Quarta edizione — Anno XXVI n. 1 Gennaio/Marzo 2018 Autorizzazione del tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane spa — spedizione in abb. postale d.i. 353/2003 (conv. in I.27/02/2004) art. 1, comma 1, dcb Verona
RIVISTA TRIMESTRALE DI ARCHITETTURA E CULTURA DEL PROGETTO FONDATA NEL 1959
I diritti del suolo — Proiezioni edificanti
Nel suo piccolo — Chievo ergo sum
ISSN 2239-6365
Sostenibile in vacanza — Storia&progetto: Centrale di luce
Una corte con la scuola intorno — Solido e solidale
2018 #01 Cartone divino — Territorio: Alla fine della Fiera
112 Studiovisit: Fabrizio Rossini — Itinerario: Giacomo Franco (1817-1895)
New Multimedia Showroom
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New Multimedia Showroom: la tecnologia Sever al servizio dei progettisti Si è aperto il nuovo spazio interattivo multimediale sviluppato da Sever per offrire nuove opportunità alla comunicazione e comprensione del progetto La professionalità e il know how di SEVER, maturati in cinquant’anni di esperienza, hanno visto negli ultimi anni il naturale sviluppo e integrazione delle forniture contract anche nel settore alberghiero e domestico. 01
Da qui l’esigenza di creare un nuovo format di presentazione multimediale ed interattivo, gestito da un sistema domotico intelligente. Il nuovo showroow di SEVER, offre una nuova possibilità di comunicazione e coinvolgimento emozionale “dentro il progetto”. Uno spazio allestito come luogo di incontro tra progettisti e committenti, all’interno del quale le tecnologie della struttura permettono di visualizzare immagini, video, progetti e clip multimediali.
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L’elevata tecnologia utilizzata consente proiezioni in 4K su schermi e monitor ad altissima risoluzione, controllati da telecamere con sensori di presenza in modo tale che l’utilizzatore possa gestire la presentazione anche con il solo ausilio del movimento delle mani. All’interno dello Showroom sono collocate un’area di consultazione/riunioni e un’area break. SEVER mette a disposizione dei progettisti che vorranno farne uso la propria struttura per la presentazione e/o condivisione dei loro progetti di qualunque natura essi siano. SEVER è partner e fornitore ufficiale AMG, AUDI, MERCEDES, PORSCHE, SMART, VOLVO E VOLKSWAGEN. 02
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01-02. Vedute dello Showroom multimediale ricavato all’interno della sede Sever a Verona.
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03-04. Sezione e dettaglio del progetto esecutivo dell’allestimento.
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l’ìdentità
MODO+, prima di essere uno showroom, è un’insieme di competenze, di esperienze, di apporti creativi e di capacità interpretative. Un team di professionisti che si arricchisce di continuo per aggiungere, a elevati standart di qualità e innovazione, una visione del prodotto e del design proiettata in avanti. Un’identità esclusiva, un punto di riferimento nel settore. la realtà di MODO+ va molto oltre i confini di Verona, lo dimostrano i lavori realizzati in ogni parte del mondo grazie alla capillare distribuzione e le importanti partnership internazionali.
lo showroom
Nuovi progetti, evoluzione e immagine portano la firma di protagonisti della scena internazionale del design, della comunicazione e dell’architettura. MODO+, uno showroom moderno nel concept, nella costruzione, nella presentazione e nella capacità di venire incontro alle esigenze di un’ampio segmento di clienti.
l’obiettivo
MODO+ si propone per creare stili e ambienti diversi, mantenendo come filo conduttore la qualità, non solo nei prodotti ma anche nei servizi offerti al cliente. L’obiettivo principale è quello di soddisfare le esigenze dell’acquirente con proposte personalizzate e progetti concreti; soluzioni pensate per una dimensione abitativa esclusiva. Migliorare la qualità della vita di privati e aziende, traducendo necessità e desideri della clientela in progetti e prodotti di altissimo profilo. Offrire al pubblico la prima scelta delle migliori aziende del settore. Garantire un servizio su misura dalla progettazione al montaggio. MODO+, la sicurezza di rendere l’ambiente domestico e di lavoro più confortevole, più elegante, piu bello. Una scelta di valore, destinata a rinnovarsi nel tempo.
la filosofia
Nasce l’esigenza di definire modalità alternative a certi stereotipi abitativi, all’interno di questo concetto si colloca MODO+, uno showroom alternativo, dove lo spazio è libero, libero di interpretare ogni volta le espressioni dei prodotti, del design e della tecnologia.
la strategia
Un posizionamento chiaro: il mercato di fascia alta. Una mission precisa: dare ai professionisti del settore una collocazione strategica. MODO+ ha scelto di costruire la propria identità puntando su argomenti importanti, la concretezza, il design, l’immagine, la progettazione, l’attenzione al dettaglio e al servizio completo e personalizzato.
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Verso una Legge per l’Architettura Testo: Alessandra Ferrari
Lo scorso 2 dicembre, al Maxxi di Roma, si è svolta la Festa dell’Architetto 2017. La parola festa ha un’origine antica, deriva dal greco festiao che indica l’atto di accogliere presso il focolare domestico. Festa è un atto di condivisione, di accoglienza, di comunione, di rispetto. Celebrare la Festa dell’Architetto, dedicata all’architettura e a tutti gli architetti, vuol dire nobilitare i luoghi dove si produce vita ed i metodi ad essi collegati, premiando quelli che sono in grado di contrassegnare identità culturali, spirituali, sociali, obbligando a rispettare diritti,
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prescrivendo e favorendo comportamenti. Abbiamo ritenuto che fosse proprio la circostanza adatta per nobilitare le prospettive di un’intera società, per iniziare a discutere della Legge per l’Architettura, non intendendola ‘solo per architetti’, ma per gli interessi dell’intera collettività. Lo spazio in cui viviamo interessa la vita di ognuno, quindi la ‘Legge per l’Architettura’ riguarda la tutela del diritto di tutti. Certamente riguarda la nostra categoria professionale ma, ricordando che l’Ordine degli Architetti nasce, nel 1923, per tutelare i potenziali clienti, la proposta di Legge non intende affatto confezionare un vincolo di casta, ma dichiarare il valore indispensabile dell’architetto per la produzione del bene comune. Lo ribadiremo fortemente durante il Congresso Nazionale che si terrà il 5, 6, 7 luglio 2018 a Roma, utilizzando processi di approfondimento che durante la Festa abbiamo sperimentato. Alla Festa abbiamo invitato intenzionalmente esperti che non appartenessero alla categoria degli architetti, scegliendo i ruoli che abbiamo ritenuto determinanti per dare un loro personale contributo alla discussione: il costituzionalista Giovanni Maria Flick, il filosofo Nicola Emery, lo psichiatra Vittorino Andreoli e l’ingegnere, economista, direttore de La Biennale di Venezia, Paolo Baratta. Si è parlato di individuazione del ‘bene comune’ come atto di democrazia, decidendo di declinarlo al plurale, ‘beni comuni’, non intesi
nel senso di vincoli amministrativi ma in quello di fondamenti intellettuali decisivi per la nostra vita. Si è discusso di bellezza e del rapporto tra il diritto pubblico e il diritto del privato, una questione che pone problemi strutturali sulla responsabilità di un professionista che si trova sempre più spesso nella condizione di gestirne l’equilibrio. Il diritto alla bellezza non è un mero sistema estetico, ma è garanzia di salubrità vitale. È in atto da tempo uno studio internazionale avanzato che collega la riduzione delle patologie psichiche al miglioramento della qualità ambientale non solo intesa in termini di salubrità atmosferica ma proprio nel senso di bellezza dello spazio di vita. La qualità dello spazio in cui viviamo preserva la vita, mentre un ambiente inadeguato favorisce la morte fisica e psichica. Temo che, soprattutto in Italia, si sia sottovalutata la portata di questo tema, fino ad arrivare, oggi, alla drammatica constatazione degli effetti. Qualcuno ha lasciato intendere che «non serva una legge per proteggerci». Rispondo, a nome del CNAPPC, emanazione del Ministero della Giustizia, affermando che in uno Stato di Diritto è necessario ribadirne la necessità. Preciso che una legge è una ‘protezione’, ma va accompagnata da una profonda campagna di modificazione culturale che coinvolga tutto il tessuto sociale. È necessaria un’opera di ‘educazione’ che parta dalle scuole, intese come luoghi di formazione
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delle generazioni future e ambiente fecondo per una capillare diffusione nelle strutture familiari. Un’operazione culturale che coinvolga le università, le amministrazioni pubbliche, le associazioni, l’intera collettività interessata allo spazio di vita. È improcrastinabile una legge che ‘inquadri’ le questioni riguardanti la disciplina, che indichi chi debba intervenire nei processi, delineando le politiche necessarie all’ottenimento dei risultati: uno strumento insieme normativo e culturale, che molti Paesi Europei possiedono da tempo. La Francia nel 2017 ha festeggiato i quarant’anni della propria legge per l’architettura, una sistema normativo consolidato, capace di indirizzare le politiche e definire chiaramente i limiti di competenza. In Portogallo la Costituzione riconosce l’importanza della qualità architettonica e del paesaggio come fondamentali per uno sviluppo sostenibile armonioso del Paese. Contemporaneamente una legge definisce le competenze con una chiarezza esemplare e una purezza disarmante: “I progetti architettonici sono progettati da architetti con registrazione valida presso l’Ordine degli Architetti, i Progetti di specializzazioni ingegneristiche sono preparati dai tecnici o ingegneri tecnici che sono riconosciuti dagli Ingegneri e l’Associazione degli Ingegneri Tecnici… I progetti di architettura del paesaggio sono progettati da architetti del paesaggio con la registrazione nella rispettiva associazione professionale…”. L’Estonia fin dal 2006 possiede una legge che afferma che l’architetto ha la fiducia del governo e di una società che ne riconosce il valore di creatore dell’ambiente di vita, in grado, quindi, di utilizzare la sua esperienza per contribuire ai processi di sviluppo: “Gli architetti hanno una grande responsabilità nei confronti della società. La qualità dell’ambiente dipende dalla competenza professionale e dall’integrità dell’architetto in quanto progettista dell’ambiente di vita”. Nel 2017 anche la Catalogna ha promulgato una Legge per perseguire gli stessi scopi, determinando l’interesse pubblico dell’architettura, definendo le misure per diffondere e promuovere la qualità architettonica nonché chiarire i benefici diffusi
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per l’intera collettività. In realtà anche in Italia si registra la presenza di normative locali ben costruite; ci sono diverse leggi regionali (Puglia, Liguria, Marche) coerenti che, però, non hanno potuto inverarsi in mancanza di una normativa superiore, nonostante esistano alcune bozze di legge nazionali ancora ferme che contengono principi incontrovertibili: “Ciò che distingue, infatti, un Paese che vuole definirsi civile, avanzato e di grandi tradizioni culturali dovrebbe essere la capacità di inserire le azioni di trasformazione del territorio pubbliche e private in un quadro organico di progresso, non solo meramente economico, ma anche culturale e civile della società…”. Perché mai allora questa dovrebbe essere per l’Italia la volta buona? Il Presidente dell’Ordine degli Architetti catalani Graupera ha ammesso che la difficoltà maggiore per l’approvazione è stata ‘far passare’ una legge che veniva percepita come interesse solo degli architetti. Perché la legge possa avere un futuro, oggi è indispensabile che tutti, e soprattutto coloro che non sono architetti, pretendano il diritto di vivere bene, di godere di un benessere ambientale garantito dalla competenza e dall’etica, esigano progetti corretti per le nostre città, supportati da procedure concorrenziali trasparenti, basate sul merito. Cicerone nel De officiis associa la medicina all’architettura nel descrivere le discipline necessarie alla sopravvivenza. Ritengo che avremo raggiunto il risultato quando al termine dei nostri lavori di anni qualunque cittadino intenzionato a fare un intervento comprenda con esattezza cosa debba essere un architetto, cosa debba essere architettura, come l’uno sia indispensabile per l’ottenimento dell’altra, come la prosperità del pubblico sia il vincolo del benessere privato.
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Consiglio dell’ordine • Presidente Amedeo Margotto • VicePresidenti Laura De Stefano Matteo Faustini • Segretario Enrico Savoia • Tesoriere Daniel Mantovani • Consiglieri Cesare Benedetti, Michele De Mori, Stefania Marini, Diego Martini, Leonardo Modenese, Michele Moserle, Francesca Piantavigna, Chiara Tenca, Morena Zamperi, Ilaria Zampini
Alessandra Ferrari è Consigliere del CNAPPC e Coordinatrice del Dipartimento Promozione della Cultura Architettonica e della figura dell’Architetto. Nata nel 1963 in provincia di Mantova, ha vissuto in Marocco, a Verona, a Venezia, a Milano, a Bergamo. Laureata in architettura a Venezia, ha lavorato come progettista e responsabile di progetto per una delle maggiori società di engineering. A partire dal 2000, con il proprio studio con sede a Bergamo, si è occupata di progettazione, costruzione e consulenza nel settore pubblico e privato. Nel 2014 ha costituito un gruppo interdisciplinare specializzato in sistemi turistici evoluti che mette a sistema architettura, planning advising, comunicazione. Primo presidente donna dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Bergamo, ha partecipato alla costruzione del Tavolo per l’Edilizia della Provincia di Bergamo che raccoglie tutti i rappresentanti e tutti gli interlocutori della filiera (ANCE, Ordini, Collegi, Università, Confartigianato, CNA, LIA, Compagnia delle Opere) per la creazione di un’edilizia innovativa.
2018 #01
068 013
progetto
Verso una Legge per l’Architettura di Alessandra Ferrari
Nel suo piccolo di Luisella Zeri
060 Benedetti architetti di Tomàs Bonazzo
editoriale
I diritti del suolo di Alberto Vignolo
034
063
odeon
042
PROGETTO
Sostenibile in vacanza di Dalila Mantovani
PROGETTO
064
Cartone divino di Giulia Bernini
Fabrizio Rossini a Verona di Leopoldo Tinazzi
odeon
050
storia & progetto
Centrale di luce di Federica Guerra
082
Carla non farla di Daniela Tacconi e Alberto Vignolo
COLLEZIONE PRIVATA
072
Le battaglie di Maffeo d’Arcole di Federica Provoli
odeon
Una corte con la scuola intorno di Marcello Bondavalli
architetture
086
territorio
076
065
Sulla terra di Fujimori Terunobu, architetto di J.K. Mauro Pierconti
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diverse
Alla fine della Fiera di Michelangelo Pivetta
Un filo tira l’altro di Luisella Zeri
112
106
odeon
itinerario
Solido e solidale di Pierluigi Grigoletti
Giacomo Franco (1817-1895) di Daniela Tacconi
Punti di vista di Marco Borsotti
odeon
Proiezioni edificanti di Nicola Tommasini
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Un seme di città a misura d’uomo di Alba Di Lieto e Marzia Guastella
progetto
Chievo ergo sum di Angela Lion
Porte a porte di Maria Ajroldi
020
STUDIO VISIT
odeon
odeon
017
094
interiors
070
028
professione
080
odeon
090
odeon
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cantieri
Ci mette il becco LC di Luciano Cenna
Steel frame house di Alessio Fasoli
079
i sepolcri
Franz von Scholl di Federica Guerra
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Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXVI n. 1 • Gennaio/Marzo 2018
Direttore responsabile Amedeo Margotto
Direttore Alberto Vignolo av@architettiveronaweb.it
Editore Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 architettiverona@archiworld.it
Redazione Federica Guerra, Angela Lion, Luisella Zeri, Michelangelo Pivetta, Matilde Tessari, Tomàs Bonazzo, Laura De Stefano, Giulia Bernini, Irene Meneghelli, Daniela Tacconi, Leopoldo Tinazzi, Stefania Marini, Alessio Fasoli, Federica Provoli, Marco Campolongo, Damiano Capuzzo, Filippo Romano, Nicola Tommasini redazione@architettiveronaweb.it
Concessionaria esclusiva per la pubblicità Promoprint Paolo Pavan T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it Stampa Cierre Grafica www.cierrenet.it
Distribuzione La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta agli indirizzi della redazione. Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.
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Fotografia Lorenzo Linthout, Diego Martini, Michele Mascalzoni, Marco Toté Art direction, Design & ILLUSTRATION Happycentro www.happycentro.it contributi a questo numero Maria Ajroldi, Alba Di Lieto e Marzia Guastella, Marcello Bondavalli, Marco Borsotti, Luciano Cenna, Alessandra Ferrari, Pierluigi Grigoletti, Dalila Mantovani, Mauro Pierconti Si ringraziano Niccolò Belloni, Fulvio Ivo Guidi, Cristina Lanaro, Costanzo Tovo
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I diritti del suolo
Una legge regionale indirizzata al contenimento del consumo di suolo, substrato di ogni atto insediativo, ci interroga sull’etica del costruire
Testo: Alberto Vignolo
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Con un profluvio di convegni e consessi di illustri esperti e autorità per farne conoscere finalità e interpretazioni, la recente legge promulgata dalla Regione del Veneto sul “contenimento del consumo di suolo” (L.R. 6 giugno 2017 n. 14) ci pone di fronte a questioni che incidono profondamente sull’etica della nostra professione. Il suolo, il terreno su cui poggiamo i piedi in tutte le sue varianti di consistenza, densità, ondulazioni, è infatti il substrato di ogni atto insediativo, che sia architettonico, urbanistico, paesaggistico o infrastrutturale. Da quando il pensiero ecologico ha fatto
la sua comparsa, sul finire degli anni Sessanta, la questione ambientale è cosa nota, ma altrettanto bene è in genere rimossa, rimandata o sospesa pro tempore in nome e per conto della crescita e dello sviluppo. Con piacere apprendiamo che alla fine di questi nostri anni Dieci del terzo Millennio un barlume di tale coscienza è approdata – probabilmente via gondola – negli aulici palazzi della Regione in quel di Venezia, per insinuarsi nell’atto legislativo sopra citato. Il primo articolo della legge pare infatti scritto da un pasdaràn del pensiero sostenibile: “Il suolo,
risorsa limitata e non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni attuali e future...”. Una bella legge, dunque, se è lecito attribuire un valore estetico a un atto normativo, con finalità e obiettivi alti che indirizzano verso il recupero anche con un approccio innovativo (per esempio introducendo la possibilità del riuso temporaneo). A parlar di terra e di suolo con tanta enfasi, sembra però di essere tornati ai tempi della riforma agraria, e manca poco che arriviamo al famigerato “sangue e suolo”. In effetti manca davvero pochissimo – per fortuna solo in senso figurato – se guardiamo la carta degli ambiti di urbanizzazione consolidata che la legge stessa, per aver contezza dello stato delle cose, ha chiesto a ogni comune veneto di elaborare. Le campiture rosso sangue che vediamo ad esempio nella mappa di Verona ci danno al colpo d’occhio l’evidenza splatter delle ferite inferte al suolo. Noti archi-guru col barbone parlano da tempo di rammendo delle città: ma altro che sartine, qui ci vorrebbero fior di chirurghi e dei bei punti di sutura! È però davvero paradossale che chi detiene la potestà in materia urbanistica, l’ente regionale, si trovi
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a chieder conto ad ogni comune della consistenza del suolo “consumato”. È una clamorosa dichiarazione di impotenza di ogni atto pianificatorio, se non riesce a tenere sotto controllo gli effetti che produce: perché tanto poi, si sa, tra piani casa, extra bonus volumetrici, deroghe e deroghette varie, di quel “bene comune” e delle belle parole al riguardo ce ne siamo fino ad ora bellamente strafottuti. Già, fino ad ora: e adesso? Perché il punto è proprio questo, il passaggio dai bei principi dell’enunciato generale alla prassi. Se da un lato indirizzare finalmente la crescita – la trasformazione – verso gli ambiti già consolidati rispetto all’utilizzo di terreni vergini rappresenta un argine a quel famigerato sprawl che ha devastato in pochi decenni il bel paese che fu, dall’altro i contesti urbani non possono essere sovraccaricati indistintamente, a fronte di aspetti di vivibilità che è sociale e non meramente estetica, oltre che igienico-sanitaria, con tutte le moderne porcherie che ci portiamo appresso (polveri sottili e simili). La dicotomia città-campagna, dunque, rimane una visione idillica d’altri tempi: un equilibrismo da artisti. E rimane, per inciso, un problema marginale del nostro piccolo mondo antico, benestante e benpensante, dove possiamo permetterci di cincischiare col recupero magari della seconda casa, mentre su scala planetaria la crescita incontrollata della popolazione pone vitali questioni di sopravvivenza. Costruire è un anelito di ogni architetto. Ma se guardiamo alle infinite occasioni che si prospettano per trasformare, recuperare, restaurare, riciclare, rigenerare e chi più ne ri-ha più ne ri-metta,
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ne abbiamo da costruire, eccome, anche a consumo zero di suolo (non di energia, ma quello è un altro discorso). C’è persino chi si trastulla a portare il suolo (arborato) sui balconi delle case per sciuri milanesi, ed ecco i “boschi verticali”: graziosissimo slogan, nell’attesa delle montagne orizzontali e dei mari inclinati... Ma al di là del punto di vista dei progettisti, per i quali ogni vincolo e limite non può che essere di stimolo per il processo creativo, il tema del “bene comune” mette in gioco aspetti giuridici, fiscali e in senso lato politici che appaiono molto al di là di un “sentire comune”, per il quale vale sempre e comunque la salvaguardia della gaddiana “propria privata privatissima personale proprietà”. La tanto strombazzata rigenerazione urbana non potrà dunque nascere solo da un progetto architettonico o urbanistico, ma a partire da una nuova sensibilità sociale e culturale. Non basta metterci il cuore e non basta una pur ambiziosa legge regionale perché, parafrasando il buon vecchio Pascal, “il cuore ha delle ragioni che la Regione non comprende”.
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01-02. Comune di Verona, particolari della tavola 1 – L.R. 14/2017. In rosso, gli ambiti di urbanizzazione consolidata.
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PROGETTO
Proiezioni edificanti La ricostruzione del cinema-teatro parrocchiale di Cadidavid dĂ luogo a un edificio complesso, coerente e rispettoso del contesto
Progetto: arch. Amedeo Margotto, ing. Giovanni Montresor - MoMa associati
Testo: Nicola Tommasini Foto: Diego Martini
Verona
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Il nuovo cinema-teatro di Cadidavid, inaugurato nei mesi scorsi dopo un lungo iter 1 e oggi già in piena attività, si inserisce nel tessuto urbano del sobborgo cittadino riempiendo in maniera coerente e convincente il vuoto lasciato dalla demolizione della precedente fabbrica. Grazie a due diverse giaciture planimetriche, all’allineamento dei fronti e alla compenetrazione dello spazio interno dell’edificio con quello urbano della piazza, il progetto dello studio MoMa svela la doppia natura dell’edificio, composto da due “scatole” compenetrate. La prima, quella esterna, è un volume netto, massivo, completamente rivestito in mattoni e a cui in progetto affida il dialogo con la piazza e il tessuto circostante. È un volume grezzo, il cui rivestimento in mattoni fa emergere, sottotraccia, anche un altro tema del progetto, ovvero un carattere quasi archeologico legato alle preesistenze rinvenute nell’area 2 . Il rivestimento delle facciate in mattoni a corsi alternati con diversa sporgenza, infatti, si presenta come un non finito, come quegli edifici incompiuti e sospesi nel tempo in attesa di uno strato rivestimento decorativo esterno finale: una chiara allusione al processo di trasformazione e stratificazione dell’area di cui questo progetto rappresenta l’ennesima e attuale “rinascita”. Il progetto dà a questo volume il compito di avvolgere la scatola interna, completando e definendo l’angolo tra la piazza Roma e la via laterale e confrontandosi con la chiesa con un approccio rispettoso, nel chiaro intento di rimarcarne il ruolo subalterno e di dipendenza (la struttura era storicamente e rimane della parrocchia). Il lavoro di modellazione del volume esterno, in questi termini, ha deter-
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minato anche un’attenta valutazione dell’altezza del fronte sulla piazza, tenuto sollevato rispetto al piano urbano e mantenendo l’altezza massima appena sotto la trabeazione della facciata della chiesa. Il prospetto laterale è invece caratterizzato dalla linea continua di gronda che accompagna i volumi a raccordarsi percettivamente con quelli più bassi degli edifici della via. Il fronte principale, altrimenti forse troppo scarno e duro, è perturbato da una sorta di bow-window – ideale allusione all’occhio della sala di proiezione cinematografica – che ne arricchisce l’immagine e recupera l’allineamento con la chiesa. La scatola interna è quasi interamente nascosta rispetto all’esterno, ed ha una natura opposta. Essa contiene il
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01. Il nuovo edificio in una veduta all’angolo tra la piazza e la via laterale. 02. Planimetria generale con evidenziati la chiesa e il cinema. 03. Veduta di insieme della piazza di Cadidavid. 04. Particolare del bow-window sul prospetto principale del cinema-teatro. 04
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PROGETTO
Proiezioni edificanti
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05. Dall’alto, pianta a quota zero con la sala cinematografica, il piano superiore con gli spazi per attività parrocchiali e sezione longitudinale. 06. Particolare della tessitura muraria del paramento esterno in laterizio.
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foyer e gli spazi del cinema-teatro. Se l’esterno si mostra ruvido, vibrante e materico (con i pannelli prefabbricati in cemento armato a vista nei punti lasciati aperti dal rivestimento), gli spazi interni si rivelano più caldi, levigati e preziosi, frutto di un lavoro accurato di scelta dei materiali e di incessante cesellatura dei dettagli. Il dialogo tra le due scatole è molto evidente anche in pianta, grazie alla leggera torsione reciproca che consente di mediare tra le diverse giaciture del contesto: l’asse della chiesa e quello della via Vittorio della Vittoria. La scatola esterna è parallela alla via, mentre quella interna della sala si allinea con la chiesa; si determina così un sottile gradiente tra le facciate del cinema e della chiesa, rispettando il rapporto gerarchico tra le due. L’assetto morfologico così definito consente di ricavare una sala con 245 posti a sedere, il palcoscenico con lo schermo, il retropalco con i servizi e una sala parrocchiale polivalente (in attesa di completamento) nella parte superiore del volume sulla piazza. La rotazione planimetrica ha consenti-
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07. Il fronte laterale con le parti in calcestruzzo a vista della struttura. 08. Il prospetto principale sulla piazza con la vetrata del foyer del cinema e, in corrispondenza della colonna d’angolo, l’accesso separato per gli spazi al piano superiore. 09-10. Lo stacco tra il nuovo edificio e la chiesa con la via di fuga verso la piazza.
