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Ass. San Francesco- Castiglione di Sicilia Ecosezione MOVIMENTO AZZURRO w .c .d o k Piante alimurgiche del versante Etna - Alcantara c u -tr a c Asparago bianco Asparagus albus L.

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Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Adrano: Sparacogna (pianta) Belpasso: Sparaciu jancu Biancavilla: Sparaciu jancu Bronte: Sparaciu jancu Castiglione di Sicilia: Specie non rinvenuta nel territorio Linguaglossa: Specie non rinvenuta nel territorio Maletto: Specie non rinvenuta nel territorio Milo: Specie non rinvenuta nel territorio Nicolosi: Specie non rinvenuta nel territorio Pedara: Specie non rinvenuta nel territorio Ragalna: Sparacogna (pianta) Randazzo: Specie non rinvenuta nel territorio San Giovanni la Punta: Specie non rinvenuta nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Specie non rinvenuta nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva probabilmente dal greco 'sparassien' con il significato di strappare per la presenza di spine oppureda 'asparagos' (da spargaô': è rigonfio). Il secondo termine (albus= bianco) fa riferim ento al colore bianco del fusto e dei rami. Descrizione: L'asparago bianco è una pianta a fusto cilindrico, flessuoso, biancastro. I rami principali anch'essi di colore b ianco sono patenti. Lefoglie sono trasformate in spine dure e pungenti. I cladodi sono molli disposti in fascett i di 612, caduchi. I fiori sono ermafroditi e raggruppati in ombrellette dense. Ambiente: Questa specie è presente, oltre che in Sicilia, anche in Sardegna, Corsica e Calabria dove è abbastanza frequ ente sui terreni sedimentari,mentre sull`Etna ha una diffusione localizzata nel settore sudorientale e in particolare è abbondante sui terreni lavici di Ragalna, Biancavilla edanche fra le sciare incolte del costruendo Parco Gioeni di Catania. Parte utilizzata : Di questo erbaggio si consumano gli `asparagi`; cioè i turioni (micci). I turioni dell`Asparago pungente spu ntano nel sottobosco afine inverno e in primavera. Uso: I turioni dell`Asparago bianco si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato e dell'Asparago pungent e; Al palato manifestano un saporeamaro che è considerato un pregio. E` anche apprezzata la loro azione diur etica. Come quelli dell'Asparago pungente si preparano in vari modi: stufati (affogati), cioè cotti in padella con poca acqua; lessati e poi conditi con olio e limone. Sono pure buon i come condimento per la pasta o per irisotti o come ingredienti delle frittate. Commercio: I turioni dell'Asparago bianco hanno scarsa diffusione per via della loro limitata distribuzione s ul territorio . Diffusione: L`impiego alimentare dell`Asparago bianco è localizzzato solo nelle aree ove è presente. Notizie:Ricette: Lessi Stufati Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Bietola

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Bietola Beta vulgaris L. ssp. maritima (L.) Arcang. Famiglia: Chenopodiaceae Sinonimi: Barbabietola, Bieta. Adrano: Gira Belpasso: Secala Biancavilla: Geri Bronte: Giri Castiglione di Sicilia: Secala Linguaglossa: Secala, Seghila Maletto: Giri Milo: Secala sarbaggia Nicolosi: Secala Pedara: Secala Ragalna: Gira Randazzo: Gira San Giovanni la Punta: Secala sarbaggia Santa Venerina: Secala sarbaggia Zafferana Etnea: Secala

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui nell`antica civiltà latina si designava sia la pianta spontanea che l`ortaggio da essa selezionato, fin d`allora conosciuto. Il secondo termine allude all`ampia diffusione della specie, mentre l’attributo sottospecifico si riferisce alla distribuzione prevalentemente litoranea. Descrizione: Pianta erbacea perenne con radice non ingrossata, provvista di un cespo fogliare quasi appressato al suolo, costituito da foglie spatolate, carnosette, lungamente picciolate e dotate di una lamina di colore verde intenso e lucente. I piccioli si presentano sovente colorati in rosso alla base per la presenza di betacianina. Dal cespo basale, al sopraggiungere dell`estate, si origina un fusto eretto, ramoso, che porta un’infiorescenza con glomeruli di 1­3(5) fiori piccoli e verdastri. Anche il fusto può presentare colorazione rossastra. Ambiente: Si rinviene più frequentemente lungo i litorali, più raramente all'interno su argille. Parte utilizzata: Le cime dei nuovi getti e le foglie tenere. Il prelievo di queste parti va fatto in primavera, periodo in cui la pianta non viene danneggiata perché è pronta a rimettere i germogli. Se invece, è fiorito, l`erbaggio non è più buono da mangiare. Uso: Le cime e le foglie si utilizzano in vari modi, lesse e poi saltate in padella oppure come ripieno nelle focacce (scacciate). Più comunemente si usano come importante ingrediente delle minestre di fave e di legumi in genere. Commercio: Le cime, durante la buona stagione, si trovano frequentemente sui carrettini degli ambulanti e in qualche negozio di frutta e verdura. Si vendono sfuse o in mazzetti. Diffusione: L`uso alimentare della Bietola selvatica è conosciuto in Italia e in Europa; tuttavia, attualmente se ne fa largo consumo solo in Italia meridionale e nelle isole. Notizie: ­ Erbaggio etneo Questo erbaggio è comunissimo su terreno sedimentario (ad es. a Paternò, in particolare negli agrumeti, e nella zona di Randazzo), mentre è raro su terreno vulcanico (Adrano e Milo), dove, invece, si rinvengono frequentemente popolamenti di Bietola orticola sfuggiti alle colture ed inselvatichiti. ­ La bietola coltivata Oggi sono note diverse varietà di bietola coltivata derivate da Beta vulgaris. Esse sono: la “Bietola da erbucce” della quale sono eduli le foglie basali, sottili e morbide; la “Bietola da coste” che produce foglie basali dotate di robuste costolature carnose; la “Barbabietola rossa” di cui si consumano le radici e il colletto che sono ingrossati e di colore rosso; la “Bietola da foraggio” che ha anch’essa una grossa radice, ma di colore bianco, impiegata come alimento per il bestiame ed infine la “Barbabietola da zucchero” adibita all`estrazione industriale del saccarosio (PESCE, 1982; LANGER & HILL, 1988; BALDONI e GIARDINI, 1981; DE VINCENZO, 1987). La domesticazione di queste varietà della Bietola è antichissima. Già nella antica Grecia erano note la Bietola da erbucce, la Bietola da coste e la Bietola rossa (BIANCHINI et al., 1973). Tale pratica agricola fu migliorata presso i Romani; si hanno notizie che Marziale e Apicio discutevano sui diversi modi di cucinare la Bieta coltivata. Nel Medioevo si ottenne la varietà da foraggio. Infine, in Germania, nel secolo XVIII, dopo la scoperta (1747) del saccarosio nelle radici di Beta vulgaris ­ Erbaggio etneo Questo erbaggio è comunissimo su terreno sedimentario (ad es. a Paternò, in particolare negli agrumeti, e nella zona di Randazzo), mentre è raro su terreno vulcanico (Adrano e Milo), dove, invece, si rinvengono frequentemente popolamenti di Bietola orticola sfuggiti alle colture ed inselvatichiti. ­ La bietola coltivata Oggi sono note diverse varietà di bietola coltivata derivate da Beta vulgaris. Esse sono: la “Bietola da erbucce” della quale sono eduli le foglie basali, sottili e morbide; la “Bietola da coste” che produce foglie basali dotate di robuste costolature carnose; la “Barbabietola rossa” di cui si consumano le radici e il colletto che sono ingrossati e di colore rosso; la “Bietola da foraggio” che ha anch’essa una grossa radice, ma di colore bianco, impiegata come alimento per il bestiame ed infine la “Barbabietola da zucchero” adibita all`estrazione industriale del saccarosio (PESCE, 1982; LANGER & HILL, 1988; BALDONI e GIARDINI, 1981; DE VINCENZO, 1987). La domesticazione di queste varietà della Bietola è antichissima. Già nella antica Grecia erano note la Bietola da erbucce, la Bietola da coste e la Bietola rossa (BIANCHINI et al., 1973). Tale pratica agricola fu migliorata presso i Romani; si hanno notizie che Marziale e Apicio discutevano sui diversi modi di cucinare la Bieta coltivata. Nel Medioevo si ottenne la varietà da foraggio. Infine, in Germania, nel secolo XVIII, dopo la scoperta

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(1747) del saccarosio nelle radici di Beta vulgaris da parte del chimico Maigraff, fu selezionata la Bietola da zucchero. Successivamente, questa venne migliorata in Francia quando, in seguito ad un blocco navale britannico, venne meno l’approvvigionamento asiatico dello zucchero di canna (BALDONI e GIARDINI, 1981). ­ Sul nome secala Il nome secala, e l`affine seghila, dato alla pianta in alcune località del territorio etneo, può w w c .c .d o .d o k. c u -tr a c k indurre confusione con quello volgare e latino di un’altra pianta, la Segale (Secale cereale L.), un cereale dal quale si ricava una farina scura usata c u - t r a c per il pane nero (pani di irmanu). In effetti, il nome dialettale secala ha altre origini, sembra derivi dallo spagnolo antico aselgas (oggi acelga) con il quale si indicava proprio la Bietola (TRAINA, 1868). Ricette: Lessi Minestre

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Bislingua

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Bislingua Ruscus hypophyllum L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Linguette Adrano: Sparaciu `mpriacu, Sparaciu `mpiriali Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Sparaciu di Spagna Linguaglossa: Sparaciu `mpiriali Maletto: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Milo: Sparaciu di salamunia Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: non rilevato Ragalna: Sparaciu `mpriacu, Sparaciu `mpiriali Randazzo: non rilevato San Giovanni la Punta: Sparaciu di bordura Santa Venerina: Sparaciu di salamunia Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio è al nome con cui i Romani chiamavano l'Asparago. Il secondo si riferisce ai cladodi che portano i frutti nella pagina inferiore. Descrizione: Pianta sempreverde provvista di rizoma strisciante, grosso, e di fusti gracili e per lo più semplici. I cladodi sono inermi e molto più grandi di quelli di Ruscus aculeatus L. I fiori, con tepali verdastri, sono dioici e raggruppati in ombrellette di 3­6; essi si formano sulla pagina inferiore dei cladodi, a differenza di quelli del Pungitopo. Ambiente: Luoghi selvatici ma anche coltivati. Parte utilizzata: I nuovi getti (turioni) che si raccolgono in primavera. essi si presentano reclinati all'apice e di colore verde chiaro. Uso: I turioni della Bislingua si consumano come quelli degli asparagi selvatici e coltivati ma il loro sapore è più delicato. Si cucinano lessati e si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si utilizzano come ingredienti di frittate. Commercio: Diffusione: Notizie: ­ Sparaciu di bordura La Bislingua è una pianta sempreverde che viene coltivata nei giardini per scopo ornamentale a formare basse spalliere e bordure. Ricette: Lessi Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Borragine

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Borragine Borago officinalis L. Famiglia: Boraginaceae Sinonimi: Borragine è il più diffuso, ma anche Borraggine, Boragine, Borana, Erba pelosa. Adrano: Vurrania Belpasso: Urrania Biancavilla: Urrania Bronte: Bburraina Castiglione di Sicilia: Bburraina Linguaglossa: Bburraina Maletto: Bburraina Milo: Vurrania Nicolosi: Urrania, Vurrania Pedara: Urrania Ragalna: Vurrania Randazzo: Bburraina San Giovanni la Punta: Urraina Santa Venerina: Vurrania Zafferana Etnea: Urrania, Vurrania

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal latino medievale borrago, nome di origine orientale, che si collega all’arabo abu ‘arak con il significato di “sudorifero” per le proprietà diaforetiche della pianta. Secondo un’altra interpretazione (COSTELLAZZO e ZOLLI, 1979­88) Borago deriva dal nome latino medievale burra = borra, utilizzato per indicare un stoffa di lana a lunghi peli, piuttosto rustica, in riferimento alla setolosità della pianta. La seconda parte del binomio deriva dal latino officina = farmacia e indica le proprietà medicinali della pianta. Descrizione: Pianta erbacea annua marcatamente ispida in tutte le sue parti per la presenza di peli rigidi e pungenti. Il fusto, ricco di mucillagini, è cavo, grosso ma tenero, ramificato nella parte superiore, alto fino a 50 cm. Le foglie, dal tipico aspetto bolloso e reticolato, sono alterne, prive di stipole, quelle basali più grandi, con lamina ovata, quelle cauline lanceolate, sessili e progressivamente più piccole. I fiori, di colore blu intenso (raramente bianchi o porporini), sono regolari, ermafroditi, disposti in cime terminali scorpioidi. La fioritura avviene in tempi diversi a seconda delle località, in Sicilia da gennaio ad aprile. Ambiente: Cresce abbastanza bene su terreno sia vulcanico che sedimentario. E’ presente negli incolti e nei coltivi, ma più frequentemente negli orti e vicino ai luoghi abitati. E’ una specie di origine orientale, diffusa in Europa e nel Mediterraneo, ma in molte zone solo naturalizzata. Parte utilizzata: Sono commestibili sia la pianta intera (a macchia) raccolta all`inizio della primavera, quando è ancora giovane, sia le cime (i spicuni) o le foglie tenere, quando la pianta è matura. L`aspetto ispido della pianta non deve scoraggiare poiché i peli perdono la loro rigidità con la cottura. Uso: Nel nostro territorio la Borragine è usata sia come piatto di verdura, lessata in poca acqua e condita con olio, sia come ingrediente di minestre o zuppe, fra cui principalmente quella di lenticchie. Un`altra caratteristica zuppa in cui si fa uso di questa pianta è quella detta a paparotta: l’erbaggio viene lessato in abbondante acqua nella quale si aggiunge semolino, mescolando continuamente. All`impiego culinario della Borragine si attribuisce, oltre all`evidente potere nutritivo, anche una certa valenza curativa in quanto la pianta possiede una buona quantità di mucillagini ad azione antinfiammatoria e rinfrescante (SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1982; NEGRI, 1960; GIANI ,1987). Commercio: Nei paesi dell`Etna la Borragine ha una mediocre richiesta di mercato; si trova sui carrettini e sulle bancarelle degli ambulanti che in genere, la vendono sfusa, cioè non raccolta in mazzi. Si rinviene sovente a S. Giovanni La Punta e quasi costantemente (durante la stagione idonea) nel mercato domenicale di Randazzo. Diffusione: Già gli antichi Romani consigliavano l`uso della Borragine in diverse pietanze per il particolare gusto che ricorda quello del cetriolo. Attualmente l`uso gastronomico della Borragine è maggiormente diffuso nell`Italia peninsulare rispetto al nostro territorio. Le giovani foglie si consumano crude in insalata, dopo averle tritate e mescolate con altri erbaggi o con pomodori. La rigidità dei peli svanisce per effetto dell`aceto. Le stesse foglie, come pure le cime, vengono consumate lessate e poi condite con olio e limone oppure saltate al burro, strascicate con olio e limone o anche passate al setaccio sottoforma di purè verde. In minestra, per le loro proprietà emollienti, sono buoni succedanei degli spinaci (POMINI, 1959). In Toscana, le foglie lessate e mescolate a quelle della cicoria e ai semi del finocchio costituiscono un caratteristico piatto regionale, la zuppa frantoiana. Nel Senese esse vengono passate nella pastella e poi fritte (CORSI e PAGNI, 1979b). In Lombardia, anche il tenero fusto della Borragine, dopo essere stato avvolto con filetti di acciughe, viene mantecato nella pastella e fritto e consumato come contorno per arrosti. Ma è soprattutto nella cucina ligure che la gustosa Borragine trova largo impiego, specialmente come ripieno dei pansotti, dei quadrucci e della celebre torta pasqualina. In questa regione l`erbaggio viene pure usato per preparare l`impasto delle tipiche lasagne verdi. Nel Trattato dei cibi et del bere edito in Bologna nel 1589, il medico Baldassare Pisanelli consigliava di “mangiarsi il dragoncello in compagnia dei fiori della borragine, con l`indivia o con la lattuga, o con altre herbe”. Dell`erbaggio in esame si utilizzano, infatti, per fini culinari anche i fiori. Essi possono essere adoperati per decorare diverse pietanze, ad esempio disposti su insalate oppure messi a galleggiare nelle zuppiere o nelle caraffe di punch. Inoltre, se canditi, si possono usare per decorare torte e altre confezioni di pasticceria (BONAR, 1990; SIMONETTI, 1990); certi aceti aromatici assumono un bel colore turchino per aggiunta dei fiori di questa pianta (BETTO, 1982). Della Borragine si utilizzano pure i boccioli, conservati sotto aceto e consumati allo stesso modo dei capperi. Infine, dalle foglie pestate in un mortaio si ottiene un succo altamente dissetante e rinfrescante (INDRIO, 1981; MABEY, 1992).

