RIVISTA TRIMESTRALE DI ARCHITETTURA E CULTURA DEL PROGETTO FONDATA NEL 1959
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ISSN 2239-6365
Terza edizione — Anno XXV — n. 4 Ottobre/Dicembre 2017 — Autorizzazione del tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane spa — spedizione in abb. postale d.i. 353/2003 (conv. in I.27/02/2004) — art. 1, comma 1, dcb verona
Senza credito — Una Bettola conviviale — Fronte del Porto — Spazio aperto (alle possibilità) — Una casa sui colli — La dignità del lavoro — Lo zio soprintendente — Per un archivio del progetto urbano — Scalerò — A misura di museo — Sic et simpliciter — Torri che non lo erano — Il suo nome era Bogoni Gino — Itinerario: i quartieri INA-Casa a Verona.
WWW.ARCHITETTIVERONAWEB.IT
2017 #04
New Multimedia Showroom
New Multimedia Showroom: la tecnologia Sever al servizio dei progettisti Si è aperto il nuovo spazio interattivo multimediale sviluppato da Sever per offrire nuove opportunità alla comunicazione e comprensione del progetto La professionalità e il know how di SEVER, maturati in cinquant’anni di esperienza, hanno visto negli ultimi anni il naturale sviluppo e integrazione delle forniture contract anche nel settore alberghiero e domestico. 01
Da qui l’esigenza di creare un nuovo format di presentazione multimediale ed interattivo, gestito da un sistema domotico intelligente. Il nuovo showroow di SEVER, offre una nuova possibilità di comunicazione e coinvolgimento emozionale “dentro il progetto”. Uno spazio allestito come luogo di incontro tra progettisti e committenti, all’interno del quale le tecnologie della struttura permettono di visualizzare immagini, video, progetti e clip multimediali.
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L’elevata tecnologia utilizzata consente proiezioni in 4K su schermi e monitor ad altissima risoluzione, controllati da telecamere con sensori di presenza in modo tale che l’utilizzatore possa gestire la presentazione anche con il solo ausilio del movimento delle mani. All’interno dello Showroom sono collocate un’area di consultazione/riunioni e un’area break. SEVER mette a disposizione dei progettisti che vorranno farne uso la propria struttura per la presentazione e/o condivisione dei loro progetti di qualunque natura essi siano. SEVER è partner e fornitore ufficiale AMG, AUDI, MERCEDES, PORSCHE, SMART, VOLVO E VOLKSWAGEN. 02 01-02. Vedute dello Showroom multimediale ricavato all’interno della sede Sever a Verona. 03-04. Sezione e dettaglio del progetto esecutivo dell’allestimento.
Sever Viale del Commercio, 10 37135 Verona T 045 8250033 sever@sever.it www.sever.it
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l’ìdentità
MODO+, prima di essere uno showroom, è un’insieme di competenze, di esperienze, di apporti creativi e di capacità interpretative. Un team di professionisti che si arricchisce di continuo per aggiungere, a elevati standart di qualità e innovazione, una visione del prodotto e del design proiettata in avanti. Un’identità esclusiva, un punto di riferimento nel settore. la realtà di MODO+ va molto oltre i confini di Verona, lo dimostrano i lavori realizzati in ogni parte del mondo grazie alla capillare distribuzione e le importanti partnership internazionali.
lo showroom
Nuovi progetti, evoluzione e immagine portano la firma di protagonisti della scena internazionale del design, della comunicazione e dell’architettura. MODO+, uno showroom moderno nel concept, nella costruzione, nella presentazione e nella capacità di venire incontro alle esigenze di un’ampio segmento di clienti.
l’obiettivo
MODO+ si propone per creare stili e ambienti diversi, mantenendo come filo conduttore la qualità, non solo nei prodotti ma anche nei servizi offerti al cliente. L’obiettivo principale è quello di soddisfare le esigenze dell’acquirente con proposte personalizzate e progetti concreti; soluzioni pensate per una dimensione abitativa esclusiva. Migliorare la qualità della vita di privati e aziende, traducendo necessità e desideri della clientela in progetti e prodotti di altissimo profilo. Offrire al pubblico la prima scelta delle migliori aziende del settore. Garantire un servizio su misura dalla progettazione al montaggio. MODO+, la sicurezza di rendere l’ambiente domestico e di lavoro più confortevole, più elegante, piu bello. Una scelta di valore, destinata a rinnovarsi nel tempo.
la filosofia
Nasce l’esigenza di definire modalità alternative a certi stereotipi abitativi, all’interno di questo concetto si colloca MODO+, uno showroom alternativo, dove lo spazio è libero, libero di interpretare ogni volta le espressioni dei prodotti, del design e della tecnologia.
la strategia
Un posizionamento chiaro: il mercato di fascia alta. Una mission precisa: dare ai professionisti del settore una collocazione strategica. MODO+ ha scelto di costruire la propria identità puntando su argomenti importanti, la concretezza, il design, l’immagine, la progettazione, l’attenzione al dettaglio e al servizio completo e personalizzato.
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A chi spetta progettare il futuro? Testo: Giancarlo Franchini
Il tema dell’abitazione è uno dei fili conduttori di questo numero di «AV». Ma qual è stato fino ad oggi il ruolo dell’architetto nella produzione di abitazioni e trasformazione del territorio in Italia? Per noi architetti l’abitazione, è uno dei temi con il quale costantemente ci confrontiamo: forse la nostra maggiore sfida. La sfida di una continua e costante ricerca che va oltre l’obiettivo di fornire al fruitore dell’abitazione, a prescindere dalle sue disponibilità economiche, la migliore soluzione possibile in termini di comfort e sicurezza. Una sfida dove l’architetto non deve perdere il controllo dell’impatto che l’opera progettata possa avere sul contesto territoriale e sociale nel quale si inserisce o, nel caso di interventi sul costruito, del valore storico o storicizzato sul quale sta operando. Questo è un impegno e un contratto nei confronti della società civile che ogni architetto ha il dovere di affrontare nel progetto, non solo per l’etica imposta dal codice di deontologia o per rispetto di quanto sancito dalle direttive europee 1 – tema di cui abbiamo già avuto modo di parlare nello scorso editoriale – ma per sua precisa formazione. Progettare un’abitazione confortevole e sicura oggi, con la possibilità di accedere alla miriade di pubblicazioni e software dedicati, forse è alla portata di molti, ma l’intervento intellettuale necessario per superare la sfida poc’anzi menzionata impone che la progettazione non possa che essere in capo ad un professionista con
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un’adeguata formazione intellettuale: l’architetto. Considerando che il patrimonio edilizio del nostro paese è per la maggior parte costituito da edilizia residenziale che, dalla fine della prima guerra mondiale (1918) ad oggi, ha contribuito a trasformare pesantemente il territorio con una produzione edilizia spesso scadente, realizzata senza la necessaria attenzione e controllo (salvo pochi casi), sia nella fase progettuale che nella realizzazione, nei confronti del contesto paesaggistico e morfologico del territorio in cui veniva inserita, sarebbe interessante sapere chi l’ha progettata. Sarebbe altrettanto interessante conoscere qual è stato il ruolo negli ultimi cento anni dell’architetto italiano nella produzione edilizia e in modo particolare di quella residenziale. Già nell’editoriale del precedente numero di «AV» ho avuto modo di accennare all’iniziativa del nostro Presidente Nazionale Giuseppe Cappochin per una proposta di legge sull’architettura sul modello di quella francese. Iniziativa ufficialmente comunicata nella Conferenza degli Ordini svoltasi nell’ambito del “Festival dell’Architettura” tenutosi a Padova dal 26 al 28 ottobre, preannunciando la convocazione del congresso nazionale degli architetti durante il quale tale proposta sarà presentata alla politica. Al fine di arricchire l’allegato tecnico che accompagnerà la proposta di legge, il CNAPPC
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ha chiesto al CRESME di sviluppare un’analisi quantitativa che consenta di “misurare il peso della progettazione dell’architetto nel patrimonio edilizio italiano”. È stato proprio nell’ambito di uno dei seminari svoltisi all’interno del “Festival dell’Architettura” che l’architetto Lorenzo Bellicini, direttore del CRESME, ha illustrato questa ricerca con la quale ha avuto anche occasione di proporre una riflessione sulle tipologie edilizie e sul modello insediativo che caratterizza il nostro paese. Bellicini ha illustrato come, per rispondere alla principale domanda posta, cioè “quanta percentuale di patrimonio edilizio italiano è stato progettato dagli architetti”, sia stato ricostruito il percorso progettuale che ha caratterizzato l’evoluzione del territorio italiano, sul piano statistico, sul piano professionale e sul piano normativo. Uno studio che ha consentito di evidenziare il ruolo dell’architetto nello sviluppo delle città e del territorio italiano. Sinteticamente la relazione ha fatto emergere che il patrimonio edilizio italiano, per numero di edifici, al 2016 conta 15 milioni di edifici così suddivisi per destinazione d’uso: - 11,9 milioni di edifici sono costituiti da edifici residenziali, destinati unicamente all’abitare o a un mix di attività residenziali ed economiche, per un totale di 30,7 milioni di abitazioni; - 1,6 milioni sono gli edifici interamente destinati
allo svolgimento di attività non residenziali; - 1,5 milioni di edifici sono o non utilizzati, o collabenti, o destinati ad altri usi. Lo studio ha poi rilevato come il patrimonio edilizio delle abitazioni sostanzialmente divida l’Italia in tre grandi tipologie, in Tre Italie. Non le Tre Italie socio-economiche, del nord, del centro e del sud, ma le Tre Italie prodotte dal complesso rapporto storico di valori immobiliari, modelli economici, radici e comportamenti socio-culturali che si mostra fossilizzato e cristallizzato in tre forme tipologiche edilizie dell’abitare: 1. l’Italia della città diffusa, della provincia e della dispersione, della campagna urbanizzata, prevalentemente costituita da edilizia monobifamiliare, o da una moda costruttiva costituita da edifici comunque di piccole dimensioni, in parte “autopromossa”, quando non abusiva; 2. l’Italia della periferia, addossata alle aree centrali, frutto di modelli edilizi più intensi, fatta di edifici con oltre cinque abitazioni, e che man mano salgono in altezza in relazione ai valori immobiliari urbani e ai cicli storici della speculazione immobiliare senza mai raggiungere nel nostro paese l’intensità e la dimensione raggiunta nelle altre grandi metropoli europee e internazionali. 3. la “piccola Italia” dei centri storici, perché i centri storici sono piccoli in termini di edifici e popolazione; solo il 2,5% della popolazione vive nei centri storici dei 109 capoluoghi di provincia. É l’Italia della conservazione del patrimonio storicoartistico e del tessuto storico-edilizio: forse, dal secondo dopoguerra, l’unica vera politica in materia urbanistica tale da segnare l’immagine del nostro paese come un paese ancorato al suo passato fatto di cento città che restano identificate nella massima rappresentazione di “città storiche”. Cosa più interessante è la risposa alla principale domanda: chi ha progettato quest’Italia? Chi ha progettato le abitazioni degli italiani, gli 11,9 milioni di edifici residenziali degli ultimi 100 anni? Ebbene il risultato – anche se poteva essere scontato – è a mio avviso sconcertante: gli architetti hanno progettato solo 1.323 edifici residenziali, pari al 11%; la quota restante degli edifici, per il 41% (4.926 edifici) è storica o
attribuibile all’autoprogettazione/autopromozione, con la partecipazione di capomastri, il 40% (4,751 edifici) è stata progettata dai geometri e il restante 8% è stato progettato dagli ingegneri. La tendenza negli ultimi dieci anni sta comunque cambiando, sempre il CRESME evidenzia come nel 2017 su un campione di 3600 cantieri la progettazione (in generale) sia in capo all’architetto per il 47,9%. Oggi, a ben vedere, ognuno degli ambiti urbani sopra evidenziati necessiterebbe di una propria azione strategica, ma allo stesso tempo di una visione integrata, che definisca una nuova via alla crescita. Lo sviluppo di una nuova politica urbana in Italia si dovrà confrontare con una grande sfida determinata, da un lato, dalla corsa competitiva intrapresa da molti sistemi urbani europei che vede come principali giocatori vincenti le città centrali che sanno “reinventarsi” e dall’altro, con la necessità di tenere conto delle profonde differenze insediative che caratterizzano le tre componenti del modello insediativo italiano: - l’ampia parte di edilizia di piccola dimensione diffusa sul territorio e sulla quale è difficile intervenire anche solo per questioni di dimensione territoriale (molto ampia) e massa specifica (molto piccola); - l’ampia semi-orizzontale città della periferia nella quale vive l’altra parte della popolazione italiana che non vive nel territorio diffuso; - il sistema di centri storici, piccoli in termini di popolazione e di edifici, che concentrano importanti valori economici e simbolici e che per queste ragioni rendono difficili interventi di trasformazione su scale comparabili e quelle di altre realtà anche solo europee. È dunque evidente che oggi siamo dinnanzi ad una nuova fase urbana in cui le città crescono e continueranno a farlo, sempre secondo CRESME, per almeno i prossimi vent’anni. Ogni città può essere migliorata, e non è un problema di dimensione o di risorse finanziare ma di mancanza di un progetto. Un progetto di futuro nel quale l’architettura e l’architetto sono i protagonisti, come d’altronde accade in gran parte d’Europa. Per questo occorre però l’impegno di tutti noi architetti.
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Consiglio dell’ordine • Presidente Giancarlo Franchini • VicePresidente Amedeo Margotto • Segretario Enrico Savoia • Tesoriere Daniel Mantovani • Consiglieri Cesare Benedetti, Michele De Mori, Laura De Stefano, Matteo Faustini, Diego Martini, Leonardo Modenese, Michele Moserle, Francesca Piantavigna, Chiara Tenca, Morena Zamperi, Ilaria Zampini
1 Preambolo del Codice Deontologico e 27° Considerando Direttiva 2005/36/CE.
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professione
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progetto
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A chi spetta progettare il futuro? di Giancarlo Franchini
Spazio aperto (alle possibilità) di Nicola Tommasini
Per un archivio del progetto urbano di Federica Guerra
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odeon
progetto
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storia & progetto
062
Una Bettola conviviale di Luisella Zeri
Una casa sui colli di Alberto Vignolo
Fanfani va in città di Angelo Bertolazzi
saggio
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editoriale
040
progetto
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Senza credito di Alberto Vignolo
La dignità del lavoro di Marcello Bondavalli
Scalerò di Stefania Marini
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odeon
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Alberto Rosselli ovvero la riservatezza nel progetto di Davide Crippa
progetto
Fronte del Porto di Tomàs Bonazzo
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Lo zio soprintendente di Ferdinando Forlati
PROGETTO
Nuova Eera di Claudia Tisato
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A misura di museo di Sara Nodari
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Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXV n. 4 • Ottobre/Dicembre 2017
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Ci mette il becco LC di Luciano Cenna
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Editore Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona
diversearchitetture
Il suo nome era Bogoni Gino di Irene Meneghelli
Redazione Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 redazione@architettiveronaweb.it
080
Stampa Cierre Grafica www.cierrenet.it Concessionaria esclusiva per la pubblicità Promoprint Verona Paolo Pavan T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it
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Sic et simpliciter di Laura De Stefano
Direttore responsabile Giancarlo Franchini
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Direttore Alberto Vignolo av@architettiveronaweb.it
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Art direction, Design & ILLUSTRATION Happycentro www.happycentro.it
itinerario
I quartieri INA-Casa a Verona di Francesca Lui
Distribuzione La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta agli indirizzi della redazione.
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territorio
Torri che non lo erano di Federica Guerra
copertina Foto:
Lorenzo Linthout
Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.
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Redazione Laura De Stefano, Federica Guerra, Angela Lion, Matilde Tessari, Luisella Zeri collaboratori Giulia Bernini, Tomàs Bonazzo, Nicola Brunelli, Alessio Fasoli, Stefania Marini, Irene Meneghelli, Federica Provoli, Filippo Romano, Daniela Tacconi, Leopoldo Tinazzi, Nicola Tommasini Fotografia Lorenzo Linthout, Diego Martini, Michele Mascalzoni, Simone Sala, Marco Toté contributi a questo numero Angelo Bertolazzi, Marcello Bondavalli, Luciano Cenna, Davide Crippa, Ferdinando Forlati, Francesca Lui, Sara Nodari Si ringraziano Anna Chiara Tommasi, Luca Formenton, Gloria Bruschi, Alessandra Cottone, Alessandro Corona Piu, Lorenzo Piccinini
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Senza credito
Il sistema dell’aggiornamento professionale per gli architetti e il credito della categoria da recuperare
Testo: Alberto Vignolo Foto: Marco Toté
Da quando il sistema dei crediti formativi professionali è entrato in vigore per la nostra categoria, schiere di architetti più o meno fintamente interessati vagolano di convegno in convegno, di corso in corso in incontro tecnico, alla caccia degli agognati “punti” da accumulare. Come orsi attratti dal miele, escono così dalle tane dei rispettivi studi personaggi che credevamo dispersi, colleghi dei banchi di scuola mai più rivisti: saranno rimasti incagliati nelle secche dell’università, o saranno espatriati? E invece, rieccoli: ci ritroviamo e ci vogliamo tutti bene, accomunati da un nuovo fondamentale collante professionale e sociale: “ma a te, quanti punti mancano?”. Il credito, i crediti. Eppure c’era un tempo in cui questo termine designava fiducia, stima e prestigio: cose che non si possono accumulare se non con la forza del proprio lavoro, l’impegno, la costanza e la ricerca. Nel campo dell’architettura, merci preziose da far maturare coi tempi lunghi che le trasformazioni dello spazio fisico richiedono. Tempo che invece non c’è: anno per anno bisogna
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far su punti, crediti da aggiungere alla “raccolta”: senza nemmeno la soddisfazione della pentola antiaderente in omaggio, una volta completato l’album (e una elegante trapunta in lana Merino per i crediti deontologici?). Il panorama dell’offerta formativa è però al tempo stesso desolante e imbarazzante. Un florilegio di marchettoni industriali passa sotto le mentite spoglie dei crediti come attività formativa, equiparando con disinvoltura inserzione pubblicitaria e formazione, promozione commerciale e crescita professionale.
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Il mercimonio delle prebende formative ha generato un fiorente mercato di elargitori di crediti, nelle assortite forme che il regolamento che le disciplina consente. Ottime opportunità di guadagno anche per gli ammaestratori di scimmiette, che tanto basta fare click ogni tanto davanti al PC, seguendo il famigerato e-learning, ed è bella che fatta: punti guadagnati, credito raggiunto, discredito del sistema al massimo grado.
« C’era un tempo in cui credito designava fiducia, stima e prestigio: cose che non si possono accumulare se non con la forza del proprio lavoro, l’impegno, la costanza e la ricerca » Con gli Ordini periferici a far da passacarte, tutto è vidimato e garantito da “Roma creditona”, dove un gigantesco ganglio nervoso centrale tiene a bacchetta i sudditi-
01-06. La ricerca fotografica di Marco Totè inquadra un universo di materiali da costruzione in stato di latenza, visti attraverso gabbie, recinzioni e maglie di rete: l’insieme delle regole che ne rallenta la messa in forma come architettura costruita.
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architetti che, a capo chino, non possono che subire il conteggio: chi ha i punti passa al giro di giostra successivo, gli altri tornano al via!, riparano, recuperano, o verranno additati come reietti, puniti, espulsi, messi al bando professionale e previdenziale e deontologico (!) e morale... L’organo più sollecitato in questa ricerca del credito è uno dei più nobili seppur vituperati: il sedere. Ché basta per l’appunto starsene seduti per un tot di ore a fingere di ascoltare una qualunque delle proposte à la carte, e i punti van su: che ci si trovi al cospetto di un Pritzker Prize o di un
qualunque contaballe sulle case di balle di paglia. Otto punti otto per un corso intensivo sul Feng Shui: si, avete capito bene, il Feng Shui. Non è bastato Bruce Chatwin nelle memorabili pagine di Che ci faccio qui? a mettere in ridicolo senza tema di smentita stregoni e fattucchieri dalla credibilità improbabile. Non si fa credito a nessuno, dicevano cartelli di mano incerta nelle botteghe di una volta: e invece noi, gli architetti, ci facciamo dare i crediti da tutti. Credito o discredito? Il ruolo sociale di una professione per lo più svilita non si recupera certo con una lezioncina sulla calce o roba del genere. Fiducia, stima e prestigio, si diceva: dovremmo investire le nostre energie per far sì che alla crescita individuale – che è un fatto di coscienza, non di ore perse tra una firma del registro e l’altra – possa essere affiancato un impegno concreto nel pensare a migliorare i luoghi, recuperare i segni della storia e del paesaggio, gettare semi di urbanità, di convivenza civile e di bellezza. Daremmo credito al ruolo dell’architetto, ponendo le basi di una nostra azione più incisiva e creando nuove occasioni di progetto. Toc toc, Cnappc: ci pensiamo?
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PROGETTO
Una Bettola conviviale
Il recupero di una ex stalla è l’occasione per interpretare i caratteri dell’architettura della Lessinia orientale con sapienza e cura progettuale
Progetto: arch. Nedda Taioli, ing. Luca Zenari - Canegattosuperstudio Testo: Luisella Zeri
Badia Calavena
Foto: Simone Sala
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Agli antipodi delle battaglie fra nord e sud, destri e mancini, escursionisti da montagna e vacanzieri da mare, vi è la sempiterna lotta per la sopravvivenza fra architetto e ingegnere. Nel vasto campo su cui si affronta quotidianamente la battaglia per la definizione delle competenze, vi è una condizione che può complicare ulteriormente il già sensibilissimo equilibrio fra forma e funzione: il fatto che i sopracitati professionisti siano rispettivamente maschio e femmina. Ma se la realtà sa essere ben più beffarda e crudele dell’immaginazione, lo scenario si complica ancor di più quando architetto e ingegnere, donna e uomo si trovano a condividere non solo lo spazio di lavoro, ma anche quello della vita privata, in un’unione realizzata non dal caso o dal destino, ma da una scelta di vita consapevole e ben ponderata. Insomma, è il caso di dirlo, certa gente se la va proprio a cercare! Ad incarnare il ritratto quasi mitologico che abbiamo appena dipinto, Nedda Taioli e Luca Zenari, rispettivamente architetto e ingegnere con base a Lavagno ma operativi su tutta la provincia di Verona, compagni di vita e di lavoro che, per presentarsi sulla pagina about del loro sito, non nascondono di certo ciò che la suddetta ponderata scelta di vita comporta: “Siamo uno studio di architettura e ingegneria […] Andiamo d’amore e d’accordo esattamente come i cani coi gatti”. La loro attività non poteva quindi che prendere il nome di “Canegattosuperstudio”, un’intestazione che al suo interno racchiude tra il serio e il faceto l’eterna dicotomia fra due professioni simili ma profondamente diverse, la battaglia fra i sessi e la rassegnata resa davanti al sempre precario equilibrio dei ruoli familiari.
