Architettiverona 119

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Terza edizione — Anno XXVII n. 4 Ottobre/Dicembre 2019 Autorizzazione del Tribunale di Verona n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane SpA — Spedizione in Abbonamento Postale – 70% NE/VR

RIVISTA TRIMESTRALE DI ARCHITETTURA E CULTURA DEL PROGETTO FONDATA NEL 1959

Ultimo stadio — La basilica del Villaggio

Tutto è sagrato — Ricerca di luce

ISSN 2239-6365

L'attico ritrovato — Nutrirsi di arte contemporanea

Vetri & vetrine — Verona c'est moi. Per i cent'anni di Libero Cecchini

2019 #04 Sull'onda dell'architettura — West Star story

119 Studiovisit/Off: Anna Merci — Mario Gottardi da Milano a Verona


Work in progress...


New Multimedia Showroom: la tecnologia Sever al servizio dei progettisti Si è aperto il nuovo spazio interattivo multimediale sviluppato da Sever per offrire nuove opportunità alla comunicazione e comprensione del progetto La professionalità e il know how di SEVER, maturati in cinquant’anni di esperienza, hanno visto negli ultimi anni il naturale sviluppo e integrazione delle forniture contract anche nel settore alberghiero e domestico. 01

Da qui l’esigenza di creare un nuovo format di presentazione multimediale ed interattivo, gestito da un sistema domotico intelligente. Il nuovo showroow di SEVER, offre una nuova possibilità di comunicazione e coinvolgimento emozionale “dentro il progetto”. Uno spazio allestito come luogo di incontro tra progettisti e committenti, all’interno del quale le tecnologie della struttura permettono di visualizzare immagini, video, progetti e clip multimediali.

New Multimedia Showroom

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L’elevata tecnologia utilizzata consente proiezioni in 4K su schermi e monitor ad altissima risoluzione, controllati da telecamere con sensori di presenza in modo tale che l’utilizzatore possa gestire la presentazione anche con il solo ausilio del movimento delle mani. All’interno dello Showroom sono collocate un’area di consultazione/riunioni e un’area break. SEVER mette a disposizione dei progettisti che vorranno farne uso la propria struttura per la presentazione e/o condivisione dei loro progetti di qualunque natura essi siano. SEVER è partner e fornitore ufficiale AMG, AUDI, MERCEDES, PORSCHE, SMART, VOLVO E VOLKSWAGEN. 02 01-02. Vedute dello Showroom multimediale ricavato all’interno della sede Sever a Verona. 03-04. Sezione e dettaglio del progetto esecutivo dell’allestimento.

Sever Viale del Commercio, 10 37135 Verona T 045 8250033 sever@sever.it www.sever.it

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La memoria degli architetti Testo: Michele De Mori

La professione dell’architetto – così come le altre professioni tecniche di ingegneri e geometri – si esprime attraverso un’azione concreta che lascia il proprio segno nell’ambiente urbano, ridefinendolo e plasmandolo. Un’azione che, soprattutto nel passato, trovava la sua prima realizzazione su fragili supporti cartacei. Lucidi, eliocopie, fotografie che, una volta terminata la costruzione, diventano la fonte documentale primaria sia per recuperare informazioni sui progettisti, sia per ricostruirne l’evoluzione edilizia, nonché per approfondirne gli aspetti tecnici soprattutto nella caso di un intervento futuro. Con il passare del tempo prende vita così l’archivio professionale, che raccoglie anni di attività, studi e realizzazioni, ma anche tutte quelle idee progettuali e proposte che mai sono state portare a conclusione. Una raccolta di materiale che, oltre alla vita del suo creatore, ci descrive le modifiche apportate al territorio, i suoi cambiamenti e le

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ipotetiche versioni che potevano essere intraprese. Una documentazione, quella cartacea, che unita alle realizzazioni tangibili sul territorio diventa strumento imprescindibile per salvaguardare la memoria della nostra professione e di coloro che l’hanno costituita. Nonostante l’origine della figura dell’architetto si perda nei tempi, la sua attività, nel nostro paese, è regolata da un ordine professionale, un’istituzione che, nonostante trovi origine nella Legge 24 giugno 1923, n. 1395, inizierà la sua attività solo nel 1926, un periodo, tutto sommato, abbastanza recente. Una storia, quella dell’Ordine degli Architetti della provincia di Verona, che apparare purtroppo difficile da ricostruire soprattutto a causa delle ampie lacune nei verbali del Consiglio, che si ritrovano solo a partire dal 1974. La vita dell’Ordine si intreccia anche con quella dei sui iscritti, dove, nel caso dei nostri primi colleghi, sempre per la mancanza di documentazione, non è facile ritrovare l’esatta data di iscrizione. I registri conservati presso il nostro

Ordine, infatti, riportano informazioni solo a partire dal secondo dopoguerra. Il primo registro degli iscritti, compilato sotto la presidenza di Raffaele Benatti (in carica dal febbraio 1953 al febbraio 1955) riporta le date esatte di iscrizione solo dalla matricola n. 40, Giacomo Stella, inserito il 7 gennaio 1954. Per i decenni precedenti viene segnalato solamente l’anno (che in molti casi appare presunto). Negli anni Venti ritroviamo tre iscritti: n. 1 Ettore Fagiuoli (1926); n. 2 Francesco Banterle (1928?); n. 3 Antonio Gregoletto (1928?). Numero che aumenterà gradualmente nel decennio successivo: n. 4 Giovanni Chineri (1933?); n. 5 Giovanni Fregno (1934); n. 6 Antonio Magnaguagno (1934); n. 7 Marcello Zamarchi (1935?); n. 8 Marcello Guarienti (1936); n. 9 Marino Padovani (1937); n. 10 Federico Faccioli (1939). Al termine del 1945, conclusa la Seconda Guerra Mondiale, il numero degli iscritti risulta essere 18 tra i quali si ritrova l’architetto Libero Cecchini, matricola n. 17, che con i suoi 100 anni d’età rappresenta l’iscritto più anziano.

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Se riscoprire la storia dell’Ordine risulta difficoltoso, lo stesso si può dire del ripercorrere le vite professionali dei nostri primi colleghi. Spesso, infatti, la perdita di quella importante documentazione cartacea della quale accennavamo poc’anzi impedisce un’attenta e corretta ricostruzione degli eventi, dei progetti e dello stesso professionista. Per farsi un’idea della dimensione di queste lacune basti prendere i primi dieci nostri iscritti. Ad esclusione di Fagiuoli (si veda «AV» 9/1985) e parzialmente di Banterle («AV» 108/2017) e Zamarchi («AV» 110/2017), non si hanno notizie dell’esistenza di una qualche sorta di archivio personale. Di questi, purtroppo, il vasto archivio di Ettore Fagiuoli, che conta più di duecento tra progetti e proposte, è confluito all’interno del Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC) dell’Università di Parma nel 1985, allontanandosi così dalla sua città natale e rendendone, di conseguenza, più difficoltosa la consultazione e la valorizzazione in ambito locale. Anche ritrovare le memorie dei colleghi nel periodo della ricostruzione post bellica risulta difficoltoso. Una grande eccezione è rappresentata dall’archivio di Libero Cecchini, censito nel Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenza Archivistiche (SIUSA) e tutt’ora completamente conservato, che copre il periodo storico compreso tra il 1945 e il 2009. La situazione appare maggiormente documentabile dagli anni Sessanta in poi grazie ad una più ampia disponibilità di archivi come ad esempio, giusto per citarne alcuni, quello di Arrigo Rudi (n. 73) depositato presso lo IUAV ma ancora in fase di ordinamento, quello di Rinaldo Olivieri (n. 69), conservato dalla famiglia – e sempre censito nel SIUSA – e quello di Ottorino Tognetti (n. 62). Dei citati, solo quest’ultimo, che copre il periodo compreso tra il 1962 e il 1998, è stato reso completamente pubblico e a disposizione di tutti i cittadini attraverso una donazione alla Biblioteca Civica di Verona. Consapevole dell’importanza della tutela di questa memoria che ripercorre la vita professionale dei nostri iscritti, e contemporaneamente le

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trasformazioni del territorio, l’Ordine degli Architetti della provincia di Verona vuole porsi come parte attiva in questo processo di tutela e di divulgazione dell’attività degli architetti veronesi. Proprio per questo si sta avviando un percorso, in accordo con le istituzioni deputate alla tutela del materiale archivistico, per la salvaguardia, e la libera fruizione, di questa importante documentazione. Preservare la nostra memoria è sicuramente un’azione importante che può rimarcare l’identità dell’architetto, i valori della professione e fortificarne il legame con il territorio.

Consiglio dell’ordine • Presidente Amedeo Margotto • VicePresidenti Laura De Stefano Matteo Faustini • Segretario Enrico Savoia • Tesoriere Daniel Mantovani • Consiglieri Cesare Benedetti, Michele De Mori, Stefania Marini, Diego Martini, Leonardo Modenese, Michele Moserle, Francesca Piantavigna, Chiara Tenca, Morena Zamperi, Ilaria Zampini

2019 #04


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professione

La memoria degli architetti di Michele De Mori

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Nutrirsi di arte contemporanea di Stefania Marini

Sull’onda dell’architettura di Nicola Tommasini

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Tutto è sagrato di Angela Lion

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saggio

Il Palazzo Allegri in via San Vitale di Bruno Chiappa

060 odeon

Vetri & vetrine di Alberto Vignolo

070

territorio

odeon

054

Verona c’est moi. Per i cent’anni di Libero Cecchini di Filippo Bricolo

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odeon

La basilica del Villaggio di Leopoldo Tinazzi, Filippo Romano

itinerario

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038

Ricerca di luce di Federica Provoli

PROGETTO

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West Star story di Michela Morgante

PROGETTO

022

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Mario Gottardi da Milano a Verona di Daniela Tacconi

editoriale

Ultimo stadio di Alberto Vignolo

odeon

030

In principio era il concorso di Massimiliano Valdinoci

progetto

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odeon

Un fiume creativo di Federica Guerra

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PROGETTO

L’attico ritrovato di Leopoldo Tinazzi, Filippo Romano

STUDIO VISIT/Off

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Venezia/Parigi andata e ritorno di Roberto Cremascoli

LC su LC di Luciano Cenna

odeon

Metto il becco nella redazione di Luciano Cenna

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Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXVII n. 4 • Ottobre/Dicembre 2019

Direttore responsabile Amedeo Margotto

Direttore Alberto Vignolo

Editore Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 architetti@verona.archiworld.it

Redazione Federica Guerra, Angela Lion, Luisella Zeri, Damiano Capuzzo, Daniela Tacconi, Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi rivista@architettiverona.it

Concessionaria esclusiva per la pubblicità Promoprint Paolo Pavan T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it

Art direction, Design & ILLUSTRATION Happycentro www.happycentro.it

Stampa Cierre Grafica www.cierrenet.it

Distribuzione La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta all’indirizzo https:// architettiverona.it/distribuzione/ Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

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contributi a questo numero Filippo Bricolo, Luciano Cenna, Bruno Chiappa, Roberto Cremascoli, Federica Provoli, Stefania Marini, Michela Morgante, Nicola Tommasini, Massimiliano Valdinoci referenze Fotografiche Lorenzo Linthout, Marco Toté, Atelier XYZ, Cristina Fontana, Maurizio Marcato, Daniela Tacconi

Si ringraziano Massimo De Battisti, Michele De Mori, Stefano Lodi, Maria Matilde Paganini

INDIRIZZI WEB rivista.architettiverona.it www.architettiverona.it/rivista

2019 #04


Ultimo stadio

Il ruolo di un’importante infrastruttura ludico-sportiva nel rapporto con il quartiere e la città a partire dall’ultima proposta per il suo rifacimento ex novo

Testo: Alberto Vignolo

Come per un semplice cambio armadi di stagione, ecco nuovamente affacciarsi sui destini della città l’ennesima proposta di un “nuovo stadio”, l’ultimo di una serie oramai nutrita, adeguato alle tendenze e agli usi d’oggi in sostituzione di quello intitolato a un certo Bentegodi (Marcantonio: chi era costui?), simbolo di glorie sportive per gli appassionati e di cronacaccie para-sportive per l’Italia intera. Lo stadio, anzi lo Stadio con tanto di nobilitante maiuscola, non è solo un impianto per il giuoco del pallone, ma per sineddoche un quartiere di Verona: una parte di città densa, vitale, con tutte le problematiche di un tessuto urbano moderno

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cresciuto tumultuosamente dopo la costruzione nel 1963 della grande struttura sportiva, la cui valenza è di natura sovracomunale e territoriale. Che per questa parte di città, come per altre, si debbano pensare politiche e azioni di riqualificazione per quanto riguarda gli spazi pubblici, il verde, i servizi, la mobilità e la qualità della vita dei cittadini, pare necessario e auspicabile. Risulta quanto meno dubbio che la semplice sostituzione dell’oggetto architettonico “stadio” con uno nuovo e fiammeggiante – qualora lo fosse – possa rappresentare un intervento pensato appunto alla scala dell’intero quartiere, in assenza ad oggi di qualsivoglia analisi dei bisogni, condivisione, strategie di ascolto, azioni e programmi prima ancora che progetti. Eppure è proprio questa la partita che sta per avere inizio, circoscritta dal bando per la ricerca di investitori interessati all’operazione immobiliare – che di questo si tratta – nei limiti del rettangolo di suolo contenente l’attuale stadio. Siamo ancora nelle fasi antecedenti il fischio d’inizio, ma nel riscaldamento l’arbitro – l’amministrazione comunale – ha comunque messo nero su bianco i contenuti accessori – si fa per dire – della nuova struttura: campo di calcio

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a parte, in fondo null’altro che un cavallo di Troia, ci sarebbero infatti “un museo (1899 mq), una struttura alberghiera (circa 11 mila mq), spazi per uffici e servizi (8775 mq), pubblici esercizi (1679 mq), alcuni negozi (2484 mq), un teatro (562 mq) e spazi destinati al congressuale”. Olé. Sono questi i bisogni del quartiere, o non è altro che l’atterraggio di una nuova astronave aliena, un po’ più accessoriata e con i gadget planetari del momento? Certo, gli stadi moderni devono essere multi-funzionali proprio per superare l’eccessivo uso specialistico a frammentazione temporale del loro utilizzo, e per dare un contenuto ai grandi volumi di sostegno delle gradinate per gli spettatori: gli esempi a tale riguardo non

01. Fotoinserimento della nuova proposta per il rifacimento dello stadio di Verona (Nuova Arena Stadium).

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02-04. Stadio Bentegodi: il cantiere, l’edificio terminato nel 1963 e planimetria generale. Progetto ingg. L. Baruchello, S. Bonamico, R. Guglielmi (Archivio Impresa Mazzi). 05. Progetto di ampliamento dello stadio, 19841990: ing. S. Zorzi, arch. A. Armani, ing. P. Sommavilla (Archivio generale Comune di Verona).

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mancano, e nemmeno le eccellenti L’occasione di ripensare al rapporto architetture capaci di esprimere tali tra l’attrezzatura sportiva-stadio assunti in maniera brillante. Peccato e il tessuto del quartiere andrebbe che, a tutt’oggi, quello che è stato valorizzata da studi seri, promossi presentato a Verona come studio e condotti dalla comunità e non di fattibilità da parte dei soggetti dal privato che giustamente mira al proponenti appare sotto questo punto tornaconto imprenditoriale: che è di vista caricaturale: una sorta di legittimo e necessario come volano neo-Arena monumentale e retorica, di investimento, salvo appunto la tutta giocata sull’ammiccamento con necessità di un quadro di riferimento il monumento simbolo della città, pubblico. La palla, la deve mettere facilmente spendibile anche per l’arbitro. Solo così si potranno l’assonanza tra circenses e il fenomeno attirare le attenzioni di più giocatori, rituale del calcio. e il livello dello Una bozza di spettacolo progetto del resto « Lo stadio, anzi lo Stadio di giuoco apparentemente inevitabilmente con tanto di nobilitante anonima, perché salirà: perché maiuscola, non è solo evidentemente la storia recente un impianto per il giuoco ha dimostrato non si è ritenuto spendibile il ruolo come, nel caso del pallone, ma per dell’architettura e sineddoche un quartiere di iniziative di un progettista nate su proposta di Verona » quale carta da di un unico giocare nella soggetto senza partita urbana. l’appetibilità nemmeno per un Sembra che la logica sottesa a un avversario, la sconfitta con tanto tale approccio progettuale sia quella di rigori è inevitabile (Traforo, del parco tematico – ineludibile Arsenale). destino della città turistica – dove si Uno stadio come espressione cannibalizzano senza alcun ritegno della magnificenza civile e morale pezzi di storia utilizzati per il loro di una comunità, dal carattere valore iconico. Un’Arena di serie B, funzionale e rappresentativo: questo imperitura condanna a un destino è l’insegnamento che si deve trarre declinante per le squadre calcistiche dal monumento romano, non certo cittadine (niente schiamazzi, signori la trascrizione banale e sgangherata tifosi?). della sua geometria.

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PROGETTO

La basilica del Villaggio

La costruzione della nuova chiesa per il popoloso sobborgo cittadino di Borgo Nuovo incarna temi di carattere urbano, liturgico, simbolico e rappresentativo Progetto: arch. Carlo Ferrari, arch. Alberto Pontiroli - Archingegno Testo: Leopoldo Tinazzi, Filippo Romano Foto: Maurizio Marcato

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Verona

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Passeggiando per le strade silenziose del Villaggio, possiamo accorgerci di quanto questo sia un luogo intriso di una storia recente, dove è forte l’impronta di una comunità che ha saputo ricambiare l’impegno del proprio benefattore, Angelo Dall’Oca Bianca. Il quartiere segnato a lungo da miseria, degrado e delinquenza, oggi vanta una nuova struttura ecclesiastica, che sancisce, forse, la fine di un lento processo di sviluppo e rigenerazione urbana. Il primo nucleo abitato, ai margini della città, si forma nel 1939, quando Dall’Oca Bianca lascia in dono al Comune i suoi averi per la costruzione di alloggi popolari da destinare “ai poveri della città”. Si tratta di case basse, costituite dal solo pianterreno, sufficienti per una o due famiglie, normalmente circondate da una porzione di giardino. Da questo gruppo di abitazioni nasce il “Villaggio Dall’Oca Bianca”, che si estendeva fino alla ferrovia da un lato e verso il Chievo dall’altro, e dove, ben presto, furono costruite le prime opere che, nelle intenzioni di allora, avrebbero dato autonomia al nuovo avamposto cittadino. Fra queste, la Chiesa della Beata Vergine Maria, costruita negli anni Quaranta, posta idealmente al centro del quartiere tra gli assi nord-sud (via Taormina) ed est-ovest (via Selinunte), con la facciata rivolta a sud e il lato sinistro parallelo alla piazza alberata del borgo. Nel corso dei successivi settant’anni diverse generazioni hanno visto innestarsi nella parrocchia la propria memoria collettiva, nell’arco temporale ed emotivo che può andare da un battesimo ad un funerale. La chiesa è stata demolita nel 2014, di fronte agli abitanti del villaggio che in superstizioso silenzio guardavano concretizzarsi l’esito del referendum da loro stessi promosso nel 2004. Dopo tutto, abbattere un tempio non è cosa da tutti i giorni, ma i problemi della vecchia chiesa iniziavano ad essere insostenibili e, sebbene nel corso degli anni, si fossero affrontati interventi di ristrutturazione, l’intero complesso parrocchiale era divenuto insufficiente per una comunità sempre più in crescita e desiderosa di rinnovare la propria immagine.

