Consiglio dell’ordine • Presidente Amedeo Margotto • VicePresidenti Laura De Stefano Matteo Faustini • Segretario Enrico Savoia • Tesoriere Daniel Mantovani • Consiglieri Cesare Benedetti, Michele De Mori, Stefania Marini, Diego Martini, Leonardo Modenese, Michele Moserle, Francesca Piantavigna, Chiara Tenca, Morena Zamperi, Ilaria Zampini
Rivista trimestrale di architettura e cultura del progetto fondata nel 1959 Terza edizione • anno XXIX n. 1 • Gennaio/Marzo 2021 rivista.architettiverona.it
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Direttore responsabile Amedeo Margotto
Direttore Alberto Vignolo
Editore Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Via Santa Teresa 2 — 37135 Verona T. 045 8034959 — F. 045 592319 architetti@verona.archiworld.it
Redazione Federica Guerra, Angela Lion, Luisella Zeri, Damiano Capuzzo, Filippo Romano, Leopoldo Tinazzi, Laura Bonadiman, Giorgia Negri, Marzia Guastella, Nicolò Olivieri, Elisa Montagna, Filippo Ganassini, Davide Graniti rivista@architettiverona.it
DISTRIBUZIONE La rivista è distribuita gratuitamente agli iscritti all’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona e a quanti ne facciano richiesta all’indirizzo https://architettiverona.it/distribuzione/
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Concessionaria esclusiva per la pubblicità Promoprint Paolo Pavan: T. 348 530 2853 info@promoprintverona.it
contributi a questo numero Florencia Bauzer, Luciano Cenna, Marino Folin, Silvia Marchesini, Lorenzo Marconato, Paola Muscari, Nicola Tommasini, Piero Vantini, Francesco Varesano
Stampa Cierre Grafica www.cierrenet.it
Si ringraziano Gabriello Anselmi, Ketty Bertolaso, Ferdinando Buffa, Michele De Mori, Anna Galtarossa, Gianfranco Guarise, Federica Provoli
L’etichetta FSC ® garantisce che il materiale utilizzato per questa pubblicazione proviene da fonti gestite in maniera responsabile e da altre fonti controllate.
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reportage Fotografici Lorenzo Linthout, Marco Toté, Paolo Sandri, Alessio Mitola, Silvia Marchesini
Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli autori, e non impegnano l’editore e la redazione del periodico. La rivista è aperta a quanti, architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.
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PROGETTO
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Uno sguardo lontano di Lorenzo Marconato
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progetto
Architettura a strati di Elisa Montagna
editoriale
Professione e partecipazione di Alberto Vignolo
042
progetto
Un tempio nella valle di Marzia Guastella
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storia & progetto
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PROGETTO
Spazio sacro e spazio urbano di Nicola Tommasini
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Una fervida professione di Piero Vantini
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progetto
Di stazione in stazione di Francesco Varesano
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INTERIORS
Spazio e materia per una casa “mini” di Davide Graniti
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dossier
La partita del “piano Folin”
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dossier
odeon
Hotel Garibaldi di Alberto Vignolo
In ricordo di Gigi di Luciano Cenna
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dossier
Una nuova attualità per il centro storico di Alberto Vignolo
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099 Ci mette il becco LC: una proposta fuori dalla prassi di Luciano Cenna
odeon
Fare un parco: tra immaginario e realtà di Paola Muscari, Florencia Bauzer
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odeon
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itinerario
Viaggio in provincia: da Sanguinetto a Legnago di Federica Guerra
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Quasi architetti
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interiors
Abitare su misura di Filippo Ganassini
Lungo il fiume, lungo le mura di Laura Bonadiman
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dossier
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dossier
Un museo-laboratorio per Verona di Marzia Guastella
portfolio
odeon
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Paesaggi sospesi di Silvia Marchesini
Magazzini XXL di Federica Guerra
odeon
Luigi Calcagni architetto veronese di Alberto Vignolo
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Pontimania di Nicolò Olivieri
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Quale futuro per il centro di Marino Folin
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studiovisit off
Approdo a NYC di Leopoldo Tinazzi
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Professione e partecipazione La figura dell’architetto nel confronto tra competenze professionali e istanze comunitarie
Testo: Alberto Vignolo
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La diffusione globale di mezzi e piattaforme di comunicazione, che permeano oramai le vite di ciascuno, ha reso facile partecipare a ogni livello della vita collettiva, che si parli di ricette di cucina, di politica internazionale o di città e delle sue dinamiche. Non che il tema della partecipazione in campo architettonico e urbano sia di per sé una novità: ci sono state nel passato stagioni di un certo successo, e figure che ne hanno veicolato lo spirito democratico, salvo poi ricomprenderne gli esiti grazie all’autorevolezza che ancora poteva incarnare la professione di architetto. E oggi? Mentre guru e paraguru alimentano il culto delle loro personalità sui rispettivi profili social, nel piccolo di borghi, quartieri e città non restano che le piattaforme digitali a raccogliere sfoghi e opinioni di chi abbia qualcosa da dire sul proprio ambito territoriale, nel bene o nel male: e a dire il vero, anche di chi non ha nulla da dire, ma lo dice lo stesso. In fondo, non è che la versione aggiornata e pantofolara di quelle vecchie riunioni in qualche saletta di circoscrizione o circolo sociale attorno a eliocopie dall’odore ammorbante, pennarelli o matite colorate alla mano (più di recente
tanti bei post-it colorati), a disegnar velleitarie idee destinate a tanti complimenti e alle profondità di qualche ascoso cassetto. La chiamata a essere parte attiva dei processi che interessano la città, manifestando bisogni e suggerimenti, parte da presupposti lodevoli, che però rischiano di finire nel vicolo cieco di mille piccolezze, tra una visione ombelicale e una spasmodica attenzione al proprio orticello. Ad essere buoni, quello che si vede nei contenitori di questo tipo non sono altro che disarmanti banalità, frutto di un qualunquismo che lascia il tempo e lo spazio che trova. Fatte salve le giuste segnalazioni di buche
nei marciapiedi da sistemare, quando si sale di livello dare voce all’incompetenza diventa un azzardo. Proposte aliene dal regime dei suoli e delle proprietà, dal minimo discernimento tra competenze e spettanze tra pubblico e privato, rivendicazioni urlanti e generiche che, dal particolarismo, non possono comprendere logiche di scala ed equilibri territoriali. Per esempio: facile e per molti aspetti legittimo rivendicare un parco, soprattutto da parte di chi vive in quartieri che sono al di sotto degli standard qualitativi delle parti più attrezzate della città. Ma proviamo a pensare a un bilancio tra chi dovrebbe farsi carico dei costi, sia di
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01-02. Illustrazioni di Isabella Fabris (www.isabellafabris.it). .
impianto che di esercizio – la parte pubblica, ovviamente – e i benefici in termini di plusvalore immobiliare ingenerato dalle migliorate condizioni urbane, che tornerebbero interamente a vantaggio dei privati. Signori comitati urlanti e pretendenti, facciamo quattro conti? In tutto ciò, quello che passa in secondo piano è il tema della competenza. Non si può intendere la partecipazione come cessione di una delega sulle scelte, che necessitano invece di capacità analitica di discernimento, visione in profondità e lunghezza. Evviva l’architettura partecipata, però non sembra di sentir parlare di medicina partecipata, o di giurisprudenza partecipata:, eppure la salute e la giustizia riguardano tutti, ma medici e avvocati hanno un ruolo ben riconosciuto, senza sconti. Certo, i soggetti che abitano la città e gli spazi di vita sono gli attori di ogni trasformazione, e in quanto tali non si può pensare a una messa in scena – un qualunque progetto, metaforicamente parlando – fatto solo da un conciliabolo di registi, scenografi e tecnici. Ma al tempo stesso non si può pensare che le velleità di protagonismo degli attori, o la loro incapacità a muoversi sul palco senza conoscere le regole,
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possa arrivare fino a confondere e mescolare ruoli. Vero è che gli amministratori di quel gran teatro che è ogni città guardano al botteghino, ovvero al consenso: ma non si possono demandare il governo del territorio o le scelte su ciascun progetto al televoto o al numero dei like. Occorre saper interrogare i luoghi, scavare oltre la superficie del chiacchiericcio digitale: la potestà sullo spazio urbano non può abdicare, in nome di un grazioso intrattenimento sociale, a una seria metodologia condotta da professionisti qualificati. Che certo non mancano, anche se l’autorevolezza della figura dell’architetto ha vissuto tempi migliori, non c’è da nasconderlo. Per questo occorre uno sforzo collettivo per rivendicare con decisione il valore della professionalità rispetto all’improvvisazione e all’elogio dell’incompetenza. Ci vorrebbe forse un archi-pride, tutti a sfilare belli in tenuta da architetto-figo: il nero è d’obbligo, e per la colonna sonora si accettano consigli.
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PROGETTO
Spazio sacro e spazio urbano
La costruzione della nuova chiesa di Balconi di Pescantina è l’occasione per arricchire la comunità di un centro fisico, sociale oltre che religioso, attorno al sagrato e agli spazi parrocchiali Progetto: arch. Roberto Paoli - Nexus! associati (capogruppo) Testo: Nicola Tommasini Foto: Paolo Sandri
Pescantina
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La costruzione della nuova chiesa parrocchiale di Balconi di Pescantina intitolata a San Pietro da Verona, che descriviamo in queste pagine, chiude un lungo capitolo di storia locale e dota la comunità di Balconi di un spazio di culto rappresentativo e la piccola frazione della centralità urbana di cui era sprovvista, realizzando quindi un nuovo equilibrio tra gli aspetti religiosi e sacri con quelli laici e urbani. L’aspetto che più affascina di questo progetto – la sua forza – è infatti legato principalmente alle scelte di insediamento urbano, dotate di una raffinata capacità di disegnare e organizzare i diversi spazi del complesso (non solo gli interni sacri della Chiesa, ma anche i nuovi locali del centro parrocchiale) insieme a una capacità di imporsi come la nuova centralità urbana della piccola frazione. Lo spazio del sagrato è un “interno urbano” caratterizzato dalla presenza riconoscibile del nuovo campanile e della nuova Chiesa, è il nuovo centro, fisico e sociale, religioso ma anche laico, perché urbano, di Balconi.
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« L’interno della Chiesa è permeato dalla luce che rende evidente lo scarto e il cambio di natura dello spazio che diviene sacro » Il nuovo complesso sorge nel centro di Balconi, frazione tutta distribuita sul lato sud della Strada Provinciale 1 (la via Brennero), a nord di Pescantina; è da segnalare il fatto che durante la guerra la stazione ferroviaria di Balconi era la prima fermata per i convogli che trasportavano il ritorno a casa degli ex-internati dai campi di concentramento. La frazione ha avuto un momento di (relativo) intenso sviluppo urbanistico nel secondo dopoguerra, che ha portato alla costruzione di alcuni insediamenti residenziali e al raggiungimento di circa 1.400 abitanti già all’inizio degli anni Settanta. Lo sviluppo repentino ha portato all’istituzione della parroc-
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chia di San Pietro Martire – indipendente da quella di Pescantina – nel 1968. Da parte della comunità, la necessità di dotarsi un luogo di culto si era dunque fatta impellente. Nel solco della tradizione cristiana che vuole gli spazi sacri edificati sopra i precedenti luoghi di culto, la nuova chiesa sorge sul sedime di
01. Il sagrato e il fronte principale della nuova chiesa di Balconi. 02. La “porta urbana” e il campanile sullo sfondo. 03. L’area in una veduta aerea. Nelle pagine precedenti: il fonte battesimale in corrispondenza dell’ingresso all’aula.
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Spazio sacro e spazio urbano
PROGETTO 04-05. Prospetto nord est e sezione longitudinale della chiesa. 06. Planimetria generale.
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un’aula edificata nel 1972 – primo elemento di un più ampio e ambizioso progetto dell’ingegner Enrico Trevisani che la comunità di Balconi si è trovata costretta ad accantonare negli anni Novanta per difficoltà economiche – che ha svolto per gli ultimi quarant’anni l’impossibile compito di accogliere i fedeli di Balconi e di esserne l’unico luogo di culto. Nei primi anni Duemila, con la frazione che supera i 3.000 abitanti, si comincia a ripensare concretamente al progetto di una nuova chiesa. Viene bandito dalla Diocesi di Verona un concorso di progettazione a inviti (cfr. «AV» 119, pp. 30-31), che a metà del 2008 vede vincitore il gruppo di progettisti guidato da Roberto Paoli (Nexus! associati) assieme agli architetti Gustavo Carabajal e Sergio Ruggeri, all’ingegner Gianfranco Giovanelli e con il contributo di don Luigi Girardi in qualità di liturgista. La comunità parrocchiale, guidata da don Lorenzo Accordini, inizia a discutere attivamente sul progetto e sulla sua realizzazione. Il progetto esecutivo è sviluppato dal 2015-2016; la costruzione della Chiesa comincia nel 2017 e termina tre anni più tardi.
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Torniamo al progetto. Come già accennato, ciò che più convince della nuova realizzazione è l’impianto urbano: una raffinata distribuzione, in un movimento a spirale, dei diversi volumi richiesti dal programma che dà vita, dalla porta urbana del sagrato, a una successione calibrata e riuscita di scene e viste che si succedono durante il percorso che porta fino all’ingresso della nuova Chiesa e da lì prosegue, al suo interno, fino all’altare, inevitabile punto finale di tutto il movimento. è una promenade che, inizialmente urbana, acquista via via sacralità, perde il rapporto con lo spazio pubblico laico del paese e con le sue giaciture; cambia di direzione e si fa più silenziosa, accoglie e accompagna il fedele che la percorre durante tutto il climax che culmina alla luce dell’altare, e lo fa grazie ad alcuni espedienti architettonici riusciti e coerenti.
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07. Lo spazio tra la chiesa e il centro parrocchiale. 08. Il giardino sul retro del centro parrocchiale.
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Spazio sacro e spazio urbano
PROGETTO
09. Il volume delle sale per la catechesi. 10. Veduta dallo spazio connettivo tra la chiesa e il centro parrocchiale. 11. Il collegamento verso la nuova sala polivalente interrata. 12. Dettaglio del fronte della chiesa.
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Il percorso esterno inizia oltrepassando la “porta urbana” ricavata nel diaframma costruito su via San Pietro Martire e costeggia il volume del salone parrocchiale posto a sud, ancora disposto quasi ortogonalmente alla via pubblica. La vista dal sagrato prosegue poi lungo il fianco del volume che ospita le sale per la catechesi, disposto secondo una diversa giacitura che si allinea a quella della preesistente canonica a sud ovest, conservata e collegata funzionalmente al nuovo centro. Prosegue poi fino al punto centrale del percorso, dove si arriva all’ingresso della Chiesa. è il punto di svolta dallo spazio urbano a quello sacro: il passaggio attraverso il portale posto nella lunga fenditura sul fianco sud-est della Chiesa crea una compressione che segna l’ingresso ed esalta con la successiva dilatazione spaziale la vista della sala liturgica. L’ingresso è inoltre caratterizzato da un ulteriore espediente architettonico: chi entra si trova di fronte al fonte battesimale e scopre la sala liturgica solamente in un secondo istante e solo girandosi verso la luce a est, dove è collocato, secondo la tradizione cristiana, l’abside e l’altare.
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committente Parrocchia San Pietro da Verona Balconi di Pescantina RUP: arch. Ernesto Pisani Parroco: don Lorenzo Accordini Progetto architettonico e direzione lavori arch. Roberto Paoli Nexus! associati arch. Gustavo Carabajal arch. Sergio Ruggeri ing. Gianfranco Giovanelli con: arch. Tiziana Gallon, arch. Sara Cillotto, arch. Desiree Dumot Ferrari, arch. Maria Grazia Gutierrez, arch. Lautaro Castronjàuregui consulenti don Luigi Girardi (liturgista), Marie Michèle Poncet (opere d’arte in pietra), Noemi Poffe (Via Crucis) collaboratori ing. Riccardo Giovanelli (strutture) per.ind. Francesco Pezzarossi (impianti termoidraulici) ing. Enrico Maroni (impianti elettrici) dott. pian. Mario Giovanelli (CSP) geom. Marco Gaiga (CSE) 12
L’interno della Chiesa è permeato di luce, che, di colpo, rende evidente lo scarto e il cambio di natura dello spazio, che diviene sacro. La trasformazione della natura dello spazio durante tutto il percorso è evidente anche dal punto di vista planimetrico e volumetrico: ai bassi e razionali volumi di servizio (il centro parrocchiale, le sale della catechesi, un piccolo teatro-auditorium) si sostituisce il volume alto, bianco e organico della Chiesa. L’aula liturgica ha una pianta libera, che concentra e raduna gli sguardi dall’assemblea verso il vertice est dell’altare. Sul fronte ovest la cappella feriale e la sacrestia si inseriscono nella composizione permettendo sia l’utilizzo nei giorni feriali e sia le processioni introitali. All’interno della cappella feriale è ricavato anche lo spazio per i confessionali. Se il disegno in pianta richiama espedienti pla-
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nimetrici di progetti aaltiani, il grande fronte a sud est della Chiesa trova, forse, il suo riferimento principale nella parete lecorbusieriana di Ronchamp (non tanto nella geometria plastica – i due esempi non potrebbero essere più diverse in questo – quanto nel suo essere essenzialmente un dispositivo luminoso che permea l’interno di luce sacra). La grande parete principale della sala introduce quindi l’altro principale tema del progetto, la luce. Il recupero dell’orientamento dell’altare a est non solo recupera la tradizione cristiana più storica, ma mette la sala liturgica in rapporto con il cosmo e permette di affidare alla luce naturale il ruolo principale. Il suo variare all’interno della chiesa, nel corso del giorno, sottolinea via via spazi diversi. La luce dell’alba si introduce nell’abside attraverso tre strette feritorie, e nel corso del giorno diviene luce
imprese e fornitori Serpelloni (opere edili), Mozzo Prefabbricati (strutture prefabbricate), Pasinato Termoidraulica (impianti meccanici e idrotermosanitari), Bortoletto Gabriele (imp. elettrici), Amperia (imp. elettrici), Officine Ghin (serramenti), Falegnameria BBC (opere in legno) Cronologia Concorso a inviti: 2007 Progetto definitivo-esecutivo: 2015-2016 Realizzazione: 2017-2020
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PROGETTO 13. Lo spazio tra opere parrocchiali e chiesa (foto di Valentina Casalini). 14. Dettaglio dei volume in aggetto dei confessionali in corrispondenza della cappella feriale (foto di Valentina Casalini).
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piena che inonda lo spazio, attraversando e trasformando le fenditure della parete sud. I poli liturgici (altare e ambone) sono opere in pietra dell’artista Marie Michèle Poncet, mentre la Via Crucis è di Noemi Poffe; gli arredi su disegno previsti dal progetto non sono ancora stati realizzati. Dal punto di vista costruttivo i progettisti hanno lavorato con un approccio decisamente minimale; discostandosi da modalità tradizionali di muratura stratificata e piena, l’utilizzo di elementi prefabbricati è elevato a modalità di costruzione che si discosta dalle sue declinazioni più standardizzate, e diviene una composizione di elementi discreti e accostati tra loro. è il caso, evidente, del già citato fronte sud est della chiesa: il grande fronte, a cui è anche affidato anche il compito di fondale urbano del sagrato, viene scomposto in un accostamento
di elementi prefabbricati staccati l’uno dall’altro in maniera da far penetrare, negli spazi lasciati aperti, la luce. All’interno della sala liturgica la luce è esaltata come la vera protagonista dello spazio anche grazie ai materiali e i colori, le bianche pareti si riflettono su un pavimento chiaro ed estremamente lucido: l’effetto di immersione in uno spazio sacro ed etereo rende estremamente coerente e convincente l’intero progetto. Da fuori, la particolare finitura del cemento a vista dei pannelli prefabbricati (gettati in casseri inox e perfettamente lisciati) esalta e amplifica il riverbero luminoso; la nuova chiesa è dotata così di una materia eterea, lucida e abbagliante, ed è forse questo l’aspetto che più ne determina la natura e il ruolo di elemento innovatore e nuova centralità urbana.
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NEXUS!ASSOCIATI NEXUS!ASSOCIATI è uno studio di progettazione multidisciplinare che dal 2005 raggruppa liberi professionisti che intendono mettere in comune le proprie esperienze e competenze. Attorno ai quattro soci: Gianfranco Giovanelli, Roberto Paoli, Mario Giovanelli e Francesco Pezzarossi si è costituito un gruppo di lavoro più ampio, dove i saperi delle singole figure si integrano e si intrecciano con la ricerca, l’esplorazione, lo studio e la passione. www.nexusassociati.com
15. Dettagli della quinta urbana su via San Pietro Martire.
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PROGETTO
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16. Interno dell’aula prima della collocazione degli arredi. 17-18. L’ambone e l’altare, opere dell’artista Marie Michèle Poncet.
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PROGETTO
Uno sguardo lontano Un edificio residenziale ai margini della città propone un’ispirazione nordica alla ricerca di un dialogo a distanza con il profilo dei monti, tra interno ed esterno
Progetto: arch. Albino Finotti Testo: Lorenzo Marconato Foto: Marco Toté
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Verona
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A descrivere questo intervento di nuova costruzione provvedono al meglio le immagini e i disegni che il testo accompagna. Queste parlano di una realizzazione felice per gli occhi e per lo spirito: un caso di buona pratica dell’architettura, nella sua più ampia e complessa estensione. Via Bionde, sul limitare occidentale della città, a percorrerla narra la storia di una marginalità urbana consueta, non brillante, in lenta e disordinata densificazione, erosiva di una campagna pianeggiante che non è più tale, condita di qualche strafalcione architettonico, datato e non. Ma questa volta la storia è diversa: le opportunità di una regolamentazione urbanisticoedilizia espansiva sono state colte al meglio dall’architetto Albino Finotti. L’architettura che presentiamo è una casa-studio: un caso da manuale di progettazione in termini tipologici,
sa a due piani fuori terra. Le due figure – chiamarli volumi è svilente – hanno geometrie basiche, non per questo banali, svasate in planimetria tra loro e annodate al centro da un corpuscolo a un solo livello, indispensabile quanto tendenzialmente sommesso rispetto agli episodi che lo racchiudono. L’ispirazione del disegno è chiaramente nordica, per ammissione stessa del progettista, e la declinazione senza tanti compromessi. Le proporzioni sono aggraziate, le linee e gli spigoli netti. Le facciate vetrate a est sono accoglienti, anche grazie al loro cospicuo sporto di gronda, alleggeriscono ed espongono il contenuto, ovvero la zona giorno a doppia altezza della residenza e l’intero spazio della parte destinata a studio. I lati lunghi e la copertura dei due corpi, quali solidi estrusi figli di un’idea precisa di modellazione, per contrasto sono
01. Immagine notturna dell’edificio visto da est dall’interno del giardino di pertinenza. 02. La connessione tra il corpo intermedio d’ingresso e quello destinato a soggiornostudio con il rivestimento metallico. 03. Il prospetto nord del corpo di fabbrica destinato a residenza con il rivestimento in legno di larice.
