Artusi n.1 giugno 2013

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n. 1 - giugno 2013

FESTA


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periodico di Casa Artusi a.1, n. 1, giugno 2013 redazione: Alberto Capatti, Giordano Conti, Franco Mambelli, Massimo Montanari, Laila Tentoni, Antonio Tolo hanno collaborato a questo numero: Wendell Berry, Andrea Banfi, Carla Brigliadori, Elisa Giovannetti, Piero Meldini, Folco Portinari

Casa Artusi Soc. Cons.le a R. L.

Via A. Costa 27-31 47034 Forlimpopoli www.casartusi.it info@casartusi.it www.facebook.com/rivistaartusi


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sommario firmato Artusi a fuoco: la festa la festa e il cibo di Massimo Montanari le sagre di Piero Meldini occhio alla vecchia di Antonio Tolo intervista a Folco Portinari di Alberto Capatti occhio al cibo un banchetto del 1911 di Elisa Giovannetti scuola di cucina il cappelletto a scuola di Carla Brigliadori il cappelletto e la cucina di casa al ristorante conversazione con Andrea Banfi al mercato la farina giusta di Franco Mambelli cartoline un saluto da Wendell Berry archivio Artusi di Alberto Capatti segnali bondage in cucina di Antonio Tolo parole broccioli non broccoli di Alberto Capatti indovina indovinello carosello


4 firmato Artusi

Cara Signora,

non so chi prende oggi la penna per scriverle, o la macchina di ferro con cui mia nipote Rosina faceva un gran fracasso, ma spero che, così facendo, non si strapazzi il mio pensiero. Oggi vo dettando ed esigo che mi si rileggano le parole e inizierei proprio da questo. Mi dicono che La scienza in cucina continua a vendersi ad un prezzo che non comprendo di quindici euri – quindici lire sarebbero una enormità – e perciò sono autorizzato a dirne qualcosa che abbia a che fare con la lingua e con la comunicazione a grande distanza di tempo. Non avrei mai creduto che sarebbe stata letta in un futuro tanto lontano e ne traggo due convinzioni, la prima che anche la cucina debba avere dei modelli, e la seconda che ignoro tutto dei miei attuali o futuri lettori. Nemmeno con la quindicesima edizione mi sentivo un “classico”, ma devo ricredermi perché, evidentemente, lei signora e tutte le sue amiche mi circondate di una stima ininterrotta. C’è persino chi ha scritto che La scienza in cucina era un libro da promessi sposi, e non voglio smentirlo anche se dal matrimonio mi son tenuto sempre lontano. Classico per me non è antico ma istruttivo e durevole e quindi sono autorizzato a ripetere che la cucina aveva bisogno di un classico già ai miei tempi, ed ora più che mai in una Italia impazzita di culinaria. Ma a differenza di un romanzo o di un poema cui nessuno oserebbe aggiungere una conclusione diversa, immaginando Renzo che si separa da Lucia dopo due anni di matrimonio in terra bergamasca, per il suo vizio di servire la polenta di frumentone senza sale, La scienza in cucina è sempre stata aperta alle sue lettrici, e se non erro, le ricette oggi dovrebbero aggirarsi intorno alle 7900, da me approvate. Contrariamente al detto francese “souvent femme varie, malhereux qui s’y fie”, donna volubile resterà nubile, in cucina è vero il contrario e una cuoca mutevole non è necessariamente lunatica o capricciosa.


5 La seconda considerazione, cara signora, è che un libro, dopo la morte del suo autore, cresce nelle case dei suoi lettori, gonfiandosi di foglietti ripiegati e di scarabocchi a matita, e se ne trattengono le frasi in un angolo della memoria delle cuoche e dei loro commensali, fino a far parte di essi. Anche quando vi consacrate a più severe occupazioni e commerci, un diavoletto inforca i vostri gusti e vi fa ricordare la zuppa inglese che avete servito la domenica a pranzo, o le noie del lesso mai rifatto abbastanza e, come direbbe Olindo Guerrini, eternamente sfatto. La lingua – non so più qual poeta lo abbia scritto – è anima non solo della bocca ma del pensiero, ed “atta a mille motti differenti” si rigenera di continuo. Credevo di averne dettate alcune regole toscane, purificandola del francese, ma devo confessare che ha preso tutt’altro verso, forse peggiore di prima, e la cucina ha bisogno di più parole che ingredienti, scelte con la stessa cura di chi le vede sciogliersi nella padella dei ricettari o riaffiorare nel pentolone bollente. Un buon dizionario, glielo spiegherò se crede a viva voce, non ha la stessa utilità di un mestolo forato. Tocco ora il proposito per cui sto ora dettando e detterò alcuni consigli. In questa diavoleria fatta di scrittura e senza carta, intendo occuparmi della cucina italiana che, mi dicono, sia in uno stato di grande confusione dovuta ai continui mutamenti scientifici e al suo accoglimento in ogni parte del mondo. Pare non ci siano più regole o risultino così stravolte da non raccapezzarsi e ciascuno dei cuochi e delle cuoche alzi la voce per farsi valere. Anche ai miei tempi, la cucina dando piacere, faceva disperare, ma è sempre importante udir la voce dell’esperienza e di una saggezza sopra le parti, di ritrovare il passato nel presente senza farne un culto, e di filtrare, distillare il nuovo trattenendone le impurità. Se queste mie parole appariranno oscure, torniamo in cucina e mettiamo le mani in pasta, per migliorare piatti e discorsi. L’occasione è sempre propizia, e il luogo in cui parlerò ogni mese, porta il mio nome, e si trova nel mio paese natale Forlimpopoli. Le dico infine, cara signora, che son qui per ascoltarla e ascoltar voi uomini e donne con il mestolo e il grembiule, e se mi capiterà di udire dalla vostra bocca il mio nome o le mie parole, non starò zitto. Le Mariette con cui comunico dall’oltretomba, mi dicono che mi considerano più vecchio di Matusalemme, e questo è giudizioso, ma che sarei barboso e barbogio, e non voglio accettare tal giudizio. Ho messo per iscritto la cucina italiana, e vedo bene quanto sia ancor utile, e son qui a dimostrarlo a tutti voi, con la certezza che mi capirete ascoltandomi. Da semplice dilettante, continuo ad istruirvi. La vorrei ora salutare perché mi hanno parlato di una festa in mio onore …