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Notizie: ­ Coltivazione della Borragine Nella regione etnea e in generale in tutto il meridione la Borragine è considerata un`erba infestante, mentre in altre regioni, come in Liguria, è vantaggiosamente coltivata perché ha una buona richiesta di mercato (KUSTER, 1989). ­ Pianta mellifera La w w Borragine è utilizzata anche a scopi non alimentari, ma connessi indirettamente alla alimentazione; essa, infatti, è tenuta in grande considerazione .c .c .d o .d o ck c u -tr a c k soprattutto dagli apicoltori, poiché è una pianta particolarmente mellifera (BREMNESS 1988). ­ I fiori magnifici Lo splendore dei fiori della c u - t r a Borragine è sottolineato dal proverbio siciliano: esseri tutto pitittu e ciuri di bburrania, in riferimento a cosa o persona che si fa desiderare per la sua bellezza. Ricette: Lessi Minestre

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Asparago bianco

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Asparago bianco Asparagus albus L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Adrano: Sparacogna (pianta) Belpasso: Sparaciu jancu Biancavilla: Sparaciu jancu Bronte: Sparaciu jancu Castiglione di Sicilia: Specie non rinvenuta nel territorio Linguaglossa: Specie non rinvenuta nel territorio Maletto: Specie non rinvenuta nel territorio Milo: Specie non rinvenuta nel territorio Nicolosi: Specie non rinvenuta nel territorio Pedara: Specie non rinvenuta nel territorio Ragalna: Sparacogna (pianta) Randazzo: Specie non rinvenuta nel territorio San Giovanni la Punta: Specie non rinvenuta nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Specie non rinvenuta nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva probabilmente dal greco 'sparassien' con il significato di strappare per la presenza di spine oppure da 'asparagos' (da spargaô': è rigonfio). Il secondo termine (albus= bianco) fa riferimento al colore bianco del fusto e dei rami. Descrizione: L'asparago bianco è una pianta a fusto cilindrico, flessuoso, biancastro. I rami principali anch'essi di colore bianco sono patenti. Le foglie sono trasformate in spine dure e pungenti. I cladodi sono molli disposti in fascetti di 6­12, caduchi. I fiori sono ermafroditi e raggruppati in ombrellette dense. Ambiente: Questa specie è presente, oltre che in Sicilia, anche in Sardegna, Corsica e Calabria dove è abbastanza frequente sui terreni sedimentari, mentre sull`Etna ha una diffusione localizzata nel settore sud­orientale e in particolare è abbondante sui terreni lavici di Ragalna, Biancavilla ed anche fra le sciare incolte del costruendo Parco Gioeni di Catania. Parte utilizzata: Di questo erbaggio si consumano gli `asparagi`; cioè i turioni (micci). I turioni dell`Asparago pungente spuntano nel sottobosco a fine inverno e in primavera. Uso: I turioni dell`Asparago bianco si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato e dell'Asparago pungente; Al palato manifestano un sapore amaro che è considerato un pregio. E` anche apprezzata la loro azione diuretica. Come quelli dell'Asparago pungente si preparano in vari modi: stufati (affogati), cioè cotti in padella con poca acqua; lessati e poi conditi con olio e limone. Sono pure buoni come condimento per la pasta o per i risotti o come ingredienti delle frittate. Commercio: I turioni dell'Asparago bianco hanno scarsa diffusione per via della loro limitata distribuzione sul territorio. Diffusione: L`impiego alimentare dell`Asparago bianco è localizzzato solo nelle aree ove è presente. Notizie: Ricette: Lessi Stufati Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Asparago comune

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Asparago comune Asparagus officinalis L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Asparagio, Sparago. Adrano: Sparaciu manzu Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio Biancavilla: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Bronte: Sparaciu manzu Castiglione di Sicilia: Sparaciu `mpiriali Linguaglossa: Sparaciu manzu Maletto: Sparaciu manzu Milo: non rilevato Nicolosi: Sparaciu `mpiriali Pedara: Specie non rinvenuta nel territorio Ragalna: Sparaciu manzu Randazzo: Sparaciu manzu San Giovanni la Punta: Specie non rinvenuta nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Sparaciù di vigna, Sparaciu manzu

Etimologia: Descrizione: L`Asparago comune è una specie decisamente diversa da Asparagus albus L. e A. acutifolius L. poiché ha i rami aerei annuali; essi seccano a fine estate non lasciando traccia visibile del rizoma sotterraneo. I rami, assai ramificati e, di norma, alti fino a 2 m, portano cladodi parecchio molli e densi. La specie è dioica (come Asparagus acutifolius). I fiori, unisessuali, sono isolati o appaiati, con un perigonio a campanella di 3+3 tepali saldati alla base e di colore biancastro. Negli individui maschili essi sono leggermente più grandi e numerosi di quelli femminili che, a maturità, producono bacche rosse delle dimensioni di un cece. Ambiente: Sull`Etna l`Asparago comune, detto Sparaciu `mpiriali, si riscontra quasi esclusivamente in coltivazione negli orti. Secondo alcuni abitanti di Nicolosi e di Randazzo si rinviene anche allo stato spontaneo, probabilmente inselvatichito. Parte utilizzata: L’Asparago comune produce turioni primaverili che sono molto robusti. In campagna, la ricerca di questi turioni è difficile poiché vicino ad essi manca la vistosa parte aerea dell`annata precedente, come si riscontra, invece, nell`Asparago pungente. Gli erborinatori riescono a rintracciarli poiché conoscono le località di crescita per esperienze acquisite negli anni precedenti. Uso: I turioni dell`Asparago comune si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato; essi però hanno un aroma più marcato anche se inferiore a quello dell'Asparago pungente e dell'Asparago bianco. Commercio: Diffusione: L`Asparago comune, in Italia, è abbastanza diffuso (manca, però in Sardegna) e in molte zone è inselvatichito. Dall’asparago comune, per selezione, l’uomo, sin da tempi antichissimi (se ne hanno testimonianze nei geroglifici egiziani), ha ottenuto l’Asparago coltivato. Di esso, attualmente, esistono numerose cultivar nelle quali si riscontra una maggiore produzione di turioni, un aumento delle loro dimensioni. Notizie: Ricette: Lessi Stufati Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Asparago pungente

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Asparago pungente Asparagus acutifolius L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Corruda, Asparagina e Sparagnella. Adrano: Spini du Bamminu Belpasso: Sparacogna (pianta), Sparaciu niuru (turione) Biancavilla: Sparaciu niuru Bronte: Sparacia (turione), Sparaciara (pianta) Castiglione di Sicilia: Sparaciu sarbaggiu, Spinapucciu, Sparaciu spinusu Linguaglossa: Spinipuggiu, Spinapuggiu, Spinapucciu Maletto: Sparaciu (turione), Sparaciaru (pianta) Milo: Spinapulici Nicolosi: Sparaciu niuru, Sparacogna, Spinapulici Pedara: Sparacogna, Spinapulici Ragalna: Spini du Bamminu Randazzo: Sparaciù (turione), Sparaciara (pianta) San Giovanni la Punta: Sparacogna Santa Venerina: Sparacogna, Spinapulici Zafferana Etnea: Sparacogna, Spinapulci

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal vocabolo con cui i latini designavano la pianta (insieme ad altre specie affini senza tuttavia distinguerle), probabilmente derivante dal greco sparassien con il significato di strappare per la presenza di spine oppure da asparagos (da spargaô: è rigonfio). Il secondo termine (acutifolius = foglie aguzze) fa riferimento ai rami trasformati in foglie appuntite. Descrizione: Pianta con rizoma strisciante dal quale si formano numerosi fusti aerei, spesso lianosi, verdi e striati da giovani, legnosi a maturità, con rami trasformati in foglie ( cladodi ) aghiformi e rigide, spinose all’apice. I fusti e i cladodi persistono per più di un anno, formando intricati ed irti cespugli lianosi. L`Asparago pungente è una specie dioica, presenta cioè individui unisessuali, maschili e femminili. Entrambi in primavera, producono fiori piccoli, bianchicci e poco appariscenti; da quelli femminili, a maturità, si formano bacche nerastre, piccole quanto un grano di pepe. Ambiente: Questa pianta ha tipica distribuzione mediterranea, infatti è rara o assente nel nord Italia, mentre è abbondante nelle regioni meridionali e nelle isole. Nel territorio etneo si trova abbastanza di frequente nelle sciare, nelle macchie e nei boschi aridi, dal livello del mare fino a 1500 m di altitudine. Parte utilizzata: Di questo erbaggio si consumano gli 'asparagi'; cioè i turioni (micci). A tal proposito è bene precisare che il termine 'a sparago' è ambivalente; esso designa sia alcune specie di piante (fra cui quella qui esaminata), sia i turioni, cioè i germogli che emergono dal rizoma sotterraneo. Lo stesso nome indica anche quelli dell’Asparago coltivato dalla tipica forma affusolata con l’apice arrotondato. I turioni dell`Asparago pungente spuntano nel sottobosco a fine inverno e in primavera. Essi differiscono da quelli dell’Asparago coltivato sia perché sono più contorti e più sottili sia perché hanno le squame membranose con la base marcatamente speronata, mentre è ottusa nell`Asparago coltivato. I turioni dell’Asparago pungente sono, inoltre, poco appariscenti, ma la raccolta è facilitata dalla presenza dei voluminosi tralci persistenti che la stessa pianta ha prodotto nell’anno precedente. Il fitto intrico della macchia non crea, in genere, difficoltà nella raccolta. Uso: I turioni dell`Asparago pungente si consumano come i turioni dell`Asparago coltivato; essi però hanno un aroma più marcato. Al palato manifestano un sapore amaro che è considerato un pregio. E` anche apprezzata la loro azione diuretica. Si preparano in vari modi: stufati (affogati), cioè cotti in padella con poca acqua; lessati e poi conditi con olio e limone. Sono pure buoni come condimento per la pasta o per i risotti o come ingredienti delle frittate. Queste ultime sono sicuramente quelle più apprezzate e vengono preparate, tradizionalmente, durante le feste pasquali, che di norma cadono quando si ha la massima produzione dei turioni. L`allestimento della `pasta con gli asparagi` (o del riso) richiede alcune accortezze. Occorre, innanzi tutto, separare le tenere cime dei turioni dai rispettivi 'gambi', che sono duri. Successivamente, in un’opportuna quantità di acqua e in recipiente separato, si sbollentano appena le cime e si cuociono più a lungo i gambi. Indi si soffriggono le cime e nell`acqua in cui sono state sbollentate le cime e cotti i gambi si fa cuocere la pasta. Infine si mescola quest`ultima con le cime, riscaldando un poco (CONSOLI, 1991 A). Commercio: I turioni dell`Asparago pungente sono abbastanza utilizzati dalla popolazione locale; questo determina un interessante commercio che è effettuato dagli erbaioli professionisti. In genere, i turioni vengono venduti, riuniti in fasci, lungo i bordi delle strade extraurbane dagli stessi erbaioli che li hanno raccolti, ma si possono anche trovare nelle rivendite di frutta e verdura delle maggiori città etnee. Diffusione: L`impiego alimentare dell`Asparago pungente è diffuso, compatibilmente con la sua presenza, in tutta Italia, e i suoi turioni, di norma, sono più ricercati di quelli delle altre specie selvatiche ed anche di quella coltivata. In Romagna si mangiano anche crudi nelle insalate miste. In Toscana e in Sardegna si conservano sott`olio (CORSI e PAGNI, 1979b; CAMARDA e VALSECCHI, 1990). In varie regioni centrosettentrionali, dove l`Asparago pungente è raro, le Amministrazioni locali hanno emanato leggi per regolarne la raccolta o, in alcuni casi, per designarla “specie protetta” (CHIEJ­GAMACCHIO, 1990). L`uso culinario dei turioni è praticato anche all`estero, specialmente nei Paesi mediterranei, dove, come s`è detto, l`Asparago pungente è abbondantemente presente. Notizie: ­ L`addobbo sacro Nel nostro territorio, ed in varie parti della Sicilia, i tralci dell`Asparago pungente venivano usati, con il nome di Sparacogna, come addobbo di soggetti sacri. Essi, infatti, si presentano di un certo effetto estetico e si mantengono inalterati, per molto tempo, sia

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nella forma che nel colore. In particolare, essi venivano disposti ad arco, a mo` di cielo, sul caratteristico presepe familiare (rutta= grotta) inserendo nelle intricate ramificazioni batuffoli di cotone per simulare i fiocchi della neve. Un altro uso decorativo dei tralci dell`Asparago pungente era quello di . c incorniciare il quadro della Sacra Famiglia (a cona; cioè la icona) che un tempo era devotamente tenuta in ogni abitazione (PILOTTO w . de w c .d o k. o c u -tr a c k FRANCONERI, 1993). In alcuni periodi dell`anno liturgico ­ la novena di Natale e il giorno di S. Giuseppe ­ si usava porre sotto la cona abbondante c u - t r a c frutta di stagione che, a culto ultimato, veniva festosamente consumata dai devoti. Da ciò il detto popolare: si manciau na cona, per indicare una persona che ha consumato un pasto piuttosto abbondante. L`uso dei tralci di Asparago pungente, come addobbo rustico e devozionale, era diffuso anche fuori della Sicilia, ricordiamo che in Emilia venivano utilizzati, nelle case di campagna, per adornare le immagini sacre e in Puglia per abbellire i presepi (RICCARDO, 1921). L`Asparago comune (Asparagus officinalis L.) detto anche Asparagio o Sparago, è una specie decisamente diversa dalle due precedenti poiché ha i rami aerei annuali; essi seccano a fine estate non lasciando traccia visibile del rizoma sotterraneo. I rami, assai ramificati e, di norma, alti fino a 2 m, portano cladodi parecchio molli e densi. La specie è dioica (come Asparagus acutifolius). I fiori, unisessuali, sono isolati o appaiati, con un perigonio a campanella di 3+3 tepali saldati alla base e di colore biancastro. Negli individui maschili essi sono leggermente più grandi e numerosi di quelli femminili che, a maturità, producono bacche rosse delle dimensioni di un cece. L’Asparago comune produce turioni primaverili che sono molto robusti (fig. 3c). In campagna, la ricerca di questi turioni è difficile poiché vicino ad essi manca la vistosa parte aerea dell`annata precedente, come si riscontra, invece, nell`Asparago pungente. Gli erborinatori riescono a rintracciarli poiché conoscono le località di crescita per esperienze acquisite negli anni precedenti. L`Asparago comune, in Italia, è abbastanza diffuso (manca, però in Sardegna) e in molte zone è inselvatichito. Dall’asparago comune, per selezione, l’uomo, sin da tempi antichissimi (se ne hanno testimonianze nei geroglifici egiziani), ha ottenuto l’Asparago coltivato. Di esso, attualmente, esistono numerose cultivar nelle quali si riscontra una maggiore produzione di turioni, un aumento delle loro dimensioni e un sapore più esaltato (anche se resta inferiore a quello dell’Asparago pungente e dell’Asparago bianco). Sull`Etna l`Asparago comune, detto Sparaciu `mpiriali, si riscontra quasi esclusivamente in coltivazione negli orti. Secondo alcuni abitanti di Nicolosi e di Randazzo si rinviene anche allo stato spontaneo, probabilmente inselvatichito. Ricette: Lessi Stufati Frittate Condimenti

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Bacchetta di re

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Bacchetta di re Asphodeline lutea (L.)Rchb. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Astula regia, Asfodelo giallo, Lancia dei re. Adrano: Zubbi Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio Biancavilla: Zubbi Bronte: Zubbi Castiglione di Sicilia: Specie non rinvenuta nel territorio Linguaglossa: Specie non rinvenuta nel territorio Maletto: Zubbi, Battagghiori Milo: Specie non rinvenuta nel territorio Nicolosi: Scornabbeccu Pedara: Scannabbecu Ragalna: Zubbi Randazzo: Zubbi San Giovanni la Punta: Specie non rinvenuta nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Scornabbeccu

Etimologia: Il primo termine del binomio è diminutivo di Asphodelus che è il nome generico di un gruppo di specie affini alla nostra. Asphodelus (Asfodelo), a sua volta, è la latinizzazione del nome dato nell`antica Grecia alla mitica pianta che tappezzava i prati dei Campi Elisi. Tuttavia, secondo una ipotesi più recente, la pianta della mitologia greca non sarebbe l`Asfodelo, bensì l’Asphodeline lutea, essendo quest`ultima più comune in quell’area geografica. Il secondo termine del binomio deriva dal latino con riferimento ai fiori di colore giallo. Descrizione: Pianta erbacea perenne caratterizzata da una densa rosetta di foglie basali, lineari, carenate, glabre, acute all’apice, con bordo liscio e base allargata in una guaina membranosa ialina. In primavera, dal centro della rosetta si origina uno scapo eretto, cilindrico, alto fino a 80 cm, provvisto di foglie simili a quelle basali, ma progressivamente ridotte. Tra aprile e maggio alla sommità dello scapo si sviluppa un vistoso racemo, denso, cilindrico, con fiori gialli che ricorda uno scettro, donde gli appellativi di Bacchetta del re, Astula regia e Lancia dei re. Ambiente: Si riscontra, in genere, nei luoghi aridi, sui substrati lavici degradati e nei pascoli a quote comprese tra i 600 e i 1900 m. Parte utilizzata: Si raccoglie lo scapo fiorale immaturo, quando è ancora avvolto dalle guaine membranose delle foglie. In questo stadio, di durata assai breve, lo scapo è chiamato in dialetto 'zzubbu', 'curina', 'battagghioru' o 'giummu'. Uso: Gli 'zzubbi' si sbollentano, previa asportazione delle foglie e della tenera pellicola esterna, e poi si cucinano in frittata con le uova oppure alla brace, bagnati nel 'salamurigghiu' (condimento a base di olio, limone, sale, pepe e origano). Il loro uso come verdure è poco diffuso, anche a causa della ristretta localizzazione montana della pianta; sembra, inoltre, che la Bacchetta di re sia una verdura difficile da digerire. In passato se ne faceva un discreto impiego nella zona di Maletto e per questo motivo gli abitanti di tale località venivano chiamati 'zzubbari'. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: Citazioni riguardanti l’uso alimentare della pianta (BIANCO e PIMPINI, 1990; BRANCA, 1991) sono scarse, sommarie e prive di indicazioni circa le località di utilizzo. Notizie: E` interessante notare che in molte zone della Sicilia e in altre parti dell`Etna il nome 'Scornabeccu' è riservato al Terebinto (Pistacia terebinthus L.), portainnesto del Pistacchio (Pistacia vera L.) e alla pianta maschile di quest’ultimo; la pianta femminile, invece, è chiamata in dialetto 'Frastuca'. Nelle località dove il termine 'Scornabeccu' è destinato alla Bacchetta di re, il Terebinto è chiamato 'Frastucu' e il Pistacchio 'Frastuca'. Ricette: Frittate Arrosti

