nuova fiera di verona un progetto di g.m.p. von gerkan, marg und partner
nuova fiera di verona – un progetto di volkwin marg: g.m.p. von gerkan marg und partner grottesco padano: un dialogo con giancarlo carnevale nuovo preside iuav– giovani architetti: nuovi bar a verona 2– mercato delle ciliege a marcellise– alessandro tutino: sul concorso di illasi– anfione zeto: tre domande a margherita petranzan– continuità e trasformazione: colloquio con volkwin marg architettiverona rivista quadrimestrale sulla professione di Architetto fondata nel 1959 - Terza edizione - Anno XV n. 1 gennaio/aprile 2007 - Aut. del Tribunale di VR n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane Spa, spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004) art. 1, comma 1, DCB Verona - Contiene I.R.
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CONSIGLIO DELL’ORDINE Presidente: Arnaldo Toffali Vicepresidente: Paola Bonuzzi - Segretario: Enrico Savoia Tesoriere: Giancarlo Franchini Consiglieri: Filippo Bricolo, Vittorio Cecchini, Gian Maria Colognese, Stefania Emiliani, Susanna Grego, Raffaele Malvaso, Andrea Mantovani, Stefano Olivieri, Paola Ravanello, Paola Severoni, Paola Tosi
La riforma delle professioni intellettuali Il tema del riordino delle professioni intellettuali risulta di difficile comprensione non solo per i cittadini, ma anche per gli addetti ai lavori e per gli stessi professionisti interessati, considerato l’immenso labirinto di proposte, di idee e opinioni che hanno caratterizzato fino ad oggi l’impegno di tutti i partiti politici presenti in parlamento nel lungo iter che attende la riforma. Ciò che appare chiaro a tutti è che il settore dei servizi professionali “non è cosa di poco conto” rappresentando un universo di circa 5 milioni di persone appartenenti a professioni regolamentate e non regolamentate e che rappresenta una quota pari a circa il 20% del pil nazionale. Partendo dall’assunto che le professioni intellettuali incidono su valori primari come la salute, la giustizia, la sicurezza, il paesaggio, ecc., è altrettanto indiscutibile che le stesse hanno anche “un ruolo essenziale per la coesione sociale”, e pertanto non possono essere assoggettate a mere logiche economiche e quindi assimilate ai servizi di impresa. La direttiva europea 36/05 approvata dal parlamento europeo nel giugno 2005, riconosce la peculiarità delle professioni intellettuali nei confronti delle attività di servizi, definendo in modo specifico la “professione intellettuale” di “interesse generale” come attività il cui accesso ed esercizio sono subordinati in forza di norme legislative, regolamentari, o amministrative dei singoli Stati membri, al possesso di determinati requisiti formativi ed al superamento di una valutazione positiva degli stessi. L’esigenza di individuare la natura e il ruolo da assegnare alle professioni e alle loro Organizzazioni, pubbliche e private, a garanzia del cittadino e a tutela degli interessi generali e collettivi connessi con l’esercizio delle professioni intellettuali, il carattere transnazionale dei mercati, impone il conseguimento
in tempi ravvicinati di livelli e di standard di innovazione dell’intero sistema del settore. La riforma è urgente, nell’interesse non solo dei professionisti ma del sistema paese, e deve essere vista come un passo avanti verso la modernizzazione del paese. Non serve ai professionisti italiani una legge di riforma che si limiti a un riassetto degli ordini e legittimi le associazioni, ma “serve una legge che consenta di valorizzare il capitale umano di conoscenza e competenza di cui i professionisti sono portatori in piena libertà ed autonomia intellettuale e organizzativa”. Le finalità e gli obiettivi prioritari della riforma delle professioni intellettuali, sono state individuate nel documento consegnato nella giornata della manifestazione del 12 ottobre 2006 a Roma dal comitato unitario delle professioni (CUP) al Presidente del Consiglio dei Ministri On. Romano Prodi, e più precisamente: - garantire e tutelare gli interessi generali e collettivi connessi con l’esercizio delle professioni intellettuali; - valorizzare il ruolo della professione e dei professionisti, quali primaria risorsa, economica e sociale, del sistema Paese; - garantire la qualità della prestazione professionale, ridurre le asimmetrie informative e assicurare condizioni di offerta che rendano effettivo il diritto di scelta del cliente; - potenziare la competitività dei professionisti sui mercati interni e transnazionali; - promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro, con particolare riferimento ai giovani; - favorire iniziative dei professionisti e delle loro organizzazioni per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà. In data 1 dicembre 2006 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega per “la riforma degli Ordini professionali e di accesso alle professioni” messa a punto dal Ministro della Giustizia Mastella. Il disegno di legge in otto articoli affronta: i meccanismi di libero accesso alle varie professioni; l’eliminazione dei vincoli territoriali nell’esercizio dell’attività; la libera concorrenza e la possibilità di effettuare pubblicità dell’attività professionale; l’abolizione dell’obbligo di tariffe minime; la riduzione del numero degli ordini, albi e collegi professionali favorendo l’accorpamento di gruppi professionali omogenei; l’obbligo del professionista di sottoscrivere un’assicurazione per i danni che potrebbe causare all’utente; la previsione di un limite massimo di dodici mesi per i tirocini professionali con la previsione di un “equo compenso”; la riforma dell’esame di Stato per l’accesso alle professioni regolamenta-
te. Molte le perplessità sollevate sul disegno di legge dal comitato unitario delle professioni (CUP), innanzitutto per il mancato confronto e concertazione promessa, ma in particolare sul contenuto e sull’esiguo numero di articoli con i quali si intende disciplinare una materia così complessa come quella delle professioni. Delle quattro versioni presentate rispettivamente il 10 ottobre, il 9 novembre, il 20 novembre ed il 1 dicembre quella approvata il 1 dicembre dal Consiglio dei Ministri sembra la peggiore, in particolare perché, rispetto al testo diffuso il 10 ottobre 2006, è scomparsa senza più riapparire nei successivi aggiornamenti la definizione di “professione intellettuale”. Altrettanta preoccupazione desta rispetto alla prima “apprezzata” versione, il testo relativo alla pubblicità nella successiva formulazione laddove viene eliminato ogni riferimento al “decoro dell’esercizio professionale” ma introducendo soprattutto la pubblicità sul prezzo, equiparando di fatto la prestazione intellettuale a “prodotti tipici dell’attività di impresa”. Il CUP ha deciso “di scendere in campo” per raccogliere le 50 mila firme per presentare al parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare composta da trentotto articoli. Non mancano tuttavia gli apprezzamenti al disegno di legge approvato, di coloro che considerano inutili “le proteste della categoria sulla difesa di posizioni ormai anacronistiche”, che invece “avrebbe dovuto affrontare in maniera diversa il dialogo con il legislatore”. È sicuramente condivisibile intervenire su tirocinio, formazione permanente, democrazia interna e controllo deontologico, rinnovando fortemente gli Ordini, facendone non “una corporazione a difesa dei propri iscritti” ma una sorta di “certificatori di qualità” dei professionisti a garanzia degli utenti, cosi come per le professionalità che “l’evoluzione socio economica ha fatto crescere fuori dagli Ordini”, anziché abbandonarle a se stesse senza regole è preferibile organizzarle in associazioni legittimate a ottenere riconoscimento pubblico. Appare tuttavia criticabile la retorica della liberalizzazione usata in un settore ove la concorrenza è già presente e l’indice di affollamento degli albi è già decisamente superiore alla media europea. Dal 15 febbraio sono iniziate le audizioni dei soggetti interessati con le commissioni congiunte giustizia e attività produttive della camera, per le osservazioni al disegno di legge. Rimaniamo in attesa dell’esito delle audizioni nella speranza di ottenere i miglioramenti auspicati. Il Presidente ARNALDO TOFFALI
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Editore Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Redazione via Oberdan, 3 - 37121 Verona tel. 045 8034959 - fax 045 592319 architetti.verona@libero.it Direttore responsabile Arnaldo Toffali Editor Filippo Bricolo Redazione: Dario Aio, Andrea Benasi, Berto Bertaso, Nicola Brunelli, Laura De Stefano, Sabina Malavasi, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo, Alberto Zanardi Questo numero è stato curato da: F. Bricolo, A. Vignolo, L. Marconato Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Anna Maritano, Clemens F. Kusch, Robert Friedrichs (GMP) Concessionaria esclusiva per la pubblicità: Promoprint Verona - Stefano Carli - tel. 335 5984516 fax 045 8589140 - info@promoprintverona.it Stampa Cierre Grafica - via Ciro Ferrari, 5 Caselle di Sommacampagna (Verona) tel. 045 8580900 fax 045 8580907 grafica@cierrenet.it - www.cierrenet.it Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli Autori, e non impegnano l’Editore e la Redazione del Periodico. La rivista è aperta a quanti, Architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.
