Tra innovazione e tradizione la nuova tipologia della casa del fascio. Il caso studio di caserta

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Alla mia famiglia


Introduzione...............................................................................5 I. Genesi del fenomeno..............................................................9 I.I. Religione politica e politica espositiva....................................18 I.II. I dogmi della religione laica.................................................24 I.III. Il ruolo dell’arte................................................................27

II. Palingenesi del classico.......................................................41 III. La romanità come modello................................................53 III.I. Modernismo mediterraneo e architettura spontanea................60 III.II Paesaggio e potere: allegoria della città................................76

IV. Evoluzione degli spazi associativi.....................................90 IV.I. Inedita soluzione a inedito problema..................................101

V. Differente fisionomia per invariata tipologia.....................122 V.I. Modelli per centri di media grandezza.................................158 V.II. Modelli per insediamenti a carattere rurale..........................170 V.III. Modelli per realtà di nuova fondazione..............................181

VI. Il caso di Caserta..............................................................195 VII. Conclusioni.....................................................................217 Appendice A Bibliografia Indice dei nomi


Sigle e abbreviazioni ACS - Archivio Centrale dello Stato. AGT - Archivio Giuseppe Terragni. Amm. - Amministrativa. ASP - Archivio di Storia Patria GIL - GioventÚ Italiana del Littorio. GUF - Gruppo Universitario Fascista. FF - Fasci Femminili. MIAR - Movimento Italiano per l’Architettura Razionale MRF - Mostra della Rivoluzione Fascista. ONB - Opera Nazionale Balilla. ONC - Opera Nazionale Combattenti. OND - Opera Nazionale Dopolavoro PNF - Partito Nazionale Fascista. Seg. - Segreteria. SFA - Sindacato Fascisti Architetti


Introduzione

Prima di entrare nel vivo di questa trattazione è doveroso chiarire alcuni concetti di carattere generale che costituiscono il substrato del percorso di ricerca. In primis per ciò che riguarda l’arco cronologico e spaziale preso in esame: tale studio muove dalla prima metà degli anni Venti fino a ridosso del Secondo conflitto mondiale in quello che, comunemente, è inquadrato come «ventennio fascista». La precisazione temporale, fondamentale alla scansione delle vicende trattate, è essenziale ai fini della comprensione dei fattori che, negli anni della formazione, hanno contribuito a determinare la nascita di uno «stile» puramente italiano, ma dai forti connotati internazionali. Per questa ragione si è condotta un’analisi delle dinamiche socio-politiche, nonché culturali ed artistiche, che hanno determinato alcune delle architetture più significative ed emblematiche del secolo scorso. Più che trattare specificatamente singoli manufatti, si sono analizzate le dinamiche, in particolare culturali, che hanno influenzato le scelte dei principali protagonisti della scena architettonica italiana. Sarebbe risultato banale o superficiale, considerare gli anni del totalitarismo in Italia, come una macchia nera nella storia senza giustificarne gli esiti. Occorre liberarsi rapidamente da tutti quei cliché ideologici e storiografici che per molti anni hanno contribuito ad alimentare la damnatio memoriae probabilmente giustificata, tra le altre cose, da certe idee di natura razziale 5


o per le vicissitudini belliche. D’altra parte il giudizio che il filosofo napoletano Benedetto Croce, illuminato antifascista, esprime all’indomani dello sgretolamento del partito fascista, è l’inequivocabile fotografia dell’imbarbarimento culturale e politico attraversato. Ragion per cui, ardua e probabilmente proibitiva, sarebbe l’analisi approfondita dei molti aspetti e delle molte componenti che hanno caratterizzato questo preciso momento storico. Di conseguenza gran parte dei contributi, soprattutto antecedenti, risultano affetti da limiti culturali, derive nostalgiche o da sommari giudizi di dissenso. Sono stati necessari diversi anni e altrettante battaglie ideologiche affinché si potesse tornare a trattare l’argomento e poterne analizzare, in maniera più ampia, il complesso sistema di satelliti orbitanti intorno al PNF, così da procedere per specifici filoni di studio e non tassative sentenze. Trampolino di lancio, la mostra organizzata nel 1987 dall’Archivio Centrale dello Stato Utopia e scenario del regime, sui temi dell’impresa dell’E42 e sull’esperienza della Mostra della Rivoluzione del 1932. Senza dubbio, all’interno del fitto palinsesto politico, l’architettura e le arti figurative hanno rappresentato lo strumento principale per la trasmissione di determinati messaggi. Così come la campana degli edifici religiosi ha da sempre scandito i ritmi di vita e i diversi momenti della giornata, analogamente la casa del fascio, ha rappresentato il centro nevralgico della città e il metronomo delle attività comunitarie e di partito. Da una prima ricognizione del patrimonio edilizio prodotto tra il 1920 e il 1940 è tangibile la scrupolosa attenzione 6


per le tematiche urbane, stilistiche e di linguaggio che ha fatto da cornice alla lunga stagione di concorsi durata quasi vent’anni. La sola accezione tipologica di casa le conferisce un’aura di assoluta novità oltre che di eccezionale stimolo progettuale per tutti coloro che vi si sono cimentati. Oltre che irrinunciabile occasione per far emergere percorsi d’idee e sperimentazioni formali che hanno determinato il piano di sedime delle successive formazioni culturali in ambito architettonico entro e fuori i confini nazionali. Certamente non marginale il ruolo delle Accademie e delle Scuole Superiori di architettura e urbanistica (Scuola Superiore di architettura di Roma del 1919 e l’Istituto Nazionale di Urbanistica del 1930) vivaio prolifico di teoria e divulgazione di pratiche d’avanguardia. La capacità dei progettisti di produrre questi manufatti, fonde la perizia dell’uso di tecniche costruttive tradizionali con l’impiego di materiali innovativi e, in pieno spirito autarchico, reperibili in loco. Come accennato, a partite dalla prima metà degli anni Venti si erano individuati gli stilemi e gli attributi formali della nuova architettura. Bisognerà aspettare il 1932, anno in cui gli esiti del concorso per la progettazione della sede del fascio di Bologna, produrranno il primo edificio codificato. In, conclusione è possibile affermare che questo specifico periodo storico, rappresenta la risposta italiana, in ambito architettonico, alla sfida di rinnovamento gettata dalla società del primo Novecento, costantemente divisa tra rassicuranti reminiscenze tradizionaliste e pulsioni moderniste. All’interno di questo 7


filone narrativo si colloca la ricerca intrapresa. L’obiettivo, mira a evidenziarne il dato oggettivo formale e sperimentale di questi manufatti, riabilitandoli agli occhi del fruitore che, o per indolente apatia o perché plagiato da demagogia spicciola, ne ha travisato ruolo e valore. Se un giudizio unanime accomuna gli storici per quanto concerne le vicende belliche e politiche, sicuramente più complessa e articolata la questione inerente il patrimonio architettonico. Per una più agevole e puntuale argomentazione dei temi trattati, si è scelto di lavorare su due grandi filoni. Il primo segmento tenta di fornire gli strumenti per comprendere i meccanismi di esercizio del potere e affermazione del consenso. Differente invece, il contenuto del secondo corpus di argomenti, specificatamente incentrati sul tema dell’architettura delle case del fascio. Manufatti declinati sia sotto l’aspetto formale e compositivo, sia nell’accezione di presidi di potere e presenza sul territorio. Particolare attenzione poi, è stata posta sulle vicende casertane, il cui edificio è trattato come modello di studio.

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I. Genesi del fenomeno

«Definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia» così il politico e scrittore Angelo Tasca, nel 1950, affrontava le tematiche relative al fenomeno nel libro Nascita e avvenimento del fascismo: l’Italia dal 1918 al 1922. Con ogni probabilità questo tipo di approccio ha incontrato, nel corso degli anni, alcune forti limitazioni che hanno indotto gli studiosi e gli esperti a ritornare sulla questione. A metà degli anni Novanta era già consolidata la teoria di fattori comuni che legavano insieme le diverse inclinazioni del fenomeno fascista europeo. La prima, puramente ideologica, sponsorizzata dagli americani Griffin e Eatwell, individuava congiuntamente all’esperienza eclettica, principi di palingenetica e pan-nazionalismo, come elementi unificanti tra i diversi fascismi. La seconda, sostenuta da Linz, Payne e dall’italiano Emilio Gentile, puntava sulla dimensione multidimensionale del fenomeno, così da giustificarne le ripercussioni sugli aspetti organizzativi, istituzionali e stilistici. Esiste poi una terza corrente sostenuta da Paxton nel libro The anatomy of Fascism 1 in cui si affermava il fatto di aver rappresentato la «principale innovazione politica del XX secolo» tralasciando la ricerca dei fattori comuni. Egli poneva l’attenzione sugli atti più che sulle parole. Ciò non significava limitare l’importanza della dottrina ma evidenziarne un’ambiguità formale che gli stessi ispiratori 1

R. Paxton, The anatomy of Fascism, A. Knopf, New York, 2004.

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mascheravano: «prima veniva il potere, poi la dottrina» 2 e dunque a contare non era tanto la ponderata adesione quanto lo zelo indiscusso dei fedeli. La disamina proseguiva mettendo in evidenza alcune condizioni che avevano fatto da terreno fertile alla nascita dei fascismi europei. Ragion per cui era dunque errato limitare l’analisi alla sola sfera socio-politica, abbastanza statica e circoscritta. Attribuendo egual peso a tutti i termini del fenomeno era possibile comprenderne le molteplici dinamiche. Tra i fattori decisivi, lo stato di crisi politica, tale da indurre le locali élites filoconservatrici a collaborare con i fascisti che ne sfruttarono l’appoggio iniziale per accrescere il potere. Era facilmente intuibile che, superata la prima fase democratica del processo di conquista del consenso, grazie all’indolenza della classe dirigente, si passasse all’imposizione dell’adesione al movimento attraverso modalità sistematicamente sempre più illegali. Ciò dimostrava che il fascismo era essenzialmente un fenomeno mutevole, continuamente in evoluzione, mai statico, mai monolitico. Per queste e altre ragioni sarebbe incoerente procedere ad una compilazione didascalica delle sue varie forme senza aver prima studiato i legami multidisciplinari entro cui sono state apportate le novità, che sono ascrivibili a cinque categorie 3:

M.Pasetti, Robert O. Paxton, il fascismo in azione. Che cosa hanno veramente fatto i movimenti fascisti per affermarsi in Europa, in «Storicamente», n.35, 2006. 3 Cfr. R.Paxton, The anatomy of Fascism, A. Knopf, New York, 2004. 2

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• nascita del movimento • radicamento nel sistema politico • ascesa al potere • esercizio del potere • radicalizzazione o eterotopia come opzioni finali Durante la prima fase, relativa alla formazione e alle origini del fenomeno, il tema dei precedenti culturali e intellettuali, che resero pensabile il fascismo, era di centrale importanza. Va dedicata una menzione particolare alla situazione italiana, relativamente alla fase dell’ascesa al potere, in quanto le assolute condizioni di crisi economica e lo smarrimento politico-culturale che si viveva in quegli anni, fecero da accelerante alle fasi di presa del potere. Oltre al dualismo dialettico e sistemico, sul quale il movimento si fondava, oscillante tra monocrazia e policrazia, coesione e tensione interna, era da aggiungersi un’altra dicotomia ovvero dinamismo e ordine conservatore. Per quello che concerne, invece, l’ultima deriva era interessante sottolineare l’antitesi tra radicalizzazione e processo di normalizzazione. Ciò avvalorava l’ipotesi per cui il fascismo aveva rappresentato un fenomeno destabilizzante, condannato all’autodistruzione o al ripiegamento su modelli di autoritarismo tradizionale. Tali considerazioni aprono ad una riflessione concreta che non può circoscriversi alla sola parentesi temporale o territoriale europea. Non deve ritenersi un prodotto irripetibile di una 11


specifica crisi - come affermato da Payne e De Felice - perché il requisito imprescindibile al suo sviluppo sembrava essere la presenza di sistemi democratici deboli, per cui tentazioni fasciste potevano essere individuate anche fuori del vecchio continente e successivamente al 1945. Per quanto concerne l’argomento trattato, uno dei primi esempi di approccio multidimensionale, risaliva alla metà degli anni Settanta ad opera del politologo tedesco J.J. Linz il quale faceva coincidere l’eterogeneità ideologica del movimento alla sua tardiva comparsa (latecomers) sulla scena politica oramai satura. La definizione che ne scaturiva ne dipingeva i tratti predominanti tipici di un movimento ultranazionalista, antidemocratico, violento e anticlericale, con l’unico scopo «d’integrazione sociale e nazionale attraverso un partito unico, mescolando la tattica legale con la tattica della violenza, per ottenere il potere con obiettivi totalitari» 4. Con questo climax di termini puntuali, lo studioso definiva chiaramente i livelli multipli su cui si articolava la dialettica fascista. Proseguendo, sempre in relazione all’alto livello di diversificazione multidimensionale del movimento, era interessante la disamina fornita dallo storico statunitense Stanley Payne, docente di storia moderna presso la Columbia University, in quello che nel mondo accademico, è tutt’ora considerato il testo più colto e meticoloso sulla catalogazione dei movimenti e regimi fascisti, per l’uso di un linguaggio volutamente descrittivo. Egli sosteneva J.J. Linz, Some notes toward a comparative study of Fascism in sociological historical perspective, in Fascism. A reader’s guide, a.c. W. Laqueur, University of California press, California, 1977, pp.12-13. 4

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che si trattasse una forma di ultranazionalismo a carattere vitalistico incentrato su «un elitarismo estremo, sulla mobilitazione delle masse e sull’Führerprinzip, in grado di dare una valutazione positiva alla violenza come fine e come mezzo» 5. Payne chiariva che, oltre a essere un partito politico, era una forma di abito morale indossato dalle classe dirigente per «perseguire con redentoria violenza obiettivi di epurazione intera di espansione territoriale» 6. Essenziale lo studio condotto da Gentile, massimo esperto italiano di totalitarismi, il quale si soffermava in particolar modo sulla connotazione repressiva del movimento, che aveva imbavagliato ogni organo democratico agendo da «partito-milizia, con una concezione totalitaria della politica e dello Stato, con una ideologia a fondamento mitico e vitalistico, sacralizzata come religione laica»7. Dalle interpretazioni proposte emergevano dei fattori comuni, ovvero: la dimensione organizzativo-culturale e istituzionale del movimento. L’aspetto organizzativo faceva riferimento alla composizione sociale e associativa nonché ai metodi di lotta di partito. Invece, la sfera culturale, faceva riferimento al modo rivoluzionario di concepire l’uomo, le masse e la politica, coeso all’ideologia e al suo sistema di valori. Infine, per dimensione istituzionale s’intendeva il corpus di relazioni e infrastrutture che avevano fatto da collante a tutto il sistema-patito. Analizzando con maggiore S.G. Payne, Il fascismo 1914-1945. Origini, storia e declino delle dittature che si sono imposte tra le due guerre, Roma, 1999, p.21. 6 Ibidem. pp. 22-23. 7 Cfr. E.Gentile, Il fascismo in tre capitoli, VI, Laterza, Roma-Bari, 2004. 5

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attenzione le varie dimensioni che componevano l’universo fascista ci si accorgeva che, ad esempio, l’aspetto organizzativo assumeva il ruolo di aggregante interclassista. Infatti, l’assegnazione delle cariche dirigenziali, favoriva esponenti del ceto sociale medio anche se nuovi all’attività politica. Tale prassi spostava la leadership non più al rango sociale, ma al forte senso di cameratismo. Va ricordato che gran parte della dottrina si fondava sul pensiero mitico (giovinezza, militarizzazione, politica, collettivismo) e sul senso tragico-attivistico della vita. Quantomeno una strana anomalia ideologica per un movimento d’impronta antideologica e pragmatica, spiccatamente antimaterialista e antindividualista, con la premura più di manifestarsi esternamente che teoricamente,che necessitava continuamente di attingere dalla tradizione mitica e simbolica per inverare la propria religione laica. Ogni fase del processo sopracitato, si basava sulla concezione del primato della politica come esperienza integrale, mirata alla fusione dell’individuo nella comunità organica e mistica della Nazione. Una versione distorta dell’etica civile che fondava la sua forza sulla subordinazione assoluta del cittadino allo Stato, perseguita con disciplina, virilità e spirito guerriero. In definitiva, come premesso, per garantire il mantenimento dell’ordine, si faceva lago uso delle istituzioni e ciò si traduceva in apparati di polizia inclini a reprimere con violenza qualsiasi forma di opposizione. D’altra parte questo particolare espediente di creazione di nuovi organi istituzionali pubblici (ONB, OND, ONC, ecc.) era 14


fondamentale per selezionare e poi formare «l’aristocrazia del comando» che a sua volta doveva catechizzare le masse al mito dello Stato totalitario. Non era da trascurarsi, in ultima analisi, la componente corporativa dell’economia, adottata per sopprimere le libertà sindacali e amplificare il raggio d’azione dello Stato. Mascherata sotto principi teocratici e solidaristici per i quali la collaborazione dei ceti proletari doveva rafforzare il concetto di collettività e annullare quello di proprietà privata 8. A valle di quanto considerato fino ad ora è necessario dedicare alcune riflessioni sull’uso di certi termini, esplicativi di alcuni concetti propri. Ci troviamo di fronte ad un movimento basato concettualmente sul totalitarismo, termine già in uso tra il 1923 e il 1925, per identificare quei partiti con il dichiarato intendo di sovvertire l’ordine democratico e instaurarvi una dittatura monopartitica di matrice ideologica laica. La paternità era da attribuirsi allo storico e giornalista L. Salvatorelli che, già direttore del quotidiano «La Stampa», in un articolo del 18 luglio 1922 aveva scritto: Il fascismo è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica. Il mezzo essenziale per riuscirvi è, nel programma e nello spirito dei capi e dei seguaci, la completa soppressione di tutte le libertà costituzionali pubbliche e private, che è quanto dire la distruzione dello Statuto e di tutta l’opera liberale del Risorgimento italiano. Quando la dittatura fosse stabilita in modo che non una istituzione potesse esistere, non un atto compiersi, non una parola pronunciarsi se non di totale dedizione e obbedienza

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Cfr. E.Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002.

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al fascismo, allora questo sarebbe disposto a sospendere l’uso della violenza, per mancanza di obiettivo, riservandosi sempre di riprenderlo al primo cenno di rinnovata resistenza. 9

Lo scritto, all’indomani della marcia su Roma (1922), suonava come un vaticinio inequivocabile, tant’è che egli stesso lo aveva definito come «la fine della vita politica come la si concepisce in Europa da cento anni a questa parte»10. Analogamente, lo studioso Giorgio Amendola, aveva coniato il termine totalitario come naturale conseguenza di quanto osservato dal Salvatorelli, in relazione al nuovo sistema elettorale introdotto dalla Legge n. 2444 del 18 novembre 1923 11. Pretesto inequivocabile per spingere gli italiani a «una crociata religiosa» 12. A partire dal 1925 gli stessi fascisti presero a utilizzare con frequenza il termine per sottolineare la propensione all’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo con il compito di guidare il partito nel processo di fascistizzazione della società per rifarne il carattere. Il sistema politico totalitario funzionava come una laboratorio dove si sperimentava la rivoluzione antropologica per produrre un nuovo tipo di essere umano. Ciò che caratterizzava il totalitarismo, secondo quanto detto, era il suo intrinseco dinamismo che si manifestava nell’esigenza della rivoluzione permanente, della continua L.Salvatorelli, Il governo e la destra, in «La Stampa», 18 luglio 1922. L.Savatorelli, Nazionalfascismo, in «Collana Biblioteca La rivoluzione liberale», n.2, Piero Gobetti editore, 1921. 11 Nota come Legge Acerbo. Cfr. G.Sabatucci, Il suicidio della classe dirigente liberale. La legge Acerbo 1923-1924, in «Italia contemporanea», n.174, marzo, 1989. 12 E.Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari, 2007, p.136. 9

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espansione del potere politico e del costante controllo sulla società, sempre subordinata al partito. Definendo il totalitarismo come un esperimento, piuttosto che un regime, né si enfatizzava l’interconnessione fra i suoi elementi costitutivi fondamentali. Tale esperimento totalitario crebbe con ritmi, tempi e metodi differenti rispetto agli altri esperimenti totalitari noti alla storia moderna, pur condividendo il medesimo esito: il fallimento. Ruolo determinante, a tale fallimento, era da attribuirsi al Secondo conflitto mondiale che ne aveva sancito la disfatta. Episodio decisivo, la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 13 durante la quale venne formalizzata la sfiducia a Mussolini. Non era da considerarsi errata la tesi riguardante la mancata realizzazione del totalitarismo perfetto per una serie di fattori specifici: la conquista della coscienza sociale non fu mai totale, le millantate ambizioni di rivoluzione antropologica non condussero a nessun nuovo tipo di essere umano, la religione politica non fu in grado di trasformare la collettività in comunità di credenti e l’autorità politica fu spesso messa in discussione dell’interno. Tuttavia constatare la mancanza dei fattori sopracitati, in parte non perfettamente espletati, non equivale ad affermare che questi non sia mai esistito in forma di totalitarismo puro.

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Cfr. D.Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo, Il Mulino, Bologna, 1983.

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I.I. Religione politica e politica espositiva

Trattare il fenomeno della divinizzazione della politica comporta necessariamente chiarimenti di natura etimologica e di ricerca delle origini della questione. É oramai largamente diffuso il concetto di religione politica (o anche: religione civile, religione laica, religione secolare ecc.) per identificare le varie esperienze, tipiche del XX secolo, di sacralizzazione della politica operate da regimi, non esclusivamente totalitari, che si sono dotati di un sistema di credenze esercitato sotto forma di riti e simboli, al fine di formare una coscienza collettiva coesa alla propria ideologia. Il concetto di sacralizzazione della politica è un fenomeno tipicamente moderno, in cui l’entità politica, lo Stato, il partito, la nazione, la razza o una determinata classe sociale assume i crismi di entità sacra e, venerata in quanto tale, diventa oggetto di culto. Già a partire dal XVI secolo nell’opera 14 del domenicano Tommaso Campanella si faceva riferimento al concetto di religione politica quale strumento in uso alla stessa religione per regolare i rapporti tra cristianesimo e potere temporale. Pochi anni dopo, secondo la stessa logica, il politologo Daniel Clasen ne descriveva il rapporto e la funzione della politica in ambito religioso 15. Dal XVIII secolo, in concomitanza con l’epoca dei lumi e delle rivoluzioni democratiche, si era T.Campanella, Universalis Philosophiae seu Meraphysicarum Rerum iuxta propria dogmata, 1638. 15 In particolare l’opera De religione politica del 1655. 14

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fatto nuovamente uso dei concetti di sacralizzazione della politica (o religione civile) per indicare la nuova religione del cittadino, svincolata da quella della Chiesa, fondata sul «culto del bene comune». Suggestiva la proposta di Benjamin Franklin che nel 1749 riteneva doverosa la ricerca «di una religione pubblica in funzione della sua pubblica utilità»16 da trasmettere ai giovani attraverso l’insegnamento della storia. Con J.J. Rousseau, si raggiunse la summa del concetto, principalmente incentrato sull’educazione del cittadino verso sentimenti di nazionalismo, amore per la patria e rispetto delle leggi 17. Così come le grandi trasformazioni sociali hanno modificato gli usi e i costumi di ogni civiltà, la rivoluzione americana e quella francese costituivano una primissima esperienza storica di sacralizzazione della politica la cui l’interpretazione messianica degli avvenimenti rivoluzionari si univa all’annuncio della nuova era. La smania di misticismo politico, aveva trovato nel filosofo M. Jean Caritat de Condorcet un fervente oppositore. Egli sosteneva che questa pratica «avrebbe violato la libertà nei suoi diritti più sacri con il pretesto d’insegnare ad amarli» 18. Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 1875 Settembrini aveva definito la Giovine Italia «una nuova religione politica» 19. A cavallo tra XIX e XX secolo grazie all’ascesa dei movimenti nazionalisti e al deflagrare della Grande guerra si era registrata la E.Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero del terrore, Laterza, Roma-Bari, 2006, p.180. 17 Cfr. J.J.Rousseau, Contract social, Amsterdam, 1762. 18 M.J.Caritat de Condorcet, Premier mémoire sur l’instruction publique, Parigi,1790. 19 Cfr. L.Settembrini, Ricordanze della mia vita, Morano editore, Napoli, 1879. 16

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più alta diffusione del concetto di sacralizzazione della politica a cui, successivamente, fecero seguito le religioni politiche del nazismo e del fascismo. Quest’ultimo fu il primo movimento del Novecento a mostrare, già del tutto sviluppati e in maniera evidente, i caratteri della nuova religione politica. Atteggiamento analogo e coevo, era rintracciabile nei movimenti bolscevichi successi la Rivoluzione d’ottobre del ’28. Dall’analisi comparativa tra nazismo, bolscevismo e fascismo (trittico accomunato dal neonato termine totalitarismo), si erano mossi i primi studi per ricercare i caratteri peculiari dei nuovi regimi a partito unico nati da moti rivoluzionari. Ciononostante nel 1935 lo storico ed economista ungherese K. Polanyi aveva preso le distanze da questa pratica considerandola fallimentare 20. Solo grazie agli studi del filosofo austriaco E. Voegelin si presero a trattare i totalitarismi come religioni politiche 21. Infine a partire dagli anni Trenta del Novecento uomini di chiesa, tra cui Luigi Sturzo, si confrontarono sul fenomeno, partendo dal comune denominatore delle connessioni intereligiose come prodotto della secolarizzazione della società di massa. Infatti le religioni totalitarie non erano altro che manifestazioni neopagane della politica che aveva ripudiato la religione di Dio ma che poi si era accorta di averne estremo bisogno per legittimare il potere acquisito dai nuovi capi. Gran parte degli studiosi avevano convenuto che si trattava della più alta manifestazione della rivolta contro Dio. All’interno dello Stato totalitario non erano 20 21

K.Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1944, p.125 Cfr. E. Voegelin, Politische religionen, Vienna, 1938

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ammesse variazioni sul tema né tanto meno competitors. Non poteva esistere, nemmeno concettualmente, alcuna dimensione spirituale al di fuori di quella del partito. Esiste poi un folto gruppo di esperti (R. Aron, F. Voigt, S. Neumann) che negli anni Quaranta avevano osservato che la religione secolare non era il retaggio di antiche religioni pagane, bensì la naturale conseguenza della modernità che aveva generato la società di massa e permesso a un manipolo di uomini, mossi da intenti machiavellistici, di accrescere la propria egemonia. La fine del Secondo conflitto mondiale aveva decretato la fine del concetto di religione politica seppur, ancora oggi, è possibile rintracciarlo in certe dittature teocratiche o in alcuni regimi latino-americani. In conclusione né modelli teocratici né culti imperiali o cesaropapismi, possono considerarsi modelli di religioni politiche 22. Bisogna intendere la religione civile, come la sacralizzazione dell’identità politica, non limitata ad un movimento politico univoco. Questa infatti, tollera i sistemi democratici con i quali può coesistere, facendo leva sul consenso spontaneo. Differente la religione politica che ne sacralizza gl’intenti, basa il proprio consenso su fattori esclusivisti e integralisti imposti dall’alto e indiscutibili. Certamente non semplice né storicamente possibile, definire il confine che separa i due concetti ma è fondamentale, ai fini della ricerca, delinearne i contorni e comprenderne i limiti. Intendere la vita politica come la più alta espressione Cfr. G.Mosse, The nationalization of masses; polical symbolism and mass movements in Germany from napoleonic wars through the Third Reich, Howard Ferting editore, New York, 1974. 22

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di spettacolarizzazione, non costituiva né un momento circoscritto né suppellettile folcloristico al disegno generale, ma la base delle strategie politiche di regime. Sin dagli esordi, il movimento fascista si era imposto principalmente come partito a forte carattere fideistico, consacrato al culto della nazione e con la missione dichiarata di trasformare il popolo italiano. Attraverso alcune pratiche come l’imposizione dell’abbigliamento, l’istituzione di nuove feste e cerimonie o epurando il linguaggio parlato (sostituendo il lei con il voi) alimentava la falsa illusione dello stile di vita nuovo. La costruzione dell’impalcato ideologico costituiva l’elemento fondamentale al processo di estetizzazione delle masse nonché il principale strumento di produzione di nuove immagini. Il programma di estetizzazione della politica non si limitava esclusivamente alle adunate, alle commemorazioni presso i vari monumenti o alle marce, ma comprendeva: manifestazione ginniche, sportive, mostre d’arte di fotografia. Nell’ottica totalitaria il regime aveva cannibalizzato i luoghi pubblici (piazze, monumenti, fontane o musei) per poi risputarli carichi di simbolismo. Posto d’onore tra gli strumenti di autopromozione spettava alle mostre fotografiche, allestite in musei o padiglioni progettati ad hoc, organizzate secondo il gusto modernista dello spettacolare. Come per ogni altro aspetto indicato, anche nel modo di esporla, era stata compiuta una vera e propria rivoluzione. Differentemente da quanto accadeva in precederenza, gran parte delle esposizioni fotografiche organizzate nel corso del regime erano concepite come 22


eventi 23, la gran parte delle esposizioni fotografiche organizzate nel corso del regime erano concepite come eventi per attirare e coinvolgere le masse. Per certi aspetti, con l’avvio delle mostre dei primi anni Trenta, si era rifondato il ruolo del museo italiano. Certamente il fascismo non era stato il primo a utilizzare la pratica della spettacolarizzazione dell’arte che già nel 1851, (I° Esposizione Internazionale di Londra), si era registrata nella disposizione allitterata e ingigantita dei prodotti industriali e dei pezzi d’arte, secondo il gusto nascente del consumismo culturale 24. Progettando allestimenti basati sulla continuità tra opera d’arte e prodotto industriale si promuoveva la politica del consumo. Implicitamente si assegnava il ruolo di réclame agli eventi espositivi che dovevano rappresentare il risultato finale delle politiche ideologiche da cui provenivano. Concludendo, il modello espositivo modernista adottato dal regime mostrava i prodotti dell’industria esaltandone la qualità e incitandone il consumo. Lo scopo principale di questi eventi non era più quello di promozione ma l’occasione per esibirsi in magniloquenti episodi di autocelebrazione.

Fino a quel momento era pratica usuale allestire le mostre sul modello dei salon carrè. Cfr. F.Haskell, The Enphemeral Museum. Old master painting and the rise of art exhibition, New Haven, London, 2000; F.Haskell, Antichi maestri in turnè: le esposizioni d’arte e il loro significato, a.c. T. Montanari, Pisa, 2001. 24 Cfr. S.Falasca-Zamponi, Fascist spectacle, University of California Press, Los Angeles, 1997 23

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I.II. I dogmi della religione laica

Così come per gran parte dell’Europa anche in Italia, a partire dalla prima metà del Novecento, il nazionalismo moderno venne a formarsi sul principio della divinità della patria. Il mito della catarsi morale del popolo italiano attraverso la religione di stato aveva fatto leva sulle élite dominanti. Pur mirando a traguardi dignitosi, i nuovi amministratori della terza Italia, si erano scontrati con alcuni fattori determinati che ne minarono la riuscita. In primo luogo un certo divisionismo interno sulla scelta della nuova religione di stato e i sui metodi di diffusione tra le masse e la mancanza di funzioni commemorative basate sul rito del rimpianto, più adatte a coinvolgere una massa liturgica e non d’occasione. La totale indifferenza della classe dirigente risorgimentale verso le masse, aveva fatto abortire immediatamente ogni proposito di religiosità laica virando verso le avanguardie moderniste, presentate come la via d’uscita alla crisi esistenziale dell’uomo moderno. In questo contesto sociale, aveva giocato una partita fondamentale la Grande guerra che aveva ispirato il culto dei caduti 25. Attraverso il sacrificio del sangue, generato dalla violenza della guerra, i movimenti nazionalisti avevano diffuso il mito della patria. Nel giro di pochi anni, il fascismo era riuscito a scalzare il nazionalismo, non per la novità del programma, ma per il Cfr. E.Gentile, Il culto del littorio: la sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1993. 25

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forte ascendente sulle masse, imponendosi come religione laica politicizzata. In un primo momento si era limitato a proclamarsi quale continuatore del radicalismo nazionale, sfruttandone miti e simboli, seppur nati in maniera sincretica, ma con decisive variazioni: • diffusione di massa • sviluppo metodico • assoluta devozione alla squadra (poi al partito e al duce) • ritualità e solennità delle manifestazioni pubbliche • mito della guerra Ingredienti fondamentali della santa milizia coesa sotto il vessillo della violenza e del mito della morte. Ogni azione, ogni atteggiamento, ogni manifestazione possedeva la triplice funzione di: mostrare la propria forza ai nemici, rafforzare i legami interni e fungere da mezzo di propaganda. Dai primi esordi sulla scena politica italiana, il fascismo si era imposto come religione, tanto da apparire in tutte le manifestazioni pubbliche come ordine militare in cui ogni suo adepto, doveva giurare totale fedeltà al partito, pena l’espulsione dalla vita pubblica. Durante gli anni della formazione, ancora orfana della propria chiesa e del proprio capo infallibile, si alimentava di squadrismo spontaneo e sporadiche manifestazioni di ribellione, tipiche di una fede ancora immatura. Pertanto le case del fascio avevano 25


assunto il ruolo di chiese e, nel 1932, era stato stabilito che dovevano dotarsi della Torre littoria (con annesse campane) e del Sacrario dei martiri dedicato alla memoria dei caduti. L’azione propagandistica era frenetica in questi spazi dove era curato ogni singolo aspetto programmatico e organizzativo secondo il mito della comunità totalitaria. L’idea di base era quella di plasmare la massa, rendendola massa liturgica 26 così da poter privare l’individuo della propria intimità. Il mito non doveva rappresentare semplicemente lo strumento di trasmissione delle ideologie o una forma mentale arcaica, ma il modello universale di pensiero.

