SOTTO IL KIMONO NIENTE Note sull'abitare giapponese
Antonio Buonaurio - Elia Zoppi
SOTTO IL KIMONO NIENTE Note sull'abitare giapponese
progetto di ricerca a cura di: Arch. Antonio Buonaurio, Arch. Elia Zoppi
Testi: Arch. Antonio Buonaurio Progetto e disegni: Arch. Elia Zoppi
Premessa L’intento di questo saggio, non ha certo la pretesa di riassumere il complesso universo, semantico e rappresentativo, che circonda il concetto di abitare; piuttosto tenta di mettere in relazione tradizioni e culture differenti, declinandole secondo lo stesso comune denominatore. Ragion per cui il tema dell’abitazione tradizionale giapponese, sarà analizzato secondo le categorie - tipologiche e costitutive - proprie dei modelli occidentali che molto vi hanno attinto nel corso della storia. Prima di entrare nel merito della narrazione è doverosa una nota interpretativa utile a comprendere l’intimo legame tra uomo e spirito dell'abitare. Riflettere sul tema dell’abitare significa riflettere su se stessi. Il primo processo logico che l’individuo compie, nell’atto del concepire lo spazio che lo circonda, è quello di occuparlo con il proprio essere. Dal punto di vista etimologico abitare [a·bi·tà·re] deriva dal verbo latino habitare che, nel frequentativo habere definisce la massima espressione 'dello stare', 'del dimorare' e dell’essere abituato a. La matrice habeo, che ne esplica il concetto del possesso, apre alla dimensione dell’interazione, della consuetudine e dello stare al mondo in maniera continuativa. Dunque abitare, più che definire un luogo specifico è prefigura del proprio, personalissimo, modo d’intendere lo stare e del ritrovarsi. Abitiamo, contemporaneamente, lo spazio fisico del reale e quello immaginario astratto, di cui siamo contenitori. Siamo quindi casa di noi stessi. Lo spazio abitativo, con le sue pareti visibili e invisibili, delimita il dentro e il fuori, l’io dall’altrui, segnando il recinto delle interazioni. L’abitare vive del dualismo tra natura e artificio. L’arte del comporre, o del determinare lo spazio dell’intimità, si carica di qualità estetiche superandone il dato puramente funzionale.
Per comprendere le caratteristiche tipologiche e funzionali della casa giapponese è sufficiente analizzare uno tra i centinaia di templi disseminati lungo tutto il territorio nipponico. La silente compostezza dell’edificio, l’asciuttezza della forma e il rigore della tecnica costruttiva, fanno di questi luoghi l’emblema dell’architettura tradizionale del Sol Levante 1. Aspetto che ci pone immediatamente davanti al primo spartiacque tra l’arte edificatoria orientale e occidentale. Se da un lato, la volontà di operare in simbiosi con l’ambiente naturale riconoscendole il predominio sull’uomo e la pratica di organizzare lo spazio con andamento orizzontale continua a connotare le architetture orientali, dall’altro il desiderio spasmodico di dominare gli elementi ha contraddistinto gran parte della storia dell’architettura europea segnandone gli esiti. Basti pensare alla straordinaria stagione del gotico che, nel suo verticalismo estremo, ha avvicinato l’uomo alla divinità imponendosi sulla natura 2. Analogamente, il differente impiego dei materiali da costruzione, dettato da logiche culturali e da facilità di reperimento, ha segnato profondamente la maniera di concepire lo spazio in grado di trasmettere mistiche suggestioni specie nell'uso ragionato dei piani orizzontali e meno alla ricerca dell'ornamento come cifra stilistica. Passando in rassegna i principali elementi di cui si compongono le abitazioni giapponesi, ci si accorge immediatamente della meticolosa e oculata distribuzione di spazi e funzioni. Ancor prima di giungere all’abitazione, quasi sempre, si è invitati a percorrere una sottile lingua scoperta che dalla strada carrabile permette di accedere alla residenza. La scelta di differenziare i percorsi, l’uso di materiali di rivestimento differenti per le pavimentazioni rispetto a quelli impiegati per la dimora, sottolinea la volontà decisa di scindere i diversi ambiti, dettando tempi e percezioni. Come accade in certi rituali della religione buddista, l’accesso non segna semplicemente il passaggio tra pubblico e privato, tra interno ed esterno,