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editoriale ultima uscita verona sud patologie e promesse della città immobile Filippo Bricolo
il progetto 12
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nuova fiera di verona: il progetto Volkwin Marg nuova fiera di verona: la realizzazione Clemens F. Kusch oltre il recinto. opportunità e limiti dell’organismo fieristico Alberto Vignolo tra il dire e il fare: l’evoluzione del linguaggio e le incognite della realizzazione Lorenzo Marconato fiera...mente a confronto Nicola Brunelli
i progettisti 42 continuità e trasformazione. dialogo con volkwin marg a cura di F. Bricolo, L. Marconato, A. Vignolo 48 g.m.p. a borgo trento, un ospedale senza limiti Nicola Brunelli, Alberto Zanardi
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von gerkan, marg und partner Anna Maritano
odeon 58 sul realismo tragico di Giancarlo Carnevale 59
nuovi bar a verona 2: caffè anselmi in piazza delle erbe
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un progetto differito: aldo rossi a montecatini terme
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mercato delle ciliegie a marcellise
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attualità dello spazio pubblico: un progetto per illasi
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le mura e i forti di verona. itinerari e percorsi
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restauro di porta san giorgio
forum per l’architettura di qualità 70
tre domande fondamentali a margherita petranzan a cura di Nicola Brunelli
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le piazze di illasi Alessandro Tutino
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grottesco padano, un dialogo con giancarlo carnevale a cura di Filippo Bricolo
ultima uscita verona sud patologie e promesse della città immobile Filippo Bricolo Verona non ha mai amato l’architettura moderna. Ogni volta che ha potuto eluderla, l’ha fatto senza tentennamenti, le poche volte che ha dovuto accettarla, ha operato senza cuore e sbrigativamente. Le rivalutazioni di alcuni momenti o di figure significative sono arrivate solo a distanza di anni, dopo che la consolatoria polvere dell’abitudine aveva sortito il suo effetto. Fisicamente chiusa da mura ben definite e arroccata in ancora più chiari e compiaciuti confini culturali, la città scaligera, ha sempre guardato di sottocchio i manifesti enfatici dei modernisti e degli innovatori. Tutto il novecento veronese è stato segnato da un atteggiamento di forte contrasto nei confronti dell’innovazione architettonica. Questo atteggiamento, sotto il profilo della ricerca, ha determinato l’isolamento della città ed il suo progressivo allontanamento dalle esperienze più significative del secolo della macchina. Ma l’arretratezza di Verona non è stata una conseguenza indesiderata. Se di ritardo si può parlare si tratta di un ritardo voluto, un frutto prezioso coltivato meticolosamente da una società
preparata e attenta, che ha saputo consolidare la sua arretratezza nel moderno mentre poneva, sapientemente, le basi per la beatificazione del suo centro storico. Bella Verona antica, di una bellezza voluta e cercata, piena di uno splendore retorico talmente convincente che, se qualcuno non conoscesse il suo lato oscuro, potrebbe quasi emozionarsi al primo sguardo. Ma l’apollinea Verona, indiscusso e contraddittorio monumento all’incanto e all’immobilismo, non è immune dalle barbarie. Basta fare un gita fuori porta e l’incantesimo finisce ben presto per perdersi nell’anarchica e spregiudicata architettura dei quartieri esterni. Qui, in agguato, ci attendono le periferie, creature avide e feroci capaci di riproporre ampliati e distorti tutti i lati negativi della modernità. Verona, nei confronti dell’architettura moderna, è quindi protagonista di due opposti e altrettanto pericolosi fraintendimenti: quello della sua negazione programmatica e acritica e quello del suo imbarbarimento feroce e cinico. Il primo è stato eletto, nel tempo, a sta-
tuto ontologico dello sviluppo e della conservazione del centro storico e il secondo si è espresso nell’housing deprimente ed illogico della periferia suburbana. Queste due posizioni, fondano la loro diversità, su una comune radice ideologica: il credo nell’impropriatezza dell’architettura moderna e la sua conseguente sfiducia nella figura dell’architetto contemporaneo. È per questi motivi che Verona non ha mai concluso e forse nemmeno aperto una riflessione seria e attenta sull’architettura postottocentesca. Anche le opere più provocatorie e avanzate di Cecchini o di Cenna non hanno determinato dibattito o discussioni accese e su di esse non si sono mai compiuti dei seri lavori di indagine critica. Ma Verona non è stata avara solo con i suoi professionisti. Passando in rassegna la sua storia recente e valutando gli innesti realizzati da importanti architetti, il bottino appare magro. A ragione si potrebbe parlare di un fallimento del moderno punteggiato da pochi e autentici capolavo-
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ri (i due gioielli scarpiani), da alcune realizzazioni controverse (le due opere di Nervi, la pavimentazione di Boris Podrecca) e da scelte di eccellenza ma attuate, pur sempre, in rassicurante continuità con azioni già testate vedasi l’affidamento a Tobia Scarpa del progetto per il nuovo centro espositivo al Cortile del Mercato Vecchio. Sintomaticamente, molti progetti che prevedevano la trasformazioni di luoghi strategici della città sono rimasti sulla carta, a volte confinati in un limbo, come il misterioso progetto di Chipperfield per l’Arsenale, altre volte abbandonati per sempre. Si è trattato di occasioni perdute, di progetti di qualità che è utile ricordare: il parcheggio di Natalini all’ex-gasometro, il parco di Rudi alla “Spianà”, il progetto sempre di Rudi con Perbellini e Bruno per il teatro romano e l’area collinare di San Pietro, la biblioteca per l’Università su disegno di Purini e Thermes, i due progetti di Giò Ponti per il tribunale di Verona e il Ponte della Vittoria, gli intriganti disegni di Rossi per Veronafiere, tutte opere già evidenziate in un felice numero di architettiverona a cui
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si rimanda (Av 35 a cura di Fiorenzo Meneghelli). Qualcuno potrebbe osservare che questa crisi di rigetto della modernità, abbia salvato Verona permettendole di sviluppare riflessioni più attente sulla sua crescita. Qualcun’altro, alla ricerca dei motivi di tale atteggiamento, potrebbe osservare che questi fattori di cautela siano in fondo propri dell’anima stessa della città, gelosa del proprio primato storico e quindi sempre restia a concedersi ai riti pagani della libertà espressiva o alle intuizioni del singolo. Qualcun’altro ancora potrebbe sostenere che aver bloccato l’immissione di soluzioni nuove abbia costretto i progettisti locali a pratiche incestuose che hanno generato esempi di scarsa qualità i quali, ripetuti e variati, hanno poi determinato quel mediocre stile comune che costituisce l’immagine poco gratificante delle nuove espansioni urbane. Ma le osservazioni possibili sul difficile rapporto tra Verona e la modernità sono molte altre. Appare infatti giustificato anche l’inveire di coloro i quali parlano di città imbalsamata, incapace di confrontarsi con l’attualità
che, con una scelta retrograda, decide di affidare ad un pur abile regista cinematografico il riassetto della sua piazza più importante. Una scelta inopportuna ed incomprensibile che da sola potrebbe compiutamente riuscire a descrivere tutta la sfiducia che la società veronese ha sempre riposto nei confronti della figura dell’architetto e dell’architettura stessa. Ma l'arroganza di chi ha accettato l’incarico senza poi accettare le critiche è superata, nel dubbio gusto, solo dal risultato stesso del progetto che trasforma una città, proiettata ambiziosamente verso le sfide del nuovo millennio, in una scenografia tutta frizzi e lazzi che piacerà molto ai nostri visitatori d’oltralpe ma che farà girare nella tomba quel loro antenato che pensava di aver per sempre estirpato il male scrivendo della natura delittuosa dell’ornamento. Stupisce che chi plaude il regista decoratore plauda, senza imbarazzi, anche il buon Tobia Scarpa che assai più saggiamente si è provato a demolire gli assurdi decori del Boito. È in questo clima di insondabile incertezza culturale, di storica negazione della
modernità e di mancata riflessione sulla sua lezione che Verona, una volta superati gli scogli insidiosi della politica, si troverà ad affrontare una delle più grandi operazioni urbanistiche ed architettoniche dell’attuale scenario italiano. A Verona Sud i nodi non risolti dall’uscente amministrazione cittadina arriveranno drammaticamente sui tavoli della prossima insieme a quelli di un ritardo culturale che è sempre più necessario sanare. Con i suoi 2 milioni 200 mila metri quadrati di aree in trasformazione, il tanto atteso quanto differito grande cantiere del Cardo, sarà il luogo dove questo rapporto controverso tra la città e la sua modernizzazione giungerà prima o poi al suo definitivo ed inevitabile epilogo. Le insidie sono molte. Paolo Portoghesi, in un suo lucido editoriale (Abitare la Terra n. 11) eleggeva la torre di Libeskind per Milano, piegata “in avanti come fosse un paraurti in gomma maltrattato da un'automobile”, a simbolo del declino della città meneghina. Una città storicamente costruita su di una complessa e collaudata rete di relazioni che, improv-
visamente, incapace di portare avanti il suo magistero, ha preferito tuffarsi nella effimera ebbrezza di una architettura alla moda, basata sul solipsismo auto-propagandista dei progettisti invitati. Proiettando tutto ciò su Verona le preoccupazioni diventano molte. Se una città come Milano decide di dimenticare la sua solidissima e sperimentata tradizione urbana e dedicarsi ad una architettura che si confonde con l'arte pubblicitaria cosa potrà succedere a Verona ancora alle prese con una mancata presa di coscienza della sua esperienza nel moderno? Il Mipim di Cannes, la Fiera che si occupa di presentare ed espone le grandi trasformazioni di aree urbane che si stanno realizzando nel mondo è un punto di osservazione privilegiato per constatare la pericolosità e gli aspetti negativi di questo nuovo modello che a Verona Sud vede i suoi primi risultati nei progetti di Rogers e Bellini. L'ovvia e banale necessità di garantire la visibilità dei singoli interventi, a fronte di grandi investimenti, ha come portato obbligatorio elementi di reale minaccia urbana come la tendenza a costruire nuove isole nelle isole
invece di tentare di ricucire i tessuti, la volontà di scovare sempre nuove e improbabili icone necessarie a garantire la riconoscibilità dell'architetto stilista e quella dell'investitore, l'uso della tecnologia decorativa ed altri tic di quella che è stata giustamente definita una partita di Monopoli globale. Il problema che dobbiamo tenere presente è che le pedine questa volta non si stanno muovendo su di un tabellone di cartone tra Parco della Vittoria e Viale dei Giardini ma attorno al nostro Viale del Lavoro. Questo numero di Architetti Verona è dedicato alla presentazione della prima opera in costruzione a Verona sud: il progetto per la nuova fiera redatto dallo studio G.M.P. von Gerkan Marg und Partner di Amburgo. Aspettando che il cielo sopra la ZAI si rassereni è necessario iniziare una intensa fase di riflessione che si concentri sull'identità della nostra città, sulla tradizione della nostra architettura novecentesca e sulla analisi critica delle singole proposte in campo. A chi verrà auguriamo buon viaggio. Ultima uscita Verona sud.