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Se tutto questo non basta a far sorridere, anche il loro progetto più riuscito gioca ironicamente sul proprio nome. “Bettola” è il titolo di un intervento di recupero edilizio che ha trasformato una stalla in unità abitativa, prendendo orgogliosamente denominazione dalla località di Badia Calavena in cui è situato. La porzione di edificio relativa all’intervento è parte di una più ampia costruzione originaria dei primi del ‘900, testimonianza in pietra e sabbia dei caratteri tipologici propri della Lessinia orientale. La parte di edificio adiacente a quella restaurata era inizialmente il primo nucleo abitativo, suddiviso fra residenza e ricovero per gli animali e gli
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01. La facciata principale dell’edificio. 02. Individuazione planimetrica dell’intervento. CORTE BETTOLA 03. Nella vista laterale, l’accostamento fra l’edificio originario e l’ampliamento realizzato durante i lavori di recupero. 04-05. Dettagli di alcune soluzioni costruttive adottate nel progetto.
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Una Bettola conviviale
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attrezzi. Un successivo ampliamento ha visto l’aggiunta della porzione interessata dall’intervento in oggetto, che oltre al restauro generale dell’edificio ha comportato anche la realizzazione di un piccolo ampliamento che ricalca l’ingombro di una preesistente baracca in lamiera addossata al prospetto secondario. L’edificio recuperato dai Canegatto è una piccola proprietà di famiglia, aspetto che ha permesso di trasformare un gesto di natura meramente professionale in un capitolo felice di progettazione architettonica, senza troppi limiti imposti dalla committenza, ma strizzando comunque l’occhio ad una ripartizione oculata del budget stanziato. Il recupero si distingue infatti per accuratezza e attenzio-
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ne, innalzandosi quasi ad un esercizio di composizione architettonica. Le professionalità messe in campo sono molteplici ma in piena sinergia, tanto che la ricerca che accompagna l’intervento lo rende estremamente concreto e fortemente ancorato ad un bagaglio di conoscenze storiche e operative di altissimo livello. Esternamente il restauro mantiene la natura spontanea dell’edificio, dal fuori asse degli elementi verticali, fino ai blocchi irregolari che costituiscono la tessitura muraria perimetrale di cui è stata solamente risistemata la fugatura con sabbia di progno cavata in zona. La scelta di mantenere i prospetti esterni praticamente identici a quelli originari ha conseguentemente portato ad isolare l’edificio dall’inter-
no con Eraclit e fibra di legno. Per quanto riguarda la copertura, si è volutamente evitato l’inserimento di canali di gronda, perché poco coerenti dal punto di vista filologico, mentre i lastroni di copertura originari, rimossi e sostituiti con nuovi elementi, sono stati riutilizzati per la realizzazione della pavimentazione esterna. La porzione in ampliamento addossata al retro dell’edificio, asseconda la quota leggermente più alta della preesistenza in lamiera, creando internamente un dislivello con il fabbricato principale. Rispetto all’edificio, quest’ultima dichiara la giustapposizione ponendosi come elemento discontinuo: la finitura di facciata riprende il tema della pietra della Lessinia, le lastre di copertura scivolano metaforicamente lungo la parete verticale divenendo materiale di rivestimento che detta il ritmo e la dimensione quasi obbligata delle aperture sul prospetto. All’interno si respira immediatamente voglia di casa e convivialità, tanto da ispirare l’ospite ad un riposino sul divano o alla preparazione di una cenetta coi fiocchi per tutta la famiglia.
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06. Sezione e piante dell’intervento. 07. La scala in legno di abete che domina la zona giorno. 08-09. Dalle camere da letto del piano primo è possibile apprezzare l’accuratezza dei dettagli costruttivi e tecnologici. In particolare la soluzione adottata per la copertura e quella delle aperture sull’esterno. 10. Il piccolo bagno ricavato al piano primo.
PROGETTO
Una Bettola conviviale
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11. Gli arredi interni e i complementi comprendono oggetti di recupero, come le lampade realizzate da artigiani locali. 12-13. Altri punti di vista sugli interni.
Infatti, se in questo progetto a farla da padrone sono sicuramente l’attenzione per la coesistenza fra tecnologia e funzionalità, non è da meno per importanza la ricerca dei complementi di arredo e delle finiture. Il piano terra è composto da un unico ambiente soggiorno-cucina, che attraverso alcuni scalini raccorda lo sbalzo di quota fra l’edificio principale e l’ampliamento, che accoglie bagno e ripo-
stiglio. A spiccare sono gli elementi interamente pensati in legno di abete: innanzitutto la scala, vera protagonista dell’ambiente, realizzata con gradini a sbalzo e cosciale portante, il tutto interamente assemblato a viti. Subito dopo il soffitto con elementi lignei a vista dalla particolare finitura, che altro non è che la definizione della tessitura dei casseri a perdere su cui è stata gettata la soletta in calcestruz-
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zo del solaio tra piano terra e piano primo. La texture del soffitto è ripresa nel mobile del televisore realizzato su misura, che con il divano di recupero, la cucina contemporanea, il mix di stili fra il design ricercato e l’inserimento di alcuni elementi scandinavi della grande distribuzione, completano con calore l’arredamento. Al piano superiore sono state ricavate due camere da letto e un piccolo
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bagno a servizio della zona notte. A questo livello è possibile ancor più che a quello inferiore percepire la qualità di alcune scelte portate avanti nella progettazione. La dimensione e il numero delle finestre, per esempio, è praticamente identico a quello originale. Alcune aggiunte sono state effettuate al fine di assicurare un adeguato rapporto aeroilluminante, ma è possibile distinguere le preesistenze dai nuovi inserimenti perché i primi sono rimasti a filo interno, mentre le seconde sono a filo esterno. Alzando la testa inoltre è possibile
canegattosuperstudio Dal 2015 Nedda Taioli (architetto) e Luca Zenari (ingegnere) riuniscono l’ormai consolidata collaborazione sotto il bizzarro nome di canegattosuperstudio. Appassionati di progettazione e costruzione, di qualunque cosa si tratti, Nedda e Luca hanno un occhio di riguardo per il fare artigiano e per l’essenza dei materiali. Piccolo studio, piccoli lavori: per lo più residenze e spazi per lo svago.
« Le lastre di copertura scivolano metaforicamente lungo la parete divenendo rivestimento e dettando il ritmo e la dimensione delle aperture sul prospetto » osservare l’interessante soluzione di copertura, isolata con 16 cm di lana minerale e rivestita internamente da lastre in pietra che poggiano sulla struttura lamellare portante e vanno a sostituire il classico tavolato in legno. Il dettaglio della gronda, anch’essa in pietra ma su un livello più alto rispetto a quello interno, ha richiesto particolare attenzione per risolvere al meglio la questione dei ponti termici. L’arredo è completato da una serie di punti luce che ad un primo sguardo sembrano pezzi da rivista di architettura, ma sono in realtà pensati dai due progettisti e realizzati, sempre con oggetti di recupero, da artigiani locali. Bettola è un progetto disegnato e realizzato con delicatezza. Racchiude in sé la sapienza dell’ingegnere e la
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www.canegattosuperstudio.com
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cura per il particolare dell’architetto, anche se in realtà, ormai, nella coppia formata dai Canegattosuperstudio non si capisce bene chi ricopra un ruolo e chi l’altro. Questa abitazione racchiude in se il concetto di “casa dell’architetto” come luogo dove sperimentare e ricercare la perfetta quadratura delle proprie competenze, dei propri sogni e della vision che sottende anni di lavoro e ricerca. Pro-
babilmente questa quasi perfezione è dovuta all’incontro di diverse sensibilità professionali, sfatando in qualche modo l’assunto per cui architetto e ingegnere, uomo e donna, moglie e marito debbano per forza essere l’uno contro l’altra. Dove mondi paralleli si incontrano, ha origine la vita. Cane e Gatto, chi l’ha detto che non si può?
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PROGETTO
Una Bettola conviviale
15. Particolare del prospetto principale. 16. Dettaglio costruttivo con la soluzione della gronda.
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Committente Paola Corradi Progetto architettonico e direzione lavori canegattosuperstudio: arch. Nedda Taioli ing. Luca Zenari consulenti ing. Umberto Guglielmini (strutture) p.i. Mauro Angelini (impianti) impresa Livio Taioli Cronologia Progetto e realizzazione: 2012-2016 Dati dimensionali Superficie: 80 mq
17-18. L’ampliamento sul fronte posteriore: in evidenza la copertura-rivestimento in laste di pietra di Prun che scandisce il ritmo della facciata e delle aperture.
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PROGETTO
Fronte del Porto
Una ristrutturazione attenta al profilo di un quartiere e moderna nelle soluzioni formali in uno spazio di confine tra la campagna e la città
Progetto: Studio SCR - arch. Massimo Casali, arch. Riccardo Roveda Testo: Tomàs Bonazzo
Foto contesto: Michele Mascalzoni
Verona
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Il contesto “Si farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia”, così fu scritto nel salvifico 1859, anno di pubblicazione de L’origine delle specie; da allora, grazie ai progressi nel campo, si consentirebbe una ricostruzione plausibile dall’esplosione del Cambriano sino ai Tempi moderni del quartiere di Porto San Pancrazio poiché, riprendendo con ribaltone l’asserto di Manganelli, un racconto attorno ad esso non può certo definirsi “largo” – perché geograficamente circoscritto – ma si guadagna senza esposti l’aggettivo “lungo”. Per limiti editoriali, comunque, ne verrà presentato solo una fulminea epitome. Ci fu un tempo, il IX secolo, in cui i terreni in destra Adige – da Tombetta sino all’ansa del fiume – furono tema di importanti bonifiche e convertiti in pasture, verziere e per l’allevamento di bestiame, divisi pure tra una campanea major e una minor. Quivi, le vicende dei locali erano in simbiosi con la chiesetta di San Pancrazio – un martire romano e adolescente di cui ne divenne il protettore – e con il monastero, anch’esso con chiesa, di Santa Caterina alla “Ruota”, nella località del Corneto. Un terzo interlocutore, il Lazzaretto, scese in lizza sotto le guide progettuali di Sanmicheli e di Sanguinetto, il cui utilizzo fu provvidenziale nel 1630, l’anno della peste o “gran flagello” come ne scrisse il senator Manzoni. In sinistra Adige invece, lungo una stradina, si distribuivano alcune semplici costruzioni, quasi tutte ad un piano solo, abitate
da autoctoni fedeli, ma non per scelta, al pauperismo; essi furono i primi cittadini di un piccolo borgo che già nel periodo scaligero rientrava nel “Castello”, ovvero il quinto quartiere di Verona, a cui si aggiungono Avesa, Quinzano e San Michele in Campagna. Queste poche famiglie presero casa lungo la fossa Morandina, rinforzata dalla sorgente “Bearara”, e in aree della spianata, dunque extra muros. V’era pure un porto che consentiva il traghetto tra le rive grazie alla “barca del passo” e lo zelo del “passatore”, un Caronte di antico pelo, il cui ultimo interprete risale al 1959. Proprio in ragione di tale attività il borgo fu battezzato come
01. Veduta angolare dall’incrocio tra via Muro Lungo e via San Pancrazio. 02. Stato di conservazione dell’edifico prima dell’intervento. 03. Ingresso pedonale della casa con scorcio sul paesaggio. 04. Veduta del limitare tra l’abitato del Porto e le campagne.
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1.living 2.wc 3.letto 4.bagno 5.letto 6.bagno 7.cabina armadio 8.letto 9.living 10.bagno 11.letto 12.lavanderia 13.terrazzo 14.patio 15.giardino
Fronte del Porto
PROGETTO
05. Abitazioni lungo via Porto San Pancrazio. 06. La finestra che guarda sul fronte stradale è protetta da un’inferriata con tubolari orizzontali. 07. Piante dei tre livelli in ordine ascendente.
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Porto di San... Nazaro, poiché la pieve di riferi- zione; poi, in località Casette, v’era – e v’è tuttomento per i devoti fu in prima istanza, e a lungo, la ra – un breve sottopasso che riaffiorava proprio in chiesa dei S.S. Nazaro e Celso, mentre fu soltanto prossimità del Cimitero; e, infine, si approfittava di nel 1936 che si eresse a parrocchia la Rettoria del un angustia galleria soprannominata il “Buso del Porto, grazie ai poteri di un uomo il cui cognome Gato”, di cui si lascia al lettore l’immaginazione del era più insigne dell’abito ecclesiastico: Girolamo dimensionamento, per quanto in evidente anticipo Cardinale, Vescovo di Verona. sui futuri codici stradali. In poco più di due secoli, a causa di alcune decisioni Nel secondo dopoguerra furono avviati importanti politico-direzionali forse inconsce, si definì l’asset- lavori edili in causa, soprattutto, di un grappolo di to del quartiere moderno: nel XVI secolo le mu- bombe che sganciate alle ore 11:50 del 28 marzo tate tecniche di guerra esigettero un rafforzamen- 1944 sgretolarono l’intero quartiere; da allora, per to delle linee difensive, ogni anno da quel giorno « Un nuovo volume tra cui la costruzione letale, se ne rinnovella la si estrude dal perimetro del baluardo detto delle memoria con una ceriMaddalene e l’ampliamonia. dell’esistente edificio con mento della “spianata”; Alcune parole eloquendirezione perpendicolare in conseguenza, invece, ti dello scrittore Piero rispetto all’asse del lato interno, del decreto Napoleonico, Marcolini ne «Il Porfu posta la prima pietra to quel giorno...» ricoquello rivolto verso il giardino » del nuovo cimitero tra struiscono la visione del Porta Vittoria e il bastione stesso, escludendo così quartiere rappresentato “dalle sue strade: otto in qualunque possibilità di ampliamento del Porto sia tutto e dedicate, tranne due (via Porto San Panverso ovest, sia pure verso nord, dopo l’epilogo del crazio e via Muro Lungo) a mezza dozzina di li1849, anno in cui entrò in funzione la Ferdinan- beri pensatori in odore di eresia: Giordano Bruno, dea sui progetti del Milani. Parallelamente i col- Tommaso Campanella, Girolamo Savonarola, Galegamenti con il centro cittadino si ridussero e si lileo Galilei, Arnaldo da Brescia, Paolo Sarpi. Rerestrinsero: la comodità seguiva il tracciato di via taggio evidente di quell’anticlericalismo barricadieMuro Lungo benché obbligasse ad una sosta sen- ro, ma anche un po’ romantico, di cui erano pervase za pedaggio al passaggio a livello in fianco la Sta- le giunte comunali socialiste a cavallo del secolo”.
Committente Privato Progetto e direz. lavori Studio SCR arch. Massimo Casali arch. Riccardo Roveda Collaboratori arch. Anna Roveda designer Damiano Sala ing. F. Treppete (progetto strutture) ing. M. Madinelli (progetto impianti) Imprese De Carli Aleandro (impresa generale) Xlam service (strutture in legno) Cronologia Progetto e realizzazione: 2014-2016 Dati dimensionali Superficie complessiva: 300 mq
08. Prospetto laterale (direzione est) in corrispondenza dell’accesso pedonale.
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PROGETTO
Fronte del Porto
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Il progetto: un quartiere, una casa Nel punto in cui due tra le vie più antiche del vecchio borgo si intersecano, via Muro Lungo Campo Marzo e via Porto San Pancrazio, l’immaginario vernacolare proprio del luogo, esemplificato da un’abitazione che dalla strada parrebbe esser ad un piano solo – e tutelata come “carattere testimoniale” – è stata oggetto di recente ristrutturazione da parte degli architetti Casali e Roveda. Il lotto su cui sprofonda l’edificio è allungato e di notevole pendenza, spiegata da un dislivello presente tra il piano della linea ferroviaria e il letto del fiume. L’ingresso della rinnovata dimora, al civico 28, come poi l’intero prospetto su strada, è ordinato e senza fronzoli, poiché, come scrisse Loos in Parole nel vuoto, “l’ornamento non soltanto è opera di delinquenti, ma è esso stesso un delitto”; inoltre, come una maschera, un filtro intonacato di grigio, esso non lascia presagire le aperture visive di cui patirebbe un visitatore perturbabile. Come eco storico, ma in contesto e con esiti formali dissimili, si prospetta Villa Tugendhat nella periferia di Brno: una villa il cui lato su strada era discreto e chiuso, mentre verso sud lo spazio si apriva sul giardino con grandi superfici continue di vetro. Qui, invece, un nuovo volume si estrude dal perimetro dell’esistente edificio con direzione perpendicolare rispetto all’asse del lato interno, quello rivolto verso il giardino. Ne emerge un cannocchiale quasi ad litteram, con copertura piana, il cui lato terminale, quello che ammira il panorama e di cui una parte
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09. Sezione longitudinale sui tre livelli dell’edificio. 10. Vista del prospetto interno che si apre sul giardino. 11. La cucina con le travi lignee e la parete in c.a. a vista sottolineata dall’illuminazione. 12. Il soggiorno con le travi in acciaio e le strutture in legno x-lam, aperto con la grande vetrata verso il giardino.
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è a sbalzo, ruota posizionandosi ora parallelo con il lato esterno dell’edificio, dunque orientato come la via stessa. Il gioco cromatico e materico impone le sue regole: le forme dell’edificio esistente esibiscono un’intonacatura di color grigio incoronate da una regale doppia falda, il nuovo volume invece si ammanta di legno e indossa un copricapo piano. L’erta del cortile viene risolta con una struttura a gradoni sfalsati – che insegue i già descritti allineamenti – ora pavimentati con pietra serena, ora lasciati a prato. Dall’ingresso pedonale, dopo una lieve rampa discendente, si viene introdotti al secondo dei tre livelli su cui si costruisce il nido: un soggiorno e una cucina in diretta relazione e con il medesimo rivestimento in parquet. La sala si prolunga tutta contenuta nel volume estruso, con ampie vetrate che intrattengono i nuovi inquilini o i forestieri curiosi con il racconto visivo del Porto nel suo spirito paesistico; sempre dalla sala, poi, si accede alla prima terrazza ombreggiata in parte dall’aggetto del livello superiore, da cui, con scala esterna, si può scendere al secondo terrazzamento.
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PROGETTO
Fronte del Porto
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Le travi lignee (sistema x-lam), quattro pilastri in acciaio e un’ampia parete in cemento armato sul fianco della cucina, dunque gli elementi strutturali, sono invece esposti au naturel nel desiderio di accostamenti eleganti più che per intenti sociali inseguiti negli anni 60’ dagli Smithson. Due rampe distinte conducono o al piano inferiore – se si principia dalla sala – o all’ambiente notturno disposto sul terzo livello che, per quanto più alto, non supera la linea di gronda dell’edificio preesistente. Qui, due anditi intersecati ortogonalmente dispongono un bagno e una camera da letto singola girate sul fronte stradale e una seconda camera, sempre singola, con una porta finestra rivolta verso sud che conquista vedute e le luci del sole d’inverno; l’ultima, quella matrimoniale, si impadronisce del termine del cannocchiale illuminato da una finestra angolare sul filo interno della parete perimetrale. Al primo livello infine, il più basso, l’ambiente è ripartito per ospitare una seconda abitazione, autonoma in potenza, con due camere, un bagno e un soggiorno minore aperto sul patio del terrazzo inferiore. Nel suo insieme, l’edificio si avvicina ad un sentire architettonico molto attivo in questi decenni per quanto passivo nella sua etichetta inglese: sfruttando difatti il fotovoltaico e i pannelli solari in appoggio sulla copertura, gratuitamente acquista energia elettrica e regola la temperatura dell’acqua, guadagnando l’epiteto che un tempo si attribuiva alle sole persone adulte: autosufficiente.
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13. Veduta dal basso del “cannocchiale” in aggetto. 14. Il bagno tra le camere da letto singole al terzo livello. 14
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studio SCR Nato da una fortunata collaborazione iniziata nel 2006 tra Massimo Casali e Riccardo Roveda, lo Studio SCR propone progetti nei campi del design, degli interni e dell’architettura. Negli anni sono stati inoltre approfonditi aspetti legati al restauro architettonico e monumentale e alla riqualificazione dell’edificato storico. Da sempre gli architetti condividono la medesima passione nel confrontarsi sui processi di trasformazione e valorizzazione, promuovendo il loro personale concetto di “contemporaneo”. «AV» ha presentato nel numero 90 (pp. 24-29) il complesso residenziale Montegrappa a Verona. www.studiocasaliroveda.it
PROGETTO
Spazio aperto (alle possibilità)
Un interno domestico mette in luce gli elementi compositivi e il carattere artigianale della storia dell’edificio
Progetto: arch. Giovanna Menegazzi Testo: Nicola Tommasini Foto: Raffaello Bassotto
Verona
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01. Vista dell’entrata dall’alto del ballatoio. 02. Planimetria di inquadramento urbano: in rosso l’immobile oggetto dell’intervento. 03. Veduta del nuovo ballatoio con una delle aperture circolari di progetto in facciata. 04. Prospetto su via Moschini con le nuove aperture circolari allineate al bugnato a intonaco esistente, secondo uno schema di partitura riconoscibile in numerosi edifici con caratteristiche simili.