6 la festa

la festa e il cibo di Massimo Montanari

La festa

gastronomica, la sagra di paese dedicata alla cucina locale o a un prodotto del territorio sono quasi sempre invenzioni recenti. Però, il legame tra la festa e il cibo è un legame antico, anzi arcaico: un fondamentale dell’antropologia. Il cibo è strumento di sopravvivenza, dunque realtà quotidiana. Ma che il cibo ogni giorno ci sia non è affatto ovvio, e le più antiche civiltà hanno affidato a miti e riti di fertilità l’augurio e l’auspicio dell’abbondanza e, soprattutto, della sicurezza: che la rigenerazione del cibo sia perpetua e sostenga la rigenerazione del corpo individuale e sociale. Mito fondante della cultura agricola mediterranea fu quello di Persefone, figlia di Demetra dea dell’agricoltura (così le chiamarono i greci: per i romani furono Proserpina e Cerere). La storia è quella di un rapimento: il dio degli inferi sottrae Persefone alla madre e la restituisce dopo lunga contrattazione, a patto che torni da lui per un terzo dell’anno: ed ecco rappresentato il ciclo del grano, sotterrato in autunno per rispuntare qualche mese dopo a produrre spighe dorate e cibo per tutti. Se gli déi aiutano. In altre civiltà, quella che interessa è piuttosto la rigenerazione degli animali: nell’olimpo germanico, raccontano le mitologie dei popoli nordici, la folla dei giusti è nutrita dalle carni di un magico maiale che continuamente bolle in pentola e ogni giorno è mangiato, e ogni giorno è intero. Auspicio, augurio, mito. Desiderio di cibo. Ecco perché il cibo è festa. È la festa del quotidiano che continua, della vita che non si arresta. Ma la carestia è in agguato, ogni anno può portare spiacevoli sorprese. Il grano può crescere in misura insufficiente, gli animali possono riprodursi poco o male perché non trovano cibo a sufficienza. Allora sarà la fame. Ma ci sarà un giorno, comunque, riservato alla festa. Sarà la festa del dio, sarà la Pasqua o il Natale, sarà la domenica, sarà lo sposalizio del figlio, sarà la