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Barba di becco

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Barba di becco Tragopogon porrifolius L. Famiglia: Compositae Sinonimi: Salsefica, Sassefica, Salsefì, Bugia. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: non rilevato Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Pedi di lupu Linguaglossa: Brambascu Maletto: Lattaroli Milo: Latti d`aceddu Nicolosi: Pampasciuscia, Cuttuneddu Pedara: Stuppacanedda, Erba di S. Petru Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Barbabecchi San Giovanni la Punta: Latti d`aceddu Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Pistalaceddi, Latti d`aceddi

Etimologia: Il primo termine del binomio significa `barba di caprone` e deriva dal greco tragos = caprone e pôgôn = barba, in allusione al pappo sericeo dei frutti. Il secondo termine deriva dal latino con riferimento alla presenza di foglie simili a quelle del Porro (Allium porrum L.). Descrizione: Pianta erbacea biennale, glauca, caratterizzata da una radice a fittone, ingrossata, legnosa, e da uno scapo eretto, alto 60­120 cm, provvisto di foglie lineari, con margine leggermente ondulato e guaina amplessicaule. Durante il secondo anno di vita, tra aprile e giugno, all’ apice del fusto si sviluppa, su un peduncolo piuttosto ingrossato, un capolino di ca. 6­7 cm di diametro, costituito da fiori bruno­violacei. I frutti sono acheni forniti di pappi sericei, chiamati in dialetto 'nanu', 'nannu' o 'naneddi'. Ambiente: Luoghi erbosi per lo più umidi. Parte utilizzata: Nella tradizione alimentare etnea, della Barba di becco si consumano i getti primaverili, formati dal fusto ancora avvolto dalle foglie appressate, che ricordano i turioni dell’Asparago. Uso: I giovani getti della Barba di becco si cucinano lessati e si condiscono come le altre verdure. In qualche località, come Castiglione, a detta di alcuni si mangiano anche crudi in insalata per il loro sapore dolciastro. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: Mentre in tutta la Sicilia e in genere nell’Italia meridionale, la Barba di becco viene ricercata dagli erborinatori per i getti primaverili, nell’Italia settentrionale si utilizza l’affine Tragopogon porrifolius L. var. sativus Gater. principalmente per la radice che si presenta piuttosto robusta e carnosa. Essa ha un sapore simile a quello delle noci e, secondo alcuni, ricorda addirittura quello delle ostriche (INDRIO, 1981). Il periodo di raccolta è antecedente a quello della fioritura. Si cucina lessata, alla griglia oppure fritta in pastella; si mangia anche condita con burro o in raffinate ricette con crema e formaggio (DE ROUGEMONT, 1990). Questa radice può essere anche tagliata in dischetti di 1­2 cm di spessore per essere essiccata al sole e poi conservata sotto vetro, come si fa con i funghi secchi. In passato, le radici essiccate venivano anche macinate per ricavarne una farina con la quale si confezionavano prodotti da forno, sia salati che dolci, fra cui i bignè. La radice tritata si utilizza anche come surrogato del caffè. Le giovani foglie, infine, si consumano cotte in minestre al posto degli spinaci (POMINI, 1956). Notizie: ­ La Scorzobianca Tragopogon porrifolius L. var. sativus è un ortaggio conosciuto fin dall`antica Grecia ed attualmente molto diffuso in Francia e in altri paesi dell`Europa occidentale. Il pregio di questa pianta, derivata dalla Barba di becco selvatica, è dato dalla dimensioni della radice che è molto ingrossata e ricorda quella della Carota; essa è ricca di zuccheri (inulina, inositolo e mannitolo) che le conferiscono un sapore decisamente dolce. Per il suo colore, biancastro all`esterno e bianco candido all’interno, è volgarmente chiamata Scorzobianca. ­ Un delicato ombrello. Gli acheni, sormontati da un pappo piumoso a forma di ombrello, a maturità si staccano dal ricettacolo e restano facilmente in aria sostenuti dal vento. Dalle nostre parti, i ragazzi si dilettano a disperdere gli acheni soffiando su di essi; se questi nell`atterrare si depositano sui loro vestiti e vi aderiscono significa che l`anima di un loro vecchio parente defunto è venuta a visitarli. Da questa credenza deriva il nome u nannu dato a questi canuti fiocchetti. Nel Palermitano, invece, i fanciulli ritengono che gli acheni sospinti dal vento vadano nelle case a rubare quattrini; arrobba dinari, infatti, è il nome dato, in quelle località, agli acheni con pappo. Nel Veneto i ragazzi, soffiando sui pappi, pretendono di indovinare le bugie dette da ciascuno in relazione al numero di volte che bisogna soffiare sui capolini per riuscire a staccare completamente gli acheni. ­ Su altri nomi volgari. Il termine Bugia è collegato al gioco infantile di soffiare sopra i pappi degli acheni, appena citato. Salsefrica, e similari, è una deformazione di Saxifraga derivato dal latino saxum = sasso e frangere = spaccare, ovvero spaccasassi, in riferimento alla proprietà di frantumare i calcoli renali. Ricette: Lessi Insalate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Barbatella

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Barbatella Tolpis quadriaristata Biv. Famiglia: Compositae Sinonimi: Cicoria inversa, Radicchio virgato. Adrano: non rilevato Belpasso: Scaluredda Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: non rilevato Linguaglossa: Erba janca Maletto: Gallinella Milo: non rilevato Nicolosi: Lattuchedda Pedara: non rilevato Ragalna: non rilevato Randazzo: Specie ritenuta non commestibile nel territorio San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Scaluredda

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco 'tolypé' = pallottolina in riferimento alla forma dell'infiorescenza che si presenta rigonfia (FOURNIER, 1961). Il secondo termine, invece, si riferisce alle quattro setole del pappo. Descrizione: Pianta erbacea perenne con radice robusta, caratterizzata, in primavera, da una rosetta di foglie basali, ovali ­ lanceolate, più o meno incise o lobate, pubescenti e di colore verde pallido tendente al bianco. In estate produce un lungo fusto eretto, ramificato in basso, pubescente, alla cui sommità si sviluppano diversi capolini di fiori lunghi fino a 15 mm, di colore giallo­cedrino quelli esterni e nerastri quelli più interni (POLUNIN e HUXLEY, 1968). I frutti sono acheni provvisti di un pappo con 4 setole. Questa entità viene spesso confusa con altre simili fra cui T. virgata Bertol. e T. umbellata Bertoloni. FIORI (1923­29) la ritiene una varietà di T. virgata; PIGNATTI (1982), ravvisando la necessità di una più attenta analisi del gruppo, la considera una sottospecie; a nostro avviso, invece, è da considerare una buona specie, così come proposto dal Bivona. Ambiente: Questa specie è endemica della Sicilia, isole Eolie e Pantelleria, dove cresce negli incolti aridi; sull’Etna, in genere, si rinviene fra le rocce o sui muretti a secco dei coltivi. Parte utilizzata: La rosetta di foglie basali, che va raccolta in inverno, assai prima della fioritura, con l’aiuto di un coltello. Uso: I cespi di Barbatella si preparano lessati e conditi con olio; sono saporiti, carnosi e il loro gusto ricorda quello della Costolina. L'uso alimentare di questa pianta è stato riscontrato solo in due località del territorio etneo, Milo e Linguaglossa. Ciò appare alquanto strano, poiché la specie è presente su tutta l`area in esame e l`erbaggio è molto buono da mangiare. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: La Barbatella non è citata nei manuali di fitoalimurgia, sebbene sia abbondantemente diffusa nell`Italia meridionale. Notizie: ­ Pianta ornamentale La Barbatella è considerata anche una pianta ornamentale, adatta a formare bordure nelle aiuole delle ville (TRAVERSO, 1926; BRICKELL, 1990). ­Sul nome Barbatella Questo nome volgare è riferito ad altre specie affini, che gli inesperti confondono tra loro, per la presenza nel capolino di brattee involucrali d’aspetto simile a filamenti barbosi. Poiché tale carattere è pure presente in T. quadriaristata si è ritenuto opportuno confermare anche per questa entità il nome volgare Barbatella. Ricette: Lessi

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Bellavedova

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Bellavedova Hermodactylus tuberosus (L.) Salisb. Famiglia: Iridaceae Sinonimi: Bocca di lupo, Iride vellutata. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Buttuni di jaddu Linguaglossa: Sucameli, Buttuni di jaddu Maletto: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Milo: Cricch`ê addu Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Castagnotto San Giovanni la Punta: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Pizzicaladdi

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco Hermes = Mercurio e dactylos = dito, ovvero dito di Mercurio in riferimento ai tubercoli digitati del rizoma; esso nell’antica Grecia indicava la porzione sotterranea di una pianta medicinale non identificata. Il secondo termine è riferito al rizoma tuberizzato. Descrizione: Pianta erbacea perenne con rizoma sottile provvisto di 2­4 tubercoli di aspetto digitato, dal quale, sul finire dell`inverno, si sviluppano alcune foglie lineari lunghe 3­6 dm. In primavera, fra le foglie emerge il fusto, alto non più di 30 cm, che produce un unico fiore, piuttosto caratteristico, avvolto parzialmente da una spata, e simile a quello del Giaggiolo, ma con tepali esterni di colore nero­purpureo e tepali interni verde­ giallastro. Il frutto è una capsula obovata senza setti. Ambiente: La Bellavedova si rinviene nelle boscaglie e nelle garighe dell`Italia centro­meridionale (esclusa la Sardegna), dal livello del mare fino a ca. 1500 m di quota. Parte utilizzata: Si consuma, fondamentalmente, il rizoma tuberizzato, ricco di amido e chiamato patatella a Randazzo, buttuni a Linguaglossa e Castiglione, ovu a Milo e patacchedda a Ragalna. Per la sua estrazione dal terreno è indispensabile una zappetta. Si utilizza, inoltre, meno comunemente il peduncolo fiorale. Uso: I rizomi della Bellavedova si consumano arrostiti alla brace oppure bolliti in acqua e sale dopo aver tolto la pellicina esterna. Nel territorio in esame l`uso alimentare dei rizomi della Bellavedova è limitato solo ad alcune aree ben localizzate, quali Linguaglossa, Castiglione e Randazzo. In molte altre località, la pianta, pur presente e nota, non trova alcun impiego alimentare. Il peduncolo fiorale non ha un vero e proprio impiego gastronomico, ma si assapora masticandolo crudo per il suo succo di sapore dolce; per questo motivo, nelle campagne di Linguaglossa, la pianta è chiamata Sucamele. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: In tutte le pubblicazioni di fitoalimurgia consultate la Bellavedova non è citata come pianta alimentare, ad esclusione di un lavoro di BRANCA (1991) nel quale, però, si accenna all’utilizzo della porzione fiorale. Notizie: ­ La Bellavedova e l`Istrice. I rizomi della Bellavedova, altamente ricchi di sostanze nutritive, costituiscono uno degli alimenti preferiti dall`Istrice (Histrix cristata L.). Questo robusto roditore li dissotterra scavando con le sue robuste unghie buche che lasciano inconfondibile traccia della presenza dell`animale nel territorio. Ricette: Lessi Arrosti

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Bellavedova Hermodactylus tuberosus (L.) Salisb. Famiglia: Iridaceae Sinonimi: Bocca di lupo, Iride vellutata. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Buttuni di jaddu Linguaglossa: Sucameli, Buttuni di jaddu Maletto: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Milo: Cricch`ê addu Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Castagnotto San Giovanni la Punta: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Pizzicaladdi

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco Hermes = Mercurio e dactylos = dito, ovvero dito di Mercurio in riferimento ai tubercoli digitati del rizoma; esso nell’antica Grecia indicava la porzione sotterranea di una pianta medicinale non identificata. Il secondo termine è riferito al rizoma tuberizzato. Descrizione: Pianta erbacea perenne con rizoma sottile provvisto di 2­4 tubercoli di aspetto digitato, dal quale, sul finire dell`inverno, si sviluppano alcune foglie lineari lunghe 3­6 dm. In primavera, fra le foglie emerge il fusto, alto non più di 30 cm, che produce un unico fiore, piuttosto caratteristico, avvolto parzialmente da una spata, e simile a quello del Giaggiolo, ma con tepali esterni di colore nero­purpureo e tepali interni verde­ giallastro. Il frutto è una capsula obovata senza setti. Ambiente: La Bellavedova si rinviene nelle boscaglie e nelle garighe dell`Italia centro­meridionale (esclusa la Sardegna), dal livello del mare fino a ca. 1500 m di quota. Parte utilizzata: Si consuma, fondamentalmente, il rizoma tuberizzato, ricco di amido e chiamato patatella a Randazzo, buttuni a Linguaglossa e Castiglione, ovu a Milo e patacchedda a Ragalna. Per la sua estrazione dal terreno è indispensabile una zappetta. Si utilizza, inoltre, meno comunemente il peduncolo fiorale. Uso: I rizomi della Bellavedova si consumano arrostiti alla brace oppure bolliti in acqua e sale dopo aver tolto la pellicina esterna. Nel territorio in esame l`uso alimentare dei rizomi della Bellavedova è limitato solo ad alcune aree ben localizzate, quali Linguaglossa, Castiglione e Randazzo. In molte altre località, la pianta, pur presente e nota, non trova alcun impiego alimentare. Il peduncolo fiorale non ha un vero e proprio impiego gastronomico, ma si assapora masticandolo crudo per il suo succo di sapore dolce; per questo motivo, nelle campagne di Linguaglossa, la pianta è chiamata Sucamele. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: In tutte le pubblicazioni di fitoalimurgia consultate la Bellavedova non è citata come pianta alimentare, ad esclusione di un lavoro di BRANCA (1991) nel quale, però, si accenna all’utilizzo della porzione fiorale. Notizie: ­ La Bellavedova e l`Istrice. I rizomi della Bellavedova, altamente ricchi di sostanze nutritive, costituiscono uno degli alimenti preferiti dall`Istrice (Histrix cristata L.). Questo robusto roditore li dissotterra scavando con le sue robuste unghie buche che lasciano inconfondibile traccia della presenza dell`animale nel territorio. Ricette: Lessi Arrosti

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Cappero Capparis spinosa L. Famiglia: Capparidaceae Sinonimi: Adrano: Chiapparu Belpasso: Specie non rinvenuta nel territorio Biancavilla: Chiapparu Bronte: Chiapparu Castiglione di Sicilia: Chiappiru Linguaglossa: Chiappuli Maletto: Specie non rinvenuta nel territorio Milo: Specie non rinvenuta nel territorio Nicolosi: Specie non rinvenuta nel territorio Pedara: Specie non rinvenuta nel territorio Ragalna: Chiapparu Randazzo: Specie non rinvenuta nel territorio San Giovanni la Punta: Chiappara Santa Venerina: Chiapparu Zafferana Etnea: Chiapparu

