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RIVISTA TRIMESTRALE DI ARCHITETTURA E CULTURA DEL PROGETTO FONDATA NEL 1959

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ISSN 2239-6365

Terza edizione — Anno XXIII — n. 3 Luglio/Settembre 2015 — Autorizzazione del tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane spa — spedizione in abb. postale d.i. 353/2003 (conv. in I.27/02/2004) — art. 1, comma 1, dcb verona - CONTIENE I.R.

Finestre sulla città — Soluzioni di continuità — Nel silenzio di pietra — Dialogo stratificato — Una bellezza di salone — Homo faber — Due santi in città, tre santi in collina — Per un Abecedario urbano — 1505 metri per un incontro — Poco amate sponde — La madre di tutti i cantieri — Stile nel Giardino — Itinerario: Antonio Pasqualini a Borgo Trento.

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Dieci obiettivi per il governo del territorio Testo: Arnaldo Toffali

Nei giorni 9, 10 e 11 Luglio 2015 si è svolta a Taranto la Conferenza Nazionale degli Ordini degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, dal titolo Post_produzione. Città, industria, ambiente. Una visione di progetto. Durante i tre giorni della Conferenza si sono affrontati i temi relativi alla relazione tra città e produzione, industria, ambiente, salute, riqualificazione di aree ex produttive, rigenerazione urbana in ambito di centri storici, aree produttive, militari e portuali, alla presenza di esponenti di rilievo nazionale del mondo della politica, economia, ambientalismo, architettura e urbanistica. A Taranto, “città divenuta simbolo tra i luoghi nei quali sono esplosi in maniera eclatante le contraddizioni nel rapporto tra valori costituzionali quali il diritto al lavoro, il diritto alla salute e all’ambiente”, gli Ordini degli Architetti PPC italiani e il Consiglio Nazionale hanno proposto al Paese e al Governo “una riflessione sul futuro delle nostre città, sulla loro funzione centrale nel sistema Italia e per l’Europa”. “Progettare luoghi dove vivere e crescere, non periferie: spazi pubblici, edifici pubblici e privati, centri storici, ambiti di città consolidata sono tutte parti di un insieme metropolitano ed urbano che oggi ha bisogno di nuove visioni; valorizzare e non sprecare il suolo” e, ancora “attivare la partecipazione dei cittadini al processo di pianificazione che sia concertato con spazi di confronto e di pubblico dibattito fin dalle fasi di preliminare indirizzo e progettazione del piano o del progetto: costruire, insomma, una

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comunità consapevole e capace di esprimere le proprie idee e necessità senza essere ideologica: recuperare, infine, la dimensione del progetto che è sempre propositiva, che lavora non per divieti o negazioni ma scegliendo la soluzione che appare come la più adeguata a risolvere il problema” 1. Sono questi i paradigmi della rigenerazione urbana e, di conseguenza, della tutela del paesaggio, della sostenibilità ambientale, della tutela dal rischio idrogeologico e sismico, che gli architetti italiani hanno lanciato da Taranto come “dichiarazione di responsabilità civica – per il Manifesto per il governo del territorio”. Gli architetti italiani, “attraverso l’individuazione dei dieci principi che sostanziano il Manifesto, ritengono necessario attivare metodi di lavoro, sia nella fase di elaborazioni legislative e normative, sia nella fase della progettazione urbanistica e architettonica, fino alla fase di trasformazione e rigenerazione concreta di parti di città che contribuiscano alla costruzione di un futuro per la città contemporanea post-industriale capace di coniugare sostenibilità e qualità urbana e sociale ai processi di crescita e di trasformazione”. Sono necessarie risposte e soprattutto proposte, prendendo atto “delle incertezze della politica nelle scelte per la città di domani ed in generale per le politiche dell’urbanistica”, registrando “il primato dell’economia che determina i futuri scenari di sviluppo e l’inadeguatezza del sistema pubblico delle scelte che risponde con rigidezza e scarsa propensione al confronto oltre che alla apertura

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verso gli scenari europei”. Il Manifesto degli Architetti italiani dichiara principi e contenuti di un percorso verso la rigenerazione urbana intesa in tutti i suoi molteplici aspetti. Una dichiarazione di intenti, ma anche la richiesta di impegno verso i nostri interlocutori a confrontarsi su tutti i punti nei quali è articolato 2 . Questi i dieci obiettivi del Manifesto: 1. Progettare luoghi dove vivere e crescere e non periferie Spazi pubblici, edifici pubblici e privati, centri storici, ambiti di città consolidata sono tutte parti di un insieme metropolitano ed urbano che oggi ha bisogno di nuove visioni. Dobbiamo tornare a lavorare sulla flessibilità degli usi, e sull’apertura alla mixité funzionale garantita dalla indicazione delle intensità di funzioni, sulla temporaneità e la sperimentazione delle funzioni, aprendo con maggiore decisione alla flessibilità degli usi compatibili al fine di consentire la flessibilità della città e la velocità delle operazioni di rigenerazione. 2. Valorizzare e non sprecare Il consumo di suolo deve essere arginato, a vantaggio della rigenerazione della città, ma serve anche un uso intelligente dei suoli, urbanizzati e non, questi sono i nuovi paradigmi della rigenerazione urbana, della tutela del paesaggio, della sostenibilità ambientale, della tutela dal rischio idrogeologico e sismico. Mettere al centro il costruito con particolare attenzione al patrimonio pubblico con tutto il relativo potenziale per lo sviluppo delle città.


3. Dare valore alla partecipazione Partecipazione dei cittadini ai processi con spazi di confronto e di pubblico dibattito fin dalle fasi di preliminare del piano o del progetto. Costruire una comunità consapevole e capace di esprimere le proprie idee e necessità senza essere ideologica nell’ambito di metodi e tempi certi. Collaborazione tra privato e pubblico in un nuovo meccanismo di realizzazione del beneficio pubblico basato non più sulla rendita ma sulla concertazione, sul progetto alla scala urbana, e sulla trasparenza del confronto. 4. Tornare al progetto Recuperare a tutte le scale di intervento la dimensione del progetto che è sempre propositiva, che lavora non per divieti o negazioni ma scegliendo la soluzione che appare come la più adeguata a risolvere il problema. Si può e si deve in primo luogo organizzare la filiera e la regia delle decisioni con la costituzione di una “Agenzia della Rigenerazione Urbana” e quindi organizzare cabine di regia che focalizzino gli obiettivi e diano il senso di una programmazione finanziaria a lungo termine. 5. Cambiare le regole Introducendo il principio di non duplicazione della normativa e di una chiara distribuzione delle competenze è necessario un nuovo Testo Unico del governo del territorio, della pianificazione, delle tutele paesaggistiche, idrogeologiche e sismiche, con estrema attenzione alla salvaguardia delle attività agricole e dell’economia dello spazio rurale, che affronti con determinazione la semplificazione del quadro normativo. Un Regolamento Edilizio unico nazionale, una nuova Legge per l’Architettura che valorizzi la professione, il confronto delle idee e la trasparenza nell’assegnazione degli incarichi. 6. Intervenire sul costruito rinnovando il piano Un rinnovamento normativo che deve tradursi in un nuovo modello di Pianificazione e in una nuova articolazione dei livelli di piano che partendo dal modello comunale con un unico piano/ regolamento della città esistente e un modello/ guida concertativo con indirizzi della collettività per la pianificazione della nuova città, che sia di espansione o per ambiti di rigenerazione. Piano che esca dal dimensionamento parametrico e proponga il progetto quale base conformativa e punto di equilibrio degli interessi pubblici e privati.

7. Semplificare la prassi Il percorso progettuale deve essere responsabile e capace, liberato dagli aspetti meno significativi del progetto e dagli usi impropri dei vincoli e delle prescrizioni. La semplificazione deve prendere in considerazione la riduzione delle categorie di intervento, la riduzione dei titoli abilitativi per una nuova gestione del processo edilizio tutto incluso in un unico titolo. 8. Una nuova misura di fiscalità Gli interventi di rigenerazione urbana e più in generale quelli sulla città costruita richiedono una revisione complessiva del concetto di rendita che non è più legato alla trasformazione di una zona agricola in area edificabile, ma che invece deve misurarsi sulla situazione dei servizi pubblici connessi all’intervento, sulla restituzione di qualità urbana e ambientale conseguente al recupero. Una nuova modulazione degli oneri e dei contributi di costruzione a vantaggio degli interventi di rigenerazione, sostituzione e densificazione delle città. 9. Un nuovo patto sul paesaggio Conservazione e trasformazione devono essere azioni coerenti e non in contraddizione tra loro, come ci insegnano i nostri centri storici, ma anche il paesaggio agrario, i litorali e le montagne. Occorre un nuovo rapporto, aperto alla contemporaneità, tra il recupero e la vivibilità dei luoghi, la loro disponibilità ad accogliere usi e modelli di vita diversi e la necessità che siano preservati da attività invasive e distruttive. Una visione premiante della professionalità dell’Architetto e della competenza al progetto anche negli ambiti di tutela paesaggistica. 10. Rispettare le regole L’abusivismo edilizio e il mancato rispetto delle leggi costituiscono una problematica e un costo sociale rilevante per il recupero e il ripristino dei luoghi. Questo tema deve essere affrontato concretamente, senza soluzioni ideologiche, ricorrendo al progetto per valutare in concreto le soluzioni. Vanno costruite politiche di intervento distinte calate nelle diverse realtà territoriali, rivendicando il metodo dell’analisi e del confronto delle soluzioni possibili non solo urbanistiche e architettoniche, ma anche sociali ed economiche.

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Consiglio dell’ordine • Presidente Arnaldo Toffali • VicePresidente Nicola Brunelli • VicePresidente Paola Ravanello • Segretario Elena Patruno • Tesoriere Giovanni Mengalli • Consiglieri Marco Campolongo, Vittorio Cecchini, Laura De Stefano, Federico Ferrarini, Giancarlo Franchini, Daniel Mantovani, Raffaele Malvaso, Amedeo Margotto, Donatella Martelletto, Diego Martini

1 Leopoldo Freyrie, Conferenza Nazionale degli Ordini, Taranto, 10 luglio 2015. 2 Tratto da CNAPPC. Tavolo Governo del Territorio, testo condiviso dalla delegazione a base regionale del 2 luglio 2015.

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professione

Dieci obiettivi per il governo del territorio di Arnaldo Toffali

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Nel silenzio di pietra di Angela Lion

Sul lavoro di Pierluigi Negrini di Nicola Gastaldo

progetto

progetto

pRogetto

Finestre sulla città di Nicola Brunelli

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editoriale

Sul cuore della città, e d’altri organi di Alberto Vignolo

odeon

Tre santi in collina di Angela Lion

odeon

Architettura e storia, università e territorio, didattica e professione di Filippo Bricolo

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Dialogo stratificato di Clemens F. Kusch

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progetto

Soluzioni di continuità di Luisella Zeri

saggio

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Homo faber di Alessio Fasoli

PROGETTo

Una bellezza di salone di Federico Randoli

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Due santi in città di Angelo Bertolazzi

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Per un Abecedario urbano di Filippo Dusi


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Compressione vs programmazione di Fabio Pasqualini

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itinerario

Antonio Pasqualini a Borgo Trento di Federica Guerra

graphics

La ricerca del segno, tra arte e design di Gaia Passamonti

Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXIII n. 3 • Luglio/Settembre 2015

Editore Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona

Redazione Via Oberdan 3 — 37121 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 redazione@architettiveronaweb.it

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cantieri

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La madre di tutti i cantieri di Luisella Zeri e Alberto Vignolo

Direttore responsabile Arnaldo Toffali Direttore Alberto Vignolo av@architettiveronaweb.it

collezione privata

Lucia Amalia Maggio: 1505 metri per un incontro di Luigi Marastoni

Art direction, Design & ILLUSTRATION Happycentro www.happycentro.it Distribuzione La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta agli indirizzi della redazione.

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diversearchitetture

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TERRITORIO

Poco amate sponde di Federica Guerra

Stile nel Giardino di Luisella Zeri copertina Foto: Diego Martini

Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

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Redazione Angelo Bertolazzi, Nicola Brunelli, Laura De Stefano, Federica Guerra, Angela Lion, Dalila Mantovani, Lorenzo Marconato, Matilde Tessari, Nicola Tommasini, Luisella Zeri Fotografia Cristina Lanaro, Lorenzo Linthout, Diego Martini, Michele Mascalzoni collaboratori Carlo Ambrosi, Alessio Fasoli, Federica Provoli contributi Michele Adami, Filippo Bricolo, Filippo Dusi, Nicola Gastaldo, Giuseppe Gradella, Luigi Marastoni, Fabio Pasqualini, Gaia Passamonti, Federico Randoli Si ringraziano Famiglia Negrini, Ugo Marconi, Pino Castagna, Sandro Boscaini, Giovanni Girelli, Alessandro Beghini, Andrea Basilisco, Bertilla Ferro, Itala Chiarelli, Angelo Pasqualini

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Sul cuore della città, e d’altri organi Usi e abusi di luoghi e monumenti notevoli, e usi improbabili di una ventilata pratica concorsuale

Testo: Alberto Vignolo Foto: Diego Martini

È una breve passeggiata nel cuore della città – la metafora organica risulta un po’ appannata, ma d’obbligo – quella che ci conduce attraverso i luoghi simbolo più celebri, ma al tempo stesso più consumati e consumistici di Verona. Analogamente al nobile organo, il centro cittadino rappresenta infatti non solo il motore circolatorio e propulsore della vita urbana, ma anche il simbolo di una sua dimensione allegorica e retorica, sotto il segno dell’ineffabile accoppiata cuore&amore. Bastano quattro passi di cardiofitness per le vie del centro – via Cappello e dintorni su tutte – per coglierne la degenerazione. Il brand del vigoroso muscolo rosso infesta ogni luogo, edificio, manifestazione, evento e ricorrenza. Dal mito si tracolla alla mitomania: chi si ricorda più del geniale estro creativo di Antonio Avena? Chi era costui, forse un avo di Cristina D’Avena? I nobili versi della tragedia letteraria di Giulietta e Romeo sono ridotti a una sorta di griffe G&R, testimonial in passerella i due infelici morosetti veronesi. E poi: festival, premi, rappresentazioni teatrali, souvenir,

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paccottiglia, ricami, dolciumi; arsenico e merletti. Altro che cuore: un limone transgenico bello rosso e grosso, un megafrutto succoso e succulento da spremere, a cui la città draculescamente si abbevera. Ce n’è per tutti: il che vuol dire, ovviamente, per pochissimi. L’altro frutto di stagione ancora più gustoso e zuccherino è, due passi più in là nel cuore della città, l’Arena. Molto più che alla consumata

protuberanza bronzea della Giulietta posta nel cortile di Casa sua (per la quale si è dovuti ricorrere a un’ operazione di mastoplastica metallurgica, in rammendo alle turistiche toccacciate), la grande mammella che dà nutrimento non ai figli della lupa, ma ai tris-tris nipoti dei romani costruttori venuti su in riva all’Adige, è l’insigne anfiteatro. Come una gigantesca nutrice dal lapideo ventre, Mammarena da

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tempo immemore è fonte di grande ricchezza per la città, grazie alla stagione lirica estiva e, sempre più, ai concerti e agli eventi che a questa si affiancano. Le condizioni del monumento – ebbene si, vale la pena ricordarlo: trattasi di un monumento – sembrano cosa noiosa, giusto per quattro rompiscatole di architetti o, peggio ancora, di soprintendenti. Le problematiche che l’uso-abuso dell’Arena ingenera sono molteplici, da quelle propriamente conservative – sigillature delle gradinate, smaltimento delle acque meteoriche, recupero degli arcovoli – a quelle dovute agli spettacoli – impiantistica, impatto degli apparati scenografici, movimentazione e accumulo delle scene nella piazza, eccetera. Molto ci sarebbe da fare a questo riguardo, per tenere d’occhio il ritmo e il battito di questo anziano cuore monumentale, e alcuni interventi sono del resto in programma. Ma accanto a questi temi, ciclicamente come il cambio delle stagioni ritorna alle cronache l’idea di una copertura, per la quale è in vista un concorso di idee. Forse

confondendo l’anfiteatro veronese con l’anfiteatro Flavio, il più illustre degli omonimi se ne è fatto anfitrione, complice il munifico intervento di un patrocinatore privato. Mutatis mutandissimis, le questioni in gioco però non cambiano. La realizzazione di una chiusura superiore, anche se leggera e temporanea, viene infatti prospettata in funzione del suo utilizzo come luogo di spettacolo: che è propriamente la destinazione d’uso originaria, e che mantiene vivo il monumento in quanto elemento pulsante (ecco di nuovo il cuore) della vita urbana, e non solo oggetto “imbalsamato”. Ma fino a che punto possono spingersi le esigenze derivanti dall’uso, rispetto allo status di monumento? Si dirà: tecnicamente tutto è possibile, e non vi è dubbio che una consultazione su questo tema possa essere una sfida stimolante per i progettisti. Già ci possiamo immaginare un toto-partecipanti attingendo alla nutrita schiera delle archistar mediatiche: immancabile un’ostrica, o forse meglio un bogone

parametrico e sinuoso, alla Zaha Hadid, accanto a una sottile trama di elementi metallici hi-tech di un Norman Forster (strutture: Arup); e poi una eterea e impalpabile bolla giapponese alla Sejima, un velario rossofuoco con uno svettante saettone di sostegno à la Nouvel, una bignolata al titanio di Mario Bellini d’après Gehry a fianco di una soluzione storicistica di qualche erudito accademico (qui i nomi possono essere molti)... e il gioco potrebbe continuare. Ma se il percorso è quello prospettato, ovvero di partire dal “cappello” del concorso e non da un serio percorso conoscitivo generale sul monumento, l’impressione è che l’unica copertura possibile sia quella mediatica, col rischio che gli esiti rimangano una semplice boutade. E forse l’obiettivo è proprio questo: velare, simbolicamente, le cosiddette vergogne, organi meno nobili del cuore ma pur sempre necessari alle funzioni vitali e posti un po’ più giù, lì dove lo sponsor del concorso ha costruito le sue fortune. Una colata di microfibre ci seppellirà. 01-03. Casa di Giulietta, via Cappello, Verona: rassemblement di turisti nel cortile e di cuoricini siglati sul portale di accesso.

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PROGETTO

Finestre sulla città

Un interno plasmato dalla morfologia del luogo e dallo straordinario affaccio dell’edificio, che orienta la conformazione spaziale di un grande arredo fisso ligneo

Progetto: arch. Pietro Todeschini, arch. Massimilano Roca Testo: Nicola Brunelli

Foto: Antonio Riva Barbaran

Verona

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pietro todeschini massimiliano roca Pietro Todeschini (Verona,1981) si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 2006 e nel 2009 consegue il Master in Advance Architectural Design alla Columbia University di New York. Dopo un’esperienza lavorativa nello studio di Bruno Morassutti si trasferisce a New York dove lavora presso Eisenman Architects. Dal 2010 rientra in Italia e collabora con diversi uffici su progetti principalmente residenziali. Massimiliano Roca (Milano,1974) si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1999 e nel 2005 consegue il dottorato in Progettazione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano e alla Oxford Brooke University. Dal 2003 ha aperto il proprio studio professionale. Dal 2006 è professore di progettazione architettonica presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano.

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In un edificio che fiancheggia le mura magistrali, nel tratto in cui queste si arrampicano fin sulle colline delle Torricelle, in prossimità dell’Istituto Ecclesiastico Don Calabria, è stata recentemente realizzata la ristrutturazione di una sua porzione d’angolo. Il vincolo normativo che prescrive il mantenimento del disegno originario dei prospetti, ha correttamente imposto il ripristino delle aperture esistenti, anche di quelle tamponate nel corso degli anni passati. Un progetto di ristrutturazione che potremmo definire introverso, in quanto il gioco compositivo che riorganizza lo spazio architettonico si svolge prevalentemente all’interno delle pareti perimetrali, influenzato inevitabilmente dal “peso” del superbo affaccio panoramico: è come se quest’ultimo entrasse all’interno degli spazi residenziali, condizionando le

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01. Le superfici in cartongesso celano all’intradosso la nuova struttura metallica della copertura. 02. Schema morfologico: il riferimento urbano per l’orientamento della spazialità interna. 03. La colonna frigo maschera la parte operativa della zona cucina, aperta sul living. 04. In rosso, la porzione ristrutturata dell’edificio lungo le mura.

scelte architettoniche e definendo gli allineamenti geometrici che ne determinano la composizione. La nuova soluzione strutturale della copertura a falde, prevista dalla ristrutturazione, ha permesso lo svuotamento di tutto lo spazio del piano sottotetto, liberandolo dalle partiture interne e dai precedenti ingombri strutturali; ciò ha permesso una nuova organizzazione planimetrica svincolata ed indipendente e, di conseguenza, una libera distribuzione degli

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Finestre sulla città

PROGETTO 05. L’arredo-parete dissimula nella continuità delle superfici lignee le ante di porte, armadi e un piccolo studiolo. 06. Schizzo progettuale per la soluzione distributiva. 07-08. Modelli di studio con l’inserimento dell’arredoparete.