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« Due volumi indipendenti dalla forma elementare sono connessi tra loro da un corpo minore, cerniera e ingresso per le due parti » all’interno di un modesto appezzamento di terreno vergine, incastrato tra gli edifici semirurali di un’azienda agricola, con le proprie pertinenze e un lotto similare, al margine della via pubblica. Il tema è affrontato con destrezza e semplicità nella costituzione di due volumi nettamente indipendenti, connessi tra loro da un corpo minore: cerniera e ingresso per le due parti. La forma è un archetipo. Da una parte il soggiorno-studio a due piani fuori terra, dall’altra il corpo principale dell’abitazione, anch’es-
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PROGETTO
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vuoto sul soggiorno
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compatti, proporzionati, cadenzati da qualche irregolare quanto interessante apertura. Il retro, quasi fosse il fondo della bottiglia di ciascuna fabbrica, definito da altrettanta compattezza e da mirati e permeabili squarci di luce a sera. All’interno ordine e razionalità nelle funzioni, nei collegamenti e nelle forme. Da manuale appunto. Quei manuali che così pochi sanno interpretare. L’interrato, cospicuo, in fin dei conti è percepibile solo dal retro, dove aprono gli accessi alle autorimesse; il tutto grazie alla ridistribuzione dei livelli del giardino circostante. Un ruolo di primo piano nella riuscita del progetto naturalmente lo hanno i materiali e le tecnologie utilizzate. Alcune delle scelte sono ampiamente dichiarate in linea con i riferimenti prescelti, altre sapientemente celate, comunque fondamentali, tutte con-
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correnti a delineare una costruzione dimensionalmente contenuta ma complessa e ricchissima di accorgimenti tecnici tali da essere ritenuti di valenza enciclopedica. La specificità e la molteplicità delle soluzioni tecnologiche adottate è importante sotto tutti i punti di vista. L’equilibrio tra forma dell’architettura e il suo contenuto tecnico è qui evidente, ed è frutto di quell’attenzione e di quell’esperienza che solo un progettista completo può produrre. L’esperimento dunque sembra riuscito, ulteriore prova che quando committente, progettista e costruttore sono allineati nel bene l’obbiettivo è raggiungibile. Ci si dovrebbe pensare attentamente prima di intraprendere ogni progetto, anche minore, ma pare ciò non sia più alla moda da tempo. A questo punto torniamo al principio, perché l’analisi di questo progetto e lo
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Committente Privato progetto architettonico e direzione lavori Studio Finotti arch. Albino Finotti arch. Ettore Verdolin arch. Valentina Zecchi Collaboratori ing. Giorgio Lavezzari (strutture) per.ind. Luca Lonardi (termotecnica) imprese e fornitori F018 Costuzioni (impresa generale), Lovato (strutture in legno), Cofer (strutture in ferro), Wolf Fenster (serramenti), Italfrigo (impianti idraulici e condizionamento), DamSystem (impianti elettrici), Lichtstudio Eisenkeil Merano (illuminazione) 07
cronologia progetto e realizzazione: 2018-2019
04-05. Piante complessive del piano primo e del piano terra. 06. Il retro della costruzione (prospetto ovest) con gli ingressi alle autorimesse. 07. Sezione generale dei due edifici. 08. Veduta interno-esterno dal piano terra del soggiornostudio.
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PROGETTO 09-10. Le scale in ferro tra i due livelli del soggiornostudio e dell’abitazione. 11. Veduta interno-esterno rivolta a est dal primo piano del soggiornostudio. 12-13. Vedute interne dell’abitazione con la doppia altezza sul soggiorno.
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scambio di opinioni con il suo artefice ha ravvivato nella memoria un tema sempre aperto. Ma che relazione c’è tra questa costruzione e il suo contesto? Apparentemente nessuna: sembra un’architettura di ispirazione nordica buttata nella periferia della città di Verona. Beh, se la risposta fosse davvero questa, chi scrive se ne dovrebbe tornare al banco con un sonoro tre e una bacchettata sulle mani! In realtà si coglie una saldissima relazione, un equilibrio che pare funzionare egregiamente, non casuale. Si coglie un oggetto non autoreferenziale, che accende un dialogo non con l’immediato intorno, al quale è difficile riconoscere delle improbabili qualità e dal quale per questo motivo genera un educato distacco, velandolo sapientemente con cromie domestiche, ma contemporanee. Quanto sia salda la relazione tra questa architet-
tura e il contesto si legge sulla lunga distanza, sia guardandola dall’esterno, sia dall’interno. Dal di fuori del recinto vegetato, poco si vede dei volumi a capanna, ma varcata la barriera si vede subito come le linee di copertura facciano il verso alla cresta del Baldo. La pancia cava dei due volumi si lascia esplorare senza vergogna dal giardino, ma è dalle viscere verso l’esterno che lo sguardo riscopre tutte le relazioni che esistono tra questo luogo e l’intorno distante, specialmente stando ai livelli superiori. Allora ogni apertura è un quadro verso un punto preciso ma lontano, lasciando che lo sguardo si elevi al di sopra dell’infausta piana periurbana, alla ricerca dei monti, che così entrano a far parte di questo disegno.
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studio finotti Albino Finotti (Verona, 1964) si laurea in Architettura allo IUAV con una tesi sulle costruzioni in legno; dal 1989 svolge la libera professione occupandosi di ristrutturazioni edilizie e nuove costruzioni in ambito residenziale, direzionale e commerciale e di progettazione di interni. Una sua casa tra Torri del Benaco e San Zeno di Montagna è pubblicata nell’articolo Libertà controllata su «AV» 114, pp. 50-55. www.studiofinotti.net
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14. Veduta generale dell’edificio dall’interno del giardino di pertinenza. 15. Particolare del rivestimento in lamiera metallica dello studio. 16-17. Dettagli costruttivi: struttura portante in cemento armato e legno (studio) e struttura portante in legno (abitazione).
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PROGETTO
Un tempio nella valle La valorizzazione dell’area archeologica del Tempio di Minerva nella valle di Marano presenta un disegno articolato tra tutela e conservazione e tra architettura e paesaggio
Progetto: Tetrarch Architetti Testo: Marzia Guastella
Marano di Valpolicella
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Parlare di archeologia significa consolidare il valore effettivo della scoperta avanzando una profonda riflessione sul criterio con cui questa disciplina si relaziona alla contemporaneità: nozione imprescindibile dal momento che il passato conserva un legame indissolubile con il suo territorio coinvolto in un continuo processo di trasformazione per il quale diventa fondamentale, nel rapporto tra archeologia e progetto, verificare la compatibilità tra forme e linguaggi. La valle di Marano ha sperimentato tale processo preservando con grande cura le peculiarità di un luogo abitato fin dal Tardo-Neolitico, e riscopren- se interne, pecunia fanatica. Le medo nel Monte Castelon le tracce di un todologie utilizzate per le indagini solido passato lentamente ricostruito provocarono una perdita parziale dei attraverso preesistenze e testimonian- materiali che furono tramandati solo ze di epoche diverse, come i gracili attraverso alcuni disegni commissiosegni di un castello del X secolo sul- nati dallo studioso veronese al pittore la sommità e la chiesa del XV secolo mantovano Giuseppe Razzetti. dedicata a Santa Maria Valverde o di In tempi più recenti la collaborazioMinerbe sul terne tra la Soprinrazzo più in basso. « La sequenza cromatica tendenza ai Beni In questo scenario Archeologici del dei listelli in larice dal forte fascino Veneto e il coconsente alla struttura di mune di Marano storico e naturalistico qualcosa di completare l’inserimento di Valpolicella ha singolare accadde permesso di recupaesaggistico » all’inizio dell’Otperare parte deltocento quando lo la cospicua erestudioso di antichità locali Girolamo dità andata definitivamente perduta Orti Manara condusse una campa- nei primi anni del secolo successivo gna di scavi sul versante orientale del in seguito alla costruzione di alcuni monte. Le sue ipotesi, che associava- terrazzamenti agricoli. Con la camno l’antico toponimo all’esistenza di pagna di scavi avviata nel 2007 è stata un sito dedicato al culto di Minerva, ritrovata la struttura di età imperiale furono confermate dal ritrovamento sotto uno strato di terra alto circa tre di alcune iscrizioni sacre e di un tem- metri; tra il 2010 e il 2013 sono state pio di tradizione celtica del I-II seco- condotte altre due campagne di scavi lo riconosciuto come fanum, appella- che hanno contribuito a svolgere ultivo riportato anche su una epigrafe teriori indagini conoscitive finanziache documentava il restauro eseguito te dal comune, dalla Regione Venedai quattro funzionari dell’edificio, to e dal MIBACT riscoprendo alcuni fanorum curatores, attraverso le risor- ambienti annessi al tempio oltre ai re-
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sti di una prima costruzione dell’età Repubblicana e di un precedente rogo votivo legato all’età del Ferro. Nel 2015 è stata avviata la progettazione per l’Area Archeologica Tempio di Minerva, curata dallo studio Tetrarch Architetti con la collaborazione del funzionario archeologo della Soprintendenza di Verona, dott. ssa Brunella Bruno; un disegno articolato in cui architettura e progetto hanno affrontato coesi i temi di tutela, conservazione e valorizzazione del
01. Particolare della finitura con i listelli in larice sul perimetro della copertura dell’area archeologica. 02. Veduta del Monte Castelon con la chiesa di Santa Maria Valverde (in alto a sinistra) e un accenno della copertura (in alto a destra). 03. Planimetria di progetto con schema generale dell’area archeologica.
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Un tempio nella valle
PROGETTO 04. Pianta della copertura, alzati e schemi assonometrici della struttura di copertura delle antiche vestigia. 05. Dettaglio esecutivo per la collocazione dei listelli sui prospetti. 06. Scorcio del tempio sotto la copertura. 07. L’inserimento della struttura nel paesaggio.
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paesaggio adottando soluzioni tecnologiche e funzionali, a servizio della preesistenza, che assumono una vocazione museale e paesaggistica per un impiego turistico-culturale. Lo studio preliminare ha richiesto un progetto esecutivo, attuato tra il 2017 e il 2018, con interventi in primis di natura archeologica attraverso il proseguimento della campagna di scavi finalizzata a rintracciare porzioni del tempio ancora nascoste in un complesso lavoro di coordinazione tra le figure coinvolte. L’idea di trasformare l’area in un Parco Archeologico ha inglobato inevitabilmente anche aspetti geologici, come il consolidamento
e la messa in sicurezza della parete rocciosa, unitamente ad aspetti funzionali con la sistemazione del piano stradale e la dotazione di reti tecnologiche per la linea elettrica e idrica. Una prima tappa verso il completamento di un itinerario storico che, a partire dalla chiesa di Santa Maria Valverde, si estende fino all’area del tempio lungo un sentiero panoramico tra ampie superfici agresti e ordinati terrazzamenti coltivati. Il percorso, presto dotato di opportune recinzioni e di pavimentazione in terra-ghiaia stabilizzata, consente al visitatore di giungere nella terrazza artificiale sulla quale si innesta un
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Committente Comune di Marano di Valpolicella RUP: geom. Paola Perantoni progetto archeologico dott.ssa Brunella Bruno - Soprint. archeologia belle arti paesaggio Verona, Rovigo e Vicenza Progetto architettonico esecutivo e dir. lavori Tetrarch Architetti arch. Massimo Donisi, arch. Piero Manfrin consulenti Progettazione geotecnica: dott. geol. Davide Dal Degan, ing. Alberto Fusina imprese Lavelli Francesco (capogruppo ATI) direttore cantiere: arch. Bruno Maffezzoli Cronologia Progetto e realizzazione: 2015-2018 06
sistema quasi evanescente, che funge da intermediario tra le rovine e il paesaggio e preserva i resti del tempio evocandone la presenza. La struttura è composta da un’orditura metallica con una serie di pilastri ancorati al terreno attraverso una trave di fondazione in cls e, in parte, rinforzati da micropali. La copertura si presenta con una doppia falda in pannelli di lamiera, coibentata con schiuma poliuretanica e sostenuta da travi HE; nella parte centrale, un lucernario in policarbonato trasparente individua la posizione dell’antica cella votiva donandole maggiore risalto attraverso la luce naturale. Il lucernario avrebbe
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dovuto ricordare il volume originario della cella, emergente rispetto al porticato, attraverso un elemento decorativo di contorno con lamiera traforata in acciaio corten. L’altura ha restituito quei frammenti di storia rimasti nascosti per lungo tempo, ma la necessità di tutelare il patrimonio archeologico non ha escluso un rapporto equilibrato tra l’architettura e il contesto. L’altezza totale della costruzione lascia emergere la parete rocciosa retrostante, che diventa una perfetta scenografia dalle tonalità ocra-marrone per l’elemento più giocoso e naturale del progetto.
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PROGETTO
Un tempio nella valle
08. Un elemento strutturale durante la fase di cantiere. 09. Resti di una colonna dorica. 10. Lungo il percorso che giunge all’area archeologica.
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La finitura lignea perimetrale presenta infatti un aspetto disomogeneo dato dai listelli in larice, fissati su cornici metalliche modulari e disposti in modo irregolare sia sul piano orizzontale – con una sezione variabile tra 5x5 cm e 5x7 cm – sia sul piano verticale – con altezza tra 190 cm e 215 cm. L’effetto fluido e dinamico ottenuto si combina con una palette di colori in assoluta armonia con l’ambiente naturale (arancione, verde, marrone, ocra) integrando perfettamente il sistema nello spazio. La sequenza cromatica definisce l’approccio coerente ed efficace, consentendo alla struttura di completare l’inserimento paesaggistico e di aggiungere un valore intrinseco al luogo pur mantenendo una certa indipendenza espressiva dal punto di vista architettonico. Il sistema di listelli in legno è stato ripreso anche nel cancello d’in-
gresso, mentre i pannelli illustrativi sono stati realizzati con elementi filiformi in metallo corten sostenuti da un basamento in cemento armato; essi guidano il visitatore nella comprensione del grande patrimonio che, durante la prossima primavera, sarà scortato dalle folte chiome di Cercis Siliquastrum piantumati sul confine dell’area per rafforzare il carattere imponente del passato. Il tempio, nella sua posizione dominante sul fondovalle, probabilmente aveva un ruolo di identificazione per la comunità locale conferitogli, ancora oggi, dalla contemporaneità attraverso azioni consapevoli dell’immenso valore che questi reperti assumono in quanto beni archeologici ma, soprattutto, come parte di un contesto territoriale.
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TETRARCH ARCHITETTI Lo studio nasce nel 2013 dall’amicizia dei due soci fondatori, Massimo Donisi e Piero Manfrin. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano, i due percorsi formativi hanno toccato ambiti disciplinari diversi, permettendo ad ognuno di valorizzare le proprie attitudini professionali. La fondazione dello studio Tetrarch ha determinato la costituzione di un teamwork basato su processi di collaborazione flessibile, dove la condivisione delle specifiche conoscenze determina l’accrescimento umano e professionale della squadra. Lo studio è tra i progettisti del recupero di Borgo Bardolino pubblicato in «AV» 110, pp. 36-41. www.tetrarch.it
11. La musealizzazione in situ dell’area archeologica ha previsto anche l’installazione di pannelli illustrativi.
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PROGETTO
Di stazione in stazione Il recupero dell’ex stazione ferroviaria di Salionze ne ripensa il ruolo architettonico come Bike Inn dedicato ai cicloturisti lungo il fiume Mincio, nuova forma di mobilità sostenibile
Progetto: Circlelab
Testo: Francesco Varesano
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Valeggio sul Mincio
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Il 30 aprile del 1967 la “Freccia dei Laghi” compiva il suo ultimo viaggio attraverso il tratto ferroviario che collegava Mantova a Peschiera. Provando a immergerci in quel periodo, ci ritroviamo un paesaggio con al centro il fiume Mincio, alle rive del quale vivevano numerose famiglie che intorno al fiume avevano stabilito i loro rapporti. C’erano abitazioni, campi di gelsi per l’allevamento del baco da seta, mulini, guadi, in un paesaggio complesso adattato alle esigenze dello scorrere del tempo, diradandosi lentamente fino ad arrivare alle possenti mura della città di Peschiera. All’interno di questo paesaggio che ora possiamo definire “fiabesco”, si nascondeva il sinuoso percorso della ferrovia che metteva in comunicazione l’entroterra mantovano con la sponda veronese del Lago di Garda. La FMP – Ferrovia Mantova-Peschiera – aveva un ruolo da protagonista nella vita della comunità locale. In funzione dal 1934, essa non era solamente un efficiente via di collegamento, bensì un primordiale esperimento di mobilità sostenibile in grado di garantire il trasposto evitando l’uso delle automobili. Il sistema delle stazioni lungo la via ferrata rappresentava così la viva testimonianza di una integrazione tra storia locale, infrastruttura e contesto paesaggistico, mentre oggi dà conto della della miopia dell’aver cancellato questo sistema di trasporto. Il connubio tra storia e paesaggio sottolinea in modo evidente il valore testimoniale dell’edificio dell’ex stazione, arrivato ai nostri giorni in totale stato di abbandono e quasi cancellato alla vista dalla folta vegetazione che con il tempo se ne era appropriata. La svolta ha inizio nel 2018 con l’inserimento della stazione, insieme a altri edifici dislocati nel territorio, nel ban-
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01. Vista della stazione e della casa sull’albero all’interno del contesto paesaggistico della Valle del Mincio. 02. La storica Littorina, dalle forme eleganti che sfreccia nella Valle del Mincio. 03. Foto storica della stazione di Salionze durante la sosta della Littorina. 04. Foto aerea dello stato di abbandono dell’immobile prima dei lavori di recupero. 05. Concept plan generale con schema funzionale.
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do “Cammini e percorsi” legato alla ciclovia Eurovelo 7, promosso dall’Agenzia del Demanio, dedicato al recupero di itinerari storici, religiosi e ciclopedonali. Nonostante l’incuria, la stazione conservava ancora le caratteristiche architettoniche tipiche dei primi del Novecento, con architravi di porte e finestre ad arco ribassato in rilievo e cornici segnapiano decorative, caratteristiche di una tipologia utilizzata lungo tutta la tratta. I materiali utilizzati erano di provenienza locale: murature in mattoni pieni con pietrame,
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Di stazione in stazione
PROGETTO 06. Planimetria generale dell’area di intervento con schema distributivo delle unità residenziali. 07. La ciclabile che separa la stazione dall’ecomuseo.
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solai in latero-cemento incannicciati, vecchie rotaie. Fin dal masterplan coperture in legno con tegole in late- sono stati recuperati le geometrie e gli rizio, pavimenti in cemento e gron- allineamenti della strada ferrata, che da in tavelloni forati. La colorazione si trasforma nel percorso ciclabile a riesterna era beige e azzurra rifacendosi dosso di un verde di pertinenza pubagli stessi colori utilizzati storicamen- blico: come un museo a cielo aperto te per le carrozze automotrici chia- sulla la storia del territorio e della fermate “Littorine”, rovia stessa, nar« La sfida progettuale termine che, norata attraverso nostante la cadutotem illustrativi. di voler far rivivere ta del fascismo, Il nuovo percorso il ricordo dei luoghi definiva ancora ciclabile sembra culmina con la il mezzo di trafar rivivere i suorealizzazione della curiosa ni, i fischi e i rusporto. Il progetto di remori del vecchio casa sull’albero » cupero, realiztreno, “di staziozato dallo studio Circlelab capitana- ne in stazione e di porta in porta”, rito dall’architetto Federico Signorelli, prendendo così in maniera metaforica nasce con l’intenzione di far rivivere lo spostamento lineare dei “viaggiatol’edificio ma anche il suo immagina- ri viaggianti” attraverso le diverse carrio, usando elementi tipici del mon- rozze del treno. do ferroviario quali binari, recinzio- Ma oltre alla dimensione simbolica, ni, segnaletica e anche il sedime delle il progetto recupera il tema della mo-
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Committente Milo’ Hospitality s.r.l. Progetto CIRCLELAB - Architecture and Engineering Group team progettuale arch. Federico Signorelli, arch. Giada Signorelli, arch. Michael Corradi, arch. Michela Napolitano, arch. Sara Negrelli direzione lavori arch. Federico Signorelli 08
consulenti arch. Leila Signorelli imprese Guerra Costruzioni s.r.l., Giemme s.r.l., Bertaiola Impianti, Valbusa Tecnoelettrica, Vivai Lugo, VL Home Cronologia Bando Agenzia del Demanio: 2018 Progetto: 2018-2019 Realizzazione: 2019-2020
08. Foto aerea notturna dell’intero complesso. 09. Una delle tre unità residenziali esterne, rivestita di legno e con struttura tipo balloon-frame. L’ingresso è caratterizzato da un portico chiuso su tre lati, che genera uno spazio privato affacciato sul percorso ciclabile.
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PROGETTO
Di stazione in stazione
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10-11. Simulazione tridimensionale di una camera all’interno della struttura storica della stazione e veduta dello spazio multifunzionale sospeso grazie all’uso di una rete elastica.
12. Il sedime del piano caricatore della vecchia stazione trasformato nel sistema di accesso alla zona piscina. 13. Totem informativi distribuiti lungo il parco urbano. 13
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circlelab Fondato nel 2011 a Peschiera del Garda, Circlelab è un team di professionisti impegnato sul territorio del Lago di Garda con progetti architettonici, urbanistici e di recupero, e con una particolare attenzione per i temi legati alla mobilità lenta, al turismo esperienziale e alla sostenibilità. Recentemente lo studio si è classificato al terzo posto al concorso di idee per la riqualificazione dei Lungolaghi di Peschiera del Garda (cfr. «AV» 123, pp, 88-93). In passato Circlelab si è distinto per la riqualificazione della Piazza Ferdinando di Savoia («AV» 115, pp 48-55), di Villa MZ («AV» 107. pp. 44-51) e la scuola materna di Salionze a Valeggio sul Mincio («AV» 103, pp 32-37).
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bilità sostenibile destinandola il complesso a Bike Station, un servizio inedito che si integra con il progetto di valorizzazione dell’intera tratta, dando anima al turismo con un percorso ciclistico e una nuova ciclovia. L’edificio della stazione ospita infatti al suo interno un Bike Hostel, composto da sei camere autonome rivolte al cicloturista e distribuite sui due piani. Il suo aspetto storico è recuperato grazie ad un attento ripristino delle finiture, decorazioni e colorazioni originali. Una scatola metallica avvolge il fronte principale dell’edificio e funge da nuovo navigatore distributivo, fornendo gli elementi mancanti come la scala esterna, il ballatoio e la piccola sala colazioni. La struttura di acciaio mantiene una sua autonomia strutturale, avvicinandosi e toccando solo puntualmente il fabbricato storico della stazione.