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco Kápparis, nome col quale si designava la pianta. Il secondo termine si riferisce alle stipole delle foglie trasformate in spine. Descrizione: Elegante arbusto caratterizzato da tralci lunghi fino a 2 metri, prostrati o ricadenti con foglie rotonde o ovato­rotondate, glabre, mutiche o brevemente mucronate, di colore verde lucido. Da maggio ad agosto si sviluppano, all’ascella delle foglie superiori, vistosi fiori bianco­rosati forniti di numerosi stami riuniti in un ciuffo di filamenti violetti all’apice. Il frutto è una bacca verde di forma ovoidale ('cetriolini', 'zucchette' o 'cappausse'). Ambiente: L’habitat della pianta è rupestre o ruderale; essa si riscontra nelle fessure delle rocce, anche verticali, oppure tra le crepe dei vecchi muri di ville, castelli e monumenti antichi. Predilige, in genere, le stazioni costiere, aride e ben esposte. Sull`Etna non supera 600 m di altitudine. Parte utilizzata: Della pianta si utilizzano, per fini alimentari, i boccioli fiorali immaturi (detti bottoni o semplicemente capperi), i frutti, simili a piccoli cetrioli, e le giovani cime dei tralci che si presentano arrossate per l’abbondante presenza di carotenoidi. Uso: I capperi, e talora anche i “cetriolini”, vengono utilizzati per aromatizzare e condire un`infinità di pietanze. Meno noto è invece l`uso della pianta come verdura. Un ottimo piatto di verdura si ottiene dai boccioli maturi e dalle cime tenere dei tralci consumati freschi insieme o separati. Queste parti della pianta, prima di essere consumate, necessitano di una adeguata preparazione per la presenza nei loro tessuti di una sostanza amarissima ed irritante (rutina) solubile in acqua. Occorre quindi che la verdura venga sbollentata, strizzata e poi, per un paio di giorni, immersa nell’acqua fredda (meglio se salata), acqua che bisogna sostituire due o tre volte al dì (in dialetto questa procedura è detta cura). Eliminata la sostanza amara, la verdura può essere cucinata e condita con olio, limone e origano. Commercio: Non si hanno notizie della vendita di cime e di boccioli di Cappero. Diffusione: Il Cappero viene utilizzato come verdura solo in Sicilia. Scarsi sono i dati di letteratura a riguardo; BIANCO e PIMPINI (1990) ne citano l’uso solo per le cime. Notizie: ­ I due Capperi Nell`Italia meridionale (compresa la Sicilia), oltre a Capparis spinosa L. si rinviene anche C. ovata Desf., pianta con foglie tomentose, ellittiche, provviste alla base di spine evidenti e persistenti. E’ anch`essa commestibile, sia conservata che fresca, sebbene i suoi bottoni fiorali siano considerati di minor pregio. La gente del luogo, in dialetto non fa alcuna distinzione fra le due specie di Cappero. ­ Il detto `Sparàrisi a chiappara` In dialetto catanese esiste questa locuzione per indicare una persona che fa sfoggio di eleganza. L`espressione è riferita ai fiori del Cappero, appariscenti ed eleganti. ­ Uso come condimento L’uso del cappero come condimento era già noto nell`antico Egitto, dove veniva usato sia in cucina che nella medicina popolare. In Grecia l`aroma dei capperi era esaltato da poeti, anche se Dioscoride credeva fossero frutti (KUSTER, 1989; CAMARDA e VALSECCHI, 1990). Nella Roma imperiale i capperi erano sempre presenti sulle mense; di essi esistevano tre categorie di qualità decrescenti: garum, allec e muria. Nel Medioevo, per la grande richiesta, i boccioli del Cappero venivano sostituiti con quelli della Calta (Caltha palustis L.), della Coclearia (Cochlearia officinalis L.) e del Favagello (Ranunculus ficaria L.). Nel 1500 in Spagna la pianta, divenuta di interesse agronomico, cominciò ad essere ampiamente coltivata. I capperi, sia selvatici che coltivati, si commerciano e si usano come prodotto conservato. A tale scopo si raccolgono, in giornate asciutte, i bottoni fiorali (nonché i “cetriolini”), si selezionano in base al calibro e poi si conciano sotto sale o sott’aceto. I capperi migliori sono piccoli, sodi, di colore verde­oliva e punteggiati di scuro. I frutti (detti in dialetto citruletti o truleddi di chiappara) vengono confezionati e commercializzati allo stesso modo dei bottoni fiorali, ma vengono utilizzati soprattutto per la preparazione della pasta di capperi. In Italia, le aree a maggior coltivazione di capperi sono le isole di Pantelleria e di Salina. Come condimento, i capperi vengono impiegati in numerose pietanze, quali caponata, coniglio alla cacciatora, stoccafisso alla messinese, ecc. (BETTO, 1982) Si utilizzano anche per preparare due salse tipiche siciliane, il pesto pantesco e la ventresca di tonno.

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Ricette: Aromi Lessi Insalate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Cardogna

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Cardogna Scolymus grandiflorus Desf. Famiglia: Compositae Sinonimi: Cardoncello selvatico, Cardo scòlimo, Cardo colino, Guardabue, Scardiccione, Scolino, Cardaburdue, Barba gentile, Carciofo piccolo. Adrano: Scoddi Belpasso: Scoddi Biancavilla: Scoddi Bronte: Scolli Castiglione di Sicilia: non rilevato Linguaglossa: Rattameli Maletto: Scolli Milo: non rilevato Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: non rilevato Ragalna: Scoddi Randazzo: Scolli San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Zammurri di campagna

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco scolymos, nome col quale si indicava un cardo commestibile; il secondo è riferito alle notevoli dimensioni dei fiori. Descrizione: Pianta erbacea perenne dal tipico aspetto di cardo. E’ una pianta robusta, molto spinosa e fornita di una vigorosa radice.All`inizio della primavera, compare un cespo di foglie, provviste di penetranti aculei, tenere da giovani, coriacee a maturità. Dal cespo si erge, in estate, un fusto alto più di 1 m che porta capolini di grandi dimensioni con fiori di colore giallo­citrino. Ambiente: La Cardogna cresce negli incolti aridi e ai bordi delle strade campestri, dal livello del mare fino a 1500 m di altitudine. Parte utilizzata: Pur essendo una pianta poco invitante, per la presenza delle acuminate spine, la Cardogna fornisce un`eccellente verdura assai apprezzata dai palati più fini. La raccolta di quest`erbaggio si effettua in primavera, quando i cespi basali sono emersi da poco tempo e le foglie sono ancora tenere. La pianta si sradica con una zappetta, si capovolge e, sorreggendola per la radice, si priva delle foglie più esterne e della metà di quelle mediane. Si ottengono così dei cespi che, essendo ancora molto spinosi, vanno posti in un contenitore dove si lasciano per qualche ora (o per l’intera notte) allo scopo di rendere le spine meno pungenti, per essere poi opportunamente mondati a casa. Ad Adrano si usa raccogliere anche i fusti teneri (i trunzi); essi, dopo spellatura, si lessano allo stesso modo dei gambi del carciofo. Uso: I cespi della Cardogna, prima di essere cucinati, devono essere ulteriormente trattati. Ciascun cespo si impugna dalla radice e le sue foglie pungenti vanno private della lamina ad eccezione della costa mediana. Le grosse nervature, a loro volta, si spellano con l`indice e il pollice, partendo dalla base fogliare. Successivamente, si recide la radice a livello del colletto, quindi si asportano le piccole e spinosissime foglie centrali. Per favorire la cottura, infine, si effettua una incisione a forma di croce sul torso. I cespi mondati si consumano come i carducci dei Carciofi coltivati, rispetto ai quali hanno un sapore simile ma più intenso. Essi vengono bolliti e conditi con olio e limone oppure fritti in pastella. Commercio: Non si conoscono notizie a riguardo e si ritiene che non possa esistere un mercato di questa verdura, considerata la laboriosità della raccolta e della preparazione. Diffusione: Diversi manuali di fitoalimurgia riguardanti il territorio italiano citano questa specie, insieme a Scolymus hispanicus e S. maculatus, come pianta edule (TRAVERSO, 1926; LONARDONI e LAZZARINI, 1993­94; BIANCO e PIMPINI, 1990). In particolare, i riscontri maggiori si riferiscono a Scolymus hispanicus, essendo questa specie distribuita in tutto il territorio. Notizie: Ricette: Lessi Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Carlina

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Carlina Carlina hispanica Lam. Famiglia: Compositae Sinonimi: Carlina, Carlina spagnola. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: non rilevato Castiglione di Sicilia: non rilevato Linguaglossa: Mazzacani Maletto: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Milo: Mazzacani Nicolosi: Mazzacugghiuna Pedara: non rilevato Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Mazzacugghiuni San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: Mazzacani Zafferana Etnea: Mazzacani

Etimologia: Il primo termine del binomio, proposto nel secolo XIV dal botanico aretino Andrea Cesalpino, ha origine controversa; secondo alcuni autori si riferirebbe a Carlo Magno, al quale, secondo una leggenda, un angelo avrebbe rivelato le virtù prodigiose di questa pianta per guarire il suo esercito dalla peste; secondo altri il termine sarebbe corruttela di cardina, che è il diminutivo di Cardo, pianta quest`ultima molto simile alla Carlina. Il secondo termine indica la regione di provenienza del materiale sul quale J. B. Lamarck descrisse la specie. Descrizione: Pianta erbacea perenne con aspetto di cardo, fornita di un rizoma ingrossato e lignificato. Le foglie sono ovato­lanceolate, dentate e spinose. Il fusto, sparsamente ramificato, è eretto, alto non più di 70 cm e coperto da una peluria ragnatelosa. All`apice dei rami, da luglio ad ottobre, si sviluppano gruppi di capolini. Ciascun capolino, formato da numerosi piccoli fiori tubulari, ha le squame involucrali esterne fogliacee e quelle mediane spinescenti all’apice. Quando sono secche esse hanno un colore giallo­dorato, molto lucente e sono particolarmente pungenti. Ambiente: Si riscontra frequentemente nei luoghi aridi. Parte utilizzata: Di questa pianta si consumano i fusti che vanno raccolti in primavera, quando sono ancora teneri. Questi, mediante un attrezzo tagliente (roncola, falce, forbice), si recidono alla base e in prossimità della porzione apicale, escludendo i rami laterali e i giovani capolini. Uso: Una volta raccolti, i fusti, detti in dialetto 'trunzi', si mondano dalle foglie, si tagliano in segmenti lunghi 5­8 cm e, con l’aiuto del coltello, si spellano asportando la cuticola piuttosto dura. Si ottengono così dei torsi che vanno sbollentati e conditi con olio ed aceto. Il loro sapore è particolare, ricorda, infatti, quello dei peduncoli dei carciofi e delle nocciole. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: Nessun manuale di fitoalimurgia riporta questa specie come pianta alimentare, sebbene sia diffusa in tutta l`Italia centro­meridionale e nelle isole. Notizie: Ricette: Lessi

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Cascellore

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Cascellore Bunias erucago L. Famiglia: Cruciferae Sinonimi: Cascellora, Landra, Barlanda, Cascella. Adrano: Cicoina sarbaggia Belpasso: Triuliddi Biancavilla: non rilevato Bronte: Cicoina Castiglione di Sicilia: Spinacia sarvaggia Linguaglossa: Spinacia Maletto: Cicoina, Erba stidda, Erba stilla Milo: Cicoina di vigna Nicolosi: Ciconia Pedara: Ciconia Ragalna: Cicoina sarbaggia Randazzo: Mazzarelli, Cicoira San Giovanni la Punta: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Santa Venerina: Ciconia di vigna Zafferana Etnea: Spinacia

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco bounias, nome con il quale si indicava una sorta di rapa provvista di lunghi peli. Tuttavia, è anche probabile che il termine derivi da buonòs = collina, per indicare l’ambiente tipico della pianta. Il secondo termine sta ad indicare la somiglianza morfologica con la Rucola (Eruca sativa Miller). Descrizione: Pianta erbacea annuale alta fino a 80 cm e provvista di una leggera peluria. E’ caratterizzata da una rosetta di foglie basali (che compare all’inizio dell’inverno) pennatosette, con lembo profondamente inciso in lobi triangolari a margine irregolarmente dentato. All’inizio della primavera, dal centro della rosetta si sviluppa un fusto eretto, ramoso in alto, con foglie oblungo­spatolate aventi il margine disordinatamente dentato. I fiori sono piccoli, tetrameri, con petali di colore giallo. I frutti sono piccole siliquette, lunghe ca. 1 cm, con un becco centrale a 4 ali laterali irregolarmente dentate. Durante la maturazione dei frutti le foglie basali iniziano a disseccarsi e successivamente scompaiono. Ambiente: La specie, che cresce dal livello del mare fino ai 2200 m di altitudine, è comune in tutto il territorio etneo, sia negli incolti sia nelle colture, in particolare nei vigneti, ma non forma mai densi popolamenti. Parte utilizzata: Le parti commestibili della pianta sono le foglie basali che si raccolgono durante l’inverno appena compaiono, poichè successivamente, quando si forma lo scapo fiorale, non sono più appetibili. Le rosette si identificano facilmente per la tipica forma delle foglie. Uso: Le foglie si fanno lessare e poi si condiscono con olio. Il loro sapore ricorda quello del Cavolo e del Cavolicello, ma di quest’ultimo non ha il tipico gusto amaro. Commercio: Inesistente. Diffusione: Il Cascellore è un erbaggio conosciuto in tutta Italia (CORSI e PAGNI, 1979a). In diverse regioni, come in Lombardia, Toscana e Puglia, si mangia anche crudo in insalata (POLUNIN e HUXLEY, 1968). In genere, però, si utilizza bollito, saltato in padella o aggiunto alle minestre (POMINI, 1956). Una minestra assai nota, preparata con riso e fagioli, è detta, in Lombardia, ris e barland. (BIANCHINI et al., 1973; CORBETTA, 1991). Nell’Italia settentrionale si rinviene una specie affine, il Cascellore orientale (Bunias orientalis L.) anch’essa usata come verdura. In varie parti della Penisola sia il Cascellore comune che il Cascellore orientale sono oggetto di coltivazione specializzata e sono presenti, in quantità rilevante, nei mercati cittadini (ARIETTI, 1974). Notizie: Ricette: Lessi

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Cavolicello

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Cavolicello Brassica fruticulosa Cyr. Famiglia: Cruciferae Sinonimi: Cavolo rapiciolla. Adrano: Caluceddu, Caliceddu Belpasso: Caluceddu Biancavilla: Caliceddu Bronte: Cauricellu, Cavuricellu, Coricellu, Quaricellu Castiglione di Sicilia: Cauliceddu Linguaglossa: Coliceddu Maletto: Caulicellu di vigna, Quaricellu Milo: Qualiceddu Nicolosi: Caluceddu Pedara: Caliceddu Ragalna: Caluceddu, Caliceddu Randazzo: Cauricellu San Giovanni la Punta: Cauliceddu Santa Venerina: Cavuliceddu, Qualiceddu Zafferana Etnea: Qualiceddu

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui i Latini indicavano il Cavolo (Brassica oleracea L.); esso deriva dal celtico bresic (o brassic) con lo stesso significato; il secondo deriva da frutex, ­icis in riferimento all’aspetto arbustivo della pianta. Descrizione: Pianta annuale, raramente bienne, con fusto legnoso alla base, più o meno suffruticoso che conferisce un caratteristico aspetto arbustivo. Le foglie basali, lievemente cerose e di colore verde­glauco, sono lunghe 5­12 cm, disposte in rosetta, lirate, con lobo apicale intero o profondamente inciso e 2­4 coppie di segmenti laterali più piccoli; quelle caulinari sono ridotte o quasi assenti. La pianta, che non supera i 60 cm di altezza, produce, tutto l`anno, fiori con sepali violacei e petali giallo­limone. Ambiente: E’ una specie diffusa nelle aree che si affacciano sul Mediterraneo centro­occidentale. In Italia è presente nelle regioni centro­meridionali dove non è uniformemente distribuita. Tale ineguale ripartizione geografica è dovuta principalmente alla preferenza della pianta per i suoli silicei. In Sicilia si riscontra quasi esclusivamente sui suoli cristallini dei Peloritani, sulle vulcaniti di alcune isole minori (Linosa, Ustica, Eolie) e sull`Etna dove è largamente diffusa, dal livello del mare fino a 1200 m. La pianta cresce un po’ ovunque, prediligendo, tuttavia, in modo particolare i vigneti; si trova con una certa abbondanza anche nei pometi; l’uso eccessivo di diserbanti in queste colture sta, però, determinandone la progressiva scomparsa. Parte utilizzata: Si raccolgono, tipicamente, i giovani getti delle piante adulte; qualche volta anche le foglie tenere oppure l`intera pianta appena germinata. L`erborinatore inesperto può confondere il Cavolicello con un altro erbaggio simile nella forma, il Rapastrello (Raphanus raphanistrum L.) che ha le foglie più ruvide. Uso: Il Cavolicello è la verdura “regina” del territorio etneo. Conosciuta ed apprezzata dalla popolazione locale (rurale e cittadina) viene attivamente raccolta dall`autunno alla primavera. Addirittura si allestiscono per essa anche sagre paesane (ARCIDIACONO, 1992b). Le parti commestibili devono essere cotte in abbondante acqua (meglio se di cisterna), quindi strizzate fra due piatti per eliminare l’acqua di cottura e condite con abbondante olio di oliva. L’uso più appropriato, tuttavia, è come contorno alla salsiccia cotta alla brace. Questa verdura ha un gusto deciso, inconfondibile e gradito al palato; esso è dovuto ad un eteroside sulfonato che è una sostanza aromatica. Commercio: Quest`erbaggio è abbastanza venduto sia nei grossi centri che nei paesi minori. Di norma si trova presso gli ambulanti, ma talora anche nei negozi di frutta e verdura. Si tratta ovviamente di un commercio minore; ma nel territorio etneo sono molte le persone, dette i caliciddara, che praticano questa attività commerciale. Il termine dialettale caliciddara (o qualiciddara) è attribuito anche, in senso più generale, a tutti coloro che raccolgono verdure selvatiche a fine di lucro. Il termine quindi ha il significato di erbaiolo. A proposito della commerciabilità di questa pianta c’è da fare un`ultima annotazione. In qualche centro etneo alcuni contadini si sono messi a coltivare quest`erbaggio, che vendono con un certo profitto. Diffusione: In Italia, l’uso alimentare del Cavolicello non è riportato da nessun manuale di fitoalimurgia, né da testi che si occupano delle verdure spontanee. Ciò è dovuto, principalmente, alla sua circoscritta distribuzione geografica, come prima accennato. Tuttavia nelle aree dove è presente viene utilizzato dalle popolazioni locali. In Sicilia, oltre che sull’Etna, si consuma in altri territori dove è noto con peculiari denominazioni locali, a Ustica è chiamato Rapudda, a Linosa Rapuzzra, nelle Eolie Rapuddu e nei Peloritani Cavuliceddu. Notizie: ­ Sulla denominazione volgare Poiché la distribuzione della specie è quasi esclusiva dell’Italia meridionale, frammentaria e localizzata in particolari distretti, sono noti diversi nomi dialettali che, tra l’altro, cambiano da un luogo all`altro. Oltre a quelli siciliani, già citati, ricordiamo quello napoletano, Friarello e quello in uso a Ischia, Rapiciolla. Manca pertanto quello volgare italiano. Assegnare, quindi, il nome volgare a questa specie ha comportato una certa difficoltà. D’altronde i nomi che tutti i vocabolari siciliani riportano alla voce Cauliceddu e Cavuliceddu, quali Colza (BUNDI, 1857; TRAINA, 1868; MACALUSO, 1875; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; PICCITTO­TROPEA, 1977­90), Cavolino campestre (NICOTRA, 1883, NICOTRA­D`URSO, 1922) Cavolo perfilato (TRAINA, 1868; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; Cime amarelle (TRISCHITTA­MANGIO`, 1925), Erba albertina, Ravastrello (PICCITTO­TROPEA, 1977­90), Senapaccia (TRAINA, 1868, PICCITTO­TROPEA, 1977­90) non possono essere presi in considerazione per le seguenti ragioni: 1) non si riferiscono a Brassica fruticulosa; 2) alcuni di essi sono stati