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09. I fronti della porzione di edificio ristrutturato con, in alto, le finestre ad arco dell’alloggio posto nel sottotetto. 10. Veduta dal soppalco. 11. Pianta dell’alloggio a livello del living e alla quota del soppalco.

ambienti interni. Lo schema planimetrico propone inevitabilmente una zona living in simbiosi con le finestre, proiettata verso la luce e la vista panoramica. Un ambiente “open space”, quindi, in cui le varie destinazioni d’uso sono comunque ben individuate e definite; uno spazio giustamente gerarchizzato, in cui prevale la zona living con le grandi finestre, a discapito della zona servizi, volutamente resa marginale. Tutti gli ambienti di servizio sono infatti delimitati e ben “nascosti” in unpianta volume in legno, a metà strada tra piano secondo / pianta soppalco

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la parete attrezzata e l’arredo fisso, fruibile da più parti, che cela dietro le sue ante un ampio bagno finestrato, un ripostiglio, un armadio-guardaroba e accoglie infine la scala che conduce direttamente al soppalco, in cui è allestita la zona notte con affaccio suggestivo sulla doppia altezza del soggiorno. Il limite geometrico del volume in legno, grazie ad una linea prospettica garbata ma decisa, collega visivamente l’ingresso con la scala di accesso al soppalco, marcando il confine tra il vuoto (la zona living) e il pieno (il mobile con gli ambienti di sevizio). Tale allineamento determina la disposizione dell’intero spazio e indirizza chiaramente lo sguardo verso le vetrate, che colpiscono e sorprendono il visitatore fin dal suo ingresso. La scelta di una grande zona soggior-

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prospetto ovest / prospetto sud

« Un progetto di ristrutturazione introverso: il gioco compositivo che riorganizza lo spazio architettonico si svolge tutto all’interno delle pareti perimetrali »

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PROGETTO

Finestre sulla città

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12. Schema assonometrico dell’arredoparete. 13-14. Veduta della scala dall’alto e dal basso in una immagine complessiva del living. 14

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Committente Privato Progetto architettonico arch. Pietro Todeschini arch. Massimiliano Roca Consulenti ing. Leonello Lavarni (strutture) ing. Ivan Travaglini (impianti) imprese Cengia s.r.l. (opere edili) Alberto Morini (opere da falegname) Cronologia Progetto e realizzazione: 2011-2014 Dati dimensionali Slp 70 mq + 26 mq soppalco

no a doppia altezza con allestimento minimale è condivisibile, in quanto le sole finestre e ciò che inquadrano bastano ampiamente per “colmare” e “popolare” lo spazio a disposizione, che solo con una dimensione importante poteva reggerne il confronto, senza risultarne inevitabilmente schiacciato. La zona della cucina risente probabilmente di qualche forzatura nelle scelte progettuali, dettate indubbiamente da ragioni pratiche dovute essenzialmente al posizionamento degli inevitabili elettrodomestici; in particolare la colonna in legno che contiene il frigo e altri piccoli dettagli del prolungamento del mobile che sancisce la suddivisione tra soggiorno e cottura, non trovano una collocazione equilibrata in un sistema compositivo che nel complesso si mostra assolutamente armonioso e gradevole.

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PROGETTO

Soluzioni di continuità

Un interno domestico per il progettista e la sua famiglia è il banco di prova per uno spazio continuo e campionario al vero di materiali e finiture

Progetto: arch. Marco Amadori Testo: Luisella Zeri

Foto: Michele Mascalzoni

Verona

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L’affermazione “sono architetto/faccio l’architetto” riscuote generalmente moti di ammirazione fra gli interlocutori che incontriamo sulla nostra strada, rivestendo le nostre gesta quotidiane di un fascino tutto particolare, almeno nell’immaginario collettivo. Fino a quando gli interlocutori non si tramutano in clienti. A quel punto, le espressioni che ci sentiamo rivolgere, accompagnate da uno sconsolato movimento del capo, diventano non riferibili in quest’aulica sede. E allora prendiamo i nostri appunti, magari sì, forse un po’ sopra le righe (…ma via, non lo sono mai poi così tanto!) e li archiviamo, tenendoli buoni per la prossima occasione. E così i cassetti si riempiono di disegni, piastrelle, campionari di rubinetterie, schemi, arredi e quant’altro possa suggerire la capienza delle nostre scrivanie, fino al momento in cui il committente diventiamo noi stessi e la nostra casa il tanto desiderato banco di prova. Il progetto d‘interni per la ristrutturazione dell’appartamento di famiglia dell’architetto Marco Amadori è proprio questo, uno spazio progetta02 to con passione, ricerca e soprattutto amore, quello per i propri cari e per l’architettura. È un lavoro condotto in squadra, dove l’architetto cede in parte gli strumenti del mestiere condividendoli con la propria compagna di vita. Senza di essa non avrebbero potuto maturare, né prendere forma, le soluzioni materiche, spaziali, coloristiche che sono riuscite a trasformare un semplice progetto nella casa (della moglie) dell’architetto. I lavori portati avanti nell’appartamento di via Salvo d’Acquisto, nella zona adiacente alla Valverde, sono stati un banco di studio intenso, protrattosi a lungo nel tempo occupando quasi tutto il 2013. Il lavoro di progettazione è stato vissuto nel vero senso della parola, abitando fra le macerie delle demolizioni e cercando di riprogettare lo spazio anche dopo che le nuove partizioni erano state ufficialmente messe su carta. Lo studio degli ambienti è stato un vero lavoro d’incastri: di nuovi e vecchi arredi da includere, di esigenze funzionali con pre-

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ferenze estetiche, di storia di famiglia e nuovi pezzi di vita. L’appartamento sorge al primo piano di un fabbricato residenziale costruito durante gli anni cinquanta; una palazzina che seppur datata, denota fin dall’immagine esterna una particolare ricerca per le finiture e l’inserimento nel contesto circostante. I lavori di ristrutturazione, attuati accorpando alcune parti dell’unità abitativa confinante con l’appartamento, sono, come spesso accade, la risposta

marco amadori Nato a Verona nel 1966, si laurea a Venezia nel 1995 con alle spalle già un lustro di gavetta. Nel tempo si è occupato di tutto quanto attiene al mestiere dell’architetto, arricchendosi attraverso collaborazioni – marginali o durature che siano – prima ancora umane che professionali. L’aspirazione verso un’arte totalizzante lo porta a confrontarsi di continuo con altre discipline legate all’espressione artistica (scrittura, musica, teatro), oltre che all’insegnamento della stessa.

01. Veduta sul soggiorno dall’ingresso. 02-03. La zona studio delimitata dagli arredi fissi.

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PROGETTO

04-05. La libreria bifronte con soppalco funge da snodo per diversi locali dell’abitazione. 06. Planimetria di progetto: in arancio, i diaframmidivisori in legno lamellare. 07. Un passaggio “segreto” tra la zona dello studio e una camera.

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a rinnovate esigenze di spazio di una famiglia in crescita. I lavori hanno bilanciato con maestria la parte conservativa, per quanto riguarda le finiture, con quella di demolizione, ricostruzione e rimodulazione degli spazi. In questo senso infatti la distribuzione dei locali ha scardinato, soprattutto nella zona giorno, le logiche progettuali di compartimentazione funzionale degli anni cinquanta. Il soggiorno, la zona pranzo, la cucina e lo studio sono fuse fra loro quasi senza soluzione di continuità restituendo ampio respiro ai locali. Gli elementi ripetuti a cui è deputato il compito di segnare la definizione spaziale, sono travi lamellari da costruzione, rifilate con dimensione 10x18 cm. Questi componenti, in un insolita posizione verticale anziché orizzontale, creano delle barriere visive fra cucina e soggiorno, soggiorno e ingresso, studio e sala da pranzo, diventando, in un modo tutto nuovo, separazioni attraverso le quali però riescono a filtrare la luce e le attività di famiglia.

Il lavoro di riprogettazione degli spazi interni, per la parte riguardante gli arredi fissi, è stato portato avanti con la consulenza dell’amico e architetto Stefano Isacchini, il quale ha contribuito con la propria esperienza di mobiliere a fare in modo che ciascun elemento risponda con le proprie caratteristiche alle esigenze per cui è stato studiato. Gli arredi fissi diventano a loro volta parti che contribuiscono a definire spazi e funzioni, fra nuove costruzioni e recupero dell’esistente. La libreria bifronte, con il soppalco soprastante, divide studio e disimpegno, accogliendo i volumi di famiglia e creando un inusuale spazio di lettura sopraelevato. La continuità con il passato è data da un elemento fortemente caratterizzante la zona in cui confluiscono gli spazi dell’ingresso, del soggiorno e della cucina, ispirato a una preesistenza dell’appartamento contiguo. Esso originariamente era un elemento composto da grandi nicchie in muratura 50 x 50 con lievi smussi. Tale elemento, conserva08-09. Il living con il tavolo da pranzo da cui è possibile intravedere, dietro il filtro ligneo, la zona studio.

Committente Donata Mennucci Progetto e direzione lavori arch. Marco Amadori Consulente arredi fissi arch. Stefano Isacchini (MobilTRE) Cronologia Progetto e realizzazione: 2013 imprese Opere edili: Sauro Lucio Opere idrauliche: Guardini Impianti Elettricista: Bazzoni Impianti elettrici Pavimenti in legno: F.lli Garzon Rivestimenti: Ceramiche Benedetti Restauro serramenti e opere di falegnameria: TAD arredamenti Tinte e cartongessi: Mosé e Lucio Zambelli Elementi lapidei: Marmovax Illuminazione: Arredoluce dati dimensionali Superficie intervento: 120 mq

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PROGETTO

Soluzioni di continuità

to solo da pochi appartamenti del complesso, viene qui ripreso scavando la matericità del muro attraverso nicchie sagomate in cui sono stati enfatizzati gli smussi e giustapposta negli sfondamenti carta da parati. Molte sono le evocazioni naturalistiche e i riferimenti all’architettura scandinava. La casa, grazie ai suoi richiami lignei, ai passaggi segreti disseminati in alcuni punti strategici e alle alberature di Via Salvo D’Acquisto le cui chiome è possibile ammirare dalle finestre, sembra quasi un bosco in cui addentrarsi. A rafforzare quest’idea di foresta cittadina il motivo della carta da parati del 1948 del designer Stig Lindberg, posata sulla parete di fondo dello studio. Il tema della ricerca delle finiture è ripetuto maniacalmente in tutte le stanze della casa, tramutando

10-12. L’accurata ricerca di materiali e superfici è evidenziata soprattutto nei bagni.

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« E allora ben vengano elementi verticali che dividono senza separare del tutto, e aperture nelle pareti che permettono di parlarsi da un ambiente all’altro »

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l’abitazione quasi in un campionario di elementi di architettura, sapientemente utilizzati, dosati e composti. In cucina sono state posate le cementine della vecchia casa paterna, le quali, dopo un attenta pulizia eseguita personalmente, sono state oggetto di una studiata ricomposizione geometrica. Il lavabo della cucina riproposto in marmo al fine di richiamare una vecchia preesistenza, è stato arricchito da piastrelle dipinte a mano. Il bagno cieco, compartimentato tramite blocchi in vetrocemento, quasi non fa percepire l’assenza di finestrature, anzi, in alcuni momenti della giornata, restituisce caleidoscopici giochi di luce. I listelli del parquet in rovere vecchio spazzolato, diventano in bagno e in corridoio ante per chiudere delle nicchie nel muro ottenute dagli spazi di risulta dovuti agli spostamenti delle tramezze. Il bagno padronale è rivestito con elementi in ceramica che rielaborano i motivi tradizionali in chiave moderna. Il locale diventa quasi una spa, dando spazio a una grande doccia rivestita in sassi bianchi e ricavata sconfinando nella camera da letto.

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13. Affacci e filtri visuali si ricreano anche attraverso i libri di famiglia. 14-15. Studi per la ricomposizione geometrica delle cementine della cucina e prove di posa in cantiere, portate avanti personalmente dall’architetto. 16. L’ambiente cucina in continuità visiva con il living.

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Insomma, nulla in questa abitazione è lasciato al caso. Forse perché il progettista è cosciente che ogni giorno si dovrà confrontare con la domanda per eccellenza: è stato un lavoro ben fatto? All’architetto la risposta. “Giocare con gli spazi annullando l’assioma dell’utile a tutti i costi, è stato il primo obiettivo. Collegare tra loro ambienti senza soluzione di continuità, aprirli gli uni sugli altri. Si può dire che già me ne penta, perché non è difficile immaginare cosa possa produrre questo in una famiglia di cinque persone più un gatto. Ma la bellezza di soluzioni “ inutili”, o meglio che si “giustificano” nel piacere trasmesso e null’altro che questo, non ha eguali. E allora ben vengano elementi verticali che dividono senza separare del tutto, e aperture nelle pareti che permettono di parlarsi da un ambiente all’altro, mentre ogni spazio “sprecato” diventa un ambiente da riscoprire reinventandone la funzione. Giorno per giorno.”


PROGETTO

Nel silenzio di pietra

Il recupero di un fabbricato tradizionale nella piccola contrada di Mondrago accosta il gusto minimale degli interni alla ricerca sui materiali

Progetto: arch. Cristiana Rossetti Testo: Angela Lion

Marano di Valpolicella

Foto: Diego Martini

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01. Veduta interna di una stanza nel corpo di fabbrica principale. 02. La sala da pranzo affacciata sulla piazza di Mondrago. 03. La strada di accesso alla contrada. 04. Veduta d’insieme con l’edificio oggetto dell’intervento e, sulla destra, la chiesa dell’Addolorata.

Un muretto posto sul ciglio di una piccola piazza: non una macchina, nessun passante, solo il silenzio frastornante di un paesaggio incontaminato dalla frenesia del quotidiano, in cui lo scorrere dell’acqua di una fonte, il sole terso che abbaglia e il procedere sornione di un gatto si impadroniscono dello scandire inesorabile del tempo. Siamo lì ma, quello non è il nostro tempo, è il tempo del passato. Contrada Rio Mondrago, al limite superiore della Valsorda, lungo il crinale alla biforcazione dell’omonimo rio, è una sintesi di tutto questo. Si è rotto l’orologio, nel piccolo centro sperduto tra le valli della Valpolicella, rivelandoci un segno della storia, fortunatamente mantenuto e adeguato

« Inserire le funzionalità del vivere contemporaneo in un impianto della tradizione conservandone i caratteri tipologici non è un’operazione da poco »

a nuovi usi. L’intervento di recupero di Cristiana Rossetti rappresenta in questo luogo un esempio significativo di conservazione di un fabbricato nel rispetto del manufatto, pur utilizzando le tecnologie attuali. Si tratta della porzione di un immobile adiacente alla chiesa dell’Addolorata, posto nella piazza del borgo rurale, composto da più elementi volumetrici ben relazionati tra loro: un corpo centrale e gli annessi. In origine la zona abitativa era posta nella parte alta del corpo di fabbrica principale. I segni presenti sul fronte, emersi durante il recupero, consentono di leggerne l’originaria distribuzione, evidenziando gli innesti di una scala e la presenza di una

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volta che ne rappresentava l’ingresso. La parte sottostante era destinata a magazzino a servizio dell’adiacente stalla, posta a sud, con soprastante fienile e porcilaia. A ridosso del complesso, dietro l’immobile, un piccolo spazio verde dove era stata collocata una legnaia in pietra. La sensibilità che contraddistingue il progetto non è casuale. L’incontro con la committenza, nato per mera coincidenza in un mercatino eco-solidale, ha portato da una semplice conoscenza alla nascita di una forte sinergia, concretizzatasi in un percorso di restauro, dove ambo le parti si sono trovate a stretto contatto. La proprietaria di origine giapponese, interior

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PROGETTO

05. Sezione trasversale del fabbricato. 06. Prospetto principale sulla piazza e prospetto laterale. 07-08. Durante il cantiere: sagomatura del controsoffitto in cartongesso e inserimento di trave metallica. 07

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destinazione d’uso Residenziale - B&B Progetto e dir. lavori arch. Cristiana Rossetti collaboratori arch. Paolo Ferdinando Masiero dott.ssa Martina Bragantini ing. Franco Grazioli (strutture) Haruko Kurosaki (interior design) impresa Zanini geom. Corrado. Cronologia Progetto e realizzazione: 2012-2014 Dati dimensionali Sup. coperta 100 mq

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designer da quasi trent’anni in Italia, si innamora durante una visita dell’edificio. Decide di acquistare il manufatto e di intervenire per riconsegnargli la sua identità. Tutto questo è realizzabile anche grazie al finanziamento del GAL – gruppo di azione locale – una società consortile atta a favorire lo sviluppo locale di aree rurali. L’impegno progettuale è stato da subito consistente. L’immobile era compromesso dal tempo e dall’abbandono in cui versava, e inserire le funzionalità del vivere contemporaneo su un impianto della tradizione, conservandone le caratteristiche tipologiche, non è un’operazione da poco. Si è pertanto realizzata una partitura muraria integrativa che salvaguardasse le strutture verticali, consolidandole al

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contempo, e concentrato il lavoro sui solai. Ripulendo l’interno del corpo centrale è apparsa una volta irrecuperabile; nella stalla, invece, attraverso una semplice pulitura la volta esistente viene rimessa in luce. Dal punto di vista costruttivo ci sono stati numerosi accorgimenti che hanno permesso di non percepire gli elementi aggiunti: l’impiantistica passa attraverso il setto portante della scala, mentre nella rimessa è stata posizionata la pompa di calore. Il fienile è rimasto, come in origine, non riscaldato: peculiare la presenza voluta fortemente dalla progettista di una pavimentazione in terra cruda. La parete adiacente alla zona abitativa, da cui avviene l’attuale accesso, è stata rifinita con intonaco in argilla cruda. Il soppalco è stato ricostruito

per restituire una corretta lettura volumetrica della struttura originaria: questo elemento tipologico, presente nelle zone di montagna non lontane dai mulini, permetteva ai contadini di conservare asciutto durante l’inverno il grano raccolto con la mietitura estiva. Nel fienile la copertura è stata mantenuta in pietra con la sola cerchiatura delle travi lignee; nel corpo principale invece è stata rinforzata e coibentata dall’interno con l’inserimento di putrelle, celate dalla sapiente sagomatura del controsoffitto. All’esterno, nella parte abitativa, era presente intonaco di calce, mentre i fabbricati accessori sono stati mantenuti come originariamente con il muro a vista in lastame lessinico, con una tessitura muraria costituita da corsi sovrapposti ben

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09. La nuova scala di ferro e legno collega i tre livelli dell’edificio. 10. Pianta del piano terra. 11. La zona giorno al piano terra del corpo principale.


PROGETTO

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definiti e con la forometria invariata. L’iter edilizio non ha presentato particolari problematiche: nonostante il vincolo paesaggistico, le proposte presentate sono state accolte in maniera collaborativa. Dapprima una D.I.A. per l’inizio dei lavori e in itinere una variante non sostanziale, dato l’approccio conservativo del progetto. Fondamentale per il raggiungimento del risultato progettuale l’approccio derivante dal concetto di bioarchitettura, ovvero considerare un edificio come un organismo, inserito in un contesto geografico e con elementi storico-culturali. Si è partiti pertanto dal rispetto del manufatto che ha insito in sé una sua individualità, che è collocato in uno specifico contesto territoriale, edilizio e sociale. “L’edi-

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ficio in quanto immobile è progettato per essere costruito in un determinato luogo, possibilmente minimizzando l’impatto ambientale. Il rapporto con il sito è fondamentale, la sua lettura è la prima mossa di una progettazione responsabile”. A monte di questo procedere si presuppone un’etica volta alla valorizzazione del bene in sé e del suo contesto nel rispetto di mezzi, materiali e fonti di energia necessarie per la sua tutela. Il nostro territorio è ricco di architettura da recuperare: nei centri storici, in alcune periferie, nelle campagne, sulle colline. La volontà è di educare al riuso inteso non come lezione astratta, ma come atteggiamento prevedibile e previdenziale, grazie al quale si otterranno risultati soddisfacenti e coinvolgenti, cercando

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12. Il vecchio fienile adibito a soggiorno. 13. Una delle stanze da letto al piano secondo. 14. Un ambiente interno nello stato di fatto prima dell’intervento. 15. Veduta dell’edifico sul fronte posteriore, con il prato cinto da laste di pietra. 16. L’a ex stalla. 17. La vecchia rimessa affacciata verso la piazza. 18. Il passaggio dalla piazza del paese al giardino.

cristiana rossetti Laureata allo IUAV di Venezia nel 1993, dopo un’esperienza lavorativa in Austria apre il suo studio a Verona, proseguendo il percorso formativo di specializzazione sui temi della bioarchitettura e della sostenibilità ambientale. Si occupa principalmente di restauro, ristrutturazione e riuso. Ha progettato edifici di civile abitazione e turistici anche in Repubblica Ceca e a Capo Verde e ambienti ricreativi e scolastici per bambini. È attualmente presidente della Sezione di Verona dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura.

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www.cristabio.it 17

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di affrontare ogni aspetto e la complessità progettuale, non perdendo di vista dove siamo e scegliendo di progettare per l’uomo, attenti al suo benessere. L’obiettivo è quello di arrivare a considerare il progetto edilizio non come evento isolato, o ripetibile ‘oggetto mobile’, bensì parte di un sistema integrato. Questa visione olistica dell’architettura, che ci obbliga a confrontarci con la specifica realtà

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d’intervento, ci farà scoprire con rinnovata sensibilità la continuità con la storia, le tradizioni, il paesaggio che affronteremo attraverso le nuove consapevolezze della eco-sostenibilità e della bio-compatibilità. “Se scegliamo di mettere radici dove il terreno è fertile, esso ci offrirà il suo nutrimento; ma in cambio ha bisogno di rispetto, nella speranza che possa nuovamente essere un rapporto alla pari”.

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Dialogo stratificato

Il recupero dei fabbricati di servizio nel brolo di una villa veneta è l’espressione di una poetica tensione tra attenzione al luogo e misura degli elementi costruttivi

Progetto: arch. Filippo Bricolo / Bricolo Falsarella associati Testo: Clemens F. Kusch Foto: Nicolò Galeazzi

Sommacampagna

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01. Il fronte verso il giardino in una veduta all’imbrunire. 02. Riflessi notturni nella vasca d’acqua realizzata al centro del prato. 03. Planimetria generale dell’area di villa Saccomani con evidenziati i fabbricati di servizio oggetto dell’intervento di recupero. 04. La vasca che richiama le peschiere delle ville venete e, sul fondo, gli edifici recuperati.