come si è soliti concepire in occidente grazie all’artificio della soglia, ma un vero e proprio passaggio di stato, di condizione psicologica che predispone l’individuo a ciò che accadrà all’interno. Tale zona, ormai entrata nell’immaginario collettivo, è denominata genkan, avente funzione di filtro e di deposito delle calzature. Il progressivo passaggio, che dal caos della strada conduce al silenzio della residenza, non è semplice volontà di annullare la promiscuità dei percorsi ma una precisa scelta progettuale. Ne definiscono una straordinaria tipologia le case del thé: piccoli manufatti realizzati all’interno di giardini dotati di sofisticati percorsi di accesso - per predisporre lo spirito alla contemplazione - ed estrema cura dei dettagli, pensati per creare un’atmosfera calma e rilassante fondamentale per lo svolgimento della cerimonia. Tornando alla residenza, l’interno si presenta rigoroso e geometrico nell’impronta a terra e unicamente partizionato da pannelli scorrevoli leggeri in carta traslucida che avvolgono i corpi, trasformandoli in ombre, preservandone l’intimità. Simultaneamente, grazie alla facilità di montaggio e di disposizione, permettono ora di ottenere grandi sale per intrattenere gli ospiti ora di delimitare i luoghi dell’intimità della zona notte o della cucina. La pavimentazione, basata sul modulo del tatami (180x90 cm, con spessore 5 cm) garantisce il pieno controllo dello spazio oltre alla straordinaria capacità coibentante e insonorizzante del bambù e della fibra vegetale con cui è realizzata. L’arredo, sobrio e scarno nella dotazione si limita a capienti armadi a muro, spesso utilizzati come divisori o tamponamenti, pur non trascurandone il dato estetico grazie all’impiego di legnami intarsiati. Altra particolarità presente nella maggior parte delle abitazioni è il tokonoma, che si compone di un’asola o di una piccola nicchia, praticata all’interno dei muri perimetrali, ospitante una composizione floreale o un rotolo calligrafico. Tale elemento, che trascende la componente estetica in quanto segno dello spiritualismo intimo di ogni abitante, fornisce la
Determinanti gli studi dell’architetto Nishizawa Ryue poi sintetizzati in numerosi progetti di abitazioni, eseguiti in collaborazione con Kazuyo Sejima con la quale, dal 1995, dirige l’ormai celebre studio associato SANAA. 2 «Mentre gli architetti occidentali combattono gli elementi della natura, i giapponesi, ammirando il loro potere, hanno creato il modo di utilizzare il loro fascino». Così commentava lo studioso e storico statunitense Daniel Boorstin nel libro The Creators edito da Randon House nel 1992. 1
misura del rapporto tra individuo e sistema abitativo e sistema abitativo e ambiente circostante, sempre denunciato chiaramente. La continua ricomposizione dei piani verticali e orizzontali dell’edificio, oltre ad anticipare alcuni concetti dell’architettura razionalista ben più moderni, stravolge le percezioni aumentandone la componente dinamica. Procedendo verso l’alto, si giunge all’elemento chiave di queste architetture: la copertura 3. Frutto di precisi studi di masse e di rapporti proporzionali che tengono conto delle variabili climatiche e metereologiche, si compone di massicce travi in legno disposte in telai regolari. L’intero peso della costruzione grava sul sistema di fondazioni superficiali pensate per assecondare le frequenti oscillazioni del terreno. Ciò che sorprende e che ne determina l’assoluta singolarità è la tecnica costruttiva. Ogni elemento strutturale si presenta privo di giunti o connessioni, garantite esclusivamente tramite millimetrici sistemi ad incastro - uno tra tutti quello a coda di rondine bypassando chiodature e cordature. Lo straordinario uso dei materiali e la perizia dei costruttori ha reso celebri queste architetture, non solo per la capacità di arginare i violenti moti dinamici del terreno, ma per la risoluzione di alcuni nodi compositivi e di relazione tra edificio e natura. Alla luce di quanto analizzato sino ad ora, è interessante notare come alcuni dei personaggi più emblematici e rappresentativi della storia del movimento moderno internazionale si siano interrogati sul tema della casa giapponese restituendoci un ricco ed eterogeneo catalogo di spunti di riflessione 4. Primo tra tutti a declinare la categoria della casa giapponese è Frank Lloyd Wright. Come traspare dalla sua biografia, si compiaceva di aver «trovato, infine, un Paese sulla terra in cui la semplicità, in quanto ‘naturale’, regna