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coniati ex novo senza alcuna derivazione da parlate locali; 3) alcuni ancora, come Colza e Ravastrello, sono termini attribuiti, nella lingua corrente, anche ad altre specie (Navone, Rapa, e Rapastrello). PROVITINA (1990) chiama questa specie Brassica, nome da scartare per la sua genericità, mentre PIGNATTI (1982), seguito da BRANCA (1991), propone Cavolo rapiciolla; il primo termine è la traduzione di Brassica e il secondo è w w il c .c .d o .d o k. c u -tr a c k termine dialettale ischiano. Lo scrittore siciliano Ercole Patti nel romanzo “Un bellissimo novembre” cita questo erbaggio con il nome di c u - t r a c “Cavolicello” facendolo ovviamente derivare dai nomi in uso nel territorio etneo, tutti col significato di “piccolo cavolo”. Si ritiene, pertanto, che Cavolicello sia il termine volgare più idoneo a indicare Brassica fruticulosa per diversi motivi: è tratto da un termine localmente in uso; è diffusamente adoperato in gran parte del territorio etneo; si riferisce ad un erbaggio di largo impiego e ritenuto abbastanza pregiato. ­ I Derelitti e i Cavolicelli La presenza, in natura, abbondante e gratuita del Cavolicello, come pure delle altre verdure spontanee, è rimarcata dal detto siciliano: “irisinni a cauliceddi”; esso si riferisce ai derelitti che, non avendo denaro, per procurarsi il cibo possono andare solo a raccogliere verdure selvatiche. Ricette: Lessi Condimenti

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Vitalba Clematis vitalba L. Famiglia: Ranunculaceae Sinonimi: Vincilleri, Fior di minuè. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Ligara Castiglione di Sicilia: Mitabbi Linguaglossa: Liara, Viterbi Maletto: Ligara Milo: Mitarbi Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Ligara San Giovanni la Punta: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio discende dal nome greco 'Klematis' con cui veniva indicata la pianta; esso deriva dal greco 'klema' = viticcio, pianta rampicante, in riferimento al portamento sarmentoso della pianta. Il secondo termine deriva, invece, dal latino 'vitis' = vite e 'albus' = bianco, cioè vite bianca, per l’aspetto che ricorda la vite e per la presenza di fiori bianchi. Descrizione: Suffrutice perenne, lianoso, volubili, fascicolati, lunghi fino a 15 m, e rami giovani erbacei, angolosi. Le foglie sono caduche, composte, imparipennate, con 3­5 foglioline ovali­lanceolate, lunghe fino a 6 cm, a margine talora dentato o lobato. I fiori, in pannocchie ascellari, sono bianco­verdastri, con petali ellittici, numerosi stami ed ovario formato da numerosi carpelli liberi, provvisti di un lungo stilo piumoso, persistente sul frutto. In autunno, i carpelli maturano in acheni fusiformi aggregati (poliachenio), piuttosto appariscenti e caratteristici per le lunghe appendici piumose ed argentee che li sormontano, originatesi per modificazione dello stilo persistente. Ambiente: La Vitalba si rinviene nei boschi di caducifoglie, nonché presso i muri e le siepi, dal livello del mare fino a ca. 1300 m di altitudine, in tutto il territorio nazionale. Parte utilizzata: Si raccolgono per uso alimentare le parti terminali dei getti teneri e succulenti (cimi î taddi), un po’ ramose con foglioline ancora abbozzate Uso: Come molte altre specie della famiglia Ranunculaceae, la Vitalba contiene, soprattutto nelle foglie, diversi principi tossici ed irritanti, quali l’alcaloide clematina, diverse saponine, glucosidi, resine, ecc (NEGRI, 1960). Tuttavia, nelle porzioni eduli, ovvero nei getti ancora giovani, tali sostanze sono presenti in quantità poco rilevanti; per di più, esse perdono gran parte della loro tossicità denaturandosi al calore. Si consiglia, pertanto, di sbollentare i teneri germogli prima di consumarli, anche se, talora, essi vengono mangiati direttamente saltati in padella o persino crudi in insalata. E’, comunque, preferibile non eccedere nel consumo. Nelle località in cui la pianta è apprezzata come erbaggio, i getti della Vitalba si cucinano lessi, soffritti in padella come gli asparagi oppure come ingrediente nelle frittate. Hanno un sapore che varia tra l`amarognolo e il saligno. Commercio: Nessun riscontro, né notizie in merito. Diffusione: I giovani getti della Vitalba sono conosciuti e consumati come verdura in tutta l’Italia. Notizie: ­ Le liane resistenti Sembra che in passato, a Linguaglossa, le liane di Vitalba venissero adoperate come corde per le campane delle chiesette rurali in sostituzione di quelle di canapa, più pregiate e costose. Al di fuori del nostro territorio, i tralci di questa pianta venivano utilizzati, e forse lo sono tuttora, per intrecciare cesti, panieri e altri oggetti (come da noi si usano la canna e l`olmo). ­ Impiego vescicatorio Il succo ricco di sostanze irritanti, contenuto nelle porzioni mature della Vitalba, trovava in passato un singolare impiego, però assolutamente sconosciuto nel territorio in esame: i mendicanti si procuravano con esso ulcerazioni sul dorso delle mani allo scopo di impietosire i passanti. Tale succo, infatti, avendo proprietà revulsive, provoca la comparsa di vesciche e piaghe (CORSI e PAGNI, 1979a). Ricette: Insalate Lessi Soffritti Frittate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Trinciatella

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Trinciatella Hyoseris radiata L. Famiglia: Compositae Sinonimi: Trinette, Radicchio selvatico, Spaccamontagna. Adrano: non rilevato Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Linguaglossa: Erba duci Maletto: Perigallu Milo: non rilevato Nicolosi: non rilevato Pedara: non rilevato Ragalna: non rilevato Randazzo: Buttuni ri gallo San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco 'hys,­os' = maiale e 'seris' = cicoria, cioè cicoria del maiale, per indicare che la pianta è particolarmente appetita dai maiali. Il secondo termine si riferisce alla disposizione radiale delle foglie basali. Descrizione: Pianta erbacea perenne caratterizzata da una grossa radice fittonante e da una rosetta di foglie basali, appressate al suolo e radiate, a lamina pennatosetta con 7­8 segmenti per lato a margine irregolarmente dentato, provviste sulla rachide di peli ispidi e patenti. In primavera, dal centro della rosetta emergono gli scapi fiorali, eretti ed afilli, alla cui sommità si sviluppano grossi capolini (diametro 4­4,5 cm) multiflori, con involucro cilindrico­campanulato formato da 7­8 squame lanceolate e fiori ligulati gialli, gli esterni con ligula sovente arrossata inferiormente. Ambiente: E’ una specie comune negli incolti, nelle rupi, sui muri a secco, i bordi di strada e nelle sciare, dal mare fino a ca. 1000 metri d’altitudine. Parte utilizzata: Gli scapi fiorali prima dell`antesi (prima di spampinari), nonché la rosetta di foglie basali. Uso: Si tratta di una verdura minore; pur essendo, infatti, reperibile con grande facilità, non viene ritenuta commestibile dalla maggioranza della popolazione. Solo a Randazzo si hanno notizie sul consumo del suo cespo di foglie. A Ragalna e Linguaglossa, invece, si cucinano gli scapi, bolliti e conditi con olio e limone oppure come contorno di frittate; qui, come pure a Castiglione, si usa anche masticarli assaporandone il succo dolcissimo. Commercio: Diffusione: In Toscana e in Romagna le foglie basali sono adoperate come verdura cotta oppure aggiunte a minestre e zuppe. I fiori sono impiegati crudi nelle insalate miste. Sembra che in passato venissero utilizzate anche le radici tostate come surrogato del caffè (LONARDONI e LAZZARINI, 1993­94). Notizie: ­ Su alcuni nomi volgari e dialettali I termini volgari Trinciatella e Trinette fanno riferimento alla morfologia delle foglie la cui lamina si presenta fortemente divisa ovvero “trinciata” (da cui Trinciatella) ricordando in qualche modo i merletti e le trine (da cui Trinette). La denominazione dialettale Buttuni ri gallu, invece, è utilizzata a Randazzo in allusione ad una somiglianza dei capolini ancora in boccio con i testicoli (buttuni) che vengono tolti ai galli trasformandoli in capponi. Ricette: Lessi Contorni

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Tamaro Tamus communis L. Famiglia: Dioscoreaceae Sinonimi: Tanno, Cerasiola, Vite nera, Uva tamina, Viticella. Adrano: Sparacogni Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: Sparacogni Bronte: Sparacogna, Sparacogni Castiglione di Sicilia: Virriceddu, Viticeddu, Viddiceddu Linguaglossa: Sparacognu Maletto: Sparacognu, Sparacogni Milo: Sparaciu `mpiriali Nicolosi: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Pedara: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Ragalna: Sparacogni Randazzo: Sparacuogna San Giovanni la Punta: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Santa Venerina: Specie non rinvenuta nel territorio Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio fu tratto da Linneo da un antico nome latino usato da Plinio e da Columella per indicare un vitigno selvatico. Il secondo termine, invece, rimarca l`ampia diffusione e la frequenza di questa specie. Descrizione: Pianta erbacea perenne caratterizzata da una radice tuberosa, allungata, carnosa, ricca di sostanze mucillaginose e da fusti rampicanti che si attorcigliano (in dialetto ca furríanu) in senso destrorso, sottili, flessuosi, glabri, lunghi fino a 4 m. Le foglie sono ampie e cuoriformi, con margine intero, arrotondate o acuminate all’apice, di colore verde lucido. I fiori, che compaiono tra aprile e maggio, sono unisessuali su piante dioiche, piccoli, di colore giallastro, con perigonio formato da 2 verticilli di 3 elementi sepaloidi; i maschili hanno 6 stami e sono riuniti in racemi ascellari allungati con fiori solitari o in fascetti di 2­3; i femminili hanno un ovario infero con stilo unico e 3 stimmi bilobati e sono riuniti in corti racemi (1 cm) di 3­5 fiori. I frutti maturano in ottobre, sono bacche carnose, globose, di colore rosso, lucide con punta scura, grandi come un pisello e disposte in grappoletti vistosi. Ambiente: Il Tamaro cresce in tutta Italia particolarmente nel sottobosco delle quercete, come pure nella macchia, nelle radure e nelle siepi, dal livello del mare fino a ca. 800 m di altitudine. Sull`Etna la specie si spinge fino a 1400 m di quota ed è abbastanza frequente su tutti i versanti ad eccezione di quello orientale dove, invece, è più raro. Parte utilizzata: Si consumano le porzioni apicali dei nuovi getti (turioni), emessi in primavera (fig. 9). Essi sono costoluti, di colore verde scuro tendente al marrone e rivestiti dagli abbozzi delle foglie; sono preferibili quelli prodotti dalle piante maschili perché sono più grossi. Durante la raccolta i turioni del Tamaro possono essere confusi con i getti di un’altra pianta, non alimentare, il Vilucchio (Calystegia sylvatica (Kit.) Griseb.), detto in dialetto 'Malocchiu', poiché i tralci delle due piante, nello stadio giovanile sono molto simili, anche se il Tamaro ha attorcigliamento destrorso mentre il Vilucchio perlopiù sinistrorso; a maturità le piante sono chiaramente dissimili. Uso: Il Tamaro contiene numerosi principi tossici (saponine, fenantrene, ecc.) presenti abbondantemente soprattutto nelle bacche. Nella parte edule della pianta, ovvero nei turioni, queste sostanze si rinvengono in quantità non rilevanti; esse per di più sono termolabili. I turioni del Tamaro hanno un sapore amaro­saligno e si cucinano allo stesso modo dei turioni dell’Asparago o del Pungitopo, previa sbollentata in abbondante acqua per attenuare il loro gusto acre. Commercio: I turioni del Tamaro, riuniti in mazzetti, sono venduti a Ragalna, Castiglione, Piedimonte nonché a Linguaglossa e Randazzo. Diffusione: Mentre nel territorio etneo l`uso alimentare dei turioni del Tamaro è frequente, non è così nelle altri parti d’Italia dove quest`erbaggio, salvo qualche eccezione, è sconosciuto o non considerato commestibile. Ad esempio, in Lombardia, BERNINI et al. (1983) scrive che “se ne sconsiglia l`uso onde non incorrere in spiacevoli conseguenze”. In Toscana, CHIEJ­GAMACCHIO (1990) avverte che il loro “uso deve essere contenuto e la commestibilità è posteriore ad una lunga cottura che riduce il principio tossico”. In Romagna, CORBETTA (1991) suggerisce che “i principi, se non proprio velenosi quanto meno acri, contenuti nel Tamaro, costituiscono un buon motivo per consigliarne l`esclusione dalle raccolte di erbe ad uso commestibile”. In Puglia, RICCARDO (1921) dice che i turioni del Tamaro “contengono un principio acre e caustico sicché debbono essere cotti in varie acque per non produrre inconvenienti nell`apparato digerente”. Anche in Francia, FOURNIER (1961) scrive “devono essere consumati dopo sufficiente cottura e dopo aver cambiato l`acqua di bollitura, ma anche così facendo restano vomitivi e purgativi, almeno per certi individui”. POMINI (1956) riporta, invece, che i giovani virgulti vengono mangiati cotti come gli asparagi. Anche MARINONI (1985), afferma che nel Veneto “si mangiano tranquillamente i germogli del Tamaro, lessati ed insaporiti in padella o in frittata”. Notizie: ­ Sui nomi dialettali. Il termine Virriceddu (e sue storpiature), riscontrato a Castiglione, probabilmente si riconduce a virrina, il succhiello del falegname, che ha un asse elicoidale, così come ha una volubilità elicoidale il fusto del Tamaro. I nomi Sparacognu, Sparacogni e Sparacuogna, riscontrati a Linguaglossa, Randazzo e Maletto, sono ambigui (BARBAGALLO et al., 1979) perché in molte altre località dell`Etna e della Sicilia, essi si riferiscono, in genere, all`Asparago pungente, mentre in altre si riferiscono al Pungitopo. ­ Sui nomi volgari. I nomi volgari Viticella, Vite nera

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e Uva tamina alludono ai frutti disposti in grappoli e all’aspetto dei fusti e delle foglie del Tamaro che ricordano quelle della Vite. Il termine Cerasiola richiama, invece, la colorazione rossa dei frutti. ­ Sugli effetti tossici e terapeutici. Come già detto il Tamaro contiene alcuni principi tossici ed irritanti presenti nelle bacche abbondantemente e anche nella radice. L’ingestione, in notevole quantità, provoca un avvelenamento che si manifesta con w w c .c .d o .d o k. c u -tr a c k coliche, vomito e può portare alla morte (PRESS et al. 1983). La radice del Tamaro è anche ricca di amido, tannini, ossalato di potassio e istamina; da c u - t r a c essa si ricava una droga che, usata a piccole dosi, ha proprietà aperitive, digestive, diuretiche e purgative. ­ Erba per le donne picchiate In Francia il Tamaro è noto come Herbe aux femmes battues, cioè erba per le donne picchiate (MAYR, 1990). Tale curiosa denominazione nasce dall`uso terapeutico della polpa grattugiata della radice del Tamaro applicata come impacchi su contusioni, ematomi e distorsioni. Le proprietà curative dipendono dalla presenza dell’istamina e dell’ossalato di potassio che agiscono stimolando la circolazione periferica. Ricette: Stufati Lessi