7 ricorrenza di un familiare nato o defunto, sarà quel che sarà. L’occasione profana o religiosa, privata o collettiva avrà sempre come protagonista il cibo. Chi digiuna per scelta, come il monaco medievale, la domenica non può farlo. Il giorno di festa va solennizzato mangiando meglio e di più. Digiunare la domenica è proibito. Ecco allora che il rapporto si inverte. Se il cibo è festa, la festa è cibo. Capita un giorno che i compagni di Francesco (il santo, quello di Assisi) discutono animatamente su come organizzare la cucina per la prossima ricorrenza natalizia: è Natale e si dovrebbe festeggiare con un bel pranzo, portando in tavola anche la carne, che di solito si evita o si mangia con grande moderazione. Ma il Natale capita di venerdì, giorno dedicato all’astinenza, al digiuno, alla mortificazione del corpo. Dunque discutono, e non venendone a capo chiedono a Francesco quale sia la giusta soluzione del caso. Lui quasi s’infuria: siete forse ammattiti, a parlare di digiuno in un giorno come questo? La festa più grande, il giorno più bello dell’anno come potremo festeggiarlo se non a tavola, mangiando bene e più del solito, mangiando carne rendendo grazie a Dio per il cibo che ci regala? Anzi - aggiunge - vorrei che in un giorno come questo tutti partecipassero alla nostra mensa: uomini e animali, e gli uccelli dell’aria. Tutti. Perfino gli oggetti, e i muri: che ne direste di ungerli di lardo, per farli partecipare al banchetto? Francesco esprime nel modo più chiaro l’idea che tutti condividono: la festa è il cibo. La festa si celebra a tavola. Da sempre, ogni momento topico della vita si segnala ritrovandosi attorno al cibo imbandito, a dividerlo e condividerlo, a celebrare il rito quotidiano della sopravvivenza con il gesto più carico di valore simbolico: mangiare. La ricetta e il prodotto tipico sono altra cosa, ovviamente. Le ragioni del mercato, della convenienza economica qui prendono il sopravvento sui valori ancestrali della festa. L’invenzione di improbabili radici storiche, di eventi che avrebbero dato origine alla festa accompagna e nobilita (nelle intenzioni) le allegre scorpacciate e le grandi bevute. Tutto sembra svilirsi, volgarizzarsi. Ma se sappiamo leggere fra le righe (o fra i rebbi della forchetta) scorgeremo ancora le tracce di un rito antico, di un modo eterno (si spera) di celebrare la felicità di essere al mondo, vivi. Massimo Montanari


8 la festa

le sagre di Piero Meldini

Le sagre

gastronomiche coprono ormai in lungo e in largo l’intera penisola. Anche l’angolo più sperduto, il comune più irrilevante hanno un piatto o un prodotto da celebrare annualmente. Se ne contano diverse centinaia, dalle più scontate – come la sagra del pesto di Genova o la sagra della “matriciana” di Amatrice – a quelle più improbabili – come la sagra del seitan di Firenze o la sagra della sangria di Follo (La Spezia). Anche alcuni singolari accoppiamenti – come le ciliegie e le focaccette di formaggio dell’omonima sagra di Sori (Genova) – lasciano un po’ perplessi. Sulla proliferazione delle sagre gastronomiche si può ironizzare quanto si vuole; sta di fatto che sono oggi tra le poche manifestazioni di sicuro successo, capaci di attrarre un pubblico non solo di massa, ma di tutti i ceti, di tutte le età e, oggi, di tutte le provenienze: un pubblico non troppo dissimile, in fin dei conti, da quello che un tempo affollava le fiere e i mercati di paese. L’origine delle sagre gastronomiche è recente. Nei secoli passati e fino agli anni Trenta del secolo scorso le sole occasioni di incontro delle comunità di una determinata area erano per l’appunto le fiere, di solito annuali, e le feste patronali, che spesso coincidevano con le fiere. In queste circostanze, così come in altre feste religiose minori, l’offerta di cibo poteva anche essere significativa, ma non era comunque il fulcro e il richiamo dell’evento. Filippo Giangi, autore di una minuziosa e pettegola cronaca manoscritta, riferisce per esempio che nel lunedì di Pasqua del 1832, ad accogliere i numerosi partecipanti alla tradizionale scampagnata al santuario riminese delle Grazie, c’erano varie bancarelle. Vendevano «maiali nel forno (porchetta), pane, piadoni, pollame cotto e vino». Per “piadoni” si intendono quelle focacce che in Romagna, a seconda del luogo, si chiamano piê oppure “spianate”.


9 A favorire la nascita delle prime sagre gastronomiche, databili agli anni Trenta del Novecento, fu da un lato l’ormai matura e diciamo pure orgogliosa coscienza delle identità gastronomiche locali, censite “ufficialmente” dalla Guida gastronomica d’Italia del Touring Club (1931), e, dall’altro lato, la politica autarchica e ruralistica fascista, e l’impegno, in particolare, dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Ma il boom delle sagre comincerà molto più in là, alla fine degli anni Settanta, passata la stagione della “fettina” e della panna, delle sofisticazioni alimentari e degli additivi chimici; quando si cominceranno a riscoprire quei cibi della tradizione, in genere poveri, che l’infatuazione del moderno, l’euforia consumistica e la sbornia di proteine avevano quasi estromesso dalle tavole. Questa riscoperta dei prodotti e dei piatti locali non ha mai avuto, com’è giusto, alcunché di pedante: la riesumazione archeologica dei piatti, la codificazione delle ricette e il rispetto filologico delle preparazioni sono sempre stati l’ultima preoccupazione degli organizzatori, che nel cibo vedevano soprattutto una potentissima fonte di socialità e convivialità (e di guadagno, ovviamente). Perché il cibo era, e rimane, uno dei migliori collanti per gli esseri umani. Non si chieda dunque alle sagre gastronomiche il rigore funereo della cucina molecolare. Se ne accetti tranquillamente la natura promiscua e la vocazione mercantile. Si moltiplichi l’offerta, di cibo e d’altro, senza troppe puzze sotto il naso. Si favoriscano semmai i contrasti: fra localismo e multiculturalità, alta ristorazione e cucina di strada, qualità e quantità, tradizione e innovazione, preoccupazioni salutiste e puro piacere, approfondimento culturale e svago. Il cibo può avere sia un valore identitario che di scambio e aggregazione: pur senza sacrificare il primo, è bene che le sagre gastronomiche, che raccolgono l’eredità delle fiere e dei mercati di un tempo, continuino, come quelli, a puntare soprattutto sul secondo. Piero Meldini