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to inoltre di creare degli spazi interstiziali tra le due scatole, funzionali all’intera struttura: sull’angolo tra la piazza e la via laterale è posto l’ingresso indipendente e la scala di accesso alla sala polivalente, mentre sul versante opposto verso la chiesa sono ricavati i servizi, un piccolo bar e la sala regia. La fabbrica è poi staccata dal fronte laterale della chiesa, ricavando uno spazio compresso e allungato (funzionale anche ai percorsi di sicurezza) che sfocia nella piazza in corrispondenza di una sottilissima fessura lasciata tra i due edifici. La scatola esterna in mattoni, come detto, è rialzata rispetto al piano urbano da uno zoccolo in cemento armato prefabbricato di colore marrone scuro (scelta – quella del prefabbricato – quasi obbligata per far tornare tempi e costi di realizzazione complessiva). Di fatto, la parete in mattoni appare sospesa sulla vetrata del foyer che diviene, anche grazie alla pavi-
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mentazione in porfido in continuità con quella della piazza, una sorta di prosecuzione dello spazio urbano all’interno del cinema. La sala è raggiungibile da un percorso duplice che dal foyer, tramite un setto centrale, si divide tra un corridoio con una pendenza minima in discesa verso il palcoscenico, per accedere alle poltrone del settore più basso, e alcuni gradini che portano direttamente alla sommità della parte gradonata (va da sé che lo studio della perfetta visibilità da ogni punto della sala sia un principio posto all’origine del progetto). Nella parte inferiore della sala, le file delle poltrone sono sfalsate tra loro, mentre nella parte gradonata a maggior pendenza i posti sono allineati. Il palcoscenico è sormontato dal vano tecnico della torre scenica, interamente compresa all’interno della scatola esterna in mattoni e commisurata alle esigenze di una struttura come questa. Al suo interno trovano posto tutte le attrezzature specifiche (teatrali ma anche cinematografiche, con lo schermo avvolgibile che vie-
MOMA associati Fondato a Verona nel 1998 da Giovanni Montresor, ingegnere laureato a Bologna nel 1981, e da Amedeo Margotto, architetto laureato allo IUAV nel 1992, lo studio svolge attività di progettazione architettonica e urbanistica sia per committenti privati che pubblici. Tra le opere di maggior rilievo si evidenziano una residenza sanitaria assistita per 118 posti letto (cfr. «AV» 89) e un complesso residenziale di 98 alloggi a Verona, recuperi di edifici religiosi e residenze private. Lo studio ha raccolto menzioni, segnalazioni e premi in alcuni concorsi: Piazza di Monteforte d’Alpone (VR), Cinema Teatro Paitone (BS), RSA Fondaz. Città di Cremona (CR). 15
11. I prospetti del nuovo edificio in rapporto alla chiesa, sul fronte della piazza e sulla via laterale. 12-13. Percorsi di accesso e vie di fuga tra i settori della sala. 14. L’accesso alla sala dal foyer si biforca consentendo anche di salire direttamente al settore più elevato della platea. 15-16. Il foyer è posto in diretta continuità con la piazza sia a livello planimetrico che materico con la pavimentazione in porfido.
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ne calato dall’alto in prossimità della parte anteriore del palco). Dal fondo del palco si accede ai camerini, per i quali è ricavato un apposito ingresso dal cortile retrostante in prossimità dell’asilo parrocchiale. L’acustica della sala è particolarmente curata, sia dal punto di vista dell’isolamento rispetto all’esterno e sia per quanto riguarda il comfort interno, grazie anche al pavimento in rovere,
alle poltrone interamente in tessuto e al controsoffitto realizzato con teli fonoassorbenti. Ma gran parte della correzione acustica viene svolta da speciali pannelli montati a parete, realizzati con una sorta di “vassoi” in lamiera microforata riempiti al loro interno con lana di roccia e staccati dal muro retrostante da un’intercapedine capace di disperdere e trattenere le onde sonore. Tutti questi accorgi-
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17. Il palco con lo schermo cinematografico calato e, sulla sinistra, la scala di accesso dalla platea. 18. I posti a sedere sono disposti in due settori, uno in piano leggermente inclinato e uno gradonato: a destra sul fondo si nota il traguardo visivo sulla piazza. 19. Veduta generale verso il palco. 19
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« Il dialogo tra le due scatole è molto evidente anche in pianta grazie alla leggera torsione reciproca che consente di mediare tra le diverse giaciture del contesto »
menti nascono con precisi obiettivi funzionali, ma contribuiscono con la definizione dei materiali, delle cromie e soprattutto dei dettagli, a creare una sala dal ricercato carattere grafico: il tutto a partire da materiali comuni, di facile reperimento e non particolarmente costosi. I pannelli fonoassorbenti alle pareti, ad esempio, hanno consentito ai progettisti di “disegnare” dei prospetti interni leggeri,
giocati sul rapporto tra il legno utilizzato nelle parti basse (in corrispondenza delle uscite di sicurezza e delle relative bordature) e l’elegante tono di azzurro scelto per le lamiere microforate che misurano, grazie al passo delle fughe, lo spazio della sala. Avvicendamenti e iter progettuale, disegno degli interni della sala, uso dei materiali e composizione esterna testimoniano un lavoro – come raccontatoci da Amedeo Margotto – piuttosto impegnativo e laborioso, che ha impegnato lo studio MoMa negli ultimi tre anni, ma da cui emerge in maniera chiara la capacità di affrontare le diverse problematiche derivanti dal progetto e di trovare tra di loro una sintesi, di intenti e di risultati, significativa.
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Committente Parrocchia San Giovani Battista Cadidavid (Verona) Progetto architettonico e direzione lavori MoMa associati arch. Amedeo Margotto ing. Giovanni Montresor strutture ing. Giovanni Montresor ing. Thomas Dusatti gruppo di progettazione p.i. Franco Bonato (imp. meccanici) geom. Marco Caporali (sicurezza) Cervi Associati (acustica) dott. Pier Silvio Compri (geologia) ing. jr. Mirco Mattioli (imp. elettrici e speciali) Responsabile unico del procedimento arch. Ernesto Pisani
1 La costruzione del cinema teatro è stata lunga e complessa. Il progetto presentato in queste pagine è l’esito di un lungo iter – non solo progettuale, ma anche burocratico, amministrativo e decisionale – a cui hanno preso parte anche altri professionisti. Il progetto realizzato, diverso e sostitutivo di quello progettato (da altri professionisti) e concessionato nel 2012, tiene conto delle mutate esigenze di fattibilità economica della committenza. Per maggiori dettagli si rimanda alla storia pubblicata sul sito: www.cinemateatrodavid.it. 2 L’area di progetto risulta edificata già sul finire del XV secolo, con tracce di una piccola cappella poi inglobata nella costruzione della prima chiesa parrocchiale nel 1500, ampliata e modificata tra la fine del ‘600 e la prima metà dell’‘800, quando – 1853 – venne edificata sull’area adiacente la nuova e attuale chiesa parrocchiale. La vecchia chiesa venne così abbattuta per far spazio al cinema-teatro, funzionante già nel 1933. Dopo un incendio nel 1945 e la ricostruzione del 1948, l’edificio svolse la sua funzione fino alla recente demolizione del 2012.
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imprese Progress Group (BZ) Edile srl (VR) – Alpiq (VR) Cinearredo (BG) – Codrignani (MI) Digitronic Service (TV) – GSG (VR) Italtecnica (PD) – Prea (VR) Seal (VR) – Tecnocop (VR) Cronologia Progetto: 2014-2015 Realizazione: agosto 2015-settembre 2017
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Nel suo piccolo Quando la funzione è un generico spazio ad uso collettivo e il contesto marginale il progetto deve ricercare in se stesso le ragioni della forma Progetto San Bortolo: arch. Fabio Pasqualini - Hsl archilab
Progetto Via Agno: arch. Antonio Biondani, arch. Gian Arnaldo Caleffi - Architer Testo: Luisella Zeri
Foto: Lorenzo Linthout
Selva di Progno Verona
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Da sempre ogni atto insediativo è accompagnato dalla ricerca di spazi per il ritrovo, il confronto e l’espletamento di pratiche che mettono la persona al centro di un pensiero più ampio e collettivo. Nessun uomo è un’isola: i greci si ritrovavano nell’agorà, i romani presso il foro e nel medioevo gli spazi per il commercio erano gli stessi in cui dirimere le questioni politiche e amministrative. Ai giorni nostri la dimensione sociale assume molte sfaccettature, ma non cambia il fatto che, un po’ per il volere delle amministrazioni comunali, un po’ perché è forte la richiesta da parte dei cittadini, c’è ancora la necessità di costruire edifici destinati a non meglio precisati spazi di aggregazione. Se la funzione, però, risulta talmente generica da non offrire alcun appiglio progettuale – sostanziandosi di fatto in un grande ambiente tuttofare con i relativi servizi – occorre ricercare altrove le ragioni delle scelte architettoniche: come fanno le due recenti recenti realizzazioni che presentiamo, tra identità del luogo e geometria percettiva la seconda.
gno, ha portato quindi a un gesto progettuale rappresentativo e riconoscibile. La costruzione è composta dal volume della sala polifunzionale, al quale sono addossati sui lati opposti due corpi minori per i servizi e gli impianti, e da un deposito-rimessa di mezzi a un livello inferiore, accessibile da un collegamento con una strada esistente e ricavato controterra assecondando la morfologia del terreno. L’ingresso è attestato sullo spazio aperto sistemato contestualmente alla costruzione dell’edificio e posto tra la scuola primaria e l’asilo. Internamente, il vano della sala è visivamente dilatato dalla grande vetrata affacciata
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01. Sul fronte principale il volume tecnico è enfatizzato dal rivestimento in legno. 02. Una panoramica sul borgo di San Bortolo in cui è riconoscibile il nuovo edificio pubblico. 03. Il fronte a valle caratterizzato dalle tre colonne circolari. 04. Pianta al livello della sala civica e sezione.
San Bortolo
Abbarbicato sui primi rilievi della Lessinia Orientale nel Comune di Selva di Progno, in frazione San Bortolo, il nuovo edificio civico progettato dall’architetto Fabio Pasqualini si inserisce all’interno di un più ampio programma di opere finanziate con fondi europei a favore di brani di territorio diventati per vari motivi marginali, abbandonati o sotto utilizzati. Lo scopo di questi interventi, previsti fra le località di San Bortolo e Campofontana, è di generare nuovo impulso economico all’area montana, a partire dai flussi turistici ma non solo. San Bortolo, infatti, è sì un centro abitato dalle dimensioni assai contenute per densità abitativa ed estensione, ma contemporaneamente per la sua posizione geografica riesce ad essere punto catalizzatore anche per le località vicine. Gli sforzi progettuali si sono quindi mossi in questo senso, recuperando i caratteri tipologici e costruttivi del luogo e il rapporto con il paesaggio. L’analisi dell’architettura della val d’Illasi, delle contrade e delle frazioni più alte del territorio di Selva di Pro-
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05. Una stalla della Lessinia come riferimento tipologico. 06. L’ampia sala interna destinata a usi collettivi. 07-08. Particolari costruttivi e veduta di una colonna circolare con l’accurata tessitura litica. 09. Un’immagine che evidenzia la continuità fra gli aspetti costruttivi e quelli naturalistici del progetto. 10. Il piano della copertura destinato ad uso ricreativo in condivisione con l’adiacente scuola.
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sul terrazzo, che che amplia a sua volta lo spazio a disposizione e che si pone in dialogo con il paesaggio e con i coni ottici verso valle. Il terrazzo è retto da tre colonne circolari che, partendo dal livello della rimessa e arrivando fino alla copertura praticabile – posta in continuità con lo spazio aperto della scuola primaria, del quale diventa un ampliamento – danno slancio e caratterizzano l’edificio. La colonna circolare è un elemento tipico di alcune forme dell’architettura tradizionale della Lessinia, qui riletto secondo un accurato studio della stratigrafia dei conci di pietra alternati per colore e finitura. La pietra, utilizzata anche per la pavimentazione della sala con un’alternanza di pezzature e sfumature a comporre un elaborato mosaico geometrico, dialoga con le superfici verticali – sia interne che esterne – rifinite con un intonaco in sabbia di fiume realizzato secondo tecniche tradizionali, mentre i volumi dei servizi sono rivestiti in listelli di legno in analogia ai parapetti e ai serramenti. Particolare attenzione è stata rivolta alla sistemazione paesaggistica delle aree estere, attraverso l’utilizzo di superfici in terra battuta per i percorsi e di finiture in materiali naturali in continuità con quel-
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le esistenti. Anche le scelte che hanno riguardato le specie vegetali sono state tese all’eliminazione dei confini tra architettura e paesaggio, per un progetto che non si mimetizza ma si inserisce nel territorio esistente sentendosi perfettamente a suo agio. L’edificio diventa così moderno, privo di sovrastrutture estetiche, dove funzione e orografia dei luoghi generano la forma nello stesso modo in cui da sempre è costruita l’architettura della Lessinia. Riprendiamo l’auto e torniamo in città, nel quartiere di Borgo Trento tra le vie Agno, Quinzano e Cà
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di Cozzi. Qui come opera di urbanizzazione secondaria in attuazione di un Piano Attuativo progettato dallo studio Architer sorge un nuovo piccolo edificio pubblico, destinato come quello di San Bortolo a generico ritrovo collettivo, in questo caso legato al decentramento circoscrizionale. Se nel progetto precedente la funzionalità generica posta alla base del progetto assecondava l’aspetto morfo-topologico rispetto ad un brano di territorio, in questo caso l’edificio si pone come spazio a destinazione sì polifunzionale, ma con una specifica richiesta di attenzione alle prestazioni acustiche e sonore, pensando ad usi quali assemblee, incontri dibattiti, prove ed esibizioni musicali, eccetera. L’edificio pubblico si inserisce in questo caso a corredo del più ampio comparto a destinazione residenziale attualmente in costruzione alle sue spalle – il cui progetto risale già al 2004 – ed è quindi parte integrante di un disegno complessivo comprendente la risistemazione delle aree a parcheggio e un efficace collegamento alla viabilità esistente sul nevralgico innesto di via Cà di Cozzi. Sempre all’interno del disegno urbano complessivo, il Piano attuativo ha compreso la bonifica della parte di progno a sud dell’area, inserendo in questa fascia i principali accessi al lotto, compreso un ponte pedonale e ciclabile sopra una fascia di mitiga-
Committente Comune di Selva di Progno Progetto architettonico e direzione lavori arch. Fabio Pasqualini HSL studio Consulenti ing. Claudio Lavarini (progetto strutture-sicurezza) ing. Leonello Lavarini dott. geol. Annapaola Gradizzi arch. Anna Raimondi TEC srl (impianti) Imprese Caltran Giovanni Battista srl Cronologia Progetto e realizzazione: 2015-2017 Dati dimensionali Superficie complessiva: 300 mq
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PROGETTO 11. Il fronte posteriore della sala civica di via Agno. 12-13. Sezione trasversale e pianta dell’edificio. 14. L’ingresso d’angolo rispetto ai fronti verso strada e verso la via di accesso al nuovo insediamento residenziale. 15. La decisa scelta cromatica esalta il gioco dei volumi e gli aspetti costruttivi dell’edificio. 16. L’interno della sala connotata dalle pannellature acustiche a parete.
zione a verde. Per quanto riguarda l’edificio, anche in questo caso la distribuzione degli spazi è molto semplice ed elementare: la sala collettiva è posta centralmente e conta una capienza teorica di 96 posti a sedere. Lungo il suo perimetro sono addossati i volumi di servizio comprendenti i locali tecnici e alcune stanze utilizzabili come uffici. A fare da filtro fra esterno e interno vi è un foyer che all’occorrenza può ospitare anche eventi di dimensioni più contenute o piccole esposizioni. Le diverse altezze tra il volume principale – la sala ha un’altezza interna utile di cinque metri – e quelli secondari dà luogo a una composizione che ammicca al neoplasticismo, anche grazie all’uso del colore che sottolinea ed enfatizza le scansioni volumetriche. Se in genere gli edifici pubblici sono riconoscibili perché su di essi sventola nelle occasioni di rito una bandiera nazionale, qui è l’edificio stesso che si fa bandiera, con un gioco tricolore di bianco-rosso verde. è un rosso acceso, il tono dominante: uno di quei colori decisi con il quale nessuno – eccezion fatta per qualche architetto... – si sognerebbe di farsi una giacca. Nel suo piccolo, alla scala del quartiere, all’interno del tessuto residenziale l’edificio dovrà assurgere al ruolo civico di “monumento”. Dal punto di vista costruttivo, la necessità di contenere le tempistiche di cantiere ha portato alla scelta di realizzare le strutture in elevazione intera-
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Committente Agno 2000 per Comune di Verona Progetto architettonico Architer srl arch. Antonio Biondani (direz. lavori) arch. Gian Arnaldo Caleffi arch. Federico Baruffaldi (collaboratore) Consulenti ing. Piergiorgio Castelar (strutture) per. ind. Stefano Maggiotto - Intec (impianti) dott. Massimo Donzellini (acustica) ing. Loris Binosi (collaudo statico) Imprese Caltran Giovanni Battista (impresa costruttrice) - geom. Carlo Trestini F.lli Meneghini (imp. meccanici) Magnabosco impianti (impianti elettrici) 15
Cronologia Progetto: 2005 Realizzazione: 2017
mente in getto di calcestruzzo; unico vezzo, sempre nell’ottica di una forma che segue la funzione, è quello della trave parete posta sopra l’ingresso che costituisce così un volume a sbalzo come pensilina di copertura a servizio dei fruitori dello spazio. La sala principale è ottimizzata per i previsti utilizzi in chiave sonora attraverso un pacchetto acustico accurato. L’aspetto conferito dalle pannellature microforate è quello di un asettico laboratorio: ma non mancheranno esperimenti sociali – in vitro o meglio in corpore – a ravvivarlo, una volta che sarà entrato a pieno nel vita del quartiere.
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Chievo ergo sum Il paesaggio urbano di un quartiere di Verona compreso tra città e fiume e l’identità del luogo attraverso le sue architetture
Testo: Angela Lion Foto: Michele Mascalzoni
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01. La palazzina uffici delle Officine Cardi su via Berardi. 02-03. Gli edifici del primo nucleo delle officine, poi adibito a falegnameria. 04. Il villino della famiglia Cardi sulla testa dell’insediamento industriale. 05. Oltre il muro di cinta, i fabbricati dismessi delle officine.
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Una strada, diritta e lunga, sembra dividere il ricordo non troppo lontano di quella realtà paesana che ancora oggi viene custodita gelosamente dai piccoli borghi, e che difficilmente si ritrova nelle città contemporanee, da un toponimo che ha travalicato la dimensione periferica grazie ai successi transazionali della locale compagine impegnata ai massimi livelli nel giuoco del pallone. È il Chievo, nucleo di antica origine che fronteggia la destra Adige per buona parte della sua estensione, aprendo i propri orizzonti verso lo stupendo spettacolo della Valpolicella. Nel 1923 viene assorbito nei
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confini amministrativi di Verona, ma mantiene viva e pulsante la propria identità, segnata da alcuni elementi architettonici che ne hanno segnato lo sviluppo e la trasformazione. Simbolo allegorico di questo percorso, alle porte di via Berardi – l’asse insediativo del borgo – si staglia quel che resta di una immensa realtà industriale: le ex Officine Cardi. Fondate nel 1919 come piccola impresa artigiana e cresciute fino a diventare leader nel settore metalmeccanico, Cardi ha rappresentato un’epoca e per decenni ha creato un tutt’uno con il Chievo. Di testa al bivio tra via Berardi e via Puglie troviamo, a mo’ di
prua di nave, la residenza della famiglia Cardi, un grazioso villino liberty su due livelli abbracciato da un ormai dismesso giardino. La casa cela alle sue spalle il primo insediamento delle officine, sviluppate in fabbricati ampi ma non imponenti, dei quali si riconosce ancora il profilo a due falde della campate affiancate con gli oculi circolari nei timpani. Da via Berardi per anni sono usciti prima carretti agricoli e poi rimorchi e ogni sorta di mezzo realizzato su misura per le più diverse esigenze. Nel 1960 l’azienda in forte sviluppo si trasferisce nel nuovo e comodo stabilimento sul lato opposto della strada, mentre nel vec-
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chio rimane il reparto falegnameria. volezza del progetto farsi carico delle La superficie occupata è vastissima, tracce della storia economica e sociale e a tutt’oggi appare come una fortez- di questo luogo 1. za racchiusa da una cinta che la rende Poco oltre l’ex Cardi rimane invece imperscrutabile. La palazzina degli in attività un’altra struttura che, per uffici attestata sulla strada è l’unico estensione e scala, ha segnato con deelemento completamente percepibile. cisione un tessuto residenziale in fase A pianta rettangolare, sul lato corto di consolidamento. Si tratta del cendi ingresso abbozza la fisionomia di tro di formazione professionale Prouna Y caratterizzata da una bussola- volo, costruito da Libero Cecchini filtro. Da qui si scorgono, all’interno nel 1966 come costola dell’omonimo istituto assistendel recinto, i vasti « Negli nuovi edifici ziale per sordopiazzali di manodell’istituto Provolo lo muti. L’aumento vra e il battaglione di fabbricati ‘stile Libero’ si manifesta degli allievi e la richiesta di serdalle coperture a appieno, partendo dalla vizi dell’Opera shed, tappezzati valorizzazione della nuda resero necessalungo le facciate materia e delle ria la realizzaziodalle baie di cane di una vera e rico per la movisue potenzialità » propria cittadelmentazione dei mezzi. Tettoie, ricoveri attrezzi e la la atta ad ospitare 320 alunni, comcasa di famiglia sembrano essere fer- prensiva di scuole, palestra, laboratori mi al momento dell’abbandono: per- e officine e degli alloggi per ragazzi ché ora non vi è più nulla se non lo ed educatori. Il progetto ha inglobato spettro di quel grande sviluppo indu- la preesistente villa settecentesca, ristriale andato scemando nel processo partita attestando da un lato le attidi globalizzazione. La prospettiva alle vità didattiche, sportive e la cappella, porte è quella di una completa ricon- dall’altro il convitto con la mensa, gli versione dell’area in senso residenzia- spazi collettivi e ricreativi e l’ambule e commerciale: starà alla consape- latorio medico. Al centro un’ampia
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zona verde per il gioco ricorda l’antica spazialità del brolo. Nei nuovi edifici lo ‘stile Libero’ si manifesta appieno, partendo dalla valorizzazione della nuda materia e delle sue potenzialità, che sia cemento armato, pietra, vetro o semplice colore. La materia pren-
de forma sfruttando le tecniche costruttive per raggiungere spazi ampi e funzionalità moderne, come nelle coperture “a grattuggia” dei laboratori di falegnameria. Poco più in là svetta l’imponente mole del dormitorio, quasi a dialogare in altezza con 06. La villa settecentesca inglobata nell’insediamento al Chievo dell’Istututo Provolo. 07. La facciata della scuola media oltre l’antico muro di cinta. 08-09. Lo svettante volume dei dormitori dell’istituto in rapporto al contesto urbano.
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10. Immagine d’epoca con le coperture dei laboratori delle scuole professionali del Provolo e, sullo sfondo, i capannoni delle Officine Cardi oltre la strada. 11. Libero Cecchini, schizzo assonometrico dell’insediamento per l’Istututo Provolo, 1968. 09
il campanile della chiesa, e imponendo il segno della fascinazione che Le Corbusier esercitò su Cecchini, ovvero quei caratteri formali dell’edificio inteso come ‘macchina per abitare’ 2 . Da qui, oltre via Berardi e verso l’Adige lungo via del Perloso, ci si imbatte con un’alternanza quasi nostalgica in grandi corti lunghe e strette come i lotti su cui insistono, dai canoni simmetrici delle ville di campagna, con l’innesto di “nuovi” condomini che inglobano frammenti di edilizia rurale. Un’architettura residenziale tipicamente rada con subitanei salti di scala a realtà moderne, riferibili agli anni 60-70: in sintesi, un tessuto urbano articolato e complesso, ricco di tante influenze stilistiche. Passeggiandovi colpisce la presenza di elementi differenti nelle tecniche di costruzione ma dialoganti per tipologia. Proprio lungo l’ansa dell’A-
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dige, nella stretta fascia compresa tra il fiume e il canale, spicca la presenza di un nuovo complesso sportivo, che racchiude nella sua articolazione morfologica la complessità del sito e delle attività ospitate. In questo stesso luogo sorgeva un campo sportivo parrocchiale, intitolato al ‘Dott. Carlantonio Bottagisio’, utilizzato fin dal 1957 dall’A.C. Chievo. La crescita delle esigenze organizzative e formative della società calcistica si è sposata con la necessità di una struttura moderna e necessariamente affacciata sul fiume per il Canoa Club Verona rispetto alla sede storica di Corte Dogana ai Filippini. Grazie alle sinergie tra le due società e gli enti pubblici – un vero e proprio cimento atletico anche dal punto di vista della procedura – tra il 2010 e il 2016 è stato portato a compimento il progetto dello studio bolognese TECO + Partners, che rac-
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chiude nella sua articolata configurazione volumetrica molteplici attività, diventando punto di riferimento per giovani e atleti di livello. L’architettura si fa carico di tutte le problematiche legate all’ubicazione e alla peculiarità del sito: ne deriva un grande contenitore articolato su tre livelli, con un taglio passante a tre quarti del fronte principale come dividente tra le funzioni principali (canoa-calcio). Duplici le società, duplice la materia con cui confrontarsi: l’erba dei campi da calcio (due regolamentari e due da calcetto) che si allungano in direzione della diga, e l’acqua del fiume con i percorsi di alaggio e le rimesse per canoe, kayak e natanti simili. Gli ampi spazi della struttura comprendono, oltre a a una zona bar-ristoro in comune,
« Il nuovo complesso sportivo racchiude nella sua articolazione morfologica la complessità del sito e delle attività ospitate » vari ambienti per palestre, spogliatoi, servizi, deposito mezzi e rimessaggio, una vasca di voga, ambulatorio medico, uffici, una sala convegni e una foresteria per ospitare le squadre in allenamento. Un parcheggio a servizio degli impianti sportivi consente anche l’accesso al percorso lungo l’alzaia che raggiunge ponte Catena in riva sinistra d’Adige, offrendo così nuove possibilità di fruire del contesto paesaggistico fluviale. E se il volume del centro sportivo, impostato a una quota più bassa rispetto all’abitato, appare basso e quasi schiacciato visto dal percorso di accesso per chi arriva dal Chievo, sul lato rivolto al fiume sortisce tutto un
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altro effetto, con gli affacci, le vetrate, le terrazze e i percorsi che scendono sulla ripa, da dove emergono entrambi i livelli. Forme geometriche e materiali essenziali definiscono un concept rivolto ad una sempre più forte sensibilità verso lo sport ma soprattutto verso l’ambiente: un’opportunità che consente oggi di vivere l’Adige da dentro, per comprendere l’importanza di avere l’acqua che attraversa una città come Verona, di un articolato paesaggio pianeggiante, florido e verde. Dai campi di calcio, percorrendo il camminamento lungo il canale risaliamo all’impianto idroelettrico che
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12. Il canale Camuzzoni con l’edificio di presa sul fondo. 13. Salti di scala nel contesto urbano. 14. Veduta dall’alto del Chievo prima della realizzazione del centro sportivo sul fiume. 15. Giardino pubblico in una parte del parco di villa Pullè. 16-17. Il campanile della chiesa come elemento identitario, visto dalla diga e dalla piazza.
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in lontananza sembra un elegante edificio rinascimentale, quasi una porta urbana, col duplice livello di archi: mattone faccia vista per l’ordine inferiore, biancone e rosso Verona al piano ‘nobile’. Qui si imposta la diga, il cui ponte fu ideato nel 1920 per volontà dell’ingegnere Gaetano Rubinelli. Terminata nel ‘23, la struttura aveva lo scopo di elevare il livello dell’acqua dall’Adige per immetterla nel canale Camuzzoni, che da qui
inizia il suo corso per andare ad alimentare le centrali e le fabbriche del Basso Acquar, storica zona dello sviluppo industriale di Verona. La digaponte è costituita da otto arcate, di cui l’ultima, sulla destra, presenta una conca che consentiva la navigazione, molto importante nell’epoca. Risalendo dalla diga verso il nucleo storico del borgo, di fronte alla chiesa, si apre un vastissimo polmone verde su cui insiste villa Pellegrini Mario-
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Chievo ergo sum 18. Centro sportivo: particolari dei prospetti. 19-20. Render di inserimento del centro sportivo e l’affaccio sul fiume durante il cantiere. 21. Vedute verso il quartiere e verso il fiume dal centro sportivo. 23. La sezione trasversale evidenzia il sito del centro, compreso tra il canale e l’Adige. 24-25. Il fronte principale del centro e l’affaccio verso il fiume.