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Esito del conseguente concorso bandito nel 2007 da parte del clero, l’opera dello studio Archingegno (Carlo Ferrari, Alberto Pontiroli) nasce, quindi, dall’intenzione di offrire alla comunità un luogo evocativo, che possa essere immagine di spiritualità e rinascita. La chiesa è volutamente alta, spiegano i progettisti, proporzionata ad una nuova urbanità, di condomini popolari, costruiti a partire dal secondo dopoguerra, che hanno via via sostituito le case ad un livello del piano originario. L’intervento ha infatti riguardato l’intero isolato e si presenta sostanzialmente come la successione dei volumi che compongono l’ambito parrocchiale. L’imponente massa di intonaco bianco della basilica è stata girata sull’asse est-ovest, in accordo con le prescrizioni del buon costruire ecclesiastico, con il sagrato che ora fronteggia la piazza alberata. A fare da perno sull’angolo sud-est si innalza il campanile, alto una trentina di metri e simbolicamente in posizione speculare alla tomba di Dall’Oca Bianca. Il corpo edilizio prosegue a sud con i volumi a due piani delle sale comunitarie, che si estendono fino al lato ovest cingendo il campetto sportivo. L’isolato è concluso a nord dalla sagoma ribassata della cappella feriale. Le facciate riportano soluzioni differenti per quanto riguarda il rapporto con l’esterno: il volume emergente della chiesa si distingue per le due grandi quinte in marmo rosa a tutta altezza, che sul fronte racchiudono il portico di ingresso e il rosone (recuperato dalla vecchia chiesa e segno di continuità storica) e per le strette feritoie digradanti che dai lati portano luce all’interno. Il corpo rettangolare delle stanze parrocchiali presenta un ingresso segnato da fasce metalliche che cedono il passo sul lato lungo ad una

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01. Il fronte laterale della chiesa in una veduta dall’asse urbano proveniente da corso Milano. 02. La preesistente chiesa in un momento iniziale del cantiere prima della sua demolizione. 03. Planimetria generale con l’inserimento del nuovo complesso parrocchiale.

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PROGETTO

La basilica del Villaggio 04. Sezione longitudinale sull’aula. 05. Pianta del piano terreno con la chiesa e l’edificio delle opere parrocchiali. 06. Modello di progetto.

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scansione di finestre alternata su due livelli. Queste si interrompono con il rientrare del volume rispetto alla strada, in corrispondenza dell’ingresso della sala comunitaria, illuminata da un basso taglio orizzontale. Sopra di esse, uno squarcio di cielo è incorniciato da una grande apertura a livello della terrazza soprastante. L’edificio prosegue cieco e massivo sul retro della chiesa e sul lato della cappella feriale. Il complesso parrocchiale è un nuovo frammento di città, che con la sua varietà di linee ed espedienti formali arricchisce l’immagine del quartiere. Se, da un lato, è doverosa una valutazione positiva di questo intervento per la sua qualità urbana, dall’altro, la vera ricchezza si trova nella felice risposta della comunità dei fedeli che, sin dal giorno della prima messa, ne ha iniziato a frequentare assiduamente il tempio, chiamandolo “la chiesa della luce”. Infatti, varcata la soglia della basilica, si rimane colpiti dal nitore dell’atmosfera e dalla chiarezza degli spazi. La chiesa è illuminata da una luce indiretta, pulviscolare, proveniente principalmente dal filtro dei grandi setti sulle pareti dell’aula e da

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committente Parrocchia di Borgo Nuovo Progetto architettonico Archingegno - arch. Carlo Ferrari, arch. Alberto Pontiroli collaboratori geom. Andrea Chelidonio, arch. Alessandro Martini, arch. Marco Rizzi ing. Giovanni Montresor, ing. Mattia Gaspari (strutture) ing. Guido Simiele (sicurezza) p.i. Enrico Guerra, p.i. Luca Bonato, p.i. Umberto Bissoli (impianti) direzione lavori ing. Luigi Albertini resp. del procedimento arch. Ernesto Pisani imprese e fornitori Fedrigoli Costruzioni, GE.CO. Verona (opere edili), Sinectra (imp. elettrici e speciali), Idraulica Fiorini (imp. termoidraulici), Bertolani Costruzioni (soluz. costruttive evolute), Garzon Stefano e Michele (rivestimenti in legno), Iso-Sistem Tecnologie (cartongessi e pitture), Rewal (lavorazione acciaio), Performance in Lighting (apparecchi illuminanti, Itlas (pavimenti). Cronologia Concorso: 2007 Progetto e Realizzazione: 2013-2018 07. Il fronte principale prospetta sull’area verde del borgo compresa tra le vie Gela, Trapani, Taormina e Selinunte. Il rosone e le campane sono elementi identitari provenienti dalla vecchia chiesa. 07

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PROGETTO

La basilica del Villaggio

08. Schizzo di studio relativo alle relazioni tra luoghi ed elementi liturgici. 09. L’asse trasversale della navata connette simbolicamente le opere parrocchiali al fonte battesimale. 10. La cappella feriale vista dalla navata: sul fondo una tela della pittrice toscana Gabriella Furlani. 11. Il fonte battesimale con la chiostrina, fonte di luce naturale, e le opere dello scultore altoatesino Hermann Josef Ringgaldier. 12. Il tabernacolo, opera dell’artista Giuliano Gaigher. 13. Le vetrate artistiche di Salvatore Cavallini provenienti dalla vecchia chiesa sono state allestite scenograficamente nell’atrio delle opere parrocchiali.

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alcune aperture zenitali significative. Un aspetto seducente è la forte tattilità visiva dei materiali: la pietra levigata dei pavimenti, i cementi nudi con i casseri a vista, il legno naturale dei rivestimenti. Tre materiali che nella loro essenzialità restituiscono un ambiente rigoroso ma non austero. Morbide superfici lapidee, cementizie e lignee danno corpo ad un nucleo avvolgente, impostato su una pianta a campana in cui l’incurvamento della zona presbiteriale ne rallenta l’impostazione longitudinale. La direzione sull’asse est-ovest (piazza/altare) è resa netta e riconoscibile soprattutto in alzato, mentre sul piano è ibridata con l’asse opposto nordsud, sul quale è impostato il percorso che va al fonte

« Il complesso parrocchiale rappresenta un nuovo frammento di città che con la sua varietà di linee ed espedienti formali arricchisce l’immagine del quartiere »

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battesimale. Questo incrocio è reso possibile grazie alle due grandi aperture orizzontali sul fianco sinistro della navata che collegano l’aula alla cappella feriale. La percezione è quella di uno spazio continuo, in cui l’orientamento è dato dal diverso peso della luce nei vari ambienti. Uno studio attento ha infatti permesso di convogliare l’illuminazione naturale nei punti più significativi dei due assi: l’altare e il fonte battesimale. L’armoniosa teoria di setti sospesi che avvolge la navata termina sull’altare lasciando spazio ad una quinta di lamelle lignee che, poste sullo sfondo del presbiterio, vanno simbolicamente dalla terra al cielo. L’effetto trascendente di questa ascensione è ottenuto grazie ad una grande finestra nascosta sopra l’altare, dalla quale scende una cascata di luce naturale. L’altro polo compositivo si trova dietro il fonte battesimale: qui una stanza vetrata porta luce dall’alto sul fianco della cappella feriale, sul limite nord dell’edificio. Al suo interno si trova un giardino di ciottoli, in cui una famiglia di statue in bronzo, non

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La basilica del Villaggio

PROGETTO 14. Sezione trasversale sulla navata. 15. Le quinte di legno sospese filtrano all’interno della navata la luce naturale. 16. Veduta della navata. 17. Elementi devozionali di recupero trovano posto in un ambito di passaggio tra navata e cappella feriale.

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ancora purificata dal battesimo, cammina verso il fonte. Il basamento di questo volume è una vasca in cui sono riprodotte come sinuose onde marmoree le acque del Giordano, in una perfetta integrazione tra l’opera d’arte dello scultore Hermann Josef Runggaldier e l’architettura. Una nota a parte va dedicata agli apparati scultorei e pittorici della chiesa: sempre di Runggaldier sono l’altare e l’ambone. Mentre la grande tela della Cappella Feriale e i pannelli della Via Crucis sono stati realizzati dalla pittrice Gabriella Furlani. Giuliano Gaigher è intervenuto per il tabernacolo e Tito Amodei per il Crocefisso. L’opera dello studio Archingegno è frutto di un grande sforzo progettuale, oltreché di un lungo percorso amministrativo e burocratico. Il risultato è un edificio contemporaneo, felice connubio di esigenze funzionali e rappresentative, che si pone come propulsore di cambiamento all’interno di un quartiere periferico e dal passato difficile.

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archingegno Lo studio Archingegno dal 1998 ad oggi ha progettato e realizzato edifici pubblici, residenziali e terziari, con particolare esperienza nella progettazione di spazi per il lavoro. I soci fondatori Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli considerano l’architettura come intreccio di elementi storici e contemporanei, con l’obiettivo di realizzare architetture di qualità, tecnologicamente avanzate, sostenibili ed efficienti. Con l’edificio per uffici, auditorium e laboratori Simem a Minerbe si aggiudicano il premio speciale della giuria al Premio Architetti Verona nel 2011 e nel 2017 una menzione per la Cantina Valetti, pubblicata su «AV» 108, pp. 26-33. www.archingegno.info

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PROGETTO

In principio era il concorso La costruzione della chiesa di Borgo Nuovo assieme alla nuova parrocchia di Balconi di Pescantina a partire dalle vicende dei due concorsi fino agli esiti di qualità

01. Render del progetto di concorso della chiesa di Borgo Nuovo (Archingegno). 02. L’aula della chiesa di Borgo Nuovo affollata durante la messa inaugurale. 03. La chiesa di Balconi di Pescantina nella fase finale del cantiere. Progetto: arch. Roberto Paoli, arch. Gustavo Carabajal, arch. Sergio Ruggeri, ing. Gianfranco Giovanelli.

Testo: Massimiliano Valdinoci

Prima di parlare dei progetti e delle recenti realizzazioni delle due chiese di Borgo Nuovo e di Balconi di Pescantina – quest’ultima ancora in fase di completamento – è necessario inquadrare brevemente il tema della costruzione di nuove chiese in Italia a partire dagli anni Novanta1. Nel 1990 infatti la Conferenza Episcopale Italiana, sotto la guida del cardinal Ruini, aveva preso una serie di decisioni a favore delle diocesi italiane soprattutto per quanto riguarda i beni culturali, l’architettura e l’arte sacra. Ciò fu attuato mediante alcune scelte per certi decisive: l’istituzione presso la Segreteria generale del Servizio nazionale per l’edilizia di culto e successivamente nel 1995 dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici 2; la destinazione di una quota consistente dell’otto per mille all’edilizia di culto e ai beni culturali; l’approvazione di due documenti pastorali significativi anche se non vincolanti, La progettazione di nuove chiese (1993) e L’adeguamento delle chiese alla riforma liturgica (1996); infine la ripresa delle iniziative di formazione del personale delle curie diocesane e dei professionisti interessati3, così com’era accaduto solo negli anni Trenta. A queste scelte ha fatto seguito un’iniziativa senza precedenti, fortemente voluta dall’allora direttore dell’Ufficio nazionale per i Beni culturali Mons. Giancarlo Santi e molto significativa anche per l’architettura italiana di quegli anni (soprattutto in un paese come il nostro dove spesso non venivano indetti concorsi e ancor più spesso non venivano realizzati) che è stata l’indizione a partire dal 1998 di una terna di concorsi pilota (Nord, Centro, Sud) a invito per la costruzione di nuovi centri parrocchiali. Essi avevano come linee guida la già citata nota

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pastorale PNC, ma soprattutto impegnavano le diocesi che vi aderivano alla realizzazione del progetto vincitore. L’esito di questi concorsi e di quelli seguiti negli anni – con vincitori come Gabetti e Isola, Fuksas, Gresleri, Tagliabue, Galantino e Cucinella, assieme ad alcune realizzazioni come quelle di Meier, Zermani, Zucchi e Botta – anche se non hanno prodotto opere spartiacque come la chiesa della Madonna dei Poveri di Figini e Pollini o la chiesa dell’autostrada di Giovanni Michelucci, hanno inevitabilmente e senza reticenze aperto ai nuovi linguaggi privi di nostalgie storiciste. In questo contesto culturale si sono inseriti i concorsi per le due nuove chiese nella diocesi di Verona, dopo molti anni in cui non se ne erano costruite più. L’esperienza di chi scrive è quella di un testimone consapevole e appassionato di questi temi, che dopo una lunga e proficua collaborazione con Mons. Santi iniziata nel 2001, nel 2007 è stato chiamato dall’Ufficio nazionale per l’edilizia di culto della CEI, insieme ai colleghi Giorgio Della Longa di Roma e Donatella Forconi di Milano, a far parte della commissione giudicatrice dei due

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concorsi. Gli esiti di tale vicenda, sia pur portata a termine dopo molti anni, sono molto positivi per la qualità di ciò che è stato realizzato rispetto a quanto era stato prodotto in diocesi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, sia per quanto attiene l’architettura degli edifici e l’articolazione dello spazio liturgico, sia per quanto attiene l’apparato iconografico, che nel caso della chiesa di Borgo Nuovo risulta di notevole qualità artistica. La parrocchia di Borgo Nuovo, che aveva una chiesa costruita frettolosamente nel dopoguerra e diventata troppo piccola per la popolazione del quartiere, e la parrocchia di Balconi, la cui comunità era cresciuta nel tempo per la realizzazione di nuove lottizzazioni, avevano indetto dei concorsi a inviti senza coinvolgere nessun esperto, con la scelta del progetto vincitore mediante una giuria composta da parrocchiani. La necessità di dover ricorrere al contributo della CEI costrinse la diocesi a rivedere i bandi, con l’obbligo di inserire un consulente liturgista nel gruppo di progettazione ma soprattutto rivedendo criteri di valutazione e componenti della commissione giudicatrice per coadiuvare l’operato di valuta-

« Gli esiti dei due concorsi sono molto positivi sia per l’architettura degli edifici e l’articolazione dello spazio liturgico sia per quanto attiene l’apparato iconografico » zione delle proposte in ambito parrocchiale. La commissione, riunitasi in due sedute distinte4, si diede dei criteri di valutazione omogenei incentrati sulla qualità urbana, qualità architettonica e dello spazio liturgico. A partire da questi criteri per Borgo Nuovo fu individuato come progetto vincitore5 quello del gruppo degli architetti Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli con don Franco Magnani come consulente liturgista, con la seguente motivazione: “Il sobrio linguaggio utilizzato dal progetto (…) risulta più adeguato degli altri alla contemporaneità e gestisce con semplicità e chiarezza forme e materiali. Le scelte tipologiche e distributive degli ambienti risultano risolte con chiarezza (…) rispetto alle esigenze evidenziate per le attività pastorali,

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lasciando intravedere una adeguata flessibilità rispetto al possibile mutare delle esigenze e delle richieste che si prospetteranno nelle fasi di approfondimento progettuale”6. A Balconi di Pescantina invece tra i nove progetti pervenuti fu individuato come vincitore quello del gruppo guidato dal professor architetto Gustavo Carabajal con la seguente motivazione: “Solamente su di un progetto, contraddistinto dal motto La gloria di colui che tutto muove, è sembrato giusto soffermarsi poiché era di gran lunga quello in cui emergeva qualità architettonica e impegno progettuale necessari per una siffatta opera e la capacità di strutturare e articolare la vasta area di pertinenza del complesso secondo una chiara gerarchia e con soddisfacimento delle esigenze dalla scala generale al particolare (…). Emerge inoltre la qualità delle scelte sia nelle forme che nei materiali che nella qualità della luce della chiesa, ma anche nel rapporto fra l’interno e l’esterno e nel sistema dei percorsi di accesso al sagrato e alla chiesa come nella gerarchia tra edificio principale ed edifici complementari”7.

1 Per una più approfondita analisi su questo tema e in particolare sulla costruzione di nuove chiese cfr. G. Santi, Le nuove chiese in Italia nel XX secolo, Milano, 2019. 2 Tali Uffici, riuniti a partire dal 2015 in un’unica struttura, erano al servizio delle diocesi italiane con il compito di fare formazione e gestire i contributi dell’otto per mille. 3 In particolare i cicli dei corsi residenziali prima a Torino (1996-1999), Firenze (20012005) e Padova (2007) e successivamente I Convegni internazionali di Venezia (2003-2010). 4 Rispettivamente il 3 agosto 2007 per Borgo Nuovo e il 3 settembre dello stesso anno per Balconi di Pescantina. 5 I tre gruppi invitati erano così composti: progetto A arch. A. Pontiroli, arch. C. Ferrari, liturgista don Magnani; progetto B arch. G. Dalle Pezze, liturgista don Girardi; progetto C ing. V. Venturi privo di consulente liturgista. 6 Dal verbale della commissione. 7 Ibidem.

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PROGETTO

Tutto è sagrato

La riqualificazione dello spazio pubblico simbolicamente più rappresentativo per la comunità di Cavaion restituisce una nuova identità al luogo

Progetto: arch. Egle Perini Testo: Angela Lion Foto: Marco Toté

Cavaion Veronese

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Con il termine piazza si è soliti identificare uno spazio libero, più o meno grande, aperto su di un tessuto urbano limitato da costruzioni spesso architettonicamente importanti e abbellito talvolta da alberature, monumenti, fontane. La sua funzione urbanistica è quella di facilitare il movimento ed eventualmente la sosta dei veicoli, di dare accesso a edifici pubblici, di servire da luogo di ritrovo e di riunione dei cittadini, costituendo il centro pulsante della città o di un paese. Piazza della Chiesa racchiude in sé tutte queste caratteristiche, tali da farne il luogo più rappresentativo di Cavaion Veronese, comune posto nella prima cerchia collinare alle spalle del Garda e per questo, come si usa dire, “ridente”. Caratteristiche insite nel luogo, ora pienamente valorizzate grazie al progetto di risistemazione disegnato da Egle Perini e fortemen02 te voluto dall’amministrazione locale, che ha ridato alla cittadinanza – e non case e la collina, verso Spiazzi. L’amsolo – uno spazio aperto collettivo fi- bito progettuale si presentava dunque nalmente adeguato al suo ruolo. come un vuoto urbano appena distinIl luogo stesso dell’intervento per la guibile dal resto del tessuto stradale; sua configurazione urbana presen- solo un limitato ambito era utilizzata delle caratteristiche con le qua- to come plateatico di un’attività ristoli il progetto si è rativa, limitanconfrontato. La do fortemente la « Il sistema piazza piazza si trova vocazione agviene identificato dalla infatti ai piedi gregativa dell’apavimentazione, continua rea e conferendella chiesa che domina dall’alto dole un carattere di per sé, rendendola l’abitato di Cavadi marginalità, percepibile come ion e che spicca quasi si trattasspazio unitario » alla vista da lonse di un semplice tano, dalle straslargo all’interno de limitrofe che conducono al lago e del tessuto urbano. Ad accentuare la al suo entroterra. Una volta raggiunta mancanza di un’identità contribuiva la piazza salendo il tratto alberato di la presenza di un arredo assolutamenViale della Rimembranza, la strada si te anonimo e privo di riferimenti al allarga in corrispondenza della chie- contesto. sa fino a trasformarsi nel suo sagrato, Nel ripensare l’assetto di questo luoper poi restringersi e proseguire tra le go, l’accento è stato posto sugli ele-

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01. La zona rialzata destinata alla sosta all’ombra delle alberature esistenti. 02. Veduta zenitale della piazza. 03. Particolare dell’area prospiciente il belvedere.

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PROGETTO

Tutto è sagrato

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04. Planimetria generale: il disegno delle fasce in Rosso Verona bocciardato, disposte perpendicolarmente alla chiesa e al belvedere, confluisce in una caditoia centrale che attraversa tutta la piazza.