10 la festa

occhio alla vecchia di Antonio Tolo

La festa

di Forlimpopoli, per antonomasia, è la Segavecchia, legata agli antichi riti precristiani che celebrano i cicli dell’anno agricolo. La “vecchia” segata è, al tempo stesso, sacrificio benaugurale per il prossimo raccolto e esorcismo apotropaico; ma è anche occasione di incontro e di riconoscimento di una comunità. La foto a fianco è stata ripresa da un anonimo fotografo negli anni trenta del ‘900 e mostra ancora il carattere profondamente agricolo della festa, con il fantoccio pronto al sacrificio rituale issato su un biroccio trainato da una coppia di possenti buoi romagnoli agghindati. Alla guida, il contadino, vestito a festa, un po’ per rispetto e un po’ per dissimulare la propria origine, dichiarata comunque dall’abbronzatura di quella parte del volto che, non protetta dal cappello di lavoro, è esposto all’aria e al sole. La festa alla vecchia è questione di uomini; le donne se ne stanno assiepate sui balconi, relegate al ruolo di spettatrici e guardano un po’ per trarre buon auspicio, un po’, forse, per un ammonimento: “ricorda che la sventura ha le sembianze femminili e che il suo destino è di essere fatta a pezzi”.


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12 la festa

intervista a Folco Portinari di Alberto Capatti

La sintesi di una conversazione che il cittadino onorario di Forlimpopoli Folco Portinari ha avuto con Alberto Capatti nella sua casa di Milano. Oggi è venerdì 17 maggio 2013 e non è certo un dì di festa! Io credo che parlare della festa comporti un salto indietro, come d’altra parte accade per qualsiasi altro tema si voglia affrontare. Salto indietro significa riproporci le domande tutt’ora senza risposta: chi siamo? dove andiamo? Nel senso che la festa dovrebbe essere una interruzione di uno sviluppo normale dopo aver risposto alle due domande, alle quali nessuno ha saputo bene o male rispondere fino a oggi. O meglio le risposte sono tutte condizionate da un qualche presupposto ideologico. Se al dove andiamo? rispondiamo “In Paradiso” è certo che l’itinerario deve fare i conti con un sacco di interventi ideologici. Ma la festa non è una metafora del paradiso? Certo ma è appunto la strada verso il paradiso che deve fare i conti con gli intoppi ideologici. Credo che è facilmente intuibile ove vado a parare, perché bene o male vivo e appartengo ad una cultura che è quella del viaggio verso il paradiso. Si tratta a questo punto di sapere che cosa si intende per paradiso, se il luogo noiosissimo dove i cori degli angeli dalla sera alla mattina ininterrottamente cantano le lodi del loro dio, o non si tratti invece di un altro luogo, il giardino delle delizie dove le urì sono in tutt’altre faccende affaccendate Caliamo a volo a Forlimpopoli A Forlimpopoli la festa ha trovato una sua collocazione anche linguistica nel festino. Il problema è se il festino che viene offerto vale la candela. Perché andavi alla festa di Forlimpopoli? Perché Forlimpopoli oltre a essere la mia città è pure una metafora. Vado a Forlimpopoli come si può andare a una metafora, con mezzi di trasporto che l’immaginazione mi offre.


13 Una festa corta o una festa ogni tanto non ti basta? Lascerei la riposta a Francesco I° o a l’Imam supremo. Una festa che si interrompe non è una festa e vorrei che la festa di Folimpopoli fosse eterna per esistere veramente. Messo così è un discorso teologico Hai centrato veramente il problema. Si da il caso però che io sia un bipede e non un puro spirito per cui devo arrangiarmi con quel che la piazza offre, sia per i cuochi sia per le urì. E allora domani, cosa farai? Diman tristezza e noia recheran l’ore Ed al travaglio usato ciascun col suo pensier farà ritorno Io sono ciascun. Non ti sembra che oggi ci si occupi molto di cucina? Uffa… C’è cucina e cucina, e per quel che ne sappia io, o meglio per quel che vedo io ce n’è anche troppa e troppo a sproposito Quindi sei un nemico della Parodi? È vero proprio il contrario. Nel mio pedigree televisivo c’è anche Veronelli, c’è Ave Ninchi ci sono alcuni anni di trasmissioni enogastronomiche quando nessun altro ci pensava. Perché? Il cibo era di serie B. Comunque da ex-televisivo compromesso nello specifico ti dirò che io non perdo una trasmissione della Parodi proprio per le ragioni che le mie figlie mi contestano. Perché allora questa fedeltà? perché mi fa rabbia che ai miei tempi non ci fosse una Parodi. Cioè chi? Un animale televisivo. Mi spiego: una trasmissione sul cavolo cappuccio o sul cappon magro non può considerarsi una lezione di teologia. Questo è quello che per conto mio ha capito la Parodi. La cucina, per chiunque vi operi, è un casino e la Parodi sa farmi gustare la realtà di quel che avviene sullo schermo. Le sue trasmissioni sono incasinate. Ci mancherebbe altro .. A me spiace soltanto che non mi abbia mai invitato né mi inviterà in studio La Parodi è un tipo televisivo o veramente Benedetta? È solo Benedetta Parodi, cioè una che ha capito qual è il senso delle trasmissioni che fa, Aggiungerei solo una cosa, che il mio è un giudizio professionale sia per quello che riguarda la cucina che la televisione. Alberto Capatti