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centro canoa-kayak bottagisio sport centre Committenti Comune di Verona Chievo Verona Football srl Progetto architettonico TECO + Partners, Bologna ing. Carlo Rotellini (capogruppo) arch. Nicola Righini
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r.u.p. comune di verona arch. Costanzo Tovo Cronologia Progetto preliminare: 2007-2010 Accordo pubblico-privato: 2012 Realizzazione: 2013-2014 Dati dimensionali Superficie utile complessiva: 3.287 mq
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ni Pullè, la cui veste attuale, risalente al XVIII secolo, è opera dell’architetto Ignazio Pellegrini. Al suo interno, lungo via Berardi, si scorgono un insieme di edifici dalle fogge più variegate: l’istituto alberghiero ‘Angelo Berti’, il centro ambulatoriale di riabilitazione ed una residenza razionalista che strizza l’occhiolino ai fugaci passanti automobilistici. Eccezion fatta per quest’ultima, rigorosa nel suo insieme, fondamentalmente austera soprattutto per quei segni squadrati e ben delineati dai rivestimenti in marmo del piano terra, le strutture sono di recente edificazione, presumibilmente del dopoguerra, pensate per ampi spazi che richiamano le tecnologie costruttive in beton armée
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degli anni Cinquanta. Da qui, quella strada diritta e lunga iniziale continua verso nuovi orizzonti: Boscomantico e il suo aeroporto, la Sorte con il cippo seminascosto che ricorda il luogo della fatale caduta da cavallo di Umberto Boccioni... ma questa è un’altra storia.
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1 Cfr. Franco Bottacini, Officine Cardi, in Raffaello Bassotto (a cura di), Archeologia del Novecento, Edizioni dell’Aurora, 2014. 2 Per una più approfondita ricostruzione delle vicende progettuali dell’Istituto Provolo si veda B. Bogoni, Libero Cecchini. Natura e archeologia al fondamento dell’architettura, Alinea, 2009, in part. pp. 380-389.
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Sostenibile in vacanza Una struttura ricettiva sul lago di Garda improntata in ogni scelta progettuale alla ricerca del benessere climatico e non solo
Progetto: arch. Lino Rama
Testo: Dalila Mantovani Foto: Attilio Marasco
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Che cos’è il benessere? Come si costruisce un edificio dedicato al benessere? Lo abbiamo chiesto all’architetto Lino Rama che ci propone la sua versione attraverso il racconto della genesi dell’Hotel Aqualux di Bardolino, progettato e realizzato dal 2007 al 2012 ma che è ancora oggi più che attuale. La risposta di Rama è stata una ricerca sincera, un processo di scelte coerenti che hanno dato concretezza alla sua personale (e non solo) versione di benessere. In una breve digressione sul significato di questo vocabolo si può scoprire che” benessere” è una parola usata e abusata, appropriata dalle materie economiche a quelle sociologiche, e sufficientemente noto è il suo significato più (termo)tecnico, inteso come il raggiungimento di livelli predefiniti dei fattori che influenzano le condizioni di un ambiente interno (umidità, temperatura...). Andando oltre i tecnicismi, ai quali si abbina una accezione diversa in riferimento al contesto, un significato più trasversale e ampio si può racchiudere nel comune indicatore di “stare bene”, o meglio “il raggiungimento di una condizione armonica tra l’ambiente e l’uomo, derivante dallo stile di vita di quest’ultimo”. E forse in questo significato si contestualizza al meglio la storia di questo progetto. L’attenzione allo “stare bene” è alla base del progetto per Aqualux, partendo dall’idea che la ricerca di uno stato di benessere passi anche attraverso la qualità, la salubrità e la sostenibilità degli edifici dove un uomo vive o trascorre il suo tempo, anche quello di vacanza. Il progetto, che risale a quasi dieci anni fa, è stato precursore di tante tendenze al centro del dibattito odierno. I valori che lo hanno motivato si riscontrano in tutte le scelte progettuali, da quelle in fase preliminare a quelle esecutive, perché rispecchiano, in fondo, la sensibilità del progettista, il quale ha consapevolmente scelto di appellarsi alla propria coscienza piuttosto che a protocolli predefiniti, che ha trovato persino carenti rispetto al suo obiettivo. Ciò nonostante, Aqualux ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra i quali quello di prima struttura ricettiva ClimaHotel (certificazione Casa Clima). La prima sfida di Rama è stata quella di dialogare e poi convincere il committente della sua scelta progettuale. In quanto industriale, il cliente era sen-
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01. Il prospetto sud dalla corte centrale, con in evidenza la stretta relazione tra verde e acqua. 02. Localizzazione dell’intervento nel contresto urbano. 03. Lo spazio termale delle vasche esterne. 04. Veduta generale del complesso.
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05. Pianta del piano primo. 06. Pianta del piano terreno con il disegno degli spazi aperti. 07. Il lato nord esterno alla corte visto dal parcheggio di pertinenza. 08. Dettaglio costruttivo delle logge con le apposite schermature solari. 06
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sibile solamente ai numeri, che però il progettista ha saputo declinare in un convincente businessplan; per tutto il resto ha lasciato che l’architetto governasse il disegno. Il lotto aveva dei deficit perché decentrato rispetto al paese, degradato dalle attività industriali precedenti e con forti dislivelli di terreno; Rama con delle scelte radicali e coerenti con il suo obiettivo ha stravolto il masterplan iniziale con un impianto a corte (il precedente era a croce), diminuendo la cubatura utile del 40% per lasciare più spazi aperti, mettendo al centro dell’area la natura (il verde e l’acqua) per ricreare un oasi di benessere, secondo un modello di struttura studiato principalmente per una clientela del Nord Europa. Ogni parte dell’edificio, pur occupando un’area molto vasta, è studiata in funzione della relazione con il contesto: il volume su strada crea un fronte scenografico, quello sul lato dell’ingresso è arretrato per dare più ariosità, e quello verso il quartiere residenziale ha un numero di piani inferiore per raccordarsi alla scala del tessuto urbano e delle schermature verdi come elementi di mitigazione tra le diverse funzioni. Il complesso si sviluppa su 17.000 mq divisi tra piano terra e interrato che ospitano gli spazi comuni – hall di ingresso, due ristoranti, due bar, una sala fitness un centro termale con otto piscine interne ed esterne – e due piani superiori con 113 camere e 21 suites.
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LINO RAMA Nato nel 1957 e laureato allo IUAV, nel 1984 collabora con lo Studio C3&C4 di Tokyo. Negli anni successivi frequenta i corsi di PhD all’Università della Pennsylvania di Philadelphia, collaborando alla ristrutturazione di alcuni edifici della stessa Università. Nel 1986 apre il proprio studio e inizia l’attività di progettista all’interno della ditta Tecnorama di Cisano, specializzata negli arredamenti di alta qualità. Nel 1995 collabora alla costituzione dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura di Verona. Nel corso degli anni si occupa in particolare di ristrutturazioni e costruzione di strutture alberghiere, ottenendo importanti premi e riconoscimenti.
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Tutti gli ambienti sono orientati verso l’interno per godere a pieno della corte: su questo lato sia gli spazi comuni che le stanze ai piani superiori godono di ampie vetrate e sistemi di insonorizzazione elevati (per garantire la privacy), mentre sul lato esterno si alternano parti opache e aperture. Nella ricerca del benessere e della sostenibilità la questione dell’impiantistica non è di certo stata sottovalutata. La produzione e la gestione dell’energia sono tematiche a cui i progettisti hanno dedicato parecchia attenzione, per il grande quantitativo di acqua calda di cui necessita un impianto termale e, in generale, per la gestione dell’intera struttura. Il complesso è alimentato da un impianto a pannelli solari termici in copertura che soddisfano circa il 40% del fabbisogno di acqua calda, e da un impianto geotermico collegato a una falda acquifera situata all’interno del lotto. Con una inversione rispetto al progetto originario, l’acqua di falda è utilizzata per raffreddare le macchine che riscaldano l’acqua delle piscine – anziché scaldarla – riuscendo a sfruttare ugualmente una risorsa naturale, risparmiare energia ed essere a tutti gli effetti una struttura termale.
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www.ramaarchitettura.com
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09. Il fronte sulla corte del corpo a due piani (mini alloggi) affacciato sulla rigolgiosa vegetazione. 10. Particolare dell’attacco d’angolo tra due corpi di fabbrica. 11. Il motto del progetto posto in corrispondenza dell’ingresso all’hotel. 10
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12. Sezioni longitudinali dei corpi di fabbrica. 13. Dettaglio della sezione costruttiva del blocco camere. 14-15. Fase realizzativa delle strutture in pannelli x-lam e legno lamellare.
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I sistemi di climatizzazione sono piuttosto complessi: l’impianto principale è ad acqua con pannelli radianti a soffitto, aiutato da un sistema ad aria con bocchette a terra per le situazioni di emergenza e per ovviare alla questione delle condense che si potrebbero creare con il primo impianto. Per quanto riguarda l’illuminazione, in tutto l’hotel sono stati usati apparecchi a LED con fasci mirati, anche sull’esterno, per evitare fenomeni di dispersione. Negli spazi interni le luci si attivano principalmente con rilevatori e si regolano attraverso sensori, a seconda del livello di luce naturale e dell’utilizzo degli ambienti. I sistemi domotici sono capillari in tutti gli ambiti, in maniera tale da controllare i consumi in modo centesimale. Il tema dello “stare bene” risulta evidente anche nella scelta dei materiali, sia strutturali che di rivestimento. La scelta della tecnologia costruttiva è maturata abbastanza spontaneamente: la struttura principale, per tutti i piani fuori terra, è costituita da pannelli di legno X-lam con isolamento termico sia all’interno che all’esterno in fibre derivanti da scarti della lavorazione del legno, i piani interrati e i
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16. Dettaglio del simbolo iconico dello spazio termale di Aqualux: la vasca a calice posta nell’atrio. 17. L’interno della sala ristorante al piano terra affacciata sulla corte-giardino. 18. Dettaglio del corpo scale.
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vani scala e ascensori sono in calcestruzzo armato e stesso fornitore) è stato utilizzato per i rivestimenti alcune parti della struttura in legno sono accoppiate dell’intero hotel – dalle piscine alla sala da prancon elementi in acciaio. L’utilizzo del legno deriva zo – così da ottenere economie di scala e varianti dalla consapevolezza che, per essere utilizzato come sul tema del medesimo materiale. L’invenzione più materiale da costruzione, subisce minime lavorazio- divertente di Rama è il rivestimento della sala da ni e quindi minimi consumi di energia. Inoltre il pranzo, ricavato dagli sfridi di un’altra lavorazione sistema prefabbricato permetteva di bilanciare i co- che creano una palladiana improvvisata. sti per la realizzazione del volume interrato e per la Le scelte relative alle finiture sono infine quelle che messa in sicurezza dell’acomunicano all’ospite il « Il tema dello “stare bene” rea. Nonostante la comsenso della ricerca prorisulta evidente anche nella scelta posizione dettagliata dei gettuale, non sempre viprofili, come ad esempio sibile in superficie. Gli dei materiali, sia strutturali i pilastri a croce lungo i spazi esterni sono embleche di rivestimento » camminamenti esterni, matici del carattere e dei Rama si è scontrato con l’incombenza delle norma- valori espressi: i percorsi sono costeggiati da giochi tive che a volte possono offuscare le scelte di pro- o specchi d’acqua da cui emergono, come palafitte, i getto: come è successo per molte parti delle sale al pilastri che sorreggono le terrazze dei piani superiopiano terra, rivestite con pannelli ignifughi che non ri; le luci sono rispettose e appaiono solo all’imbrulasciano godere appieno la bellezza del legno. nire, le vasche termali sono circondate dalla vegeLa stratigrafia climatica della struttura fuori terra si tazione, nel tentativo continuo di creare uno stretto conclude con una parete ventilata con rivestimento rapporto tra l’uomo, l’acqua e il verde. Gli interni in gres porcellanato (Kerlite), scelto per minimizza- sono decorati con gigantografie di dettagli macro re i costi di manutenzione. Lo stesso materiale (e lo di elementi naturali (animali, foglie o fiori); l’ico-
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na simbolica di Aqualux si trova nel cuore, ovvero all’interno della vasca principale dell’area termale, da dove si innalza una sorta di calice di vetro contenente una privatissima vasca idromassaggio ambita da tutti gli ospiti. Alla fine di questo racconto spero che rimanga l’esempio di integrità e di perseveranza del progettista che, nonostante le difficoltà di esprimersi in un terreno non ancora maturo, non ha mai abbassato la guardia rispetto alle sue scelte. Ed è stato ripagato: il senso di benessere e lo stare bene ad Aqualux sono decisamente percepibili, dentro e fuori le vasche, anche se lo si visita per pochi minuti. In un centro benessere trovare l’armonia è possibile a più livelli, ma questa storia lo ha ricercato dalle radici, scoprendo il livello più profondo e autentico.
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committente Società San Severo srl Progetto architettonico e direzione lavori arch. Lino Rama consulenti ing. Michele Carlini (imp. meccanici) ing. Fabrizio Zanetti, ing. Roberto Daducci (strutture in calcestruzzo) ing. Arno Gadner (strutture in legno) ing. Massimo Rovere (acustica) ing. Roberto Covi (impianti elettrici) arch. Michele Bevivino (valutazione luce naturale) Fontana l’Arte del Verde (progettazione del verde) imprese Fedrigoli Costruzioni (appaltatore) Atzwanger (impianti idraulici, condizionamento, piscine) Alca Impanti (impianti elettrici) 21
Cronologia Progetto: 2007-2009 Realizzazione: 2008-2012 Dati dimensionali Superficie fondiaria: 17.730 mq Superficie utile: 11.982 mq
19. Dettaglio della promenade esterna affiancata agli specchi d’acqua con i pilastri a croce in legno. 20. Vista della corte centrale.
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CENTRALE DI LUCE
Posto sul confine del territorio provinciale e costruito anche dall’azienda energetica veronese il grande impianto conserva la configurazione spaziale progettata dall’architetto milanese Ezio Sgrelli
Testo: Federica Guerra Foto: Lorenzo Linthout
Ponti sul Mincio Mantova
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È indubbio che un impianto energetico incida in maniera definitiva sul paesaggio, una presenza ‘eterna’ in cui il gesto antropico risulta decisivo per l’esito percettivo di quel paesaggio. Forse è per questo che per un lungo periodo di tempo le architetture della luce, le centrali elettriche, sono state disegnate come castelli medievali o palazzi rinascimentali, per cercare una modalità in grado di costringere le comunità ad accettare il grande intervento industriale, una sorta di negoziazione con il territorio. Appartengono a questo periodo le centrali progettate da Portaluppi in tutto l’arco alpino o quelle di Muzio, fino agli anni ‘40. Eppure dagli anni ‘60 del Novecento cambia la percezione del ruolo che gli impianti di produzione dell’energia hanno nello sviluppo di quell’Italia in piena trasformazione e rinascita, diventando quasi ingredienti celebrativi del risveglio di un’economia a lungo mortificata. Per merito quindi di una committenza illuminata, la cui capofila fu sicuramente la Montecatini, ma che comprendeva anche la Edison e alcune lungimiranti Aziende Municipalizzate, le architetture dell’energia assumono i caratteri di raffinati interventi architettonici con un ruolo paesaggistico autorevole all’interno del proprio territorio, come quelle di Ponti-Fornaroli-Rosselli in Val d’Avio o quelle di Muzio a Sondrio. Una di queste, a cavallo tra le province di Brescia e Verona, le cui Aziende dei Servizi Municipalizzati ne furono promotrici, è anche la centrale termoelettrica di Ponti sul Mincio, a lambire le rive del fiume, realizzata nel 1965-66 con l’intervento progettuale dell’architetto Ezio Sgrelli (1924-2009)1. Sgrelli, milanese, fu esemplare rappresentante di quella generazione di giovani professionisti che, se da un lato non rinnegavano una vocazione internazionalista, dall’altro erano strettamente legati alla propria
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01. Scorcio del padiglione che ospita il magazzino e l’officina meccanica. 02. Planimetria generale dell’impianto nella configurazione originaria. 03. Foto storica del complesso con l’imponente torrecaldaia. 04. Particolare che evidenzia la complessa modulazione della facciata tra pannelli in Silipol, U-glass, lamiera verniciata e aperture ovoidali.
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identità regionale fatta di sapere tecnico, di sperimentalismo costruttivo e di istanze di profondo radicamento del progetto all’intorno, al luogo, al sito. Laureato al Politecnico nel 1950, entra da subito in contatto con lo studio di Franco Albini di cui diventa anche assistente alla docenza. Da Albini Sgrelli mutua, oltre al metodo, fatto di costante controllo della piccola e della grande scala, anche alcune “figure” e materiali d’elezione che rielabora, oltre che a Ponti sul Mincio, per i precedenti progetti delle centrali di Tavazzano (1957) e di Cassano d’Adda (1960). Il ruolo della committenza nell’opera di Sgrelli risulta di fondamentale importanza, a partire dalla
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05. Ipotesi di colorazioni studiate da Jorrit Tornquist per la ciminiera alta 150 metri realizzata nel 1983 e dismessa nel 2005; il progetto non ha avuto seguito ed è ora oggetto di un concorso di idee. 06. L’ampliamento della sala macchine realizzato nel 1983 specularmente a quello preesistente, e il gruppo a turbogas realizzato nel 2005. 07. Prospettiva a volo d’uccello (datata 1972) della centrale con il previsto raddoppio dell’impianto.
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Montecatini di cui egli fu direttore dell’Ufficio Progetti del Servizio edile. Il contatto con la Montecatini gli procura, oltre ad una straordinaria quantità di incarichi, anche la possibilità di entrare in contatto con altre società e imprese che furono a loro volta future committenti e, soprattutto, la possibilità di far parte della cerchia di architetti che ruotano intorno al ‘Movimento di Studi per l’Architettura’, trovandosi, di fatto, nel centro del dibattito architettonico di quegli anni incentrato sui temi del rapporto tra architettura e società. Nel progetto per la centrale di Ponti sul Mincio, Sgrelli opta per una definizione chiara e ben coordinata con il paesaggio circostante, anche se resta decisamente percepibile il carattere produttivo del complesso. L’architettura risponde a esigenze e logiche di carattere tecnico-impiantistico, ma il controllo dell’articolazione volumetrica e l’uso di materiali caratteristici hanno impresso all’impianto l’immagine di un insieme 07
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08. L’imponente sala macchine con l’innesto ortogonale dell’edificio contenente la sala di controllo e gli uffici.
tecnologico coordinato in tutte le sue parti. Un alto basamento in lastre di Silipol – la stessa pietra artificiale usata dallo studio Albini negli allestimenti della Linea 1 della metropolitana milanese – sostiene il corpo superiore della Sala Macchine, le cui cortine semitrasparenti in U-glass svettano verso il cielo alleggerendo l’imponente mole del volume. Perpendicolare alla Sala Macchine, la Palazzina Quadri (uffici) sovrappone coerentemente all’alto basamento in lastre un cornicione in calcestruzzo a vista che, al contrario, chiude figurativamente il volume e ne sottolinea armoniosamente la differenza funzionale. Tutti gli altri edifici
« Negli anni ’60 le architetture dell’energia assumono i caratteri di raffinati interventi architettonici con un ruolo paesaggistico autorevole all’interno del proprio territorio » dell’impianto, dall’officina meccanica alla portineria, seguono lo stesso concept, ripetendo anche il ricercato disegno delle aperture ovali contornate di lamiera. Gli interni degli uffici sono l’espressione più netta della formazione culturale di Sgrelli, e sono paragonabili alle più riuscite contemporanee realizzazioni di Mangiarotti o di Caccia Dominioni, oltre che di Albini del quale vengono utilizzate le lampade “Ochetta” messe in produzione da Arteluce negli stessi anni. Il calcestruzzo martellinato dell’imponente 08
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09. La sala quadri con gli impianti di controllo originali. 10-11. Prospetti e pianta del piano terzo dell’edificio quadri, con la sala controllo a sinistra e gli uffici direttivi a destra. 12. L’atrio di ingresso con la scala elicoidale in cls. 13. L’approdo della scala al terzo piano in corrispondenza degli uffici. 09
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14. L’accesso all’edificio quadri con l’aggetto del piano intermedio e l’importante sporto del cornicione in calcestruzzo sul terrazzo degli uffici dirigenziali. 15. L’edificio della portineria con la pensilina d’ingresso.
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scala elicoidale che distribuisce i tre piani dell’edificio, il ferro sapientemente piegato dei parapetti che proteggono le “logge” della sala macchine, le lamiere verniciate, i serramenti disegnati appositamente, tutto contribuisce a creare un’atmosfera di elegante raffinatezza e a costituire la percezione di un design in grado di controllare, “dal cucchiaio alla città”, tutte le fasi del progetto. Il trattamento delle aree libere non edificate, pianificato come necessario corollario all’impianto e non come spazio di risulta, partecipa all’inserimento del complesso nel paesaggio: verso il Mincio una generosa cortina di pioppi cipressini raccorda il paesaggio fluviale a quello della centrale contribuendo, con la sua silhouette, a equilibrare la presenza dell’impianto; poco oltre dominano invece sistemazioni a prato in cui il disegno della viabilità è ordinato,
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razionale e accompagnato dalla piantumazione in filare dei pioppi che qui, oltre a costituire inserimento nel paesaggio, fungono anche da schermo acustico per le emissioni prodotte dalla centrale; oltre viene meno il filare arborato e dominano gli spazi a prato, caratteristici dell’intorno fluviale. Il complesso come oggi appare ha in realtà subito negli anni diverse trasformazioni, dapprima nel 1983 con il raddoppio della sala macchine, l’entrata a regime di un secondo gruppo caldaia e la costruzione dell’imponente ciminiera alta 150 metri, e poi a partire dal 2002 per convertire l’intera centrale dal combustibile a olio denso al metano, dismettendo i due gruppi caldaia e i tre serbatoi di stoccaggio dell’olio combustibile. La centrale, spogliata quindi delle parti impiantistiche più obsolete, appare oggi ripulita, consentendo una nitida lettura del manufatto architettonico.
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16. Dalla sala macchine verso l’esterno: il serramento rosso inquadra i parapetti in profllato di ferro “arricciato” e i paramenti in U-glass. 17. Studi della partitura dei prospetti e sezione longitudinale sulla sala macchine.
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Ma la storia dell’edificio e le vicende legate alla centrale di Ponti non sono ancora concluse. Nel 2017 le società proprietarie (A2A, AGSM, AIM Vicenza e Dolomiti Energia Holding), con l’approvazione del MIBACT, hanno indetto un Concorso Internazionale di idee per la riqualificazione della ciminiera del 1983, già sottoposta a un progetto definitivo 2 . A monte di tale progetto risulta di grande interesse lo studio cromatico del manufatto eseguito da Jorrit Tornquist, artista internazionalmente noto per i suoi studi sul colore e autore di altri significativi interventi su manufatti analoghi (termoutilizzatori di Brescia e di Milano), oltre che per l’attuale camino del gruppo a turbogas di Ponti. Obiettivo del concorso è quello di selezionare proposte che definiscano la ciminiera come landmark territoriale e paesaggistico, porta settentrionale del Parco
del Mincio e del Mantovano, fulcro visivo del bacino del basso Garda, belvedere e attrattore turistico per la valorizzazione del territorio. Elemento sostanziale del progetto di trasformazione della ciminiera in torre è la sua fruibilità da parte del pubblico, con la possibilità di visitarne gli interni come sale espositive dedicate al Parco del Mincio e alla cultura del suo territorio, e un terrazzobelvedere in sommità alla quota di 150 metri dal piano di campagna. Il progetto – il cui iter dovrebbe concludersi nel 2018 – rientra nella tendenza che si va consolidando negli ultimi anni di rendere gli impianti di produzione dell’energia parte del tessuto sociale e paesaggistico di un territorio, o facendo partecipare i cittadini alla vita di queste grandi infrastrutture – in maniera ovviamente protetta ma attiva – come avviene
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18-19. L’interno ‘basilicale’ della sala macchine in una foto attuale e in una immagine d’epoca. 20. Sezione trasversale sugli apparati tecnici dell’impianto, con la sala macchine al centro e la caldaia poi demolita sulla sinistra.
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21. Vista complessiva dell’impianto in un “rendering” d’altri tempi (siglato Sgrelli in basso a destra). 22. Immagine d’epoca del fronte sud: sulla sinistra la sala macchine con il tamponamento poi demolito per consentirne il raddoppio. 23. L’esterno della sala macchine con le tubazioni che la collegavano alla caldaia del primo impianto. 24. Veduta dall’interno di una delle “logge” che creano uno stacco tra la parte basamentale rivestita in lastre di Silipol e quella superiore in U-glass. 21
ad esempio per la centrale di cogenerazione di Bressanone (Modus Architects), o entrando a far parte di un territorio generando rapporti di scala, orientamento, gerarchizzazione e rilettura delle attività dell’area, come nel caso della centrale termoelettrica di Termoli (ScandurraStudio, Umberto Riva). L’evoluzione della produzione dell’energia elettrica, incentivata da diversi fattori (dall’avvento delle rinnovabili all’ammodernamento dei sistemi di produzione) apre così una straordinaria opportunità progettuale. In questo senso la riqualificazione della ciminiera di Ponti sul Mincio, promossa dal concorso che sta percorrendo il suo iter, diventa l’inizio di un nuovo “racconto urbanistico”, simile a quello che gli architetti italiani degli anni ‘60, tra cui Sgrelli trova un posto d’onore, dovettero affrontare nel ridisegnare un panorama produttivo che ha rifondato il paesaggio italiano. 22
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Fonti delle immagini Archivio storico presso Centrale di Ponti sul Mincio Archivio Studio Niccolò Belloni Architetti, Milano 1 Le informazioni sull’attività professionale di Ezio Sgrelli risultano scarse, e sono in buona parte riconducibili agli studi sull’architettura milanese del periodo. Fanno eccezione i documenti conservati dall’architetto Niccolò Belloni di Milano, attuale titolare dello studio fondato nel 1937 da Gian Luigi Giordani al quale
negli anni Cinquanta si unirono Ippolito Malaguzzi Valeri e Ezio Sgrelli. Oltre a una rassegna dei progetti di Sgrelli rintracciabili quindi sul suo sito (www. bbarch.it/storia) si è fatto riferimento all’itinerario Ezio Sgrelli a Milano e in Lombardia apparso sul n. 11/12 di «AL», 2010, curato da Belloni assieme a Claudio Bosio e Elisa Mensa, autori di una tesi di laurea (2008, Politecnico di Torino) sull’opera complessiva di Sgrelli. 2 Progetto firmato dallo studio Cicognetti-PiccardiVitale di Lonato (BS).