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Il recupero ad uso abitativo degli edifici di servizio della settecentesca Villa Saccomani, ai margini dell’abitato di Sommacampagna, fa parte di un più articolato progetto per una vasta tenuta che, oltre alla villa padronale, comprende diversi manufatti un tempo a servizio dell’attività agricola e un parco cinto da alte mura. All’architetto Bricolo è stato affidato il progetto complessivo, che comprende anche il restauro della villa padronale e del giardino da tempo abbandonati, ma è significativo che la prima parte realizzata sia proprio quella relativa ai fabbricati di servizio per riconvertirli ad abitazione. è infatti in questo dialogo con l’esistente che il lavoro di Bricolo trova maggiore stimolo e possibilità di espressione. Qui – più che nell’intervento più o meno filologico della villa padronale – vi è la possibilità di operare per stratificazioni, trasformando la semplice edilizia funzionale in un luogo per abitare con caratteristiche del tutto nuove, senza però snaturarne il carattere. I volumi di servizio erano stati collocati in origine in una posizione strategica: su un leggero crinale

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del terreno, vicino alla villa padronale ma separati da questa da un portale che si apriva sulla campagna, contrapposto alla “porta di città” rivolta verso il centro dell’abitato. In questa maniera gli edifici di servizio separavano chiaramente la zona di parco “urbano” dalla vasta zona agricola che si apre a ovest con lo sfondo dei profili collinari. Questa particolare posizione viene subito colta ed evidenziata nel progetto. Bricolo decide di non privilegiare uno degli affacci, ma di aprire su entrambi i lati delle grandi vetrate, che danno non solo la possibilità di vedere dall’interno sia il paesaggio sia il giardino, ma permettono anche di guardare “attraverso” l’edificio mettendo in relazione i due spazi: quello più raccolto, domestico, ombreggiato e quindi “rassicurante” del giardino con quello più aperto del paesaggio agricolo, più vasto, più soleggiato, con i confini lontani

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Dialogo stratificato 05. Pianta del piano terreno: in nero le murature in sasso del vecchio fienile conservate. 06. Assonometria esplosa degli “strati” dell’intevento progettuale, con la parte basamentale in sasso conservata e la sopraelevazione in mattoni. 07. Prospetto verso il giardino. 08. Veduta del fronte ovest aperto verso il paesaggio.

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09-10. Particolari delle tessiture murarie uniformate dalla scialbatura. 11. Schemi che evidenziano nei fronti principali la stratificazione delle murature, con la conservazione della parte basamentale in sasso. 12. Particolare dell’attacco tra la muratura originaria in sasso, il cordolo in calcestruzzo e la muratura in laterizio.

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delle colline e quindi più “inquieto”. Dagli spazi sità degli affacci: verso il giardino il prospetto è che si succedono al piano terra – il soggiorno, la caratterizzato dalla sovrapposizione delle due porsala da pranzo e la cucina – si può quindi, a seconda zioni di edificio, quello con muratura in pietra della dei momenti della giornata o dello stato d’animo, struttura originaria e le porzioni di muro “aggiunrivolgersi verso l’uno o l’altro lato. te” in mattoni intervallati da elementi di irrigidiPer fare questo viene operata una chiara valutazione mento in cemento armato. Nel muro così ricompodelle condizioni preesistenti: le superfetazioni più sto vengono poi inserite, come tagli netti squadrati recenti vengono eliminate, conservando la porzio- nel muro, le diverse aperture. Al piano terra le ne di muratura in pietra originaria. Questa serve aperture richiamano le dimensioni originarie, con poi da impronta sulla l’aggiunta di una piccoquale ricostruire i volula finestra rettangolare « Il rispetto non si traduce però mi, differenziando però che sottolinea il punto in mimetismo o in mancanza accuratamente le parti in cui il volume più basd’invenzione: l’intervento deve nuove dalle porzioni di so, a doppia altezza inavere, per dichiararsi come opera del terna, si raccorda con il muro preesistenti. Le parti aggiunte sono involume a due livelli. Al contemporaneo, elementi di novità fatti in mattone e perpiano superiore invece, che non trovano diretto riscontro mettono di riconoscere dove la muratura è nuonella tradizione » chiaramente le diverse va, la forometria delle “epoche” dell’edificio, aperture fa riferimento come sottolineato anche dalle assonometrie di pro- alle dimensioni e alle destinazioni degli spazi intergetto. Il progetto, si immagina, si è potuto quindi ni: le due stanze da letto che si affacciano su questo precisare solo valutando le diverse parti che si sono lato hanno grandi finestre a tutt’altezza, la finestra svelate nel corso delle demolizioni e hanno cosi che dà luce al bagno è più piccola mentre una sottile condizionato l’esito finale. fessura illumina il vano scala. Le condizioni esistenti servono anche come riferi- Si crea così un disegno irregolare ma del tutto equimento per il nuovo disegno dei due prospetti prin- librato che, in particolare nella vista notturna, ricipali, che si differenziano sottolineando la diver- chiama una figura astratta resa ancora più sugge-

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13-14. Vedute degli spazi interni al piano terreno: infilata tra gli ambienti e attacco della scala al primo piano. Le nuove aperture realizzate nelle murature in sasso sono segnate dalla posa di portali in ferro. 15. Veduta dall’interno verso il paesaggio agricolo. 13

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stiva dal riflesso nella vasca d’acqua realizzata al centro del prato prospiciente l’edificio. Sul lato opposto, verso il paesaggio aperto, il procedimento compositivo sembra quasi ribaltato: non si tratta più di un muro nel quale vengono intagliate delle aperture, ma piuttosto di un sistema di grandi pilastri che richiamano l’architettura dei fienili, richiamo che viene sottolineato al piano superiore dai tamponamenti con muri bucati di memoria agricola. Con questo espediente si riesce a dare alla facciata una maggiore forza, e contemporaneamente a regolarizzare i diversi volumi interni: lo spazio soggiorno è infatti a doppia altezza, mentre la parte restante ha un doppio livello e le murature bucate danno luce al corridoio di distribuzione delle camere. Particolarmente felice appare il trattamento del muro esterno, dove i diversi materiali originari e nuovi – pietra, mattoni e cemento armato – vengono tutti trattati con una leggera scialbatura che dà alla facciata omogeneità senza nascondere la differenza di tessitura dei singoli materiali. Per la muratura di mattoni è stata poi scelta una posa leggermente irregolare che ne arricchisce la tessitura con lievi ombre.

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All’interno, la combinazione e differenziazione di elementi esistenti e aggiunti prosegue con l’utilizzo di elementi tradizionali, come la muratura a vista e il legno della copertura, con materiali nuovi, estranei all’architettura agricola, come l’acciaio crudo e scalini massicci di pietra. Tutte le superfici – pareti con muro a vista o intonacate, pavimenti in cemento e soffitti e travi in legno – sono trattate con tonalità chiare, pur mantenendo la riconoscibilità dei materiali e creando un contrasto con gli infissi e le imbotti delle porte in ferro tenute tutte con colorazione scura. Più critico è forse l’utilizzo di diversi tipi di serramenti e il loro inserimento nel muro storico, anche se oggi le esigenze in termini di isolamento termico e di apertura condizionano fortemente i margini di scelta. Al piano terra si alternano aperture “a tutto vetro” dove, dall’esterno, non si vedono i profili e all’interno si formano suggestivi giochi di luci e ombre, con aperture scorrevoli di grandi dimensioni che necessitano di profili importanti. Al piano superiore l’esigenza di mostrare il minimo dei profili dall’esterno ha fatto sì che gli stessi siano posizionati sul filo interno del muro con un evidente ingombro.

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bricolo falsarella Architetti veneti, Filippo Bricolo e Francesca Falsarella fondano nel 2003 lo studio BFA, concentrato prevalentemente sul tema del riuso e degli interventi sul patrimonio, oltre che nella realizzazione di opere pubbliche (Piazza-parco Castelginest a Levada di Piave, Sala polivalente a Salgareda, TV) e di edifici produttivi come lo Stabilimento Eurochef a Sommacampagna e la Cantina Gorgo a Custoza («AV» 92, pp. 40-47). Filippo Bricolo (1970) si laurea allo IUAV dove consegue il Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica. Ha insegnato a Parma e Venezia e, dal 2012, presso il Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano. www.bricolofalsarella.it 16

16. Il vano a doppia altezza del soggiorno e l’infilata prospettica del nuovo corridoio. 17. Un taglio di luce mette in evidenza la tessitura di una porzione muraria originaria in sasso.

La cura del dettaglio prosegue anche nelle aree esterne e in particolare il progetto della vasca realizzata al posto di una vera e propria piscina che avrebbe modificato “la natura” del luogo, in origine il brolo della tenuta. La vasca rettangolare richiama più le peschiere in uso nelle ville venete: il bordo è formato da una cornice in pietra lievemente rialzata, tutti gli elementi tecnologici sono nascosti alla vista e il fondo e le pareti sono trattate con un colore verde scuro, per evidenziare l’effetto di riflesso degli alberi. Il risultato è un progetto misurato in tutti i suoi aspetti e accurato nei dettagli che, per le soprintendenze che accompagnano progetti di questo tipo, dovrebbe servire da riferimento particolarmente riuscito. Ma il progetto non è solo la corretta soluzione dei problemi posti dal particolare compito, ma vi

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committente Fam. Saccomani Progetto e direzione lavori arch. Filippo Bricolo Bricolo Falsarella Associati COLLABORATORi arch. Elisa Bettinazzi arch. Simone Sala strutture ing. Franco De Grandis

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si riconosce anche una del tutto personale poetica dalla quale traspare una certa dicotomia. Il modo di operare esprime infatti da un lato attenzione al luogo, dal quale riprende con attenzione i materiali e le tecniche costruttive tradizionali inserendosi in maniera proporzionata al contesto, rispettandone quindi il genius loci. Rispetto che però non si traduce in mimetismo o in mancanza d’invenzione. L’intervento deve avere, per dichiararsi come opera del contemporaneo, elementi di novità che non trovano diretto riscontro nella tradizione. Il progetto ha quindi, al pari dei due affacci nelle due direzioni, due anime: una “rassicurante” che deriva dal rispetto del luogo e dal forte legame con il territorio e le sue tecniche costruttive. Con l’altro lato, quello più “inquieto”, viene invece data voce all’esigenza di andare oltre questo luogo e le sue consuetudini, cercando riferimenti e ispirazioni anche altrove e inserendo elementi “inconsueti” che di quel luogo non fanno parte. Questi possono derivare da esigenze funzionali, come la necessità di differenziare le aperture nei muri, oppure può essere un uso particolare di un materiale, una cornice di una finestra, il disegno di un’apertura in funzione della luce o dell’affaccio. I due aspetti ricombinati creano una proficua e suggestiva “tensione” tra gli elementi che conferma quanto sia importante, per l’architetto, coltivare la curiosità e la sperimentazione, senza però perdere le radici.

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impresa costruttrice Edilstasi & company srl geom. Gianluca Stasi dati dimensionali 676 mc tot. prima dell’ampliamento 807 mc tot. dopo l’ampliamento superficie totale 280 mq Cronologia Progetto: 2013/2014 Realizzazione: 2014

18. Veduta del fonte verso il giardino con il disegno astratto delle bucature, la parte basamentale con il muro in pietra originale conservato e la sopraelevazione in mattoni. 19. Lo spessore ridottto del corpo semplice consente di traguardare dal giardino verso il paesaggio agrario.


PROGETTO

Una bellezza di salone

Un piccolo edificio nel tessuto storico del borgo lacustre, nato come salone di bellezza e in parte ancora integro, rivela una fortissima unitĂ progettuale tra contesto, spazialitĂ interna e arredo

Progetto: arch. Pierluigi Negrini Testo: Federico Randoli

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01. Prospettiva di studio per il vano interno a doppia altezza del salone. 02. “Scala in ferro con gradini in marmo bianco”, disegno esecutivo. 03. Il fabbro Benito, artigiano del luogo, all’opera mentre realizza le parti metalliche della scala.

Alcuni architetti non accettano compromessi: la loro vocazione non permette di accettare facili soluzioni, pur di compiacere qualsivoglia situazione. Alcuni architetti hanno la capacità di farsi trovare al posto giusto nel momento giusto, sono scelti e instaurano un sodalizio con la loro committenza in base al personale spessore culturale, piuttosto che per il cliché dell’ultima moda. Alcuni architetti, prima di iniziare a disegnare, “ascoltano” il luogo in cui progettano, imparano dall’ambiente esistente, creano legami di fiducia con le persone del posto e mettono in scena un racconto, che si legherà indissolubilmente al costruito. Spesso questa categoria di architetti, durante la loro carriera, riesce a terminare un ristretto numero di opere, il loro desiderio di dar vita a qualcosa di unico, irripetibile e prezioso è talmente profondo da risultare non trattabile, a dispetto di una società sempre più incline alle soluzioni di mezzo. Tuttavia, quando il processo creativo può avvenire, nascono opere singolari, uniche, non troppo grandi in termini dimensionali: edifici dove l’architetto può perseguire il sublime. Louis Kahn, Luis Barragán

« Tutto è poeticamente pensato in un continuo fluire di dettagli, riconoscibili anche negli arredi e nei corpi illuminanti appositamente disegnati » o più recentemente Peter Zumthor sono alcuni dei nomi dell’architettura moderna e contemporanea da citare a proposito di questo approccio al progetto, non dimenticando certamente il professor Carlo Scarpa, tanto caro alla città di Verona. Proprio quest’ultimo, in qualche maniera, ha a che fare con questo scritto, essendo stato il profeta di una schiera di appassionati architetti italiani – tra cui l’autore dell’opera qui presentata – che da lui hanno imparato un metodo basato sull’intuizione, sul rigore e sull’integrità professionale, piuttosto che su un particolare stile architettonico. Ma partiamo dal principio! Fin da molto giovane, ho avuto l’occasione di passare parte delle vacanze estive in uno splendido paesino dell’alto lago di Garda, Malcesine. Nel centro storico di questo bor-

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go, le strade in ciottoli sono strette, delimitate dalla continua schiera di edifici, su un impianto urbanistico di stampo medioevale che prende corpo in un continuo salire e scendere, che collega il Castello scaligero alle acque del lago. A Malcesine, soprattutto quella storica, gli edifici “fuori dal coro” non sono molti, ma ricordo la curiosità che mi suscitava fin da allora questo piccolo edificio adibito a salone di coiffeur e che, nonostante si differenziasse dal costruito circostante, ne era allo stesso tempo parte integrante. Per molti anni sono passato nei pressi di Piazza Statuto a Malcesine, e ogni volta sono riuscito a trovare in quel piccolo fabbricato qualcosa di nuovamente intrigante, pur non conoscendone l’autore. Solo di recente, attratto dall’ennesimo

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PROGETTO

Una bellezza di salone

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04. Piante del salone ai due livelli. 05. Pannello divisorio in legno tra l’ingresso e l’area di lavoro. 06. Una immagine d’epoca restituisce le controllate cromie dell’interno. accentuate dalle lievi pennellate di rosso.

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particolare (dei vasi incastonati nei gradini della scala interna) mi sono affacciato all’interno per chiedere al distinto signore che stava acconciando chi fosse stato l’architetto: “Il Picci! – mi risponde divertito – l’architetto Pierluigi Negrini, che noi amichevolmente chiamavamo così”. Da quel momento, a ritroso, ho ripercorso la storia di quella piccola costruzione, facendomi una personale idea di quest’architetto che non ho mai avuto il piacere di conoscere e che sfortunatamente è mancato qualche anno addietro. Entrando nel merito, si tratta di un piccolo spazio commerciale disposto su due livelli, edificato nei primi anni sessanta, previa demolizione di un fabbricato esistente. Esternamente il volume si presenta compatto, quasi ermetico, eccezione fatta per l’ingresso che vagamente rimanda alla cultura giapponese e per la vetrina espositiva, impreziosita da alcune formelle di bronzo. L’unico prospetto visibile è caratterizzato dall’elegante venatura ro-

sea del rivestimento, composto da lastre di marmo ancorate alla parete retrostante mediante fissaggio meccanico a vista. Ulteriore dettaglio significativo lo si ritrova nelle squadrate mensole di pietra bocciardata che, poste di costa, sostengono il minimale aggetto di gronda. All’interno tutto verte funzionalmente sull’unico spazio centrale, alla ricerca di un continuo movimento centripeto impresso in primo luogo dalla scultorea scala elicoidale. Tutto rimanda al punto più alto e più nascosto, punto che non esiste materialmente ma che diventa il pretesto per l’innesco delle varie funzioni d’uso, dalla sala d’aspetto al vero e proprio spazio di lavoro. Personalmente mi sono ricordato di una piccola galleria d’arte visitata a San Francisco (V.C. Morris Gift Shop), dove nel 1948 F. L. Wright ha utilizzato una lunga rampa tondeggiante come pretesto per la visione delle opere, in un susseguirsi di eleganti particolari architettonici che esaltano lo stato d’animo di chi va alla ricerca dell’incanto nell’arte. Analo07-08. Il livello del soppalco visto dal basso e la scala elicoidale in una veduta dall’alto. 09. Disegno di un tavolinoespositore per la zona di attesa.

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PROGETTO

Una bellezza di salone

10-13. Veduta esterna dell’edificio in una immagine d’epoca, particolare della vetrina, “render” e disegno del fronte. 14. Il livello superiore del salone con le postazioni operative attrezzate per le acconciature.

gamente, anche in questo caso, un giovane e appassionato Pierluigi Negrini, all’epoca trentenne, orchestra attraverso l’uso della luce e dei materiali le sensazioni di chi ha l’aspettativa di essere più attraente all’uscita dal salone di bellezza. Il pavimento, di piccole piastrelle chiare rettangolari, diventa di un grigio più intenso all’incontro con gli elementi verticali. La livrea dei mattoni che compongono alcuni muri perimetrali si fonde cromaticamente con il parapetto del primo piano, concepito parte in cemento a vista e parte in un legno scuro e intenso. La scala, eseguita in opera da un artigiano del posto, testimonia la cura e la passione profusa in tale occasione, nonché la consapevolezza dell’architetto che è necessario circondarsi di persone tecnicamente appassionate del proprio mestiere. I gradini di marmo bianco, al limite statico dello spessore, la leggerezza della struttura metallica allestita su un supporto di vocazione plastica e un corrimano sapientemente sospeso, sono gli elementi che rendono vibratile la salita al primo piano. Tutto è poeticamente pensato in un continuo fluire di dettagli, riconoscibili anche negli arredi e nei corpi illuminanti, appositamente disegnati per lo scopo. Addirittura il progettista predispone per la committenza un book fotografico con la cronistoria del progetto e delle varie fasi del cantiere, avvalorando ulteriormente il concetto di una visione “totale” dell’opera. Nel corso degli anni l’edificio ha subito alcuni adeguamenti funzionali e distributivi – in parte riconducibili allo stesso Negrini – dovute a nuove esigenze della committenza, che attualmente ha implementato l’attività di coiffeur rimasta al primo livello con una pelletteria al piano strada.

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Sul lavoro di Pierluigi Negrini

Un giovane allievo e l’incontro con un architetto già maturo, ricostruendo a posteriori le tappe di una carriera professionale Testo: Nicola Gastaldo

Senza alcuna pretesa di completezza o di scientificità storico-critica, queste note traggono origine dalla mia esperienza di giovane alle prime armi, che ha avuto l’occasione di incontrare nel proprio tirocinio lavorativo, oramai dieci anni or sono, un architetto già maturo e quasi al termine del suo percorso personale e professionale. Questo incontro ha segnato in maniera incisiva la mia vita personale e professionale e, capendo di trovarmi di fronte a un maestro, gli proposi di realizzare una piccola pubblicazione sulla sua opera: ma egli, col suo fare sbrigativo, borbottò qualche parolaccia dicendo che non voleva celebrazioni. Oggi documenti e notizie circa l’opera di Pierluigi Negrini (1931-2013) sono rintracciabili solo in maniera episodica e per frammenti, attraverso i quali tratteggiare un profilo sommario di colui che era universalmente conosciuto come “il Picci”. Nato a Verona, dopo gli studi scientifici si dedica alla carriera artistica di pittore, ma in parallelo intraprende gli studi universitari di architettura a Venezia, dove si laurea nel 1969. Nel 1970 si iscrive all’Ordine degli Architetti di Verona iniziando la sua lunga carriera professionale, anche se già negli anni precedenti si era dedicato a progetti di architettura degli interni e arredi. Innumerevoli sono le bozze e i dettagliatissimi disegni di questo

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periodo per allestimenti di negozi e soluzioni d’arredo residenziale. Sono anni di importanti realizzazioni di opere che trasmettono un gusto estetico di rara potenza espressiva. Tra i molti esempi si possono ricordare il negozi Borella e Da Tino sempre a Malcesine. In seguito l’attività di Negrini prosegue nello studio di Via Santa Maria Rocca Maggiore che condivide con altri architetti, tra cui l’allora moglie Bertilla Ferro, con la quale firma anche alcuni progetti di ville nella bassa veronese. La sua personalità professionale esplode negli anni successivi, quando realizza alcune ville a Legnago e Cerea, come Villa Orsolato (ora

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01. Foto di gruppo in posa goliardica: Pierluigi Negrini campeggia sul fondo con un copricapo militaresco. 02. Un dipinto di Pierluigi Negrini degli anni della maturità. 03. Tavola progettuale per l’arredo del negozio Borella a Malcesine, 1963.

