Quaderno VI. Essere inoperosi

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Quaderno VI Essere inoperosi Jean-Luc Nancy e l' in-comune


Biografia Jean-Luc Nancy, nato nel 1940, è sicuramente una delle più importanti figure di filosofo immediatamente successiva a Lévinas, Foucault, Derrida e Deleuze. Per sottolineare l’importanza di questa “figura di classico vivente”, Derrida ha a lui dedicato un voluminoso libro Le toucher. JeanLuc Nancy, 2000) e, nel corso del 2002, il Collège International de Filosofie ha in suo onore organizzato un convegno intitolato Sens en tous sens (Il senso in tutti i sensi). Nancy è stato docente di filosofia presso le università di Strasburgo e di San Diego; dopo aver subito un trapianto cardiaco, egli ha continuato a vivere grazie al cuore di una giovane donna, ossia di quell’intruso di cui egli parla in un omonimo saggio autobiografico del 2000. In esso, Nancy affronta senza timore l’esperienza della malattia, raccontando le sofferenze provocate dal trapianto e da un cancro di origine immunodepressiva. Nancy è autore di parecchie opere, molte delle quali tradotte in svariate lingue. Con Lacoue-Labarthe ha scritto L’absolu littéraire (1978), Il titolo della lettera. Una lettura di Lacan (1990) e Il mito nazi (1991). Di fondamentale importanza sono i suoi scritti La comunità inoperosa (1983), L’esperienza della libertà (1988), Corpus (1992) e Essere singolare plurale (1996). L’idea cardinale che sta al cuore della riflessione di Nancy - a partire dal suo pensiero circa la comunità, la libertà e il corpo – è la nozione dell’essere singolare plurale. Secondo Nancy, il quale non fa segreto di voler rifondare la “filosofia prima”, il singolare plurale forma la costituzione d’essenza dell’essere, il quale è, al contempo, singolarmente plurale e pluralmente singolare. Infatti, convinto che mai vi sia stato né che mai vi sarà un assoluto solipsismo filosofico (ossia una filosofia del soggetto concepita come “chiusura infinita in sé di un "per-sé”), asserisce che tutto ciò che esiste, dal momento che esiste, “coesiste”.


Il testo La comunità inoperosa nasce come scritto che nel 1983 dialoga con il libro dello stesso anno di Maurice Blanchot, La comunautè inavouable (la comunità inconfessabile) in cui il grande filosofo e critico letterario metteva a tema, nell'opera e nel pensiero di Bataille la dissolvenza di ogni essenza o sostanza di un soggetto, a partire dall'ipotesi di una comunità della non comunità. "un pò più tardi, da Berlino Werner Hamacher mi domandava un contributo a un ciclo di lavori dedicati alla questione del mito. Fu la prima versione de le Mythe interrompu che era ...un altro modo per passare di nuovo per l'esigenza "comunitaria" di Bataille, prolungando ulteriormente la rifelssione ininterrotta di Blanchot.". L'edizione italiana del testo comprende questa secondo scritto e, come terzxa e quarta parte altri due testi, Il comunismo letterario, e la storia finita, quest'utlimo scritto in collaborazione con Elkisabeth Bloonfield, in occasione di una conferenza al program in Critacal Theory dell'Università di California a Irvine, e pubblicato in inglese nel 1988. Da qualche giorno è uscito un ulteriore capitolo di questa "riflessione infinita" di Nancy sulla comunità, La comunità sconfessata.

Dalla Prefazione all'edizione italiana:

Come cogliere l'essere-in-comune, se è ormai chiaro che la comunità in quanto idea di un essere comune, intimo, sostanziale e proprio, in quanto effetttività di un soggetto comune, non è che una proiezione dell'onto-teologia del Soggetto, per lo più accompagnata da illusioni nostalgiche o profetiche? Alla luce di questa questione, la 'comunità' è un concetto caduco, qualunque sia la determinazione che assume. ...ma al tempo stesso e per gli stessi motivi la parola comunità viene a segnare un posto vuoto: quello dell'essere-in-comune. Come determinare quest'ultimo? Qual'è il suo modo d'essere? E ancor più, qual'è il modo dell'essere in generale – o dell'esistere – se la dimensione dell'in-comune non è seconda, avventizia, ma originaria o addirittura archi-originaria? Il pensiero incontra così un assioma che non ha niente a che fare con un'anteriorità del comune sul


particolare, sull'individuale o sul singolare. Questo assioma potrebbe essere annunciato in questi termini: il singolare è in comune, il comune è singolarmente e il senso ha luogo secondo questa reciprocità. Ma questa reciprocità non produce più una mutua mediazione.