Cfr. G.Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), in Nuova Collana Storica, n.50, Il Mulino, Bologna, 1974; cfr. V.Klemperer, LTI: la lingua del Terzo Reich, taccuino di un filologo, a.c. P. Buscaglione, La Giuntina, Firenze, 1999. 26

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I.III. Il ruolo dell’arte

Modernismo, Novecentismo e Tradizionalismo, costituiscono i sentieri per nuovi discorsi sui rapporti tra movimenti artistici e regimi totalitari. Dal punto di vista delle pulsioni, le avanguardie artistiche europee non furono seconde ai movimenti politici del Novecento 27. In Italia, grazie al Futurismo, si era formata la tendenza di eliminare tutti quei diaframmi che s’interponevano tra vita e concetto di arte totale. Secondo questa logica, i futuristi, erano da considerarsi degli interventisti ante litteram, antecedenti al fenomeno mussoliniano. La nascita della megamacchina totalitaria 28 rappresentava la chiave dei rapporti fra arte e politica del totalitarismo italiano, in grado di costituire la nuova narrativa della libertà. Il processo che aveva determinato l’arte e la letteratura di Stato era lungo e travagliato e, probabilmente, inconcludente. Numerose correnti espressive si accalcarono nelle stanze del potere, reclamando il primato di arte di Stato. Necessario precisare che non si trattava di sudditanza o sterile servilismo ma di rivendicazione del proprio ruolo. Almeno nei primi anni, Mussolini non si era esposto apertamente per non scontentare molti dei supporter artistici di cui si avvaleva. Cfr. A.Hewitt, Fascism, modernismo, estetica, politica e avanguardie figurative, Stanford University Press, California, 1993; C. Salaris, Artecrazia, L’avanguardia futurista negli anni del fascismo, La Nuova Italia, Firenze, 1992. 28 Cfr. I.Golomstock, Arte totalitaria: nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini, Leonardo editore, Milano, 1990. 27

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Ragion per cui era frequente l’alternarsi dell’eclettismo dei novecentisti e dell’avanguardismo dei futuristi 29, che però, prevalsero sui primi. Seppur dichiaratamente antiaccademici 30, soltanto nel 1926 riuscirono ad ottenere il crisma dell’ufficialità entrando a far parte del sistema dell’arte consacrata, grazie all’esposizione dei lavori presso la La Biennale di Venezia. Gruppo inizialmente formato da: Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo, Romani, Severini e Balla 31. Discordanti, almeno sotto il profilo stilistico, le critiche verso la corrente artistica Novecento che aveva preso piede nel 1922, grazie alla spinta nostalgica di: Sironi, Funi, Dudreville, Bucci (che ne ispirò il nome), Malerba, Marussige e Oppi. A cui andavano aggiunti gli architetti, che ne impinguarono le fila, tra cui: Muzio, Ponti e Mezzanotte32. Per certi versi, più che vera e propria corrente artistica così come s’intende attualmente quando si trattano le categorie dell’arte, rappresentava un cartello o un sindacato di artisti e intellettuali animati dal comune intento di ottenere benemerenze e commesse dal nuovo clima politico. Tra tutti Sironi, futurista della prima ora, ex squadrista e vignettista del «Popolo d’Italia». Fattore determinante, che aveva contribuito alla durata del movimento-sindacato, era da ricercare nella figura di Margherita Sarfatti che aveva Cfr. E.Crispolti, Storia e critica del futurismo, Laterza, Roma-Bari, 1986. «Noi vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni, di antiquari». Cfr F.T.Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, in «Le Figarò», Parigi, 20 febbraio, 1909. 31 E.Crispolti, Cronaca essenziale del futurismo italiano, in Futurismo. 1909-1944. Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura..., catalogo della mostra a.c. E.Crispolti, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 7 Luglio 2001. 32 Cfr. P.Barocchi, Storia dell’arte in Italia. Dal Novecento ai dibattiti sulla figura e sul monumentale, 1925-1945, Vol. 3/1, Einaudi, Torino, 1990. 29 30

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introdotto gli artisti, già ne1 922, nei salotti dell’arte che contava. Stranamente il movimento non raggiunse mai l’agognato obiettivo di affermarsi come arte di Stato pur possedendone tutti gli attributi. Le motivazioni trasparivano dalla mai chiara posizione del regime sul tema, nonostante lo sforzo degli artisti di «ripudiare le più scriteriate esagerazioni avanguardistiche a favore di un maggior senso delle proporzioni ed equilibrio tipico della tradizione artistica italiana» 33. A patto di sottostare al nuovo sistema antiliberale, l’artista poteva godere della più ampia autonomia creativa sul piano formale, oltre ad un certo tornaconto economico. Sovente erano sovvenzionati e gratificati con numerose commesse per conto di privati o da parte dello Stato. Alla continua domanda di prodotti d’arte e architettura, faceva da contraltare un certo appiattimento nella ricerca e nella sperimentazione da parte degli artisti e degli architetti considerati inquadrati 34. Tale atteggiamento non li aveva sollevati dalle critiche nell’uso di una poetica arcaica distante da quella romanità verso cui si guardava. Alla deformata figura antropomorfa del Sironi si preferiva la statuaria del Foro italico 35. Per un regime dittatoriale, il cui principale investimento era sul piano simbolico più che nelle effettive realizzazioni, la componente astratta era Cfr. G.Bottai, La politica delle arti. Scritti 1918-1943, a.c. A.Masi, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2009. 34 M.S.Stone, The patron state: culture and politics in Fascist Italy, Princeton University press, New Jersy, 1998. 35 È doverose annoverare Sironi tra i più grandi pittori del Ventennio, oltre ogni schieramento politico, in virtù della sua ingenua e disinteressata adesione al regime che tra l’altro gli era costato un ostracismo immeritato. Cfr. E.Braun, Mario Sironi and italian modernis: arts and politics under fascism, Cambridge University Press, Cambridge, 2000. 33

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sempre anteposta alla finalità stessa. Queste le premesse necessarie per decodificare l’edificio progettato per celebrare il Primo decennale del Regime (o Mostra della Rivoluzione Fascista). Occasione concreta di costruzione del mito, tanto da adottare scelte estetiche più vicine alle correnti moderniste che tradizionaliste. Mussolini aveva suggerito che doveva essere «modernissima e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato» 36. Libera e Mario De Renzi, erano stati incaricati per la realizzazione del padiglione. La mostra venne inaugurata il 28 ottobre 1932 al Palazzo delle Esposizioni di Roma in concomitanza del decennale della marcia su Roma 37. Il largo uso della fotografia aveva permesso di ottenere un risultato propagandistico eccezionale 38. Per la manifestazione erano state impiegate circa 3.127 riproduzioni nei formati più disparati 39. Uno degli aspetti più significativi dell’organizzazione guidata da Luigi Freddi 40, consisteva nel massiccio coinvolgimento delle masse. Queste erano esortate a spedire materiale riguardante il tema, così da Partito Nazionale Fascista (PNF), Mostra della rivoluzione fascista, a.c. dell’Ufficio Centrale per i Beni Archivistici divisione studi e pubblicazioni, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1990. 37 Per l’occasione erano stati realizzati dei documentario dall’Istituto Luce dal titolo Il Decennale. L’anno successivo venne prodotto, dallo stesso ente, un film di propaganda dal titolo Camicia nera, proiettato tra Parigi, Londra e Berlino nel marzo del 1933, in cui si ripercorrevano le vicende storiche del regime negli anni 1914-1922 attraverso gli occhi di un reduce della Prima Guerra Mondiale il quale trovava appagamento alle sue aspirazioni partecipando al movimento di Mussolini. 38 Cfr. J.C. Lamagny, A. Ruillé, Storia della fotografia, 1988. 39 Il materiale è conservato negli Archivi Centrali dello Stato di Roma, sezione MRF, buste 174-203. 40 Responsabile della politica cinematografia italiana a tra gli anni Trenta e Quaranta. Cfr. J.A.Gili, Stato fascista e cinematografia. Repressione e promozione, Bulzoni editore, Roma, 1981. 36

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Mostra della Rivoluzione Fascista, 1932. Roma, Palazzo delle Esposizioni, prospetto principale (ACS, fondo MRF)

Mostra della Rivoluzione Fascista, vista laterale. Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1933 (ACS, fondo MRF)

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Mostra della Rivoluzione Fascista, Pianta del pian terreno (in ÂŤArchitetturaÂť, XI, fas.I, gennaio, 1933, p.8)

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accrescere il sentimento di partecipazione e ottenerne la certa mobilitazione. Per quanto concerne l’aspetto architettonico, Libera e De Renzi, avevano deciso di ricoprire interamente la facciata con una struttura metallica geometrica, di colore rosso, da cui sporgevano quattro giganteschi fasci metallici, alti 25 metri. Lungo le due estremità dell’imponente colonnato littorio, si stagliavano due enormi X di 6 metri. Le premesse dell’impaginato esterno, quasi a simulare una minacciosa macchina da guerra, costituivano un impegnativo biglietto da visita. Superata la scalinata d’accesso, traguardando il grande arco trionfale, si giungeva alla parete su cui capeggiava il giuramento fascista. L’itinerario, che procedeva dalla sala A, del 1914, alla sala O del 1922, ripercorreva le imprese e i momenti salienti del partito e del suo leader massimo. Un tripudio di straripante eroismo sotto forma di collage, fotomontaggi e video. Passando in rassegna le varie sale, la O del 1922, risultava la più emblematica. L’obiettivo era quello di rappresentare la lotta tra caos e principio ordinatore. L’incarico era stato affidato a Terragni, architetto razionalista e di grande sensibilità41. Per lo spettatore, l’ingresso nella costituiva un secondo shock, questa volta seguito da breve disapprovazione dovuta alla presenza delle bandiere dei partiti antagonisti fissate al soffitto. Breve perché le stesse Sarebbe necessaria una digressione sul Terragni uomo e intellettuale del suo tempo, che potrebbe deviare dal tema di ricerca. Doverose alcune parole sul dissidio interiore che lo divisero tra razionalismo architettonico, magistralmente interpretato oltre la rigida regola e gli stilemi classico-romani imposti dal regime. Cfr. Thomas J. Shumacher, G. Ciucci, The Danteum: architecture, poetics and politics under italian fascism, Princeton Architectural Press, Princeton, 1993. 41

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G. Terragni, Mostra della Rivoluzione Fascista, allestimento per la Sala O, 1933 (ACS, fondo MRF)

G.Klutsis, Tutti i lavoratori devono votare alle elezioni del Soviet, 1927.

G. Terragni, Mostra della Rivoluzione Fascista, allestimento per la Sala O, dettaglio a parete, 1933 (ACS, fondo MRF)

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erano fissante con pugnali per simboleggiare la schiacciante vittoria del partito sui nemici. Il tutto accentuato dalla grande parete, posizionata trasversalmente, lungo la quale erano affissi ritagli di giornale, cimeli e materiale riguardante il periodo delle spedizioni punitive. Tuttavia l’acme espressivo lo si raggiungeva nella sala delle Adunate. Qui erano collocate, simbolicamente, tre eliche d’aereo composte dalle foto delle adunate. Per quello che riguarda invece la restante porzione di parete, erano scolpite decine di mani in rilievo, aperte nel gesto del saluto romano, come allusione tra fascismo e dinamismo. Il tentativo di affrancarsi dal liberismo delle avanguardie era fallito in almeno due aspetti: il primo nella tecnica utilizzata ossia il fotomontaggio, un caposaldo dei costruttivisti sovietici (Melnikov e El Lissitzky tra tutti) e dei dadaisti tedeschi. Il secondo nel chiaro riferimento al manifesto elettorale Tutti i lavoratori devono votare nelle elezioni dei Soviet del costruttivista Klutsis prodotto in occasione delle elezioni sovietiche del 1927. Se, da un lato, lo sforzo di Terragni era di costruire una poetica estetica con il compito di rappresentare il dinamismo del regime e delle masse in forma modernista; del tutto differente era l’atteggiamento di Sironi. Il sardo, grazie alla rilettura di vecchie e consolidante simbologie avanguardiste, tentava di esprimere i concetti di dinamismo e progressismo. All’interno delle sale a lui affidate, in particolare in quella dedicata alla marcia su Roma, il pittore aveva collocato il grande bassorilievo raffigurante un’aquila in volo affiancata dal tricolore. L’unione dei due simboli 35


A. Libera, A.Valente, Mostra della Rivoluzione Fascista, Sacrario dei Martiri, 1933 (ACS, fondo MRF)

A. Libera, A.Valente, Mostra della Rivoluzione Fascista, Sacrario dei Martiri, dettaglio, 1933 (ACS, fondo MRF)

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generava il profilo di un fascio. Antico e nuovo trovavano perfetta rappresentazione nel simbolismo politico qui esposto. Nonostante l’arguto lavoro risulti già sufficiente a delinearne la grande personalità artistica di Sironi, era la Galleria dei Fasci dove si era materializzata tutta la sua poetica. La sala era articolata secondo un corridoio ritmato da due file di massicci fasci con il compito di accompagnare lo spettatore verso il classicheggiante bassorilievo posto alla fine. Questi raffigurava un cavallo condotto da un cavaliere con il braccio destro teso e puntato in direzione del luogo più importante di tutta l’esposizione ovvero la Cappella o Sacrario dei Martiri. A realizzare questo spazio, erano stati interpellati Libera e Valente. Data la funzione, anziché concepire una sala cimiteriale tradizionale (il cui esisto sarebbe stato quello di confermare l’inseparabile divario tra vivi e morti) i due progettisti optarono per un ambiente ispirato ai criteri minimalisti e di assoluta economia. L’impianto, di forma circolare, era costituito da pareti lisce ricoperte dalla scritta presente, parola che riecheggiava nell’aria grazie ad appositi altoparlanti. Esattamente al centro della sala era collocata la grande croce metallica lungo cui capeggiava la scritta Per la patria immortale. L’intero spazio era avvolto da una luce crepuscolare sui toni purpurei. Tra queste pareti si sublimava il dramma del fascismo. Seppur ogni sala era dotata di un proprio apparato simbolico, per esaltare certi aspetti della dottrina, era nel sangue dei martiri che si leggeva il messaggio finale: il fascismo basava il proprio credo sul 37


M.Sironi, Mostra della Rivoluzione Fascista, Sala P, bozzetto di studio, 1931.

M.Sironi, Mostra della Rivoluzione Fascista, Sala d’onore, bozzetto di studio, 1931.

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sacrificio e sull’estremo gesto di morte. Per superare tale fase era necessaria la coesione dell’intera comunità. Tale avvenimento, che doveva porsi come promotore della storia della rivoluzione come storia del popolo italiano, finì per concludersi nell’assolutizzazione del suo leader. Infatti, l’intero percorso poteva essere interpretato come la rievocazione delle stazioni liturgiche per narrare le origini e le vittorie del suo capo-messia 42. Analoghe alle tematiche della Rivoluzione erano quelle trattate da Berlage tempio sociale. Infatti il Monument historique del 1889 dell’architetto belga manifestava i concetti di palazzo del popolo. Con il Pantheon der Mensheid 43 (Pantheon dell’umanità), si era raggiunta la sintesi tra teoria e pratica architettonica. Per i casi citati, la matrice socialista, aveva spinto molte società o enti a dotarsi di un grande edificio sociale, così come in passato ci si era dotati del tempio o della cattedrale 44. Berlage in un lungo saggio, ne descriveva alcune caratteristiche. All’edificio si accedeva grazie al lungo viale colonnato. L’interno, solenne e monumentale, generava sentimenti di stupore e commozione nel visitatore. Le pareti della spaziosa aula centrale erano adornate da profonde nicchie contenenti le virtù su cui si doveva reggere la società. Dal grande incavo posto sulla sommità, si potevano ascoltare melodie d’orchestra. In conclusione, l’autore, s’interrogava sulla possibile realizzazione Cfr. E.Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari, 1993. 43 Cfr. H.P. Berlage, Pantheon der Mensheid, 1915. 44 A.De Groot, La casa del popolo come tempio della fede sociale, in Case del popolo. Un’architettura monumentale nel moderno, M. De Michelis, Marsilio,1989,pp. 55-92. 42

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dell’edificio concludendo che non poteva esistere una società senza il proprio tempio sociale 45. Molte delle argomentazioni proposte nel saggio avevano trovato applicazione in alcuni piani urbanistici, al pari di quelle adottate dai progettisti di regime per le città di fondazione. Per il piano dell’Aia del 1908, gli edifici di rappresentanza e di maggiore rilevo, erano posizionati in punti specifici e interconnessi tra loro sistemi di piazze sulle quali si affacciavano le case del popolo. Il tema dello spazio pubblico estetizzato, trovava nel fascismo dei primi anni Trenta, una convincente soluzione. Altra importante attestazione di stima verso la componente culturale e rivoluzionaria del movimento italiano era giunta dall’architetto e pittore svizzero Le Corbusier. Egli faceva riferimento alle questioni di stile e alla nuova urbanistica di, matrice romana, che si stava sviluppando in Italia. Più che sugli esiti, si era soffermato sui principi dello spirito romano e sulla capacità, dei giovani italiani di «Fare il viso del paese. Farlo bello. Farlo coraggiosamente» 46.

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H.P. Berlage, Kunst en maatschappij, in De Beweginig, 1909, p.263. Si fa riferimento all’articolo apparso in «Stile Futurista», n.2, agosto, 1934.

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II. Palingenesi del classico Parallelamente all’attività del costruire, era emersa la necessità di dotarsi di un codice univoco per decifrare lo stile. Per questa ragione era necessario mettere ordine tra questa popolazione di parole disperse 47. Teatro di accese contese circa l’uso dei termini erano: mostre, eventi, concorsi e, soprattutto, riviste di settore. Innesco della querelle l’articolo del Gruppo 7 su «Casabella» 48. Per meglio comprendere il dibattito, è bene considerare il pensiero degli intellettuali che vi parteciparono. Da un lato: Pagano, Bardi, Bontempelli e Piacentini attenti alla componente sociale dell’architettura e al suo alto grado di trasmissibilità; per questa ragione si esigeva un linguaggio rigoroso ed essenziale. Diametralmente opposto, il pensiero di Belli che, da intellettuale aristocratico, rifuggiva l’idea dell’architettura come prodotto di massa trascurando la componente divulgativa 49. Neutrale la posizione che aveva assunto Edoardo Persico il che aveva indicato il Sant’Elia come modello 50, ammonendo i suoi coevi a essere «essere più rispettosi e non demolire così alla svelta la casa dei nostri padri» 51. Delineata la matrice del dibattito è possibile P.Nicoloso, Le parole dell’architettura. Il dibattito terminologico.1929-31, in La costruzione dell’utopia. Architettura e urbanistica nell’Italia fascista, in collana «Casa città territorio», Vol.7, Edizioni Lavoro, Roma, 1988, p.32. 48 Stazione di Firenze (1934) e Palazzo del Littorio (1935) in «Casabella», anno VII, n.1, 1934. 49 Cfr. M.Bontempelli, L’avventura novecentista, Vallecchi editore, 1974. 50 G.Valente, E.Persico. Tutte le opere (1923-1925), vol.II, Comunità editore, Milano, 1964, p.27. 51 Id. Due orari, in «Casabella», ottobre, 1930, ora in G.Valente, E.Persico, vol.I, p.27. 47

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parlare di palingenesi 52. Così come nelle dottrine orfiche e in certe forme di platonismo questo termine descriveva una serie di periodici cicli di trasformazioni (talvolta puramente catartici) così, nel dibattito sull’uso dei termini, si era avvertita l’esigenza di riposizionare i tasselli del discorso. Dal fitto campionario terminologico era possibile distingue due filoni. Il primo, composto dai neonati Razionalismo, Funzionalismo o Realismo magico; l’altro a carattere nazionale, composto da: italianità, romanità e mediterraneità. Esisteva poi, una terza via, più ampia e generale, composta dai termini: moderno, stile, classico e ordine. La parola Razionalismo compariva, per la prima volta, sulle pagine della rivista «Rassegna Italiana» pubblicata nel dicembre del 1926. Sorvolando sulla questione della primogenitura 53, era evidente il senso d’insoddisfazione e ambiguità semantica che questo termine generava tra gli utilizzatori. Libera e Rava si erano distinti per la qualità della riflessione, in modo particolare il trentino, già nel 1928, aveva definito il termine come la crasi di tecnica e sensibilità umana 54. Gran parte delle riflessioni di Libera risentivano della sua personalissima concezione dell’arte e della tecnica. Egli aveva raggiunto un soddisfacente equilibro sfruttando il concetto di estetica tecnica in grado di esplicare quelle intenzioni liriche afferenti la sfera della In ambito socio-politico, specie per gli studi sul fascismo, è un termine utilizzato per identificare il nucleo mitico, l’idea mobilizzatrice, che permette la rinascita e il rinnovamento dell’ideologia. Cfr. R.Griffin, The Nature of Fascism, Rutledge, 1991. 53 Contemporaneamente rivendicata da A. Sartoris, C.E.Rava e G.Terragni. Cfr. G.Ciucci, Il dibattito sull’architettura e la città fascista, in Storia dell’architettura italiana. Il Novecento, Einaudi, Torino, 1982. 54 Cfr. A.Libera, Arte e razionalismo, in «Rassegna italiana», marzo, 1928 52

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sensibilità artistica. Fondamentale era stata la collaborazione con Gaetano Minnucci 55 per l’allestimento (e il catalogo) della I° Esposizione italiana di Architettura Razionale in cui emergevano entrambe le componenti56. All’evento avevano fatto seguito alcune interessanti considerazioni di Rava. Egli, già nel ’31, sosteneva che era bene concentrarsi non tanto sull’etimologia della parola ma sulla pluralità d’interpretazione, in virtù dei forti contrasti che si erano generati all’interno dello stesso schieramento. Nonostante l’appartenenza militante al Gruppo 7 (di cui era membro fondatore) aveva preso le distanze dai colleghi più estremisti, limitandosi a definire il termine non «completamente esatto, ma pratico come tutte le etichette» 57 , concludendo che ormai «la cura razionalista ha esaurito il suo compito»58. In definitiva, più che a una categorizzazione di genere si era tentato d’incanalare la questione verso i temi della mediterraneità e dello spirito latino, identitari della cultura italiana. Per Rava dunque, l’architettura mediterranea doveva costituire una necessità 59. Relativamente agli articoli del Gruppo 7, prima pubblicati su «Rassegna italiana» tra il 1926 e il 1927, poi su «Quadrante» nel 1935, era interessante osservare due contributi degli storici dell’architettura Bruno Gaetano Minnucci è considerato il personaggio chiave del Razionalismo nostrano oltre che tra i padri fondatori del M.I.A.R. Celebre per l’opera Casa unifamiliare di via Carini (Roma), presa a modello dal Gruppo 7 come manifesto del razionalismo italiano. 56 «Benché questa parola non corrisponda esattamente al concetto, non si può definire un’opera che come l’architettura deve essere anche arte»; Cfr. A.Libera, G.Minnucci, Introduzione all’esposizione, catalogo «De Alberti», Roma, 1928. 57 Cfr. C.E.Rava, Svolta pericolosa, in «Domus», gennaio, 1931. 58 Cfr. C.E.Rava, Specchio dell’architettura razionale. Conclusione, in «Domus», novembre, 1931 59 Cfr. C.E.Rava, Una nuova epoca arcaica, in «Rassegna italiana», maggio, 1927. 55

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Zevi e Cesare de Seta. Più che sui prodotti di architettura, i due studiosi, si erano soffermati sul dibattito terminologico. Seccata e poco indulgente la riflessione di Zevi che considerava lo spirito moderno dei razionalisti come il frettoloso tentativo di mettere da parte la tradizione per giustificare enunciati vaghi e poco chiari. Enunciati che, nonostante le intenzioni di rivoluzionario rinnovamento, tradivano un lessico ricco di termini già acquisiti (classico, ordinario, logico, ecc.). Zevi, in conclusione, sosteneva che i razionalisti non erano stati capaci di «formulare una precisa poetica onde lasciarsi aperta la possibilità di abdicare» 60. Più diplomatica, ma non meno severa, la riflessione di de Seta incentrata maggiormente sulla non mai chiara posizione assunta dai membri del movimento, sulle questioni dei linguaggi e sull’uso dell’architettura razionale all’interno di quella di regime. Egli sosteneva che, pur di non entrare in aperto conflitto con la committenza di Stato, operava con ambiguità formale e scarsa coerenza. Concludendo che, sia l’atteggiamento assunto dai vertici politici che quello degli architetti non era riuscito a «coglierne la potenziale portata contestativa nei confronti dello stesso sistema» 61. Ciò che emergeva era il continuo oscillare tra desiderio di rinnovamento e cesura con la tradizione e volontà d’imporsi come portatori di uno stile nuovo. Nello specifico, la tradizione non era da concepirsi come un apparato di nozioni storico-tecniche cristallizzate, Cfr. B.Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino, 1975. Cfr. C.de Seta, Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, vol.IV, Istituto Editoriale Romano, Roma, 1969. 60 61

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ma come una pulsione vitale e in continuo divenire. Fattore che aveva segnato la scissione in due sottogruppi, era la diversa estrazione geografica e culturale (scuola romana e scuola milanese). Entrambe le correnti interni si erano distinte per la stupefacente capacità di fusione tra stilemi neoclassici e licenze cinquecentesche che, però, avevano lasciata sguarnita la regione dell’innovazione 62. Constatata l’impossibilità di progresso che si poteva ottenere dai soli modelli del passato, i milanesi avevano deciso di dotarsi di principi solidi e rigorosi, più vicini alle tendenze europee. Questi riguardavano: • l’univocità del processo di filiazione dell’idea scaturita alla logica della razionalità • l’individuazione di pochi tipi architettonici • l’osservanza ferrea delle regole compositive stilate Era evidente l’intenzione di limitare le espressioni individuali, in favore in un più consapevole senso etico, più inclini alla serialità che all’unicità. Più che parlare di omologazione, era necessario trattare le categorie come l’invito a un linguaggio semplice 63, basato su alcuni modelli (tipi) fondamentali e universali. Questa tendenza lascia trasparire alcune simpatie verso i movimenti razionalisti d’oltralpe, che si erano caratterizzati per un Il Gruppo 7, Architettura, in «Rassegna italiana», IX, serie II, n.103, dicembre, 1926. pp. 850-852. 63 «Bisogna confondere semplicità con povertà: sarà semplice e nel perfezionare la semplicità sta la massima raffinatezza». Ibidem, pp. 852-853. 62

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linguaggio unitario ma non univoco, semplice ma non semplificato, seriale ma non reiterato, senza rinunciare alla sperimentazione. Tale tendenza era osteggiata da Pagano e Persico che, nei caratteri tradizionali delle architetture italiane, individuavano i modelli delle nuove avanguardie. L’atteggiamento di Pagano e Persico e, in seguito, di Rava non era da considerarsi come la consueta rielaborazione del repertorio classico di archi e colonne ma la volontà di comprendere profondamente lo spirito che animava le architetture minori fatte di logica, verità e ordine. Riuscire a comprendere e a interiorizzare questi attributi doveva essere l’obiettivo dei razionalisti italiani 64. Dato l’ingente patrimonio architettonico tradizionale, gli architetti (così come gli artisti) erano chiamati al continuo confronto con la classicità ellenica 65 fatta di ritmo, purezza e proporzioni che costituivano le basi della ricerca teorica dei puristi e cubisti europei 66. Sulle tematiche del classicismo mediterraneo, Carlo Belli nel 1935, aveva scritto: Il pensiero del Gruppo 7 fu di giungere a un nuovo spirito architettonico, chiaro, non macchinoso, orizzontale, mediterraneo. La fonte ispiratrice del movimento milanese è l’Atene di Pericle

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.

Ibidem, p.854.

In Italia la corrente del classicismo mediterraneo fu trattata da Severini sulla rivista «Valori Plastici». Severini, che già nel 1921 aveva scritto Du Cubisme au Classicisme, avrebbe ispirato gli studi del celebre modulor di Le Corbusier. 65

66 67

Cfr, G.C. Argan, L’arte moderna, Sansoni editore, 1970. C.Belli, Origine del gruppo 7, in «Quadrante», II n.23, febbraio, 1935, p.36

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Quello che emergeva dagli scritti e dai manufatti prodotti in questo lasso di tempo, era la completa atemporalità di queste architetture, quasi fuori dal flusso della storia e immuni alla categorizzazione stilistica 68. Per questa ragione, molta della produzione non solo architettonica, risentiva del continuo attingere alla tradizione classica (specie da quella greca di Pericle), considerata come la generatrice dei modelli senza tempo. Figini, in uno dei carteggi intrattenuti con l’amico e collega Bontempelli, aveva scritto «se è terribilmente moderno è anche terribilmente classico» 69. La stretta correlazione tra moderno e classico, non più binomio antitetico, si era rivelata il presupposto fondamentale di molte scelte progettuali e stilistiche. L’indissolubile intreccio tra architettura e arte, aveva trovato estrema sintesi nel volume prodotto da Belli nel 1933, intitolato Kn 70. Il testo, vero e proprio manuale multidisciplinare, spaziava tra arte, M.Bontempelli scrisse: «Ritorno al classico. Sento parlare, da taluni con gioia da altri con rassegnazione, di «ritorno al classico». Certi per classico intendono il classicismo. Ma anche quelli che invece pensano ai greci, hanno torto, e non voglio che si dica «ritorno». Classico non è una determinazione di tempo, è una categoria spirituale. In realtà, classica è ogni opera d’arte che riesca a uscire dal proprio e da ogni tempo. Classici Leopardi e Petrarca non men che Catullo e Alceo. Anche il romanticismo riesce al suo classico. Classico non meno che Omero è Dante, in cui pure sono più elementi gotici ed etruschi che non greci. Ogni epoca vuole il classico suo. Non parliamo dunque di «ritorni»; parola equivoca, anzi imbelle. La nostra epoca, uscita dalle esperienze avanguardiste, di (che furono il brillante rogo degli ultimi relitti del romanticismo), sta avviandosi verso il suo proprio classico. I segni se ne vedono da tutte le parti. L’abbandono del cromatismo in musica, la parete liscia in architettura, l’aborrimento dell’aggettivo nell’arte dello scrivere. E soprattutto lo spirito, che cerca di scavare in profondo: l’arte non più come divertimento ma come religione del mistero». M. Bontempelli, L’avventura novecentista, Vallecchi editore, 1974, p.42. 69 Cfr. F.Biscossa, La rivista Quadrante, Venezia, 1977. 70 L’assunto di base come presupposti la combinazione di forma (K), da moltiplicarsi per i molteplici aspetti (N) che determinavano il pensiero. Per questo, il risultato ottenuto non può essere che assoluto e unico a se stesso. Cfr. C.Belli, Kn, Edizioni della Galleria Il Milione, Milano, 1935, p.171. 68

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musica, filosofia e architettura 71, permettendo all’autore di liberarsi da quella tendenza di sovrabbondate decorativismo. Il Razionalismo era da considerarsi sia un movimento d’avanguardia che un movimento tradizionale 72; natura che gli aveva permesso di costituirsi come fondamento dell’architettura fascista. Altro straordinario interprete del nuovo lessico dell’architettura era Terragni. Il comasco, bypassando i concetti già consolidati di costruzione e struttura, sosteneva che l’architettura doveva essere la «forza che disciplina queste doti costruttive e utilitarie ad un fine di valore ben più alto» 73. In linea con la tendenza europea che, specialmente in Le Corbusier, stava prendendo piede nel campo delle costruzioni 74. Questa particolare concezione della materia, aveva spinto Terragni, a trattare il manufatto non più come dato oggettivo, ma come manifestazione emozionale e commuovente intrisa di realismo magico. Quest’ultimo era da intendersi come quell’oscillazione di opposti, quel recuperare forme di pensiero originarie e capaci di tenere insieme la concretezza del presente e l’astorica tensione del passato 75. Il tentativo di riappropriarsi di un mondo costruito su certezze ormai scomparse, aveva costretto a rielaborare la realtà per ripristinare «tempo Molti passaggi risentono dell’influenza del filosofo A.Rosmini o, in architettura, delle frequentazioni con G.Ponti, così come col pittore futurista F.Depero 72 «Noi siamo idolatri di un ordine che non ammette trasgressioni: allo spirito quello che è dello spirito, alla materia quello che è della materia [...] Noi siamo i classici del 2000». C.Belli, Kn, Edizioni della Galleria Il Milione, Milano, 1935, pag. 156. 73 G.Terragni, Per un’architettura italiana moderna, in «La Tribuna», 23 marzo 1931. 74 «La costruzione è per tener su, l’Architettura è per commuovere. L’Architettura è rapporto, è pura creazione dello spirito». Cfr. Le Corbusier, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1979, p.9 75 M.Bontempelli, Realismo magico e altri scritti sull’arte, a.c. E.Pontiggia, Abscondita, 2006. 71

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e spazio nella loro eternità e infinità immodificabili, matrici di tutte le leggi fisiche e morali» 76, così da riuscire a ricomporre lo strappo tra parola e materia. Nel 1926, l’architettura era ancora affetta da quella concezione che la relegava a disciplina tra le tante, demandata a «costruire per inventare miti freschi, per rendere solido il mondo, per tagliare blocchi e porli l’uno sopra l’altro; per modificare senza tregua la crosta della terra» 77, per poi essere nobilitata ad arte di «vera e propria alterazione della crosta terrestre»78. Molta della ricerca nel campo dei linguaggi, era stata interessata da frequenti e repentini cambi di tendenza. Nel 1934, pochi anni dopo l’inizio del dibattito, molti degli architetti avevano abbandonato l’aggettivo razionale per approdare a quello funzionale 79. Come sosteneva Terragni, poco incline nell’adottare questo lessico, la questione era da porsi esclusivamente sull’architettura, ragion per cui il Razionalismo era da considerarsi come una parte e non come il tutto, come il mezzo e non come il fine. Si faceva del razionalismo per giungere all’architettura e non viceversa 80.

M.Bontempelli, L’avventura novecentista, Vallecchi editore, 1938, p. 27. Ibidem, p.64. 78 Cfr. M.Bontempelli, Passaggio all’architettura, 1930. 79 Nel maggio del 1933 Bontempelli aveva scritto a proposito dei termini: «oggi l’architettura (quella che importa, che conta) ha inventato l’aggettivo ‘razionale’. Ha anche inventato l’aggettivo ‘funzionale’. Ma come tutti gli aggettivi anche questi sono imperfetti, esposti alla possibilità di equivoco prestando il fianco alle comprensioni mediocri e alle obiezioni di mala fede. Ma grosso modo servono a farci capire come si deve fare» cfr. L’avventura novecentista, 1938, in La costruzione dell’utopia: architetti e urbanisti nell’Italia fascista, G.Ernesti, P.Nicoloso, Le parole dell’architettura. Il dibattito terminologico. 1929-1931, 1988. 80 Cfr. G.Terragni, L’appassionata polemica degli architetti italiani su le nuove forme dell’architettura contemporanea, in «Il Giornale d’Italia», 12 maggio 1931. 76 77

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Alla diversa attribuzione del valore dei termini, corrispondeva la differente interpretazione del concetto di architettura stessa. La ricerca di fattori comuni, che dovevano mettere in connessione la pratica compositiva e la trasmissione dell’ideologia, si prestava a differenti interpretazioni. Da un lato, l’utilizzo della comunicazione mitica, rappresentava lo strumento di negazione del tempo storico favorendo il «riconoscimento di un andamento che informa di sé il mondo contemporaneo» 81. Dall’altro, lo si sfruttava come espediente per raffigurare la massima astrazione del reale che, nel progetto del Danteum (1938), aveva raggiunto l’apice del lirismo compositivo 82. Infine, per il progetto della Casa del fascio di Como 83, il continuo movimento di pieni e vuoti delle facciate, trovava appagamento nel coronamento superiore, quale figurazione ideologica in pietra. La capacità dell’edificio di mettere in costante dialogo gli opposti, aveva permesso a Terragni di raggiungere la «fissità apollinea» 84. Tornando alla situazione generale era interessante notare una certa differenza interpretativa sui temi del Razionalismo, particolarmente suscettibile di ascendenti geografici e retaggi culturali. In sostanza erano ben delineati due macro-filoni. Il primo così detto mediterraneo, caratterizzato dai principi di solare armonia ed ellenica proporzione; il secondo europeo o nordico, più P.Fossati, L’immagine sospesa, Einaudi, Torino, 1971, p.48. Cfr. T.L.Schumacher, Il Danteum di Terragni, Officina edizioni, 1980. 83 Bontempelli aveva così commentato: «tutto si fa aureo, saliti tre piani e compiuto il giro, il luogo più concentrato appare la terrazza. Forse da un momento all’altro un soffio porterà via tutto il resto e noi di là saliremo a vedere costellazioni. È meglio dunque riscendere». M.Bontempelli, L’avventura novecentista, Vallecchi, 1938, p.338 84 M.Tafuri, Il soggetto e la maschera, in «Lotus», n.20, 1978. 81 82

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introverso e cupo. Nonostante la condivisione d’intenti, molte differenze intercorrevano tra i due filoni così come tra le architetture prodotte. Nella nota di accompagnamento al dossier del Gruppo 7, La nostra inchiesta sull’edilizia nazionale, si potevano leggere distintamente le peculiarità dei due movimenti: • É necessario, parlandone, sapere a quale razionalismo si allude: c’è razionalismo e razionalismo. C’è il razionalismo chiaro, sereno, quasi mediterraneo di talune costruzioni ellenizzanti, e il razionalismo barbarico, esasperato di taluni architetti tipicamente nordici; c’è il razionalismo che dà origine a case e ville fatte per vivere sotto il sole, in mezzo agli alberi e ai fiori, di fronte alle acque; e il razionalismo che dà vita inumane visioni di squallore o di incubo. • Internazionale del razionalismo. É tempo di denunciare la favola dell’internazionalismo architettonico razionalista: internazionali sono i nuovi e nuovissimi mezzi costruttivi: internazionali le premesse date dalla logica e dall’igiene. Ma nazionalisti, differenti da paese a paese, sono i risultati. 85

In concomitanza con affermazione del mito della Roma imperiale e della presa sempre più forte della politica sull’architettura, si era sostituito l’ellenismo con la romanità. Principalmente era prevalsa la componente ideologica del movimento fascista, che consideratosi continuatore dei fasti romani, aveva imposto lo stile. Ciò aveva permesso sia ai passatisti neoclassici che ai più spinti avanguardisti di far fronte comune nella lotta per la supremazia dell’arte e dell’architettura italiana nel mondo. Nonostante il clima di Gruppo 7, La nostra inchiesta sull’Edilizia Nazionale, in «Il Popolo d’Italia», 30 marzo 1930, p.3. 85

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rinnovamento e di ricerca di nuovi modelli, si percepiva un certo smarrimento figlio, probabilmente, delle condizioni politiche generali non certo rassicuranti. In definitiva, il presunto raggiungimento di un linguaggio universalmente condiviso, stonava con la molteplicità interpretativa degli stessi termini che lo componevano. Ciò dimostra che il perimetro del sapere architettonico era continuamente mutevole e aperto a nuove tensioni dialettiche e compositive, alcune arenate tra le sabbie del tempo, altre sopravvissute e giunte a noi sotto forma di nuove narrazioni di pietre e parole.