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menti di valore paesaggistico e monumentale: l’imponente chiesa dedicata a San Giovanni Battista (le cui attuali proporzioni risalgono all’ampliamento realizzato tra il 1810 e il 1830), il monumento ai caduti, il belvedere alberato e l’accesso a via Garibaldi, un percorso pedonale che collega la piazza con la sottostante via Roma. La chiesa parrocchiale in origine presentava l’accesso sul suo asse principale: solo in un secondo momento fu utilizzato come ingresso il portale laterale, trasformando di fatto l’allargamento della strada nel suo sagrato. Una condizione però fuori controllo per quanto riguarda le auto in transito e quelle in sosta. Il progetto si è posto l’obiettivo in primo luogo di mettere in sicurezza la piazza, moderando l’attraversamento (che non poteva essere eliminato) e massimizzando l’area pedonale: i parcheggi sono stati confinati all’inizio della piazza sul lato del belvedere. Il principio progettuale è sintetizzabile nell’espressione “tutto è piazza”: l’area è deliberatamente interpretata come unitaria, pur connotando in sé più funzioni nei diversi ambiti d’utilizzo. Si definisce così uno spazio prevalentemente pedonale su tutta l’area antistante gli edifici, la chiesa e il monumento, limitando l’accesso veicolare ai soli residenti e all’attraversamento che viene fortemente moderato. Quest’ambito si articola su due quote differenti: quella superiore, più raccolta, comprende il plateatico del bar-ristorante, alcune panchine disposte liberamente e grandi aiuole attorno agli alberi preesistenti, arricchiti da arbusti e fiori. La quota più bassa è destinata al passaggio, all’incontro e alle eventuali manifestazioni, ed è caratterizzata da una fontana a filo pavimentazione, posta in asse

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05. Nella piazza il traffico di attraversamento è ora moderato dalla pavimentazione e da dissuasori. 06. Particolare delle aiuole fiorite sul bordo dell’area rialzata.

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con l’ingresso alla chiesa, e dal bordo in pietra tra i due ambiti che funge anche da seduta. Il sistema piazza viene identificato dalla pavimentazione, continua di per sé, rendendola percepibile come spazio unitario. È caratterizzata dall’alternanza del porfido in lastre posate a correre, ritmato da fasce in Rosso Verona bocciardato, disposte perpendicolarmente alla chiesa e al belvedere, confluendo in una caditoia centrale in pietra che attraversa tutta la piazza fino alla fontana. Nella zona rialzata, la pavimentazione è sempre in porfido a cubetti, in modo da riprendere la medesima tipologia già presente

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in prossimità dell’ingresso ovest alla chiesa. Nell’area del belvedere, una serie di panche in pietra interposte tra le alberature esistenti offre un’alternativa al parapetto murario come appoggio per ammirare l’ampio panorama. In corrispondenza del monumento ai caduti, la pavimentazione in acciottolato ne riperimetra il basamento, a sua volta utilizzabile come elemento di seduta. Pochi altri elementi di arredo urbano sembrano appoggiati nella piazza con estrema naturalezza a segnare ulteriori possibilità di seduta, come le grandi sedie in legno collocate tra le aiuole alberate.

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PROGETTO

Tutto è sagrato

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07-08. Il salto di quota regolarizza le pendenze e definisce un ambito rialzato più raccolto accanto al monumento ai caduti e in prossimità del belvedere. 09. Dettaglio di una panca in marmo.

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Il disegno progettuale è, infine, scandito da un’illuminazione artificiale il cui obiettivo è valorizzare l’immagine urbana, utilizzando al meglio le potenzialità della luce per creare un ambiente confortevole nelle ore serali e notturne, differenziandone i tratti nelle loro funzioni. La differenziazione dei materiali, il gioco delle quote, le diverse tipologie di apparecchi illuminanti e gli elementi di arredo ur-

bano sono stati fondamentali nella filosofia del progetto, nel rispetto del contesto storicizzato, della sua conformazione morfologica e della molteplicità di usi che doveva accogliere. Il progetto della nuova piazza, inaugurata la vigilia di Natale del 2018, ha saputo scardinare l’assetto consolidato nel tempo ridando vitalità a un ambito urbano dall’elevato valore simbolico per Cavaion. La piazza

della Chiesa ha ritrovato così una sua focalità: sicura ed accogliente per la comunità, luogo di incontro ma anche di spettacoli e manifestazioni.

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Committente Comune di Cavaion Veronese RUP geom. Marcello Pachera Progetto architettonico arch. Egle Perini direzione lavori arch. Damiano Capuzzo arch. Nicola Braggio (sicurezza) impresa Italbeton srl, Affi (VR) Cronologia Progetto: 2017 Realizzazione: 2018 dati dimensionali Superficie complessiva: 2.200 mq Importo complessivo appalto: Euro 460.592,26

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PROGETTO

Ricerca di luce

La ristrutturazione di un edificio nel cuore di Veronetta si confronta con la morfologia dell’edificio e con un articolato studio delle relazioni tra oggetti e spazi architettonici

Progetto: arch. Ivonne Sthandier - sthandierdesign Testo: Federica Provoli

Foto: Cristina Fontana

Verona

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L’edificio progettato dall’architetto Ivonne Sthandier come residenza per sé e per la propria famiglia si trova in via San Nazaro, nel cuore del quartiere di Veronetta, ed è il classico terracielo dotato di un piano interrato, tre piani fuori terra e una piccola corte sul retro. Il fabbricato originario era parte del comprensorio della Fonderia Cavadini, storico opificio di fonditori di campane che si estendeva nel cuore dell’isolato compreso tra via XX Settembre e via San Nazaro fino al 1974, anno di chiusura dell’attività, ed ha sempre avuto la caratteristica dell’annesso residenziale. Da allora il piano terra, essendo disabitato, è 02 stato utilizzato come passaggio promiscuo e scorciatoia tra le due vie. Al L’ingresso principale è affacciato a momento dell’intervento, l’edificio si nord su via San Nazaro, dove il protrovava in pessime condizioni, infat- spetto è stato restaurato con un apti, intonaci e dettagli decorativi come proccio conservativo di tutti gli elecornici e modanature in pietra erano menti; il prospetto rivolto a sud si fortemente deteriorati dall’abbando- apre su una piccola corte interna prino, dall’azione degli agenti atmosferi- vata. La scala in pietra esistente è staci e dall’inquinata mantenuta e mento. Il corpo di « Nel passare da un piano oppor t unamenfabbrica presenta all’altro si ha una continua te rinforzata, così una pianta molcome diverse parsensazione di sorpresa to allungata, larti strutturali ore tensione verso quello ga mediamente mai ammalorate. tre metri e mezIl progetto di reche ci si aspetta in un zo e lunga circa cupero prende crescendo coinvolgente diciannove meavvio dalle carate dinamico » tri, caratteristica teristiche morfoche ha obbligato logiche dell’ediil progetto a scelte distributive pre- ficio, e si dipana in una sequenza di cise, alla ricerca di luce per gli am- episodi che si possono cogliere attrabienti situati nella zona più interna versando la casa come in un percorso che ne sono naturalmente sprovvisti. narrativo dei diversi spazi. Dal porLa struttura costruttiva originaria era toncino di ingresso, uno stretto cormolto semplice, formata da due muri ridoio illuminato da lampade incassadi spina portanti composti prevalen- te che segnano la direzione conduce temente di pietrame e mattoni, una alla scala in pietra che porta ai piani scala in pietra posta a circa un terzo superiori e a una zona servizi situata della profondità in pianta, solai con nell’interrato. orditura di legno e tavolato in abete. Addentrandosi nella profondità del

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01. Gli elementi metallici della scala che conduce all’ultimo livello. 02. II pozzo di luce nella parte più profonda dell’edificio in una veduta verso il basso. 03. La struttura ad albero in tubolare di ferro come elemento di rinforzo della scala preesistente. 04. Passaggio dalla cucina verso l’ingresso al piano terreno. 03

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PROGETTO

Ricerca di luce

05. Schizzi di studio del progetto di ristrutturazione. 06. La stratificazione dei diversi livelli nella sezione longitudinale. 07. Dal basso, piante dei piani terreno, primo e secondo. 08. Veduta della scala in pietra al piano terreno. 09. Il living al secondo livello. 10. L’area studio con gli arredi su disegno.

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SEZIONE LONGITUDINALE

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PIANO SECONDO

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PIANO PRIMO

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corpo di fabbrica si arriva all’ambiente cucina-pranzo rivolto verso il cortile, passando attraverso un elemento a ponte in metallo al di sopra del quale si apre un pozzo di luce a tutta altezza, fonte di illuminazione naturale per la zona centrale della casa oltre che elemento di comunicazione interna tra gli ambiti “sociali” dell’abitazione. Il piccolo balconcino al primo livello affacciato sul passaggio verso la cucina ne mette in evidenza la profondità, segnata anche dai lunghi cavi tesi delle Parentesi a cui è affidata l’illuminazione artificiale. In corrispondenza del pozzo di luce il pavimento è ribassato, a segnare ulteriormente la profondità di questo elemento svelandone una sorta di livello archeologico inferiore. La pavimentazione di tutto il piano terreno è realizzata in cementine quadrate bianche e nere disposte a quarantacinque gradi, in parte recuperate dalle finiture stratificate nel tempo nello stesso edificio. Salendo al primo piano, si scopre come la scala sia stata rinforzata attraverso una struttura in ferro “ad albero”, con un tronco centrale e cinque

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ivonne sthandier Nata a Caracas (Venezuela), si trasferisce a Washington D.C. negli Stati Uniti, dove si laurea in architettura alla Syracuse University di New York. Dopo la laurea lavora presso DillinghamOhbayashi Construction al progetto di estensione della Metropolitana di Washington. Trasferita in Italia, collabora con lo studio Cavazza di Vicenza realizzando tra l’altro la Biblioteca Civica Giulio Bedeschi di Arzignano. Per Dainese disegna i primi espositori degli showroom monomarca. Ottiene una seconda laurea allo IUAV di Venezia e apre Sthandier Design a Verona, dividendo il proprio lavoro tra progettazione edilizia e il design di arredi. www.sthandierdesign.com 09

bracci che vanno a supportare gli elementi lignei strutturali originari. A questo livello troviamo due stanze da letto con i relativi bagni, delimitati da pareti con i sopraluce completamente vetrati allo scopo catturare una quota di illuminazione naturale dal cavedio centrale. Il pavimento è in tavolone di rovere evaporato. Giunti al secondo piano attraverso la scala in pietra si raggiunge il soggiorno; sulla parete nord tra le due finestre trova posto un camino moderno di forma cilindrica che sfrutta la canna fumaria esistente. Al di sopra del vano scala è stato ricavato un angolo bar. Sul lato opposto si trova la zona

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studio, con un grande mobile contenitore color petrolio oltre al tavolo-scrivania Hands Up (Sthandier Design). Anche in questo livello il pavimento è in tavolone di rovere evaporato, tranne una porzione in vetro stratificato in corrispondenza del pozzo di luce. Dallo studio si stacca la nuova scala in ferro color testa di moro che porta all’ultimo livello dell’edificio, in cui trovano posto la stanza padronale con il relativo bagno. Anche qui la ricerca della luce si manifesta nell’uso di pareti vetrate, sia in corrispondenza dell’affaccio della camera sul soggiorno sia nel bagno in corrispondenza della vasca da bagno.

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PROGETTO

Ricerca di luce

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Giunti al culmine di questo percorso ascensionale, attraverso l’esperienza degli spazi progettati da Ivonne Sthandier si coglie molto del suo modo di progettare, assieme al fatto che negli ultimi anni il suo interesse professionale si sia spostato molto verso il design di elementi d’arredo. Oltre al dettaglio costruttivo, l’attenzione è rivolta a ogni singolo oggetto, non solo quando si tratta di pezzi disegnati da Ivonne stessa. Ciascun elemento, dal più piccolo al più grande, sembra appoggiato al posto giusto con un senso compiuto e con l’attenzione di chi ripone molta importanza al rapporto tra oggetto e spazio. Gli stessi elementi distributivi introdotti ex novo nella casa, dal ponte in metallo alla scala che conduce all’ultimo livello, sono progettati per essere degli oggetti, elementi strutturali ma anche scenografici. Come racconta la stessa progettista, sono stati pensati a partire dalla materia grazie a modelli di carta e cartoncino tagliati e piegati, prima ancora che attraverso lo schizzo e il disegno.

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La ricerca della luce nel cuore di un edificio così singolarmente stretto e profondo appare uno dei temi rilevanti di questo progetto, punto caratteristico e qualificante dell’organizzazione degli spazi. Salendo dal basso verso l’alto, tra il giallo-oro delle pareti e dei solai e il colore bruno degli elementi in ferro, la luce crescente dilata la percezione degli ambienti, che si fanno via via più leggeri. Nel passare da un piano all’altro, si ha una continua sensazione di sorpresa e tensione verso quello che ci si aspetta, in un crescendo coinvolgente e dinamico. Per dirla con parole che piacciono a Ivonne, “the best is yet to come”, nella vita come nell’esplorare questa casa. Il meglio deve ancora venire.

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Committente Privato Progetto architettonico arch. Ivonne Sthandier Sthandier Design consulente arch. Cipriano Cavazza collaboratrice Jessica Tibaldo imprese e fornitori Impresa Edile Safil (opere edili), VB Art&Metal (opere in ferro), vetro Service (opere in vetro), Diuma (falegnameria), Arkilux (illuminazione), Sthandier Design (arredi) Cronologia Progetto e Realizzazione: 2015-2018

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11. L’affaccio vetrato della camera padronale sul livello inferiore. 12. La scala metallica collega l’area dello studio all’ultimo piano con la camera padronale. 13. Finestra con vista sullo studio dalla vasca da bagno posta all’ultimo piano.

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PROGETTO

L’attico ritrovato

L’architettura degli interni di un alloggio nel centro storico di Verona disvela la scorza grezza delle murature e suddivide gli spazi attraverso gli arredi su misura

Progetto: arch. Filippo Bricolo - Bricolo Falsarella associati Testo: Leopoldo Tinazzi, Filippo Romano Foto: Atelier XYZ

Verona

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Così come la dimostrazione di un teorema matematico, anche un progetto è tanto più efficace quanto più è sintetico. Ma se una sequenza di calcoli porterà sempre a un risultato univoco, nell’architettura gli esiti possono essere infiniti, in quanto intervengono fattori il cui valore non può essere determinato scientificamente. Questo è lo spazio libero all’interno del quale si muove l’architetto. Uno spazio dalla duplice natura: ha dei confini molto chiari e al contempo molto labili. Come risultato di questo oscillare tra la libera immaginazione e il vincolo della materia, viene tracciato il solco del disegno, espressione contemporaneamente scientifica e umanistica. Il progettista è dunque l’interprete di una mediazione, la cui sceneggiatura dovrà essere trovata di volta in volta nel percorso che collega l’idea alla realizzazione. La recente ristrutturazione di un attico nel centro storico di Verona da parte dello studio Bricolo-Falsarella parte proprio dall’idea di riportare il manufatto edilizio al proprio valore unico. In seguito ai sondaggi preliminari sulle murature portanti, queste, liberate dagli intonaci, hanno rivelato una pietra gallina sbozzata. All’interno di questa scorza grezza trattata a scialbatura di calce, si è poi proceduto a suddividere gli spazi con il solo inserimento di arredi su misura. Funzionalmente la casa si articola in un ingresso, tre ambienti principali e due blocchi servizi. Dall’ingresso si entra a destra nella stanza per gli ospiti e a sinistra nella zona soggiorno con cucina a vista. Da qui si accede alla camera padronale attraverso un piccolo corridoio, diviso tra un lungo armadio a muro e il blocco dei servizi, che si affaccia sulla camera attraverso un doppio vetro, a specchio e polarizzato. La connessione visiva che si crea fra il bagno e la camera, moltiplica lo spazio intimo della casa, regalando l’ampiezza di un ambiente continuo. Al di là della netta distribuzione, rispondente in maniera esatta alle esigenze della committenza, il racconto dell’intervento non può che avere come centro la descrizione dei suoi elementi fisici.

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01. Il soggiorno visto dalla cucina. 02. La cucina in bronzo brunito e l’elemento centrale in ottone su cui si attesta il tavolo da pranzo. 03. Pagine del quaderno con gli schizzi relativi al soggiorno

e alla figura simbolica della vesica piscis per mascherare il televisore. 04. Veduta di scorcio sul soggiorno con le due sagome circolari in ottone. 04

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PROGETTO

L’attico ritrovato 05. L’evoluzione del volume dei servizi nei disegni di Filippo Bricolo. 06. Le finestre del soggiorno affacciate sul centro storico di Verona. 07-08. Il bagno visto dalla stanza da letto, separato visivamente da una finestra trattata con vetro polarizzato e uno specchio.

a burned wood boiserie A suon di jazz, alcuni momenti del processo di lavorazione della boiserie. Su una base di pitch-pine viene stesa una verniciatura al minio; successivamente le tavole vengono bruciate con la fiamma ossidrica, ottenendo un nero dalle venature rossastre. Video: Nicolò Garonzi video https://architettiverona.it/ video/a-burned-wood-boiserie/

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I volumi dei servizi, la boiserie del soggiorno e l’ar- più ampio della ricerca sui materiali dell’appartamadio a muro sono realizzati in legno bruciato e mento: la finalità è stata quella di creare un ambienlamiera nera. Alcuni innesti in ottone completano te caldo, dalla ricca corporeità, in cui il ritmo degli l’articolata gamma delle scelte materiche. spazi si accoppiasse ai diversi riflessi delle superfici. L’insieme dei riferimenti è dichiaratamente scar- L’esperienza abitativa viene così valorizzata dall’aupiano e ricade nella scelta di affidarsi ad un gusto mentare dei sensi coinvolti. oggettivamente veneto. Lo stesso appartamento La stessa cura è stata messa anche nella progetin altro luogo sarebbe stato diverso, come racconta tazione di alcuni arredi mobili realizzati appoFilippo Bricolo, che ci illustra il progetto sfoglian- sitamente, come il tavolo della cucina, il letto e il do dei piccoli quaderlavabo del bagno padroni, all’interno dei quali nale. Opere assemblate si trova scandita la crocon elementi industria« La connessione visiva nistoria del processo di li, come profilati IPE e che si crea fra il bagno e la camera progettazione. angolari in ferro. Promoltiplica lo spazio intimo In particolare, colpiscotagonista nel soggiorno della casa regalando l’ampiezza no gli schizzi di studio è il mobile appeso che sulla boiserie, il cui lenasconde la televisione: di un ambiente continuo » gno annerito è stato otformato da due larghi tenuto dopo lunghe ripiatti circolari, rispetticerche. Su una base di pitch-pine viene stesa una vamente in ferro e ottone, si muove su dei binari a verniciatura al minio, minerale dal colore arancio- scomparsa. ne. Successivamente le tavole vengono bruciate con Analizzando questo progetto di ristrutturazione si la fiamma ossidrica, ottenendo un nero dalle vena- capisce come ogni elemento sia stato pensato, proture rossastre. gettato e realizzato per dimostrare un’idea di habiQuesti filamenti di colore appartengono al quadro tat, che nasce dalla profonda osservazione del corpo

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filippo bricolo Laureato allo IUAV dove consegue il Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica, dal 2012 insegna presso il Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano. Nel 2003 fonda con Francesca Falsarella lo studio Bricolo Falsarella, concentrato prevalentemente sul tema del riuso e degli interventi sul patrimonio esistente. Nel 2015 si aggiudica il Premio Architetti Verona con il recupero dei rustici di Villa Saccomani a Sommacampagna. L’allestimento della Sala del Mosaico al Museo di Castelvecchio è pubblicata su «AV» 109, pp. 26-33. www.bricolofalsarella.it

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L’attico ritrovato

PROGETTO

09-10. Dettaglio e disegni del mobile bagno realizzato con profili industriali in acciaio. 11. Particolare del tavolo da pranzo. 12. Il bagno degli ospiti dove si scorgono gli arredi metallici di colore giallo. 13. La continuità del pavimento sulla testiera del letto e la muratura scialbata sullo sfondo. 14. Vista dell’armadiatura in legno di pitchpine bruciato che accompagna alla camera. 15. Disegni del letto tratti dai quaderni.