Da La comunità inoperosa, trad.it., Cronopio editore, Napoli, 1992, 2002:

Un'assoluta immanenza dell'uomo all'uomo – un umanesimo – e della comunità alla comunità –un comunismo – è l'ostinato presupposto di tutti i comunismi d'opposizione, di tutti i modelli di sinistra, di estrema sinistra o consiliari, quali che siano i loro meriti o la loro forza. In un certo senso ogni tentativo di opposizione comunitaria al 'comunismo reale' è ormai esaurito o abbandonato: ma tutto avviene come se, aldilà di questi tentativi, non si trattasse nemmeno più di pensare la comunità… Di qui, è l'essere stesso che arriva a definirsi come rapporto, come non assolutezza o, se si vuole, – questo è comunque quello che cerco di dire – come comunità. Che cosa sono un corpo, un viso, una voce, una morte, una scrittura – non già indivisibili ma singolari? Qual'è la loro necessità singolare, nella partizione che divide e fa comunicare i corpi, le voci, le scritture in generale e nel loro insieme? Tale questione costituisce insomma l'esatto rovescio di quella dell'assoluto. In questo senso, essa è parte integrante della questione della comunità,…la singolarità non ha mai la natura nella struttura dell'individualità. La singolarità non ha luogo nell'ordine degli atomi, identità identificabili se non identiche, ma sul piano del clinamen è identificabile. Essa è legata all'estasi: non si può dire che l'essere singolare sia il soggetto dell'estasi, giacché essa non a soggetto, ma si deve dire invece che l'estasi (la comunità) è l'essere singolare. La solidarietà fra individuo e comunismo all'interno di un pensiero dell'immanenza che ignora l'estasi non costituisce tuttavia una semplice simmetria. Il comunismo – per esempio nell'esuberanza generosa che fa sì che Marx non si fermi prima di aver indicato, oltre il regolamento collettivo della necessità, un regno della libertà nel quale il lavoro eccedente non sarebbe più lavoro sfruttato, ma arte e invenzione, comunità – comunica con forme estreme di gioco, sovranità ed estasi da cui l'individuo resta definitivamente escluso. Ma questa comunicazione è rimasta remota, segreta e perlopiù ignorata dal comunismo stesso, eccetto che nei bagliori folgoranti della poesia, della pittura e del cinema nei primi tempi della rivoluzione dei soviet, o ancora nei motivi che Benjamin poteva


avere per dirsi marxista, o in ciò che Blanchot tentò di far passare o di proporre (piuttosto che di significare) con la parola comunismo ("il comunismo: ciò che esclude (e si esclude da) ogni comunità già costituita"). Il presupposto restava quello di una comunità che si realizza nell'assoluto dell'opera o che realizza se stessa come opera. Per questo motivo e nonostante le sue affermazioni, questa modernità rimaneva nel suo principio un umanesimo. È per questo che, mentre poniamo che il comunismo non è più il nostro orizzonte insuperabile, bisogna porre anche, con altrettanta forza, il fatto che un'esigenza comunista comunica col gesto che ci permette di andare oltre ogni orizzonte. In ogni momento della sua storia, infatti, l'Occidente già sempre consegnato alla nostalgia di una comunità più arcaica e ormai scomparsa, al rimpianto di una familiarità, di una fraternità e di una convivialità perdute. La società non si è edificata sulle rovine di una comunità. È sorta dalla scomparsa o dalla conservazione di ciò che – tribù o imperi – aveva forse ben poco a che fare sia con quella che chiamiamo comunità che con quella che chiamiamo società. La comunità, lungi dall'essere ciò che la società avrebbe perso o infranto, è ciò che ci accade – questione, attesa, evento, imperativo – a partire dalla società. L'uomo compiuto dell'umanesimo, individualista o comunista, è l'uomo morto. La morte, cioè, non è in essa l'eccesso irriducibile della finitezza, ma il compimento infinito di una vita immanente: è la morte stessa resa all'immanenza, è insomma quel riassorbimento della morte che la civiltà cristiana, come divorando la sua propria trascendenza, è arrivata a proporsi come opera suprema. Da Leibniz in poi non c'è più morte nel nostro universo: in un modo nell'altro, una circolazione assoluta del senso (valori, dei fini, della storia…) colma o riassorbe ogni negatività finita, traendo da ogni destino singolare finito un plusvalore di umanità o di sovrumanità infinita. Il motivo della rivelazione, attraverso la morte, dell'essere-insieme o dell'essere-con e della cristallizzazione della comunità intorno alla morte dei suoi membri, intorno, cioè, alla perdita (all'impossibilità) della loro immanenza e non intorno alla loro fusione che li assume in un'ipostasi collettiva, conduce in uno spazio di pensiero che è incommensurabile con tutte le problematiche della