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III. La romanità come modello «Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale». L’incipit dell’articolo, scritto da Mussolini in occasione del Natale di Roma, sulle colonne del quotidiano «Popolo d’Italia» nell’aprile del 1922, si presentava denso dei principi programmatici tipici dell’azione fascista, già espressi durante il I° Convegno Sindacale fascista di Bologna del gennaio del ‘22. La decisa impronta totalitaria perseguita dal regime, traeva la massima ispirazione dal modello della Roma imperiale, soprattutto per quanto afferiva la sfera spirituale simbolica. Contemporaneamente, tra le pagine rivista «Architettura e Arti Decorative», si affermava la necessità di rivolgere l’attenzione e lo studio alle rovine romane «che sono roba nostra, piuttosto che stupirsi di fronte a quanto si va facendo all’estero e diventare succubi delle arti altrui» 86 . Si alludeva al ritorno alle origini latine e alla missione di continuità della storia di Roma. Oltre che sul piano ideologico, il modello della Roma imperiale si prestava perfettamente a legittimare le scelte progettuali a scala pubblica e il terreno fertile all’uso di quegli artifici geometrici e prospettici capaci di soddisfare le ambizioni di ordine e di rappresentatività del fascismo. Sul tema, già nel 1926, i membri del Gruppo 7 si erano affrettati a comunicare, sulla rivista C.Cresti, Architettura italiana in periodo fascista, in Architettura e città negli anni del fascismo in Italia e nelle colonie, a.c. di C.Cresti, B.Gravagnuolo, Pontecorboli editore, Firenze, 2005, p.6 86

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«Rassegna Italiana», tutta la loro affezione per la romanità87. Emblematiche necessario le parole utilizzate per l’introduzione al catalogo della Prima Esposizione italiana di Architettura Razionale curata da Libera e Minnucci. Tra le righe traspariva tutto l’impegno a mantenere lo spirito romano, prego dei concetti di razionale, utilitario e industriale capace di «liberarci dal vecchiume della nostra decadenza decorativista e ritornare a quelli che furono gli antenati fondatori di imperi: costruttori» 88. Altro esempio di romanità si era materializzato nel numero di gennaio della rivista di arte e cultura «Emporium» dal titolo La rinascente identità classica nella composizione monumentale della città. All’interno si poteva leggere sull’assoluta necessità di monumentalismo e classicità, fondamentali per rendere la città romana riconoscibile e gloriosa. Proseguendo, si affermava che senza il grandioso e il maestoso non potevano esserci città degne di questo nome ma agglomerati. A prescindere dalle culture o dalle epoche non vi era stato popolo che «abbia conchiusa l’affermazione di potenza con la creazione di una sistema architettonico regolato dal concetto delle tre dimensioni amplificate al massimo» 89. Ciò che maggiormente sorprende del dibattito sulla romanità era l’ulteriore polemica che si era generata. Dopo la consegna del «Manifesto» al duce il 30 marzo 1931, durante la Indicandone i modelli: «quattro o cinque tipi: il tempio, la basilica, il circo la rotonda a cupola e la struttura termale». Cfr. Gruppo 7, Architettura in «Rassegna italiana», dicembre, 1926, p.852. 88 G.Minnucci, A.Libera, La I Esposizione d’architettura razionale a Roma, in L.Patetta, L’architettura in Italia. 1919-1943. Le polemiche, Clup, Milano, 1972, pp.154-155. 89 A.Nezi, La rinascente identità classica nella composizione monumentale della città, in «Emporium», gennaio, 1929, vol.LXIX, n.409, pp.3-4. 87

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II° Esposizione Italiana di Architettura Razionale organizzata dal MIAR 90 , era stato esposto, insieme ad altri lavori, il Tavolo degli orrori 91 di Bardi. L’autore aveva dichiarato che «è soprattutto doveroso riconoscere come si accentua sempre più la tendenza ad esaltare quel carattere di latinità che ha permesso a questa architettura di definirsi come mediterranea» 92. A partire da questo preciso momento si era stabilita la connessione tra architettura mediterranea e latinità, fino a quel momento mai esplicitata completamente. Diversa invece la finalità del pamphlet dello stesso autore, pubblicato sulla collana «Polemiche»93 diretta da Giuseppe Bottai e Gherardo Casini. Esaurito il censimento sullo stato dell’architettura moderna in Italia, si rivolgeva l’attenzione agli accademici accusandoli di essere «tarati ad una testarda e quanto mai assurda visione del cosiddetto monumentale»94. In generale, lo scopo del Rapporto, era quello di far riconoscere il Razionalismo Relativamente al Movimento Italiano per l’Architettura Razionale cfr.: M.Cennamo, Materiali per l’analisi dell’architettura moderna, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1976. 91 Al riguardo è curioso riportare le parole di Bardi: «Mussolini venne a inaugurare, da me e da Libera ricevuto, visitò i vari progetti presentati, soffermandosi a conversare con gli autori. Finalmente di fronte al mio fotomontage, sorpreso, mi chiese: “Che cos’è questo?”. Gli spiegai che si trattava di un “tavolo degli orrori” e lui restò curioso e pensoso per alcun tempo, come si può vedere attraverso le fotografie ufficiali, e finalmente mi disse; “Mi pare che avete ragione”. Allora gli consegnai il mio libro Rapporto e il mio manifesto. Questo fu dato alla Stefani, allora l’agenzia ufficiale per la diffusione a tutta la stampa. Si trattò, come si capisce, di un fatto di importanza per la polemica dell’architettura, come ripeto per iniziativa di Adalberto Libera.» AA.VV., Adalberto Libera. Opera completa, Electa Milano, Venezia, 2001, pp. 218 219. 92 MIAR, L’architettura razionale italiana. 1931, in «La Casa Bella», IV, n.40, aprile, 1931, p.82. 93 P.M. Bardi, Rapporto sull’architettura (per Mussolini), in «Critica Fascista», Collana «Polemiche», 1931. 94 P.M.Bardi, Rapporto sull’architettura (per Mussolini), in Materiali per l’analisi dell’architettura moderna. Il MIAR, Società Editrice Napoletana, Napoli, 1976, pp.145146 90

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come unico movimento italiano d’avanguardia in grado di generare un’autentica architettura fascista. Infine, secondo Bardi, tutte le credenziali necessarie ad accreditare il Razionalismo ad architettura fascista erano da ricercare nelle radici romane paragonando il Colosseo alla Torre delle Milizie, perché entrambi prodotti di architettura contemporanea. Pur ritenendosi un convinto razionalista, Bardi, era convinto che per l’Italia era arrivato il momento di «riscuotere qualche soldarello» 95. In effetti, durante tutti gli anni Trenta, il dibattito era incentrato quasi esclusivamente sulla necessità di non troncare bruscamente con la tradizione, imponendo alle avanguardie il continuo confronto con l’eredità del passato. Seppur trattata in maniera differente dagli accademici (Giovannoni e Piacentini) e dai razionalisti più spinti, la volontà di conciliare tradizione e modernità fondava sullo stesso crepidoma: il mito della Roma imperiale. L’imprintig della romanità avvenne sotto due diverse forme: • la monumentalità, maggiormente richiesta nei concorsi 96 • la riscoperta dell’edilizia domestica (casa ad atrio pompeiana) 97 Ibidem, p. 157 Tra i più significativi: Monumento-Ossuario dei caduti per il cimitero del Verano (1922) di Aschieri, Fasolo, Del Debbio e il Palazzo delle Nazioni a Ginevra (1926) di Limongelli. 97 Al riguardo cfr. lo studio sulla tipologia di Guido Calza del 1923 pubblicato nel testo Le origini latine dell’abitazione moderna, in «Architettura e Arti decorative», vol.II-III, settembre-ottobre, 1923, pp.3-18, pp.49-63. 95 96

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Quest’ultimo aspetto analizzato dallo studioso C. Cresti che, nella villa di committenza privata e la domus pompeiana aveva individuato forti analogie. Egli sosteneva che, parallelamente alla costruzione dei grandi complessi pubblici saturi di stilemi monumentali, correva una casistica di architetture informali e attente ai caratteri basilari dell’abitare mediterraneo 98. Alcuni anni prima, il tema della classicità romana era stato trattato dal maestro Adolf Loos nel saggio Architektur del 1910, nel quale si esaltavano i principi di organizzazione razionalità e visione collettiva. Secondo il ceco, i romani erano riusciti ad attingere alla tradizione greca epurandola dalle superfetazioni decorative grazie all’intrinseco spirito pragmatico che li distingueva e che permetteva, alle architetture, di fungere da strumento sociale e non esaltazione individuale. In conclusione, Loos, sosteneva che i Greci avevano sprecato il proprio tempo ad inventare altri strumenti dimenticando che per «risolvere grandi problemi di progettazione non è necessario pensare a nuove modanature» 99. Il contributo più originale e significativo sul tema della romanità, arrivava dalla penna autorevole di Pagano che, nel 1931, aveva scritto su «La Casa Bella» un formidabile saggio Architettura moderna di venti secoli fa. Il saggio, muovendo dal presupposto della continuità della storia costruttiva, metteva in contrapposizione il modello abitativo pompeiano e quello «Qualsiasi espressione dell’architettura italiana degli anni Venti e Trenta rilevava evidenti segni di paternità latina». C.Cresti, Architettura e fascismo, Vallecchi Editore, Firenze, 1986, p.102. 99 A.Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1980, pp-255-256 98

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contemporaneo, ricercandone lo spirito architettonico. La pubblicazione era corredata da immagini che spaziavano dalle strade di Pompei ai villaggi olandesi progettati di Dudok, per concludersi con le ville a corte disegnate da Mies. Quello invece ch’io desidero esprimere è che ogni volta ch’io ho percorso il pompeiano vicolo del balcone pensile o quei suggestivi meandri che circondano i granai di Ostia, mi si è presentato uno strano desiderio di completare modernamente quelle illustri rovine, come se fossero cose lasciate momentaneamente incomplete.100

La trattazione di Pagano non si limitava alla pura catalogazione teorica ma ne tracciava i segni concreti: la proiezione verso l’interno, la posizione degli ingressi, le bucature effettuate in punti specifici per favorire il benessere micro-climatico; erano tutti obiettivi che gli architetti moderni si prefissavano. La scatola edilizia pompeiana era costruita per «obbedire ad una precisa funzione utilitaria e secondo un indirizzo di gusto molto affine a quello di oggi».101 Ogni elemento descritto trovava esatta corrispondenza nei principi della casa moderna a partire dal rigore geometrico dell’impianto, alla chiarezza distributiva, all’essenzialità e al minimalismo degli interni e degli arredi. Altro punto di contatto era la tecnica costruttiva. Il sistema di archi e architravi in pietra e legno era assimilabile ai telai in ferro e cemento delle abitazioni moderne, così come le colonne ne identificavano i successivi piloties. Per questa ragione, G.Pagano, Architettura moderna di venti secoli fa, in «Casabella», IV, n.47, novembre, 1931, pp.16-18. 101 Ibidem, pp.16-18. 100

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in Pompei si rafforzare la fede nell’architettura moderna s’invitava «a un simpatico avvicinamento tra Mies van der Rohe e gli anonimi costruttori delle case funzionali e intimiste i venti secoli or sono» 102. Era evidente la chiara intenzione di Pagano di esortare i suoi coevi a continuare a guardare al modello della casa romana e quale radice della mediterraneità e dello spirito classico. In definitiva, non era necessario guardare ai modelli stranieri per individuare i caratteri della nuova architettura, ma era sufficiente attingere a tutto quel repertorio di espedienti formali che caratterizzavano l’immortale architettura tradizionale nazionale.

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Ibidem, p.19.

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III.I Modernismo mediterraneo e architettura spontanea

Naturale conseguenza delle riflessioni appena trattate era il tema della mediterraneità, interrogativo comune a tutte le correnti architettoniche di questi anni. Significativo l’intervento di Erich Mendelshon sulla rivista «Architettura» del 1932 con il saggio Il bacino del mediterraneo e la nuova architettura. A una prima ricognizione sullo stato dell’arte (dall’architettura americana di sola facciata a quella in stile biedermeier degli austriaci), faceva seguito la riflessione sulla capacità del bacino del Mediterraneo di armonizzare ciò che di discorde esisteva tra le culture. Nonostante il forte clima d’incertezza, il tedesco, individuava nel Mediterraneo il terreno fertile per le nuove sperimentazioni sui linguaggi, oltre che la «Patria di tutti noi, ci collega tutti coll’origine e con la fine» 103. Egli, nella battute conclusive, ribadiva l’importanza di credere ad nuovo classico capace di prescindere le epoche e perdurare nel tempo. Le riflessioni di Mendelshon identificavano il Mediterraneo come luogo d’origine e matrice della nuova architettura. Certamente, il Razionalismo, visti i presupposti ideologici (tradizionalismo-avanguardismo, nazionalismointernazionalismo) trovava, nel tema del Mediterraneo, il luogo migliore per le proprie sperimentazioni 104. E.Mendelshon, Il bacino del mediterraneo e la nuova architettura, in «Architettura», fascicolo XII, dicembre, 1932, p.648 104 S.Danesi, Aporie dell’architettura italiana in periodo fascista. Mediterraneità e purismo, in S.Danesi, L.Patetta, Il Razionalismo e l’architettura in Italia durante il Fascismo, Electa, Milano, 1976, pp.21-28 103

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Se, inizialmente, il modello di riferimento era quello ellenico, poi sostituito con quello romano, a questo punto della storia dell’architettura ogni attenzione era concentrata sul tema delle architetture minori perché in grado di conciliare tutte le tendenze. Tali manufatti, oltre a incarnare tutti i principi del Movimento Moderno, soddisfacevano la sete di novità e la necessità di tener fede alla tradizione. All’interno dello stesso movimento si potevano distingue due differenti tendenze: quella filo-ellenica 105, colta dei razionalisti e ancora alla ricerca del rigore pitagorico e del ritmo armonico, e quella filo-imperialista di matrice politica magniloquente e referenziale. Nonostante la volontà di rinnovamento, Roberto Pane aveva osservato che se paragonate alle case di Procida quelle di Le Corbusier erano «timide esercitazioni di volumi» 106. Non era da meravigliarsi se «molti dei più intelligenti architetti del nord abbiano tratto motivo per nuovi orientamenti», riferendosi ai modelli delle case curarli italiane. Gran parte della catalogazione e diffusione di questi manufatti avveniva attraverso le riviste di riferimento. Seppur con un ciclo di vita di appena un Dal carteggio intrattenuto da Belli e Danesi si apprendeva che: «Il tema della mediterraneità e grecità, al tempo dell’architettura razionale, fu esso la nostra stella orientatrice. Scoprimmo presto che un bagno nel Mediterraneo ci avrebbe restituito valori sommersi da sovrapposizioni gotiche e da fantasie accademiche. Esiste uno scambio nutritissimo di lettere tra me, Pollini,Figini e Terragni su questo argomento. Esistono miei articoli su vari giornali, in polemica specialmente con Piacentini, Calza Bini, Maraini e altri invasati di romanità littoria […] Studiamo le case di Capri: come erano costruite, perché erano fatte a quel modo. Scoprimmo la loro tradizionale autenticità, e capimmo che la loro perfetta razionalità coincideva con l’optimum dei valori estetici. Scoprimmo che soltanto nell’ambito della geometria si poteva attuare il perfetto gemȕtlich dell’abitare» Ibidem. pp.25-33. 106 C.Cresti, Architettura italiana in periodo fascista, in Architettura e città negli anni del fascismo in Italia e nelle colonie, a.c.C.Cresti, B.Gravagnuolo, Pontecorboli editore, Firenze, 2005, p.7 105

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triennio la rivista «Quadrante», (fondata da Bontempelli e Bardi) nel 1933, poteva contare sull’appoggio di intellettuali nazionali come: Pollini, Figini, Banfi, Peresutti e Rogers e grandi esperti europei come: Gropius, Giedion e Le Corbusier. Quest’ultimo cofondatore della rivista francese «Prélude» 107 oggetto di alcune critiche da parte di Persico108. Fondamentale alla questione l’articolo, pubblicato sul primo numero della rivista «Quadrante», Un programma d’architettura 109, articolato in nove punti. Ne mergeva la volontà di affermare il Razionalismo italiano non come la manifestazione del folklore locale ma come l’incarnazione dello spirito mediterraneo in antitesi con la nuova architettura europea nordica e romantica. La riflessione generale, su cui si basavano i nove punti, era di staccarsi dal razionalismo d’oltralpe per virare verso approcci progettuali in linea con quelli delle architetture della costa. Tale pratica permetteva di approdare a una nuova classicità spirituale da concepirsi come categoria estetica autonoma, libera dagli influssi accademici e rispettosa dei presupposti di ritmo e proporzione. Pollini faceva notare che, per superare il momento opaco dell’architetture moderna, era opportuno Bardi, durante il viaggio sul Patris II, scrisse: «Oggi la nostra conversazione si svolge a base di schizzi: si parla di architettura mediterranea e occorre capirsi su un’improvvisata cartina geografica […] Nel giornale Prélude si sostiene appunto l’idea di un asse, che vorrebbe poi dire una collaborazione: Mediterraneo. Uno dei sostenitori più convinti è, con Winter, un francese che ci è carissimo, Lagardelle, l’amico di Sorel e di Mussolini. Queste idee, la correlazione dei rapporti tra i redattori di Prélude e noi Fascisti hanno determinato a Parigi la voce che Le Corbusier faccia una `architecture fasciste`» in Cronaca di viaggio. Un’idea di Le Corbusier, in «Quadrante», n.5, settembre, 1933, p.19. 108 Cfr. E.Persico, Punto e da capo per l’Architettura, in «Domus», VII, n.83, novembre, 1932. 109 AA.VV., Un programma d’architettura, in «Quadrante», n.1, maggio, 1933, pp.5-6. 107

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guardare all’edilizia spontanea delle coste del Mediterraneo, capaci di «restituire emozionanti rapporti di pieno e di vuoto di certe case rustiche e il senso della precisione essenziale» 110. A distanza di alcuni anni, Figini, era tornato a scrivere sulle analogie tra le abitazioni del nostro litorale e quelle del nord Africa individuando, nell’uso dei volumi puri e geometrici dei fabbricati, evidenti analogie con la pratica compositiva degli architetti moderni 111. Analogie condivise e approfondite da Enrico Peressutti nel saggio Architettura mediterranea del 1935. Il friulano prendeva a modello le abitazioni capresi quali esempi di architettura parlante, progettate secondo geometrie capaci di esalare le proporzioni volumetriche e il gioco delle pareti intonacate. In conclusione, si rivolgeva ai suoi contemporanei accusandoli di aver rinnegato la lezione italiana a favore di quella di Gropius e Mies «senza accorgersi che a quella novità mancava la vita, mancava la parola, mancava il canto del mediterraneo» 112. Sulla scia di quanto detto dal collega, Persico, con il saggio Gli architetti italiani apparso sulla rivista «Italia Letteraria» aveva considerato il movimento razionale oramai alle battute conclusive. Tale riflessione scaturiva dall’osservazione dei lavori presentati alla V Triennale di Milano, ritenuti privi di solide basi e manchevoli di presupposti teorici validi. In generale, il napoletano, riteneva che il movimento non era nato per G.Pollini, Corsivo n.40, in «Quadrante», n.5, settembre, 1933, p.35 L.Figini, Case di Libia. (Aerofotografie), in «Quadrante», n.16-17, agosto-settembre, 1934, p.43. 112 E.Peressutti, Architettura mediterranea, in «Quadrante», n.21, gennaio, 1935, p.40. 110 111

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rispondere a esigenze formali e teoriche ben precise, ma solo per alimentare «aspirazioni confuse, come quelle della contemporaneità e della moralità». In conclusione, aveva individuato nell’incapacità di formulare quesiti teorici rigorosi, la principale causa del fallimento del movimento 113 a cui aggiungere le inutili simpatie per le correnti europeiste. Quest’ultima questione era stata trattata all’interno degli scritti Punto e da capo per l’architettura. Le intenzioni di Persico erano quelle di tentare un bilancio sull’architettura e sulla critica degli anni Trenta. Egli si rivolgeva in particolar modo a Rava, che, secondo lui, «aveva, evidentemente, ceduto alle esigenze politiche della mediterraneità» 114 accusandolo di sfruttare l’architettura per fini politici. Persico, prescindendo dalle profonde incongruenze delle architetture prodotte, s’interrogava su alcuni aspetti che tanto avevano entusiasmato i giovani intellettuali. Tra questi, il retaggio della romanità (dichiarato durante la I° Esposizione italiana di Architettura Razionale) e l’acquisizione dei modelli della tradizione mediterranea. In entrambi i casi, aveva osservato che, la fase dell’elaborazione degli aspetti teorici era stata bypassata a favore della strumentalizzazione politica, ottenendo «mediocri risultati estetici» 115. La lezione europea era stata assimilata con banale superficialità e limitata a semplice condivisione E.Persico, Gli architetti italiani, in «Italia Letteraria», 6 agosto 1933, ora in G.Veronesi, Edoardo Persico. Scritti d’architettura (1927/1935), Vallecchi editore, Firenze, 1968, pp.64-65. 114 E.Persico, Punto e da capo per l’architettura, in «Domus», VII, n.83, novembre, 1934, p.3. 115 Ibidem, p.3. 113

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dei caratteri formali esteriori rendendo gli italiani «degli antistorici inconsapevoli dell’unica realtà necessaria alla loro conquista» 116. Nonostante il forte sentimento di afflizione di Persico, emergevano alcuni significativi argomenti di riflessione. Il tema della mediterraneità aveva portato alla luce la qualità dell’edilizia spontanea dell’Italia meridionale. A tal proposito già con i viaggi del Grand Tour si erano riscoperte le vestigia della classicità nelle architetture dell’entroterra. Le principali ragioni d’interesse verso questo manufatti erano: • la corrispondenza perfetta dei canoni estetici del pittoresco • il valore romantico della cultura popolare • la verità della tecnica costruttiva • l’immunità da tendenze o derive stilistiche Tra i tanti intellettuali che intrapresero il viaggio alla volta dei siti italiani, Schinkel, era stato tra i primi a interessarsi alle configurazioni volumetriche e spaziali delle architetture spontanee 117. Successivamente, sul finire dell’Ottocento, Joseph Maria Olbrich, si era recato a Capri per studiare e riprodurre le straordinarie abitazioni dei pescatori, poi inserite nell’articolo Architektonische von der Insel Capri per la rivista «Der Arcitekt» del 1897. L’articolo Ibidem, p.7. Cfr. K.F.Shinkel, Reise nach Italien. Tagebücher, Briefe, Zeichnungen, Aquarelle, Rutten & Loening, 1979. 116 117

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conteneva, in maniera dettagliata, tutti gli elementi degli edifici mediterranei in cui «l’idea architettonica si esprime armoniosamente nella sua assoluta semplicità, libera da artificiose sovrastrutture e da decorazioni di cattivo gusto»118. Infine, anche Loos, si era fatto ispirare dalle architetture spontanee italiane per la progettazione di Villa Moissi a Lido di Venezia 119. Sulle forti simpatie degli stranieri circa le architetture italiane minori Belli, nel 1933, aveva scritto una serie di pungenti articoli sulla rivista «Quadrante». L’autore avevo posto l’accento sulla paradossale situazione creatasi: gli architetti italiani accusati di esterofilia e teutonismo e i razionalisti tedeschi tacciati di latinismus e mediterraneità. Secondo Belli, gli architetti europei non avevano fatto altro che «sposare il loro sapiente funzionalismo con le belle e chiare forme greche, latine, che il buon senso degli antichi costruttori ha profuso su tutti gli incantevoli litorali del mare nostrum» 120. Da Gropius a Le Cobusier, passando per Mies van der Rohe, (in cui il mito della casa pompeiana tornava a vivere con estrema raffinatezza e inarrivabile equilibrio), tutti impallidirono davanti alle costruzioni della costa campana, impressionanti per pulizia compositiva e prive di ogni speculazione intellettuale. Queste costruzioni, che oscillavano tra essenzialità, economia e utilizzo sapiente dei materiali, avevano legittimato gli architetti italiani ad J.Hoffmann, Architektonisches von der Insel Capri, in Der Architekt, III, 1897, p.13, ora in B.Gravagnuolo, Il mito mediterraneo nell’architettura contemporanea, Electa, Napoli, 1994, pp.57-58. 119 Cfr. F.Portanova, Ragguagli sull’architettura rustica a Capri, in «Domus», VII, n.74, febbraio, 1934, pp.58-60. 120 C.Belli, Nord-Sud, in «Quadrante», n.1, maggio, 1933, p.20. 118

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attingere al patrimonio rustico anziché ricorrere a sterili rielaborazioni straniere 121. Anche nel campo delle arti figurative, specie in quelle futuriste, non mancarono i riferimenti alle architetture minori 122, come riportato nei numerosi tesi dell’architetto Giuseppe Capponi (esponente del filone romano del MIAR). Lo studio che Capponi aveva pubblicato sul primo numero della rivista «Architettura e Arti Decorative» nel 1927, non si concentrava tanto sul valore pittoresco delle architetture quanto sulla maestria della giustapposizione de volumi e nelle armoniche distribuzioni interne; oltre che alla consueta mancanza di decorazioni inutili 123. Per un architetto di formazione razionalista come era l’autore del saggio, le coincidenze tra logica costruttiva ed efficacia della forma non erano semplici coincidenze ma il punto più alto di elaborazioni complesse. Le unità aggregative di Ischia 124 ad esempio, erano la manifestazione del senso costruttivo organico e rigoroso che contraddistingueva il popolo italiano. Pochi anni dopo, nel 1929, Plinio Marconi, a seguito degli studi compiuti sulle architetture minori del meridione aveva scritto che rappresentavano la risposta al «fervido bisogno di rinnovamento ch’è comune all’architettura, a tutte le arti ed in generale alla vita di noi uomini moderni: più R.Pane, Tipi di architettura rustica in Napoli e nei Campi Flegrei, in «Architettura e Arti Decorative», vol.VII, fasc.XII, agosto, 1928, pp.533-536. 122 V.Marchi, Primitivismi Capres, in «Cronache d’attualità», vol.VI, n.6-10, giugno-ottobre, 1922, pp.49-51. 123 G.Capponi, Motivi di architettura ischitana, in «Architettura e Arti Decorative», vol.VI, fasc.XI, luglio, 1927, pp.483-484. 124 «rappresentano appunto il sentimento che dà anima e vita di italianità agli schemi costruttivi». Ibidem, pp.484-492. 121

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vivo ora che nell’immediato passato» 125. Se le aspirazioni di rinnovare l’architettura moderna si erano fondate sul progresso della tecnica e sulla creazione di nuovi tipi edilizi, allora le architetture spontanee del Mediterraneo dovevano costituire i tasselli delle nuove costruzioni 126. Parallelamente al senso plastico espresso grazie alla giustapposizione di volumi puri, il nuovo linguaggio pretendeva rigore e pareti nude come quelle delle officine, unicamente intervallate dai profili regolari degli elementi di finitura in ferro. Da Capri alla costa sorrentina, le abitazioni minori avevano rinnegato le tegole rosse, le finestre fasciate, gli stipiti marcati o gli aggetti superflui, a favore dell’omogeneità dei materiali e del «senso di unità volumetrica complessiva che si estende anche ai dettagli strutturali» 127. La perfetta aderenza tra forma e sostanza permetteva a ogni elemento di denunciare la propria funzione e imporsi come parte di uno spartito codificato. Due fattori determinanti emergevano dalle riflessioni appena riportate: la sincerità della costruzione e il mito 128 delle origini; aspetti che costituivano la genesi dell’architettura italiana a cavallo tra gli anni Venti e Trenta129. Se, durante la prima parte della ricerca dello stile, P.Marconi, Architetture minime mediterranee e architettura moderna, in «Architettura e Arti Decorcative», vol.IX, fasc.I, settembre, 1929, p.27 126 «L’assoluta aderenza tra la forma della fabbrica e la sua sostanza. Manifestare solo organi di bellezza architettonica che abbiano un senso anche dal punto di vista distributivo e statico», Ibidem, p.32. 127 Ibidem, pp.39-40 128 Per Tafuri i razionalisti avevano riposto nei «miti mediterranei, l’antiretorica dell’architettura spontanea e contadina». M.Tafuri, F. Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano, 1976, p.284. 129 Cfr. G.Ciucci, Architettura e urbanistica. Immagine mediterranea e funzione imperiale, in Architettura italiana d’oltremare 1870-1940, AA.VV., Marsilio, Milano, 1993, p.110. 125

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i razionalisti, avevano guardato ai modelli della tradizione classica per ricavare i propri, col passare del tempo erano approdati all’architettura minore ancor più densa di contenuti estetico-ideologici e fortemente comunicativi. Osservando gli elementi che costituivano il carattere dei piccoli centri costieri o di quelli dell’entroterra, ciò che emergeva era l’univocità del linguaggio. L’alto valore comunicativo di queste costruzioni, pur non definito da categorie tipologiche, era in grado di trasmettere grande equilibrio di masse funzioni perché privo di speculazioni teoriche. Erano i muratori 130 del Mediterraneo i veri artigiani del costruire e ciò apriva al tema della ruralità particolarmente trattato dai razionalisti. Uno dei contributi più interessanti era stato presentato in occasione della VI Triennale di Milano del 1936 da Pagano e Guarniero Daniel con la rassegna fotografica dal titolo L’architettura rurale italiana nel bacino del Mediterraneo. L’intuizione dell’architetto istriano di organizzare un padiglione dell’architettura spontanea 131 aveva il duplice intento di porre all’attenzione sulle qualità funzionaliste delle costruzioni rurali e sponsorizzare le politiche agricole che il regime. A prescindere dalla componente politica, le architetture fotografate durante gli spostamenti nell’entroterra agricolo della penisola, raggiungevano vette di assoluto valore estetico grazie all’estrema essenzialità e alla corrispondenza fra soluzione architettonica e «Non per nulla noi chiamiamo il muratore: maestro. In questi paesotti non ci sono architetti, perché tutti i muratori sono architetti». P.M.Bardi, Cronaca di viaggio. 6. Da un’isola all’altra, in «Quadrante», n.5, settembre, 1933, pp.16-19. 131 Cfr. A.Pica, Guida alla VI Triennale, Ceschina editore, Milano, 1936. 130

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G.Pagano, G.Guarino, L’architettura rurale italiana nel bacino del Mediterraneo, allestimento per la IV Triennale di Milano, 1936.

G.Pagano, G.Guarino, L’architettura rurale italiana nel bacino del Mediterraneo, allestimento per la IV Triennale di Milano, 1939. (Archivio fotografico Crimella, Milano)

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destinazione d’uso, ovvero quello che il Movimento Moderno stava tentando di trasmettere attraverso i suoi prodotti. Come osservato da Giovanni Muratori, il tema del rurale costituiva il sedativo ai conflitti interni che stavano conducendo alla deriva il pensiero architettonico italiano. Per lo storico, l’architettura spontanea rappresentava il «cavallo di troia dell’architettura moderna, attraverso il quale, al di là di certa pur evidente autarchicità, venivano contrabbandati ipotesi e principi del più aggiornato dibattito» 132. Lo sguardo critico di Pagano insieme ai numerosi articoli prodotti, successivamente la diffusione del materiale, costituivano un preziosissimo campionario di modelli d’architettura 133, che aveva costituito il pretesto per nuove esposizioni anche dopo il secondo conflitto mondiale134. Era interessante notare come gran parte dell’edilizia spontanea era il risultato di preponderate aggregazioni (come il caso paradigmatico di Matera) o particolari sistemi costruttivi (come i trulli pugliesi o le costruzioni a terrazza) 135. A monte di ogni successivo studio o esposizione, erano da considerarsi i saggi, dello stesso Pagano, pubblicati su «Casabella» 136 alcuni anni prima. La G.Muratori, Avanguardia e populismo nell’architettura rurale italiana fino al 1948, in «Casabella», n.426, giugno, 1977. 133 Cfr. E.Carli, Il ´genere´ architettura rurale e il funzionalismo, in «Casabella», n.107, novembre, 1936. 134 Si fa riferimento alla IX Triennale di Milano del 1951 promossa da E.Cerutti, G.De Carlo e G. Samonà dal titolo Architettura spontanea. Cfr AA.VV., Bilancio della IX Triennale ´Architettura spontanea´, in «Metron», n.43, settembre-dicembre, 1951. 135 G.Samonà, Architettura spontanea: documenti di edilizia fuori dalla storia, in «Urbanistica», n.14, 1954. 136 Cfr. G.Pagano, Case rurali, in «Casabella», VIII, n.86, febbraio, 1935, pp-8-15; Documenti di architettura rurale, in «Casabella», VIII, n.95, novembre, 1935, pp.18-25; Ib., Architettura rurale in Italia, in «Casabella», VIII, n.96, dicembre, 1935, pp.16-23. 132

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libertà compositiva, lo stretto legame con l’intorno agreste, le proprietà etnografiche del luogo, uniti ai principi di necessità, funzionalità ed economia, costituivano le fondamenta del pensiero architettonico moderno, materializzate nelle architetture correnti. Era questa l’architettura utile e al servizio del cittadino, ben costruita e contenuta nei costi 137. Per Pagano e per molti suoi coevi, l’interesse per l’edilizia minore era stata accolto con grande sensibilità dal regime che, nelle opere di bonifica, aveva permesso agli architetti di cimentarsi con il tema dell’abitazione minore (e con essa la casa del fascio per realtà rurali) 138. Tralasciando per un momento le questioni fin qui trattate, il lavoro di Pagano e Daniel assume i connotati enciclopedici, non sono per l’eco propagatosi negli anni 139, ma per la capacità di aver portato alla ribalta un casistica di manufatti dall’altissima valenza costruttiva, tale da imporsi come vademecum di architettura contemporanea. Negli episodi riportati si potevano leggere i segni, eterni e immutabili, che avevano permesso a queste architetture di durare nel tempo 140. L’evoluzione della tecnica e l’uso di materiali differenti avevano trasformato, «di questa architettura deve esser fatta la città: architettura modesta e soda che si adagia senza insolenza attorno ai pochi e indispensabili edifici rappresentativi», G.Pagano, Architettura nazionale, in «Casabella», VIII, n.85, genneio, 1935, pp.2-3 138 Cfr. G.Ciocca, La casa rurale, in «Quadrante», n.22, febbraio, 1935, pp.36-40; M.Silana, (la casa rurale) per il mezzogiorno, in «Quadrante», n.25, maggio, 1935, pp.39-43; C.Ciocca, (Servizi a Mussolini) Progetto di casa rurale, in «Quadrante», n.26, giugno, 1935, pp.6-27. 139 «Fra i pochi prodotti positivi della nostra editoria tra le due guerre». L.Patetta, Libri e riviste d’architettura in Italia tra le due guerre, in Il Razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, S.Danesi, L.Patetta, La Biennale di Venezia, Venezia, 1976, p.48. 140 «Dimostrare nel modo più espressivo la dipendenza assoluta dell’estetica dalla funzionalità logica». G.Pagano, G.Daniel, Architettura rurale italiana, in Quaderni della Triennale, Hoepli, Milano, 1936, pp. 23-25. 137

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ad esempio, la copertura conica in altre tipologie (la cupola, il padiglione, la botte)fino a giungere all’estrema sintesi di utilitarismo spaziale nella copertura piana a terrazzo141. Allo stesso modo, alcuni elementi peculiari di queste costruzioni (torri, loggiati, scale esterne) erano considerati come l’esito di necessità funzionali, trasparenti nel linguaggio, spregiudicate e dotate di alto lirismo artistico «assai prossime, moralmente e quasi formalmente al credo degli architetti contemporanei» 142. Parallelamente agli studi tipologici di Pagano, anche Roberto Pane si era interrogato sul tema dell’abitazione rurale. L’ingente varietà di forme dell’edilizia minore campana, secondo Pane, era ascrivibile a tre macro categorie: • marittima (prevalente nella fascia litorale flegrea) • a corte (prevalente in Terra di Lavoro) • agricola su due livelli (diffusa sul tutto il territorio) Questi macro-gruppi erano accomunati da alcune soluzioni materiche e compositive come, ad esempio, il posizionamento dei sistemi di collegamento verticale (spesso esterni). In generale, Pane, aveva individuato nella tipologia a corte il prototipo dell’abitare Mediterraneo, per la straordinaria capacità di costituire singolarmente l’esempio d’insediamento moderno. Maggiormente frequente nelle «che è la forma di copertura tipica in tutti i paesi del mezzogiorno e rappresenta la massima conquista tecnica nell’edilizia». Ibidem. p. 60. 142 Ibidem. pp.70. 141

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G.Pagano, G.Guarino, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano, 1936, pagina interna.