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nuova fiera di verona: il progetto Volkwin Marg
committente: Veronafiere progetto architettonico: GMP - Von Gerkan Marg und Partner Prof. Volkwin Marg collaboratori alla progettazione architettonica: Arch. Yasemin Erkan, Arch. Robert Friedrichs, Arch. Hauke Huusmann, Arch. Regine Glaser, Arch. Peter Radomski, Arch. Claudia Schultze, Arch. Heiko Thiess, Arch. Mike Berrier, Arch. Massoud Foudehi coordinamento generale per l'Italia: Arch. Clemens Kusch - Venezia progettista delle strutture: Favero - Milan Ingegneria - Venezia progettista degli impianti: Manens Intertecnica - Verona consulenza progetto del verde Land Srl - Milano staff responsabili del procedimento presso Veronafiere: Ing. Giorgio Marchi, Direttore dell'Ufficio Tecnico Arch. Sandro Casali, Consiglio Amministrazione importo globale dell'intervento: 170.000.000,00 euro (stima preliminare) dimensione complessiva intervento: superficie nuovi padiglioni per esposizioni: 116.140 mq. superficie edifici per eventi: 11.110 mq. superficie di circolazione: 12.852 mq. superficie per impianti e magazzini: 24.590 mq. superficie utile secondaria: 12.402 mq. superficie nuovi parcheggi: 16.016 posti auto direttore dei lavori: Ing. Stefano Malagò imprese costruttrici coordinate: Mazzi spa costruzioni generali, Verona Tosoni spa, serramenti e facciate, Verona Antonini spa, impianti elettrici, Verona Gelmini spa, impianti termofluidici, Verona Cordioli e C., carpenterie metalliche, Verona
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1. Modello complessivo del masterplan per la fiera di Verona 2. Le esperienze di GMP nei complessi fieristici: fiera di Nanning, Cina (1999–2003/2005)
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In uno scenario che vede l’Europa impegnata nell’affermazione della propria economia in una situazione di globalizzazione sempre più diffusa, anche le città si stanno attrezzando per consolidare e affermare le loro posizioni come localizzazioni vitali ed attraenti. In questa situazione anche i quartieri fieristici d’Europa si trovano oggi in una situazione inedita di accentuata concorrenza, che in alcuni casi è una vera e propria lotta per la sopravvivenza e devono quindi impegnarsi per il loro sviluppo futuro. La concorrenza fra città fieristiche è in atto già da qualche anno in Germania, il paese con una grande tradizione in questo campo e la più forte presenza di quartieri fieristici in Europa e sta avvenendo attualmente anche in Italia. Milano ha da poco inaugurato il suo nuovo, immenso quartiere fieristico con una collocazione strategica e vantaggiosa dal punto di vista infrastrutturale e vuole incrementare con nuove manifestazioni la sua già consolidata posizione nel mercato delle fiere in Italia. Il nuovo quartiere fieristico di Rimini, inaugurato nel 2001, ha dato alla Fiera e alla città un nuovo forte impulso che si
consoliderà ulteriormente con il Nuovo Palacongressi in corso di realizzazione. Abbiamo avuto l’occasione di redigere questi due progetti sulla base delle altre esperienze progettuali per complessi fieristici e congressuali (tra gli altri Lipsia, Hannover, Düsseldorf, Friedrichshafen oltre a Nanning e Shenzhen in Cina) e quindi di maturare la conoscenza dei diversi aspetti che contraddistinguono queste tipologie. In questo ambito va iscritta la decisione di Veronafiere e della città di Verona di affrontare in maniera propositiva lo sviluppo e la riqualificazione complessiva del quartiere fieristico, cresciuto nei decenni senza un piano unitario, inquadrando la riprogettazione di una struttura cosi complessa nella riqualificazione e riconversione complessiva dell’area direttamente circostante. Per Veronafiere si ponevano, come per altri quartieri, l’alternativa di mantenere e sviluppare le manifestazioni radicate a Verona nel quartiere esistente, realizzare un nuovo quartiere in un’area esterna oppure doversi, con il tempo, ritirare dal mercato delle fiere. Nel giugno 2004 siamo stati incaricati di sviluppare uno stu-
dio di fattibilità sulla ristrutturazione, l’ammodernamento e l’ampliamento del quartiere fieristico. Questo lavoro è stato realizzato in costante dialogo con la direzione della fiera ed è stato presentato e discusso al Consiglio d’Amministrazione. Il risultato è stato un Masterplan che prevede l’ampliamento e la riqualificazione complessiva per fasi successive, ognuna delle quali garantisce la continuità del funzionamento dell’attività fieristica. Il progetto interviene sia sulle aree di attuale proprietà della Fiera sia su aree ancora non acquisite, ma destinate dagli strumenti urbanistici allo sviluppo della fiera. Lo scopo del Masterplan doveva essere la graduale modernizzazione delle strutture, ormai non più adeguate alle esigenze delle manifestazioni, e rafforzare la possibilità di allestire più manifestazioni contemporanee attestate su più ingressi, ma anche il miglioramento delle condizioni generali di visitabilità e “attrattività“ del quartiere, nonché la riqualificazione degli ingressi come elemento di identità e riconoscibilità. Le fiere hanno la funzione della presentazione di prodotti e della informazione
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pubblicitaria e questo deve essere fatto innanzitutto in maniera rappresentativa verso l’esterno, verso la città. In questo senso la riqualificazione e l’ampliamento della fiera che si sviluppa principalmente verso sud, ha come elementi essenziali la realizzazione di due nuovi ingressi ad est e ad ovest, nonché la riqualificazione dello storico ingresso a nord in prossimità della torre uffici. Le diverse fasi di ampliamento vengono poi integrate con il quartiere esistente con un sistema di percorsi subordinati che collegano i padiglioni esistenti con quelli nuovi al livello del piano terra attraverso una lunga "Mall", un percorso coperto e illuminato naturalmente e una serie di porticati e zone verdi che garantiscono percorsi pedonali coperti e piacevoli. L’ingresso storico a nord, con l’accesso alla torre uffici e al centro congressuale, viene dotato di un nuovo attrattivo piazzale con una ampia vasca d’acqua al di sopra di un possibile parcheggio interrato e porticati per coprire gli accessi. I vani scala laterali della torre uffici vengono trasformati in elementi luminosi che permettono di leggere il logo della fiera da lontano.
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Per il grande edificio esistente su Viale del Lavoro viene proposto, al di sopra di un lungo specchio d'acqua riflettente, il rivestimento con un grande e scenografico pannello che, con i suoi 230 m, diverrebbe la superficie unitaria più grande d'Italia per pubblicità. In corrispondenza dell'ingresso nord è poi prevista la sostituzione del padiglione nr. 1 con una padiglione coperto con una volta a botte adeguato per manifestazioni speciali come l'inaugurazione di manifestazioni, mostre e convegni e collegato agli altri padiglioni attraverso percorsi coperti. Il nuovo ingresso ad est è l'elemento di accesso alla grande Mall, una lunga galleria coperta e colonnata che si iscrive nella tradizione costruttiva italiana, come le Corderie dell'Arsenale di Venezia, che supera in lunghezza. Lungo la galleria si attestano i padiglioni di nuova realizzazione ad un unico livello con dimensioni variabili da 10.000 a 6.000 mq e intersecati da gallerie di servizio su due piani che ospitano i servizi generali quali ristorazioni, uffici, aree commerciali, etc. Per il Vinitaly 2006 sono stati già realizzati due padiglioni e una galleria di servizio per complessivi 20.000 mq. I padiglioni sono
coperti da travi reticolari in acciaio con ampie luci per garantire piena libertà di allestimento e hanno la possibilità di essere illuminati naturalmente oppure, a seconda delle esigenze della manifestazione, essere completamente oscurati. L’ingresso ovest al quartiere viene contraddistinto da un grande padiglione circolare coperto da una vasta cupola che può essere utilizzato flessibilmente oltre che per le manifestazioni fieristiche anche per eventi politici, di intrattenimento e sportive. Il diametro di 120 m sarebbe maggiore di quello del Palazzo dello Sport di Roma e diverrebbe cosi un primato costruttivo per l’Italia e l’Europa. La riqualificazione graduale del quartiere fieristico con i suoi tre nuovi ingressi non deve però essere intesa come intervento isolato, ma necessità della contemporanea riqualificazione di tutta l’area urbana. Le aree commerciali, industriali e produttive dismesse, incluso le aree ferroviarie che si allineano lungo i due lati del Viale del Lavoro, dal casello autostradale sino alla storica cinta muraria, devono essere trasformate in un quartiere verdeggiante con forte rappresentatività lungo un boulevard urbano.
3, 4. Le esperienze di GMP nei complessi fieristici: nuova fiera di Lipsia (1993 – 1995) e padiglioni 8/9 della fiera di Hannover (1998 – 1999) 5. Fiera di Verona: veduta dei primi padiglioni realizzati (foto: Dario Aio) Nelle pagine seguenti: 6. Planimetria generale del masterplan; nel riquadro, lo sviluppo previsto dal progetto definitivo approvato 7, 8. La nuova galleria di ingresso e la riqualificazione del fronte su viale del Lavoro
Il centro storico di Verona, circondato ancora in buona parte dalla cinta muraria storica, è un patrimonio urbano unico in Europa. Riqualificare insieme a Veronafiere anche la principale via di accesso alla città in maniera appropriata, rappresenta una sfida imprescindibile per il futuro della città.
Volkwin Marg, nato a Königsber/Ostpreußen nel 1936, consegue la laurea in architettura presso la TU Braunschweig nel 1964. Dal 1965 svolge l’attività di libero professionista insieme a Meinhard von Gerkan, con il quale fonda lo studio von Gergan, Marg und Partner, occupandosi di svariati progetti a scala edilizia e urbana. Nel 1972 viene chiamato a insegnare alla Freie Akademie der bildenden Künste ad Amburgo e nel 1974 alla Deutsche Akademie für Städebau und Landesplanung Dal 1975 al 1979 è Vicepresidente e dal 1979 al 1983 Presidente del BDA Bund Deutscher Arkitekten (Unione degli Architetti Tedeschi). Dal 1986 è titolare della cattedra di Progettazione Urbana presso l’Università RWH di Acquisgrana. Nel 1996 riceve il Premio per l’architettura Fritz Schumacher.
