post), nell’ambito del progetto Land-InPro, intenda evidenziare una discontinuità nella linea temporale, ponendo l’accento sulle eredità dei processi di industrializzazione e deindustrializzazione (Rhodes II et al., 2023). Il prefisso segna, quindi, una frattura temporale rispetto al passato industriale in uno specifico luogo, suggerendo come i paesaggi (post) industriali siano caratterizzati da assenze e da presenze. Inoltre, questa relazione dialettica tra un passato industriale e un presente deindustrializzato si traspone nel potenziale atto di ricordare o dimenticare ciò che è spesso concepito dalle persone come un’eredità tossica a causa di problemi ambientali irrisolti. Considerando la metodologia Landscape Biography di Kolen & Renes (2015), questo contributo si concentra sull’importanza di comprendere il cambiamento e la trasformazione delle eredità (post)industriali in senso

Sara Rocco, Federica Pompejano

più ampio, passo fondamentale per il futuro riconoscimento e per l’analisi critica di queste permanenze del passato. Pertanto, l’utilizzo sperimentale di concetti chiave appartenenti al suddetto panorama disciplinare, quali traccia, memoria, cicatrice, risonanza e risorsa, corrobora la comprensione dell’interazione tra agenti naturali e umani da un lato, e tra la memoria e l’oblio dall’altro, nel paesaggio (post)industriale.

Approccio e metodi: un quadro metodologico per l’analisi critica dei paesaggi e dei siti (post)industriali

La Landscape Biography (Kolen et al., 2015) è al contempo una metafora interpretativa, una metodologia e una pratica che trascende la semplice osservazione, offrendo la possibilità di comprendere le dinamiche del paesaggio attraverso l’integrazione di aspetti storici, culturali, morfologico-territoriali e antropologici. Essa sottolinea come l’evoluzione costante dei paesaggi sia guidata da fattori naturali e umani, e come sia necessario adottare una visione globale che studi i cambiamenti a diverse scale. Riconoscendo i paesaggi come entità in evoluzione e depositi di memoria collettiva, essa sostiene l’importanza di esaminare le trasformazioni fisiche e simboliche per comprendere appieno il significato molteplice dei luoghi e dei paesaggi (post)industriali.

Attraverso la Landscape Biography, i concetti chiave di traccia, memoria, cicatrice, risonanza e risorsa sono stati scelti quale strumento per l’interpretazione, l’analisi e la valutazione dei paesaggi (post)industriali da diverse prospettive. In questo modo sono poste al centro della ricerca le diverse interrelazioni tra passato, presente e futuro, le dicotomie tra aspetti tangibili e intangibili, la tensione tra caratteristiche statiche e dinamiche, la giustapposizione tra reale e immaginario, così come i contrasti tra attualità e potenzialità e tra eredità tossiche e processi di risanamento (imgg. 04-05).

Pertanto, l’esplorazione della complessità dei paesaggi (post)industriali, al fine di comprendere e conoscere in modo approfondito le diverse prospettive che innescano varie interpretazioni dello stesso fenomeno, richiede la realizzazione di ricerche con competenze interdisciplinari. Attività di ricerca come i sopralluoghi in situ, le indagini storiche d’archivio e le interviste semistrutturate e/o itineranti (go-along) consentono l’accesso alle biografie dei luoghi, tracciando narrazioni e ricostruendo memorie.

Risultati e discussione: tracce, memorie, cicatrici, risonanze, risorse

Le cinque parole chiave sono utilizzate come concetti-guida nell’approfondimento, analisi, interpretazione e valutazione del paesaggio (post)industriale della Valle Bormida e, a una scala minore, dell’ex sito industriale Ferrania3M. In questo modo, ci si propone di rivelare i livelli di significato insiti nel contesto del caso studio pilota, per stimolare e attualizzare il dibattito sui paesaggi (post)industriali, con l’ulteriore proposito di innescare processi consapevoli di patrimonializzazione e iniziative sostenibili per la gestione delle trasformazioni. Questi termini pongono l’accento sull’impor-

tanza della memoria collettiva, ma anche sulla necessità di raccolta di narrazioni, passate e attuali, e aspettative future, facilitando così nuove letture e interpretazioni di queste eredità che risultano spesso ambigue. Le tracce comprendono aspetti materiali e immateriali e si manifestano in permanenze tangibili di azioni passate e di esperienze a esse associate. In altre parole, le tracce si mostrano fisicamente attraverso manufatti, fungendo da collegamenti tangibili che rimandano a storie, eventi e memorie. Tuttavia, le tracce sono intrinsecamente parziali, in quanto simboleggiano l’assenza o la perdita del significato completo (Jones, 2007, pp. 19-22). Nella Valle Bormida, le permanenze e gli spazi industriali sono caratterizzati da una natura trasformativa, in quanto indizi delle intricate interconnessioni e dei cambiamenti che si verificano nel corso del tempo nel paesaggio in evoluzione (img. 06). Tenere in considerazione sia le memorie individuali sia quelle collettive richiede consapevolezza dell’influenza che la percezione delle tracce tangibili ha nei processi di riconciliazione, ricordo e oblio, e nel conseguente riconoscimento e attribuzione di valori attuali. Da una prima analisi delle interviste con i lavoratori dell’ex sito industriale di Ferrania-3M si evidenzia come le memorie legate al luogo siano caratterizzate da un senso di comunità condiviso, nonostante le contraddizioni intrinseche. Come osserva Walker (2021), un paesaggio evoca una molteplicità di ricordi, permettendo varie interpretazioni dei luoghi. Pertanto, una futura analisi dettagliata delle narrazioni potrebbe rivelare un complesso mosaico di memorie, che si sviluppa su molteplici registri. Metaforicamente parlando, le cicatrici incarnano duplici significati: resilienza e risanamento, da un lato, e reminiscenze di ferite passate, dall’altro, rappresentando la trasformazione nel suo complesso (Storm, 2014, pp. 1-19). A differenza del concetto di palinsesto, caratterizzato dalla stratificazione di storie, le cicatrici rappresentano un percorso di guarigione, riconciliando le differenze e promuovendo l’interconnessione attraverso una prospettiva diversa. Il caso della Valle Bormida, segnata da memorie difficili legate a problematiche ambientali e all’inquinamento del fiume Bormida (Salamano et al., 1982; Delmonte, 1991), esemplifica questo difficile processo di cicatrizzazione, suggerendo l’esistenza di un potenziale di rinnovamento. Trascendendo il suo significato prettamente fisico, la risonanza si intreccia alla sfera emotiva delle comunità, generando legami attraverso i vari registri di memorie e il senso di appartenenza che deriva dalla percezione del paesaggio. In altre parole, le risonanze sono suscitate da esperienze intense e associazioni emotive e riflessive, nel presente, con paesaggi o luoghi che evocano questa profondità di sentimento (Walker, 2021, p. 54). Nella Valle Bormida, l’eredità (post)industriale si riflette in elementi risonanti, tangibili e intangibili, che conservano caratteristiche sfuggenti (img. 07).

Infine, le risorse sono legate a scenari e usi futuri. Questo termine si colloca nel quadro dei processi di patrimonializzazione, dove le permanenze sono ufficialmente o informalmente

riconosciute ed eventualmente trasformate in risorse, assumendo così molteplici significati culturali, economici e politici nel contesto contemporaneo (Ashworth et al., 2007, pp. 1-4). Come testimonia l’ex sito industriale di Ferrania-3M, non solo gli edifici già sottoposti a tutela emergono come catalizzatori per il turismo industriale e culturale, ma anche ciò che non è ancora percepito né tutelato come patrimonio può fungere da risorsa per il coinvolgimento della comunità locale e dei turisti.

Conclusioni

Nel dibattito sull’analisi e sull’interpretazione delle eredità (post)industriali, risulta fondamentale l’adozione di un approccio alla ricerca fortemente interdisciplinare. Da quanto emerge, seppur in via preliminare in questo breve contributo, la Landscape Biography, integrata con metodi di ricerca etnografica, studi sul patrimonio e sul paesaggio e metodi per l’analisi territoriale, costituisce un’efficace metodologia di ricerca. Concetti come traccia, memoria, cicatrice, risonanza e risorsa possono contribuire efficacemente a esplorare e comprendere il paesaggio (post)industriale, stabilendo le basi per il riconoscimento della ricchezza e della molteplicità di valori associati al paesaggio. La trasformazione della Valle Bormida, da un’economia agricola e proto-industriale a un importante polo dell’industria chimica ligure e la successiva parziale deindustrializzazione, ha lasciato sul territorio un’eredità complessa, tangibile e intangibile, che richiede oggi di essere reinterpretata e rivalutata in quanto risorsa locale. L’uso dell’analisi biografica del paesaggio evidenzia l’importanza di coinvolgere le comunità locali come protagoniste e testimoni delle trasformazioni territoriali. Pertanto, è essenziale promuovere un approccio inclusivo nelle iniziative di riqualificazione e conservazione, attivando processi partecipativi. Questa prospettiva ambisce a ridurre il rischio di indebolimento dei legami socio-culturali, mettendo in risalto la stretta interazione tra memoria, luogo e identità collettiva che definisce una comunità. Infine, è fondamentale riconoscere l’importanza della continuità e della stratificazione delle esperienze nel rafforzare i legami comunitari con il territorio (Apaydin, 2020, pp. 13-14).*