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Sul lavoro di Pierluigi Negrini

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04-07. Villa Orsolato (ora Galletto), Legnago: disegno dei piani terra e primo, vedute attuali dell’esterno e del giardino, maquette (foto di Giulia Bressan). 08-09. Cantina Masi, Gargagnago: veduta e schizzo dello snodo circolare nel percorso ipogeo, realizzato con Pino Castagna (foto di Michele Mascalzoni). 07

Galletto) e Casa Mirandola. Un altro esempio più tardo di architettura residenziale è la casa Zamboni ad Arbizzano del 1991. É un periodo molto florido, creativamente avvalorato anche da importanti conoscenze e collaborazioni, come quelle con gli artisti scultori Piera Legnaghi e Pino Castagna. La sinergia con quest’ultimo in particolare è assai duratura, e appare evidente nel suo apporto progettuale per la cantina vinicola Masi. Negrini dedicherà quasi l’intera vita ai progetti per la Masi, grazie alla grande amicizia con il presidente Sandro Boscaini: a partire dai primi anni settanta interviene a Gargagnago con opere di sistemazione e ampliamenti successivi della cantina, per poi arrivare negli anni ottanta al restauro della villa liberty come sede di rappresentanza, all’ampliamento degli spazi per uffici e alla sistemazione del piazzale esterno e del giardino nel primo decennio del nuovo secolo. In parallelo progetta anche l’abitazione privata di Boscaini a Negrar, e altri interventi per la cantina di Valgatara. Con Pino Castagna realizza la fontana sonora nel giardino di Gargagnago e il percorso interno di visita

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10-14.Cantina Masi, Gargagnago: la fontana realizzata con Pino Castagna, interno della villa liberty, schizzo per la soluzione cromatica di una porzione in ampliamento della cantina, la villa liberty dal giardino e particolare di un rustico recuperato (foto di Michele Mascalzoni). 12

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alla cantina, il cui culmine è raggiunto nello snodo a pianta circolare, con una cupola rivestita in oro zecchino e le pareti adornate da foglie di ceramica. L’effetto è suggestivo e il significato concettuale è la lettura spirituale di Negrini della cantina vinicola: ci si trova metaforicamente all’interno di una botte dove la cupola rappresenta il sole, il mosaico sulla pavimentazione emula la terra e le foglie tutto intorno evidenziano il ruolo essenziale della natura, in questo caso la vite. Negli anni 2000 Negrini trasferisce lo studio in via Rovigo, in collaborazione con l’architetto Basilisco. Gli ultimi anni li dedica a importanti progetti, che trovano però difficoltà nella fase di realizzazione (centro per autismo alle Colombare, cantina Masi in Argentina). È proprio in questo periodo che l’ho conosciuto: quando sono entrato nel suo studio, la stanchezza e la malattia avevano già minato il suo entusiasmo, ma non hanno mai tradito la sua forza spirituale. Prima delle doti di architetto e della creatività di artista, mi hanno colpito la sua autorevolezza e

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la dignità: accanto a lui ho respirato eleganza e spessore culturale. Quando non veniva in studio lo andavo a trovare nella sua splendida casa dove era ancora capace di stupire con la sua arte. Negli ultimi anni ha riscoperto il suo primo amore, la pittura. La sua essenza rimane nella compenetrazione delle forme e nella carica estrema dei colori.

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Homo faber

Il viaggio alla scoperta della storia personale e del lavoro di alcuni maestri artigiani veronesi prende avvio con Agostino Boggian, fabbro

Testo: Alessio Fasoli

Foto: Michele Mascalzoni

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01. L’interno dell’officina: sullo sfondo, Alberto e Agostino Boggian all’opera. 02. L’officina di Basso Acquar in una veduta esterna. 03. Profili e tubolari in attesa di essere lavorati. 04. Agostino Boggian ritratto nell’officina.

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C’era una volta la scuola dei mestieri. È questa l’espressione più appropriata con la quale iniziare un racconto che ci condurrà alla scoperta della storia personale e del lavoro di alcuni maestri artigiani veronesi. Parlare di artigianato oggi ha forse ancora più senso di ieri, poiché la globalizzazione e la produzione industriale stanno lentamente cancellando tutto quel mondo fatto di esperienza tecnica e pratica, una tradizione caratterizzata da una profonda conoscenza dei materiali, e una storia di “segreti” tramandati da maestro ad allievo. Queste conoscenze perpetuate sono la nostra eredità culturale. Il primo personaggio di questa ras-

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segna si chiama Agostino Boggian, fabbro per scelta e non per dovere. “Tutto deve nascere dalla passione”, così inizia la sua testimonianza. Sono i primi anni 70 quando viene introdotto nella bottega ai Filippini del maestro Dalla Vecchia, a quel tempo il primo concorrente dell’altro mito del settore, quel Berto da Cogolo – maestro della scuola di fabbri della Val d’Illasi – i cui allievi quale ancora oggi si affermano fieramente eredi, quasi a dimostrare una diretta discendenza di sangue. Boggian inizia il suo impegno in bottega per lavorare alla forgia, una scelta ritenuta atipica in un periodo in cui il ferro battuto era ai minimi sto-

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rici, non essendoci questioni di stile o di gusto in quanto l’edilizia richiedeva quantità e non qualità. Per due anni sperimenta l’arte forgiando il materiale in officina, e ricorda con tono malinconico di quando andava a comperare il ferro in via Cavour, dove oggi si trovano negozi alla moda e un tempo botteghe artigiane. Spinto dalla curiosità di scoprire nuovi percorsi, Boggian inizia presto a lavora-

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re come modellista di fibbie di scarpe per un’azienda della zona industriale, dove ha la fortuna di conoscere una persona che lo introduce allo scultore Miguel Berrocal: “e lì, l’è stà una bella palestra”. È il 1974 quando inizia a collaborare con quello che diventerà presto il suo vero mentore. Nel laboratorio di Negrar c’era la possibilità di sperimentare quotidianamente temi e materia-


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Homo faber

05. Alberto Boggian al lavoro. 06. Un lavabo in alpacca ottenuto con la tecnica dell’imbutitura della lastra.

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li differenti, e di affrontare situazioni cervellotiche. Berrocal, famoso per i suoi multipli componibili, scendeva nel suo laboratorio con uno schizzo e affidava ai collaboratori il delicato compito di progettare il modello. Era una mansione complessa, il disegno doveva essere scomposto in più pezzi in una sorta di puzzle tridimensionale al contrario, da risolvere empiricamente. Il lavoro dal maestro era così “un continuo dilemma, una continua correzione fino a quando non lo si era compiuto”. Completato il modello, lo si portava in fonderia dove veniva riprodotto in copie limitate con la tecnica della cera persa. Solo il tempo e l’esperienza gli permettono di ideare un proprio metodo, per la risoluzione dei problemi in maniera più veloce ed efficace. Finita la collaborazione con l’artista spagnolo, la vita di Boggian entra in

una parentesi piuttosto lunga, che lo vede cofondatore di un’azienda di arredo bagno e che per oltre 25 anni lo tiene lontano dalla sua passione. Definisce questo lasso temporale come “la parentesi del cessivendolo”. Nonostante tutto, ha comunque la possibilità di esprimere il suo talento: capitava che dovesse modificare dei pezzi standard, e racconta come il cliente restasse incredulo di fronte alla perfezione del pezzo finito. Sono anni interessanti, utili a conoscere approfonditamente il settore dell’arredo bagno, esperienza questa che gli diventerà poi vantaggiosa. Nel maggio del 2000, a trent’anni dal primo impiego per Dalla Vecchia, decide di saltare il fosso e apre la propria bottega. La ventennale esperienza nel settore dell’arredo bagno gli permette di creare una linea di lavabi in rame o alpacca. “C’era l’idea ma non la co-

noscenza”; costruire oggetti di questo tipo voleva dire impadronirsi della tecnica dell’imbutitura. Torna allievo, questa volta di Renzo Zanoni, maestro nell’arte dell’imbutitura della lastra in rame. Diventa abile nell’uso delle varie lengue, termine utilizzato per indicare l’incudine, o il pal usato per battere la lastra: pochi arnesi che diventano i suoi strumenti di lavoro. “Abbiamo visto delle magie eseguite con niente, ci deve essere un sapere di testa e un sapere di mani” racconta Ago, aggiungendo anche una storiella particolarmente significativa per comprendere quale sia per lui lo spirito che muove l’artigiano. Un tempo, per mettere alla prova l’abilità di un lavoratore, i ramaioli gli facevano realizzare una sfera partendo da un disco piatto: la bravura consisteva non solo nella sfericità che riusciva a conferire, ma anche nel minor numero di calde che dava. A forza di battere, il materiale tende a incrudire diventando rigido e difficile da plasmare, sicché per renderlo lavorabile lo si scalda(da qui il termine calda). A quel tempo la ma-

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nodopera costava poco, mentre il forno era particolarmente oneroso: per cui la bravura nell’ottenere il pezzo con il minor numero possibile di calde voleva dire ridurre il costo di produzione. Se i tempi non cambiano, allora devono essere le persone a farlo. “Oggi sembra essere sparita la visione d’insieme delle cose, gli artigiani sono bravissimi nel loro mestiere, sono riusciti a ridurre i costi e i tempi di realizzazione, questa è diventata l’epoca della specializzazione”. La capacità di lavorare conoscendo tutte le problematiche dell’intero iter produttivo è un requisito fondamentale per evitare l’insorgere di spiacevoli equivoci fra diversi professionisti: la specializzazione sta rovinando questa competenza generale, se vogliamo “umanistica”, del mestiere. Il creativo, prosegue Boggian, “deve avere la sensibilità di comprendere le problematiche di tutto e tutti e raggiungere un risultato che sappia rispondere al meglio alla richiesta formulata dal committente”. In questo atteggiamento si può fare un parallelo con il mestiere dell’ar-

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07-08. Due vedute dell’officina: pausa durante il lavoro, e i semilavorati accatastati prima della trasformazione.

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chitetto: anche in questo caso, la spe- lo dell’architetto: questi, dopotutto, cializzazione sta rovinando quella vi- sono tempi difficili per tutti. sione d’insieme che rendeva la nostra Eppure, la fiducia verso questo monprofessione umanistica per eccellen- do è ancora molta, e Boggian è conza. “Il bravo architetto non deve saper vinto di quanto il prodotto artigianacostruire il pezle possa salvare zo, ma deve avere il nostro paese e « Il prodotto artigianale rilanciarlo verso cognizione delle varie lavorazioni. un nuovo “Rinaè sostenibile per Quando progetscimento”. Oggi definizione, poiché ta, deve conoscere si parla molto di è definito dalla capacità i materiali”. Alla sostenibilità, e il di essere tramandabile » prodotto artigiadomanda di quale sia il suo rapporto nale è sostenibile con gli architetti, per definizione, risponde affermando quanto sia bello poiché è definito dalla capacità di eslavorare con loro per la possibilità di sere tramandabile. Questa peculiarità sperimentare forme e materiali diver- risiede tutta nella modalità produttisi. Fra i suoi clienti si possono citare va, dal momento che il prodotto artinomi di illustri professionisti, vero- gianale non ha il limite temporale del nesi e non. pezzo industriale legato alla durata La condivisione delle idee tra ar- della linea, senza considerare il prochitetto e artigiano porta dei frutti blema dello smaltimento dei prodotinaspettati. Il discorso devia inevi- ti al termine del loro ciclo vitale, e la tabilmente al futuro, il futuro dell’ar- possibilità di essere riparato in qualtigiano è critico tanto quanto quel- siasi momento.

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Oggi l’unico allievo di Agostino Boggian resta il figlio Alberto: mantenere un giovane apprendista è diventato economicamente insostenibile, le tasse sono troppe, il mercato è debole e lo Stato non aiuta le professioni. Siamo alla fine di queste pagine sulla vita di Agostino, un racconto iniziato dalla passione nei confronti di un mestiere che, come tanti altri, è un vero

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tesoro da riscoprire. Immaginando di udire il tempo ritmato dai colpi di martello dati alla lastra di rame sull’incudine, sembra bello concludere con l’ultima citazione del Boggian, la quale riflette perfettamente lo spirito di quest’uomo: “Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, ogni giorno cerco di migliorare”.


ODEON

Architettura e storia, universitĂ e territorio, didattica e professione

Un dialogo con Federico Bucci, Pro-rettore del Polo territoriale di Mantova del Politecnico di Milano, sempre piĂš orientato a proporsi come scuola di architettura di riferimento per Verona

Testo: Filippo Bricolo

Foto: Giuseppe Gradella

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Una giovane ragazza haitiana descrive il suo lavoro di analisi della Cittadelle Henry Christope nella parte nord di Haiti; la segue una sorridente libanese che presenta il suo progetto “Back on track” per la rivitalizzazione della ferrovia in Libano, con il recupero di tratti strategici come la storica linea Beirut-Damasco. Poco prima, una giovane trentina già con importanti esperienze lavorative a New York spiega, in un fluente inglese, il suo progetto di case per l’emergenza “post Sandy”, l’uragano che nel 2012 ha colpito la costa orientale degli Stati Uniti. Un egiziano presenta il suo progetto per la nuova casa della musica per il Cairo con un’affascinante tentativo di recupero, nella città contemporanea, dell’identità storica egiziana. Difficile da credere, ma siamo a Mantova, Polo Territoriale del Politecnico di Milano, giornata dedicata alle lauree magistrali. Negli ultimi cinque anni, grazie alla cura di Federico Bucci, appassionato Pro-rettore, e di un gruppo di giovani docenti, il Polo di Mantova è uscito dalle sacche di una malintesa periferia geografica e culturale e ha guadagnato un ruolo centrale nello scenario dell’offerta universitaria e culturale legata al mondo dell’architettura. Nel mese di maggio 2015, chiunque fosse entrato al Polo si sarebbe facilmente imbattuto in due Pritzker Prize come Rafael Moneo e Eduardo Souto de Moura intenti a revisionare insieme i lavori degli studenti. Scendendo al piano sotto avrebbe potuto incontrare, mentre gironzolava prima della sua prolusione, l’architetto francesce Phillippe Prost, autore dello splendido Mémorial International de Notre-Dame-de-Lorette. Oppure, muovendovi per i palazzi storici di Mantova come la Casa del Mantegna, il Teatro Bibiena, il Tempio di San Sebastiano dell’Alberti o nella vicina Sabbioneta, avrebbe facilmente incontrato architetti come Cristiàn Undurraga, Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn, oppure un travolgente Carlos Ferrater in giacca rossa circondato da studenti appassionati in cerca di un autografo. “Mi piace immaginare che lo studente che arriva da qualsiasi parte del mondo possa trovare qui il luogo dove studiare al meglio l’architettura – mi

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dice Bucci una volta tornati nel suo studio dopo le proclamazioni delle lauree – i nostri ragazzi, stranieri o italiani che siano, qui a Mantova acquisiscono un metodo che possono portare in tutte le parti del mondo. Quando uno studente sceglie questa città, deve trovare esattamente questo: la capacità di leggere e interpretare la storia per poi portarla nel progetto contemporaneo”. Il rapporto tra architettura è storia è la mission del Polo territoriale di Mantova, portata avanti con lucidità e determinazione sotto la guida di Bucci attraverso una somma di azioni che hanno definito e affinato in breve tempo una chiara identità tra le università di architettura in Europa. “Tagliate queste pagine e sanguineranno” diceva Ralph Waldo Emerson su Montaigne per indicare l’onnipresenza della personalità che l’autore francese immetteva in ogni suo scritto: questa frase si può mutuare anche per il Polo mantovano, per la presenza di quei chiari connotati identitari che emergono in ogni singola attività, facendo onore all’idea originaria posta alla base dei Poli

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01. Uno dei luoghi simbolo di Mantova Architettura: la Casa del Mantegna, in una veduta del cortile circolare. 02-03. Guest stars a Mantova: Eduardo Souto de Moura circondato dai suoi studenti all’interno del Teatro Scientifico, e mentre discute i lavori del suo corso assieme a Rafael Moneo (sulla destra).


04. La grande partecipazione durante le manifestazioni dell’edizione 2015 del festival Mantova Architettura. 05. Federico Bucci con alcuni studenti nel cortile della Casa del Mantegna. 06. Il logo grafico del festival.

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territoriali del Politecnico di Milano pensati come realtà destinate ad ancorarsi a precise specificità territoriali e culturali. “Prima di tutto c’è da considerare l’idea di Polo Territoriale – dice Bucci, scandendo quasi perentoriamente le lettere per essere sicuro di trasmettere il senso delle due ultime parole – un Polo che a Mantova ha il suo luogo centrale, ma sul quale gravita un’area di una ricchezza storica eccezionale, ricca di pagine importantissime della storia dell’architettura; e mi piace poter dire che queste pagine sono importanti per i ragazzi che trovano il contesto dove studiare e approfondire le tematiche che legano storia e architettura”. Strategicamente, il rapporto tra architettura e storia è anche al centro di quella vera manifestazione corale del Polo che è il festival Mantova Architettura (www.mantovarchitettura. polimi.it/). Un successo enorme che ha portato nei siti storici di Mantova – ma anche a Verona al Museo di Castelvecchio – architetti, ricercatori e studenti da tutta Italia. “Quello che vogliamo sottolineare ancora di più nell’edizione del 2016 – ci spiega Bucci – è che gli eventi del festival sono preparati con grande attenzione in modo da avere un ritorno decisivo nella didattica, con i grandi architetti ospiti che interverranno sui temi e sui lavori dei corsi anche attraverso workshop”. D’altronde questo tipo di

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esperienze non costituisce una novità per il Polo, che vanta importanti collaborazioni internazionali con i grandi dell’architettura. A questo punto gli chiedo di raccontarmi il suo pensiero su quella che, ad oggi, è la più importante di queste esperienze, ovvero la presenza di Eduardo Souto de Moura come docente a Mantova. “Abbiamo approfittato dell’opportunità di poter chiamare un architetto internazionale per chiara fama. Eduardo Souto de Moura è una risorsa eccezionale per Mantova e il Politecnico sotto due punti di vista: il primo è che dà lustro alla sede e all’idea stessa dell’architetto, che non è colui che fa il ‘vestito’ di un edificio ma colui che, come l’architetto portoghese, riflette, pensa al rapporto tra edificio e città, interpreta le relazioni culturali che ogni costruzione, ogni opera deve avere con il contesto, con la società, con i cittadini. Il secondo aspetto è che Souto de Moura è uno straordinario insegnante, con una umanità fortissima che riesce a trasmettere non solo ai suoi studenti, ma anche al pubblico che lo ascolta e ai docenti con cui lavora, ed è quindi un’opportunità importante per tutti, anche per noi professori, per cogliere cosa significa la missione dell’insegnante, che è poi la missione a cui aspira ogni grande architetto”. A questo punto Bucci si ferma per momento, interrompendo il flusso continuo della sua parlata e, mentre dalla finestra arriva il brusio delle voci del pubblico delle lauree, dopo un brevissima pausa mi chiede retoricamente: “cosa c’è di più bello che trasmettere il proprio sapere ai giovani? Ogni maestro ha provato a farlo, e moltissimi ci sono riusciti magnificamente: penso a Frank Lloyd Wright con il suo piccolo atelier di Taliesin, ma anche a Le Corbusier che anche se lavorava poco nella scuola quando faceva conferenze incantava tutti, o a Mies con ciò che ha fatto a Chicago diventando un trascinatore eccezionale per quell’Istituto. Eduardo Souto de Moura è esattamente questo, un insegnante che trasmette il proprio sapere con una umiltà e una umanità che mi hanno affascinato, ma è anche un professionista, un costruttore vero che insegna agli studenti il mestiere dell’architetto”. Il rapporto con il mestiere e la professione è un altro dei punti importanti della Scuola mantovana

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globale, e penso che con il lavoro che si sta facendo a Mantova molti di loro si presenteranno pronti all’appello. “Il Polo, infatti, ha già attivato importanti strategie, come quella di dare la possibilità ai suoi studenti di concorrere a stage internazionali in studi prestigiosi, oppure ha inaugurato un nuovo Master of Science in Architectural Design erogato completamente in lingua inglese, che sarà attivo a partire dall’anno accademico 2015/2016. Oggi assistiamo purtroppo a una flessione nel campo dell’architettura, e dobbiamo rispondere a questa flessione facendo capire che cos’è la professione dell’architetto e qual è il suo vastissimo mercato odierno. Se pensi alla sola Italia, i numeri sono drammatici, con 2,5 architetti per mille abitanti,

« L’architettura deve essere fatta prima di tutto con il ragionamento, la riflessione, la ricerca, utilizzando la storia non per copiare ma perché si colgono i metodi » mentre Germania e Francia (che hanno all’incirca gli stessi abitanti della nostra nazione) hanno 0,5 architetti per mille abitanti. Ma a questi dati noi dovremo rispondere che, qui a Mantova, si prepara un architetto che può affacciarsi a un mercato globale, ed ecco allora che quella cifra non ci interessa più. Ogni tanto riceviamo qualche lettera di qualche laureato, e ti devo dire che le più belle sono quelle scritte da chi ha avuto il coraggio di andare per il mondo e ci descrive le sue esperienze. L’architettura è un mestiere internazionale, non possiamo ostinarci tutti a costruire in questo paese che è ormai saturo. È per questo motivo che i nostri corsi in inglese sono importanti, e ti devo dire che lo studente, superato il primo impatto, svolge con determinazione un’esperienza formativa che lo prepara a entrare in un mondo internazionale. Noi abbiamo il dovere di tenere alte le nostre tradizioni, ma chi si oppone all’utilizzo dell’inglese nella didattica non capisce che è un modo per sostenere la forza

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della nostra lingua, quella che si parla nei trattati di architettura: è un modo per leggere Palladio, per far capire la grande Scuola dell’architettura italiana. Dobbiamo difendere la nostra lingua ma dobbiamo anche essere consapevoli che dobbiamo avere a che fare con la lingua di tutti per divulgare, ricercare e comunicare, che è appunto la lingua inglese. Quando andiamo a fare lezione in Finlandia parliamo inglese, ma la tradizione della loro architettura è presentissima, là scopriamo Alvar Aalto. Io penso che in questo modo daremo una svolta anche all’architettura italiana, finalmente sapremo portare Carlo Scarpa, Franco Albini, Ignazio Gardella e la nostra grande tradizione italiana, e faremo all’estero quello che abbiamo fatto a Verona a Castelvecchio nell’incontro del 9 maggio con i pregevoli interventi di Alba Di Lieto, Stefano Musso e Gianni Ottolini, che ci hanno aiutato a raccontare la grande vicenda dei musei della ricostruzione e la necessità di riconoscere e salvaguardare il valore delle opere di questi pionieri della museografia nel primo degli eventi che ha inaugurato questa nostra importante collaborazione con l’Ordine”. Fuori i festeggiamenti per le lauree si spostano verso il centro di Mantova, e il vociare festoso di parenti e amici si smorza in un riuscito fade-out che chiude anche il nostro incontro. Uscendo dallo studio del Pro-rettore dò un ultimo sguardo alla bellissima tavola della Città Analoga di Aldo Rossi che campeggia dietro la sua scrivania, e mi viene da pensare che non vi poteva essere uno sfondo migliore per questo nostro dialogo su architettura e storia, università e territorio, didattica e professione.