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Benedetti architetti
Giunto alla quinta edizione il Premio Architettiverona ha vissuto il suo momento finale con una festosa cerimonia di assegnazione nel complesso abbaziale di San Zeno Testo: TomĂ s Bonazzo
Foto: Michele Mascalzoni
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Nel complessoSimone abbaziale della Sfriso Vittorio Longheu magnifica Basilica di San Zeno, lo Andrea Rinaldi trascorso 15 novembre, alla presenza Marco Ardielli Filippo Bricolo di un reverendo novero tra cultori, Nicola Brunelli figure illustri, curiosi, e, ovviamente, architetti, si è compiuto il biennale miracolo: la premiazione del Premio Architetti Verona, il cui allestimento ha raggiunto la sua lodevole quinta edizione. Tom Wolfe ha mancato disgraziatamente l’appuntamento poiché, se presente, avrebbe revisionato molte delle sue tesi e Ad honorem LIBERO CECCHINI previsto una ristampa aggiornata del Architetto veronese suo pamphlet.(1919) La cerimonia, infatti, si è svolta con maestria melodiosa nell’accogliente antica Biblioteca del Monastero, ristrutturata con un elegante soffitto voltato a crociera e ligneo. Tale intervento è da inserire all’interno di un organico progetto che, sostenuto a più riprese dal 1984 al 1998, interessò la basilica integralmente. Uno spazio non casuale ma causato dalla ragion d’onore di una persona di rispetto e di condivisa qualità che sovrintese il progetto sin dagli esordi: l’architetto Libero Cecchini; a lui, infatti, viene
riconosciuto un premio per la carriera perché, nel verbo del premiatore, ha inseguito con costanza “il confronto tra la componente moderna e quella storica, l’attenzione al paesaggio e la necessità di creare spazi per la vita dell’uomo sia nel contesto naturale che in quello urbanizzato, differenziati da luogo a luogo con l’intento di valorizzare e vivere la bellezza dell’esistente”. Nelle mani delicate – poiché delicato era il compito – di una duplice troika, la Giuria – i cui membri erano gli architetti Simone Sfriso, Vittorio Longheu, Andrea Rinaldi,
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el 1981 la graffiante penna di un giornalista statunitense, Tom Wolfe, colpì spietatamente una, fra le tante, professioni intellettuali: l’architetto. A suo giudizio, non vedovo di esempi, l’architettura in genere – e, di genere, quella prettamente accademica – ingenerò durante il Novecento (senza purtroppo alludere né al movimento artistico né alla pellicola di Bertolucci) una distanza rovinosa con i suoi inquilini, dunque con i loro bisogni; una frattura insomma, tra i “come” e i “perché” umani imbottita di vetri specchianti Premio e vocaboli ampollosi dal significato 2017 — 5°Edizione non concretizzabile.
Premio Speciale 02
01. Foto di gruppo attorno a Libero Cecchini mentre brandisce il Premio alla carriera. 02. Il percorso di accesso al Chiostro della Basilica. 03. I Premi nelle loro confezioni in attesa della consegna. 04. La sala dell’Antica Biblioteca del Monastero durante la cerimonia di assegnazione.
La Giuria
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Motivazione
Marco Ardielli, Filippo Bricolo e Nicola Brunelli – erano pervenuti trentatré progetti, tra edifici ideati di sana pianta o ristrutturazioni, tra dimore, uffici e istituti, ripartiti tra la provincia e il cuore della città. Durante la serata allora, al termine di una sequenza di guizzi inaspettati, un coup de théatre che ha fatto stralunare gli astanti, vengono assegnate proprio dalle mani degli stessi giurati, la corona e quattro menzioni. Queste ultime sono state: la Cantina Valetti (Bardolino) del gruppo di progettazione Archingegno – o gli “eterni secondi”–
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Iscritto all’Albo degli architetti di Verona con il numero 17, con le sue opere Libero Cecchini ha segnato il volto della città antica, nel rapporto con le sedimentazioni dell’antico e dell’archeologia, e in tutta la provincia attraverso i molti edifici pubblici, le scuole, le case e le ville, dove ha potuto esprimere anche in chiave sperimentale la sua sapienza di lapicida derivatagli per storia familiare. Nella poetica di Cecchini è costante il confronto tra la componente moderna e quella storica, l’attenzione al paesaggio, la necessità di creare spazi per la vita dell’uomo sia nel contesto naturale che in quello urbanizzato, differenziati da luogo a luogo con l’intento di valorizzare e vivere la bellezza dell’esistente. Un’architettura che nasce dalla formazione di scuola razionalista, ma che per l’uso dei materiali locali quali legno e pietra e per la necessità di adattarsi alle forme del paesaggio circostante, diventa organica.
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Le immagini della cerimonia Una rassegna dei vari momenti della serata che il 15 novembre 2017 ha concluso l’iter della quinta edizione del Premio, istituito in occasione del cinquantesimo anniversario della nostra rivista. gallery www.architettiveronaweb.it/eventiarchitettura-verona/premioav/premioav-2017-cerimonia-di-assegnazione/
05. Valter Rossetto, affiancato da Sergio Menon e da Ettore Napione, durante i ringraziamenti di rito per l’attribuzione del Premio AV 2017 al progetto per il Museo degli Affreschi G.B. Cavalcaselle. 06. Premiati, giurati e organizzatori al termine della cerimonia.
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la cui produzione sul produttivo in un contesto paesistisco ha conferito forme intelligibili all’architettonico, segnato da importanti dettagli costruttivi; il complesso scolastico di Rivoli Veronese di Michelangelo Pivetta, la cui benignità educativa è tradotta in rigore compositivo e logicità distribuita per il tema della nuova scuola; casa MZ (Peschiera del Garda) del gruppo Circlelab + CLAB (Federico Signorelli + Andrea Castellani, Nicola Bedin, Paolo Rigodanzo e Matteo Fiorini) che ha reinventato il patio centrale, orientato su “questa naturalitade” ora della villa, ora del paesaggio abbracciante; e il complesso residenziale a San Martino Buon Albergo di ABW architetti associati (ovvero Alessandra Bertoldi e Alberto Burro) la cui riuscita architettonica per abitazioni di famiglie plurime, ha giocato sulla dualità tra pieni e vuoti per un accordo di pace in una cornice sui bordi urbani. Seppur ultimo in scaletta, per il progetto impeccabile del Museo degli Affreschi G.B. Cavalcaselle sale sul podio del vincitore nei panni del condottiero e capo progettista a nome di molti altri nomi l’architetto Valter Rossetto che, come egli stesso ha sottolineato durante i ringraziamenti di dovere, è solo uno dei molti amorevoli professionisti, restauratori e artigiani la cui collaborazione attiva e paziente ha conseguito una resa di sì fatta misura. Un impegno annoso per un intervento pubblico e per il pubblico, che ha regalato nuovo senso e maestria agli spazi del Museo presso il fantasioso sepolcro di Giulietta Capuleti. Il progetto, trasversalmente, è impegnato nel restauro quanto nell’allestimento
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espositivo e valorizzatore di opere di rilevanza impareggiabile, le cui soluzioni dimostrano attenzioni di minuzia comparabile alle opere stesse. Come ricorda Montale “il genio purtroppo non parla, per bocca sua” ma “lascia qualche traccia di zampetta, come la lepre sulla neve”. Non si abbisogna di un premio Nobel per riconoscere che l’architetto, in
sé, non è un genio, ma l’architettura – e non l’edilizia– lo dovrebbe essere. Ecco, dunque, la ragione, il grundthema, e validità dell’evento – oltreché un invito affinché mai tramonti – poiché esso stimola la luce, indica le tracce, così rade sulla neve, e le appunta nella memoria, prima che una nuova tormenta – o il prossimo Wolfe – le ricopra.
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Porte a porte ODEON
Un volume riccamente illustrato mette in rilievo storico e visivo lo straordinario apparato figurativo del portale della Basilica di San Zeno Testo: Maria Ajroldi
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a basilica di San Zeno a Verona continua a proporsi come oggetto di studio e ancora di più come uno straordinario compendio di forme artistiche maturate nella realtà veronese a partire dall’alto medioevo. L’editrice Cierre, che aveva già presentato nel 2014 un impegnativo volume dal titolo “San Zeno in Verona” ci offre a opera degli stessi autori un nuovo studio sull’argomento, concentrando stavolta l’attenzione sul primo elemento che il visitatore incontra nel prendere contatto con l’edificio sacro. Si tratta infatti delle porte bronzee, che a San Zeno come in molte altre chiese del periodo vengono investite di un profondo significato simbolico: la porta infatti non è solo l’elemento che consente l’ingresso allo spazio destinato al culto, ma è figura della presenza di Cristo, del suo proporsi a ogni fedele come autentica via della salvezza. Le porte narrano perciò la storia di Cristo, e raccontano anche la storia dell’uomo, della sua origine e delle varie vicende nella storia del suo rapporto con Dio, fino a trovare in Cristo il rinnovamento di un’alleanza perduta e una strada
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definitivamente aperta di ricongiungimento con Lui. Esempio precedente e giustamente famoso di questa interpretazione della porta sono i due battenti bronzei della cattedrale di Hildesheim; ma lungo tutto il primo secolo successivo all’anno Mille il modello figurativo e iconografico si ripropone in una pluralità di edifici sacri, da Augsburg a Monreale, da Trani a Colonia, da Novgorod a Pisa e così via. La porta di San Zeno presenta però caratteristiche particolari, che i due docenti dell’Università di Verona autori del testo illustrano in maniera dettagliata: le formelle bronzee infatti risultano opera di due o più probabilmente tre maestri diversi, di cui il primo sicuramente più antico e caratterizzato da uno specifico linguaggio figurativo. Fabio Coden e Tiziana Franco forniscono un aggiornamento preciso delle conoscenze storiche a riguardo, e delle ipotesi più attendibili circa il primitivo programma iconografico e le variazioni rese necessarie dalle trasformazioni dell’intero edificio. La parte preponderante del volume è però dedicata alla documentazione fotografica: una pregevolissima galleria di immagini, realizzate da BAMSphoto, che permettono una lettura ravvicinata dell’opera, difficile da ottenere anche de visu. Le foto infatti inquadrano le singole formelle non solo frontalmente, ma anche di taglio e di sbieco, in condizioni particolari di luminosità che restituiscono al metallo coloriture e riflessi con speciali effetti cromatici. Il fruitore del volume è portato allora quasi materialmente a contatto con il manufatto artistico: ed è un impatto sorprendente, soprattutto quando si realizza l’incontro con le opere del primo maestro. Ci troviamo di fronte a un linguaggio apparentemente primitivo (e così è stato giudicato inizialmente da alcuni critici) ma che potrebbe
invece essere definito come primigenio, in certo senso ancestrale. La nostra sensibilità moderna entra facilmente in sintonia con queste figure rozze, spesso poco definite, ma potenti nell’emergere quasi a tutto tondo da un fondo volutamente liscio e anonimo. Possiamo trovare una consonanza con l’espressionismo delle teste eccessivamente grandi, degli occhi sporgenti, delle pupille dilatate, dei movimenti sottolineati con forza dai panneggi delle vesti. Riconosciamo uno spazio proiettato in avanti dalle strutture architettoniche appena accennate in rilievo o dalle stilizzazioni degli elementi naturali. Rileviamo, soprattutto in alcune formelle – valga per tutte la scena del banchetto di Erode – una presenza nello stesso spazio di eventi successivi che ci fa vivere un tempo in progressione ad effetto dirompente; e percepiamo l’accordo della nostra sensibilità con i profondi chiaroscuri delle cornici traforate, delle teste animali e degli altri elementi che intervengono nell’insieme della composizione. Probabilmente in queste affinità non è casuale l’elemento cronologico. Il primo secolo dopo il mille infatti, come l’epoca in cui viviamo, è un periodo di profonde trasformazioni sociali, che in campo artistico risultano più evidenti nella scultura per il maggiore peso delle componenti relative alle nuove popolazioni che si sono insediate in Europa. Le popolazioni germaniche di fatto possedevano una specifica esperienza nella tecnica di lavorazione dei metalli e nelle manifestazioni artistiche relative, di cui ritroviamo l’influenza nella scultura del periodo ottoniano e più genericamente in quella di tutto il periodo romanico: un’epoca in cui le trasmigrazioni dei popoli e la loro fusione con la cultura precedente ha dato origine a una nuova civiltà di cui siamo tuttora eredi e testimoni.
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Punti di vista Un ciclo di incontri ha portato a Verona due testimonianze internazionali sull’architettura moderna e contemporanea Testo: Marco Borsotti
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oordinare l’attività di un laboratorio progettuale universitario significa non soltanto fornire strutture teoriche d’approfondimento e pratiche applicative d’esercitazione, ma soprattutto stimolare ed ampliare una visione culturale d’insieme quale base fondativa del percorso di formazione di un futuro professionista. Sviluppare una consapevolezza intellettuale in grado di spaziare dai temi strettamente attinenti al fare architettonico a quelli più ampi della sensibilità interdisciplinare e interculturale, in un’epoca troppo spesso affascinata dalla iper-specializzazione, è ancora, a nostro avviso, una preziosa opportunità di arricchimento che genera, nel suo sedimentarsi, un fruttuoso surplus di capacità d’ideazione e attuazione progettuale, la cui ricaduta genera una più alta qualità del pensiero architettonico divenendo materia spendibile nel suo esito costruito. Con questa convinzione abbiamo strutturato, con Alba Di Lieto, l’esperienza del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura degli Interni e Allestimento presso il Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano, incentrato sui temi dello spazio interno reso abitabile da e per gli eventi culturali: un luogo dove la
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presenza di contributi esterni sia parte integrante dell’esperienza formativa. L’attività didattica, perciò, è basata anche sul confronto con operatori del settore, quali direttori di museo, curatori, progettisti di allestimenti e da contributi tematici, organizzati in forma di conferenze internazionali, quest’anno valorizzate dal consolidarsi di una reciproca collaborazione con l’Ordine degli Architetti PPC di Verona e la Direzione Musei d’Arte e Monumenti del Comune di Verona. L’opportunità di inserire il ciclo di conferenze Interiors File 20172018. Dialoghi sull’architettura degli Interni e l’Allestimento nel quadro delle iniziative culturali e formative dell’Ordine innesca, inoltre, un circolo virtuoso, dove queste opportunità di incontro divengono patrimonio disponibile anche per chi ha già intrapreso la propria carriera professionale. Le conferenze Interiors File si propongono, infatti, come intensi momenti di cultura diffusa e condivisa. Nei primi appuntamenti del ciclo due ospiti internazionali – Mauro Pierconti della Waseda University of Tokyo e Christopher Julian Cooke della University of Cape Town – hanno presentato differenti punti di vista concettuali, prim’ancora che geografici, sull’architettura moderna e contemporanea, nella comunanza del medesimo interesse all’abitabilità dei luoghi, tra innovazione
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progettuale, visione sociale e rilettura critica. Mauro Pierconti, attraverso l’opera di Fujimori Terunobu, ha guardato al complesso mondo che unisce, nella cultura architettonica giapponese natura e artificio, tradizione e modernità, rivelandoci come perfino la tipologia apparentemente così consolidata ed immutabile della costruzione della camera da tè possa essere rivisitata, diventando terreno di ricerca personale eppure universale. Christopher Julian Cooke ha riportato il ruolo
dell’architetto alla sua natura più profonda, laddove si pone al servizio della società, agendo proprio là dove questa, assediata dal degrado e dall’abbandono, sembra non avere più nulla a che spartire con la progettualità. Nelle township di Cape Town, Cooke realizza unità abitative a basso costo, adottando la compartecipazione, l’attenzione al sociale, il coinvolgimento attivo, quali mezzi di costruzione “dal basso” di una città diversa, dignitosamente e sinceramente “a misura d’uomo”. •
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Sulla terra di Fujimori Terunobu, architetto Tradizione e modernità nel segno della millenaria cultura giapponese Testo: J.K. Mauro Pierconti
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nord di Tōkyō, nella regione di Nagano, in una valle che si incunea tra le montagne, sta prendendo gradualmente forma uno scenario inusuale, fatto di case da tè e un piccolo museo, oramai un tutt’uno con il paesaggio circostante, fatto di alberi, campi, fattorie, templi e piccoli cimiteri. Non è un caso che a poca distanza tra di loro – basta girare da un campo all’altro – sorgano tre diversi edifici progettati da Fujimori: due case da tè (Takasugi-an, 2004 e la nave di fango che vola, inizialmente costruita nel 2010, e qui ricollocata nell’aprile dell’anno successivo) e il museo Jinchokan Moriya (1991), dedicato alla famiglia che da molti secoli soprintende il piccolo santuario, che sorge in quella che è una montagna sacra, legata al Santuario di Suwa, uno dei maggiori complessi shintoisti del paese. Fujimori infatti è nato e cresciuto tra questi boschi; la casa paterna sorge poco distante, un terreno è di loro proprietà e lui stesso appartiene, come tutti i suoi familiari, a quel santuario, che identifica ancora come la sua “parrocchia”. E difatti, nel cimitero che sorge ai piedi della montagna – ancora una volta a breve distanza da tutte le costruzioni che abbiamo elencato – c’è anche la tomba di famiglia. È in questa natura che Fujimori ha le sue radici
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e a cui ritorna spesso, se – come anticipato – sta gradualmente trasformando in realtà ciò che spesso ricorre nei suoi schizzi: l’immagine di una natura fantastica, popolata da architetture, alcune delle quali semoventi. Una natura, però, che non è omogenea. E il disegno che apre questo articolo lo mostra chiaramente. Vi è infatti una natura perfettamente riconoscibile, definita nei suoi appezzamenti, delimitazioni, recinzioni, percorsi e abitazioni: una natura quindi ordinata, misurata sulle regole della coltivazione e così vissuta. Di fronte invece, come un mare infinito, si stende la foresta. Anch’essa abitata da costruzioni che, sotto l’influsso di quella potenza infinita e sconosciuta che è la Natura, sono anch’esse vive e si muovono, come in un’inedita Walking City. Nell’estensione della foresta però non sono riconoscibili tracciati o una qualsiasi forma di ordinamento; eppure essa ha conservato e trasformato i segni delle architetture del passato, come il grande arco che rimanda al progetto di Le Corbusier per il Palazzo dei Soviet del 1931, mai realizzato, però esistente. Non disegnato in quella forma, ma in quella forma reso riconoscibile. Ecco allora che, al pari del suo progetto per la tesi di laurea, nel lontano 1971, per un ponte di matrice Archigram che sorgeva ai margini di una città in rovina, quella stessa foresta,
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01. T. Fujimori, disegno, da Buhrs M., Rössler H. (edited by), Terunobu Fujimori architect, Ostfilden 2012, p. 50. 02. Fujimori, Takasugi-an, sulla sinistra, e la nave di fango che vola, sulla destra (foto Pierconti). 03. T. Fujimori, museo Jinchokan Moriya (foto Pierconti).
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04. T. Fujimori, una tavola della tesi di laurea (da T. Fujimori, Fujimori Terunobu kenchiku, Tokyo 2007, p. 21). 05. T. Fujimori, camera da tè ku-an, Kyōto (2003). Nel giardino antistante è visibile l’arco lecorbuseriano (foto Masuda Akihisa). 06-07. T. Fujimori, Takasugi-an che sbuca dalla vegetazione (foto Pierconti e Masuda Akihisa). 08. Sen-no-Rikyō, camera da tè tai-an, Myōki-an, Kyōto (1582 circa), vista frontale del tokonoma. 09. Camera da tè Ryūkō-in, Daitoku-ji, Kyōto (XVII secolo) (da T. Itō, Architettura giapponese, Milano 1963, fig. 79). 10. T. Fujimori, Takasugi-an, vista interna (foto Masuda Akihisa).
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che si estende a perdita d’occhio – racchiudendo dentro di sé parti di architetture del passato – crea nella mente l’immagine di una città oramai riconquistata dalla natura e in qualche modo ri-potenziata da essa; dove l’arco lercuberiano, ingigantito nelle sue dimensioni, sorpassa grandi distanze. Ma come dimostra la paziente opera che Fujimori sta conducendo sul fianco della montagna, non è necessaria una catastrofe per pensare ed immaginare uno scenario diverso dell’ambiente. Non dobbiamo cioè legare necessariamente un cambiamento del contesto in cui viviamo a chissà quale evento, posto in un futuro più o meno lontano. L’architettura, come già affermava Louis Kahn, è qualcosa che noi produciamo in questo tempo presente e non per il futuro: l’architetto concepisce la sua idea e il suo progetto rispondendo ad un desiderio e ad una esigenza attuali. Capita però a volte che un’opera incarni così bene il senso della bellezza costruttiva da trascendere il suo tempo, e persistere così anche nel futuro. Liberato quindi il campo da salti temporali troppi spinti, c’è da riflettere sull’urgenza che Fujimori
pone sul tema della relazione con la natura, sottoponendo a revisione anche ciò che è stato fatto nel passato. Anzi, forte delle ricerche già condotte e delle risposte che di volta in volta sono state elaborate, egli intraprende una ricerca personale, che mischia anche elementi diversissimi tra di loro: l’architettura si rivela così come meditazione continua sulle cose; il progetto stesso diviene uno strumento di conoscenza, pur pieno di memorie, ma del tutto libero da vincoli; più approfondito, e quindi efficace nella sua realtà. E le due camere da tè che si alzano in questo inedito paesaggio ne sono la più ferma e convinta dimostrazione. In questa occasione ci soffermeremo su Takasugi-an, una delle prime ad essere stata progettata e costruita, e che si differenzia dalle altre anche per essere la camera da tè personale di Fujimori: committente, progettista ed esecutore allo stesso tempo. In quest’opera, quindi, egli ha potuto esprimere pienamente le sue intenzioni. Essa letteralmente sbuca dalla vegetazione circostante,
mentre si sale tra i campi che si susseguono ai piedi della montagna. E la si scorge perché è alta, molto alta. E infatti il suo nome, tradotto, è “la camera da tè troppo alta”. Per salire occorre arrampicarsi su due scale, fino ad arrivare di sotto, aprire una botola ed entrare così in quel piccolo spazio, molto raccolto; ad un’altezza di circa sei metri. L’altezza è tale che il vento la fa ondeggiare lievemente. C’è poi una grande finestra, che apre lo sguardo sulla valle sottostante e che subito fa nascere interrogativi circa la sua natura come camera da tè. Se noi infatti colleghiamo quello che noi sappiamo – l’immagine della camera da tè giapponese, sviluppata dal maestro del tè del XVI secolo Sen-no-Rikyū, ovvero del tipo sōan – a questa camera da tè, una finestra di tale grandezza e di tali proporzioni rispetto alla superficie delle pareti è del tutto fuori luogo. Le finestre sono piccole e anche quando sembrano eccedere nelle dimensioni sono comunque velate; innanzitutto dalla carta e, in alcuni casi, anche da un fitto intreccio di canne e steli
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di bambù (del tipo shitajimado), che riduce di molto la quantità di luce, per cui lo spazio interno è un accumularsi di ombre. Nella camera da tè, così come è stata concepita e regolata da Rikyū, abbiamo sempre a che fare con spazi piccoli, piccole finestre, una piccola porta ed una rientranza, il tokonoma, in cui il maestro pone ed espone fiori di stagione e un dipinto. Separato è, poi, l’altrettanto minuscolo spazio di servizio (o mizuya). La camera nel suo aspetto è spoglio, modesto: tutto è ridotto al minimo, all’essenziale, ma secondo un ordine preciso e un rigore sancito da regole ferree: solo determinati tipi di aperture, di materiali, di elementi devono essere presenti al suo interno. Gran parte di tutto questo è invece assente nella camera da tè realizzata da Fujimori. È piccola (6 mq circa), c’è effettivamente un piccolo accesso e lo spazio è raccolto, però poi tutto il resto è diverso. A partire proprio da quella grande finestra che immette in quello spazio minimo una quantità di luce immane, che quella tradizionale non
ha mai visto. E poi, manca quella rientranza, formata da elementi precisi – che ruotano tutti attorno al pilastro, il tokobashira – ognuno dei quali è indispensabile per dare forma all’unica parte ornamentale, dal punto di vista architettonico, della camera da tè tradizionale, il tokonoma. Un ornamento tale, però, da dotare lo spazio interno di una misura, quindi di un principio progettuale che informa di sé l’edificio nella sua interezza. Ebbene, questo principio spaziale è del tutto assente non solo in questa, ma in tutte le camere da tè progettate da Fujimori. Ora, è bene chiarire come la sua intenzione non sia quella di negare con i suoi progetti la cultura tradizionale del tè, ma di mostrarne una nuova, avvertendoci al tempo stesso che le ragioni che ci portano a riunirci in una camera da tè non sono necessariamente quelle indicate dall’etichetta, da un’abitudine oramai consumata dal tempo, da un modello – quello della camera tradizionale – che ha finito con l’occupare tutto lo spazio culturale definito dal teismo.
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progettuale anche per gli architetti di oggi. Perseverando lui stesso e portandolo avanti come narrazione di una relazione continua tra opera e progetto. Questo fa sì che sia proprio il linguaggio architettonico la chiave unica di lettura del suo operato; ovvero i suoi schizzi, i suoi disegni non solo prefigurano un edificio, ma ne sostanziano le intenzioni – sempre espresse – i passaggi strutturali, le culture tecniche e l’identità formale: un ordine di chiarezza, quanto di più necessario nell’affollato mondo edilizio giapponese.
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Fujimori stesso scrive: “È difficile afferrare la spiritualità della camera da tè, perché essa non è uguale per tutti […] ma è un qualcosa di individuale. Chashitsu [la camera da tè] esiste come lo spazio spirituale di una persona. E poi altri arrivano, portando con sé il loro, personale, spazio spirituale. E ci s’incontra, si chiacchiera, condividendo la spiritualità di un momento” 1. Nulla quindi a che vedere con le regole auree fissate dal tempo. Così Fujmori ha modificato lo spazio della camera da tè storica, proprio per smontare quel modello classico, per indicare che i principi sui cui la camera da tè si costruisce – oggi, nella nostra età – non sono assoluti, ma sono un riflesso di quella “personale” spiritualità. Ecco allora che – e qui molti potrebbero vedervi un oltraggio, ma che è ben lungi dall’esserlo – Fujimori si pone sullo stesso piano di Sen-no-Rikyū, il venerato maestro del tè; si pone sullo stesso piano e si fa carico della responsabilità di offrire uno spazio nuovo, disvelando così la natura personale della camera da tè e attualizzandone il tema, cioè rendendolo disponibile come tema
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1 Cfr. T. Fujimori, La camera da tè, lo spazio minimo, in J.K. Mauro Pierconti (a cura di), Fujimori Terunobu. Chashitsu, camere da tè, «Casabella» 763, 2008, pp. 43-44, corsivo nostro.
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Un seme di città a misura d’uomo Il racconto della conferenza di Julian Cooke a Verona sulle dinamiche delle trasformazioni urbane viste dal Sudafrica Testo: Alba Di Lieto e Marzia Guastella
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e recenti esperienze di pianificazione urbana hanno condotto ad un processo di standardizzazione globale che ha uniformato le singole identità, generando un appiattimento indistinto delle città contemporanee da Londra a Barcellona a Cape Town. In questa visione così drammatica, e al tempo stesso realista, segnata dalla perdita di valori e connotati delle città, c’è chi ancora si ostina a portare avanti i propri ideali dedicandosi alla progettazione di una città più integrata, più abitabile e in grado di guardare con fiducia al futuro per migliorare la qualità della vita delle persone. Julian Cooke è uno di questi: per anni ha perseguito con determinazione l’obiettivo di rendere la sua città, Cape Town, a “misura d’uomo”. Nel 2015 riceve la medaglia d’oro per l’architettura sudafricana; nella motivazione della giuria spiccano – oltre all’attività professionale, di docente universitario e di critico di architettura – le sue doti umane che hanno educato, non solo all’architettura, diverse generazioni di architetti sudafricani. In tutta la sua carriera emerge l’attenzione agli altri, in particolare alle classi disagiate che ancora oggi vivono in condizioni di estrema povertà nelle township di Cape Town. È emblematico, a tal proposito, l’impegno di Cooke
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01. Gugulethu, Cape Town: assonometria di un insediamento progettato da Cooke. 02. Esempio di un closed compound, Kimberley. 03. Veduta di una tipica township sudafricana. 04. Gugulethu: veduta aerea, 1987. 05-06. Planimetria tipo dell’area di un ostello prima e dopo l’intervento di recupero urbano. 07-08. Due vedute dei nuovi edifici dalle strade.