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L’intento e la sfida progettuale di voler far rivivere il ricordo dei luoghi culmina con la realizzazione della curiosa casa sull’albero. Questo piccolo edificio in legno, che ospita un appartamento completo, trova spazio tra i rami di due grandi tigli a fianco della stazione, diventando così un osservatorio del paesaggio e del tracciato storico. La sua presenza evocativa reinterpreta in chiave metaforica la lanterna del casellante che vigilava e monitorava quotidianamente il passaggio della Littorina. L’edificio, che appare visivamente sospeso, avvolge uno dei due tigli attraverso un sistema di palificazioni che, puntualmente, si inseriscono nel terreno arrivando ad una profondità di 4 metri circa, riducendo la possibilità di danneggiare il vecchio albero. A livello del piano di campagna il plinto strutturale del sistema di palificazioni diventa una se-
www.circlelab.it
14. Un dettaglio della vita ferroviaria riutilizzato come arredo urbano. 15. Totem introduttivo del complesso che inquadra il fabbricato storico.
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PROGETTO
Di stazione in stazione
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duta, integrandosi così con le sistemazioni urbane realizzate lungo l’antica massicciata. Il binario tronco esistente, elemento che rendeva unica nel suo genere la stazione di Salionze, trova una sua reinterpretazione nei tre volumi delle unità abitative e in quello blocco piscina, disposti come vagoni in continuità lineare con la stazione. Gli edifici residenziali, rivestiti in legno e con una struttura tipo balloon frame, ospitano tre appartamenti da sei posti l’uno. Il volume della piscina si distacca visivamente da quelli abitiativi per il rivestimento in pietra della Lessinia, reinterpretando il piano caricatore della storica stazione. La presenza di questi nuovi edifici, oltre a completare la sostenibilità dell’intervento e ad ampliare la sua offerta turistica, ci porta a rivedere le caratteristiche storiche della vecchia stazione non più rilevabili, riconducendoli nella sua trasformazione presente a rievocare nuove sensazioni. L’intero progetto riporta così un flebile ricordo del territorio, fatto di quoti-
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dianità che passano inosservate e che meritano di essere citate, diventando un esempio concreto di un possibile approccio architettonico, adattabile alle diverse situazioni nel nostro territorio italiano.
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16. La casa sull’albero che si erge lungo la ciclabile. 17. Planimetria della casa sull’albero. Il tronco è contenuto in un vano su misura che divide due ambienti distinti. 18. La chioma del tiglio spunta dalla casa al di sopra della terrazza panoramica. 19. Interno della casa sull’albero.
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PROGETTO
Architettura a strati La riforma e l’ampliamento del padiglione di ingresso di un camping sul lago di Garda è declinata attraverso una tessitura lignea che fa dialogare preesistenze e nuovi elementi
Progetto: arch. Fabio Faoro - VBA Testo: Elisa Montagna Foto: Alessio Mitola
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Lazise
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01. La nuova pelle dell’edificio in listelli di legno. 02. Fotopiano con l’inquadramento del padiglione di ingresso all’interno dell’area del camping. 03-04. Appunti grafici del concept progettuale.
Immaginate di essere dei turisti pronti a iniziare la vostra vacanza sul lago di Garda: dopo un lungo viaggio, finalmente imboccate la stradina privata del campeggio in cui avete prenotato. Una grande quercia, lo stesso albero che dà il nome al camping, precede la nuova (ma solo in parte) reception, porta di ingresso e biglietto da visita del microcosmo urbano destinato al tempo libero. È un edificio di piccole dimensioni, integrato con armonia in un contesto che a fronte di una crescita tumultuosa dell’offerta ricettiva non può che puntare sulla riqualificazione dei servizi, senza fare tabula rasa di quanto già c’è, ma puntando a rinnovarne gli spazi e l’immagine. Ecco l’occasione di progetto per l’architetto Fabio Faoro e il suo team, che hanno recentemente affrontato l’ampliamento degli uffici e delle unità amministrative del camping La Quercia. Il concept che ha mosso il progetto parte da una interpretazione dell’esistente e da una valoriz-
« I due nuovi volumi aggiunti come gemmazione dell’esistente accrescono e completano lo sviluppo orizzontale dell’edificio » zazione dei suoi caratteri. All’edificio originale, che risale al 1963, nel corso dei decenni sono state aggiunte superfetazioni che ne hanno, in un certo senso, mascherato l’identità iniziale. Una lettura dei caratteri geometrici originari, del posizionamento degli accessi e dell’attenzione per le finiture ha preceduto l’opera di restyling e ampliamento. Una volta liberato dalle superfetazioni, l’edifico viene ricollocato nella contemporaneità grazie alla nuova contro-facciata in listelli di legno disposti verticalmente, il cui ritmo alternato – in parte pieno e in parte semi-pieno – fa perdere la durezza muraria del blocco centrale, dialogando in maniera organica con il contesto naturale del grande parco-campeggio. Ne deriva un’architettura come stratifi-
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cazione, come resa e trasformazione di un volume preesistente in un insieme di strati e livelli. A caratterizzare il linguaggio sono i listelli in cedro canadese, scelta che nasce dal dialogo intenso e necessario tra committenza e progettista. Resistente e poco soggetto a variazioni cromatiche nel tempo, il cedro è stato trattato con uno sbiancante per alleggerire il suo colore naturale. La nuova facciata listellare è scandita da impercettibili pannelli modulari di 120 cm, replicati lungo tutto il perimetro; in ogni modulo sono state utilizzate tre tipologie di profili, e sin dalla fase esecutiva, la variazione sul tema è stata effettuata alternandoli nella posa e ruotandoli talvolta di 90 gradi. L’utilizzo di questo dispositivo architettonico ha permesso di enfatizzare i tratti più armoniosi dell’edificio e di mascherare al contempo quanto doveva essere posto in secondo piano. Dal prospetto principale, quello che i turisti vedono appena scesi dall’auto, il prolungamento in altezza dei listelli oltre la linea di gronda dissimula la diversità delle coperture – a padiglione per la parte centrale, piane per le addizioni laterali – oltre che mascherare
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PROGETTO
Architettura a strati
05. Prospetti con evidenziati in rosso i nuovi volumi in addizione a quello preesistente. 06. Schema esplicativo dell’aggancio tra le diverse parti: i nuovi volumi laterali sono collegati al volume centrale tramite due cerniere. 07. Punti di contatto tra i volumi.
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gli impianti e i pannelli fotovoltaici. In corrispondenza dell’accesso, un diaframma permeabile accoglie e protegge i turisti prima di varcare la soglia d’ingresso; le lamelle utilizzate per la copertura di quest’ambito sono orientabili per garantire una protezione ottimale dall’irraggiamento raggi solari e la tenuta all’acqua in caso di pioggia. I due nuovi volumi aggiunti come gemmazione dell’esistente accrescono e completano lo sviluppo orizzontale dell’edificio. Al loro interno, da una parte troviamo la sala riunioni, due uffici e servizi, mentre dall’altra ancora uffici e la direzione. Attraverso le grandi vetrate perimetrali è sempre visibile il verde del parco che si insinua nel costruito, con tra i nuovi percorsi che si raccordano a quelli esistenti. I volumi in ampliamento sono ben riconoscibili quando ci si trova al di sotto del portale d’ingresso: le cerniere-portali di collegamento la le parti sono realizzate in lamiere piene per mantenere una netta distinguibilità. Una volta entrati all’interno dell’edificio, la semplicità dell’arredo fa sentire immediatamente in vacanza. Nel racconto del progetto, l’architetto descrive la vecchia hall-reception pesantemente controsoffittata, mentre ora il progetto degli interni ha mantenuto invece il solaio inclinato a vista. Dal soffitto, scendono dei cubotti in cartongesso disegnati ad hoc e ricoperti da tessuto fonoassorbente a righine colorate, soluzione che ritroviamo come rivestimento di alcune pareti interne per ridurre la diffusione del vociare dei turisti. I cubotti a soffit-
to, dalle dimensioni variabili, contengono sia il sistema di illuminazione che la distribuzione di riscaldamento e raffrescamento. Un lungo bancone sinuoso accogliendo i turisti: la sua forma da una parte divide i flussi della clientela in entrata e in uscita, dall’altra permette un lavoro agevole ai numerosi ragazzi che durante la stagione corrono nei vari uffici. L’alzato è realizzato in listelli di legno analogamente alla facciata esterna, mentre il piano d’appoggio è in fenix, un laminato anti-impronta e soft-touch. Il muro retrostante il bancone è decorato dalla parola “benvenuto” in molteplici traduzioni e nuance di colore, opera realizzata da un’artista del cartone tagliato a laser. Uscendo sul fronte opposto rispetto all’entrata, una scalinata del vecchio edificio ci riporta alla quota del parco, da dove però si scorge il lago. Su questo fronte, spicca la muratura dell’edificio anni ‘60, distinguibile dalle due nuove ali. Lungo la facciata troviamo ancora una pianta di rosa vecchia oltre quarant’anni, orgoglio della proprietà sopravvissuta al cantiere. Proseguendo la passeggiata intorno all’edificio, ci si ritrova sotto la grande vetrata vista lago della direzione, oltre la quale la parete a listelli supera il filo dell’edificio e diventa una quinta che accompagnare i pedoni all’ingresso del fabbricato. Il percorso di visita alla scoperta di quest’architettura si è in realtà svolto nell’inverno di una stagione a sua volta molto speciale: ma è in questo periodo, quando il turismo sul lago dorme, che all’interno di
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Committente Camping La Quercia progetto architettonico e direzione lavori Viabrenneroarchitettura studio arch. Fabio Faoro collaboratori arch. Davide Iembo, arch. Nicola Piacentini, arch. jr. Eugenio Filippi Sagace Studio - arch. Elisa Zerbini (design interni)
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imprese e fornitori Wolf System (impresa generale), Faoro Marmi (pavimentazioni interne), Europorfidi (pavimentazioni esterne), Pauletti (rivestimenti bagni), Arredoluce (illuminazione), Marastoni Tende (finiture esterne e pergola), Maestruzzi (arredi), Supino (arredi) 10
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Cronologia Progetto e realizzazione: novembre 2017-maggio 2020
08-09. Spaccato assonometrico dell’edificio. 10. Dettaglio del frangisole del portico d’ingresso con pareti permeabili in legno di cedro e struttura in acciaio. 11. Prospetto verso il lago: i diversi rivestimenti di facciata dialogano in una sinfonia cromatica e materica.
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PROGETTO 12-13. Sui diversi fronti, i serramenti sono privati in tutto o in parte del rivestimento a listelli. 14. Portale d’ingresso: sullo sfondo il bancone della reception.
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Architettura a strati 15. Hall interna: il bancone curvilineo riprende la configurazione a listelli della facciata. 16. Le linee verticali e orizzontali del portale d’ingresso.
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viabrenneroarchitettura Lo studio VBA nasce nel 2010 dalla collaborazione di un team con esperienze professionali in più ambiti. Dal 2013 è guidato dall’architetto Fabio Faoro, laureato allo IUAV di Venezia nel 1997. Negli anni lo studio si è occupato di progettazione negli ambiti residenziale, industriale, terziario e nel retail. Tra i lavori presentati su questa rivista, ricordiamo l’edificio industriale in «AV» 92, pp. 54-57, e la ristrutturazione di un edificio residenziale nel borgo di Santa Maria in Stelle in «AV» 114, pp. 76-79. www.viabrenneroarchitettura.it
queste strutture il lavoro prosegue implacabile, per garantire un’accoglienza di alto livello ad ogni stagione. Ecco ancora una volta il dialogo tra progettista e committente sulla finitura più o meno scura da dare al legno di un nuovo particolare da aggiungere prima della prossima apertura. C’è ancora molto da fare per dare una nuova veste a strutture come questa, e non servirà certo un cappotto, troppo pesante per un’architettura estiva, piuttosto bisognerà pensare a un outfit più leggero, uno spolverino o uno chemisier per le calde giornate di solleone. Con la cura nei dettagli, sartoriale, che questo esempio ci mostra. Un progetto regolato dalla legge del contrappasso: i contrasti sono ben congegnati e aiutano a creare una sintassi, a leggere lo spazio, dando una gerarchia chiara di forme ed elementi.
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STORIA & PROGETTO
una fervida professione
Una rassegna sulla vasta opera di Alberto Avesani, architetto veronese che ha contribuito a molte delle vicende architettoniche della città e della provincia
Testo: Piero Vantini
Verona e provincia
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Di poco più vecchio di Libero Cecchini – sicuramente l’architetto veronese più longevo professionalmente e anagraficamente –, Alberto Avesani (1912-2008) non è stato molto da meno, anche se la sua attività si è sviluppata, oltre che come architetto anche in campo imprenditoriale, lasciando numerosi segni del suo talento e della sua lungimiranza. Sebbene il suo nome sia poco conosciuto alle nuove generazioni, ha contribuito a molte delle vicende architettoniche della città e della provincia. Originario di una nobile famiglia veneta, si laurea al Politecnico di Milano prima in ingegneria e nel 1938 in architettura. Viene presto chiamato alle armi e vi rimane fino al 1942 quando, a seguito della morte del padre, può ricongiungersi alla famiglia e dedicarsi all’azienda agricola di proprietà. In un appunto autobiografico da noi ritrovato, Avesani così racconta: “In quei duri tempi con enormi difficoltà riuscii a mantenere la mia grande famiglia usufruendo delle risorse dell’Azienda. Finì la guerra e allora pensai alla professione con quell’entusiasmo proprio dei giovani e mi dedicai all’opera di ricostruzione dei fabbricati danneggiati dalle incursioni aeree, mi perfezionai nell’arte di costruire integrando le nozioni apprese nell’ambito della scuola. Le nuove tecniche che si affacciavano sull’orizzonte della moderna tecnologia e una copiosa biblioteca, mi permisero di affrontare sempre più i vasti problemi dedicandomi all’attività professionale senza trascurare la mia Azienda Agricola. Purtroppo i tempi per questo tipo di attività si facevano di anno in anno sempre più duri e i sacrifici economici che venivano affrontati non venivano più compensati”. Le frequenti calamità atmosferiche avrebbero messo in ginocchio l’azienda, ma con i proventi della professione di architetto riesce a far quadrare i bilanci.
01-02. Ricostruzione di Sala Boggian a Castelvecchio (19481950): veduta a fine cantiere e sezione costruttiva della volta (Archivio Museo di Castelvecchio). 03. Concorso per la ricostruzione del Teatro Filarmonico di Verona. Progetto Avesani, Cecchini, Avena, Casarini e Tisato (Archivio Cecchini). 04-05. Palazzine INACasa a Peschiera del Garda: veduta attuale e prospettiva del “tipo A”.
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Iscritto all’Albo degli Architetti con il numero 14, nel 1947 Avesani è componente del gruppo (assieme a Libero Cecchini, Antonio Avena, Pino Casarini e Guido Tisato) che partecipa al concorso per la ricostruzione del teatro Filarmonico di Verona, con un progetto che risponde al motto Cor unum et anima una. La commissione giudicatrice, pur non ammettendolo al secondo grado, riconosce “una non comune genialità nella novità della soluzione planimetrica e volumetrica della sala ma ha anche dovuto constatare 03
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STORIA & PROGETTO
06-07. Scuola media di Bussolengo (19591960): schizzo di progetto e immagine datata 2007. 08. Autogrill nella Z.A.I., Verona (1964). 06
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grave disorganicità nei rapporti tra le cinque categorie di posti del pubblico”. Nel campo della salvaguardia dei beni architettonici, dopo la fine della guerra Avesani è incaricato dal Soprintendente ai Monumenti Piero Gazzola della ricostruzione di sala Boggian a Castelvecchio, distrutta dai bombardamenti alleati nel 1945. Mettendo a frutto le sue conoscenze strutturali, Avesani disegna una copertura a volta ribassata in muratura con armatura metallica, decorata all’intradosso con una costolatura a losanghe. Destinata sempre a sala concerti, internamente la sala è affrescata dal pittore Pino Casarini con un ciclo decorativo dedicato alla musica. Ma il dopogerra è anche la stagione dell’edilizia abitativa, in particolare con i Piani INA-Casa che dal 1949 svolgeranno un importante ruolo urbanistico dando occasione ai giovani architetti di metttersi alla prova con la realizzazione di interi quartieri residenziali. A Verona sono numerosi gli interventi realizzati nell’ambito di questo programma; Avesani partecipa tra il 1949 e il 1955 al progetto per Porto San Pancrazio1, e nel 1956 è la volta di interventi nei comuni di Peschiera, Lazise e Garda2 .
L’attività di Avesani in quegli anni spazia in vari ambiti della professione: moltissime sono le opportunità di lavoro e pochi gli specialisti in campo. “Gli architetti – come lui spesso era solito ripetere – sono dei privilegiati, ma occorre molta passione per sobbarcarsi l’onere delle numerosissime commesse”. Nel fermento di quegli anni, Avesani è anche incaricato assieme all’ing. Rodolfo Gianni della progettazione della Strada Provinciale n. 5, detta anche “Verona-Lago”, che verrà inaugurata il 13 luglio 1957 a soli quattro anni dalla costituzione del consorzio tra i comuni interessati alla sua realizzazione. Altro importante intervento è la scuola media di Bussolengo, un “disco volante” progettato tra il 1959 e il 1960. La pianta circolare su pilotis è pensata per minimizzare l’occupazione al suolo. è un progetto molto discusso, in quanto ci si deve confrontare con “un edificio che nulla ha a che fare con quelli classici pur rispettando esso sia le norme igieniche che funzionali dettate dalle leggi della edilizia scolastica”. Le aule sono disposte verso l’esterno del disco, mentre il corridoio si apre su un cavedio interno. Dalla relazione progettuale si rileva che molte soluzioni studiate in questo caso sono adottate per la prima volta da Avesani, che svilupperà in
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09-11. Scuola media di Buttapietra (1970): pianta, studio per i prospetti e un’immagine risalente agli anni 2000.
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seguito altri progetti analoghi: “Viene utilizzata la struttura in c.a. a forcella per diminuire la luce dei solai e quindi ridurre l’elasticità degli stessi. L’accesso al piano superiore avviene con rampa anziché scale, per facilitare ai piccoli l’accesso e rendere meno pericolosa l’uscita. Il tipo di serramenti è a scorrimento verticale senza contrappesi con possibilità di regolare la ventilazione. L’oscuramento delle aule è indipendentemente dalla ventilazione. L’inclinazione del soffitto, oltre a permettere di contenere l’impianto di termoventilazione, dà alle aule una acustica pressoché perfetta”. Costruita in un’area diversa rispetto a quella per cui era stato pensato il progetto, la scuola è stata demolita all’inizio degli anni Duemila per lasciare spazio a un complesso residenziale. Ritorna la pianta rotonda nel 1964 per l’Autogrill costruito nella zona industriale di Verona, un bar sospeso al primo livello con ampie vetrate e serramenti di alluminio a tutta altezza, un luogo decisamente insolito
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che però attrae per i suoi elementi innovativi. Peccato che anche questo edificio sia stato demolito, perché ora sarebbe un interessante esempio di architettura commerciale di quegli anni. Alberto Avesani si cimenta in un nuovo filone progettuale con il cinema Metropol a
« Gli architetti – come lui spesso era solito ripetere – sono dei privilegiati, ma occorre molta passione per sobbarcarsi l’onere delle numerosissime commesse » Villafranca (1963) e il cinema Vox poi Capitol a Bussolengo, progettato nel 1955 e costruito nel 1968, entrambi per la famiglia Vezza. Non mancano i progetti di numerose ville private, nel veronese e non solo, come villa Nordera a Vicenza (1965) progettata in collaborazione con il grande amico ing. Cesare Benciolini.
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Nel campo del restauro, Avesani lavora a più riprese alla chiesa di Sant’Eufemia a Verona, dapprima all’adeguamento liturgico dell’altare (1966-69) e negli anno Ottanta al consolidamento strutturale dell’abside e di altre parti danneggiate a seguito del terremoto del Friuli. Lavora inoltre al restauro del chiostro di San Bernardino, al tetto e alla facciata di Santa Toscana a Verona; nel 1968 costruisce la cappella della Riconciliazione sul fianco del Santuario del Frassino a Peschiera del Garda, con un interessante copertura a doppie capriate in legno. Collabora intensamente con la famiglia Luciani, proprietaria della birra Pedavena, diventandone consulente fisso e realizzando edifici residenziali, ristoranti e birrerie in varie parti d’Italia. Avesani ripeteva spesso che in quel periodo l’attività progettuale era frenetica, e andare a Trieste almeno due-tre volte la settimana per fare sopralluoghi in cantiere era la normalità, nonostante le condizioni disagiate delle strade. Numerosi sono anche
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12. Cinema Metropol, Villafranca. Prospetto laterale interno e particolari (1965). 13. Cinema teatro Trevi, Villafranca. Prospetto del cinema all’aperto (1963). 14. Cappella della riconciliazione al Santuario del Frassino, Peschiera del Garda (1968): veduta interna. 15. Chiesa di Sant’Eufemia, Verona. Schizzo prospettico per la sistemazione dell’altare maggiore (1966). 12
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gli interventi nel settore sanitario tra il 1967 e il 1985, per gli ospedali di Caprino Veronese, Villafranca, Malcesine e Bussolengo. Nonostante la fervente attività professionale, la grande passione di Avesani sono i viaggi. Siamo ormai alla metà degli anni Sessanta, e Avesani scopre che in Europa c’è molto interesse per il mondo animale: a Londra, Berlino, Monaco, Parigi c’è molta gente che visita gli zoo. Questa scoperta lo porta a pensare concretamente all’idea di un parco naturale che possa ospitare la fauna esotica, iniziativa che si concretizza nel 1969 con la nascita del Parco Zoo di Pastrengo. I parchi visti nelle capitali europee sono in mezzo al verde e Avesani, che proprio nelle colline tra Pastrengo e Bussolengo possiede ampi terreni, pensa che lì sia lo spazio ideale per questo nuovo tipo di parco, in modo che le giovani generazioni possano essere a contatto con animali a loro spesso sconosciuti se non attraverso le fotografie nei libri. L’incontro con Angelo Lombardi, da tutti conosciuto per le sue apparizioni in tv come “l’amico degli animali”, fa il resto. Ancora oggi il Parco Natura Viva è una eccellenza anche di carattere scientifico, in quanto svolge un’intensa attività didattica e di riproduzione particolarmente importanti. All’interno di questa struttura, numerosi sono gli interventi progettuali dell’architetto. Ritorna nuovamente la forma circolare a lui cara
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nell’edificio del rettilario; altro interessante progetto è per la serra tropicale, recentemente demolita a causa del profondo degrado causato dalle condizioni climatiche al suo interno, con una struttura coperta di circa 700 mq formata da enormi arcate in lamellare e tamponamento in vetro. All’ingresso del Parco troviamo ancor oggi il fabbricato del ristorante La Quercia, in cui Avesani declina la sua tipica impronta circolare nel poligono della sala, che recentemente la famiglia Avesani ha deciso di ristrutturare. È del 1970 l’interessante Scuola media di Buttapietra, realizzata con un particolare metodo costruttivo brevettato dalla ditta Binischells di Milano, che prevede il gonfiaggio di una sorta di pallone in funzione di cassero, su cui viene posata l’armatura per il successivo getto in calcestruzzo. Porte e finestre sporgono dalla sagoma tonda del fabbricato, e vengono ricavate a fine lavori tagliando con dischi diamantati la calotta sferica. Oggi la scuola, pur restando di proprietà pubblica, ha perso la sua funzione didattica. Sempre agli inizi degli anni Settanta Avesani mette mano al restauro di Palazzo Carlotti, sede del municipio di Caprino Veronese, dove nel 1975 progetta anche la Pretura con un lavoro originale che viene però accantonato. In questo periodo viene costruito Palazzo Campion in corso Milano a Verona, tutt’oggi
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16. Palazzo Campion, Verona (metà anni Settanta). 17. Disegni di studio per Villa Nordera, Vicenza. 18. Ristorante San Matteo, Verona. Prospettiva della sistemazione interna (1980).