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suggellato, nel maggio 2015, con la firma di una convezione tra Ordine degli Architetti P.P.C. della provincia di Verona e Polo di Mantova del Politecnico. La convenzione prevede lo sviluppo di ricerche, convegni, workshop e approfondimenti da realizzarsi in sinergia, e troverà compimento anche nelle attività culturali che porteranno all’apertura della nuova sede dell’Ordine presso i Magazzini Generali di Verona. Il convegno Albini, Scarpa, BBPR. Il futuro dei Musei della ricostruzione che ha avuto luogo a maggio presso il Museo di Castelvecchio è stata la prima di queste iniziative. La collaborazione sull’asse MantovaVerona sarà volta a consolidare un rapporto fattivo tra università, professione e istituzioni culturali veronesi, dopo anni in cui un certo snobismo delle università, unito a un distacco della professione dal mondo della ricerca, aveva creato l’humus perfetto per il dilagare di interventi edilizi di scarso valore culturale. “Non mi sembra una ricetta difficile: gli ingredienti ci sono già, perché sono proprio i giovani studenti che oggi ci chiedono di legarsi alla professione. Io penso che abbiamo subito una frattura a partire dagli anni Settanta, anni in cui si diceva che la professione era una cosa altra rispetto all’università. Si è così venuto a creare un vuoto colmato da ricerche assolutamente inutili e, come dicevi giustamente, un pieno fatto di opere con nessuna identità culturale. A questo punto si tratta di trovare la casa comune di questo pensiero, che è la casa dell’architettura. L’architettura deve essere fatta prima di tutto con il ragionamento, la riflessione, la ricerca, utilizzare la storia non per copiare ma perché si colgono i metodi, utilizzare i materiali non per sfruttare l’innovazione tecnologica del momento, ma perché è utilissimo quel dato materiale per ciò che sto progettando”. Parlando della professione, il discorso di Bucci si sposta dalla territorialità a quello che sta facendo il Polo per far sì che gli studenti affrontino le nuove sfide legate all’internazionalizzazione. Sentendo il brusio delle voci delle lauree che esce fuori dall’università, penso che quei freschi laureati che oggi, mentre noi parliamo, festeggiano sotto la finestra dello studio, già da domattina dovranno inevitabilmente confrontarsi con uno scenario


Il protocollo di intesa

enti promotori

Ordine degli Architetti P.P.C. della provincia di Verona, Politecnico di Milano-Polo Territoriale di Mantova. oggetto

Collaborazione tra i due enti, al fine di organizzare a Verona attività attinenti al tema del rapporto tra architettura e contesto storico. L’Ordine di Verona, infatti, ritiene fondamentale promuovere sul territorio una corretta cultura del rapporto tra architettura e contesto storico, tema centrale nella nostra provincia in ragione anche della particolare struttura urbanistica che la caratterizza e che pone al centro del dibattito sul suo futuro sviluppo, il tema del riuso del patrimonio architettonico ed ambientale esistente (sia pubblico che privato).

particolarmente qualificati collaborando allo svolgimento degli insegnamenti attivati presso il Politecnico di Milano, anche con l’istituzione di borse di studio secondo la normativa vigente e mediante istituzione di premi per Tesi di Laurea e/o Dottorato sul tema del rapporto tra architettura e contesto storico, con particolare attenzione per progetti di analisi e/o riuso del patrimonio architettonico ed ambientale presente sul territorio veronese che si distinguano per l’alto profilo qualitativo; - contribuire allo svolgimento di studi e ricerche per l’approfondimento dei temi riguardanti il rapporto tra architettura e contesto storico e di collaborare alla diffusione dei risultati scientifici, anche attraverso la realizzazione di seminari, esposizioni e conferenze; - mantenere un elevato livello culturale dei propri operatori e favorire il loro aggiornamento professionale attraverso opportuni contatti e collaborazioni con Strutture del Politecnico mediante corsi del cui contenuto didattico il Politecnico sia garante. attività

durata

- svolgimento di tesi, progetti ed elaborati di laurea; - elaborazione di studi e ricerche a completamento delle attività didattiche; - integrazione dello svolgimento di esercitazioni di progetto e laboratorio; - organizzazione di visite di studenti e di gruppi di studenti; - organizzazione di incontri e seminari anche presso il Politecnico per approfondire temi specifici.

Due anni, eventualmente rinnovabili. finalità

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Contribuire alla formazione di studenti e laureati

07. Locandina del convegno tenuto a Castelvecchio nell’ambito del festival Mantova Architettura 2015. 08. Franco Albini, Lodovico Belgiojoso (BBPR) e Carlo Scarpa con Fredi Drugman, Franca Helg, Matilde Baffa, collaboratori e assistenti dello IUAV alla Trattoria La Colomba a Venezia, 22 novembre 1960 (elaborazione grafica studio BFA).

comitato misto di gestione

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Si occupa della proposta, della programmazione e della gestione delle attività; ne sono membri effettivi il prof. arch. Federico Bucci, l’arch. Arnaldo Toffali, l’arch. Filippo Bricolo, l’arch. Nicola Brunelli; a questi si aggiunge la presenza dell’arch. Alba Di Lieto, in rappresentanza del Museo di Castelvecchio.

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Due santi in città

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L’incessante produzione editoriale sui monumenti cittadini porta sugli scaffali degli studiosi due nuovi testi su altrettante chiese veronesi

Testo: Angelo Bertolazzi

Sono apparse recentemente, nel catalogo di Scripta Edizioni, due pubblicazioni riguardanti altrettante chiese veronesi, San Giovanni in Fonte e San Nicolò all’Arena. La prima è la chiesa battesimale del Duomo di Verona, realizzata in forme romaniche a partire dal 1120, in sostituzione della precedente gravemente danneggiata dal terremoto del 1117, e che fa parte con il Duomo stesso, la chiesa di Sant’Elena e il Palazzo Episcopale, di un complesso architettonico ricco e stratificato ma, allo stesso tempo meno conosciuto rispetto ad altri e analoghi esempi, primo tra tutti il Santo Stefano di Bologna. La seconda invece è la chiesa che sorge proprio dietro all’Arena, ricostruzione seicentesca di un precedente edificio, indicato nella pianta dell’Almagià (XV secolo) e caratterizzato da un orientamento opposto a quello attuale. La chiesa, iniziata nel 1627 e terminata nel 1697, è nota ai veronesi soprattutto perché ‘ospita’ la facciata della chiesa di San Sebastiano, distrutta dal bombardamento del 4 gennaio 1945. Allo stesso tempo è anche un importante esempio di architettura barocca verone e il testimone di una cultura troppo spesso dimenticata, perché stretta tra la luminosità

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« I due volumi rimangono strumenti utili per la conoscenza dell’architettura veronese non solo per i cultori di storia locale, ma anche per un pubblico più vasto » rinascimentale di Sanmicheli e la razionalità del classicismo settecentesco di Pompei. Il libro sulla chiesa di San Giovanni in Fonte è il primo di una collana – Verona-ae – diretta da Tiziana Franco dedicata alla città e al suo territorio, che si vuole rivolgere al lettore veronese «attento al

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patrimonio artistico locale, consapevole che la sua conoscenza approfondita ne favorisce la salvaguardia e si pone all’oblio della città storica». Il testo è molto ricco e completo e riguarda tanto la storia, l’architettura e le vicende costruttive della chiesa (Fabio Agostini), quanto le pitture e le decorazioni interne ed esterne (Fausta Piccoli) e si sofferma specificatamente sul fonte battesimale (Silvia Musetti). Il volume ha il merito di richiamare un edificio che «come parte del complesso della cattedrale ha un poco patito – anche in sede critica – del suo ruolo comprimario» e di portare alla luce il lavoro di ricerca

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01. Rilievo della chiesa di San Nicolò (P. Peverelli, E. Colombo per A.c.M.e studio) con la pianta della pavimentazione (Massimiliano Valdinoci).

SAN nicolò all’arena in VERONA testi di Arturo Sandrini e Gian Maria Varanini contributi di Giovanni Castiglioni e Massimiliano Valdonoci a cura di Nani Zangarini

Parrocchia di San Nicolò all’Arena / Scripta edizioni, 2015


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02. Rilievo stratigrafico murario restituito sul fotopiano del prospetto nord: le mappature indicano i limiti delle unità stratigrafiche murarie mentre i simboli i rapporti cronologici tra le stesse (A.c.M e studio). 03. Il vano scala cosidetto ‘del pavone’ con l’enigmatica immagine del volatile sulla finta ringhiera (foto G. Castiglioni).

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condotto dai tre autori all’interno dell’Università di Verona. L’unico appunto è sulla veste grafica del volume: il formato infatti richiama quello delle guide tascabili, e da un certo punto di vista è corretto in quanto consentirebbe di portarselo per una visita sul posto. Tuttavia proprio le ridotte dimensioni hanno sacrificato l’apparato iconografico: se le foto a colori possono soddisfare l’occhio del lettore, diversamente si può dire per quelle in bianco e nero nel testo. Allo stesso tempo la presenza di disegni (piante e sezioni) dell’edificio avrebbe aiutato il lettore a orientarsi in un testo che, di eccellente qualità, risulta molto sacrificato dal formato editoriale. L’altro volume, dedicato al tempio del vescovo di Mira San Nicolò, è

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uscito a seguito degli ultimi lavori di restauro che hanno interessato l’edificio nel 2012-2014 (superfici esterne) e che hanno completato quelli del 1997-98 (superfici interne) e del 2003-2004 (pavimento lapideo). Il volume offre al lettore la storia dell’edificio dal Seicento a oggi (Gian Maria Varanini) e del culto di San Nicolò (Arturo Sandrini) e lo accompagna in una rapida ricognizione attraverso i sui tesori d’arte sacra (Gian Maria Varanini e Nani Zangarini). Lo scritto di Arturo Sandrini ripropone le nitide pagine su San Nicolò che lo studioso aveva steso nel 1987 per un’altra pubblicazione, e vuole essere anche una testimonianza della eredità intellettuale che egli ha lasciato nella nostra città.

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San Giovanni in Fonte 04. San Giovanni in Fonte: rilievo

Alla descrizione degli aspetti storicodel fonte battesimale, Sogno artistici segue la conoscenza degli di Giuseppe e Fuga in Egitto (Archivio Ufficio Beni Culturali di Fabio Silvia Musetti, Fausta Piccoli aspetti materiali dellaAgostini, chiesa, emersi Ecclesiastici della Diocesi di nel corso delle differenti Scriptacampagne Edizioni, collana Verona -ae Verona). di restauro. In particolar modo da quelle condotte da Massimiliano Valdinoci sul pavimento a tarsie marmoree,Verona, e da Giovanni Castiglioni chiesa di San Giovanni in Fonte riguardanti invece le superfici (entrataesterne da Piazza Vescovado) della chiesa, emergono inediti e interessanti aspetti materiali tecnicoSaluti costruttivi dell’edificio. SAN giovanni in fonte Anche in questo caso, a fronte di Karis una pregevole editoriale dell’Arte della Diocesi di Verona Servizioiniziativa per la Pastorale Fabio Agostini, Silvia Musetti, si rileva un’incongruenza grafica: se Fausta Piccoli Gian Paolo Romagnani il formato (più generoso di quello Direttore dipartimento per San Giovannidel in Fonte) bene si TeSIS – Università di Verona Verona-ae adatta alla parte storico artistica, per Tiziana Franco collana diretta da Tiziana Franco la parte dei lavori di restauro risulta Ordinaria di Storia dell’arte medievale – Università di Verona insufficiente, in particolar modo per Direttrice della collana Verona -ae Scripta edizioni, 2015 i disegni di rilievo e per il modello tridimensionale della copertura, che Presentazione risultano purtroppo poco leggibili. Nonostante questi aspetti i due di storia locale, ma anche per un Gian Maria Varanini volumi, grazie anche al costo pubblico più vasto di visitatori Ordinario di Storia medievale – Università di Verona contenuto, rimangono strumenti utili che – complice forse l’effetto per la conoscenza dell’architettura “Giulietta&Romeo” – è decisamente saranno presenti gli autori veronese non solo per i cultori aumentato negli ultimi anni.

Tre santi in collina

San Pietro in Briano, San Colombano e San Felice compongono una trilogia editoriale sulle rispettive chiese e oratori poste nelle valli dell’est veronese

Lunedì 22 giugno 2015 ore 18.15

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Testo: Angela Lion

La nostra provincia si lustra di un patrimonio architettonico cosiddetto minore, poco pubblicizzato ma dal valore culturale straordinario. Chiese, cappelle o semplici edicole di devozione rappresentano tra i più importanti e visibili segni di queste tacite comunità. Delle vere e proprie pietre vive, che attestano un mondo rurale fervente seppur nascosto: un territorio vasto, terra di confine, ultimo lembo orientale del veronese, denso di storia e di storie, come quelle che caratterizzano le chiese dei tre santi – San Pietro in Briano, San Colombano e San Felice – poste su aree di rifugio immerse al di là della Valdalpone, per la Valtramigna fino alla vallata di Illasi. Addentrandosi in queste aree, nascose tra il verde, si scorgono le antiche chiese e gli oratori, che ospitano i nostri beniamini. Una triangolazione divina che ha suscitato l'interesse di studiosi e appassionati della materia sfociata in questa trilogia editoriale accuratamente dettagliata nei testi di Renato Molinarolo, architetto, Daniela Noli, insegnante e studiosa locale, Marco Pasa, storico e Vittorio Zambaldo, giornalista. Una piccola collana che racchiude in sé, come

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uno scrigno, beni artistici di grande pregio. Nell'immaginario delle vicende ivi esposte si è voluto dar voce ai protagonisti di queste illustri storie, immaginando un dialogo simbolico tra i tre santi, che di vicissitudini da raccontarcene ne hanno, eccome! “Caro San Felice e devoto San Colombano, lo sapevate che ogni lato, ogni pietra è una pagina della storia? Ogni ondata del tempo vi sovrappone un’alluvione, ogni razza vi aggiunge una stratificazione, ogni individuo vi apporta la sua pietra: il tempo è l’architetto, il popolo il muratore, ed è per questo che noi si rimane nella memoria di chi ha buona cura delle nostre radici e fondamenta. Come potrebbe essere diversamente se così non fosse?” “Amore divino – direste voi – certo! Ma un grazie va anche alla mano sapiente dell’uomo e alla sua intelligentia. Il compito che abbiamo è dare l’esempio alle generazioni future, nella semplicità e nella bellezza delle nostre manifestazioni. Ogni essere è una nota nella sinfonia dell’universo. Il tutto cosmico non cancella la nostra identità, bensì le dà valore. Ogni essere vivente ha importanza, uomo, animale o pianta che sia. Anche le pietre, come le nostre, vanno rispettate: contengono la storia della Terra. E

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invita alla presentazione del volume


01. Il santuario di San Felice e il Castello di Illasi. 02. Sezione trasversale con affreschi del santuario di San Felice. 03. Il complesso di San Colombano tra le colline di Illasi.

SAN felice. il santuario ritrovato

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Editore La Grafica, 2012

SAN pietro in briano

Gianni Bussinelli Editore, 2013

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SAN colombano l’eremo del silenzio Gianni Bussinelli Editore, 2014

Renato Molinarolo, Daniela Noli, Marco Pasa e Vittorio Zambaldo

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proprio la nostra terra, questo ameno territorio, ha rappresentato per le popolazioni del luogo motivo di gioia e di dolore: fertile da un lato, a volte rovinosa. I nostri piccoli edifici sacri che ci danno dimora, pur avendo subito nel tempo trasformazioni e manomissioni, sono stati la nostra e la loro fortezza, materiale e di spirito”. “Settecento anni di vita ha il mio oratorio – incalza San Felice – e non per nulla mi definiscono il Santuario ritrovato. Sono un felice, per l’appunto, e prezioso recupero di un simbolo dell’arte popolare medievale, attraverso cui mi si riconosce raffigurato nel ciclo degli affreschi. Grazie a loro sono state riscoperte le vicende della chiesa e degli annessi, cimitero e ospedale, nonché gli stretti rapporti con le comunità vicine. Fra momenti intensi e altri di silenzio, durato anche secoli, non è mai venuto meno il riferimento al contesto territoriale e sociale del mio ambito, collocato su un intreccio di ben sette strade, reali e metaforiche,

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che invitano a raggiungere l'oratorio come un'occasione di meditazione tra storia, arte e spiritualità. Et comendata fuit custodia dictae ecclesiae, è raccomandata la custodia della chiesa, hanno imposto i potenti, e il ricorso al mio miracoloso crocifisso è stato fondamentale per il mio sopravvivere e per la protezione di tutta quella popolazione che ha aiutato il mio sopravvivere”. E tu, San Colombo, non dici nulla? Il tuo è l’eremo del silenzio? O forse la tua appartenenza ad altra contrada, l’amena Illasi, non ti degna del nostro interesse? Tu, ubicato in luogo aperto alla vallata a differenza di noi stretti, si fa per dire, dalle belle colline ornate dal lavoro dell’uomo, rivolto allo spettacolare fondale della cortina montuosa dei Lessini, preceduta da alture e monti dalle variegate tonalità di verdi, protetto dal vicino forte, hai trovato la tua forma in un recinto, in un tuo spazio sacro racchiuso e delimitato. “Devi sapere, San Pietro, che tutto questo è stato fatto per garantire

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all’uomo sicurezza, protezione e quell’intimità spirituale che lo accompagna”. “Dici bene – interviene San Felice – tu con la tua barba bianca e fluente, i guanti eterei, la tonaca marrone in un procedere altero e possente, tu che ti posti in mezzo al verde da certi incantevoli poggi e poggetti con la chiesetta che prende le sfumature del rosso col bagliore del sole, e a primavera si impone con la biancorosea fiorita dei suoi mandorli e dell’intramontabile verde degli ulivi, sempre più fitti”. Insomma, santi, attraverso le costruzioni la vita, le relazioni, i ritmi del tempo e gli spazi ci rappresentano in ogni nostra parte. “Chi entra nelle nostre dimore si sente avvolto da un’intensità di quel dinamismo rappresentativo che i nostri affreschi manifestano

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attraverso le tappe del mistero. Il visitatore ha l’immediata percezione di sentirsi parte di un braccio che ha il Volto di una vita spesa con straordinaria raffinatezza, delineando

spazi e atmosfere dei luoghi, quasi in un pellegrinaggio che supera il tempo e lo spazio e che richiama la presenza viva di tante donne e uomini che hanno caratterizzato la

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04. Una veduta della Valtramigna. 05. La chiesetta di San Pietro in Briano a Cazzano di Tramigna. 06. Appunti di rilievo acquerellati della chiesetta di San Pietro in Briano (arch. Renato Molinarolo).

loro esistenza”. “Se ci pensate, fratelli miei, si decide in genere di innalzare una chiesa per rispondere ai bisogni della popolazione e del culto, ma non si decide il luogo in cui sorgerà il santuario. Il luogo sacro, il luogo in cui cioè avviene la trasformazione dello spazio profano in spazio sacro non è mai 'scelto', ma soltanto 'scoperto': occorre, infatti, che un segno divino si manifesti attraverso un prodigio, un sogno, un ritrovamento particolare, persino un miracolo, perché questo luogo sia indicato. Ecco la voce corale che ci accomuna: oggi altro non si può dire che siamo oasi del creato, di meditazione e di contemplazione”.


Per un Abecedario urbano

Un gruppo di appassionati urbanofili coglie con sorprendente levità aspetti e luoghi inconsueti della città all’insegna del motto ‘Apriti Verona’ Testo: Filippo Dusi

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L’omaggio alle insegne sopravvissute a un tempo che ormai non c’è più, è costruito da un collage realizzato staccando idealmente le lettere dai portoni d’ingresso e dai supporti che sorreggono le vecchie iscrizioni, che con il loro stile grafico e col loro colore spesso sbiadito ripercorrono le atmosfere e il carattere degli anni ’60, ’70 e ’80. Azzardiamo una partita a PAROLIAMO (per rimanere immersi nell’atmosfera ludica dello stesso periodo) e andiamo a caccia delle grandi lettere che incorniciano le vie della città. Proviamo a catturarle con la fotografia, per poi riassemblarle componendo nuovi significati, facendole parlare ancora, indicandoci nuove espressioni con stile dada e d’epoca da-da-um-pa. Avremo molte lettere a disposizione, alcune malconce e sbrindellate, tuttavia, immarcescibili al tempo, svolgono ancora la loro funzione originaria. Molte delle insegne storiche che leggiamo nelle strade della nostra città sono entrate nella memoria del panorama urbano quotidiano ma non seducono più, rimangono sterili testimoni di un recente passato. Alte come gnomi, se ne stanno appollaiate sui cornicioni delle entrate dei palazzi, in attesa di essere liberate dalla nostra fantasia. Il gioco che proponiamo in questo articolo è suggerito dall’incanto che porta il cambiamento d’uso e di senso delle lettere che compongono

parole che non abitano più nei luoghi dove si trovano ora. Appropriamoci con molta disinvoltura dell’alfabeto che ci offre la città e creiamo un patchwork con le lettere che ci occorrono per formare nuove “indicazioni” su insegne virtuali e artificiose quanto fantasiose e innovative. Con moto ascendente possiamo allargare la sfida anche ai perimetri degli edifici utilizzando la mappatura satellitare di Google Earth. Scopriremo così una città foriera di slogan fantasiosi e di lettere sparse, in attesa di un nostro fil rouge che le unisca in una topografia tipografica. Creiamo un Abecedario contemporaneo urbano, che assomiglierà molto a una rivisitazione del gioco di lettere dadaista realizzato sfogliando le vie cittadine. Questo esercizio di ricerca ed elaborazione ci potrà mostrare ciò che il paesaggio urbano può esprimere con un’originale elaborazione del preesistente, che genera inaspettati esiti di nuove forme d’arte urbana. Buona caccia!

01-04. Immagini tratte dal sito www.apritiverona.it, hand made da Enrico Bernardi, Filippo Dusi e Sabrina Dai Pre.