suprema. I pavimenti di queste dimore giapponesi sono tutti costruiti per viverci: per dormirvi, per inginocchiarvisi e mangiare, su soffici stuoie di seta, e meditare. Pavimenti sui quali sonare il flauto, o sui quali amare» 5, indugiando sulla questione del dimensionamento spaziale quale «esempio perfetto della standardizzazione moderna» 6. Il legame con la cultura giapponese e le profonde commistioni stilistiche e semantiche tra linguaggio europeo e orientale, avevano generato una delle architetture più colte della produzione wrightiana: l’Hotel Imperiale di Tokyo (1970). Parallelamente, non rappresenta una coincidenza l’influenza dell’orientalismo architettonico sulla narrativa di un altro maestro della modernità come Bernard Rudofsky il quale, da Fulbright Sholar, aveva trascorso diversi anni in Giappone per perfezionare la conoscenza di questo meraviglioso bacino di stimoli 7. Le affinità, più o meno elettive, tra questi due personaggi - probabilmente meno note alla storiografia - trovano riscontro oggettivo in molti prodotti di architettura oltre che in numerosi carteggi. Per l’americano, già all’interno dei celebri Wasmuth Papers, dove la linea orizzontale domina e la fusione tra aggregazioni volumetriche e rapporto con l’ambiente circostante si rincorrono mirabilmente in straordinarie litografie, l’eco della cultura giapponese non si limita a semplice fascinazione. Di tutta la produzione architettonica di Wright, perfino l’iconica Fallingwater, capofila del modernismo americano, presenta non poche analogie con l’abitazione tradizionale giapponese, sia solo per lo scambio dialettico tra residenza e natura quale conditio sine qua non della composizione. La vegetazione, rigogliosa e lussureggiante degli alti latifogli, penetra nelle viscere dell’abitazione annullando il concetto di dentro e fuori, così come per la pavimentazione in
«La bellezza più visibile dell'edificio è il tetto, con le sue curve e la modellazione scultorea. Gli stili dell’architettura Shintoista si distinguono proprio per i tetti e la gerarchia d'importanza degli edifici non è in base alla loro altezza - come in occidente - ma per la conformazione del tetto». Daniel Boorstin, The Creators, Randon House editore, New York, 1992. 4 Particolare, quanto esaustiva, la retrospettiva Japan, l’achipel de la maison, presentata a Parigi nell’agosto 2015, da Véronique Hours, Fabien Mauduit, Jérémie Souteyrat e Manuel Tardits. Grazie all'allestimento essenziale, che punta a trasmettere l’effimera leggerezza delle abitazioni nipponiche, i curatori s’interrogano sul rapporto tra antico e moderno proponendo oltre 70 modelli di soluzioni progettuali: da Toyo Ito a Kenzo Tange, da Arata Isozaki a Sou Fujimoto. 5 F.L.Wright, An Autobiography, Pomegranate Europe edizioni, Warwick, 1943, p.196. 6 Ibidem p. 175. Ora in B.Oddera, Una autobiografia, Jaca Book, Milano, 1985. 7 Da non trascurare il contributo di un altro grande protagonista della modernità turco-ottomana: Sedad Eldem che fece della lezione giapponese uno dei cardini della propria poetica compositiva, evidenti in alcune sue celebri realizzazioni. 3