socialità e dell'intersoggettività… in cui la filosofia, qualunque cosa facesse, restava prigioniera. La morte eccede irrimediabilmente le risorse di una metafisica del soggetto. Il fantasma di questa metafisica, il fantasma che Descartes non osò (quasi) avere, ma che la teologia cristiana già proponeva, è quello di un morto che dice-come Waldemar in Villiers - "io sono morto" – ergo sum… mortus. Se io non può dire di essere morto, se io scompare effettivamente della sua morte, in questa morte che è appunto ciò che gli è più proprio, più inalienabile, è perché io non è un soggetto. Tutta la ricerca heideggeriana dell' "essere per (o alla) la morte non è altro che il tentativo di enunciare che io non è – non sono – un soggetto. E questa comunità esiste proprio per assumere quest'impossibilità, o meglio, perché qui non ci sono più nè funzione né finalità, l'impossibilità di fare opera della morte si scrive e si assume come comunità. È per questo che l'esperienza interiore di cui parla Bataille non ha niente di interiore o di soggettivo, ma è inseparabile dall'esperienza di questo rapporto col fuori incommensurabile.… in questo senso Bataille fu sicuramente colui che fece per primo, o nella forma più estrema, l'esperienza moderna della comunità: nè opera da produrre, né comunione perduta, ma lo spazio stesso, e lo spaziamento dell'esperienza del fuori, del fuori-di-sé. Il punto cruciale di questa esperienza fu l'esigenza… del fatto che non si può, e in definitiva non si deve, ritrovare l'immanenza o l'intimità. Tuttavia Bataille stesso rimase per così dire sospeso tra i due poli dell'estasi e della comunità. La reciprocità di questi due poli consiste nel fatto che, nel dar luogo l'uno all'altro, arealizzandosi, essi si limitano a vicenda formando una nuova 'arealizzazione', una sospensione dell'immanenza cui pure la loro connessione invita. Questa duplice arealizzazione fonda la resistenza alla fusione, all'opera di morte, e questa resistenza è il fatto dell'essere-in-comune in quanto tale: senza questa resistenza non resteremo mai a lungo in comune, ma saremo subito 'realizzati' in un essere unico e totale. Questo limite è esso stesso il paradosso: Il paradosso di un pensiero magnetizzato dalla comunità e tuttavia regolato dal tema della sovranità di un soggetto. L'expereince interieure definisce invece: "se stesso non è il soggetto che si isola dal mondo, ma un luogo di comunicazione, di fusione del soggetto e dell'oggetto". Un essere singolare appare in quanto è la finitezza stessa… la comunità significa, quindi, che non c'è


essere singolare senza un altro essere singolare… non c'è comunione delle singolarità in una totalità superiore e immanente al loro essere comune. Al posto di una tale comunione, c'è comunicazione… Benché con tutto il suo essere tocchi il suo limite singolare, la singolarità non è chiusa in una forma, ma è quel che è, essere singolare (singolarità dell'essere), solo per la sua estensione, per la sua arealità che innanzitutto l'estroverte nel suo essere stesso – quale che sia il grado o il desiderio del suo egoismo – e la fa esistere solo esponendola a un fuori. Per questo fuori non è a sua volta nient'altro che l'esposizione di un'altra arealità, di un'altra singolarità – la stessa, altra. Ma la com-parizione e più originaria del legame. Non si instaura, non si stabilisce nè emerge tra soggetti (oggetti) già dati. Consiste nell'apparire del 'fra' come tale: tu e io (il fra noi). Non ci sono né tessuto nè carne, nè soggetto o sostanza dell'essere comune e quindi non c'è neppure lacerazione di questo essere. Esso è partizione. Neanche la bocca, quando si apre, è una lacerazione. Essa espone al fuori un dentro che senza questa esposizione non sarebbe. Le parole non escono dalla gola (ne dallo 'spirito' 'dentro' la testa): esse si formano mentre la bocca le articola. È per questo che la parola non è un mezzo di comunicazione, ma la comunicazione stessa – fino al silenzio –… la bocca che parla non trasmette, non informa, non opera un legame, essa è forse – ma al limite, come nel bacio – il contatto di un luogo singolare con altri luoghi singolari… È per questo che la comunità non può appartenere alla sfera dell'opera. Nulla si produce, se ne fa l'esperienza (o meglio l'esperienza di essa ci fa) come esperienza della finitezza. La comunità ha luogo necessariamente in quel che Blanchot chiama inoperosità. Al di qua o al di là dell'opera, ciò che si ritrae dall'opera, ciò che non ha più a che fare né con la produzione né con il compimento, ma incontra l'interruzione, la frammentazione, la sospensione. La comunità è fatta dell'interruzione delle singolarità o della sospensione che gli esseri singolari sono. L'inoperosità della comunità ha luogo sul versante di quel che Bataille ha chiamato per lungo tempo il sacro. Egli giunse tuttavia a dire: "ciò che poco fa, con un nome che forse puramente pedante, ho chiamato il sacro e che in fondo non è che lo scatenamento delle passioni". Se pertanto la comunità inoperosa viene a trovarsi sul versante del sacro, ciò avviene nel senso in cui lo 'scatenamento delle passioni' non è libero dominio di una soggettività e la libertà non è