NOTE

1 – Questo contributo è stato redatto nell’ambito del progetto di ricerca Landscapes of Industrial Production: Documenting and Assessing 20th century (post)Industrial Landscapes as Resources – Land-In-Pro finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, nel quadro dell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), Missione 4 “Istruzione e Ricerca” – Componente 2 “Dalla ricerca all’impresa”, Investimento 1.2 “Finanziamento di progetti presentati da giovani ricercatori” e dai piani NextGenerationEU – Progetto n. 100027-2022-FPPNRR-YR_MSCA_0000005. Il contributo delle autrici è suddiviso come segue: FP §Introduzione, §Obiettivi; SR §Risultati e discussione; FP-SR Abstract, §Approccio e metodi, §Conclusioni e revisione scientifica del testo. La metodologia di ricerca e la supervisione scientifica sono a cura di FP, responsabile scientifica del progetto Land-In-Pro

2 – Si rimanda alla legge 9 dicembre 1998, n. 426, Nuovi interventi in campo ambientale e al decreto del Ministero dell’Ambiente del 20 ottobre 1999, Perimetrazione del sito di interesse nazionale di Cengio e Saliceto

3 – Si rimanda al decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 21 settembre 2016, Area industriale complessa Savona

Punk a bestia

Quando si parla di droga, luogo comune vuole che il suo uso sia legato ad un comportamento aberrante, peculiare della specie umana. A contraddire questo paradigma c’è un insieme di dati, sempre più cospicuo e incontestabile, che dimostra che casi di addiction siano diffusi anche nel mondo animale. Mucche che si cibano solo di droghe, capre che perdono i denti a furia di raschiare dalle rocce licheni psicoattivi, scimmie che si mettono in bocca grossi millepiedi per ottenere un effetto esilarante simile al popper, uccelli che si danno a enormi sbornie collettive, gatti che assumono afrodisiaci vegetali prima di copulare, fiori che ricompensano i loro insetti impollinatori con delle droghe invece che col solito nettare.

Da tutte le regioni del globo, gli etologi stanno accumulando una massa di dati sugli animali che si drogano tale da dimostrare che nel comportamento animale - e quindi umano - di assumere droghe v’è una qualche componente naturale. In altre parole, la droga svolge negli animali una qualche funzione naturale non ancora compresa.* Stefania Mangini

La droga preferita delle renne è l'amanita muscaria (Agarico muscario), il fungo allucinogeno per eccellenza, di cui sono abilissime ricercatici nelle foreste di betulle. Dopo la scorpacciata esse iniziano a muoversi in modo scoordinato, si isolano dal branco e ciondolano vistosamente la testa. Le renne sono anche molto attirate dall'urina dei propri simili, dato che contiene una percentuale consistente di sostanza inebriante

Mucche, cavalli e anche pecore possono impazzire (e non è un eufemismo) se si cibano di alcune erbe che crescono in nord America e che vengono comunemente dette locoweed Sono piante selvatiche e psicoattive per gli animali da pascolo, i cui effetti sono principalmente l'auto-isolamento e la perdita di appetito: i soggetti possono diventare cattivi e diffidenti anche nei confronti della mandria

La predilezione degli elefanti va all'alcol: aspettano intenzionalmente la fermentanzione dei frutti delle palme di cui poi si cibano, diventando così ipereccitati e scoordinati Una volta ubriachi, facilmente e quindi diventano aggressivi Per questo vizietto, in India, i pachidermi sono perfino utilizzati per stanare distillerie clandestine

si impauriscono

I pettirossi americani nutrono smodatamente di bacche dell'arbusto conosciuto come California Holly, capace di farli ubriacare. Dopo la scorpacciata, è possibile vedere stormi di uccelli che volano in modo caotico e comico; molti si divertono spingendosi in inseguimenti e giochi stupidi tra di loro, altri giacciono al suolo sbattendo le ali in una sorta di intorpidimento, altri ancora svolazzano addentrandosi in case e auto

I cinghiali e i mandrilli sono i più grandi consumatori di iboga, una pianta le cui radici sono allucinogene Il maschio del mandrillo, in particolare, se ne ciba poco prima di un combattimento per stabilire la supremazia all'interno del branco, oppure per la conquista di una femmina. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che l'iboga venga utilizzata per aumentare la potenza e per attutire il dolore provocato dai colpi subiti

Anche comunissimi insetti come formiche e mosche non sono esenti dall'uso di sostanze stimolanti Il cervo volante è avido consumatore della secrezione di linfa in fermentazione delle querce, che rappresenta una specie di birra naturale con la quale si ubriaca Dapprima comincia a schiamazzare, poi cade barcollando dall'albero, cerca di reggersi goffamente sulle zampe e smaltisce la sbornia dormendo

Il gatto selvatico può sviluppare una dipendenza a diverse specie di piante: oltre alla più nota Nepeta Cataria (erba gatta), ci sono il Teucrium Marum (camedio maro) e la Valeriana: la prima è un afrodisiaco che dà al maschio maggiore potenza prolungando l erezione e alla femmina un comportamento voluttuoso La valeriana invece è un potente allucinogeno

Mentre i ricci sono molto ghiotti di vino, le lumache vanno matte anche per la birra

Francesco Stefano Sammarco

Dottorando in Urbanistica, DiARC, Università degli Studi di Napoli Federico II. francescostefano.sammarco@unina.it

el dibattito multidisciplinare e politico degli ultimi decenni, in Italia, è stata data attenzione crescente agli effetti sul territorio dei processi di dismissione del patrimonio militare, oltre che sugli evidenti limiti della programmazione di politiche pubbliche volte al suo riuso (Camerin, 2022; Damiani et al., 2017; Gastaldi et al., 2019 e 2021). Questa sperimentazione1 si è concentrata sugli spazi aperti e pertinenziali dell’ex caserma Principe Amedeo a Nola e sui sette ettari dell’antistante piazza D’Armi. L’intenzione è stata evidenziare la necessità d’indagare i relativi materiali tossici attraversando i luoghi alla ricerca di segni celati dalle trasformazioni. Per riconoscere il valore assopito del patrimonio militare dismesso2 e in particolare dei grandi spazi aperti che ne risultano, spesso localizzati a ridosso dei centri urbani, è necessario guardare il territorio più da vicino. L’obiettivo è stato costruire un quadro conoscitivo innovativo incrociando le mappature, i disegni interpretativi e la campagna fotografica, quale strumento d’indagine, per individuare i caratteri del luogo e le tematiche rilevanti. L’approccio ha previsto l’utilizzo di metodi e strumenti necessari ad affrontare la condizione di complessità e incertezza che vivono le città contemporanee, al fine di costruire un quadro aggiornato della struttura territoriale e orientare il progetto verso un processo incrementale. Si sono compiute delle esplorazioni “riflessive” (Schön, 1993) con uno sguardo consapevole, tenendo a mente che “a volte la fotocamera vede più del fotografo” (Thompson, 2015). L’intento non è stato realizzare un reportage con una spiccata caratterizzazione tematica, bensì attraversare questi luoghi come dei moderni flâneur prestati alla fotografia con “stile documentario” (Lugon, 2011). Guardare dunque (sia da terra che dall’alto

per mezzo di un drone) questi pezzi dormienti della città e tentare di svelarli per ciò che sono. Il processo di conoscenza territoriale ha permesso di approfondire le diverse connotazioni fisico-spaziali di questi luoghi nonché le sue pratiche consolidate. In seguito alle esplorazioni fotografiche sono state individuate alcune tematiche portanti di questa ricerca, come quella dei muri/recinti e la conseguente apertura alla città, ovvero il passaggio da bordo respingente alla permeabilità e riscrittura dei limiti. Il risultato è un racconto fatto di immagini e disegni in grado di rappresentare spazi e manufatti attraverso diversi punti di vista e in maniera multiscalare. Questa esplorazione fotografica ha permesso di strutturare un quadro della conoscenza più consapevole e di orientare le scelte strategiche. Gli elementi di tossicità vengono ribaltati in punti di forza, predisponendo le azioni progettuali per la valorizzazione del patrimonio militare e dei suoi spazi di prossimità, nonché per attivare una serie di processi di rigenerazione dell’intero contesto urbano verso nuove forme di abitabilità e inclusione.*

NOTE

1 – La ricerca proposta è stata sviluppata nell’ambito della tesi di laurea di Assunta Scibelli Ex Limite a Limine. Piazza d’Armi: da luogo di confine a nuova porta per la città e per una rete territoriale di centralità diffuse (corso di laurea in Architettura, DiARC, Università degli Studi di Napoli Federico II) 2022, relatrice: prof. arch. Anna Terracciano, tutor: dottorando arch. Francesco Stefano Sammarco.

2 – Si fa riferimento, tra le altre cose, alle iniziative perpetrate dal Ministero della Difesa come la Task Force Difesa per la Valorizzazione Immobili, l’Energia e l’Ambiente (online). In difesa.it/task-force-valorizzazione-immobili-energia-e-ambiente/ index.html (ultima consultazione settembre 2024).

01. Una vista aerea dell’ex Caserma, la Piazza d’Armi e una parte del campo sportivo incompiuto; in primo piano i resti archeologici delle mura del periodo vicereale | Aerial view of the former Military Barracks, the Piazza d’Armi and part of the unfinished sports field with the archaeological remains of the walls from the Viceroyal era in the foreground. FS – Francesco Sanmarco

Il racconto dei luoghi liminari

The Story of Liminal Places In the multidisciplinary and political debate of the last decades in Italy, increasing attention has been given to the effects on the territory of the processes of decommissioning of military heritage, as well as on the obvious limits of public policy planning aimed at its reuse (Camerin, 2022; Damiani et al., 2017; Gastaldi et al., 2019 and 2021). This experimentation1 focused on the open and appurtenant spaces of the former Principe Amedeo Barracks in Nola and the seven hectares of the Piazza d’Armi in front of it. The aim was to highlight the need to investigate the related toxic materials by traversing the places in search of signs concealed by transformations.