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edilizio e da una più generale comprensione del luogo e del tempo. Al di là delle citazioni, ci si trova di fronte ad un esempio di architettura degli interni pienamente contemporaneo, ma non ascrivibile a una moda o a un preciso momento storico. L’unico filone atemporale è appunto quello della scuola di un approccio totale al progetto, in cui la proporzione è l’anima del disegno e la sapienza artigianale quella del costruire.

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committente Privato Progetto architettonico e direzione lavori Bricolo Falsarella arch. Filippo Bricolo collaboratori arch. Francesca Falsarella arch. Elisa Bettinazzi arch. Nicolò Garonzi

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Cronologia Progetto e Realizzazione: 2018-2019 dati dimensionali Superficie: 90 mq

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Il Palazzo Allegri in via San Vitale

La produzione e il commercio di tessuti serici hanno permesso alla famiglia di edificare fra Quattro e Cinquecento uno dei piĂš imponenti e prestigiosi palazzi di Veronetta Testo: Bruno Chiappa

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Quella degli Allegri è una stirpe originaria di Zevio, paese nel quale troviamo operare con acquisti di terre fra gli anni Venti e Cinquanta del Trecento un Enorio del fu Galvano1. Da lui deriva la denominazione «degli Enorii/Onorii» con cui inizialmente viene indicata la famiglia. Quella di Allegri invece è dovuta al figlio Allegro che, incrementa ulteriormente la proprietà agraria, ma assieme ai fratelli Giacomo, Fineto e Giovanni risulta attivo, fin d’allora, anche nel settore della lavorazione e commercializzazione della lana. In un documento del 1353 Giacomo è definito scavezator 2 , cioè venditore di panni a dettaglio. Il trasferimento in città, dividendosi fra le contrade della Beverara e di Ferraboi, ma conservando un’abitazione anche a Zevio in località Rovealunga3, avviene probabilmente alla fine degli anni Cinquanta. Fra gli immediati discendenti di Allegro troviamo i figli Giovanni, Fineto e Alberto che nel 1398, quando abitano in San Zeno in Oratorio, procedono alla divisione dei beni, in due parti poiché Fineto e Alberto mantengono la fraterna4. Dopo la divisione probabilmente Giovanni si trasferisce in San Vitale; in tale contrada è comunque presente nel 1409 quando versa, assieme al tintore Giovanni Benadusio, la solida cifra di 1024 ducati a Bartolomeo Nichesola per panni lana e «pro merchandaria apta ad tinctoriam». Al Nichesola viene inoltre restituita una bottega da tintore con tutti gli utensili pertinenti che era stata affittata a Giovanni per due anni 5. Negli anni successivi figura sempre in San Vitale, contrada con diffusa presenza di famiglie facoltose, legate al settore tessile, fra cui i Giusti e gli Alcenago, spesso con la qualifica professionale

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di tinctor e talora con quella gentilizia di providus vir 6. Qui gestisce appunto una tintoria e consolida la sua posizione con l’acquisto di alcuni immmobili7. I due fratelli risiedono invece in Ferraboi e sono qualificati come draperii (drappieri) in vari documenti e in particolare nella costituzione di una società per il commercio della lana (1413) a tre componenti: loro due, il fratello Giovanni e Provalo Giusti con Giacomo Furlani8. Vi restano fino al 1423 quando dividono i beni e Fineto si trasferisce in San Vitale, per tornare in Ferraboi una decina di anni dopo9. è questo ramo e l’altro di San Michele alla Porta che di solito sono designati come Onorii. Nei secoli successivi l’incremento del patrimonio fondiario degli Allegri non conosce sosta e si estende dall’originale territorio di Zevio, a proposito del quale ci è pervenuto un interessante ‘impianto’ del 143810, a quello della Valpantena (Grezzana, Alcenago, Marzana), alla pianura (Sommacampagna, Nogarole, Trevenzuolo, Casaleone), alla zona pedemontana orientale (Roncà, Belfiore) e ad altre zone del Veronese. Nell’ambito della contrada si contendevano con i Giusti il primato quanto a ricchezza. In alcune di queste località la famiglia erige anche prestigiose case dominicali, prima fra tutte per l’eleganza della struttura e l’amenità del sito quella di Cuzzano11. Il palazzo di città, che senza esagerazione può essere definito imponente, sorge alla fine della via San Vitale, via della quale, seguendo l’andamento, occupa un lungo tratto del lato destro, verso il luogo un tempo detto della Levà. Probabilmente sorse per iniziativa di Giovanni fu Allegro o dei figli; in particolare di quel Giorgio, al

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01. La facciata su via San Vitale nello stato attuale. 02. La facciata prospettante su via San Vitale come appariva dopo i bombardamenti dell’ultima guerra (da M. Vecchiato, Verona, la guerra e la ricostruzione, Vago di Lavagno, 2006, p. 237).

1 Archivio di Stato di Verona (d’ora in poi ASVr), Allegri, pergg. nn. 19, 22, 25, 27, 29, 32. Un registro delle locazioni del 1438 elenca circa 250 appezzamenti distribuiti in diverse località del gebetano (ASVr, Allegri. n. 168). 2 ASVr, Allegri, perg. n. 60. 3 ASVr, Allegri, perg. n. 63. 4 ASVr, Allegri, perg. n. 135. 5 ASVr, Allegri, perg. n. 168. Il documento, come gentilmente mi segnala Claudio Bismara, venne registrato all’Ufficio di Registro (ASVr, UR, Istrumenti, reg. 22, c. 93). 6 Sulla caratterizzazione della contrada cfr. S. Lodi, Il palazzo e la contrada. La famiglia patrizia veronese nel tessuto urbano, in Edilizia privata nella Verona rinascimentale, a cura di P. Lanaro, P. Marini, G.M. Varanini, Milano 2000, pp. 79-95, in particolare p. 89. 7 ASVr, Allegri, pergg. 213, 216. 8 ASVr, Allegri, perg. n. 188. 9 ASVr, Allegri, pergg. nn. 229, 338. 10 ASVr, Allegri, proc. n. 168. Si tratta di un registro di ben 262 carte. 11 In realtà Giorgio Allegri, «famoso merchadante» acquistò da Paolo e Marcozeno Alcenago che, a loro volta, l’avevano comperata dal patrizio veneto Andrea Dandolo, la possessione «cum orto, palatio quod nominatur palacium et area Cuzani vallis Paltene cum turculari a vino et columbaria» e tutti i diritti ad essa spettanti, fatta eccezione per il vicariato e la saltaria (ASVr, UR, Istrumenti, reg. 185, c. 381v segnalatomi da Claudio Bismara).

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03. La zona in cui sorge palazzo Allegri nel Catasto Austriaco. 04. Progetto di ricostruzione del palazzo (da M. Vecchiato, Verona, la guerra e la ricostruzione, Vago di Lavagno, 2006, p. 237). 05-06. Particolare del portale d’ingresso, che mostra lo stipite di sinistra con un fregio a candelabra, fra i più raffinati dei numerosi che ornano i palazzi di Verona.

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12 ASVr, Allegri, pergg. nn. 416 e 417 e UR, Istrumenti, reg. 191, c. 309. 13 ASVr, Allegri, perg. n. 502. 14 ASVr, Allegri, pergg. nn. 610, 720, 734, 763. 15 ASVr, Allegri, n. 8, cc. sciolte datate 21 giugno 1826. Per il contratto cfr. ASVr, Notai Distretto, b. 8225, atto n. 9778. 16 ASVr, Allegri, n. 8, cc. sciolte non datate. 17 S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1732, III, p. 169 (cit. in G. B. Da Persico, Descrizione di Verona e della sua provincia, Verona 1820, parte II, p. 34 e in L. Giro, Sunto della storia di Verona, Verona 1869, II, p. 223). 18 S. Dalla Rosa, Catastico delle pitture e scolture esistenti nelle chiese e luoghi pubblici situati in Verona, a cura di S. Marinelli e P. Rigoli, Verona 1996, p. 261; T. Lenotti, Gli Allegri, «Vita Veronese», 1961, n. 8. pp. 298-301. 19 M. Vecchiato, Il palazzo Allegri, scheda in Verona. La guerra e la ricostruzione, a cura di Eadem, Verona 2006, pp. 236-237.

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quale erano passati gli edifici da follo che il padre gestiva in Montorio assieme agli Alcenago e che aveva ampliato la proprietà di immobili in San Vitale12 . Costituisce un indizio in tal senso il fatto ch’egli detti il testamento nel 1476 «in camera cubiculari, sita penes sallam magnam domus habitationis ipsius testatoris»13. In altri documenti successivi di qualche decennio si fa menzione di una «sala supra lodia», di un «caminus terenus» e di sale genericamente indicate che fanno riferimento all’interna articolazione della domus14. Il casatico di sinistra Adige, compilato nei primi anni dell’Ottocento, descrive la residenza degli Allegri, allora intestata a G. Battista, come un complesso edilizio dotato di ampi spazi interni (tre corti e una corticella) e comprendente cinque appartamenti con diverse stanze. Rimase degli Allegri fino al 1826 quando la contessa Lucrezia Allegri, vedova di Orazio Sagramoso e ultima discendente della famiglia, pen-

sò di cederlo al suo creditore Antonio Arvedi per il prezzo di 76.000 lire austriache. Il palazzo era allora condotto in affitto dal Comune di Verona che, avendo bisogno di una sede decorosa ove collocare gli uffici e la residenza del generale comandante austriaco, si accordò di subentrare all’Arvedi nell’acquisto versando 89.000 lire austriache15. Un documento privo di data, ma che riteniamo appartenga all’epoca della vendita, specifica l’uso dei «luoghi componenti il piano sotterraneo e terreno del grandioso palazzo» e ci fornisce di essi alcuni dettagli di carattere architettonico e tecnico. In tutto si tratta di ben 58 ‘luoghi’, non computando le cantine, fra i quali uno «scalone magnifico di pietra viva con ringhiera di marmo». Non meno numerosi quelli del primo piano - dei quali pure è fornito l’elenco in altra carta - al quale si accede tramite il già citato «maestoso scalone». Nelle camere, per lo più soffittate a plafone, e in alternativa a travi e tavole, si al-

ternano i pavimenti in pietra viva, a quelli a quadrelli e a quelli, più rari, «a terrazzo». Da segnalare la «spaziosa sala dipinta, pavimentata a terrazzo», ossia il salone di rappresentanza, una «saletta dipinta a prospettiva» e una «camera con camino ornata di stucchi e pitture». Dipinto risulta pure il passatizio dello scalone16. Sappiamo, anche, per il lusinghiero giudizio del Maffei («pochi uguali anche nelle città più importanti»17), che il salone del piano nobile era stato affrescato da Lodovico Dorignj, che per gli Allegri operò anche nella villa di Cuzzano di Valpantena, e riquadrato da Filippo Maccari; e che ai due pittori erano da ascrivere anche le decorazioni di altre stanze del palazzo. Dalla Rosa ricorda la presenza nelle camere terrene delle Storie di Ferraù di Marco Marcola e la riquadratura del soffitto della sala di Giovanni Mattioli, non che le statue della scala di Gaetano Cignaroli18. Già nel 1933, secondo una attestazione del Genio Civile, di tutto questo non restava che «una stanza affrescata nel soffitto ed altre due aventi una cornice e qualche riquadro a stucco sulle pareti»19. Su finire della guerra l’intero complesso venne colpito da spezzoni incendiari; crollarono tutti i solai e parte dei muri perimetrali. Si salvarono dalle fiamme le riquadrature del Maccari.

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Della facciata in particolare crollarono alcuni tratti del piano ultimo: in corrispondenza del portale e della sesta, settima e ottava finestra di destra. Il progetto di ricostruzione, approvato nel 1952 dal Ministero della Pubblica istruzione, metteva come condizione la conservazione dalla facciata esterna, di quella sul cortile, dello scalone e del salone d’onore con relativi affreschi e del portale d’accesso20. Tuttavia la situazione attuale mostra che la prima ha subito nella parte bassa del fianco destro alcune modifiche. Sono state eliminate le tre ultime finestre del piano terra e al loro posto, utilizzando i contorni di risulta, sono stati aperti un passo carraio e una porta. Offre comunque ancora spettacolo di sé la facciata, caratterizzata da un bellissimo, seppur mutilo (una parte non è stata recuperata dopo il bombardamento) portale. Esso è dotato di archivolto a tutto sesto con i contorni esterni segnati dal solito motivo ad ovuli e a fuselli e la zona interna caratterizzata da una decorazione a palmette magistralmente cesellate. Nella serraglia che sporge a forma di voluta campeggia un efebo, motivo presente in altri palazzi di data precoce (Milani, Zamboni, v. Sole 11) e che sarebbe derivato dal romano Ponte Pietra 21. Sostengono l’arco due pilastri a candelabre con capitelli occupati da una figura

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alata (arpia?) che poggia su una conchiglia dalla quale si dipartono le volute. Come quelli di palazzo da Lisca 22 tali capitelli hanno inizio da un paniere e si concludono con un abaco concavo con rosellina al centro. Fra i numerosi esempi di portali di simile fattura quello di palazzo Allegri appare, secondo Franzoni, singolarmente originale tanto da renderne possibile l’attribuzione a Gabriele Frisoni, il collaboratore di Biagio Rossetti in importanti opere ferraresi, anziché ai ricorrenti Panteo o da Lugo. Secondo lo studioso si riscontra in esso una «decorazione più distesa e morbida, nella quale inoltre appare la figura umana, nelle spoglie di alcuni putti alati, che con la loro dolce umanità ci sottraggono al mondo pesante degli incubi mitologici, tanto cari alla tematica di questi monumenti veronesi»23. Franzoni sottolinea anche il fatto che questo portale è l’unico fra quelli più maturi, ad essere realizzato in marmo rosso di Sant’Ambrogio, luogo, quest’ultimo, in cui dimorava il mantovano Frisoni, anziché in nero di Roveré. Oltre che per il portale, da collocare cronologicamente a cavallo fra XV e XVI secolo, la facciata si segnala per la serie di finestre gotiche trilobate al piano nobile, riferibili ad epoca precedente, che ripetono nei contorni il diffuso motivo tardogotico del dentello e del cordone arrotolato. Singolari i capitellini degli stipiti che si differenziano fra loro per le diverse ornamentazioni floreali. Sono complessivamente sedici oltre a quella che sovrasta il portone, alle quali corrispondevano al piano terra altrettante finestre rettangolari con semplici contorni in marmo rosso. Una fascia di marmo bianco su cui è incisa una sequenza di archi falcati

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separa il piano nobile dal mezzanino nelle cui finestre riquadrate si ripete il motivo del dentello gotico. Dal portale, attraverso un ingresso si entra in un cortile rettangolare con porticato sul lato minore e muro di recinzione su quello orientale. Palazzo Allegri fa parte oggi del patrimonio demaniale dello Stato ed è attualmente in uso del Ministero degli Interni come caserma della Pubblica Sicurezza, dopo essere stato, durante il periodo fascista, sede della 40 a legione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (Caserma De Stefani). Dopo i primi interventi di consolidamento dell’esistente nell’immediato periodo post-bellico, si è provveduto negli anni successivi ad effettuare consistenti lavori di ripristino anche per ricostruire ex novo le parti completamente atterrate come l’ala a nord del cortile e frazioni della parte sommitale della facciata 24.

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20 Ibidem. 21 O. Davies, D. Hemsoll, I portali dei palazzi veronesi nel Rinascimento, in Edilizia privata, pp. 252-266, in particolare p. 257 e nota 21. 22 Su tale palazzo cfr. S. Lodi, L’architettura di palazzo da Lisca: storia, forme, confronti. Secoli XV-XVI, in Domus illorum de Lisca. Una famiglia e un palazzo del Rinascimento a Verona, a cura di S. Lodi, Vicenza 2002, p. 101. 23 L. Franzoni, Domenico da Lugo (lapicida veronese), in E. Turri, G. F. Viviani, Lugo di Valpantena. Profilo di un centro prealpino, Verona 1970, pp. 177- 197, per la citazione p. 197. Da sottolineare che il nome di Gabriele Frisoni è stato fatto anche per palazzo da Lisca. 24 Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza, b. 91/103, fasc. Opere di riparazione di danni bellici.

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Un fiume creativo

Come un catalizzatore di energie latenti, l’appuntamento annuale del Tocatì coinvolge un gran numero di associazioni cittadine che hanno a cuore la città e i suoi spazi Testo: Federica Guerra

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ome l’arrivo in città di un Grande Circo, anche questo settembre Verona ha salutato l’arrivo del Tocatì, il Festival Internazionale dei Giochi in Strada, con il consueto strascico di eventi collaterali a cura di un gran numero di associazioni cittadine che hanno a cuore, a diverso titolo, la città, i suoi spazi, le sue vie, le sue piazze. Addentrandosi nella fitta selva di queste associazioni, tenute in piedi con entusiasmo da una schiera di giovani cittadini, emerge l’attività di River – Primavere urbane che ha come obbiettivo proprio quello di ri-scoprire luoghi urbani caduti in disuso o scarsamente sfruttati attraverso una serie di attività di carattere culturale, ma anche ludico e ricreativo, con lo scopo principale di riattivarne l’uso, o quanto meno la comune conoscenza, anche oltre il termine temporale delle diverse manifestazioni. Due sono gli aspetti interessanti di questa operazione: da un lato la possibilità di creare una rete di associazioni che, mettendo in campo ognuna il proprio bagaglio di competenze, interessi e attività, contribuisce all’obbiettivo comune di vivere la città in modo più consapevole, requisito fondamentale per percepirne gli spazi nel loro reale valore e quindi promuoverne la valorizzazione; dall’altro l’opportunità di proporre eventi che toccano diversi ambiti, dalle performance artistiche agli eventi gastronomici, dalle proiezioni cinematografiche agli spettacoli teatrali, in modo da far circolare lo spirito culturale che spesso assaporiamo nelle città europee e molto meno in quelle italiane. In questo senso l’opportunità che

01. Non solo arte in Riva San Lorenzo: durante il Tocatì, anche musica nell’allestimento temporaneo per un apprezzato DJ set (foto di Lorenzo Linthout). 02. Veduta notturna dell’installazione di F. Marcolongo e P. Zerman. 03. Disegno di progetto per l’installazione di S. Marcolin e D. Trinari, Laub, che propone un uso diverso per i parapetti dei Lungadige, da protezione a belvedere. 02

offre Tocatì è solo un tassello degli innumerevoli eventi organizzati durante l’anno da questa rete di associazioni, che si intrecciano con modalità diverse e che comprendono oltre a River anche Barbacàn, Fucina Culturale Machiavelli, Bogon, Agile e altre. Anche quest’anno Riva San Lorenzo si è perciò ri-animata con l’intervento delle diverse associazioni che hanno allestito i giardini a bordo acqua con quattro diverse installazioni di grande poesia, oltre all’arredo dei giardini come piccoli “salottini” in cui intrattenersi a conversare su un vecchio divano, a guardare le opere degli artisti sorseggiando una birra, creando una sorta di eterotopia felice, un’altra città dentro la città, un espediente ludico per costringerci a guardare gli spazi stravolgendone il ruolo, per uscire dall’indifferenza a cui li avevamo destinati. E poi le installazioni, a partire da quella senza titolo posta sul muraglione a filo d’acqua, un grande logo luminoso che si apre a diverse interpretazioni: non solo, come

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dicono gli autori Filippo Marcolongo e Paolo Zerman, “una provocazione, una memoria, una celebrazione, un’insegna, un’idea, un riflesso, un ricordo”, ma anche un landmark urbano, un modo di immaginare la città come segnata da riferimenti che orientano il cittadino e sottolineano gli spazi.