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Il mondo del web non finisce di accalappiare, nelle trame della propria ragnatela, oggetti incorporei curiosi e sorprendenti, come degli esotici insetti per entomologi del Terzo Millennio. è così che ci capita di scoprire un piccolo sito, curato con la generosa attenzione artigianale che si riserva a tutto ciò che è passione pura, e non lucro. La dichiarazione di intenti posta in exergo conferma una affinità elettiva con la nostra rivista: “La ricerca che sta alla base del progetto Apriti Verona è quella di offrire l’opportunità di vivere la città con occhi da viaggiatori curiosi che cercano l’emozione dell’avventura e della scoperta anche nel proprio giardino di casa. Gli strumenti che useremo sono la levità dell’immaginazione e la seduzione delle storie dalle quali Verona è inondata. L’augurio è che le persone, che abitano – lavorano e visitano questa città, possano riscoprirla e amarla più fortemente, perché armati di nuova consapevolezza che incoraggia la conoscenza, l’attenzione e lo scambio. La proposta è di accompagnare i più curiosi in un giro alternativo per Verona, cercando di svelare l’insolito nascosto nei luoghi del nostro vivere quotidiano. L’esperimento cerca di dare piacevoli frissons gratis et amore dei, per cui caldeggiamo la scelta della bicicletta o a piedi. Gli itinerari e gli angoli urbani raccontati sono tutti frutto di scelte low budget e good vibes!”. E buona navigazione all’indirizzo www.apritiverona.it (AV).

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Difficile ingabbiare Marco Campedelli in una sola definizione: artista, grafico, calligrafo, è soprattutto un osservatore dalla straordinaria sensibilità, capace di estrarre dalla quotidianità preziose pepite di poesia. Dallo studio di Sommacampagna, nel cuore delle vigne del Valpolicella, porta avanti con l’elegante ostinazione di un maestro zen la sua ricerca espressiva, fatta di tenace attenzione artistica al segno, che si declina in dedizione al progetto quando è applicata al mondo della comunicazione. All’attività di artista e designer, che lo ha visto protagonista di numerose Un cuore veronese e uno sguardo globale, che danno vita a un segno unico e capace di andare in profondità.

mostre personali in Italia, Spagna, Belgio, Svizzera e Argentina, autore di copertine per la casa editrice Einaudi e di prestigiose wine labels, oltre che del progetto artistico editoriale in edizione limitata Blowup, affianca quella di docente di visual design e di scrittore, autore dei fortunati volumi Calligraphy and Graphic Design (Links, 2010) e 99+1 consigli per un giovane grafico (2013).

Testo: Gaia Passamonti — www.pensierovisibile.it

Come hai iniziato a fare il designer, e cosa ti ha spinto? Ho alcuni ricordi molto presenti. Da piccolo andavo in biblioteca e prendevo sempre in prestito alcuni libri di Bruno Munari: “Disegnare il sole”, “Disegnare un albero”. Comperavo buste sorpresa in edicola e costruivo indiani e soldatini di carta, ci giocavo ore e ore nei pomeriggi d’estate. Ho sempre avuto grande curiosità per l’immagine, l’arte e tutto ciò che era progetto grafico. Un giorno mi hanno chiesto cosa sapessi fare e io ho risposto “disegnare”. Almeno pensavo di farlo meglio di altre cose, far

La ricerca del segno, tra arte e DESIGN

GRAPHICS

Che cos’è per te il progetto grafico, e come lo approcci? Hai un tuo metodo? Un viaggio da preparare. La meta la puoi scegliere o te la può imporre il cliente. Progettare significa svelare quanto conosciamo e quanto non conosciamo di un argomento per poi sezionarlo in più parti e ricomporlo con la tua

di conto per esempio. I miei genitori mi hanno sempre agevolato nelle scelte poiché loro non hanno cultura per capire cosa significhi essere grafico. Mi ha spinto la mia voglia di fare e il mio entusiasmo, che penso non siano svaniti, nemmeno in questo dubbioso periodo.

La pagina come luogo da costruire, caratteri e inchiostri come mattoni e pietre. Un territorio del progetto visto dai protagonisti del campo grafico veronese. a cura di Pensiero Visibile

sensibilità e la capacità di emozionare nel segno, nei simboli, nei caratteri e quindi nelle immagini. Solitamente la prima cosa che faccio è ascoltare il cliente, prendere appunti, creare materiale di ricerca, ascoltare musica o distrarsi, per poi iniziare a schizzare su carta veloci e talvolta incomprensibili schizzi.

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Cosa ti ispira o ti ha ispirato negli anni? Molte cose! Ma su tutte direi la musica e l’arte. Ascolto una valanga di musica di tutti i generi (il metal ancora no, mi rovina l’umore) e mi piace guardare come si evolve il mercato dell’arte. Mi piacciono i film ‘pesanti’ che abbiano un significato filosofico e quindi utile per la mia crescita. Di recente ho rivisto per l’ennesima volta “American Beauty” e

Il solo riportare su carta un pensiero significa dargli vita e verità. Sono curioso e attento a quanto accade attorno a me. Un grafico è essenzialmente un ‘ficcanaso’ della vita.

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Metti più testa o più cuore nel progetto? Metto più anima. Detesto quando mi si dice che ho passione. La passione è un hobby per buontemponi. L’anima è la vita. Penso che non potrei fare altro che questo mestiere. Oggi sono artista, calligrafo, grafico, illustratore e insegnante. Tutti aspetti che interagiscono tra loro per unica ricerca artistica.

trovo che sia ancora un manifesto del nostro società odierna. Mi ispirano gli alberi, i rami, le linee dei sassi e camminare che mi porta tante idee e mi aiuta a rimettere in fila i pensieri. Non c’è miglior processo!

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C’è un lavoro a cui tieni particolarmente? Vuoi descrivercelo? Probabilmente la serie di cartoline realizzata per Tipoteca Italiana. Mi sono trovato un paio di anni fa nel tempio dei caratteri mobili del Novecento. Ho avuto la possibilità di aprire (e chiudere) centinaia di cassetti contenenti caratteri dalle mille forme e varianti. Ne ho scelto una serie e con un metodo rigorosamente

Qual è il tuo legame con Verona? La mia famiglia è di origini mantovane ma sono nato e cresciuto nella provincia veronese dove tuttora risiedo e lavoro. Verona è una splendida città ma la trovo ancora troppo statica per la mia voglia di esplorare. Ci sono musei che non tutti conoscono e che per un grafico sono una miniera di ispirazione. Da Verona mi piace partire per tornare. Forse sono le persone che dovrebbero evolversi. I salotti buoni portano poca innovazione.

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C’è un rapporto tra la progettazione grafica e l’architettura? Esiste il rapporto se lo si vuole creare. Soffro nel vedere architetti fare anche il mestiere di grafico. In pochi hanno la preparazione adatto a praticarlo. Mi piace parlare di architettura grafica quando organizzo gli elementi su carta o penso alla struttura modulare di un logo. Mi piace creare un’immagine coordinata che si coordini con gli edifici ma detesto quando l’architettura segue vanità progettuali

analogico ho progettato 32 cartoline con lettere e simboli dell’alfabeto per poi stamparle su carta cotone in una combinazione di 32 colori. Il lavoro era suddiviso in otto plance con quattro soggetti e quattro colori stampati su Heidelberg stella. Una vera emozione che ha confermato in me il desiderio di lavoro massivamente sulla letterpress e sulla sperimentazione tipografica.

Sullo sfondo: Omaggio a Ezra Pound, text art. www.marcocampedelli.it www.settetre.it

01. Serie di illustrazioni per copertine di libri immaginarie. 02. Print is matter, letterpress con caratteri originali, serie a tiratura limitata (Tipoteca Italiana). 03. Plaça de Catalunya, scritta incisa a linoleum e stampata su legno. 04. Lettere Brutte… ma brutte, alfabetiere per ragazzi. 05. Numbers, visual realizzato con numeri di legno stampati a mano.

Vuoi lasciarci un pensiero? Parafrasando un titolo famoso fare il grafico “non è un mestiere per tutti”. E ancora il poeta Rilke recitava “ogni opera nasce da necessità”. Penso ai giovani che nella confusione e nell’incertezza fanno fatica a trovare la propria strada. Vorrei che si interrogassero sulla loro necessità di imparare un mestiere piuttosto che un altro.

e quindi esclude la possibilità di dialogare con gli aspetti del Visual Design. In generale vedo sempre più progetti di architettura interessanti che mi fanno immaginare un dialogo fra le diverse competenze professionali.


Collezione Privata

Lucia Amalia Maggio: 1505 metri per un incontro

A partire dalla mostra “Microcosmi Macrocosmi” a San Giorgio di Valpolicella l’interazione tra opera e spazio architettonico come espressione del segno dell’artista

Testo: Luigi Marastoni

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01. “Microcosmi Macrocosmi”, Red Zone art bar, San Giorgio di Valpolicella (primavera 2015): l’installazione di Lucia Amalia Maggio nella room. 02. A parete della room, i Reticoli in filo di cotone colorato. 03. Pianta del Red Zone con il disegno della mostra. 04. Il reticolo tracciato sulle lastre di ferro del pavimento. 05. Cubo in resina della serie Microcosmo esposto a parete nel bar.

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Con un semplice evidenziatore bianco, Lucia Amalia Maggio traccia sul pavimento di ferro arrugginito del Red Zone art bar, a San Giorgio di Valpolicella, due reticoli a sedici rose dei venti: la “Mappa Pisana”, una delle prime mappe navali del XIII secolo, uno strumento per l’ orientamento. Con questa tecnica, i cartografi riuscivano a interpretare lo spazio attraverso una griglia di riferimento, che a loro volta i marinai

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volta usavano per orientarsi con l’aiuto della bussola anche in assenza di visibilità, durante la navigazione notturna o nelle tratte di mare aperto: un punto di passaggio tra la conoscenza empirica del mondo e la conoscenza mediata da strumenti e sistemi di pensiero. Qui ora non ci interessa approfondire il tema di questo tracciato o coglierne le valenze sociali come espresso dalle parole dell’artista:

“l’installazione intende puntare l’attenzione sulla funzione che questo luogo ha sempre avuto di aggregatore sociale e spazio deputato agli scambi relazionali e materiali, prima come cooperativa sociale e poi come bar e luogo deputato all’organizzazione di attività culturali”. Qui ora si vuole far conoscere una maniera nuova, diversa e antica di mostrare l’arte: non più o non solo opere appese alle pareti, ma opere che interagiscono con gli

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elementi dell’interno architettonico. Il progetto di Loretta Sacconelli per il restyling architettonico del Red Zone (2006/12) lavorava con il ferro ruggine come cardine del rapporto con la pietrosità del borgo della Valpolicella: un principio semperiano, pietra versus ferro. Il progetto si inseriva senza mediazioni in rapporto con l’antico (la pietra) attraverso l’utilizzo di un unico materiale – il ferro – per i pavimenti


Collezione Privata 06. Column, Museo Polironiano di San Benedetto Po, 2013. 07. Projection nella gallery del Red Zone, illuminata da una lampada di Wood che cattura la fluorescenz dei filamenti. 08. Particolare di un cubo in resina della serie Microcosmo #1, #2, #3, #4, #5 nel bar di Red Zone. 09. Another day another life nell’ambito di “Sentieri nell’arte” nella valle del Tasso a Caprino, 2006. 10. Orientamento #1, sassi bianchi su tappeto erboso, Caprino 2014 11. Projection nell’allestimento alla galleria Monteoliveto di Nizza nel 2014.

e per gli arredi principali. L’opera di Lucia Amalia Maggio viene tracciata su questo pavimento: le due rose dei venti invadono ovunque lo spazio del bar e della room, anche il corridoio subisce il medesimo trattamento. Il miniaturismo viene accentuato dal rapporto cromatico tra il bianco e il brunito, la forza del disegno geometrico si ferma solo di fronte ai vincoli fisici (murature esterne, banconi...). Arte, Arredamento, Architettura: tutto diventa magnifico, unico. Non è più importante quale divano o lampada mettere, quale tavolino predisporre: indispensabile la

tracciatura bianca, l’incrocio stellato che crea Meraviglia in senso rinascimentale. Anche il materiale utilizzato sembra aderire a nuove indagini sulle relazioni dei principi semperiani. Alle pareti della room vengono realizzati i Reticoli in filo di cotone colorato; “i colori scelti sono i primari giallo, rosso e blu a cui si aggiunge il nero. Il disegno si realizza con un unico filo senza interruzioni e va a congiungere, senza mai ripetere due volte lo stesso passaggio, tutti i sedici punti del reticolo. Tutto è collegato, ogni cosa è connessa”. Alle pareti del bar viene appesa la serie Microcosmo #1, #2, #3, #4, #5,

dei cubi in resina con intrusioni in filo di seta, e Reticolo #1, un pannello in resina con intrusioni in filo di seta. In un’altra sala espositiva il secondo potente lavoro di Lucia Amalia Maggio, Projection, opera già esposta alla galleria Monteoliveto di Nizza nel 2014 (fig.10), viene qui adattata alle condizioni del luogo – assenza di luce naturale – con l’utilizzo di una lampada di Wood che cattura la fluorescenza dei filamenti. “Sette strutture in filo da pesca, di forma conica rovesciata, ripropongono il disegno dell’Orsa Minore, orientata secondo l’effettiva posizione della Stella Polare. Ogni cono sviluppa la sua struttura tridimensionale partendo dall’immagine bidimensionale del reticolo a sedici rose dei venti, in cui ogni punto è necessariamente collegato a tutti gli altri”. Leggerezza, trasparenza, geometria, precisione, stupore e meraviglia accompagnano questa ricerca

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sull’asse zenitale; come nell’opera Column, la prima della serie, esposta nel 2013 al Museo Polironiano di San Benedetto Po che duplica il cono intersecandolo e dando vita “all’idea di colonna come elemento portante di un’architettura, e al tronco degli alberi con la loro portanza simbolica di axis mundi”. Lo stesso disegno, la rosa dei venti, intrusa nella resina, giustapposta con il filo di seta alle pareti, tracciata sui pavimenti di un interno ma anche in un esterno (Orientamento #1, sassi bianchi su tappeto erboso, Caprino 2014) e infine esplosa sull’asse Z, racconta di una maniera nuova, diversa, antica di porsi. Nella reiterazione del segno c’è una minaccia per il mondo moderno della replica, della serie, Bauhaus o Pop americano, che ancora viviamo; un’indagine rigorosa che permette nel suo svolgimento di manifestarsi con grande vigore e forza, con effetti meravigliosi che avvicinano l’uomo alla spiritualità. Per concludere. un ritorno all’origine di questo percorso espositivo conv l’opera Another day another life esposta durante “Sentieri nell’arte”

nella valle del Tasso a Caprino nel 2006, che mi ha fatto conoscere e apprezzare il lavoro di Lucia Amalia Maggio ai suoi esordi: “l’opera riflette su uno dei concetti più antichi relativi al mondo naturale: l’acqua come fonte di vita. In una vasca per la raccolta dell’acqua piovana viene posizionata l’immagine di una foto; realizzata su pellicola trasparente si integra perfettamente con la sostanza su cui galleggia, seguendola nelle variazioni di livello, si lascia compenetrare da alghe e muschi diventando, a distanza di qualche mese, parte integrante del luogo e dell’ambiente naturale”.

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lucia amalia maggio Nata a San Bonifacio nel 1974, inizia a 24 anni la sua formazione artistica, prima all’Accademia di Belle Arti di Verona e poi al ClasAV di Venezia. Convinta che ogni campo del sapere sia parte fondamentale nel processo di creazione di un’opera, coltiva il suo aggiornamento attraverso corsi, workshop e collaborazioni. Fra le principali esposizioni: systèmes d’orientation dans le voyage, personale, Galleria Monteoliveto, Nizza; SetUp Art Fair, A piedi nudi per casa, Bologna; Premio ORA, personale, Spazio Blue, Bologna; Premio Basi–Water Tribe, Cassero Senese, Grosseto; Museo2008. Vive e lavora a Verona.

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A proposito dell’imponente progetto di rinnovo dell’infrastruttura fognaria del lago di Garda come potenziale occasione di recupero paesaggistico

Testo: Federica Guerra

Foto: Lorenzo Linthout

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Quando a metà degli anni ‘50 il fenomeno del turismo di massa esplode su Garda, già tappa dei Grand Tour ottocenteschi, le comunità locali, gli amministratori e gli operatori intuiscono fin da subito che l’integrità del bacino è la premessa indispensabile perché il lago, oltre che patrimonio paesaggistico comune, diventi anche risorsa economica. Fin dal 1955 si attiva un “Comitato permanente di coordinamento” dei comuni che appartengono alle tre province affacciate sul lago, comitato che nel 1972 si trasforma in “Comunità del Garda” da cui poi, nel 1975, ha origine il “Consorzio della Riviera Veronese del Garda”: la finalità è quella di predisporre un piano di interventi mirati alla bonifica del bacino gardesano, cioè alla realizzazione di un collettore fognario e un impianto di depurazione che garantiscano un miglioramento della qualità dell’acqua, compromessa dalla crescente affluenza turistica. Nel 1974 viene presentato il primo progetto di massima per il collettore del Garda, e l’opera viene subito ribattezzata, sui giornali nazionali, come “il più grande progetto di depurazione mai tentato in Europa”. I progetti si susseguono negli anni, le soluzioni alternative si moltiplicano, passando attraverso numerosi cambi di progettisti e lunghe peripezie burocratiche, che degenerano in una spaventosa lievitazione dei prezzi. Per portare a termine un‘opera che fin da subito suscita grandi entusiasmi, qualche protesta e molti sospetti, occorreranno 119 km di tubazioni, 16 anni di lavori e 250 miliardi di lire di allora. Si scoprono abusi e mazzette, partono i processi e i ricorsi, mentre i cantieri proseguono lungo tutti gli anni ’70 e ’80 per non arrivare mai a un termine definitivo: ancora nel

1997 si stavano eseguendo lavori di impermeabilizzazione di alcuni tratti di condotte. Tuttavia, con l’entrata in funzione a metà degli anni ‘80 del depuratore di Peschiera, quasi tutti i comuni gardesani risultano allacciati alla rete interprovinciale; resta esclusa l’estrema propaggine trentina, che tradizionalmente fa storia a sé. L’opera realizzata ha previsto una conduttura per acque miste – nere e bianche meteoriche – suddivisa in quattro rami: il primo, partendo da Malcesine, raccoglie i reflui dell’alto Garda veronese fino alla stazione di pompaggio di Brancolino, tra Torri e Punta San Vigilio, Il secondo ramo di conduttura raccoglie i reflui dell’alto Garda bresciano, da Gargnano a Toscolano, e in condotta sublacuale attraversa il lago e si innesta a Brancolino per dirigersi da qui, attraverso il terzo ramo del basso veronese, al depuratore centralizzato di Peschiera. Lo stesso depuratore raccoglie poi anche un quarto ramo che corre nel basso lago bresciano da Manerba a Peschiera. La scelta politica di quegli anni fu di lasciare ampi margini di discrezionalità a ciascun comune, adattando il tracciato dell’infrastruttura alle diverse esigenze urbanistiche e – soprattutto – economiche locali. Questo comportò criteri di costruzione difformi per ogni singolo tratto, ma soprattutto permise alle singole amministrazioni di intervenire sull’andamento del litorale utilizzando terreni demaniali per opere altrimenti interdette dagli organismi di controllo, e che qui vennero giustificate con la necessità di realizzare questa grande opera non più differibile, vista l’urgenza di salvaguardia delle acque, delle falde e della salubrità dei luoghi. Di fatto la realizzazione del

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Data: Ottobre 2012

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Data: Settembre 2014

El.

II047R – PPRT01 Relazione illustrativa

01. Un manufatto cementizio

collettore stravolse completamente con tanto di svettante la conformazione del bordo lacustre, tombino, su una riva del basso Garda sia con manufatti tecnici (scaricatori 02. Schema progettuale reladi piena,Ilpompe di sollevamento) che collettore basso lago sarà perciò destinato a trasportare solamente la portata rac tivo al progetto di vennerocolta a invadere le spiagge, e in alimplementazione da Garda verso valle, senza essere cimentatodel dalle portate dell’alto lago ch collettore del Garda cuni casiinvece ne crearono di nuove,immesse sia con nel collettore oggi vengono del basso lago a Cisano. (fonte: AGS). la realizzazione di una “passeggiata a Il dimensionamento tubazioni del basso lago può dunque prescindere dall lago” realizzata per coprire delle le tubaportata proveniente dall’alto zioni a bordo acqua, che nulla aveva alago. che fareLo conschema l’andamento consolidato dell’intervento di progetto è mostrato nella successiva Figura 3.2. delle rive.

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Figura 3.2 - Schema idraulico dello Scenario 1 di progetto (a regime)

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03. La stazione di pompaggio in località Brancolino, Torri del Benaco, in corrispondenza della attuale condotta sublacuale 04. Spiaggie e tombini: un binomio indissolubile? 05. Sezioni tipo di progetto del nuovo collettore nelle tratte del basso lago.