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riconoscibile con le sue particolari finestre esagonali. Nel 1980 è autore assieme all’ing. Mario Gottardi del ristorante ricavato all’interno della ex chiesa di San Matteo Concortine3. Per ultima, va ricordata una sua ulteriore intuizione che vede, sempre nel 1980 ,il restauro del castello di San Pelagio nel comune padovano di Due Carrare per destinarlo a Museo del Volo (dell’aria e dello spazio). Proprio questa struttura, infatti, aveva ospitato la base di partenza degli aerei che il 9 agosto 1918 sarebbero andati, capitanati da Gabriele D’Annunzio, nei cieli di Vienna dopo un volo di 1000 chilometri. Dalla metà degli anni Ottanta per una quindicina d’anni ho avuto il piacere di lavorare con l’architetto Alberto Avesani quando, spinto dalla curiosità di nuove esperienze, raccoglie intorno a sé nello studio di vicolo Ostie a Verona un piccolo gruppo di giovani tecnici, tutti già impegnati nella libera professione, per unirli in un team progettuale. La sua instancabile determinazione e la sua voglia
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di confrontarsi con le nuove generazioni di architetti alla ricerca di ulteriori esperienze sono state la molla di questa iniziativa, che ha portato alla realizzazione di alcuni progetti nel settore pubblico. Anche se è preso ormai da mille impegni ma soprattutto dal Parco Natura Viva, la sua creatura, è sempre presente agli incontri del gruppo. La sua giornata è sempre intensa e frenetica. Perennemente “a disagio con gli impegni programmati”, è spesso in ritardo agli appuntamenti, ma si fa sempre perdonare grazie alla sua grande disponibilità. Il suo entusiasmo e il suo pensare in avanti sono stati sicuramente fuori dal comune. Le sue opere sono quasi dimenticate – la documentazione al riguardo è del resto assai lacunosa – e passate in secondo piano, perché ormai la notorietà come artefice del Parco Natura Viva ha preso il sopravvento, ma se si fosse dedicato all’architettura in maniera più continuativa proprio nell’età della maturità professionale, avrebbe avuto risultati ancor più pregevoli.
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1 In collaborazione con i colleghi Marcello Guarienti, Carlo Vanzetti, Libero Cecchini, Giuseppe Poso, Albino Agosti, Carlo Mutinelli e Gino Fainelli. Cfr. «AV» 111, p. 98.
2 Con gli architetti Fagiuoli, Martini e Vanzetti e l’ing. Scarlini. 3 Cfr. Mario Gottardi da Milano a Verona, in «AV» 119, p. 82-89.
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INTERIORS
Spazio e materia per una casa “mini”
La volumetria inaspettata di un piccolo appartamento diventa l’espediente per riorganizzare le spazialità esistenti e accogliere una nuova casa dalla veste minimale Progetto: Assonometria Studio + Antonio Munarin Testo: Davide Graniti Foto: Marco Toté
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La prima cosa che colpisce quando ci si confronta con Christian Tezza, giovane architetto (classe 1989) fondatore dello studio Assonometria, è la forte passione per il suo mestiere e la dedizione che pone nel trasmettere la sua idea di architettura. Non a caso porta avanti un blog all’interno del suo sito nel quale condivide consigli e indirizzi relativi al mondo dell’abitare, nati a partire dalle esperienze
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progettuali dello studio. Insieme alui si affianca in questa occasione Antonio Munarin, amico ed ex compagno di corso, la cui carriera nasce inizialmente come assistente tecnico di cantiere. Appassionatosi al mondo dell’architettura, decide quindi di iscriversi al Politecnico di Milano, dove si laurea con una tesi di paesaggio. All’esperienza pluriennale associa il sapere per l’artigianalità e la passione per il dettaglio, nati sin da giovane grazie all’esperienza del padre falegname. L’entusiasmo dei due professionisti si unisce per dare vita a una nuova abitazione denominata “Minicasa Z”. L’intervento progettuale consiste nella ristrutturazione di un piccolo quadrilocale inserito all’interno di un complesso abitativo a corte risalente al 1500, sito in un borgo ai limiti della città. I progettisti si sono posti come obiettivo quello di ricomporre lo spazio storico poco caratterizzato, dandogli vitalità attraverso l’introduzione di una nuova veste minimale e la riorganizzazione degli ambienti interni. Questo obiettivo è stato messo in pratica grazie alla pianta aperta e attraverso l’uso di un piano soppalcato, con un interessante gioco di volumetrie e compenetrazione di spazi funzionali. La scelta distributiva, nata dalla necessità di sfruttare al massimo i
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progetto architettonico arch. Christian Tezza Assonometria studio arch. Antonio Munarin (direzione lavori) imprese e fornitori Impresa Edile Cavallini (opere edili), Cugilli Stefano (impianti idro termo sanitari), S.A.T. di Cavallini (impianti elettrici), Roberto Sordina (tinteggiature), Zanini Porte (porte), Artecasa (pavimenti), Venturato Giancarlo & C (camino), Ivan Vettore (carpenteria metallica), Corso Arredi (falegnameria) Cronologia Progetto e realizzazione: 2019-2020
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pochi metri quadri dell’immobile, si è sviluppata anche grazie alla lettura della preesistenza e dalle occasioni che questa ha concesso ai progettisti; dopo essere stato svuotato, infatti, l’edificio esistente ha portato alla luce, al di là di un vecchio controsoffitto in cannicciato, una volumetria inaspettata, grande abbastanza da poter permettere lo sviluppo su due livelli dell’abitazione. Entrando nell’appartamento emerge una chiara ed esplicita lettura dello spazio, grazie alla scelta di addossare il soppalco sul lato opposto rispetto a quello di ingresso. Nel soggiorno a doppia altezza spicca il camino metallico sospeso, mentre al di sotto del soppalco troviamo l’ambiente cucina-pranzo e il volume contenente il bagno principale; al livello superiore si posiziona infine la zona notte con la cabina armadio
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e un piccolo bagno nascosto dietro la testata del letto. I diversi ambienti non sono divisi con partizioni murarie, eccezione fatta per i servizi; questa scelta consente una continuità visiva all’interno della casa, godendo delle diverse prospettive e punti di vista. La continuità spaziale favorisce il diffondersi della luce che, grazie ai toni chiari delle finiture e all’essenzialità dei materiali utilizzati riverbera in maniera omogenea nello spazio. Una pelle bianca ricopre pareti e soffitti, interrompendosi solo su alcune porzioni di muratura in sasso a vista e sulle travi lignee, con un interessante gioco di contrasti che serve a enfatizzare il legame tra edificio esistente e nuovo intervento. Il legno di rovere dei pavimenti, di parte degli arredi e dei rivestimenti
01. L’ambiente cucinapranzo ricavato al di sotto del soppalco. 02. Veduta dall’ingresso: a sinistra la scala, poi il volume del bagno, la zona pranzo e, sopra il soppalco, la zona notte. 03. Piante dei due livelli dell’abitazione. 04. Assonometria d’insieme. 05. Una veduta sul soggiorno con la parete in sasso a vista e il camino metallico sospeso.
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06-07. Nella zona notte, la porta del bagno è integrata nella boiserie a testata del letto. 08. L’interno del bagno principale al piano inferiore.
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a parete raggiunge la sua massima espressione nel piano soppalcato dove, usato come boiserie in listelli verticali, introduce una nuova texture sulla partizione muraria che definisce la gerarchia dei diversi elementi della zona notte e nasconde, integrandole, le porte del piccolo bagno e delle armadiature. Nella palette dei materiali troviamo infine l’acciaio dipinto di bianco per la scala, i parapetti e la struttura portante del soppalco. La spazialità della piccola abitazione viene arricchita da numerose soluzioni di dettaglio e arredo su misura. L’illuminazione artificiale ad esempio, è integrata nelle partizioni per ottenere una luce indiretta e omogenea. Gli arredi fissi, sia quelli della cucina che della zona notte, sfruttano al massimo i ridotti spazi: sul soppalco le armadiature
diventano un’estensione propria della pianta, volumi che definiscono l’ambiente e scompaiono dietro intelligenti giochi di finiture e matericità. Ultimo esempio è quello della scala che, scomposta in due rampe separate, la prima in legno e la seconda in metallo, funge nel primo tratto da comodo contenitorearmadio ad uso del soggiorno. Tutti questi elementi sono il frutto di una pratica progettuale portata avanti a stretto contatto con gli artigiani con la quale si instaura durante il processo realizzativo un dialogo basato sulla condivisione dei rispettivi saperi. Il risultato è un progetto cucito su misura attorno ai futuri inquilini, rimarcando un’idea di casa che non solo deve accoglie lo stile di vita di chi la andrà ad abitare, ma anche riuscire a innescare nuove abitudini positive.
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Abitare su misura
La riorganizzazione di un’abitazione degli anni Venti ne ridisegna spazi e finiture integrando gli arredi su misura nel progetto architettonico Progetto: DOOTstudio
Testo: Filippo Ganassini Foto: Davide Galli
“L’obiettivo principale del nostro studio è quello di progettare abitazioni su misura, potremmo dire sartoriali, cucite sulle richieste dei committenti affinché possano vivere in spazi di qualità”. Con queste parole si presentano i soci fondatori di Doot studio, Francesco Rinaldi, Jacopo Rossignoli e Antonio Signori, tre giovani architetti uniti dalla passione per la progettazione. I loro lavori si concretizzano attraverso la sintesi delle esperienze e competenze acquisite finora, che spaziano dal design di interni al design del prodotto, dalla visualizzazione architettonica al branding. Quando la commessa riguarda un progetto architettonico, l’intento è di far convergere il mondo digitale e quello artigianale, utilizzando differenti strumenti al fine di fronteggiare le richieste. Per generazione, l’utilizzo della progettazione tridimensionale e del rendering assume un ruolo fondamentale, in quanto sin dalle prime fasi progettuali si ha un controllo accurato della luce – naturale e artificiale – e una verifica immediata di come i materiali si rapportano con essa. Un altro punto fermo è l’integrazione dell’arredo su misura, descritto come “sintassi che aiuta a vivere lo spazio, ci dà la sua misura e ce lo fa vivere”.
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Nell’esperienza progettuale di casa FG, i committenti si trovavano in possesso di un vecchio appartamento collocato in una palazzina Liberty degli anni Venti, che aveva subito negli anni Settanta alcune modifiche alle finiture, pur mantenendo invariato l’assetto distributivo originale: un grande corridoio centrale da cui si dirama una sequenza di stanze indipendenti. Il progetto vuole restituire spazi
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01. Lo spazio continuo tra pranzo e soggiorno con l’ambiente cucina sulla sinistra, delimitato dall’isola rivestita in lamiera di ottone. 02. L’ingresso con l’elemento di arredo che nel suo spessore integra sia la caldaia che il frigorifero della cucina.
« Il design di ciascun elemento prevede forme semplici e lineari con tagli precisi e misurati » misurati, dove la ridistribuzione degli ambienti e la progettazione degli arredi su misura conferisce all’appartamento un senso di freschezza che rispecchia i desideri dei proprietari e il loro stile di vita. La nuova distribuzione distingue nettamente tra zona giorno e zona notte. Fondendo tre stanze contigue, la zona giorno risulta un open space la cui percezione cambia a seconda del punto di vista: dalla cucina lo spazio risulta omogeneo e continuo, mentre dal soggiorno la cucina risulta un elemento a sé stante, grazie
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03-04. Nell’open space della zona giorno, la cucina risulta uno spazio a sé stante grazie al colore di fondo a contrasto.
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al colore a contrasto e degli elementi che la compongono. Nel corridoio d’ingresso, ridimensionato rispetto allo stato di fatto, un elemento di arredo integra nel suo spessore sia la caldaia che il frigorifero della cucina, di fronte a un piccolo bagno di servizio. La zona notte è ridisegnata misurando gli spazi accessori secondo le necessità del cliente: nella camera da letto matrimoniale trova posto una cabina armadio; al posto dello studio è ricavato il bagno principale, infine la seconda camera per mezzo del letto centrale, definisce un ambiente flessibile per diverse esigenze. Nella ricerca e nella scelta dei materiali, un ruolo di primo piano è giocato dalla pavimentazione in cemento industriale trattato, nobilitata da giunti di dilatazione in
ottone, estesa in maniera omogenea a tutti gli ambienti come un fondale psu cui definire la palette di colori e materiali; con il pavimento, collaborano a completare la base neutra le pareti, con una finitura basata su intonaco bianco grezzo. Gli arredi in legno di betulla sbiancato spiccano su questo fondale, dando corpo a un’atmosfera calda e rilassata. Il design di ciascun elemento prevede forme semplici e lineari, con tagli precisi e misurati. L’attenzione verso la comodità di utilizzo ha portato a ricercare, nel dialogo con gli artigiani, le forme più elementari ed ergonomiche. La boiserie è della medesima essenza lignea ed accompagna i mobili nel dialogo con lo spazio. Un paragrafo a sé stante va riservato alla cucina. Il colore scelto è il nero di un rivestimento con una vernice
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05. Pianta dell’alloggio. 06. Nella camera da letto matrimoniale gli arredi in legno di betulla disegnano gli spazi della quotidianità domestica.
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07. Dettaglio della pavimentazione in cemento industriale con giunto in ottone. 08. Il bagno di servizio e, in secondo piano, il bagno principale.
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effetto lavagna, e cambia anche l’essenza del legno (rovere massello), accostato all’ottone e al multistrato laminato. Il nero si ripropone puntualmente nella zona pranzo, nelle putrelle in ferro a vista inserite come rinforzo strutturale, dov’erano le partizioni verticali rimosse, e nella struttura metallica del mobile. In alcuni punti dell’appartamento si trovano infine elementi puntuali di colore – il grande termoarredo giallo in ingresso, la vernice verde in bagno – che spiccano totalmente dall’atmosfera generale.
progetto architettonico e direzione lavori DOOTstudio archh. Francesco Rinaldi, Jacopo Rossignoli, Antonio Signori collaboratori arch. Emanuele Bugli (pratiche amministrative) Matec (progettazione strutturale e impiantistica) imprese e fornitori Vendramin (impresa edile), Frama (falegnameria), Sibitalia (pavimetazione), Giuliani Serramenti (serramenti)
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DOSSIER
La partita del “piano Folin” Da quando è stato presentato pubblicamente poco più di due anni fa, a gennaio 2019, si continua a discutere a Verona del cosiddetto piano Folin, intitolato per la precisione Studio sulla valorizzazione economica e sociale di alcuni immobili situati nel centro storico di Verona. Si tratta di un documento promosso da Fondazione Cariverona per formulare ipotesi sul consistente patrimonio immobiliare di cui dispone (direttamente o indirettamente), sia a seguito del trasferimento degli uffici di UniCredit ai Magazzini Generali – con il conseguente svuotamento degli immobili storici della banca nel cuore della città antica -, sia per le acquisizioni negli anni passati dei grandi contenitori monumentali, dal Comune di Verona. Nel lasso di tempo dalla presentazione in poi, alcune pedine sulla complessa scacchiera del piano sono in movimento. È agli atti il progetto per la riconversione del grande isolato di via Garibaldi 1, mentre sull’altro versante, quello museale, la strategia si confronta con una complessità gestionale ancora da mettere a punto. Abbiamo ripercorso i tratti salienti del piano in una conversazione con Marino Folin, cui fa seguito un approfondimento sull’ipotesi del Museo della Città e una scheda sul progetto per l’isolato di via Garibaldi. Le considerazioni finali suggeriscono la questione di una nuova attualità per i centri storici da porre all’interno di un necessario progetto di città.
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Quale futuro per il centro Gli obiettivi e la strategia del disegno messo a punto per la valorizzazione di alcuni degli immobili più rilevanti del centro antico di Verona
Un museo-laboratorio per Verona
Un approfondito studio museologico ha definito le ipotesi formulate dal piano Folin sulla duplice natura del Museo della Città-Urban Center
Hotel Garibaldi
Il progetto per l’isolato di via Garibaldi 1 giunge alla fase autorizzativa con l’inserimento di una struttura alberghiera di alta gamma
Una nuova attualità per il centro storico
A proposito di alberghi e cambi d’uso, di musei nuovi ed esistenti e di un necessario sguardo d’insieme oltre il centro
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DOSSIER
Quale futuro per il centro Gli obiettivi e la strategia del disegno messo a punto per la valorizzazione di alcuni degli immobili più rilevanti del centro antico di Verona Testo: Marino Folin *
Il punto di partenza dello Studio è il fatto, abbastanza inusuale in Italia, che un soggetto istituzionale – in questo caso la Fondazione Cariverona assieme al Fondo Verona Property – possieda alcuni degli immobili più rilevanti dal punto di vista storico, della qualità architettonica, per dimensione e per collocazione all’interno di un centro antico. Nel caso di Verona, la cosa è ancora più accentuata dal fatto che questi immobili – le ex sedi di Banca Unicredit in via Garibaldi 1 e via Garibaldi 2, Palazzo Franco-Cattarinetti in via Rosa, Palazzo Forti, in via Forti, il Monte di Pietà in Piazzetta Monte, Palazzo del Capitanio e Castel San Pietro – si trovano quasi tutti all’interno dell’ansa della città romana. Una tale singolarità e caratterizzazione, assieme al fatto che questi immobili sono in gran parte sottoutilizzati o dismessi, è la ragione che ha fatto ritenere necessario un piano d’insieme, in alternativa alla pura e semplice ricerca di una funzione per ciascuno di essi. Così facendo, si definisce un disegno complessivo per il futuro del centro storico di Verona, e di conseguenza per l’intera città. È necessario interrogarsi su cosa sia oggi il centro storico di Verona, che ha visto diminuire negli ultimi anni la popolazione residente - dentro l’ansa del fiume vivono 5000 persone, dentro le mura veneziane 25.000 – e le attività in esso insediate, sia terziarie che manifatturiere. Rimangono i negozi perché fortunatamente il centro ha ancora una sua attrattività, ma con quale prospettiva? Contemporaneamente, un turismo di massa e di
passaggio,ha contribuito con le attività indotte a degradare il tessuto economico e sociale esistente. È un turismo disattento ai valori della città e attento solo ai miti: Verona ha una notevole ricchezza in fatto di musei, sui quali negli anni è stato fatto un eccellente lavoro di organizzazione interna e di sistemazione, ma salvo l’Arena e la Casa di Giulietta il numero dei visitatori è modesto: chi va a vedere, ad esempio, quel gioiello del Lapidario Maffeiano? Posta questa situazione, l’idea è che la presenza di questi immobili di grande valore e personalità possa essere l’occasione per ripensare il centro e riconnetterlo al suo territorio. All’interno dello Studio, nel pensare alle possibili destinazioni per questi immobili, un primo assunto è che dove sono già presenti degli alloggi – nel complesso di Palazzo Forti, nel Monte di Pietà e in via Garibaldi 2 – questi vengano conservati, per non diminuire il numero di residenti nel centro storico. Per gli altri spazi, le caratteristiche degli immobili sono tali per cui sarebbero molto difficilmente riconducibili ad usi abitativi, e sono orientati a favorire l’insediamento di nuove attività di produzione e ricerca nel centro storico, ad ampliare l’offerta di servizi culturali e ricreativi per la popolazione veronese, e a riqualificare la presenza turistica, potenziando e valorizzando al tempo stesso l’offerta ricettiva. L’insieme di questi obiettivi si rende evidente nella prima delle grandi polarità attorno alle quali è costruito lo Studio, il City Hub, comprendente le ex sedi UniCredit di via Garibaldi 1 e 2 e palazzo 01
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Franco-Cattarinetti. Il City Hub ospita al suo interno un centro congressi connesso a una struttura di tipo alberghiero e relativi servizi, un tipo di struttura che manca a Verona, nonostante la presenza di una Fiera di primaria importanza in Italia e in Europa, Nel cuore dell’isolato di via Garibaldi 1 può trovare collocazione una moderna sala congressi di grande dimensione, attrezzata e circondata da una serie di sale minori tra cui quella già esistente nell’interrato di via Garibaldi 2. Ai piani superiori del quadrilatero può trovare collocazione una moderna struttura ricettiva con un numero di camere non rilevantissimo (circa 140) e alcuni servizi aperti alla città, come un centro benessere, che vanno nel senso di qualificare l’offerta alberghiera complessiva del centro storico. Un centro eno-gastronomico, luogo di esposizione permanente della produzione vinicola del nostro Paese, è pensato negli spazi dell’ex sportello Unicredit in via Garibaldi 2, un volume ellittico a doppia altezza con decori modernisti e una straordinaria cascata di vetri di Murano dal lampadario centrale.
« Lo Studio propone una strategia che sia capace di arricchire il centro cittadino e di connetterlo alle altre funzioni e aree della città » L’altra grande polarità che lo Studio individua è quella tra Castel San Pietro e Palazzo del Capitanio, da intendere come le due sedi tra loro collegate di un Museo della Città, che abbiamo preferito chiamare Lab-Urbs (Laboratorio Urbano). Manca oggi a Verona un’istituzione del genere, un luogo in cui si narri in modo ordinato e coerente la storia della città, e la si leghi alle scelte dell’oggi e del futuro. Guardando all’esempio di esperienze internazionali di questo tipo, alle testimonianze della storia urbana straordinariamente ricca di Verona si affianca ciò che viene chiamato urban center, cioè un luogo di presentazione, discussione ed elaborazione delle scelte urbanistiche della città. I due palazzi potranno anche diventare i motori di una serie di percorsi
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Committente Fondazione Cariverona Fondo di Investimento Immobiliare Verona Property studio sulla valorizzazione economica e sociale di alcuni immobili situati nel centro storico di verona autori Marino Folin (coordinatore) Ezio Micelli Mario Spinelli collaboratori Ludovico Centis (grafica) Giorgio de Vecchi (fotografie) Cronologia Incarico: 24 maggio 2017 Presentazione: 12 dicembre 2019
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urbani attraverso i quali leggere la città nelle sue stratificazioni. Il tema di questo grande polo museale non va pensato in contrapposizione ai musei civici, con i quali anzi si dovrà lavorare per rafforzare l’offerta culturale e turistica della città. In quest’ottica si potrà pensare a una connessione anche fisica tra Palazzo del Capitanio e Palazzo della Ragione. Un discorso analogo può essere fatto per Palazzo Forti, sede fino a pochi anni fa della Galleria d’Arte Moderna. Nel quadro di un riordino complessivo delle attuali sedi museali della città conseguente alla realizzazione del Lab-Urbs, si può ipotizzare un ritorno della collezione d’arte moderna negli spazi per cui era stata pensata. In alternativa, oltre che per mostre temporanee e/o permanenti, Palazzo Forti
01. Gli immobili oggetto dello Studio evidenziati nella mappa del centro di Verona. 02. All’angolo tra via Emilei e via Sant’Egidio, una veduta dell’antico Palazzo Spolverini, parte del compendio della Cassa di Risparmio, con i suoi riconoscibili elementi goticoveneziani.