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Strigoli Silene vulgaris (Moench.) Garcke ssp. angustifolia (Miller) Hayek Famiglia: Caryophyllaceae Sinonimi: Bubbolini, Schioppettine, Schioppetti, Verzuli, Erba del cucco, Crepaterra, Mazzettone minuto. Adrano: Calicedda î mura Belpasso: Cannatedda Biancavilla: Calicedda di muru Bronte: Ebba priricatura Castiglione di Sicilia: Erba pridicatura Linguaglossa: Cannatedda Maletto: Erba ru priricaturi Milo: Cannatedda Nicolosi: Cannatedda Pedara: Campanedda Ragalna: Calicedda î mura Randazzo: Cannatella, Erba du pridicaturi, Priricaturi San Giovanni la Punta: Cannatedda Santa Venerina: Cannatedda Zafferana Etnea: Cannatedda, Campanedda

Etimologia: Il primo termine del binomio ha un`etimologia controversa. Secondo alcuni discenderebbe da Silenòs, nome dato nella mitologia greca ad un essere semidivino, compagno del dio Dioniso e padre dei Satiri, per metà uomo e metà cavallo, con ventre rigonfio, in riferimento al calice fiorale della pianta, che si presenta panciuto; secondo altri deriverebbe dal greco sialon = saliva, muco, per la sostanza bianca e appiccicosa presente nel fusto e nel calice fiorale di molte altre specie dello stesso genere (ad es. Silene italica (L.) Pers.); secondo altri ancora discende da Selene = luna, in allusione a quelle specie del genere che aprono i fiori di notte. Il secondo termine deriva dal latino con il significato di comune, per l’ampia distribuzione della specie. Descrizione: Pianta erbacea perenne, glabra, caratterizzata da fusti cespitosi e legnosi alla base, articolati con nodi ingrossati, che seccano quasi del tutto durante la stagione calda. Le foglie sono opposte, in corrispondenza dei nodi, carnosette, lineari­lanceolate, di colore verde pallido; se stropicciate tra le mani, esse emettono un particolare crepitio o sfrigolio (da qui il nome volgare Strigoli), simile a quello prodotto stropicciando le foglie della Verza o Cavolo cappuccio (da cui il nome Verzuli). Sul finire della primavera, si sviluppano gli scapi alla cui sommità si formano i fiori, penduli, su peduncoli flessuosi, riuniti in cime, caratterizzati da un calice subcilindrico, rigonfio, con nervature verdastre, che ricorda una minuscola brocca o un palloncino fessurato, da cui il nome dialettale Cannatedda ('cannata' = brocca) e quello volgare Bubbolini; il bubbolo, infatti, è il noto sonaglio ('ciancianedda') di ottone sferico e fessurato. Ambiente: Gli Strigoli sono comuni su tutti i versanti del vulcano, dove crescono nei luoghi incolti soleggiati, presso i muri a secco dei coltivi e nelle sciare. Parte utilizzata: Si raccolgono le cime dei nuovi getti con i ciuffi di tenere foglie, che si formano dall`autunno alla primavera. Questi getti (spicuneddi) vanno prelevati prima della formazione degli scapi fiorali. Anche le foglie presenti sugli scapi sono buone da mangiare, raccolte quando sono ancora tenere. L’asportazione dei giovani getti non danneggia la pianta la quale, essendo perenne, si rinnova in continuazione e con facilità, fornendo così i suoi prodotti per tutta la stagione propizia. Gli Strigoli possono essere confusi con un’altra pianta simile nell’aspetto cespuglioso, nella forma delle foglie, nell’habitat e nel periodo vegetativo; si tratta della Valeriana rossa (Centranthus ruber (L.) DC.) detta in dialetto 'Sapunara'. Questa pianta non rientra nella tradizione gastronomica etnea, mentre nell`Italia centro­settentrionale e all’estero è considerata un ottimo erbaggio mangereccio. Uso: I getti novelli degli Strigoli sono una delle verdure più conosciute nella tradizione fitoalimurgica del nostro territorio, una vera leccornia anche per i palati più raffinati. Si usano lessati come componenti delle mesticanze, alle quali conferiscono un tono particolare, ma principalmente essi vengono sbollentati in acqua, mescolati alle uova sbattute con aggiunta di formaggio pecorino e pepe, quindi fritti sotto forma di polpette. Commercio: Pur essendo una verdura assai ricercata, gli Strigoli non hanno un mercato attivo; raramente si rinvengono presso gli erbaioli ambulanti, lungo la strada provinciale Viagrande­Zafferana. Diffusione: L`uso alimentare delle cime e delle foglie degli Strigoli ha una diffusione nazionale. Nel Bresciano si fanno cuocere con pochissima acqua in pentola coperta e si servono come contorno di salumi cotti. Nella stessa regione si impiegano per saporiti risotti magri (ARIETTI, 1974). Nel Veneto sono ricercati per zuppe, minestroni e, specialmente, per le classiche minestre di riso e fritture d`erbe. In Toscana sono consumati cotti, a guisa degli spinaci, oppure adoperati per il ripieno delle torte senesi o delle torte salate lunigiane (CORSI e PAGNI, 1979a). In Romagna si utilizzano come colorante nella pasta verde, come aromatizzante nei tortellini di ricotta e per fare le tipiche piadine. A Rimini si adoperano per preparare insalate crude, pastasciutta e ravioli. Notizie: ­ Le 'scattiole' Gli Strigoli sono legati ai ricordi infantili di molte persone, specialmente quelle vissute in campagna. I ragazzi (e non solo quelli siciliani) usavano fare le scattiole con i fiori di questa pianta; si chiudeva con le dita l`apertura del calice vescicoloso che, quindi, si schiacciava

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Ricette: Lessi Fritture c u -tr a c k

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sul dorso della mano o sulla fronte, producendo un sonoro scoppio, da cui i nomi volgari di Schioppettini e Schioppetti.

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Strigoli

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Salsapariglia

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Salsapariglia Smilax aspera L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Salsapariglia nostrana, Smilace, Strappabrache, Stracciacappe, Stracciabrache, Rovo­ cervone, Rovo­cerrone, Salsa paesana, Salsa siciliana, Edera spinosa, Ellera spinosa, Erba del magnano. Adrano: Ugna di attu Belpasso: Raja Biancavilla: non rilevato Bronte: Ugna ri gattu, Strazzacammisi Castiglione di Sicilia: Cannacìtura Linguaglossa: Raja Maletto: Strazzacammisi Milo: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Nicolosi: Raja Pedara: Raja Ragalna: Ugna di attu Randazzo: Raja San Giovanni la Punta: Raja Santa Venerina: Raja Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio è una antichissima denominazione data alla pianta in Grecia, dove essa è largamente presente, riportata anche da Teofrasto (IV sec. a. C.), e attribuita da Linneo, nel 1737, all’intero genere; esso deriva dal greco 'smilé' = raschietto, in riferimento alla morfologia e alla spinosità delle foglie. Il secondo termine deriva dal latino 'asper' = scabro, pungente, per la presenza nella pianta di abbondanti spine. Descrizione: Pianta lianosa, perenne, sempreverde, provvista di lunghi fusti rampicanti, teneri e arrossati nelle parti giovani, legnosi a maturità, flessuosi, muniti di spine uncinate. Le foglie sono coriacee, sagittato­cordate, spinose ai margini e lungo la nervatura centrale, provviste di un picciolo tortuoso con due viticci laterali, lunghi e tenaci. I fiori, che compaiono da settembre a novembre, sono esameri, unisessuali su piante dioiche, piccoli, bianchi, profumati, riuniti in ombrelle sessili multiflore, raggruppate in grappoli ascellari e terminali. I frutti sono piccole bacche globose, di colore rosso, non commestibili ma innocue, che maturano nell’autunno successivo, contempora­ neamente ai nuovi fiori. Ambiente: La Salsapariglia si rinviene nei boschi di Leccio (Quercus ilex L.), nella macchia, come pure nelle zone più aperte, nelle sciare, nelle siepi e sui muri a secco, dove sovente forma intricati cespugli. E’ comune in Liguria, nell’Italia centro­meridionale e nelle isole, rara nelle regioni settentrionali. Parte utilizzata: Si raccolgono i nuovi getti dei rami, in primavera, quando sono rossastri e tenerissimi; assomigliano un po’ ai turioni degli Asparagi ma, a differenza di questi, presentano giovanissime foglie con picciolo provvisto dei due viticci stipolari. Uso: Le giovani cime dei rami della Salsapariglia si preparano in cucina allo stesso modo degli Asparagi; hanno un sapore amarognolo piuttosto gradevole. L`uso alimentare della Salsapariglia non è, tuttavia, uniformemente diffuso nel territorio etneo; nel versante sud­orientale è una verdura apprezzata e ricercata, ma negli altri versanti le sue qualità alimentari sono quasi sconosciute. Commercio: Fino a qualche decennio scorso, la Salsapariglia veniva venduta dagli ambulanti, soprattutto nel territorio di Acireale, raccolta nella vicina Timpa dove cresce abbondantissima. Attualmente non risulta l’esistenza di un vero commercio. Diffusione: I manuali di fitoalimurgia editi in Italia non citano la Salsapariglia come pianta alimentare, ad eccezione di BRANCA (1991); ciò forse è dovuto alla ineguale diffusione della specie nel nostro Paese. Cenni sull`impiego alimentare di questa pianta si rinvengono, invece, in alcuni testi di autori stranieri concernenti la flora mediterranea (POLUNIN e HUXLEY, 1968; SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1986). Notizie: ­ Sui nomi volgari Fra i nomi volgari dati alla Smilax aspera il più diffuso è Salsapariglia. Il termine è di origine spagnola e deriva da zarza = arbusto (a sua volta derivato dall’arabo scharac) e parilla = piccola vite, in riferimento al portamento rampicante e alla presenza di viticci. La denominazione Salsapariglia nostrana distingue meglio questa specie dalle altre, non presenti in Italia. L’appellativo salsapariglia è utilizzato anche per indicare la droga estratta dalle radici di alcune specie, quali S. officinalis, S. medica, S. syphilitica, S. saluberrima, proprie dell’America centrale e meridionale; le radici di queste piante contengono un glucoside saponinico, la sarsaponina, nonché olî eterei, resine e altre saponine con proprietà toniche, sudorifere, antireumatiche, depurative e, secondo la tradizione popolare, antisifilitiche (MABEY, 1992). In realtà, poiché la Smilax aspera non possiede proprietà medicamentose, sarebbe più consono per non generare confusione utilizzare il termine Smilace, derivato direttamente dal nome greco della pianta e comunemente usato in Toscana. Esso risulta, tra l’altro, legato al mito secondo il quale le Baccanti, dovendo compiere i loro riti tersicorei e non trovando l`edera per ornarsi il capo, usarono i tralci di Smilace, che hanno foglie simili ma spinose. Quando la danza divenne più frenetica, le acuminate spine della pianta cominciarono a trafiggere la fronte delle Baccanti le quali iniziarono ad urlare e gesticolare in modo inconsulto, facendo degenerare il rito in un vero e proprio baccanale. I termini Stracciabrache, Strappabrache e Stacciacappe indicano le possibili conseguenze dovute alla presenza delle acuminate spine nella pianta.

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Romice scudato Rumex scutatus L. Famiglia: Polygonaceae Sinonimi: Acetosa romana, Acetosa francese, Acetosa tonda, Romice di monte. Adrano: non rilevato Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: non rilevato Castiglione di Sicilia: non rilevato Linguaglossa: Citulidda Maletto: Ocìtura Milo: non rilevato Nicolosi: Acìtula Pedara: non rilevato Ragalna: non rilevato Randazzo: Acìtura San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Zafferana Etnea: non rilevato

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui i Latini chiamavano la pianta; esso deriva da rumex con il significato di asta, lancia, in riferimento alla forma appuntita delle foglie di molte specie. Non ha consistenza la presunta derivazione da rumen riferita alla pratica che i Latini avevano di masticare le foglie dell`erbaggio. Il secondo termine allude alla forma delle foglie simili a uno scudo. Descrizione: Pianta erbacea perenne, suffruticosa alla base, caratterizzata da fusti striscianti e rami ascendenti, lunghi fino a 60 cm, con foglie carnosette, cuoriformi, le inferiori lungamente picciolate. I fiori, riuniti in pannocchie terminali lasse, sono poligamo­monoici, penduli, con perianzio formato da due verticilli di 3 segmenti sepaloidei, di colore verdastro, screziati di rosso, gli interni persistenti nel frutto, i fiori maschili con 6 stami ad antere gialle, i femminili con ovario unico, trigono e 3 stili. Il frutto è un achenio provvisto di 3 ampie ali membranose, rossastre, a margine arrotondato. Tutta la parte aerea della pianta contiene discrete quantità di ossalato acido di potassio, responsabile del gusto acidulo, astringente. Ambiente: Il Romice scudato si rinviene in tutte le zone montuose dell’Italia, dove cresce sulle rocce, i ghiaioni e i vecchi muri, soprattutto su terreno calcareo. Sull’Etna, a quote più alte, dai 1750 m fino ai 3000 m di altitudine, si rinviene una forma endemica, la forma aetnensis, tipica delle sciare e delle sabbie vulcaniche, caratterizzata da un portamento ridotto, con foglie pubescenti, cuoriformi­rotondate, arrossate e pannocchia meno ramificata (POLI, 1991). Parte utilizzata: Sono considerate eduli le giovani cime degli steli arrossati e succosi con le foglie carnosette. Uso: Le popolazioni etnee usano staccare le cime del Romice scudato e masticarle per gustare il succo leggermente acidulo. Tale pratica è fatta più per passatempo che per scopo alimentare, anche se la linfa della pianta ha un ottimo effetto dissetante. Un`abitudine simile è praticata, soprattutto dai ragazzi, anche per l`Acetosella (Oxalis pes­caprae L.), specie della famiglia Oxalidaceae, a fiori gialli sorretti da un lungo peduncolo succulento; la pianta, chiamata in dialetto Acitazzu, è assai più acida del Romice, avendo un maggiore contenuto di ossalato. In alcune località etnee le cime del Romice si impiegano anche per insaporire le insalate. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: In varie parti d`Italia e d`Europa, il Romice scudato è apprezzato in cucina per il suo gusto acidulo e rinfrescante, molto più che nel nostro territorio. Particolarmente nota è una zuppa tipica della Francia, in cui esso si unisce al pomodoro e al brodo di pollo (BONAR, 1990). Generalmente si usano, come da noi, i nuovi getti, ma in passato venivano considerati eduli anche i fusti striscianti; questi venivano essiccati e adoperati, dopo averli torrefatti, come surrogato del caffè. Notizie: ­ Le altre Romici Se il Romice scudato è considerato commestibile, nel resto dell’Italia lo sono ancor di più alcune specie congeneri, particolarmente l`Acetosa o Erba brusca (Rumex acetosa L.), la Romice acetosella (R. acetosella L.), il Lapazio (R. crispus L.), l`Erba pazienza (R. patientia L.) e la Romice comune (R. obtusifolius L.); nel nostro territorio, però, queste specie non vengono raccolte, sebbene siano presenti in estesi popolamenti ad eccezione del R. obtusifolius, che è peninsulare, e del più raro R. patientia. Si noti come, nelle specie appena citate, il secondo termine del binomio scientifico sia femminile in alcuni casi e maschile in altri; ciò si deve al fatto che il genere grammaticale di rumex è promiscuo (ERNOUT­MEILLET, 1967). Ricette: Insalate Linfe

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Rapastrello Raphanus raphanistrum L. ssp. raphanistrum Famiglia: Cruciferae Sinonimi: Ravastrello, Ravanello selvatico, Ramolaccio selvatico, Gramolaccio. Adrano: Razza Belpasso: Razza Biancavilla: non rilevato Bronte: Razza Castiglione di Sicilia: Razza Linguaglossa: Razza Maletto: Razza ruci Milo: Razza Nicolosi: Razza Pedara: Razza Ragalna: Razza Randazzo: Razza San Giovanni la Punta: Razza Santa Venerina: Razza Zafferana Etnea: Razza