pietra, ora piano di calpestio del grande salone ora rivestimento della terrazza esterna. L’impianto planimetrico, apodittico nella lettura in pianta, si rivela estremamente didascalico dell’impaginato generale, rinnegando ogni superfetazione compositiva non necessaria alla decodifica del dispositivo abitativo. Ciò si traduce in una lunga enfilade di servizi al piano terra, in stretta analogia con la disposizione dell’abitazione tradizionale giapponese: rigorosa, minimale, priva di orpelli decorativi e a sviluppo orizzontale 8. Concetti sviluppati e approfonditi - probabilmente estremizzati - da Rudofsky in uno dei più autorevoli testi sulla cultura nipponica da cui emergono importanti considerazioni relative alla straordinaria capacità delle architetture giapponesi di anticipare i caratteri del moderno poi palesatisi diversi anni dopo 9 . In particolare, l’autore, pone l’accento sugli elementi formali e la relativa capacità di comporre lo spazio grazie alla struttura e alle partizioni verticali. Secondo l’autore, quelli appena elencati, costituivano l’essenza dell’architettura e gli unici mezzi in grado di tenere insieme la componente vernacolare e quella funzionale al fine di realizzare un prodotto di alto lirismo spaziale. Modularità degli elementi costruttivi, chiarezza d’impianto, partitura geometrica della facciata, rigore strutturale e simbiotico rapporto con lo spazio naturale, sono solo alcuni dei caratteri peculiari della dimora giapponese che, ancora oggi, suggestiona gli intellettuali di ogni latitudine. Più che considerare l’architettura giapponese come il ripetersi di pratiche consolidate e dal millenario retaggio come accade nelle cerimonie del thé - in cui la routine non assume carattere di automatismo ma ne costituisce pretesto per eccellere, è fondamentale riconoscerle quell’attitudine innata alla poesia dello spazio. Relativamente a
quest’ultimo aspetto, assumono carattere di vaticinio le parole di Rudofsky di seguito riportate: «non è solo nei principi utilitaristici che i giapponesi eccellono; hanno l'abilità di infondere poesia, anche magia, in spettacoli di routine e situazioni che non hanno fascino per noi. Il bagno è una di queste. Il sonno un altro. Il tocco soporifero del letto giapponese è una tenda tanto eterea quanto sontuosa».
«Le linee orizzontali sono le linee dell’abitare». F.L.Wright, Drawing and Plans of Frank Llyod Wright, Dover Publications, New York, 1983. 9 Si fa riferimento al testo The Kimono Mind, an informal guide to Japan and the Japanese scritto da Rudofsky nel 1965 di cui si riporta un estratto significativo: «La tradizionale casa giapponese ha preceduto la nostra cosiddetta architettura moderna da diversi secoli. Struttura a scheletro, piano aperto, pareti scorrevoli sono entrate solo di recente nella nostra architettura, mentre pareti rimovibili e pavimenti resilienti sono ancora nel futuro.» 8
Il progetto Come analizzato in precedenza, trattare il tema dell’abitare, specie se declinato attraverso gli stilemi della casa tradizionale, comporta una pregressa riflessione sui concetti di occupare lo spazio e di relazionarsi con esso. Ragion per cui la proposta progettuale che segue, non si limita a reinterpretare in chiave contemporanea i canoni dell’architettura nipponica, ma tenta di restituire alcune suggestioni acquisite durante il processo conoscitivo - seppur parziale - della cultura dell’abitare del Sol Levante. Se da un lato, l’esigenza di mettere a sistema il complesso organismo percettivo che caratterizza la casa bassa giapponese, ha determinato alcune scelte formali evidenti, dall’altro, l’impiego di materiali dissimili rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati, ne ha denunciato palesemente le intenzioni progettuali. Il tema centrale, sul quale ruota lo spartito compositivo, è il calcestruzzo facciavista Tale scelta materica, già perseguita da alcuni maestri del moderno di estrazione autoctona uno tra tutti Tadao Ando (Osaka, 1941) - annulla il rapporto tra struttura e paramento, tra scheletro e pelle a favore di un unicum espressivo. L’esigenza di coniugare, simultaneamente, il dato estetico con quello materico ha fatto propendere la scelta per l’impiego di calcestruzzi gettati in cassaforme metalliche appositamente progettate, così da poterne ottenere elementi strutturali massivi, severi nella forma e marmorei al tatto. L’impianto planimetrico, in linea con i dettami della tradizione, fonda la sua ortodossa composizione sul modulo del tatami (180 x 90 cm) che ne permette una completa e piena gestione degli ambienti. L’intero lotto di progetto è delimitato da alte pareti che ne preservano l’intimità e il comfort acustico. All’interno del recinto delle interazioni le due unità abitative, una patronale e una destinata a dependance, innescano un serrato scambio dialettico con