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L’intervento di Giovanna Menegazzi che presentiamo in queste pagine è interessante e convincente per il tema, quello del lento perfezionamento del progetto attraverso la progressiva eliminazione degli elementi, e per la coerenza nel portarlo a compimento. Si tratta di un rifacimento interno – lo scopo è quello di farne l’abitazione per una famiglia – di un’unità posta nel basamento di un edificio in via Moschini, immerso nella porzione di tessuto storico che si incunea tra l’apice più a nord del tracciato urbano dell’Adige e la cinta muraria, tra le chiese di san Giorgio e di Santo Stefano. Dal punto di vista tipologico la casa risponde, come dire, ai caratteri canonici del tessuto in cui è inserita: un edificio a cortina con il fronte principale sulla strada (via Moschini), un secondo affaccio su un cortile posteriore e i due lati lunghi laterali ciechi. La base di partenza era frutto, come generalmente accade in questi casi, di diversi interventi edilizi consecutivi e, inevitabilmente, non del tutto coerenti tra loro. L’edificio era stato usa-
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to nel dopoguerra come laboratorio di falegnameria-officina, fino a una ristrutturazione complessiva negli anni ‘80, che, trasformandolo in residenza, ne aveva pesantemente alterato la struttura nei caratteri distributivi interni, nella statica, nei materiali e nelle tecniche costruttive. Si è partiti dunque dalla necessità di semplificare quell’assetto forse troppo complicato del precedente intervento, e di recuperare un impianto “neutro”, un’idea di grande aula, o spazio unitario, con una porzione a doppia altezza verso il fronte urbano, entro cui poi calare pochi nuovi elementi per rispondere a tutte le necessità dell’attuale uso domestico. Il progetto si fa carico, quindi, di rendere leggibile la struttura primitiva dell’edificio attraverso una sottrazione di elementi razionalizzando lo spazio attraverso la divisione sommaria in tre parti in sequenza: la zona giorno sul lato strada, lo spazio intermedio connettivo e funzionale (con i bagni, le scale, e degli spazi flessibili) e le stanze per il vivere – cucina, sala da pranzo e camere – sul lato inter-
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Spazio aperto (alle possibilità)
PROGETTO 05. Il ballatoio amplifica la spazialità del soggiorno a doppia altezza unificandolo visivamente con le altre stanze. 06. Pianta dell’abitazione ai due livelli. 07. L’ambiente a doppia altezza adibito a ingresso-soggiorno.
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giovanna menegazzi
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no verso la corte. E, poi, un secondo tema sottotraccia: il recupero di una certa atmosfera che alluda al carattere di laboratorio artigianale proprio della storia dell’edificio. La zona giorno è lo spazio forse meno domestico nel senso usuale del termine. È caratterizzata da un grande ed unico portone cieco sovrastato da un sopraluce vetrato con arco ribassato, che fa entrare la luce naturale ma non permette un rapporto visivo diretto con la strada: per questo è proiettata inesorabilmente e simultaneamente sia verso l’interno – verso lo spazio centrale e, attraverso questo, verso il cortile a sud – e sia verso la luce che filtra dall’alto. Era, presumibilmente, il vano principale del laboratorio, e il progetto ne coglie l’interessante valore spaziale recuperando e conservando la doppia altezza. L’inserimento inedito (in quanto non presente nello
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stato di fatto) di due oblò vetrati ai lati del portone per migliorare l’illuminazione interna, raggiunge verosimiglianza e un certo equilibrio formale di facciata, con un approccio quasi filologico. Il settore centrale è, dal punto di vista progettuale, quello che chiarisce l’intero impianto. Qui il mantenimento dei due piani diventa più denso, compresso e vibrante grazie all’inserimento degli unici elementi dichiaratamente nuovi della costruzione: due volumi interamente rivestiti in legno, addossati alle pareti cieche, che nascondono i servizi e la scala. Questi volumi poi attraversano idealmente il solaio intermedio confermando la loro presenza e la loro necessità anche al piano superiore. Verso il soggiorno questi volumi, altrimenti rivestiti da pannelli lisci, si trasformano in entrambi i livelli del fronte interno in una libreria a giorno, caratterizzando l’ambito del ballatoio. Questo è forse l’elemento spaziale più interessante del progetto, perché coniuga la propria necessità distributiva con una precisa eloquenza, eliminando ogni corridoio in funzione di una unità più complessa e unificando visivamente tutto l’interno della casa.
08. Veduta al piano primo con il setto murario centrale libero da elementi incongrui. 09. La porta di accesso al bagno al piano primo è inserita nel disegno dell’armadioguardaroba. 10. Veduta dal ballatoio sul soggiorno sottostante.
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Nata a Verona (1966), consegue la laurea in architettura presso il Politecnico di Milano nel 1992 e un Master in Design presso la Domus Academy nel 199495. Inizia la sua professione occupandosi di design: nel 1997 partecipa al Fuorisalone di Milano (Galleria Arte 3) con il sistema di arredamento polifunzionale “Pipedo Sistema” in collaborazione con Artemide (cfr. «Interni», aprile 1997). Dal 1998 svolge la sua attività con studio a Verona, occupandosi di progettazione residenziale e commerciale, restauro di edifici storici e in particolare di architettura degli interni.
Spazio aperto (alle possibilità)
PROGETTO 11. Lo spazio centrale dell’abitazione è caratterizzato dal nucleo distributivo (scala) e servizi (guardaroba e bagni) che consente il passaggio di luce e aria attraverso l’intera sezione dell’edificio. 12. Sezione trasversale comprendente la corte e la dépendance, e prospetto su via Moschini.
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Il setto centrale preesistente, sostegno per il solaio intermedio, anziché essere sfruttato come parete d’appoggio è invece lasciato libero come elemento interno circumnavigabile che dà misura e densità allo spazio centrale, altrimenti troppo vasto e in conflitto con la zona giorno. Il ballatoio attira su di sé le viste interne fino a diventare quasi il palco da cui si rappresenta la vita domestica. Dal punto di vista funzionale è uno spazio neutro, senza connotazioni particolari se non quella di essere pluriuso (può essere sala
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studio o giochi per i bimbi, biblioteca, ma anche più banalmente cabina armadio). Permette poi alla luce e all’aria di attraversare l’edificio da sud a nord, verso la zona giorno altrimenti meno luminosa. Nel terzo settore verso il cortile la casa diventa più usuale e semplice, con quattro ambienti più o meno identici tra loro (due per piano) in cui trovano posto cucina, sala da pranzo e camere. Lo schema distributivo così elementare funziona e queste quattro stanze possono, come già avvenuto nei primi mesi dopo la fine dei lavori, variare le loro funzioni nel tempo.
Committente Privato Progetto architettonico e direzione lavori arch. Giovanna Menegazzi consulenti ing. Franco De Grandis (strutture) ing. Alessandro Bacciconi (impianti meccanici) imprese e fornitori Bernardi (opere edili) Verona Impianti (impianti idraulici) Cristianelli Giovanni (impianti elettrici) Superficie di Pineda Giancarlo (pavimenti in legno) Mobili Rodegher Luca (opere di falegnameria) Dalfa snc (opere da fabbroserramenti)
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« Il progetto si fa carico di rendere leggibile la struttura primitiva dell’edificio attraverso una sottrazione di elementi» La parte a sud si apre sulla piccola corte lastricata, che fronteggia un ulteriore corpo di fabbrica- dépendance utilizzata come studio e zona relax: inizialmente era previsto anche un collegamento tra i due corpi attraverso una veranda vetrata che permetteva un passaggio coperto e climaticamente controllato. All’interno della dépendance, in assonanza materica e cromatica con il resto della casa, è stato ricavato un soppalco raggiungibile con una scala posta al centro come elemento di partizione dello spazio. La facciata sul cortile è stata oggetto di interventi minimi, per regolarizzare le dimensioni delle aperture e recuperare una certa serialità e allineamento e un senso compositivo del prospetto. Il microcosmo interno è fatto di colori neutri (pavimento in resina chia-
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Cronologia Progetto e Realizzazione: 2014-2016
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ro al piano terra, pareti e strutture del solaio bianche) su cui si impongono i nuovi volumi in legno, caldi e vibranti, che attirano luce e sguardi. Gli elementi strutturali, di progetto e di recupero, sono mantenuti visibili anche nei punti di intersezione con i volumi in legno per evidenziarne il carattere di aggiunta sulla preesistenza. Se dal punto di vista compositivo la coerenza del progetto è data dalla progressiva eliminazione di tutti gli elementi non strettamente funzionali, dal punto di vista materico e tecno-
logico il progetto ha quindi due obiettivi evidenti: chiarire le funzioni e i caratteri degli elementi compositivi e ricercare, ancora, una certa allusione con il carattere produttivo e artigianale che è parte della storia dell’edificio.
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13. Veduta dalla cucina dello spazio distributivo centrale, con i setti murari e gli arredi fissi che delimitano le zone di servizio.
PROGETTO
La dignità del lavoro
Gli interni degli uffici di un’industria del settore alimentare propongono una elevata qualità degli spazi per il lavoro e per l’accoglienza dei clienti
Progetto: arch. Carlo Cretella Testo: Marcello Bondavalli
Arbizzano (Negrar)
Foto: Miro Zagnoli
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Ai piedi della Valpolicella, alle porte di Parona, il Salumificio Fratelli Coati ha da poco ristrutturato i suoi edifici industriali. Il progetto generale è stato redatto dallo studio SMR, specializzato nella progettazione di edifici industriali del settore alimentare, mentre l’architetto Carlo Cretella ha curato gli interni dell’edificio destinato agli uffici della società. In un momento storico in cui il lavoro sta avendo una rapida trasformazione ed è sempre più liquido e senza luogo, questo progetto affronta al contrario il tema, quasi desueto, dello spazio di lavoro in un luogo specifico e legato ad una realtà produttiva. Va dato merito alla dirigenza dell’azienda di aver voluto un intervento caratterizzato dall’alta tecnologia del processo produttivo e soprattutto di aver creduto nella qualità architettonica per gli spazi destinati al lavoro e all’accoglienza dei clienti. Il luogo del lavoro, infatti, deve essere capace di un doppio livello di accoglienza: in primo luogo deve ospitare le persone che svolgono l’attività lavorativa e contemporaneamente deve essere in grado di accogliere i visitatori e i clienti, comunicando loro i valo-
01. Trasparenza, luminosità e pulizia formale caratterizzano gli ambienti di lavoro. 02. Veduta dall’alto del corpo scale con l’affaccio sulla sala riunioni al primo piano. 03. Uffici e arredi sono integrati nel layout degli spazi interni. 04. La sala relax si distingue per il rivestimento in legno delle pareti.
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« L’accostamento di quattro materiali naturali caratterizza tutti gli spazi interni: la pietra, il ferro, il legno e il vetro » ri dell’azienda. In questo caso, questi due livelli si fondono grazie alle scelte architettoniche: l’alta efficienza e qualità del processo produttivo viene mostrata con orgoglio attraverso ampie vetrate direttamente dagli spazi comuni dell’edificio degli uffici, e la scelta dei materiali degli interni non solo conferisce una qualità allo spazio ma diventa occasione per sottolineare il rapporto con il territorio. A tale proposito, già all’inizio del secolo, quando il tema dell’identità dei luoghi di lavoro cercava di superare le condizioni degli edifici industriali nati nella prima rivoluzione industriale, Walter Gropius, progettista delle famose Officine Fagus ad Alfeld del 1911, sosteneva che “il lavoro deve trovare il suo posto in edifici dove al lavoratore, ora schia-
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PROGETTO
La dignità del lavoro
05. Piante dei due livelli con le destinazioni d’uso. 06. La palazzina uffici in una veduta esterna. 07-08. L’infilata del corridoio con la parete vetrata degli uffici e controcampo dall’interno degli uffici.
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vo del sistema industriale, siano garantite non solo luce, aria e igiene, ma anche la prova di un grande ideale comune che governa ogni cosa”. La parte interessata dall’intervento dello studio di Carlo Cretella si sviluppa su due piani e ospita gli uffici, sale riunioni e una sala degustazione. La scala tra i due livelli è la vera protagonista del progetto, ed è costituita da un elemento metallico che si discosta dalle pareti, diventando un unico volume di collegamento verticale sospeso e inondato dalla luce zenitale. Gli ambienti di lavoro sono suddivisi da grandi pareti vetrate integrate ad armadiature porta documenti. La sala degustazione è uno spazio polifunzionale che si adatta a vari usi e diviene sala ristorante, grazie alla presenza di una cucina professionale, sala conferenze o sala formativa. Le pareti di questo spazio sono costituite da pannellature di legno scorrevoli che celano cavedi impiantistici, frigoriferi o l’accesso alle stanze contigue, come un piccolo spazio relax pensato per accogliere i clienti provenienti da luoghi lontani dopo un lungo viaggio. L’accostamento di quattro materiali naturali caratterizza tutti gli spazi interni: la pietra, il ferro, il legno e il vetro. La pietra della Lessinia, materiale caro alla committenza e molto legato al territorio della Valpolicella, è utilizzata con finiture e pose differenti. Per la pavimentazione del piano terra è posata in lastre levigate assieme in cantiere, così da dare l’effetto di
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carlo cretella Nato a Verona (1972), si laurea nel 1999 presso lo IUAV di Venezia, e nello stesso anno insieme ad altri giovani architetti fonda AGAV. Nel 2003 apre il proprio studio occupandosi di architettura, ristrutturazione ed interior design in contesti residenziali, commerciali e direzionali. Dal 2013 al 2015 affianca alla professione di progettista al ruolo di project manager presso un’azienda leader nelo settore del design italiano quale figura di collegamento tra il mondo degli architetti e il mondo aziendale, organizzando convegni di architettura. Dal 2007 ad oggi è docente di progettazione d’interni presso l’Istituto Design Palladio di Verona. www.carlocretella.it
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PROGETTO
La dignità del lavoro
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09. Dettaglio dell’attacco del corpo scale con l’accostamelto di ferro, pietra e legno. 10. Il corpo scale in una veduta dal basso. 11. Interno della sala degustazioni. 12. La scelta degli arredi operativi all’interno degli uffici è coerente con la palette di materiali e colori del progetto. 13. La sala riunioni al primo piano.
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una superficie unica e uniforme, mentre per la pavimentazione del primo piano, destinato agli uffici, è posata in lastre quadrate già levigate e posate a secco come pavimento flottante. Il rivestimento in pietra del vano scala, caratterizzato da incisioni a passo geometrico ripetute e alternate, gioca un ruolo fondamentale diventando uno sfondo ruvido che esalta il grande volume delicato in ferro bianco della scala. Il vetro diventa diaframma leggero e trasparente di suddivisione tra gli uffici, lascia filtrare la luce delle finestre esterne tra i vari ambienti e fa percepire lo spazio interno unitario nel suo complesso. Il legno di Rovere, in contrasto con gli altri materiale freddi, è utilizzato per scaldare alcuni ambienti, come la piccola sala relax, o per valorizzare alcuni spazi come i corridoi di distribuzione e un ufficio di rappresentanza. In questo progetto emerge non solo qualità delle composizione architettonica e la cura dei materiali, ma soprattutto la volontà della committenza di rendere i propri luoghi di lavoro spazi armoniosi al fine di privilegiare il benessere della persona.
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Come sosteneva Adriano Olivetti, in ogni edificio industriale l’uomo è il metro della costruzione, che ha l’esigenza di non perdere il contatto col mondo esterno e di lavorare in condizioni ambientali favorevoli, sia a livello fisico che psicologico. Infatti “l’architettura dei luoghi di lavoro, quando ben progettata, ha un doppio fine, etico ed estetico, ovvero di restituire dignità culturale al lavoro: la forma del costruito è un’idea che è di bellezza e di correttezza insieme, che deve soddisfare l’animo nella sua interezza.”
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PROGETTO
La dignità del lavoro
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14. Un ufficio al piano superiore con il grande lucernario che esalta la luminosità degli ambienti. 15. Il rivestimento lapideo del corpo scale è reso “ruvido” da incisioni ripetute e alternate su cui risalta il ferro bianco della rampa.
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committente Salumificio F.lli Coati Progetto e direzione artistica interni arch. Carlo Cretella collaboratori SMR Studio di progettazione Industria Alimentare (progettazione ampliamento edificio industriale e palazzina uffici), geom. Mario Riboldi (direzione lavori), geom. Marcello Ottolini (gestione processo edile), Studio Associato Burani&Nocetti (prog. impiantistica), Studio Elettroprogetti (prog.impianti elettrici), Mangili e Associati (prog. strutture)
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fornitori Giemmegroup (cartongessi), Marmi e Pietre lavarini Primo (rivestimenti in pietra), Manerba (pareti continue in vetro e mobili ufficio), Emmedi (fornitura rivestimenti in legno), Diuma (posa rivestimenti in legno), Falegnameria Sona Renzo e figli (arredi in legno), MODO+ di Conati e Franceschetti (arredi design e complementi), C.I.E.B. Elettroforniture (illumionazione), Adjust Lift (ascensore) Cronologia Progetto e realizzazione: ottobre 2015-settembre 2016
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PROGETTO
Nuova Eera
Una addizione in continuitĂ con il precedente recupero di un fabbricato industriale adibito a showroom e concept store della pietra e del bagno
Progetto: quietarchitecture - arch. Alberto Saldavori, arch. Moris Valeri Testo: Claudia Tisato
Sega di Cavaion
Foto: Daniele Tirendi
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Per uno spazio nato e sviluppato all’interno del mondo lapideo, le età della pietra non sembrano avere terminato la loro evoluzione, anzi: e il progetto che mostriamo in queste pagine non è che una ulteriore tappa di un processo di crescita “geologica”. In principio era un fabbricato industriale per la lavorazione di marmi e graniti, la cui memoria è testimoniata dal grande carro-ponte rosso che campeggia ancora oggi in esterno. Il primo passo è stata la creazione dell’Atelier EERA, grazie a un progetto di forte impatto visivo basato sulla costruzione, all’interno del fabbricato degli anni ‘60 recuperato, di volumi puliti e monolitici e su tagli potenti e sicuri, che ne hanno delineato un nuovo utilizzo come showroom (cfr. «AV» 96, pp. 14-21). Il progetto si è poi esteso a comprendere, accanto all’esposizione, attività di formazione e di laboratorio, portando alla necessità di incrementare gli ambienti di servizio: il fabbricato dismesso adiacente a quello già recuperato, ancora in attesa di una nuova destinazione, rappresenta l’ideale terreno di espansione per l’atelier, che inizia a colonizzare l’ampio volume ad esso perpendicolare. Il progetto, affidato coerentemente ai medesimi architetti di EERA, ne riprende i principi, a partire da una lettura del costruito: il volume vuoto è ritmato dalla luce che penetra dalle vetrate, con cadenza regolare, ed è uno spazio in cui si sente un trascorso di lavoro sapiente e consolidato nella tradizione-vocazione del territorio. Il silenzio racconta di un passato lasciato recentemente, di materiali antichi, estratti dalla terra. Due micro architetture poste all’interno delle prime tre campate appaiono come volumi monolitici, isolati,
autonomi rispetto al perimetro. Nella lettura della planimetria, la figura geometrica compositiva è una coppia di quadrati, di diverse dimensioni, che stabiliscono tra loro un rapporto di vicinanza, rispettoso nei confronti dell’autonomia figurativa di ciascuno. Il quadrato bidimensionale aspira alla terza dimensione: si monta la struttura metallica per costruire il telaio che delinea la volumetria del manufatto. Un blocco rivestito in marmo bianco Carrara (finitura corteccia) e l’altro in cor-ten sono completamente chiusi ed inaccessibili nell’affaccio verso l’esterno, come elementi di protezione di qualcosa di cui non si percepisce ancora la funzione. Volumi misteriosi, forti, rigorosi e senza tempo, inespugnabili come le fortezze che punteggiano il paesaggio circostante. Ogni fortezza-castello ha un ponte levatoio per accedervi, ed ecco snodarsi dall’atelier una passerella in legno termotrattato, che guida ed invita a girare l’angolo al di là del quale, attraverso uno slittamento di piani, si scorge l’interno. Anche nell’atelier c’è una passerella che collega i volumi emergenti dall’acqua; ora l’acqua non c’è più, la bassa marea ha lasciando solo sassi sul fondale...
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01, 03. I volumi monolitici del nuovo blocco servizi in estensione dell’Atelier EERA. 02. Veduta esterna con il carro-ponte rosso sul fondo. 04. Sezione sui volumi del blocco servizi realizzati nel fabbricato adiacente a quello dell’atelier.
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Nuova Eera
PROGETTO
05-06. Vedute interne dei nuovi bagni con le tessiture optical del rivestimento lapideo che alterna Calacatta e Moncervetto. 07. Pianta del blocco servizi con il percorso di accesso dall’atelier. 08. L’ossatura metallica dei monoliti del blocco servizi durante le fasi di realizzazione.