To acknowledge the slumbering value of the decommissioned military heritage2 and in particular the resulting large open spaces, often located close to old town, it is necessary to look more closely at the territory. The aim was to build an innovative cognitive framework by crossreferencing mapping, interpretive drawings, and photographic campaigning as an investigative tool to identify site characteristics and relevant issues.

The approach involved the use of methods and tools necessary to deal with the condition of complexity and uncertainty experienced by contemporary cities, in order to build an up-to-date picture of the spatial structure and orient the project toward an incremental process. “Reflective” (Schön, 1993) explorations were undertaken with a conscious gaze, keeping in mind that “sometimes the camera sees more than the photographer” (Thompson, 2015). The intent was not to make a reportage with a strong thematic characterization, but to traverse these places like modern flâneurs lent to photography with a “documentary style” (Lugon, 2011). To watch therefore (both from the land and from drone) these dormant pieces of the city and attempt to reveal them for what they are.

The process of spatial knowledge allowed for an in-depth exploration of the different physical-spatial connotations of these places as well as its established practices. As a result of the photographic explorations, some of the main themes of this research were identified, such as that of walls/enclosures and the consequent

Il valore assopito del patrimonio militare dismesso a ridosso dei centri urbani

opening to the city, that is, the transition from a repelling edge to permeability and rewriting of boundaries. The result is a narrative made of images and drawings capable of representing spaces and artifacts through different points of view and in a multi-scalar manner.

This photographic exploration has allowed for the structuring of a more informed knowledge framework and to guide strategic choices. The elements of toxicity are reversed into strengths, preparing the design actions for the enhancement of the military heritage and its proximity spaces, as well as for activating a series of regeneration processes of the entire urban context towards new forms of habitability and inclusion.*

NOTES

1 – The paper being proposed was developed as part of Assunta Scibelli’s Graduate Thesis titled: “Ex Limite a Limine. Piazza d’Armi: da luogo di confine a nuova porta per la città e per una rete territoriale di centralità diffuse” (DiARC, Università degli Studi di Napoli Federico II) 2022, supervisor: prof. arch. Anna Terracciano, tutor: PhD student arch. Francesco Stefano Sammarco

2 – Reference is made to, among other things, initiatives perpetrated by the Ministry of Defence such as the “Defence Task Force for Real Estate, Energy and Environmental Enhancement (online). In difesa.it/task-force-valorizzazione-immobili-energia-e-ambiente/index.html (last access September 2024).

REFERENCES

– Camerin, F. (2022). Regenerar las áreas militares enajenadas desde finales del siglo XX hasta la actualidad: el caso italiano. CyTET, vol. 54 n. 213, pp. 641-664. – Damiani, G., Fiorin, D.R. (2017). Military Landscape. Scenari per il futuro del patrimonio militare. Milano: Skira. – Gastaldi, F., Camerin, F. (2019). Aree militari dismesse e rigenerazione urbana. Potenzialità di valorizzazione del territorio, innovazioni legislative e di processo. Siracusa: LetteraVentidue. – Gastaldi, F., Camerin, F. (2021). Prospettive, dibattiti e riconversioni in Italia, Spagna e in contesti internazionali. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore. – Lugon, O. (2008). Lo stile documentario in fotografia: da August Sander a Walker Evans: 1920-1945. Milano: Electa.

– Schön, D.A. (1993). Il professionista riflessivo: per una nuova epistemologia della pratica professionale. Bari: Dedalo.

– Thompson, J.L. (2015). A che serve la fotografia. Milano: Postmedia Books.

02. Gli spazi del cortile dell’ex Caserma in relazione con la Piazza d’Armi e il bordo del centro storico di Nola | The courtyard spaces of the former Military Barracks in relation to the Piazza d’Armi and the edge of Nola’s old town. FS

03. Un dettaglio aereo delle condizioni della copertura dell’ex Caserma | An aerial detail of the condition of the former Military Barracks roof. FS

04. Alcuni usi che avvengono nella Piazza d’Armi | Some uses that take place in the

05. Dettaglio del susseguirsi di tagli e barriere tra la Piazza d’Armi e il contesto urbano | Close-up detail of the succession of cuts and barriers between the Piazza d’Armi and the urban context. FS

06. Una delle tante barriere del luogo che impediscono la permeabilità fisica e percettiva tra gli spazi | One of many barriers in place that prevent physical and perceptive permeability between spaces. FS

07. Una vista delle “casermette” e degli altri alloggi sul retro dell’ex Caserma | A view of the “barracks” and other housing at the rear of the former Military Barracks. FS

08. Gli spalti del campo sportivo incompiuto e lo stato di abbandono generale | The stands of the unfinished sports field and the general state of decay. FS

Piazza d’Armi. FS

Guardare questi pezzi dormienti della città e tentare di svelarli per ciò che sono

10. Materiali e arredi scolastici abbandonati. L’ex Caserma, per un breve periodo, ha ospitato in una sua ala una scuola che è stata dismessa e abbandonata alla fine del ’900 | Abandoned school materials and furniture. The former Military Barracks briefly housed a school in one of its wings that was decommissioned and abandoned in the late 90s. FS

09. Vista del cortile interno dell’ex Caserma | View of the inner courtyard of the former Military Barracks. FS

Gli spazi oggi in abbandono della città di Montebelluna raccontano una storia locale fatta di operosità e sviluppo, trasversale nel tempo e nello spazio. Ai complessi di archeologia industriale si affiancano oggi strutture abbandonate prima del loro completamento. Scheletri in cemento armato sorti non distanti dai muri in mattoni invasi dalla vegetazione. Quello che resta di quel passato, e di questo presente, pone l’attenzione sull’importanza del “tempo lungo” nella trasformazione urbana, attraverso il quale “oggi si avverte una collisione tra il ‘tempo lungo’ della natura e il ‘tempo breve’ degli uomini e della loro capacità di previsione” (Albrecht et al. , 2016, p. 15). Il progressivo consumo di suolo e l’impatto ambientale già incorporati nel costruito esistente rendono gli spazi in disuso occasioni di ripensamento per nuovi usi e funzioni ma soprattutto, analizzati in successione, ricordano l’emergenza di guardare al passato, e imparare da esso, per progettare il futuro. Divengono così quegli “spazi in attesa” che per Marc Augé “ridestano la tentazione del passato e del futuro” e ci spingono a interrogarci sulla storia da leggere e interpretare (Augé, 2004, p. 93). Osservare e conoscere questi “spazi in attesa” è dunque un invito e uno stimolo a porli al centro di un approccio progettuale che, mentre offre un nuovo senso a quanto c’è, pensa all’impronta che lascerà al futuro. *

Come molti centri dell’area pedemontana veneta, Montebelluna, città di oltre trentamila abitanti in provincia di Treviso, ha visto il proprio sviluppo urbano connesso alle diverse fasi della crescita delle sue industrie. La prima fase portò tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento alla costruzione dell’attuale centro e allo sviluppo di numerose industrie trainanti per il territorio. Nel dopoguerra la cittadina, centro di snodo tra l’area prealpina e la pianura, si contraddistinse per lo sviluppo del settore calzaturiero, ancora oggi traino dell’economia locale nonostante la produzione sia stata gradualmente sostituita da funzioni direzionali e logistiche.

REFERENCES –Albrecht, B., Magrin, A. (2016). Durabilità e patrimonio. Eredità e futuro. Precisazioni di restauro urbano. Milano: Mimesis. –Augé, M. (2006). Rovine e macerie: il senso del tempo . Torino: Bollati Boringhieri.

Ogni nuova area a carattere industriale è progressivamente sorta esternamente al tessuto urbano che aveva nel frattempo inglobato le precedenti. A capannoni e centri logistici che fanno parte della storia recente, quella in cui le nuove zone industriali sorte lungo i perimetri comunali sono divenute parte di un collegamento continuo tra i centri, si contrappongono oggi i primi poli industriali trasformati in luoghi abbandonati e sempre più fatiscenti ma centrali e ancora vivi nella memoria locale. La coesistenza dei due tempi, lo sviluppo antico e quello contemporaneo, mettono in luce l’eredità che i complessi industriali in disuso lasciano nel territorio: un proliferare tossico, una crescita industriale che a nuovi obiettivi ha risposto con nuove strutture giustapposte alle precedenti, e al contempo una nostalgica ricerca di un’identità perduta che rivive nei segni e nei casi di riuso. Nel 2017 la mostra Lost. La Montebelluna in disuso organizzata dal festival CombinAzioni all’interno di due negozi sfitti è stata l’occasione per raccontare gli spazi abbandonati del tessuto montebellunese e interrogarsi sui loro possibili riusi. Il progetto ha visto la mappatura degli spazi abbandonati della città attraverso passeggiate esplorative e raccolta di testimonianze, continuate negli anni successivi, e un’esplorazione di alcuni di questi tramite foto d’autore e un racconto epistolare che ne ripercorreva gli spazi mettendo in luce lo stretto rapporto tra storia locale e spazi in disuso. Vecchie fabbriche, mulini, ville storiche, negozi, cortine urbane e anche un antico cimitero, i luoghi individuati raccontano uno spaccato del passato che non ha saputo adeguarsi al trascorrere rapido del tempo.