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per la sua città ricca di contraddizioni, per la quale nel corso degli anni ha maturato un modello del tutto unico: un esempio di città in cui coesistono bassa tecnologia, cooperazione, articolazione e connettività, attenzione ai bisogni umani e sensibilità alle peculiarità del luogo. È opportuno ricordare come nelle metropoli sudafricane sia presente una vera e propria emergenza urbana aggravata dalla disparità economica, dagli attriti sociali, da una marcata tendenza al consumo del suolo e da un forte inquinamento. Le città odierne sono caratterizzate da una forma frammentata e da un’espansione a macchia d’olio, conseguenza di un sistema che ha favorito la separazione delle classi sociali e nonostante la politica anti apartheid condotta dal partito ANC guidato da Nelson Mandela negli anni ‘90 del Novecento. La moderna pianificazione urbanistica ha suddiviso i suoli sulla base del modello statunitense, prevedendo la costruzione di case unifamiliari dotate di un appezzamento di terreno e favorendo così la formazione di vaste periferie urbane a bassa densità abitativa. A tale sviluppo residenziale non è stata affiancata una adeguata politica di servizi sociali e di trasporti pubblici, privilegiando le auto come mezzo di trasporto. Lo spreco di terreno agrario, la sovrabbondanza di strade e la scarsità di servizi sono solo alcune delle conseguenze della forma della città a “macchia d’olio”. La bassa densità di popolazione spalmata su vaste aree ha reso impossibile organizzare in modo efficiente il sistema dei trasporti pubblici, con inevitabili
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conseguenze: un difficile accesso ai servizi urbani e un disagio sociale aggravato dal divario economico per i ceti meno agiati che non possiedono l’automobile. La forma della città ha contribuito ad amplificare ogni giorno le disparità e a diminuire la qualità della vita. Nel Sudafrica, uno dei principali modi per ospitare i lavoratori migranti durante il periodo dell’apartheid era, fino al 1980, l’ostello; esso era basato sul closed compound, un modello che si diffuse nel 1870 nei pressi delle miniere di diamanti, dotato di negozi, chiesa, prigione, stazione di polizia, in cui i lavoratori, circa centomila, non potevano ricevere ospiti ed erano facilmente controllabili dalla polizia. L’ostello era meno soggetto a restrizioni, ma era funzionale al sistema di leggi razziali basato su un sistematico controllo di polizia. Nel 1985, in un periodo in cui la povertà era massiccia, il flusso migratorio verso la città aumentava e gli ostelli diventavano sovraffollati, un comitato di abitanti ha chiesto a Julian Cooke un progetto di riconversione delle condizioni abitative degli stessi per fronteggiare una situazione di emergenza tale che una cellula pianificata per 28 uomini era occupata da 60 persone. Obiettivi del progetto erano dunque risolvere il sovraffollamento e riqualificare l’area cercando di sfruttare ciò che il territorio poteva offrire, ovvero dei nonluoghi trascurati. Per finanziare la costruzione di nuovi edifici che potessero migliorare e donare un’impronta coerente all’intero contesto, sono state progettate delle unità edilizie variabili a seconda di posizione, spazio e orientamento che garantissero
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Carla non farla Lo sguardo discreto su una lunga carriera professionale Testo: Daniela Tacconi e Alberto Vignolo Foto: Daniela Tacconi
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08. Gugulethu: veduta prospettica di una corte. 09. Gugulethu: come rendere la strada uno spazio sociale.
la massima adattabilità all’interno di ogni quartiere e il miglior metodo per soddisfare i bisogni umani. Anche le strade sono state calibrate non a misura d’uomo, orientando gli spazi urbani ai pedoni e concentrando gran parte dell’attenzione sulla urban-room; la strada o la piazza diventa il luogo per lavorare, giocare, socializzare e festeggiare. Gli spazi pubblici rimangono distinti da quelli privati, tuttavia è stata generata una struttura in grado di rispondere ai fondamentali bisogni umani. Tali cambiamenti hanno consentito la distribuzione di alloggi migliori, un nuovo accesso alle strutture sociali e una migliore opportunità di lavoro e formazione professionale. Il processo di realizzazione non è stato semplice, segnato da problematiche di tipo sociale e burocratico; è stata condotta una vera e propria battaglia politica con l’autorità governativa e i leader delle comunità hanno subito pesanti intimidazioni e due di loro sono stati assassinati. La vicenda ha rappresentato per l’architetto due grandi lezioni: la prima riguarda il metodo di partecipazione degli abitanti, la seconda il metodo progettuale step by step. Oggi, l’esperienza sudafricana risulta un microcosmo rappresentativo di ciò che sta accadendo nel resto del mondo, segnato dall’immigrazione di persone povere in cerca di una vita migliore, oltre che un importante spunto di riflessione per tentare di ricostruire un ethos con il quale le nostre città possano risultare più umane e sostenibili e possano costituire un esempio da adottare su scala globale.
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er quasi due mesi, dal 7 ottobre al 3 dicembre 2017, la sala civica “Eugenio Turri” di Cavaion Veronese ha ospitato la mostra Gli spazi di Carla. Incontro con l’architettura, promossa dal locale assessorato alla cultura con il patrocinio del nostro Ordine. Andiamo dunque anche noi “incontro all’architettura”, con la curiosità di scoprire questa figura che, nemo propheta in patria, non sembra aver lasciato tracce significative nel suo territorio di origine. Carla Tagliaferri è nata a Verona e si è laureata in architettura nel 1960 allo IUAV di Venezia; dall’anno successivo risulta iscritta all’Albo della nostra città. Il suo curriculum, tratteggiato all’entrata della sala principale – a dire il vero in maniera assai poco circostanziata – ci accoglie assieme alla foto del suo sorriso vivace. Capiamo subito che gli interessi e gli impegni di Carla sono stati molteplici. Lungo il percorso che conduce alla sala dove è allestita la mostra troviamo alcune sue opere pittoriche appese alle pareti: si tratta di tele dai soggetti semplici – vasi
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01. Casa a Caprino Veronese, 1975. 02. Skyline urbano a mezzo punto. 03-04. Ca’ Olivarella, Garda, 1962-65: pianta piano terreno e veduta dalla loggia.
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di fiori – e di piccoli arazzi eseguiti in lana a punto croce, tutti coloratissimi e solari. Questi primi pezzi ci introducono nel cuore della mostra: qui schizzi, disegni di progetto e fotografie delle opere realizzate sono montati su pannelli di colore sgargiante appesi alle pareti della sala, altri documenti sono invece appoggiati su un tavolo e messi a disposizione per la libera consultazione dei visitatori. È un caleidoscopio (o un guazzabuglio?) multiforme e un po’ disorientante quello con cui Carla decide di dare vita ad una narrazione di sé, del tutto autoreferenziale e senza alcun filtro o vaglio critico. I lucidi ingialliti dal tempo, così come i modellini e gli schizzi ritagliati e assemblati artigianalmente, riescono a suscitare in chi li osserva una certa tenerezza: questi manufatti rimasti per anni chiusi negli armadi richiamano alla mente un’operosità artigianale, un sapere manuale che un tempo era la prassi normale del fare architettonico. La cura per il dettaglio si nota nei disegni di alcuni particolari costruttivi, come quelli per la realizzazione di serramenti, cancelli e parapetti, così come per alcune scale interne. I progetti esposti coprono un arco temporale ampio, a partire dai primi anni dopo la laurea fino agli anni ’90. Alcuni studi di arredamento risalgono addirittura a vecchi corsi accademici, e rimandano ad un tempo in cui il progetto dell’architetto si estendeva naturalmente e senza soluzione di continuità dalla città al componente d’arredo. Tra le opere realizzate compaiono alcune commesse pubbliche: si tratta perlopiù di istituti scolastici, come le scuole medie realizzate a
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« Emerge in maniera netta la radicale differenza tra fare una mostra e svuotare vecchi cassetti in pubblico »
Cavaion negli anni ‘70, e alcuni complessi di case popolari. Diverse sono le case private realizzate da Carla; tra queste spicca Cà Olivarella, la sua villa di Garda circondata da ulivi, realizzata tra il 1962 e il 1965: qui negli interni dalle vaghe reminiscenze wrightiane si fa largo uso di legno e paramenti in pietra. Ne risultano ambienti luminosi e verdeggianti, dove il colore acceso emerge come gusto predominante anche nella
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scelta degli oggetti di uso comune. L’ampia veranda che apre lo sguardo verso il panorama del lago denota un amore e un attaccamento per quei luoghi, testimoniato anche dal continuo ritorno dell’architetto a Garda, dove tutt’oggi vive. Probabilmente proprio l’amore per il paesaggio è all’origine del suo impegno nella redazione di saggi sul tema del territorio e dell’ambiente e nella progettazione di giardini, di cui la mostra offre qualche esempio; peccato che questo interesse, rilevante stando alle note biografiche introduttive, non trovi riscontro all’interno dell’esposizione. Certamente accostare alla bell’e meglio una varietà di documenti eterogenei senza un filo conduttore non può bastare per dare conto di una lunga carriera professionale, né i singoli lavori documentati riescono ad illustrare in modo esauriente le scelte e il percorso stilistico dell’autrice. Quello che senza dubbio emerge da questa rassegna di progetti è la vivacità di Carla, che anche amici e conoscenti nel libro delle dediche posto al termine della mostra riconoscono come tratto fondamentale del suo carattere. Ma emerge anche in maniera netta la radicale differenza tra fare una mostra e svuotare vecchi cassetti in pubblico. Carla, non farla!
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Una corte con la scuola intorno Gli esiti del concorso #scuoleinnovative per la realizzazione di 51 scuole in altrettanti comuni italiani con i tre progetti premiati a Negrar Testo: Marcello Bondavalli
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giuria, valida per tutte le aree di concorso, era composta da Benedetta Tagliabue e Werner Tscholl, Marco Bartoloni per il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, Laura Galimberti per il Miur e Maura Striano docente di pedagogia all’Università di Napoli. Su scala nazionale, sono stati presentati 1.238 progetti per le 51 aree. Alla base della grande partecipazione c’è stata forse la speranza da parte di molti studi, in particolare di giovani professionisti, di poter emergere attraverso la qualità progettuale in un tipo di concorso la cui partecipazione non prevedesse requisiti tecnici, spesso irraggiungibili. Lo spaccato che emerge a livello nazionale dalle graduatorie – uscite con molto ritardo sulla tabella di marcia, circa un anno e mezzo dal bando – è, da questo punto di vista, confortante: molti dei progetti selezionati sono stati elaborati, tranne qualche eccezione, da giovani studi emergenti. Negrar ne è un esempio, con tre studi under 40 classificati ai primi tre posti. Per il nuovo polo scolastico del comune della Valpolicella il
bando richiedeva “la realizzazione di una scuola innovativa dal punto di vista architettonico, impiantistico, tecnologico, efficiente dal punto di vista energetico mediante l’adozione di architettura bioclimatica”, dimensionata per 375 studenti con una superficie calpestabile di circa 3.950 m² e con un importo lavori stimato in 4.150.000 Euro. L’area di progetto è quella dell’attuale edificio scolastico che andrà demolito, sul limite dell’espansione edilizia a sud del paese, circondata dai
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ella primavera 2016 il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha bandito un grande concorso d’idee, denominato #scuoleinnovative, per la realizzazione di 51 scuole in altrettanti comuni italiani. Tutte le scuole da realizzare dovevano essere non solo innovative dal punto di vista architettonico ma anche e soprattutto dal punto di vista didattico. Il comune di Negrar, rispondendo alla chiamata del Ministero per l’individuazione delle aeree di progetto, ha scelto questa via per la realizzazione del nuovo polo scolastico in sostituzione di quello esistente in via degli Alpini. Il concorso è stato organizzato attraverso l’uso della piattaforma concorrimi, infrastruttura digitale concepita dall’Ordine degli Architetti di Milano in collaborazione con l’Ordine degli Ingegneri e il Comune di Milano. Vale la pena soffermarsi sulla bontà della scelta di questa piattaforma, e notare come quest’ultima stia migliorando la qualità dei concorsi in Italia, battendo una nuova strada che mette al centro il progetto, semplificando le procedure e puntando su una vera trasparenza a tutti i livelli. Infatti alla base della procedura c’è un bando tipo, che porta vari vantaggi: i partecipanti si trovano a interagire con uno schema conosciuto, e allo stesso tempo le amministrazioni possono risparmiare tempo e risorse usufruendo di una procedura collaudata. Il bando prevede, inoltre, l’obbligatorietà per l’amministrazione di affidare l’incarico all’autore del progetto vincitore. Nel caso di #scuoleinnovative la
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01-04. Laprimastanza + Ellevuelle, progetto primo classificato: inserimento nel contesto, dettaglio della sezione, pianta piano terreno e veduta della corte.
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#scuoleinnovative comune di negrar primo classificato Laprimastanza + Ellevuelle Matteo Battistini (capogruppo) Michele Vasumini Davide Agostini Matteo Cavina Giulia Dall’agata (collaboratore) secondo classificato CLAB architettura Matteo Fiorini (capogruppo) Nicola Bedin Andrea Castellani Lorenzo Bassi (collaboratore) terzo classificato Irene Bonente (capogruppo) Mattia Arcaro
vigneti e visibile dalla strada che collega Negrar a Verona. Per tutti i premiati, i temi dell’integrazione tra edificio e paesaggio e, allo stesso tempo, della identità della scuola sono stati una priorità. Per il primo classificato, il progetto degli studi romagnoli Laprimastanza e Ellevuelle, la nuova scuola in quanto momento pubblico del tessuto costruito assume le dimensioni e le geometrie degli altri spazi pubblici di Negrar. L’integrazione urbana e paesaggistica si manifesta nellla corte, attorno alla quale prende forma il volume dell’edificio e dove è possibile organizzare lezioni all’aperto, spettacoli musicali, teatrali, installazioni artistiche non solo per alunni, insegnati e
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05-07. CLAB architettura, progetto secondo classificato: planimetria di inquadramento, sezione prospettica e veduta della scuola dal vigneto. 08-10. Irene Bonente e Mattia Arcaro, progetto terzo classificato: l’edifico nel contesto e piante dei piani primo e terreno.
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personale scolastico, ma anche per ottimizzare sia lo sviluppo della la cittadinanza. Nell’intenzione dei superficie che il consumo di suolo progettisti, la corte vuole inoltre e, allo stesso tempo, favorire una rappresentare una rilettura delle migliore gestione funzionale dei corti agricole delle ville venete flussi e delle infrastrutture. Il che caratterizzano fortemente la risultato è una architettura che Valpolicella. richiama, come nel caso precedente, La scuola si sviluppa in un unico gli elementi tipologici delle corti volume rettangolare a due livelli, rurali della zona: una aggregazione con una copertura plastica che di volumi eterogenei tenuti assieme sottolinea gli angoli dell’edificio; al da un perimetro ben definito e da piano terreno sono collocate tutte una successione di corti e cortili a quelle funzioni che si possono aprire scandire spazi aperti, spazi coperti ad un uso della cittadinanza, come e spazi chiusi. Molto articolato è la palestra, l’aula magna e quattro il piano terra organizzato in due laboratori; al piano primo sono settori connessi da un grande spazio distribuite la segreteria e le aule, polifunzionale centrale, adattabile orientate quasi totalmente a sud per grazie a dispositivi di arredo e pareti godere di un buon illuminamento e scorrevoli. Gli spazi dedicati alle di una gradevole vista del paesaggio attività scolastiche, distribuite anche o della corte interna. La facciata al secondo livello, si affacciano verso esterna è rivestita i vigneti, mentre in legno, mentre i « È auspicabile che ora le funzioni ibride, fronti sulla corte ovvero quegli sono caratterizzati il Comune di Negrar affidi spazi aperti alla l’incarico di progettazione cittadinanza da un sistema allo studio vincitore di brise-soleil come la palestra, verticali a secondo i presupposti l’auditorium e protezione delle i laboratori si del bando » grandi vetrate. rivolgono verso il Una struttura metallica con grandi centro abitato. La maggior parte delle travi reticolari rende possibili ampi attività didattiche si svolge dunque spazi interni e soprattutto le aperture in stretto contatto visivo con il della corte verso il paesaggio al piano paesaggio, che diviene il protagonista terra. delle differenti fasi del percorso Anche il progetto secondo educativo, assumendo il ruolo di classificato, elaborato dallo “paesaggio educativo”. studio veronese CLAB, si vuole Una struttura modulare in legno porre come un “tassello di quel caratterizza le facciate esterne, rinnovamento urbano che ha componendo il portico a due livelli. come obiettivo principale quello La proposta terza classificata di di rafforzare le componenti che Irene Bonente e Mattia Arcaro, definiscono l’identità e l’unicità di sodalizio professionale con radici un paesaggio senza, tuttavia, negare veronesi, prevede a sua volta un la propria contemporaneità.” La volume trasparente che permette scuola è un organismo compatto a lo scorrere del territorio al suo base rettangolare, con lo scopo di interno, con un edificio compatto
che massimizza la superficie a verde. Anche in questo progetto il piano terra è il luogo della comunità, che permette di organizzare attività ed eventi anche extra scolastici. La conformazione della pianta e della sezione permette una continuità spaziale tra i due livelli e tra i diversi ambienti; lo spazio di distribuzione è un ambiente fluido, flessibile e luminoso che diventa il fulcro delle relazioni tra le diverse attività e tra gli studenti. Le aule sono concepite come spazi flessibili, con la possibilità di poterli chiudere nel caso che l’attività didattica lo richieda. I fronti dell’edificio, semplici e rigorosi, sono scanditi in tre grandi fasce: al piano terra un basamento in legno compatto è scavato in corrispondenza degli ingressi, mentre il primo piano è caratterizzato da ampie superfici vetrate sormontate da un grande sporto di gronda in legno come coronamento dell’edificio. È auspicabile che ora il Comune di Negrar affidi l’incarico di progettazione allo studio vincitore così da non disattendere i presupposti di chiarezza del bando e le aspettative di tutti quei professionisti che, partecipando al concorso #scuoleinnovative, si sono messi in gioco investendo tempo e risorse.
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Solido e solidale I vincitori del concorso promosso da un nutrito gruppo di associazioni cittadine in vista della realizzazione dei primi box a favore delle popolazioni terremotate Testo:Pierluigi Grigoletti
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seguito del devastante terremoto che ha colpito il Centro Italia nell’agosto 2016, nasce un’idea innovativa per contribuire alla rinascita culturale di quelle popolazioni. Chi la promuove è un’insolita cordata di associazioni veronesi e vede la partecipazione attiva dell’Ordine degli Architetti, di quello degli Ingegneri e il Comitato giovani di UNESCO. Dietro alle sigle di rappresentanza tante persone che regalano tempo e risorse ad una iniziativa in cui credono fortemente. Sono una di quelle persone, faccio parte di un’associazione che già con il terremoto dell’Emilia ha dato dimostrazione di attenzione e sensibilità civica con “EMEM” (Emergenza Emilia), facendo colletta alimentare nei supermercati e consegnando un paio di tir a Sassuolo. Subito dopo però, quella collaborazione entrò in letargo, forse perché dopo la prima emergenza si faceva fatica a capire quali sarebbero state le vere necessità della popolazione, forse anche per una presa d’atto inespressa nel sentirci quasi fuori luogo nel grande mare agitato della solidarietà nazionale. Allora ci siamo lasciati con una certezza: nell’attesa vana che la “cultura della prevenzione” diventi veramente una priorità di valenza strategica per il nostro
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Paese, ci saremmo ritrovati intorno ad un tavolino da bar a parlare dell’ennesimo disastro, e così è stato appena quattro anni dopo. Siamo ripartiti con una maggiore consapevolezza e con una forte volontà, direi quasi con quella rabbia civica che ti prende quando ti ritrovi a constatare che passano gli anni e commettiamo sempre gli stessi errori. L’idea che ne esce è qualcosa di completamente diverso, credo unica nel panorama nazionale: portare in quei paesi delle piccole case per la cultura dove conservare la propria memoria collettiva, giocare, leggere, cantare, ascoltare, fare domande e cercare risposte, insieme. “BOX 336am” prende il nome dall’idea stessa del progetto e dalla memoria storica dell’evento: un contenitore, la scatola, e l’ora della prima scossa congelata nell’orologio della torre civica di Amatrice, ora anch’essa parzialmente crollata. Nasce l’idea di istituire un bando di progettazione per trovare la giusta soluzione e parallelamente contattare i nostri pari dei paesi terremotati, inizialmente per capire se ciò che proponiamo sia utile o se stiamo solo facendo sfoggio della nostra vanità. Qualcuno di noi parte per toccare con mano la realtà, cominciano a nascere rapporti umani autentici e capiamo che oltre l’emergenza, le case prefabbricate, la ricostruzione dei
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01-03. Primo classificato (Davide e Gioele Tagliabue): studio volumetrico dei moduli, ipotesi planimetrica di aggregazione e render.
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monumenti e la ripresa economica, c’è dell’altro da fare: tutelare quel patrimonio invisibile, immateriale ma fondamentale come la memoria culturale e civica della comunità, quel superfluo necessario per pensare non solamente al duro lavoro quotidiano ma anche al nutrimento dello spirito. Primo obiettivo, una raccolta fondi: a fine marzo 2017 siamo in Piazza San Zeno, trenta associazioni insieme per fare festa, musica concertistica in basilica e all’aperto tra folk, pop, pasta all’amatriciana e gnocchi all’amatriciana (consapevole blasfemia culinaria). Quasi 30.000 euro di incasso in due giorni con la pioggia a ricordarci che niente è semplice, ottima dote per i nostri piccoli box. Nel frattempo prende corpo il bando di progettazione, l’Ordine ci aiuta nella stesura e in poco tempo costruiamo un sito per promuoverlo. Tomaso Montanari, punto di riferimento nazionale sui temi di tutela e salvaguardia del nostro Patrimonio Culturale, ci onora accettando il ruolo di presidente della giuria, e insieme a lui
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scegliamo il vincitore e i progetti più meritevoli. Inaspettatamente nasce anche una bellissima collaborazione con il Dipartimento Architettura e Territorio dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, con un corso di studi tenuto dalla prof.ssa Francesca Giglio sul tema del nostro bando che porterà sicuramente nuova linfa al progetto. Al bando rispondono 54 partecipanti e 23 progetti da tutta Italia, forse pochi in rapporto ai concorsi più blasonati, ma noi siamo poveri e i premi altrettanto; chi partecipa ci deve credere e sposare la nostra filosofia. Non chiediamo di progettare una residenza provvisoria per terremotati (anche per quella servirebbe un concorso, a dire il vero), ma una casa per la collettività, 18 metri quadri flessibili, aggregabili ed economici. Sorprendentemente i progetti che arrivano sono sì pochi, ma molto interessanti, alcuni commoventi nella consapevolezza di poter essere in qualche modo parte attiva nel processo di ricostruzione post-terremoto. I vincitori sono due
giovani fratelli, Davide e Gioele Tagliabue, capaci di proporre un dialogo autentico e originale con la precarietà di quei paesi incatenati da imbragature e sommersi da ponteggi. Il prossimo passo è la costruzione, anzi, l’autocostruzione: alcuni box verranno realizzati in prima persona dalle popolazioni del Centro Italia che ce li stanno chiedendo. Noi li aiuteremo e sosterremo economicamente in tutte le fasi, occupandoci il più possibile anche delle attrezzature necessarie alle attività che loro proporranno. Esporremo un prototipo in Piazza San Zeno a primavera 2018, durante la nostra prossima festa per raccogliere fondi e per riflettere insieme sulla tutela del nostro immenso patrimonio ambientale e culturale. Per Enzo Mari “tutti possono progettare”, mentre Richard Sennett ne L’uomo artigiano spiega che “tutti o quasi possono essere bravi artigiani”. Capacità progettuale che Mari ritiene innata come l’atto di respirare, capacità artigiane che Sennett suggerisce acquisite già in età infantile, nell’atto di giocare insieme. Sono forse queste le abilità che ci consentiranno di ricostruire meglio e più consapevolmente il nostro territorio?
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box336am contenitore culturale Concorso di progettazione primo classificato Davide Tagliabue, Gioele Tagliabue secondo classificato Salvatore Sciuto terzo classificato Ilaria Brunozzi, Alberto Bolognese, Valentina Colonnesi, Jody Majoli menzioni Fabio Paoli, Marco Paolini, Carlo Balsamo; Matteo Romanelli, Mattia Bencistà, Barbara D’Alessandro, Francesco Nicolai; Giulia Urciuoli, Andrea Pezzoli, Francesca di Silvestre; Mauro Pirrone, Vincenzo Pirrottina www.box336am.org
04. Secondo classificato (Salvatore Sciuto): inserimento nel contesto post sisma. 05-06. Terzo classificato (Ilaria Brunozzi, Alberto Bolognese, Valentina Colonnesi, Jody Majoli): inserimento e studi di aggregazione.
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Ci mette il becco LC Muri da abbattere e conservazione dei recinti nella struttura della città
Testo: Luciano Cenna
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conclusione di questo scritto parlerò anche degli altri due, ma prima vengo all’argomento che mi sta più a cuore: conservare o abbattere il muro perimetrale degli ex Magazzini Generali. Quando la Soprintendenza ai Monumenti, decenni or sono, ha sottoposto a vincolo monumentale il complesso degli ex Magazzini Generali, ne ha estesa l’efficacia al perimetro murario, intendendo con ciò sottolineare e confermare anche il valore urbanistico dell’impianto. Negli oltre 50 anni di attività, dalla fondazione alla dismissione, all’iniziale Rotonda sono stati affiancati molti altri edifici destinati a depositi di merci – soprattutto alimentari – gli ultimi dei quali costruiti in questo dopoguerra, finché l’espansione urbana ha di fatto inglobato al suo interno l’impianto compromettendone la funzionalità per l’inadeguatezza dei collegamenti stradali e ferroviari. L’Amministrazione comunale ha quindi provveduto a costruire una nuova sede fuori città, aprendo la ZAI a nuove funzioni terziarie. Da allora gli edifici dei Magazzini Generali, come quelli di altre attività trasferitesi, sono rimasti
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privi di utilizzazione e semiabbandonati, salvo alcune eccezioni in occasione delle Feste de L’Unità svoltesi nel vasto piazzale interno e in alcuni fabbricati adiacenti. Dopo l’acquisizione degli immobili, la Fondazione Cariverona ne ha ristrutturato la maggior parte, poi affittandoli ad Enti e privati per le sedi di Ordini professionali, dell’Archivio di Stato e degli uffici di Unicredit. Al presente ha in corso gli interventi strutturali della Cupola, considerata simbolo della ZAI. I lavori di rifunzionalizzazione dei padiglioni storici hanno comportato modifiche interne più o meno importanti e, per le facciate non su strada, alterazioni sostanziali dell’aspetto originale (benché in presenza del vincolo). Percorrendo le strade che racchiudono il lotto, viale del Lavoro, via Santa Teresa e viale dell’Agricoltura, non se ne percepisce l’importanza, se non per qualche scorcio in corrispondenza del tratto finale di viale del Lavoro e dell’Agricoltura, a causa dell’alto muro di recinzione che nasconde gran parte dei fronti edilizi retrostanti. Ma, così facendo, il muro sottrae all’uso urbano anche il vasto spazio libero interno all’isolato – vera e propria potenziale piazza – così come sottrae i fabbricati al contesto determinando una enclave, oggi incomprensibile. Altri isolati della ZAI sono caratterizzati dalla separazione con l’intorno ad opera di alti muri: in primis la Fiera; ma questa è un caratteristica storica della ZAI, o meglio lo era, in quanto nata come sede di imprese agricolo-industriali, magazzini e strutture di servizio indipendenti tra loro. Ho sempre avuto la convinzione che, così come era sorto, il sito dei Magazzini Generali dovesse mantenere il suo carattere di “isolato” nel senso letterale del termine. Le funzioni originali svolte al suo interno non richiedevano contatti esterni se non per alcuni varchi distribuiti in corrispondenza a punti specifici, per ovvi motivi di sicurezza e controllo
degli accessi (vi entravano per lo più convogli di vagoni merci). Ma ora che le funzioni ospitate sono altre, molto differenti tra loro e tutte connesse con il sistema città (c’è perfino una libreria), ha ancora senso mantenerle recluse al di là di un muro compromettendone la funzionalità e allontanando, ancora una volta, l’opportunità di trasformare la ZAI in una parte viva della città? Dal punto di vista della conservazione del bene, mantenere attiva questa parte del vincolo agli ex Magazzini Generali sembra una misura sopravvissuta e ormai anacronistica. Tanto più che un ragionevole compromesso potrebbe conservare la memoria della perimetrazione del sito, magari utilizzando superfici a verde. Ma ci sono almeno altri due casi a Verona in cui la presenza di muri che recingono aree ex militari dovrebbe essere rivista: uno è certamente quello, ma si tratta di un tratto breve, dell’angolo est del recinto dell’Arsenale, ricostruito in posizione obliqua rispetto a quello originale quando si è deciso di rettificare quell’angolo dell’isolato per dar spazio all’edificio del Fagiuoli. Ipotesi questa confermata nei primi annunci sull’impostazione del progetto preliminare che seguirà i lavori dell’apposita commissione per la definizione dell’intervento sull’Arsenale. L’altro, ben più significativo, è quello che delimita ancora l’area posta alle spalle degli edifici di via Cantarane. Visto che ora l’area è destinata a zona universitaria e ad edilizia residenziale, la presenza di questo muro trasforma in ghetto quella zona che sarebbe stata assai più interessante se strettamente integrata con il resto del quartiere. Questi tre esempi di muri da abbattere valgono per tutti quegli altri, non citati, che meriterebbero la stessa sorte; senza con ciò negare il valore della conservazione del “recinto” nella struttura della città: primo fra tutti quello delle mura urbane.