G.Pagano, G.Guarino, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano, 1936, pagina interna.

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zone ad alta intensità demografica e agricola, era ricca di elementi di grande importanza; dal posizionamento degli ambienti di servizio (ad archi continui su spazi aperti), all’articolazione interna dei due livelli fuori terra (alloggi), per finire con i sistemi di collegamento con le relative coperture 143. In conclusione, in queste abitazioni elementari, erano presenti tutti i principi dell’architettura moderna: dalla composizione stereometrica all’interazione col paesaggio naturale, dall’uso seriale degli elementi (arcate, aggetti, finestre ecc) alla funzionalizzazione estrema degli interni, passando per sofisticati sistemi di collegamento (pensiline, passerelle, ecc), largamente utilizzate per la progettazione delle case del fascio per contesti rurali e non solo.

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Cfr. R.Pane, Campania: la casa e l’albero, Montanino, Napoli, 1961, pp.57-91.

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III.II. Paesaggio e potere: allegoria della città

A questo punto della ricerca il lettore perdonerà la premessa che s’intende anteporre al fruire della questione, utile a fornire un ulteriore strumento di analisi delle vicende che seguiranno. L’analisi delle fonti e la successiva interpretazione, oltre a stimolare interessanti opportunità di riflessione impone dei chiarimenti, quantomeno semantici, per ovviare a banali errori di campo. Se per paesaggio, declinato alla voce architettonico, si è soliti intendere (almeno in epoca contemporanea), la costruzione della scena urbana quale sommatoria di fattori eterogenei, allora è doveroso domandarsi quali siano effettivamente gli elementi che determinano la suddetta scena urbana. Più che sulla ricerca di elementi comuni, essenziali per poter costruire modelli universali, occorre preoccuparsi dell’arte del luogo come stratificazione di qualità: estetiche, funzionali, simboliche e morfologiche proprie del topos oggetto d’esame. Se, da un lato, l’uso di elementi formali codificati (come gli edifici di rappresentanza o di esercizio del potere) costituiscono lo strumento base per la lettura dell’ambiente che si osserva; dell’altro ne restituiscono una prima inconscia alterazione. Per questa ragione il paesaggio, oltre a comporsi di elementi determinati, si arricchisce/ impoverisce di attributi strettamente soggettivi in grado di generare ogni volta scenari differenti e soggetti a molteplici

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interpretazioni 144. Da sempre il paesaggio è parte integrante di un determinato popolo, segno tangibile di sistemi territoriali e influenze politiche che, nel tempo, ne hanno delineato la fisionomia, permettendoci di ricostruire le vicende storiche. In quanto luogo di vita e attività, secondo la Convenzione Europea del Paesaggio, identifica quella porzione di territorio «il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» 145. Politica ed esercizio del potere sono fattori imprescindibili ai fini della comprensione delle trasformazioni territoriali stratificate nei luoghi. Paesaggio e potere si collocano su piani strettamente interconnessi tra loro. L’imposizione autoritaria del consenso si è sempre formata intono a simboli (dai dolmen all’arco di trionfo dai templi alle fonti sacre) che hanno assunto posizioni strategiche ben precise. All’interno del lessico della filosofia politica, il binomio paesaggio-potere raggruppa tutte quelle azioni che tendono a stabilire «l’egemonia di una entità che governa o di un credo ideologico su un determinato territorio a coltivare un senso di orgoglio nei residenti» 146. Tra le prime rappresentazioni del binomio potere-immagine,il ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del Buon e del Cattivo governo, commissionata a Biagio Lorenzetti nel 1338. L’opera rappresenta un Seppur non strettamente attinente all’oggetto della ricerca, ma pur sempre utile ai fini della comprensione metodologica, si segnala la raccolta di saggi e contributi grafici: Note sul paesaggio, a.c. A.Buonaurio, D.Bertugno, E.Zoppi, E.Casini, V.Recchioni; in Divisare. Atlas of Architecture: Selected italian project, 8 ottobre 2017. 145 Convenzione Europea del Paesaggio, Capitolo 1, art. 1, lettera A, Consiglio d’Europa, Firenze, 20 ottobre 2000. 146 M.Jones, M.Woods, An Introduction to politcal geography: space, place and politics, Routledge editore, New York, 2004, pp.117-120; Cfr. S.Zukin, Landscapes of power: from Detroit to Disney World, University of California Press, California, 1993. 144

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autentico manifesto propagandistico su parete, dove ogni elemento della composizione risponde a logiche precise 147. Aspetto centrale della politica dell’immagine nei totalitarismi del Novecento era la campagna, in quanto luogo di sapienza e purezza genuina. L’uomo rurale, dedito al lavoro nei campi, rappresentava la personificazione dell’ideologia fascista, contrapposta all’immagine dell’uomo dell’automazione. Il contesto rurale ricopriva il ruolo di palcoscenico della recita retorica di regime. Nel caso delle politiche urbane si assiste al continuo scontro dialettico tra imperialismo e mito del ruralismo. A partire dal 2 giugno 1922, con legge n.778/1922 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, si adottavano misure di «tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico», prendendo coscienza del ruolo fondamentale del paesaggio. Nello specifico si faceva riferimento a quello naturale, in grado di raccogliere in sé «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari» 148. Definizione che si collocava perfettamente nel contesto storico-politico del periodo. Nel concreto, il paesaggio rurale fascista, era poco irrispettoso delle prescrizioni dettate dalla Legge Croce perché fortemente antropizzato, profondamente ridisegnato e incurante del tessuto naturale storicizzato. Anche per questo aspetto, il simbolismo retorico della mietitura L’ager è ben coltivato e rigoglioso e la città è protetta da mura che le permettono di salvaguardare le attività e il commercio. Per la lettura critica dell’opera del pittore senese cfr. G.De Nicola, Il soggiorno fiorentino di Ambrogio Lorenzetti, in «Bollettino d’arte», vol.16, 1922-23, pp.49-58. 148 Nota come Legge Benedetto Croce (n.778/1922) dal nome del suo promotore, venne pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n.148 del 24 giugno 1922. 147

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del grano era anteposto ai reali problemi dei luoghi 149. Ulteriore evoluzione in materia di tutela del patrimonio cultura, era avvenuta con la legge n.823 del 22 maggio 1939 promossa dal Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai. Aspetto significativo, contenuto nel testo legislativo, riguardava la dimensione organizzativo degli organi di tutela rappresentati dalle sovrintendenze 150. Queste erano dirette da archeologi, architetti e storici dell’arte, con la funzione di penetrare ancor di più nel territorio. Il corpus legislativo della riforma Bottai prendeva in considerazione tre aspetti fondamentali: con la legge n.1089 (giugno 1939) si trattava la materia della «tutela delle cose di interesse storico, artistico, archeologico»; con la n.1497, si legiferava in materia di protezione delle bellezze naturali e, infine con n.2006 si riformava l’ordinamento degli Archivi del Regno fino a quel momento sotto la competenza del Ministero degli interni.In generale, le intenzioni di Bottai erano incentrate, sulla tutela e alla promozione del patrimonio culturale, storico, artistico e ambientale, quali manifestazioni dell’identità e dell’unità del popolo italiano. Altro aspetto rilevante era costituito dall’articolazione organica della disciplina, focalizzata sulla salvaguardia del paesaggio inteso «come bello appartenente alla natura». Infine è bene ricordare che il decreto 1089/1939 (Tutela delle cose d’interesse artistico o storico), faceva rientrare Cfr. D.Toschi, Il paesaggio rurale: cinema e cultura contadina nell’Italia fascista, Vita & Pensiero editore, Milano, 2009. 150 Istituite con la Legge n.364 del 20 giugno 1909, è conosciuta come Legge Rosadi. Costituisce il primo testo legislativo in materia di beni culturali nell’Italia post unitaria. 149

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il bene, a prescindere dalla sua natura pubblica o privata, nelle categorie meritevoli di tutela, sempre in relazione al suo valore di testimonianza d’identità nazionale. Oltre alle prescrizioni di natura giuridica erano analizzati concetti più ampi come vincolo (per i beni riconosciuti d’interesse pubblico), di conservazione, (per garantire la sicurezza), di pubblica godibilità (per permettere al cittadino di accedere al bene) e di tutela delle opere d’arte contemporanea. Era evidente che la complessa macchina programmatica fascista non si limitava alla tutela «delle cose d’interesse artistico o storico» o alle bellezze di natura paesistica, ma si estendeva in maniera fluida in tutte le attività così dette culturali (teatro, cinema, lirica, spettacoli) sempre sottoposte a ferreo controllo e purgativa censura 151. Inoltre, a partire dal 1942, era stato emanato il Codice Civile, all’interno del quale si distinguono alcun articoli riguardanti la tutela e la salvaguardia del patrimonio. Tra questi l’822 e l’824 che annettevano al demanio il patrimonio indisponibile dello Stato, oltre agli immobili riconosciuti d’interesse storico, artistico e architettonico. Rappresentava l’ennesimo strumento di sponsorizzazione del governo che, nelle opere di urbanizzazione, aveva trovato massima esaltazione152. La massiccia opera di edificazione governativa si componeva di strutture a servizio della popolazione (scuole, ambulatori, uffici postali, impianti sportivi) e inedite costruzioni dalla Cfr. R.D.L. n.1547/1938 ora in Legge n.423/1939 e D.C.G. n.1813/1939 «Se l’architettura ha da essere arte sociale questa deve essere la strada che darà al popolo un’aggiornata coscienza architettonica». Cfr. G.Pagano, Tre anni di architettura in Italia, in «Casabella», n.110, 1934, p.25. 151 152

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dalla configurazione ibrida come la Casa del fascio, la Casa dell’Opera Nazionale Balilla o le colonie elioterapiche e marine 153. Il denso apparato edilizio aveva drasticamente rivoluzionato la fisionomia delle città e dei nuovi insediamenti per renderli parte della nuova moderna nazione. Il 1928 154 aveva segnato l’anno cruciale nell’opera di riorganizzazione del territorio nazionale. Il processo di modernizzazione si articolava in tre tappe programmatiche fondamentali: • urbanesimo • riassetto amministrativo • potenziamento politico 155 Era lasciato all’edilizia il compito di volano per l’intera economia stabilendo la città come perno sul quale doveva ruotare la spirale dello sviluppo nazionale. Questo aspetto apriva al dibattito sul ruolo dell’urbanistica e dell’architettourbanista per la progettazione della stessa. Nonostante la massiccia organizzazione, l’ambizioso programma aveva trovato alcune difficoltà, specie nella fase di mediazione tra intenzioni progettuali e reali esigenze locali, limitando lo Cfr. M.L.Neri, L’Architettura come arte sociale, in L’architettura nelle città italiane del XX secolo, a.c. di Vittorio Franchetti Pardo, Jaca book, Milano, 2003, pp.346-348. 154 Si era aperto con il Discorso ai deputati. B. Mussolini, Gli auguri ai Deputati in Opera Omnia di Benito Mussolini, a.c. E.Sulsmec, vol.XXII, La Fenice, Firenze,1957, p.87. 155 Le indicazioni di programma vennero illustrate dallo stesso Mussolini nell’articolo Sfollare le Città, apparso sulle colonne del quotidiano Popolo d’Italia in data 22 novembre 1928. L’intero testo è ora contenuto in Opera omnia di Benito Mussolini, vol. XII, pp.256-258. 153

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strumento del piano regolatore a semplice decalogo di prescrizioni 156. Gran parte del riassetto urbano e della razionalizzazione delle rendite fondiarie, era incentrato sui rapporti tra costruito nuovo e preesistenza monumentale storicizzata, per non snaturare l’idea di città compatta e monocentrica tipica dell’entroterra italiana. Simultaneamente si costruiva la nuova città fascista, come sublimazione di modernità e tradizionalismo , incentrata sui presupposti dell’insediamento utopico di matrice futurista157. Tra i più lucidi interpreti di questa corrente di pensiero: Marcello Piacentini 158 manifestate nel Piano di Bergamo del 1908. Quest’ultimo, costituisce l’occasione perfetta per mescolare tradizionalismo e tecniche moderne. Infatti, da un lato si era deciso di preservare il nucleo medievale della città alta e, dall’altro, grazie a interventi monumentali e puntuali (la grandiosa macchina urbana della Piazza della Vittoria) riconnettere additivamente le due zone. Altro intervento interessante, quello di Gustavo Giovannoni a Napoli, condotto secondo la tecnica del diradamento 159 con il beneplacito delle amministrazioni locali, non altro che l’ennesimo prolungamento della longa manus del Ministero dei Lavori pubblici. La formazione neoumanistica gli permetteva di concepire la figura dell’architetto come quella Era, quasi sempre, utilizzato per definire le opere di urbanizzazione primaria e l’impianto generale. Mancava di indicazioni su indici, destinazioni d’uso e specifiche tecniche. Cfr. A.Rossari, Frammenti e sequenze, in L’architettura nelle città italiane del XX secolo, a.c. Vittorio Franchetti Pardo, Jaca book, Milano, 2003, p.19. 157 Cfr. M.Cioli, Il Fascismo e la sua arte. Dottrina e istituzioni fra Fascismo e Novecento, Olscki, Firenze, 2011, p.30. 158 Cfr. M.Lupano, Marcello Piacentini, Laterza, Roma-Bari, 1991. 159 Sicuramente favorito dall’accondiscendente Alto Commissariato la città e la provincia di Napoli. 156

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architetto integrale, allo stesso tempo artista, tecnico e persona colta in grado di operare con perizia in ogni aspetto della progettazione urbana 160. La teoria del diradamento, in contrasto con quella degli sventramenti, ottocenteschi, doveva essere preferita perché rispettosa della memoria e dei valori storico-ambientali del luogo 161. Giovannoni, era stato affiancato da altre due figure carismatiche: Gino Chierci, (direttore della Soprintendenza ai monumenti) e Roberto Pane 162 (neolaureato della Scuola Superiore di Architettura di Roma). Quest’ultimo aveva contribuito attivamente alla risoluzione di alcuni nodi urbani spinosi elaborando numerose tavole di progetto. In estrema sintesi, alla monotonia dei tracciati geometrici privi di qualsiasi attinenza con il luogo, la Commissione Giovannoni contrapponeva il deciso richiamo all’arte urbana più rispettosa delle presenze, in linea con quanto si stava dibattendo nei convegni nazionali e internazionali 163. Nel trattare gli episodi nei quali queste teorie erano state applicate concretamente, non è possibile Definita come una «vasta e complessa opera d’arte». G.Giovannoni, Gli achitetti e gli studi di architettura in Italia, Istituti Studi Romani, Roma, 1916, p.12. Le riflessioni riportate forniranno i presupposti teorici per la fondazione della Scuola Superiore di Architettura di Roma (1916) definita un fascismo in anticipo da Giovannoni. Cfr. B.Gravagnuolo, Gli ossimori dell’architettura fascista, in Architettura e città negli anni del fascismo in Italia e nelle colonie, a.c. B.Gravagnuolo, C.Cresti, Pontecorboli editore, 2004. 161 Cfr. G.Giovannoni, Il ‘diradamento’ edilizio dei vecchi centri, Nuova Antologia, vol.XLVIII, giugno, 1913. 162 Sulla figura emblematica e sul poliedrico contributo nel campo della storia e del restauro si vedano: R.Mormone, Roberto Pane. Teoria e storia dell’architettura, Napoli, 1982; sull’attività di ricerca nel campo del restauro Cfr. AA.VV., Ricordo di Roberto Pane, Napoli Nobilissima, Napoli, 1991. 163 In ambito campano Il Convegno del Paesaggio tenutosi a Capri e promosso dal sindaco Edwin Cerio vide la partecipazione di numerose personalità, tra cui F.T.Marinetti e costituì l’occasione per testare la valenza delle teorie urbanistiche con il Piano paesistico di Capri (1937). Cfr. E.Cerio, Il Convegno sul Paesaggio, Napoli, 1923 160

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trascurare il caso romano, sia solo per il ruolo di quartier generale dell’impero. Il disegno del piano era stato affidato a: Piacentini, Giovannoni, Brasini e Alberto Calza Bini. I progettisti operarono secondo tre modalità d’intervento: lo sventramento, come radicale modificazione del centro storico; l’espansione della città grazie all’edilizia residenziale (con le palazzine condominiali) e la predisposizione delle borgate nella fascia extraurbana 164. Quest’ultima pratica, figlia del roboante ruralesimo, prevedeva l’estromissione dei ceti meno abbienti dal centro cittadino. Si trattava di un aspetto significativo delle politiche urbane fasciste in quanto era riservato il diritto di residenza ad una cerchia di pochi eletti. In questo modo s’innescava il meccanismo di protezione del centro città dalla logica del mercato della rendita fondiaria, trasformandolo in enorme quinta scenografica per le manifestazioni di grandiosità imperiale165. In adiacenza all’attività nei grandi centri, era portata avanti l’edificazione dei borghi rurali. Prima di analizzare la vicenda dell’urbanizzazione dei centri rurali (in parte già trattata con le architetture minori) è bene chiarire quali erano i principi su cui si basava questo tipo di progettazione. Dal punto di vista teorico i testi di Cesare Chiodi Alberto Calza Bini, direttore Istituto Case Popolari (IC) aveva scritto nel’28, «si deve cercare di condurre alla periferia e oltre coloro che non hanno necessità di stare in città e riattivare così verso la terra e l’amore della terra quelli che purtroppo se ne sono allontanati» cfr. AA.VV. Cinquant’anni di vita dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Roma. 1903-1953, Roma, 1953; Cfr. F.Ferrarotti, Roma da capitale a periferia, Bari, 1970. 165 Emblema del compimento «fatale della storia millenaria italiana» era il Palazzo della Civiltà Italiana progettato da E.Lapadula. Quasi un tentativo metafisico di riportare, marmo su marmo, le forme archetipe dell’estetica fascista. Cfr. P.Ostilio Rossi, I.Gatti, Roma. Guida all’architettura moderna, 1909-1991, Laterza, Roma-Bari, 1991. 164

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(La città moderna, 1935) sui sistemi di decentramento urbano per nuclei satelliti e quelli di Patrizi (Il villaggio fascista, 1938) per impianti insediativi concentrici e panottici; risentivano dell’influenza di alcune teorie contenute nei saggi di Spengler 166 abbastanza distanti dai concetti di garden-suburb teorizzati dai movimenti internazionali coevi, difficilmente rintracciabili nei centri di nuova costruzione o a carattere agricolo del Ventennio167. Uno degli esempi più significativi e coerenti, per quanto detto sulle politiche di fondazione, era l’esperienza pontina. Nata dalla vasta aera di bonifica iniziata alla fine degli anni Trenta, doveva accogliere i servizi gestiti dai burocrati dell’ONC. Dal punto di vista organizzativo, gli insediamenti abitativi seguivano una precisa gerarchia preordinata: la prima fascia (di circa 15 ettari), accoglieva i lotti residenziali composti per la maggior parte da residenze unifamiliari disposte lungo le arterie interpoderali; di seguito i borghi (100 unità) posizionati a ridosso dei quadrivi, aventi la funzione di piccoli nuclei produttivi; terzo livello era riservato alle città nuove distribuite nei punti di convergenza dei principali assi viari e dal carattere marcatamente rappresentativo 168.

O.Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, a.c. J.Evola in «Collana La buona società», n.16, Loganesi, Milano, 1970, p.1561. 167 Sicuramente non ascrivibili alla chiassosa e sregolata vicenda delle borgate romane prive di ogni servizio primario e di spazi verdi. 168 B.Gravagnuolo, Gli ossimori dell’architettura fascista, in Architettura e città negli anni del fascismo in Italia e nelle colonie, a.c. B.Gravagnuolo, C.Cresti, Pontecorboli editore, Firenze, 2004, p.41. 166

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Probabilmente la definizione di città 169 potrebbe apparire fuorviante in quanto si trattava di centri demograficamente limitati a 3-5000 abitanti e caratterizzanti dalla tipica conformazione del paese o cittadella rurale, familiare nell’immagine del paesaggio italiano. Tuttavia, la denominazione, mimava a ricreare le suggestioni della città, attingendo dal lessico urbano convenzionale (piazza porticata, Palazzo comunale, Casa del fascio, Torre littoria, Mercato coperto) usato dai progettisti per comporre la preordinata scacchiera urbana 170. Questa tipologia d’insediamento, seppur rigorosamente codificata e intransigente alla variazione compositiva, celava episodici momenti di alterazione tematica. Tra queste Littoria (1932). Prima delle cinque città pontine, costituiva il lucido esempio di modificazione dell’impianto compositivo, fino ad allora concentrato sullo stereotipo della strada-corridoio, favorendo la progettazione aperta d’ispirazione europea. Il risultato ottenuto era il perfetto mix tra i paradigmi razionalisti e i valori tradizionali, esplicabili in tre zone distinte: il nucleo principale articolato intorno a tre piazze (commerciali, religiose e civili) in cui si relazionavano gli edifici di rappresentanza; l’area rurale con abitazioni in linea dotate di orti; e fasce residenziali composte da villini. Nel 1934 Luigi Piccinato, in occasione della presentazione del «Piano di Sabaudia» aveva definito le città di fondazione non-città in quanto centri di servizio del territorio agricolo bonificato e inizio di una nuova concezione della vita urbana antitetica a quella dell’urbanistica borghese. Cfr. L.Piccinato, Il significato urbanistico di Sabaudia, in Urbanistica, n.1, gennaio-febbraio, 1934, pp.87-89 170 Tale pratica non era immune da pericolose imitazioni di finto tradizionalismo. Cfr. E.Fuselli, Urbanistica di Mussolini: il piano regolatore nazionale, in «Quadrante», n.7, 1933. 169

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Ultima tipologia d’insediamento che orbitava nell’iperuranio delle politiche urbanistiche di regime, erano le città autarchiche destinate ad accogliere i flussi migratori provenienti dai grandi centri. Erano divise in tre categorie in base alla tipologia di attività che si svolgeva: la città del carbone, dell’aria e della cellulosa, con chiari riferimenti alla dialettica fascista. Le vicende di queste città erano strettamente legate ai rapporti economici intrattenuti tra Stato e grandi capitalisti 171. Il ruolo dell’architettura, nelle idee dello stato totalitario, doveva essere quella di «modificare a poco a poco il carattere delle generazioni»172 nella speranza di realizzare (grazie all’arte massima) il progetto antropologico dell’uomo nuovo. Questi doveva essere ispirato da due soli ideali (pilastri dell’agire politico): costruire e combattere 173. Due principi di cui Mussolini si era appropriato per ergersi a architetto tra gli architetti pur non possedendone le competenze scientifiche 174. Nonostante l’aura di costruttore di città di cui si era dotato, non doveva trasparire alcuna presenza di individualità, per cui, le opere dovevano risultare come il prodotto dell’azione collettiva non identificabili in un solo soggetto 175. Il dittatore, del Una tra tutte l’Azienda Carboni Italiani (A.Ca.I) costituita il 28 luglio 1935 con R.D.L. n.1406 con il compito di gestire le attività carbonifere sul territorio nazionale. Venne sciolta il 28 febbraio 1957. 172 Definizione di «Architettura» contenuta nel PNF - Dizionario di politica, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, vol.I, 1940, p.159 173 Renato Ricci, allora presidente dell’ONB, il 22 giugno 1936 in un promemoria a Mussolini, aveva scritto «La guerra e l’arte sono le sole cose capaci di fare per secoli grande e potente un paese» op.cit. N.Zapponi, Il patito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del Fascismo. 1926-1943, in Storia contemporanea, luglio-ottobre, 1982, p.604. 174 Sullo stretto rapporto tra Mussolini e l’architettura Cfr. P.Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, 2008, pp.129-162. 175 Ibidem p.161. 171

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tutto estraneo al dibattito sull’architettura e indolente nelle scelte di stile, era solito affidarsi a giudizi sommari e vaghi, in grado di assicurargli una certa libertà di movimento tra le fila dei dibattenti. Ciononostante molto spesso concordava con le proposte di Piacentini, che aveva sempre sfruttato queste simpatie per realizzare la propria idea di architettura. Accademico d’Italia dotato di grande spirito eclettico, era riuscito a imporsi come giudice durante la fase di grande fermento culturale portato dai giovani razionalisti, desiderosi di proporre la lezione europea. Lo stesso Piacentini aveva rivestito un ruolo decisivo al processo di trasformazione dell’architetto integrale figura considerata come «il vero camaleonte, capace di indossare i panni della tradizione ed apparire moderno, e viceversa, di indossare i panni moderni per interpretare la tradizione» 176. Per poter controllare le tendenze delle giovani avanguardie e allo stesso tempo non scontentarle, era sovente utilizzato il sistema del concorso, in grado di spingere i progettisti a lavori sempre più sofisticati. L’espediente concorsuale permetteva al regime di controllare gli architetti attraverso l’adesione al Sindacato Fascisti Architetti (SFA) e orientarne le scelte progettuali. A partire dal 1937 (anno della proclamazione dell’impero), l’architettura non doveva più preoccuparsi di costruire del nuovo volto della Roma imperiale, ma doveva inverarne il mito grazie allo stile nazione (riconoscibile, innovativo, simbolico). Questo avvenimento segnava la fine del periodo delle prolifiche sperimentazioni di linguaggio, per imporre 176

P.Togliatti, Lezioni sul Fascismo (1935), Editori riuniti, Roma, 1974, p.14.

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definitivamente il classicismo autoreferenziale 177. Secondo Ugo Ojetti, chiamato a riscrivere il corpus ideologico del nuovo stato, lo stile fascista era «nato per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa» 178. Così come era accaduto alla vicende politiche, inesorabilmente regredite allo stato embrionale, analogo destino era accaduto all’architettura e alla pianificazione urbana, direttamente legata agli equilibri di partito. Nel corso di tutto il Ventennio, l’architettura e l’urbanistica, continuamente divise tra lirismo nazionalistico e sincero spirito pragmatico, erano state oggetto di convulse e travagliate vicissitudini legate alla natura ibrida dell’ideologia fascista. In definitiva, la mancanza di una linea programmatica chiara e coerente, abdicata in favore di manifestazioni di opportunismo e rigore, di ortodossia e compromessi, impedirono la realizzazione dell’onesta e meticolosa urbanistica razionalista. Stesso destino era toccato agli interpreti, prima sedotti dall’apparente libertà di movimento e di linguaggio che la cultura rivoluzionaria aveva portato, poi imbrigliati negli schematismi ideologici. Questi i presupposti sui quali orbitava la progettazione degli edifici, specie per le case del fascio di seguito analizzate, continuamente chiamate a ricoprire il ruolo di epicentro delle città, nuove e consolidate. Nel dicembre 1925, con circolare ufficiale, s’imponeva il fascio littorio a tutti gli edifici ministeriali e, nel dicembre dell’anno successivo, con D.R., si assumeva il fascio littorio come emblema dello Stato. Molti furono i tentativi di introdurre un quinto ordine (ordine littorio) tra quelli conosciuti. 178 U.Ojetti, L’architettura (commenti), in «Dedalo», n.6, 1925/26, p.412 177

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IV. Evoluzione degli spazi associativi

Definire la genesi che ha determinato la nascita delle case del fascio non può prescindere dalla ricostruzione delle vicende a monte della questione, antecedenti al fascismo stesso. Per comprenderne il nesso tra esigenze funzionali e produzione formale è necessario far riferimento a quanto già largamente presente in Europa, (e in parte in Italia), dai movimenti socialisti e comunisti attraverso le case del popolo. Centri ramificati e diversificati di accrescimento e consolidamento delle dottrine sociali e comunitarie dai quali il movimento fascista aveva attinto a piene mani per la costruzione del proprio corpus ideologico, organizzativo e culturale. A partire dalla fine dell’Ottocento, i movimenti operai, specialmente di Belgio e Paesi Bassi, avevano dovuto affrontare il problema del reperimento di una sede confacente alle attività collettive che non potevano più essere svolte all’interno delle sale da caffè o di ambienti simili presi in affitto. Si era deciso di optando per l’acquisto di stabili da adibire esclusivamente a sedi del movimento. Molto spesso erano scelti edifici caduti in disuso o necessitanti di grossi rimaneggiamenti. Una delle prime espressioni di questo tipo era il caso della «Amsterdamse Werkmansbond» (Lega degli Operai di Amsterdam) che raggruppava alcune delle associazioni di lavoratori più diffuse sul territorio. Nel 1868, a seguito dell’acquisizione di due magazzini nella zona dei Supistraat, la Lega aveva deciso di bandire un concorso 91


pubblico per la realizzazione della propria sede, che doveva permettere una serie di attività (conferenze, concerti, esposizioni). L’edificio, come si poteva leggere nel bando di progetto, doveva essere «un istituto che, convenientemente utilizzato, non servirà a strappare il laborioso padre di famiglia dal suo focolare, servirà invece per offrire a lui e ai suoi cari, un utile ristoro, un nutrimento al cuore e alla mente, un incentivo alla felicità, in stretto contatto con il nido domestico» . Venne scelto il progetto dell’architetto J.A. Rooseboom, che però non vide mai compimento pur avendo rispettato tutte le prescrizioni indicate dal bando e dimostrando una certa abilità nella distribuzione degli spazi e delle funzioni nonostante le difficoltà del tipico lotto urbano olandese 180. Analogo episodio ma di tutt’altra dimensione e importanza, riguardava il concorso indetto dalla Maatschappij voor de Werkende Stand nel 1880. Per l’occasione era stato premiato il duo L. Beirer e J.J. Bekker. Realizzato in soli tre anni in stile neorinascimentale olandese, comprendeva locali ad uso sociale, uffici e sale riunione oltre ad una intera ala dedicata all’insegnamento del disegno, della scultura e all’esposizione dei prodotti d’arte. Infine, nonostante la sciagurata distruzione, la casa del popolo di Bruxelles, progettata da Victor Horta, poteva 179

«Bouwkundige Bijdragen» (contributi architettonici) n.XX, 1873, p.143; Cfr. A.De Groot, Le case del popolo come tempio della fede sociale, in AA.VV. a.c. M.De Michelis, Case del popolo. Un’architettura monumentale nel moderno, Marsilio, Venezia, 1986, p.58. 180 L’ edificio s’inseriva in un doppio lotto 12x25. Al pian terreno era previsto il caffè per le riunioni e l’alloggio per il portinaio. Al piano superiore si trovava una grande sala con galleria su colonne di ferro. Nella zona superiore, erano predisposti gli ambienti per gli uffici e le esposizioni. 179

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poteva essere considerata come il miglior connubio tra qualità formali e programma di attività. L’edificio ospitava la sezione artistica del Partito operaio del Belgio capitanata da Henry van de Velde (direttore dal 1902 della Scuola di Arti applicate di Weimar), nel quale si susseguirono manifestazioni artistiche, letterarie e musicali destinate alla classe dei lavoratori 181. Ciò significava portare avanti un programma di arte sociale in grado di dialogare con le correnti decorative applicate (ceramica, ebanisteria, vetreria, stamperia) per poter mettere a disposizione di tutti prodotti esteticamente gradevoli e funzionali. Interessante notare l’importanza dell’arte del libro che aveva egual posizione tra i prodotti d’arte decorativa e ciò ne sottolineava l’ampiezza onnicomprensiva di una ricerca da considerarsi a tutti gli effetti d’avanguardia 182. Altra categoria sicuramente interessante sotto l’aspetto compositivo, oltre che strettamente culturale, era rappresentata dai caffè del popolo 183 realizzati su iniziativa dei movimenti operai protestanti. Primissimo esempio progettato ad Amsterdam nell’agosto del 1879, con il compito di fornire all’operaio uno spazio dove poter consumare un pasto o una bevanda calda e sbrigare le proprie faccende. Tra gli esempi meglio Cfr. C.Aziomonti, La maison di peuple de Bruxelles, Tipografia Paolo Pellegatta, Busto Arsizio, 1920. 182 Cfr. Les XX and the Belgian Avant-Garde: prints, drawing and book ca. 1890, a.c. S.H.Goddard, University of Kansas, Spencer Museum of Art, 1992. 183 Realizzato dal movimento operai protestante «Patrimonium» doveva rappresentare «un rifugio, un ricovero, un pied-à-terre per l’operaio, dove egli possa consumare la prima colazione, incontrare gli amici, sbrigare le faccende e ripararsi dalle intemperie. Tutte cose che in precedenza poteva fare soltanto nelle bettole». Cfr. R.Hagoort, Patrimonium (Vaderlijk Erfdeel). Gedenkboek bij het gouden jubileum, Amsterdam, 1927, p.214. 181

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riusciti, l’edificio progettato dall’architetto T. Sanders che doveva ospitare la sede della Società dei Caffe del popolo (Maatschappij voor Volksoffiehuizen) realizzato nel 1880. Oltre a contenere gli uffici societari e la sala da caffè con annesso ambiente per la lettura, comprendeva anche, sale per l’insegnamento del catechismo, una mensa sociale e alcune camere per i lavoratori non sposati. Infine è annoverare, all’interno della casistica tipologica dei caffè, il primo contributo progettuale di Berlage 184 impegnato, insieme a T. Sanders, nella la realizzazione della seconda sede della stessa Società (1884). Pur mossi da nobili intenzioni e dotati di numerose e pregevoli attributi stilistici e formali, questa tipologia di costruzione aveva ottenuto scarso successo tra i lavoratori che continuarono a preferire le bettole, considerando questi luoghi troppo lussuosi e con arredi troppo ricercati. Questi, invece, erano frequentati dal ceto medio borghese, da medici di bordo e capitani marittimi, insegnati o pastori protestanti che ne apprezzavano l’impronta seria e compita degli ambienti. A seguito della progressiva ascesa del movimento socialista l’esigenza di spazi esclusivamente progettati per permettere ai propri sostenitori di incontrarsi, di scambiare opinioni o poter organizzare manifestazioni ludico-ricreative, era diventata di centrale importanza. Tale avvenimento aveva segnato il punto di svolta per il coinvolgimento dell’architettura e del ruolo dell’architetto stesso. Dunque non erano più sufficienti Cfr. P.Singelenberg, H.P. Berlage, idea and style, the quest for modern architecture, Utrecht, 1972, pp.47-48. 184

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i caffè o le case del popolo ragion per cui, nel 1893 l’associazione Architettura et Amicitia aveva bandito il concorso per la realizzazione del «Palazzo del popolo». Come si poteva leggere all’interno del bando di concorso, doveva assolvere alla funzione di: luogo per «congressi, assemblee e riunioni di associazioni dei lavoratori» 185. Erano predisposti altri spazi come una grande sala di circa 300 posti, sale per la lettura e una spaziosa sala per il caffè. Delle tre proposte pervenute alla commissione giudicatrice il primo, pur rispettando tutti i punti sopracitati era nettamene inferiore alle aspettative; il secondo, presentato dall’architetto W.C.Bauer 186, venne immediatamente scartato perché sprovvisto di alcuni elaborati grafici; il terzo invece, presentato da J.Stuyt, era risultato idoneo alla realizzazione. Di tutt’altra tipologia, invece, la vicenda dei concorsi dei «Mechanics Institute» britannici più orientati alla formazione professionale dei propri frequentatori che alla politicizzazione. Infine, è interessante notare il parallelismo che intercorre tra la visione della città in Berlage e quella fascista. Secondo l’architetto olandese la realizzazione del «Palazzo del popolo», da elevare a emblema della società armoniosa, costituiva la migliore rappresentazione dell’architettura e dunque edificio di punta all’interno del Cfr. Architectura, vol.I, 1893, pp.77-78. Noto per lo stile esotico e fantasioso; nel 1891 durante un congresso di «Architectura et Amicitia» aveva dichiarato, riferendosi all’arte: «non è più dominata da una civiltà amante dello sfarzo e raffinata all’eccesso, non va più curva sotto il peso della potenza di una fede fanatica, non è più ispirata da un puro culto religioso […] L’uomo non più come parte di un grande ingranaggio, ma come totalità, come organismo autosufficiente, libero da condizionamenti innaturali». Cfr. W.C.Bauer, De Opmerker, vol.XXVII,1892, p.81. 185 186