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L’elemento di connessione, unitamente alle fenditure di luce perimetrale, ribadisce l’unicità di questi monoliti galleggianti. Il ‘pieno’ sui tre lati si frammenta nel quarto e manifesta il suo essere spazio aperto nel quale si può entrare. La doppia pelle di rivestimento definisce inequivocabilmente gli ambiti esterno-interno. Se all’esterno un unico materiale senza discontinuità avvolge i manufatti, all’interno la lavorazione del paramento murario crea una texture di disegno preciso, alternando Calacatta e Moncervetto levigati. Un unico grande foglio decorato si adagia sia sul piano verticale che su quello orizzontale solamente piegandosi, e questa assenza di un confine di stacco all’incrocio dei piani ci suggerisce uno spazio che infinitamente rigi-
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Atelier EERA
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09. Disegni di studio per le tessiture lapidee del rivestimento interno dei bagni. 10-13. EERA bagno: vedute del nuovo allestimento che comprende, accanto ai materiali lapidei, componenti impiantistiche e di arredo. bagno .
committente CEV Marmi&Graniti Progetto quietarchitecture: arch. Alberto Salvadori , arch. Moris Valeri imprese e fornitori Edilment, Pescantina CEV Marmi&Graniti DL Carpenteria, Mantova Falegnameria Pietropoli, Verona ................................. Cronologia Blocco servizi Progetto e realizzazione: 2015-2016
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Allestimento EERA bagno Progetto e realizzazione: 2017
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ra su se stesso, sensazione accentuata dal gioco di specchi. La lunga mensola inclinata in Calacatta raccoglie l’acqua che, da una fenditura, scompare nella materia dalla quale sgorga. Si completa il ciclo e si ritorna alla ancestrale protezione della grotta. La preziosità di questi ambienti, nonostante la loro funzione utilitaristica (servizi per il pubblico), è espressione sia del know-how dell’azienda nella fornitura dei materiali lapidei, sia il preludio di un coinvolgimento più diretto nel mondo del bagno. Nel 2017 nasce infatti EERA bagno, e il nuovo logo si tinge di rosso come il
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carro-ponte. Gli architetti individuano all’interno dell’Atelier un percorso che racconta il bagno in tutte le sue declinazioni: non solo pietra, ma dialogo tra i diversi materiali e i marchi di qualità selezionati da EERA. Lo showroom si rivolge ad un pubblico che desideri conoscere, toccare e provare. Le pietra, le texture e le lavorazioni per i fondali di queste scenografie domestiche ci parlano della bellezza intrinseca dei materiali. Il lavoro “su misura” si confronta con la produzione di serie in un dialogo paritetico dove entrambi ne escono arricchiti.
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Una casa sui colli
Pubblicata nelle annate storiche di «Domus», una defilata e poco appariscente villa urbana e le vicende della sua realizzazione tra committente e progettista
Testo: Alberto Vignolo Foto: Archivio Domus
Verona
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Non è capitato spesso di veder figurare sulle principali riviste di architettura opere realizzate a Verona o nella provincia. Salvo gli autori imprescindibili – Scarpa e Mangiarotti su tutti – solo di rado si ha infatti l’occasione di rinvenire, tra le pagine delle annate storiche, edifici che restano per lo più misconosciuti: ma dipanando il filo delle vicende che hanno portato a quel cartaceo momento di gloria, appaiono in controluce i fatti e i protagonisti di quei frammenti di architettura ormai ricompresi nel vasto territorio fra storia e progetto. È il caso di “una casa sui colli di Verona” che alla fine degli anni sessanta «Domus» pubblicò con questo titolo; ne è autore “Alberto Rosselli, architetto, nello Studio Ponti Fornaroli Rosselli” – così la citazione letterale, con quel bizzarro “nello Studio” che lo fa sembrare una sorta di ospite di passaggio nella compagine di cui è contitolare. Ma il primo nome in ditta, Ponti, era decisamente ingombrante soprattutto per il duplice ruolo, nei confronti di Rosselli, di socio senior e di suocero1. La prima pedina del domino è così posizionata: è noto infatti come «Domus», creatura di Gio Ponti, fosse oltre che una delle più autorevoli voci internazionali, anche un ottimo strumento di divulgazione del proprio lavoro professionale2 . Eccone quindi un esempio, anche se non è riconoscibile come un’architettura ‘alla Ponti’, e difatti non lo è: ma siamo pur sempre in famiglia. L’attitudine progettuale di Alberto Rosselli era del resto prevalentemente indirizzata al disegno industriale, campo nel quale si ritrovano le sue opere più celebri anche a livello di ricerca, mentre il suo contributo all’architettura rimane confinato a poche realizzazioni note. Sulla sua figura rimandiamo comunque all’approfondimento che segue. L’altro retroscena da mettere in luce relativamente alla casa sui colli è relativo alla committenza, che l’articolo citato non rivela. La
01, 04. Nelle immagini d’archivio, veduta del fronte a valle della casa, articolato in una scansione di piani che esalta le visuali d’angolo (Archivio Domus). 02. Inserimento nel paesaggio della collina: prima di essere mitigata dalla vegetazione, la casa era riconoscibile al di sotto del Santuario della Madonna di Lourdes (Archivio Domus). 03. Salendo la strada dei Colli un tornante circoscrive l’area del giardino; gli ingressi sono posti sul fronte occidentale a monte (Archivio Domus).
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casa venne infatti commissionata allo Studio Ponti in occasione del trasferimento a Verona di Mario Formenton, chiamato dal 1961 per un decennio a dirigere gli stabilimenti veronesi della Mondadori e quindi stabilitosi in riva all’Adige con la moglie, Cristina Mondadori (una delle figlie di Arnoldo) e famiglia3 . Il legame con la committenza Mondadori a Verona è però 04
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STORIA & PROGETTO
05. Planimetria generale con l’inserimento dell’edifiico nel lotto. 06. Pianta del piano terreno e del piano primo. 05
solo nominale; nulla a che fare con le officine grafiche di Borgo Venezia, che rientrano nel campo dell’architettura industriale3, e nemmeno col raffinato intervento paesaggistico di Pietro Porcinai chiamato da Giorgio Mondadori a ridisegnare il giardino della villa ‘Mille e una rosa’ a Sommacampagna4. L’assegnazione dell’incarico per la casa è ascritto, nei ricordi di famiglia, a un legame tra i Formenton e i Rosselli-Ponti, presumibilmente maturato in Persia dove entrambi avevano interessi lavorativi. Fin qui i protagonisti, da cui scaturisce l’occasione progettuale: una grande dimora per una famiglia agiata in crescita, e la ricerca di un buen retiro appena fuori dal “caos” cittadino. I colli di Verona si prestano perfettamente per l’occasione: siamo nel periodo immediatamente successivo all’apposizione del vincolo paesaggistico (1956), che tanto dibattito aveva suscitato, paventando una indiscriminata edificazione dei declivi verso la città5. La “coda” di questo passaggio storico ha consentito l’elaborazione di questo progetto, datato 1961 (sulla base di una pregressa licenza 06
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07. Gruppo di famiglia in esterno nel giardino sul lato del portico, con l’albero che ne attraversava la copertura (Archivio Domus). 08. La facciata est verso il giardino nel disegno di progetto.
edilizia?), che rapidamente verrà costruito e reso abitabile a partire dal 1963. La collina con la sua conformazione morfologica – il lotto è inscritto in un tornante della strada dei Colli – e l’invidiabile veduta sul paesaggio urbano sono i temi coi quali Rosselli si confronta, affrontati con una poetica progettuale assolutamente antiretorica. Nonostante la firma del prestigioso studio milanese, infatti, la villa appare decisamente poco “firmata” nel senso di una riconoscibilità calligrafica. In questo approccio, che manifesta il preciso carattere di questa architettura, va riconosciuta anche una sensibilità e attenzione nell’inserire i volumi nel
« Pochi selezionati tagli e inflessioni nel volume preludono all’attraversamento del corpo di fabbrica in direzione dell’affaccio privilegiato verso la città» 07
paesaggio: solo le immagini scattate all’epoca della costruzione mettono in risalto le forme costruite, che la crescita della vegetazione circostante ha in seguito generosamente rinaturalizzato nel contesto (cosa che purtroppo non avviene per altri interventi limitrofi, anche assai recenti). Le linee tese della costruzione, la scalettatura modulata del volume, le falde molto ribassate, le gronde pronunciate e sottili possono sembrare elementi quasi banali, eppure risultano assai efficaci nella costruzione di uno spazio domestico gentile,
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09-10. Dall’interno del soggiorno verso la città: veduta attuale e immagine d’epoca. 11. Il fronte ovest dell’edificio con l’ingresso principale, veduta attuale. 12. Il prospetto ovest su strada, disegno di progetto. 13. Nell’immagine odierna la vegetazione che contribuisce al radicamento nel luogo dell’edificio. 09
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Fonti delle immagini Foto d’epoca: Archivi Domus/Casali, «Domus» 453/1967, © Editoriale Domus S.p.A. Disegni: Archivio Ponti, CSACCentro Studi e Archivio della Comunicazione, Università degli Studi di Parma. Foto attuali (9, 11, 13): Lorenzo Linthout.
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accogliente e signorile. Se il fronte su strada è chiuso e decisamente “posteriore”, pochi selezionati tagli e inflessioni nel volume preludono all’attraversamento del corpo di fabbrica in direzione dell’affaccio privilegiato: a partire dall’ingresso principale, in asse con l’edificio, che introduce all’ampia zona giorno caratterizzata dalle grandi vetrate che portano lo sguardo sulla città, sui campanili svettanti e sull’ansa del fiume. Lievi dislivelli di quota separano gli ambiti del soggiorno accompagnando morbidamente l’appoggio sul terreno; un profondo portico sul lato corto dell’edificio media il passaggio verso il giardino, mentre al protendersi dei volumi verso valle corrispondono gli spazi più caratterizzati, adibiti nella conformazione originaria a studiolo e a sala da pranzo, favorendo le visuali aperte sul paesaggio. In prossimità dell’ingresso una scala conduceva
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al livello superiore 6, interamente destinato alla zona notte. La camera padronale sulla testata d’angolo godeva del privilegio di un ampio terrazzo posto al di sopra del portico, forato per lasciar passare le fronde di un albero che contribuiva ad ancorare l’edificio al luogo. Un radicamento fatto anche di tutti quegli elementi che sembrano un “manuale” per la buona pratica paesaggistica: il colore dell’intonaco nella gamma della terra rossiccia, gli elementi in pietra locale, i serramenti in legno. La sistemazione del giardino, la parte più erta della proprietà, è riuscita a dar spazio ad una piscina dalla forma organica, che gode di una vista altrettanto libera sulla città. Una qualità spaziale improntata al comfort domestico era la caratteristica degli interni, che oggi si può cogliere solo in parte. Ma una casa, sia anche una bella casa sui colli, ha una vita che va oltre le pagine di una rivista...
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1 Alberto Rosselli aveva sposato Giovanna Ponti, secondogenita di Gio. 2 Inaugurando così una pratica passata poi attraverso la «Casabella» gregottiana, per giungere all’apoteosi di «Area», rivista programmaticamente funzionale alla carriera universitaria degli esponenti dello studioredazione. 3 Molti gustosi aneddotti relativi all’arrivo a Verona sono rievocati nell’autobriografia di Cristina Mondadori, Le mie famiglie, a cura di Laura Lepri, Bompiani, 2004. 3 Cfr. B. Bertaso, Mondadori e Niemeyer, passando per Verona, in «AV» 92, pp. 29-33.
4 F. Benati, Pietro Porcinai in Veneto, in «AV» 87, pp. 42-47. 5 Tra i contributi sul tema si veda D. Zumiani, Sulla tutela del paesaggio urbano veronese, in Piero Gazzola. Una strategia per i beni architettonici nel secondo Novecento, a cura di Alba Di Lieto e Michela Morgante, Cierre Edizioni, 2009. 6 Il passaggio di proprietà successivo al ritorno a Milano dei Formenton ha comportato il tamponamento della scala interna per separare i due nuclei familiari dei nuovi occupanti.
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Alberto Rosselli ovvero la riservatezza nel progetto Testo: Davide Crippa - Politecnico di Milano
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14. L’ingresso principale evidenzia la permeabilità dell’edifico verso valle (Archivio Domus). 15. La piscina ricavata nelle balze dello scosceso giardino (Archivio Domus). 16. Dal basso, l’albero che attraversava il portico fino al terrazzo della camera al primo piano (Archivio Domus).
Alberto Rosselli ha avuto un ruolo particolarmente importante nella storia del design e dell’architettura italiana: attraverso la sua ricerca, portata avanti con il medesimo entusiasmo sia a livello teorico che progettuale, egli ha segnato profondamente la cultura progettuale del dopoguerra, pur nei modi silenziosi e riservati che lo hanno sempre contraddistinto. Tra i primi ad interessarsi e a parlare di “disegno industriale”, Rosselli ha il grande merito di aver dato dignità di ricerca scientifica ad un’attività fino a quel momento considerata secondaria rispetto all’architettura; ha fondato e diretto «Stile Industria» – una rivista nata come costola di «Domus» ma che in breve tempo ha acquisito una sua completa autonomia e compiutezza –, è stato tra i promotori della nascita dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) e come docente ha introdotto il concetto (estremamente innovativo per il periodo) di “progetto inteso come processo decisionale”, impostando la didattica su rigorosi criteri di metodo e ponendo così le basi strutturali e concettuali di riferimento per la fondazione dell’Area Tecnologica della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. La sua storia complessa, il rapporto contrastato con Gio Ponti, l’esperienza
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universitaria nei difficili anni ’60, la proposta di progetti innovativi e coraggiosi, l’apporto dato alla nascita e alla diffusione del concetto di disegno industriale, gli importanti saggi teorici e gli editoriali di «Stile Industria» – che pur nella sua breve vita, dal 1954 al 1963, ha comunque segnato la storia dell’editoria italiana nel campo della grafica e del design – testimoniano, dunque, quanto Rosselli sia stato un effettivo protagonista del dibattito e della scena progettuale degli anni ’50-’70. Un protagonista a volte scontroso, restio a lasciarsi travolgere da logiche di potere che gli erano completamente estranee; solitario, per scelta, si immergeva letteralmente nei progetti, a cui si dedicava con ostinazione e da cui traeva stimoli ed energia; ironico e pungente, di un’ironia 16 un po’ all’inglese, con cui forse aveva imparato a difendersi e a contrattaccare senza mai cadere nelle polemiche. Pudico e riservato, ma al tempo stesso affabile, sensibile – forse troppo, se esiste un criterio di giudizio per definire un “troppo” – gentile nei modi, nei gesti e nei silenzi ancora più che nelle parole, mostrava un’apparente fragilità che nascondeva invece un’ostinata perseveranza. Per alcuni pessimista, per altri più semplicemente un idealista che si scontrava con difficoltà con una realtà a cui apparteneva, ma che spesso non condivideva.
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17. Alcune copertine di «Stile Industria» esposte alla mostra Alberto Rosselli designer architetto, Politecnico di Milano, maggio 2003 (Archivio Ghigos). 18. Alberto Rosselli con Isao Hosoe, pullman granturismo Meteor, Carrozzeria Orlandi, 1970.
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A livello progettuale Rosselli ha svolto un’indagine con una forte impronta sociale, coerente con i suoi principi e con la sua visione del ruolo del progetto e del progettista: per lui il designer doveva “essere un deputato dei consumatori presso la produzione. Colui che ne interpreta i desideri stando come il Consigliere del Principe: accanto a lui, ma non sotto di lui”. Il suo sguardo, sempre volto a cogliere le reali esigenze dell’utente, riusciva a tradurle in soluzioni tecnologiche e materiche di esemplare semplicità e funzionalità; da cui la qualità di un progetto che riusciva ad incidere positivamente sui modi di vivere anche nel quotidiano. Nella sua ricerca emerge come costante la predilezione per soluzioni aperte e flessibili,
mai definitive, in grado di rispondere alle diverse esigenze delle persone; nei suoi progetti, espressioni di una caparbia esplorazione “nel campo del possibile”, nessun dettaglio era lasciato ad uno stadio approssimativo, nulla era trascurato o delegato ad un poi futuro; egli ha sempre coltivato l’incertezza come valore progettuale, applicandola però in modo metodico e rigoroso. Anche durante la lunga e proficua collaborazione con Gio Ponti e Antonio Fornaroli nello studio Ponti Fornaroli Rosselli sono rintracciabili queste sue caratteristiche personali, che lo hanno contraddistinto come individualità all’interno del famoso studio in un periodo ricco di soddisfazioni, ma per
«L’aereo che viaggia più veloce del suono si fa sentire solo quando è oramai andato via. A volte lascia un tuono profondo che penetra nel cuore senza scomodare i nostri cinque sensi, ma molte volte passa in totale silenzio perchè vola così alto che l’aria rarefatta della stratosfera non riesce a trasmettere l’onda sonora. Rosselli sapeva che gridare ad alta voce nell’ambiente rumoroso non fa che aumentare ulteriormente il livello di rumore di fondo » (Isao Hosoe)
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alcuni aspetti anche tormentato per il giovane architetto (dibattuto tra la stima, l’amicizia e la riconoscenza, ma anche il successo e l’esuberanza esplosiva dell’ingombrante suocero Ponti).
La gentilezza spaziale
Il “nuovo atteggiamento” di Rosselli, volto ad ascoltare e soddisfare quegli stessi uomini che l’eredità meccanicista aveva ridotto ad anonimi utenti, traspone una volta di più un valore morale e personale del designer in ambito professionale: nelle soluzioni proposte – discrete, puntuali, ma dirompenti per esemplare semplicità e raffinata coerenza – si riflette la gentilezza d’animo del progettista. Questa gentilezza, anche progettuale, si esprime di volta in volta nella delicatezza di un dettaglio, nell’attenzione rivolta anche ai particolari apparentemente più insignificanti, in una sensibilità spaziale e materica che sembra sfociare nella poesia – “l’architetto è un poeta che pensa e parla in costruzione”, ripeteva spesso. Tale impostazione lo portava a non voler mai imporre il suo pensiero e a
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19. Edificio delle rotative del Corriere della Sera in via Moscova a Milano, 1960-64 (Archivio Domus). 20-23. Casa di montagna a Celerina (1970): vedute del fronte nord e di quello sud con le terrazze a piani sfalsati, interno con le “finestre” aperte un piano sull’altro e spaccato assonometrico di un alloggio (Archivio Domus). 19
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non presentare progetti urlati nel tentativo di ottenere maggior attenzione; anche perché sapeva che “gridare nell’ambiente rumoroso non fa che aumentare ulteriormente il livello di rumore di fondo”. Nei progetti di architettura la gentilezza dell’autore si rivela in soluzioni capaci di inserirsi, con rispetto e dignità, nel tessuto urbano e culturale preesistente; senza voler stupire a tutti i costi, i suoi edifici dimostravano sempre grande rispetto per il contesto, con cui si integravano senza rinunciare comunque alla loro contemporaneità. L’esempio che meglio esprime questa delicatezza e consapevolezza progettuale è l’edificio delle rotative del Corriere della Sera in via Moscova a Milano, magistrale dimostrazione di come sia possibile risolvere il difficile inserimento nel tessuto cittadino di un’attività industriale. L’edificio proponeva una rivisitazione degli ordini del palazzo attiguo in chiave e con materiali moderni, e il forte basamento a pannelli di granito sottolineava una volta di più la continuità formale con gli edifici della via; ma è un’altra attenzione progettuale – forse meno evidente eppure altrettanto significativa – a risultare degna di nota. Rosselli, infatti, aveva previsto che il muro lungo il marciapiede fosse leggermente inclinato verso l’interno – espressione di un’incredibile sensibilità nei confronti del passante che, così, non avrebbe colto percettivamente alcun limite a fianco a sé. La parete sembrava quasi accogliere e guidare il suo passaggio. Ma sono tanti i piccoli accorgimenti che rivelano la delicatezza progettuale dell’architetto: a volte le forti strombature delle finestre che permettono di allargare il campo visivo verso il paesaggio; altre volte il caratteristico andamento dei muri, che quasi piegati su se stessi assecondano la conformazione naturale del terreno circostante; o ancora il suggestivo ma discreto canale di luce nel negozio National a Milano (1955); come i grandi finestrini e la configurazione a padiglione del pullman
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granturismo Meteor – che definendo uno spazio interno ampiamente vetrato offrono ai passeggeri qualcosa di più di fugaci scorci di paesaggio. Esempi di una gentilezza spaziale che non conosce limiti di scala. E che poi si manifesta in ciò che Rosselli chiamerà “architettura e design delle relazioni”. Attraverso una progettazione di (e per) relazioni il progettista ampliava i rapporti reciproci tra gli spazi e ne suggestionava i fruitori: grandi e piccole finestre interne dilatavano gli ambienti rendendo più vivo il rapporto tra chi li abita, più divertente e diretto il modo di comunicare; le visuali non erano più costrette tra i muri di una stanza; luoghi a funzioni e temporalità diverse dialogavano tramite aperture appositamente studiate, nella forma e nella posizione, per rubare – o regalare – uno sguardo.
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L’appartamento di via Rovani a Milano con lo studiolo sopraelevato da cui si potevano osservare – anche non visti – ingresso e salone; la cucina comunicante con il salotto e il bagno che (inaspettatamente) si apre sul piano sottostante nella casa di Celerina in Engadina; i soppalchi e il salone che all’occorrenza si estendeva verso il giardino usufruendo dello spazio-filtro del porticato nella casa rurale dell’Agro di Foggia e nella lussuosa villa di Nole Canavese; l’organizzazione dello spazio in più direzioni che rendeva i piani in grado di assumere una diversa superficie in relazione ad ogni specifico programma di lavoro nella struttura a piani mobili per uffici; il sistema di pannelli apribili che delimitavano le vetrine ma, al contempo, guidavano lo sguardo del passante fin nell’interno del negozio National;
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la zona di fondo pensata come una sorta di salotto itinerante nel pullman Meteor: questi e altri esempi sono immagini nitide di uno spazio che vuole essere, prima di tutto, un luogo di relazioni.
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SAGGIO
Fanfani va in città
L’edilizia residenziale pubblica del piano INA-Casa a Verona
Testo: Angelo Bertolazzi Foto: Lorenzo Linthout
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01. Case al quartiere Santa Croce tra via Perini e via Montorio. 02. Finestre aperte agli Orti di Spagna. 03. Planimetria generale dell’insediamento INA-Casa a Porto San Pancrazio.