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Da allora di acqua (e altro) ne è passata dentro quei tubi, e oggi il sistema presenta alcune criticità gravi rispetto a un territorio delicatissimo dal punto di vista ambientale e paesaggistico. Il quadro di riferimento che aveva fatto da sfondo all’esigenza di dotarsi di questa grande infrastruttura è nel frattempo cambiato, le scelte allora condivise si sono rivelate inadeguate e il quadro normativo è mutato in senso restrittivo. Le criticità più evidenti sono di natura tecnico-idraulica, e il progetto preliminare del 2014 di “riqualificazione del sistema di raccolta dei reflui nel bacino del lago di Garda” commissionato da AGS s.p.a. (subentrata nel 1995 al Consorzio) e redatto da Technital, le valuta in modo approfondito, analizzando ipotesi alternative di fattibilità. È evidente come la più urgen-

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te delle criticità riguardi le condotte sublacuali, che unanimemente vengono definite “bombe ad orologeria”: la vetustà dei materiali e la scarsa capacità di tenuta dei giunti potrebbero provocare rotture che riverserebbero nel lago quantità consistenti di inquinanti. Ma anche la presenza, all’interno delle tubazioni dei tratti ripariali, delle cosiddette “acque parassite”, cioè delle acque di falda e di lago che vanno ad aggravare la portata della tubazione, rappresenta un problema non solo per il funzionamento generale della rete, ma anche per il consistente aggravio sul depuratore di Peschiera. Ancora, a causa dell’ingombro del collettore, i torrenti che scendono dalle pendici del Baldo presentano un’evidente compromissione della loro sezione idraulica, un restringimento dell’alveo a valle con un’alterazione del deflusso naturale delle acque verso il lago. Questa situazione provoca dissesti al bacino idrogeologico di non scarsa gravità. A questi e a molti altri problemi accuratamente rilevati, il progetto risponde con soluzioni più o meno condivisibili, sicuramente valutabili in termini tecnici, descritte attraverso diversi scenari realizzativi e stralci funzionali che potranno realizzarsi a breve-medio-lungo termine e che, realisticamente, prevedono tempi molto lunghi per vedere completata l’opera. Si va dall’eliminazione delle condotte sublacuali, alla realizzazione, alternativa a queste, di una nuova linea sotto la sede stradale della Gardesana Orientale, con idonei manufatti, dalla realizzazione di un nuovo depuratore a servizio della sponda bresciana, a Visano, alla revisione, infine, del depuratore di Peschiera. Il progetto è attualmente all’attenzione del dibattito politico e am-

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SR249

ore principale di progetto

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mettere mano a quanto di “sconcio” è stato perpetrato ai danni di questo territorio. Nel progetto AGS, tutta la parte esistente di condotte attualmente in uso dovrà rimanere inalterata e riconvertita, e non poteva essere altrimenti: inutile ipotizzare “rinaturalizzazioni” di un paesaggio comunque artefatto, frutto della secolare azione antropica. Proprio per questo, tuttavia, si potrebbe pensare all’enorme opportunità offerta di ripensare a tutta la riva del lago in maniera orga-

ttore esistente per acque bianche

lago

ministrativo, con l’obiettivo di reperire le ingenti risorse necessarie (si tratta di un importo totale dei lavori previsti di 220 milioni di euro). Rispetto alla puntualità con cui vengono messe in luce, in tale progetto, le emergenze e le contromisure tecniche da adottare, emerge tuttavia una carenza di fondo assolutamente rilevante: in questo faraonico impiego di energie non emerge mai una valutazione ambientale dello stato di fatto dei luoghi che vada oltre le criticità tecnico-idrauliche rilevate, non emerge la stima del prezzo pagato da questo territorio per la realizzazione irrispettosa di un’opera che, partita con nobili intenti, lo ha in realtà sfregiato irrimediabilmente. Percorrendo la riva del lago così come oggi appare, non possiamo che rilevare un senso di malessere per lo stato in cui versano i luoghi. E, si badi bene, non si tratta solo di un problema di cattiva manutenzione: il turbamento nasce dal manifestarsi di processi decisionali disorganici che si sono sviluppati per rispondere a emergenze contingenti, e che non hanno mai avuto come obiettivo una coerente progettazione del tema del “bordo lacuale”. Ecco allora che i termini che meglio sembrano descrivere questo territorio, le categorie che lo rappresentano sono casualitàanarchia e compressione-negazione: una grande confusione di segni, racchiusi in uno spazio troppo limitato, nel quale la presenza del lago risulta spesso negata. In considerazione dell’importante intervento di progettazione del nuovo collettore, perché non ipotizzare, allora, che l’infrastruttura possa essere anche un’occasione di recupero paesaggistico? Un pretesto, quello delle nuove condotte fognarie, per

Figura 1.12 - Schema tipo di allacciamento al collettore principale dei collettori secondari sulla strada alzaia

Figura 1.11 - Sezione tipo di posa del collettore principale sulla strada SR 249

« Perché non ipotizzare, con la progettazione del nuovo collettore, che l’infrastruttura possa essere anche un’occasione di recupero paesaggistico? »

1.8.5. Rami secondari di progetto Come precedentemente accennato, potrebbe talora presentarsi il caso in cui alcune utenze si trovino ad ovest della strada, ossia nella fascia compresa tra strada e lago. Tali utenze, spesso si trovano a quote più basse della strada sicché esse richiederebbero ciascuno un sollevamento di utenza. In questi casi si è previsto di realizzare dei rami secondari di nuova costruzione lungo o nei pressi dell’asse del collettore attuale ma con tubazioni in ghisa di piccolo diametro (quindi, ancorché disposte a quote prossime a quelle del lago, in gettare gli verdi pensando alle più vasta di scelte fondamentali, la tedi resistere alle pressioni esterne evitando rami Figuragrado 1.13 spazi - Sezione tipo di posa dei collettori secondari sulla infiltrazioni). strada alzaia, aTali bordo lagosecondari la raccoltanel a gravità d’utenza prospicienti il lago e appunconfluivarietà garantiranno vegetali originarie rispet-dei reflui matizzazione di un progetto, ranno piccoli sollevamenti secondari refluivisione nel collettore to anche di inuna tradizione botanito,che cheimmetteranno necessita dii una ampia principale a gravità disposto in strada a quote più elevate (Cfr. Figura 1.12 e Figuca. Ancora, la questione della segnae univoca. Ecco allora che l’unitariera 1.13). 05

nica, proprio grazie all’unitarietà del progetto di infrastruttura e all’interno di questo, provando a tipizzare situazioni ricorrenti e a strutturare soluzioni sistematiche, andando oltre la frammentazione campanilistica. Si tratta insomma di tematizzare lo spazio della riva come “confine”, come spazio limite e territorio marginale (non nel senso di periferico): indipendentemente da ciò che delimitano, i confini sono categorie che rendono pensabile il territorio, possono spostarsi, dilatarsi o contrarsi ma rappresentano una fondamentale idea di ordine. Ed è solo all’interno di questa idea generale che possono trovare posto varie questioni. La questione del verde, che appare oggi di grande attualità: non solo pensare alla manutenzione di un patrimonio esistente di assoluta rarità, ma soprattutto pro-

letica: provare a mettere in atto una tà dell’infrastruttura cui agganciare I diametri di tali rami sono spesso molto contenuti (DN200) e la loro posa dunque grande appare operazione sottrazione oltre ai problemi molto di agevole pur negli angustiuna spazisoluzione che spessopeculiare sono disponibili in battiche di regolamentazione e selezione. della riva del lago prende coerengia o in sponda di lago. E ancora, il tema del trattamento del- za. In questa logica sta l’ipotesi della le superfici orizzontali: prendere de- stesura di un abaco o palinsesto decisioni univoche in modo tale che ad gli interventi, delle “linee guida” alle ogni funzione (passeggiata pedonale, azioni di amministrazioni e operatori, pista ciclabile o spiaggia) possa corri- un’occasione offerta alla riva del lago spondere un’unica soluzione in tema per uscire dalle categorie descrittidi scelta di materiali. Infine, la com- ve di cui parlavamo: casualità-anarplessa questione dell’arredo urbano: chia e compressione-negazione versus abbandonare la logica del tipo “alle- ordine-dilatazione-affermazione. stimento”, per abbracciare quella delBasterebbe ricordare che l’unila funzionalità (lungo la riva del lago ca opera coerente della riva lacustre sono quasi totalmente assenti i ser- è proprio la strada Gardesana, opevizi igienici!) e quella di un’adeguata ra monumentale di epoca fascista, ma efficienza. tutt’oggi di grande riconoscibilità proMa tutte queste questioni non prio per la sua unitarietà, generatrice possono che rientrare in una logica di un chiaro ordine territoriale.

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Compressione vs programmazione

Una riflessione paesaggistica relativa alle sponde dell’alto Garda a partire dalle problematiche infrastrutturali fino al paventato destino dei cipressi Testo: Fabio Pasqualini

Immagini: Michele Adami

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L’alto Garda veronese risulta ormai, da diversi anni, in una situazione di progressivo soffocamento principalmente a causa dell’incremento della popolazione nella stagione turistica, analizzabile su due comuni di riferimento: Brenzone, che passa da circa 2.500 abitanti residenti a un incremento potenziale di ulteriori 4.500 posti letto nelle strutture ricettive, con un aumento della popolazione del 180% e Torri del Benaco che, di contro, passa da circa 2.800 abitanti residenti a 3.300, con un incremento del 120%. A questi dati vanno aggiunte le seconde case e il turismo pendolare proveniente dalla città, che ancor di più aumenta il carico di persone e mezzi, specialmente durante i fine settimana. La diminuita capacità economica di agricoltura e allevamenti ha portato alla conversione dei territori e delle colture dalle attività primarie al turismo, che è ora la principale fonte di ricchezza. L’offerta turistica sta sempre più modificandosi e rendendosi articolata, a seguito della richiesta sempre maggiore di attività aggiuntive rispetto a quelle balneari – sentieri per il trekking, piste ciclabili, aree per bambini, etc. – e i comuni stanno cercando di assecondare tali richieste. Per queste ragioni, l’alto lago vive una frustrazione territoriale e di offerta turistica che si catalizza

in una compressione sempre più forte: la sola via di comunicazione ha quasi cent’anni e, pensata per una realtà nemmeno lontanamente paragonabile a quella attuale, vede gli spazi fisici ridursi anno dopo anno, fino quasi a dare la sensazione di una imminente implosione. La sequenza tra acqua, spiaggia, collettore, pista ciclabile, strada, sottoservizi, marciapiedi, edifici e monte Baldo si unisce in una linea unica – la strada –, il collegamento nord-sud che non si relaziona con il paesaggio, ma che separa il “di là” con il “di qua”. Auto, camper, ciclisti, pedoni, materassini, turisti e abitanti locali si sovrappongono e si scontrano spesso fisicamente. Un naturale rapporto est-ovest, montagna-lago, ospiti-acqua viene impedito dalla linea della strada, principale elemento di rottu-

ra e di separazione: sembra non ci si interroghi sul tipo di turismo che si vuole proporre, e a come alleggerire la pressione che si accumula sui servizi a ridosso della strada. Due progetti di cui molto si è parlato, e si parlerà ancora, la costruzione di una ciclopista Limone-Riva del Garda-Malcesine-Brenzone e il nuovo collettore fognario, delineano

l’opportunità di considerare, a partire dall’idea di offerta turistica, la revisione di tutta la viabilità gardesana Si tratterebbe di unire gli sforzi pensando al nuovo collettore, a quello vecchio, che sarà usato per le acque bianche, alla pista ciclabile e alla strada in un approccio olistico certamente non più oneroso, un piano organico interdisciplinare che partendo da

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un’idea concordata di sviluppo realizzi una serie di opere, anche a stralci, che permettano il suo realizzarsi. Com’è possibile parlare del collettore senza entrare nel merito della viabilità? O della sistemazione delle rive senza parlare di ciò che sarà delle opere dismesse del vecchio collettore? O della nuova ciclabile e del suo rapporto con la strada? Non è fantascienza pensare in termini di visione d’insieme, anche se ci verrà detto che

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01-04. Provocazioni visive di Michele Adami: Gardasee Doppelgänger.

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il problema che si pone a cardine di tutto sono i soldi, i patti di stabilità e i bilanci. E questo è evidentemente imprescindibile, ma avere un idea organica da realizzare in prospettiva futura a stralci, questo è possibile. Un parallelo significativo sono i cipressi (Cupressus sempervirens), quasi tutti malati, sulle rive del lago di Garda, il cui destino somiglia al destino del lago stesso. Pochi trattamenti fitosanitari dal costo limitato, fatti per tempo qualche stagione fa, avrebbero potuto salvarli. Se ora si tarda ancora a fare questi trattamenti, si dovrà a breve estirparli quasi tutti, con un costo certamente non paragonabile, senza parlare del danno paesaggistico e di immagine. A breve le cartoline dal lago – e ciò vale per tutti i comuni – saranno diverse. Bastava una visione interdisciplinare, spendere quanto è giusto oggi (e non quanto abbiamo a dispo-

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sizione) per risparmiare domani. Che fare dunque ora? Sognare, almeno quello è gratis, e ci porta a ragionare su uno studio della viabilità che, anche in galleria, potrebbe creare anelli a senso unico e liberare una corsia sulla statale, a trenini elettrici, a incentivare ulteriormente il trasporto pubblico anche via acqua, a provare a fare scelte coraggiose supportate da uno studio generale e da una visione più moderna e rispettosa del paesaggio. O pensare a non aggiungere ulteriori posti letto e nuove costruzioni sull’intera sponda e nell’entroterra collinare. La pressione antropica non è più sostenibile nei mesi estivi, e non è certo quella degli anni Trenta, quando fu costruita la strada. Ora è necessario pensare con nuove visioni. Intanto il prossimo anno taglieranno i cipressi... un po’ di spazio si libera.

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La madre di tutti i cantieri

Fervono i lavori dei nuovi interventi, a Borgo Trento e a Borgo Roma, per le architetture sanitarie della cittĂ

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Testo: Luisella Zeri e Alberto Vignolo Foto: Lorenzo Linthout

Autunno 2015, via Mameli: gru svettanti e un gran movimento di mezzi, materiali e operai al lavoro. Non c’è bisogno di molte tabelle e classifiche per capire che un cantiere per un’opera da 120 milioni di euro sia uno dei più rilevanti, se non il principale, di quelli attualmente in corso a Verona. Si tratta in realtà di un progetto riguardante entrambi gli ospedali cittadini e articolato su due poli: a Borgo Trento con la realizzazione del futuro Ospedale della Donna e del Bambino, in adiacenza con il recente Polo Chirurgico (cfr. «AV» 87, pp. 92-97), e a Borgo Roma con la costruzione di un nuovo blocco che consentirà la successiva riorganizzazione complessiva del Policlinico. I nuovi interventi, promossi dall’Azienda Ospedaliera Universitaria

« I due progetti vanno in direzione di un complessivo riassetto delle funzioni sanitarie, definendo specifiche mission per i due centri cittadini: Borgo Roma ospedale per il territorio, Borgo Trento polo chirurgico specialistico » Integrata di Verona – l’ente che riunisce la gestione delle strutture sanitarie della città e la formazione dei nuovi medici - perseguono l’obiettivo di adeguare i servizi ospedalieri alle evolute esigenze dei malati e della ricerca medica. Se negli anni ‘50 il modello organizzativo era quello della divisione, a cui corrispondeva dal punto di vista architettonico il padiglione (come Borgo Trento), il passaggio successivo ha visto affermarsi il monoblocco (Borgo Roma), in funzione di una integrazione per discipline. Il modello attuale prevede invece un ospedale fatto di ospedali, rovesciando il rapporto tra spazi per i servizi (un terzo) e degenze (due terzi) fino all’attuale un terzo degenze-due terzi servizi. Au-

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mentano infatti i casi trattati con un servizio solamente diurno, più conveniente dal punto di vista economico e del servizio offerto. A tali principi sono ispirati gli interventi attualmente in corso, riorganizzando tutti i reparti dedicati alla prima infanzia e alla cura delle patologie legate alla sfera femminile in una nuova struttura con 231 posti letto a Borgo Trento, mentre a Borgo Roma viene realizzata l’Outpatient clinic, un centro ambulatoriale specialistico con 227 posti letto organizzati in sette moduli di Day Service. Entrambi i progetti si pongono in un ottica di massima trasformabilità degli spazi e dei layout, in vista di un complessivo riassetto delle funzioni sanitarie definendo specifiche mission per i due centri cittadini: Borgo Roma ospedale per il ter-

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01. Il cantiere dell’Ospedale della Donna e del Bambino dal lato di via Mameli. 02-03. Simulazioni tridimensionali del progetto per Borgo Trento. 04. Ospedale della Donna e del Bambino, uno scorcio dall’interno del cantiere del blocco degli ambulatori.

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ritorio, Borgo Trento polo chirurgico specialistico. L’intera operazione è l’esito di una gara promossa con il sistema del Project Financing, aggiudicato a un consorzio di imprese a cui faceva carico anche la progettazione architettonica, elaborata dallo Studio Altieri di Thiene, già presente nel team progettuale capitanato da GMP per il Polo Chirurgico. Quando l’ospedale entrerà in funzione, al concessionario del Project verrà affidata per diciannove anni la fornitura dei servizi economali e la gestione dei locali commerciali all’interno delle strutture. È proprio in funzione dell’attivazione di questi servizi e della riscossione dei canoni per il rientro delle spese sostenute (il privato ha messo di tasca propria 57 dei 120 milioni di euro complessivi), che le operazioni

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05. Partizioni interne e impianti ai piani inferiori del blocco ambulatoriale in costruzione. 06. Montaggio degli elementi di facciata sul lato prospiciente il Polo Chirurgico. 07. Il maestoso pilastro d’angolo in cemento armato in corrispondenza del piano pubblico dove sorgeranno i futuri spazi commerciali. 08. Planimetrie e sezioni tipo delle stanze di degenza. 09. Planimetria di progetto del nuovo Ospedale della Donna e del Bambino: il piano pubblico con l’attraversamento da via Mameli al Polo chirurgico.

la demolizione della vecchia maternità

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presso i due cantieri procedono speditamente, con termine di fine lavori prefissato a marzo 2017. In questa complessa vicenda organizzativa e finanziaria, l’architettura deve farsi largo e trovare le proprie ragioni. A Borgo Trento, la progettazione dello studio Altieri porta quasi naturalmente a una continuità e assonanza morfologica con il contermine Polo Chirurgico. L’Ospedale della Donna e del Bambino è impostato su due blocchi, uno destinato alle attività ambulatoriali diurne e uno alle degenze. I livelli sono complanari a quelli del Polo, e le destinazioni funzionali trovano una corrispondenza che fa intuire la coralità di intenti entro la quale il progetto del 2000 è collegato a quello odierno. Il pronto soccorso infantile è posto alla medesima quota di quello attuale con accesso dal lungadige. Allo stesso livello sono poste le sale operatorie e le radiologie, che verranno utilizzate in comune tra le due strutture. Ancora più sopra, in continuità con l’attuale

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piazza coperta del Polo, viene previsto il percorso di connessione attraverso il quale pazienti e visitatori potranno recarsi da una struttura all’altra, tramite l’accesso pedonale su via Mameli. A questa quota trovano spazio i locali commerciali e di servizio, mentre la viabilità è stata completamente ristudiata, con un piazzale ribassato alla quota del pronto soccorso e collegato da un percorso riservato alle emergenze. La tipologia delle stanze di degenza sarà analoga a quella del Polo chirurgico. Attualmente, l’evoluzione del cantiere vede al lavoro gli operai in funzione della parte strutturale. Si procede progressivamente di piano in piano, alternando la messa in opera di armature e getti fra un blocco e l’altro. Addentrandosi nello scheletro dell’edificio, nei piani inferiori è già in fase avanzata la disposizione delle tramezze in cartongesso e la posa di cavidotti e tubazioni in quanto, al fine di un netto abbattimento delle tempistiche, è stata posta in opera una

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Marzo 2014: dal profilo frastagliato dell’Ospedale Maggiore inizia a scomparire, in una nuvola di polvere e detriti, l’edificio in cui erano accolti gli spazi della vecchia maternità. Alcuni momenti di questa fragorosa fase propedeutica alla costruzione del nuovo ospedale negli scatti di Lorenzo Linthout. guarda la gallery fotografica su: www.architettiveronaweb.it/?p=3302


CANTIERI

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guaina intermedia alla quota del piano pubblico. A Borgo Roma, il progetto prevede la costruzione di un nuovo corpo prospiciente la struttura esistente, da destinare alle già descritte attività di Day Service ma anche finalizzato all’ottimizzazione del sistema dei percorsi. La conformazione ad H della struttura attuale costringe personale e visitatori a lunghi attraversamenti per spostarsi da un’estremità all’altra dell’edificio. Il nuovo ampliamento permette invece di costituire un sistema circolatorio imperniato su due nuovi collegamenti verticali in aggiunta agli esistenti, dedicando un anello esterno al pubblico e uno interno al solo personale sanitario. Ai piani bassi dell’ampliamento sarà posto il nuovo ingresso all’ospedale, con due livelli di attività commerciali e di servizio (mensa per il personale, studenti e vi-

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2015 #03


sitatori). A completamento di questa operazione è previsto un periodo di diciassette mesi in cui verrà realizzata una delicata serie di lavori “a cuore aperto” per la ristrutturazione, dell’attuale ospedale. Mentre a Borgo Trento i lavori di innalzamento della struttura non sono ancora completati, la sagoma di Borgo Roma svetta nella sua totalità, anzi, sul prospetto principale sono già visibili le strutture di sostegno della facciata continua in acciaio e vetro che verrà realizzata con un particolare disegno a grandi bugne. Il completamento delle operazioni di ristrutturazione del patrimonio edilizio dell’Azienda Ospedaliera è previsto per il 2019, comprendendo come ulteriore capitolo la completa dismissione dell’ormai obsoleto edificio del Geriatrico. Si apre così un ulteriore interrogativo che ci ricollega a un dibattito che affonda le sue radici negli albori di questa rivista, sul rapporto fra l’ospedale, le sue strutture architettoniche, la città e il paesaggio urbano. Risale infatti a un intervento di Luigi Calcagni sul primo numero di Architetti Verona del 1959 la riflessione su un tema che va al di là delle scelte progettuali legate alle esigenze sanitarie. L’ospedale di Borgo Trento sorge infatti in un quartiere, che di fronte a operazioni come quelle a cui è soggetto, ri-

chiede un attento studio volto ad affrontare l’evoluzione urbana e le esigenze del contesto. In questo senso gli interventi su «AV» hanno sempre evidenziato la mancanza di un disegno urbanistico, ancor prima che progettuale, atto a dare risposta alla relazione fra complesso ospedaliero e quartiere. Il progetto del Polo chirurgico era stato impostato in origine anche in funzione di tali obiettivi. Lo spazio intercluso fra Polo, Maternità e Geriatrico, per esempio, pensato come giardino romantico, è ora utilizzato come parcheggio, sacrificando l’approfondito progetto dello studio Land dedicato agli spazi di diradamento che avrebbero dovuto collegare il fronte di piazzale Stefani con il Polo, ma soprattutto avrebbe potuto in qualche modo aprire la vita del quartiere a ciò che sino ad oggi è stato dentro il confine dell’istituto ospedaliero. La coperta è corta, direbbe qualcuno. Cosa ne sarà della palazzina dismessa del geriatrico? Riutilizzo, demolizione? E in entrambi i casi che ruolo giocherà l’area, aprendo nuovi orizzonti architettonico/realizzativi, dal punto di vista urbanistico e dell’integrazione fra cittadino/quartiere e realtà ospedaliera? Forse è ancora troppo presto per aspirare ad una risposta, ai posteri – e a una prossima, immancabile puntata su «AV» – l’ardua sentenza.

project financing per l’ampliamento e ristrutturazione del Policlinico di Borgo Roma e la realizzazione dell’Ospedale della donna e del bambino a Borgo Trento, Verona RESPOSABILE UNICO DEL PROCEDIMENTO arch. Flavio Murarolli Coordinamento generale della progettazione arch. Alberto Altieri (Studio Altieri) progettazione strutturale ing. Davide Sganzerla (Contec ingegneria) direzione lavori ing. Giorgio Finotti direzione artistica arch. Giovanna Mar sicurezza ing. Massimo Tura: CSP per. ind. Paolo Sette (Manens-Tifs): CSE concessionario Arena Sanità S.p.A., Carpi (MO)

10. Simulazione tridimensionale del progetto per Borgo Roma. 11. Schemi planimetrici dell’ampliamento a livello dei piani pubblici di accesso. 12. L’interno del cantiere alla quota del piano impiantistico a doppia altezza. 13. Percorsi distributivi interni in fase di allestimento di impianti e finiture. 14. Vista generale esterna del cantiere al Policlinico di Borgo Roma.