Lost: memoria locale negli spazi industriali in disuso

Lost: Local Memory in Disused Industrial Areas

Chiara Semenzin

Architetta, PhD e assegnista di ricerca, Composizione architettonica, DCP, Università Iuav di Venezia. csemenzin@iuav.it

Area industriale. Lost: la Montebelluna in disuso. Industrial area. Lost: the disused Montebelluna. Lorena Bolzonello

NOTE 1 –L’Iba Emscher Park è una società finanziata dalla regione della Land nel 1988. L’Iba nasce con l’obiettivo di risanare il sistema fluviale, integrando all’interno del disegno dell’Emscher, le rovine industriali come nuovi luoghi culturali. 2 –Progetto vincitore su base concorsuale da P. e A. Latz. 3 –Tecnica di bonifica del terreno mediante l’impiego di piante capaci di assorbire sostanze inquinanti.

REFERENCES –Clement, G. (2014). Ho costruito una casa da giardiniere Macerata: Quodlibet. –Leppert, S. (1998). Landschaftspark Duisburg Nord, Germania Domus, n. 802, pp. 32-37. –Longo, A. (1996). GrunGurtel Frankfurt, Emscher

Landschaftspark: politica degli spazi aperti in Germania. Urbanistica , n. 107, pp. 95-130.

“Io posso sperare che il progetto […] continuerà a espandersi, invece di conoscere un termine, e guiderà lo sguardo verso nuovi confini” (Clement, 2014, p. 106). Una volta cessata l’attività di produzione dall’acciaieria Thyssen, dal 1985 la città di Duisburg presentava un’area di circa 200 ettari ricoperta da altiforni, depositi di carbone, strade ferrate e canali di scolo dismessi e con una grande percentuale di suolo contaminato da metalli pesanti. A partire da un’iniziativa del governo del Land Nordrhein Westfalen, nel 1988 viene istituita la società finanziaria Iba Emscher Park che ha permesso l’avvio di una serie di politiche locali dedicate alla ricostruzione del paesaggio della regione della Ruhr 1 (Longo, 1996). Inaugurato nel 1994, il Landschaftspark a Duisburg Nord testimonia ancora oggi l’antica cultura del lavoro pur aprendosi, fin dalla sua ideazione, alla cultura del tempo libero 2 . Il processo ideativo utilizzò il pretesto delle bonifiche per affrontare la questione del riuso dei manufatti industriali ai fini di una riattivazione sociale. Il territorio italiano conta 42 Siti d’Interesse Nazionale (SIN), classificati in relazione alle caratteristiche, quantità e pericolosità degli inquinanti. Quale sarà il futuro delle aree industriali italiane come quelle del settore petrolchimico o delle acciaierie? Può un progetto ideato a inizio anni ’90 essere ancora un buon esempio da seguire? Il punto di forza del Landschaftspark è stata la capacità di costruire un parco nel quale si concretizza la cultura del tempo libero e al contempo si conserva un luogo in cui per anni i cittadini hanno condiviso lo spazio del lavoro. Il tema delle bonifiche può essere anche interpretato come una sorta di pretesto dell’iter progettuale per introdurre un elemento importante: il tempo. Le fasi di realizzazione procedono graduali, tant’è che ancora oggi alcune aree stanno subendo il processo di bonifica mediante l’utilizzo della tecnica del fitorisanimento 3 , permettendo di conseguenza un cambiamento lento e spontaneo (Leppert, 1998). Il progetto del parco si propone quindi come elemento cicatrizzante usando come principi attivi la vocazione naturale del luogo e le potenzialità scenografiche dei manufatti industriali. I lenti processi di realizzazione, la molteplicità di funzioni e la fusione di bonifica e riuso industriale sono il risultato di un processo ideativo che è riuscito, attraverso delle strategie operative sia economiche che sociali, a porre le basi per nuovi scenari di vita per abitanti e visitatori. La dilatazione del tempo di ultimazione ha permesso agli abitanti del luogo di familiarizzare e di riacquistare a poco a poco uno spazio che è stato loro tolto, ma che da sempre è appartenuto alla città di Duisburg. Passeggiare e praticare sport in quel luogo, quindi attraverso un’esperienza sensibile, permette al visitatore di ristabilire un legame con il passato industriale dell’area e di vedere da vicino i lenti processi di risanamento della stessa. Il Landschaftspark è ancora oggi uno dei casi studio di riferimento perché, fin dalla sua ideazione, il tema centrale è stata la tutela delle risorse naturali presenti in loco , che ha alimentato uno sviluppo territoriale sostenibile e mantenuto vivo il patrimonio culturale dell’area. La nostra società è sempre più consapevole della responsabilità dell’uomo nei confronti dell’ambiente e questo del Park è solo uno degli esempi che potrebbe rappresentare il futuro delle nostre aree. La lenta riattivazione urbana, in linea con i tempi di bonifica, e la multifunzionalità degli spazi legata alla pratica del tempo libero, potrebbero essere valide vie da perseguire nelle future fasi attuative delle politiche urbane e nelle proposte progettuali, per una loro corretta attuazione all’interno del territorio italiano. *

Da bonifica a rigenerazione urbana: il caso Landschaftspark

Amanda Zaramella

Dottoressa in Architettura, Università Iuav di Venezia. zaramella.amanda@gmail.com

Giuseppe Miotto

Architetto e fotografo. info@giuseppemiotto.com

Teatro industriale. Industrial theatre. Giuseppe Miotto

Giorgia Aprosio

Curatrice e critica d’arte indipendente. aprosio.giorgia@gmail.com

Bikini Where the atomic explosions had created a 2 km wide crater, erasing every trace of animal and plant life and blowing up the coral reef, today 183 different species of coral are identified. 65% of the marine biodiversity prior to the nuclear tests has resettled in the seas surrounding Bikini Atoll, the atoll of the Marshall Islands chosen between, as a site for US military nuclear detonations. As nature tries to reclaim its spaces, Bikini has become a destination for a particular, somber tourism attracted by post-atomic curiosities. Julian Charriére (artist) and Nadim Samman (curator) decided to address the issue by spending a month in the Marshall Islands.*

l bikini

Nel suggestivo scenario dell’estate 1946, Parigi vide la nascita di un’icona di moda rivoluzionaria: il bikini. Si narra che Louis Réard, ingegnere automobilistico francese che nel 1940 aveva rilevato il negozio di lingerie della madre, concepì l’idea osservando mosaici antichi con atlete romane in vesti succinte. Il bikini, che per la prima volta lasciava scoperta la pancia, fu reso pubblico il 5 luglio, poco prima dell’inizio della stagione estiva. La sua introduzione provocò un vero e proprio scalpore nel costume occidentale, tanto che le modelle si rifiutarono di indossarlo. Fu quindi una spogliarellista del Casino de Pa-

Bikini

01. La spogliarellista Micheline Bernardini indossa il primo bikini a Parigi, Francia | Stripper Micheline Bernardini wears first bikini in Paris, France. Bettmann/CORBIS

La leggera allusione al nucleare fu utilizzata per promuovere il

bikini

ris, Micheline Bernardini, a indossare il capo durante la presentazione ufficiale (img. 01).

Il nome del costume non era casuale. Nello stesso anno, a migliaia di chilometri di distanza, gli Stati Uniti avviavano l’operazione Crossroads per testare gli effetti delle esplosioni nucleari nell’atollo di Bikini, situato nelle Isole Marshall. La leggera allusione al nucleare fu utilizzata per promuovere il bikini, con le testate francesi che titolavano: Le bikini, la première bombe anatomique (Bikini, la prima bomba anatomica)1.

Tra le isole Marshall, 1946

Bikini è un atollo delle Isole Marshall composto da 36 piccole isole, con una laguna di 594,2 km² e situato a soli due miglia a sud-ovest delle famose Hawaii. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale, le Marshall furono cedute agli Stati Uniti dalle Nazioni Unite, che avevano l’incarico di garantire la sopravvivenza della cultura e dell’identità del popolo autoctono. Il 24 gennaio 1946, l’ammiraglio statunitense Blandy decise che Bikini era il luogo ideale per testare le potenzialità della bomba atomica, allora nuova e sconosciuta. L’isola fu evacuata e i

suoi abitanti trasferiti a Rongerik, un atollo distante poco più di 200 km, con la promessa di un “piccolo sacrificio” per il bene dell’umanità e per porre fine a tutte le guerre nel mondo. Il 1° luglio 1946 iniziò l’operazione Crossroads. L’esplosione dell’ordigno Able distrusse una flotta di 95 navi bersaglio abitate da animali, come pecore a cui era stato tosato il vello e applicata una crema protettiva dalle radiazioni. La flotta fu completamente distrutta. Il 24 luglio 1946, il test Baker coinvolse un ordigno ancorato a una nave a 27 metri sotto il livello del mare, e non furono trovati frammenti dell’imbarcazione. Cinquemila uomini delle forze armate americane furono mandati a rimuovere le scorie residue dalle navi della flotta, esponendosi a contaminazione (img. 04). Il terzo test fu annullato per mancanza di bersagli utilizzabili.