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Testo: Federica Guerra
Una stupefacente alchimia si compie dal 1838 nel Cimitero Monumentale di Verona: la storia, il luogo, la vita e la poesia coincidono perfettamente nella sepoltura di Franz von Scholl, il Direttore dell’Imperiale Regio Ufficio delle Fortificazioni, fautore della trasformazione ottocentesca del volto della città. Una solenne urna accoglie le spoglie dell’ingegnere ottocentesco, perfettamente incarnando lo spirito romantico della sua epoca: la pietra sbrecciata, l’edera che accenna ad avvolgere la tomba, lo spazio mistico che la circonda, il laconico epitaffio, l’“ombra dei cipressi” sullo sfondo, sembrano un perfetto allestimento foscoliano che accende una “corrispondenza d’amorosi sensi” con un personaggio cui Verona deve il parziale rifacimento delle mura difensive, lasciate in stato precario dai cannoneggiamenti francesi e dall’incuria del tempo, e il recupero e conservazione delle tracce delle fortificazioni storiche. La tomba sorge nell’area cimiteriale limitrofa al Monumentale, ma esterna ad esso, che gli Austriaci realizzarono per sottolineare la sostanziale diffidenza nei confronti dei veronesi, diffidenza e timore contraccambiati dalla popolazione che vide in pochi anni impegnata una numerosissima manovalanza autoctona nella realizzazione di un grande “progetto territoriale” volto a trasformare la città di Verona in una pedina strategica nello scacchiere Lombardo-Veneto. E l’autore di questa trasformazione non era certo un tecnico di primo pelo. Von Scholl arriva a Verona al culmine della sua carriera: ha già partecipato ad operazioni militari in tutta Europa distinguendosi in combattimenti e assedi contro le armate napoleoniche. Durante l’assedio di Venezia nel 1805 elabora i suoi primi progetti
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Foto: Lorenzi Linthout
di fortificazioni, ma sono del 1807 i primi progetti realizzati di batterie fortificatorie in Stiria e a Trieste. Nel 1814 è Direttore delle fortificazioni di Venezia e nel 1815 di quelle di Mantova. Dal 1818 viene nominato alla cattedra di ‘Arte delle Fortificazioni’ all’Accademia Militare di Vienna. Nel 1821 è prima a Milano, come Direttore Distrettuale della Lombardia, e poi a Napoli, come Comandante del Genio di Campagna. Dal 1825 al 1830 attende alle fortificazioni di Mainz, sperimentando per la prima volta l’efficacia difensiva dello schema a campo trincerato. Dal 1831, col grado di Maggiore Generale, diventa Direttore del Genio di Campagna dell’armata Radetzky col compito di allestire le difese dei territori tra Adige e Mincio. In questo quadro strategico porta avanti contemporaneamente i progetti degli sbarramenti alpini di Franzensfeste, presso Bressanone, di Nauders, al Passo Resia e di Verona, iniziati tutti tra il ‘33 e il ‘34. Quando si stabilisce a Verona, quindi, è un uomo di 61 anni al culmine della sua professione che gli ha assicurato riconoscimenti al merito fino al conferimento della Croce dell’Ordine di Leopoldo, alla quale era congiunto il titolo di barone. Lo immaginiamo impegnato alacremente a seguire tutti i cantieri fortificatori nella complessa impresa della Cinta Magistrale di Verona e in quella, non meno impegnativa, delle opere di sbarramento dei valichi alpini tirolesi. E, tuttavia, come vero eroe romantico, non regge al dolore per la morte della moglie e il 3 settembre 1838 muore di crepacuore per la perdita della adorata sposa, avvenuta il giorno precedente. Non dimentichiamo, dobbiamo l’iscrizione di Verona all’World Heritage List anche al suo ingegno e talento.
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Una bottiglieria nel cuore della città propone un allestimento originale ed evocativo alieno dagli stereotipi dello shopping
Progetto: A.c.M.e. studio
Testo: Giulia Bernini Foto: Giovanni Peretti
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iviamo in un’epoca in cui ogni cosa è standardizzata, a partire dall’ambiente domestico inondato da mobili di matrice scandinava, seppur prodotti in Asia; si fanno compere nei sempre più numerosi centri commerciali in negozi che sono le ennesime filiali dell’ennesima catena. Negozi asettici, dalla luce scialitica e con sottofondo di musica assordante, privi di alcuna peculiarità, tratto
distintivo o rispetto del genius loci, pronti ad essere copiati e incollati nella prossima città. Lo spazio per i piccoli negozi indipendenti che si distinguano dalla banalità sembra ormai relegato alla sfera dei ricordi. Concept store, franchising, shop experience e via dicendo, sono solo alcuni dei termini ahinoi d’uso comune che hanno spazzato via, strappandone una ad una le radici, le mirabili gallerie, gli scintillanti
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empori e perfino le amate botteghe. È in questo desolante scenario che si fa (facilmente) spazio Vivavino. A spasso nel centro di Verona, si resta folgorati sulla via di Damasco (via Oberdan, nel caso). Una voce fuori dal coro, un miraggio! Il primo impatto è dato indubbiamente dalla forma: un coacervo di tubi, accatastati l’uno sull’altro ad avvolgere l’intero vano del negozio, è scavato nel nucleo centrale per dar luogo ad un ambiente accogliente e avvolgente, che invoglia il cliente ad esplorare il suo interno dalla spazialità inusuale, dissonante da qualsiasi altro loculo commerciale. Il riferimento concettuale, per una rivendita di vini, è alle volte delle antiche cantine, ma la sensazione più recondita è quella di attraversare il cuore di un alveare, dove ci è dato curiosare e perlustrare il contenuto riposto in ogni cavità dei favi. Seguono l’impatto luminoso: i consueti tediosi faretti pronti ad abbagliare il cliente tra uno scaffale e l’altro lasciano qui il posto ad un’illuminazione soffusa e velata, a soffitto o integrata nei tubi sezionati; quello cromatico, dove finalmente si punta sul nero per far risaltare il suo contenuto; avvicinandosi ancora, risalta infine quello materico: si scopre così la composizione di cartone lasciato al naturale. Materiale intrinsecamente legato
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Progetto architettonico A.c.M.e. studio (Raffaela Braggio, Giovanni Castiglioni, Filippo Legnaghi, Moreno Zurlo) Progetto impianti Ivan Travaglini
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01. Le bottiglie sono poggiate su lastre di vetro poste nei tubi di cartone o direttamente coricate al loro interno. 02. Particolare dei tubi di cartone sezionati che definiscono l’involucro interno del negozio. 03. Anche il bancone visibile sulla destra è realizzato con tubi di cartone disposti in verticale a sostegno del piano. 04. Sequenza della costruzione della geometria spaziale interna. 05. Veduta dall’interno del negozio verso la strada.
committente Vivavino
imprese e fornitori Esigo - Arredoluce - Erlischen Bau Edisal floor - Termoidraulica Dalfini CRONOLOGIA Progetto e realizzazione: ottobredicembre 2016
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DATI DIMENSIONALI 52 mq piano terra + interrato
alle confezioni di vino, povero ma generoso tanto da abbassare i costi di allestimento, leggero ma resistente. È così che da ogni tubo fanno capolino le bottiglie, poggiate su lastre di vetro o accomodate al loro interno come cullate nella pancia delle vecchie botti. L’esempio di Vivavino è dunque quel che può risultare dall’opera di quattro operose menti italiane. Il focus del progetto verte invero sull’unicità, sull’ingegnosità concretizzata con un aroma fresco, dal sapore pieno e vellutato, complice probabilmente la quasi estraneità dei progettisti da temi progettuali consimili. Il processo progettuale li ha anzi spinti a concepire il negozio come un’installazione artistica, inscindibile dalla tipicità del prodotto, caratterizzata da un’identità tanto forte quanto distante dall’aspetto meramente commerciale.
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CO LLE Z I O N E—PR I VATA Le battaglie di Maffeo d’Arcole Un artista radicato nella provincia dell’est veronese nel racconto di un architetto che gli è amica e conterranea Testo: Federica Provoli Foto: Irene Meneghelli
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lasse 1949, ultimo di otto fratelli di una famiglia contadina, Maffeo Burati trova già nel nome d’arte che si è scelto – Maffeo d’Arcole – la ragione e la natura profonda della sua opera. Arcole, il suo paese natale (e anche di chi scrive), è lo sfondo, l’antefatto da cui tutto è partito: rappresenta le origini e la perenne contraddizione tra il sentirsi fatto per esperienze diverse e il voler portare avanti
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la propria opera proprio lì. Autodidatta, non aveva potuto studiare perché di giorno operaio in fonderia, ma si faceva dare lezioni dal fratello, che invece aveva potuto frequentare l’Accademia Cignaroli, per dare sfogo all’inevitabilità di dipingere e di esprimersi nell’arte che lo accompagna da sempre, fin da bambino quando in classe gli chiedevano di raffigurare ciò che aveva scritto.
Nonostante le molteplici difficoltà, non ultima quella di un contesto culturale spesso avverso, esprimersi nell’arte per Maffeo è una necessità vitale, come respirare. Per anni rappresenta instancabilmente la civiltà contadina a lui vicina e cara in una serie di ritratti, poi idealmente intorno al 2000 questa serie si conclude e subentrano temi più generali, riflessioni e critiche sulla società contemporanea e sui
01. In un dipinto del 2010, l’interpretazione della Chiesa secondo l’artista. 02. Lo studio di Maffeo si trova nel suo paese natale, Arcole, nell’est veronese. 03. La figura rappresentata nel grande dipinto è ‘appesa’ da funi applicate alla tela (2009). 04. Una rappresentazione neo-pop della Cina contemporanea (2013). 05. L’immigrazione entra a far parte dei temi figurativi (2017). 06. L’America di Pinocchio (2013).
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risvolti futuri. Da quel momento si apre un nuovo ciclo in cui le forme espressive diventano molteplici: oltre alla pittura, le installazioni, le grandi sculture di tavole in legno assemblate, le performance, gli spettacoli collettivi, i video, i cortometraggi, i collages di piccolo formato realizzati con ritagli di giornale rielaborati. Quando Maffeo apre le porte del suo studio, si entra in una dimensione speciale, un contesto fuori dal tempo sospeso tra ciò che ci si presenta davanti agli occhi e la consapevolezza di trovarsi
in un piccolo paese dell’est veronese. Un fitto strato di giornali ricopre il pavimento e attutisce i passi, sotto di esso si celano altri lavori che, attraverso la ricerca, hanno portato alla produzione attuale. Tra le grandi tele, formato che gli dà libertà di esprimere la gestualità che gli è propria, Maffeo sembra essere a suo agio come in nessun altro luogo al mondo. Lì si trasforma, e credo sia l’unico luogo in cui è fino in fondo sé stesso e in cui ha la possibilità di trasudare la sua verità nei confronti di tutto ciò che accade vicino e 07-08, 10. Vedute dello studio in cui si stratificano colori, tele e oggetti d’uso. 09. Riflessione sull’atteggiamento infantile dell’uomo (2013). 11. Bufalo africano (2009).
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lontano. Mai banale, appare diretto fin quasi a risultare insolente, così come lo sono le sue opere in cui la cronaca, la politica, il vivere di tutti i giorni trovano espressione senza filtri né tentativi di edulcorare il messaggio, o di far risultare meno cruda la realtà. I temi affrontati riguardano molto spesso la critica al potere, e sono presentati dal punto di vista degli ultimi, evidenziando ciò che stride e le contraddizioni della società contemporanea. Davanti ai suoi quadri ci si sente disarmati, aggrediti talvolta dall’impeto del 12. La serie dei Bisonti, sculture in tavole di legno realizzate nel 2011. 13-14. Particolare delle applicazioni materiche e veduta del dipinto raffigurante un’altra interpretazione della Chiesa di oggi (2013).
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segno, oppressi dall’intensità dei colori, coinvolti dai materiali, mai consolati e indecisi tra chiudere gli occhi e scappare o cercare di capire in profondità, non tanto che cosa volesse dire l’artista, ma la ragione della sensazione che si prova davanti all’opera. E qui nasce un interrogativo di fondo a cui ciascuno è costretto a dare risposta dentro di sé, e cioè se superare la sensazione di smarrimento e proseguire nella riflessione, oppure rinunciare e ricercare una tipologia di espressione artistica più confortante. Maffeo d’Arcole ad un certo punto del suo percorso ha scelto di abbandonare la strada rassicurante della rappresentazione della realtà per lanciarsi nel vuoto, sapendo che non sarebbe stato facile trovare consenso e nemmeno trovare spazi per collocare le sue grandi tele dal forte impatto. Con fatica e ostinazione ha scelto di togliere ogni maschera, di essere sé stesso e di accettarne ogni conseguenza.
maffeo d’arcole Maffeo Burati (Arcole, 1949) ha iniziato a lavorare fin da giovanissimo prima nei campi, poi in fonderia come operaio: esperienze fondamentali per la sua formazione umana, ideologica e spirituale. Negli anni ‘70 si avvicina all’arte come autodidatta. Ha ottenuto ampio risalto sulla stampa nazionale grazie alla monumentale installazione “Popoli in cammino”, esposta a Roma in occasione del Giubileo e poi nelle piazze di numerose città italiane. La sua opera ha attratto l’interesse di varie personalità del mondo artistico e culturale, tra cui il critico Giorgio Segato e l’architetto Mario Botta. www.maffeodarcole.com
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Testo: Michelangelo Pivetta Foto: Lorenzo Linthout
Alla fine della Fiera Sulle valenze architettoniche e urbane del nuovo insediamento per la grande distribuzione sorto lungo l’asse di penetrazione alla città da sud
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Era il 2004 o 2005, anni eroici Ricordi in cui tutto pareva traditi possibile, quando fu inaugurato in gran pompa l’Urban Center di Verona. Un contenitore, che di per sé poteva essere tutto e niente, che aveva però un principio alto: condividere pubblicamente i grandi progetti che Amministrazione e privati immaginavano di realizzare nel breve, nel medio e nel lungo termine, sulla città. Lo spazio, che si trovava in uno stanzone all’Ex Macello, infatti, fu subito chiuso. All’inaugurazione rimasi attratto da un modello puntiglioso in legno, con tanto di erbetta in plastica verde, che rappresentava una proposta per la grande area compresa tra le vie Scuderlando, del Lavoro, dell’Agricoltura e dell’Industria. L’opera del professor Porrino fu approvata come “Piano Particolareggiato di Iniziativa Pubblica dei Comparti A1 ex Magazzini Generali ed A2 ex Mercato Ortofrutticolo” con Delibera Consiglio Comunale n. 13 del 4 maggio 2005, dopo di che se ne persero le tracce. Progetto superato da interessi altri e dalla deprimente attività di un’intera generazione di attori, a vario titolo, sul palco dell’operetta cittadina. Belle mosse quel piano: i blocchi dell’edificato, rarefatti in un esteso verde pubblico, erano posizionati perpendicolarmente a Viale del Lavoro (non a caso parzialmente interrato), a definire un’intuizione, per nulla scontata, di connessione visiva, urbana e ambientale tra due aree storicamente separate, Borgo Roma e Golosine, e utilizzando il comparto della Fiera stessa come cerniera di appoggio; sì, perché al tempo era ancora forte la saggia idea di una Fiera traslocata più
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a sud, oltre il casello della A4. Quella del Porrino era una città moderna, stratificata, di hilberseimeriana memoria, demodé forse, in ritardo ma sempre buona, storicamente assente nel tessuto veronese se non per qualche raro spot. Almeno ci si è provato, e nella perdita di questa occasione abbiamo perso tutti, cittadini, politici, e soprattutto le categorie dei professionisti, sempre assenti quando conta davvero. Poi venne la crisi, e quando di crisi si parla todo vale, anche il cannibalismo pare. La città sembra essersi ritorta in sé stessa in una certa forma di auto-cannibalismo, assecondando una pianificazione al massimo
« Lì dove avrebbe potuto giocarsi la partita straordinaria di una Verona prossima, il prefabbricato inguainato dal mattone produrrà immagine e contenuto solo di sé stesso» ribasso, supina a transitori sponsor, alla ricerca di rapidi utili e di opere di compensazione/perequazione che per una distorsione della realtà divengono utili, solo e forse, a sostenere le nuove opere stesse: l’equilibrio perfetto nell’equazione dell’interesse privato (s)venduto come pubblico. Nel frattempo il conto si presenta sempre più salato, perché pare che il disegno politico delle recenti amministrazioni sia quello di organizzare spazi non per l’Homo Faber o per l’Homo Intelligentis quanto, e solo, per l’Homo Consumens, per dirla come Bauman. O meglio ancora: per l’uo-
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mo della crisi, quello che vorrebbe consumare ma che si realizza anche solo passando davanti ad una vetrina e immaginando di poter consumare come vorrebbe. Qui il discorso si complica, impostandosi sul problema dell’iper-consumo e i relativi iper-luoghi da esso generati, e ci vorrebbe ben più di una mano di pagine per approfondire una questione comunque già in letteratura. Fatto sta che se fino al primo lustro dei Duemila, il fregio di Verona si posava saldo su due colonne – Terziario/Produttivo qualificati e Turismo/Cultura altrettanto qualificati e qualificanti – dopo dieci anni invece ci ritroviamo una città in cui
01-02. Particolare del fronte e veduta complessiva del nuovo insediamento commerciale realizzato in viale dell’Industria angolo viale del Lavoro (progetto e d.l. opere architettoniche ing. Stefano Malagò, M.P.&T. Engineering). 03. Veduta dal basso della galleria di accesso al supermercato.
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04-06. Veduta complessiva e particolari architettonici dei fronti.
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il massimo dell’impegno culturale è stato il concorso “impossibile” per coprire l’Arena, finanziato dal privato a scopo pubblicistico/propagandistico il cui unico indirizzo è stato quello di ovviare al dramma del “se piòve se perde schei”. Questa è la città che cambia, e non sono i suoi abitanti a cambiarla come un tempo, ma è essa stessa a fornire nuovi modelli di vita e di attività attraverso il consumismo globalizzato e l’illusione del risparmio. Del resto la città vera nelle sue due declinazioni, quella dentro le mura ezzeliniane e quella degli avviliti borghi, si illude di poter sopravvivere meglio de-enucleando i propri principi fondamentali. Quindi la prima si droga con le anfetamine dei mercatini natalizi condannandosi invece allo svuotamento di attività e idee vere, la seconda si abbandona a sé stessa perché tanto ormai quel che serve è tra le mura del più vicino centro commerciale. Tutti sottoprodotti di una suggestione collettiva.
Così accade che Roma, Fenomeni Borgo quello del barbieperiferici re, del panettiere, della scuola dietro casa, delle vecchine sulle panchine, delle rivalità tra lati opposti di via Merano, in un anno si è sobbarcato l’onere di accogliere tre insediamenti per la grande distribuzione; tre in un anno. Come sempre accade quando qualcosa avviene nella città, prima partono le ruspe, poi ci si chiede se fosse il caso, ma ovviamente è troppo tardi. Ecco che dove doveva sorgere l’asse elettivo di penetrazione da sud, quel boulevard infrastrutturale tanto elegante quanto efficiente del Porrino e del Gabrielli, invece appare un nuovo bastione contemporaneo con le sue facciate in mattoni faccia a vista, che se da un lato ai veronesi più smaliziati può ricordare con tenerezza un’opera militare sanmicheliana, dall’altro desta qualche perplessità ontologica. Bernardo Caprotti, il divino creato-
re di Esselunga, non mancò mai di chiarire il legame profondo tra l’edificio supermercato, la sua architettura e il messaggio di qualità intrinseca nei contenuti. Da Gio Ponti ai Gardella (padre e figlio) passando per Caccia Dominioni, molti expertise del moderno italiano sono stati infatti suoi autori. Caprotti è mancato nel 2016 e forse questo è stato il problema per Verona. C’è da chiedersi fino a che punto l’idea dell’imprenditore eroico del Viale Regina Margherita a Milano sia stata tradita in Viale del Lavoro a Verona. Vero è che la Milano del ’57, quella dell’epica parabola di Rinascente e del design italiano, non è la Verona del 2016, ma qualche interrogativo, forse, poteva essere sollevato. Stiamo parlando di un edificio che per massa equivale a metà dell’Arena, ma la scala non è la questione, casomai lo è la declinazione del fenomeno rispetto alle relazioni contestuali. Corsico non è Viale del Lavoro e Castellanza non è Borgo Roma, ma
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questo pare non essere stato un problema per il progetto. Anzi, in ossequio al brand gardellesco, buono forse per le periferie della Città da Bere, l’area è stata trattata come un Nulla di Ende nella estrema lottizzazione di un –ate lombardo qualsiasi. Ne prendiamo atto, consci del resto di non aver fornito suggestioni o input di particolare qualità, e per questo qualcuno forse ha già pagato. Ma teniamolo ben presente: impiantato il bastione contemporaneo, sarà ora esso a determinare ogni dinamica futura sull’area, senza alcuna possibile alternativa. I giochi sono fatti, lì dove avrebbe potuto giocarsi la partita straordinaria di una Verona prossima, il prefabbricato inguainato dal mattone, con tanto di orgogliosa declinazione localistica del logo di Max Huber, produrrà immagine e contenuto solo di sé stesso. Avrebbe potuto essere interessante riesumare tentativi importanti di ormai quarant’anni fa, ad esempio dei SITE (Sculpture in the Environment, già il nome è programma preciso) di James Wines con i progetti per gli stores della catena BEST negli USA. Visto che importiamo questa cultura potremmo provare a importarla bene. In quella serie di progetti, nipoti di una corrente post-radical traslata oltre oceano, ogni manufatto, dal Wisconsin al Texas, determina attraverso il proprio codice linguistico una relazione profonda ed univoca con il sito, traslando l’immagine del brand non attraverso la figurazione costante di stilemi, ma attraverso un atteggiamento grammaticale improntato sulla singolarità dell’evento. Condizione questa in grado di convergere su tali oggetti paradigmatici tutte le tensioni e di sfruttarli promuovendo identi-
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tà e nuove possibilità dialettiche. Fenomeni che fanno la storia dei luoghi, non che la annichiliscono. La resistenza a questa visione delle cose, propria di una certa scuola italiana non è sempre stata in grado di relazionarsi con il suo tempo. All’interno e sul bordo di questa condizione solo alcuni sono stati capaci di sintonizzarsi sulla giusta frequenza. Tra tutti l’Aldo Rossi delle Torri di Parma, ad esempio, in grado di sovrastare il lessico usuale con un’opera efficace, in cui la massa funzionale viene contrastata con l’innesto di oggetti araldici, le torri appunto, che nel tempo sono divenuti veri landmark a connotazione identitaria non solo del progetto ma dell’area stessa. Quelle pareti dell’Esselunga veronese, nonostante i tentativi di lesene e marcapiani, sembrano lontane dall’acquisire questo atteggiamento, sia architettonico che urbano, dimostrandosi alla fine, e un po’ ferocemente, come l’ennesima imposizione demiurgica dell’archi-business sul territorio della città. Non resta che l’attesa che a qualcuno venga in mente di re-impiantare alberi dove già c’erano, e che questi come edera wrightiana, vadano a mitigare non tanto l’edificio ma almeno parcheggio e tettoie per carrelli su quel Viale del Lavoro che, già molestato negli anni, di questo proprio non aveva bisogno.
Borgo Roma misura all’incirca 1.2 km per 1.9 km circa, quindi 2.28 kmq. Adigeo dista da Bricoman 880 m e da Esselunga 820 m; un centro commerciale/su-
Considerazioni a margine
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permercato/megastore ogni 0,76 km quadrati, uno ogni 600 m in media. Questo senza enumerare i già esistenti, il centro commerciale Galassia/ Verona Uno appena oltre il limite, il previsto centro commerciale in Basso Acquar a 1.5 km da Esselunga, l’altrettanto previsto Iper Tosano a Forte Tomba a 1.2 km da Adigeo e l’erigendo Eataly a 350 m da Esselunga. Serve altro? Avviso ai naviganti, capitani di ieri e soprattutto di oggi: non sarà certo qualche rotatoria o qualche albero impiantato a caso a salvarci da tutto ciò; la maschera delle opere
compensative ormai è calata. Serve innanzitutto e quanto prima un piano che partendo da Verona Sud sia in grado di ricomporre solidamente lo sviluppo di tutta la sua cintura periferica che, ricordiamolo, è città quanto se non ormai più di quella storica. Ma ora, alla fine della Fiera, appunto, una domanda, rivolta a noi come categoria intellettuale e a tutti quelli a cui può ancora interessare qualcosa: mentre ciò accadeva, tra uffici pubblici, Ordini Professionali, stanze dei bottoni, riunioni e cene, noi dove eravamo? Ma soprattutto dove saremo?
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STEEL FRAME HOUSE CANTIERI
Una casa in un piccolo centro della provincia e l’innovazione del sistema edilizio tra aspettative e contraddizioni
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Testo: Alessio Fasoli
C’è nebbia e piove mentre ci inoltriamo nel cuore della provincia veronese, a Oppeano, per raccontare la vicenda di un progetto molto semplice e apparentemente ordinario: una residenza all’interno del piccolo centro, realizzata a partire dalla demolizione di un corpo di fabbrica esistente. In procinto di incontrare i protagonisti di questa storia, la radio cinguetta “Tu vuò fa’ l’americano”, celebre pezzo del 1956 di Renato Carosone: una canzone che racchiude il desiderio di un popolo di lasciarsi alle spalle la devastazione della guerra e l’aspirazione verso un nuovo modello di vita, quello americano, mantenendo però alcuni aspetti pittoreschi della propria origine. Un caso? Finalmente ci incontriamo con i cinque giovani architetti riuniti nel gruppo di lavoro chiamato Forward Architects, che si sono trovati in questa occasione a sperimentare una tipologia costruttiva che trova le sue radici nella cultura architettonica americana, e che viene utilizzata in questa occasione per dei precisi obiettivi da raggiungere: tempi ridotti, controllo dei costi della manodopera, riduzione dei
margini di errore congeniti al sistema costruttivo apre la zona giorno con il giardino di pertinenza, tradizionale, sia per carenze negli esecutivi che per al livello superiore la zona notte. La scala è l’eleconsuetudini vecchie a morire. I progettisti, rac- mento architettonico sul quale si può concentrare conta l’architetto Andrea Giuriato, si trovano così la ricerca progettuale: posta al centro dello spazio, coinvolti nella progettazione con delle scelte tecni- diventa un condotto di luce per illuminare dall’alto che già decretate in precedenza dalla committenza la zona giorno. in accordo con l’impresa edile. L’intento è quello di Ma al di là degli aspetti distributivi, come affrontare il rapporto con la città consolidata, con si è detto questo immobile ha voluto rappresentare la convinzione che il continuo divenire e la mesco- un progetto pilota per sperimentare il sistema colanza di stili con il tempo definiscono il carattere di struttivo denominato Steel Frame o anche Metal una precisa epoca storiFraming. ca. L’inserimento di un Al di sopra di una platea « Il sistema Steel Frame nuovo fabbricato deve di fondazione in cemenessere rispettoso del to armato, l’ossatura è di fatto molto simile a quello contesto, ma allo stesso portante è realizzata da impiegato dai “gessini” per tempo capace di racconprofili di acciaio zincail montaggio delle tramezze tare qualcosa di nuovo to, pre-piegati a freddo in cartongesso, solo con un lessico più adatper ottenere gli elemendi scala più complessa » to ai tempi. L’ingombro ti da assemblare in canin pianta dell’edificio e i profili sono i limiti entro i quali si sviluppa il nuovo edificio; al piano terra, oltre al garage, si
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01. Dal balcone del primo piano si coglie la densità del contesto urbano. 02-03. Vedute del cantiere con gli elementi metallici delle strutture in fase di assemblaggio. 04. Planivolumetrico con pianta delle coperture del nuovo edificio.