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9 9. Prospetto della nuova galleria di ingresso su viale del Lavoro 10. Progetto definitivo: pianta coperture area nuovi padiglioni 11. Sezione sulla rotonda dell’ingresso ovest 12. Progetto definitivo: pianta piano terra area nuovi padiglioni
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13. Sezione trasversale sui padiglioni e la galleria di ingresso e prospetto interno sul percorso di connessione con i vecchi padiglioni 14, 15. Il percorso coperto di connessione con i vecchi padiglioni e l’area dei servizi interposta tra i nuovi padiglioni espositivi 16. Sezione longitudinale sulla galleria di ingresso 17. Padiglione M1 per esposizioni speciali e incontri
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Il Masterplan di ampliamento e riqualificazione del quartiere fieristico di Verona prevedeva, fin dalla sua prima impostazione, una realizzazione per fasi. In passi successivi la riqualificazione dovrebbe interessare tutto il comparto della Fiera con la realizzazione di nuovi padiglioni espositivi, di due nuovi ingressi, uno su Viale del Lavoro come punto terminale di una galleria vetrata e uno sul margine sud-ovest in corrispondenza di un grande padiglione circolare oltre alla riqualificazione dell’ingresso nord e del piazzale antistante. Il vincolo determinante per la programmazione dei lavori è stata la necessità di garantire l’operatività della Fiera durante tutte le fasi di cantiere ed aumentare con ogni fase, anche in caso di sostituzione di padiglioni esistenti, la superficie complessiva dell’area espositiva. Le attività andavano inoltre definite in maniera tale da avere le nuovi superficie espositive disponibili per la manifestazione Vinitaly che, per estensione e numero di visitatori, rappresenta la manifestazione più impegnativa che viene ospitata a Verona ogni anno. Come primo tassello di attuazione del
Masterplan è stata definita, insieme ai tecnici dell’Ente Fiera, la realizzazione di due nuovi padiglioni sul margine sud del comparto Fiera, parzialmente su terreni di nuova acquisizione. Questo primo intervento, realizzato in una zona dove i condizionamenti del cantiere all’attività della Fiera nella sua organizzazione precedente al Masterplan risultavano ridotti, ha rappresentato una sorta di prototipo per la tipologia dei padiglioni che sarebbe stato adottato successivamente anche per la maggior parte delle nuove strutture. Nelle richieste del committente il padiglione doveva garantire la massima funzionalità mentre la rappresentatività e la nuova immagine architettonica del quartiere fieristico veniva affidata agli altri elementi del Masterplan, ossia alla grande galleria centrale con il nuovo ingresso su Viale del Lavoro e la grande struttura a cupola sul lato ovest. Oltre allo spazio espositivo era necessario anche uno spazio per servizi di supporto (ristorazione, uffici, servizi generali, servizi igienici) che, nel caso del primo ampliamento, è previsto centralmente tra i due padiglioni in prosecu-
zione della spina di servizi nord-sud già presente nelle strutture esistenti. Per il padiglione l’esigenza espressa dal committente è stata di avere uno spazio espositivo monoplanare (soluzioni a più livelli sono state scartate a priori per gli elevati costi e i forti vincoli per quanto riguarda la movimentazione sia per l’allestimento sia per i visitatori), superfici espositive possibilmente prive di sostegni intermedi, parziale illuminazione naturale con possibilità di oscuramento e flessibilità nell’uso. Per quanto riguarda le strutture in elevazione è stato adottato un sistema già sperimentato di pilastri in c.a. con un passo di 12 m e tamponamento in pannelli prefabbricati. Tale soluzione permette tempi di montaggio e un avvio di cantiere veloce. Per la copertura, ipotizzata fin dall’inizio in acciaio, dopo la verifica di diverse alternative, è stato definito il passo strutturale: travi reticolari principali in acciaio con una luce di 42 m e travi secondarie con una luce di 24 m. Tale soluzione appare un adeguato compromesso tra l’esigenza di avere superficie prive di pilastri intermedi possibilmente grandi, un’altezza
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1. Padiglioni 10-11: il portico di ingresso all’area dei servizi (tutte le foto: Dario Aio) 2. Le fasi di realizzazione del masterplan 3. Prospetto del portico di ingresso ai padiglioni 10 e 11 4. Sezione verticale delle coperture dei padiglioni con la fascia vetrata 5. Veduta interna di un padiglione a livello della copertura
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delle travi non eccessiva, costi di realizzazione e una logistica di cantiere adeguati, visti anche gli scarsi spazi a disposizione per movimentazione e lavorazioni a piè d’opera. Per le travi da 42 m è stato infatti possibile l’assemblaggio in officina e il trasporto in cantiere dove potevano essere montate direttamente sulla struttura in c.a. L’organizzazione planimetrica dei padiglioni fa riferimento ad una maglia espositiva di 4 x 4 m con corridoi di distribuzione larghi 4 m. L’approvvigionamento dei singoli stand avviene attraverso un canale interrato percorribile con passo di 12 m, realizzato con elementi prefabbricati, che si dirama dal piano interrato del corpo centrale dove si trovano i vani tecnici. Tale soluzione è stata privilegiata (al posto della soluzione comunemente utilizzata nei padiglioni fieristici, ossia canali di dimensione ridotta non percorribili all’interno con coperchi continui) per garantire una maggiore flessibilità e velocità di intervento. L’approvvigionamento degli stand puoi infatti avvenire da parte del personale della fiera in ogni momento indipendentemente dall’atti-
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vità di allestimento o disallestimento. L’illuminazione naturale è garantita attraverso lucernari in copertura e una vetrata che corre lungo tutto il perimetro del padiglione da quota +7.50 m a quota +8.25m, ossia in corrispondenza delle travature principali. Tutti gli elementi vetrati sono oscurabili per poter avere un padiglione “black-box” richiesto per certi tipi di manifestazione che preferiscono adottare esclusivamente luce artificiale. La ventilazione con aria calda e fredda avviene attraverso canali di distribuzione posti in senso longitudinale con ugelli di lancio e alimentate da roof-top posti in copertura. Tale sistema garantisce un autonomia dagli altri padiglioni e un controllo maggiore delle condizioni all’interno del padiglione nonché una veloce “messa a regime” del padiglione. Per quanto riguarda la sicurezza antincendio, le travi di acciaio hanno un trattamento con vernici ignifughe che garantiscono una resistenza al fuoco di REI 60, mentre le vie di fughe attraverso i portoni perimetrali garantiscono il deflusso rapido anche per manifestazioni con un elevato numero di parteci-
panti. L’evacuazione dei fumi e un certo grado di ventilazione naturale sono garantiti attraverso i lucernari in copertura comandati dal sistema di rilevazione d’incendio. Il corpo centrale di servizi si articola su tre piani, ed è contraddistinto da un maggiore grado di finitura e di qualità dei materiali. Al piano interrato sono previsti, oltre ai vani tecnici, il blocco dei servizi igienici e, al piano terra, spazi per bar, salette riunioni e uffici per i servizi agli espositori. Al piano primo, con affaccio sulla zona sottostante, si trovano il ristorante e altri spazi ad utilizzazione flessibile a servizio delle manifestazioni. I lavori sono stati realizzati attraverso sei diversi appalti omogenei per lavorazioni, e per ognuno è stata fatta una gara d’appalto su invito. Tale suddivisione dei lavori necessita un maggiore lavoro di coordinamento e di programmazione durante il cantiere, ma permette contemporaneamente di avere un maggiore controllo della qualità e dei tempi di esecuzione avendo come interlocutori direttamente gli esecutori delle opere. Inoltre permette anche di programmare
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gli appalti e quindi anche la progettazione in maniera cadenzata sulla base di un programma lavori complessivo. Il cantiere per i circa 20.000 mq dei padiglioni 10/11 è stata consegnato a maggio 2005 e i nuovi padiglioni sono stati consegnati, dopo meno di 10 mesi, puntualmente per il Vinitaly ad inizio aprile 2006.
Clemens F. Kusch (Roma, 1963), si è laureato nel 1989 e ha conseguito il Dottorato di Ricerca nel 1993 presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dove ha svolto anche attività didattica come professore a contratto. Dal 1995 svolge attività di libera professione a Venezia nei settori della progettazione urbana e architettonica. È corrispondente della rivista DBZ Deutsche Bauzeitschrift per la quale ha curato numeri monografici sull’architettura spagnola, italiana e portoghese. Ha inoltre pubblicato numerosi progetti e testi critici sull’architettura contemporanea in riviste italiane e tedesche. Dal 1997 collabora, in qualità di coordinatore generale in Italia, con lo studio von Gerkan, Marg und Partner di Amburgo. È inoltre referente locale per diversi studi ed istituzioni tedesche, tra le quali i responsabili del padiglione tedesco alla Biennale di Venezia.
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6. Rappresentazione prospettica della galleria dei servizi 7. La galleria dei servizi: veduta interna
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8. Veduta dell’ingresso 9. Padiglioni 10-11: pianta piano terreno 10, 11. Particolare costruttivo e veduta dell’attacco tra pilastro e travi reticolari 12-17. Vedute interne ed esterne dei padiglioni 10 e 11
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oltre il recinto. opportunità e limiti dell’organismo fieristico Alberto Vignolo
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L’edificio di gusto garbatamente eclettico che si affaccia su via del Pontiere, formato da due palazzine congiunte da un portico, riassume inaspettatamente alcuni caratteri emblematici del rapporto tra fiera e città. Costruito tra il 1927 e il 1930, l’edificio in questione era sorto infatti come corpo di ingresso al Campo della Fiera, che allora si estendeva nel quadrilatero compreso tra le mura viscontee, l’attuale via del Pontiere, il convento delle Franceschine e l’Adige. Qui la fiera, di antica tradizione, aveva trovato spazio nel periodo successivo al primo conflitto mondiale, dopo avere occupato per molti anni la Bra e, come area coperta, la Gran Guardia. Per la Fiera dei Cavalli, in particolare, erano stati costruiti diversi padiglioni-scuderie, che davano una sommaria impronta rurale all’intero complesso. Il corpo di ingresso che ancor oggi vediamo può dunque simboleggiare l’ambivalente relazione tra organismo fieristico e corpo urbano. Esso definisce infatti il limite netto di una parte in se conchiusa e sostanzialmente autonoma, ma al tempo stesso ne rappresenta la porta e l’immagine sul versante pubblico, attraverso un’architettura conveniente-
mente rappresentativa nei modi e nelle forme dell’epoca. Al mutare dei tempi, la nuova fiera di Verona che il progetto GMP sta approntando, e che ipotizziamo al compimento della sua auspicabile realizzazione, si presenterà non più con un unico varco, ma con tre diversi punti di contatto tra fiera e città, sottolineati e tematizzati in maniera differente. Come un benevolo cerbero, questo organismo a più teste mostrerà il volto moderno e rassicurante del nuovo progetto, gestendo al tempo stesso con graduata modularità flussi di visitatori e usi commisurati al grande recinto. L’esigenza di crescita dimensionale di spazi espositivi e servizi, in ragione di una forte competizione tra i vari poli fieristici nazionali e internazionali, si accompagna infatti alla ricerca di una più caratterizzata identità architettonica, quale prima e più immediata immagine di modernità dell’istituzione. Gli elementi di riconoscibilità per Verona sono rappresentati dalla grande galleria sul tipo del passage, che diventa la vera e propria porta della nuova fiera; dalla cupola, che riscatta con una immagine forte e arcaica la condizione di retro del versante oc-
cidentale; dalla riforma dell’ingresso attuale in chiave fortemente scenografica. Le tre soglie mettono in relazione l’enclave cintata, al cui interno si allineano secondo una ordinata disposizione i padiglioni, con un contesto che sta vivendo una profonda mutazione. La costruzione del polo finanziario, del polo culturale e lo sviluppo delle aree inserite nella “variante del Cardo massimo” – il cosiddetto piano Gabrielli - porteranno infatti a ridefinire il volto della Verona futura propriamente nell’intorno e a partire dalla presenza significativa della Fiera. Il tessuto di opifici e magazzini che formava la Zona Agricolo Industriale, sorto a partire dall’epoca fascista, aveva indotto il piano di ricostruzione di Plinio Marconi a trasferire qui la fiera nel 1948, per una naturale osmosi con le contermini attività dei Magazzini Generali. Il contesto pienamente periferico, l’urgenza dell’età della ricostruzione e il segno dei tempi che si facevano frettolosi, hanno portato però a edificare il nuovo quartiere fieristico in maniera del tutto disorganica, senza quel carattere preciso e quell’eloquenza che caratterizza invece le architetture dei complessi di rimpetto.