autosufficienza…ma lo scatenamento delle passioni è qualcosa dell'ordine di quel che Bataille stesso indica spesso come contagio è che un altro nome per la comunicazione. La passione che si scatena non è altro che la passione della comunità. E questa passione si fa riconoscere come la desoggettivizzazione della passione della morte – ovvero come il suo rovesciamento: poiché, infatti, non è il desiderio di riconoscimento hegeliano, essa non cerca nè il godimento né l'operazione coerente del dominio. Così come, però, non bisogna pensare che la comunità sia perduta – così come lo stesso Bataille dovette strapparsi a questo modo di pensare – sarebbe una sciocchezza deplorare la perdita del sacro e augurarsene il ritorno come rimedio ai mali della nostra società (cosa che Bataille, seguendo in questo l'esigenza più profonda di Nietzsche, non fece mai e che non fecero mai neanche Benjamin, Heidegger o Blanchot, nonostante qualche apparenza contraria nell'uno o nell'altro). Ciò che del sacro è scomparso – cioè in fin dei conti tutto il sacro, sprofondato nell'immenso fallimento – mostra invece che la comunità occupa ormai il posto del sacro. Essa è il sacro, se si vuole, ma il sacro spogliato del sacro. La comunità, quindi, è la trascendenza; ma la trascendenza che cessa di avere un significato sacro non significa appunto nient'altro che la resistenza all'immanenza (alla comunione di tutti o alla passione esclusiva di uno o di qualcuno: a tutte le forme e a tutte le violenze della soggettività).

Per Bataille la comunità fu innanzitutto e soprattutto quella degli amanti. La gioia è quella degli amanti.… gli amanti di Bataille presentano la figura di un… soggetto che… finisce tuttavia per sprofondare da solo nell'estasi. "l'amore unisce gli amanti soltanto per consumare, per andare di piacere in piacere, di godimento in godimento: la loro società è una società di consumo, al contrario dello stato che è invece una società d'acquisto". Qui la parola società non è – o comunque non è unicamente – una metafora. Essa porta in sé l'eco tardiva (1951), e come soffocata o rassegnata, del motivo di una società della festa, del dispendio, del sacrificio e della gloria.… ora, così come la comunità non è perduta, non c'è neppure società di consumo. Purché non sia concepito a partire dal modello politico-soggettivo della comunione dell'uno, l'amore


espone invece l'inoperosità e dunque l'incompiutezza incessante della comunità. La espone sul suo limite. Gli amanti costituiscono il limite estremo, ma non esterno, della comunità. Non si tratta qui unicamente e neppure in primo luogo della letteratura amorosa, della letteratura 'letteraria', ma soltanto dell'inoperosità della letteratura: tutta la comunicazione inoperosa, tanto letteraria quanto filosofica, scientifica, critica, estetica e politica.…mentre la parola degli amanti cerca una durata della gioia, cui la gioia si sottrae, la scrittura in questo senso iscrive la durata collettiva e sociale nell'istante della comunicazione, nella partizione. Il politico, se è possibile designare con questa parola l'ordinamento della comunità in quanto tale nella destinazione della sua partizione e non l'organizzazione della società, non deve essere né il superamento né l'opera dell'amore o della morte. Non deve trovare, ritrovare o operare una comunione perduta o ventura. Se il politico non si dissolve nell'elemento socio-tecnico delle forze e dei bisogni (nel quale in effetti sembra dissolversi sotto i nostri occhi), esso deve iscrivere la partizione della comunità. Politico sarebbe il tracciato della singolarità, della sua comunicazione, della sua estasi. Politico vorrebbe dire una comunità che si consacra all'inoperosità della sua comunicazione o che è destinata a questa inoperosità: una comunità che faccia coscientemente l'esperienza della sua partizione. Raggiungere un tale significato del politico non dipende, o comunque non sempre, da quel che si chiama una volontà politica, ma implica che si è già impegnati nella comunità, che se ne fa, in una maniera qualunque, l'esperienza in quanto comunicazione: implica scrivere. Non si deve cessare di scrivere, non si deve cessare di far sì che il tracciato singolare del nostro essere in comune si esponga.… "Le ragioni di scrivere un libro possono essere ricondotte al desiderio di modificare i rapporti che esistono fra un uomo e i suoi simili. Questi rapporti sono giudicati inaccettabili e sono percepiti come un' atroce miseria".


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