* Il testo è frutto di una conversazione tra Marino Folin e Giacomo Marino (Fondazione Cariverona) con Alberto Vignolo e Marzia Guastella per «AV» presso la sede di Fondazione Cariverona il 2 febbraio 2021.
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03. City Hub, proposta di progetto, piano terra. Nel cuore del grande quadrilatero una moderna sala congressi di grande dimensione, circondata da una serie di sale minori. 04. Il Monte di Pietà visto da Piazzetta Monte. 05-06. Nel complesso di via Garibaldi 1, saloni di rappresentanza risalenti all’uso bancario. 07. In via Garibaldi 2, lo spazio a doppia altezza realizzato per la banca negli anni Settanta dall’architetto Otto Tognetti. 08. Il centro storico e il territorio circostante. L’insieme delle destinazioni proposte dallo Studio: flussi e relazioni con il contesto.
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potrebbe essere anche sede di istituzioni o agenzie di carattere nazionale o internazionale, di istituzioni formative e di ricerca anche di carattere universitario, italiane o straniere. Infine per il Monte di Pietà, che ospitava una banca trasferita ai Magazzini Generali, l’ipotesi è di adibire gli spazi ad ufficio per piccoli studi, laboratori di ricerca, digital lab, anche con forme gestionali di co-working, come potenziale luogo di sperimentazione di nuove attività artigianali o produttive. Entro questo quadro generale, lo Studio contiene anche un cenno su un potenziale collegamento con i Magazzini Generali, altra grande polarità costruita attorno ai beni di proprietà della Fondazione Cariverona (oggi gestiti dal Patrizia Real Estate Investment Management). All’interno della Rotonda, assieme a Eataly che ne occuperà solo una parte, potrebbe trovare posto un grande museo d’arte contemporanea, anche in relazione con le manifestazioni fieristiche. Le valutazioni relative alla fattibilità dei progetti che lo Studio propone si inseriscono in una prospettiva di qualificazione del settore del turismo per Verona.
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Si è voluto senz’altro ribadire la centralità dei benefici non solo finanziari, ma anche economici per l’intera città, di una strategia che sia capace di arricchire il centro cittadino e di connetterlo alle altre funzioni e aree della città. Ed è in questa prospettiva che i progetti, unitariamente intesi, operano in una strategia di connessione e riqualificazione della città, il vero aspetto qualificante della strategia proposta in questa sede.
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marino folin Nato a Venezia nel 1944, è stato Professore ordinario di Analisi dei sistemi Urbani/Urbanistica presso l’Università Iuav (19842008), ateneo del quale è stato anche Rettore dal 1991 al 2006. è Presidente del Comitato Scientifico del Centro d’Arte Contemporanea di Punta della Dogana e Presidente della Fondazione EMGdotART – Venezia. Numerosi sono i progetti e gli studi in materia urbanistica sviluppati nelle aree di Verona e Venezia con la redazione di Piani Regolatori e di ristrutturazione urbana. Ha tenuto presso diverse Università della Cina conferenze e lezioni e partecipato a Mostre internazionali di architettura. Dal 2017 è Consigliere Generale di Fondazione Cariverona.
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Un museo-laboratorio per Verona Un approfondito studio museologico ha definito le ipotesi formulate dal piano Folin sulla duplice natura del Museo della Città-Urban Center
Testo: Marzia Guastella
Con l’acronimo LAB-Urbs, lo studio elaborato da Marino Folin definisce un grande laboratorio urbano in cui convergono due realtà: un museo della città, luogo di conoscenza della storia, e un urban center, luogo di condivisione e contenitore di idee sul futuro della comunità. Si tratta di una proposta piuttosto articolata, per la quale il 28 dicembre 2018 Fondazione Cariverona ha istituito una commissione di studio, coordinata dallo stesso Folin e composta da Donatella Calabi, Philippe Daverio, Fabrizio Magani, Francesca Rossi e Gianmaria Varanini. Gli esempi di musei della città presi in esame sulla scena nazionale e internazionale si distinguono per l’approccio allestitivo, che rimanda ad un periodo storico o a particolari materiali appartenenti a un territorio; le principali strategie si riassumono in una esposizione organizzata in più sedi legate da un approccio cronologico o tematico, che offre ai visitatori la possibilità di vivere i luoghi reali della storia riappropriandosi della città. Musei che non si limitano all’allestimento di itinerari culturali statici, ma diventano poli attrattivi in continuo aggiornamento tra mostre temporanee, eventi e laboratori di ricerca. Gli urban center più strutturati forniscono invece un servizio a supporto dei cittadini, che individua nell’agenzia urbana un’istituzione capace di svolgere, in modo autonomo, specifiche funzioni focalizzate sul rapporto tra la città e i suoi abitanti. A fronte di tali valutazioni, lo studio traccia tra le due sedi di Castel San Pietro e Palazzo del Capitanio
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un unico itinerario, che attraverso il passato abbraccia il presente per rivolgersi al futuro con un atteggiamento cosciente e propositivo: una grande maglia che si aggiunge alla consolidata rete culturale del centro storico. Il percorso ha inizio dalla cima del colle di San Pietro con le origini della civiltà urbana: dall’epoca romana alle trasformazioni tardo-antiche e medievali sino all’XI secolo. Nella caserma absburgica è narrata la storia economica e sociale, con particolare interesse verso il ruolo commerciale di Verona, i materiali del territorio – pietre e marmi – e gli aspetti della vita quotidiana fra tradizioni gastronomiche e buon vino. A questo periodo fiorente fanno seguito i conflitti tra romani e longobardi, resi attraverso la ricostruzione in scala reale dei relativi ambienti abitativi. Le importanti strategie politiche continuarono a rafforzare il prestigio della città mentre si manifestano i primi segni della cultura cristiana, attestata da manoscritti e disegni medievali che, insieme al sedime della romanica chiesa di San Pietro in Castello, costituiscono la memoria di quel periodo. Il colle conserva ancora i connotati del primo centro abitato; pertanto, anche gli esterni e le terrazze risultano determinanti per arricchire la narrazione, con un osservatorio panoramico supportato dalla tecnologia di visori AR. Un intermezzo visivo che illustra la storia cittadina e si approfondisce tra vie, case, piazze e monumenti lungo un percorso esteso ai sottostanti musei archeologici del Teatro Romano e di San Tommaso, nell’ottica di realizzare un vero Parco Archeologico connesso ad ulteriori punti di
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interesse tra cui gli scavi del Capitolium, l’Arena, l’arco dei Gavi e le porte monumentali. Il racconto prosegue cronologicamente quando il visitatore giunge a Palazzo del Capitanio, dove il progetto ambienta gli avvenimenti registrati a partire dal XII secolo. Il tema economico avvia il nuovo percorso espositivo ricordando la vocazione commerciale della città, lo sviluppo della manifattura e la grande cultura agraria che si manifestavano nelle piazze e nelle fiere. In questo scenario si configura la città di pietra con imponenti fortificazioni, edifici del potere e luoghi dell’abitare; una città degli uomini contrassegnata da tre fondamentali periodi – l’età comunale e Scaligera, l’età Viscontea e l’età Veneziana – in cui si assiste allo sviluppo di un centro cristiano e al notevole progresso delle arti. Si giunge così alla fase ottocentesca segnata dalla dominazione absburgica, tra momenti di crisi e una significativa crescita del settore agrario fino all’inondazione del 1882, evento che modifica definitivamente il rapporto tra la città e il fiume. Anche le vicende affrontate a Palazzo del Capitanio trovano riscontro in diversi rimandi esterni, che consentono di ampliare l’esperienza di visita: le mura e le porte sanmicheliane, i palazzi rinascimentali, gli interventi veneziani, le rive dell’Adige e i villini del primo Novecento. Per entrambe le sedi, lo studio alterna narrazioni di personaggi illustri a importanti materiali espositivi, con sezioni destinate anche ai più giovani. L’uso di riproduzioni in scala renderà uniforme l’approccio comunicativo; così, ad esempio, il modello della città romana a Castel San Pietro si confronterà al Capitanio con i modelli dell’intero comune di Verona (1:1.000) e della città di oggi entro le mura magistrali (1:500). E poi ancora quadri, stampe e sculture renderanno fruibili materiali conservati nei depositi dei musei cittadini; mentre arredi, oggetti di uso quotidiano ed elaborazioni cartografiche e multimediali completeranno l’allestimento usufruendo, ove possibile, di tecnologie digitali. Il complesso programma del Lab-Urbs trova il suo epilogo nell’urban center presso la sede del Capitanio. Esso si occuperà di ricercare e raccogliere dati a supporto dell’amministrazione
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comunale, delle associazioni e della comunità tramite eventi formativi, mostre, illustrazioni di progetti e pubblicazioni: un’opportunità di collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Da un punto di vista organizzativo e gestionale, si è pensato di affidare la conduzione delle due sedi di Castel San Pietro e Palazzo del Capitanio ad un unico soggetto istituzionale capace di far fronte a questo arduo compito. Lo studio propone di costituire una Fondazione dedicata, che dovrà occuparsi di attuare gli obiettivi proposti esplicitandoli attraverso un nome identitario riconoscibile e curando le relazioni con enti locali, istituzioni culturali, associazioni e privati.
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01. Mappa della città di fondazione romana con flussi e relazioni tra le destinazioni proposte e il contesto. 02. Castel San Pietro. 03. Palazzo Forti, cortile.
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Hotel Garibaldi Il progetto per l’isolato di via Garibaldi 1 giunge alla fase autorizzativa con l’inserimento di una struttura alberghiera di alta gamma Testo: Alberto Vignolo
L’idea alla base del recupero degli immobili di via Garibaldi 1 deriva da uno studio di fattibilità relativo al quadrilatero di edifici delimitato dalle vie Garibaldi, Emilei, San Mamaso e Sant’Egidio, sviluppato nel 2019 da Mario Botta quale approfondimento degli input derivanti dal piano Folin. A fine 2020 è stato depositato un progetto architettonico ai fini dell’ottenimento dei titoli abilitativi, elaborato da un gruppo di tecnici coordinati dall’ing. Claudio Modena con lo studio Rocchi Piubello per la parte architettonica. Gli edifici interessati dal progetto definiscono un complesso immobiliare di circa 15mila metri quadri, e formano di fatto un isolato, da cui rimane esclusa la porzione d’angolo tra via Garibaldi e via Emilei – tuttora sede bancaria – e San Pietro in Monastero, che mantiene la sua vocazione espositiva. Il palinsesto delle antiche dimore nobiliari acquisite a partire dal 1928 dalla Cassa di Risparmio di Verona, dalle matrici architettoniche molto diverse tra di loro, venne adeguato all’uso bancario dall’ingegner Pio Beccherle (lo stesso progettista della Stazione Frigorifera Specializzata ai Magazzini Generali); la sua mano è riconoscibile in particolare nel volume d’angolo tra le vie San Egidio e San Mamaso. Le esigenze di controllo e riservatezza della banca hanno consolidato nel tempo il carattere di “cittadella” chiusa e impenetrabile dell’isolato, percepibile solamente dall’esterno. Il progetto attribuisce all’intero compendio, attualmente dismesso, una destinazione ricettivaalberghiera, con il ricorso alle modalità previste dallo Sblocca Italia per il cambio d’uso (da direzionale). Il destinatario finale è la catena americana Marriot, che
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« Il ripristino di alcuni percorsi di attraversamento interni all’isolato ripropone il tracciato dell’antico Vicolo Santa Elisabetta» per Verona ha scelto il suo brand mirato su attività ricettive di elevato livello. Nello specifico, verranno ricavate 140 camere, una grande sala living, una sala meeting, uno spazio da dedicare al wellness e fitness, una sala colazioni, un bar, un ristorante e tre negozi. Lo schema distributivo degli uffici bancari – grandi stanze in sequenza su corridoi – si presta in maniera ottimale agli usi previsti: non sono 03
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Committente Patrizia Real Estate Investment Management valorizzazione comparto immobiliare denominato garibaldi 1, verona progettisti SM Ingegneria - prof. ing. Claudio Modena (coordinamento del progetto, strutture e sicurezza) Rocchi Piubello Architettura (progettazione architettonica) Planex srl (impianti, antincendio e acustica) Opera s.r.l. (restauro delle superfici) consulenti prof. arch. Ugo Soragni (supervisione architettonica e storica) arch. Daniela Beverari (storico) Cronologia Domanda Permesso di Costruire: 23 novembre 2020
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necessarie pertanto variazioni sostanziali, bensì adeguamenti minimi (inserimento di un ascensore, uscite di sicurezza). Al piano terreno è previsto il ripristino di alcuni percorsi di attraversamento interni all’isolato completamente obliterati durante il secolo scorso. L’accesso principale all’hotel mantiene quello monumentale su via Garibaldi, impreziosito dalle colonne tortili in marmo rosso Verona e cancelli in ferro. Il parcheggio interno esistente è adibito alla sosta breve degli ospiti in arrivo alla reception (oltre che per la sosta di mezzi di persone diversamente abili); non sono previsti altri parcheggi nella struttura, ricavando quelli necessari in autorimesse convenzionate. Un varco su via Sant’Egidio,
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ottenuto trasformando due finestre neogotiche degli anni Trenta, permetterà di dare continuità al percorso dall’ingresso, riproponendo così il tracciato dell’antico Vicolo Santa Elisabetta. Un ristorante con un’ampia autonomia funzionale è collocato negli spazi su via San Mamaso, con accesso dall’importante portale beccherliano. La sala del ristorante è funzionalmente e visivamente connessa con la corte retrostante, liberata dal volume di uno scalone realizzato negli anni Settanta; il passaggio superiore vetrato è rivisitato nell’aspetto al fine di ottenere una lettura unitaria della corte. Anche alla sala meeting, ricavata all’interno di spazi ristrutturati in epoche recenti, si accede in maniera indipendente da via Emilei, tramite un maestoso
01. Il tracciato di Vicolo Santa Elisabetta leggibile nel catasto Napoleonico del 1817. 02. L’ingresso all’hotel lungo il percorso accessibile da via Garibaldi. 03. La riforma del passaggio sul cortile alle spalle di via San Mamaso. 04. Pianta piano terra dell’intero isolato. 05. Il cancello su via Garibaldi con le colonne tortili in marmo rosso Verona.
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portale quattrocentesco in marmo rosso Verona. Infine nella zona più buia e parzialmente interclusa dell’isolato, già destinata ad usi accessori, trova spazio l’area benessere e fitness. L’intervento ha un carattere fortemente conservativo di tutti gli elementi di valore architettonico e decorativo, con un articolato restauro delle facciate. Negli interni, la Sala del Consiglio o dei Mosaici e la sala Boiserie, elementi identitari della Cassa di Risparmio, vengono conservate come sale lettura e living. Alla definizione del rapporto tra spazi e usi si accompagna un approfondito studio dei necessari adeguamenti strutturali e per la dotazione delle necessarie reti impiantistiche, in conformità con l’impronta conservativa dell’intero progetto.
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Una nuova attualità per il centro storico A proposito di alberghi e cambi d’uso, di musei nuovi ed esistenti e di un necessario sguardo d’insieme oltre il centro Testo: Alberto Vignolo
Probabilmente molti dei fraintendimenti che si sono ingenerati attorno al cosiddetto piano Folin derivano dall’uso improprio del termine ‘piano’, così carico di significati e di ufficialità. Mentre invece, lo studio che la fondazione bancaria cittadina ha promosso non ha un valore cogente se non verso se stesso, agendo in sostanza come un ‘piano autoregolatore’. E il protocollo d’intesa che Comune di Verona e Fondazione Cariverona hanno sottoscritto al riguardo è una dichiarazione di intenti, una sorta di generico ‘vogliamoci bene’ tra due soggetti autonomi, ma che sono espressione della medesima realtà. Da una parte il comune è l’ente regolatore cui spetta il governo del territorio; dall’altro la fondazione è un soggetto privato ma con finalità volte allo sviluppo economico, sociale e culturale – il suo ruolo di cornucopia è ben noto – e di cui peraltro lo stesso comune è coinvolto nella designazione dei membri del consiglio generale. A tirare un filo da una parte o dall’altra, si scombina tutto il disegno, che poi è quello della città. La contrapposizione che appare o che si vuol vedere è dunque una deformazione della visione, una sfocatura della scena. Entro questo scenario, il piano Folin continua a sollecitare il dibattito pubblico, in particolare da quando è stata mossa un’importante pedina, quella relativa all’isolato di via Garibaldi 1, il cui progetto dovrà passare per un cambio d’uso (via Sblocca Italia) da direzionale a turistico-ricettivo. Occorre dire che, fuori da ogni ipocrisia, non c’è progetto urbano di un minimo respiro, a Verona come altrove, che non si avvalga di questa procedura, piaccia o meno. Ci portiamo sulle spalle un fardello normativo tale che
ci si appella di continuo alla necessità di semplificare le procedure, ma quando ciò avviene si grida allo scandalo. Ma in cosa consiste, a ben vedere, questo scandalo? In breve, dove c’erano uffici si vuole insediare un albergo: verranno pagati oneri e contributi di sostenibilità, graditi benefit per le casse pubbliche. Qualcuno lamenta che “sarebbe bello” si facessero abitazioni: ma cos’è un albergo se non una residenza temporanea, flessibile e smart, per usare parole d’ordine della contemporaneità? E l’idea di un albergo in quel luogo non è certo un fulmine a ciel sereno, piuttosto appare come la destinazione più ovvia e quasi scontata, se non l’unica possibile: cos’altro in quel quadrante urbano oggi desertificato? Il peso insediativo delle 140 camere dell’hotel è davvero squilibrato rispetto ai 1.200 lavoratori bancari che gravavano su quegli stessi spazi? In alternativa, qualcuno vede in giro signorotti col calesse pronti a ritornare ad abitare negli antichi palazzi nobiliari? Senza dimenticare che un albergo è una struttura regolata, mentre intanto e tutt’intorno il fiorentissimo ambito extra alberghiero (b&b e simili) prospera imperterrito a prescindere. Forse questa opposizione è solo questione di prospettiva: ci fu ad esempio negli anni Settanta l’importante recupero di un isolato centralissimo, tra corso Porta Borsari e via Adua, con l’inserimento anche di un albergo di elevata categoria (l’allora Hotel Vittoria), che oggi appare come un riuscito mix funzionale nel tessuto urbano. Più problematica appare l’idea del centro congressi, centrale nel disegno del piano Folin ma in parte già ridimensionata nel successivo progetto per via Garibaldi 1. Da molti anni si ipotizza di affiancare all’auditorium della Gran Guardia una struttura
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01. L’isolato di via Garibaldi 1 evidenziato in una veduta aerea del centro. 02. “Proprietà della Cassa di Risparmio”, targa in via Emilei.
congressuale di più ampie dimensioni, che ancora manca a Verona. Facendo volano sulla sala convegni già esistente nell’interrato di via Garibaldi 2, il piano ha ipotizzato il delicato innesto di una serie di altre sale nella fitta trama degli isolati, per raggiungere una sommatoria potenziale di 1800 partecipanti. Ma per una funzione così pesante dal punto di vista insediativo e di scala decisamente sovraurbana, forse il ristretto campo d’azione del centro storico appare limitativo. Per chi vorrà realizzare una struttura del genere, quale migliore scelta, ad esempio, dei volumi previsti nel masterplan del futuro parco dello Scalo ferroviario, a cerniera tra centro e fiera e con un grado di accessibilità urbana e territoriale ineguagliabile? Rimane invece ancora allo stato di proposta, con alcuni nodi problematici da affrontare, il fronte museale. Se i restauri di Castel San Pietro e Palazzo del Capitanio sono a un livello avanzato – è dato a breve il completamento del primo e in parte anche
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« Probabilmente molti fraintendimenti derivano dall’uso improprio del termine ‘piano’ così carico di significati e di ufficialità » del secondo –, restano certamente da definire gli aspetti gestionali, soprattutto nel rapporto con gli altri musei civici e non solo. Come pensare al racconto di Verona romana, ad esempio, a partire da Castel San Pietro, che non si interfacci con il Museo Archeologico al Teatro Romano – con cui la prossimità fisica è tale da rendere impensabili due realtà museali separate – ma anche con il futuro Museo Archeologico Nazionale a San Tommaso? E come pensare al risiko delle sedi espositive tra Capitanio, Palazzo della Ragione e Palazzo Forti, che contempla addirittura l’idea di un trasloco di ritorno della Galleria d’Arte Moderna, senza a questo punto mettere in gioco con un ragionamento organico l’intero sistema dei musei civici? Senza scivolare in
una forma di benaltrismo, non scordiamoci il cronico tema della vitale espansione di Castelvecchio nell’area del Circolo Ufficiali, o i necessari interventi per il Museo di Storia Naturale, per troppo tempo trascurato e pensato solo come una pedina da spostare a piacimento. Non ultima, la questione della Casa-Museo di Giulietta, fenomenale attrattore di pubblico in affanno di spazi, a pochi passi da grandi spazi in cerca di pubblico: non mettere le questioni sullo stesso tavolo è inspiegabile, e l’ipotesi di una Fondazione dei Musei di Verona è un tema su cui discutere. Queste le molte e dense questioni sollevate dal piano Folin. Già, il famoso termine “piano”: forse ci vorrebbe davvero uno strumento regolatore di qualche tipo – le innovazioni anche nella legislazione urbanistica non mancano –, con cui l’amministrazione cittadina prendesse il testimone dallo studio promosso da Fondazione Cariverona per ritarare con uno sguardo più ampio il proposito di una ricentralizzazione del centro. La trasformazione in senso fondamentalmente turistico della città, nella sua zona centrale e non solo, non può prescindere da altre fondamentali questioni, quali la mobilità, il commercio e le sue estroflessioni – con lo sprawl frammentario dei plateatici – il decoro urbano: per un necessario progetto di città che passa anche da una nuova attualità del centro storico*.
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Nel 1977 si tenne a Verona un convegno promosso dall’ANCSA (Associazione Nazionale Centri Storici Artistici), autorevole centro studi che continua a tutt’oggi a riflettere su quella che allora venne chiamata Attualità del problema dei Centri Storici. Gli atti del convegno vennero pubblicati in «ArchitettiVerona» n. 1-2, seconda serie, 1977.