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Capannone su capannone, la fiera è cresciuta accumulando i metri quadri che le hanno consentito un successo crescente, ma che di contro hanno conferito al quartiere quel volto di nessuna qualità che tutti ben conosciamo. Spicca nel tessuto dei padiglioni la massiccia presenza dell’Agricenter, oggi denominato Palaexpo, costruito tra il 1985 e il 1988 sul fronte di viale del Lavoro, che ha pesantemente ipotecato in negativo il versante maggiormente rappresentativo dell’intera cittadella. Un tentativo di riforma di questo ambito è stato affrontato dal progetto di Aldo Rossi del 1996 (cfr. “architettiverona” n. 35), che ricompone l’intera facciata con un nuovo padiglione–aula congressuale impostato sull’asse dell’Agricenter, e proteso verso la città, nei limiti che gli sono dati, per mezzo dei ponti pedonali che attraversano viale del Lavoro. Rimasto sulla carta questo progetto di impronta monumentale, lo stato di fatto della cittadella fieristica viene posto in discussione, a partire dagli anni Novanta, a causa della progressiva dismissione di gran parte del tessuto produttivo dell’intorno. Il terrain vague di aree vuote
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che si è così determinato, visibile oggi in tutta la sua cruda evidenza dopo la demolizione di molte delle vecchie fabbriche, ha rappresentato per la fiera una preziosa opportunità di radicarsi sul posto, potenziando e ingrandendo le proprie strutture. Questa fondamentale scelta non è stata certo ovvia. Come abbiamo visto, già una prima volta nel corso della sua storia la fiera di Verona ha dimesso la sua sede per trasferirsi in un’area più vasta e periferica, lasciando libero l’originario sedime per una edificazione densa e compatta, come si è puntualmente concretizzato negli anni Sessanta con la costruzione degli uffici finanziari. Ma la dismissione e la costruzione di un recinto fieristico ex novo è una prassi di intervento che ha diversi termini di paragone: basti pensare ad esempio alla recente esperienza di Milano. La tentazione di cercare un nuovo territorio di espansione c’è stata anche per Verona, ma forse la città non sarebbe stata in grado di sopportare un’ulteriore dismissione, in aggiunta al milione e ottocentomila metri quadri complessivi di Verona sud. D’altro canto, il breve tragitto che porta il pubblico della fiera
a recarsi per consuetudine anche in centro città, è una tradizione consolidata e un’opportunità preziosa per la fiera nei confronti della città, e viceversa, anche grazie a quel radicamento delle manifestazioni che nasce dalle strette relazioni con il tessuto produttivo. Compiuta così la scelta della ristrutturazione della sede attuale, e affidatone il progetto allo studio GMP di Amburgo, di fatto la Fiera, grazie ai primi padiglioni costruiti e con il cantiere che procede per stralci successivi, ha agito da volano per le operazioni immobiliari che si stanno compiendo d’attorno. Avendo preceduto temporalmente il disegno complessivo della variante Gabrielli, la cui approvazione è in itinere, il masterplan ha costantemente spinto il proprio sguardo oltre il recinto, al fine di porre in relazione il quartiere della fiera con gli elementi giudicati significativi dell’intorno. Anche gli elementi di ridisegno degli spazi aperti proposti per viale del Lavoro e per le aree limitrofe, andando oltre l’incarico vero e proprio, denotano una palese necessità di dialogo con l’intorno e la città. Ma è necessariamente alla variante Gabrielli che si deve fare ri-
1, 2. il recinto dell’antica sede della fiera in una mappa pubblicitaria della Fiera Cavalli e prospetto del corpo di accesso 3. veduta aerea dell’area attuale della fiera prima della costruzione dei nuovi padiglioni 4, 5. Planimetria generale e schizzo del progetto di Aldo Rossi del 1996 6. Veduta del modello del P.R.U.S.S.T. su viale del Lavoro con il polo culturale e il polo finanziario
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ferimento per le questioni di scala urbana, come la problematica questione dell’accessibilità e dei parcheggi. Oggi la fiera dispone di una autorimessa multipiano su viale dell’Industria, che ha la possibilità di essere raddoppiata, e utilizza per la sosta dei visitatori le aree degli ex Mercati. Nel momento assai prossimo in cui si apriranno i cantieri del polo finanziario, la situazione è destinata a deteriorare drasticamente. I due grandi parcheggi scambiatori previsti dalla variante per Verona Sud, l’uno in prossimità del rinnovato casello autostradale e l’altro nell’area dello scalo ferroviario, sono infrastrutture fondamentali, e appare perciò assai preoccupante la sconnessione temporale tra la loro previsione e una realizzazione non ancora determinata. Si riscontra una sostanziale ambiguità tra l’autonomia della fiera in quanto ente, e il suo maggioritario carattere pubblico. La Fiera si preoccupa giustamente di crescere al proprio interno e di attirare sempre più visitatori, ricchezza indiscussa per la città, ma anche fonte di congestione cronica, e demanda all’ente pubblico – di cui è emanazione la realizzazione delle infrastrutture di
supporto. Questo complesso scenario, con alcuni punti fermi e altre incognite legate ai tempi lunghi della pratica urbanistica, attiene ancora per buona parte alla cronaca quotidiana piuttosto che alla riflessione critica sulle scelte compiute. Rimangono sullo sfondo, si fa per dire, gli interessi e le aspettative dei lungimiranti privati proprietari delle aree di Verona sud. Si gioca su questo delicato equilibrio l’incontro-scontro tra le autonome esigenze della fiera e i condizionamenti del contesto. Se infatti le parti chiuse e monofunzionali dell’intorno si stanno aprendo non solo fisicamente a usi e consuetudini della città contemporanea, con la previsione di attività eterogenee e compresenti, permane come un dato di fatto la sostanziale autonomia della cittadella fieristica. Un carattere, questo, che le deriva dai modelli ai quali storicamente ha fatto riferimento, cioè dalle grandi esposizioni universali tra XIX e XX secolo, di cui rappresenta una cristallizzazione nel tempo e nello spazio. Il recinto della fiera risulta così essere regolato da una autonoma temporalità, sia nel corso della giornata – di notte si
“spegne” del tutto – che nell’alternarsi delle stagioni, con i periodi di massima congestione e altri di assoluta stasi. Una temporalità schizofrenica, quindi, che agisce sui più consuetudinari ritmi della città sia in positivo, per l’afflusso vivificante di visitatori, la gioiosa convulsione del tutto esaurito ecc., sia in negativo, con il traffico impazzito da un versante e il muto silenzio della cittadella desolantemente vuota nei periodi morti dall’altro. In ciò consiste il carattere di potenziale estraneità dal corpo urbano, che è dunque necessario regolamentare. L’apertura dei recinti è d’altro canto uno dei temi sui quali Verona si sta già confrontando con la riappropriazione delle grandi enclaves militari. Per la cittadella fieristica, il contributo del progetto GMP va pienamente in questa direzione, proponendo un serrato dialogo con l’architettura della città. Anche l’utilizzo di un linguaggio chiaramente contemporaneo, ma al tempo stesso ben radicato in una consapevole tradizione costruttiva, è l’espressione di un atteggiamento partecipe e critico, attraverso il quale la fiera si appresta a rappresentare uno dei volti della Verona rinnovata.