misurati spazi lasciati a verde, fondamentali per ricreare quel rapporto simbiotico tra sistema abitativo e ambiente naturale; così come avviene con il grande specchio d’acqua che corre lungo il lato nord del lotto. In relazione a quanto detto pocanzi, la scelta di predisporre ampie superfici vetrate non risulta solo un mero artificio per catturare la luce ma la volontà di non interrompere mai il contatto visivo con l’esterno. Entrambi i padiglioni sono collegati da una sottile striscia muraria, a mo di corridoio, di altezza inferiore rispetto alla linea di gronda della copertura esaltandone il valore plastico. Gli interni, asciutti, minimali e poco partizionati, salvo per la zona servizi e notte delimitate da setti murari, mirano a quella chiarezza distributiva superbamente ottenuta dai costruttori antichi. Per quanto concerne la dependance, l’analogia con la casa del thè è evidente nell’impaginato planivolumetrico, essenziale e austero, oltre a configurarsi come luogo della meditazione in stretta relazione con il giardino zen e lo specchio d’acqua attigui. Emblematica la scelta di predisporre un lungo camminamento di accesso alla dimora, anch’esso retaggio della composizione tradizionale, a scandire tempi e passaggi percettivi tra interno ed esterno. In sintesi, l’essenzialità delle forme, la coerenza dei materiali e l’onestà costruttiva sono solo alcuni dei caratteri tipologici e morfologici scaturiti dal processo di filiazione progettuale che, memore della lezione appresa dalla casa tradizionale, ha restituito uno spazio abitativo di grande fascinazione.
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Antonio Buonaurio, nasce a Maddaloni (CE) nel 1990. Consegue la laurea triennale in Architettura, presso la “SUN Seconda Università degli Studi di Napoli Luigi Vanvitelli”, con tesi in storia dell’architettura dal titolo “I percorsi d’acqua: la catalogazione delle architetture dell’acquedotto carolino” con la prof. Danila Jacazzi e l’arch. Flavia Belardelli (MiBACT) nell’ambito dell’accordo di tutela UNESCO. Completa gli studi magistrali presso il “Diarc - Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II”, con tesi in storia dell’architettura dal titolo “Tra innovazione e tradizione: la nuova tipologia della casa del fascio - Il caso studio di Caserta” con il prof. Arch. Alessandro Castagnaro e il PhD. Arch. Florian Castiglione. Cofondatore, con Francesco Cuomo e Riccardo Aveta, dello Studio F.R.A. Ha collaborato presso l’OfCA dell’arch. Raffele Cutillo. Attivo nel campo della ricerca dell’immagine in architettura, nel 2016 ha esposto nella galleria Tulpenmanie di Milano nell’ambito della rassegna 30<30. Ha dato vita, insieme a Davide Bertugno, Enrico Casini, Valerio Recchioni ed Elia Zoppi ad un collettivo che ragiona, scrive e ricerca sul tema della composizione e del linguaggio architettonico.
Elia Zoppi, nasce a Empoli (FI) nel 1994 e sin dall’infanzia sviluppa attitudini per l’arte e il disegno. Consegue la maturità scientifica presso il liceo “Il Pontormo” di Empoli. Successivamente, intraprende gli studi accedemici presso l’ “UniFi Università degli Studi di Firenze - Scuola di Architettura” dove sta per conseguire la laurea magistrale. Attualmente partecipa a concorsi di progettazione e conduce ricerche nell’ambito dei metodi di comunicazione e rappresentazione del progetto in architettura. Insieme a Davide Bertugno, Antonio Buonaurio, Enrico Casini e Valerio Recchioni, collabora nell'elaborazione di studi e nella produzione di immagini che mirano ad indagare il paesaggio antropico e a sviluppare i temi della composizione e del linguaggio architettonico.
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Antonio Buonaurio - Elia Zoppi