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tessuto urbano. Concezione che aveva già trovato applicazione nei progetti del Monument historique (1889) e del Pantheon der Mensheid (1915), raggiunse la massima espressione all’interno dei piani per l’Aia e Amsterdam. Qui, gli edifici di maggior rilievo, era collocati in punti chiave per esaltarne il valore sociale e interconnessi tra loro grazie a piazze del popolo. Analogamente, pur differendo nelle premesse ideologiche e compositive, la città fascista era articolata secondo specifiche caratteristiche distributive e funzionali proprie di alcune tipologie edilizie (Municipio, Casa del fascio, Torre littoria, ecc.) legate da sistemi d’interazione (spazi pubblici) o semi aggregativi (portici). In conclusione, l’esperienza neederlandese e belga delle case e dei caffè del popolo, rappresenta un formidabile metro di paragone per la vicenda italiana, specie se confrontata con l’assoluta novità tipologica delle case del fascio. Per quanto concerne la situazione in terra nostrana, l’anno zero da tenere in considerazione nella cronistoria dei movimenti socialisti e del conseguente sviluppo delle case del popolo (poi surrogate in case del fascio a seguito della marcia su Roma) è ascrivibile a due avvenimenti decisivi: il II° Congresso di Genoa 187 (1892) in cui oltre duecento associazioni dei lavoratori convolarono in un solo partito dei lavoratori 188; e la repressione (Governo Crispi 1894) di Fondamentale, ancor prima di quello di Genova, il Congresso di Milano del 1891 in cui il leader socialista Filippo Turati aveva sottolineato l’esigenza di formare un movimento operaio dei lavoratori indipendente dal partito. Cfr. G.Procacci, Le lotte di classe in Italia all’inizio del secolo XX, Roma, 1972. 188 Cfr. G.Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi Congressi - dalle origini alla formazione del Patito Socialista (1853-1892), Roma, 1963. 187

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gran parte delle sigle proletarie che costituivano il partito autonomo dei lavoratori 189. La formula dell’associazionismo costituiva uno dei fattori determinanti allo sviluppo delle politiche sociali italiane, nella dimensione in cui queste si ponevano come centri d’intermediazione tra le diverse parti e come avamposti di cultura ed educazione. Inoltre offrivano il pretesto necessario per il dibattimento di tematiche fondamentali come i salari, le problematiche economiche e le condizioni lavorative. Così come era accaduto in gran parte d’Europa, anche in Italia il problema della sede si era rivelato centrale non solo in ambito politico ma anche nel campo dell’architettura. Analogamente a quanto visto in Olanda e Belgio (tralasciando l’episodio delle mescite socialdemocratiche tedesche) i primi luoghi in cui erano registrati incontri e attività di discussione erano state le osterie 190, perché ambienti frequentati dalla stragrande maggioranza del proletariato. Questi luoghi, dove il coniugarsi di cibo, riparo e discussioni politiche trovava perfetto equilibrio, rappresentarono il presupposto fondamentale per la realizzazione delle prime case del fascio durante il Ventennio. Non a caso, uno dei primi episodi si era registrato a Bologna, esattamente dove si era costituito il fascio dei lavoratori all’interno dell’albergo delle Tre Zucchette 191 (1871). Ciò che più interessa ai fini della È bene ricordare che all’interno del movimento, estremamente eterogeneo, trovavano spazio: repubblicani, anarchici, radicali, cattolici e alcuni padroni illuminati. 190 Sulle osterie e sul ruolo ricoperto, specie in centro Italia cfr. F.Montevecchi, Per l’evoluzione delle osterie imolesi dal 1700 al 1915, in Sabato sera, dal 16 novembre 1966 al 15 luglio 1967. 191 Cfr. AA.VV. Arbizzani, Bologna, Testoni, Triani, Storie di case del popolo, Grafis editore, Bologna, 1982. 189

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ricerca era la stretta attinenza, sia dell’apparato ideologicocorporativo, sia dell’universo iconografico del quale questi luoghi erano dotati. L’esigenza di possedere una sede che potesse rappresentare fisicamente il desiderio di distacco dal mondo borghese verso la prefigurazione del mondo nuovo, necessitava di spazi adeguati e riconoscibili intrisi di simboli inequivocabili 192. Fondamentali poi, lungo il percorso di consolidamento del binomio architettura-consenso, due avvenimenti: l’estensione del diritto di voto ai maschi di età superiore ai 21 anni (durante la XV Legislatura del 1882), e il suffragio universale (durante la XXIV Legislatura del 1912). Due momenti che si erano rivelati alleati preziosi al processo di costruzione delle case del popolo e del conseguente ruolo di antagoniste nel confronto dialettico, aprendo a nuove forme di monumentalità democratica. Costituiscono prova tangibile del nuovo atteggiamento, i progetti della sede di via Capo d’Africa a Roma o la casa del popolo di La Spezia disegnata da Bacigalupi. Quest’ultima si era contraddistinta per: il lessico neoclassico (rispettoso delle tessuto edilizio preesistente), l’articolazione generale (due livelli ben disposti) e l’impaginato dei prospetti (doppia loggia sporgente sorretta da un doppio ordine di pilastri dimezzati, binati e più sottili al piano superiore). Gli elementi decorativi culminavano, in copertura, in una balaustra che inquadrava la scritta «Casa del Popolo», alla quale era sovrapposto il complesso scultoreo Evidente il parallelismo tra la simbologia delle case del popolo, dotate di elementi della tradizione marxsista, con l’apparato iconografico messo in piedi dall’ideologia fascista. Al riguardo si rimanda al testo citato alla nota 191. 192

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allegorico 193. La maggior parte degli edifici progettati o adattati alla funzione di case del popolo, erano di modeste dimensioni e dalle scarse qualità formali, nettamente distanti dai manufatti apparsi in Belgio (Maison du Peuple 194 di Horta) dotati di grande capacità organizzativa, fortemente radicate sul territorio e rispondenti a esigenze pratiche. Purtroppo, fenomeni associazionistici con le relative sedi, erano quasi assenti nelle regioni meridionali, ad esclusione di sporadiche cooperative sociali agricole nel napoletano e nel palermitano. Capitolo a parte andrebbe dedicato alle casse rurali cattoliche 195 di matrice interclassista; alle cameraccie repubblicane 196 maggiormente presenti in Romagna e alle camere dei lavoratori 197, ma per questioni tempistiche e tematiche non oggetto d’indagine per la cui trattazione si rimanda alla cospicua bibliografia di settore. Per quanto concerna la questione dei movimenti fascisti e della propria presenza sul territorio, emerge un dato assolutamente rilevante che chiarirà molte delle scelte progettuali compiute in seguito. Lo stato liberale non si era mai occupato concretamente, della nazionalizzazione delle masse ma, piuttosto, della burocratizzazione dell’ordinamento, che si V.Fontana, Il nuovo paesaggio dell’Italia giolittiana, Laterza, Roma-Bari, fig.94, 1981. 194 Cfr. F.Borsi, P.Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari, 1982. 195 Maggiormente presenti sul territorio a seguito dell’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum del 1891. In generale cfr. E.Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino, 1976, p.1793. 196 Cfr. L.Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, Fratelli Lega editore, Faenza, 1957, pp.203-204. 197 Cfr. F.Anzi, Origine e funzioni delle Camere del lavoro, a.c. Camera del lavoro di Milano, Milano, 1950; G.S. Sonnino, Questioni urgenti, in Nuova Antologia, 16 settembre 1901. 193

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manifestava grazie alle amministrazioni locali nelle quali confluivano i ceti medi accrescendo il senso dello stato. Con l’avvento del fascismo l’obiettivo principale era quello di estendere il potere dal centro dello stato alla periferia (perseguito nel triennio 1926-28), trasformando o sopprimendo gli enti locali, che erano stati fondamentali durante la parentesi democratica. Per questa ragione descrivere quali sono state le manovre di sovversione dell’assetto democratico, permetterà di comprendere la logica della distribuzione e dell’organizzazione delle strutture per il consenso.Sinteticamente, quelle che concorsero maggiormente a istituire un sistema speculare a quello statale legato al partito, erano (per il settore giovanile) la Casa del Balilla o della Giovane Italia controllate dall’ONC e le Case del fascio e del Littorio, gerarchicamente dipendenti dal PNF, emanazione fisica dell’autorità centrale immutate durante il Ventennio. Quest’ultima categoria era articolata in tre gruppi: Uffici del partito, Uffici del Dopolavoro e Uffici dell’educazione dei giovani; con le dovute variazione compositive legate a bisogni specifici (sala spettacolo, palestra, ecc.) 198. In virtù di ciò le Case del fascio erano luoghi di governo, in linea con le intenzioni onnicomprensive del partito e nelle relazioni tra individuo e Stato nel quale il singolo doveva ricercare gli ideali comuni. In queste sedi erano presenti, oltre agli uffici amministrativi, servizi a carattere sanitario (consultorio, ambulatorio medico ecc.) o biblioteche e luoghi per l’intrattenimento e il dopolavoro. 198

Cfr. Le case del littorio, in «Architettura italiana», gennaio, 1938, pp.1-7.

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In più, per facilitare la macchina propagandistica, erano predisposti teatri o cinema nei quali era proiettato il cinegiornale dell’Istituto Nazionale Luce 199. Quest’ultimo, a partire dal 1929, aveva ricoperto un ruolo predominante nel processo di trasmissione dell’ideologia proponendo definite categorie di valori, specie sotto la guida di Freddi200. Altro aspetto di grande rilievo era rappresentato dalle attività sportive (nuoto, atletica, scherma) organizzate in edifici adiacenti o integrati all’interno delle case del fascio, con la duplice funzione di amplificare il senso di coesione e rafforzare il culto del vigore fisico 201. Tutto ciò era fondato su di una serie di elementi tipicamente caratterizzanti, capaci di dare riconoscibilità a questi edifici e che si esplicavano in una coreografia di parti ben precise: la piazza-agorà, (prospiciente la costruzione) destinata ad accogliere le adunate; l’arengario dal quale poter arringare la folla durante i comizi e la Torre Littoria (con il Sacrario dei caduti) monolite puntuale chiara allusione al campanile delle chiese medioevali.

Cfr. A.Farassino, Dieci anni di cinema italiano, catalogo della mostra Anni trenta. Arte e cultura in Italia, Mazzotta editore, Milano, 1982, pp.381-401. 200 A Luigi Freddi, si deve la realizzazione di Cinecittà e l’organizzazione della rassegna di arte e cinema di Venezia. 201 Esaltati dalla diffusione della ridicola immagine di superiorità della razza, le manifestazioni di questo genere non mancarono neppure in ambito culturale; si pensi alle opere di Sironi, Messina e Romanelli o ai Giochi atletici italiani organizzati dalla Triennale di Milano nel 1933. 199

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E.Del Debbio, Progetti di costruzioni. Case balilla, palestre, campi sportivi, piscine ecc., Palazzo del Viminale, 1928 (Album di progetto, 29x39 cm.)

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IV.I. Inedita soluzione a inedito problema

A questo punto della trattazione è necessario chiarire la connessione tra il concetto di eterotopie e l’argomento che si sta analizzando. Etimologicamente gli eterotopos sono luoghi che hanno, simultaneamente, la proprietà di essere connessi a tutti gli altri spazi e di negarne o sospenderne le relazioni degli stessi. Esempi di luoghi che possiedono queste caratteristiche possono essere cinema, teatri, giardini o (particolarmente) cimiteri. Coniato dal filosofo francese Michel Foucault a metà degli anni Sessanta, nasce dai presupposti concettuali dell’utopia di cui, però, rappresenta il simmetrico inverso. Tale attributo permette agli eterotopos di identificare quei luoghi aperti su altri luoghi interconnettendoli. Differentemente dalle utopie, che generalmente interessano luoghi delocalizzati, le eterotopie costituiscono spazi realmente esistenti. Significativo lo scritto Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane del 1963 nel quale il filosofo pone in relazione e in contrapposizione i concetti i due concetti osservando che: le prime restituiscono un sentimento di consolazione perché prefigura di spazi meravigliosi che «aprono a città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico»; le altre (eterotopie) inquietano e disorientano chi le frequenta, annullando ogni riferimento pregresso, pur possedendone tutti gli attributi riconoscibili a chi le frequenta. Così come le eterotopie impoveriscono 103


i termini «bloccando le parole su sé stesse, contestando, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi» 202 alla stessa maniera la case del fascio, pur mimando a tutto quel corredo fenomenologico e immaginifico ben noto a coloro che se ne servono, si sottrae alla categorizzazione di specie per generare ambiguità sin dalle premesse. La casa del fascio, oltre a introdurre una sintassi propria, era progredita in maniera autonoma rispetto alle strutture di servizio, legandosi a dinamiche prevalente territoriali e prestazionali. Questa nuova tipologia edilizia non si era limitata unicamente ad assolvere a questioni politiche ma si era proposta come luogo a supporto della residenza tradizionale dalla quale ne aveva assunto l’appellativo tipologico. Caratteristica centrale la forte correlazione tra manufatto e composizione sociale. In maniera semplificativa era possibile constatare che, nelle aree a carattere rurale, la presenza di servizi ricreativi era minima o inesistente, ugualmente irrisoria la presenza di spazi politici. Differente la situazione per le zone a prevalenza operaia, dove la pianificazione delle attività del dopolavoro era attentamente curata e organizzata in strutture ricreative con lo scopo di penetrare in quei settori della società notoriamente restii all’adesione al credo fascista. In questi luoghi si ostacolava ogni forma di dibattito o confronto politico. Per quanto concerne le case del fascio localizzate in quartieri M.Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Gallimard, 1966. Trad. a.c. E.Panaitescu, Rizzoli, Milano, 1967, pp.7-8 202

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medio-borghesi, oltre ad una certa cura nella realizzazione generale, era promossa l’attività culturale mediante biblioteche, sale da lettura e spazi per le discussioni politiche (circoli). Curioso notare come, almeno agli albori del movimento, queste costruzioni fossero scarsamente presenti sul territorio e poco riconoscibili. Il 1928 aveva rappresentato non solo l’anno della svolta politica ma soprattutto di quella architettonica. Infatti, come già accaduto con i movimenti operai, l’esigenza di fornire spazi adeguati alle attività era diventata di vitale importanza e con essa la definizione tipologica degli edifici. Le prime questioni sulla forma e sul carattere di questi manufatti, era stata sollevata dall’ONB. all’interno del testo Progetti di costruzioni. Case balilla, palestre, campi sportivi, piscine ecc. 203 per la codifica degli spazi per le associazioni giovanili. Il dossier rappresentava una sorta di decalogo embrionale di prescrizioni da dover seguire durante le fasi progettuali. Il testo, corredato di numerosi disegni, portava la firma di Enrico Del Debbio, già noto nel panorama architettonico degli anni Venti per la progettazione del Foro Mussolini a Roma (1927). Lo scritto si articolava in 13 tavole in successione sempre più complessa, dalla Palestra n.1 di dimensioni contenute, con elemento centrale più alto dotato di tre file di finestre a tutto sesto al quale affiancare due corpi di fabbrica laterali più bassi; alla Casa balilla con palestra e piscina n.13, soluzione più complessa per la quale erano indicati gli Opera Nazionale Balilla (ONB), Progetti di costruzioni / Case balilla, Palestre, campi Sportivi, Piscine ecc., Palazzo del Viminale, Roma, anno VI (1928), 203

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spazi coperti per le attività sportive e locali di pertinenza. Quest’ultimo caso denotava una sintassi compositiva più elaborata, (marcapiani, trabeazioni, colonne) e coerente con il linguaggio storicista del novecento romano. Ogni proposta, oltre al corredo base di piante in scala e sezioni piuttosto semplici, riportava annotazioni di carattere distributivo o sulla tecnica delle costruzioni. In buona sostanza, almeno per quanto concerne il primo ciclo di edifici, il testo rappresentava l’unico strumento a supporto dei progettisti che se ne servirono sovente, specie per le scelte di linguaggio. Nonostante lo sforzo di Del Debbio di fornire linee guida precise per la corretta progettazione di questi edifici, emergevano diversi aspetti preziosi nell’economia della ricerca. L’attenzione per la definizione degli stilemi e dei caratteri tipici del movimento, trovavano spazio sul prospetto principale a discapito della sommaria articolazione degl’interni, molto spesso inadeguati e poco corrispondenti con l’esterno. L’utilizzo di una monumentalità incurante della funzionalità, probabilmente condizionata dalla premura di soddisfare le richieste di partito, aveva prodotto edifici piuttosto scialbi. Tendenza confermata dalle modalità di presentazione dei progetti nelle riviste di riferimento dove molto spazio era dedicato alle foto di prospetti o dei paramenti decorativi e niente (o quasi) a piante e sezioni 204. Pratica che mirava a esaltare la dimensione decorativo-simbolica dei manufatti seppur Curioso il caso della Casa del balilla (1930) di Gallarate progettata da P.Mezzanotte. Cfr. «Rassegna di Architettura», 15 novembre 1930, pp.401-406. 204

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M.Cereghini, Casa del balilla, Milano, 1933-34, prospetto proncipale

M.Cereghini, Casa del balilla, Milano, 1933-34, scorcio laterale.

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impeccabili nell’impaginato esterno di davanzali marcati, rivestimenti marmorei e colonne in travertino, distogliendo l’attenzione dalla reale organizzazione delle funzioni. Tale processo progettuale era adottato durante il primo quadriennio (1928-1932) della produzione edilizia poi lentamente abbandonato con la comparsa dei razionalisti, più accorti agli equilibri dell’iter compositivo. Se il 1928 poteva essere considerato l’anno della prima, sommaria, regolarizzazione dei caratteri, il 1932 certamente ne costituiva il definitivo spartiacque nel percorso di codifica stilistica. Come descritto nei capitoli riguardanti il dibattito sul linguaggio e sui termini dell’architettura nuova, il 1932 aveva rappresentato l’anno in cui gran parte degli intellettuali e architetti più influenti, avevano accantonato le divergenze ideologiche per fare fronte comune nella ricerca dei caratteri d’identità nazionale. Episodio emblematico era costituito dal concorso per la casa del fascio tipo bandito dal settimanale «L’Assalto» 205 di Bologna, rivolto principalmente alle Scuole Superiori di Architettura e dunque alla nuova schiera di progettisti che si stava affacciando a questa lunga esperienza progettuale durata di circa vent’anni. Non a caso la dicitura del concorso conteneva espressamente il termine «tipo», aggiunto per enfatizzare la volontà d’individuare quei caratteri archetipi a cui avrebbero dovuto far riferimento Il bando così recitava «Ormai la Casa del fascio è un’istituzione tipo. È in essa che si concentrano le migliori energie […] dalla Casa del fascio si diffonde lo spirito nuovo dell’Italia attraverso i provvedimenti del Governo fascista. Orbene la casa del fascio deve distinguersi a distanza, allo stesso modo del campanile, del Comune, della Chiesa. La casa del fascio non deve vestirsi di forme architettoniche che di per sé stesse non siano ambasciatrici della nuova fede» Cfr. Concorso, in «L’Assalto», Bologna, 12 marzo 1932,p.1. 205

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C.Valle, Casa balilla, ForlĂŹ, 1933. (Archivio C.Valle, Roma)

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G.Vaccaro, Scuola d’Ingegneria, Bologna, 1931, schizzo di studio. (Archivio Storico Università di Bologna)

L.Moretti, Casa ballilla, Roma, 1936, sezione longitudinale. (in C.Rostagni, Luigi Moretti 1907-1973, Architetti Moderni, Mondadori Electa, Milano, 2008)

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tutte le architetture successive. L’episodio era stato presentato con grande enfasi e aveva costituito l’occasione per i partecipanti di esporre le proprie istanze ideologiche e concettuali. Non mancarono alcune note di individualismo sintomatiche di una certa ricerca di linguaggio in linea con le moderne tendenze europeiste. Ciò nonostante non si era riusciti a definire istanze metodologiche precise per la progettazione delle sedi di partito. Tornando alle vicende legate al concorso, il 26 maggio del 1932 la commissione giudicatrice presieduta da Bardi, a seguito del discorso inaugurale pronunciato da Pagano e valutati i 37 progetti pervenuti, aveva dichiarato vincitori 206: Renzo Bianchi per la proposta della casa del fascio per città superiori a 50.000 abitanti; Banfi e Belgiojoso 207 per i paesi con abitanti compresi tra 10-50.000 unità; e Peressutti e Rogers per quelle negli agglomerati di 5-10.000 abitanti. A prescindere dagli esiti, ciò che più interessava alla giuria non riguardava strettamente la tipologia ma l’architettura, meglio, il linguaggio da dover adottare. Durante la presentazione finale, Pagano, aveva ripercorso le fasi salienti della polemica: dal dibattito sull’architettura razionale all’enfasi della mostra del 1931 (organizzata dal MIAR), dal valore della tradizione al sacrificio 208 delle avanguardie nel processo Cfr. Il littorale di architettura e la relazione della Giuria, in «L’Assalto», Bologna, 26 maggio, 1932, p.5. 207 Nonostante i due progetti fossero stati presentati separatamente, Belgiojoso aveva sottolineato la stretta collaborazione con il collega Banfi, dimostrando una certa affinità anche con lo schieramento dei comaschi, da cui nascerà il gruppo de BBPR. Cfr. Belgiojoso, Intervista sul mestiere di architetto, a.c. C. De Seta, Laterza, Roma-Bari, 1979, p.6. 208 Crudo e asciutto il passaggio su Sant’Elia «morto sul Carso con una palla in fronte» Cfr. Il discorso di Pagano, ibidem, 26 maggio 1932. 206

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di italianità. Altro aspetto da non sottovalutare era costituito dal crescente e significativo rapporto tra le giovani frange dell’architettura avanguardistica e lo stato centrale in virtù di quella spensierata adesione al partito generata dal clima rivoluzionario degli anni tra 1929 e il 1933. Al quale va aggiunto l’inteso legame intrecciato con i movimenti europei che aveva fatto maturare il valore del linguaggio architettonico italiano in campo internazionale. La nuova ondata di positività era evidente nei progetti realizzati tra il 1933-1934 come la Casa del balilla di Milano di M. Cereghini che, al fronte bucato con logge sporgenti dal grande effetto chiaroscurale, contrapponeva elementi trasparenti in vetrocemento e l’evocativo artificio della pensilina sospesa a copertura del cineteatro 209; in quella di Forlì, progettata dall’ing. Valle 210 tra il 1933 e il 1935, nella quale nonostante le dimensioni esigue erano inserite numerose funzioni (palestra, piscina, sala da scherma, biblioteca) tutte assolutamente denunciate in facciata in quell’intimo rapporto tra interno-esterno e tra funzioneforma, ottimamente bilanciate nel nodo verticale della torre littoria; o ancora nei circa 30 progetti pubblicati all’interno della rivista «Rassegna di Architettura» che tracciava un bilancio di tendenza e di linguaggio. Significativi gli interventi a Piacenza di L. Moretti, di M. Ridolfi a Macerata e Trastevere contraddistinti da volumi puri ed espressivi di una poetica edulcorata dalle sovrastrutture simboliche; o Cfr. «Edilizia moderna», n.21-2, aprile-settembre, 1936; Rassegna Architettura, 1936, pp.417-426. 210 Cfr. «Edilizia moderna», n.19-20, ottobre, 1934, pp.593-600; «Architettura», gennaio, 1934, pp.48-52. 209

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all’essenzialità formale di Miotto e Mansutti attenti alla lezione di Mendelshon; passando per il rigore compositivo di E. Lapadula nel magistrale prodotto di soli volumi e bucature per il progetto a Porto Empedocle. Nonostante i numerosi interventi di pregio che denotavano significativi progressi nella prassi compositiva - chiari tentativi di messa in discussine del dilagante storicismo - ancora in molte opere emergevano limiti distributivi e poca riconoscibilità. Ne costituiscono esempio alcune opere del Vaccaro come la Scuola d’Ingegneria di Bologna progettata tra 1931 e il 1935 erroneamente ascrivibile alla categoria delle case del fascio per la presenza di alcuni requisiti tipici di queste costruzioni. Per la torre in muratura, trattata con materiale differente rispetto al resto dei fabbricati e collocata in posizione dominante o per alcune soluzioni planimetriche interne (pur difettando dell’arengario) potevano indurre all’etichetta di casa del fascio. Così come per certe case del riminese per le quali i classici stilemi dell’aquila e del fascio littorio sarebbero stati sicuramente più efficaci del podio rialzato con foro per l’asta della bandiera. Prescindendo dagli episodi, quella degli architetti era un’adesione totale, dettata soprattutto dalle aspirazioni di visibilità e lavoro riposte nelle politiche edilizie del regime; ciò però impone delle riflessioni sul rapporto tra sperimentazione personale e osservanza dei precetti di partito all’interno di quell’ampio ventaglio delle architetture (erroneamente definite) fasciste,

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L.Daineri, Casa del Gruppo Rionale Nicola Berti, Genova, 1938.

L.Daineri, Casa del Gruppo Rionale Nicola Berti, Genova, 1938.

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meno fasciste, poco fasciste o non fasciste, da parte di quella storiografia ormai anacronistica. In sostanza tutta la produzione del Ventennio era fascista. Se l’architettura moderna era rivoluzionaria allora non poteva non identificarsi nelle idee rivoluzionarie che il fascismo incarnava 211. Quelle che più interessano sono le declinazioni del termine all’interno dello stesso movimento (razionale) e il rapporto che questi avevano con le varie frange politiche del PNF. In quest’ottica è possibile intendere il prodigio di architettura razionale che è la casa del fascio di Como di Terragni, crasi perfetta tra rapporti aurei, trattamento materico e linguaggio sintetizzati in un cubo di metafisica perfezione. Per questa architettura e per il suo autore, i rapporti privilegiati con le alte cariche di governo e con gli intellettuali erano ben note 212, nonostante le feroci polemiche di Pagano sull’effettiva aderenza ai canoni del razionalismo, sulle pagine di «Casabella». Se la poetica di Terragni si poneva come pura rivelazione e dunque non necessitava di giustifiacare in quanto «verità esistente nonostante noi» 213 e sovrapposizione speculare di etica ed estetica; allora i concetti di funzionalità, economia e razionalità legati al nuovo modo di concepire lo spazio, collocavano Terragni fuori dal Razionalismo stesso in quanto il suo agire Le parole di E.Rogers al riguardo erano straordinariamente eloquenti: «Io credo che la base del nostro errore sa stata una grossa confusione filosofica. Ci basavamo su un sillogismo che, grosso modo, diceva così: il fascismo è una rivoluzione, l’architettura moderna è rivoluzionaria, dunque deve essere l’architettura del fascismo». Cfr. E.Rogers, L’esperienza degli architetti, in Fascismo e antifascismo 1936-48. Lezioni e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 1962, p.335. 212 Bardi aveva dedicato due interi numeri della rivista «Quadrante» all’opera di Terragni. Cfr «Quadrante», n.35-36, settembre-ottobre, 1936. 213 C.Belli, Kn, Scheiwiller editore, Milano, 1972, p.40. 211

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anteponeva l’estetica al senso etico. Sebbene si tratti di una casa del fascio e per questa ragione ricadente nelle architetture oggetto di ricerca, sarebbe opportuno dedicare un’intera monografia a questo singolo manufatto, alle scelte progettuali 214 che lo determinarono, alle vicissitudini legate alla decorazione parietale 215 o al discorso del linguaggio 216 e del suo modo di manifestarsi. Tornando al tema generale, la simbiosi tra architetti e governanti non si limitava a banale servilismo ma ne aveva condizionato profondamente lo sviluppo. Al mutare di certi equilibri di partito erano mutate anche le architetture prodotte, determinando il conseguente allontanamento di molti architetti dalle politiche edilizie di regime. Motivo per il quale abbondavano edifici privi di ogni valore formale, legati a congetture accademiche di gusto piacentiniano o superficiali esercizi di eclettismo carichi di rappresentatività classica. Era possibile delineare tre correnti progettuali o, per meglio dire, modus operandi all’interno della questione della progettazione di questa particolare tipologia edilizia. Al primo filone appartenevano quei progettisti ancora mossi dal desiderio di ricerca e sperimentazione, convinti seguaci del Razionalismo non esasperato e ancora preferiti per la comprovata affidabilità professionale. Ne costituiva un esempio il progetto (mai realizzato) della Casa del fascio di Oleggio 217 di Vietti e Cfr. P.Eisenman, Dall’oggetto alla relazionalità: la casa del fascio di Terragni, in «Casabella», n.344, gennaio, 1970; Id. From object to relationship: Giuseppe Terragni. Casa Giuliani Frigerio, in «Perspecta», nn.13-14, 1971. 215 Cfr. D.Ghirardo, Politics of a masterpeace: the vicenda of the facade of casa del fascio, Como, 1936-39, in «The Art Bulletin», vol.LXII, n.3, settembre, 1980. 216 Cfr. M.Tafuri, Il soggetto e la maschera, in «Lotus», n.20, settembre, 1978. 217 Cfr. «L’Architettura», dicembre, 1934, pp.737-740. 214

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E.Del Debbio, Casa GIIL, Modena, 1938. (Archivio Storico, Fondo Bandieri)

E.Del Debbio, Casa GIL, Modena, 1938. (Archiovio Storico, Fondo Bandieri)

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Gardella del 1934, in cui il fuori scala del fascio diventava edificio stesso, staccandosi da terra grazie a pilotis e generando continue tensioni tra il volume del cinema-teatro e la parete curva in cui era inserito l’arengario. Altrettanto valido il progetto della Casa della G.I.L. di Narni di A. Pica nel ’38 218. La struttura, a forma di L, si articolava in due corpi bassi raccordati da una loggia; per la particolare conformazione del sito (oltre alla presenza del prospiciente edificio trecentesco della chiesa di San Gerolamo) erano stati ricavati degli ambienti sottostanti adibiti a palestra e spogliatoio illuminati da grandi oblò vetrati. L’utilizzo dei mattoni faccia vista con lunghe e profonde fughe ne esaltava l’orizzontalità della pensilina e del tetto piano, mentre un’apparente modularità delle finestre innescava movimenti superficiali via via più evidenti nella vetrata della palestra. Dello stesso anno, nonché categoria, la Casa del fascio di Genova situata nel quartiere Sturla progetta da L. Daneri 219 dai forti connotati lecorbusierani. L’edificio si sviluppava in altezza, lasciando quattro piano sotto il livello della strada a cui era posizionato l’ingresso. L’intero corpo di fabbrica era attraversato da un cilindro in vetrocemento contenente le scale a sbalzo, completamente illuminate da finestre a nastro. Ultimo caso emblematico per linguaggio adottato e scelte progettuali era la Casa del fascio di Lissone 220 del 1940 opera di Terragni e Carminati. La costruzione, differentemente dal complicato e ricercato progetto di Cfr. «Architettura», aprile, 1940, pp.177-181. Cfr. «Casabella Costruzioni», n.133, gennaio, 1939, pp.20-27. 220 Cfr. «Casabella Costruzioni», n.162, giugno, 1941, pp.4-11. 218 219

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Como, denunciava fin da subito la destinazione d’uso, pur mantenendo inalterati gli equilibri tra interno ed esterno grazie all’uso sapiente di differenti materiali. Nel complesso l’edificio era organico, essenziale e ben bilanciato, specie nel nodo della torre littoria che non si poneva come aggiunta successiva ma come parte di un discorso più ampio. A questa breve rassegna si potrebbero aggiungere altri episodi221, probabilmente meno significativi dal punto di vista qualitativo e dalle dimensioni ridotte, ma notevoli per capacità di adattamento alle difficoltà del sito (come per le case in zona rurale) o per l’impiego di materiali coerenti con l’epoca. Alla seconda corrente invece, erano da annoverarsi tutti quei progetti, piuttosto diffusi, con evidenti ascendenze piacentiniane, a metà strada (per questo fortunati) tra il monumentale e l’innovativo, particolarmente abbondanti nella parentesi 1937-1940. Certamente facente parte di questa categoria il progetto, finanziato dalla FIAT, di M. Passanti per la Casa del fascio del Gruppo Rionale F. Corridoni 222 posizionata all’interno di un grande lotto alberato. Il grande blocco parallelepipedo monolitico, era rivestito in mattoni faccia vista con particolare attenzione ai movimenti stereometrici delle bucature e degli ingressi. Notevole l’accorgimento dei muri perimetrali più alti della linea di gronda a celare la copertura a falde, esaltando l’aspetto massivo della costruzione. Ancora, la Casa del Per citarne alcuni: C.A.Sacchi, Casa del balilla (Pavia, 1936) in «Rassegna di Architettura», 1936, pp. 284-288; C.Valle, Case GIL (Predappio, 1937) in «Architettura», marzo, 1938, pp.149-158; G.Frette, Casa littoria (Tortona, 1939) in «Architettura», 1940, pp.184-188. 222 Cfr. «Architettura», n.2, febbraio, 1938, pp.74-76. 221

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fascio di Castelfiorentino 223 di M. Gucci datata 1939, costituita da un unico blocco a pianta quadrata, alta zoccolatura in travertino chiaro di Rapoldo, mattoni faccia vista e finestre simmetriche e inquadrate dallo stesso marmo per il prospetto principale e dimensionalmente variabili, quasi a scacchiera, per il fronte della palestra. Infine la pavimentazione interna era in linoleum-sughero di colore verde compresa la zoccolatura d’identico materiale e colore a esclusione del soffitto in cui trovava alloggio l’enorme scritta «DUX». Similmente per la Casa littoria di Empoli dell’arch. Italo Gamberini del 1940, costruita a seguito di un concorso pubblico. Anche in questo caso l’aspetto monumentale, esaltato grazie a enormi pilastri in pietra locale che correvano lungo l’intero fronte principale, era preferito al resto della progettazione. La stessa pilastrata era posizionata su di un crepidoma al quale si accedeva tramite una scala di gusto monumentale. Infine la parete di fondo era interamente ricoperta da rappresentazioni dell’epopea fascista.Questi elencati, così come quelli per la Casa della G.I.L di Campobasso 224 di D. Filippone del 1941 o di Modena dell’arch. Del Debbio, erano progetti presenti su tutto il territorio nazionale, tutti accomunati dal registro linguistico memore della lezione di Piacentini, fatto di grandi pilastri, finestre inquadrate e zoccolature massive o di materiali altrettanto inequivocabili (travertino, mattone faccia vista ecc.) tradendo scarsa capacità distributiva 223 224

Cfr. «Rassegna di Architettura», 1939, pp.60-62. Cfr. «Architettura», settembre-ottobre, 1941, pp.376-379

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e limitata articolazione volumetrica. Unicamente votati alla regolarità della forma, perseguita pedissequamente attraverso bucature prive di ritmo e all’enfasi monumentale dei fuori scala (accessi e scale generalmente), erano rilegati all’unico ruolo di centri di rappresentanza, salvo alcuni casi sporadici di variazione alla regola 225. Terza e ultima categoria che si vuole includere, era rappresentata dai progetti tardo eclettici, banalmente storicisti e privi di ogni attributo formale degno di nota che, continuavano ad avvalersi di linguaggi superati, triti d’inutile necessità di regime. Tra questi il progetto della Casa del fascio di Verona 226 di G. Vagnetti del 1940 (per altro situata zona diversa da quella proposta dall’ente banditore) uno sgrammaticato fascio littorio di cinque piani in blocchi di pietra, compresi i due corpi laterali più bassi di due piani, esasperati dall’incedere serrato delle finestre tutte molto vicine. Simile al vicenda compositiva legata al progetto di Lapadula, Romano e Guerrini i quali elaborarono una struttura a cuneo tronco di cinque piani interamente ricoperti in bugnato cinquecentesco con un lungo e alto ingresso pilastrato. Così come accadeva per le proposte progettali di Apolloni, Ballerio, Ponca, Ciambellotti e Bordonaro, la smania di classicismo ed enfasi retorica era anteposta a ogni altra scelta, eccedendo in «richiami più o meno sentiti alle architetture trecentesche o del primo Rinascimento» 227. Anche la scelta della tecnica di rappresentazione, che prima vedeva protagoniste curate Come per il caso della Casa Littoria di Messina su progetto di G.Smonà e G.Viola. Cfr. «Architettura», luglio, 1940, pp.357-362. 226 Cfr. «Rassegna di Architettura», 1940, p.267. 227 Cfr. «Architettura», settembre, 1942, p.302. 225

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assonometrie dove il rapporto tra soggetto e oggetto mirava a raggiungere nuove forme di astrazione 228; finirono per regredire in prospettive ad effetto povere di tensione tra disegno planimetrico e alzato o a banali chiaro-scuro di siepi a esedra e archi ribassati. Quest’ultimo filone, a cavallo degli anni Quaranta, fotografava la condizione di svuotamento del regime non più in grado di dialogare con gli architetti e gl’intellettuali. I quali non potevano che constatare con amarezza il progressivo declino della cultura lungo cui si era avviata la pratica architettonica italiana.