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tra il dire e il fare: l’evoluzione del linguaggio e le incognite della realizzazione Lorenzo Marconato Agli occhi di tutti gli addetti i lavori e non, questo ambizioso progetto rappresenta il primo concreto passo verso l’intera riqualificazione di Verona Sud. Dopo le molte ed accese discussioni, un cosciente decisionismo ha portato alla luce, di soppiatto, la sua prima creatura, destinata a crescere e, come ogni primogenita, ad aprire la strada a chi verrà. La sensazione che si coglie quando si percorrono i dintorni della fiera è di forte disagio, disorientamento e di frammentazione. I confini sono incerti e allo stesso tempo impenetrabili, non vi è rapporto alcuno tra ciò che accade all’interno di questa enclave e la città intera. Gli spazi vuoti sono assolutamente desolanti, non creano connessione tra i pezzi di questo meccano disaggregato, anzi li allontanano l’un l’altro, ciascuno a perdersi nella propria autonomia funzionale e morfologica. Maglie generatrici scoordinate, modularità incomprensibilmente sovrapposte e linguaggi diversi: tutto è il frutto di una crescita disomogenea. È da questo preoccupante assetto che Veronafiere, assieme allo studio tedesco “Von Gerkan, Marg und Partner”, ha av-
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viato un formidabile programma di riqualificazione dell’intera area, con lo scopo di riposizionare Verona in un panorama europeo che insistentemente chiede qualità del servizio, innovazione, flessibilità e rappresentatività ai massimi livelli. L’urgenza di invertire il trascinarsi di una situazione ampiamente deficitaria, ha forzatamente spinto l’Amministrazione a dar fondo alle proprie risorse e, in corsa, a prefigurare la soluzione del problema percorrendo la via della qualità. Nel marzo del 2004 è stato dunque affidato a GMP un incarico diretto, secondo una procedura alternativa a quella concorsuale, perseguita ad esempio per le fiere di Milano o da Rimini, che da un lato denota idee chiare nella scelta dei progettisti e dall’altro la necessità di stringere i tempi. Certamente il concorso, se ben ideato ed amministrato, è teoricamente in grado di innalzare il livello qualitativo dei progetti selezionati, ma è altresì fuori discussione che lo studio tedesco rappresenti, a livello mondiale, un esempio autorevolissimo nel campo della progettazione di strutture fieristico-espositive. Un significati-
vo input nella scelta dei progettisti è venuto dall’esperienza ancora in evoluzione del polo fieristico riminese e da quanto fatto dalla ferma e lungimirante amministrazione della città malatestiana. La grande esperienza e sensibilità di Volkwin Marg, socio fondatore di GMP, e dello staff che ha preso parte al progetto, ha rappresentato il miglior interlocutore che Veronafiere potesse avere per compiere questo arduo percorso verso la propria ristrutturazione. La filosofia progettuale di GMP, democratica, ordinata, semplice (nel senso positivo del termine), ma assai profonda e raffinata, rispettosa nel suo rapporto con l’esistente, ha preso forma in un masterplan che è in realtà un progetto assai dettagliato, pronto con qualche fisiologico cambiamento ad essere tradotto in esecutivo e costruito. La sfida più impegnativa del progetto è consistita nel mantenere il quartiere fieristico laddove attualmente si trova, ampliandolo, rimodulandone i confini, studiandone dettagliatamente l’accessibilità e fornendo qualità agli spazi e agli edifici, il tutto mentre la fiera continua il proprio lavoro: una vera e pro-
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pria operazione a cuore aperto. L’eccellenza di questo ambizioso programma non sta solamente nei numeri ciclopici, ma nei valori intrinseci ed estrinseci, nella qualità che esprime e nell’evidente ruolo sociale. Non a caso, proprio Marg in un suo intervento pubblico sottolineava come “l’architettura non è conosciuta per essere una forma artistica indipendente, ma la più compromettente delle arti (…) e deve essere giustificata in tutti i suoi aspetti ai committenti ed alla società (…)”. L’operazione di riordino e gerarchizzazione di tutte le strutture del quartiere fieristico, la loro reciproca connessione ed il rapporto ricreato con il confine sono le chiavi di lettura del progetto e gli elementi risolutivi per far fronte alle esigenze espresse nel programma. L’intervento si concentra sulla zona sud del quartiere, rileggendo di fatto non solo l’assetto complessivo dell’intera area, ma soprattutto il sistema dei fronti e degli accessi. Anche a Verona si coniuga apertamente il paradigma della linearità del progetto e dei suoi elementi costitutivi (tipologici, morfologici e strutturali), che fanno di GMP il promotore
di una “architettura democratica”, estesa a tutte le scale, dall’impianto urbano al dettaglio tecnologico. L’equilibrato assemblaggio di elementi fondamentali, senza mai cadere nell’autocitazione, perfeziona e affina conoscenze tipologiche e costruttive già collaudate. Una “kontinuität” questa, che costituisce per Volkwin Marg un irrinunciabile aspetto su cui fondare il proprio percorso progettuale, improntato su una semantica in logica e continua evoluzione. Per la fiera di Verona ritroviamo così, nel passaggio dalle prime idee allo studio di fattibilità, al progetto approvato, alcuni elementi già sperimentati in progetti analoghi dello studio, verificati nel loro potenziale riutilizzo fino a sedimentare la soluzione contestualmente appropriata. Non sono solo i padiglioni espositivi, elementi modulari e ripetibili, a seguire questo processo, ma soprattutto gli spazi comuni, i servizi ed i collegamenti, da cui parte la vera e propria riqualificazione del complesso. Già dai primi schemi, la maglia modulare del nuovo intervento definisce una trama di percorsi che identificano una vera e propria spina dorsale attraverso il
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doppio pettine dei nuovi padiglioni impostato appunto sulla grande galleria centrale. Su di essa si innesta, formando una T, il percorso coperto che, scandito da un ritmo regolare di pilastri, conduce verso i vecchi padiglioni, riordinando il fronte e lo spazio aperto prospiciente il versante interno del Palaexpo. La galleria si estrude all’esterno del quartiere su viale del Lavoro e con un gesto semplice, ma dall’alta rappresentatività, grazie anche alla presenza di due magnifiche “steli luminose” come nella Fiera di Rimini (1997/2001), segna l’ingresso principale e il nuovo contatto con la città. L’elemento tipologico costitutivo della galleria è il modulo di copertura, ripetuto e interrotto da spazi aperti (inizialmente tre e poi uno soltanto): il pezzo di un linguaggio architettonico consolidato e di una sperimentazione morfologico-strutturale evoluta a partire dal progetto dell’aeroporto di Berlino-Brandenburgo (2000). Questo modulo-galleria, ripetibile all’infinito, poggia su una coppia di esili pilastri che nell’idea iniziale sostenevano una struttura leggera simile ad un ponte, in cui si palesa il riferimento al
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ponte Risorgimento di Pierluigi Nervi (1968) e che, nell’evoluzione fisiologica del progetto, assumono una più pulita e leggera forma ad albero, sperimentata da GMP nel 1991 nel Terminal 1 dell’aeroporto di Stoccarda, e contemporaneamente Norman Foster per l’aeroporto di Stansted a Londra. Anche l’attribuzione della funzione di accesso alla galleria è passata attraverso soluzioni intermedie. Il primo tentativo proponeva una doppia cupola come elemento di ingresso-tipo posto sia sul versante di via Roveggia che sul fronte di viale del Lavoro; di seguito è stata provata una soluzione che richiama la hall della fiera di Rimini: un volume a pianta quadrata che racchiude una sala ipostila, spazio colonnato e illuminato da lucernari posti direttamente sopra i pilastri a formare dei veri e propri “capitelli di luce”. Questa soluzione viene meno nella versione finale del masterplan in parallelo al maggiore peso acquisito dalla galleria centrale, alla quale viene riservato un ruolo primario; rimane invece sul versante opposto la cupola, destinata alle grandi manifestazioni, con il compito di catalizzare su di sé l’atten-
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zione del visitatore. Si tratta di un’architettura dall’elevato valore simbolico, ideata con un gesto sicuro che Volkwin Marg porta con sé da tempo e che nel 2001 si era concretizzato nel progetto non realizzato per la Stuttgart Arena. Il sistema costruttivo radiale, composto da una combinazione di elementi triangolari-esagonali, è un valore aggiunto al primato strutturale della cupola, che non va letta semplicisticamente soltanto come un omaggio a Pierluigi Nervi o un generoso richiamo ai vicini Magazzini Frigoriferi, ma che rappresenta l’armonico connubio delle discipline ingegneristiche e architettoniche, segnando ambiziosamente non solo il nuovo ingresso ovest, ma l’intero quartiere fieristico. Ma questa forma pura, perfettamente circolare, che dovrebbe vivere di una propria autonomia, se da un lato riesce a risolvere il rapporto indiretto con i confini dell’angolo più difficile dell’intero lotto, dall’altro poco si presta ad essere collegata ad altri volumi che sovrasta fisicamente. Il riferimento diretto è al foyer a pianta quadrata che sembra, non solo per dimensioni, troppo debole per reggere il confronto tra
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cupola ed edificio multipiano. Oltre alla grande cupola, la presenza di strutture per meeting ed eventi assimilabili, quanto mai necessarie per rendere completa ed appetibile l’offerta di un polo fieristico competitivo, viene completata da GMP attingendo ancora una volta dal proprio repertorio di modelli consolidati, rileggendoli per Verona e collocandoli laddove il quartiere fieristico aveva bisogno di elementi chiave,enfatizzati per la propria rappresentatività senza risultare estranei al contesto. Nascono così il padiglione M1, attestato in prossimità degli uffici amministrativi, e il blocco multipiano che segna la testata ad ovest della galleria. Il primo, che più di tutti funge anche da elemento di connessione con le strutture preesistenti e di chiusura della piazza interna per le esposizioni all’aperto, parla il medesimo linguaggio degli altri padiglioni, dai quali però si distingue per la copertura voltata, scelta anche per i padiglioni di Rimini, ma in questo caso sorretta da travi reticolari in acciaio. Il secondo edificio ha una maggiore articolazione del primo, ma brillantemente risolta con un disegno semplice e so-
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brio, in perfetta simbiosi con la galleria cui fa da quinta. Esso è l’unico edificio del nuovo progetto che si dispone su più livelli (tre più un interrato) ed accoglie sale, uffici e servizi per meetings di diverse dimensioni. Di questo corpo a pianta quadrata sono apprezzabili in modo particolare le proporzioni assai calibrate, la qualità degli ambienti interni (specialmente la luminosità), il rapporto con i luoghi aperti e su tutto la linearità riconoscibile in qualsiasi intervento di GMP. Il riferimento in questo caso è l’edificio per l’amministrazione del Brandenburg-Mecklemburg di Berlino (1998/2001), una delle opere più significative dello studio tedesco. L’ultimo passo del percorso va fatto al di fuori del confine della fiera, tornando su viale del Lavoro. Qui il grigio fuoriscala del Palaexpo viene riconvertito da espositivo a polifunzionale per ospitare uffici, sale conferenze minori e servizi e rivestito esternamente con dinamici pannelli pubblicitari luminosi. L’ampio spazio antistante, sotto cui trova posto un parcheggio multipiano, viene valorizzato, come già nel progetto della Fiera di Lipsia (1992/1995), con una vasca d’ac-
qua contornata da una cortina di alberi, come prezioso luogo di sosta per il visitatore. È su questo fronte che avverrà il confronto tra i nuovi linguaggi architettonici, portatori di rinnovati valori morali ed estetici: da un lato la fiera di GMP, dall’altro il polo finanziario e quello culturale. Sarà un dialogo possibile o una corsa al primato del singolo? Oltre a questo interrogativo, ne è rilevabile un altro, strettamente connesso al primo e legato alla possibilità di tradurre studi e progetti in opere costruite. È assolutamente necessario che il progetto per la fiera, così come gli altri progetti per la città, venga alimentato da politiche adeguate e mai incerte, da programmi (anche economici) sicuri e ben studiati, con tempi definiti ed inderogabili. Troppo spesso si sono visti buoni progetti essere annientati o diventare vetusti prima ancora di essere realizzati a causa della mancanza di strategie attuative. L’auspicio è che si faccia una precisa programmazione degli interventi e che si seguano al meglio i singoli progetti per come sono stati concepiti dai loro illustri e lungimiranti ideatori.
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Questa esperienza segna la strada giusta da percorrere nell’intero e complesso episodio urbano di Verona Sud. Come il progetto di GMP è un esempio di armoniosa sinfonia, composta con equilibrio su solide basi culturali, così dovrà necessariamente essere per tutta la città. Se vacillerà la volontà di governare queste enormi trasformazioni dai risvolti sociali altrettanto estesi e se prevarrà l’interesse del singolo, non si avrà altro che una assordante cacofonia suonata dai migliori musicisti del panorama architettonico europeo.