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L’inadeguatezza della risposta del Fascismo di fronte alle necessità di alloggi per i ceti più poveri, che era già stata criticata da Giuseppe Pagano sulle pagine di «Costruzioni-Casabella», emerse in tutta la sua drammaticità dopo la guerra, quando ai precedenti problemi si aggiunsero quelli della ricostruzione. Nel 1947 il Ministero dei Lavori Pubblici pubblicò infatti una ricerca sul fabbisogno di alloggi, stimando che per risolvere la sola situazione abitativa erano necessari almeno quattro milioni e mezzo di nuovi vani, a cui si dovevano sommare i due milioni e mezzo di vani da ricostruire. La questione
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dell’abitazione diventò un tema molto dibattuto nei primissimi anni del dopoguerra, diventando l’occasione anche per riprendere il filo con gli studi maturati in seno alla cultura italiana prima e durante la guerra. Tale dibattito fu intimamente legato con le scelte di carattere sociale e politico che erano alla base della ricostruzione del Paese, coinvolgendo vari aspetti, da quelli della pianificazione urbana a quelli sociali, da quelli strettamente tipologici a quelli costruttivi, rappresentando l’occasione per confrontarsi con la realtà dei progetti e delle riflessioni sul tema della casa. La pubblicazione nel marzo del 1949
sulla Gazzetta Ufficiale della Legge n. precisi contenuti ideologici, fondato 43 del 28/02/1949 definita “Provvedi- sulle teorie keynesiane stemperate da mento per incrementare l’occupazio- una forte componente di solidarietà ne operaia, agevolando la costruzione cristiana. di case per lavoratori” diede inizio al Il piano venne gestito in maniera più grande intervento dello Stato in molto efficiente: gli aspetti organizfavore dell’edilizia residenziale pub- zativi e di vigilanza vennero affidablica, noto come Piano INA-Casa o ti ad un Comitato di Attuazione del Piano Fanfani. Tale intervento, che Piano, diretto dall’ingegnere Filiberprevedeva un finanziamento misto, to Guala, che provvedeva all’emanacon la partecipazione dello Stato, dei zione di norme e alla ripartizione dei datori di lavoro e fondi. Gli aspetdei dipendenti, ti architettonici « Nel 1947 era volto a rilaned urbanistici del per risolvere la sola ciare l’economia Piano vennero ine l’occupazione situazione abitativa erano vece gestiti dalla necessari almeno quattro Gestione INAattraverso la costruzione di case Casa, un organo milioni e mezzo economiche, ma diretto dall’ardi nuovi vani » anche come un chitetto Arnaldispositivo sociado Foschini, che le su scala nazionale fondato sul prin- ebbe un ruolo importante anche nelcipio di solidarietà, senza le pericolose le scelte operative del Piano stesso. Il derive a sinistra. La legge apriva una risultato fu che, iniziata ufficialmennuova fase nelle politiche dell’edilizia te l’attività del Piano il 1° aprile del popolare, soprattutto per quanto ri- 1949, già il 7 luglio dello stesso anno guarda il tipo di finanziamento, assi- poté essere inaugurato il primo cancurato principalmente dallo strumen- tiere, mentre al 31 ottobre risultavano to “parafiscale”, ma conteneva anche già attivi nel Paese più di 650 cantieri.
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04. Santa Croce: pianta e alzato delle “case continue” e dell’edificio a portico sulla piazza. 05. Golosine: case su via Piccono della Valle. 06. Gli interventi INACasa erano sempre contrassegnati da targhe in terracotta commissionate ad artisti locali. 07. Golosine: tra via Carisio e via Carlo Alberto. 08-09. Santa Croce: prospettive della piazza del quartiere e dell’edificio “Q”.
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Una stima del 1962 indicava che con il Piano INA-Casa vennero aperti in Italia più di 20.000 cantieri, che davano lavoro annualmente a circa 40.000 lavoratori edili. Questa gigantesca macchina arrivò a realizzare settimanalmente 2800 vani in cui alloggiare 560 famiglie. Nei 14 anni del Piano vennero programmati 1.919.936 vani, mentre alla fine risulteranno completati poco meno di 2.000.000 di vani, che consentirono di dare un alloggio a 350.000 famiglie. Secondo un’indagine promossa dall’Ente sulle condizioni abitative prima dell’assegnazione della nuova casa, il 40% dei nuclei familiari abitava in cantine, grotte, baracche, sottoscala e il 17% in coabitazione con altre famiglie; a queste percentuali si aggiungevano i profughi dall’Istria e dalla Dalmazia (15%) e successivamente dalle ex-colonie africane (17%). Le linee guida indicate dal Piano Fanfani compresero anche un preciso indirizzo tecnologico: la scelta strategica di utilizzare l’edilizia per assorbire grandi quantità di mano d’opera non qualificata era in evidente contrasto con i criteri di industrializzazione e standardizzazione presenti nelle proposte studiate sul finire degli anni
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Quaranta dalla cultura architettonica italiana e culminate nel quartiere sperimentale QT8 della Ottava Triennale di Milano. Questo contrasto può essere testimoniato dal confronto tra la linea proposta da Diotallevi e Marescotti, basata sul concetto di produzione di serie, e quella di Mario Ridolfi, impostata su criteri di produzione artigianale capaci di adeguarsi alle diverse realtà produttive italiane, dove fu quest’ultima a prevalere. Non è un caso che negli anni successivi un libro notevole come Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione (1948, I. Diotallevi-F. Marescotti)) abbia avuto un successo e una diffusione molto minori rispetto al Manuale dell’Architetto (1946, M. Ridolfi), che costituì invece per i progettisti (e un po’ per tutti gli operatori dell’edilizia) un vero e proprio repertorio di soluzioni formali e costruttive. Sintomo di questa precisa linea politica è anche l’assenza di un supporto tecnico a favore dell’industrializzazione: la Gestione INA-Casa infatti forniva una guida ed un coordinamento degli interventi attraverso piccoli manuali, due nel primo settennio e due nel secondo, che raccoglievano suggerimenti, raccomanda-
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zioni, orientamenti, schemi, esempi, per ‘guidare’ piuttosto che per codificare la progettazione di alloggi, dove gli esempi forniti, venivano proposti non come norma da applicare, ma come modelli da interpretare e rielaborare, seguendo le esigenze e le condizioni dei diversi contesti locali, privilegiando gli aspetti urbani rispetto a quelli tecnologici. All’interno delle norme individuate dal Piano le problematiche costruttive vengono sintetizzate nel seguente modo: «Per quanto riguarda le strut-
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ture portanti, la scelta del sistema costruttivo ed il suo adattamento allo schema distributivo devono rispondere pienamente alla necessità di accogliere i materiali meglio adatti, come resistenza e durata, coibenza, ecc., e nello stesso tempo più economici per la località in cui le case debbono sorgere [...] La casa dovrà essere solida nell’ossatura, tecnicamente perfetta negli impianti, curata nelle rifiniture, onde limitare al minimo le spese di manutenzione». In queste succinte indicazioni di natura tecnica
si possono individuare alcuni aspetti che costituiranno la costruzione italiana almeno fino agli anni ’70: la predominanza del sistema a telaio in calcestruzzo con orizzontamenti in latero-cemento e tamponamenti in muratura di diverso genere. Quest’ultimo aspetto e la finitura esterna rispondono invece alla necessità di adattarsi alle condizioni materiali del luogo, dando origine al polimaterismo che si può individuare nei diversi quartieri costruiti nei due settenni del Piano. A Verona i dati statistici richiesti dalla normativa e forniti dal Comune nel 1949, riguardanti la percentuale di vani distrutti dalla guerra, gli indici di sovraffollamento e il tasso di disoccupazione, non saranno sufficienti a far comprendere la città nelle prime
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30 finanziate. Il ripescaggio fu possibile grazie all’intervento di Giuseppe Trabucchi, all’epoca vicesindaco e che diventerà nel decennio successivo ministro delle Finanze, e di Plinio Marconi, consulente del comune per l’Urbanistica e autore del Piano Regolatore Generale scaligero (1954). Il concorso del 1950 per il quartiere Orti di Spagna, vide la presentazione di circa venti progetti provenienti da tutta Italia (Napoli, Milano, Chieti, Brescia, Padova e Roma). In particolare numerosi furono i progettisti romani, dall’architetto Serena Boselli, stretta collaboratrice di Mario Fiorentino e Plinio Marconi, sempre nel campo dell’edilizia popolare, a Giuseppe Nicolosi, ex Gruppo Urbanisti Romani, con precedenti esperienze nel quartiere Garbatella e nelle cit-
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10-11. Borgo Nuovo: le case in linea e le case a schiera al termine della costruzione del quartiere. 12-13. Santa Croce: prospettiva degli edifici su via Carli e fronte su strada dell’edificio tipo “M”. 14. Golosine: veduta sulla via Piccono della Valle. 15. Orti di Spagna: case tra via del Carroccio e via di Villasanta.
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tà pontine durante il Ventennio. La stessa commissione giudicatrice vide la partecipazione di Luigi Piccinato, Gio Ponti e Cesare Valle. Tra i progettisti locali vi furono invece Guido Dongili, Direttore Generale dello IACP scaligero, dal 1947 al 1973, insieme a due più giovani progettisti Giuseppe Poso e Albino Agosti. Tra gli ingegneri di provenienza extra locale va invece ricordato il vicentino Antonio Cattaneo, ex presidente dello IACP di Vicenza e ivi co-progettista del Villaggio del Sole. L’attività del Piano INA-Casa a Verona, che vide poi la realizzazione nel corso del secondo settennio del quartiere di Montorio (gruppo Ena,
« Il Piano Fanfani consentì la ripresa del settore dell’edilizia ma non non ne favorì lo sviluppo tecnologico causando un ritardo rispetto agli altri paesi europei » Carrara, Corbo e Minissi) e di Santa Lucia (gruppo Sacripanti, Bocca, Di Cagno, Malatesta Moroni e gruppo Bisoffi, Benatti, Trojani e Vincita), portò alla programmazione di 18.683 vani per un totale di 3.443 alloggi nei due settenni. In particolare nel corso del secondo settennio 1956-1963, dei 1.948 alloggi (10.909 vani) programmati, vennero realizzati 1.825 alloggi (10.220 vani), di cui 1337 a riscatto e 508 in locazione, con un costo totale di 5.232 milioni di lire. Un bilancio sulla conduzione e sulle realizzazioni del Piano Fanfani non sono facili: spesso criticato dal punto di vista della pianificazione urbana, con l’impostazione ‘a quartiere’ non
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portò alla realizzazione delle grandi periferie intensive i cui problemi di degrado sociale sono di estrema attualità, mentre se da un lato consentì la ripresa del settore dell’edilizia, dall’altro non ne favorì lo sviluppo tecnologico, causandone un ritardo rispetto agli altri paesi europei che rimane per certi versi ancora oggi.
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Bibliografia L. Benevolo, L’architettura dell’INA-Casa, «Centro sociale», 1960, 30-31, pp. 59-67. R. Catelani, C. Trevisan, Città in trasformazione e servizio sociale, Roma 1961. I 14 anni del Piano INA-Casa, a cura di L. Beretta Anguissola, Roma 1963. S. Pace, Una solidarietà agevolata: il piano Ina-Casa, 1948-1949, «Rassegna», 1993, 54, 2, pp. 20-27. La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi, Roma 2001. AA.VV., Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta
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e il modello italiano di welfare state. Il piano Ina-Casa, Soveria Mannelli 2002. L’architettura INA-Casa (1949-1963). Aspetti e problemi di conservazione e recupero, a cura di R. Capomolla, R. Vittorini, Roma 2003.
Lo zio soprintendente
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La figura del veronese Ferdinando Forlati nel ricordo dell’omonimo discendente in occasione della recente mostra sulla sua attività
Testo: Ferdinando Forlati
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01. Ritratto di Ferdinando Forlati. 02. Un sopralluogo spericolato al cantiere della Basilica palladiana di Vicenza.
Ferdinando Forlati nella ricostruzione postbellica e nel restauro del Novecento mostra promossa da Università IUAV - Archivio Progetti Ordine degli Architetti P.P.C. della provincia di Venezia Ordine degli Ingegneri della provincia di Venezia Ateneo veneto a cura di Sara Di Resta, Luca Scappin, Emanuela Sorbo
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Recentemente presso lo IUAV di Venezia si è svolta la mostra “Ferdinando Forlati nella ricostruzione postbellica e nel restauro del Novecento” a supporto di un bel libro sulla figura dell’ingegnere Ferdinando Forlati. Non è la prima esposizione che l’università dedica al sovrintendente Forlati: pochi anni or sono si tenne quella intitolata “I Forlati” che includeva anche la moglie Bruna Tamaro, conosciuta e temuta soprintendente per i beni archeologici a Verona, in occasione del lascito dell’archivio personale proprio allo IUAV. Per me, architetto e omonimo, ma anche per tutta la nostra famiglia, lo zio Fer – come veniva chiamato in casa – è sempre stato quello famoso e importante, quello del restauro di San Marco, quello che viveva nella Ca’ d’Oro, quello con una 02 marcia in più: quello che nonostante l’altezza fisica propria di famiglia aveva una levatura eccezionale. per lui vista la sua riluttanza ad abbandonare i Scopro solo da poco che la maggior parte degli luoghi che gli erano cari e il diniego di trasferirsi studiosi si riferisce a lui come ingegnere, ma altrove), per ritornare di nuovo a Venezia in qualità per tutti noi Forlati era l’Architetto con la A di soprintendente e poi anche Proto di San Marco. maiuscola, come egli stesso si sentiva e di cui All’epoca i funzionari e i direttori delle sicuramente aveva la sensibilità e l’estro. Figlio di Soprintendenze neo costituite potevano anche orologiai – come anch’io, modestia a parte –, aveva lavorare in proprio come progettisti e direttori probabilmente nel sangue anche una sensibilità per lavori, e lo zio lo faceva con quel suo innato talento le cose pratiche e meccaniche oltre che artistiche per ricercare le cose belle, tanto da accettare a (ma adesso che ci penso, pagamento di parcelle « Lo zio non si tirava indietro c’era stato anche un anche opere di artisti che altro famoso architetto all’epoca non avevano e sembra fosse uno stambecco figlio di orologiai, valore; anni or sono la zia che agilmente saliva su scale e evidentemente è una Bruna mi mostrò parte impalcature per seguire in prima buona abbinata...). Non di queste, tra le quali vidi persona ogni fase del lavoro » sarò qui a raccontare Morandi, Carrà, Piranesi la vita e le opere del ed altri ancora. mio famoso omonimo perché non è né il luogo Bisogna ricordare che il ruolo delle né avrei lo spazio e le qualità per farlo; ma è solo Soprintendenze nel secolo scorso era ben altro che un pensiero a suo ricordo portando forse qualche quello odierno più burocratico amministrativo: elemento in più a quanto già scritto su di lui. avevano maestranze a disposizione che eseguivano Quando lui iniziò, agli inizi del ‘900, forse tutto continuamente restauri in cantieri sotto il era più semplice: di architetti e ingegneri ce diretto controllo del soprintendente e degli altri n’erano di meno e contavano di più, e chi aveva la funzionari preposti. Lo zio non si tirava indietro, testa riusciva a svettare imponendo la sua volontà, e sembra fosse uno stambecco che agilmente saliva talvolta anche alle amministrazioni pubbliche. su scale e impalcature dell’epoca per seguire in Cominciò come funzionario della Soprintendenza prima persona ogni fase del lavoro. Mi raccontava a Venezia nel 1911, dove rimarrà per anni per poi il Benvegnù, suo storico capomastro che ho avuto essere trasferito in quella di Trieste (creata ex novo la fortuna di conoscere, come fosse meticoloso
03-04. Schizzi preparatori per decorazioni. 05. Prima idea progettuale di Forlati per l’ala dell’Arena. 06. Progetto realizzato per il rinsaldo dell’ala dell’Arena su base della soluzione Forlati con correzioni dell’ingegnere Riccardo Morandi.
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e preciso e come impartisse le direttive su come eseguire le 05 varie fasi dei lavori con la massima cognizione di causa, conoscendo perfettamente sia i materiali che le modalità di applicazione. Mi sovviene anche una sua foto sul cantiere della Basilica Palladiana, dove insieme ad altri passeggia tranquillamente sul cornicione senza alcun ponteggio di protezione su ambo i lati a svariati metri di altezza, il che oggigiorno farebbe accapponare la pelle a qualsiasi coordinatore della sicurezza. Legato alle carte del restauro, era molto rispettoso del monumento che suggeriva di non stravolgere mai a nostro piacimento quanto era da restaurare; inoltre sottolineava che “se dobbiamo intervenire arrecheremo sempre qualche danno... cerchiamo di farne il meno possibile”. Con uno spirito inventivo e aperto all’innovazione, sperimentò soluzioni di restauro e consolidamento con metalli e cemento armato usati in modo
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da non essere visibili, che oggi per certi versi ci farebbero storcere un po’ il naso ma che all’epoca erano sicuramente un passo avanti rispetto alla corrente cultura del restauro. Geniali furono le sue pensate sul raddrizzamento di murature fuori asse o fuori piombo che applicò a Padova nella Chiesa degli Eremitani e a Treviso al Palazzo dei Trecento, dove mediante una serie di tiranti e manicotti, di cui aveva calcolato e progettato perfino la parte filettata, azionati a mano dalle sue squadre coordinate in sincronia spostò per più di 80 cm la facciata del palazzo. Nonostante l’origine veronese, i suoi restauri più importanti sono tutti fuori dalla nostra città: in terra veneziana San Marco, la Ca’ d’Oro e San Giorgio, a Vicenza la Basilica, ma anche a Padova, Treviso, Bolzano, Trieste, in Istria, a Gerusalemme e in molti altri luoghi il cui elenco sarebbe lunghissimo da riportare. Tra le poche cose fatte a Verona, la più importante è sicuramente il recupero “in stile” di Castelvecchio, opera della prima metà del secolo scorso nata dalla strettissima collaborazione
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07-09. Lettera alla sorella Maria con riferimento agli affreschi ritrovati e ai lavori di Ca’ Zenobia a Sommacampagna con schizzi esemplificativi.
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Bibliografia Ferdinando Forlati, Restauri a Venezia, in «Le Vie d’Italia», rivista mensile del TCI, settembre 1937-XV. Ferdinando Forlati, La pieve di S. Andrea di Sommacampagna, atti dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, serie V vol XXII, Verona 19431944. Bruna Tamaro Forlati, Ferdinando Forlati, Franco Barbieri, Il Duomo di Vicenza, Banca Popolare di Vicenza, Vicenza 1956. Ferdinando Forlati, La basilica di San Marco attraverso i suoi restauri, edizioni LINT, Trieste 1975. Piero Gazzola, Ferdinando Forlati, atti dell’Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, serie VI vol XXVII, Verona 1975-1976. Ferdinando Forlati, San Giorgio Maggiore. Il complesso monumentale e i suoi restauri, Antoniana, Padova 1977. AA.VV., Medioevo ideale e medioevo reale nella cultura urbana. Antonio Avena e la Verona del primo Novecento, atti del convegno, Comune di Verona, 2003. AA.VV., Le stagioni dell’ingegnere Ferdinando Forlati. Un protagonista del restauro nelle Venezie del Novecento, Il Poligrafo, Venezia 2017. 09
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con l’amico e sovrintendente dell’epoca Antonio Avena. Di quest’opera si è trattato ampiamente all’interno degli atti del convegno su Avena tenutosi alla Gran Guardia nel 2002. A Sommacampagna molto interessante è il restauro della bella pieve romanica di Sant’Andrea, all’interno del cimitero, costruita su di un precedente tempio romano con elementi bizantini e longobardi, in cui sopra la porta d’uscita troviamo uno splendido giudizio universale. Sempre a Sommacampagna restaurò la Ca’ Zenobia di sua proprietà, dove rinvenne ed attribuì a Paolo Farinati una serie di affreschi allegorici nelle camere da letto. Di questi ritrovamenti e dei lavori da eseguire abbiamo riferimenti nelle lettere scambiate con la sorella Maria, con schizzi ed appunti rigorosamente su carta intestata della soprintendenza. Per noi veronesi, ultimo temporalmente ma non meno importante è il consolidamento dell’ala dell’Arena, frutto di una collaborazione con il soprintendente di Verona Piero Gazzola, suo amico, con cui aveva una fitta relazione epistolare. Rifiutandosi Bruna Tamaro, sua moglie ed anche soprintendente per i beni archeologici a Verona, di far eseguire le strutture in cemento armato a vista che erano state proposte per consolidare l’ala al fine di rimuovere quegli enormi contrafforti esistenti, il Gazzola chiese consiglio al Forlati che gli inviò una serie di schizzi su una soluzione con tiranti in acciaio invisibili. L’idea consisteva nell’inserimento, mediante carotatura di tutta l’ala, di trefoli in acciaio posti in trazione a sostegno dell’intera struttura tanto da creare un ipotetico pilastro precompresso, concetto che userà anche in seguito nel restauro della basilica di Tindari. Sviluppato poi dalla ditta che eseguì materialmente l’opera sotto la direzione e il progetto perfezionato dall’ingegner Riccardo Morandi, questo concetto fu realizzato nella più assoluta invisibilità a preservare dal crollo questo nostro importantissimo lascito romano.