Cfr. P.Eisenman, La rappresentazione del dubbio: nel segno del segno, in «Rassegna», n.9, marzo, 1982, pp.69-72. 228

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Schemi distributivi per modelli di case monocostituite. (Cfr. anche F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, ACS, Roma, 2003)

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M. Passanti, Casa del Gruppo Rionale F.Corridoni, Torino, 1939.

A.Bergonzo, Casa del Fascio, Bergamo, 1940.

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VI. Differente fisionomia per invariata tipologia

L’analisi delle caratteristiche compositive di questa particolarissima tipologia di edifici non può certamente circoscriversi ad un singolo modello, data la vastissima produzione occorsa durante il Ventennio. Seppur a partire dagli anni Venti si era tentata una omologazione di genere, gran parte dei progetti differivano per specifiche proprietà fatta esclusione, sebbene con riserve particolari, per le case del fascio delle aree rurali ovviamente segnate da ristrettezze economiche mascherate da propositi autarchici. Premesso che la compresenza di elementi costruttivi identitari dovesse verificarsi simultaneamente, era comunque complicato stabilire delle linee guida condivise, anche per lavori a firma di un singolo progettista. Per questa ragione si è fatta una scelta di metodo tentando di catalogare, in gruppi eterogenei e morfologicamente affini, case del fascio con similari attributi. Fondamentale chiarire che la dicitura Casa del fascio o Casa littoria applicata pedissequamente a tutte le sedi di qualsiasi ordine e grandezza, fatta eccezione per alcune provincie più importanti, capoluoghi di regione e per la capitala, dove si era preferita la denominazione di Palazzo del Littorio. Qui di seguito alcuni dei criteri adottati nel corso dello studio dei manufatti:

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Schemi distributivi per modelli di case bicostituite. (Cfr. anche F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, ACS, Roma, 2003)

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• rapporto con il tessuto urbano • articolazione spaziale interna e relative funzioni • presenza di attributi formali simbolici (sacrario, Torre littoria, bassorilievi, decorazioni) • linguaggio e scelte progettuali adottate Appartengono ad un primo ipotetico gruppo tutte quelle costruzioni monolitiche (o monocostituite), concluse in se, articolate secondo un unico volume, quasi sempre conseguenza del posizionamento della sala conferenza e degli uffici. Inoltre la Torre littoria, che spesso assumeva posizioni differenti all’interno della costruzione, quasi sempre era in adiacenza all’edificio o addirittura aggiunta (nella posizione che l’Ufficio Tecnico indicava) negli edifici adattati. Altro aspetto interessante era costituito dal trattamento materico dei due blocchi con l’intento di accrescerne il valore simbolico, evidenziarne la differente funzione e movimentarne la volumetria grazie al posizionamento delle bucature. Fanno parte, ancora, di questa categoria quelle case del fascio che possedevano la Torre littoria completamente staccata dall’edificio principale, scelta tendenzialmente adottata dai razionalisti che in essa ritrovavano una migliore distribuzione delle masse oltre che l’occasione per sperimentare sistemi di collegamento alternativi (logge, balconate, camminamenti semicoperti, ecc.). 127


R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, ingressi, 1938. (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, seminterrato

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, piano terra

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, primo piano

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, secondo piano

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, terzo piano

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Rari i casi di completa assenza dell’elemento puntuale (come l’esperienza di Como) soluzione molto spesso utilizzata per i ministeri che condividevano la tipica conformazione monoblocco. Proseguendo nella disamina troviamo tutti quegli edifici formati da due fabbricati collegati tra loro a formare un organismo ad L, così come accennato per alcuni progetti già citati. Tale scelta progettuale generava uno spazio strettamente connesso all’edificio-madre, prospiciente o retrostante, principalmente utilizzato per lo svolgimento delle manifestazioni ginniche all’aperto o per le adunate in concomitanza di particolari eventi. L’impianto ad L, maggiormente impiegato per gli edifici di media o modesta grandezza, permetteva maggiori relazioni con il tessuto urbano di cui spesso ne completava cortine edilizie o piazze in cui si affacciava. Dotate di un linguaggio poco elaborato e aulico, più vicino allo stile piacentiniano, era povere di convincenti articolazioni superficiali o di studio del posizionamento delle bucature liquidate a semplici aperture monotone. In certi casi, specie per quelle desinate alle zone rurali, non era raro l’utilizzo di zoccolature a bugnato rustico, logge semicoperte con archi a tutto sesto e coperture a falde. Altro gruppo significativo, contiene tutte quelle case progettate secondo specifiche funzionali precise. Infatti vi trovano posto tutte quelle Case littorie per le quali gli ambienti della: palestra, del cine-teatro, del sacrario dei martiri e degli uffici amministrativi erano collocati in spazi autonomi.

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R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, pianta primo piano (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, pianta secondo piano (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

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Questi edifici 229 differivano dagli altri gruppi per l’assenza di connessioni tra le parti che godevano di completa indipendenza. Erano, quasi sempre, impiegate per centri periferici o per alcune Case di Gruppi rionali. L’impaginato adottato era scarno di decorazioni, cornici in rilievo o suppellettili ma fortemente votato alla sperimentazione formale specie nella zona della scala di servizio, sempre inquadrata verticalmente da ampie vetrate e culminate in copertura con una pensilina. Notevole il trattamento riservato all’angolo che, svuotato e rimaneggiato, doveva ospitare il volume della Torre, in contrasto con il linguaggio d’estrema avanguardia dei razionalisti. Sulla falsa riga delle architetture di gusto decò, sospese tra desiderio di semplificazione e immancabile decorativismo, erano ascrivibili alcune Case, principalmente situate nel nord Italia. Queste si caratterizzavano per la complessiva semplicità della costruzione, per l’uso di trasparenze a evidenziare la nuda struttura in cemento armato e la presenza di bucature a tutt’altezza e tagli parietali. Pur non rinunciando a motivi floreali sulle cornici delle finestre o ad accenni di pensiline snelle in ferro. Ciononostante erano imprescindibili i simboli del potere che capeggiavano sull’arengario o sui prospetti principali, solitamente, trattati ad intonaco bianco. Tale pratica denotava scarsa attenzione per la differenziazione materica dei vari corpi d fabbrica generandone un certo Singolare l’analogia con le architetture del progettista e designer francese Robert Mallet-Stevens dei primi anni Trenta. Aveva sviluppato un linguaggio essenziale e misurato, poi confluito nel Movimento Moderno. Cfr. P.Vago, Robert Mallet-Stevens, l’architetto cubista, Dedalo libri, Bari, 1979. 229

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R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, sezione A-A’ (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, sezione B-B’ (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, sezione D-D’ (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

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R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, prospetto principale (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

R.De Martino, Casa Littoria di Fuorigrotta, bozzetto di studio (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229)

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appiattimento. Contrariamente a quest’ultima tendenza poi, rientravano quelle costruzioni che si caratterizzavano per la scelta dei materiali di rivestimento diversi tra loro. Infatti, il corpo centrale era trattato con mattoni in cotto mentre la Torre littoria in pietra sulle nuance tenui, con la tendenza a evidenziare il diverso rapporto volumetrico e di masse. Tra gli esempi meglio rappresentanti questa categoria, ricadeva la Casa Littoria del Nuovo Rione Fuorigrotta a Napoli progettata dall’architetto Renato De Martino nel 1938. L’edificio insiste in un lotto di forma rettangolare di dimensioni 60x40 m per un’area complessiva di 2400 mq. Gran parte della metratura a disposizione interessava la costruzione vera e propria (1488 mq) mentre la restante parte, di circa 912 mq, era adibita a palestra scoperta. La Casa si presentava libera su tutti e quattro i fronti ed era lambita, a sud, dal grande vialone di accesso alla Mostra delle Terre d’Oltremare e a ovest da un vasto piazzale prospiciente l’ingresso della stessa. Per quanto concerne l’articolazione volumetrica, l’edificio si alzava per due piani con particolare attenzione alla zona che si affacciava sul piazzale (data l’importanza strategica), trattato come un podio sopraelevato di altri due piani per accrescerne la visibilità e poterlo sfruttare come arengario. Quest’ultimo era adornato con una serie di altorilievi a tema mitico su fondo marmoreo scuro. Interessante notare come al corpo della torre littori era negata la funzione di elemento puntuale, preferendo l’utilizzo di un vero e proprio corpo di fabbrica integrato al resto contenente: uffici, collegamenti verticali 134


e tutte le sedi delle associazioni delle opere assistenziali. A questa motivazione di carattere funzionale andava aggiunta una seconda ragione legata alla vicinanza della Torre del PNF all’intero della Mostra d’Oltremare 230. Inoltre l’interno si caratterizzava per la piena autonomia degli ambienti destinati alle sigle della GIL, dell’OND e del PNF. Pur avendo la possibilità di comunicare tra loro mediante appositi varchi, (tranne la sala conferenze) ogni ambiente era dotato di accessi propri. Dal punto di vista dell’impaginato esterno, una grossa cornice di colore bianco segnava il volume nella parte angolare (trattato con pietra chiara) dalla zona basamentale (in marmo apuano). Lo stesso crepidoma, a sud, si articolava su due livelli in litoceramica, ospitanti la palestra e la sala per le conferenze. Differentemente, a ovest, il manufatto proseguiva per un solo piano ed era coperto da una sottile pensilina a sbalzo. Quest’ultima non s’interrompeva ed era fasciata da una lingua continua di colore bianco che risvolta senza mai interrompersi. La presenza di numerosi accorgimenti compositivi, denotavano una certa affinità con il linguaggio razionalista così come per il posizionamento delle bucature. Di forma rettangolare e previste, lungo tutti e quattro i fronti, ne accentuavano il carattere stereometrico e tettonico, grazie all’alternanza di bordature in travertino a contrasto. Stesso trattamento era riservato alle lettere che compongono le scritte lungo i «Non si è creduto opportuno creare una vera e propria Torre Littoria, sia per allontanarsi un poco da una forma usuale, ma principalmente per la presenza della Torre del PNF che sarà costruita nella Mostra d’Oltremare». Cfr. ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229. 230

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Schemi distributivi per modelli di case bicostituite (variazione sul tema) (Cfr. anche F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, ACS, Roma, 2003)

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fronti. La zona retrostante interna, a loggiato, si poneva in maniera dialetticamente antitetica rispetto all’impaginato moderno dei prospetti. Si articolava intorno ad uno spazio ad archi continui di gusto Novecento, decorato con affreschi, specie nell’atrio, dove persiste il legame con gli stilemi tradizionali. L’ossatura portante era prevista in muratura di tufo e mattoni, mentre le tramezzature interne erano di tipo Brukner; piattabande in cemento armato e solai realizzati in opera mista in c.a. e laterizi. L’alternanza materica, soprattutto per le pavimentazioni, assicurava un certo dinamismo degli ambienti coperti, infatti era previsto «l’uso del marmo apuano per il rivestimento delle scale, la pietra di Trani per l’atrio d’ingresso, il linoleum sughero per la palestra, per tutti gli altri ambienti si è prevista una pavimentazione di marmette di cemento» 231. La scelta degli infissi, interni ed esterni, in legno così come l’uso di colori chiari per la tinteggiatura degli ambienti, mutava esclusivamente nell’atrio d’ingresso dove il rivestimento marmoreo s’interrompeva sulla parete di quinta per far spazio ad una fine decorazione parietale. Analogamente, ma con maggiore attenzione ai costi finali, i rivestimenti per la sala conferenze e per la sala riunione si caratterizzavano per materiali più nobili. Similmente da quanto descritto fino ad ora, facevano parte di questa categoria formale altre costruzioni per gruppi rionali, per le quali era riservata particolare attenzione all’articolazione dei volumi ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229, Casa Littoria al Nuovo Rione Fuorigrotta, relazione tecnica, p. 4. 231

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U.Mannajuolo, Casa per il Gruppo Rionale E.Toti, 1939 (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229b)

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U.Mannajuolo, Casa per il Gruppo Rionale E.Toti, prospetto (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229b)

U.Mannajuolo, Casa per il Gruppo Rionale E.Toti, sezione A-A’ (ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1229b)

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contenenti gli ambienti secondari e di servizio. Ciò accedeva per la casa del Gruppo Rionale Federico Florio di Genova del 1937 a firma dell’architetto Mario Angelini, dove il nodo nevralgico servizi-Torre littoria era risolto addensando le masse in quest’ultima e accentuando la gerarchia proporzionale intrattenuta tra il corpo longitudinale e verticale. Colpiva, a prescindere delle soluzioni stilistiche e tecnologiche adottate in queste costruzioni, la completa assenza di tutto l’apparato iconografico e simbolico, caratteristica che aveva registrato un certo consenso da parte degli uffici tecnici 232 regionali. Infine, per singolarità compositiva, spiccava il progetto del 1939 per la Casa del fascio di Paderno Dugnano a nord di Milano. I progettisti, L. Rossetti e G. Butz, optarono per una disposizione d’impianto che prediligeva l’orizzontalità. In questo caso il nodo servizi-torre rappresentava il fulcro centrale dell’intero complesso che, a macchia, si dipanava verso le altre parti funzionali 233. La totale mancanza di aggettivazioni simboliche, salvo il balcone aggettante la Torre littoria ad uso di arengario, ponevano il progetto in contrasto con la tendenza dell’epoca. Ciò apre a una riflessione significativa, certamente legata all’atteggiamento (volubile) delle alte «Tipicamente fascista, degno del nostro clima eroico, che ben s’inquadra nel movimento architettonico della nostra epoca. Si presenta forte nella sua massa ben inquadrata dalla torre, che raggiungerà i 25 metri di altezza, ed il movimento creato nei vari corpi di fabbrica, rispecchierà in pieno il carattere dell’edificio» da «Il Giornale di Genova», 4 febbraio 1937, p.4; ora in: ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1097. 233 Il parere dell’ufficio tecnico fu tiepido: «il movimento delle masse dei vari corpi di fabbrica è stato bene predisposto ma prospetti non hanno caratteristiche adeguate alla speciale e significativa destinazione del fabbricato, ma le forme consuete di alcune architetture attuali troppo generiche», ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1195. 232

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G.Samonà, G.Viola, Casa Littoria, Messina, 1940, cartolina d’epoca

G.Samonà, G.Viola, Casa Littoria, Messina, 1940, prospetto posteriore.

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cariche governative nei confronti dell’architettura e dei suoi interpreti. Emerge una certa tendenza, soprattutto nei filorazionalisti, di affrancarsi dagli stilemi del monumentale e del simbolico fine a se stesso, prediligendo linguaggi più vicini allo spirito avanguardistico del fascismo. Tale atteggiamento, almeno fino al primo quinquennio del 1930, è coadiuvato dagli origani decisionali ma stridente con quanto fatto successivamente la proclamazione dell’impero nel 1936 234. Altra macro-categoria era rappresentata da quelle costruzioni, tipicamente adoperate per centri di maggiore importanza, in cui l’orografia del sito di progetto e la particolare conformazione geometrica del lotto prescelto, imposero il posizionamento della Torre littoria (o dell’arengario) nell’angolo o sul lato corto. All’intero di questo gruppo si potevano distinguere due ulteriori sottogruppi: il primo escludeva completamente l’impiego della Torre littoria inglobandola nell’edificio-madre come nel caso della Casa del Gruppo Rionale E. Toti (1939-1941) a Napoli che più simile ad un ministero o ad un blocco per uffici. Il secondo filone invece, poneva l’elemento torre quale prolungamento naturale della costruzione, spesso di notevole altezza e posizionata per cingere il lotto sul lato breve. Il primo caso, rappresentato dell’edificio progettato da Ugo Mannajuolo, chiudeva un lotto di forma trapezoidale che ne determinava l’aspetto generale. Per esigenze spaziali e vista la grandezza del lotto in concessione, si «Quando questi piccoli architetti capiranno che la grandezza dell’impero non si può celebrale con l’architettura razionale!», P.Angeletti, Alberto Sartoris, un architetto razionalista, De Luca editore, Roma, 1979, p.10. 234

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O.Aloisio, Casa Littoria, Asti, 1933, cartolina d’epoca.

O.Aloisio, Casa Littoria, Asti, 1933, ingresso principale.

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era deciso di frazionare l’interno per assegnarlo, in parte alle Associazione degli agricoltori e in parte alla sede del partito. Scelta che però non traspariva all’esterno se non per la presenza d’ingressi indipendenti. Per quanto concerne l’impaginato generale, spiccava la fitta e serrata ripetizione delle bucature, tutte della stessa dimensione e riquadrate da cornici, fatta eccezione per la parte del basamento e del coronamento trattate con materiali differenti. Suggestivo il trattamento angolare che, nella cuspide dove convergevano i prospetti laterali, si sottraeva arretrandosi facendo spazio alla terrazza ad uso di arengario che a sua volta poggia sul massivo zoccolo ospitante un complesso scultoreo 235. Assolutamente diversa la disposizione del secondo sottogruppo. A exemplum il progetto del gruppo di architetti: C. Autore, R. Leone, G. Samonà e G. Viola, vincitori del concorso per la costruzione della Casa Littoria di Messina, da collocarsi nella stecca di nuovi edifici litorali in sostituzione alla palazzata del primo Novecento, dalla quale si distaccava per stile pur non rinunciando a certi cromatismi materici in riferimento alla tradizione locale. Le prescrizioni concorsuali e la perizia dei progettisti aveva prodotto un edificio che mescola monumentalismo e spirito moderno. Grazie all’alternanza di partiture orizzontali e verticali, si generavano convincenti movimenti di masse così da scongiurare la possibile monotonia dei fronti. Dal fitto carteggio intrattenuto tra l’Arch.Mannajuolo e il responsabile dei Servizi Amm. D.Rossi, emergono diverse correzioni in corso d’opera «necessarie per dare all’edificio della Casa del Fascio, sita in una delle principali vie cittadine, carattere di maggiore dignità e decoro», ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 452, relazione finale di progetto, p.2. 235

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Schemi distributivi per modelli di case tricostituite (Cfr. anche F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, ACS, Roma, 2003)

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F.De Moja, Casa Littoria, Reggio Calabria, 1938, foto d’epoca.

F.De Moja, Casa Littoria, Reggio Calabria, 1938, foto attuale.

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F.De Moja, Casa del fascio, Reggio Calabria, 1938, interni degli uffici (ACS, PNF, Seg.Amm., Sez.II.)

F.De Moja, Casa del fascio, Reggio Calabria, 1938, interni (ACS, PNF, Seg.Amm., Sez.II.)

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Il lotto in questione, all’isolato 345, si presentava di forma rettangolare e dimensioni 66x14 m. Per quanto concerne l’apparato compositivo, apparentemente semplice nel suo organigramma, questi ruotava intono ad un grande disimpegno baricentrico che tagliava l’edificio in due parti: a sud, la Torre littoria con relativi collegamenti a rampe semicircolari, a nord il blocco dei servizi. Il fronte interno, su corso Garibaldi, contrariamente alle prescrizioni del bando che consigliavano di trattarlo a basamento in pietra liscia siciliana; si frammentava in continue interruzioni di aperture regolari. Nel complesso il prospetto si componeva di due livelli ritmati da paraste che, in basso, culminano in una lunga fascia di colore chiaro e, in alto, nel telaio a vista che arretrando nasconde l’ultimo piano. Apprezzabile la scelta di posizionare grandi corpi luce finestrati per illuminare ed esaltare il nodo del corpo scala. Differente l’atteggiamento assunto per il fronte opposto, su corso Vittorio Emanuele II, in prossimità del porto, dove il retaggio tradizionalista emergeva nell’uso del colonnato tipico degli edifici della vecchia palazzata. La costruzione, nella sua interezza, viveva di due polarità distinte: a nord, il volume massivo della Torre littoria dove erano collocati - in ordine progressivo dal basso verso l’alto - il sacrario dei martiri, il salone della adunate e la biblioteca; a sud il blocco dei servizi e gli uffici. La scelta di collocare alle estremità la maggior parte delle funzioni, oltre a garantire un «idoneo smistamento del servizio intero e del pubblico» 236, ne 236

ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1173, relazion di progetto.

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accentuava il valore simbolico, specie per l’uso di numerose finestre per garantire la trasparenza di ciò che accadeva all’interno e intensificare il rapporto tra singolo manufatto e contesto urbano limitrofe. La particolare attenzione per l’alternanza pieni-vuoti generava, a nord, l’ingresso della Torre littoria e, simultaneamente, l’aggetto dell’arengario mentre a sud, tripartito da grandi varchi riquadrati, l’ingresso al pubblico. Infine non mancavano le decorazioni simboliche come motti e fasci littori, in aggiunta al bassorilievo che riproponeva scene tratte dalla mitologia fascista 237. Tornando alla questione della categorizzazione di genere, esisteva un’ulteriore variazione sul tema del posizionamento della Torre littoria. A questo filone appartengono tutte quelle costruzioni che demandavano all’elemento verticale ogni aspetto simbolico e rappresentativo svincolandolo dal ruolo di spazio funzionale. Molto spesso era posizionato, specie in lotti trapezoidali, in corrispondenza dell’angolo di chiusura o, in lotti finiti, direttamente sull’edificio-madre che ne esplica la funzione di basamento. A tal proposito si segnalano due casi esemplificativi, dissimili per posizione geografica e trattamento tettonico ma accomunati dalla stessa logica compositiva. Partendo da nord, la Casa del fascio di Asti, esito del concorso vinto da Ottorino Aloisio nel ‘33, alternava al sorprendete plasticismo della superficie della Torre littoria, la serialità del corpo longitudinale retrostante. L’edificio si elevava per tre orizzontamenti trattati con due Cfr. R.Laganà, L’intervento fascista dopo il terremoto del 1908, in Urbanistica fascista, a.c. A.Mioni, Franco Angeli editore, Milano, 1980. 237

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materiali e il basamento in marmo bianco. Proseguendo, due piani in mattoni facciavista intervallati da una fascia marcapiano e il corpo della Torre in cotto. Nonostante la ricerca di effetti dinamici e di movimentazione delle masse ricercati nel sinuoso andamento dei due livelli superiori, il basamento, specie nella zona centrale di forma concava, generava l’aggetto che fungeva da pensilina e arengario. Le restanti zone denotavano la mancanza di carattere e notevole irrigidimento formale, probabilmente frutto del rimaneggiamento della struttura precedentemente utilizzata per fiere zootecniche. Secondo caso segnalato, decisamente più a sud, era la Casa del fascio di Reggio Calabria progettata dall’ing. Flaminio De Moja, raro esempio di architettura razionalista nel profondo mezzogiorno 238. Centro nevralgico di numerose attività amministrative e sociali conteneva, oltre la sede di partito, la caserma dei fasci di combattimento dedicata a Luigi Razza. Il lotto, inizialmente destinato a ospitare la sede del museo civico, era di forma trapezoidale e si divideva in due parti: una assegnata all’ONB (mai realizzata) e l’altra destinata alla sede del partito. Dallo studio delle piante s’intuiva la volontà del progettista di lavorare sul modello della corte chiusa su tre lati, lasciando libero il quarto, dove erano posizionati gli ingressi. La scelta dell’impianto semichiuso permetteva di ottenere uno spazio interno scoperto, fondamentale per le adunate e le manifestazioni ginniche e di stabilire una Cfr. L.Menozzi, Architettura e ‘regime’. Reggio Calabria negli anni venti, Gangemi editore, Reggio Calabria, 1983; Cfr. F.Cordova, Il fascismo nel mezzogiorno: le Calabrie, Rubbettino editore, Reggio Calabria, 2003. 238

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G.Terragni, A.Carminati, Casa del Fascio, Lissone, 1940, modello di studio. (Archivio G.Terragni, Milano)

G.Terragni, A.Carminati Casa del Fascio, Lissone, 1940, modello di studio (Archivio G.Terragni, Milano)

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connessione diretta con la piazza antistante. L’articolazione volumetrica, fortemente condizionata dall’orografia, traspariva dalla caratterizzazione dei prospetti nonché dalla disposizione degli ambienti interni. La prima proposta progettuale, approvata nel 1935, prevedeva due corpi di fabbrica che correvano lungo le strade tangenti al lotto, poi raccordati nella Torre littoria, lasciando isolato il corpo della palestra. Dopo circa un anno dall’inizio dei lavori, si scelse di sopraelevare il corpo dei dormitori e prevedere un secondo fabbricato, di tre piani, per l’armeria, il salone delle conferenze e palestra. Tale variante non venne mai realizzata soprattutto per questioni economiche. Solo nel 1938 si era deciso di distaccare definitivamente il corpo della palestra e di caratterizzarlo con il tipico ordine gigante 239. In generale, si tratta di un manufatto sobrio e geometricamente ben proporzionato, in cui l’articolazione volumetria si animava nell’alternanza tra orizzontamenti (dei corpi di fabbrica) e verticalismo della Torre posizionata al vertice del lotto. Prospiciente la piazza centrale era posizionato l’arengario. La fascia basamentale di colore chiaro, permetteva alla costruzione di staccarsi dal suolo guadagnando dignità estetica, mentre il resto dei fabbricati era trattato a intonaco e mattoni faccia vista color ruggine, denotando una certa attenzione per i linguaggi moderni oltre una discreta capacità di rielaborazione dei segni della classicità senza cedere a incoerenze stilistiche. L’impaginato generale prevedeva due grandi fasce finestrate Cfr. R.M.Cagliostro, Ricostruzione e linguaggi, schedatura dei principali edifici di carattere urbano pubblico e privato, Gangemi editore, Reggio Calabria, 1981. 239 242

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a nastro continue che seguivano l’andamento curvilineo del fabbricato; diversamente da quanto accadeva nella zona retrostante in cui il massiccio prospetto, ritmato da quattro grandi pilastri, assumeva carattere più scolastico nonostante alcuni accorgimenti stilistici. La scansione interna era ritmata da tramezzature regolari che definivano gli ambienti dei vari uffici e non mancavano decorazioni e bassorilievi. Molte scelte progettuali erano evidentemente dettate dal forte simbolismo, palese ad esempio, nell’uso dei corpi finestrati ad oblò o nella fascia continua di finestre di gusto marinaresco; nel corpo dei dormitori trattati con ordine gigante e alludenti al mondo militare e infine nella forma elicoidale dei collegamenti verticali e relativa scelta cromatica a contrasto, che rimandavano all’aviazione. Similmente per la scelta dei materiali che attingevano dalla tradizione locale o se ne distaccavano completamente, come per la pavimentazione interna in linoleum, la lega di alluminio per le inferriate o il sughero per la palestra, con l’intento di far emergere la costruzione dalla monocromia del contesto urbano 240. A questo punto della disamina, sarà ben chiara a chi legge la gran varietà interpretativa e formale che negli anni ha caratterizzato questa particolare tipologia architettonica. Seppur catalogati in specifici gruppi omogenei, si sono trascurati (per evidente economia di contenuti) alcuni episodi che avrebbero meritato sicuramente spazio monografico. Emerge che gran parte dei manufatti prodotti condividono scelte compositive e funzionali evidenziate Cfr. O.Milella, La caserma dei giovani fascisti, in Calabria sconosciuta, n.6, Reggio Calabria, 1979. 240

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nel primo filone trattato. Quello che vede il posizionamento della Torre littoria in adiacenza o tangente il fabbricatomadre che ospita le attività amministrative e burocratiche, con le relative variazioni sul tema più che altro rintracciabili nei sistemi di connessione. A tal proposito risulta esemplare il caso di Lissone firmato da Terragni e Carminati nel 1938, di seguito trattato come modello di Casa tipo. A partire dalla prima metà degli anni Trenta a Lissone, così come era accaduto per molte altre città, si era manifestata la necessità di costruire una Casa del fascio per accrescere la presenza politica sul territorio che, fino a quel momento, era esercitata dalle associazioni clericali cattoliche. In più era necessario dotarsi di questo spazio per assolvere alle funzioni di adunate e manifestazioni da svolgersi presso la piazza Vittorio Emanuele III. Primo atto ufficiale, la demolizione nel febbraio del 1932, dell’edificio Curt di Pagan e, l’anno seguente, dell’attigua chiesa prepositurale, restituendo vasti spazi per la realizzazione del manufatto e per la sistemazione della relativa piazza antistante. La vicenda progettuale era iniziata nel triennio successivo tramite bando di concorso a inviti, che aveva decretato vincitori Terragni e Antonio Carminati. I lavori si conclusero nel 1940, e di fatto, questo manufatto rappresenta l’ultima opera dell’architetto comasco, morto suicida di li a poco. Per quello che riguarda la conformazione dell’edificio, questi si componeva di un corpo longitudinale basso affiancato dalla Torre littoria nella quale trovava sede l’arengario. Per questa ragione (principalmente) tale manufatto può essere 154


G.Terragni, A.Carminati Casa del Fascio, Lissone, (Ezio Zupelli, in «Divisare», 13giugno, 2016)

G.Terragni, A.Carminati, Casa del Fascio, Lissone, 1940, cartolina d’epoca.

G.Terragni, A.Carminati Casa del Fascio, Lissone, (Ezio Zupelli, in «Divisare», 13 giugno, 2016)

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considerato l’archetipo della Case del fascio e modello ampiamente sfruttato in gran parte dell’Italia. La continua contrapposizione di materiali trasparenti con quelli granitici sottolinea la ricerca di un linguaggio epurato e sobrio, pur concedendo una certa attenzione alla tematica ideologica, come per la Torre «l’arengario duro, granitico, antiretorico che si stacca dalla scura massa della Torre Littoria» 241 quasi una preesistenza residuale di un’antica civiltà. Dal punto di vista distributivo, al pian terreno e al primo piano erano collocati gli ambienti per uffici, mentre la Torre ospitava il sacrario dei caduti e l’aggetto dell’arengario. Parallelamente alla stecca degli uffici, era collocato il grande salone per le riunioni e il teatro, dotato di spalti e gradinate rialzate. Il fronte principale, con orientamento sud-ovest, si componeva di una balconata continua accessibile da tutti gli uffici del primo livello proteggendo dal sole e dalle intemperie le finestre del piano terra. Compositivamente, la balconata era staccata dal piano verticale della facciata principale con l’intento di stabilire una ventilazione naturale, oltre a denunciare l’onesta essenzialità della struttura. A margine della costruzione, era collocato l’elemento puntuale verticale in pietra di Moltrasio, annessa la fabbricato-madre, attraverso la galleria che metteva in comunicazione il salone d’onore e il sacrario. Si trattava del nodo più rappresentativo «sottolineato dall’orizzontalità definita dalla balconata, in contrasto con l’arcaico torrione verticale in pietra,

241

G.Terragni, Un’architettura del partito, in «Lissone», numero speciale, 1940.

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illuminato solo dall’alto» 242. Oltre all’iscrizione del motto sulla base dell’arengario, era ricavata una croce all’interno del blocco monolitico a riassumere «il valore spirituale di una fede politica confermata col supremo sacrificio della vita». Infine, una scala ricavata nei muri perimetrali permetteva di accedere alla terrazza posta sulla sommità della costruzione da dove si poteva assistere alle manifestazioni pubbliche. Fulcro della costruzione, il grande salone posizionato nella zona retrostante, a doppia altezza, per le riunioni, gli spettacoli teatrali e le proiezioni cinematografiche, con capienza di circa 800 posti, studiato con sistema di porte a libro sia per aumentarne la capienza interna, che il veloce deflusso degli spettatori. In generale, ciò che traspariva dalla costruzione, oltre ad una efficace distribuzione delle masse e delle funzioni, era la particolare attenzione nell’uso dei materiali (calcestruzzo armato, vetro, vetrocemento, marmo, gres rosso, linoleum) in particolare per le pavimentazioni interne che si caratterizzavano a seconda del tipo di spazio243. In definitiva, l’intento della costruzione e dei suoi progettisti era quello di adempiere a tutte le prescrizioni concorsuali senza rinunciare alla sperimentazione formale e materica. La scelta di concentrarsi su di un impianto che prevede due diverse collocazioni dell’edificio-madre e della torre permetteva un’ottimale distribuzione delle masse dei pesi, oltre ad una più corretta circolazione interna. All’uso di A.F.Marcianò, Giuseppe Terragni opera completa 1925-1943, Officina editore, Roma, 1987, p.234. 243 Cfr. G.Ciucci, Giuseppe Terragni: opera completa, Triennale di Milano, Centro Studi G.Terragni, Electa, Milano, 1996. 242

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tecniche costruttive innovative si contrapponeva la sapiente conoscenza di quelle tradizionali, specie nell’arte della lavorazione della pietra locale che nel rivestimento della Torre littoria trovava la sua maggiore esaltazione rappresentativa 244.