Il 12 agosto 1953, la Russia sperimentò la Bomba H, un ordigno all’idrogeno, evoluzione della bomba atomica basata sulla fissione nucleare. Questo tipo di ordigno costituisce oggi la maggioranza delle armi nucleari moderne. In risposta, il 1° marzo 1954, gli Stati Uniti detonano Bravo, il più grande esperimento termonucleare

02. Effetti della singolarità di Prandtl-Glauert durante l’esplosione Baker | Effects of the Prandtl-Glauert singularity during the Baker explosion. CCO Wikimedia

mai realizzato. Il fallout colpì la popolazione evacuata otto anni prima su Rongerik, causando ustioni a seguito di una pioggia di corallo radioattivo.

Tra il 1954 e il 1958, furono esplose altre 21 bombe nucleari a Bikini, con tassi di radioattività simili tra Bikini e Rongelap. Gli Stati Uniti fornirono servizi medici per studiare gli effetti delle radiazioni nucleari, ma una parte degli abitanti fu inviata a Chicago per esami, e alcuni non fecero ritorno, come documentato nel film

Half-Life del 1985 di Denis O’Rourke.

Le radiazioni nucleari si dimezzano solo a livello atmosferico ogni 30 anni, ma rimangono attive negli uomini, animali e vegetali, in particolare nelle noci di cocco, principale nutrimento per gli abitanti delle Isole Marshall. Nel 1986, il governo locale intentò una causa contro gli Stati Uniti per ottenere risarcimenti. Dei 2,3 miliardi di dollari assegnati, furono erogati solo 4 milioni, insufficienti per risanare una popolazione che rimane l’unico esempio di umanità postatomica.

A livello internazionale, lo sradicamento fisico e culturale di Bikini si manifesta nella sua identificazione lin-

guistica egemonica: oggi la correzione automatica di MS Word riconosce “Bikini” come corretto, ma non “Bikinian”.

Fotografia atomica, 1946-1958

Le fotografie giocarono un ruolo cruciale nel plasmare la percezione pubblica degli eventi. Nonostante la segretezza delle operazioni, gli esperimenti nucleari americani sulle Isole Marshall sono tra i più documentati. Il fungo atomico della bomba Baker apparve sulle pagine di Life circa un anno dopo (img. 03).

Dell’operazione Castle rimangono riprese aeree, effettuate a sole 50 miglia dall’esplosione, a colori e con un tempo di ripresa aderente alla realtà. Il fungo atomico raggiunse le cinque miglia pochi secondi dopo l’esplosione. Trincee furono costruite per proteggere i fotografi appostati sulle spiagge. Queste immagini rappresentano ciò che la cinematografia cerca di ricreare attraverso la fiction. Gli esperimenti nucleari sono stati sempre affiancati da un interesse fotografico, ma la fotografia ufficiale ha preferito mantenere una narrazione idealizzata, piuttosto che affrontare la dura realtà dei costi umani. Le forze statuni-

La fotografia è una potente forza politica e mediatica, usata per mostrare ciò che si desidera
03. La foto più famosa di Baker. Si è formata una nuvola di Wilson rivelando la colonna d’acqua nebulizzata. L’area in nero a destra della colonna segna la posizione della corazzata Arkansas | Baker’s most famous photo. A Wilson cloud formed revealing the atomized water column. The black area to the right of the column marks the position of the battleship Arkansas. CCO Wikimedia

tensi rispondevano alla provocazione della supremazia nucleare russa attraverso l’immagine, mentre le testate giornalistiche mostrano la potenza senza evidenziare le conseguenze. La fotografia è una potente forza politica e mediatica, usata per manipolare la percezione pubblica e mostrare ciò che si desidera, piuttosto che garantire la verità.

First Light, 2016

La serie fotografica First Light (2016) dell’artista Julian Charrière è il risultato di un viaggio nelle aree contaminate. Charrière e il curatore Nadim Samman hanno trascorso un mese nelle Isole Marshall, affrontando la questione in prima persona. Dove esplosioni atomiche avevano devastato la vita animale e vegetale e distrutto la barriera corallina, oggi si sono individuate 183 specie diverse di corallo. Bikini è diventata meta di un turismo particolare attratto dalle curiosità postatomiche, ma non c’è spazio per il rinsediamento umano. È solo un luogo di passaggio.

Attraverso immersioni, spedizioni e rapporti con la gente del posto, Charrière e Samman sono diven-

tati testimoni dei resti della hybris che ha cambiato per sempre le Isole Marshall. Il risultato è un libro, Noi che galleggiavamo (MAMbo, 2019), e una mostra, All We Ever Wanted Was Everything And Everywhere2, che intrecciano passato, presente e futuro. Ispirato parzialmente a The Terminal Beach (1964) di J.G. Ballard, First Light è la seconda parte di un dittico che esplora i paesaggi nucleari del XX secolo su entrambi i lati della cortina di ferro. Il progetto segue una precedente serie realizzata presso il sito di test nucleari sovietico di Semipalatinsk - in Kazakistan nel 2014 -, registrando l’eredità architettonica dell’era atomica. Le stampe fotografiche di grande formato ritraggono scenari idilliaci tipici delle isole tropicali, ma l’artista altera le immagini con sabbia e terra prelevate da siti nucleari, sottolineando la bellezza distruttiva dei “secondi soli” atomici. La pellicola esposta a materiale radioattivo distrugge e altera le immagini, aggiungendo una nuova dimensione. Questo intervento materialmente atomico rivela uno dei tanti processi di consunzione che continuano a verificarsi nell’ecosistema postcoloniale dell’atollo.

First Light non è solo una rappresentazione artistica, ma anche un’indagine sulla persistenza del trauma nucleare nelle Isole Marshall a livello sociale, culturale ed ecologico. Senza ricorrere a immagini d’archivio, l’artista dimostra come il presente di questi luoghi sia profondamente legato alla traccia immateriale del passato, sottolineando la responsabilità dell’immagine fotografica nel preservare la verità storica.

L’effetto delle scorie sulla pellicola crea macchie di luce simili a un filtro Instagram, sfidando la percezione distorta di Bikini come simbolo di evasione: da un lato il pacifico cliché della fotografia da cartolina, dall’altro la bellezza distruttiva dei “secondi soli” atomici.*

NOTE

1 – Lo scopo dell’ordigno “Fine di mondo” è perduto se si tiene segreto. ll dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964).

2 – La mostra a cura di Lorenzo Balbi è stata realizzata presso il Museo d’Arte Moderna di Bologna MAMbo dal 9 giugno all’8 settembre 2019.

REFERENCES

– O’Brian, J. (2015). Camera Atomica: Photographing the Nuclear World. London: Black dog publishing.

– Samman, N., Charriere, J. (2019). Noi che galleggiavamo nell’atollo Bikini. Bologna: Bologna Istituzione Bologna musei, Mambo.

04. Vista dell’installazione All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MAMBo, Bologna, 2019 | Installation view: All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, MAMBo, Bologna, 2019. Giorgio Bianchi

Post-War Industrial Ecologies During the post-World War II period, England implemented an ambitious plan of reconstruction, for the recovery of destroyed areas and the design of new districts and cities. As part of the transformation, interventions for new power complexes, which altered extensive rural areas, assumed prominence. By analyzing characters and landscape mutations at Gale Common (Colvin, 1962) and Wylfa (Crowe, 1969), the text highlights permanent qualities and transitional forms of large-scale energy landscapes, assessing their ecological content and future potential.*

ntroduzione

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il paesaggio inglese fu investito da un’opera di ricostruzione statale col fine di recuperare ampie aree danneggiate dalla guerra. Insieme al New Towns Act del 19461, che diede vita a grandi interventi urbani per nuovi quartieri e insediamenti, il successivo Town and Country Planning Act del 1947 costituì l’atto fondativo per la pianificazione paesaggistica del nuovo welfare state. In particolare, estesi brani di campagna subirono, in un arco di tempo relativamente breve, radicali trasformazioni dovute alla realizzazione di complessi per la produzione di energia, che alterarono inevitabilmente i caratteri e le trame

del paesaggio rurale. Basti pensare che dopo l’ingegneria infrastrutturale, gli impianti energetici hanno causato sul paesaggio i maggiori impatti (Aldous e Clouston, 1979).

In questo contesto, la statalizzazione del settore energetico e la sua riorganizzazione sancita dall’Electricity Act del 19572 assunsero un ruolo cruciale per gli effetti che l’installazione dei siti industriali avrebbe impresso sul territorio. A tal proposito, nei contenuti della legge emergeva una certa attenzione alla tutela della natura attraverso la cosiddetta “Amenity Clause” – letteralmente “Clausola di amenità” – la quale invitava a minimizzare le conseguenze della produzione energetica sulla “bellezza naturale”

Ecologie industriali postbelliche

01. L’impianto di Wylfa visto dall’autostrada dopo le modifiche. Schizzo di Sylvia Crowe | Wylfa station from the highway after the changes. Sketch by Sylvia Crowe. MERL Archive (Sylvia Crowe Collection)

della campagna e sulla flora e la fauna (Csepely-Knorr, 2022). Questo approccio illuminato alla pianificazione, unito all’impegno che i professionisti misero in campo per configurare ampie parti di territorio, portò fra il 1950 e il 1960 alla costruzione in Inghilterra di circa sessanta centrali elettriche. Guidati da principi di rispetto ambientale e preservazione naturale – idea che affonda le sue radici nel concetto di Pittoresco3 (Matless, 2016) – architetti e paesaggisti dell’ILA (Institute of Landscape Architect) appoggiarono la causa nazionale e divennero autori dei nuovi interventi.