Per un archivio del progetto urbano
Il lavoro di ricerca di quattro associazioni culturali restituisce un tassello della storia urbana Testo: Federica Guerra
Spesso ci si dimentica come ogni onesto lavoro critico sulla città, sulle sue trasformazioni, sulla sua storia derivi da una corretta analisi delle fonti documentarie: sono queste e solo queste che ci permettono di fare raffronti, comparare situazioni e azzardare ipotesi interpretative. E se le fonti mancano, significa che manca un pezzo del ragionamento e che quindi diventa difficile trarre conclusioni e proporre decodificazioni. È per questo che salutiamo come una benedizione ogni occasione in cui un nuovo tassello che aiuta a ricostruire la storia della città ci viene restituito dalla volontà e dalla dedizione di chi apre, riordina e restituisce alla fruizione pubblica un fondo archivistico. È quanto è stato presentato nel convegno “Verona in trasformazione (19201960)” svoltosi presso la sede dell’Ordine degli Ingegneri sabato 23 settembre 2017, dove è stato esposto il lavoro di censimento e catalogazione del fondo dell’Ufficio Distrettuale Imposte Dirette di Verona, parte del fondo del Catasto Italiano conservato all’Archivio di Stato di Verona. Al Convegno di presentazione ha fatto seguito l’inaugurazione della mostra documentaria che ha
presentato alcuni tra i più significativi disegni del fondo archivistico. Un singolare approccio per raccontare Verona e la sua storia urbana. A “parlare” i documenti provenienti dagli Accertamenti imposte sui fabbricati, che presentano come allegati i progetti originali completi dei dati del proprietario, del progettista, dell’anno di costruzione, dei dati catastali e spesso addirittura della prima agibilità. Sono questi dati e questi bellissimi disegni creduti ormai perduti dopo i danni causati dalla Seconda Guerra Mondiale all’Archivio dell’Edilizia Privata del Comune, che ci raccontano come Verona si sia trasformata per continui lievi aggiustamenti, piccoli interventi sul costruito insieme a più grandi interventi di nuova edificazione e come nel periodo dal 1920 al 1960 Verona abbia assunto l’aspetto odierno. Il convegno e la mostra hanno raccontato come dalle 194 buste conservate siano emersi 2320 progetti che hanno permesso di creare un database di catalogazione facilmente consultabile, presto anche on line sul sito dell’Archivio di Stato. I relatori Roberto Mazzei, Direttore dell’Archivio di Stato di Verona e Michele De Mori, architetto e presidente dell’associazione A.G.I.L.E., curatori della mostra, hanno ripetutamente sottolineato come il lavoro svolto abbia un valore non solo
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culturale ma fortemente pragmatico nel rendere questi dati fruibili digitalmente ai cittadini che abbiano la necessità di ricostruire la storia puntuale di un edificio. Eppure non può che risultare evidente come il lavoro svolto abbia anche un più ampio respiro nell’avviare filoni di ricerca sulle modalità di sviluppo della città piuttosto che sul contributo dato da alcune figure professionali o sulla storia di particolari edifici. La mostra, come momento di condivisione e divulgazione del lavoro svolto, è articolata in alcuni pannelli suddivisi per i quartieri della città (Centro Storico, Borgo Trento-Valdonega, Borgo Venezia, Borgo Roma-Tombetta-Santa Lucia, Borgo Milano-San Massimo-Chievo)
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promossa da Archivio di Stato di Verona Ordine degli Ingegneri di Verona e provincia a cura di Associazione A.G.I.L.E. Italia Nostra Onlus sez. di Verona Progetto Musa Antiqua Associazione La Quarta Luna con il patrocinio di: Ordine degli Architetti PPC della provincia di Verona gruppo di lavoro Michele De Mori, Davide Rizzi, Andrea Fratton, Maria Matilde Paganini, Riccardo Battiferro Bertocchi, Paola Ferrarin, Marisa Velardita, Viviana Palmiotti con la collaborazione di: Natale Sandrini, Alberto Vignolo
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dove vengono presentati progetti di diversa tipologia, dagli interventi di grande risonanza e più conosciuti ad interventi più minuti e poco noti. A questi pannelli si alternano alcune brevi monografie riferite ai professionisti, ingegneri e architetti, più attivi nel periodo storico considerato: Marcello Tommasi, Silvio Brutti, Antonio Tonzig e Antonio Gregoletto. Anche in questo caso, quindi, vengono messi in luce non tanto i progettisti più noti, e il cui lavoro è già stato indagato, ma figure un po’ meno conosciute che hanno però molto inciso sul volto urbano della città, con l’obiettivo, forse, di sottolineare lo stretto legame – poco evidente ai cittadini – tra il tecnico progettista e il ruolo urbano che l’edificio andrà a svolgere. Il difficile lavoro archivistico svolto è stato curato da quattro associazioni culturali attive nel tessuto cittadino, che hanno avuto il grande merito non solo di restituire un tassello della storia urbana, ma anche quello di muovere risorse umane ed energie spontanee a favore dell’interesse condiviso per la storia della città.
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Fotografie Marco Toté grafica e allestimento Emilia Quattrina, Nicolò Tedeschi 04
01. Il manifeso della mostra. 02-04. Estratti dalle tavole elaborate per l’esposizione. 05. L’esposizione allestita presso il Magazzino 1 dove hanno sede l’Archivio di Stato e l’Ordine Ingegneri di Verona.
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verona in trasformazione 1920/1960
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Il punto sull’ex scalo merci di Verona tra proposte d’archivio e il miraggio di un progetto di riconversione Testo: Stefania Marini
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In realtà la trasformazione dell’ex scalo merci scaligero non è un tema nuovo per gli addetti ai lavori: fa sorridere ricordare che nel 1992, all’interno di un numero di «AV» appariva tra i progetti perduti, che Fiorenzo Meneghelli nel suo editoriale definiva come «i temi urbani “irrisolti” perché non affrontati in una prospettiva unitaria di riorganizzazione globale della città oppure perché affrontati con progetti che non hanno poi trovato attuazione. Grandi temi urbani per superare il dualismo tra progetto urbanistico e progetto architettonico».
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Mentre a Milano l’onda lunga della renovatio urbis degli ultimi anni accende il dibattito sulla riconversione delle aree dismesse degli ex scali ferroviari, in un processo che vede coinvolti cittadinanza, ordini professionali, università, imprenditoria e grandi firme dell’architettura nazionale e internazionale, a Verona il medesimo tema, sia pur a scala ridotta – lo scalo ferroviario è “soltanto” uno – non sembra andare oltre il sussulto delle promesse elettorali, senza far emergere il ruolo strategico e imperdibile della trasformazione complessiva dell’area alle spalle della stazione di Porta Nuova. In tutta Europa, la riconversione delle aree occupate dagli ex scali ferroviari, un tempo utilizzate per caricare e scaricare i treni merci (funzione poi decentrata nei terminal suburbani, a Verona al Quadrante Europa), è al centro delle agende delle politiche urbane e innesca grandi progetti di riqualificazione. Tra le diverse tipologie di aree dismesse, quelle ferroviarie occupano nel dibattito sulla rigenerazione urbana un ruolo di rilievo perché rappresentano una molteplicità di opportunità: sono aree già altamente infrastrutturate, collocate nelle porzioni più centrali delle città, spesso contraddistinte da un regime proprietario unico. Alcune amministrazioni hanno sfruttato al massimo la valorizzazione di tali porzioni di città assecondando le logiche del mercato immobiliare; altre le hanno usate per rilanciare l’immagine cittadina con progetti di rinnovamento complessi; altre ancora hanno adottato visioni strategiche e le hanno utilizzate per affrontare e risolvere criticità ambientali e sociali locali.
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« L’auspicio è che lo sforzo della cittadinanza riesca ad innescare un dibattito pubblico rispetto al destino di tale area » In tale numero compariva una ipotesi di riconversione redatta per Ferrovie dello Stato da un team di progettisti e pianificatori tra cui Gino Valle e Leonardo Benevolo, che delineava una forte valorizzazione immobiliare dell’area. Il progetto prevedeva infatti un’intensa edificazione a destinazione direzionale e residenziale, in quanto tale area era indicata come la più consona per diventare il polo direzionale di Verona e l’elemento ordinatore dello sviluppo a sud della città. Come sottolineava l’articolo1, il progetto sembrava però mancare di una connessione con il resto della città, con le zone residenziali consolidate limitrofe da un lato e con la realtà della fiera e delle aree ad essa connesse (ex magazzini Generali) dall’altro.
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Quel progetto perduto non rimane però l’unico: nel 2007 infatti, la “Variante Gabrielli” per Verona Sud proponeva per l’area una impostazione progettuale diametralmente opposta e fortemente incentrata sul verde. L’ipotesi progettuale elaborata in quell’occasione dall’architetto paesaggista Andreas Kipar 2 valorizzava l’intero comparto come un “parco espositivo”, utilizzabile come vetrina per eventi espositivi all’aperto, mentre la volontà di
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01. L’area dello scalo veronese in una ripresa aerea: al centro, in basso, il fabbricato viaggiatori della stazione di Porta Nuova. 02. Dagli archivi di «AV», le ipotesi di riconversione dello scalo elaborate negli anni 80 da FS.
1 M. Valdinoci, Proposta di intervento edilizio nell’area dismessa della Stazione di Porta Nuova, in «ArchitettiVerona» 35, pp. 24-25. 2 A. Vignolo, Il parco ferroviario, in «ArchitettiVerona» 79, pp. 22-23.
03. Usi attuali all’interno dell’area. 04. Il “parco espositivo” pensato nel 2007 all’interno della Variante Gabrielli. 05. Il masterplan proposto dal Comitato Verona Sud (arch. Francesco Laserpe; consulenza paesaggistica Alberto BallestrieroVeronapolis). 03
ricucire l’ex scalo ai quartieri adiacenti era rappresentata da una fascia di nuova edificazione residenziale nella porzione sud dell’area. Ma anche questo progetto, pur facendo parte di un piano unitario di ricomposizione urbana incentrato sullo spazio pubblico, la qualità delle aree verdi e un sistema di mobilità sofisticato, non sembrava comunque riuscire a radicarsi nel contesto, tralasciando i bisogni delle aree adiacenti e della città. Infine nel 2016 arriva il masterplan per il “Parco allo Scalo” promosso dall’attivo comitato di cittadini di Verona Sud, redatto dall’architetto Francesco Laserpe con il contributo del paesaggista Alberto Ballestriero. Tale proposta, oggetto di molte discussioni durante la recente campagna elettorale cittadina, ha raccolto le istanze nate dalla cittadinanza attiva dei quartieri limitrofi allo scalo e supportate da altri comitati cittadini. Il tema del verde è portato in primo piano, non più in funzione di eventi espositivi legati alla fiera, ma strumentale alla mitigazione delle pressioni antropiche sull’ecosistema urbano e al miglioramento della vivibilità cittadina. Il masterplan traccia una proposta di massima, in cui gli obbiettivi
principali vengono indicati da suggestioni progettuali: un’area di forestazione per aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici (mitigare le isole di calore, fare da filtro alle polveri sottili e ai rumori etc.); orti urbani per rigenerare la città coinvolgendo i cittadini in attività ricreative ma al contempo salutari, formative, produttive e aggregative; edifici esistenti riconvertiti per creare nuovi servizi per il quartiere e per la città (un museo per la storia ferroviaria e dei trasporti, una biblioteca, un centro civico, un punto di ristoro, ma anche abitazioni, coworking etc.); aree verdi prative per la sosta e il relax dei visitatori o per l’invaso di acque meteoriche in caso di forti piogge; piastre polivalenti per praticare sport all’aria aperta; una passerella ciclopedonale per mettere in connessione il parco con la zona a nord del tracciato ferroviario. Tale progetto di massima rappresenta di fatto una lunga lista dei desideri dei cittadini: sfugge però la dimensione urbana, e non meramente di quartiere, del futuro parco, oltre a lasciare necessariamente indefinite le problematiche temporali e, la questione delle risorse economiche. A tutt’oggi, la riconversione dell’ex
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scalo merci di Verona rimane ancora lontana dal smarcarsi l’etichetta di progetto perduto. Troppi sono ancora i nodi irrisolti: il passaggio della linea Alta Velocità-Capacità e il progetto della relativa nuova stazione, i contratti d’uso esistenti (in parte è ancora utilizzata da aziende private di trasporto merci, in parte da Trenitalia, in parte da parcheggi temporanei utilizzati durante
eventi fieristici di grande richiamo), il contesto di abbandono e di incertezza in cui ancora permangono molte aree limitrofe della ZAI storica. Tutti questi fattori rendono la riconversione un’impresa in salita e con una tempistica di realizzazione molto incerta. Non è comune, però, che un comitato di cittadini agisca in modo così proattivo rispetto a
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A misura di museo
L’apertura del nuovo accesso al Museo Archeologico in occasione di una mostra dedicata agli strumenti di misura di età romana
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problematiche di tipo pianificatorio, come successo per l’ex scalo merci; l’auspicio è che tale sforzo riesca ad innescare un dibattito pubblico per rendere partecipe tutta la cittadinanza veronese rispetto al destino di tale area, con un processo di adeguata informazione e trasparenza (cosa peraltro richiesta dall’articolo 22 del D.Lgs. 50 del 2016 in tema di “grandi opere infrastrutturali e di architettura di rilevanza sociale, aventi impatto sull’ambiente, sulla città o sull’assetto del territorio”). Altrettanto d’auspicio è che gli ordini professionali e il mondo accademico inizino ad avere un ruolo di primo piano – come è successo a Milano – nell’elevare il dibattito, ai fini di promuovere una visione strategica per le trasformazioni urbane in atto e future dell’intera area di Verona Sud, sapendo anche cogliere le opportunità e sostenere le progettualità manifestate della cittadinanza.
Testo: Sara Nodari
Si è inaugurata venerdì 27 ottobre 2017 la diciottesima mostra temporanea in vent’anni al Museo Archeologico al Teatro Romano, intitolata Le misure dei Romani. Si è trattato in realtà di un evento nell’evento: con l’occasione, infatti, è stato aperto anche il nuovo ingresso monumentale del Museo Archeologico al Teatro Romano (MATR), che si inserisce nella realizzazione del progetto generale di riqualificazione del colle di San Pietro avviato da tempo dal Comune di Verona, in sinergia con Fondazione Cariverona, in cui erano compresi la risistemazione della funicolare, la realizzazione di un parco urbano e la riqualificazione del museo (cfr. «AV» 94, pp. 32-47). In questo contesto, il nuovo ingresso si pone come completamento del restauro generale del Museo Archeologico (cfr. «AV» 106, pp. 78-81), un intervento impegnativo che ha restituito a cittadinanza e turisti una zona di Verona affascinante, sia per la visuale straordinaria che offre sia per l’importanza storica e culturale che questo luogo racchiude nelle architetture e nei reperti archeologici qui conservati. Posto sul fianco di Palazzo Fontana dove si trova la biglietteria, il nuovo ingresso è progettato – come gli interventi già effettuati sul museo – dall’architetto Stefano Gris e realizzato dal-
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la Direzione Edilizia Monumentale del Comune di Verona. Prevede uno scalone e una rampa che si affacciano direttamente su Piazza Martiri della Libertà, ben integrata sia nella geometria sia nei materiali, moderni e armonizzati con l’ambiente: il piano di calpestio e la gradonata sono realizzati in ghiaia lavata con le alzate in calcare ammonitico locale, e i parapetti in lamiera di acciaio corten, su cui sono rappresentati i loghi del Museo. In sede di inaugurazione il Sindaco di Verona, sottolineando la bellezza e l’importanza del sito del Teatro Romano, si è augurato che il nuovo ingresso ne permetta una migliore fruibilità per cittadini veronesi e turisti, restituendo al Teatro, a volte messo in ombra dalla fama dell’anfiteatro, la meritata visibilità.
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01-02. La nuova gradonata su piazza Martiri della Libertà affianca la pendenza della rampa che consente un accesso senza barriere a Palazzo Fontana (foto di Viviana Tagetto).
03-04. Particolare dell’allestimento della mostra Le misure dei Romani e uno degli oggetti esposti: contrappeso per stadera configurato a testa di Ercole. 05. Veduta notturna della nuova scalinata con l’insegna del MATR (foto di Ilario Fiorentini).
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nuovo ingresso al matr Progetto arch. Stefano Gris – studio Grisdainese, Padova Direzione Edilizia Monumentale Comune di Verona ing. Sergio Menon (responsabile del procedimento) arch. jr Viviana Tagetto (direz. lavori) arch. Dino Gamba, p.i. Mila Bobbo (direzione operativa) ing. Andrea Pogliaghi (sicurezza) imprese Ducale Restauro (opere edili), Avesani Assistenza (opere da fabbro), Mazzoccato Silvio & C., Ceradini Michele, (opere di pavimentazione), GEA impianti (opere impiantistiche) Cronologia Approvazione progetto esecutivo e realizzazione: ottobre 2016-giugno 2017
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L’illuminazione artificiale che ridisegna le forme contemporanee dello scalone lo rende piacevolmente visibile dopo il tramonto, esaltando il contrasto tra la nuova architettura e l’antichità del teatro. Grazie alla nuova disposizione dello spazio esterno e della biglietteria i visitatori potranno sostare nei pressi del sito ed accedervi in tutta sicurezza, riparati dal traffico. Il nuovo accesso, oltre all’importante impatto estetico, è anche di notevole importanza per quanto riguarda l’abbattimento delle barriere architettoniche. Per il medesimo obiettivo sono in fase di studio altri due progetti: la realizzazione di un collegamento fra la stazione intermedia della nuova funi-
colare all’interno del parco e il quarto livello del Museo, e un nuovo ascensore, posizionato tra le sostruzioni teatrali nell’area occidentale della cavea, per superare il dislivello e raggiungere l’ascensore che porta al Museo. Nel contesto del MATR si inserisce la mostra Le misure dei Romani, curata da Margherita Bolla con il contributo di Antonella Arzone per la sezione dedicata alle monete, con la collaborazione di Alba Di Lieto e Laura Scarsini per l’allestimento e di Ketty Bertolaso per la grafica. Sono oltre un centinaio gli oggetti di età romana esposti nelle quattro vetrine dedicate, tutti reperti archeologici di proprietà del Museo connessi all’attività del misurare negli ambiti del peso, della lunghezza e della capacità. Le prime due vetrine trattano le misure di peso e lunghezza: la tabella di un numismatico ricavata da alcuni test condotti con una bilancia ritrovata a Ceraino ed oggi dispersa, manufatti e disegni riferibili a stadere e bilance a bracci uguali, e pesi di diverse forme, materiali e dimensioni, un compasso, un longimetro e un’immagine di
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una stele frammentaria con l’incisione della misura del piede romano. La terza vetrina ospita da un lato una serie di monete raccolte nel ‘700 facenti parte della collezione civica con una sezione dedicata alle monete di età repubblicana e una a quelle di età imperiale; vi sono poi le misure di capacità: recipienti in bronzo e vetro, e un’anfora in terracotta che riporta le indicazioni del peso della tara. L’ultima vetrina, infine, contiene un esempio tutto veronese: reperti ritrovati nella zona di Menà di Castagnaro, dove sorgeva una fornace che produceva diversi tipi di laterizi, dando vita a vivaci attività commerciali. Questa mostra, come ha sottolineato Margherita Bolla nel corso dell’inaugurazione, si inserisce nel contesto di rinnovato interesse per le misure antiche a partire dagli inizi degli anni duemila, e tratta una tematica legata al mondo romano ma assolutamente contemporanea. La mostra sarà visitabile fino a settembre 2018.
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Ci mette il becco LC
Testo: Luciano Cenna
Abbiamo criticato gli amministratori pubblici in più occasioni a proposito di loro iniziative a nostro parere errate od omesse. Vorrei indicarne alcune su cui investire energie pubbliche a costo quasi zero, per ora. Non nel senso che attuarle costi poco, ma costa poco dedicarvi un intelligente e approfondito esame per costruirci sopra un disegno complessivo in grado di trovare conclusioni logiche e corrette ai vari problemi irrisolti. Prima di tutto si tratterebbe di crederci e di fissare degli obiettivi cominciando con ordine a programmarli e poi ad attuarli nell’ambito di un inquadramento: cioè di un Piano. Iniziamo dal tema dell’utilizzazione degli edifici pubblici. Molti sono ancora da restaurare, alcuni sono in corso di ristrutturazione in attesa di un imprecisato uso. Per essi, da decenni, si alternano le più fantasiose proposte. Di Castel San Pietro ricordo il pericolo corso quando ne venne proposta una destinazione ad albergo, e, subito dopo, a casinò. In una serata di parecchi anni fa, con Magagnato e un gruppo di amici nella sede del Partito Repubblicano di Verona di cui era segretario, sulla destinazione ad albergo del Castello fu pronunciato un deciso “no” politico, rafforzato dal concetto dell’esclusivo uso pubblico del Colle data la sua naturale posizione di “osservatorio sulla città”. Qualche tempo dopo, Giancarlo De Carlo venuto qui per una conferenza alla Biblioteca Civica, confermando il parere dei più, ne precisò la destinazione a “Museo della città”. E quella resta ancora l’ipotesi più convincente anche oggi che la proprietà è della Fondazione Cariverona. Ora, vista l’unicità del sito, recentemente ricollegato con la funicolare, e la condivisa necessità di qualificare maggiormente l’offerta turistica adeguandola alle potenzialità culturali del territorio veronese, non crediamo vi siano alternative altrettanto valide. Nel
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Castello sono attualmente in corso lavori di restauro che la Fondazione ha rallentato proprio in ragione della non ancora definita destinazione d’uso del complesso. È quindi il momento di prendere una decisione. Se deve essere coraggiosa e lungimirante, va preceduta da un ragionamento il più possibile esteso ai molti aspetti dell’intero problema e quindi agli altri immobili di proprietà pubblica, o di Enti para pubblici, ancora privi di una appropriata utilizzazione. Non è più il caso degli ex Magazzini generali – sempre di Fondazione – in quanto parte dei fabbricati sono stati ristrutturati per gli uffici di Unicredit, mentre altri lo saranno a breve per Eataly, e i rimanenti, dopo la rinuncia dell’ULSS 9, restano per ora in attesa di un nuovo inquilino. Potrebbe essere il caso dell’ex Manifattura tabacchi, come della gran parte delle iniziative relative alle aree private della Z.A.I. proposte all’Amministrazione comunale attraverso il discutibile strumento delle “manifestazioni di interesse”, per ora congelate per la crisi di questi ultimi anni. Da cui si sono comunque salvati due grandi centri commerciali sorti in un batter d’occhio, proprio in Z.A.I. Nel resto della città rimangono altri “buchi”. Tra questi si è riaperto quello dell’ex Arsenale militare dopo la negativa conclusione di una proposta di un gruppo privato che prevedeva l’utilizzo a tempo determinato, in parte ad uso pubblico e in parte commerciale, con l’apporto di capitale privato per circa tre quarti. Molti veronesi l’hanno accolta con favore sollevati dalla preoccupazione che le aspettative decennali per un recupero pubblico della struttura, si risolvessero in un compromesso al ribasso. Non va dimenticato infatti che negli anni scorsi l’Arsenale fu oggetto di un concorso internazionale indetto dal Comune, e vinto da David Chipperfield, che prevedeva il trasferimento in quel sito del Museo di Storia Naturale. Nella ricerca della possibile futura funzione pubblica di quel complesso,
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Ancora sulle destinazioni d’uso degli immobili pubblici, ma con un piano complessivo
60° anno di attività di arteco Tratteggiando sul numero 79 di «AV» una ‘breve storia professionale e umana della Calcagni e Cenna’ in occasione del cinquantesimo del sodalizio che ha poi assunto la forma societaria di Arteco, Luciano Cenna concludeva affermando che “per un bilancio c’è ancora tempo”. A distanza di un decennio, la ricorrenza è diventata ancora più pesante – sessant’anni di attività dello studio! – ma la formula è sempre valida. Buon lavoro dunque a tutta Arteco – fondatori, soci e collaboratori – in attesa dei loro prossimi progetti.
resta comunque da valutare il peso di almeno tre aspetti significativi: la efficacia dell’intervento sotto il profilo della sua utilità e della capacità di rappresentare un centro vivo per la città, il costo annuo per il suo funzionamento, e trascuro quello del suo restauro; la possibile sua integrazione con il quartiere, ma aggiungerei con tutto il centro storico se pensiamo alla sua vicinanza con Castelvecchio. È ben vero che qualora il suo futuro utilizzo rispondesse ai requisiti su accennati, fosse cioè capace di quei contenuti autentici, sostenerne il costo di gestione con denaro pubblico sarebbe sicuramente un affare per la città oltre che per la politica. L’Amministrazione Comunale ha promosso di recente un Convegno nel quale saranno presentate le prime proposte di associazioni e architetti, nell’ambito dei lavori di una commissione voluta per approfondire l’argomento in oggetto. Ci aspettiamo, oltre alle proposte, le indicazioni di un metodo di lavoro a cui affidare l’inserimento dell’ex Arsenale nella vita della città: che attende con fiducia.