Cfr. M.Fosso, E.Mantero, Giuseppe Terragni 1904-1943, Cesare Nani editore, Como, 1982. 244

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V.I. Modelli per centri di media grandezza

Come osservato fino a questo momento, la questione del linguaggio era strettamente legata alle gerarchie politiche interne. Fatta eccezione per le sedi federali, certamente più grandi e maggiormente vincolante al parere delle commissioni giudicatrici, ben diverse erano state le vicende per le sedi dei Fasci di Combattimento e quelle dei Gruppi Rionali dove la propensione per lo stile moderno era suffragata da dirigenti politici progressisti. Per questa ragione tale tipologia aveva risentito molto dell’orientamento di matrice razionalista. Se per le sedi situate in realtà urbane di maggiore rilievo e di ampio bacino d’utenza erano state adottate soluzioni che prevedevano edifici monoblocco, per queste invece, l’articolazione volumetrica, il dinamismo delle masse e la differenziazione funzionale la fece da padrone, in particolare in quelle delle piccole realtà a carattere rurale. Dallo studio delle piante era possibile comprendere come la scelta di operare per volumi distinti tra ma interconnessi da una serie di espedienti compositivi era ampiamente preferita alla composizione accentratrice degli altri edifici di maggiore entità. Molto spesso la decisione di procedere in questa maniera era dettata da motivi economici e dalla necessità di realizzare la costruzione per parti. Era interessante notare la propensione per la realizzazione, in primo luogo, del cineteatro e della sala della adunate, entrambe indipendenti e dotate di accessi di pertinenza intorno alle quali agganciare 159


il blocco degli uffici. Scelta probabilmente dettata dalla volontà di rendere autonome le due aree nevralgiche del complesso, così come emergeva dalla relazione tecnica presentata dall’arch. A. Legnani nel 1937 per il progetto vincitore della Casa del fascio di Sesto Calende, tra i primi ascrivibili a suddetta categoria 245. In questo caso, la scelta dei materiali, la distribuzione delle funzioni e il posizionamento della Torre littoria (puramente simbolica), oltre a rispettare indicazioni di gusto razionalista esenti da forzate scelte scenografiche e monumentali; rispondevano ad esigenze termo-igrometriche e d’irraggiamento solare per consentire l’uso di «ampie finestre, senza dover ricorrere a costosi e antigienici tendaggi» 246. Stesso approccio per il blocco degli uffici, indipendente rispetto a quello della sala delle proiezioni e dotato d’ingressi separati. Tale scelta rispecchiava la volontà di fornire alla popolazione un luogo attivo durante tutto l’arco della giornata, sia per le attività amministrative e di servizio, sia per quelle ludiche e d’intrattenimento concentrate nelle ore serali. Infine l’attenzione per alcuni elementi costruttivi, come l’arengario, posto in corrispondenza dell’ufficio del federale e non nella Torre, il lungo portico per proteggere dalle intemperie o dalla calura il pubblico in attesa del disbrigo delle pratiche, la scelta di predisporre gli accessi in corrispondenza di specifici ambienti e non in maniera promiscua aveva resto questo tipologia di edifici, i modelli più Cfr. ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1046; Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pub. degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p. 57. 246 Ibidem. p.58. 245

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efficaci per la progettazione in contesti di media grandezza. Altro elemento interessante era rappresentato dall’uso dei materiali di rivestimento e degli intonaci. In questo progetto l’impiego di intonaci pietrificanti di colore bianco lasciava trapelare una decisa tendenza ai linguaggi degli architetti del movimento moderno che, quasi desiderosi di avvolgere l’edificio in un’aura di mistico candore, erano soliti rivestire quasi interamente le superfici esterne del manufatto. Altro episodio emblematico era accaduto in concomitanza del concorso per la Casa del fascio di Oleggio in provincia di Novara. Il concorso costituisce il pretesto per analizzare due proposte progettuali completamente diverse tra loro: la prima, del gruppo Franzi, Martinelli e Torri, la seconda di Gardella e Vietti. Bisogna premettere che nel primo caso erano state presentate due varianti assolutamente differenti tra loro. Anche in questo caso si era preferita la distribuzione delle funzioni in blocchi separati e di forma diversa l’uno dall’altro. Da un lato il cinematografo e gli ambienti per l’intrattenimento, dall’altro il blocco degli uffici e, separata, la Torre con all’interno due saloni e l’arengario in aggetto. La scelta di far correre una pensilina lungo tre dei quattro lati dell’edificio del cinematografo permetteva la separazione tra il suddetto blocco e quello degli uffici e, in corrispondenza del nodo di contatto, l’inserimento di una lunga finestra in vetrocemento assicurava un certo dinamismo del prospetto. Altra particolarità la diversa altezza dei blocchi che permetteva la rapida e inequivocabile individuazione degli stessi senza ricorrere 161


a particolari espedienti, fatta eccezione per la Torre littoria, in travertino, solcata da profonde bucature 247. Diversa la proposta di Gardella e Vietti 248. In questo caso i progettisti optarono per due corpi di fabbrica di forma differente ma uniti tra loro nella zona posteriore generando due fronti di differente consistenza materica. Gran parte dell’edificio era occupato dalla sala che poteva svolgere sia le funzioni di teatro che di ambiente per le adunate. Al pian terreno era previsto un caffè con la possibilità di comunicare col piano superiore dove si trovano gli uffici. L’impianto di base ruotava intorno al concetto del fuoriscala proporzionale tra le parti, infatti il parallelepipedo degli uffici poggiava su piloties e prestava il fondo al cuneo del blocco del cineteatro che, a ventaglio, si apriva sulla zona retrostante, dove era posizionato l’arengario. La complessa distribuzione delle masse, coadiuvata dalla frequente contrapposizione di elementi costruttivi volti a innescare fitti duelli linguistici, permetteva a questo edificio di affrancarsi una volta per tutte dalle tare compositive del tempo che, nonostante la sensibile evoluzione nella semplificazione generale, ancora stentava a decollare. Più in generale, pur utilizzando alcuni espedienti figurativi come il fascio littorio per il disegno di base, pare fornire quella spinta modernista che si stava cercando d’imprimere alla cultura architettonica italiana. Di tutt’altro genere ma ugualmente interessante tra le sedi di F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p. 61 248 La descrizione del progetto apparve nel numero di dicembre del 1934 di «Architettura» a firma di M.Paniconi. 247

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media grandezza, la vicenda della Casa del fascio di Ivrea, elogio al costruttivismo in salsa politica. L’edificio, di modeste dimensioni, era frutto di un rimaneggiamento di uno già esistente che, nel 1936, era stato assegnato ai fasci di combattimento. A interessarsi del progetto Carlo Celeghin. L’impianto generale, a forma di ferro di cavallo, si distingueva per alcune peculiarità del tutto inedite. Il fronte principale, prospiciente la piazza, si componeva di un ingresso a portale staccato dalla facciata dell’edificio sul quale poggia il podio «che non tenta una scimmiottatura di pone di nave o di ala di aeroplano» 249 e la Torre littoria. Quest’ultima era del tutto snaturata delle funzione specifica di sacrario dei caduti, per imporsi come elemento puntuale di grande impatto simbolico. Infatti si compone di uno snello e alto traliccio in cemento armato come immediata analogia del «nostro concetto di meccanico di Staticità e di leggerezza […] Il traliccio sta per noi come il pilastro stava per le fabbriche antiche» 250 . Il riferimento alla Torre Littoria di Milano progettata da Ponti e Chiodi nel 1933 251 era palese e altrettanto intenzionale. Il resto della costruzione risultava caratterizzata da bucature regolari spoglie e da un profondo nastro vetrato verticale in corrispondenza del blocco scale dal quale si accede al piano superiore. Qui erano collocati ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 829, relazione di progetto; Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p. 63. 250 ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 829, relazione di progetto; Ibidem, p. 63. 251 «La torre è un’opera in cui l’architettura moderna e la tecnica nuova trovano un punto di contatto: né architettura pura, né pura ingegneria; essa è come il limite di un gusto in cui si trovano risolte armoniosamente tutte le premesse pratiche ed estetiche di un’epoca» E.Persico, «Casabella» n.8-9, 1933. 249

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C.Celeghin, Casa del Fascio, Ivrea, 1936, prospetto principale.

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M.Loreti, Casa del Fascio, Varese, 1932, prospetto principale.

M.Loreti, Casa del Fascio, Varese, 1932, prospetto posteriore

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Q.De Giorgio, Casa del Fascio, Vigonza (PD), 1938.

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M.Morfini, Casa del Fascio (Palazzo del Littorio), Montevarchi (AR), 1937.

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G.Canestrini, Gruppo rionale A.Maramotti, Torino, 1936 (ASC, Fondo Danni di guerra, inv.1417, fasc. 45)

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gli uffici amministrativi, la stanza del federale, e i locali assegnati alle sigle dei combattenti e alle opere assistenziali. L’intero fabbricato era tinteggiato in color rosa salmone, anch’esso piuttosto anomalo rispetto al tradizionale bianco. Esiste infine un folta letteratura di edifici progettati secondo le caratteristiche sopracitate, di cui si forniranno alcune sintetiche annotazioni: il caso del Gruppo Rionale Nicola Berti a Sturla (Genova) progettato nel 1939 da Daneri dai forti connotati lecorbusierani; la Casa del fascio di Varese dell’arch. Mario Loreti particolarmente interessante per la disposizione angolare e lo studio della masse interne; l’esempio emblematico del Gruppo Rionale Crespi (Milano) del 1939 dell’arch. Angelini dalle complesse articolazioni volumetriche che rimandano al sofisticato sistema di rapporti aurei dell’esperienza comasca o al progetto presentato dall’ing. Mancini per la Casa del fascio di Afragola (Napoli) attentamente studiato nei materiali e nelle distribuzioni generali. Coerentemente con quanto descritto fino ad ora, a conclusione di questa breve disamina sulle sedi di media grandezza ciò che emerge, oltre ad una certa varietà linguistica e compositiva dei manufatti proposti, è la completa (o quasi) autonomia dei progettisti rispetto ai dettami di partito. Ciò è inequivocabile in certe scelte progettuali relativamente ai temi della riconoscibilità simbolica, dell’aggettivazione delle superfici, dell’utilizzo di artifici storicisti o dell’impiego pedissequo di materiali a prevalenza territoriale. Ragion per cui l’atteggiamento dei progettisti verso quel tipo di composizione pregna di 169


personalizzazioni e provenienti dal background culturale e pregresso, faceva trasparire la consapevolezza delle proprie capacità non piÚ tarpate dall’imperativo ideologico.

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L.Giordani, Casa del Fascio, Sogliano sul Rubicone, 1941, prospetto principale

L.Giordani, Casa del Fascio, Sogliano sul Rubicone, 1941, prospetto principale e dettaglio dell’arengario.

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V.II. Modelli per insediamenti a carattere rurale

Le vicende legate alle Case del fascio per centri di piccole dimensioni localizzate in zone rurali, montane o di profonda entroterra, restituisce un campionario di manufatti di indubbia qualità, in virtù delle pesanti restrizioni economiche e compositive imposte dal governo di Roma. Come avvenuto in altre circostanze, le trasformazioni politiche interne avevano scandito tempi e modalità di sviluppo di questi particolari manufatti. A partire dalla seconda metà degli anni Trenta, l’esigenza di radicarsi sul tutto il suolo nazionale e poter svolgere le normali attività sociali e politiche, aveva spinto i vertici di partito a indire un concorso per la realizzazione di una sede tipo per le località dell’entroterra agricola o montana sprovviste di un presidio fisico. L’intento era quello di fornire direttive tecniche e costruttive chiare, tali da permettere a ogni comune di potersi dotare della propria sede senza incorrere in esose spese o lungaggini burocratiche. Sostanzialmente si adottarono due modelli differenti ma pur sempre indicati per contesti agresti, montani e pianeggianti con piccole varianti del caso. Le prescrizioni, precise e rigorose, si articolavano in pochi ma fondamentali punti: • strutture portanti murarie • coperture a terrazza o a falda spiovente 172


• fabbricati di un solo livello • semplicità dei prospetti e delle finiture • Torre littoria monolitica e indipendente Differentemente da quanto si creda, nonostante le ferree indicazioni e l’imperante questione economica, quasi tutti i manufatti di questo filone si distinguevano per particolari soluzioni o accorgimenti tecnici che esaltano la perizia di progettisti non completamente liberi di agire in autonomia. In questa circostanza era interessante notare la maggiore attenzione per la scelta dei materiali, in particolar modo per quelli dei prospetti, in virtù di quella vasta casistica di esempi provenienti dall’architettura minore fatta di «costruzioni semplici, economiche e di gusto» essenziali all’edificazione di una Casa littoria che «pur dovendo avere carattere di modernità, dovrebbe però allacciarsi alla tradizione dell’arte mediterranea» 252. Ritornava centrale il tema dell’identità territoriale e della ricerca di caratteri tipici delle architetture di modeste dimensioni, spesso anonime ma intrise di forti connotazioni geografiche e insuperabili sul piano del rigore compositivo e dell’economicità finale. Più in generale, oltre alla caratterizzazione materica, maggiore attenzione era posta nella progettazione degli elementi peculiari, operando in assoluta semplicità per gli uffici e per le componenti simboliche e decorative. Dal punto di vista Ing. G.Nardini, Arch. L.Costello, relazione ai progetti di Casa del Fascio in piccoli comuni dell’entroterra, in ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1097, 1939. 252

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planimetrico, nonostante l’alto numero di manufatti proposti, la scelta ricorrente era quella dell’impianto semichiuso, molto spesso a corte centrale o con spazio interno scoperto a forma di U o di L nel caso in cui le due stecche degli uffici e della palestra erano unite per un estremo. Questo tipo di conformazione permetteva di ottenere spazi porticati o zone per le attività ginniche all’aperto. Altra particolarità quasi esclusiva di questa categoria, era lo studio delle pavimentazioni e la relativa differenziazione tra interne ed esterne. Ciò che invece non variava era la disposizione della Torre littoria 253 quasi mai inserita a chiusura d’angolo, ma sempre in opposizione o affiancata all’edificio-madre. Diversamente per la questione dell’arengario che, oltre a caratterizzarsi con le tipiche aggettivazioni retoriche (aquila imperiale, fascio littorio, ecc.) poteva trovarsi o in aggetto rispetto la Torre o ricavato all’interno di un setto in pietra posto a circa due metri rispetto la parete di fondo, come proposto dall’arch. Giuseppe Meccoli in alcuni schizzi di progetto 254. Singolare il progetto per la Casa del fascio di Sogliano sul Rubicone, in provincia di Forlì-Cesena, del 1941 su indicazioni dell’architetto bolognese L. Giordani. L’edificio si collocava sul lato corto della piazza in cui avvenivano le adunate e le parate militari. «La torre potrebbe costruirsi distaccata dall’edificio e collegata ad esso mediante un portico. Si consiglia semplice e forme austere di sezione costante a pareti lisce e piene di dimensioni intorno a m 5x4 di base e intorno a m 16 di altezza», Ing. G.Nardini, Arch. L.Costello, relazione ai progetti di Casa del Fascio in piccoli comuni dell’entroterra, in ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1097, 1939; Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p.77. 254 Ibidem, p.78. 253

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P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, prospetto sulla piazza, 1941. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, prospetto principale, 1941. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, Suterra, veduta prospettica, 1941. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

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P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, veduta prospettica, 1941. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, Suterra, pianta tipo, 1941. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

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P.Ajroldi, Casa littoria, Pietragalla (PZ), veduta prospettica, 1938. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

P.Ajroldi, Casa littoria, Pietragalla (PZ), prospetto laterale, 1938. (Archivi per l’Architettura, Palermo)

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P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, 1941, schizzo di studio, (Archivi per l’Architettura, Palermo)

P.Ajroldi, Progetto tipo di Casa littoria per piccolo centro rurale siciliano, 1941, schizzo di studio, (Archivi per l’Architettura, Palermo)

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Il complesso era sprovvisto di Torre littoria e si articolava longitudinalmente rispetto all’orientamento della piazza stessa, facendole da quinta di fondo. L’impianto di base era determinato da un grande parallelepipedo, monolitico e massivo, con poche movimentazioni volumetriche. Ciò che rendeva singolare questo progetto era il trattamento riservato alle superfici esterne. L’intero manufatto era rivestito in pietra locale in opus incerto, chiuso alla sommità da una lunga fascia in marmo travertino chiaro. Notevole l’espediente di porre una grande parete quadrangolare, sopravanzata rispetto al fronte principale di circa 2 metri, dove trovavano sede l’arengario - con balaustra in acciaio e lastra in marmo - e la classica simbologia fascista. Questa specifica zona dell’edificio, al cui piede era posizionato l’ingresso principale, era trattata diversamente rispetto al resto della costruzione. Infatti, oltre a possedere il fondo in pietra locale lavorato in opus, presentava una serie di dadi in pietra scura a forma di parallelepipedo, disposti secondo una griglia regolare 8x8, su cui era scalpellata l’aquila imperiale. Tale soluzione, in linea con la proposta dell’arch. Meccoli, permetteva all’edificio di liberarsi da quella monotonia formale a cui sarebbe stato destinato data la conformazione monoblocco chiusa. Espediente che conferiva un certo dinamismo delle facciate così da far risultare questa zona aggettante rispetto al resto della costruzione e generando un serie di ombre zone e luce. Nonostante l’aggettivazione simbolica dell’aquila, posta su ogni faccia superiore del dado, nel complesso l’effetto era sicuramente di originalità 179


e di novità. Fatta esclusione per alcuni casi specifici, in generale l’articolazione volumetrica (minima), lo studio dei materiali e alcuni accorgimenti tecnici (come il tetto a falda) o il posizionamento delle bucature, avevano condotto a risultati piuttosto soddisfacente. Proprio per il caso delle bucature, per sopperire a problemi legati alla staticità della costruzione, era pratica consueta porle in numero cospicuo e ravvicinate tra loro, lungo il prospetto principale, in modo tale da ricreare una sorta di effetto nastro. Espediente che aveva permesso di ottenere un convincente dinamismo superficiale. Generalmente, considerato l’esiguo numero di abitanti, l’articolazione degli spazi interni si limitava ai locali strettamente necessari che non superavano i 4 o 6 vani in relazione alla presenza o meno della GIL o dell’OND. Non mancava, invece, la sala per le riunioni (usata anche come palestra) quella per la proiezione del cinegiornale e gli uffici amministrativi. Anche in quest’occasione, pur in economia e con poca libertà progettuale, si erano registrati diversi casi qualitativamente superiori alla media. Considerati i presupposti è possibile tentare una classificazione di genere segnalando alcune peculiarità che accomunano molti progetti per Casa del fascio dell’entroterra. Una delle caratteristiche che differenziava le sedi montane rispetto quelle a prevalenza agricola, era la copertura. Nel primo caso, per ovvie motivazioni climatiche, le costruzioni si presentavano con tetto a falda generalmente sporgente sui prospetti per poter proteggere la parete o per generare un riparo naturale dalle intemperie e dal freddo. Unica eccezione era rappresentata

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della Torre littoria quasi esclusivamente dotata di copertura piana. Differente invece, l’atteggiamento dei progettisti chiamati ad operare in contesti agresti o in piccole zone marittime. Qui la componente climatica spingeva all’uso del tetto terrazzato calpestabile, mentre porticati ad arcate continue fondevano reminiscenze locali (come per le costruzioni delle masserie) con la possibilità di godere di un riparo dalla calura estiva. Infine ciò che più sorprendeva di queste costruzioni, concentrate principalmente negli anni Quaranta, era la capacità di attingere da modelli dai forti connotati tradizionali, unici per originalità dei contenuti, onestà della forma ed economicità della costruzione per poi rielaborarli secondo lo spirito italico tanto rincorso dai moderni. La pratica di rifarsi a modelli della tradizione unita ad alcuni accorgimenti stilistici moderni aveva permesso, agli architetti meno noti, d’imprimere quella carica identitaria che sono questi manufatti possedevano.

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O.Frezotti, Torre del littorio, inaugurazione della cittĂ di Littoria, 1932. (Museo della cittĂ di fondazione, Latina)

O.Frezotti, Foro littorio, planimetria di progetto, (da destra verso sinistra): Casa del fascio, Torre civica, Casa GIL (Museo della cittĂ di fondazione, Latina)

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V.III Modelli per realtà di nuova fondazione

All’interno del fitto programma di politiche urbane e architettoniche occorso in circa vent’anni di governo, il tema della città di fondazione aveva assunto un ruolo centrale, non solo dal punto di vista economico e rappresentativo, ma per la questione del carattere e della riconoscibilità dei manufatti di cui si doveva comporre il nuovo sparito urbano. Così come era avvenuto durante la fase di progettazione delle case del fascio per le città nate dal processo migratorio verso le zone industriali e agricole, analogamente era avvenuto per quelle progettate per le città di fondazione, interpreti singolari delle diverse correnti stilistiche del tempo. Passando in rassegna le numerose costruzioni realizzate tra gli anni Trenta e Quaranta, si poteva notare il duplice atteggiamento dei progettisti, orientato secondo due modelli progettuali eterogenei ma catalogabili. Da un lato le architetture pensate per le città nate dalle opere di bonifica o di fondazione, dall’altro quelle per le città sorte in adiacenza di grandi complessi minerari come le città autarchiche. Altro elemento che differenziava i due ambiti progettuali era l’impiego di tecniche e materiali diversi, sia per motivi puramente economici, sia per vere e proprie scelte di stile. Anche questo ambito, come molti altri trattati fino ad ora, era controllato attraverso lo strumento del concorso. Strumento che permetteva di fornire indicazioni precise e definire i principi generali circa l’aspetto delle 183


C.Petrucci, M.Tufaroli, Casa del fascio, dettaglio della Torre littoria, 1937.

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nuove costruzioni, oltre che del contesto urbano. Tra i primi esempi il bando per la realizzazione della città di Pomezia255, così articolato: • estrema semplicità delle strutture • assenza di decorazioni o materiali nobili • uso limitato o quasi nullo di ferro e cemento • diversificazione tipologica di sole masse • largo impiego di materiali locali • massima libertà di linguaggio Nonostante alcune palesi analogie, tra le indicazioni sopra elencate e quelle per le realtà rurali o di confine, specie per la ferrea prescrizione dell’economicità generale, ciò che emergeva era il differente atteggiamento adottato per contesti urbani già consolidati, ma sprovvisti della sede di partito, e quelli incontaminati come per il caso delle sedi di fondazione. Altra differenza che intercorreva tra i due approcci progettuali era, nel caso delle città di fondazione, che le strutture principali (Casa del fascio, Municipio, Chiesa) dovevano essere realizzate in una sola tornata di lavori in modo da permettere il celere svolgimento delle attività e il successivo ampliamento senza snaturarne il Le indicazioni di bando sono contenute in: Archivio Statale (AS) del Comune di Pomezia, Sez. ONC, 2 giugno 1922; Cfr., L.Nuti, R.Martinelli, Le città di Strapaese. La politica di fondazione del ventennio, Franco Angeli editore, Milano, 1982, p.125 255

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valore. Ancora una volta di centrale importanza il ruolo della Torre littoria e la relativa collocazione. Tema assai controverso e annoso in quanto, pur trattandosi del cardine fondamentale del credo fascista 256, era sempre subordinata a quella municipale o, in certi casi, al campanile degli edifici religiosi. Non mancano gli episodi in cui la scelta di omettere la Torre aveva demandato a ruolo di faro quella municipale. Quest’ultimo era il caso della città di fondazione di Littoria (oggi Latina) del 1932 per la quale si decise di evitare di costruire la torre in corrispondenza dell’edificio dei fasci di combattimenti - che aveva assunto le sembianze di un ministero, data la conformazione monolitica - virando sull’inserimento del corpo verticale sul prospetto principale del municipio. Scelta che si fondava, principalmente, su aspetti di natura economica, avvalorati dalla non necessità di doversi imporre in queste località in maniera perentoria come poteva accedere per contesti già urbanizzati 257 . In altre circostanze, come nel caso di Sabaudia fondata nel 1933, la concomitanza di entrambe le Torri rimandava alle vicende costruttive della casa napoletana di Fuorigrotta dove, la presenza della Torre del Partito all’interno della Mostra d’Oltremare, aveva convinto l’arch. De Martino a Cariche delle solita enfasi retorica, le parole di Mussolini al riguardo: «io dico ai contadini e ai rurali che essi, da vecchi soldati debbano guardare a questa torre che domina la pianura e che è un simbolo della potenza fascista: convergendo verso essa troveranno, quando occorra, aiuto e giustizia», Cfr. B.Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, vol.VIII, 1934, p.149; Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p.94. 257 A rigor di cronaca va segnalato il progetto per la città di Littoria, mai realizzato, di Oriolo Frezzotti del 1942 in cui si prevedeva, oltre il ridisegno della sede de fasci a forma di M, l’inserimento di una torre littoria di quasi 40 metri. 256

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C.Petrucci, M.Tufaroli, Torre littoria, Aprilia, 1939.

G.Calza Bini, G.Cancellotti, Casa del fascio, Guidonia, 1937.

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dilatarne le dimensioni trasformandola in un vero e proprio blocco funzionale. Stessa scelta per Sabaudia, città in cui i progettisti (Cancellotti, Piccinato, Scalpelli e Montuori) avevano deciso di trattare in maniera matericamente differente i due elementi e di prevedervi i locali degli uffici. Atteggiamento condiviso per Aprilia (1936) e Pomezia (1939). Nel primo caso la Torre, a forma di parallelepipedo smussato, era inglobata nel fronte della Casa e si differenziava per due peculiarità: l’arengario semicircolare in travertino chiaro, che faceva da pensilina per l’ingresso, e l’attacco al cielo di sezione ridotta e colore diverso. A Pomezia la Torre, al cui interno erano previsti gli uffici amministrativi, costituiva un elemento indipendente connesso all’edificiomadre grazie ad una pensilina di raccordo che, trapassando il corpo monolitico, culmina nell’aggetto dell’arengario. La disposizione planimetrica della Torre forniva un dato significativo che riguardava il posizionamento degli altri edifici. Questa poteva trovarsi o all’interno dello stesso brano di tessuto o in due contesti differenti. Nel caso in cui gli elementi del palinsesto architettonico di base (Municipio, Casa del fascio, Chiesa) si trovassero a condividere lo stesso piano di sedime, solitamente ai bordi di una grande piazza, allora la scelta di estromettere la Torre littoria era preferita. Diverso il caso se gli stessi attori architettonici recitavano la propria parte su palcoscenici urbani distinti, come per situazioni di impianti policentrici o di sistemi a piazze multiple. Nonostante le eccezioni, non mancarono le variazioni sul tema. Tra queste rientra il caso di Aprilia che 188


presentava entrambe le Torri all’interno della stessa area. Un primo ciclo di proposte, a firma dei progettisti G. Cipriani, R. Lavagnino, D. Ortensi e V. Civico prevedeva, si le due torri posizionate all’interno della stessa piazza, ma una (quella civica) più snella e alta e l’altra (quella littoria) più tozza e monolitica. Secondo filone di proposte, più anomalo e originale, era stato presentato da A. Libera, S. Muratori, L. Quaroni e E. Tedeschi. Il progetto prevedeva un impianto baricentrico speculare alla cui intersezione era posizionato il granitico blocco quadrangolare del plesso municipale e, sulle ali, la Casa del fascio e la Chiesa, entrambe torremunite. Altra soluzione atipica poteva essere quella di posizionare le Torri alla fine di lunghi viali d’accesso alla città, come nel caso di Pontinia. Qui l’anomalia non era tanto determinata dalla scelta planimetrica ma dall’ambigua di destinazione d’uso. Entrambe contenevano gli uffici ed entrambe possedevano l’arengario. Con ogni probabilità tale scelta era legata alla presenza, all’interno dello stesso complesso, dei Fasci di Combattimento e della Milizia. Presenza che si poteva percepire solo dal diverso trattamento delle superfici intonacate con colori diversi. Ciononostante persisteva l’anomalia dei due balconi 258. Molto spesso l’uso di materiali come il laterizio per la torre e l’intonaco di colore tenue per il blocco degli uffici, innescava forti contrasti cromatici con le costruzioni circostanti eccezion fatta per i casi in cui l’intero complesso era rivestito in pietra nuda. Quest’ultima dai forti connotati rustici e più adatta a realtà rurali. Le Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2003, p.99. 258

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Case del fascio di Aprilia e Pomezia presentavano una sufficiente movimentazione superficiale e volumetrica tale da permetterle di essere annoverate tra gli episodi più attenti ai linguaggi moderni, soprattutto per la scelta definitiva di abbandonare la copertura a falde per quella piana. Esiste infine una ulteriore variante presentata, nel 1937, per la citta di Guidonia. Qui l’edificio progettato per accogliere la sede del partito si articolava in un lungo corpo di fabbrica raccordato tramite una passerella in vetro alla Torre in marmo nero, unico elemento verticale dell’intero complesso. In questo caso non sussisteva alcun grado di subordinazione gerarchica tra l’edificio del municipio e quello della sede del partito che, però, si distingueva per materiali e colori. Si presenta completamente sollevata rispetto al piano di calpestio grazie a corpulenti pilastri rivestiti in marmo nero e arretrati rispetto al filo esterno; soluzione compositiva che permetteva al manufatto di librarsi a mezz’aria quasi fluttuando, allontanandosi dai «rusticismi , pur senza convenzionalismi di moda passeggera: sobrio, distinto, signorile, pur tra i vincoli di una severa economia» 259. A conclusione di questa rassegna di singolari proposte progettuali, differenti per approccio ma accomunante da presupposti comuni, si vuole citare il progetto per la Casa del fascio di Mussolinia, (oggi Arborea) dell’architetto Ceas. Due fattori determinanti incidono pesantemente e positivamente su questo progetto: il non rientrare in quella categoria di edifici a forte imposizione autarchica e il largo 259

Cfr. «Architettura», editoriale, aprile, 1938, p.200.

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uso del cemento armato. Nel primo caso, la possibilità di attingere a un discreto fondo economico aveva permesso l’impiego di materiali più nobili e finiture di maggiore pregio. Nel secondo caso, potendo sfruttare la tecnologia del cemento armato, era possibile realizzare una Torre littoria unica nel suo genere. Questa rappresenta l’elemento di maggiore rilievo dell’intero complesso. Si componeva di due alte spalle murarie, sottili e slanciate, culminanti in un elemento di chiusura di forma semicircolare. L’intero corpo della costruzione, in cemento armato, era intervallato da interpiani che ne attraversano interamente la sezione alleggerendola. Al piede era posizionata una scalinata che s’interrompeva in un solaio aggettante con funzione di arengario. Era evidente la volontà, decisa e consapevole, di fugare i folclorismi regionali e puntare a un linguaggio moderno. Come accennato nella prima parte di questa trattazione, esiste un secondo macro-gruppo di costruzioni legate alle città autarchiche nate in prossimità di giacimenti minerari e carboniferi. In questo caso gran parte delle risorse economiche erano investite nelle opere di industrializzazione o di supporto alle attività di estrazione e lavorazione delle materie prime e dunque, anche le architetture di rifermento, subirono particolari trattamenti. Per prima cosa, a differenza di quanto accaduto per le città di fondazione, non vi era più dualismo tra gli elementi verticali. La caratterizzazione della Torre richiamava alcuni espedienti compositivi già visti per le sedi del fascio per piccole realtà dell’entroterra, specie per i rivestimenti in pietra nuda o per la tecnica di 191


lavorazione come nel caso di Carbonia 260. Nello specifico, alla robusta struttura si univa il paramento murario realizzato in bozze di pietra e l’inserimento di archi a tutto senso a sorreggere il balcone dell’arengario. In altri contesti, in cui la Torre mancava totalmente, la questione della riconoscibilità era affidata all’arengario attraverso la maggiore caratterizzazione dei paramenti decorativi come nel caso di Torviscosa nel friulano. Episodio circoscritto, invece, alla sola isola siciliana, quello che prevedeva due diverse strategie progettuali. A partire dalla seconda metà degli anni Trenta le opere di bonifica, ripopolamento e sfruttamento delle risorse minerarie e latifondiste si erano intensificate specie nell’entroterra siciliana. Quest’ultima si presentava «uguale ed ininterrotta all’osservatore, senza che una casa stia a testimoniare la presenza attiva dell’uomo che pur lavora quella terra» 261; a tal punto da ritenersi necessarie strategie di sviluppo mirato e programmi edilizi concreti e risolutivi. Da una serie di studi commissionati dall’Istituto Vittorio Emanuele III a Guido Mangano nel 1937 emergeva l’urgenza di realizzare opere assistenziali e infrastrutturali primarie per gli abitanti delle terre coltivate piuttosto che agglomerati edilizi dormitorio distanti dalle principali sedi di lavoro. La disamina, corredata di elaborati Al toponimo è legato un episodio curioso che fa comprendere il peso delle parole durante gli anni del fascismo: «Sono inquieto, perché sul giornale c’è scritto “l’autarchico carbone”, mente io ho detto “l’autentico carbone”. È un significato completamente diverso. Ah! Non ci sanno fare, sbagliano sempre tutto», Cfr. M.Suttora (a.c.), Mussolini segreto. Diari 1932-1938, Rizzoli, Milano, 2009. 261 Cfr. G.Tassinari, Centri rurali, presentazione del ciclo di volumi prodotti dall’Istituto Vittorio Emanuele III, Palermo, 1937; Cfr. F.Mangione, Le case del fascio in Italia e nelle terre d’Oltremare, Pubblicazione degli ACS, Roma, 2003, p.104 260

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grafici, documenti illustrativi e programmi socio-economici, forniva una serie di indicazioni sulla forma e sul carattere degli insediamenti e la tipologia degli edifici. Si articolava secondo tre tipi di agglomerati urbani, in base al bacino d’utenza e al numero di servizi: • piccoli centri con minimi servizi indispensabili • medi centri per le aree di confine a media densità • grandi centri dotati di tutti i servizi primari e secondari Solo nelle realtà di media e grande entità, oltre ai servizi postali, sanitari e commerciali organizzati intorno ad un’unica piazza quadrata, era previsto un fabbricato per la sede delle organizzazioni del PNF. Maggiormente dettagliato il dispaccio relativo i grandi centri rurali, organizzati su due piazze, una dedicata alle attività commerciali e l’altra a quelle socio-politiche, entrambe collocate in prossimità delle arterie stradali principali 262. A corredo delle disposizioni planimetriche generali erano delineate le linee generali circa l’aspetto dei manufatti che dovranno sorgere nei suddetti centri. L’imperativo categorico era l’economicità della costruzione e il massimo sfruttamento delle risorse locali. Dunque si sconsigliavano vivamente decorazioni di alcun genere demandando alla composizione e al cromatismo il compito di caratterizzare e differenziare le costruzioni. Altra indicazione riguardava la disposizione interna e il relativo 262

Cfr. G.Mangano, Centri rurali, Ist. Vittorio Emanuele III, Palermo, 1937, pp.25-30.

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organigramma funzionale. Aspetto, quest’ultimo, che il progettista doveva accuratamente pianificare specie nel numero dei servizi, senza incorrere in dispendiose ripetizioni. Infine erano elencate tutte quelle prescrizioni tecnico-igieniche fondamentali per la costruzione di manufatti dotati della massima efficienza prestazionale e del minimo costo263. Capitolo a parte era dedicato agli edifici di partito per i centri medi e grandi in cui il maggior numero di abitanti e di attività politico-ricreative, imponeva sedi dedicate, seppur raggruppate in un solo fabbricato. Solitamente le dimensioni potevano variare, ma si attestavano intorno ai 730 mc per le sedi medie e 1500 mc per quelle grandi. Dal punto di vista compositivo questi edifici, di un solo livello, si caratterizzavano per l’asciutto e austero stile, assolutamente privo di aggettivazioni decorative o retoriche, se non nelle immancabile acronimo di partito in ferro o nel classico fascio littorio. Non mancavano alcuni accorgimenti degni di sottolineatura come la copertura piana terrazzata - reminiscenza delle pratiche costruttive mediterranee -, l’uso di esili pensiline di raccordo con funzione di movimentazione dei fronti o la presenza di bucature ravvicinate, quasi a simulare una nastro. Facendo un bilancio dell’esperienza edilizia relativa alle città di bonifica, nuova fondazione e a carattere rurale, maturate durante il secondo decennio del governo fascista, Da preferirsi l’esposizione sud-est così da favorire l’areazione e l’illuminazione naturale. L’altezza interna dei fabbricati era fissata a 3.60 m con spessore murario di 0.40 m. Le pavimentazioni erano previste in quadrelli di cemento. Gli intonaci interni in malta di calce e sabbia e di tipo Livigni per gli esterni. Cfr. Ibidem pp.35-40. 263

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ci si imbatte in episodi di notevole pregio sia compositivo che urbanistico. Così come dettagliatamente descritto nelle numerose relazioni tecniche, negli elaborati di progetto o nelle analisi socio-politiche prodotte in questi anni, l’attenzione per lo sviluppo del territorio, lo sfruttamento delle risorse e la caratterizzazione identitaria dei manufatti, rappresentarono il nucleo delle politiche di governo. Di notevole interesse il tema della torre, elemento continuamente diviso tra rappresentatività e funzionalismo, molto spesso al centro di annose questioni compositive e planimetriche, tali da indurre tutti i progettisti a elaborare soluzioni sempre più sofisticate e complesse, per ovviare al problema della conflittualità con gli altri edifici dello stesso genere. Infine traspare la sincera volontà di imprimere modernità e progresso a queste realtà profondamente arretrate, mancanti dei servizi primari e architetture adeguate. Impulso di modernità che si concretizzava in opere edilizie dalla buona qualità costruttiva e dalla discreta cura stilistica, pur minate da pesanti ristrettezze economiche.