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Ponte Garibaldi, Verona, progetto: ing. arch. M. Dezzutti, 1952 (Archivio Generale del Comune di Verona).
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88. Luigi Calcagni architetto veronese
92. Fare un parco: tra immaginario e realtà
Il ricordo di una delle figure indissolubilmente legate alla costruzione del volto moderno della città e del suo ruolo di intellettuale civile
A proposito del progetto per il Parco Passalacqua pubblicato sullo scorso numero di «AV» una riflessione incentrata sugli aspetti paesaggistici, naturalistici e socio-ambientali
97. Pontimania Una mostra ancora fruibile in modalità digitale propone la prima tappa di una ricerca documentaria sui ponti di Verona tra ricostruzioni e nuovi attraversamenti dell’Adige
94. Magazzini XXL Sull’ipotesi di un macro edificio ipotizzato nell’area della ex caserma di Santa Caterina al Pestrino quale nuovo polo archivistico comunale
91. In ricordo di Gigi Sessantacinque anni di lavoro gomito a gomito dal progetto di laurea all’ininterrotta associazione professionale
99. Ci mette il becco LC: una proposta fuori dalla prassi Architetti e Soprintendenza, un dialogo da costruire
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Luigi Calcagni architetto veronese Il ricordo di una delle figure indissolubilmente legate alla costruzione del volto moderno della città e del suo ruolo di intellettuale civile Testo: Alberto Vignolo Foto: Marco Toté
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Milani e Maurizio Zerbato – è attiva e operante. Va dunque ai due estremi di un lunghissimo percorso, dagli albori dell’attività professionale fino all’ultimo cantiere da lui diretto in prima persona, il ricordo che «AV» tributa a uno dei suoi fondatori, parte di quel gruppo di giovani temerari che diedero inizio alla longeva avventura di questa rivista. Ecco il giovane architetto, iscritto all’Ordine nel ‘57 con il numero 45, nel comitato di redazione di «ArchitettiVerona» fin dal primo numero del ‘59, autore di alcuni contributi – un tagliente Ospedale di Verona = errore urbanistico, poi una riflessione metodologica su Ricerche storiche e restauro architettonico, infine un intervento In margine al regolamento edilizio di Verona – e firmatario con il gruppo di redazione delle proposte più corpose
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i sarà un giorno in cui, facendo la storia delle vicende architettoniche di Verona dal secondo dopoguerra del Novecento ad oggi, un posto di primo piano andrà riservato a Luigi Calcagni (1929-2020), il cui nome resta indissolubilmente legato alla costruzione del volto moderno della città, tappa dopo tappa. Un legame che è espressione a sua volta di quello con Luciano Cenna, compagno d’avventura inossidabile fin dai banchi della scuola di architettura di Venezia e poi attraverso l’intera carriera, dallo studio aggregato dei giovani neolaureati fino alla forma più strutturata della società Arteco, fondata nel 1983. Ma per scrivere quella storia c’è tempo, anche perché l’eredità che Gigi Calcagni ha lasciato ai suoi soci – Luciano Cenna, Antonella
01. Il grande cortile monumentale del Palazzo del Capitanio al termine dei lavori di restauro delle facciate esterne. Progetto: Arteco (2013-2018). 02. Luigi Calcagni. 03-04. Casa per anziani in via Don Carlo Steeb, Verona (1958). vedute attuali.
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05-06. Palazzo del Capitanio: il fronte su piazza Dante e particolare dell’affaccio su piazza Viviani al termine dei lavori di restauro delle facciate. 07. Casa per anziani in via Steeb, Verona: particolare.
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e lungimiranti sullo sviluppo di Verona e del suo territorio. È in uno di quegli stessi primi storici numeri della rivista che vengono pubblicati gli esiti del concorso per la casa per anziani di via Don Carlo Steeb, vinto proprio dal progetto “opera degli architetti Luigi Calcagni e Luciano Cenna di Verona e dell’architetto udinese Carlo Carozzi”. Opera poi costruita
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e saldamente ancora al suo posto, con tutto lo slancio delle architetture di quegli anni e l’audacia dei suoi giovani progettisti. Abituati come siamo alla doppia firma Calcagni e Cenna, troviamo per quest’opera un terzo compagno d’avventura, con il quale entrambi condividevano il ruolo di assistenti al corso di Elementi di Architettura tenuto da un altrettanto giovanissimo Giancarlo De Carlo all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. L’esperienza didattica di Calcagni proseguirà poi anche a fianco di Leonardo Benevolo, mentre l’impegno culturale e civile nei confronti della città, in parallelo all’attività professionale, troverà forma nel corso degli anni Settanta anche nel ruolo di assessore al Bilancio del Comune di Verona, come esponente di quel gruppo politico formatosi attorno alla figura di riferimento di Licisco Magagnato. Dalla stagione degli esordi con la realizzazione della casa per anziani ad oggi ci sono più di sessant’anni – celebrati nel 2017 – di progetti
e opere dello studio. Ci sono state più occasioni, nella stagione recente di «AV», di fare degli affondi su questo nutrito corpus di opere, incontrando Calcagni per raccogliere la sua testimonianza di una storia personale che si è fatta storia urbana. È stato, ad esempio, la nostra guida attraverso le architetture per l’università di Verona (cfr. «AV» 105, pp. 284-91), istituzione di cui ha accompagnato la nascita e la crescita dando forma a molti dei suoi spazi. Pezzi fondamentali dell’architettura civile di Verona: così come tornerà ad esserlo, quando si completerà il restauro, il palazzo del Capitanio. È qui, nel cuore della città antica, a pochi passi dallo studio di Corso Sant’Anastasia, che Gigi Calcagni all’alba dei suoi novant’anni ha diretto i lavori di quello che si sarebbe rivelato il suo ultimo cantiere. Un lavoro lungo e complesso, del quale non nascondeva le difficoltà – ricordo un suo accenno alla fatica dell’arrampicarsi sui ponteggi, nonostante una vita da montanaro – assieme alla responsabilità e all’orgoglio di affrontare il restauro di un complesso monumentale del genere. Per una curiosa assonanza materica, nella continuità tra il mattone come fondamento elementare del costruire delle opere dell’esordio, come la casa per anziani, alle antiche tessiture murarie del palazzo medievale, si è compiuto il percorso della sua vita da architetto. «ArchitettiVerona» conserva l’eredità della sua garbata e civile presenza nel dibattito sulla città.
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In ricordo di Gigi
Testo: Luciano Cenna
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n quel gesto che fa Gigi portando la mano alla fronte quasi per farsi ombra agli occhi e spingere il suo sguardo più lontano, ci sono cose che riconosco: di alcune non dirò perché troppo personali o troppo lugubri, delle altre accennerò dopo avervi trattenuto con questo brevissimo aneddoto che mi viene alla mente a proposito del guardare lontano. Quando alla fine del secondo anno di architettura ci siamo rincontrati, riprendendo una amicizia interrotta dalla guerra, Gigi, più vecchio di me di tre anni, era più o meno al mio livello di esami perché aveva già assolto la leva militare alla scuola ufficiali degli alpini, uscendone capitano;. E, a proposito di addestramento e di balistica, mi aveva raccontato con dovizia di dettagli come si impara a sparare con le armi pesanti, cioè con il cannone, attraverso l’approssimazione della gittata e quindi valutando la distanza, prima in eccesso, poi in difetto e, con il terzo tiro, si fa centro: e nel dirmi ciò metteva la mano destra alla fronte con lo stesso gesto della foto. Delle altre cose vi svelerò lo stretto necessario per mettervi al corrente del disagio che si prova nel partecipare da vivi al ricordo che «AV» ha voluto dedicare al mio socio. Ho usato la parola “socio”, parlando di Gigi, ma non è un termine adatto per dire del miracolo professionale che ci ha
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Sessantacinque anni di lavoro gomito a gomito dal progetto di laurea all’ininterrotta associazione professionale visti lavorare gomito a gomito sullo stesso progetto (nel senso di riuscire a lavorare sullo stesso progetto due persone con un forte ego) dai tempi del progetto della tesi di laurea con Samonà (fine ’56) al progetto del Palazzo del Capitanio (2019), quindi per oltre sessantacinque anni. E quando dico “gomito a gomito” non esagero: almeno per i primi venticinque anni, mentre nei seguenti dieci o quindici la sua attività si era parzialmente spostata nella sede comunale (è stato assessore alle finanze con il sindaco Gozzi); successivamente le personali doti di attenzione, mie e sue, ci hanno visti impegnati prevalentemente su tavoli vicini. E quindi più che di soci, per Gigi e per me si potrebbe parlare di una non frequente forma di collaborazione fondata su una solida amicizia tra due persone diverse per carattere, ma dotate della stessa voglia di sopraffarsi usando solo lo strumento dell’intelligenza: tipicamente razional-matematica, e di alto livello con frequenti fuori campo di fantasia e immaginazione in uno, prevalentemente fantasticoimmaginativa con fuori campo razional-matematici, nell’altro.
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Fare un parco: tra immaginario e realtà
A proposito del progetto per il Parco Passalacqua pubblicato sullo scorso numero di «AV» una riflessione incentrata sugli aspetti paesaggistici, naturalistici e socio-ambientali Testo: Paola Muscari, Florencia Bauzer
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orremmo condividere alcune riflessioni su parchi urbani, alberi e progetto di paesaggio. Ci chiediamo innanzitutto se il modo di relazionarsi alla natura e agli alberi, e il modo di progettare gli spazi verdi a Verona, possano rimanere immutati e indiscussi in un mondo in cui stanno avvenendo drammatici cambiamenti ambientali e pandemici, e in cui c’è sempre più bisogno di verde urbano. Il Parco Santa Marta-Passalacqua era stato promesso al quartiere e alla città nel lontano 2006, ancor prima che l’area passasse dal Demanio al Comune. In quell’anno il documento di indirizzo predisposto dagli uffici comunali “faceva propria l’aspirazione di affidare alla riconversione delle ex caserme un ambizioso compito rigenerativo per l’intero quartiere” 1. I lavori previsti dal Piano Urbanistico Attuativo sono iniziati nel 2010-2011 ma le aree a parco, dopo un primo avvio, si sono bloccate. In questi anni, in attesa che gli amministratori di turno riuscissero a far ripartire i lavori, il ‘vero Parco’ non si è scoraggiato, e nel frattempo ha visto crescere nuovi alberi e arbusti che hanno riempito di vita il sito in abbandono, comprese le specie animali che vi hanno trovato rifugio arricchendo la biodiversità dell’area. Piante che si sono adattate perfettamente alle condizioni del luogo, che si accontentavano dell’acqua piovana e convivevano serenamente. Una vera risorsa naturale, tanto necessaria per la salvaguardia innanzitutto della salute umana. Finalmente, nello scorso mese di dicembre 2020 le autorità comunali annunciano che i lavori stanno per ripartire, e quando apparentemente i lavori si sbloccano che cosa succede? Le recinzioni si
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aprono e le prime ad entrare sono le ruspe, che si portano via tutto il lavoro che la natura aveva fatto in questi dieci anni, tagliando e riducendo a pacciame tutti gli alberi ricresciuti. Il tempo degli alberi, il tempo tra il 2006 e il 2021. Purtroppo il primo layout del ‘Programma complesso ex caserme Santa Marta e Passalacqua’ – che ha poi condizionato la rispettiva distribuzione di costruzioni e vegetazione – è stato tracciato su un foglio bianco, che riportava la sagoma di edifici e capannoni ma non la presenza degli alberi, evidentemente ritenuti irrilevanti per un parco e la riqualificazione di un quartiere. Il
rilievo dei circa 500 alberi esistenti, classificati per specie, dimensione, età, valore paesaggistico, sarà completato solo in seguito, ma purtroppo una buona parte di essi – grandi platani, olmi, cipressi e cedri – sono stati abbattuti subito dopo, nell’agosto 2011. Nel frattempo sono arrivati gli edifici, tuttora in costruzione, e del Parco al momento c’è solo la piccola parte realizzata al Bastione delle Maddalene. Quella che era stata concepita come un’area di riqualificazione ed era stata presentata come il più grande parco urbano d’Europa, progettato dai prestigiosi paesaggisti dello studio West 8
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di Rotterdam, è piuttosto una collana di aree verdi frammentate variamente nominate, che non paiono soddisfare i reali bisogni degli abitanti. Gli accattivanti rendering pubblicati sullo scorso numero di «AV», che evocano il futuro Parco, sono di West 8 che ha firmato il progetto definitivo assieme allo studio M.P.&T Engineering di Verona, il quale è rimasto dal 2016 ad oggi unico responsabile degli elaborati del progetto esecutivo. Tra immaginario e realtà. Negli obiettivi progettuali ha prevalso la logica dell’archeologia storica, del recupero museale e del restauro militare piuttosto che la logica paesaggistica, naturalistica, vegetale, socioambientale. Ad esempio, la disposizione degli alberi nel cosiddetto ‘parco urbano B2’ presenta filari paralleli, perpendicolari al Muro d’Alberto, una visione che “rimanda alle disposizioni di un battaglione di soldati, che qui ritroviamo in veste pacifica a regalare ristoro”2 , ma che pare lasciare del tutto in disparte le specificità insite in un parco cittadino come aree giochi per bambini in età prescolare, spazi di aggregazione per studenti e adolescenti, aree sosta per anziani, e così via. La totale mancanza di partecipazione dei cittadini e addirittura la mancata conoscenza dei luoghi fanno sì che i cittadini vengano lasciati fuori dagli obiettivi urbanistici, e che l’amministrazione sia condizionata dagli interessi degli investitori e non guidi la trasformazione della città. Pare impossibile a dirsi, ma l’area della Santa MartaPassalacqua è pressoché sconosciuta agli abitanti del quartiere e alla stragrande maggioranza dei veronesi, forse anche per una sorta di timore reverenziale di fronte a un’area racchiusa da mura militari, “un comparto di ex caserme che per quasi un secolo e mezzo è stato una sorta di città proibita”3. Per la realizzazione delle opere a verde non è a tutt’oggi chiaro se ci sia un paesaggista responsabile, un ‘direttore d’orchestra’, un direttore lavori per gli impianti vegetali. Ci chiediamo, ad esempio, se ci sia stata attenzione a non rimescolare i vari strati di terreno e a tenere separati i primi strati fertili da quelli più profondi inerti. Ci chiediamo se sia stato scelto un tipo di semente per il manto erboso che non richieda intensa manutenzione, sprechi d’acqua e
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01. Foto aerea, agosto 2020 (per concessione di AMIA Verona). 02. Ex caserma Santa Marta, settembre 2020. 03. L’area “ripulita”, dicembre 2020.
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frequenti sfalci. Ci chiediamo se non sia già troppo tardi per iniziare un lavoro di comunicazione e di educazione indispensabile per fare apprezzare il ‘nuovo paesaggio’. Il verde cambia la qualità della vita di tutti, ma in particolare di quella dei più fragili. A quando un’apertura, una inaugurazione, un evento con le scuole, gli abitanti, le associazioni di Veronetta per far conoscere che a due passi da casa loro, all’interno del quartiere, c’è un paradiso, un ben di Dio, che era stato nascosto e proibito per decenni?
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1 Cfr. R. Carollo, Di là dalle mura e tra gli alberi, in «AV» 87, pp. 18-23). 2 Cfr. D. Capuzzo, Appuntamento al parco, in «AV» 123, pp. 48-53). 3 Cfr. A. Vignolo, Santa Marta: restituzione urbana e recupero architettonico, in «AV» 85, pp. 22-23.
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Magazzini XXL Sull’ipotesi di un macro edificio ipotizzato nell’area della ex caserma di Santa Caterina al Pestrino quale nuovo polo archivistico comunale Testo: Federica Guerra
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risulta oggettivamente ragionevole e coerente, tuttavia il piano di fattibilità suscita qualche perplessità, a partire dal significato attribuito al termine masterplan. Il progetto prevede infatti la realizzazione di un edificio-bastione, un lunghissimo corpo di fabbrica ad L di circa 600 metri lineari su tre piani, con i magazzini delle scenografie al livello terreno e generici archivi ai piani superiori. I render degli spazi interni mostrano lunghi corridoi vetrati che distribuiscono funzioni assai diverse, assimilate sommariamente. La rigida disposizione planimetrica dell’edificio, già prefigurato nella sua definizione prospettica, racchiude poi un parco in cui tre volumi a destinazione residenziale ricalcano approssimativamente il sedime di alcune delle caserme demolite, ritenendo che la sola presenza della funzione residenziale possa fungere da motore vivificante dell’area. Percorsi nel verde connettono luoghi tutti interni all’area, senza ricercare alcun legame nel rado tessuto urbano circostante e nel paesaggio agricolo. Non sembra di cogliere alcuna attenzione al principio insediativo del luogo, ai tracciati originari né, peraltro, alle connessioni con l’antico manufatto del Forte, che resta muto
01. L’edificio dei Magazzini della Cultura evidenziato in rosso all’interno del parco Adige Sud. 02. Sequenza: #1 figure urbane a grande scala, #2 i parchi a sud di Verona, #3 i forti di Verona, #4 ampliamento del forte di Santa Caterina, #5 Verona Magazzini della Cultura, #6 dati. 03. Render di progetto.
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l progetto che l’amministrazione comunale di Verona ha recentemente presentato con l’ambizioso titolo di Magazzini della Cultura rientra in un piano di riordino complesso di diversi settori, che vanno dalla Direzione Generale Archivi del Comune con il suo corredo di pratiche e incartamenti, ai depositi dei Musei Civici con le opere pittoriche e scultoree non esposte – comprese alcune sezioni del Museo di Storia Naturale –, alle grandi scenografie areniane spesso riutilizzate anche dopo anni. Un gioco di pedine sulla scacchiera urbana che, una volta razionalizzati gli spazi destinati a tale scopo, farebbe risparmiare al Comune le ingenti somme oggi pagate per la locazione delle attuali sedi. Per realizzare questo ambizioso obiettivo è stata identificata l’area della caserma Santa Caterina, al Pestrino: un complesso ex militare inutilizzato da tempo, già in carico al patrimonio comunale, che versa in stato di forte degrado. Sull’area insistono oggi una serie di caserme fatiscenti, di recente realizzazione e prive di qualunque valore storico. Fa parte del compendio il bel forte austriaco di Santa Caterina (Werk Hess), i cui resti, nonostante le precarie condizioni di conservazione, potranno essere recuperati e resi fruibili (come già fa nelle stagioni estive la bella iniziativa di Operaforte con il cinema all’aperto). Per mettere mano al disegno complessivo sull’area è stata coinvolta l’Università di Padova – Dipartimento ICEA; la collaborazione ha portato alla redazione di un masterplan arrivato alla ribalta pubblica a gennaio 2021. Se l’intento organizzativo
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magazzini della cultura Verona - Forte Santa Caterina masterplan Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale Università degli Studi di Padova prof. Michelangelo Savino prof. Angelo Bertolazzi prof. Luigi Stendardo arch. Raffaele Spera dati territoriali Sup. fondiaria ex caserma: 100.000 mq ca. Sup. fondiaria forte: 126.000 mq Sup. coperta esistente: 16.000 + 2.700 mq Sup. coperta Magazzini della Cultura: 16.000 mq Sup. coperta residenze: 2.600 mq
04. Planimetria generale. 05. Sezione tipologica trasversale dell’edificio.
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spettatore del colosso adiacente. Forte accento viene infine posto sul fatto che il nuovo edificio occuperà esattamente la stessa superficie dei volumi demoliti, senza ulteriore spreco di suolo, ma prefigurando già dimensioni di pianta e sezione forse azzardate per il livello di approfondimento raggiunto dal masterplan. Così, mentre non ci stancheremo di ricordare che lo strumento più efficace per affrontare una questione progettuale è il Concorso di Progettazione, che costruisce i temi del progetto prima di proporre soluzioni, la perplessità principale, dicevamo, deriva dal fatto che un masterplan, nell’accezione corrente che si dà a questo strumento, si interroga preventivamente su questioni di alta scala e di carattere propedeutico. Come la viabilità di accesso, la fruibilità in relazione alla localizzazione, gli schemi tipologici adatti a un contenitore così complesso come un polo archivistico, lo studio delle tecnologie oggi disponibili e la loro adattabilità al caso specifico, il confronto e lo studio di casi analoghi e, solo alla fine, la ragionevole e ponderata quantificazione di possibili volumi e superfici necessari. Ciò che è stato presentato alla cittadinanza, invece, si addentra già in questioni di progettualità fine, ma non chiarisce né a noi né al progetto esecutivo le questioni sopra dette, lasciandoci sognare soluzioni che poi, nella realtà, non saranno praticabili. A partire da un archivio cartaceo che le moderne meccanizzazioni prevedono a sviluppo verticale e non longitudinale, come prospetta il lunghissimo edificio (quasi senza
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eguali a scala urbana), piuttosto che l’incognita dell’arrivo di automezzi di grandi dimensioni per il trasporto delle scenografie, che graverebbero su una viabilità minuta, da quartiere periferico. O ancora il tema del trasporto pubblico necessariamente da prevedere per un attrattore di utenza come un polo archivistico e, ancor più, la non indagata necessità di riqualificazione urbana che il progetto potrebbe innescare, non per la presenza di un modesto innesto residenziale, quanto per l’attivazione di attività di quartiere e a scala più vasta. O ancora, la possibilità che la presenza di opere d’arte, fruibili anche parzialmente, possa divenire stimolo a connessioni
anche extra urbane di tipo culturale, che andrebbero preventivamente programmate quanto a strutture ed esiti. Ecco, queste sono le questioni su cui di solito verte un masterplan, indipendentemente delle successive soluzioni progettuali, perché è dal rapporto che si è in grado di costruire tra forma e funzione che nasce il progetto.