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SICUREZZA arch. Mario Molisani cell. 3408200688
CANTIERI
COLLABORATORI arch. Michele Mari arch. Michele Cicala arch. Riccardo Bini COMMITTENTE Mauro Martongelli
Opera protetta ai sensi della Legge 22-04-1941 n. 633 Tutti i diritti riservati - Le riproduzioni e utilizzazioni non autorizzate sarann
D.L. arch. Andrea Giuriato cell. 3481327132
TAV. 6 PROSPETTI
PROSPETTO OVEST scala 1:50
fotovoltaico integrato
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PROSPETTO EST scala 1:50
05-06. Prospetto e veduta del fronte di accesso. 07. La scala al primo piano pensata come un condotto di luce naturale. 08. Particolare del fronte con il balcone delle camere. 09. Pareti e tramezze in fase di costruzione. 10. Dettaglio costruttivo con la stratificazione dei materiali delle pareti. 11. L’attacco a terra della scala in corrispondenza della zona cottura.
H/L = 420 / 800 (0.34m²)
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tiere con angolari su misura uniti con bulloni, viti o rivetti sempre in acciaio. La particolare conformazione dei profili in acciaio, inoltre, facilita il passaggio delle tubature per l’istallazione degli impianti. Il sistema è utilizzato sia per le strutture portanti verticali che per quelle orizzontali (solai e copertura). Il tutto viene poi completato con pannellature stratificate in diversi materiali, a completamento
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dei tamponamenti esterni e delle partizioni interne. Il sistema è di fatto molto simile a quello impiegato dai “gessini” per il montaggio delle tramezze in cartongesso, solo di scala più complessa. I vantaggi risiedono anche nella possibilità di realizzare luci strutturali di dimensione maggiore, rendendo pertanto più flessibile l’articolazione planimetrica; inoltre la struttura metallica rispetto alla
muratura può essere riciclata a ciclo di vita dell’edificio terminato. Per il pacchetto murario, lo strato isolante esterno è costituito da EPS per la parte fuori terra e da XPS per quella contro terra, opportunamente protetta. Verso l’interno il pacchetto si arricchisce di pannellatura in OSB, che rappresenta la parte rigida e massiva del tamponamento, per poi proseguire con 15 cm di lana minerale, OSB e a conclusione doppia lastra di cartongesso. Il dialogo con i progettisti si fa molto interessante quando, a sperimentazione compiuta, iniziano a confessare la loro perplessità su questa tecnica costruttiva che fonda la propria ragione d’essere sull’abbattimento dei tempi e sul controllo del costo di costruzione. Tali obbiettivi si raggiungono esclusivamente con una progettazione integrata fra progetto architettonico, strutturale e impiantistico. Diventa inoltre d’obbligo cominciare il cantiere con un rilievo molto preciso, poiché, la tolleranza per questo tipo di struttura è quella tipica della carpenteria metallica, millimetrica. Bisogna aggiungere un altro aspetto considerevole sulla valutazione di una tecnica edilizia che riguarda il “classico metodo” delle varianti in corso d’opera, che diventano assai complesse nel momento in cui la costruzione ha degli elementi “meccanici” predefiniti. Per un organismo complesso come un fabbricato costruito in un centro storico, dove il
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Committente Privato Progetto architettonico forward architect arch. Andrea Giuriato (direz. lavori) arch. Mario Molisani (sicurezza) collaboratori: arch. Michele Mari arch. Michele Cicala +6,54 +6,23 arch. Riccardo Bini
velux e imbotte sfoghi cucina
gronda quadrata 15 cm vela fronte sud
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Impresa Innokasa
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Cronologia +2,63 Progetto e+2,28 Realizzazione: 2015-2016 quota marciapiede finito in pietra o similare
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problema del fuori squadra è all’ordine del giorno, lavorare con un sistema costruttivo che mal si concilia con il concetto di adattabilità si è rivelato un problema molto difficile da gestire. Probabilmente una tecnica costruttiva del genere, affermano ancora gli architetti Giuriato e Molisani, è più adatta alla costruzione di edifici in contesti di nuova urbanizzazione. Introdurre delle varianti per motivi volontari o involontari si rivela dunque molto difficile da gestire, riducendo quello che dovrebbe essere il vantaggio principale di questo sistema edilizio, quello relativo alle tempistiche. La perplessità dei progettisti prosegue inoltre sulla scarsa inerzia del sistema-edificio, trattandosi di materiali poco massivi e deperibili. L’aspetto più critico, inoltre, è quello rappresentato dal mancato senso di durabilità, tanto ricercato dai progettisti nell’espletamento della loro professione; si confessano preoccupati per l’idea che l’impiego di questi materiali possa conferire all’abitazione una “apparenza” poco solido e
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Guaina bituminosa
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quota marciapiede di bordo edificio -0,10
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durevole, poco adatta probabilmente alla commitDETTAGLIO VERTICALE scala 1:20 tenza media italiana. Nonostante tutto, però, l’esito del percorso progettuale e costruttivo è riuscito a conferire una precisa identità alla casa, con piena soddisfazione sotto l’aspetto della qualità della vita percepita da parte della committenza. Ritorna così in alla mente il Carosone sentito alla radio: “Tu vuò fa l’ americano! siente a me, chi t’ho fa fa? tu vuoi vivere alla moda ma se bevi whisky and soda po’ te sente ‘e disturbà”. Ce la potrebbero cantare i progettisti di questo esempio per riassumere il loro senso critico, oggi meno convinti che ieri nella lode incondizionata di tecniche costruttive spesso millantate dal mercato o da mode lontane dalla nostra tradizione, convinti invece che l’innovazione vada perseguita nella riscoperta della tradizione e nella conoscenza dell’esperienza manuale dei vecchi maestri di cantiere.
SEZIONE B-B' scala 1:50
H/L = 420 / 594 (0.25m²)
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Fabrizio Rossini a Verona 94
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Testo: Leopoldo Tinazzi
È in una tarda mattina dei primi giorni dell’anno che imbocchiamo a piedi via Caprera. Il sole, il vento leggero e una temperatura stranamente primaverile sono le condizioni ideali per apprezzare le architetture Liberty della via, dove, in un palazzetto, al piano rialzato, ha sede l’attività professionale dell’architetto Fabrizio Rossini. Lo studio è un bell’intervento di fine anni ‘80, non influenzato troppo dai canoni in voga a quei tempi ma impostato su una sobrietà di colori e materiali che lo rendono tuttora un ambiente piacevole. Ed è qui, che, al di là della sua scrivania, illuminata dalla piena luce di una finestra perpendicolare al piano di lavoro, Rossini (classe 1944) inizia il racconto della sua vita di architetto. Erano i primi anni ‘60 quando, dopo gli studi al
Liceo Classico “Alle Stimate” di Verona, scelse lo IUAV. Evocativo è ascoltare il ricordo dei corsi allora tenuti, tra gli altri, da Aymonino, Gardella e Scarpa. Nella prospettiva di chi ha frequentato l’università durante la seconda metà del decennio scorso, il contatto diretto con i protagonisti dei libri di storia ha un fascino mitologico. Bello ripensare a come il corso con Carlo Aymonino gli fece scoprire il significato di tipologia, all’interno di uno studio sulle trasformazioni morfologiche legate alle mura di Padova. Difficile da dimenticare anche la scuola media, tema allora molto attuale a seguito della recente riforma, progettata per Ignazio Gardella: un volume piramidale impostato sulla successione in altezza delle attività scolastiche, suddivise al piano terra nelle classi per le lezioni frontali, raggruppate poi a livello intermedio nei laboratori e unificate nel grande spazio comune dell’aula magna
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01. Fabrizio Rossini nel suo studio e, in basso, restauro della facciata di Santa Maria in Organo, Verona (2009-16). 02. La mostra di Consagra a Castelvecchio nell’ambito della fiera Marmo Macchine di Sant’Ambrogio (1977). 03-04. Asilo a Torri del Benaco (1974): veduta interna e sezioni. 05. Scuola media di Raldon (1970). 02
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al livello superiore. Legato più all’approccio che al progetto in sé il ricordo di Scarpa: sfortunato fu quel gruppo di compagni di corso che si presentò con un design “scarpiano”, con tanto di scanalature decorative. Il Maestro si alzò dal tavolo arrabbiato, dicendo che l’imitazione dello stile era un’idiozia e che gli studenti dovevano portare qualcosa di loro, come, più coraggiosamente, riuscirono a fare Rossini e il suo gruppo. Il ricordo dello IUAV è comunque disincantato, soprattutto se rivalutato alla luce della visita all’Università di Porto e agli edifici di Alvaro Siza, anni dopo, a metà anni 90: “in ogni aula almeno due-tre plastici per tavolo”, questo è stato il rilievo impressionato di un ex studente. La concretezza dell’unità progettocostruzione contrapposta alla speculazione teorica dell’università italiana di fine anni ‘60.
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Gli studi universitari si concludono nel 1970, con una tesi di ricerca urbana sotto la guida di Giovanni Astengo sulle modificazioni del territorio veronese negli anni ‘50-60. Il tema riguardava i problemi legati all’intervento del capitale sul territorio, con approfondimenti sulla nascita delle zone industriali, l’insufficienza di alloggi popolari e una quasi contemporanea valutazione sul piano INA-Casa. Come ricorda Rossini, la sua laurea avvenne negli anni di passaggio tra la vecchia e la nuova università, in un clima che sicuramente influenzò anche la redazione della sua tesi, proposta insieme ad un gruppo di altri studenti veronesi. Già negli anni precedenti la laurea Rossini faceva parte dello studio LR&P-Laboratorio Ricerche e Progettazioni (fino al 1975), composto da
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suoi coetanei, un esperimento innovativo la cui offerta spaziava dal design della comunicazione all’architettura. Durante questa esperienza partecipò da protagonista alla nascita dell’allora “Mostra Internazionale Marmo Macchine” di Sant’Ambrogio di Valpolicella. Ricorda che dal maggio ‘70 iniziò ad essere chiamato dai colleghi “il Segretario”, svolgendo per la nascente fiera quello che oggi sarebbe il compito di un project manager. L’esperienza della fiera durò fino al 1982, quando poi venne trasferita a Verona. Nel frattempo l’attività professionale aveva trovato una propria strada parallela nella collaborazione con l’architetto Roberto Pasini, insieme al quale realizzò i primi progetti a partire dal 1970. Appartamenti, case e lottizzazioni, con due progetti più importanti: la Scuola Media di Raldon (1970) e, soprattutto, l’Asilo di Torri del Benaco (1975). Di quest’ultimo è sorprendente rilevare la concezione molto integrata al luogo. Due volumi principali sono disposti consequenzialmente a risalire il declivio di un campo di olivi; in mezzo, un patio con le zone comuni e un giardino sopraelevato per il gioco dei bambini. È del 1980 il trasferimento dello studio in via Duomo con il collega Pasini, dal quale la strada si divide (pur rimanendo in rapporti di frequentazione) nel 1982 e il conseguente trasloco in via San Giusto. In questo periodo lo studio vede arrivare i frutti delle collaborazioni con imprese e aziende, oltre che con altri studi professionali. Come nel caso della progettazione degli interni e della struttura di ingresso dell’azienda Veronesi, a Quinto di
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06. Edifici per la Cooperativa Il Leon, Avesa (1982). 07-08. Disegni assonometrici per l’edificio Tre Strade a Parona (1985) e per la Cooperativa Avesa 82, Avesa (1982). 09. Case in cooperativa a Novaglie (1982). 10-11. Residenza per studenti in via Belzoni a Padova (1992) per l’Ente Collegio Don Mazza.
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Valpantena (in collaborazione con Contec). E, sempre con lo stesso gruppo, la ristrutturazione di una casa Liberty in via Aspromonte. Molto interessante è la partecipazione al progetto Artigiani Nord-Ovest della II Circoscrizione, in cui sono state gettate le basi di quella che è poi diventata la legge regionale per la sistemazione delle attività fuori zona. Con questi studi, si potrebbe dire di microchirurgia urbana, si delinearono le possibilità di espansione e utilizzo del suolo delle piccole attività artigianalicommerciali della zona (come ad esempio quelle sulla strada per Parona). Degli anni ‘80 sono anche i progetti delle tre cooperative Novaglie, Avesa 82 e Il Leon. Architetture sobrie e funzionali, emanazione diretta della tipologia abitativa degli interni, placidamente immerse nel contesto di vigne e olivi. Nonostante la semplicità del programma di progetto, non manca il gusto per la volumetria che ne caratterizza la serializzazione. Da queste forme emerge chiara l’impostazione di voler sempre costruire un pezzo di città, più che un singolo edificio. Impostazione che avranno anche i progetti più importanti degli anni novanta e duemila, come i due lavori a Padova per l’Ente Collegio Don Mazza: la residenza universitaria di via Belzoni (88-92) e di via Canal (01-05). Del primo è
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12-14. Mensa dei poveri e Presepio del Barana (94-95) e, nello stesso complesso, recupero dell’ex seminario a residenza per anziani. 15. Planimetria del complesso del Barana con, in alto, la pianta dell’asilo nido non realizzato.
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rilevante la compostezza formale con cui sono stati ricuciti due corpi di epoche e tipologie differenti, inclusi nel disegno complessivo di un nuovo interno urbano. Della residenza di via Canal, anche questo un intervento su esistente (anni 30), emergono i due volumi dei nuovi alloggi, caratterizzati dalla copertura a falda diagonale e dalle vetrate angolari dei corpi scala. Ma sono forse i percorsi e gli ambienti connettivi che interessano di più Rossini, in questo progetto così come nell’edificio per residenza e negozi “Tre Strade” a Parona (93-95). Qui “un setto di cerchio, sviluppato in altezza con un taglio digradante, si pone come baluardo al traffico, per proteggere dietro a sé la piccola piazza su cui affacciano gli ingressi dei due negozi e l’entrata condominiale”. Un’attenzione alle piccole variazioni geometriche, come segni dell’intenzione progettuale, si riscontra anche nel piccolo progetto di Mensa dei poveri e Presepio del Barana (94-95), in via Fincato a Verona. Qui, una semplice serie di gesti delinea alcuni aspetti simbolici del progetto. Il leggero arretramento rispetto al filo della facciata
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16-17. Restauro di palazzo Candiani-Fagiuoli (2002-2007): lo scalone e il pronte su strada. 18-19. Restauro della Sinagoga di Verona (2000-03): vedute interne.
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dell’edificio principale, il taglio in diagonale del abbinato comunque sempre alla riprogettazione volume del presepe e la sua copertura a vela sono funzionale. Come nei casi del restauro della i segni di un racconto architettonico coerente con Sinagoga di Verona (2000-03), di palazzo il contesto e il contenuto. All’interno dello stesso Candiani-Fagiuoli (2002-07) e della Chiesa di complesso, a riprova della felice collaborazione Santa Maria in Organo (2009-16). Il progetto con i frati, Rossini ha successivamente completato per la Sinagoga ha riguardato il restauro anche il recupero dell’ex seminario, convertito a delle parti monumentali, degli interni e la residenza per anziani rifunzionalizzazione non autosufficienti, e degli ambienti collegati, « Esperienze diverse per progettato un asilo nido nei quali sono stati committenze e ancora di più per 40 bambini (non riutilizzati materiali e per tipologie gli hanno portato realizzato). All’inizio finiture in accordo con le l’incarico di restaurare il gioiello preesistenze. Lo stesso degli anni duemila, la collaborazione con gli discorso di “intervento architettonico e artistico di istituti religiosi si fa Santa Maria in Organo a Verona » che riscopre e aggiorna”, sempre più frequente, inquadrato in un modo di portando lo studio di procedere che considera Rossini a confrontarsi anche con il tema della il “disegno come traduzione elegante-evoluzione, liturgia nell’ambiente di clausura del nuovo e non riproposizione meccanica, delle esigenze presbiterio della Chiesa delle Suore Clarisse di San funzionali” vale per il palazzo Candiani-Fagiuoli, Fidenzio, Verona. in cui a una riassegnazione d’uso dei piani si I lavori maggiori, in questo decennio, si fondono affianca una riscoperta di gustosi particolari, come anche con il tema del restauro conservativo, la storia dell’intera spina muraria dell’edificio, resa
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visibile dalla superficie vetrata dell’ascensore. Queste sono, in grande sintesi, le esperienze dello studio Rossini. Esperienze diverse per committenze e ancora di più per tipologie, che gli hanno portato l’incarico di restaurare il gioiello architettonico e artistico di Santa Maria in Organo a Verona. L’intervento ha riguardato tutti gli esterni della chiesa, alcune parti strutturali (tra le altre la copertura a capriate nascosta sopra la volta della navata, il consolidamento del tiburio) e la riorganizzazione funzionale di alcuni ambienti, con annesse demolizioni importanti, come nello spazio della Sacristia Nova, dove si è riportata la luce sull’ambiente di connessione tra la chiesa e il chiostro, attraverso la progettazione ex novo di una copertura in ferro e vetro. È molto avvincente sentire l’architetto parlare delle scoperte avvenute durante le varie fasi di restauro. Come, ad esempio, scoprire che i monaci Olivetani che rinnovarono ed ampliarono la chiesa nel XV secolo, sezionarono i muri di imposta della volta della navata centrale per alzarla e sostituirne le colonne, con invenzioni costruttive del tutto non convenzionali. Ed è proprio per il valore didattico di queste imprese che l’ultimo obbiettivo del recente restauro, secondo proposta dell’architetto Rossini, dovrebbe essere la creazione di un
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percorso museale all’interno della storia costruttiva di questo incredibile complesso di architettura sacra. Da segnalare infine, tra gli ultimi progetti dello studio, la proposta per il risanamento e la riattivazione funzionale della torretta lungo le mura austriache di Porta San Giorgio. Un progetto “leggero”, che con un’accorta economia di mezzi, potrebbe portare alla rinascita uno dei più bei lungadige della città.
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20-22. Santa Maria in Organo, Verona: veduta della facciata, progetto di restauro conservativo delle pitture parietali della sagrestia e veduta dell’ambiente di connessione tra la chiesa e il chiostro. 23. Proposta per la torretta lungo le mura a Porta San Giorgio, Verona (2016).
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UN FILO TIRA L’ALTRO {DiverseArchitetture}
Una passeggiata fra atelier e negozi di moda, seguendo il filo rosso dell’artigianato e del fatto a mano con cura
Testo: Luisella Zeri Foto: Lorenzo Linthout
Nome nevelo kids Luogo via xx settembre 134 a Verona Attività Brand di abbigliamento handmade Contatto www.nevelokids.com
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Se nell’immaginario comune l’architetto è
In questa atmosfera d’altri tempi, una
po’ strano, perso in chissà quale realtà
e costruzioni non ha potuto che sentire
quel tizio eccentrico, a volte vestito un parallela a progettare case fatte di
nuvola, ci sentiamo davvero la coscienza pulita quando il mondo ostile e beffardo
ci rappresenta in codesto modo? Proviamo
a dircelo qui, nell’intimità della nostra
rivista: a chi non capita di andarsene in giro con gli occhi se non in cielo, piuttosto ben
inchiodati a terra, ipnotizzati da un qualche motivo geometrico su una pavimentazione o
su una muratura? Non ce la facciamo proprio a trattenerci, basta una attimo e siamo
con il naso incollato alla ricerca di una texture, una trama, un rilievo... Oppure quando predichiamo di tessuti urbani da
ricucire, del rammendo dei quartieri, di
bambina già appassionata di penne, matite una forte vocazione per l’immaginare e il
voler vedere le proprie idee concretizzate in qualcosa di tangibile. L’anno al DAMS con i corsi ad indirizzo scenografia non
dà soddisfazione a Fabia; l’illuminazione
arriva con l’iscrizione all’Istituto Palladio, studiando e poi diplomandosi come Interior
Designer. Subito dopo c’è il lavoro in un ufficio tecnico, con le difficoltà che ben conosciamo: la vocazione prestata ad ambiti non proprio
confacenti le aspirazioni, un inquadramento
lavorativo a volte ai limiti della legalità, la maternità che entra in conflitto con la realtà professionale.
orli e bordi, di isolanti in canapa o in lana (di roccia). E poi ancora il paesaggio, che a guardarlo dall’alto assomiglia proprio alla coperta patchwork della nonna. Insomma, è un attimo e non ce ne accorgiamo nemmeno che, facendo nostre le terminologie e il glossario tecnico, ci identifichiamo in novelli tessitori e improbabili sarti.
Ecco che le diversearchitetture di questo
numero si inseriscono in un microcosmo di artigianalità, tessuti e filati: proprio a
partire da un vocabolario comune, dove il
termine principe, cioè “costruire”, mai come
oggi si muove all’interno di confini per niente prestabiliti. Le due vicende che raccontiamo di seguito rientrano in questa trama (di nuovo!).
Fabia Leoni Piccolboni affonda le proprie
radici professionali nei ricordi di famiglia: innanzitutto nell’eredità della nonna sarta, che fin da quando la nipote era piccolissima
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01. Il laboratorio Nevelo kids. 02-03. Gli interni del laboratorio evidenziano l’attenzione per il recupero e riutilizzo di arredi e forniture. 04. Il piccolo bagno a servizio del laboratorio all’occorrenza si trasforma in camerino per la prova degli abiti.
ha sempre cercato con piglio generalesco
di trasmetterle una passione. Il lascito, costituito da una scatola di bottoni e da
un armadio di ritagli di stoffe e tessuti, è
all’origine di un istinto compulsivo, al quale si è aggiunto poi il disegno, eredità della
zia figurinista per la Maison Valentino, che le ha trasmesso il fascino dell’illustrare.
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{DiverseArchitetture} Nel frattempo, però, Fabia continua a
progettare spazi per amici e conoscenti,
ovvero quella nicchia di clienti che ci si può scegliere, sapendo che il proprio amore per la professione verrà ben custodito. Nascono così piccoli interventi disegnati in punta
di matita, soluzioni abitative o commerciali curate e personalizzate su misura. Il
mondo dei bambini è sempre fonte di grande soddisfazioni: nascono camerette, mobili
e complementi d’arredo, fino ad arrivare al
lavoro più iconico, il negozio Kiddy Kabane in via Scudo di Francia, dedicato proprio a forniture per l’infanzia.
Il ritorno al mondo della sartoria avviene
quasi per caso. è infatti un abito creato
per la figlia Ginevra e pubblicato sui social network, che dà origine a una catena di
richieste praticamente istantanea: nasce così il brand Nevelo Kids. Gli abiti dei
bimbi piacciono anche alle mamme, che trovano divertente l’idea di indossare un capo che faccia pendant con quello della prole. La
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linea di abbigliamento per
bambini si sviluppa conquistando gli armadi delle mamme e fa
definitivamente breccia nel cuore delle donne, siano esse figlio-
munite o meno. L’attività, nata
quasi per caso su Internet, ora
ha il suo strumento di diffusione principale sui social network
(in particolar modo Instagram), veicolo del marchio e delle
ispirazioni che lo alimentano; anche l’esperienza di acquisto
avviene esclusivamente online. Questa modalità è un accento
moderno e contemporaneo, quasi
obbligato per lo stile di Nevelo, adatto a una
clientela di nicchia. Nonostante questo, però, l’atmosfera che trapela nell’atelier digitale non è altro che quella del suo motto Love
handmade, amore per il fatto a mano. Accedere
ai profili social è come entrare in una piccola boutique del Marais parigino, dove invece
che mensole e ripiani troviamo una studiata
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cronologia di immagini in cui sono distribuiti con nonchalance vasi, specchi, quadri, fiori secchi dalle tinte polverose e libri di
moda e architettura. E poi, ovviamente, gli
abiti. Come nascono i modelli, neanche Fabia lo sa spiegare bene: quel che è certo è la
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05. Fabia Leoni Piccolboni al tavolo di lavoro. 06-07. Gli interni progettati da Fabia: il negozio Kiddy Kabane in via Scudo di Francia.
predilezione per la geometria di quadri e
pois e la preferenza per le tinte unite senza
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08. La vetrina di Fil Good su via Amatore Sciesa. 09. La filiera corta anzi cortissima di FilGood: punto vendita e laboratorio sono separati da un corridoio.
tempo, il tutto sovrapposto o a contrasto.
coinquilini-familiari –, e l’esigenza quindi
capolino i modelli asciutti e dalle linee
L’attenzione è ricaduta sulla bottega di un
In quelle trame e in quelle fantasie fanno pulite, con volant, arricciature e colletti
vezzosi dosati con metodo, come se il progetto di un abito fosse racchiuso ancor prima nella stoffa che nella linea. Insomma è un po’ come
tornare ai tempi della nonna sarta e della zia figurinista: c’è qualcosa di rétro nell’aria, anzi d’antico.
Il viaggio di Fabia, iniziato con lo
studio degli spazi di un negozio, diventato
poi ricerca tessile e delle proprie origini, si è gettato nello spazio virtuale con la
nascita e lo sviluppo del brand e, da una anno a questa parte, è riemerso come ulteriore
tappa nel laboratorio di Via XX Settembre,
nel cuore della Veronetta delle nuove attività artigiane. Come tutte le avventure nate per
caso all’interno della propria abitazione, si
arriva ad un punto in cui la faccenda comincia ad assumere dimensioni scomode – se non per l’ispirato proprietario quanto per i suoi
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è quella di uno spazio di lavoro adeguato. calzolaio in pensione, il che ha permesso a Fabia di rispolverare la formazione da
designer d’interni. Lo spazio creativo di Nevelo Kids - non è luogo di produzione,
ancora realizzata presso la casa privata di
Nome fil good
un’amica – è stato progettato pezzo per pezzo, facendo diventare reale lo spazio online, con
elementi di recupero o comunque a basso costo nobilitati: i muri scrostati, il casellario
postale riadattato a cassettiera, scaffalature e contenitori, sedie e sgabelli. Spilli,
bottoni e attrezzi del mestiere sono tutti accolti in vecchi contenitori di lamiera,
quasi un ritorno dell’eredità della nonna. Il bagno è poi una chicca, via di mezzo tra un boudoir e una piccola scatola dei tesori.