14 occhio al cibo

un banchetto del 1911 di Elisa Giovannetti


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Banchetto dato nella sala del Leon D’oro di Cesena in onore del Maestro Camillo Saint Saens, autore dell’opera Sansone e Dalila, il 4 settembre 1911. L’istantanea, conservata nella Biblioteca Malatestiana di Cesena, è opera del fotografo Augusto Casalboni. Immagine pubblicata per gentile concessione della fototeca della Biblioteca Malatestiana


16 scuola di cucina

il cappelletto a scuola di Carla Brigliadori

Immaginiamo un signor Cappelletto nella Scuola di cucina di CasArtusi, il quale guarda da spettatore e da giudice tante mani e dita inesperte che iniziano a giocare con la pasta e ricercano in essa l’armonia delle forme. Lui, il Cappelletto, è stato messo lì, in posa sul tagliere in legno, orgoglioso della sua storia in bellavista. Ripreso da una videocamera, si pavoneggia con discrezione perché è stato preceduto da numerosi tagli di pasta di pregio e il suo cuore così profumato, noce moscata o scorza di limone e ricotta o raviggiolo o parmigiano, non ha rivali. È nato da un cratere di farina “00” in cui sono state tuffate le uova rotte ed amalgamate con le dita alla farina. Procedendo verso la compiutezza, c’è l’impasto rotondo lavorato, o meglio massaggiato, per una decina di minuti e poi messo a riposare ben coperto. Si riprende il lavoro con un leggero rimpasto e inizia la danza del “tirare la sfoglia”: il tagliere che accoglie, la pasta che resiste al tentativo di essere tirata e questa tensione sarà palpabile per almeno dieci minuti in cui le sapienti mani scorreranno veloci sul mattarello. Raggiunto il giusto spessore, si ritagliano dei piccoli quadrati dove al centro viene deposto con mano ferma il giusto quantitativo di ripieno, sì perché gli occhi esperti hanno già pesato il piccolo gustoso cuore profumato e con abili gesti prende forma il nostro Cappelletto. Ora per doveroso onore, bisognerà fare un buon brodo, magari di cappone con cui si ritrovi in perfetta sintonia. Alle mani dell’insegnante cercano di conformarsi tante altre dita. Il gioco si ripete, dall’una all’altra, ma non come negli specchi perché ogni allievo, ogni allieva porta la propria imperizia o improvvisazione o talento naturale. Viene il momento della sua chiusura e sul tagliere lui riposa ormai compiuto con percettibili ed impercettibili varianti, in attesa di una seconda vita, dalla cottura alla


17 bocca. Le persone convenute in CasArtusi hanno provenienze diverse ma si sono incontrate con un grande e onorevole scopo: creare qualcosa di buono per il corpo e per la mente. Durante la serata si intrecciano storie di vita, si chiacchiera, si ride, si scoprono nuovi modi di usare le mani, ci si confronta sulla tecnica e si intrecciano legami. Le insegnanti, le Mariette, maestre dell’arte, mettono a disposizione la loro abilità, il proprio segreto “sapore ” ... pochi ingredienti uniti in diversa proporzione son divenuti identitari per ogni famiglia. Le ore scorrono veloci e si esce dalla Scuola con il desiderio di condividere la pasta con le persone a cui vogliamo bene...

La ricetta di Artusi Minestre in brodo 7. CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco. Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180. Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta. Parmigiano grattato, grammi 30. Uova, uno intero e un rosso. Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace. Un pizzico di sale. Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse


18 troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato.

Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito. Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine. (Pellegrino Artusi, La scienza in cucina, Firenze, Landi, 1891)


19 Commento di CasArtusi “A proposito di questa minestra ...” si consiglia di fare una sfoglia sottile ma non troppo perché il palato romagnolo richiede di percepire una certa consistenza. L’ideale sarebbe consumarlo fresco, appena fatto. Steso sul tagliere con la sfoglia appena asciugata all’aria. Il ripieno lavoratelo bene fino a quando non diventa omogeneo, il calore del brodo lo scioglierà, in bocca sarà morbido con una leggera punta amara data dall’uso di formaggi freschi. Tuffateli in brodo bollente, non muoveteli per alcuni minuti e lasciateli venire a galla. Se dovessero farsi attendere, immergete il dorso di una spatola e andate a muoverli delicatamente dal fondo della pentola. Cuoceteli per alcuni minuti, che restino al dente, poi togliete la pentola dal fuoco e lasciateli riposare per circa 3 minuti. Questo tempo servirà al Cappelletto per insaporirsi ulteriormente. Carla Brigliadori


20 scuola di cucina

il cappelletto e la cucina di casa al ristorante conversazione con Andrea Banfi

Andrea

riemerge dalla cucina dove fino a poco prima ha preparato gli ultimi piatti serviti ai clienti del ristorante di Casa Artusi e mi raggiunge sulla poltrona del salottino. A fianco a noi ci fa compagnia l’istallazione permanente Cenae 7 dell’artista catalano Joan Crous: una serie di 5 “coperti” (o meglio, dei loro avanzi) congelati in forma di pasta di vetro, traccia indelebile di pasti appena consumati e già divenuti memoria. Allora Andrea, è possibile fare ristorazione proponendo cucina di casa? Assolutamente sì. Nel corso del mio lavoro col Ristorante Casa Artusi ho in parte modificato il mio approccio al piatto, riscoprendo il valore della materia prima e la necessità di rispettarlo ed esaltarlo, mettendo le moderne tecnologia alimentari al servizio di questo obiettivo. Sotto questo aspetto la cucina di casa, quella che ci è tramandata nell’ambito familiare, è perfettamente adattabile alle esigenze della ristorazione. Ma chi va al ristorante non ci va anche per provare qualcosa di nuovo, o comunque di diverso da quello che mangia a casa? Il cliente al ristorante cerca un’esperienza e quella che può trovare nella cucina di casa è quella del ricordo di un piatto e delle sensazioni familiari che affiorano dalla memoria. Il nostro compito è quello di offrire questa esperienza e fare in modo che sia, in qualche modo, unica. Qui a Casa Artusi molte persone vengono per mangiare i nostri cappelletti in brodo, fatti seguendo la ricetta codificata da Artusi. Vengono perché riconoscono un sapore familiare gustato a pranzo dalle nonne, che, a casa loro, facevano la stessa ricetta, magari senza dichiararlo o saperlo. Facevano cucina artusiana a loro insaputa. Com’è il cappelletto che fai a Casa Artusi? Potresti definirlo “ortodosso”?


21 Seguiamo la ricetta artusiana a partire dal ripieno, con ricotta e petto di cappone ripassato nel burro, parmigiano reggiano, uova e qualche aroma. Curiamo anche la preparazione della sfoglia, fatta a mano dalla nostra “sfoglina” con sola farina e uova, e la cottura in brodo di cappone. Considerando che tagliamo la sfoglia rotonda, come prescrive Artusi, direi che, sì, siamo ortodossi. Piuttosto, siamo molto attenti alla selezione della materia prima, con ricotta di grande qualità, prodotta nella nostra zona, così come le farine e i capponi. In questi anni di attività a Forlimpopoli ho avuto modo di selezionare i fornitori, privilegiando coloro dei quali ho avuto modo di conoscere e apprezzare il lavoro. In molti casi si tratta di produttori locali coi quali ho rapporti diretti, con vantaggi anche in termini economici: accorciando la filiera è più semplice avere prodotti di qualità ad un prezzo competitivo. Ed è conseguenza necessaria offrire una cucina stagionale, proponendo i prodotti disponibili in quel momento. La tua sfoglina prepara cappelletti tutti i giorni? Direi più o meno ogni settimana. Al ristorante possiamo contare su tecnologie e attrezzature di conservazione che è difficile potersi permettere a casa: una volta fatti, i cappelletti passano nell’abbattitore di temperatura, che li surgela rapidamente, rispettandone le qualità organolettiche, poiché il processo di raffreddamento è talmente veloce da impedire la formazione di grossi cristalli di ghiaccio. E sulle dimensioni dei cristalli di ghiaccio, saluto Andrea, pensando che, in fondo, se Joan Crous cristallizza i ricordi legati ad un pranzo, la cucina di casa li scongela e permette loro di rinnovare emozioni e sensazioni. Che sia questa la cucina di casa? Antonio Tolo