Obiettivi

Alla luce di tali premesse, il paper mostra, con l’aiuto di due esempi concreti, strategie compositive e componenti ecologiche che hanno permeato i complessi produttivi nella dimensione territoriale. Lo scopo risiede nel valutare quali siano qualità transitorie e permanenti di questi interventi alla grande scala, come la firma di chi li ha concepiti abbia influito nella loro riuscita, e quanto la loro evoluzione abbia influenzato le mutazioni del territorio. Infine, mostrare il loro destino è utile a comprendere il peso dell’eredità nel contemporaneo e a prefigurare potenziali futuri sviluppi dei paesaggi energetici.

Approccio e metodi

Lo studio procede induttivamente a partire dall’analisi di due casi studio emblematici nel panorama energetico inglese, la cava di Gale Common (East Yorkshire, 1962) e la centrale nucleare di Wylfa (Galles, 1969), con un approccio mirato a tirarne fuori le peculiarità, che mettono in rilievo la sensibilità progettuale delle rispettive autrici. Metodologicamente, il testo si serve di alcune espressioni chiave e dei disegni delle stesse progettiste, che rendono tangenti i ragionamenti e permettono di inquadrare i temi in un ambito disciplinare e operativo più ampio.

Risultati e discussione

All’interno della rete di professionisti incaricati dal Central Electricity Generating Board (CEGB) della concezione

dei nuovi complessi industriali, spiccano le figure delle paesaggiste Brenda Colvin (1897-1981) e Sylvia Crowe (19011997). Legate da un solido rapporto di amicizia, oltre che da una ventennale collaborazione professionale, le due svilupparono una particolare sensibilità verso il paesaggio di grande dimensione, dove la necessità di integrare i segni delle infrastrutture e delle attività produttive indirizzava verso un intervento “a bassa definizione”, in cui la dolce modellazione del suolo e l’uso tridimensionale della vegetazione mediavano le grandi strutture industriali (Clarke, 2013), a scapito di un’azione antropica più evidente e indiscriminata. In questo nuovo scenario, gli edifici dovevano stagliarsi come grandi corpi scultorei di scala gigante (Charlton e Harwood, 2020). Nel corso del loro lungo operato Colvin e Crowe interpretano tali principi compositivi, progettando entrambe numerosi paesaggi dell’energia.

Brenda Colvin venne coinvolta come aprifila nel programma industriale già dal 1952, ma fu negli anni Sessanta che la sua maturità progettuale diede i suoi frutti. Ponendo l’attenzione sulla forte presenza delle nuove industrie, nel suo celebre testo Land and Landscape (Colvin, 1970), la progettista sottolinea come “le centrali elettriche, le raffinerie di petrolio, le fabbriche e gli acquedotti devono occupare il loro posto, nel tempo, con le piramidi, i castelli e i templi del passato” (Colvin, 1970, p. 344, T.d.A.). Consapevole dell’inefficace azione di camuffamento dei manufatti architettonici, nei suoi progetti Colvin cambia punto di vista, impiegando grandi masse arboree ordinate su piani orizzontali, per proporzionare l’altezza degli impianti, coprire gli elementi più bassi e tracciare una nuova tessitura vegetale in armonia con la trama agricola circostante. Molti suoi interventi si dispongono per giaciture orizzontali, come nel caso di Eggborough (Yorkshire, 1962), dove l’intero sito venne circondato da un’ampia cintura verde. Ma l’industria produce scarto, rifiuto tossico. Proprio dal desiderio di trovare una soluzione adeguata all’accu-

Statalizzazione

e coinvolgimento del settore energetico

02. Copertina di The Landscape of Power, S. Crowe, 1958 | Cover of The Landscape of Power, S. Crowe, 1958. Proprietà dell’autrice

Progetti di paesaggio alla grande dimensione

mulo di ceneri di questo impianto e di quello di Ferrybridge nasce il progetto per l’ex cava di Gale Common. Già dalla destinazione del futuro sito emerge l’approccio ecologico mostrato dalla committenza statale nel voler trasformare un sito di estrazione tramite il riuso di materiale. Una volta terminato lo spazio a disposizione nelle centrali di origine, le ceneri di combustione polverizzate (PFA) iniziarono a essere pompate in tubi sotterranei e si sedimentarono via via in strati di suolo crescenti. Si stimava che in trent’anni di attività delle centrali, si sarebbe formato un rilievo collinare alto circa 150 metri, utile alle attività agricole e all’allevamento. Il progetto di Brenda Colvin per l’area si configura come un tassello di questo processo di modificazione artificiale. Con gesto deciso e archetipico, che rimanda alla preistorica tradizione dei mound4 inglesi, viene modellata una collina di 70 metri di altezza, scandita da tre terrazzamenti inclinati, segnati da fasce di protezione piantumate. Pochi semplici segni compongono un paesaggio non particolarmente nuovo nel suo linguaggio, ma inedito nel modo in cui interpreta il significato del luogo attraverso un profondo pensiero ecologico.

Come la sua collega, anche Sylvia Crowe in The Landscape of Power

(Crowe, 1958) si era espressa a proposito del rapporto fra gli impianti produttivi e il paesaggio, sostenendo che “la scala e la maestosità dei reattori e delle turbine dovrebbero essere accettate; niente può umanizzarle o metterle in relazione con un paesaggio a piccola scala” (Crowe, 1958, p. 63, T.d.A.). Le sue proposte progettuali includevano dettagliate indicazioni anche sulla gestione delle componenti ecologiche, come la conservazione della vegetazione esistente, la modellazione del suolo e la piantumazione di nuove alberature (Coucill, 2017). Fra gli altri, l’esempio che meglio esprime la complessità del suo progetto di paesaggio è quello della centrale di Wylfa, realizzata nel 1969 come prima parte di un ampio programma nucleare. Crowe affronta questa sfida progettuale in un’ottica di cooperazione con gli altri architetti e ingegneri del team e con il desiderio di adeguare le forme del paesaggio alle ardite geometrie dei reattori nucleari. Dunque il sito viene interpretato a partire dai punti di vista da e verso la centrale, in modo da accentuare al massimo la drammaticità della scala industriale. La soluzione compositiva è anche in questo caso decisa ed elementare: plasmare il terreno in rilievi boscosi riutilizzando 500 metri cubi di mate-

03. Sito di smaltimento delle ceneri di Gale Common, 2013 | Gale Common Ash Disposal Site, 2013. Jonathan Thacker
04. Copertina di Land and Landscape, B. Colvin, 1970. | Cover of Land and Landscape, B. Colvin, 1970. Proprietà dell’autrice

fornire una quinta da cui i volumi della centrale spicchino chiaramente.

Conclusioni

Per valutare il ruolo che i paesaggi energetici del secondo dopoguerra inglese hanno assunto nel tempo fino ad oggi, occorre in conclusione considerare la loro sorte, per immaginare possibili scenari futuri e direzioni della pratica paesaggistica in ambito produttivo.

Riguardo al funzionamento della centrale nucleare di Wylfa, si è assistito alla chiusura dei reattori nel 2012. Già nel 2008 però, era stato proposto dalla Horizon Nuclear Power un nuovo progetto per il sito con la costruzione di due nuovi reattori. Nel 2018 la società aveva prodotto un report in cui argomentava il pregio del progetto paesaggistico di Sylvia Crowe, nella possibilità di integrarlo in vista dell’ampliamento5. Ad oggi si continua a discutere sul destino di questo impianto, la cui straordinaria declinazione territoriale sembra costituire il principale elemento di permanenza. Per il caso di Gale Common, la natura evolutiva dell’intervento prosegue anche oggi: completato nel 2005 il primo livello della collina, i profili e gli ambiti del rilievo sono andati mo-

dificandosi negli anni a causa delle mutevoli esigenze locali (Moggridge, 2021). È interessante notare come la cessazione della produzione elettrica da carbone in vista della riduzione delle emissioni di CO2 abbia reso i sedimenti di PFA particolarmente preziosi come materiale da costruzione, tramutando ancora una volta un’eredità tossica in potenziale ecologico per usi futuri.*

NOTE

1 – Si tratta dell’atto legislativo che l’Unione nazionale del Town and Country planning diede avvio per la realizzazione di 28 città di fondazione, le cosiddette New Towns.

2 – Con questo documento viene istituito il Central Electricity Generating Board (CEGB), ovvero l’organo nazionale incaricato di concepire, avviare e gestire le nuove centrali elettriche.

3 – Si fa riferimento alla lunga tradizione paesaggistica inglese, e in particolare all’ideale estetico per cui la visione di una campagna apparentemente incontaminata doveva restituire un’immagine appagante e nostalgica del paesaggio. Personaggi chiave nel consolidamento del Pittoresco furono figure come Capability Brown e Humphrey Repton, entrambi vissuti nel corso del Settecento.

4 – Sono tumuli di suolo artificiale di origine sacra sparsi nel territorio inglese, il più conosciuto dei quali è Silbury Hill, vicino ad Avenbury (Wilthshire).

5 – È il documento dal titolo Assessment of Significance of Dame Sylvia Crowe's Landscape Design at the Existing Power Station, redatto dalla Horizon Nuclear Power nell’ambito del Wylfa Newydd Project

REFERENCES

– Aldous, T., Clouston, B. (1979). Landscape by Design London: William Heinemann.

– Charlton, S., Harwood, E. (a cura di) (2020), 100 20thCentury Gardens and Landscapes. London: Batsford.

– Clarke, J. (2013). ‘High Merit’: existing English postwar coal and oil-fired power stations in context. Central Electricity Generating Board Midlands Region, London: Historic England.

– Colvin, B. (1970). Land and Landscape: Evolution Design and Control. London: John Murray.