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04-05. Concept e render dell’installazione di S. Marchesini e C. Simoncini. 06. Riva San Lorenzo finalmente affollata durante i giorni del Tocatì (foto di Lorenzo Linthout). 07. La postazione meditativa nell’installazione Senta-tì, curata da Ablakh e N.J. Laufer.

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Sul Lungadige, invece, le altre installazioni a diverso grado di progettualità: da quella di Silvia Marchesini e Chiara Simoncini, QBO.00, che hanno progettato, sulla scorta delle riflessioni di Ettore Sottsass nelle sue Metafore, una forma architettonica effimera costituita da un leggero traliccio in legno che diviene l’ossatura di un percorso segnato da sottili fili di spago, un ragionamento intorno al tema dei percorsi, dell’andarepartire-tornare. “Due corpi identici, compenetrati, che incontrandosi tracciano il percorso. Lo scheletro in legno permette che i lati siano diaframmi semitrasparenti attraverso i quali si percepisce il movimento... fili di spago tesi, in attesa di essere riempiti da disegni, schizzi, pensieri, frasi che piano piano tolgono trasparenza al percorso...che accompagnano il nuovo visitatore alla scoperta del proprio fiume o della propria città, contaminandolo”. Di altrettanta poesia, e molto frequentata, è stata l’installazione a

cura di Ablakh e Noy Jessica Laufer, Senta-ti (ancora una contaminazione tra i concetti di sedersi-sentireascoltare) che hanno voluto ricreare un momento individuale di isolamento, una postazione meditativa: “due sedie da arbitro da tennis che si innalzano da terra

« Anche quest’anno Riva San Lorenzo si è rianimata con l’intervento delle diverse associazioni che hanno allestito i giardini a bordo acqua con quattro diverse installazioni » dando una prospettiva inusuale di Riva San Lorenzo. Sedendosi sulle sedie ci sono a disposizione cuffie dove saranno proposti scenari sonori tramite la conversione di biodata emessi dalle piante presenti”. E da ultimo l’interessante installazione di Simone Marcolin

e Diletta Trinari, Laub, che ha focalizzato l’attenzione sui temi della contaminazione delle forme e degli spazi, quindi un’operazione di composizione architettonica nel senso più profondo del termine: un gioco di forme geometriche che si compongono, per dare vita a una serie di scanni che si posizionano sul parapetto del lungadige, “contaminandone” l’uso tra belvedere e tavolo da gioco, un’alterazione della normale condizione del luogo che passa da limite (fiume/strada, acqua/terra) a spazio condiviso, tramite il gioco. È evidente come il tema della contaminazione intorno a cui hanno lavorato tutti i gruppi di artisti, sia stato foriero di una felice progettualità: come non percepire, in quei giorni di settembre, la potenza espressiva, la forza vitale che riemerge da un luogo (uno fra tanti) condannato alla marginalità, ma in realtà capace di farsi promotore di infiniti usi urbani che la volontà civica delle associazioni promotrici ha saputo farci intravvedere.

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Metto il becco nella redazione Una amichevole intrusione sulle condizioni interne alla missione della rivista di analisi e approfondimento dell’architettura veronese

Testo: Luciano Cenna

In quanto collaboratore di «AV», ma anche per essere uno dei più anziani iscritti all’Albo, mi assegno il diritto di entrare nel merito delle decisioni di questa redazione, senza scompigliarla, però. Con «Architetti Verona», gli architetti veronesi hanno costruito nel tempo uno strumento di analisi e di approfondimento dell’operare nel campo edilizio, da parte degli iscritti della nostra provincia, che può svolgere quella funzione di filtro e di stimolo intellettuale, altrimenti affidati alla singola, personale esperienza de visu del panorama locale. «AV» pubblica, sotto forma di servizi con varie denominazioni e motivazioni, le realizzazioni di architetture recenti puntando l’attenzione sui giovani che concorrono a dare un quadro della capacità di interpretare questa mutevole società. Al presente, è mia opinione che il livello culturale delle opere presentate, salvo eccezioni, sia andato evolvendosi in direzione di una espressione formalmente informata. Ciò significa che gli architetti veronesi hanno preso conoscenza del panorama architettonico internazionale, attraverso

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le molte pubblicazioni del settore o viaggiando. Penso che «AV», non volendo fare una selezione degli architetti e delle loro opere, del tipo: questa si, questa no, non possa sfuggire al criterio di operare comunque delle scelte presentando alcuni lavori come esempi di risposte particolari ad aspetti particolari: le cantine vinicole del veronese; le periferie del dopoguerra; le residenze sulle colline del Garda, ecc. Questi pretesti non escludono perciò la necessità di selezionare opere e autori. Ciò significa che alcuni, non necessariamente i più preparati, sono chiamati a formulare giudizi sulla qualità dell’opera di un collega per valutare se questa rappresenta adeguatamente il tema di volta in volta assunto: le cantine, le periferie, le residenze sul Garda, ecc. Ma se è cosi, e nel frattempo non si vuole trasformare «AV» in una rivista di Architettura, ma mantenerla strumento di approfondimento utile per far discutere di architettura gli architetti veronesi e misurare la loro capacità di relazionarsi con l’ambiente in cui operano, allora l’attenzione della rivista dovrebbe preferibilmente presentare l’ambito specifico in cui gli architetti sono chiamati: dare risposte ad una realtà complessa inquadrandole in una etica tecnologica. Infatti, come il progettista non può prescindere dall’avere coscienza e conoscenza del tema di fondo: il rispetto per l’ambiente e l’ecosostenibilità, allo stesso modo non può prescindere dal tema della lettura in chiave critico-interpretativa della realtà in cui opera (ovviamente anche lasciando intravedere le sue idealità politiche). A questo proposito mi piace accennare a un caso emblematico dovuto alla figura di un grandissimo architetto, il Palladio, al quale riconosciamo la capacità di interpretare la volontà politica della Serenissima, cioè il controllo del territorio alle spalle di Venezia attraverso la riorganizzazione

agraria affidata alla aristocrazia e nel contempo garantire le forniture alimentari e la sicurezza, senza con ciò spingerci a considerare il ruolo avuto dalla sua obbedienza alla Repubblica. Non altrettanto potremo fare oggi nel ritenere che il quadro della prospettiva architettonica odierna, in assenza di idealità, possa essere quello che emerge dall’applicazione di norme, regole e piani elaborati dalle competenti burocrazie. E, pur non dando per acquisito che i nostri progetti siano spesso figli deformi delle regole burocratiche, ritengo sia possibile, e gli esempi non mancano, che il tema dell’inserimento delle nostre architetture nel contesti, della progettazione dei vuoti urbani e del verde siano sufficienti surrogati alla scarsezza di idealità. È proprio questo motivo per cui quegli ambiti vanno esplorati con maggiore energia scavandoli in profondità. Per dare un contributo di chiarezza al nostro operare si potrebbe approfondire cosa significa l’inserimento di una nuova opera nello spazio urbano chiamando a ragionarci sopra i membri delle commissioni del paesaggio, ancora inclini a denunciare la insufficiente rispondenza ambientale dei progetti sottoposti al loro vaglio rigettando le proposte che non corrispondono ai loro parametri formali. Occorrerebbe esprimersi nei confronti non solo formali delle architetture, ma anche della loro sostanza politica: nel senso più profondo del termine. Benché dubiti che le condizioni esterne del nostro ambiente ci consentiranno di operare in questa prospettiva, sono incline a ritenere che tra di noi e tra i componenti della redazione di «AV», ci siano molti che considerano possibile progettare sotto la spinta di una forte idealità ben sapendo che l’architettura non migliora la società, ma può meglio interpretarla.

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Nutrirsi di arte contemporanea La forza dirompente di una collezione privata pervade gli spazi collettivi della ex provianda Santa Marta, premiato esempio di restauro contemporaneo di un’architettura monumentale Testo: Stefania Marini

Foto: Lorenzo Linthout

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on l’arte non si mangia, recita un popolare luogo comune: ed è ironico che proprio all’interno della ex provianda Santa Marta, negli spazi in cui si produceva il pane per alimentare le truppe militari sotto il dominio austriaco e che attualmente è sede dei dipartimenti di Economia dell’Università di Verona, si concentri ora una vasta esposizione di una collezione privata di opere d’arte. La mostra collettiva Contemporanee/Contemporanei, nata dall’accordo siglato tra l’Università di Verona e l’associazione AGI Verona, sembra ribaltare ogni schema prestabilito del mondo dell’arte. Una collezione privata che si fa “pubblica”, e per cinque anni diventa bene comune, invadendo gli spazi dell’università, contaminandone la quotidianità, giocando a sorprendere gli studenti e i visitatori. Una mostra che abbandona la rigidità degli schemi espositivi museali e lascia la libertà di scegliere il proprio percorso di visita. Un’esposizione dirompente e innovativa che nasce dall’aspirazione di diffondere la cultura dell’arte contemporanea quasi per osmosi, insediandosi nei luoghi di vita dei giovani studenti. Le opere d’arte non si impongono sugli spazi, né tanto meno ne esaltano la monumentalità, semplicemente dialogano con essi, con un sapiente gioco di richiami, rispettoso delle simmetriche geometrie dell’edificio. L’esposizione ha rimandi in altre cinque sedi dell’Università, ma si concentra soprattutto negli spazi del complesso di Santa Marta: qui, in linea con il restauro firmato dall’architetto Massimo Carmassi, valorizza gli spazi collettivi, in particolare del piano interrato e del sottotetto, dove si addensano la maggior parte delle opere, ma anche i ballatoi di collegamento dei cortili coperti.

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Il piano seminterrato è ritmato dalle sculture che si mescolano con le presenze storiche dell’edificio e animato alle pareti da quadri e da riproduzioni video. Gli spazi della biblioteca nel sottotetto invece sono scanditi da opere per lo più bidimensionali, silenziose e riflessive, proprio come il luogo di studio che le ospita. Anche nei ballatoi le opere sono bidimensionali, ma qui le opere scelte sembrano spezzare la rigorosa sobrietà e donando vivacità ai percorsi. Trova così un ulteriore livello di valorizzazione e di fruizione collettiva il compendio monumentale nato come strepitoso spazio produttivo a servizio

01. Santa Marta, veduta di una delle corti coperte al livello inferiore allestita con alcune opere della rassegna.

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della cosiddetta arte della guerra, nel suo versante più umanamente quotidiano – il sostentamento delle truppe con il pane qui prodotto – e recuperato in maniera esemplare tanto da guadagnare in un baleno la Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana della Triennale di Milano nel 2015. La mostra rappresenta dunque una ulteriore conferma di come il progetto di un luogo aperto e inclusivo abbia arricchito l’Università, in primis, e la città, tanto da farne una delle tappe d’obbligo per architetti e cultori in visita a Verona. Il curatore della mostra Denis Isaia si è avvalso per l’allestimento della preziosa collaborazione dell’architetto Francesca Maria Martellono, con la

contemporanee/ contemporanei Un progetto di Università di Verona Associazione AGI Verona

« Il piano seminterrato è ritmato dalle sculture che si mescolano con le presenze storiche dell’edificio e animato alle pareti da quadri e da riproduzioni video » 02

quale ha individuato una modalità per rispettare ed evidenziare il valore storico e monumentale dell’edificio, scegliendo le opere in relazione agli spazi. L’allestimento è leggero, coerente con la rigorosità degli spazi dell’edificio e con i toni e le trasparenze del restauro, utilizza solo pochi elementi di connessione: superfici piane, piedistalli trasparenti, elementi leggeri che si legano a ciò che già c’è. L’esposizione comprende opere di 80 artisti, prodotte soprattutto negli anni Duemila e acquisite negli anni da Giorgio Fasol, Presidente di AGI Verona e collezionista principalmente di opere provenienti da mostre prime di giovani artisti. Alcune fra le opere in mostra sono capolavori di artisti italiani di chiara fama, quali Adrian Paci, Eva Marisaldi, Luca Bertolo, Gianni Caravaggio e Giovanni Morbin, ma anche quelle di importanti riferimenti dell’arte internazionale come Rashid Johnson, Jiří Kovanda, Debora Hirsh, David Adamo, Judith Hopf. Tali opere affiancano i lavori di artisti emergenti, fra cui Luca Trevisani, Diego Tonus, Eugenia

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Vanni, Sara Enrico, Nico Vascellari, Serena Vestrucci. Nel complesso il progetto ideato dal lungimirante Giorgio Fasol ha un forte valore didattico: a lui si deve l’idea di provare a educare lo sguardo e l’immaginario dei giovani studenti proprio partendo dalla prossimità con l’arte contemporanea. L’Università ha accolto la sfida e ha in programma diverse iniziative per coinvolgere il pubblico, sperimentando forme innovative per la formazione di competenze trasversali proprio a partire dai diversi linguaggi con cui l’arte contemporanea si esprime. La speranza è che la comunità universitaria e la città sappiano cogliere il valore di tale innovazione e sperimentazione, e che la mostra sia uno stimolo per riconfigurare le sensibilità collettive e accrescere il valore della creatività del territorio, contribuendo così a ribaltare il luogo comune che “con l’arte non si mangia”.

Comitato scientifico Giorgio Fasol (Presidente), Pierfrancesco Bettini, Tommaso Cinti, Denis Isaia, Francesca Rossi Valerio Terraroli Mostra a cura di Denis Isaia (Mart)

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02. Un’opera in mostra come object trouvé negli spazi della biblioteca. 03. Dialogo tra opera d’arte e spazio architettonico al piano terreno della sede universitaria.

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Vetri & vetrine A Castelvecchio torna Carlo Scarpa con un’esposizione dei vetri disegnati negli anni Venti per Cappellin & C assieme ai disegni realizzati per la vetreria e conservati dall’Archivio Carlo Scarpa di Verona Testo: Alberto Vignolo

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01. Veduta della mostra allestita in sala Boggian (foto Rossella Pasqua di Bisceglie). 02. Le vetrine disegnate da Scarpa nel 1960 in una immagine della mostra “Vetri di Murano 18601960” (archivio Museo di Castelvecchio). 03. Ferruccio Franzoia, disegno per il sistema di consolidamento delle vetrine scarpiane. 04-05. Studi per il progetto di allestimento con la disposizione delle vetrine.

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’è un trasparente richiamo a una tradizione espositiva e allestitiva nella mostra che la Sala Boggian del Museo di Castelvecchio ospita nella stagione autunnale 2019. Nel 1960 infatti Licisco Magagnato, direttore dei Musei Civici, organizzò con la curatela di Astone Gasparetto una mostra dal titolo “Vetri di Murano 1860-1960”. A curare l’allestimento negli spazi della Gran Guardia fu Carlo Scarpa con la collaborazione di Arrigo Rudi, il quale – come sapranno i nostri lettori più fedeli e maturi – dedicò un articolo sulla rassegna nel numero 5 di «Architetti Verona». Dopo avere inquadrato la mostra sull’arte vetraria muranese nel quadro di un contributo all’educazione del gusto del pubblico nel campo delle cosiddette arti minori, Rudi descrisse in quell’occasione in maniera limpida i problemi che si ponevano per l’allestimento: «1) Riuscire a collocare in ambienti di grande cubatura come quelli della Gran Guardia degli oggetti piccoli e di delicatissima materia, in modo che non si avessero spiacevoli sensazioni di dispersione e di fuori scala. 2) Raggiungere questo intento con dei mezzi economicamente ragionevoli, tali cioè da non uscire dalle spese che l’Amministrazione Comunale può assumersi senza dover ricorrere a stanziamenti di carattere straordinario. 3) Riuscire ad ottenere, rispettando un criterio storico abbastanza rigoroso, una distribuzione degli oggetti nello stesso tempo piacevole e varia e non meccanicistica, conciliando il criterio storico con le esigenze proprie di un allestimento moderno. 4) Cercare che le attrezzature approntate fossero quanto più possibile riutilizzabili per le altre manifestazioni, come dotazione stabile a disposizione dei Civici Musei». Missione compiuta: ancora oggi, a quasi sessant’anni da quella storica esposizione, le vetrine disegnate da «quel sensibilissimo esperto che è Carlo Scarpa» sono di nuovo utilizzate per la mostra dedicata ai lavori dell’architetto veneziano per la vetreria Maestri Vetrai Muranesi Cappellin &C., quando poco più che ventenne, ancora studente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, fu chiamato da Giacomo Cappellin a collaborare

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Carlo Scarpa Vetri e disegni. 1925-1931 Mostra a cura di Marino Barovier con Alba Di Lieto e Ketty Bertolaso Verona, Museo di Castelvecchio, sala Boggian 23 Novembre 2019 – 29 Marzo 2020 Allestimento: Ferruccio Franzoia Mostra realizzata da Comune di Verona – Assessorato alla Cultura – Direzione Musei Civici in collaborazione con Le Stanze Del Vetro Pentagram Stiftung

06. Vaso sferico in filigrana a reticello con canne verdi, gialle e bianche (incolori). Piede troncoconico in vetro trasparente verde. 1927 ca. 07-08. Vaso con piede a disco in vetro nero con applicazione di foglia d’argento ossidata, e disegno di catalogo M.V.M. Cappellin e C. per il medesimo modello.

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con la vetreria da lui fondata dopo la separazione da Venini, suo iniziale socio nell’impresa del vetro muranese. I pochi anni di intensa attività creativa di Scarpa con Cappellin – la sua ricerca sulle possibilità espressive del vetro continuerà poi alla Venini – sono documentati in mostra attraverso una sessantina di opere, accostate a 22 foto storiche e a 57 disegni realizzati per la vetreria, attribuibili all’architetto veneziano e conservati presso l’Archivio Carlo Scarpa del Museo di Castelvecchio. Fanno parte dell’eredità scarpiana custudita con rigore e pluriennale dedizione da Alba Di Lieto, conservatrice dell’Archivio, anche le già menzionate vetrine, restaurate e più volte utilizzate nel corso degli anni per le mostre dei musei civici veronesi. In questa occasione a raccogliere il testimone dell’allestimento è l’architetto Ferruccio Franzoia, allievo e collaboratore del maestro veneziano, collezionista ed esperto dell’arte vetraria. Gli essenziali espositori disegnati per la mostra del 1960, realizzati con elementi modulari in legno dolce di sezioni esigue e assemblati mediante incastri e giunti metallici, sono disposti nello spazio di sala Boggian in file parallele di due vetrine accostate, al di sopra delle quali l’impianto di illuminazione diretta degli oggetti esposti è aggiornato con l’utilizzo di led a luce fredda. Due sottili “travi” longitudinali superiori,

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ottenute dall’assemblaggio con resina epossidica di sottili fasce di legno, delimitano e connettono tramite giunti metallici regolabili le file parallele di vetrine, conferendo la necessaria rigidità al sistema. Facile dilungarsi sul contenitore, per deformazione museologico-grafica: ma il clou della mostra resta ovviamente il contenuto. Da godersi grazie a questa occasione con una nuova visita a Castelvecchio, tappa di un infinito ritorno ad ammirare l’opera del suo artefice Carlo Scarpa.