14

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{DIVERSEARCHITETTURE}

Stile nel Giardino

Al Giardino Giusti, uno spazio che è atelier e studio creativo: una vision internazionale che permea uno dei luoghi simbolo della nostra città

Testo: Luisella Zeri

Foto: Lorenzo Linthout

Nome La Maison du Couturier Luogo VERONA via giardino giusti 2 Attività Atelier di moda e Flagship store Contatto www. lamaisonducouturier.eu

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2015 #03


Quanti mondi possono convivere dentro le

far nascere le proprie creazioni, trovando

quasi le stesse che abitano il processo

mura di Verona? Dieci, cento, mille spazi che

infine, nei locali attigui al parco, un

compositivo architettonico.

permettono di viaggiare da una parte all’altra

laboratorio e una rivendita. Lamberto Petri

del globo terrestre, stando fermi però nella

ha portato i propri progetti in una corte

progettista insieme a Petri dei lavori di

manciata di metri quadri che compongono

secondaria rispetto a quella principale

allestimento dell’Atelier, ha dato il via

un loft, un atelier o uno studio creativo.

su cui si apre il giardino, in un piccolo

a una stratta collaborazione stimolata

Generalmente tali luoghi sono protetti dalla

edificio dalle grandi aperture finestrate dove

dall’affinità di gusti e interessi. Gli

L’incontro con l’architetto Nicola Roberto,

nostra città come giardini segreti, la cui

trovano spazio il laboratorio e il flagship

scoperta è riservata a pochi infaticabili

store del marchio. Incredibilmente, la storia

volti al recupero di materiali e preesistenze,

che, scavalcando le vie del turismo mordi e

a cui queste mura assistono ogni giorno è

conservando quasi completamente l’aspetto

fuggi e dello struscio cittadino, si mettono

fortemente interconnessa con l’architettura.

decadente narrato dagli esterni. L’ingresso

alla ricerca di spazi con un messaggio da

In primo luogo perché, prima de La Maison

comunicare all’anima.

du Couturier, qui ha avuto sede per molto

Lo stilista Lamberto Petri, toscano di

interventi effettuati sono stati minimali e

tempo lo studio degli architetti Eleonora

nascita ma veronese d’adozione, ha installato

Masi e Marco Lucat, e secondariamente perché

nella nostra città la sede creativa del suo

le logiche di costruzione, decostruzione

marchio, La Maison du Couturier. A Verona,

e pensiero che sottendono la sartoria sono

in alcuni spazi attigui al giardino segreto per eccellenza, il Giardino Giusti, crea le collezioni raffinate e concettuali che con il suo nome girano il mondo. La storia di questo personaggio è come quella dei suoi abiti, per nulla convenzionale. La passione per la moda, portata dentro fin dall’infanzia affiancando la nonna sarta nel suo lavoro, diventa realtà quando i tre capispalla della sua prima capsule collection vengono realizzati da un laboratorio veronese ed esibiti in 02

maniera indipendente fuori dai portoni della

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fiera White di Milano. Per poter esporre all’interno, i soldi e gli agganci erano troppo pochi, ma il talento, che per fare il suo corso non necessita mai di spinte dall’alto, fa diventare realtà il sogno: buyers di diverse boutique internazionali si avvicendano ad osservare l’installazione, acquistandone i capi. La storia racconta poi degli showroom, del progetto Spiga 2 di Dolce & Gabbana, di boutique di primaria importanza e degli investitori, arrivando ad oggi e alle soddisfazioni di una professione in continua crescita e ricerca. La location al Giardino Giusti, che si è manifestata come la concretizzazione di un sogno, non è stata scelta a caso. Per molto tempo Petri ha cercato il luogo ideale dove

01. L’ingresso all’atelier durante l’esposizione “Foulard d’autore”. 02-03. I locali con gli abiti appesi ad essenziali strutture espositive. 04. Lo studio di Lamberto Petri con le grandi finestre che guardano sul giardino. 04

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{DIVERSEARCHITETTURE} è stato spostato all’inizio della successione di ambienti che compongono lo spazio, modificando la posizione originaria che era posta centralmente. Le pareti conservano un essenziale colore bianco, l’illuminazione è ottenuta tramite lampadine Edison che pendono dal soffitto, l’esposizione dei capi avviene attraverso alcune aste sospese con cavi e ganci. Nel laboratorio, situato nell’ultima stanza, un enorme tavolo, macchine da cucire, una libreria, imponenti rotoli di stoffa in trepidante attesa di essere trasformati in abiti e due finestre che guardano sul giardino, pronte a risucchiare verso l’interno l’ispirazione e la magia del luogo. Una menzione particolare va rivolta al bagno cieco a servizio dell’atelier. In un ottica di recupero e contenimento dei costi invece della demolizione e ricostruzione è stato pensato come una vera e propria installazione d’arte contemporanea pur mentendo la sua funzione, diventando così uno dei locali più fotografati dai visitatori del punto vendita. 06

Il resto è sartoria: i locali infatti sono arredati dai capi stessi, perché è su di essi che deve essere concentrato l’interesse di visitatori e acquirenti. Ma attenzione, non è detto che recandovi all’atelier possiate trovare gli spazi proprio come ve li abbiamo raccontati. Come le creazioni di Petri con un solo bottone si trasformano da

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abito a trench, anche i locali del negozio periodicamente vengono rimodulati con il 05

minimale spostamento di qualche oggetto, ospitando progetti portati

mani sapienti dello stilista per realizzare

avanti in autonomia o in collaborazione con

abiti, foulard e grandi pannelli decorativi

altri artisti e creativi. È il caso della

che hanno preso il posto dell’esposizione

mostra esposta ad agosto 2015 dal titolo

tradizionale. I progetti di Petri sono quindi

“Foulard d’autore”, dove le fotografie di

trasversali, spaziano dalla moda all’arte,

Pino Dal Gal, scattate proprio fra le siepi e le sculture del Giardino Giusti, sono state stampate su seta e utilizzate dalle

passando attraverso fotografia e architettura.

05, 08. Abiti e opere d’arte si fondono nella definizione degli spazi. 06-07. Gli esterni dell’edificio che accoglie La Maison du Couturier, posti in una corte laterale rispetto all’ingresso principale del Giardino Giusti. 09. Il bagno dell’atelier, una inconsueta installazione d’arte moderna. 10. Il laboratorio in attività.

Anche la collaborazione con Nicola Roberto continua e nel rispetto della trasversalità

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08

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nell’avventura delle

cuciture e vi ritornano sotto forma di idee

diversearchitetture.

e progetti con un potenziale moltiplicato.

L’atelier va oltre il

Tale plusvalore è dato dalla partecipazione

concetto di un luogo

collettiva. Lo spazio di lavoro quindi non è

utilizzato solamente

più concepito come un luogo identitario nel

per la rivendita

quale riconoscere solamente la personalità

di prodotti,

dello stilista, anzi, diventa territorio

proprio perché

neutrale per la condivisione di idee e

nell’immaginario

competenze finalizzate all’arricchimento del

dello stilista

singolo partecipante. La Maison du Couturier

del luogo e del progetto, La Maison du

l’edificio al Giardino Giusti è tutto tranne

diventa così la casa di tutti coloro che hanno

Couturier si dedica anche a consulenze di

che un negozio. Verona, toccata dal respiro

qualcosa di intelligente a cui dare forma.

interior design che hanno già visto vari

internazionale degli abiti e dalle loro

progetti realizzati. Nel 2016 è prevista

ispirazioni, diventa loft londinese, bottega

consegnandoci la propria perla di saggezza,

l’apertura di un ufficio nella parte est di

all’angolo del boulevard parigino, show

conferma anche questa volta che le

Londra, nell’area di Shoreditch, dove trovano

room nei mall di Dubai. È in queste parti

diversearchitetture hanno il potenziale per

luogo studi di architettura, design e moda.

del mondo che viene esportato il saper fare

cambiare il mondo: emergere da una crisi

Italiano di Lamberto Petri, ma è a Verona,

economica e culturale collettiva è possibile,

svela il vero mistero che avvolge i “giardini

luogo in cui tutto viene creato che vuole

attraverso la collettività del saper fare e

segreti” che punteggiano la nostra città e

essere rimesso in circolo. Gli abiti partono

pensare.

che stiamo scoprendo puntata dopo puntata

dalla nostra città come stoffa, bottoni e

Petri, accompagnandoci nel suo mondo ci

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— 83

L’atelier del Giardino Giusti,


102

Antonio Pasqualini a Borgo Trento

Verona

Antonio Pasqualini, nato a Verona il 23 aprile 1925, è stato rappresentante qualificato di una generazione di professionisti veronesi che hanno svolto la loro attività tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento e che hanno lasciato tracce importanti nel contesto edilizio cittadino e della provincia. Dopo la laurea in Architettura conseguita a Venezia nel 1956, la sua formazione proseguì presso l’EdilScuola di Verona con la frequenza del Corso per edili, dove imparò e prese confidenza ravvicinata con quella concretezza dei materiali che sarà la cifra della sua architettura. Dopo le iniziali collaborazioni con Italo Mutinelli e, per breve tempo, con Libero Cecchini, nel 1959 apre il proprio studio professionale: fin dai primi anni gli incarichi spaziano dalla partecipazione a progetti internazionali per la realizzazione degli inceneritori della SIET, a collaborazioni con l’ERSA (Ente Regionale Sviluppo Agricoltura del Friuli V.G.), dagli interventi di restauro a Verona alla realizzazione di ville signorili in luoghi di villeggiatura del veronese, dalla partecipazione a diversi concorsi (tra cui quello per le Scuole Medie V. Catullo, dove risultò secondo dopo il progetto vincitore di Cecchini) fino alla realizzazione, con l’ingegner Bruno Gentilini, del Ponte Unità d’Italia al Saval. Ma la sua architettura sempre nitida e schietta, fatta di muro e materia, si esprime appieno soprattutto nei molteplici esempi di residenza collettiva che egli realizza tra il 1960 e il 1974, anno della sua prematura scomparsa, e che documentiamo in questa rassegna. In queste architetture appare evidente come la forma comunichi (segue a p. 91) Testo: Federica Guerra

Foto: Lorenzo Linthout

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7 1 1960-65 LUNGADIGE MATTEOTTI

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Interessante complesso di edifici che formano un isolato tra via IV Novembre, via Isonzo e Lungadige Matteotti realizzato a partire dal 1962 in collaborazione con l’arch. G.Luciani, su un terreno della SEI, Società Elettrica Italiana. Risulta evidente come la griglia strutturale, che genera la geometria delle facciate, scandisca anche la suddivisione del complesso in corpi separati, mentre la doppia altezza del portico su via Isonzo evidenzia il punto di snodo tra i volumi dei diversi corpi di fabbrica. La parte basamentale, che alterna pieni e vuoti (portici, negozi e uffici), utilizza la pietra, accuratamente lavorata e in audace contrasto col calcestruzzo, per ricomporre l’unitarietà dell’intervento. Gli atrii di ingresso assumono caratteristiche trame geometriche dando luogo a spazi interni dall’atmosfera intima e quasi sacra.

5 4

3

2

1

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2 1966-70 VIA MONTE PASUBIO 5 Edificio realizzato intorno agli anni 1966– 1968, di cui vanno evidenziati gli elementi ricorrenti che troviamo nell’architettura di Antonio Pasqualini e cioè l’uso del mattone, il generoso sporto di gronda abbinato all’ultimo piano loggiato, quasi a bilanciarne le proporzioni, il sapiente studio della geometria dei prospetti, gli ampi balconi che danno respiro alla facciata.

3 1966-70 VIA PRATO SANTO 18 Forse una delle più interessanti ed esemplari realizzazioni di Antonio Pasqualini, l’edificio di via Prato Santo fu curato fin nei dettagli del corpo scala e dell’atrio, dove la lezione di Kahan si incarna nelle forme euclidee del cerchio e del rettangolo: la portineria e i “portali” interni trasmettono una monumentalità pura, fatta di massa muraria simbolica, sottolineata dall’uso di materiali rudi, come il calcestruzzo, il ferro, la pietra. Nei prospetti, la geometria gioca un ruolo fondamentale nelle campiture sfondate di mattoni e calcestruzzo trattato, alternate allo sporto degli ampi balconi, il tutto articolato all’interno di una griglia strutturale che sagoma l’invaso. Di grande maestria la fascia basamentale dove un ‘nastro’ di ferro disegna nel calcestruzzo una sagoma non astratta, ma che rimarca ancora la presenza della griglia strutturale.

4 1960-65 VIA GUERZONI 3 La bella palazzina realizzata nel 1963 al centro di un piccolo lotto residenziale, mette in risalto temi ricorrenti: il trattamento raffinato del calcestruzzo, soprattutto nei nodi di attacco trave-pilastro; la ricercata griglia strutturale, volutamente denudata e messa in rilievo; l’uso elegante del mattone faccia a vista che in questo, come in tutti gli edifici dell’arch. Pasqualini, non è rivestimento murario ma elemento strutturale portante. Ma particolare di questo edificio è l’ariosità della facciata che si apre in logge di diversa profondità, ampi balconi aggettanti, porte finestre binate, il tutto sotto il profondo sporto di gronde che racchiude e ricompone l’articolata facciata.

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1960-65 VIA ANZANI 11

1966-70 VIA DEI MILLE 5

L’edificio, che non si evidenzia particolarmente per le consuete caratteristiche formali, è tuttavia da rilevare perché, da un lato, fu la sede dello studio dell’architetto per tutti gli anni della sua attività e, dall’altro, perché ben interpreta il tema della casa d’angolo. Sorto all’incrocio di assi importanti del quartiere, tratta i diversi prospetti con la stessa accuratezza, non focalizzando l’attenzione del disegno su un ‘prospetto principale’ rispetto a ‘prospetti secondari’ ma articolando la geometria delle forature con lo stesso interesse e lo stesso valore, il tutto come sempre ricomposto sotto l’elemento unificatore dell’ampio sporto di gronda. Persino la recinzione del lotto testimonia di una diligenza assoluta e di una grande padronanza nell’uso dei materiali.

Il particolare edificio, realizzato nel 1966, oltre che presentare i consueti paramenti esterni in mattone e una ardita maglia strutturale con importanti aggetti, esibisce spazi interni che risultano esemplari rispetto alla poetica dell’architetto. Nell’atrio, la geometria struttura il progetto degli arredi della portineria, della pavimentazione, dei soffitti a cassettoni, del corpo scala fino al disegno delle cassette postali. Tutto risulta inquadrato in uno schema coerente di rimandi alle forme elementari, schema confermato dall’alternanza dei materiali. La porta di ingresso, parzialmente cieca, permette alla luce artificiale di disegnare ombre suggestive modulate dal progetto.

7 1960-65 VIA DELLE ARGONNE 4 La palazzina presenta una curiosa planimetria trapezoidale che si insinua nella irregolare geometria del lotto. La particolarità della conformazione planimetrica è resa evidente dall’accesso laterale, mentre il fronte su strada, pur proporzionato nella consueta maglia geometrica, appare quasi un prospetto secondario. Di grande efficacia, per il gioco di luci e ombre, le grandi logge che si trasformano in ampi balconi e garantiscono comfort abitativo a questa residenza.

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8 1966-70 VIA SIRTORI 10 L’edificio realizzato nel 1970 circa, occupa i lati nord e ovest dell’ampio lotto residenziale con una convenzionale planimetria a L.

Mentre le soluzioni costruttive risultano in questo caso molto semplificate rispetto alla consueta ricercatezza, quello che risulta originale è la soluzione dello snodo d’angolo con un volume avanzato che articola le due ali dell’edificio, mentre all’ultimo piano una profonda loggia risolve con un vuoto il complesso attacco delle diverse falde della copertura.

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9 1966-70 VIA SIRTORI 7 L’edificio riduce al minimo le soluzioni formali originali che sono comunque ancora presenti nell’articolato espediente dei contorni delle finestre: al paramento in mattoni posati di testa, viene accostato il lavorato bancale di pietra e l’originale architrave in cls a U. Ma gli elementi più singolari di questo progetto sono gli aggetti dei terrazzi che assumono sporti coraggiosi, e che ben definiscono la geometria della facciata.

10 1971-74 VIA MAMELI 8 L’edificio, appartenente alle opere più tarde dell’architetto, a destinazione mista residenziale e commerciale, sorge a filo strada e ricompone un vuoto dell’isolato andando in aderenza, ai lati, con due edifici preesistenti. Proprio il tema della contiguità degli edifici risulta qui sapientemente risolto con una complessa articolazione di volumi,

102

di corpi aggettanti e corpi sfondati, logge e balconi che accompagnano l’andamento della cortina edilizia e accordano abilmente le differenti quote delle linee di gronda. Ma anche la leggera inclinazione dell’asse del corpo di fabbrica, che configura un edificio ad angolo ottuso, viene rilevato e risolto da Pasqualini con l’accurata soluzione della diversa inclinazione dei terrazzi che fungono da elemento-cerniera tra le due porzioni di edificio.

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11

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1966-70 VIA MAGELLANO 8-10

1971-74 VIA MOROSINI 7

Ampio fabbricato, più periferico dei precedenti, che adotta soluzioni semplificate per l’articolazione formale delle facciate e dove, tuttavia, l’architetto non rinuncia a rivestire tutto l’edificio con una elegante “pelle” in pianelle di gres di colore grigio/bruno; su queste si stagliano i parapetti in cls chiaro degli ampi terrazzi, in un riuscito contrasto cromatico di interessante effetto visivo. Da notare il diverso trattamento del prospetto della porzione commerciale, che ne sottolinea la specificità.

Semplice edificio condominiale, situato nel quartiere periferico di Ponte Catena databile ai primi anni ’70, che tuttavia riesce a distinguersi dall’edilizia ordinaria che lo circonda per la particolarità di alcune scelte formali. Da un lato, lo studio dei prospetti, articolati in diverse soluzioni compositive che prevedono logge, terrazzi, balconi e finestrature di diverse dimensioni, dall’altro la preferenza accordata ad un tipo di cotto per i paramenti murari che risulta di maggior ricercatezza cromatica e che ben si combina con i dettagli in pietra bianca che impreziosiscono i contorni delle finestre, i parapetti e i gocciolatoi. Inconsueta anche la soluzione delle logge ai piani terra su strada, con la struttura in cls a vista abbinata agli alti parapetti in pietra.

13 1960-65 VIA CABOTO 7-9 In questo grande edificio sito nel quartiere Navigatori per la prima volta compare la logica ripetitiva delle facciate, e pur tuttavia i dettagli, accuratamente studiati, rendono la composizione non dozzinale: la consueta struttura in cls a vista ritaglia ampie campiture in cotto che sono leggermente sfondate rispetto alla maglia strutturale, disegnando una linea d’ombra di contorno che, insieme al particolare disegno dei sotto davanzali e dei parapetti dei balconi, restituiscono un’immagine complessiva del fabbricato di grande ricercatezza e compostezza formale.

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14 1966-70 VIA VESPUCCI 4 Edificato negli anni ’70 questo condominio periferico presenta le consuete soluzioni formali della struttura a vista e dei paramenti in mattoni, ma qui, per la prima volta, viene introdotto l’uso degli elementi prefabbricati tipici di quegli anni. Non è possibile ricostruire se si tratti di prefabbricazione pesante industriale o prefabbricazione leggera a piè d’opera, ma gli interessanti pannelli che costituiscono fasce decorative sui diversi prospetti, rappresentano un accorgimento originale.

01-02. Prospetti del condominio di via dei Mille (cfr. scheda 6). 03. Lungadige Matteotti 13, l’androne (cfr. scheda 1)

01 03

02

102

(segue da p. 84) un ordine e un equilibrio che vanno al di là delle funzioni svolte al suo interno, interpretando pienamente la lezione di Louis Khan, che aveva rappresentato il suo riferimento per tutti gli anni della formazione: la maestria con cui vengono articolati i volumi, la luce che non è l’entità funzionalista dell’asse eliotermico, ma la materia che rivela la forma, le facciate dallo scheletro di calcestruzzo scoperto, i mattoni lavorati di piatto e di taglio, parlano di una architettura in cui spazio e struttura sono indissolubilmente legati, evidenziano una composizione basata sull’assemblaggio di forme geometriche “pure” e solidi elementari dove la logica costruttiva e strutturale di un edificio deve trovare espressione diretta e manifesta.

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