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#DESIGN_VR:
Sic et simpliciter
L’eredità della grande tradizione del design italiano: una responsabilità consapevole per un progettista impegnato nella ricerca dell’essenziale Testo: Laura De Stefano 01. Ritratto di Paolo Cappello. 02. Studi per il sistema Basilea. 03. Funny West, vasca per AntonioLupi disegnata con Federico Sandri 04. Le lampade Tora Kiki assieme al music cabinet Caruso. www.paolocappello.com 01
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Semplicità è la parola che Paolo Cappello pone alla base del proprio lavoro: una parola facile ma in realtà molto difficile da applicare, soprattutto in un campo come il design dove spesso è importante stupire, più che creare oggetti “servi silenziosi del nostro quotidiano”. Citando Eraclito, “l’intima natura delle cose ama nascondersi”, ma per arrivare all’essenziale bisogna lavorare duramente, abbandonando stereotipi e orpelli che a volte camuffano una ispirazione povera di contenuti veri. Cappello, proprio per questo, tende a progettare oggetti che l’utilizzatore possa riconoscere come presenti da sempre nel proprio quotidiano. La passione per gli oggetti ha origine nell’infanzia, quando non si limitava a giocare ma si diverte a smontare ogni cosa per capire com’è fatta e come funziona. A nove anni il padre gli dà un pezzo di compensato, invitandolo a pensare l’oggetto che poi avrebbero intagliato insieme: da quel momento la strada è segnata. Dopo aver sognato di diventare pittore, nel periodo delle superiori gira l’Italia come madonnaro disegnando sull’asfalto santi e Madonne, poi si iscrive senza esitazioni al Politecnico di Milano. Terminati gli studi lavora, come altri colleghi veronesi, presso lo studio Palomba Serafini, finché nel 2008 è pronto ad aprire il suo studio con tutte le problematiche relative alla nuova
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attività: concorsi, email alle aziende, lunghe attese… Finalmente arriva un progetto vincente, la Iri chair, pubblicato su blog, riviste e perfino sul New York Times; le aziende cominciano a conoscerlo e a cercarlo e ora, dopo dieci anni, Cappello collabora con importanti firme, occupandosi sia del design di prodotto che di art direction, ma anche di retail design collaborando con Calzedonia per la creazione dei nuovi format per i diversi marchi del gruppo. Cerca di fare design con la consapevolezza dell’eredità della tradizione italiana, conscio della responsabilità che ciò comporta e del fatto che, nonostante la crisi, le difficoltà e l’aiuto istituzionale quasi nullo, il luogo migliore per fare design è sempre l’Italia. Secondo Paolo, c’è più bisogno di design oggi di quanto non ce ne sia mai stato, ma quello che serve è un design responsabile che sia veramente al servizio dell’industria, per creare prodotti che riportino ad un rapporto più umano e semplice con gli oggetti. La nostra è una società bombardata di immagini e di messaggi, vediamo costantemente tutto e il contrario di tutto... il design deve aiutarci a fare ordine, creando oggetti semplici che non gridino, prodotti etici che assolvano la loro funzione in maniera sensata e immediata senza alcun bisogno di interpretazione.
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basilEa
Castlery
Nodus
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La collezione Strato comprende credenza, mobile TV, tavolo da pranzo e sedute
“Basilea è un progetto che nella logica ricorda un frattale dove tutto è diventato
caratterizzati dall’abbinamento tra le gambe cilindriche in frassino, le superfici con
oggetto di un pensiero circolare, dal micro dei dettagli più nascosti, al macro di un
impiallacciatura in rovere e i piani colorati di nero. La sezione cilindrica delle gambe
sistema arredo complesso configurabile all’infinito…”. Cuore del sistema di librerie
si accorda alla curvatura degli spigoli dei mobili-contenitore e del piano del tavolo.
è il montante (in massello di rovere spazzolato, noce, acero e faggio o laccato) con
Le forme morbide ed eleganti di Strato bene si adattano a ogni soluzione di arredo
parti metalliche in ottone, bronzo, nickelate o laccate assieme a pensili, vani a gior-
interno, senza nessuna concessione a inutili decorazioni e forme iperdisegnate.
no e mensole in diversi materiali e finiture (ferro nero, acciaio lucido, rovere, noce canaletto, cuoio, cristallo verniciato, acero, pergamena verde..), offrendo un’ampia possibilità di personalizzazione.
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STRATO
LOUIS
CARUSO
Newblack
Miniforms
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Nato dalla collaborazione con il team di Newblack, giovane brand che ‘addome-
Sembra quasi un rito: sedersi, con una luce soffusa, e premere “play” sullo
stica’ l’internet-of-things, Louis è uno speaker per smartphone che riproduce le
smartphone. Poi lasciare spazio alle vibrazioni e prendersi una pausa, ritrovando
sonorità rétro del vinile senza componenti tecnologiche. La forma nostalgica del
la magia di ascoltare e vedere un oggetto che suoni della buona musica. Caruso è
cubo di legno prende vita a contatto con l’intelligenza artificiale del device. La se-
un mobile-contenitore caratterizzato da un connettore Bluetooth e da una tromba
zione della tromba interna è stata realizzata partendo dal calcolo matematico che
in ceramica dimensionata per ottimizzare la qualità audio.
permette la migliore resa acustica, amplificando il suono e rendendolo più caldo e simile ai vecchi suoni dei vinili.
ODILE Lumen Center 2016-2017 Forme sussurrate, linee tratteggiate con dolcezza e uno studio del colore che rende l’effetto d’insieme ancora più gentile e delicato: le lampade Odile, con la loro avvolgente silhouette a campana, sono una presenza misurata ed elegante nello spazio. A sospensione in varie dimensioni, a parete, da tavolo o da terra, sono realizzate in metallo verniciato a polvere: una presenza iconica e, a tratti, ironica.
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L’INTRIGUE JAPONAISE ODEON
Nodus 2012 Si tratta di un progetto culturale oltre che decorativo, dove la maestria del ricamo nepalese viene spinta al più elevato livello di complessità con figure tratte dall’illustrazione teatrale giapponese del XVIII secolo, completamente ridisegnate con un pattern grafico estremamente articolato. Un progetto cross-over di culture dove dialogano, in modo attuale, mondi ed esperienze diverse per dare vita a una collezione di tappeti in lana e cuscini in cachemire e seta.
LUCIANO
OTTO
Newblack
Miniforms
2017
2011
“Luciano nasce ponendo in primo piano la materia. Ho voluto fare un passo indie-
Otto reinterpreta il modo di usare un tavolo: non più superfici quadrate o rotonde,
tro lasciando che la materia si esprimesse; il mio obiettivo era far nascere l’oggetto
ma un piano di cristallo di forma organica che offre un’ampia superficie per prepa-
da se stesso.” Da questa visione nasce uno speaker Bluetooth che unisce l’elettro-
rare cibi, cenare, lavorare, disegnare. La struttura ramificata del sostegno è realiz-
nica a un corpo in ceramica realizzato artigianalmente a Nove (centro famoso per
zata in massello di faggio, noce canaletto o acciai, secondo un gusto che reinter-
la produzione di ceramiche artistiche ) e ottimizzato in laboratorio grazie a un’equa-
preta il design organico degli anni Cinquanta.
lizzazione puntuale che garantisce una qualità audio superiore.
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Territorio Torri che non lo erano
Territorio
O che non lo saranno: tra slanci frenati e idee rimaste sulla carta un panorama della cittĂ scaligera che sale
Testo: Federica Guerra
Foto: Lorenzo Linthout
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01. Torri di via M. Faliero al Saval, 1993 (G. Ugolini). 02-03. Il “grattacielo” di Piazza Renato Simoni, 1959 (L. Arneri, L. Sabelli): veduta attuale e in una immagine tratta da una pagina pubblicitaria del 1960. 01. Prospettiva a volo d’uccello della futura Piazza Renato Simoni secondo il Piano di Ricostruzione (Comune di Verona, Sez. Pianificazione Territoriale, Archivio cartografico).
Guardando lo skyline di Verona viene da chiedersi se la presenza di una serie di edifici alti, realizzati a partire dagli anni ’50 del Novecento, corrisponda a una precisa idea di città perseguita e mai pienamente realizzata – l’espressione, cioè, di un’aspirazione mai confermata a fare della città una metropoli – o se essi non siano, invece, degli esperimenti isolati frutto di spinte speculative, risultato di una pianificazione di “prima generazione”. Ci sembra importante, cioè, capire il disegno di città che i Piani urbanistici hanno immaginato negli anni, per cercare di dare un senso complessivo a quello che sta avvenendo nella periferia della città, a partire dalla definizione stessa di periferia da applicare al caso di Verona.
« Gli edifici alti corrispondono a una precisa idea di città perseguita e mai pienamente realizzata » Il progetto, quando costruito, diventa concretezza ma spesso resta pensiero sulla carta, ipotesi, idea virtuale. Nella tensione che si costruisce tra una città visibile e una città immaginata si apre uno spazio interpretativo: perché ad un certo punto della storia urbana di Verona si è pensato che l’edificio a torre potesse rispondere alle esigenze di espansione della città? Che ruolo hanno oggi le torri nel definire il paesaggio della città? Sono questi edifici, in sostanza, testimoni di un fenomeno meramente “estetico” o hanno a che vedere con l’organizzazione sociale della collettività che l’edificio alto presuppone? È evidente come le risposte siano comples-
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se e aprano ad un dibattito non affatto concluso nel panorama teorico generale. Tuttavia cominciare ad analizzare i casi concreti, siano essi costruiti o solo immaginati, ci permette di restringere il campo di osservazione e contemporaneamente contestualizzarli in un panorama di più ampio respiro. Così è subito chiaro come il primo “grattacielo” di Verona, quello di Piazza Renato Simoni realizzato dal 1959 su progetto di Lucio Arneri e Luigi Sabelli, subì le spinte speculative in atto in quegli anni che lo trasformarono da fulcro di una city immaginata a condominio residenziale.
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Territorio
Territorio
05-06. Torre di via Fratelli Cervi, detta “Torre Mazzi”, 1969-73 (Libero Cecchini): disegno di prospetto e veduta dal basso in corrispondenza del corpo scale. 07. Torri di via Fratelli Rosselli all’interno della lottizzazione Mazzi, 1969 (L. Cecchini). 08. Torri di via Marin Faliero al Saval, 1979 (Calcagni e Cenna con L. Cecchini e con G. Meneghini, M. Cossato).
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Già il piano Marconi, infatti, prevedeva per l’isolato dei Riformati l’inserimento di un edificio alto che fungesse da fondale all’accesso in città dalla stazione di Porta Nuova, e che specificasse il ruolo di “centro direzionale” del nuovo pezzo di città, con destinazione terziaria ad albergo, banca e cinema. Ma negli anni ’50, in quella zona grigia che intercorre tra la scadenza del Piano di Ricostruzione e l’approvazione del Piano Regolatore, vengono concesse deroghe in altezza che portarono alla realizzazione di un edificio a torre in gran parte a destinazione residenziale, attuando una politica di patteggiamento delle regole edificatorie che andava tutta a vantaggio della libera iniziativa privata. Ben diversa appare la logica
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realizzativa degli edifici a torre residenziale realizzati negli anni ’70 e ’80 in alcuni punti chiave della periferia veronese. In questo caso essi rappresentano esempi di una riflessione sull’“alloggio collettivo” che si andava in quegli anni dibattendo anche a livello nazionale. In Borgo Milano, le torri di via San Marco e ancor più le torri quadrate di via Fratelli Rosselli (1969) e la cilindrica torre Mazzi di via Fratelli Cervi (1969-73), opere di Libero Cecchini, così come l’edificio di via Marin Faliero al Saval (1979, Calcagni e Cenna), testimoniano una sperimentazione intorno al tema della residenza sociale che in quegli anni rappresentava uno dei focus del dibattito architettonico. I cardini del dibattito riguar-
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09. Le torri angolari del Centro Palladio, 1978/82 (Calcagni e Cenna). 10. Torri di via San Marco, 1980 (concept Calcagni e Cenna). 11. Modello della lottizzazione Mazzi in via F.lli Rosselli, 1969 (Libero Cecchini). 12. Torre Serenissima, 1999 (Arteco).
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davano l’esigenza di risparmiare aree edificabili, l’opportunità di concentrare l’attività di un gran numero di persone in uno spazio limitato per risparmiare sul tempo di spostamento e per facilitare la comunicazione, oltre all’esigenza di sperimentare, assieme ad un nuovo modello architettonico, nuove soluzioni costruttive e nuove forme di aggregazione. Lo spessore del dibattito in corso in quegli anni è ben rappresentato dal Centro Palladio di Calcagni e Cenna (1979-82), che se da un lato tende a ridisegnare un brano di città, dall’altro utilizza l’elemento puntuale della torre per segnare l’intersezione delle maglie urbane. Come in altre città della provincia italiana (e non così per altre parti d’Europa), tuttavia, il modello della torre alta residenziale rapidamente declina nella più convenzionale tipologia del condominio, e se non
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fosse per il complesso delle torri al Saval di Ugolini del 1993, un raffinato condominio di imponenti dimensioni destinato ai ceti abbienti, e i pochi edifici di edilizia residenziale pubblica in Borgo Venezia, per alcuni anni il modello sembra essere abbandonato, perché non è tanto l’altezza degli edifici a mutare, quanto la loro collocazione all’interno del lotto, il loro carattere rappresentativo, la loro natura simbolica. Quando agli inizi degli anni Duemila l’edificio a torre torna in voga, il panorama urbanistico-sociale della città e lo scenario immobiliare, sono totalmente cambiati. La torre diventa a questo punto metafora di una spinta speculativa che vede nell’altezza il carattere dell’originalità e della stravaganza, la ricercatezza legata a una funzione (il terziario) che necessita di una propria raffigurazione che
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ne celebri il ruolo preponderante all’interno dell’assetto economico della città. Le torri degli anni Duemila sono tutti edifici a destinazione terziaria, e come tali sono perlopiù progettate per Verona sud, la ‘periferia’ per eccellenza, luogo delle sperimentazioni e delle rinunce, delle proposte e delle defezioni. Infatti solo in minima parte esse vengono realizzate. La prima, la Torre Serenissima (1999, Arteco), nuova sede della Società Autostrade, viene realizzata come un purissimo volume bianco completamente rivestito in marmo Carrara che si staglia contro il cielo, nei pressi del casello autostradale. Ma da questa realizzazione in poi si apre un vastissimo album di progetti non realizzati, di “torri mancate” che registrano la rapida ascesa e l’altrettan-
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to rapido declino di una tipologia che aveva fatto vagheggiare una “Veronaverticale”, e che sotto la spinta della crisi economica non ha saputo affermare la propria autorevolezza. Si va dal progetto del grattacielo per uffici ‘Europark’ (G. Ugolini, G. Gabrieli, 2005), un grande portale rivestito in pietra che racchiude una torre in vetro scuro, al piano per le Ex Cartiere dello
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13. Ex Manifattura Tabacchi, rendering del volume in elevazione dell’albergo, 2013 (A.Citterio P. Viel and partners). 14. Rendering della torre ad uffici per il Consorzio Agrario Lombardo Veneto, 2010 (Archingegno). 15. Torre ad uffici e piastra Europark, 2005 (G. Ugolini, G. Gabrieli). 16. Torre ad uffici nell’area delle ex Officine Adige, schizzo di una delle soluzioni, 2010 (Rogers Stirk Harbour + Partners).
studio Gabbiani & Associati, che prevedeva al suo interno la realizzazione di due torri disegnate dai consulenti statunitensi di ‘Architecture International’ introducendo il tema delle torri a verticalità distorta. Nel medesimo contesto lo studio Arteco si era misurato col tema delle torri gemelle, approfondendo con ‘Giulietta e Romeo’ la morfologia dei volumi elevati in torsione. A fronte di un edificio alto che viene finalmente realizzato tra il 2010 e il 2011, il Verona Forum di Mario Bellini all’ex Foro Boario, il Piano degli Interventi del 2011 prefigurava
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per la zona di Verona Sud un fiorire di edifici alti: tutto un sottobosco di progetti immaginati persi nelle maglie della burocrazia, delle ipotesi economicamente insostenibili, dei vincoli di protezione e che non vedono mai la luce. Si va dalla torre-albergo di Antonio Citterio all’interno del progetto di recupero dell’ex Manifattura Tabacchi, forse l’esempio più raffinato fra quelli considerati e che tuttavia si configura più come una lama alta che come un edificio puntuale (2005), al grattacielo ad uffici di Richard Rogers che, presentato in varie versioni, doveva completare il disegno di riconversione delle Ex Officine Adige (2010); e ancora all’alto cilindro vetrato prospiciente viale del Lavoro che ben completava l’intervento di recupero degli immobili del CALV su progetto di Archingegno. Infine l’area alle spalle della torre Serenissima, in prossimità del casello di Verona sud, vede tratteggiare dal 2010 diversi progetti: la
ZDC Tower, disegnata dai romani TNT Design e Gianluca Crusi con la partecipazione dello studio veronese Mendini&Avesani; la Verona Tower, un progetto di AAstudio fondato dal torinese Aldo Andreoli con sede a New York e progetti tra Tribeca e la California; Torrecento dello studio Arteco assieme a Contec e Ingea, che raggiunge un maggiore sviluppo fino al progetto esecutivo. Proprio perché nessuno di questi progetti è stato (ancora?) costruito, la loro figurazione si perde nel vago immaginario del sogno, nel limbo dei rendering tra i quali non può mancare una rappresentazione by night, di forte suggestione ma anche di scarso realismo. In tutti questi interventi degli anni Duemila, al di là di un linguaggio comune fatto di vetrate multipiano, di torsioni piuttosto innaturali, di cuori “green” e di arditi attacchi al suolo, le scelte formali non sembrano esprimere una riflessione sul ruolo urbano di questi manufatti, come se la
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loro realizzazione fosse tutta autoreferenziata o, come dire, geo-de-localizzata: costruiti qui o in qualunque altra parte di periferia occidentale, andrebbe ugualmente bene. O male. L’interprete principale di questa decontestualizzazione dell’edificio alto, la sua totale perdita di significato urbanistico, come “evidenza” urbana e come incubatore sociale, è stato negli ultimi anni il famigerato progetto del cimitero verticale (cfr. «AV» 99, pp. 9-11). Al di là della sua inopportunità che ha infastidito la sensibilità cittadina, il tema che ci interessa sottolineare è come sia ormai solo la ‘capienza’ la caratteristica che connota questa
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17. Ex Cartiere, torri ad uffici, 2010 (Architecture International). 18. Ex Cartiere, torri ‘Giulietta e Romeo’, 2009 (Arteco). 19. Verona Tower, 2010, (AAStudio). 20. ZDC Tower, 2010 (TNT Design, G. Crusi, Mendini&Avesani). 21-23. Torrecento, 2011 (Arteco): schema di raffronto tra alcuni edifici alti esistenti, rendering nel contesto urbano e notturno.
tipologia edilizia, come se all’abbondanza di spazi potesse corrispondere qualunque destinazione, dall’ufficio all’albergo dal cimitero al centro fitness, come se non si volesse considerare il fatto che proprio la capienza intesa come gesto poderoso all’interno del disegno della città, ha, invece, risvolti importanti sul paesaggio urbano che andrebbero misurati prima e al di là delle valutazioni di opportunità economica o autocelebrativa.