1. Copertura terminal 1 aeroporto di Stoccarda 2. render interno del foyer dell’arena di Stoccarda 3.foto dell’atrio centrale dell’edificio per l’amministrazione del Brandenburg-Mecklemburg di Berlino 4. particolare copertura galleria progetto aeroporto BerlinBrandenburg di Berlino 5. disegno prospettiva masterplan galleria-ingresso fiera di Verona 6. sezione progetto definitivo galleria-ingresso fiera di Verona 7. render progetto per l’arena di Stoccarda 8. disegno prospettiva masterplan cupola fiera di Verona 9. sezione progetto definitivo cupola fiera di Verona
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fiera...mente a confronto Nicola Brunelli
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Le fiere, che con i molti eventi espositivi e le crescenti attività congressuali sono in grado di attirare milioni di visitatori occupano aree urbane sempre più vaste e significative, la cui valorizzazione diviene quindi fondamentale nella pianificazione della città contemporanea, mobilitando in tal senso urbanisti ed architetti di fama internazionale. I poli fieristici, infatti, da sempre sorgono e si sviluppano in aree urbane o suburbane che divengono inevitabilmente di assoluta centralità strategica finanziaria, ma anche crocevia della città contemporanea e banco di prova delle moderne soluzioni infrastrutturali. Se da una parte è innegabile che gli obiettivi delle committenze si concretizzano nella continua ricerca di maggior spazio e migliore rappresentatività, è altrettanto evidente che i progetti di riqualificazione e di nuova pianificazione debbano necessariamente proporre soluzioni capaci di allentare la pressione sulla città. Contenere i disagi, diminuire l’impatto ambientale, valorizzare la funzionalità e la qualità degli spazi interni al polo fieristico – ma anche nell’area contestuale in cui essi sono inse-
riti - costituiscono infatti le priorità di una corretta pianificazione delle aree fieristiche. Le fiere godono da sempre di un forte vincolo con il tessuto socio-economico delle città in cui sorgono, rispetto alle quali si pongono come motore di attività e servizi; al contrario il rapporto con il tessuto urbano in cui esse sono inserite risente della loro presenza ingombrante e sovente esse stesse vengono indicate come causa di disagio e come limite vincolante allo sviluppo della città. Se in effetti la caratteristica che identifica gli insediamenti fieristici italiani è rappresentata dall’essere di fatto quasi sempre parte integrante della città e non di essere collocato in aree specializzate al loro servizio, poste quasi al limite dell’organismo urbano come avviene invece per le città europee. Va comunque considerato che le città italiane da sempre hanno maturato una certa attitudine a svilupparsi e crescere attorno ad interventi di scala rilevante. Si tratta quasi di una vocazione allo “scontro” tra pubblico e privato, come testimoniano molti esempi nel passato – dal-
le strutture quali gli acquedotti e le terme nella città romana ai complessi sistemi conventuali propri delle città medievali – ma anche nelle città moderne, come gli insediamenti a volte anche violenti di stazioni, caserme, ospedali in tracciati insediativi pensati per abitati di più modesta entità. Inoltre, se in passato interventi di rilevante dimensione venivano realizzati come una sorta di “costruzione contro il costruito”, in totale separazione fisica, ma anche dialettica con il contesto ospitante, oggi una diversa sensibilità suggerisce di risolvere i problemi contestuali e di introdurre miglioramenti innovativi nelle prestazioni funzionali ma anche estetiche del tessuto urbano, infine di coordinarlo, qualificarlo e rilanciarlo. L’analisi di alcuni quartieri fieristici rappresentativi, sia nazionali che esteri, evidenzia realtà diverse che presentano comuni esigenze di funzionalità e rappresentatività. Lo studio di poli fieristici sorti in epoche diverse, dimostra inoltre che tali esigenze, unitamente alle modalità ed agli strumenti con cui esse sono state esaudite, si sono evidentemente evolute nel tempo. Se in passato vi era essenzialmente l’esigenza di spazio
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e funzionalità, attualmente gli aspetti legati all’immagine ed alla rappresentatività vengono richiesti espressamente dagli enti amministratori. È un complesso di non recentissima realizzazione basato sulla suddivisione semplice e razionale degli spazi, in cui i padiglioni multifunzione sono organizzati in modo tale da essere intervallati da due arterie tra esse collegate. Anche nel quartiere fieristico di Ferrara, progettato da Vittorio Gregotti e realizzato tra il 1987 ed il 1990, appare chiaro il prevalere della pura funzionalità. L’impianto urbano è caratterizzato infatti da una razionale planimetria a T su cui sono ordinati i 6 padiglioni ed i 4 corpi servizi. Tutta la superficie espositiva è disposta su di un unico livello e l’impianto è caratterizzato da una razionalità tipica degli edifici industriali. Nel nuovo insediamento fieristico di Rimini, progettato dallo studio GMP, realizzato tra il 1999 ed il 2001, dal punto di vista architettonico la razionalità e la funzionalità del progetto si palesano in un impianto simmetrico, costituito da 12 padiglioni rettangolari monopiano ancorati ad un asse centrale che termina nel-
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la grande cupola. La semplicità e la chiarezza dei principi costruttivi sono però accompagnati dalla raffinatezza estetica di alcune soluzioni strutturali, che identificano la Fiera di Rimini con la classica sobrietà geometrica tipica delle architetture contemporanee della scuola tedesca. Ogni padiglione è stato progettato secondo un sistema modulare per agevolare un uso flessibile, mentre le ampie volte in legno lamellare dei padiglioni, la sofisticata copertura della cupola, gli eleganti fronti vetrati, le fontane d’acqua coperte contornate di rampe di scale, la misurata vegetazione e i “pozzi” di luce, divengono eleganti elementi caratterizzanti. Lo studio Valle per il progetto della Fiera di Roma ha pensato ad una serie ripetuta di padiglioni binati, posti a pettine lungo due dorsali parallele, che costituiscono il percorso pedonale sopraelevato dei visitatori. Tali dorsali sono raccordate e collegate tra loro da un asse ortogonale. Il centro direzionale, simbolo della fiera, è visibile e riconoscibile sia di giorno che di notte, consentendo a tutti di individuare con chiarezza ed immediatezza la sua pre-
senza. Con una architettura realizzata in acciaio e vetro, trasmette attraverso la sua immagine tecnologica un efficace messaggio pubblicitario esteso a tutto il territorio circostante. Come nel caso della Fiera di Rimini, anche in questo caso è di fondamentale importanza al fine della funzionalità e dell’accessibilità al quartiere fieristico la presenza di una efficiente rete infrastrutturale, costituita da un complesso sistema di strade e di parcheggi, in parte esistente ed integrato in fase di progetto. Il nuovo polo fieristico di Milano, ultimato nel 2005 ed abbondantemente pubblicizzato, è costituito da due sedi separate e complementari: la nuova sede extraurbana di Rho-Pero ed il Polo Urbano, ovvero la parte rimanente della vecchia sede, che dopo la cessione dei due terzi dell’area continuerà ad ospitare manifestazioni e congressi. La sede di Rho-Pero è stata progettata da Massimiliano Fuksas, che ha concepito una struttura dalla spiccata “carica spettacolarizzante” che si materializza in un luogo di incontro e scambio dedicato alle persone, caratterizzando l’immagine della fiera stessa – dal punto di vista
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1-3. Fiera di Rimini (Von Gerkan Marg und Partner): l’asse di accesso con il tetrapilo luminoso, planimetria generale e veduta interna di un padiglione 4. Fiera di Roma (Studio Valle): planimetria generale 5. Fiera di Rho-Pero, Milano (Massimiliano Fuksas): la copertura del percorso tra i padiglioni (foto di Dennis Peretti) 6. Fiera di Rho-Pero, Milano (Massimiliano Fuksas): il livello inferiore del percorso di servizio tra i padiglioni (foto di Dennis Peretti) 7. Fiera di Barcellona (Toyo Ito): hotel e spazi uffici a servizio della fiera
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rappresentativo, infatti, l’intervento progettuale viene generalmente identificato quasi esclusivamente nella plastica copertura vetrata. Una maglia metallica che concretizza quel forte gesto architettonico capace di alleggerire fino ad “annullarlo” il rigido impianto razionale e funzionalistico che caratterizza in realtà anche gran parte della planimetria della Fiera di Milano. Un ulteriore elemento di riflessione evidenziato dall’analisi/confronto è rappresentato infine dalla crescente esigenza da parte delle fiere di dotarsi di hotel, ristoranti, centri commerciali e grandi sale convegni con servizi annessi. Come ad esempio nella Fiera di Barcellona, per la quale Toyo Ito ha progettato due torri di 110 metri di altezza, che ospiteranno rispettivamente un hotel e spazi per uffici. I due edifici sono collegati da una grande struttura basamentale, dove troveranno spazio anche uno shopping center ed un parcheggio. L’intervento si inserisce nell’ambito dell’importante progetto di espansione della Fiera di Barcellona che, a lavori ultimati, potrà contare su una superficie espositiva complessiva di 350.000
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metri quadri, diventando il secondo polo fieristico in Europa, dopo la Fiera di Rho-Pero a Milano. L’architetto giapponese con questo progetto si oppone alla tendenza di enfatizzare “la divisione tra interno ed esterno”, tipica dell’architettura del secolo scorso. A suo avviso è necessario “sfumare i confini”, in modo che gli edifici possano “entrare nel contesto e quest’ultimo penetrare negli edifici”. La fiera entra in città e la città entra in fiera. Jean Nouvel e Arup stanno invece lavorando sul progetto del nuovo padiglione espositivo B della Fiera di Genova, che rientra nel più ampio progetto per la qualificazione della fiera del capoluogo ligure. L’intera facciata meridionale dell’edificio si apre sul mare ed è protetta dalla luce diretta del sole tramite una copertura con aggetto di 32 metri. Il primo piano espositivo si trova a livello del mare, mentre il secondo piano presenta una facciata alta 12 metri, permettendo così l’ingresso di luce naturale in profondità. Le aperture permettono la ventilazione naturale durante le fasi di montaggio e
smontaggio degli stand espositivi. Particolare interessante: l’acqua del mare viene utilizzata per la produzione d’acqua calda e d’acqua refrigerata per il riscaldamento ed il condizionamento dell’edificio. Il mare fornisce infatti un immenso bacino di acqua e una fonte di energia, con l’ausilio di scambiatori di calore e di gruppi frigoriferi raffreddati ad acqua. La produzione di acqua per riscaldamento e refrigerazione in questo modo è molto più efficiente dei sistemi convenzionali e di conseguenza si prevede un consistente risparmio energetico. Il progetto così come è stato pensato dai progettisti, soddisfa quindi i requisiti tipici di un centro fieristico di moderna concezione, riassumibili nella massima flessibilità degli spazi, nella completa connessione degli impianti (grazie anche alla presenza di un piano tecnico dedicato alla distribuzione degli stessi agli stand espositivi) nella massima razionalizzazione delle zone espositive vendibili; inoltre esso presenta un’immagine architettonica rappresentativa e che in virtù di preziosi accorgimenti, garantisce un considerevole risparmio energetico.