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui i Greci e i Latini chiamavano il Ravanello coltivato (R. sativus L. var. sativus); esso si può considerare derivato dal greco 'raphys' = rapa oppure da 'raphis' = rafide, ago, in riferimento alla forma allungata e sottile della radice. Il secondo ha uguale origine con l’aggiunta del suffisso astrum usato in latino con valore riduttivo, per indicare in questo caso la pianta selvatica. Descrizione: Pianta erbacea annuale, molto ramificata e ispida, dotata di una radice gracile e sottile e foglie inferiori lirato­pennatosette con segmento terminale slargato, le superiori ovali­lanceolate, dentate. Da marzo a giugno, produce fiori bianchi, venati di violetto. I frutti sono silique provviste di tipiche strozzature fra un seme e l`altro. Ambiente: Il Rapastrello è diffuso su tutto il territorio italiano, dove cresce dal livello del mare fino a ca. 1000 m di altitudine negli incolti e nei coltivi, soprattutto quelli seminativi. Parte utilizzata: Si raccolgono le cime (spicuneddi), le foglie ed il colletto (zona tra radice e fusto). Allo stadio giovanile il Rapastrello può essere confuso con altre giovani verdure mangerecce, quali il Cavolicello (Brassica fruticolosa Cyr.) e la Senape canuta (Hirschfeldia incana (L.) Lagreze­ Fossat). Quest’ultima, detta in dialetto 'Amareddu', normalmente non cresce su terreno vulcanico, ma nelle zone di confine coi terreni sedimentari, dove i due erbaggi possono coesistere, la confusione è frequente per la notevole somiglianza; in certe località, difatti, l’ Amareddu è chiamato anche 'Razza marrali'. Uso: Tutte le parti del Rapastrello hanno un tipico sapore piccante che conferisce alla verdura un “carattere” deciso, attributo, però, non gradito a tutti. Le cime e le foglie più tenere si preparano saltate in padella e costituiscono un classico contorno per la salsiccia, così come avviene con il Cavolicello. Le stesse parti dell`erbaggio si preparano anche lessate e condite con olio. In qualsiasi modo venga cucinato, il Rapastrello è, tuttavia, considerato una verdura più rustica dell`affine Cavolicello; da qui il detto popolare a razza non fa cauliceddi, alludendo a una persona grossolana che non ha speranza di divenire raffinata oppure a una stirpe infima che inevitabilmente resta tale. Il colletto, abbastanza tozzo, si prepara tranciando la pianta alla radice e troncando le foglie verso la base; si ottiene così un torso che si consuma crudo insieme alla salsiccia, come si fa con i Ravanelli. Commercio: Nessuna notizia né riscontro in merito. Diffusione: In varie parti dell`Italia il Rapastrello è considerato pianta mangereccia, anche se rustica. Le foglie si utilizzano allo stesso modo degli spinaci, le radici come il ravanello (CORSI e PAGNI, 1979a). Anche le foglie crude, con aggiunta di olio, aceto e sale, sono un buon condimento in cucina (POMINI, 1959). Nel Montefeltro, con questa verdura si prepara la “pasta verde”, prelevando le foglie crude più tenere, tagliandole e mescolandole a lungo con la pasta appena scolata, aggiungendo olio d`oliva e formaggio grattugiato. Nel Lazio il Rapastrello è tenuto in gran considerazione e sovente si rinviene nei mercati. L`erbaggio è noto anche all`estero. Le popolazioni dell`Est europeo, ad esempio, amano il forte sapore pizzicante del Rapastrello per meglio gustare la birra; a tale scopo masticano le radici della pianta allo scopo di stimolare la sete (DE ROUGEMONT, 1990). Notizie: ­ Il Ravanello Dal Raphanus sativus L., specie di origine incerta, forse ibrido fissato, coltivata e subspontanea, si sono selezionate alcune varietà orticole, tra cui il Ravanello (R. sativus L. var. sativus L. o R. sativus L. var. radicula Pers.) caratterizzato dall’ingrossamento del colletto, divenuto carnoso e edule; esso nelle diverse cultivar presenta forma, colore e sapore vari. ­ Il Rafano Il nome Rafano si riferisce ad una pianta mangereccia affine al Rapastrello, il Raphanus sativus L. var. niger Mill., detta anche Ramolaccio, caratterizzata dalla porzione del colletto ingrossata, carnosa e edule, sovente allungata e di colore da nero sino a bianco. Con lo stesso termine viene denominata anche la Armoracia rusticana Gaertner, Meyer & Scherb. (Cruciferae), pianta erbacea perenne con radice fittonante, allungata, carnosa, a polpa bianca e tegumento gialliccio. Si tratta di una specie ortiva, detta anche Cren o Barbaforte, coltivata nel Nord dell`Italia, la cui radice grattugiata viene utilizzata come condimento piccante. Per evitare equivoci sarebbe opportuno non utilizzare il termine Rafano, troppo generico, sostituendolo con i rispettivi sinomi sopra citati (DI VINCENZO, 1987; TESI, 1987).

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Radicchiella

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Radicchiella Crepis bursifolia L. Famiglia: Compositae Sinonimi: Radicchiella tirrenica. Adrano: non rilevato Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Castiglione di Sicilia: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Linguaglossa: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Maletto: Rizzarella Milo: non rilevato Nicolosi: non rilevato Pedara: non rilevato Ragalna: non rilevato Randazzo: Ricuttella San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dal greco con il significato di pantofola, pianella, forse per le foglie appressate al suolo. Il secondo termine discende dal latino medievale bursa = borsa e dal latino classico folium = foglia, in riferimento alle foglie della pianta con lamina un po’ concava, come una borsa. Descrizione: Pianta erbacea perenne caratterizzata, in inverno, da una densa rosetta di foglie basali con margine profondamente diviso in segmenti dentati e mucronati all’apice e lamina leggermente crespa (da cui i nomi dialettali Rizzarella, Rizzaredda). In primavera, dal centro della rosetta emerge uno scapo eretto, gracile, semplice o poco ramificato in alto, con foglie assai ridotte, alla cui sommità si sviluppano svariati capolini di fiori gialli. Tutta la pianta contiene abbondante latice (da qui il nome vernacolo Ricuttella). Ambiente: Questa specie è comune negli incolti e nei coltivi, come pure nei centri urbani etnei, dal livello del mare fino a 1000 m di altitudine. E’ endemica della Sicilia, con popolazioni isolate nell’Argentario e a Gaeta; è avventizia nel Lazio, in Spagna, Francia, Tunisia e Dalmazia. Parte utilizzata: Il cespo delle foglie basali. Uso: Sebbene sia comunissima su ogni versante dell`Etna, non è apprezzata come erbaggio da tutti gli abitanti. Il suo uso alimentare è stato riscontrato solo a Randazzo, Maletto e Ragalna. Commercio: Inesistente. Diffusione: Data la distribuzione geografica, questa specie è nota come pianta alimentare solo in Sicilia, dove è piuttosto comune. Il nome volgare Radicchiella è, in realtà, attribuito a tutte le specie del genere Crepis (una quarantina), presenti nell`Italia peninsulare. Fra queste, alcune (C. vesicaria L., C. leontodontoides All., C. pulchra L., ecc.) hanno interesse fitoalimurgico (CORSI e PAGNI, 1979b). In particolare, nel territorio etneo, C. leontodontoides (Radicchiella italica) viene raccolta insieme a C. bursifolia senza discriminazione. Le Radicchielle hanno un gusto delicato e vengono consumate crude in insalata (consumo non praticato nel territorio etneo) oppure lessate (ARIETTI, 1974). Notizie: Ricette: Lessi

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Pungitopo Ruscus aculeatus L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Brusco, Bruscanza, Ruscolo, Rusco, Rascogno, Pungiratto, Piccasorci, Pungiporci, Spinaporci, Spinafrutici, Scoparina, Caffè siciliano, Asparago bastardo, Spruneggio, Asparago pazzo. Adrano: Spinapulici Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Bammuscittu (turione), Spinapruci (pianta) Castiglione di Sicilia: Spinapulici (pianta), Sparacogna (turione) Linguaglossa: Taddispruni Maletto: Bammuscittu (turione) Milo: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Nicolosi: Sparacogna Pedara: Sparacogna Ragalna: Spinapulici Randazzo: Spinapurci (pianta), Bammuschitta San Giovanni la Punta: Spinapulici, Sparaciu `mpiriali Santa Venerina: Spinapulici Zafferana Etnea: Spinapulici, Sparaciu di vadduna

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui gli antichi Romani chiamavano la pianta. il secondo si riferisce alla presenza cladodi appuntiti e pungenti. Descrizione: Pianta erbacea perenne fornita di un robusto rizoma da cui si dipartono fusti legnosi, eretti, alti fino a 1 m, semplici alla base ma riccamente ramificati verso l`alto. Le vere foglie sono estremamente ridotte e caduche; la loro funzione è svolta da particolari rami appiattiti che prendono il nome di cladodi. Questi, lunghi 2­4 cm, hanno forma ovato­oblunga e terminano all’apice con una spina pungente. I fiori, unisessuali su piante dioiche, si formano sulla pagina superiore dei cladodi e sono piccoli e verdastri. Il frutto è una bacca globosa, di colore rosso, che persiste lungamente sulla pianta. Ambiente: E’ una pianta caratteristica dei boschi di leccio (Quercus ilex L.) e di caducifoglie, comune in tutto il territorio, particolarmente al Sud, dal livello del mare fino a ca. 1400 m d’altitudine. Parte utilizzata: Si raccolgono i nuovi getti (turioni) di colore bruno­violaceo che, in primavera, emergono dal terreno fra gli spinosissimi rami degli anni precedenti. Uso: I turioni del Pungitopo si consumano come gli Asparagi selvatici o coltivati, ma hanno un sapore più amarognolo e richiedono un maggior tempo di cottura. Per allontanare l`eccesso di sostanze amare si suole cuocerli in abbondante acqua. Una volta lessati, si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si usano come ingredienti per le frittate. Commercio: Nel territorio etneo i turioni di Pungitopo non sono ricercati al punto tale da indurne la commercializzazione; nei rari casi in cui questo avviene, essi sono venduti a mazzetti, come gli asparagi. Diffusione: La fortuna di questo erbaggio nella cultura gastronomica delle diverse regioni d`Italia è varia. In Lombardia, i getti del Pungitopo sono considerati una leccornia e vengono venduti in mazzetti presso i fruttivendoli a prezzi assai più elevati di quelli degli Asparagi coltivati e dello stesso Asparago pungente. Di contro, in Puglia, i turioni del Pungitopo sono tenuti in minor pregio rispetto a quelli degli Asparagi selvatici; sicché in questa regione essi sono poco ricercati dagli erborinatori. Notizie: ­ Sull`etimologia dei nomi volgari Il nome volgare Pungitopo e affini (Pungiratto, Piccasorci, ecc.) derivano dalla pratica agricola (non attuata nella regione etnea) di disporre una corona di rami secchi di questa pianta ai piedi degli alberi da frutta per evitare che su di essi salgano i topi; analogo uso viene fatto nelle case di campagna del Veneto, dove ramaglie di Pungitopo vengono fissate ai piedi dei tavoli e delle dispense oppure nelle scaffalature sulle quali si allevano i bachi da seta. Il nome Brusco e derivati (Bruscolo, Bruscanza, ecc.) alludono al sapore amarognolo dei turioni; infatti 'brusco' si dice di cibo o persona aspra ma non sgradevole. ­ Sui nomi dialettali L`appellativo Sparacogna dato al Pungitopo costituisce un caso isolato nel panorama lessicale dell`Isola. Vari lessicografi ed etnobotanici (TRAINA, 1868; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; NICOTRA­D’URSO, 1922; PENZIG, 1924; PITRÈ, 1939; ROLHFS, 1977; PIGNATTI, 1982; PROVITINA, 1990; POLI MARCHESE, 1991) riportano, infatti, la corrispondenza Sparacogna = Asparago pungente, mentre viene solo annotata la correlazione tra Spinapulici (e simili) e Pungitopo. A proposito di Spinapulici, PITRÈ (1939) ipotizza la glossogenesi del vocabolo, citando una credenza siciliana secondo la quale i rami di questa pianta “legati a piccoli mazzi si mettono sui pavimenti delle case perché si crede che facciano morire le pulci” (pulce = pulici). ­ L`impiego come scopa In varie regioni d`Italia i rami di Pungitopo sono adoperati per confezionare rustiche scope (PILOTTO e FRANCONERI, 1993). . Questo impiego è ancora vivo a Maletto dove con la pianta in questione si fanno le ramazze usate dalla Nettezza Urbana. Sempre a Maletto, le scope di Pungitopo venivano usate, con il nome di livigghia, per pulire l`aia dopo la trebbiatura, quando questa si faceva con il mulo. In altre parti d`Italia, e fuori dal nostro Paese, le scope di Pungitopo erano adoperate dagli spazzacamini per pulire le canne fumarie. ­ L`addobbo natalizio I rami di

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Pungitopo provvisti delle bacche rosse si regalano durante le feste natalizie e di fine anno con significato beneaugurale. Tale uso, purtroppo, è degenerato in un commercio incontrollato che sta provocando un depauperamento delle popolazioni, specialmente in quei territori dove il Pungitopo non è abbondante. Per questo motivo alcune regioni (Liguria, Lombardia e Trentino­Alto Adige) hanno emanato severe disposizioni per limitarne la w w c .c .d o .d o k. c u -tr a c k raccolta. ­ Le bacche rosse La presenza di bacche rosse porta, alle volte, a confondere la pianta in questione con l`Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), un c u - t r a c arbusto sempreverde a foglie spinose e munito anch`esso di bacche rosse, che viene impropriamente chiamato Rusco o Pungitopo ed è impiegato durante le feste natalizie con lo stesso significato del Pungitopo. Le bacche di Pungitopo e quelle simili dell`Agrifoglio sono velenose e la loro ingestione può causare convulsioni. ­ Succedaneo del caffè I semi del Pungitopo, in tempi di magra, sono stati usati come succedanei del caffè dopo opportuna tostatura (CHIEJ­GAMACCHIO (1990). Da qui la strana denominazione di Caffè siciliano che viene data alla pianta. ­ Coltivazione Nelle zone della Penisola dove il Pungitopo è poco diffuso, esso è sottoposto a pratiche colturali. In alcuni casi viene coltivato a scopo ornamentale nei giardini per siepi e bordure. In altri casi gli erbaioli intervengono sulle piante selvatiche effettuando una sorta di forzatura, sfoltendo i cespugli o, addirittura, bruciandoli; in tal modo si favorisce una più precoce e copiosa produzione di turioni. Ricette: Lessi Frittate

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Onopordo maggiore Onopordum illyricum L. Famiglia: Compositae Sinonimi: Cardo asinino. Adrano: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: non rilevato Castiglione di Sicilia: Muìni Linguaglossa: Muni Maletto: Piddonicu Milo: Scaddallasinu Nicolosi: Trimazzi Pedara: non rilevato Ragalna: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Randazzo: Munaceddu San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Zafferana Etnea: Specie ritenuta non commestibile nel territorio

Etimologia: Il primo termine del binomio deriva dai vocaboli greci onos = asino e pordê = peto, in riferimento ai presunti effetti carminativi della pianta sugli asini. Il secondo termine, invece, si riferisce all`area geografica dove la pianta è molto comune. Descrizione: Imponente pianta erbacea, bienne o perenne, spinosa, simile al Cardo, caratterizzata da foglie basali in rosetta, grandi, pennatosette, e da uno scapo eretto, coperto da una lanugine biancastra, provvisto di foglie profondamente dentate con denti patenti e spinosi. I fiori, di colore roseo, compaiono all’inizio dell’estate in vistosi capolini terminali provvisti di squame involucrali riflesse e spinose. Quando i fusti e le infiorescenze disseccano, ricordano nell’aspetto le lunghe trombe a tubo delle orchestre, donde il nome dialettale di Trummazzi ('trumma' = tromba). Ambiente: L`Onopordo cresce dalla zona basale fino a ca. 1200 m di altitudine, tra i ruderi, lungo i bordi di strada, negli incolti e soprattutto presso gli ovili. Parte utilizzata: Di questa spinosissima pianta si raccolgono essenzialmente il cespo di foglie basali ancora giovani e l’infiorescenza immatura. Il cespo basale (a troffa) viene sradicato con una zappetta, privato delle foglie più esterne coriacee lasciando solo quelle più interne alle quali si elimina la porzione distale. Si ottiene così un cespo pronto per una successiva manipolazione. Le infiorescenze (i cacucciuliddi), simili a quelle del Carciofo, si tagliano poco più sotto della base. In alcune località (Castiglione, Nicolosi) si usa raccogliere per fini alimentari anche la parte tenera dello scapo, vicina all`infiorescenza, così come si fa per i carciofi orticoli. Uso: Il cespo dell`Onopordo si lascia avvizzire (ammusciari) per diverse ore, in modo che le spine delle foglie perdano parte della pungolosità, quindi si elimina la lamina lasciando soltanto le carnose nervature mediane (coste). Questa operazione (fig. 7) va fatta foglia a foglia, servendosi di un coltello o di un paio di forbici. Infine, si elimina la radice troncandola al colletto. Si ottiene così un torso sormontato dalle coste fogliari, che si cucina nello stesso modo dei “carducci” dei Carciofi coltivati. Le infiorescenze dell`Onopordo, eliminate le foglie del gambo, vengono lessate in abbondante acqua; di esse si consumano le basi tenere e carnose delle squame, analogamente a quanto si fa con i Carciofi coltivati (Cynara cardunculus L. ssp. scolymus (L.) Hayek) e con quelli selvatici (Cynara cardunculus L.), i cosiddetti cacucciuliddi di chiana. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: L’Onopordo è segnalato come pianta edule in diversi manuali italiani di fitoalimurgia (SCHÖNFELDEN e SCHÖNFELDEN, 1986, STEVENS, 1993). Notizie: ­ Un test per le nozze Nella località etnea di Milo è antica credenza popolare che le ragazze nubili, in attesa di marito, usassero le infiorescenze dell`Onopordo per conoscere l’imminenza o meno delle proprie nozze. A tale proposito alla vigilia del giorno di S. Giovanni cercavano una di queste piante, ne troncavano un`infiorescenza non pienamente matura e la sotterravano in un luogo segreto. L`indomani, all`alba, dopo averla dissotterrata, la schiacciavano esaminandone attentamente il colore dei fiori. Se questi erano bianchi, il matrimonio era ancora lontano, se invece apparivano colorati era segno che si sarebbero sposate entro l`anno; l`imminenza o meno delle nozze era rapportata all`intensità della tinta. Ricette: Lessi