22 al mercato

la farina giusta di Franco Mambelli

Fino alla metà del secolo scorso il contadino romagnolo si recava al mulino con il suo sacco di grano e portava a casa la farina con la quale la moglie preparava il pane, la sfoglia per la pasta, la piadina e la ciambella. Oggi la situazione è molto diversa, basta andare al supermercato, nella scaffalatura delle farine; qui possiamo trovare: Farina tipo 00 di gran tenero per pizze, per sfoglia fatta a mano, per dolci, Farina tipo 0 di grano tenero per piadina, Farina integrale bio, Manitoba per pani speciali, ecc. Poi abbiamo le farine di altri cereali, miscele per preparazioni specifiche, Semole di grano duro, ecc. In questa sede prenderò in esame le farine di grano tenero, cioè quelle ottenute da questo tipo di cereale. Sono formate da granuli piccolissimi, rotondeggianti, di colore bianco, vengono usate per tantissime preparazioni, dal pane ai dolci, dalle pizze alla sfoglia. Il grano duro, sotto l’aspetto compositivo, presenta piccolissime differenze (ha un contenuto leggermente superiore di proteine), mentre notevoli risultano le differenze nei prodotti della macinazione: le semole e i semolati sono formati da granuli più grossi, con spigoli netti, di colore leggermente ambrato; vengono destinati prevalentemente per le paste secche e per certi tipi di pane nel sud dell’Italia. Tornando alle farine di grano tenero, vorrei ricordare che la classificazione legale prevede cinque denominazioni: Tipo 00, 0, 1, 2, integrale, dove la differenza è dovuta alla quantità massima delle ceneri per 100 g di prodotto. Queste ceneri (ciò che rimane quando bruciamo la farina) sono costituite da Sali minerali e siccome questi sono presenti maggiormente nell’involucro esterno del chicco, quello che diventa crusca, perciò possiamo dire che dalla farina 00 all’integrale, quello che aumenta è la quantità di crusca. L’aspetto più interessante è rappresentato dal fatto che ad es. farine 00 abbiano delle caratteristiche diverse che le rendono più adatte per una preparazione rispetto ad un’altra. Che cosa hanno di diverso? Se noi le confrontiamo visivamente non notiamo differenze. Vediamo allora quali sono i componenti


23 principali delle farine: glucidi (la maggior parte amido), proteine, acqua, lipidi, sali minerali, enzimi. Quello che fa principalmente la differenza fra queste farine è la qualità e la quantità delle proteine, e in particolare le gliadine e le glutenine, queste, nella formazione dell’impasto, in presenza di acqua, si uniscono per formare il glutine che conferisce viscosità, elasticità e coesione all’impasto. Si parla quindi di forza delle farine che sarà maggiore tanto più grande risultano: 1) la tenacità dell’impasto (resistenza alla deformazione), 2) l’estensibilità (deformazione senza rompersi), capacità di assorbire acqua durante l’impastamento, 4) capacità di trattenere l’anidride carbonica durante la lievitazione. La forza di una farina dipende quindi dalla valutazione di diversi parametri. Un’indicazione importate l’abbiamo dall’Alveografo di Chopin. Questo strumento, analizzando la farina, produce una figura geometrica; dal calcolo dell’area si determina un parametro chiamato W (doppiovu). Tanto più grande è questo valore tanto più forte è la farina. Ad esempio W = 360 farine molto forti, W = 250-280 farine normali, W =200-230 farine deboli, W inferiore a 180 farine molto deboli. Questa figura disegnata dalla macchina ha un’altezza (chiamata) P e una lunghezza (chiamata) L, quindi possiamo avere due farine con lo stesso W ma con P e L diversi. Risulta molto importante il rapporto P/L perchè ci da l’equilibrio fra resistenza ed estensibilità dell’impasto. E qui mi fermo con la speranza di non essere sceso troppo sugli aspetti tecnici. Le farine che troviamo al supermercato sono state “costruite” mescolando diversi tipi di grani per avere un prodotto adatto per quella preparazione. Nelle confezioni non troviamo il W ma semplicemente l’indicazione per un miglior utilizzo. Quando operiamo nella cucina di casa prepariamo la sfoglia per la pasta impastando la farina adatta con le uova, nel rapporto di circa 100 g di farina per ogni uovo. Se l’operazione è fatta a mano si procede con l’apposita tecnica per circa 8 minuti fino a che l’impasto è liscio e lucido. Tempi molto più prolungati sono sconsigliati perché l’impasto assorbe aria , la quale danneggia poi la sfoglia (rischi di lacerazioni). Sappiamo che deve formarsi il glutine e questa reazione richiede un certo tempo. L’energia che trasmettiamo coi movimenti facilita il processo. Quando riteniamo che l’impasto sia pronto lo avvolgiamo con la pellicola (per evitare che si secchi in superficie) e lo lasciamo sul tagliere a riposare per almeno 15 minuti, permettendo così che si completi la formazione del glutine e che il suo reticolo tridimensionale (microscopici filamenti proteici) passi dallo stato disordinato a quello ordinato e s’intrecci attorno ai granuli di amido. Questa specie di maglia nella pasta è utile perché trattiene l’amido, specialmente nella fase di cottura, mentre nella lievitazione del pane intrappola le bolle di anidride carbonica che si formano, dando luogo a un impasto soffice e voluminoso. Quan-