Nevelo Kids è una riscoperta delle proprie origini: se la nonna generalessa vedesse
Luogo via amatore sciesa 3 c Verona Attività concept store di moda sostenibile Contatto www.filufilu.com www.filotimo.it
Fabia oggi, probabilmente le rifilerebbe due
scapaccioni e le rinfaccerebbe un bel “io te
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{DiverseArchitetture} 10-12. Gli abiti e le borse di Gloria e Laura acquistabili presso il punto vendita.
l’avevo detto!”. L’altra storia da dipanare
scegliere un abito, ascoltate la nostra
sostenibile che lavora per affermare la propria
vi circonda. I prodotti non sono semplici
è quella di Fil Good, una realtà di moda
ricerca in controtendenza rispetto ai grandi
marchi dello shopping che sorgono qualche via più in là. Fil Good non vuole declinarsi come
un semplice negozio, ma affianca all’attività di creazione e vendita un luogo dove veicolare idee e far incontrare le persone, dove il
concetto, appunto, viene prima del prodotto. Gloria, ideatrice del brand Filotimo,
incontra Laura, mente e cuore di Filufilu, quasi per caso grazie alla figlia di
quest’ultima, che durante una cena decreterà
profeticamente: “i vostri prodotti sono fatti per stare insieme!”. Da sempre le creazioni dei due marchi hanno viaggiato su binari
paralleli, Gloria con gli abiti, Laura con
borse in pelle e accessori. Partite entrambe confezionando nelle proprie case capi da
vendere nei mercatini, sono poi sbarcate
online per raggiungere un pubblico più ampio. L’incontro definitivo è avvenuto constatando
che, se i loro prodotti e i loro stessi marchi attingevano alle medesime radici, non poteva che essere il presupposto per coltivare un terreno di sviluppo comune.
Il negozio di via Sciesa è uno spazio che si
propone prima di tutto come un salotto. Il grande divano color giallo senape
all’ingresso è un suggerimento: prima di
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storia, vi aiuterà a capire meglio quello che camicette, abiti, borse e pantaloni, ma
veri e propri veicoli di una proposta di
moda etica e sostenibile. In questo senso il maggiore apporto è stato da parte di Gloria,
che durante gli studi in Design della Moda ha
sviluppato le basi di questo approccio. Laura dal canto suo, autodidatta nel mondo della pelletteria, è stata ben felice di sposare la causa. Il concetto di moda interroga
ciascuno rispetto al tema dell’acquistare: è inevitabile davanti ai prezzi stracciati
delle grandi catene della fast fashion pensare che sì, possiamo permetterci di comprare
ancora qualcos’altro, perché “tanto costa
poco”. Il problema è che poi ci troviamo con armadi strapieni di abiti che non abbiamo nemmeno il tempo di indossare, perché la stagione è già finita oppure perché sono espressione di una moda passeggera. In
questo senso i piccoli marchi come Filotimo e Filufilu vogliono proporsi come alternativa, perché il vero problema è il meccanismo
malato che all’origine genera quei prezzi
vergognosi. Le motivazioni sono presto dette: materiali sintetici e di bassissima qualità, poca cura nelle rifiniture, massificazione di taglie e modelli, ma innanzitutto
una manodopera pagata talmente poco da
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(Elena Caricasole), collaboratori e amici artigiani che hanno offerto materiali e
competenze. Il negozio stesso, quindi, è un
manifesto del riuso, dell’autoproduzione, del riciclo e del contenimento del consumo di
materie prime. Queste scelte sono evidenti
negli arredi, con gli espositori in legno e
reti da cantiere dipinte, e nell’illuminazione con alcuni paralumi ricavati da vecchie luminare di Piazza Bra rinvenute da un
rigattiere. Ma anche i complementi d’arredo
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rasentare lo sfruttamento. E non è vero che
dal punto vendita il cliente può essere certo
lavoratori, principalmente donne e bambini,
ben disegnato e tagliato, anche una qualità
lo stipendio bassissimo percepito da questi
è proporzionato al costo della vita nei loro
paesi, anzi spesso dietro a queste pratiche si cela un ritorno a regimi di semi-schiavitù, oltre alla distruzione delle risorse e a un inquinamento portato all’esagerazione.
La moda sostenibile rispetto a questi
temi propone un ciclo di buone pratiche – non
uguali per tutti i marchi – per fare sì che il cliente acquisisca una nuova consapevolezza: la ricerca di materiali riciclati o
provenienti da materie prime alternative, un processo produttivo sul territorio a filiera corta, anche con l’utilizzo di persone in
difficoltà sociali. È ovvio che una ricerca di
di aver fatto suo oltre ad un pezzo di stoffa
infinitamente superiore dal punto di vista di uno stile di vita consapevole. L’esperienza
di acquisto diventa così una vera e propria relazione fra Laura, Gloria e i clienti che
entrano in negozio, sia veronesi che turisti di passaggio. A volte capita di pensare che
scelte di questo tipo rimandino a uno stile un po’ alternativo o dimesso, ma i capi di
Fil Good cercano di staccarsi da questa idea, proponendo capi semplici, confortevoli e di
qualità che, lontani dalle mode passeggere, possano accompagnare nel tempo i loro
possessori nelle diverse occasioni di vita. All’interno di questo circolo virtuoso,
questo tipo innalzi notevolmente il prezzo
anche il punto vendita fa della sostenibilità
della proposta di Fil Good si capisce che
ha progettato è formato da un network di
finale di un capo. Venendo a conoscenza
probabilmente, invece di tre camicette, con lo stesso budget si potrà acquistarne una
sola, ma allo stesso tempo una volta uscito
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un punto di forza. Lo stesso team che lo
professionalità, che vede in testa le due
stiliste e poi un fidanzato architetto (Matteo Pietrogrande), una figlia graphic designer
come specchi, sedute e tavolini sono
elementi di recupero reinventati in funzione dell’estetica del negozio. Il tutto è fluido
perché, in quanto spazio che vuole veicolare un messaggio, deve essere predisposto a
far circolare il pensiero. Ecco quindi che con pochi gesti il negozio può diventare
ambiente per corsi di formazione, oppure
spazio espositivo per altri brand sostenibili che meritano un luogo dove farsi conoscere. L’insieme è inevitabilmente di gusto e
attraente, tanto che la speranza di Laura e Gloria è che il cliente entri attratto dall’estetica del negozio e, una volta
all’interno, si innamori soprattutto dei
prodotti. Noi che ci siamo stati non abbiamo dubbi sul fatto che sia proprio così!
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13. Gloria e Laura sull’accogliente divanetto al centro dello spazio di vendita. 14. La filosofia sostenibile sottesa ai prodotti venduti è ripresa in tutti gli elementi di arredo del punto vendita.
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Giacomo Franco (1817-1895)
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1 Verona e provincia
Testi: Daniela Tacconi
Giacomo Franco nasce a Verona nel 1817. Fin da giovane rivela una propensione per il disegno, che studia prima come autodidatta poi all’Accademia di Pittura e Scultura di Verona; nei primi anni si fa conoscere per i rilievi di opere d’arte veronesi e per la loro minuziosa restituzione grafica. Il matrimonio con una nobildonna lo introduce nell’establishment cittadino e gli permette di sviluppare i suoi interessi artistici, tra cui il collezionismo di opere d’arte. Col tempo impara a farsi apprezzare, riuscendo ad ottenere incarichi pubblici e privati in ambito architettonico, per consulenze o per la progettazione di nuove costruzioni e restauri. Riceve importanti riconoscimenti, come le nomine nella Commissione di Civico Ornato (1862) e nella Commissione conservatrice di Belle arti e antichità (1865). La frequentazione di personaggi in-
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fluenti come Camillo Boito e Pietro Selvatico contribuisce a diffondere la sua fama: nel 1871 ottiene la cattedra di architettura all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si trasferisce definitivamente nel 1875. Partecipa a vari concorsi nazionali, vincendo quelli per l’Ossario di Custoza e per il duomo di Lonigo. Muore a Venezia nel 1895. Dopo un esordio legato al gusto neoclassico si avvicina all’eclettismo per poi dedicarsi alla riscoperta del Medioevo, di cui trova a Verona molti spunti. Condivide le idee di Boito nel ritenere lo stile neomedievale, in particolare quello lombardo, il più adatto per rappresentare l’Italia appena formata. Boito apprezza in più occasioni l’operato di Franco e lo considera, oltre che un amico, un fedele trascrittore delle sue teorie.
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6 1 1869-1871 RESTAURI NELLA BASILICA DI SAN ZENO Verona
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Giacomo Franco viene incaricato dalla Commissione di Belle Arti e Antichità di proporre dei possibili interventi di restauro per la basilica di San Zeno. Tra le sue proposte le uniche che trovano realizzazione sono lo spostamento dell’organo e la modifica delle scale di accesso al presbiterio e alla cripta. Per quest’ultimo intervento il grande scalone centrale cinquecentesco utilizzato per accedere al presbiterio viene demolito e al suo posto vengono costruite le due scale laterali; per raggiungere la cripta, di cui
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riapre le tre arcate centrali, Franco realizza la grande gradinata discendente in fondo alla navata principale. Su suo suggerimento viene successivamente creata, a delimitazione del presbiterio, la balaustra in marmo rosso di Verona, su cui trovano collocazione le statue del Redentore e degli Apostoli che all’epoca giacevano addossate ad una parete della basilica. Secondo Franco l’intervento di restauro deve riportare il monumento alla sua presunta armonia originaria, rimuovendo gli elementi dissonanti ed integrando in stile le parti mancanti.
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2 1881-1883 BASAMENTO DEL MONUMENTO A VITTORIO EMANUELE II Verona Dopo alcuni anni dall’unità d’Italia anche Verona vuole dotarsi di un monumento in onore di Vittorio Emanuele II; per la realizzazione della statua equestre in bronzo viene indetto un concorso pubblico, di cui risulta vincitore lo scultore milanese Ambrogio Borghi. Il progetto del piedistallo viene invece affidato a Giacomo Franco, che faceva parte del Comitato incaricato dal consiglio comunale della realizzazione del monumento. Franco disegna un basamento di marmo in forme lineari con i quattro spigoli a bugnato, che richiamano le partiture rustiche dell’Arena e della Gran Guardia, e una cornice superiore con motivi geometrici a forma di diamante.
3 1864 PROGETTO PER LA SINAGOGA Verona Del progetto redatto per la Sinagoga di Verona, iniziato dall’ingegnere Gaetano Mantovanelli e poi rielaborato da Giacomo Franco, oggi rimangono una pianta, una sezione longitudinale e il prospetto su via Ghetto. I lavori hanno inizio nel 1864 ma il cantiere si ferma presto per mancanza di fondi; questa interruzione dura fino al 1924, quando i lavori vengono ripresi questa volta sotto la direzione e secondo il progetto di Ettore Fagiuoli. Questi mantiene alcuni elementi dell’edificio già costruito, come la facciata su via Quintino Sella, e porta a termine il complesso. Nel progetto di Franco le aperture ad arco rialzato e le stelle di David sono evidenti concessioni al gusto orientale, ma l’impostazione del progetto, le bifore e le trifore inserite in archi, gli oculi del registro superiore richiamano l’architettura romanica nostrana. L’utilizzo di elementi in stile orientale non è in questo caso una scelta estetica ma è imposto dalla destinazione dell’edificio.
4 1870-1871 protomoteca Verona Si deve al sindaco Giorgio Camuzzoni la decisione di allestire all’interno della Loggia del Consiglio in piazza dei Signori una Protomoteca, una raccolta di busti dei veronesi illustri vissuti nelle varie epoche. A Giacomo Franco sono attribuiti il progetto generale della Protomoteca, il disegno dei piedistalli e delle mensole. Statue e medaglioni vengono eseguiti da scultori dell’epoca ed aggiunti poco per volta fino al 1899, senza però che il programma iconografico iniziale venga mai completato. Negli anni successivi la Protomoteca soffre dei danni causati dall’incuria e da atti vandalici; già alle soglie del periodo fascista, esauriti lo spirito risorgimentale e la funzione educatrice della raccolta, si inizia a considerare inopportuna la collocazione della Protomoteca e a discutere di una possibile nuova sistemazione. Nel 1940 i 32 medaglioni, le 49 erme e i 22 busti illustri abbandonano il loggiato che
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li aveva ospitati per anni per approdare nell’atrio della Biblioteca Civica di via Cappello, dove si trovano tutt’oggi.
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5 1855 PALAZZO FRANCO Verona La ristrutturazione di questo palazzo ereditato dalla madre risale al 1855. L’edificio si trova in vicolo Capretto, di fronte all’ingresso principale della Biblioteca Civica. L’intervento è limitato alla facciata, all’atrio e alla scala interna. La facciata presenta un rivestimento in pietra al piano terra e un intonaco con finto bugnato ai piani superiori, che sono alleggeriti dalla presenza di balconi con ringhiere in ferro battuto dai motivi floreali. Due colonne con capitelli ionici danno accesso alla scala interna di collegamento con i piani superiori, contribuendo a dare solennità all’ingresso e confermando il linguaggio classico adottato da Franco per la facciata. Il bombardamento che nel 1945 fa crollare la vicina chiesa di san Sebastiano danneggia anche il palazzo, che viene successivamente ricostruito (1961) conservando le strutture realizzate da Franco.
6 1865 RESTAURO DELL’ARCA DI CASTELBARCO Verona Il giudizio di Ruskin su Verona e sui suoi abitanti è lapidario: la città è divina, ma i veronesi sono terribili. Poca è la fiducia che nutre per i restauratori della città, tanto da preoccuparsi seriamente quando viene a sapere che l’arca di Guglielmo da Castelbarco, il sepolcro posto vicino all’ingresso della chiesa di s. Anastasia, sarebbe stata presto restaurata da Giacomo Franco: secondo Ruskin l’intervento avrebbe rovinato per sempre quello che riteneva essere il più bel sepolcro medievale al mondo. Franco in realtà si limita ad una generale pulitura delle parti ornamentali, al rifacimento delle lastre di pietra della copertura piramidale e alla ricostruzione dei quattro angoli del cornicione.
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7 1856-1858 FACCIATA DEL MACELLO NUOVO Verona
classici che in corrispondenza del corpo centrale e delle testate laterali sono sostituiti da bizzarre teste bovine.
L’edificio risale alla metà dell’800, quando il Comune decide di abbandonare il Vecchio Macello in piazzetta Pescheria, non più conforme agli standard di igiene austriaci, per costruirne uno nuovo nella contrada dei Filippini. Il progetto e la direzione dei lavori si devono all’ingegnere comunale Enrico Storari, ma il prospetto principale è attribuito a Giacomo Franco (L. Simeoni 1909). Questo si caratterizza per la presenza di un corpo centrale monumentale lievemente aggettante e di due ali laterali dal leggero bugnato. L’impostazione aulica tipica dell’architettura asburgica della Verona dell’epoca è spezzata dall’inserimento di elementi decorativi che alludono alla funzione dell’edificio: sopra i larghi pilastri centrali che fiancheggiano i portoni di ingresso quattro coppie di buoi con funzione di cariatidi sostengono il grande timpano centrale. Un lungo fregio si estende su tutta la facciata, con triglifi
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8 1842-1847 (?) VILLA FRANCO San Floriano di Valpolicella La prima opera architettonica di Giacomo Franco è la ristrutturazione della villa di famiglia a San Floriano. La radicale ristrutturazione dell’originario complesso non ne modifica la pianta ma conduce di fatto ad un edificio del tutto diverso di impostazione classica. Il prospetto principale, a prevalente sviluppo orizzontale, è movimentato al centro e alle due estremità da corpi sporgenti caratterizzati da lesene e profonde aperture ad arco e sormontati da frontoni. Mentre
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il piano inferiore è animato da un leggero bugnato, il piano nobile rialzato è ritmato da alte finestre rettangolari con cornici e balaustre in pietra. Secondo Camillo Boito la villa è il risultato di diversi ripensamenti stilistici rispetto alla stesura di un primo progetto di impostazione accademica che prevedeva colonnato corinzio e timpano centrali. La scelta di alcuni dettagli ornamentali che si discostano dalla tradizione classica, come i motivi a ruota del coronamento centrale, rivela già una prima tendenza all’Eclettismo. Oggi la villa, più nota con il nome dei successivi proprietari Lebrecht, ospita la facoltà di scienze e tecnologie vitivinicole ed enologiche dell’Università di Verona.
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9 1861-1862 villa MUSELLA San Martino Buon Albergo Il banchiere Luigi Trezza, diventato nel 1861 usufruttuario e amministratore della Villa che prima apparteneva alla famiglia Muselli, decide di affidarne la ristrutturazione a Giacomo Franco. L’intervento non modifica l’impianto planimetrico ma realizza una profonda revisione stilistica: l’architetto si concentra sulla modifica delle facciate e della cappella dedicata a s. Antonio attingendo ai più svariati stili storici.
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Nel prospetto occidentale Franco apre sette bifore sormontate da fastigi barocchi e sistema su mensole ottagonali dodici statue di imperatori romani; la cappella viene arricchita di elementi neomedievali, come gli archetti romanici sotto il cornicione, il portale e l’ampia trifora soprastante. Il campanile possente con l’alta cuspide richiama l’architettura nordica castellana, mentre la facciata meridionale assume un nuovo carattere moresco con gli archi inflessi ed il traforo dei parapetti in pietra. Questa mescolanza di linguaggi, che pur rivela l’interesse di Franco nei primi anni ‘60 verso l’Eclettismo, sarà presto abbandonata per la ricerca di un unico stile.
10 1867-1868 villa GAGLIARDI Bovolone
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La villa viene commissionata dall’imprenditore Giovanni Gagliardi nel 1867. Il prospetto principale presenta un corpo centrale leggermente aggettante e due ali laterali terminanti con torrette, secondo uno schema che ricorda quello delle ville venete. Le finestre ad arco centinato, gli archetti pensili che corrono lungo le gronde e si alzano in corrispondenza del timpano centrale, gli oculi rotondi sono invece di derivazione medievale; anche la decorazione delle facciate a fasce di colori alternati è un chiaro richiamo allo stile del Medioevo. Franco si occupa della progettazione del parco all’inglese e delle cancellate.
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1871 VILLA PERGOLANA Lazise
1875 VILLA CARLOTTI Garda
Il complesso della villa ospitava un tempo un monastero edificato dopo il 1500 dai Francescani Minori attorno alla precedente chiesetta di S. Maria Pergolana. Giacomo Franco, intervenuto su richiesta della proprietaria, la contessa Rosanna Cavazzocca, demolisce alcuni corpi di fabbrica e costruisce la nuova residenza mantenendo l’originaria disposizione attorno ad un cortile interno. Le due torri angolari sul lato verso il lago e la merlatura di coronamento la fanno sembrare un castello, rivelando la predilezione di Franco a partire dagli anni ‘70 per lo stile neomedievale. Compaiono dettagli presenti in altre sue opere, come le bifore inscritte in archi a tutto sesto e le aperture ad oculo.
La villa sorge in località Scaveaghe, tra Garda e Punta San Vigilio. Giacomo Franco ristruttura l’originario complesso settecentesco costituito da più edifici di forma irregolare cercando di ricavare una distribuzione più unitaria e funzionale. Per raggiungere questo obiettivo demolisce alcuni corpi di fabbrica e realizza verso sud il corpo che ospita la parte residenziale. La villa che ne risulta è articolata in tre
13 1877 OSSARIO Custoza Nel 1877 viene bandito un concorso per costruire una torre-ossario sul colle di Sommacampagna, per commemorare i caduti della sanguinosa battaglia di Custoza e raccogliere i resti provenienti dalle campagne circostanti dei numerosi caduti durante le guerre di indipendenza; il progetto di Giacomo Franco in stile romanico risulta vincitore. L’Ossario, ultimato nel 1879, ha pianta ottagonale ed è sormontato da un obelisco alto 17 metri; sui quattro lati principali quattro scalinate in marmo conducono ad altrettanti protiri con arco a tutto sesto e frontone sommitale decorato da cornici. Camillo Boito apprezza particolarmente lo stile lombardo medievale utilizzato da Franco per l’Ossario e per il duomo di Lonigo, l’altra sua grande opera di quegli anni: ne elogia la nobiltà delle masse, la parsimonia di particolari, la schiettezza ed il raro senso d’armonia.
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corpi contigui con volumi e altezze diverse, fronteggiati da un ampio terrazzo verso il lago. Molti sono gli elementi neoromanici, come gli archetti pensili, le merlature, le bifore, le aperture con arco a tutto sesto, la facciata a fasce orizzontali alternate (presente solo nel progetto); non mancano però alcuni dettagli in stile neogotico, come le lesene poggiate su peducci e sormontate da pinnacoli a coronamento del corpo principale, o gli archi acuti delle porte sottostanti.
Bibliografia essenziale C. Boito, Giacomo Franco architetto, Milano 1897 R. Scola Gagliardi, Giacomo Franco architetto dell’ottocento, Cerea 1989 G. Conforti, Franco Giacomo, in L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, a cura di P. Brugnoli e A. Sandrini, Verona 1994 G. Conforti, Franco Giacomo, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 50, Roma 1998 L. Simeoni, Guida storico artistica della città e provincia di Verona, Verona 1909 N. Pavoncello, Il tempio israelitico, Verona 1957 T. Mullaly, Ruskin a Verona, Verona 1966 G. Viviani, La villa nel veronese, Verona 1975 C. Gattoli, Il pantheon dei veronesi illustri. La Protomoteca di Verona (1870-1898), Verona 2014 V. Rainoldi, Il ghetto e la sinagoga di Verona fra ottocento e novecento, Padova 2006 Nei tondi, rilievi di Giacomo Franco: pag. 106, acquasantiera di Sant’Anastasia; pag. 112, particolare delle tarsie di Giovanni da Verona in Santa Maria in Organo. Foto originali: Daniela Tacconi.
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LA BACHECA DI AV
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Pietre naturali per raccontare una storia straordinaria Nel distretto del marmo della Valpolicella da oltre 40 anni una realtà in continua evoluzione Marmi Regina® è un’azienda che da sempre accompagna il cliente nella scelta del materiale più adatto, nella progettazione e nel realizzo di opere di prestigio in marmo e pietra naturale. Ogni opera è progettata secondo unicità ed accuratezza del dettaglio indipendentemente dalla scala di realizzazione: si passa da progetti di architettura di grande scala in ambito di edilizia privata e/o pubblica ad interior design e design con estrema flessibilità.
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2018 #01
Una storia incisa nel legno si misura con il futuro Nuovo showroom Serugeri: uno spazio al servizio di chi progetta Ma qual è la scelta più adatta? Il personale segue i clienti dalla ricerca all’acquisto dei materiali e dei decori più moderni e dalle caratteristiche tecniche più idonee per l’esecuzione dei loro progetti, offrendo loro la possibilità di toccarli con mano. Lo spazio espositivo con le realizzazioni e gli abbinamenti installati, si rivolge, oltre ai clienti storici, anche ad arredatori, progettisti, architetti e alle realtà da loro servite. Nello showroom, inoltre, vi è una sala spaziosa attrezzata con un proiettore dove vengono organizzati periodicamente eventi formativi e presentazioni delle novità del settore. Serugeri incoraggia un’ottica di scambio reciproco: architetti e interior designer possono prenotare questo spazio per esporre tematiche legate al proprio lavoro o a loro proposte culturali e artistiche in una cornice di continuo dialogo per costruire insieme un futuro proficuo.
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Serugeri, realtà primaria del panorama imprenditoriale veronese, dal 1952 ha fatto del legno il cardine ed il cuore del proprio lavoro! Una continua ricerca di mercato e un’attenta selezione dei prodotti porta l’azienda ad evolversi e ad ampliare continuamente l’offerta tradizionale, integrandola di anno in anno con materiali all’avanguardia innovativi, prestanti ed ecologici (ad esempio gres porcellanato e solid surfaces). In questo modo gli interior designer e i progettisti che si rivolgono alla professionalità dello staff risultano sempre aggiornati sulle ultime tendenze. Recentissima l’apertura dello showroom rinnovato e ampliato, sia dal punto di vista dell’organizzazione, sia per la varietà di materiali presenti. Sono disponibili superfici in legno con molte tipologie di essenze e colori suddivisi per valorizzare la creatività. Oltre alle soluzioni classiche, Serugeri propone superfici materiche di pregio e sempre nuove.
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Forall lighting tecnology and design La luce si fonde con l’architettura, semplici geometrie vengono pensate e sviluppate per far si che la luce sia la protagonista
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RICERCA La ricerca e lo sviluppo sono la base di ogni azienda lungimirante. L’illuminazione negli ultimi anni ha visto un cambiamento epocale con l’avvento del LED. L’elettronica oggi presente nelle lampade ci costringe, e ci stimola, ad investire nella continua ricerca della miglior performance nella qualità della luce, e nella sua fruibilità con l’utente finale.
REALIZZAZIONE L’assemblaggio delle nostre lampade viene realizzato a mano. Un importante sapere sul giusto trattamento del LED, dei metodi di dissipazione, calandrature dell’alluminio sono il nostro know-how che con soddisfazione rendono i nostri prodotti unici.
PROGETTAZIONE La progettazione è il cuore della nostra azienda. La caratteristica di Forall è la realizzazione di estrusi in alluminio, i quali poi andranno a contenere la Luce, per renderla architettura negli ambienti. Grazie anche all’uso delle nuove tecnologie, quali la stampa 3d, riusciamo a realizzare soluzioni d’illuminazione progettate per molte tipologie di ambienti.
SPECIAL PROJECT Geometrie pensate e sviluppate per far sì che la luce sia la protagonista all’interno dell’architettura, crea possibilità a molti professionisti di poter adattare e creare prodotti unici e certificati. DISTRIBUZIONE Una strutturata pronta per offrire un servizio all’avanguardia di logistica e supporto. Tale organizzazione permette ai nostri clienti di snellire la gestione del cantiere, e poter fare affidamento su una consegna pronta e puntuale a qualsiasi tipo di esigenza. FORMAZIONE La continua ricerca di sistemi di progettazione e renderistica sono inseriti in modo attivo nel nostro percorso di crescita aziendale. Inoltre ogni giorno cerchiamo di imparare e migliorare grazie al rapporto di collaborazione e sviluppo che abbiamo instaurato con i nostri fornitori.
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F O R A L L LIGHTING
TECNOLOGY
AND
DESIGN
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2018 #01
Tra architettura e paesaggio
Il luogo L’affascinante costa dell’Algarve è conosciuta per le sue scogliere mozzafiato e le spiagge dorate. Porches è una località a circa 10 km a est della città di Lagoa, arroccata su una collina adiacente ad una delle più antiche strade dell’Algarve. Qui, sul punto più elevato di una scogliera, sorge Casa da Roca (rocha in portoghese significa roccia), il cui progetto si basa sul massimo rispetto per l’ambiente naturale e su un perfetto equilibrio tra tecnologia e artigianalità. Il progetto di Casa da Rocha è di LUV Architecture & Design, studio di architettura internazionale con base a Barcelona focalizzato sulla realizzazione di ambienti personalizzati che rispecchiano gli stili di vita più esigenti.
Il parcheggio L’ascensore per auto diviene una soluzione alternativa alla rampa, che combina funzionalità ed estetica salvaguardando e dedicando tutto lo spazio esterno a giardini o cortili. A contribuire ad un risultato completamente invisibile e di prestigio vi è la possibilità di pavimentare il tetto di copertura dell’elevatore in qualsiasi materiale. Tramite una vasta scelta di colori, luci e finiture l’impianto può essere personalizzato per un risultato unico ed in armonia con l’ambiente circostante. Questo tipo di soluzione si integra perfettamente con lo stile della casa donando un senso di ordine, eleganza ed una nuova e curata organizzazione degli spazi. La scelta IdealPark Per Casa da Rocha i progettisti hanno scelto un impianto prodotto da IdealPark: si tratta del Mod. IP1-CM FF42 con tetto di copertura. L’installazione è stata eseguita da Ascensores do Oeste, distributore ufficiale IdealPark per il Portogallo.
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L’ascensore per auto prodotto da IdealPark e installato in questa villa nell’Algarve integra rispetto per il luogo e tecnologia
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