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Onopordo maggiore

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Porcellana

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Porcellana Portulaca oleracea L. Famiglia: Portulacaceae Sinonimi: Erba porcellana, Erba dei porci (perchè particolarmente appetita dai maiali), Procacchia, Erbagrassa, Sportellacchia, Portulacca. Adrano: Purciddana Belpasso: Pucciddana Biancavilla: Puccillana Bronte: Puccillana, Purcillana Castiglione di Sicilia: Purciddana Linguaglossa: Purciddana, Pucciddana Maletto: Puccillana Milo: Purciddana Nicolosi: Pucciddana Pedara: Purciddana Ragalna: Purciddana Randazzo: Purcillana San Giovanni la Punta: Purciddana Salvatore Arcidiacono e Pietro Pavone Santa Venerina: Purciddana Zafferana Etnea: Pucciddana, Purciddana

Erbe spontanee commestibili del territorio etneo Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome latino con il quale veniva chiamata la pianta; esso sembra derivare da 'portula' = piccola porta, in Vai a: Frontespizio ­ elenco ­­ Vai a scheda: prima ­ precedente ­ seguente ­ ultima riferimento alla deiscenza del frutto, mentre secondo alcuni (ERNOUT­MEILLET, 1967; CORTELLAZZO e ZOLLI, 1989) sarebbe da avvicinare paretimologicamannte a porcus nel senso di “genitali femminili” poiché adoperata nella medicina popolare dopo il parto. Il secondo termine deriva dal lat. oleraceus= pianta coltivata, per l’impiego alimentare della pianta. Descrizione: Pianta erbacea annuale, glabra, con fusti carnosi, ramosi, prostrati e diffusi, spesso arrossati, cavi all’interno e foglie spatolate, carnosette, quasi sessili. Da giugno a settembre produce piccoli fiori gialli, solitari o in gruppi, provvisti di un calice tubulare con 2 sepali e una corolla con 5 (4­6) petali obovati. Il frutto è una capsula fusiforme deiscente tramite un opercolo (pisside) e contenente numerosi piccoli semi. Ambiente: La Porcellana è molto diffusa negli incolti e come infestante delle colture irrigue (agrumeti, orti, ecc.). Parte utilizzata: Si raccolgono le giovani cime prelevate prima della fioritura. Uso: Nel territorio etneo l’uso della Porcellana non è molto diffuso. Essa viene consumata cruda in insalata, talora assieme a pomodoro e basilico. Lo scarso apprezzamento va probabilmente attribuito al sapore saligno e alla consistenza mucillaginosa non particolarmente appetibile. Commercio: Assente nel territorio etneo. Diffusione: Se dalle nostre parti la Porcellana è scarsamente considerata, non è così nel resto dell`Italia (POMINI, 1959), né fuori dalla nostra Penisola. In Lombardia, Veneto, Emilia­Romagna, Puglia e in altre regioni è ritenuta ottima verdura rinfrescante, depurativa e diuretica. Si consuma sia cruda che cotta. Cruda, si prepara in insalata, come da noi, o con il pomodoro e altri ortaggi; cotta si fa lessata e condita con olio e aceto, oppure fritta in olio bollente, previa immersione in una pastella composta da farina, uovo sbattuto e briciole di pane o, ancora, saltata in padella, come gli spinaci, insaporendola con aglio ed acciughe. Si aggiunge anche alle minestre e agli stufati, sfruttando la sua consistenza mucillaginosa che ha la proprietà di far restringere il brodo (NERI, 1990; INDRIO, 1981). In varie tradizioni fitoalimurgiche, le foglie di Porcellana si conservano sottaceto per poi impiegarle, al pari dei capperi, come contorno o antipasto (CHIEJ­GAMACCHIO, 1990). . Analogamente, i suoi rametti più carnosi, tagliati a pezzettini, si conservano in salamoia. Una testimonianza dell`ottimo credito di cui gode altrove questa verdura si riscontra nella consuetudine, assai diffusa nelle altre parti d’Italia quanto incredibile per noi, di coltivare la Porcellana come un qualsiasi altro ortaggio. Di questa pianta sono state selezionate cultivar dai fusti eretti, dalle foglie giganti e dal colore giallino (Portulaca oleracea L. subsp. sativa (Haw.) Celak.) che possiedono particolari caratteri gastronomici. Un recente trattato di orticoltura (BIANCO e PIMPINI, 1990) annovera la Porcellana fra le piante ortive. La Porcellana viene anche coltivata in Germania, Svizzera, Olanda e, soprattutto, in Francia dove viene spesso aggiunta a minestre, salse, burro alle erbe, carni, pesci e altre verdure. Notizie: ­ La storia della Porcellana La Porcellana non è una pianta indigena dei territori circum­mediterranei, ma è originaria dell`Asia meridionale e già 2000 anni a.C. veniva coltivata in Mesopotamia. Da qui, come pianta ortiva, passò in Grecia e quindi a Roma, dove, fra gli altri, Varrone ne decantò le virtù alimentari. Durante il Medioevo si diffuse, poi, nel resto dell`Europa, venendo coltivata soprattutto negli orti dei monasteri. A causa delle eccezionali capacità riproduttive, la Porcellana sfuggì facilmente al controllo dell`uomo e ovunque si inselvatichì, divenendo assai comune e addirittura infestante. Attualmente, la Francia è la maggiore produttrice e consumatrice di diverse varietà orticole. Ricette: Insalate

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Porcellana

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Porraccio

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Porraccio Allium ampeloprasum L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Porrandello. Adrano: Agghiu porru Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Agghiastru, Ghiastru Castiglione di Sicilia: non rilevato Linguaglossa: Agghiu porru Maletto: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Milo: Agghiu porru Nicolosi: Cipuddazzu, Agghiu porru Pedara: Cipuddazzu Ragalna: Agghiu porru Randazzo: Aggioru, Agghiastru San Giovanni la Punta: non rilevato Santa Venerina: non rilevato Zafferana Etnea: Agghiu porru

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome latino che designava l`Aglio (Allium sativum L.), pianta affine al Porraccio. Esso sembra essere connesso al vocabolo celtico 'all' = bruciante, in riferimento all’odore e al sapore acre e pungente tipico dell`Aglio. Il secondo termine deriva dai vocaboli greci 'ampelos' = vite e 'prason' = porro, in allusione alla frequenza del Porraccio presso i vigneti e alla sua somiglianza con il Porro (Allium porrum L.) Descrizione: Pianta erbacea perenne caratterizzata da un bulbo ovoideo con tuniche membranose di colore giallastro le esterne, bianche le interne, dal quale, in inverno, si origina uno scapo cilindrico, alto fino a 50­70 cm provvisto di lunghe foglie lineari, ampiamente inguainanti che lo avvolgono fino a metà della sua lunghezza. Nei mesi di aprile­maggio, alla sommità dello scapo si sviluppa un`infiorescenza ad ombrella, densa, globosa, composta da numerosi piccoli fiori bianco­rosei e sottesa da una spata caduca e univalve. Ambiente: Si riscontra negli incolti aridi e ai bordi dei campi. Parte utilizzata: Si raccolgono sia il bulbo (a testa) che i novelli getti (u tenniru) delle foglie. Uso: Il Porraccio viene impiegato soprattutto come aromatizzante. Nel territorio in esame, tale uso non è, al giorno d`oggi, molto frequente, mentre lo era qualche decennio fa. Si adoperava, principalmente, il bulbo per condire minestre, sughi e anche per insaporire il brodo di vitello e di pollo; anche le foglie tenere, tagliate a fettine e sbollentate, servivano per condire frittate. Un uso caratteristico del bulbo, ridotto a listelle, era come condimento delle cosiddette olive cunsate. Commercio: Nessun riscontro né notizie in merito. Diffusione: Il Porraccio è utilizzato in alcuni piatti tipici della cucina toscana. Le guaine fogliari sono usate nelle minestre o nelle frittate, oppure crude, tagliate sottili, nelle insalate. Il bulbo si usa tritato per insaporire la carne, specialmente gli hamburger (RIGHI­PARENTI, 1985). In Maremma, è comune mangiare i bulbi di Porraccio crudi, con il prosciutto o la pancetta (CORSI e PAGNI, 1979a). Anche nel Veneto si fa uso dello scapo e delle foglie del Porraccio, ambedue tritati, per insaporire pietanze di vario genere. Notizie: ­ Il Porro Dal Porraccio è derivato l`ortaggio noto con il nome Porro (Allium porrum L.), il cui uso, però, non è frequente nella cucina siciliana. Nel Porro, la selezione ha portato alla drastica riduzione del caule, ridotto a un disco dal quale si originano in basso numerose radici e in alto diverse foglie inguainanti formanti, nell’insieme, un falso fusto, detto impropriamente “bulbo”, esternamente di colore bianco; questo rappresenta la porzione commestibile della pianta (TESI, 1987) . Il Porro è usato come ingrediente per zuppe o per minestre oppure cucinato in umido. La sua coltivazione risale a tempi molto remoti; pare, infatti, che fosse conosciuto già dagli antichi Egizi (BIANCO e PIMPINI (1990). ­ Il sapore pungente Tutte le specie del genere Allium sono contraddistinte da un tipico odore e un sapore più o meno acre e pungente che pervade tutta la pianta ad eccezione dei fiori i quali, invece, sono spesso profumati; il caratteristico odore è prodotto da un olio essenziale, ricco di composti volatili solforati che si liberano per reazione enzimatica allorché i tessuti della pianta vengono lesi. In questo caso, infatti, l’enzima alliasi reagisce con un glucoside solforato, alliina, scindendolo in glucosio e disolfuri allilici. Il gruppo allilico presente può essere in prevalenza di tipo metilico oppure propilico (come nella cipolla) o propenilico (come nell’aglio); l’odore caratteristico, più o meno pungente, delle diverse specie dipende dalle quantità relative di questi differenti gruppi allilici nei tessuti della pianta. Ricette: Aromi Minestre Condimenti

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Erbe spontanee commestibili del territorio etneo - Pungitopo

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Pungitopo Ruscus aculeatus L. Famiglia: Liliaceae Sinonimi: Brusco, Bruscanza, Ruscolo, Rusco, Rascogno, Pungiratto, Piccasorci, Pungiporci, Spinaporci, Spinafrutici, Scoparina, Caffè siciliano, Asparago bastardo, Spruneggio, Asparago pazzo. Adrano: Spinapulici Belpasso: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Biancavilla: non rilevato Bronte: Bammuscittu (turione), Spinapruci (pianta) Castiglione di Sicilia: Spinapulici (pianta), Sparacogna (turione) Linguaglossa: Taddispruni Maletto: Bammuscittu (turione) Milo: Specie ritenuta non commestibile nel territorio Nicolosi: Sparacogna Pedara: Sparacogna Ragalna: Spinapulici Randazzo: Spinapurci (pianta), Bammuschitta San Giovanni la Punta: Spinapulici, Sparaciu `mpiriali Santa Venerina: Spinapulici Zafferana Etnea: Spinapulici, Sparaciu di vadduna

Etimologia: Il primo termine del binomio è il nome con cui gli antichi Romani chiamavano la pianta. il secondo si riferisce alla presenza cladodi appuntiti e pungenti. Descrizione: Pianta erbacea perenne fornita di un robusto rizoma da cui si dipartono fusti legnosi, eretti, alti fino a 1 m, semplici alla base ma riccamente ramificati verso l`alto. Le vere foglie sono estremamente ridotte e caduche; la loro funzione è svolta da particolari rami appiattiti che prendono il nome di cladodi. Questi, lunghi 2­4 cm, hanno forma ovato­oblunga e terminano all’apice con una spina pungente. I fiori, unisessuali su piante dioiche, si formano sulla pagina superiore dei cladodi e sono piccoli e verdastri. Il frutto è una bacca globosa, di colore rosso, che persiste lungamente sulla pianta. Ambiente: E’ una pianta caratteristica dei boschi di leccio (Quercus ilex L.) e di caducifoglie, comune in tutto il territorio, particolarmente al Sud, dal livello del mare fino a ca. 1400 m d’altitudine. Parte utilizzata: Si raccolgono i nuovi getti (turioni) di colore bruno­violaceo che, in primavera, emergono dal terreno fra gli spinosissimi rami degli anni precedenti. Uso: I turioni del Pungitopo si consumano come gli Asparagi selvatici o coltivati, ma hanno un sapore più amarognolo e richiedono un maggior tempo di cottura. Per allontanare l`eccesso di sostanze amare si suole cuocerli in abbondante acqua. Una volta lessati, si mangiano conditi con sale, pepe, olio e succo di limone oppure si usano come ingredienti per le frittate. Commercio: Nel territorio etneo i turioni di Pungitopo non sono ricercati al punto tale da indurne la commercializzazione; nei rari casi in cui questo avviene, essi sono venduti a mazzetti, come gli asparagi. Diffusione: La fortuna di questo erbaggio nella cultura gastronomica delle diverse regioni d`Italia è varia. In Lombardia, i getti del Pungitopo sono considerati una leccornia e vengono venduti in mazzetti presso i fruttivendoli a prezzi assai più elevati di quelli degli Asparagi coltivati e dello stesso Asparago pungente. Di contro, in Puglia, i turioni del Pungitopo sono tenuti in minor pregio rispetto a quelli degli Asparagi selvatici; sicché in questa regione essi sono poco ricercati dagli erborinatori. Notizie: ­ Sull`etimologia dei nomi volgari Il nome volgare Pungitopo e affini (Pungiratto, Piccasorci, ecc.) derivano dalla pratica agricola (non attuata nella regione etnea) di disporre una corona di rami secchi di questa pianta ai piedi degli alberi da frutta per evitare che su di essi salgano i topi; analogo uso viene fatto nelle case di campagna del Veneto, dove ramaglie di Pungitopo vengono fissate ai piedi dei tavoli e delle dispense oppure nelle scaffalature sulle quali si allevano i bachi da seta. Il nome Brusco e derivati (Bruscolo, Bruscanza, ecc.) alludono al sapore amarognolo dei turioni; infatti 'brusco' si dice di cibo o persona aspra ma non sgradevole. ­ Sui nomi dialettali L`appellativo Sparacogna dato al Pungitopo costituisce un caso isolato nel panorama lessicale dell`Isola. Vari lessicografi ed etnobotanici (TRAINA, 1868; MORTILLARO, 1876; NICOTRA, 1883; NICOTRA­D’URSO, 1922; PENZIG, 1924; PITRÈ, 1939; ROLHFS, 1977; PIGNATTI, 1982; PROVITINA, 1990; POLI MARCHESE, 1991) riportano, infatti, la corrispondenza Sparacogna = Asparago pungente, mentre viene solo annotata la correlazione tra Spinapulici (e simili) e Pungitopo. A proposito di Spinapulici, PITRÈ (1939) ipotizza la glossogenesi del vocabolo, citando una credenza siciliana secondo la quale i rami di questa pianta “legati a piccoli mazzi si mettono sui pavimenti delle case perché si crede che facciano morire le pulci” (pulce = pulici). ­ L`impiego come scopa In varie regioni d`Italia i rami di Pungitopo sono adoperati per confezionare rustiche scope (PILOTTO e FRANCONERI, 1993). . Questo impiego è ancora vivo a Maletto dove con la pianta in questione si fanno le ramazze usate dalla Nettezza Urbana. Sempre a Maletto, le scope di Pungitopo venivano usate, con il nome di livigghia, per pulire l`aia dopo la trebbiatura, quando questa si faceva con il mulo. In altre parti d`Italia, e fuori dal nostro Paese, le scope di Pungitopo erano adoperate dagli spazzacamini per pulire le canne fumarie. ­ L`addobbo natalizio I rami di

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Pungitopo provvisti delle bacche rosse si regalano durante le feste natalizie e di fine anno con significato beneaugurale. Tale uso, purtroppo, è degenerato in un commercio incontrollato che sta provocando un depauperamento delle popolazioni, specialmente in quei territori dove il Pungitopo non è abbondante. Per questo motivo alcune regioni (Liguria, Lombardia e Trentino­Alto Adige) hanno emanato severe disposizioni per limitarne la w w c .c .d o .d o k. c u -tr a c k raccolta. ­ Le bacche rosse La presenza di bacche rosse porta, alle volte, a confondere la pianta in questione con l`Agrifoglio (Ilex aquifolium L.), un c u - t r a c arbusto sempreverde a foglie spinose e munito anch`esso di bacche rosse, che viene impropriamente chiamato Rusco o Pungitopo ed è impiegato durante le feste natalizie con lo stesso significato del Pungitopo. Le bacche di Pungitopo e quelle simili dell`Agrifoglio sono velenose e la loro ingestione può causare convulsioni. ­ Succedaneo del caffè I semi del Pungitopo, in tempi di magra, sono stati usati come succedanei del caffè dopo opportuna tostatura (CHIEJ­GAMACCHIO (1990). Da qui la strana denominazione di Caffè siciliano che viene data alla pianta. ­ Coltivazione Nelle zone della Penisola dove il Pungitopo è poco diffuso, esso è sottoposto a pratiche colturali. In alcuni casi viene coltivato a scopo ornamentale nei giardini per siepi e bordure. In altri casi gli erbaioli intervengono sulle piante selvatiche effettuando una sorta di forzatura, sfoltendo i cespugli o, addirittura, bruciandoli; in tal modo si favorisce una più precoce e copiosa produzione di turioni. Ricette: Lessi Frittate

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