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Pontimania ODEON
Una mostra ancora fruibile in modalità virtuale propone la prima tappa di una ricerca documentaria sui ponti di Verona tra ricostruzioni e nuovi attraversamenti dell’Adige Testo: Nicolò Olivieri
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l punto migliore da cui osservare la città di Verona è sicuramente la balconata di Castel San Pietro: da qui salta subito all’occhio il lento scorrere del fiume che abbraccia il centro storico, con Ponte Pietra a collegare le due sponde. Eppure questo ponte, insieme a tutti gli altri della città, venne fatto brillare dalle truppe tedesche nel vano tentativo di rallentare l’avanzata degli Alleati alla fine della Seconda guerra mondiale. Anche per questo motivo, Verona vanta la realizzazione di ben diciassette ponti nell’arco del ventesimo secolo, considerando quelli realizzati nei primi decenni del Novecento per ammodernare le strutture più obsolete, e le ricostruzioni del secondo dopoguerra: forse è questa la causa di una sorta di “benevola ossessione” della comunità scaligera per i ponti. Ne è espressione anche l’interessante mostra dal titolo I Ponti in cemento armato, la prima di una serie di tre esposizioni inserite in un più ampio progetto su I ponti di Verona nel Novecento sviluppato nell’ambito di Arcover, progetto sostenuto da Fondazione Cariverona e guidato da un team di giovani architetti e ingegneri, che prevedeva altre due tappe – presso l’Archivio di Stato e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Verona – rimaste al momento in stand by causa pandemia. Aperta a fine ottobre scorso nella hall di Palazzo Barbieri, la mostra ha trovato una modalità digitale di diffusione che consente di continuare a “visitarla” attraverso un tour virtuale. È possibile rivedere così la documentazione precisa e ricca di informazioni tecniche sui ponti degli anni Trenta e su quelli ricostruiti nel secondo dopoguerra: tra il 1946 e il 1959 tutti i ponti vennero ripristinati, terminando con l’inaugurazione di ponte della Vittoria. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio
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degli anni Settanta vennero poi realizzati ponte del Risorgimento e ponte Unità d’Italia, per assecondare la crescita della città. L’esposizione è costituita da carte di identità precise e dettagliate di ognuno dei casi-studio; a partire dalla costruzione di ponte Catena (1929) e ponte San Francesco (1929). Vengono ricostruire anche le vicende del ponte della Vittoria, costruito nel 1930 sul progetto di Ettore Fagiuoli e intitolato appunto “alla vittoria” nel primo conflitto mondiale, e poi ricostruito nel 1953 con un nuovo intervento dello stesso Fagiuoli. Non mancano le curiosità che la mostra mette in luce, come lo “spostamento” del ponte Nuovo, costruito in sostituzione del ponte Umberto, 28 metri più a valle del precedente. L’attenzione
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i ponti in cemento armato 03
A cura di: Michele De Mori, Angelo Bertolazzi Gruppo di lavoro: Angelo Bertolazzi, Marco Cofani, Silvia Dandria, Michele De Mori, Enrico Mischi, Jhonny Nicolis, Davide Rizzi. Progetto grafico: Emilia Quattrina, Nicolò Tedeschi. Modelli: Leonardo Milazzo. Virtual tour: Verona360 ARCOVER - Archivi del Costruito del Territorio Veronese in Rete Un progetto di: Associazione AGILE, Archivio Generale del Comune di Verona, con il contributo di: Fondazione Cariverona virtual tour https://virtualtour.verona360.it/ IPontidiVerona/
01. L’allestimento della mostra nella hall di Palazzo Barbieri. 02. Pontimania: tote bag e pieghevole. 03. Ponte Navi, progetto degli architetti M. Zamarchi, C. Vanzetti, R. Benatti, A. Manzini, G. Trojani, 1974 (Archivio Generale del Comune di Verona). 04. Ponte della Vittoria, modello in scala 1:200 del ponte ricostruito nel 1953.
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degli architetti è attirata dal ponte Risorgimento, disegnato da Pier Luigi Nervi nel ‘63 e realizzato poi tra il ‘67 e il ‘68. L’ultimo dei quaranta pannelli dell’esposizione approfondisce il tema dei ponti temporanei di tipo Bailey che vennero realizzati già dal 25 aprile sulle rovine dei ponti della Vittoria e Aleardi, al fine di consentire l’avanzata alle truppe verso la val d’Adige e la pianura Padana orientale. Quello su ponte Aleardi rimase in uso fino al 1949 quando iniziarono i lavori di ricostruzione, mentre quello su ponte della Vittoria rimase installato fino al 1951, quando venne rimontato più a valle per garantire il collegamento provvisorio tra Borgo Trento e il centro storico. Con il 2 luglio 1971, ultimato il ponte Unità d’Italia al Saval, si chiude il lungo capitolo dell’attraversamento dell’Adige. Da allora la secolare relazione tra la città e il suo fiume sembra proseguire su rette parallele. Da quel momento sono sporadici gli studi e le proposte per ponti o passerelle pedonali, come quella pensata da Paolo Portoghesi nel 1987a collegamento di piazza isolo (cfr. «AV» 35, pp. 18-19). Una interessante ricostruzione, anche se virtuale, è quella proposta nell’ambito del Tocatì 2008 dall’installazione luminosa sul sedime dell’antico Ponte Postumio, i cui resti vennero ritrovati solo nel 1891: una memoria storica che potrebbe anche essere ripristinata come percorso ciclo-pedonale, di cui la città è così affamata. Nella mostra è più volte citato il fatto che la realizzazione di nuovi ponti è sempre stata relazionata allo sviluppo della città; forse occorre pensare anche a una crescita qualitativa. A
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prescindere da lavori di manutenzione, fatti o da fare, negli ultimi anni l’unico lavoro intervento significativo su uno dei ponti cittadini è quello che ha interessato l’allargamento dei marciapiede a sbalzo di ponte San Francesco. Una soluzione che sarebbe opportuno pensare anche, ad esempio, per ponte Aleardi, principale asse di connessione pedonale tra il grande parcheggio al Cimitero Monumentale e il centro antico, meta dell’assalto – in era pre Covid – da parte di fiumane di turisti costrette a un impervio passaggio sull’attuale risicato marciapiede del ponte. Idee e riflessioni maturano grazie alla visita della mostra, seppur in modalità da remoto, grazie al lavoro minuzioso e puntuale che ne ha posto le basi. Nell’attesa di poter tornare a una visita dal vivo, passeggiando attraverso la storia della nostra città.
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Ci mette il becco LC: una proposta fuori dalla prassi Architetti e Soprintendenza, un dialogo da costruire
Testo: Luciano Cenna
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i è piaciuto quanto Vincenzo Tinè ha scritto sul numero 123 di «AV» a proposito del capannone di Mangiarotti per la Concessionaria Fiat di Giancarlo Pederzoli (sono forse il solo che avendolo avuto compagno di classe alle elementari, lo abbia conosciuto con il cognome “Pedrazzoli”, evidentemente poi corretto in Pederzoli). Non ricordo se ero presente all’inaugurazione, ma lo sono stato a quella della sua bella villa a Bardolino, sempre di Mangiarotti, di cui ho ancora presente una fastosa doppia altezza interna, tanto da domandarmi se non sia il caso di pubblicarla, come nel passato lo sono state le sue case di Murlongo. Dell’intervento del Sovrintendente, mi ha fatto riflettere il fatto che abbia mostrata, sì la preoccupazione propria alla sua veste istituzionale, ma lo abbia fatto con gli accenti dell’architetto, tanto più che il dott. Tiné è laureato in Archeologia. Nel suo dire ho riconosciuto il nostro dire, quello di tutti noi, non del funzionario. Questo mi ha portato a pensare che, almeno per quanto mi riguarda, dovrei liberarmi del tutto da quel residuo di eterno studente che ancora mi
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condiziona quando devo sostenere una soluzione progettuale davanti ad un esaminatore, sia esso un membro della Commissione del paesaggio o il Soprintendente, e gli leggo in faccia la perplessità. Penso cioè che con il Soprintendente Tinè si possa parlare di architettura con lo stesso linguaggio che usiamo tra noi. A questo proposito mi sembra calzante ricordare che, giovane architetto, credo nel ’58 – avevo 26 anni – ottenni un appuntamento con l’allora Soprintendente di Verona, prof. Gazzola, per presentargli il progetto di ricostruzione di una casetta di via XX Settembre, benché il Soprintendente non fosse particolarmente disposto ad incontrare i progettisti e a discutere i loro progetti. Il progetto prevedeva che la casetta esistente venisse demolita – allora si poteva farlo – e sostituita da un nuovo volume dal linguaggio moderno. (Ricordo che già si era visto il bel progetto di F.L. Wright per la casa dello studente a Venezia, poi respinto in nome di un malinteso senso del rispetto ambientale, perdendo così una occasione unica e preziosa per Venezia e la Cultura). Non vi descriverò la faccia del Prof. Gazzola, ve la lascio immaginare, nel chiedermi gelidamente: “è questo che vorrebbe fare?”. Così come avrete intuito, il progetto fu respinto e la casetta è ancora al suo posto (forse sarà stata sistemata successivamente da qualcun altro più disposto a seguire l’impostazione del Soprintendente di quanto io fossi in quei tempi). Ho raccontato questo poco glorioso mio esordio per sottolineare l’importanza che può avere un rapporto di scambio di idee e di esperienze nel processo complesso e pieno di dubbi con cui si cerca di conservare e accrescere il nostro prezioso patrimonio edilizio, avendo il privilegio e la responsabilità di occuparcene, almeno in parte, in quanto architetti progettisti. Se il professor
Gazzola mi avesse messo in condizioni di sostenere la soluzione che gli venivo presentando, forse si sarebbe trovato il modo di tener presente il suo punto di vista – l’assoluta conservazione del linguaggio preesistente – pur aprendo al mio, con una discussione tra architetti, cioè tra specialisti animati dalla stessa passione per la città e interesse per l’ambiente. Ma non è avvenuto, e a difendere Verona da uno sviluppo architettonico moderno – se pur, ammetto, dagli esiti incerti – è bastata la sua decisione di imporre ai progettisti un cliché modesto e di scarsa qualità. (Evidentemente aveva pensato: meglio una architettura modesta che confusamente moderna, soluzione che probabilmente nascondeva una sfiducia di fondo negli architetti veronesi). E veniamo alla proposta: aprire le porte della Soprintendenza (anzi spalancarle), non per occuparla ma per farvi entrare gli architetti chiamandoli a collaborare alla fase istruttoria dei progetti – non necessariamente i loro –, lavorando allo stesso tavolo d’esame dei funzionari o, in alternativa, invitarli a parlare dei loro progetti discutendone, non nella fase di impostazione, ma quando il progetto è rappresentato e ha assunto una fisionomia ben definita. Non so se si sia capito: non sopporto di vedermi spedito un diniego per posta, come ancora mi capita, non condividendone le motivazioni. Questa proposta è ancora da approfondire e può quindi migliorare, finalizzandola all’indubbio raggiungimento di un salto metodologico e culturale di grande valore per la città e la nostra professione.
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QUASI ARCHITETTI
Lungo il fiume, lungo le mura L’inconfondibile tracciato urbano dell’Adige e il sistema difensivo che è valso a Verona il riconoscimento di patrimonio mondiale dell’umanità continuano a offrire temi progettuali per le tesi di laurea dei futuri architetti
Testo: Laura Bonadiman
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Il fiume e le mura: due elementi che, seppur di natura diversa, hanno contribuito a caratterizzare in maniera fondamentale l’identità della città di Verona. Da un lato il fiume, elemento cardine nello sviluppo urbano della città e fonte di approvvigionamento, commercio ed elemento di difesa. Dall’altra le mura, custodi dell’identità storica e culturale di Verona e fortezza contro i nemici. Entrambe sono testimoni del susseguirsi di epoche, portatrici dei passaggi e delle evoluzioni che hanno caratterizzato la vita della città. I legami ben saldi che la città aveva intessuto con i suoi elementi identitari, sono andati pian piano scemando con il passare del tempo e con il venir meno del loro ruolo nella città contemporanea. La cinta muraria, con uno sviluppo di oltre nove chilometri, abbandonata la sua funzione difensiva, si trova oggi ad avere un ruolo marginale e ad essere trascurata. Il fiume Adige, cuore dello sviluppo della città, di tradizioni e cultura, ha visto ridimensionato il suo forte ruolo urbano, sia a seguito della costruzione dei muraglioni, grossi argini realizzati a protezione dell’abitato dopo le distruttive piene, sia all’esaurirsi del commercio e navigazione via acqua. Temi, questi, che nella loro complessità si prestano in maniera ottimale a fare da palestra progettuale nel momento di sintesi del percorso di studi dei futuri architetti, ovvero la tesi di laurea magistrale. Il filo conduttore dei progetti presentati di seguito, è quello di ricreare un legame tra questi elementi e la nuova città contemporanea, attraverso un sistema di relazioni più ampio che non li costringa solamente ad un ruolo marginale.
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le mura: identità di una città
Nel lavoro di Giulia Casolino la ricucitura tra la cinta muraria e la città avviene attraverso la messa a sistema di nuovi itinerari culturali, che seguono due metodologie differenti. La prima permette di mettere in risalto le mura e farle conoscere attraverso una nuova rete museale inter-
na ad esse, spostando in questo modo l’attenzione dai classici itinerari turistici. La seconda si basa su una nuova connessione tra le mura e l’esistente sistema di forti, esterno al centro storico. Queste azioni progettuali sono state applicate a due diversi ambiti di approfondimento: un’area urbana, che comprende la zona di Porta Palio e il Bastione di San Bernardino e una
scuola Università degli Studi di Trieste Dipartimento di Ingegneria e Architettura Laurea a ciclo unico in Architettura titolo Verona, le sue mura: identità di una città progetto Giulia Casolino relatore prof.ssa Alessandra Marin anno accademico 2017-2018
01. Ecomuseo: nascita di una nuova rete museale interna alle mura. 02. Itinerari panoramici: l’esempio di Castel San Pietro. 03-04. Viste di progetto: punti panoramici con installazioni e nuovi percorsi pedonali tra le mura.
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QUASI ARCHITETTI 05. Il Parco delle Fortificazioni: tre aree strategiche di riqualificazione. 06. Vista di progetto: nuovi spazi pubblici. 07. Sezione progettuale: la nuova passerella di collegamento tra i terrapieni dei bastioni austriaci. 08. Masterplan di progetto: Porta Palio e Porta Nuova; Bastione di Santo Spirito e dei Riformati. 09. Masterplan di progetto: Bastione della Santissima Trinità e di San Francesco. 10. Il nuovo parco della cinta magistrale.
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collinare, che comprende Castel San Pietro. Come punto di partenza per la buona riuscita di queste strategie progettuali vi è la risoluzione dei punti critici in cui si riscontra una forte congestione di traffico, evidenziata soprattutto nei pressi delle porte monumentali. Un decentramento del traffico porterebbe a una migliore vivibilità della città e quindi anche delle mura, attuabile attraverso la definizione di una nuova rete ciclopedonale, di un miglioramento del trasporto pubblico con corsie preferenziali e dei parcheggi scambiatori. In questo modo, risolte le criticità, si può individuare una nuova rete muse-
ale interna alle mura, un “ecomuseo”, che metta a sistema i musei esistenti e tutti quegli edifici ad oggi dismessi ma con potenzialità attrattive (come ad esempio l’Arsenale). Contemporaneamente si svilupperebbe l’idea di “un’infrastruttura verde”, una rete multifunzionale di spazi verdi, già esistenti o nuovi, con la finalità di ripristinare una connessione tra le mura e la cintura di forti presenti all’esterno del centro storico. In questo modo si creerebbe un vero e proprio parco con la rifunzionalizzazione dei forti come musei di quartiere e non più come meri luoghi di passaggio.
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scuola Università degli Studi di Trento Corso di laurea specialistica in Ingegneria Edile-Architettura titolo Il Parco delle Fortificazioni di Verona La riqualificazione della cinta magistrale a destra dell’Adige 07
il parco delle fortificazioni
Un processo definito di “ri-animazione” è sviluppato nel masterplan di Michele Brunelli per la cinta magistrale a destra dell’Adige, nel suo lavoro di tesi premiato al concorso “Città di Verona” (2019). La sola tutela del patrimonio storico non è più sufficiente, ma deve accompagnarsi ad un processo di rinascita; solo la combinazione di queste due azioni permetterà una cosiddetta “conservazione attiva”, garantendo un vero e proprio lavoro di valorizzazione. Una “ri-animazione” che lavora a diverse scale, attraverso la metodologia del layering process, ovvero una sovrapposizione di diversi progetti puntuali che, interagendo tra loro, portano alla realizzazione di un nuovo parco lineare. Si cerca in questo modo di evitare lo sviluppo di “isolati” delimitati e slegati tra loro, privilegiando la nascita di superfici aperte e permeabili. Questo progetto non si limita alla riqualificazione della fascia verde adiacente alle mura, ma include molti altri spazi legati ad esse, come ad esempio caserme e forti austriaci, ex ospedali militari e polveriere. Le diverse azioni progettuali permettono dunque, attraverso la loro diversità e interazione, di trasformare le criticità ad oggi presenti in opportunità. La scelta de-
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progetto Michele Brunelli relatori prof.ssa Claudia Battaino prof.ssa Alessandra Quendolo correlatore: PhD arch. Luca Zecchin anno accademico 2017-2018
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QUASI ARCHITETTI 11. Strategia progettuale e individuazione dei luoghi di valore. 12. Area nord: strategie di riqualificazione e rifunzionalizzazione.
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gli ambiti di intervento è stata dettata dalle potenzialità e criticità riscontrate, oltre che dalla loro localizzazione nel sistema del parco. Attraverso una sperimentazione condotta su tre aree differenti, luoghi marginali vengono restituiti alla città come nuovi spazi pubblici. Tre brecce urbane nella cortina muraria diventano il segno comune da cui partire, diventando degli scenari “dimostrativi” per la rigenerazione urbana. Le criticità riscontrate sono da ricondurre principalmente alla discontinuità venutasi a creare a causa dell’interramento del vallo in prossimità delle brecce. Questo ha provo-
cato un isolamento dei bastioni e una conseguente alterazione percettiva delle mura, come accade ad esempio nell’area del bastione di S. Spirito e dei Riformati. La rigenerazione avviene in questo caso tramite la creazione di un nuovo spazio pubblico al di sotto della quota stradale, che garantisce la continuità del parco, oltre ad una passerella che riconnette i terrapieni dei due bastioni austriaci. Ecco come le mura tornano ad essere vivibili, attraverso nuove piantumazioni e percorsi, punti di sosta panoramici, e ad avere un ruolo urbano connesso agli altri luoghi pubblici della città.
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scuola Politecnico di Milano Scuola di Architettura Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni Corso di laurea magistrale Architecture and Urban Design titolo Ago Filo Nodo Verona e la via dell’acqua progetto Marta Begnini relatore prof. Afonso Rui Manuel Trindade Braz anno accademico 2019-2020
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13. Schizzi progettuali. 14-15. Viste di progetto: la piazza verde sull’acqua presso il mezzobastione della Catena e la nuova passerella urbana.
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verona e la via d’acqua
Connettere per valorizzare è la metodologia alla base del processo progettuale, applicabile anche nei confronti del fiume Adige. è quello che Marta Begnini propone nel suo lavoro in cui, attraverso un processo definito di “agopuntura”, vi è la volontà di risolvere la mancanza di relazione tra la città e il fiume, per mezzo di interventi mirati che valorizzino l’e-
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sistente. Si vuole definire, dunque, un percorso che permetta un’interazione continua ed uniforme su tutto il territorio tra la città e il fiume, così da ordinare i percorsi già esistenti e crearne di nuovi. Le azioni applicabili al territorio sono diverse e sintetizzabili in tre punti cardine. “Mettere in risalto”, ovvero ridare luce ad elementi del territorio non valorizzati ma ritenuti di pregio. “Consolidare i valori” di quei luoghi che in parte lo
sono già, ma che necessitano di essere potenziati. “Mettere in relazione” i vari ambiti attraverso la creazione di nuovi percorsi sul fiume. La risoluzione delle problematiche esistenti a piccola scala permette il raggiungimento di un nuovo percorso nel territorio, maggiormente fruibile da parte degli utenti, il cui protagonista è il fiume Adige. Le varie proposte messe qui a confronto hanno come filo conduttore
la volontà di promuovere la riqualificazione di elementi identitari della città, senza snaturare i loro caratteri originari ma piuttosto valorizzandoli, come elementi portatori di storia, cultura e pregio per Verona.
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Architetti veronesi raccontano la loro esperienza professionale “fuori dalle mura”
Approdo a NYC
L’esperienza di Matteo Biasiolo, architetto veronese al lavoro nelle megalopoli di Hong Kong, Tokyo e New York
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Testo a cura di: Leopoldo Tinazzi
Tra le motivazioni implicite che possono spingere uno studente ad iscriversi alla facoltà di architettura, c’è sicuramente quella che la nostra formazione è spendibile a livello internazionale, non ha confini. Nonostante le barriere linguistiche, basta saper disegnare. L’architetto può lavorare nel suo paese d’origine, così come nel più lontano dei luoghi facendo essenzialmente la stessa cosa. D’altro canto, però, vale anche il contrario. Al giorno d’oggi, in Italia, difficilmente farò lo stesso tipo di lavoro rispetto ad un collega che vive, ad esempio, in Cina, o meglio: la possibilità di lavorare su masterplan e progetti a larga scala saranno inevitabilmente maggiori, qualora io scelga di intraprendere una carriera all’estero.
Perché questo? Da un punto di vista storico, perché, ad oggi, le opportunità che si possono trovare lavorando per paesi in cui c’è un mondo da costruire non si possono trovare in una realtà in cui è stato costruito fin troppo, e anche le interessanti occasioni di intervenire sull’esistente vengono spesso sprecate. Da un punto di vista contingente, perché la qualità del lavoro (e soprattutto del nostro lavoro) in Italia è molto bassa. Soprattutto per un giovane appena uscito dall’università. Dalla considerazione di questi due fattori nasce, nel 2013, la difficile scelta dell’architetto Matteo Biasiolo: abbandonare amici, famiglia e luoghi cari per lasciare un mondo del lavoro incerto e
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01. OCD, Dalseong Citizens Gymnasium, concorso (menzione d’onore), 2014. Sulla destra, ritratto di Matteo Biasiolo. 02. Onsite Studio, case sociali nel quartiere Sant’Ambrogio, Milano, concorso (primo classificato), 2012. 03. Onsite Studio, architetture di servizio all’interno del sito Expo, Milano, concorso (primo classificato), 2012. 04. ICE HK, Vietnam Telecommunication Tower, Hanoi, concorso (secondo classificato), 2014.
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Dove hai compiuto la tua formazione accademica? Al Politecnico di Milano (Leonardo) e poi ho fatto un anno di Erasmus alla ETSAM di Madrid, dove ho preparato la mia tesi di specialistica. 02
con scarso futuro, seppur stesse facendo pratica in un celebrato studio milanese. Nel 2013 infatti Matteo intraprende un internship ad Hong Kong, presso lo studio ICE HK. Qui ha la possibilità di lavorare in un ambiente in cui le responsabilità vengono affidate anche ad un giovane, per partecipare attivamente a progetti di grandi dimensioni e concorsi a cui lo studio viene invitato. L’aria è molto diversa rispetto all’Italia. Oltre la stimolante varietà delle commissioni, sono il rapporto con i propri datori di lavoro e il più vasto orizzonte di un avamposto della contemporaneità a rendere questa prima esperienza l’inizio di una carriera fuori dall’Italia, passando per il Giappone e approdando nel 2015 a New York, dove Matteo tuttora vive e lavora. Quando hai deciso di fare l’architetto? Non c’è un vero e proprio aneddoto. Ho sempre giocato con i Lego fin da piccolo, sono sempre stato interessato alle costruzioni e all’ingegneria. Mio padre Armando è geometra.