24 do si opera con l’impastatrice dobbiamo stare attenti, specialmente se usiamo farine deboli, perché una lavorazione troppo lunga fa perdere all’impasto le sue caratteristiche di elasticità, risultando molle e appiccicoso. Occorre anche tener presente che quando mescoliamo la farina con le uova per la sfoglia la quantità di acqua presente è insufficiente per la formazione completa dell’impasto. Non possiamo mettere più uova perche diventerebbe troppo morbido e non adatto a tirare la sfoglia. Assorbono acqua sia l’amido sia le proteine, a noi interessa che si formi completamente il glutine. Sappiamo che i granuli di amido danneggiati assorbono più acqua, quindi il mulino che “lavora bene” è in grado di produrre farine con amido poco danneggiato e che quindi “lascia” più acqua per il glutine. Dobbiamo sempre ricordarci che le farine non sono tutte uguali, ma che la qualità dipende dal grano utilizzato e dal metodo di macinazione. In commercio abbiamo farine di diversi mulini, dobbiamo provarle e poi utilizzare quella che ci sembra migliore. In cucina compiamo una serie di operazioni alla base delle quali ci sono in genere dei fenomeni fisici, delle reazioni chimiche, dei processi microbiologici. Averne una conoscenza, anche a grandi linee, è utile per operare con maggiore consapevolezza e a volte ottenere risultati migliori. Già da alcuni decenni vari studiosi, spesso docenti universitari, hanno scritto su questa materia, dall’americano Harold McGee al francese Hervè This, agli italiani Dario Bressanini, Rosario Nicoletti e Davide Cassi. Quindi oltre a comprare libri di ricette, non sarebbe male approfondire anche gli aspetti scientifici. Franco Mambelli


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un saluto da Wendell Berry


26 archivio Artusi

la prima minestra del mondo di Alberto Capatti

Segnaliamo nel fondo dei manoscritti di Forlimpopoli, una lettera inviata il 14 gennaio 1906 a Pellegrino Artusi. Vi è consegnato il suo giudizio confidenziale sui cappelletti a Luisa Burresi Pettini che risiedeva a Firenze e stagionalmente in Valdarno. Oltre che una amica si trattava di persona di famiglia e suo figlio Piero era figlioccio di Artusi. I cappelletti le giungevano in dono per le feste del nuovo anno, da piazza d’Azeglio 25 ; la loro fragilità e la pronta consegna ne sconsigliavano l’invio a destinatari lontani, cui invece pervenivano con gli auguri di Natale, in pacco ferroviario, torte e dolci. Egregio Sig Artusi Ho molto gradito i suoi buoni cappelletti e sono d’Accordo con Lei nel chiamarli la prima minestra del Mondo. La ringrazio dunque vivamente soprattutto del pensierino gentile. Piero sarebbe venuto volentieri da Lei oggi, ma era già stato invitato a déjeuner e aveva precedentemente impegnato anche la serata ad una recita di piccoli amici. Spera però di rivederla presto e desidera di non esser da Lei dimenticato. Gradisca la prego i cordiali saluti dei miei genitori, del suo ragazzo ed i miei rispettosi ossequi. Luisa Burresi Pettini 14 del 1906


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28 segnali

bondage in cucina di Antonio Tolo

Sulla scia del successo planetario delle Cinquanta sfumature in libreria è tutto un proliferare di titoli più o meno parodistici. Tra un Cinquanta sfumature di minchia qua e un Cinquanta smagliature di Gina là, ora è il turno dei libri di cucina: potevano mancare all’appello? Lo scaffale “libri di cucina” delle librerie è talmente ingombro di titoli che è necessario inventarsi qualcosa per emergere: ecco, allora, le Cinquanta sfumature di pollo (Mondadori, 2013) scritto da un non meglio precisato F. L. Fowler che dopo aver scalato le classifiche di vendita anglosassoni arriva sui nostri scaffali con gli stessi intenti. Le ricette proposte (cinquanta, ça va sans dire) sono inframmezzate da testi allusivi con titoli ammiccanti (Portami il burro, Brivido caldo, Glassami tutta…) che narrano le avventure sado-maso di una Miss Gallina che si offre in sacrificio a un muscoloso Mister Coltelli, nel tentativo di rendere più interessante un ricettario, tutto sommato, convenzionale. Insomma non c’è poi tanto del promesso “famolo strano” (il pollo). Così come convenzionale risulta l’associazione cibo-sesso, che può vantare esempi dal risultato migliore (chi non ricorda la memorabile sequenza della cena a due in Tom Jones di Tony Richardson?). Diamo atto all’astuto autore di non nascondere i suoi intenti (Fowler significa, letteralmente, “uccellatore”) e se qualcuno vuole, per l’appunto, farsi uccellare, gli basta sborsare 16,90 euro. Chi vuole può farsi un’idea guardando il booktrailer (in inglese)


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