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La laudatio in onore del decano degli architetti veronesi festeggiato dall’Ordine per la sua lunga attività professionale nel corso di una cerimonia nel complesso abbaziale di San Zeno Maggiore

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Verona c’est moi. Per i cent’anni di Libero Cecchini

Testo: Filippo Bricolo

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i sono architetti che lasciano dei segni indelebili nelle città costruendo edificisimbolo: delle icone. Queste opere eccezionali, come la torre Eiffel o l’Opera di Sidney, pur diventando rappresentative di una città non le appartengono, si sovrappongono al contesto urbano e non nascono da una sua lettura. Poi ci sono gli altri architetti, molto più bravi e quasi introvabili, che fanno nascere l’architettura dalla città stessa e ne rappresentano l’identità attraverso la lettura, la trasfigurazione, l’interpretazione. In Europa ne abbiamo solo pochi casi: uno dei più famosi è Jože Plečnik, che ha costruito l’immagine di Lubiana con i suoi ponti, le strade, gli edifici monumentali. Senza uscire dall’Italia, nella nostra città abbiamo la straordinaria testimonianza di Libero Cecchini, un architetto che ci ha insegnato come essere moderni e che ha rappresentato l’identità di Verona. Se Flaubert poteva affermare senza paura di essere smentito “Madame Bovary c’est moi” (la Signora Bovary sono io), Cecchini potrebbe dire “Verona sono io”. Però non lo dice, perché ha la medesima modestia della sua architettura, una modestia che è la forza dell’architettura veronese. Quando Guido Piovene

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nel suo Viaggio in Italia racconta l’architettura veneta, parlando non a caso di Verona, ne descrive il carattere mai monumentale e impositivo: un’architettura in diminutivo. Cecchini ha interpretato questo modo di essere moderni impastandosi nella città senza contrapposizione, con forza, sapendo leggere e interpretare la storia: cosa che ha fatto per tutta la vita. Affacciandosi alla professione in un momento strategico per la nostra nazione, nel periodo della ricostruzione, egli ha avuto la possibilità di lavorare nei luoghi più densi di storia, aprendo la città che attraversiamo scoprendone quella bellezza che ci incanta. È una bellezza profonda, quella di Verona: il “pozzo” che Cecchini ha realizzato agli Scavi scaligeri fa capire che sotto la città dove camminiamo ce n’è un’altra, la città fondativa, che possiamo vedere grazie a questo “ostensorio” educato ed elegantissimo. Ogni mostra allestita agli Scavi ha rivelato una sorta di cortocircuito della modernità tra l’esperienza della storia nel sottosuolo della città e la convergenza degli sguardi fotografici provenienti da tutto il mondo. Perché l’architettura di Cecchini non è iconica, non è simmetrica né oggettuale, ma è un’esperienza: solo

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01. Libero Cecchini riceve una targa onoraria dal presidente del CNAPPC Giuseppe Cappochin. 02. I relatori all’incontro organizzato dall’Ordine di

Verona in occasione del centesimo compleanno di Cecchini: da sinistra, Barbara Bogoni, Franco Fietta, Eurosia Zuccolo, Giuseppe Cappochin, Filippo Bricolo.

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03. Un pannello della rassegna di alcuni progetti significativi di Cecchini allestita negli spazi dell’Associazione M15, a cura di Vittorio Cecchini, Laura De Stefano e Nicola Donisi.

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attraverso il processo del tempo nello spazio riusciamo a mettere in crisi il nostro modo di vedere e a coglierne l’essenza. Un altro carattere importantissimo che ritroviamo nelle architetture di Cecchini è la riscoperta della porosità urbana insita nella sua maglia romana: lo ha dimostrato con l’isolato dello Stal de le Vecie, reso attraversabile e vivibile. Qualche anno fa, quando è stato chiuso il negozio Principe all’inizio di via Mazzini, in un articolo intitolato I cecchini di Cecchini lamentavo il venir meno di un presidio della relazione tra commercio e città capace di rompere i concetti abusati di divisione tra spazio privato e spazio pubblico. Il Novecento è stato il secolo del positivismo e del progresso: gli architetti come Cecchini che si sono trovati ad affrontare questa sfida hanno avuto il coraggio di costruire con nuovi materiali e con nuove tecnologie. A un certo punto, però, per una distorsione assurda la tecnologia – l’high tech, il cemento armato – è diventata sinonimo di progresso, come se di

per sé stessa potesse diventare un modo per essere moderni. C’è un luogo dove possiamo invece capire che l’innovazione non può essere meramente innovazione tecnologica, e non a caso questo luogo si trova nella “casa della tutela”, la sede della

« Se Flaubert poteva affermare senza paura di essere smentito Madame Bovary c’est moi (la Signora Bovary sono io), Cecchini potrebbe dire Verona sono io »

con la nostra identità. Non è possibile camminare per Verona senza incontrare un’architettura di Cecchini: per questa ragione, così come Verona è Cecchini, noi siamo tutti Cecchini. E dovremmo guardare dentro il Cecchini che c’è in noi per cercare, in maniera molto più modesta e semplice, di lasciare un piccolo segno di quella poesia della bellezza che ci ha consegnato, non come forma metrica ma come regola della bellezza nella nostra città. Grazie Libero.

Soprintendenza ai chiostri di San Fermo. L’assoluta modernità della scala realizzata da Cecchini passa probabilmente per l’innovazione straordinaria della pietra precompressa:camminando su queste sottili lastre di pietra riconosciamo in un unico spazio l’innovazione tecnologica, la cultura del materiale, la capacità di lettura della storia e la sua interpretazione, elementi che riescono a rappacificare il moderno

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LC su LC Un omaggio “con riserva” inserisce un pungolo dialettico tra gli LC nostrani, longevi compagni di strada nella costruzione del volto moderno di Verona Testo: Luciano Cenna

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n occasione del suo centesimo anno d’età, la stampa veronese ha esaltato la figura professionale dell’architetto Libero Cecchini ricordandone le tappe principali: dalla ricostruzione dei ponti Scaligero e Pietra in poi. Ha fatto certamente bene, Cecchini è un architetto di qualità, è dotato di immaginazione e di intuizioni tipiche di chi è nato per fare bene questo difficile mestiere. C’è stato anche chi, parlando della sua attività, l’ha paragonato al Sanmicheli in un azzardato accostamento riproposto tra Scarpa e Palladio. Ma, al di là di questa iperbole, dell’architetto Cecchini la città può farne vanto per quanto le ha dato nel campo dell’architettura e del restauro. Dicendo ciò mi sto spingendo oltre quanto avevo intenzione di fare quando, accingendomi a scrivere queste poche righe, avevo ben in mente il mio giudizio, non benevolo, su una delle opere che l’architetto Cecchini ha più care a Verona: il palazzo della Camera di Commercio. Del quale gli rimprovero i ben riconoscibili spunti compositivi di cui è debitore ad Aalto e alcune soluzioni funzionali non ben risolte, come nel caso delle quattro scale e, per contro, forse un eccesso di enfasi nei grandi spazi del piano terra e della sala convegni dell’interrato (solo di recente rimessi a norma nel contesto

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della ristrutturazione della sede da parte dello studio Arteco). Naturalmente nella lunga storia professionale di ciascuno di noi, come in quella degli oltre settant’anni di Cecchini, un certo numero di opere sono meno riuscite, qualcuna può essere sbagliata, mentre alcune decine sono buone o, nei casi migliori, molto buone. Penso che in un bilancio ancora prematuro delle sue, le molto buone saranno le più numerose. (Mi sono preso il piacere di questo scritto benché tra architetti non sia deontologico rivolgersi critiche riguardanti la professione).

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Forse perché entrambi accomunati dall'acronimo LC, che tra gli architetti è simbolo di fortunata comunanza con il Maestro dei Maestri, Libero Cecchini e Luciano Cenna (assieme a Luigi Calcagni, pure lui con le medesime fatidiche iniziali) hanno indubbiamente segnato il volto della nostra città con le loro opere. Tante, tantissime scorrendo i regesti dei rispettivi studi, soprattutto viste oggi da parte di chi affronta la professione in tempi assai avari di occasioni. Tra queste opere possiamo certo riconoscere i colpi di genio e gli inciampi, gli exploit e le occasioni mancate: ognunao può farsi la propria idea semplicemente vivendo la città e “inciampando” nelle loro tracce. L’età matura è foriera di lodi talvolta incondizionate, ma anche di quella

schiettezza un po’ aspra che riesce a fare a meno dei filtri di una quieta astensione dal giudizio. Uno dei due LC, di poco più givane dell’altro, ci fa conoscere senza remore tutto il bene che pensa dell’altro, salzvo appunto un sostanziale “tranne”. L’altro, probabilmente avrebbe di che controbattere con altrettanti pro e contro sulla riuscita architettonica di questa o di quell’opera dei compagni di strada nella costruzione del volto moderno di Verona, ma non vogliamo distrarlo dalla stagione felice dei festeggiamenti per la sua invidiabile “quota cento”. Sulla questione in sé occorrerà senz’altro un approfondimento, perchè la genesi della Camera di Commercio fu complessa e condizionata da diversi fattori, così come i progetti che sono seguiti per la sua ristrutturazione.

01. Libero Cecchini, Camera di Commercio, Verona (1966).

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Sull’onda dell’architettura L’esperienza di Bardolino e il ruolo del progetto nel contesto territoriale in una esposizione incentrata su una realtà fertile di occasioni oltre che custode di eccezionali architetture d’autore Testo: Nicola Tommasini Foto: Marco Toté

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l’accoglienza, dando conto di un tessuto sempre più diffuso e che può essere letto come l’espressione di un cambiamento nella maniera di intendere il rapporto tra progetto e contesto, con il paesaggio del lago di Garda quale riferimento sullo sfondo. Entro tale scenario l’esperienza di Bardolino qui raccontata ha raggiunto, indubbiamente, per quantità e qualità dei progetti, un valore molto elevato se misurato al metro di una realtà di provincia che resta comunque lontana dagli epicentri del rinnovamento culturale, sociale e architettonico. Nella sua narrazione la mostra ha offerto una ipotesi di lettura dell’esperienza di Bardolino attraverso una galleria di esempi, attraverso i quali dare conto di una sorta di spontaneo “laboratorio”

01. Particolare dell’allestimento, con il grande tavolo 16x2 metri composto da elementi costruttivi a secco. 02. Esterno della ex chiesa della Disciplina nel centro di Bardolino. 03. La mostra allestita nello spazio della ex chiesa.

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La mostra “Architettura Bardolino. La costruzione di una nuova identità per il territorio gardesano”, aperta tra novembre e dicembre, unitamente al corposo e durevole volume edito da Cierre edizioni e curato da Alberto Vignolo che ne accompagna i temi arricchendone contenuti e narrazione, rappresenta un evento interessante quanto raro in un ambito territoriale (quello gardesano, ma anche, allargando un po’ la visione, della provincia veronese) e in un determinato momento storico ancora troppo poco attento a una riflessione critica sull’architettura contemporanea e il suo valore come elemento fondamentale di costruzione dell’identità locale. E, però, questo piccolo momento di riflessione non poteva che accadere proprio qui, all’interno di un contesto territoriale certo piccolo e circoscritto, ma ricco e vivace e dove, per una (solo apparentemente) fortunata congiunzione astrale, si sono incontrate e sovrapposte occasioni, situazioni, e persone, che, nel terreno fertile trovato, hanno saputo concretizzare una stagione di rinnovamento urbano alquanto importante, dove l’architettura ha assunto appunto il ruolo di perno centrale nella definizione della nuova identità territoriale legata alle trasformazioni del suo paesaggio affacciato sul lago. La mostra si è posta dunque l’obiettivo di stilare un provvisorio bilancio sui risultati ottenuti e sulle trasformazioni urbanistiche e territoriali a cui questa comunità ha assistito negli ultimi decenni. Esso non si configura come una rassegna di casi eccezionali, ma come un radar che scandaglia diversi temi, dalla residenza all’architettura per

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che ha posto a confronto l’amministrazione da una parte e i professionisti locali (e non solo) dall’altra, impegnati nel ripensare la maniera di operare in tale contesto. Sono esempi, certo, e a volte frutto anche di una certa

Architettura bardolino la costruzione di una nuova identità per il territorio gardesano Mostra a cura di Alberto Vignolo Bardolino, Sala della Disciplina 8 Novembre – 8 Dicembre 2019 Promotore: Comune di Bardolino Patrocinio: Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della provincia di Verona Ordine degli Ingegneri di Verona e provincia Allestimento: Ardielli Fornasa associati Progetto grafico: Happycentro

committenza “illuminata”, ma di fatto rappresentano bene una qualità media generale più elevata rispetto a contesti analoghi. A margine dell’attualità delle trasformazioni architettoniche e urbane, si sono volute mostrare anche due

straordinarie architetture d’autore costruite proprio a Bardolino tra gli anni Sessanta e Settanta, i pezzi da novanta della “collezione”: casa Ottolenghi di Carlo Scarpa e casa Pederzoli di Angelo Mangiarotti. La mostra è divenuta quindi anche l’occasione per ri-presentare queste architetture relativamente poco note e praticamente invisibili perché abilmente acquattate nella quiete collinare. Accanto ad esse, è da ricordare anche lo showroom Tecnorama di Carlo Bartoli, espressione concreta di una storia imprenditoriale che ha visto l’azienda di Cisano impegnata in prima linea in molte rilevanti episodi architettonici. L’allestimento nello spazio della ex chiesa della Disciplina, curato dallo studio Ardielli Fornasa associati, ha riassunto in un unico contenitore visivo molti temi, progetti e professionisti che negli ultimi anni hanno giocato su questo territorio un ruolo da protagonista. Il volume, invece, ha il pregio di catalogare a

Catalogo: Cierre edizioni Testi: Federica Guerra, Andrea Masciantonio, Michela Morgante, Alberto Vignolo

04-05. I materiali da costruzione utilizzati per l’allestimento risaltano per contrasto nello spazio aulico della ex chiesa.

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plexiglass trasparente pvc bianco pannelli da cassero travetti precompressi travetti precompressi

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blocchi ca

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futura memoria tutti questi progetti può diventare un primo episodio unitamente a una raccolta di quattro di una serie di future riflessioni e saggi (di Michela Morgante, Federica indagini puntuali su temi o contesti Guerra, Andrea Masciantonio e analoghi. Alberto Vignolo) che indagano i temi La mostra è divenuta anche urbanistici ed architettonici principali l’occasione per ricordare l’architetto emersi dalla Franco Delaini, narrazione, dalla recentemente « La mostra ha offerto metamorfosi del scomparso, tra i una ipotesi di lettura borgo turistico perni principali dell’esperienza di del dopoguerra di questa Bardolino attraverso una narrazione. Il suo all’impatto che galleria di esempi che il Piano Casa ha contributo, nella avuto sui Piani memoria di chi vanno dalle residenze di governo del lo ha conosciuto alle architetture per territorio. e ha avuto la l’accoglienza » Il testo nasce possibilità di anche grazie ai materiali di molti lavorare assieme – partendo da una articoli già apparsi negli ultimi posizione (quella di responsabile anni su questa rivista, segno che dell’ufficio tecnico di Bardolino per essa ha assunto un ruolo centrale quasi vent’anni dal 2001 al 2018), nel dibattito culturale della nostra centrale ma certo non attiva nei provincia; magari, questa occasione diversi progetti – ha assunto un

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ruolo decisivo: punto di riferimento costante, coadiuvante il lavoro degli urbanisti che si sono succeduti nella stesura dei diversi piani urbanistici e stimolo e confronto culturale per il lavoro dei professionisti che hanno lavorato sul suo territorio. Come un attore non protagonista che lascia il ricordo, al termine del film, dell’interpretazione più memorabile.

06. Veduta dall’alto del grande tavolo. 07-08. Esploso assonometrico e particolare del tavolo espositore.

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Testo: Michela Morgante Foto: Andrea Pozza

West Star story

Il bunker celato sotto il monte Moscal di Affi e le proposte per il suo recupero tra i rischi contrapposti della destinazione museale e della “gardalandizzazione�

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to2 , a Centro di ricerca internazionale sulle fonti alternative. Dopo che la base è passata dal 2018 all’ente locale, l’amministrazione ha imboccato la strada più ovvia, ma anche la più plausibile, quella della valorizzazione museale. Intervento non banale, conferire nuovo significato ad un labirinto di 13 mila mq, a 150 m dal piano di campagna, accessibile solo da un tunnel di oltre 1 km scavato da parte a parte. La cessione, gratuita, era stata avviata nel 2016 nell’ambito del cosiddetto “federalismo demaniale”; dal 2018 il Comune di Affi, finalmente proprietario, ha elaborato un programma pragmaticamente suddiviso in fasi sequenziali ma indipendenti. La prima, della durata di almeno un paio d’anni, è in corso e ha comportato una complessa messa in sicurezza della struttura, finalizzata a ospitare un percorso didatticomuseale negli spazi attuali, senza sostanziali trasformazioni dell’esistente. Passaggio ineludibile è stato il ripristino impiantistico, con la deumidificazione e sanificazione degli ambienti, su progetto esecutivo dell’ing. Edmondo Natale, per un costo di 270mila euro, una cinquantina dei quali ottenuti dal Ministero degli Interni3. A corollario, si sta procedendo a un parziale riallestimento degli interni, tramite l’acquisizione da altre installazioni coeve di arredi e attrezzature, nonché di mezzi blindati da collocare all’esterno, così da ricreare l’ambientazione tipica di una postazione militare funzionante. Il modello gestionale ispiratore per l’amministrazione di Affi è il “Percorso della memoria”, in Lazio, nelle gallerie del Monte Soratte, impianto ipogeo della Breda sorto durante il Ventennio, poi trasformato

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01. La galleria principale dall’ingresso Alfa all’accesso “luce verde” (mezzi con passeggeri). 02. Planimetria dell’ambito territoriale. 03. Profilo del monte Moscal visto da Nord-Est.

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Affi è oggi un centro di 2000 abitanti senza grandi attrattive, dominato dagli aerogeneratori allo sbocco della Val d’Adige, ridotto a snodo commerciale dell’Autobrennero. Più di 8 milioni di automobilisti l’anno, diretti al lago e ai noti parchi tematici del basso Garda, passano oltre, senza fermarsi. Un contesto da sempre low profile e non può che aver contribuito a mantenere nei decenni il segreto sulla vasta installazione NATO celata dal monte Moscal. L’esistenza del mitico Site B, meglio noto come West Star, era nota ai locali, che intessevano miti sulla presenza di presunte testate nucleari. La realtà era un’altra, comunque non troppo lontana dalla finzione letteraria di romanzi come Livello Sette (serie “Urania” Mondadori, 1960), dove si narra di un claustrofobico microcosmo sotterraneo progettato per la sopravvivenza dei quadri dello Stato Maggiore all’olocausto nucleare. Così anche la struttura ipogea di Affi era stata concepita tra il 1958 e il ’59 per preservare dal fall-out un migliaio di membri degli alti comandi militari, in caso di attacco sovietico. Dalla sua War room, nodo di un centro trasmissioni strategico totalmente schermato, sarebbero scattate le operazioni di difesa dei nostri confini nord-orientali – i più esposti ad una ipotetica invasione dalla cosiddetta “soglia di Gorizia”. L’emergenza come noto non si è mai concretizzata, ma il bunker ha continuato per inerzia a funzionare, come la fortezza Bastiani di buzzatiana memoria, dal 1966 al 2004. Cessatane la funzione, sono state elaborate ipotesi di riuso le più varie: da albergo a 5 stelle, a casinò, a magazzino di stagionatura per i prodotti locali1 a ostello da 96 posti let-

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04. L’ingresso Alfa nei pressi del parco di villa Poggi. 05. Sale per la produzione di energia elettrica. 06. Una delle porte a tenuta stagna (blast doors). 07. I filtri per il trattamento NBC dell’aria, anticontaminazione nucleare, biologica e chimica. 08. La Joint Conference War Room dove si riunivano le varie sezioni della base.