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Il suo nome era Bogoni Gino
L’atelier rimasto immutato dal 1990 conserva la memoria dell’artista veronese nel medesimo luogo in cui la sua opera prendeva forma
Testo e Foto: Irene Meneghelli
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Nome atelier bogoni Luogo via amatore sciesa 24 Verona Attività archivio storico e atelier d’artista Contatto www.ginobogoni.com
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Parlare di un artista a ventisette
anni dalla sua scomparsa può sembrare
un puro esercizio di narrazione storico
interpretativa. Non è questo il caso di Gino Bogoni, scultore veronese scomparso nel
1990, con cui si può instaurare ancora un
contatto all’interno del suo atelier, in via Amatore Sciesa a Verona. Qui non si trovano solo le sue opere, ma l’arredo, le sedie, i tavoli sono gli stessi su cui si poggiava per lavorare; la sistemazione interna è
rimasta la medesima, stabilita a suo tempo
dall’artista con il contributo dell’architetto Silvano Bellintani. I fuochi, ora spenti,
reggono ancora le pentole in cui scioglieva la cera, la luce che filtra dai lucernari è
la stessa luce che illuminava le sue lunghe
dall’infanzia alla malattia; una vita segnata da molte sofferenze: la morte della madre,
la guerra, le numerose malattie che l’hanno accompagnato per circa vent’anni. Molto
precoce, ha già chiaro che avrebbe voluto
fare lo scultore, ma la scarsa comprensione da parte della famiglia lo porta a svolgere
lavori di altro genere fino all’età di tredici anni, quando inizia a lavorare nella bottega di un marmista nei pressi del cimitero
monumentale: lì ha il fortuito incontro con
il direttore dell’Accademia Cignaroli, Egidio Girelli. Ben presto inizia a frequentare i
corsi e a tenere lui stesso l’insegnamento in
sala getto agli studenti del Liceo Artistico. All’età di diciassette anni vince gli Agonali
giornate di lavoro. Appesi alla parete, gli strumenti del mestiere, spatole, uncini,
scalpelli, lime, martelletti, sono ancora lì
come avesse appena terminato un lavoro. Poco distante una porta regge alcune formelle in
gesso simulando un portale: guardando meglio ci si accorge che sono quelle del portale della Basilica di San Zeno, che l’artista aveva rilevato e riprodotto in bronzo.
Colpiti dal fascino del luogo e dalla
quantità di opere presenti, si è ancora più
impressionati nello scoprire la quantità di opere incompiute che si trovano all’interno dell’atelier: moltissimi calchi di gesso
pronti per riprodurre l’opera, così come opere uniche che l’artista realizzava
direttamente in cera – scavalcando la fase
del calco in gesso – che veniva persa durante la fusione del bronzo.
Siamo fortunati ad avere la possibilità
di leggere i suoi pensieri nel manoscritto che egli stesso ha composto a partire dal
1978, ritrovato dai suoi eredi e pubblicato
come “Diario” nel 2006, attraverso il quale possiamo conoscere il Gino Bogoni più
autentico, il suo lato estremamente umano. Non sempre ci è permesso di conoscere
l’intimità di un artista, andare a scoprire le sue ansie e dolori. Nei suoi scritti,
egli ripercorre varie fasi della sua vita,
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01. Veduta interna dell’atelier come si presenta oggi. 02. Foto d’archivio di Gino Bogoni. Il tavolo da lavoro e il fornello sono ancora nella medesima posizione. 03. Una scultura in bronzo della serie “Bovini” o “Vacchette”. 04. Alcune sculture della serie “Figura di donna”, realizzate negli anni 1976-78. 05. La strumentazione appesa alla parete: oltre ai vari tipi di lime, scalpelli, spatole ecc, vi sono ancora i pennarelli utilizzati per le opere su carta. 05
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d’Arte a Roma: diventa evidente che la sua vita sarebbe stata
dedicata all’arte della scultura. Da un punto di vista storico-
artistico, possono essere considerati suoi maestri
alcuni scultori del XX secolo quali Arturo Martini, Marino Marini, Marcello Mascherini;
partecipa a numeri esposizioni internazionali d’arte, come
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la IX Quadriennale di Roma e
la XXXIII Biennale di Venezia, per citarne alcune. Dalle sue parole traspare, però, un
dissidio interiore durato molti anni, tra il
considerarsi un buon artigiano o un artista.
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che da anni incombevano sulla mia creatività,
Il momento in cui prende coscienza di essere
sentendomi per la prima volta vivo e artista”1.
circa quarant’anni, durante la realizzazione
molto sulle sensazioni, sull’osservazione di
momento ero spoglio dei pregiudizi e di tutti
come ad esempio la serie di sculture
veramente un artista, avviene all’età di
di una “vacchetta”: “m’accorsi che in quel
i residui esterni (l’influenza dei maestri)
06-09. Vedute delle sculture esposte nell’atelier: le formelle in gesso della Basilica di San Zeno, “Quadrato Vitale”, “Sviluppo tridimensionale”, “Ombre”, “Lotus” e “Le grandi ruote” e molte altre.
L’arte di Gino Bogoni è un’arte basata
oggetti, della natura, di eventi quotidiani, “Quadrato vitale” che ha poi evoluto in
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10. Foto d’archivio di Bogoni ripreso durante la realizzazione di un’opera. 11. Alcune opere grafiche realizzate a pennarello su carta. 12. Calchi in gesso delle sculture “Le Donne”. 13. Un’altra veduta dell’atelier-archivio.
“Sviluppo tridimensionale” e “Planimetria vitale”, derivanti dall’osservazione
dell’asfalto: un’azione ripetuta ogni giorno che diventa improvvisamente
un’epifania, “[...] camminando, l’occhio viene attratto dall’asfalto. E nel vedere la sua
imperfezione, bolle e protuberanze, che stavo calpestando, provo una sensazione che dalla pelle percorre tutto il corpo [...] ho sentito
come una forza che volesse sprigionarsi dal
sottosuolo”. Allo stesso modo, l’osservazione di un gorgo d’acqua che scende nel lavandino diventa “Le grandi ruote”, un pavimento
rotto di cemento o un vecchio muro rotto
diventano “Le ombre”, una serie di sculture
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quasi bidimensionali. I riferimenti possono
e ad avere a che fare solo con la materia,
fluidità della levigatura del bronzo, come nel
tutt’altro, sono una presa di coscienza:
il nemico era la materia che dovevo dominare.
stesso ci ha invitato a prendere parte:
sembrare una banalizzazione, invece
come una lotta tra le mani e la mente: “[...]
“il mondo che ci circonda è così bello che
Qualche volta mi accorgevo di essere dominato
osservava, incamerava, coltivava dentro di sé
caso delle sculture delle “Donne”, a cui lui “Esse vivranno anche quando io non sarò
non si può non esserne affascinati”. Bogoni
dalla cera. [...] Mi piace essere aggressivo col bronzo, lo voglio dominare, ricavare da
si poseranno su di loro, mentre le mani,
le forme della realtà fino a quando arrivava
lui tutta la sua sensibilità”.
sospinte dal fascino femminile, sfioreranno
il tempo in cui la creatività e la grinta
per sentire a pieno la materia, nella cui
realizzare l’opera, un momento di esaltazione
dell’artista, nella rugosità delle crepe
la creazione, descritta dall’artista come
combattevano contro l’ansia di non riuscire a in cui riusciva a liberarsi di tutte le forme
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Le sculture di Bogoni vanno toccate,
lavorazione si può ancora percepire la mano dell’asfalto dei “Quadrati Vitali” o nella
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più di questo mondo. [...] Altri occhi
le loro forme”.
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1 Tutte le citazioni sono tratte da Gino
Bogoni, Diario d’artista, Gemma Editco, Verona, 2006.
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I quartieri INA-Casa a Verona
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Verona
L’INA-Casa a Verona ha rivestito un vero e proprio ruolo urbanistico, realizzando di fatto la prima espansione extra moenia pianificata, agendo in assenza di un PRG – rimasto incompleto dal 1939 a causa della guerra – talvolta su aree escluse dal Piano di Ricostruzione e libere dai vincoli militari ormai aboliti all’inizio del secolo. Dal 1949 e per i successivi quattordici anni di vita del Piano, attorno alla città sorgono i nuovi quartieri dotati di centri sociali, scuole, giardini. Nei cantieri sono impiegati solo materiali locali e tecniche tradizionali artigianali, in linea con l’obiettivo primo dell’INA-Casa: favorire il massimo impiego di mano d’opera non specializzata riattivando il settore dell’edilizia popolare grazie alla bassa meccanizzazione dei cantieri, provocando così una stasi tecnica programmata. Al contrario, gli alloggi rispondono ad elevati standard abitativi: balconi, doppio affaccio, acqua calda, riscaldamento, energia elettrica e servizi igienici obbligatori. La vera sfida è però rivolta ai progettisti (la maggior parte dei quali provenienti da fuori città): ideare nuovi insediamenti popolari legati però alla tradizione del ‘borgo italiano’, personalizzando il linguaggio architettonico per una clientela anonima che non coincide con il committente, ma alla quale si devono riconoscere esigenze individuali e culturali. A Verona non tutti gli interventi hanno dato buoni frutti, ma questi quartieri sono ormai parte della città consolidata e del suo patrimonio edilizio. Citando Bruno Zevi, “l’edilizia popolare è letteratura e raramente attinge ai versi lirici della poesia […] è il paradigma di una cultura che serve e non solo consola”. Testi: Francesca Lui
Foto: Lorenzo Linthout
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1 BORGO NUOVO Uff. Tecnico Municipale, Libero Cecchini, Giuseppe Poso, Albino Agosti 1949-51 Il progetto, in origine sviluppato dall’Ufficio Tecnico Municipale, è seguito successivamente dal gruppo coordinato da Libero Cecchini. I fabbricati, disposti attorno a cortili condominiali, sono sfalsati per donare varietà all’impianto e connessi da pensiline e portali. L’intervento si inserisce nella maglia edilizia esistente, ma manca di centralità e collettività. È tuttavia
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indiscutibile il comfort abitativo degli alloggi (dotati di termosifoni, scaldabagno e campanello elettrico) in relazione alla situazione abitativa di Borgo Nuovo dell’epoca, che fino agli anni 60 contava l’assenza del wc nelle abitazioni popolari.
2 BORGO NUOVO - Centro sociale IACP 1949-51 La costruzione è posteriore alla realizzazione dell’insediamento. Progettato dallo IACP nel 1957, è stato collaudato nel 1959. Si tratta di due corpi collegati da un porticato, l’uno per l’assistente sociale e ambulatori, l’altro per la scuola materna. La struttura è, coerentemente con il quartiere, in muratura tufacea. La distribuzione interna è flessibile grazie a pareti scorrevoli. L’orientamento è studiato in modo che le aule siano rivolte a sud-ovest e i servizi a nord-est. Le pareti a nord sono protette da lastre di Eraclit e i rivestimenti interni dell’asilo sono in linoleum e formica. Oggi è utilizzato come consultorio familiare.
3 ORTI DI SPAGNA Alviero Puccioni, Pompeo Coltellacci 1952-1955 L’unicità di San Zeno come quartiere INA-Casa consiste nell’aver beneficiato di un Concorso Nazionale, vinto da un gruppo romano, per ottenere progetti qualitativamente elevati rispetto al contesto. Il quartiere viene sviluppato sui tracciati stradali del Piano di Ricostruzione, ormai diventato esecutivo. Le tipologie comprendono il villino di tre piani e le case comuni di massimo quattro piani. Tutti gli edifici sono attorniati da verde condominiale. Le sagome degli edifici, ricche di nicchie e corpi inclinati denotano varietà di viste, e la qualità delle finiture e delle pietre a spacco utilizzate per gli cortili comuni eleva la qualità del quartiere.
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ORTI DI SPAGNA - servizi Alviero Puccioni, Pompeo Coltellacci 1952-1955
SANTA CROCE Nello Ena 1952-1959
Orti di Spagna rappresenta il paradosso di un quartiere che, pur essendo così vicino al centro da non dover richiedere i servizi che servono nei quartieri satellite, in realtà necessita di esserne corredato perché non è mai stato interessato dall’edificazione prima di allora. L’asilo e il campo giochi sono dislocati lungo le strade parallele ai bastioni. Il cuore del quartiere è invece lo spazio pubblico centrale attorno al quale gravitano il mercato coperto, il centro sociale e le scuole elementari. Gli involucri dei servizi sono attualmente esistenti ma solamente le scuole hanno mantenuto la loro funzione.
Il complesso, uno degli interventi più consistenti dell’INA-Casa veronese, è costituito da 397 alloggi per un totale di 2.072 vani. Il quartiere segue uno schema a farfalla sul quale gli edifici di tre-quattro piani sono disposti in linea. Ogni edificio è però composto da corpi sfalsati, e forma
6 SANTA CROCE - Servizi Nello Ena 1952-1959 Il progetto prevedeva due lotti saldati dall’edificio parrocchiale, con un sistema di piazze sulle quali si affacciano i principali servizi collettivi costituiti dalla scuola elementare, dal centro sociale, dal mercato e da un gruppo di negozi. Saranno realizzati solamente il centro sociale (ora ufficio postale, sala lettura e ufficio demografico) e i negozi, ad oggi attivi e fulcro della comunità residente. L’accentramento dei servizi è dovuto dall’essere nato come
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quartiere satellite in una zona rurale e lontana dalla città e da assi nevralgici di comunicazione.
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assieme a quelli adiacenti delle corti poligonali verdi semiaperte. La piazza principale è delimitata da una stecca residenziale con porticato commerciale. Questo elemento giustifica l’utilizzo di una struttura in telaio di cls armato, completamente estraneo alle tradizionali tecniche costruttive utilizzate per tutti gli altri edifici.
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7 PORTO SAN PANCRAZIO Marcello Guarienti, Carlo Vanzetti, Alberto Avesani, Libero Cecchini, Giuseppe Poso, Albino Agosti, Carlo Mutinelli, Gino Fainelli 1949-1955
condominiale o addirittura privato. Nella costruzione emerge l’attenzione verso materiali locali quali la pietra da costruzione delle cave di Avesa e Quinzano e la pietra da taglio, per soglie e gradini, di Sant’Ambrogio.
È il primo esperimento INA-Casa, realizzato in una zona di carattere popolare e colpita duramente dai bombardamenti del ‘45. Sull’esistente via Galilei si innestano le nuove vie Domaschi e Ligabò, oltre a un asse pubblico corredato da un centro sociale. Il quartiere consiste in una ventina di fabbricati di diverse tipologie: in linea, singole o duplex a schiera con verde
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8 PORTO SAN PANCRAZIO Centro sociale 1949-55 È un modesto fabbricato di un piano, composto da due ali ad angolo retto. Al suo interno comprendeva alcuni servizi per la nuova comunità: aule per l’assistenza all’infanzia con pareti scorrevoli, l’ambulatorio, l’assistenza sociale, locali di lettura e una cucinetta. Le strutture sono in semplici mattoni pieni e telaio in cls armato. I pavimenti sono di foggia diversa a seconda degli usi: linoleum per le aule dell’asilo, mattonelle per l’ufficio medico, scaglia grossolana per ufficio dell’assistente sociale, palladiana per l’aula dell’assistente sociale, graniglia per il resto. Ad oggi è utilizzato come scuola dell’Infanzia.
9 GOLOSINE Plinio Marconi, Carlo Vanzetti, Giuseppe Poso, Libero Cecchini 1951-1955 L’area, lontana dal centro e priva di vincoli, permetteva di soddisfare con agio il fabbisogno di case. Verrà realizzata una trentina di edifici intensivi, dai tre ai cinque piani, articolati secondo un impianto viario di matrice organica. L’idea del borgo è resa dagli edifici perimetrali allineati alle strade, mentre l’interno dei lotti è un susseguirsi di passaggi, sfalsamenti, corpi inflessi, angoli concavi, corpi collegati da passerelle pedonali sospese e spazi verdi che permeano e circondano l’edificato.
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10 GOLOSINE - servizi IACP, Libero Cecchini 1951-1955 In un insediamento periferico di questa entità, i servizi di quartiere rappresentano l’elemento essenziale per non lasciare nell’isolamento gli abitanti e farli sentire parte dell’organismo urbano. Nel 1954 viene approvato il progetto per il centro sociale, integrato da un parco giochi. Collocato al centro di un cortile, l’edificio ha struttura in pietrame tufaceo e copertura in
cls armato. I rivestimenti sono in graniglia, marmette e pietra locale. Dal 1981 l’edificio è stata convertita in biblioteca di quartiere.
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11 SANTA LUCIA Maurizio Sacripanti (capogruppo) 1956-61 Quartiere satellite che rimanda chiaramente al razionalismo dell’anteguerra, ignorando le prescrizioni INA-Casa che prediligevano la scelta del borgo all’italiana. La griglia ad angolo retto è il sistema sul quale si articola l’insediamento, composto da stecche ad alta densità (edifici di 3-5 piani). Le tecniche costruttive si discostano dalla tradizione e vertono sul telaio strutturale in cls armato esposto in facciata. Il quartiere è imperniato su un asse principale, una strada-piazza sulla quale si allineano i negozi e che dovrebbero costituirne il centro della vita urbana. Da questo si diramano spazi semiaperti adibiti a corte, attorno ai quali sono disposti gli edifici minori.
12 SANTA LUCIA - SERVIZI Maurizio Sacripanti (capogruppo) 1956-61 Negozi, centro sociale, scuola elementare, campo sportivo: i servizi per il quartiere, così definiti, avrebbero dovuto rispondere alla necessità di dare un nuovo centro all’intera zona di Santa Lucia. Il centro sociale è un fabbricato di forma semplice a due piani, con telaio in cls a vista; la sua realizzazione si era conclusa nel 1966, addirittura dopo la fine dell’INA-Casa. La scuola elementare, progettata nel 1960, ha invece sostituito una struttura temporanea progettata dall’Ufficio Tecnico Municipale, che per alcuni anni aveva sopperito alla mancanza del plesso. La nuova struttura rispecchia la struttura col telaio a vista, in linea con il resto del quartiere.
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LA BACHECA DI AV
LA BACHECA DI AV
La storia, la qualità, l’assistenza Nel cuore della Valpolicella uno showroom di 3000 mq al fianco dei progettisti che possono vantare una lunga esperienza nel campo, risponde ad ogni necessità affiancando il progettista nella realizzazione degli interni, proponendo gli articoli più adeguati, i colori e i complementi che più valorizzano il contesto abitativo del cliente finale. Piena assistenza è garantita anche in una fase delicata come quella dell’installazione, in cui una cattiva esecuzione rischia di vanificare anche i migliori progetti. Conati Franceschetti è l’azienda che da oltre 60 anni offre un panorama completo sui marchi leader del mercato, dalle librerie agli armadi, dai letti agli imbottiti, dalle cucine ai complementi, al “su misura”. Un punto di riferimento irrinunciabile per il design, la progettazione e l’arredamento di casa e ufficio. Ricercatezza nella selezione dei prodotti e dei materiali, creatività delle soluzioni, massima attenzione nei confronti dei marchi. Un team di persone altamente specializzate,
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Ingombri degli ascensori: quale legge seguire?
CARATTERISTICHE DEGLI ASCENSORI SECONDO LA LEGGE 13 L’ascensore in caso di adeguamento di edifici preesistenti, ove non sia possibile l’installazione di cabine di dimensioni superiori, può avere le seguenti caratteristiche: • cabina di dimensioni minime di 1,20 m di profondità e 0,80 m di larghezza; • porta con luce netta minima di 0,75 m posta sul lato corto; • piattaforma minima di distribuzione anteriormente alla porta della cabina di 1,40 x 1,40 m.
Le soluzioni del Gruppo Stevan Elevatori per rispettare in termini di ingombri sia la Legge 13 che la UNI EN 81-70:2005
Secondo la Legge 13 le misure della cabina devono essere: LARGHEZZA 95 cm PROFONDITÀ 130 cm Secondo la UNI EN 81-70 le misure della cabina devono essere: LARGHEZZA 100 cm PROFONDITÀ 125 cm La proposta del Gruppo Stevan Elevatori consiste nel realizzare impianti con cabina larga 100 cm e profonda 130 cm in modo da ottemperare alle due norme.
• Impianto oleodinamico con 2 velocità 0,63/0,157 m/s potenza motore trifase 9,61 kW con ritorno al piano e riapertura porte. • Impianto a fune (elettrico) con velocità variabile 0,80 m/s (programmabile in salita e discesa), potenza motore con PCS (Power Control Sistem) monofase 3 kW. Il funzionamento di questo impianto è garantito anche senza corrente 60/70 grazie all’utilizzo del PCS che interviene in caso di calo rilevante di tensione evitando fermi impianto (non è quindi necessario un gruppo elettronico). Apertura porte in fase di livellamento.
PORTATA 480 kg - 6 PERSONE FOSSA 1200 mm - TESTATA 3500 mm Azionamento elettrico o oleodinamico
PORTATA 480 kg - 6 PERSONE
FOSSA 1200 mm - TESTATA 3500 mm Azionamento elettrico o oleodinamico
Norma europea recepita in Italia senza decreto d’attuazione: UNI EN 81-70:2005 (ESTRATTI)
Situazione normativa attuale Legge in vigore in Italia: LEGGE 9 GENNAIO 1989 N. 13 (ESTRATTI) CAMPO D’APPLICAZIONE • edifici privati di nuova costruzione, residenziali e non, ivi compresi quelli di edilizia residenziale convenzionale; • edifici di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, di nuova costruzione; • ristrutturazione di edifici privati di cui ai precedenti punti, anche se preesistenti all’entrata in vigore della legge; • spazi esterni di pertinenza degli edifici di cui ai punti precedenti. TEMPI E MODALITÀ A decorrere dall’11 agosto 1989 tutti i progetti relativi agli edifici sopra descritti dovranno essere adeguati a quanto previsto dalla legge e dal relativo decreto attuativo. La progettazione deve comunque prevedere l’installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un impianto di risalita che prevede il trasporto di disabili. Il sindaco, nel rilasciare la licenza di abitabilità o di agibilità ai sensi dell’art.221 del R.D. 27.7.1934 n°1265, deve accertare che le opere siano state realizzate nel rispetto della legge.
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CAMPO D’APPLICAZIONE Ascensori con dimensioni minime di cabina e muniti di porte di cabina e di piano. CARATTERISTICHE DEGLI ASCENSORI SECONDO UNI EN 81-70 L’ascensore per essere a pieno rispetto della UNI EN 81-70 deve essere dotato di quanto segue: • cicalino per conferma prenotazione; • sintesi vocale; • barriera di cellule Memco; • display DMG 108x75 con e senza gong; • luce di emergenza; • segnalatore sovraccarico; • segnalazione di Allarme Inviato; • segnalazione di Allarme Ricevuto; • pulsante verde per piano principale; • pulsante allarme; • pulsante apriporta.
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