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Quali sono state le tue esperienze lavorative? Appena laureato ho cominciato a lavorare a Milano, per un mio professore del Politecnico. Poi mi sono trasferito a Hong Kong dove per due anni ho lavorato per ICE (Ideas for Contemporary Environments-ex OMA director) e poi per un altro anno a Tokyo dove ho lavorato nello studio di Sou Fujimoto; infine, New York, Space4architecture ed ora SOM. Quando e perché hai iniziato a pensare di andare all’estero? Ho iniziato fin da subito a metterla in conto come possibilità, per il fatto che il modello lavorativo italiano non è meritocratico e spesso, quasi sempre, si viene considerati dei privilegiati o dei fortunati ad avere un lavoro. E questo è il metro sui cui si misurano gli stipendi da apprendisti; non è tanto per il denaro in sé, ma per la motivazione. La disoccupazione è una piaga difficile ovunque, non solo in Italia; chi lavora sicuramente è fortunato, ma il lavoro è lavoro e credo sia importante motivare la crescita delle persone che hanno passione. Io ho deciso di andare all’estero
per mettermi in discussione, per cercare di crescere professionalmente, più velocemente, e ho deciso di spostarmi e provare l’esperienza delle megalopoli (Hong Kong, Tokyo e New York) perché mi piace la città, o il suo estremo più articolato e complesso. Prima di arrivare in America, sei passato anche dallo studio di Sou Fujimoto. Che ricordi hai di quell’esperienza? Da occidente vediamo l’architettura contemporanea giapponese come icona del minimalismo, della pulizia e della cura dei particolari. Per questo, per me, è stato sorprendente imparare che quel determinato risultato finale proviene dal caos di uno studio d’architettura tipicamente giapponese: un enorme quantità di modelli accatastati, scatoloni pieni
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05. Sou Fujimoto Architects, Solo House, Matarrana (ES), 2015. 06. Sou Fujimoto Architects, Ochoalcubo “Harmonious House”, Los Vilos (CL), 2015. 07-08. Sou Fujimoto Architects, Omotesando Branches, Tokyo (JP), 2015.
di materiali, piani di lavoro di compensato, persone che dormono sotto i tavoli e, soprattutto, moltissime ore dedicate a raggiungere quei risultati. Tutto questo deriva dal fatto che in Giappone il capo, o sensei, non ti dirà mai se un progetto, un design, un’opzione va bene o se una direzione è meglio di un’altra. Per il loro approccio, il sensei non può interferire nel processo di progettazione personale, per questo di solito, mentre tutti noi siamo abituati spesso a presentare le famose tre opzioni, nel processo di progettazione giapponese, si viene spronati a presentare letteralmente tutte le opzioni possibili, quindi decine e decine di modelli, spesso di carta per essere più veloci. Successivamente il sensei ti aiuta a scartare quelle meno interessanti, e produrre il secondo round di tutte le altre opzioni possibili e via così, accumulando ore e ore di lavoro, che sul momento possono essere frustranti, ma piano piano nel processo fanno emergere il progetto.
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Tra i tanti lavori nel tuo portfolio ci sono anche diversi concorsi, tra cui una menzione d’onore all’Europan 13, sito di Jyväskylä, in Finlandia. I concorsi sono sempre stati una parte fondamentale della mia esperienza professionale; alcuni vinti, alcune menzioni, ma la grande maggioranza persi. In genere si dice che si ottiene qualche risultato ogni quindici concorsi, quindi bisogna farne tanti! Ne ho sempre fatti anche con amici al di fuori delle ore di lavoro, come ad esempio l’Europan 13. Ora a SOM ne vedo tantissimi e, data l’importanza dello studio, spesso sono ad inviti: a volte competi con dieci altri studi, altre volte solo con due o tre.
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Adesso sei Associate, dopo essere stato Senior Architect, per Skidmore, Owings & Merrill, di che cosa ti occupi all’interno dello studio e su quali progetti stai lavorando? A SOM c’è praticamente tutto quello che riguarda il mondo delle costruzioni, essendo una firm che è ai vertici del mercato da più di ottant’anni. Oggi è tra i più grandi studi d’architettura del mondo, con quasi 1.200 professionisti. Quindi qui ce n’è per tutti i
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09. OCD, Dalseong Citizens Gymnasium, concorso (menzione d’onore), 2014. 10. OCD, Europan 13, quartiere residenziale a Jyväskylä (FIN), concorso (menzione d’onore), 2016.
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gusti: diversi rami dello studio operano in ogni declinazione del nostro settore, dal concept design alle fasi esecutive, su progetti di scale diverse di tipo residenziale, commerciale, direzionale e infrastrutturale. All’interno dello studio si trovano anche i reparti di ingegneria strutturale e impiantistica, con progetti in ogni parte del mondo. Personalmente ora mi occupo di progetti mixed-use; il mio ruolo è di puro designer, quindi il mio compito è far funzionare l’idea, per poi renderla progetto esecutivo in collaborazione il team tecnico. A New York ho lavorato sul progetto di riqualificazione di Penn Station e sul progetto di un grattacielo supertall a Midtown. Negli ultimi mesi mi sto concentrando su progetti in Asia. Precisamente, ora sto seguendo due progetti: un centro polifunzionale di quasi 920.000 mq a Seoul e una torre a Singapore, che una volta realizzata diventerà l’edificio più alto della città-stato. Questi progetti sono enormi. Per dare un’idea, il team per il progetto di Singapore è di quasi quaranta persone e siamo ancora nella fase del concept.
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11. Space4Architecture, Veranda Place, Manhattan, New York (NYC), 2015. 12. Space4Architecture, abitazione privata, Manhattan, New York (NYC), 2015.
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13-15. Space4Architecture, East Brodway Tower, Manhattan, New York (NYC), 2017.
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Il progetto di Seul è un complesso di tre torri. Quali sono le linee guida di un progetto di questo tipo? Le torri sono destinate agli uffici di un’azienda automobilistica. L’idea è quella di creare un grande landmark urbano, in cui, oltre alla funzione direzionale si possa creare un nuovo spazio pubblico, caratterizzato dal verde e da installazioni d’arte. In questi progetti, per la loro stessa scala, l’obbiettivo è sempre quello di creare un pezzo di città che dia plus-valore al contesto urbano, riflettendo i valori del committente. Quali sono secondo te le qualità dell’approccio lavorativo che hai visto nelle tue esperienze estere rispetto a quello italiano? Credo che una delle evidenti differenze tra quello che vedo ogni giorno e il panorama italiano (anche se sono sette anni che sono assente) siano la velocità e le tempistiche. Tutto per me è fin troppo veloce, al punto che a volte non si ha nemmeno tempo per pensare; i clienti sono molto esigenti, vogliono ottimi risultati in tempi strettissimi. Si parla di progetti con business plans stratosferici,
quindi ogni giorno è veramente denaro. Mantenere standard di design elevati con queste tempistiche è veramente una sfida, ma forse è anche il bello di progettare in queste circostanze. Il lato negativo è che spesso devo lavorare 70 ore alla settimana e, avendo a che fare con l’Asia, ho spesso riunioni alla sera tardi o alla mattina presto, spesso coincidenti. Quali sono invece le qualità dell’approccio italiano che hanno dato un valore aggiunto alle tue esperienze estere? Credo che la qualità del design europeo, non solo italiano, sia molto apprezzata qui negli Stati Uniti, così come in ogni parte del mondo dove ho lavorato. Forse è la nostra formazione di base, la nostra storia, le nostre culture e tradizioni che rendono il nostro modo di progettare interessante. Un concetto riassumibile nel nostro “senso del bello”. Io sono cresciuto nel centro storico di Verona, sempre in giro in bicicletta, quindi sono sempre stato abituato a vedere la bellezza, la storia e ad apprezzare la semplicità anche delle piccole cose che danno qualità alla vita così come
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16-19. SOM, Hana Dreamtown Group HQ, Seul (KR), 2020.
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all’ambiente in cui essa avviene, la città. Dal tuo punto di vista privilegiato e confrontandolo con quello che vedi tutti i giorni, quali sono le tue idee sul futuro della città? La città del futuro va oltre all’edificio in sé, e si svilupperà sull’infrastruttura, su quello che c’è tra gli edifici. L’architettura e gli spazi costruiti saranno accessori (o almeno mi piace pensarla così) di un sistema più complesso che è lo spazio pubblico, con livelli di infrastrutture che regolano la vita delle persone ogni giorno. Abbiamo visto che densificare la città o parti di città non è un problema: densità e sviluppo verticale possono essere a misura d’uomo. L’architettura, per grande che sia, può essere accessibile agli occhi di tutti (verde, meno edifici di vetro, più calore nella scelta dei materiali). Ma il problema dell’immediato futuro, dopo aver densificato, dopo avere creato milioni di metri quadrati, sarà quello di spostare una quantità sempre maggiore di persone su un sistema di trasporto obsoleto, per esempio. Come potenziare lo spazio tra gli edifici e oltre gli edifici sarà il vero nocciolo della questione. Forse creare distretti super concentrati, in un sistema già denso di per sé, sarà sempre più difficile, se manca l’infrastruttura. Forse bisognerà pensare come distribuire la densità in maniera più uniforme, creando mini-città con tutto all’interno. Per chi ti conosce c’è molto della tua antica passione per Archigram, Archizoom e OMA in questa visione. Questi temi, attuali in contesti attualmente in rapida crescita, sembrano molto lontani dagli scenari che invece interessano l’Europa
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e il tuo paese d’origine. Qui si parla di recupero e di rivalorizzare aree dismesse. Che futuro prevedi per il nostro sistema continuo di piccole città a breve distanza l’una dall’altra? Nel tempo, il mio interesse in campo architettonico si è indirizzato verso temi più urbani che compositivi in senso stretto. La mia attenzione è verso quei contesti in cui è in atto un cambiamento radicale della forma della città e dei modi di vita dei suoi abitanti. Penso d’altro canto che l’Europa non si esaurisca mai come modello e fonte di ispirazione. La nostra storia è ricchissima e ha infinite risorse e chiavi di lettura. Chissà, magari potrà rivelarsi un modello efficace anche per il più futuribile degli scenari, quando si dovrà andare oltre la densità delle megalopoli, per superarne un eventuale collasso. Verona-New York, 31 Gennaio2021
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Viaggio in provincia: da Sanguinetto a Legnago
Diario extraurbano lungo la Strada Padana Inferiore nel paesaggio costruito dall’industria del “mobile d’arte” sviluppatosi tra gli anni Cinquanta e Settanta Testi: Federica Guerra
Foto: Lorenzo Linthout
Verona
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Partiamo in una plumbea giornata di dicembre per questo reportage alla scoperta di un brano del nostro territorio estraneo agli itinerari più consueti, convinti che, nonostante lo scarso appeal, ci riserverà sorprese interessanti. La tappa di partenza è il paese di Sanguinetto, che attraversiamo un po’ sgomenti: la strada principale che struttura da tempi immemorabili la maglia cittadina, è deserta, un po’ per la pandemia, un po’ per la pioggia sottile, ma forse anche perché la sua dimensione da boulevard metropolitano, o da circonvallazione cittadina, rende piccole e inconsistenti le poche persone che incontriamo. Alla fine del paese, là dove l’urbano Corso Cesare Battisti piega rabbiosamente a novanta gradi per tornare a essere quello che era stato fin dall’inizio dell’abitato, senza soluzione di continuità – la Strada Regionale 10 Padana Inferiore – ci imbattiamo in una serie di edifici che esemplificano perfettamente quello che di lì a poco sarà lo scenario che incontreremo: al centro di un incrocio ben poco segnalato si erge l’Oratorio delle Tre Vie, detto La Rotonda, eretto nel 1747 su disegno di Alessandro Pompei; subito dietro, a fare da sfondo all’interessante architettura neoclassica, ecco la sagoma dell’ex Molino Forigo, un edificio industriale realizzato nei primi anni Settanta, poi a lungo abbandonato e ora utilizzato come deposito di macchine agricole. Tutto intorno, brani inconsistenti di edilizia residenziale, anche loro spaesati in questa frangia di piccola periferia di paese. Sta tutto in questa continua e stridente contrapposizione il significato, e il fascino al tempo stesso, dello scenario che si apre da qui fino a Cerea, lungo la Route 10.
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01-03. Alcuni degli edifici prospettanti la Strada Regionale 10, nel primo tratto tra Sanguinetto e la frazione di Venera. Mentre la scelta tipologica è ricorrente, con un fronte prestigioso giustapposto a un retro trascurabile, le declinazioni formali spaziano dall’International Style anni Settanta a pattern più contemporanei, frutto di recenti restyling.
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L’ossessiva ripetizione lineare di laboratori, spacci, artigianato di servizio e depositi è tutta riconducibile all’era d’oro della nascita e fioritura dell’industria del “Mobile d’arte”, un’epopea iniziata nei primi anni del Novecento per merito di un intagliatore–restauratore locale (tale Giuseppe Merlin), che intuì le potenzialità di questo tipo di artigianato, che assicurava un guadagno superiore a quello garantito dal duro lavoro dei campi. Ma il boom si ebbe sicuramente tra gli anni Cinquanta e Settanta, quando buona parte dell’economia locale si convertì alla
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produzione di mobili “in stile” per un’Italia borghese che scimmiottava la grandeur dei tempi passati, con i trumeau finto Settecento a dimostrare il nuovo status sociale che duramente si andava consolidando. Fu un periodo florido per queste zone della Bassa veronese, tradizionalmente povere e arretrate, tanto da spingere a sovradimensionare gli spazi pubblici, gli edifici e gli investimenti, il tutto nella prospettiva di un inarrestabile progresso economico. Gli esiti sono quelli che incontriamo lungo la Statale 10, dove leggiamo malinconicamente il naufragio di quel sogno: tra un brano ancora coltivato di campagna e un rudere di essiccatoio per il tabacco, sorgono i capisaldi abbandonati di un economia che fu. Furono bravi gli artigiani della Bassa, e per un lungo periodo, dopo il trionfo sul mercato italiano, seppero anche guardare oltre confine, aprendosi ai mercati esteri, europei ed extra europei, dell’Est e persino degli Stati Uniti. Ma poi arrivò la crisi, il cambio del gusto, le concorrenze estere e locali di zone più felicemente posizionate (lungo la Statale 434 Transpolesana, per esempio), e pian
piano questa “esaltazione” cominciò a calare, lasciando cicatrici indelebili sul territorio. Innanzi tutto un sovradimensionamento infrastrutturale, in parte esito di quella politica degli standard che prevedeva aree verdi e a parcheggio disseminate a pioggia, senza un reale disegno complessivo, e in parte frutto di un disegno urbanistico arrivato tardi, quando ormai gli insediamenti si erano già sviluppati. Il primo Piano Regolatore del Comune di Sanguinetto, infatti, a firma dell’architetto Rosario Firullo, è della fine degli anni Ottanta, allorquando il principio insediativo si era già consolidato. Lungo tutto il primo tratto del nostro Itinerario, fino alla frazione di Venera, alla Strada Regionale si giustappone una specie di controstrada dal tracciato incerto e dal disegno incompiuto, un po’ area parcheggio e un po’ carreggiata di servizio, creando una sensazione di indeterminatezza e di poca chiarezza dei confini tra spazi pubblici e spazi privati. Lungo questo tratto si trovano la maggior parte dei fabbricati inutilizzati per la produzione del mobile d’arte. La struttura è pressoché sempre la
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stessa: un edificio rappresentativo sul fronte stradale adibito alla vendita, al quale si giustappone, sul retro, l’edificio artigianale di produzione. L’interpretazione del termine “rappresentativo” è lasciata alla fantasia dei tecnici dell’epoca: si va dalla riproduzione “a occhio” dei palazzi palladiani ai riferimenti a un modernismo organico di incomprensibile derivazione, dalle citazioni di un Botta giovanile alla spiccia razionalità di edifici “brutti ma pratici”. L’attacco tra i due corpi di fabbrica, quello di vendita e quello di produzione – a cui si aggiungeva spesso l’abitazione dell’imprenditore – non è mai risolto: semplicemente i due fabbricati vengono appiccicati l’uno all’altro, nella speranza che la maestosità del davanti faccia perdere di vista la modestia del retro. Alcuni di questi edifici, pochi in realtà, hanno subito negli anni recenti un restyling architettonico cui ha corrisposto un rinnovamento dell’offerta commerciale, virata sul design contemporaneo; molti in realtà sono abbandonati, chiusi gli esercizi commerciali e in stato di degrado i fabbricati produttivi. A questi si alternano scheletri di edifici – industriali e non – mai completati, ristoranti e pizzerie chiuse, a memoria di un tempo in cui quest’area era molto frequentata da lavoratori e acquirenti, qualche edificio agricolo riconvertito. Si badi bene: il settore del “mobile d’arte” non è morto, anzi. Sono però tramontate le prospettive di un mercato dai grandi numeri, si sono ridimensionati gli spazi , non è più praticabile l’utilizzo di superfici di produzione e vendita che superavano i 1.500-2.000 metri quadri, è cambiato il target di vendita, da un artigianato alla portata di tutti a un prodotto di alta qualità e quindi di nicchia.
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04-07. L’ossessiva ripetizione lineare di laboratori per la produzione e la vendita del Mobile d’Arte forma lungo la strada un fronte compatto, a cui non corrisponde un tessuto retrostante: una sorta di scenografia teatrale. 08-11. I pochi che hanno virato la loro offerta sul design contemporaneo hanno scongiurato la crisi che ha coinvolto molti dei produttori di mobili d’arte: molti degli edifici prospettanti la SR 10 sono infatti chiusi. 12. Riferimenti classici, dalla serliana alle paraste doriche, dal frontone curvilineo ai contorni manieristi, maneggiati con mano maldestra in una curiosa soluzione formale. 12
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13. Non mancano soluzioni progettuali originali, come questo UFO ottagonale atterrato sulla SR 10 e qui abbandonato. 14-17. Anche se le più recenti realizzazioni occhieggiano a stilemi collaudati, il riferimento alla classicità è sempre in agguato. 18-19. Alcuni esempi degli anni Settanta presentano ancor oggi una loro dignità compositiva. 20. Un po’ Palazzo Thiene e un po’ Palazzo Chiericati, i leoni marmorei accolgono i clienti di questa azienda. 21. L’edificio abbandonato di quella che fu “Italsalotti2000”.
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Il mercato si è evoluto aprendosi anche ai floridi mercati mediorientali. Infatti molti laboratori sono ancora in funzione, tanto da connotare comunque la monofunzionalità dell’area; ma l’aria che si respira è comunque quella di una zona industriale in forte sofferenza, che necessiterebbe di un importante progetto di riqualificazione, a cui si stanno in parte dedicando i comuni che compongono il Distretto del Mobile di Verona. È recente, infatti, la nascita di un Osservatorio del mobile ad opera delle oltre 1.200 aziende che ancora compongono il Distretto, che produce oltre un miliardo di fatturato e impiega 6.700 addetti. Ma gli esiti sul territorio di quel boom industriale e della sua successiva contrazione, saranno difficilmente rimarginabili. Superata Venera – amministrativamente una frazione di Sanguinetto – ed entrati in quel di Cerea, la situazione parzialmente cambia. Innanzitutto perché alla monofunzionalità si sostituisce la varietà del tessuto urbano, con i negozi-laboratorio frammisti a tessuto residenziale e all’artigianato di servizio, comprese le attività di indotto che l’industria del mobile ha avviato: attività di tappezzeria, di ferramenta, di lucidatura, di restauro. Quella che resta invariata è la tipologia degli immobili di produzione, sempre scandita da un retro insignificante e da un fronte “prestigioso” che, in occasione della locazione urbana, diventa anche di un qualche interesse architettonico. Ne è testimonianza, ad esempio, l’interessante edificio a firma dell’ingegner Attilio Castellani di Verona, abbandonato dagli anni Ottanta, che ebbe il futuristico nome di Italsalotti2000 e che oggi versa in penoso stato di degrado. Anche l’impianto
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urbanistico riacquista una sorta di ordine, con l’articolazione del tracciato stradale in carreggiata, marciapiede, banchina, parcheggio, e la ricomparsa di una porzione di territorio agricolo a staccare l’abitato di Cerea dalla zona industriale di Legnago. Quando la Regionale 10 lascia il territorio di Cerea per entrare in quello di Legnago, il paesaggio cambia profondamente. La Statale 10 continua il suo ruolo di trait d’union tra le zone industriali dei due comuni, ma da un certo punto in poi non si tratta più di un area industriale storica che ha vis-
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suto le vicende di nascita e declino di cui abbiamo parlato, ma di una nuova area industriale creata ad hoc, già prevista nella Variante al Piano Regolatore a firma degli architetti Cambruzzi e Gonzato in data 1969. Considerando i tempi di realizzazione, legati anche al completamento della Statale 434 negli anni Ottanta, si può definire un’area industriale di nuova generazione, dove i tracciati stradali, gli edifici e le destinazioni d’uso sono più equilibrate e disegnano un modello più maturo di organizzazione spaziale. Nulla di innovativo,
ma la percezione di trovarsi in un’area dai connotati correnti, una fredda successione di concessionarie d’auto, fast food, ipermercati come in tutte le moderne aree industriali dell’occidente contemporaneo. Niente a che vedere con il primo tratto dell’Itinerario, dove gli edifici erano sorti per esigenze contingenti e non programmate, esito di una realtà economica e sociale in parte superata e comunque profondamente originale. Quando imbocchiamo la Superstrada 434 per tornare a Verona, uno sprazzo di sole prende il posto del plumbeo
cielo che ci aveva accolti, e la sensazione che ci rimane è quella di aver attraversato una Città invisibile: “un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio… luoghi di scambio, ma non solo di merci, scambio di parole, di desideri, di ricordi”.
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Portfolio: paesaggi sospesi
Foto: Silvia Marchesini
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01. Impianti di cima Gaibana, stazione a valle dello ski-lift. 02. Impianti di cima Gaibana, ski-lift dalla pista. 03. Impianti di cima Gaibana, stazione a valle della seggiovia. 04. Piazza di San Giorgio. 05. Condominio del noleggio sci. 06. Chiesetta di San Giorgio. 07. Condominio di San Giorgio.
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08. Cannone sparaneve, pista rossa, Cima Gaibana. 09. Impianti del Monte Tomba, stazione a monte dello ski-lift.
C’è un fascino indescrivibile esercitato dai luoghi dell’abbandono, un pensiero al condizionale, a tutto quello che potenzialmente avrebbero potuto essere ma non sono, una sospensione che appiattisce il tempo e cristallizza l’istante in cui il luogo abbandonato ha smesso di essere “luogo” ed è diventato una scenografia vuota. Carmelo Bene definisce i teatri come non-luoghi per eccellenza, spazi che smettono di essere tali quando si spengono le luci ed esce il pubblico. Così San Giorgio, sospeso oramai da anni, da quando l’ultima seggiovia ha smesso di salire, lasciato ormai solo alle cure del tempo, in cui si percepisce questa sospensione teatrale, questa spinta a riprendere vita non appena si riaccenderanno i riflettori, ma ora sopita, sognante e sospesa.
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