– Coucill, L. (2017). Pioneering Power: How economic motives shaped the design of energy infrastructure in the post-war period. Paper presented at ECLAS, Greenwich, United Kingdom.

Da eredità tossica

a

potenziale ecologico per usi

– Crowe, S. (1958). The Landscape of Power. London: The Architectural Press.

– Csepely-Knorr, L. (2022). ‘Conditions in landscape which the public as a whole wishes to see and enjoy’ – electricity generation, amenity and welfare in postwar Britain. Geografiska Annaler: Series B, Human Geography, 104:3, pp. 192-208.

– Matless, D. (2016). Landscape and Englishness. London: Reaktion Books.

– Moggridge, H. (2021). Post-war power. Landscape: the journal of the Landscape Institute. Issue 3. Liverpool: Darkhorse Design Ltd, pp. 15-17.

05. Sito di smaltimento delle ceneri di Gale Common, 2013 | Gale Common Ash Disposal Site, 2013. Jonathan Thacker riale di scavo, in modo da

Letizia Goretti

PhD Cultura visuale, fotografa e ricercatrice indipendente. letizia.goretti@yahoo.it

La Storia umana

Monumento all’abolizione della schiavitù (dettaglio), Jean-Claude Mayo (1989), Saint-Nazaire, Francia, 2024

1) La parola fascismo è di conio recente, ma corrisponde a un sistema sociale di decrepitudine preistorica, assolutamente rudimentale, e anzi meno evoluto di quello in uso fra gli antropoidi (come può confermare chiunque abbia nozioni di zoologia). 2) Simile sistema si fonda infatti sulla sopraffazione degli indifesi (popoli o classi o individui) da parte di chi tiene i mezzi per esercitare la violenza. 3) In realtà, fin dalle origini primitive e lungo tutto il corso della storia umana, universalmente non sussiste altro sistema fuori di questo. Recentemente, si è dato il nome di fascismo o nazismo a certe sue eruzioni estreme d’ignominia, demenza e imbecillità, proprie della degenerazione borghese: però il sistema in quanto tale è in atto sempre e dovunque (sotto aspetti e nomi diversi, e magari contrarii […]) sèmpar e departùt dall’inizio della storia umana […] (Elsa Morante, La Storia, 1974).*

Human History

Monument to the Abolition of Slavery (detail), Jean-Claude Mayo (1989), Saint-Nazaire, France, 2024

1) The word Fascism is of recent coinage, but it corresponds to a social system of prehistoric decrepitude, absolutely rudimentary, and indeed less evolved than that used among anthropoids (as anyone who knows something about zoology can confirm). 2) Such a system is in fact based on the exploitation of the helpless (peoples or classes or individuals) by those who have the means to use violence. 3) Indeed, from primitive origins, universally, and throughout the course of human History, there has existed no other system but this. Recently, the name of Fascism or Nazism has been given to certain extreme eruptions of ignominy, madness, and stupidity, characteristic of bourgeois degeneration; however, the system as such is still functioning everywhere (under different, even contradictory names and aspects […]), always and everywhere, since the beginning of human History […] (Elsa Morante, History: a novel, 2000).*

Luca Zecchin

PhD, ricercatore in Composizione architettonica e urbana, DPIA, Università degli Studi di Udine. luca.zecchin@uniud.it

Giulia Mangilli

Dottoressa junior in Architettura, DPIA, Università degli Studi di Udine. mangilli.giulia@spes.uniud.it

Toxic Landscapes Toxic Landscapes addresses the regenerative remediation of the former Ceramiche Girardi orphan site in Palazzolo dello Stella, abandoned in 2008. The research explores how a project can restore contaminated landscapes and redefine the identity of a place. The thesis is divided into three sections: the first analyzes PNRR Investment 3.4 for the remediation of orphan sites. The second part examines international reclamation projects, highlighting effective strategies. The third part focuses on the former Ceramiche Girardi, analyzing the degradation of the area and the potential for transformation through environmental engineering and architecture for the landscape.*

ntroduzione

Toxic Landscapes1 esplora il tema della bonifica rigenerativa del sito orfano ex Ceramiche Girardi, situato a Palazzolo dello Stella (Udine), abbandonato nel 2008 a seguito del fallimento dell’azienda. Questa ricerca si propone di interrogare le modalità attraverso cui un progetto di riqualificazione possa affrontare e valorizzare il paesaggio in contesti problematici e contaminati. L’obiettivo è quello di ridefinire l’identità di un luogo che

ospita elementi naturali e antropici, trasformandolo in uno spazio fruibile e in sé significativo durante il necessario processo di bonifica.

La tesi si articola in tre sezioni principali. La prima parte si concentra sull’analisi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), con particolare attenzione alla Missione 2 Rivoluzione verde e transizione ecologica che persegue lo scopo di migliorare la sostenibilità ambientale del paese. L’Investimento 3.4, dedicato alla bonifica dei siti orfani, è fondamentale in questo contesto poiché si occupa di aree contaminate in cui non è possibile individuare il responsabile dell’inquinamento.

La seconda parte analizza alcuni progetti di bonifica di aree contaminate, esaminando le strategie adottate e i risultati ottenuti in ambito internazionale. Sono stati selezionati casi studio significativi di purificazione e modificazione dei siti in spazi pubblici e di utilizzo della vegetazione per la bonifica dei suoli contaminati. Questi casi dimostrano come sia possibile restituire valore paesaggistico a luoghi altrimenti inutilizzabili, attraverso un approccio che combina tecniche di ingegneria ambientale e architettura per il paesaggio.

La terza parte si concentra sul sito orfano ex Ceramiche Girardi, analizzando il contesto storico e territoriale, e conducendo sopralluoghi per una

Toxic Landscapes

Un progetto per il sito orfano ex Ceramiche

Girardi a Palazzolo dello Stella

01. Attraverso il paesaggio in rigenerazione. G. Mangilli, 2024

Affrontare e valorizzare

il paesaggio in contesti

problematici e contaminati

comprensione dell’area. L’industria, attiva dal 1962 fino al suo abbandono nel 2008, ha subito un progressivo degrado. I capannoni sono in cattivo stato e contengono materiali di scarto derivanti dalle lavorazioni. La ricerca archivistica ha rivelato l’evoluzione dell’impianto, oggi colonizzato dalla vegetazione spontanea. La verifica progettuale sperimenta un progetto di bonifica come occasione per costruire un paesaggio in trasformazione.

Siti orfani in Italia e in Friuli-Venezia Giulia

La Missione 2 del PNRR si focalizza sulla riqualificazione delle aree degradate e sulla promozione della biodiversità, stanziando risorse significative che potrebbero tradursi in opportunità per il recupero e la rigenerazione di territori danneggiati. Per i siti orfani in cui il responsabile dell’inquinamento non è individuabile o non provvede agli adempimenti previsti, l’onere degli interventi sostitutivi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale è a carico della pubblica amministrazione. Per l’Investimento 3.4 è prevista una destinazione di cinquecento milioni di euro per la bonifica dei siti, nella maggior parte ex aree industriali oggi in stato di abbandono, che rappresentano un rischio per la salute dei cittadini. A livello nazionale, sono stati identificati un totale di 264 siti orfani, con una distribuzione disomogenea: 131 al

nord, 25 al centro e 105 al sud. Questa situazione evidenzia la necessità di interventi coordinati per affrontare il problema della contaminazione.

In Friuli-Venezia Giulia sono stati identificati quattro siti orfani che beneficeranno dei fondi del PNRR: area industriale Ceramiche Girardi a Palazzolo dello Stella (34.118 m2); terreno contaminato in via Sant’Angelo a Porcia (1.344 m2); area Terme Romane a Monfalcone (107.164 m2); area ex raffineria Aquila Sin Ts Teseco a Muggia (75.028 m2).

Tra questi, l’area delle ex Ceramiche Girardi è quella con il finanziamento più consistente, pari a cinque milioni di euro, destinati alla messa in sicurezza del suolo e delle acque sotterranee potenzialmente contaminate da metalli come piombo, nichel e cadmio e scarti di materiale dato dalla lavorazione dei prodotti in ceramica, con successivo ripristino del verde, atteso l’interesse naturalistico della zona. Questo intervento è cruciale non solo per la salute pubblica, ma anche per il ripristino dell’area, che potrà tornare a essere un luogo di aggregazione sociale.

Bonifiche rigenerative: metodi e strumenti

Il concetto di bonifica rigenerativa (Berger, 2002) si fonda sulla capacità di trasformare aree contaminate in spazi ecologicamente e socialmente utili. Le tecniche di fitodepurazione, ad esempio, impiegano piante in grado di assor-

bire metalli pesanti e sostanze tossiche, ripristinando la salute del suolo (AA.VV., 2002). Per ricostruire i siti inquinati sono presenti due modelli: recupero e ripristino. Il recupero prevede la bonifica e il rilancio dell’area, minimizzando gli impatti negativi sull’ambiente e promuovendone la funzionalità estetica ed ecologica. Il ripristino prevede il restauro, ristabilendo una parte alla condizione primaria del sito, sul quale gli elementi presenti prima dell’industrializzazione, ritornano ma con qualità differenti al fine di adattarsi all’area modificata (Berger, 2008).