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Gerarchi davanti alla sede del fascio di combattimento, 1933 (in «Giornale della Campania. Vita di Caserta», ASP)

Gerarchi davanti alla sede del fascio di combattimento, 1933 (in «Giornale della Campania. Vita di Caserta», ASP)

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VI. Il caso di Caserta

A conclusione di questo percorso d’indagine sulle architetture, i linguaggi, i metodi di trasmissione e di esercizio del potere che in maniera trasversale hanno interessato tutta la penisola, si vuole porre attenzione, sia per familiarità dei luoghi che per singolari spunti di riflessione, sulle vicende occorse alla sede del fascio di Caserta. Trattare il singolo manufatto non può prescindere dall’analisi, quantomeno sintetica, dei caratteri peculiari dell’impianto urbano e dell’evoluzione dello stesso. Il singolare assetto dell’area casertana, contraddistinto in età medioevale e moderna dall’anti-polarità tra nucleo fondativo, (sito sull’altopiano del monte Virgo) e il sistema di casali e piccoli aggregati disposti nella fascia pedemontana aveva definito, a metà del Settecento, un complesso insediativo di modesta densità edilizia, perfetto per accogliere il nuovo centro nevralgico dello stato borbonico. Con l’acquisizione del fondo di Caserta da parte del sovrano Carlo di Borbone si era dato avvio al riassetto urbano e alla costruzione del magnifico palazzo vanvitelliano in zona Torre di Caserta. Il progetto del nuovo insediamento inglobò il palazzo degli Acquaviva di Aragona (Palazzo Vecchio), gli articolati giardini all’italiana che dal retro dell’edificio si estendevano fino ai casali di Aldifreda ed Ercole, il palazzo al Boschetto e la Pernesta, disposti all’interno del parco. La possibilità di utilizzare la forza motrice generata dal movimento delle acque caroline aveva 197


ÂŤGiornale della Campania. Vita di CasertaÂť, 6 ottobre,14 ottobre, 3 marzo, 1937 (ASP)

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innescato un serie di attività imprenditoriali a gestione mista di cui il complesso di San Leucio 264 ne era emblema. Alla fitta regolarità della centuratio classica che nel fuori scala del Palazzo Reale trovava unica decompressione, l’esperienza dell’impianto radile di matrice utopistica adottato per San Leucio, costituiva l’unico brano di città che variava rispetto al tema dell’ortogonalità generale. Osservando l’andamento dei principali assi viari - che come solchi d’aratro disegnavano la terra tufacea ai margini della città - si notava che, a prescindere dalla direzione in cui si traguardava, non ci s’imbatteva in ostacoli urbani o cortine edilizie spigolose ma, in maniera liquida, si attraversava il tessuto costruito, puntualmente inquadrato o dalle cave calcaree o dai monti Tifatini. Sistematicamente, dove l’orizzontalità deroga al vuoto urbano il compito di penetrare gli spazi e le percezioni, s’inserisce l’architettura in esame: silenziosa monumentalità intorpidita da sgrammaticate superfetazioni attigue. Per ricostruire la genesi, non solo compositiva, del manufatto è stato necessario, oltre alla consultazione dei principali fondi archivistici di riferimento, avvalersi delle notizie di cronaca locale 265. Particolarmente significativa la ricerca presso l’Archivio Centrale dello Stato (ACS) di Roma alla sezione dedicata al PNF. Il Real Sito di San Leucio rappresenta, in assoluto, uno dei più interessanti complessi architettonici realizzati nel secondo Settecento. Aspetti sociali, politici, economici, ampiamente dibattuti dalla critica, dimostrano come la maturità culturale di sovrani illuminati, si era riversata in questa comunità operaia, generando un codice legislativo, un esperimento di vita condivisa e un laboratorio di ricerca tecnologica. Cfr. R.Serraglio, Ferdinanopoli, La Scuola di Pitagora, 2017. 265 Principalmente: «Giornale della Campania. Vita di Caserta» presso gli Achivi di Storia Patria (ASP) e «Il Mattino» presso l’emeroteca Tucci. 264

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Controverse e non del tutto chiare, le vicende legate alla costruzione della sede del fascio casertano fino a quando, l’esigenza di realizzare un edificio ad esclusiva pertinenza di partito, si era palesata durante la seconda metà degli anni Trenta, a ridosso del ’37. Prima di allora, tutte le attività amministrative, burocratiche e di propaganda erano svolte all’interno dell’ala orientale, dell’emiciclo ottocentesco in piazza Margherita che ospitava la sede dei Fasci di combattimento 266. Dallo studio planimetrico del lotto in esame emergeva una diversa destinazione d’uso, antecedente alla sede del fascio. Tale ipotesi trovava conferma nella cronaca locale che, in data 3 marzo 1937, riportava dettagli sulla realizzazione di una «costruzione moderna perfettamente razionale» articolata intorno un grande vestibolo centrale che metteva in comunicazione gli ambienti laterali e la scala di servizio per l’accesso al piano superiore; confermando alcune scelte compositive rintracciabili nei successivi lavori di adeguamento. A occuparsi del manufatto adibito a mercato coperto l’ing. Luigi Campopiano e la ditta Vitali. Data la specifica destinazione d’uso, il progettista, aveva organizzato «un saggio di mostra di prodotti locali» 267 all’interno degli ambienti posti lungo le ali interne. Al piano superiore, sfruttando l’ampia metratura del grande salone, erano disposti gli uffici per le contrattazioni. Questo primo dato significativo riguardante il pregresso dell’edificio di Dispacci e comunicazioni fanno riferimento a questo edificio e in alcune foto dell’epoca, come riportato sui quotidiani, è possibile scorgere la scritta in ferro Fascio Casertano di Combattimento applicata sul prospetto. Cfr. ASP, Quotidiani e riviste, «Giornale della Campania. Vita di Caserta», 3 giugno 1933, p.1. 267 ASP, Quotidiani e riviste, «Giornale della Campania. Vita di Caserta», 3 marzo 1937. 266

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L.Campopiano, Casa del fascio, 1938, pianta del pian terreno. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)

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studio, permetteva di avvalorare alcune considerazioni sulla natura compositiva dell’opera e sul linguaggio adottato durante la fase di riprogettazione. Cruciale, ai fini della ricostruzione cronologica, la notizia della visita del federale E. Saraceno nei locali del mercato (3 marzo 1937), dalla quale si era confermata la compatibilità dell’edificio a ospitare la nuova Casa littoria 268. Secondo le prime indicazioni disposte dal federale, l’edificio doveva comprendere un «vasto salone pe le adunate, il Sacrario per i Caduti e trenta ampi ambienti per le sedi delle organizzazioni di Partito»; mentre altre trasformazioni dovevano interessare la piazza antistante 269. Sostanzialmente, visto il crescente numero dei tesserati e le numerose attività portate avanti dalla cittadinanza militante, oltre alla già congeniale conformazione dell’edificio sopracitato si era deciso di cedere a titolo definitivo il fabbricato del mercato coperto per la costruzione della sede di partito. A conclusione di un breve periodo di raccolta fondi e valutazione delle ditte candidate per la realizzazione delle opere di adeguamento, nel gennaio del 1939 venne ufficialmente aperto il cantiere. Dalle previsioni di Campopiano, i lavori si sarebbero dovuti concludere l’anno successivo ma per alcune difficoltà tecniche, si protrassero fino all’agosto del 1940 270. Come accennato, l’edificio, che negli anni tra il 1940 e il 1943 aveva ospitato la sede del fascio di combattimento casertano «Il federale ha visitato, in Piazza Amedeo, il Mercato Coperto, che sarà trasformato in Casa Littoria». Cfr. ASP, Quotidiani e riviste, 14 ottobre, 1937, p.4. 269 Con il «predominio inderogabile dell’igiene e della bellezza», ASP, Quotidiani e riviste, «Giornale della Campania. Vita di Caserta», 6 ottobre 1937, p.3. 270 Cfr., ASP, Quotidiani e riviste, «Giornale della Campania. Vita di Caserta», p.3. 268

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rappresentava una preesistenza già riconoscibile all’interno del tessuto urbano cittadino. Dalla relazione preliminare presentata dal progettista all’Ufficio Tecnico di Napoli 271 si poteva leggere che il fabbricato in questione era situato in Piazza Amedeo (ora Piazza Mercato), si componeva di un lungo corpo longitudinale con accesso principale prospiciente la stessa. L’impianto planimetrico, di forma rettangolare allungata, non spiccava per particolari attributi stilistici (data la funzione squisitamente commerciale) se non per grandi e lunghi tagli finestrati che ne segnavano il fronte e i due prospetti laterali. Varcato l’ingresso si era accolti nel grande vestibolo centrale, che fungeva da filtro e smistamento del pubblico, delimitato da quattro ambienti laterali, di cui uno utilizzato come blocco servizi per i collegamenti verticali. Superato il disimpegno, si era accolti in un unico grande spazio aperto, a doppia altezza, dal cui fondo si accedeva al giardino retrostante. Il piano superiore, a cui si accedeva tramite il corpo scala laterale, si articolava intorno un grande salone tripartito: la zona centrale, speculare al vano sottostante, e due laterali di lunghezza necessaria a servire i locali posizionati sui bordi esterni. Nel complesso, l’aspetto monolitico e la scarsa articolazione interna poco partizionata, ben si prestava agli interventi necessari per realizzare una soddisfacente e funzionale sede di partito. Fattore determinate per la scelta di questo fabbricato era, senza dubbio, la posizione. L’edificio, nato lungo una delle arterie principali della città, veniva a trovarsi 271

Cfr. ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b, Allegato n.1, p.1.

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L.Campopiano, Casa del fascio, 1938, pianta del primo piano. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)

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L.Campopiano, Casa del fascio, 1938, prospetto principale. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)

L.Campopiano, Casa del fascio, 1938, prospetto laterale. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)

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in prossimità di un grande vuoto urbano, strategicamente adibito a piazza per la vendita ortofrutticola. Come indicato dallo stesso progettista e, come descritto precedentemente nel corso della trattazione relativa alle caratteristiche principali delle case del fascio, la presenza dello spazio antistante aperto era fondamentale per lo svolgimento delle attività politiche e ginniche, nonché per arringare la folla durante i discorsi pubblici. Per quanto concerne il manufatto esistente data la struttura poco complessa e poco articolata, ma facilmente adattabile allo scopo, si era deciso di partizionare il salone al pian terreno in modo da poterne ricavare altri ambienti di dimensioni inferiori, tra cui uno da adibire a sala per le adunate. Dalla stessa frammentazione, all’intero del vano che veniva a trovarsi a sinistra rispetto l’ingresso principale, era allestita la palestra e alcuni piccoli ambienti di servizio. La conservazione integrale del vestibolo, così come originariamente previsto, assicurava il corretto smistamento del pubblico donando respiro e maggiore equilibrio generale. Una volta superata l’anticamera dell’ingresso si era accolti nel grande spazio porticato, cardine centrale della costruzione insieme alla torre littoria. La pilastratura regolare, di cui era composto il porticato, permetteva: il soddisfacente controllo degli ingombri restituendo una «sistemazione architettonica decorosa, ispirata al cortile dell’antica casa romana» 272; di ridurre l’eccessiva altezza di cui era dotato l’edificio e di innescare un gradevole movimento di masse prima 272

ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1228b, Allegato n.1, p.2

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mortificate. La scansione stereometrica del grande vuoto centrale, permetteva l’apertura di una serie di vuoti, in prossimità delle ali laterali, perfetti per accogliere gli uffici delle associazioni giovanili. Il piano superiore si presentava quasi interamente inalterato rispetto all’originale conformazione, eccezion fatta per l’inserimento della parete di fondo per ridurne l’eccessiva grandezza generale e poterne ricavare spazi maggiormente gestibili.Analogamente a quanto accaduto al pian terreno, l’inserimento del portico generava, al piano superiore, una lunga passerella che permetteva, contemporaneamente, l’affaccio sulla corte centrale e un comodo disimpegno per gli ambienti degli uffici amministrativi. Questi, dotati di anticamera per ricevere il pubblico, erano sobri e poco articolati ma sufficientemente dimensionati per permettere le quotidiane attività. Lungo l’ala est del fabbricato erano ubicati gli ambienti del: Fascio Femminile (FF), dell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), dei Giovani Universitari Fascisti (GUF), dell’Ufficio per lo Sport e il Consultorio. Specularmente, a ovest della costruzione, si trovava: la Segreteria, la Sala per le riunioni, l’Ufficio del Segretario Amministrativo e altri due locali di servizio. Per garantire una soddisfacente e corretta illuminazione era prevista l’apertura di due grandi lucernari vetrati posizionati in copertura che, per ragioni di economia e buono stato, era lasciata intatta. Altro elemento di assoluta particolarità, oltre al portico di gusto classico, era la torre littoria. Trattandosi di un fabbricato preesistente il tema della 207


L.Campopiano, Casa del fascio, 1939, pianta del pian terreno con schizzo della seconda ipotesi progettuale della Torre Littoria. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)

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L.Campopiano, Casa del fascio, 1939, prospetto principale con la seconda ipotesi progettuale della Torre Littoria. Ben visibili i simboli dell’ideologia e il loggiato a coronamento delle ali. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 1228b)


riconoscibilità trovava massima rappresentazione nello slancio della torre capace, da sola, di imporsi sulle costruzioni limitrofe, denunciando la presenta della sede del partito. La soprelevazione doveva poggiare direttamente sull’edificiomadre (pratica ben collauda e ampiamente utilizzata in altri contesti) fruttando parte dei muri esistenti, ma aggettandosi verso la piazza prospiciente. Tale risultato era ottenuto facendo avanzare l’elemento rispetto al filo del prospetto generando un convincente movimento plastico delle superfici. L’interno era caratterizzato dalla grande scala d’onore che permetteva l’accesso diretto al salone delle adunate posizionato al primo livello. A garantire adeguata illuminazione e sufficiente tono solenne, erano previste lunghe finestre vetrate che inquadravano tre fasci littori rivestiti in pietra, di altezza pari a quella del vano stesso che «si staglieranno sul fondo luminoso della finestra» 273. Dal piano di calpestio del salone delle adunate, nel punto in cui questo intercettava quello della torre era previsto il vano che permetteva l’accesso alla terrazza, inquadrata da massicce paraste in pietra, con funzione di arengario. La stessa balconata, oltre a rappresentare un elemento architettonico e decorativo permetteva, in corrispondenza dell’ingresso principale, di ottenere una pensilina in grado di offrire riparo dalle intemperie e dalla calura estiva, le persone che frequentavano la casa. Lo stesso elemento, nella parte corrispondente al primo livello determinava uno spazio esterno scoperto ad uso di arengario, utile per 273

ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1228b, Allegato n.1, p.3

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«dominare le masse» 274 perchè prospiciente piazza Amedeo. Per quanto concerne la questione del trattamento delle superifici, era previsto «intonaco a imitazione del tufo locale per il corpo principale prospiciente la Piazza ed imitazione di tufo di piperno per la Torre e i pilastri del porticato» 275. In relazione ai materiali di rivestimnto, il progettista aveva fatto notare che le intenzioni di base erano quelle di prediligere materiali reperibili in loco, questo per due motivi già descritto per latri manufatti. In primis, per rispettare le istanze di autarchia centrali nell’architettura di regime e, fondamentale, limitare i costi di realizzazione. Ciononostante, all’interno della relazione di presentazione del progetto, Campopiano aveva impotizzato l’impiego di materiali lapidei lavorati a faccia vista per la zona basamentale e la pietra per la Torre e il porticato interno qual’ora si fossero reperiti ulteriori finanziamenti. Successivamente, in data 27 gennaio 1939, il segretario ammnistrativo del PNF Giovanni Marinelli aveva comunicato di aver approvato il progetto per la sistemazione della «Casa del fascio» e le relative spese ipotizzate sollevando, però, alcune questioni relative al carattere dell’edificio. Per prima cosa si faceva notare una certa monotonia dei prospetti, troppo scolastici e scarsamente dotati di carattere identitario e dunque, si suggeriva di rivederne la resa per «conferire all’edificio forme di forza e nobiltà proprie di una casa Littoria e del tempo di 274 275

Ibidem. p.4. Ibidem. p.5.

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Mussolini»276. In questa occasione ritorna centrale il tema della riconoscibilità degli edifici di questa tipolgia, oltre alla sottolineatura stilistica relativa al tempo di Mussolini, che ben delina la volontà del regime di affermare la propria architettura. In relazione a quest’ultimo aspetto, si leggeva che la costruzione, pur dovendo denunciare chiaramente e senza ambiguità la propria presenza, doveva rispettare le «caratteristiche e tradizioni architettoniche locali» esaltandone l’aspetto identitario e del sito di realizzazione. All’atto pratico, per ovviare al piatto e freddo aspetto generale, si era suggerito di trattare con materiali speciali la cortina laterizia chiara di rivestimento del prospetto principale (indicato come della «Torre») e rivestire di tufo tutte e quattro le pareti che componevano la sopraelevazione della Torre. Altro aspetto interessante riguardava i cornicioni e i parapetti; questi ultimi dovevano essere realizzati in pietra e dotati di gocciolatoi dello stesso materiale così da emergere rispetto al resto del prospetto. Oltre a queste osservazioni di natura compositiva, si era fatto notare l’inadeguato dimensionamento degl’impianti sanitari, arredi interni non adatti alle funzioni predisposte e alcune perpessità relative al salone delle adunate e alle relative uscite. Infine, si suggeriva di stralciare, dalle opere di realizzazione principale, le attivià di falegnameria, ferramenta e tinteggiatura per contenere i costi totali. Tali osservazioni che, di fatto, si configuravano come vere e proprie prescrizioni programmatiche, avevano trovato 276

ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1228 b, Allegato n.3, p.1

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Prospetto principale, stato attuale (R.Cutillo, L.Spina, Ex Casa del Fascio Caserta, cronaca di un cantiere in avanzamento, Electa, Milano, 2008)

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seguito all’interno del resoconto di meta-progetto inviato dal progettista Campopiano all’Ufficio Tecnico Federale. Il documento, datato 9 gennaio 1940, conteneva il dettaglio delle opere fino a quel momento eseguite e alcune modifiche progettuali allo scopo di «dare la costruzione completa, definitiva e rispondente agli scopi ed alle esigenze della Casa del Fascio di Caserta» 277. In particolare, insime ai lavori di adeguamento tecnico, era segnalata: • maggiore altezza della Torre • decorazioni del prospetto su piazza Amedeo • prolungamento del corpo scala della Torre • parapetto della balconata interna alla corte Per quello che riguardava il primo punto, relativo l’altezza della Torre, si faceva riferimento al previsione inziale di sopraelevazione fino a 21 m complessivi. In seguito, per ragioni di ulteriore aggettivazione dell’elemento verticale in concomitanza del grande spazio aperto antistante, si era deciso di sopraelevarla di ulteriori 3.10 m raggiungendo l’altezza complessiva di 24.10 m. Tale scelta avrebbe permesso all’intera costruzione d’imporsi su quelle attigue configurandosi come faro della città. Il secondo punto riguardava il trattamento delle superfici e i relativi materiali utilizzati. Per la facciata principale e i risvolti, si era scelto di impiegare lastre di travertino lucido spesse 0.02m in modo 277

ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1228b, varianti in corso d’opera, p.1.

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da caratterizzare il fronte e definirne le parti, anche grazie all’aumento di spessore del rivestimento della zoccolatura. Sempre nella zona basamentale, in corrispondenza dell’ingresso, erano previste due ampie bucature trattate con telaio in legno di castagno e vetrate quadripartite dalle quali era possibile accedere al vestibolo. Trattamento differente era riservato ai due corpi di fabbrica laterali per i quali era previsto un rivestimento in «stucco a imitazione di lastre di travertino comprese fasce cornicioni e riquadri» 278, sempre lungo le ali era previsto l’inserimento di parapetti in pietra da taglio di travertino. In ultimo, l’intero vano scala era realizzato in blocchi di tufo con scalini rivestiti in marmo. Infine, per quanto concerna il camminamento posizionato in corrispondenza del salone della adunate con affaccio sulla corte, era stata (almeno nella fase inziale) predisposta una balaustra piena su ambo i lati e rivestita con intonaco ordinario. Per ragioni architettoniche e per conferire all’ambiente manggiore luminosità, proveniente della vetrate interne del primo livello, si era deciso di sostituirlo con una parapetto con ringhiera in ferro 279. Nonostante alcune difficoltà tecniche relative al posizionamento del corpo della Torre e alla sua staticità, che avevano posticipato i termini di fine lavori di quattro mesi , l’edificio era stato consegnato alla Federazione dei Fasci di Combattimento il 9 luglio 1940, decretando la fine delle vicende costruttive della Casa 280. Pur dotato di ogni elemento essenziale allo Ibidem. p.2, punto 8a. Ibidem. p.7, punto 2e. 280 ACS, PNF, Seg.Amm., Serie II, busta 1228b, stato finale, 1940. 278 279

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svolgimento delle attività politiche e sociali e pienamente rispondente alle prescrizioni iniziali, l’edificio, ebbe un ciclo di utilizzo piuttosto breve. Tranne che per alcuni sporadici episodi e per l’incombere della Seconda Guerra Mondiale, il manufatto, non era mai stato impiegato per lo scopo per il quale era stato progettato 281. In conclusione, dopo diversi anni d’abbandono, era stato acquistato da una grande azienda di bevande (IBG spa) e avviato, agli inizi degli anni 2000, ad un nuovo pesante progetto di rifunzionalizzazione. Tale intervento porta la firma dell’architetto casertano Raffaele Cutillo 282 , titolare dello studio di progettazione Ofca, con la collaborazione ingegneristica dello studio Sir - Ingegneria e ricerca. L’intervento (concluso nel 2006), prevede l’inserimento di una scatola architettonica interna, indipendente rispetto a quella presistente, comportato il rimaneggiamento dell’assetto strutturale generale, specie nei riguardi dei grandi filari murari perimetrali, della copertura Mohniè e del corpo della Torre. Attualmente il piano terra, costituito da un grande open space, è adibito a sala per mostre e conferenze, mentre i livelli superiori ospitano gli uffici ammnistrativi dell’azienda di bevande presieduta da Rosario Caputo. L’intero progetto fonda su rapporti dicotomici, ora materici ora spaziali, che ne segnano l’identità. Alternanza perenne tra il traslucido degli acciai Era stato prima Mercato Ortofrutticolo, poi Casa del Contadino, Club per Truppe Alleate, Sede delle Organizzazioni Sindacali Democratiche Operaie e Contadine, Sede dei Reduci di Guerra, Ufficio Provinciale del Lavoro e Istituto d’Igiene e Profilassi 282 Le fasi di cantiere e di progetto, corredate di numerose, sono contenute nella pubblicazione Ex Casa del Fascio Caserta, cronaca di un cantiere in avanzamento, a.c. R.Cutillo, L.Spina, Mondadori Electa, Milano, 2008. 281

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e l’opaco dei vetri o tra il travertino a graniglia purpurea e il candore del marmo bianco, determinano uno spartito cromatico inedito. Evidente e chiaramente dunciato nei cambi di colore da ocra a bianco, il lembo che separa nuovo da esistente capace di configurarsi come fil rouge dell’intero processo di recupero. Tralasciando le successive trasformazioni che hanno interessato il manufatto in esame, colpisce la singolarità di alcuni accorgimenti tecnici e formali inediti a tutta quella letteratura di case del fascio descritte fino ad ora. Al fronte scolastico, quasi predeterminato nei suoi elementi iconici, fa da contr’altare l’interno a doppia altezza scadito dalla serialità del peristilio o dal ballatoio continuo con affaccio sulla corte, certamente inedito nel suo utilizzo. In definitiva, alla luce di quanto analizzato durante la fase di ricerca dei modelli generali di case del fascio, è corretto affermare che, seppur annoverabile tra quelli monocostituiti aventi l’elemento Torre direttamente connesso all’edificio-madre e prospiciente uno spazio aperto, fugge da ogni altra catalgazione di genere a causa dell’inedita soluzione progettuale interna.

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VII. Conclusioni

Partendo da quanto descritto nelle battute finali relative al caso studio, si vuole porre l’attenzione su alcuni aspetti emersi durante il percorso di ricerca. Le scelte compositive adottate durante le fasi di rifacimento dell’oggetto architettonico oscillano, continuamente, tra rispetto della memoria storica - specie nell’impaginato esterno e per il trattamento delle superfici - e profondo stravolgimento dell’apparato interno, completamente alterato rispetto la configurazione originaria. La scelta di operare nel ventre dell’edificio, minandone pesantemente la spazialità natia, apre ad alcune riflessioni significative. Da un lato permette di cautelarsi, sottraendosi alla difficile questione del trattamento dei fronti, dall’altro ne nega, inevitabilmente, il rapporto dialettico tra interno ed esterno, quasi ponendo i due organismi su livelli differenti e non connessi tra loro. Pur preservandone l’aspetto monumentale, ancora del tutto palese nelle verticalismo della Torre o nel rapporto di scala con le costruzioni limitrofe, tradisce un’interno completamente privato della sua vocazione d’impluvium di gusto classico. Reminiscenza non da leggersi in chiave classicista ma secondo quei principi di godibilità, armonia delle masse e fruibilità degli spazi propri della casa romana. Principi che, all’epoca, avevano spinto il progettista ad attingere a quel repertorio di strumenti tradizionali capaci di esplicare concetti moderni, ora tarpati da necessità 218


Appendice A In successione gran parte del materiale raccolto durante la fase di ricerca, utile a chiarire alcuni aspetti specifici riguardanti i temi trattati, ma che per economia di contenuti non è stato inserito nel testo. In particolare le proposte di modelli tipo per case littorie di media grandezza e a carattere rurale o dell’entroterra.


V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, pianta del pian terreno, pianta primo piano, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)


V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, sezione longitudinale, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)

V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, prospetto del blocco servizi, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)

V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, prospetto posteriore, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)


V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, prospetto principale e sezione longitudinale, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)

V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, sezione longitudinale sul blocco servizi, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)

V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, sezione longitudinale sulla palestra, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)


V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, bozzetto per la sala d’onore, 1939.


V.Ricci, Progetto tipo di casa littoria per centri di media importanza, 1939. (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II, busta 452b)


Carlini, Ferrero, Casa littoria tipo, Terzo classificato per concorso per Casa littoria tipo, pianta pian terreno, 1939 (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II., busta 453b)

Carlini, Ferrero, Casa littoria tipo, Terzo classificato per concorso per Casa littoria tipo, sezione logitudinale, 1939 (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II., busta 453b)


Carlini, Ferrero, Casa littoria tipo, Terzo classificato per concorso per Casa littoria tipo, prospetto principale, 1939 (ACS, PNF, Seg.Amm, Serie II., busta 453b)


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Periodici a soggetto: «Edilizia moderna» «Edilizia moderna», editoriale, n.19-20, ottobre, 1934. «Edilizia moderna», editoriale, n.2, settembre, 1936. «Edilizia moderna», editoriale, n.21, aprile, 1936.

Periodici a soggetto: «Emporium», «Quadrante» A.Nezi, La rinascente identità classica nella composizione monumentale della città, in «Emporium», gennaio, vol.LXIX, n.409, 1929. AA.VV., Bilancio della IX Triennale ´Architettura spontanea´, in «Metron», n.43, settembre-dicembre, 1951.


Indice dei nomi A Ottorino Aloisio pag. 146 Giorgio Amendola pag. 16 P.Angeletti pag. 139 Mario Angelini pag. 137,163 F.Anzi pag. 99 Apolloni pag. 121 Arbizzani pag. 98 G.C. Argan pag. 47 R. Aron pag. 21 Aschieri pag. 57 C. Autore pag. 142 C.Aziomonti pag. 93 B Bacigalupi pag. 98 Rina Balla pag. 28 Ballerio pag. 121 Banfi pag.62,108 P.Barocchi pag. 28 P.M. Bardi pag.41,55,56,62,69,108,114 W.C.Bauer pag. 94 L. Beirer pag. 92 Belgiojoso pag. 108 J.J. Bekker pag. 92 C.Belli pag. 41,47,48,61, 66,67,114 H.P. Berlage pag.39,40,94,95 D.Bertugno pag.77 Renzo Bianchi pag. 108 F.Biscossa pag. 48 Boccioni pag. 28 Bologna pag. 98 M. Bontempelli pag. 41,47,48,49,50,51,62 Bordonaro pag. 121 F.Borsi pag. 99 G.Bottai pag. 29,55,79 Brasini pag. 84 E.Braun pag. 29 Bucci pag. 28 A.Buonaurio pag. 77 P. Buscaglione pag. 26 G. Butz pag. 137

C R.M.Cagliostro pag.150 Guido Calza pag. 57 A.Calza Bini pag. 61,84 T. Campanella pag. 18 Luigi Campopiano pag. 197,199,207,211 Cancellotti pag. 185 E.Casini pag. 77 Giuseppe Capponi pag. 67 E. Carli pag. 71 Carminati pag. 118,153 R. CarrĂ pag. 28 Ceas pag.188 Carlo Celeghin pag. 162 M. Cennamo pag.55 M. Cereghini pag. 110 Edwin Cerio pag. 84 E.Cerutti pag. 72 Gino Chierci pag. 83 Cesare Chiodi pag. 85,162 Rosario Caputo pag.214 Gherardo Casini pag. 55 Ciambellotti pag. 121 G.Ciocca pag. 72 M.Cioli pag. 82 G. Cipriani pag.186 G. Ciucci, pag. 33,42,69,155 V. Civico pag. 186 D. Clasen pag. 18 F.Cordova pag. 149 L.Costello pag. 170 C.Cresti pag. 53,57,61,83,86 Crispi pag. 97 E.Crispolti pag. 28 B. Croce pag. 6 Raffaele Cutillo pag. 214


D F. Dal Co pag. 69 L. Daneri pag. 117,163 S.Danesi pag. 60,61,73 G. Daniel pag. 69,70,72 G.De Carlo pag. 72 M. Jean Caritat de Condorcet pag. 19 De Felice pag. 12 A.De Groot, pag. 39,92 Del Debbio pag. 57,105,106,120 Renato De Martino pag.131,183 M. De Michelis pag. 39,92 Flaminio De Moja pag. 149 G. De Nicola pag. 78 Mario De Renzi pag. 30,33 Cesare de Seta pag. 44,45 Dudok pag. 58 Dudreville pag. 28 E Eatwell pag. 9 P.Eisenman pag. 115,122 G.Ernesti pag.50 J.Evola pag. 85 F S.Falasca pag. 23 A.Farassino pag. 101 Fasolo pag.57 F.Ferrarotti pag. 84 Figini pag. 48,61,62,63 D. Filippone pag.120 V.Fontana pag. 99 P.Fossati pag. 50 M.Fosso pag.157 Michel Foucault pag. 102,103 B. Franklin pag. 19 Franzi pag.160 Luigi Freddi pag. 30,101 G. Frette pag.118 Oriolo Frezzotti pag.183 Via Funi pag. 28 E. Fuselli pag. 86

G Italo Gamberini pag.120 Gardella pag. 117,160,161 E. Gentile pag. 9,13,15,16,19,24,39 D.Ghirardo pag.115 Giedion pag. 62 J.A.Gili pag. 30 L. Giordani pag.172 Giovannoni pag. 56,82,83,84 P. Gobetti pag. 16 S.H.Goddard pag. 93 I.Golomstock pag. 27 D. Grandi pag. 17 B.Gravagnuolo pag. 53,61,66,83,86 Griffin pag.9,42 Gropius pag. 62,63,67 G.Guarino pag. 70 M. Gucci pag.120 Guerrini pag. 121 J M.Jones pag. 77 H F.Haskell pag. 23 A.Hewitt pag. 27 J.Hoffmann pag.66 Victor Horta pag. 92,99 K V.Klemperer pag. 26 G.Klutsis pag. 34,35 L R.LaganĂ pag. 146 Lagardelle pag. 62 J.C. Lamagny pag. 30 E. Lapadula pag. 84,113,121 W. Laqueur pag. 12 R. Lavagnino pag.186 Le Corbusier pag. 40,46,48,49,61,62,67 A. Legnani pag. 159 R. Leone pag.142 A. Libera pag. 30,33,36,37,42,43,54,186 Limongelli pag.57 J.J. Linz pag. 9,12 El Lissitzky pag. 35


Adolf Loos pag. 57,58,66 N Biagio Lorenzetti pag. 78 G.Nardini pag. 170 Mario Loreti pag.163 M.L.Neri pag. 81 L.Lotti pag. 99 S. Neumann pag. 21 M.Lupano pag. 82 A. Nezi pag. 54 M P.Nicoloso pag .41,50,87 Guido Mangano pag. 190,191 L.Nuti pag. 181 F.Mangione pag.159,161,162,172,183,186,190 O E.Mantero pag.157 Joseph Maria Olbrich pag. 66 Giovanni Marinelli pag. 207 Oppi pag. 28 Malerba pag. 28 Ugo Ojetti pag. 89 G.Manacorda pag. 96 D. Ortensi pag. 185 Mancini pag. 163 P Ugo Mannajuolo pag.139,142 Pagano pag. 41,46,58,59,69,70,71,72,73,74,80,108 Mansutti pag. 113 Roberto Pane pag. 61,67,73,75,83 Maraini pag. 61 M.Paniconi pag. 161 A.F.Marcianò pag. 155 Vittorio Franchetti Pardo pag. 81,82 V.Marchi pag. 67 M. Pasetti pag. 10 Plinio Marconi pag. 68 M. Passanti pag. 118 Marinetti pag. 28,84 L.Patetta pag. 54,60,73 R.Martinelli pag. 160,181 R.O. Paxton pag. 9,10 Marussige pag. 28 S.G. Payne pag. 9,12,13 Giuseppe Meccoli pag. 172,173 Peressutti pag.62,63,108 Melnikov pag. 35 Edoardo Persico pag. 41,46,62,63,64,162 Erich Mendelshon pag. 60,113 Piacentini pag. 41,56,61,82,84,87,121 L.Menozzi pag. 149 A.Pica pag.71,117 Messina pag. 101 Luigi Piccinato pag. 86,185 Mezzanotte pag. 28,106 K. Polanyi pag. 20 Mies van der Rohe pag. 58,59,63,67 Ponca pag. 121 O.Milella pag.151 Pollini pag.61,62,63 Gaetano Minnucci pag. 43,54 G. Ponti pag. 28,48,162 Miotto pag. 113 F.Portanova pag. 66 F.Montevecchi pag. 97 P.Portoghesi pag. 99 Montuori pag. 185 G.Procacci pag. 96 L. Moretti pag.113 Q R.Mormone pag. 83 L. Quaroni pag. 186 G.Mosse pag. 21,26,100 R B. Mussolini pag. 17,27,30,53,62,81,87,183,210 E.Ragionieri pag. 99 Muzio pag. 28 C.E. Rava pag. 42,43,44,46,64 Giovanni Muratori pag. 71,186 Luigi Razza pag. 149 V. Recchioni pag. 77 Renato Ricci pag. 87 M. Ridolfi pag.113


Rogers pag. 62,108,114 Romanelli pag. 101 Romani pag. 28 Romano pag. 121 J.A. Rooseboom pag. 92 A. Rosmini pag. 48 A. Rossari pag. 82 L. Rossetti pag.137 P. Ostilio Rossi pag. 84 D.Rossi pag.142 A. Ruillé, pag. 30 J.J. Rousseau pag. 19 Russolo pag. 28 S G.Sabatucci pag. 16 C.A. Sacchi pag.118 C. Salaris pag. 27 L. Salvatorelli pag. 15,16 G. Samonà pag. 72,121,142 T. Sanders pag. 94 Sant’Elia pag. 41 E. Saraceno pag.199 Margherita Sarfatti pag. 29 A. Sartoris pag. 42 Scalpelli pag.185 T.L. Schumacher pag.50 Schinkel pag. 66 R.Serraglio pag. 195 L. Settembrini pag. 19 Severini pag. 28,46 Thomas J. Shumacher, pag. 33 M.Silana pag.72 P.Singelenberg pag. 94 Sironi pag. 28,29,35,37,38,101 O. Spengler pag. 85 G.S. Sonnino pag. 99 Sorel pag.62 Robert Mallet-Stevens pag. 129 M.S.Stone pag. 29 Luigi Sturzo pag. 20 J.Stuyt pag. 95 E.Sulsmec pag. 81 M.Suttora pag.190

T M.Tafuri pag. 51, 69,115 Angelo Tasca pag. 9 G.Tassinari pag.190 E. Tedeschi pag. 186 Terragni pag. 33,34,35,42,48,49,50,51,61,114,11 5,118,153,154 Testoni pag. 98 P.Togliatti pag. 88 Torri pag. 160 D.Toschi pag. 79 Triani pag. 98 V Vaccaro pag. 113 G. Vagnetti pag.121 P.Vago pag. 129 A.Valente pag. 36,37,41,42 C. Valle pag. 110,118 Henry van de Velde pag. 93 G.Veronesi pag. 64 Vietti pag. 117,160,161 G.Viola pag. 121,142 E. Voegelin pag. 20 F. Voigt pag. 21 W Winter pag. 62 M.Woods pag. 77 Z M . Zamponi pag. 23 N.Zapponi pag. 87 Bruno Zevi pag. 44 E. Zoppi pag. 77 S. Zukin pag. 77


Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro, ringrazio gli dei chiunque essi siano per l’indomabile anima mia. Nella feroce morsa delle circostanze non mi sono tirato indietro né ho gridato per l’angoscia. Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo è sanguinante, ma indomito. Oltre questo luogo di collera e lacrime incombe solo l’orrore delle ombre, eppure la minaccia degli anni mi trova, e mi troverà, senza paura. Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono il padrone del mio destino: io sono il capitano della mia anima. (Wiliam Ernest Hemley, Invictus, 1888)


Alla granitica professionalità del mio relatore. Alla sua capacità di trasmettere saperi e lucide suggestioni. All’imperscrutabile e sempre vigile dedizione del mio correlatore. Alla sua silenziosa perseveranza nel credere nelle mie idee. Alla mia famiglia, inviolabile certezza del mio essere. A mia madre, animo puro, incontaminato esempio di vita. A mio padre, modello di rettitudine, sconfinato orizzonte d’affetto. A mio fratello, ardente fiamma di curiosità. A Frank, baluardo inamovibile nella tempesta quotidiana. A Riccardo, fonte cristallina di eterna fiducia. A Peppe, amico sincero, spirito indomito. A quel sorriso magnetico.



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