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in bunker anti-atomico per le alte cariche dello Stato. Tali spazi da qualche anno sono stati resi visitabili grazie all’impegno di un’associazione di volontari4, e così anche ad Affi, garantendo un minimo di servizi d’accoglienza, si dovrebbe arrivare ad un calendario di visite guidate, già da natale. La conduzione delle visite sarà affidata, per quanto possibile, ad ex addetti militari e civili con esperienza sul campo: esperti più credibili, in grado di rievocare il funzionamento delle attrezzature e la vicenda personale di chi operava in loco. Il contatto del pubblico con figure come queste viene indicata come chiave di successo negli USA – è per esempio la lezione del museo della Guerra fredda di Vint Hill Farms, in Virginia 5. La seconda fase della riqualificazione di West Star, un iter di almeno altri sette anni, dovrebbe rag-

giungere esiti più innovativi, con un investimento progettuale volto a realizzare una nuova sede museale, interattiva e di moderna concezione. Il pool degli investitori in questo scenario più avanzato non è ancora del tutto chiaro: il Comune spera di intercettare finanziamenti regionali per la valorizzazione dei Beni culturali, ma più ancora di avviare un’operazione parallela in grado di auto-finanziarsi. L’amministrazione di Affi intende infatti musealizzare gli ambienti ipogei solo per una loro quota parte, e di rifunzionalizzare sostanzialmente la vasta volumetria esistente a data center. Le server farm ad alta sicurezza sono strutture sorte ormai da una quindicina d’anni in tutto il nord’Europa, spesso riutilizzando bunker militari dismessi, come nel caso del Pionen White Mountain nei sotter-

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ranei rocciosi del centro di Stoccolma6. Lo stoccaggio dei dati impone requisiti specifici di inviolabilità fisica e telematica (nonché alti standard in termini di erogazione di corrente elettrica, climatizzazione, sicurezza antincendio, ecc.) compatibili con la conformazione di installazioni militari come quella di Affi, ma certamente tutti da implementare. Anche per la sezione museale, parte minoritaria ma qualificante del futuro complesso, la riconversione potrà comportare modifiche consistenti degli spazi esistenti. Le opere dovranno comprendere anche nuove strutture fuori terra, complementari agli spazi in galleria, dove la permanenza dei visitatori sarà limitata ad itinerari di un paio d’ore per ragioni di sicurezza. La creazione dei nuovi ambienti è ipotizzata in prossimità del cosiddetto ingresso Beta, sul versante del Moscal verso Costermano. Il PAT recentemente adottato prevede esplicitamente la rigenerazione del bunker e dà in proposito indicazioni che lasciano intravvedere sviluppi virtualmente significativi7. Saranno comunque questi gli spazi più ludici, “esperienziali”, dove ai visitatori sarà proposto di partecipare a giochi di ruolo (come vivere la vita quotidiana di un soldato), o di assistere a spettacoli per le truppe. Sull’immobile storico non insistono, allo stato attuale, vincoli di tutela, mentre esiste un vincolo paesaggistico ricadente sul Monte Moscal. A quest’ultimo infatti, per il caratteristico profilo stagliato sulla piana del Tasso, la pianificazione di livello regionale e, a cascata provinciale, hanno da tempo riconosciuto valenza di “iconema”, cioè di “contesto figurativo tutelato”8. E anche dal punto di vista ecosistemico-ambientale il monte

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emerso dal mare 15 milioni d’anni fa è classificato come isola ad elevata naturalità, dotato di una sua qualità vegetazionale9. Correttamente dunque la sezione Monte Baldo del CTG, che lo scorso anno si è candidata a gestire la futura didattica nell’installazione riconvertita, ha esortato a non tralasciare gli aspetti geologici e florofaunistici nel progetto di rigenerazione del sito10. Una impostazione che aprirebbe tra l’altro a modelli d’uso turistico più innovativi e sostenibili, legati alla fruizione sportivo-naturalistica (trekking, percorsi ciclo-pedonali) forse più promettenti per le sorti di questo “centro agropolitano” senza più volto e identità, se non come soglia di transito.

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09. Uno spaccato assonometrico del monte Moscal svela la base nelle sue viscere. 10. Trompe-l’oeil effetto paesaggio, nella sala mensa. 11. Livello superiore: la sala centrale (detta “la vasca”) della sezione V Allied Tactical Air Force, preposta a coordinare le forze aeree del sud Europa.

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Il processo ideativo si muoverà comunque entro le maglie della normativa di piano, locale e sovraordinata, e di uno scenario finanziario che dovrà risultare credibile. La progettazione scaturirà giocoforza dal confronto concorsuale – si ipotizza su due livelli, uno di idee, l’altro ad inviti – fattivamente coadiuvato dall’Ordine degli Architetti di Verona quanto alla composizione della giuria, alla costruzione del bando di gara, alla gestione del processo via piattaforma CNAPPC. Dunque è lecito sognare per Affi qualcosa di più del solito museo militare, plasmato sulla narrazione finora dominante, quella della Seconda Guerra Mondiale, con i tristi manichini in uniforme e le armi d’epoca nelle vetrine impolverate? La fase transitoria del progetto di riconversione del bunker finirà per stabi-

lizzarsi come deludente piano B? La linea museografica più tradizionale, adottata pur con grande rigore storiografico a Base Tuono, presso Folgaria, non sembra veramente premiare in termini di visitatori, che si aggirano, come d’altra parte alle gallerie

« Un labirinto di 13 mila mq a 150 m dal piano di campagna, accessibile solo da un tunnel di oltre 1 km scavato da parte a parte del monte » del Soratte, sui 20 mila ospiti annui. Ma anche il rischio di un affollato e rutilante “Cold War Theme Park”, magari circondato da una serie di bed&bunker (tutte esperienze realmente esistenti), spaventa non poco.

All’estero la filosofia allestitiva dei musei di guerra nell’ultimo decennio è comunque profondamente mutata. Uno dei modelli da citare a riferimento è certamente il bel museo danese del Vallo Atlantico, del gruppo BIG, nascosto tra le dune dello Jutland occidentale. Qui il bunker storico è stato inglobato come fulcro di un suggestivo sistema di spazi scavati, illuminati da un grande taglio centrale dai lembi sollevati. Un intervento quasi di land-art, di altissimo profilo formale, dove i visitatori sono invitati a esplorare l’involucro costruttivo, direzionando grandi fari orientabili, ancorati a terra. Mentre all’interno, si viene bombardati da una fantasmagoria di suoni e proiezioni disegnata dagli olandesi Tinker Imagineers. La valorizzazione del cosiddetto new heritage, le testimonianze

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12. Ingresso del bunker anti-atomico nel Monte Soratte, in Lazio. 13. Il Pionen White Mountain Data Center a Stoccolma. 14. Una veduta zenitale del museo del Vallo Atlantico a Blåvand, progettato dallo studio danese di Bjarke Ingels. 15. Il museo del Vallo Atlantico, con annesso bunker della seconda guerra mondiale. 12

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storico-culturali successive all’ultimo conflitto, non può che percorrere strade simili, sfruttando l’accelerazione ludica delle recenti pratiche allestitive. Ma anche i linguaggi dell’architettura possono contribuire, ricreando in particolare quel particolare clima di minaccia e sospensione vissuto all’epoca. Ovvero il tema storiografico della Guerra Fredda nel suo specifico, quello di una guerra – ci ricorda la storica danese Rosanna Farbǿl11 – lungamente attesa e mai arrivata.

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1 A. Schiano, Hotel a 5 stelle con museo

nel bunker antiatomico, «Corriere del Veneto», 09 ottobre 2010. https:// corrieredelveneto.corriere.it/treviso/ notizie/cronaca/2010/9-ottobre-2010/ hotel-5-stelle-museo-bunkerantiatomico-1703916750481.shtml. 2 E. Bertasi, Bunker antiatomico West Star. Ipotesi per la valorizzazione ed il riuso, tesi di laurea, Politecnico di Milano, a.a. 2017-2018 (rel. prof.ssa M. Fianchini). Cfr. https://www.larena.it/territori/gardabaldo/affi/da-bunker-anti-atomico-adostello-con-96-posti-1.7102868. 3 L. Belligoli, All’ex base Nato arrivano luce e ventilatori, «L’Arena», 11 maggio 2019. 4 Http://www.bunkersoratte.it/storia.html.

5 J.Y Hall, The Cold War Museum: Telling the History of the Vint Hill and Cold War Intelligence to the Public, in American Intelligence Journal, vol. 33, n. 2, 2016, pp. 17-23. 6 Il bunker è ricavato da una collina di granito alta 1.500 metri, ha un unico ingresso protetto da porte d’acciaio dello spessore di 20 pollici. 7 “Il recupero e la rigenerazione dell’ex base West Star necessita strutture a servizio delle nuove destinazioni previste. Se la base risulta interamente interrata, le attività di servizio e supporto ai fini turistici necessitano di una previsione di dimensionamento al fine di offrire un’adeguata rete di servizi ricettivi ed alberghieri”, Comune di Affi, PAT,

Relazione tecnica e di progetto (arch. S. Feriotti), aprile 2019, p. 23. 8 Regione del Veneto, Atlante ricognitivo degli Ambiti di paesaggio, PTRC 2009, scheda 25. 9 Una buona analisi in M. Rizzi, Il cuore di pietra del monte Moscal, tesi di laurea, Politecnico di Milano, a.a. 2011-12. 10 CTG news, aprile 2018. 11 R. Farbǿl, Commemorating a War That Never Came: The Cold War as Counterfactual War Memory, in AA.VV., The Twentieth Century in European Memory, Brill, 2017.

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Architetti veronesi raccontano la loro esperienza professionale “fuori dalle mura”

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Testo a cura di: Roberto Cremascoli

Anna Merci, architetto veronese, si laurea con lode in Architettura presso lo IUAV di Venezia con Juan Manuel Palerm Salazar, João Fereira Nunes ed Enrico Fontanari e la sua tesi “Il nuovo bosco urbano di Verona” viene candidata al premio Archiprix 2010 nella sezione Urbanistica e Paesaggio. Consegue anche un Master in Strategies and Tools for a Sustainable Architecture e nel 2013 vince il New Italian Blood che seleziona i dieci migliori giovani architetti italiani. Fin da subito la sua attività professionale si costruisce su una fitta rete interdisciplinare e il disegno diventa il mezzo al servizio di clienti, istituzioni, comunità, in generale della società, trasformando i luoghi abitati dalle persone. I

suoi progetti vincono diversi concorsi nazionali e internazionali che vengono successivamente premiati e pubblicati su diverse riviste internazionali. Partecipa assiduamente nelle biennali e triennali internazionali di architettura. Integra la pratica professionale con progetti di comunicazione, grafica e editoria, pubblicando vari articoli. Il concorso per la nuova piazza di Asigliano Veneto (primo premio, 2009) e il concorso per la ristrutturazione del Viale delle Terme di Abano Terme (secondo premio, 2010) descrivono bene la sua attenzione alla qualità nel progetto degli spazi comunitari, non solo nei dettagli, ma anche nel mostrare una visione generale nel risolvere le problematiche della città

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contemporanea: sono luoghi flessibili che si adattano alla condivisione nell’utilizzo dello spazio pubblico. Ha vissuto quattro anni a Parigi, ma nel 2016 rientra in Italia dopo essere stata selezionata per far parte di G124, il gruppo di lavoro del Senatore Renzo Piano sulle periferie italiane, sviluppando un progetto di rigenerazione urbana attraverso un processo partecipativo sul comparto urbano di Marghera, premiato nel 2018 con il Premio Ecoluoghi sezione Rigenerazione Urbana e la menzione speciale del Premio GRAnDE Graphic Design Festival con il progetto grafico Piccolo manuale sul fitorimedio. Nel 2018, con 02 il progetto I-Cono, vince il concorso internazionale Arquine N.20 per il padiglione Mextròpoli 2018 a Città del Messico, realizzato in occasione di Mextrópoli Festival de Arquitectura y Ciudad, il più grande festival di architettura dell’America latina. La struttura a tronco di cono è costituita da 2.500 recipienti di plastica da 20 litri parzialmente riempiti d’acqua, elemento che assume un duplice ruolo, sensoriale e strutturale. L’opera, ora collocata in forma permanente a Huerto Roma Verde, è stata inserita tra le migliori architetture messicane del XXI secolo. Il lavoro di Anna Merci include anche attività curatoriali, testi, eventi, conferenze e insegnamento, integrando gruppi didattici soprattutto allo IUAV nelle edizioni di W.A.Ve 2017-2018-2019 con gli studi TAM associati e COR arquitectos.

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01. Padiglione I-Cono, planimetria di inserimento, Parco Alameda Central, Città del Messico. Team; Anna Merci, Lorenzo Majer (2018). Sulla destra, ritratto di Anna Merci. 02. Follow me! Un chilometro come prototipo di accoglienza. Progetto primo classificato per la realizzazione del “C.Ur.A – corridoio ecologico urbano archeologico” a Canosa di Puglia. Team: COR arquitectos, A. Merci, A. Gasparini (GAP), A. Leoni, D. Gasparetti, S.Nervi (2019). 03. La forma liquida: allestimento mostra laboratorio W.A.Ve. 2019, IUAV. Team: A. Merci, COR arquitectos, F. Chiavaroli (2019). 04-05. Padiglione I-Cono, concorso internazionale Arquine N.20 per la realizzazione del padiglione Mextròpoli 2018. Team: Anna Merci, Lorenzo Majer, foto di Laura Fioro (2018).

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Da quando ha fondato il suo omonimo studio nel 2008, Anna Merci Architecture (www.annamerci. com), ha sviluppato un approccio distintivo guidato dalla convinzione che l’architettura e il design rappresentino, soprattutto, un mezzo fondamentale per confrontarsi con i fenomeni sociali, politici e ambientali. Con questa premessa, l’arte e la fotografia, sia contemporanea che storica, diventano un punto di partenza per lo sviluppo di ciascun progetto. Sfidando i confini tradizionali della disciplina architettonica, l’output creativo dello studio opera su una vasta gamma di scale, che comprende edifici, interni, installazioni temporanee, disegno di spazi pubblici e rigenerazione urbana. Caratterizzato da una grande sperimentazione e da un’inconfondibile

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06-07. Floating, allestimento della mostra “Il Giardino del Fitorimedio” nella Galleria Tina Modotti, Udine (2018). 08. Nuovo sito Renzo Piano G124, curatela contenuti Anna Merci, grafica A. Merci e Paolo Barbagallo, progettazione web P. Barbagallo (2019). 09. Diario delle periferie/2 Marghera, a cura di Carlo Piano e Andrea Mariotto, (2017). 10. Anna Merci con Renzo Piano durante una delle revisioni del progetto a Palazzo Giustiniani, Roma, 2016 (Archivio fotografico Senato della Repubblica).

sensibilità materica, il lavoro di Anna Merci spesso supera il confine tra architettura e arte. Attualmente è direttore artistico del Festival ACTS — Architecture and Culture for new Territorial Self awareness in collaborazione con il Comune di Aquileia e sta iniziando il progetto esecutivo in vista della realizzazione di FOLLOW ME! Un chilometro come prototipo di accoglienza inseme a COR arquitectos, risultato vincitore di un concorso internazionale in due fasi. Si tratta di un corridoio ecologico di tre ettari nel centro di Canosa di Puglia, una sequenza di spazi pubblici che connettono le aree archeologiche e definiscono un nuovo modello di fruizione turistica.

« La speranza per il futuro delle nostre città, in ogni caso, credo che vada riposta nell’educazione dei cittadini e, soprattutto, dei politici di domani »

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Dal momento che i tuoi interventi si muovono dalla piccola scala di design fino agli scenari urbani e territoriali, quali sono, se esistono, le differenze di approccio ai temi progettuali nelle diverse scale che il tuo lavoro affronta? Non esistono differenze nel mio approccio metodologico nel progetto, che si tratti di dettaglio o di grande scala, è un insegnamento che ho imparato dall’architetto spagnolo Juan Manuel Palerm Salazar. Sicuramente è qualcosa che ha le basi nella mia formazione al liceo classico: per me è fondamentale per prima cosa avere un approccio multidisciplinare, sono convinta che per fare un “buon progetto” sia necessario non limitare i propri riferimenti solo all’architettura, un mondo troppo spesso totalmente autoreferenziale. C’è stato un momento della tua vita in cui hai svolto la tua professione a Parigi. Quali sono state le differenze, se esistono, tra la pratica professionale francese e quella italiana? Non ti sembra che la figura dell’architetto in quell’ambito sia considerata ancora fondamentale per la società come può esserlo un medico o un avvocato, al contrario del panorama italiano?

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11. Masterplan strategico per la rigenerazione del comparto urbano di Marghera; a sinistra uno schizzo di Renzo Piano. Team Renzo Piano G124: A. Merci, L. Mazzei, N. Di Croce (2016). 12. Segnaletica lungo il percorso “Sulla via del riuso”, camminata urbana di 3 km con la comunità di Marghera, 8 ottobre 2016. 13. Il Giardino del Fitorimedio, spazio didattico a Marghera. Team Renzo Piano G124 in collaborazione con l’Università di Udine (2017).

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La Francia mi ha insegnato cosa significhi l’autorevolezza della nostra professione ed è stato fondamentale capirlo proprio nel momento in cui mi stavo affacciando al mondo del lavoro. Non solo la figura dell’architetto è considerata sinonimo di competenza, ma anche le retribuzioni sono sempre proporzionate alla preparazione che il nostro lavoro richiede. La domanda più frequente dei miei clienti francesi era perché in Italia non ci fossero politiche concrete a sostegno dei giovani architetti, perché non fossero incentivati, anche finanziariamente. In Francia, infatti, lo Stato sostiene i giovani architetti nell’apertura dei propri studi professionali. A distanza di quasi quattro anni dal mio rientro in Italia devo dire, con amarezza, che le cose non sono cambiate. In Francia sono state ideate le basi per una nuova metodologia sui affrontare i temi del paesaggio, come il “terzo paesaggio” di Gilles Clément, una specie di dottrina che permette di risolvere i problemi a partire da quello che i luoghi ci offrono in materia di natura, usi e persone. Qual è stato l’effetto che Clément ci insegna sul tuo lavoro in generale e con Renzo Piano a Marghera?

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14-15. Chez Giulia, ristrutturazione di un appartamento privato a Parigi. Team A. Merci, L. Majer (2015). 16. Walking in the fields of gold, concorso internazionale Eira Lounge Pavilion, Cem Soldos
(PT), secondo classificato. Team A. Merci, L. Majer (2015).

In Italia siamo arrivati tardi, e oggi quando si parla di tematiche cosiddette green si rischia di finire più nella retorica che nella concretezza. Troppe volte si persevera nell’errore di considerare il paesaggio come qualcosa di esornativo rispetto all’architettura costruita. In realtà la progettazione del verde deve essere considerata alla pari, se non più complicata dato che si utilizza materia viva: Luis Barragán, ad esempio, ha dedicato moltissimo tempo alla scelta delle essenze vegetali del giardino della sua casa a Città del Messico ed è stato definito nel 1976 da Emilio Ambasaz “uno tra i landscape architect più raffinati e poetici di sempre”1. Nel caso specifico di Marghera era impossibile esimersi dall’affrontare la questione ambientale, non solo per la presenza del porto e dell’inquinamento che ha provocato sui suoli urbani, ma anche per il grandissimo numero di spazi aperti abbandonati dei quali non si conosce il destino, ma su cui sarebbe possibile intervenire con la vegetazione in attesa delle future decisioni politiche.

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Il maestro portoghese Álvaro Siza, che hai avuto modo di conoscere, ci insegna che “paesaggio è tutto quello che entra nel nostro campo visivo”. Come possono cambiare le periferie delle città italiane? Pensi che la nuova città

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17-18. Peças de cidade, pedaços de rio, concorso per un nuovo spazio pubblico lungo il fiume Douro, Porto (PT), terzo classificato. Team A. Merci, L. Majer, M. Bianchi (2015). 19. At.Mo.SFERA, concorso per il riuso dei padiglioni espositivi del Portello, secondo classificato. Team A. Merci, L. Majer, M. Bianchi, A. Romani (2015).

20-21. Jardin à porter, giardino sperimentale. Team A. Merci, C. Micucci, G. Cucut. Veduta in occasione del Festival Comodamente a Serravalle, Vittorio Veneto (2012) e illuminazione del giardino collocato sull’antico lavatoio di Serravalle, City Brand&Turism Landscape Award (2019).