In questo contesto, il Whitney Water Purification Facility (Steven Holl e Michael Van Valkenbugh, 1997-2005) insedia su un’area di 4 ettari una struttura di purificazione delle acque in fase di bonifica che genera un paesaggio fruibile. Il Revival Field (Mel Chin, 1991-in corso) su un’area di 81 ettari contaminata da scorie chimiche e industriali applica una strategia di risanamento verde. Questo progetto è ancora in corso e prevede la creazione di recinzioni nelle quali è presente la vegetazione che depura il suolo. La tecnica considera la flora come iperaccumulatore capace di assorbire grandi quantità di metalli e minerali tossici (AA.VV., 2002). Il Crissy Field (George Hargreaves, 1994-2001) affronta la trasformazione di un’area di 53 ettari contaminata da olii e residui dell’ex aeroporto militare. In questo

02. Siti orfani finanziati dal PNRR, MiTE 22/03/2022, e siti orfani finanziati in Friuli-Venezia Giulia: 1. Palazzolo dello Stella; 2. Porcia; 3. Monfalcone; 4. Muggia. G. Mangilli, 2024

sito la nuova superficie verde bonifica e conserva la memoria della pista di atterraggio. A Qunli Stormwater Park (Turenscape e Kongjian Yu, 2009-2011) i 34 ettari sono contaminati dalla cementificazione che blocca il normale deflusso idrico. La bonifica è costituita da una zona umida, un bacino idrico di filtraggio che funge da spugna verde. Il Corridoio di Puyangjiang (Turenscape, 2014-2017) su 195 ettari ospita diversi tipi di bonifiche, per i rifiuti abbandonati lungo il fiume e i residui industriali, per la rimozione degli inquinanti e la creazione di zone di filtraggio nelle quali il fiume ha la possibilità di espandersi nei periodo di piogge intense. Il Jurong Lake Gardens (Henning Larsen e CPG Corporation Pte, 2014-2019) si sviluppa su un’area di 53 ettari contaminata da residui industriali, con una tecnica di bonifica che consiste nel ripristino in una zona ricreativa che racconti le trasformazioni del luogo. In questi esempi, l’uso dei processi di bonifica diventa lo strumento per costruire un paesaggio di valore in sé significativo anche durante il tempo della sua trasformazione (Zecchin, 2024).

Progetto di rigenerazione per le ex

Ceramiche Girardi

I temi sopra delineati definiscono la cornice di riferimento del progetto di rigenerazione del sito orfano di Palazzolo dello Stella. L’industria, nata nel 1962, ha avuto continua crescita fino al 2008 ampliando la superficie dei capannoni, adibiti alla fase produttiva, e dei magazzini. L’area progetto è circondata a nord da appezzamenti agricoli, a est e a ovest da residenze e a sud dalla strada SS14. Dal sopralluogo effettuato si è potuto osservare come l’indice di degrado dei capannoni sia elevato. All’interno dei capannoni vi sono ancora cumuli di materiale di scarto dato dalle lavorazioni dei prodotti di fabbrica. La copertura presenta evidenti bucature dovute agli agenti atmosferici.

Dalla ricerca d’archivio si deduce come, dal nucleo originale del 1962, siano state costruite in modo rapido e consecutivo fino al 1981 nuove strutture adibite a magazzini e reparti di lavorazione dei prodotti: essicazio-

03. Ex Ceramiche Girardi: edificati, viabilità, acque, vegetazioni. G. Mangilli, 2024
Costruire un paesaggio di valore in sé significativo anche durante il tempo della sua trasformazione, un paesaggio in continua

evoluzione, dove la natura gioca un ruolo fondamentale

ne, pressatura, macinazione, cottura, smaltatura e falegnameria. Il nucleo originale comprendeva l’edificio per la produzione di un’unica tipologia di piastrelle denominata “marmette” e un edificio adibito a uffici con annessa abitazione civile. Successivamente tra il 1968 e il 1974 si sviluppano zone per la produzione di nuovi prodotti come le piastrelle in bicottura e vengono costruiti magazzini per deposito di argille. Durante gli anni di espansione, gli edifici sono stati modificati internamente e realizzate opere impiantistiche e di organizzazione commerciale. Nell’area si è composto un giardino in movimento (Clement, 2023) frutto

dell’incolto che progredisce in un tempo di circa quindici anni. Tale occasione guida il progetto di rigenerazione che si basa su due elementi fondamentali: la bonifica e la riconversione del sito in un luogo di interesse pubblico. Si propone un intervento di bonifica che prevede l’utilizzo di tecniche di risanamento verde, le piante scelte includono iper-accumulatrici in grado di purificare il suolo: thlespi caeruluscens (cadmio), alyssa bertolonii (nichel), silene cucubalus (zinco), streptanthus polygaloides (nichel), glochidion cf. sericeum (nichel e cobalto), pioppo (zinco, rame e cadmio) e canapa (piombo). Il nuovo paesaggio in rigenerazione potrà essere fruito, in alcuni casi percorso, in altri casi solo osservato fuori da un recinto. Il progetto immagina un luogo in trasformazione che si costruisce nel tempo. L’area potrà accogliere un parco ricreativo e un impianto fotovoltaico che segue il perimetro degli edifici esistenti, mantenendone così la memoria. Un percorso ciclopedonale collegherà le diverse aree del parco e offrirà spazi per la sosta e l’osservazione in un ambiente inclusivo, conoscitivo e accessibile alla comunità.

Conclusioni

La tesi dimostra che anche le aree che sembrano compromesse da contaminazioni tossiche possono essere rigenerate e restituite alla comunità. Attraverso un processo di bonifica che assume un significato nel suo farsi è possibile restituire valore ecologico e

sociale a luoghi altrimenti inutilizzabili. La proposta per le ex Ceramiche Girardi punta a trasformare un’area degradata in un parco naturale e rappresenta un tentativo di utilizzare la bonifica come occasione per generare spazi pubblici sostenibili e inclusivi. Il progetto immagina un paesaggio in continua evoluzione, dove la natura gioca un ruolo fondamentale nella purificazione e nel recupero dell’ambiente, creando opportunità per la comunità e promuovendo un rapporto innovato tra artificio e natura.*

NOTE 1 – Mangilli, G. (2024). Toxic Landscapes. Un progetto per il sito orfano ex Ceramiche Girardi a Palazzolo dello Stella. Tesi di Laurea Triennale in Scienze dell’Architettura, Relatore Zecchin, L., Università degli Studi di Udine, Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura.

REFERENCES

AA.VV. (2022). Fare l’ambiente. Lotus Navigator, n. 5.

Berger, A. (2002). Reclaiming. The American West. New York: Princeton Architectural Press.

Berger, A. (2008). Designing the reclaimed landscape London: Taylor & Francis.

Clement, G. (2023). Il giardino in movimento. Macerata: Quodlibet.

Zecchin, L. (2024). Toxic heritage. Orphan sites. In Gambardella, C. (a cura di), World heritage and dwelling on earth. World heritage and cities in emergencies, Roma: Gangemi, pp. 35-44.

04. Nature e artifici nel paesaggio in trasformazione: ex Ceramiche Girardi, elementi e parti del progetto. G. Mangilli, 2024

I felini volano

enezia, 14 settembre 1938. Come tutti i mercoledì, l’avvocato Ridolfi sorseggiava il caffè sfogliano il Corriere della Sera al Florìan, in piazza San Marco. L’aveva incuriosito un titolo al centro di pagina tre: Come ho scavato a Rodi, con Agápito eversore di necropoli. L’articolo faceva il ritratto di un Ercole vecchio e stanco, maestro di zappa e piccone, ultimo sopravvissuto di una generazione di scopritori di tombe. Il sole del primo mattino accendeva le finestre delle Procuratie, lasciando ancora in ombra la piazza. Immerso nella lettura, Ridolfi non si accorge di un’anziana signora dall’aria altera e svagata che gli siede vicino, finché questa,

sullo scaffale

Non si uccide di martedì

Andrea Molesini

Sellerio

2023

sollevando la veletta che scendeva da un cappellino à la page, non si mise a canticchiare, a voce bassa ma ben udibile, un motivetto che lo distrasse. L’avvocato staccò il naso dal giornale.

“Perdonatemi…ero soprappensiero, non mi sono accorta di canticchiare”.

“Non datevene pena, signora, capita anche a me più di qualche volta” disse l’avvocato, facendo il gesto di togliersi il cappello “Permettete… mi presento, sono l’avvocato Ridolfi… Giorgio Ridolfi”.

“Che intendete, signora?”.

“Qui gli uccelli camminano” disse la donna e, indicando con un guizzo del mento il leone alato della basilica, aggiunse: “e i felini volano”. Tossicchiò portando la mano alla bocca. “Sapete… avrei proprio bisogno di un uomo di legge per un consiglio… una questione delicata”.*

Con uno spillone uscito chissà mai da dove la signora inchiodò al capellino la veletta che la brezza minacciava di farle ricadere sul viso, e si portò alle labbra la tazza fumante, piena fin quasi all’orlo di un liquido giallo. Un breve sorso. “Ma guarda… un avvocato… Mabel Valt, molto lieta”, l’anziana signora posò la tazza. “Strano questo posto” disse, dando un calcetto a un piccione che si era intrufolato sotto il suo tavolino.

Il capitale nell’Antropocene

a cura di Emilio Antoniol
Paesaggi Contaminati Martin Pollack Keller 2016
Il caporale Lituma sulle Ande
Mario Vargas Llosa, Einaudi 1993
Saito Kohei Einaudi 2024

Elisir tossico

“With a taste of your lips, I’m on a ride You’re toxic, I’m slippin’ under”

Britney Spears, Toxic, In the Zone, 2004

Immagine di Emilio Antoniol

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