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debba ricostruire le speranze sociali a partire dalle periferie? La questione delle periferie italiane è un discorso molto complesso e avrebbe bisogno di essere sviluppato a parte perché non è possibile sintetizzarlo in poche righe. Premesso questo, ho avuto il privilegio di lavorare più di un anno con la comunità di Marghera, testando in prima persona le difficoltà di vita, di lavoro e di collegamento con Venezia e i luoghi limitrofi. Non esiste una “ricetta perfetta”, possono esserci delle linee guida per operare nei diversi contesti, ma, per esempio, non è possibile applicare l’approccio francese in termini di partecipazione, perché ci sono differenze sostanziali nella maniera in cui le persone vivono gli spazi e, al contempo, la presenza dello Stato francese è molto più forte di quello italiano nei grandi progetti di rigenerazione urbana. In Italia esistono delle città che sono dei modelli virtuosi, si pensi a Bologna, ma c’è una mancanza poi a monte dal punto di vista governativo. La speranza per il futuro delle le nostre città, in ogni caso, credo che vada riposta nell’educazione

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dei cittadini e, soprattutto, dei politici di domani. A Favara, Agrigento, c’è una scuola di architettura per bambini, SOU School Architecture for Children, che promuove attività educative legate all’urbanistica, all’architettura, all’ambiente, alla costruzione di comunità, alla partecipazione e all’impegno sociale. Ho potuto fare una lezione ai bambini di SOU e sono convinta che i luoghi del domani ripartiranno proprio da lì.

1 Emilio Ambasz, The architecture of Luis Barragàn, The Museum of Modern Art, 1976. 21

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Mario Gottardi da Milano a Verona

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Verona, Bardolino, Lazise 1 – villa la caravella

Testo e Foto: Daniela Tacconi

Nato a Venezia nel 1913, Mario Gottardi si laurea in architettura nel 1939 a Milano, città in cui fissa la sua sede lavorativa. La sua attività spazia dall’urbanistica al restauro, dall’edilizia all’arredamento; non mancano nella lunga lista dei suoi incarichi la progettazione di arredi navali e la partecipazione a concorsi nazionali e internazionali. All’attività professionale affianca quella accademica presso l’università di Pavia, dove insegna per anni nei corsi di disegno. Fin dai primi lavori il progetto degli arredi è il naturale completamento di quello architettonico: inizialmente i mobili sono prodotti artigianali, pezzi unici che nascono dalla sinergia tra le idee del progettista e l’esperienza e perizia dei mobilieri brianzoli. Col tempo gli opera-

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LAZISE - 45.517102, 10.730619

tori del settore devono affrontare l’affacciarsi sul mercato di nuovi materiali e la produzione in serie; Gottardi vive questo passaggio anticipando la stagione del grande design milanese. Sia alla grande che alla piccola scala predilige la razionalità delle soluzioni, la ricerca della leggerezza e della trasparenza, che raggiunge grazie all’essenzialità delle forme e all’utilizzo di materiali moderni. Con i suoi progetti eleganti e lineari Gottardi segue le orme di altri protagonisti dell’architettura che in quel tempo dominano la scena milanese come Melchiorre Bega e Gio Ponti, che conosce personalmente. È architetto assai prolifico e impegnato spesso anche fuori Milano, in Italia e all’estero. Le prime commesse a Verona risalgono agli anni Qua-

ranta e sono seguite nei decenni successivi da una lunga serie di altri incarichi; frequenti sono le collaborazioni con alcuni dei principali costruttori veronesi, tra cui l’impresa Lonardi con la quale realizza diversi interventi sia a Verona che fuori regione e per la quale progetta gli uffici, una villa e la tomba di famiglia. Gli esempi raccolti nell’itinerario costituiscono una documentazione varia per tipologia, dagli edifici produttivi a quelli alberghieri, con un consistente nucleo di realizzazioni tra la città antica e Borgo Trento. Si tratta di progetti che hanno costruito il tessuto della città consolidata senza però un rilevante slancio architettonico, che si può di contro ritrovare nella proposta non realizzata di una torre residenziale.

2 – sala nautica interrata LAZISE - 45.516648, 10.730784

3 – mobilificio rama CISANO - 45.521324, 10.729789

4 – grand hotel VERONA - 45.433460, 10.989463

5 – ALBERGO EUROPA VERONA - 45.438771, 10.990632

6 – TOMBA LONARDI VERONA - 45.432895, 11.007245

7- PALAZZO PER UFFICI VIA CATULLO - VERONA 45.441117, 10.994652

9 – edificio ad appartamenti lungadige rubele - verona 45.441075, 11.000839

10 – PALAZZO CAVOUR SAN LORENZO VERONA - 45.440674, 10.990808

11 – edificio ad appartamenti VIA IV NOVEMBRE - VERONA 45.445216, 10.988809

12 – Condominio ponte risorgimento VIE RISORGIMENTO- REPUBBLICA 45.444805, 10.983520

13 – INDUSTRIA ABITI ABITAL-MASTIN PARONA– 45.469278, 10.951786

8 – Ristorante s. matteo VERONA - 45.441804, 10.993971

consulta la mappa su google maps: https://goo.gl/maps/ 5tN2YmCKxSdtu49KA

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VILLA LA CARAVELLA Lazise 1941-1959 A nord dell’abitato di Lazise, nella fascia a lago, sorge questo edificio progettato da Gottardi nel 1941: si tratta di uno dei suoi incarichi giovanili e in assoluto il primo realizzato in ambito veronese. La villa si sviluppa su un unico piano fuori terra, con una terrazza spaziosa parzialmente porticata rivolta verso il lago. Il soggiorno e la sala da pranzo sono orientati a sudovest verso la terrazza, mentre la zona notte è rivolta verso il lato opposto. Le pareti esterne presentano un basamento con muratura di pietra, verso l’alto invece

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SALA NAUTICA INTERRATA PER CENTO MOTOSCAFI Lazise 1956-1957

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sono intonacate e tinteggiate di bianco. Nel 1959 la villa viene ampliata su progetto dello stesso Gottardi: si aggiunge un secondo piano, raggiungibile tramite una scala autoportante costituita da un’unica rampa libera sorretta da una doppia nervatura centrale. Il progetto si spinge alla definizione di numerosi dettagli esecutivi spesso disegnati in scala reale: dagli interni alle ringhiere e alle altre opere in ferro, dalle fioriere dei balconi al tavolo per il giardino.

ll volume visibile dalla strada, un padiglione a pianta ottagonale con pareti completamente vetrate e tetto piano, non lascia presagire nulla di quello che è nascosto sotto il livello del terreno: un ampio spazio a doppia altezza utilizzato per il ricovero di imbarcazioni, inserito nel declivio naturale che collega la strada Gardesana con la quota del lago. La struttura interrata in cemento a vista è imponente: le barche sono messe a dimora su più livelli con l’ausilio di un carroponte. Mentre un tempo una botola permetteva di estrarre dall’alto le imbarcazioni, ora la loro uscita è garantita da un portone a tutta altezza che si apre verso la passeggiata del lungolago.

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mobilificio rama Cisano 1958 Nel dopoguerra l’attività della falegnameria Rama Lino & Figli, presente a Lazise fin dal 1912, è sempre più fiorente al punto di richiedere la costruzione di un nuovo edificio più spazioso; dal centro di Lazise la sede dell’azienda si sposta quindi a Cisano. La progettazione del nuovo capannone da 4.000 mq viene affidata a Gottardi;, conoscitore dell’industria del legno grazie alle frequenti collaborazioni con falegnami e mobilieri della Brianza. Lo spazio interno dell’edificio produttivo è caratterizzato da ampie volte in cemento; la luce filtra dalle finestrature in facciata e dagli shed che assecondano con la loro forma la sezione arcuata della copertura. I pannelli prefabbricati di facciata sono leggermente concavi, tali da conferire alle pareti esterne un aspetto fluido ed ondulato.

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grand hotel Verona 1946-1954

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Costruito agli inizi degli anni Venti dalla famiglia Reichenbach, dopo l’allontanamento dei proprietari in seguito all’approvazione delle leggi razziali e dopo aver subito ingenti danni bellici, nel dopoguerra l’edificio viene ristrutturato e trasformato in hotel. Gottardi interviene sull’impianto ad U creando un’ampia hall centrale aperta tramite vetrate verso il patio e il giardino retrostanti. Gli interni e gli arredi, ora non più esistenti, sono disegnati dallo stesso architetto con un’attenzione particolare all’accostamento delle tonalità: negli spazi comuni del piano terra le pareti bianche fanno risaltare il pavimento in marmo rosso e i tendaggi in velluto verde. Gli ambienti sono illuminati

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da una combinazione di applique e di luci sopra il controsoffitto, queste ultime lungo il perimetro o, come nella hall, all’interno di fasce parallele. Gottardi mette in risalto le scale interne, caratterizzate da linee sinuose e forme pulite: quella che dalla hall conduce ai piani superiori ha parapetti in securit e finiture in similoro. I mobili sono progettati nel dettaglio così come la zona di ingresso e l’uscita verso il giardino; nelle camere viene studiata una funzionale parete attrezzata, che funge da testata dei letti indipendente e che accoglie i principali servizi. Gli interni dell’albergo vengono pubblicati nel 1950 sulla rivista «Domus» e nel 1960 sul libro Public Interiors.

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5 albergo europa Verona 1953 Costruito in sostituzione del preesistente albergo Ferrata all’innesto tra via Roma e via Teatro Filarmonico, l’edificio venne costruito con un’altezza superiore a quella massima prevista dal Piano di Ricostruzione allora vigente: il Comune concesse la deroga ritenendo l’intervento positivo dal punto di vista igienico ambientale, vista la carenza di strutture ricettive moderne in città. Esistono diverse versioni del progetto, ma l’impostazione planimetrica e i prospetti rimangono pressoché invariati. L’ingresso principale è rivolto a sud verso piazza Brà, e le camere ai piani sono distribuite lungo un corridoio che si piega a zig zag per ottimizzare la distribuzione degli spazi. Gli interni, sempre su disegno di Gottardi, vennero selezionati dal designer inglese Misha Black e pubblicati nel suo libro del 1960 Public Interiors.

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Tomba lonardi Cimitero Monumentale - Verona 1967

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Tra decori in stile, statuette e orpelli vari che affollano le cappelle del Cimitero Giardino, emerge questa tomba di impatto modernista ed essenziale commissionata dai Lonardi, la famiglia di impresari con cui Gottardi spesso collabora e per cui realizza anche gli uffici e una villa sul Garda. Su tre dei quattro lati la tomba, protetta dai cipressi che la circondano, è delimitata da setti murari rivestiti in pietra che svettano verso l’alto; in sommità la soletta di copertura sembra galleggiare senza peso pronta a librarsi verso il cielo. Il prospetto opposto a quello di ingresso è forato da una griglia fitta di piccole aperture quadrate. La grana ruvida e grigia delle lastre di pietra contrasta con il nitore e la lucidità del vetro scuro a tutta altezza della facciata principale, su cui si apre l’ingresso. Unica concessione all’ornato, al centro della vetrata la statua di un angelo piovuto dall’alto accoglie chi si accinge ad entrare.

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PALAZZO PER UFFICI Via Catullo - Verona 1956-1957

ristorante san matteo Verona 1980

Inglobato all’interno dell’isolato posto tra via Catullo e vicolo del Guasto, il palazzo è occupato al piano terra da un unico grande spazio commerciale, che prende luce da una serie di vetrine lungo il vicolo e da tre aperture verso la corte limitrofa; il passaggio pedonale che ora permette di attraversare da una parte all’altra l’edificio non compare nel progetto iniziale. I quattro piani soprastanti accolgono spazi per uffici e alcune unità residenziali; l’unico vano scala è posizionato al centro del complesso, in modo tale da dare accesso radialmente alle diverse unità. è interessante il modo in cui gli alzati si differenziano in base all’affaccio; se dal lato di via Catullo il palazzo si innalza compatto a tutta altezza, a ovest verso l’angusto vicolo del Guasto i piani alti sono arretrati rispetto al filo della strada, dalla quale si percepisce agevolmente solo lo spazio commerciale del piano terra. Gli schizzi prospettici di studio indugiano sull’affaccio verso la corte: per favorire l’inserimento del nuovo edificio all’interno dello spazio cortilizio anche qui si prevede di arretrare i piani superiori e di adeguare la forma delle aperture in continuità con quelle vicine. I portali ad arco ribassato al piano terra sono successivamente sostituiti da finestre analoghe a quelle dei piani superiori.

Costruita in epoca romanica su quelli che sembrano essere i resti del tempio romano di Giano, la chiesetta di San Matteo Concortine dopo la soppressione ottocentesca divenne prima magazzino, poi lavanderia per i militari, infine nel dopoguerra laboratorio artigianale. Dopo un incendio divampato nel 1979, agli inizi degli anni Ottanta viene convertita a ristorante su progetto firmato da Gottardi assieme all’architetto veronese Alberto Avesani. Per utilizzare al meglio l’altezza dello spazio viene costruito un soppalco a sbalzo che occupa tutta la porzione centrale della navata; vi si accede tramite una scala con gradini in pietra e con parapetto in vetro sormontato da un corrimano in tubolari di acciaio. Lungo le pareti laterali, nelle arcate cieche sono inseriti degli specchi a tutta altezza, utili ad allargare la percezione dello spazio interno.

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edificio ad appartamenti Lungadige Rubele - Verona 1965

palazzo cavour san lorenzo Verona 1963-1970

L’edificio affaccia a est su lungadige Rubele e a ovest su vicolo Amanti. Il prospetto verso l’Adige risulta compatto, con un basamento in pietra e gli alzati in pannelli prefabbricati. La disposizione di aperture e poggioli è funzionale e studiata per assecondare l’ottimale distribuzione interna degli appartamenti. Verso ovest il volume dell’edificio si scompone, creando in corrispondenza di due corpi laterali sporgenti una serie di terrazze progressivamente rientranti con l’aumentare dei piani. Questa organizzazione volumetrica rende l’edificio difficilmente visibile da vicolo Amanti, conformemente

Il progetto di recupero del palazzo tra corso Cavour e Riva San Lorenzo riguarda la porzione ad ovest dell’isolato verso vicolo Calcina. Internamente la soluzione individuata prevede nella parte verso corso Cavour un albergo con negozio al piano rialzato, mentre verso Riva San Lorenzo una destinazione residenziale con quattro appartamenti per piano. Esternamente un basamento in conci di pietra riveste tutta la parte bassa dell’edificio: qui le finestre del piano rialzato si alternano alle specchiature cieche ad arco intonacate. Nel progetto Gottardi disegna in dettaglio i parapetti e le inferriate; le cancellate degli accessi carrabili sul prospetto verso l’Adige riportano le iniziali che identificano il palazzo. Al centro della facciata verso il corso Cavour Gottardi propone la riapertura di una porta centrale trovata sotto l’intonaco, poi non realizzata.

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alle disposizioni del regolamento comunale dell’epoca.

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11 edificio ad appartamenti Via IV Novembre 1956-1959 Questo complesso residenziale si raggiunge attraverso un passaggio porticato aperto al numero 11 di via IV Novembre. La costruzione sorge internamente all’isolato senza alcun affaccio diretto sulle strade limitrofe. Il volume principale si innalza con i suoi sette piani fuori terra sul fondo del cortile, uno spazio libero interno in gran parte occupato dall’ampio giardino. I nastri orizzontali dei parapetti nella facciata frontale risultano alleggeriti grazie alla struttura metallica e alle specchiature vetrate. Il ritmo orizzontale è contrastato da quello verticale dei sottili montanti metallici che si estendono dal primo piano fino alla linea della gronda, anch’essa sporgente come i balconi sottostanti; tutta la porzione centrale della facciata è ritmicamente suddivisa dalla griglia regolare che si viene così a creare. Il prospetto sul retro risulta meno compatto. L’ultimo piano è completamente occupato da un ampio terrazzo.

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condominio ponte risorgimento Via Risorgimento - Viale della Repubblica 1956-1957 Il complesso occupa l’isolato triangolare posto tra le attuali via Risorgimento e viale della Repubblica nel punto in cui convergono di fronte a Ponte Risorgimento. L’impianto del progetto redatto nella seconda metà degli anni 50 prevede una pensilina di collegamento tra i due corpi che affacciano su viale della Repubblica, un’apertura che interrompe la continuità delle facciate e apre la vista sul cortile con giardino interno. La pensilina non viene realizzata e i due corpi di fabbrica ai suoi lati rivelano, nella disposizione delle aperture e nelle finiture, fasi costruttive diverse. Sono da ricondurre al progetto originario il ritmo verticale scandito dai pilastrini metallici dei balconi, l’impostazione dei prospetti principali, che alterna l’orizzontalità dei balconi al centro e la verticalità delle aperture ai lati, la pensilina perimetrale che corre a livello della copertura lungo i prospetti verso il ponte e verso viale della Repubblica. Gottardi studia anche delle soluzioni alternative con il posizionamento al centro dell’isolato di un grattacielo, un’occasione mancata per la creazione di un efficace fulcro visivo lungo la direttrice del ponte.

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13 INDUSTRIA PER ABITI ABITAL-MASTIN Parona 1961-1962 La sede dell’industria per abiti Abital-Mastin viene progettata all’inizio degli anni 60 da Gottardi assieme a Lorenzo Rosa Fauzza, architetto di origini friulane molto attivo all’epoca in ambito veronese. Il complesso industriale sorge vicino all’abitato di Parona a poca distanza dall’Adige. La copertura del volume destinato alla produzione è costituita da capriate snelle in cemento che reggono gli shed; la soluzione adottata, realizzata ricorrendo a metodi di semiprefabbricazione, permette di disporre di una grande quantità di luce che dall’alto illumina uniformemente lo spazio interno. All’esterno il volume si distingue per il profilo seghettato degli shed, raccordati lungo il perimetro da travi reticolari sempre in cemento armato. L’edificio che ospita gli uffici sorge invece lungo la strada principale e si sviluppa su due piani fuori terra.

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CONATI INTERIORS – 4 OTTOBRE 2019 “HOME SYSTEM, DAILY ORGANIZED” Il tema: “HOME SYSTEM, DAILY ORGANIZED”, ha richiamato nello showroom di Fumane di Valpolicella più di 800 partecipanti che hanno contribuito, con a loro massiccia presenza, a portare alla ribalta questo bellissimo Comune, non solo per l’eccellente produzione enogastronomica, ma anche per la sua propensione al design interpretato dal Team di CONATI INTERIORS, nella ricerca e realizzazione di soluzioni d’arredo ad alto Tasso di Individualità. Madrine d’eccellenza e mattatrici della serata sono state due ospiti di eccezione: BENEDETTA PARODI, conduttrice televisiva, scrittrice e giornalista GIULIA TORELLI, blogger e closet organizer.

Una casa ordinata ha un forte impatto positivo contro lo stress e contribuisce notevolmente a ridurre, se non ad eliminare, le spese inutili. I partecipanti hanno realmente PARTECIPATO alla ricerca di soluzioni per i piccoli, ma talvolta fastidiosi, problemi di organizzazione quotidiana. Chiara dimostrazione di quanto l’argomento sia attuale e ancora tutto da scoprire…………e da ORGANIZZARE. L’effettiva risposta e soluzione a queste domande è praticamentein Showroom. Si può toccare con mano, nei 3500 metri quadrati di esposizione di CONATI INTERIORS, dove sono presenti i migliori brand dell’arredamento. CONATI INTERIORS, con una storia di oltre 60 anni nel mondo dell’arredo. Un impegno costante nell’arredamento per la casa a cui si sono aggiunti, ormai da tempo: l’ufficio, il settore dell’ospitalità: hotel bed&breakfast, il settore inside per spazi pubblici e ristoranti e per ultimo, ma non ultimo il Real Estate, dedicato ai costruttori ed alle immobiliari. CONATI INTERIORS lavora quotidianamente con il proprio Team pronto a dare soluzione specifiche ed allenato a lavorare in affiancamento e a supporto a professionisti ed architetti esterni. Con la consapevolezza e l’impegno di offrire servizi individuali, originali al punto di essere irripetibili integrando forme, funzioni e personalizzazioni.

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