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continuitĂ e trasformazione. dialogo con volkwin marg a cura di Filippo Bricolo, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo
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1. Un tedesco in Italia: veduta prospettica di Verona tratta dal volume Neue Archontologia Cosmica di Johan Ludwig Gottfried, incisione stampata da Matteo Merian a Francoforte nel 1638. 2-6. Alcuni momenti del dialogo con Volkwin Marg e Clemens Kusch.
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L’intensa attività dello studio GMP nella nostra città, con i cantieri attualmente aperti dell’ospedale di Borgo Trento e nel recinto della fiera, ci ha dato l’occasione di incontrare Volkwin Marg, contitolare dello studio e responsabile dei due progetti. Coadiuvati dal fondamentale apporto di Clemens Kusch, che svolge il partecipe ruolo di corrispondente in Italia dello studio, abbiamo sollecitato il professor Marg a proposito del suo modo di operare e, in particolare, sulle questioni sollevate dai due progetti veronesi. ARCHITETTIVERONA: Coi due nuovi padiglioni della fiera già inaugurati e con l’impegnativo cantiere dell’Ospedale di Borgo Trento, abbiamo per la prima volta l’occasione di vedere all’opera un architetto straniero nella nostra città, dove è invece consuetudine avere degli architetti legati al territorio, anche nei casi di eccellenza come sono stati, in maniera diversa, Carlo Scarpa o Pierluigi Nervi. VOLKWIN MARG: Se ci fossero ancora Carlo Scarpa e Pierluigi Nervi non ci sarebbe stato bisogno di rivolgersi ad architetti stranieri! Si potrebbe continua-
re con loro, che del resto sono stati miei riferimenti costanti durante gli studi, assieme ad Hans Scharoun. Trovo giusto che gli architetti locali operino direttamente nel proprio territorio, per evitare quella globalizzazione dell’architettura che sta disseminando di oggetti simili ogni parte del mondo. Carlo Scarpa è stato un riferimento per il dialogo tra il nuovo e l’antico, e il suo modus operandi può essere sostenuto soltanto da qualcuno che è nato e vissuto in un determinato ambiente e clima culturale. Non si può pretendere la medesima sensibilità, ad esempio, da parte di un americano o di un giapponese. Durante una delle mie visite a Verona, sono rimasto un po’ scioccato dall’intervento di Eisenmann per Castelvecchio. Nonostante questo, è per me un onore poter lavorare a Verona, perché lo sviluppo della civiltà europea ha preso avvio dal sud-est del Mediterraneo per poi giungere nel nord dell’Europa e quindi, compiere il percorso inverso e venire dal nord a lavorare qui, significa ritrovare attraversando la città le radici della medesima cultura. Nel corso della storia, molto spesso gli architetti italiani han-
no avuto modo di lavorare in altri paesi europei, basti pensare ad esempio a San Pietroburgo o più recentemente ad Aldo Rossi e Renzo Piano a Berlino. Il percorso contrario è invece solo una tendenza più recente: è così che, qualche volta, anche un tedesco può perdersi in Italia! AV: La fiera è tipologicamente un edificio decontestualizzato, una sorta di enclave nella città, che in questo caso però ha la particolarità di essere inserita in un tessuto urbano assai consolidato ma in forte trasformazione. Anche Borgo Trento è una parte di città solidamente configurata, e il vostro progetto si è dovuto confrontare con la scelta già avvenuta di mantenere lì l’ospedale. È interessante sapere come il vostro studio, che ha sempre mostrato la capacità di confrontarsi con il tessuto urbano, ad esempio nelle esperienze di Amburgo, abbia affrontato la duplice relazione tra comparti urbani definiti e monofunzionali ed i relativi contesti urbani. VM: Storicamente le fiere sono nate all’interno della città, e solo le esigenze di maggiore spazio le hanno portate ai
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margini. Questo è avvenuto nello specifico anche per la fiera di Verona, nata principalmente come fiera o mercato del bestiame e dunque senza quell’esigenza di rappresentatività che invece hanno altre fiere. Al contrario, nell’area dei Magazzini Generali, è evidente una maggior attenzione all’immagine architettonica degli edifici, in particolare quelli con le grandi arcate di calcestruzzo, dei quali esistono degli esemplari simili alla fiera di Brno, in Cecoslovacchia, ma mentre questi ultimi sono stati tutelati, a Verona abbiamo assistito alla demolizione di una metà del complesso in maniera del tutto arbitraria, perdendo delle sicure opportunità. Per quanto riguarda invece l’ospedale di Borgo Trento, premesso che è un progetto al quale siamo particolarmente affezionati, bisogna dire che la decisione dell’Amministrazione di intervenire sull’ospedale esistente, mantenendolo in piena attività, si è rivelata come voler intervenire su un paziente senza anestesia. Lavorare in un cantiere così grande e continuare a far funzionare l’ospedale è certo per noi una sfida, ma queste sono decisioni politiche sulle quali l’architet-
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to non è chiamato ad influire. Il progetto per l’ospedale di Verona per la sua unicità ambisce a diventare un modello pilota, costituito da un nuovo edificio monoblocco moderno, dai padiglioni esistenti riqualificati e integrati nel disegno complessivo, da un parco verde al centro e dal piazzale antistante riqualificato. Questo polo ospedaliero all’interno della città, dove si arriva velocemente e dove c’è un viavai costante, potrebbe, una volta completato, esprimere una qualità eccezionale per la città stessa ed essere al contempo un riferimento importante per altre realtà. Certamente il processo per arrivare a questo panorama è doloroso, faticoso, ma una volta raggiunto sicuramente potrà esprimere una qualità superiore. AV: Tornando al primo progetto, si può osservare come l’asse urbano di viale del Lavoro delimita da un lato l’area della fiera, dove l’assetto complessivo è definito, e dall’altro invece le aree del polo finanziario e del polo culturale, con una realtà ancora in completo divenire. Come vi siete rapportati con questa situazione?
VM: Trovandoci a confronto per la prima volta con il comparto della fiera, la richiesta del committente è stata quella di uno studio di fattibilità, a partire dall’urgenza di mettere ordine in un quartiere nato in maniera molto disomogenea. Noi abbiamo da subito ipotizzato di coinvolgere nel progetto anche l’area di fronte, mantenendo gli edifici dei Mercati Ortofrutticoli. L’intenzione era quella di rafforzare e di dare identità a questo viale, rapportandosi alla simmetria degli edifici esistenti e bilanciando, attraverso la creazione di un altro ingresso, quello attuale del tutto sbilanciato. Una delle esigenze principali era per l’appunto quella di riorganizzare il sistema degli accessi, perché una fiera di queste dimensioni deve avere la possibilità di allestire più manifestazioni in contemporanea, che possano attestarsi su diversi ingressi, ognuno caratterizzato in maniera differente. Così, assieme alla riqualificazione dell’ingresso attuale attraverso un grande e spettacolare pannello luminoso, la nuova galleria prevista sull’asse degli edifici dei Magazzini Generali andava a costituire il secondo
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punto focale sull’asse di attraversamento principale verso la città. Per creare un altro contrappeso agli accessi sul viale del Lavoro, abbiamo scelto un edificio a cupola, una forma piena di storia che per creare un altro fulcro importante, e che è chiaramente in relazione anche con la stazione frigorifera, anche se i due edifici avrebbero caratteristiche molto diverse. È chiaro che c’è in questo elemento l’ambizione architettonica di rapportarsi alle due cupole italiane più famose, quella del Pantheon e quella di Pierluigi Nervi, dalle quali quella in progetto parte come sviluppo del tema di una cupola moderna, da realizzare mediante una combinazione di elementi triangolari ed esagonali. Attraverso tutti questi elementi, in maniera anche un po’ ingenua, abbiamo formulato delle ipotesi per la sistemazione dell’intero asse urbano, pensando ad un cuscinetto verde tra la fiera e il centro storico. Tutto questo è avvenuto in maniera indipendente dalla variante del Prof. Gabrielli, che non potevamo allora conoscere perché ancora non esisteva quando abbiamo iniziato a lavorare per la fiera.
AV: Tocchiamo ora un punto importante per i nostri colleghi. Noi viviamo in una città abbastanza piccola, gli studi di Verona sono mediamente abbastanza piccoli. GMP conta 7 sedi divise tra Germania e Cina e circa 190 dipendenti. Nonostante la grande mole di lavoro che affronta, riesce a conferire una chiara identità ai progetti senza cadere nella ripetizione della facile firma. Come si riesce a gestire una struttura così grande, mantenendo al tempo stesso una identità precisa del proprio lavoro? VM: Sicuramente questo è uno dei problemi degli studi di così grande dimensione, anche perché c’è una fluttuazione costante dei collaboratori. Quelli più capaci, dopo un po’, vanno via e aprono il proprio “ristorante”, altri si alternano tra un progetto e un altro; per questo è sicuramente difficile riuscire a dare una continuità all’opera dello studio. Alla luce di questa situazione, ci sono tre considerazioni strategiche che abbiamo fatto nel nostro studio. Una prima riguarda strettamente la dimensione, e sta nella scelta di non diventare un “grande” studio. Un’altra riguarda l’or-
ganizzazione interna della struttura, diversa da quella adottata ad esempio dai grandi studi americani, nei quali c’è una suddivisione orizzontale del lavoro: uno ha l’idea, l’altro fa gli schizzi, l’altro li sviluppa, l’altro fa i dettagli, e così via. Da noi, invece, lo sviluppo è inteso in verticale, cioè vi sono molte più persone che vengono coinvolte in diversi momenti della progettazione: siamo un’insieme di “piccole truppe” organizzate in maniera caotica, dove però ognuno ha la sua autonomia e sviluppa un progetto dall’inizio alla fine. Il gruppo che segue il lavoro dalla fase del concorso passando dalla realizzazione fino alla fase finale, si identifica così molto più direttamente con il progetto che gli appartiene. Un’altra strategia deriva dal fatto che entrambi noi soci fondatori (Meinhard Von Gerkan ed io) abbiamo per tanti anni insegnato all’università, e con i nostri allievi e studenti, molti dei quali sono poi diventati collaboratori, era già stata impostata una sorta di “palestra di esercizi” in cui non per forza ci si doveva intendere sullo stile, ma almeno sul metodo di lavoro, coltivando così una certa affinità. Sino ad oggi, poi,
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quasi la totalità dei progetti ha visto il diretto coinvolgimento di uno dei due soci fondatori. Un altro elemento importante è quello della documentazione dei lavori fatti, attraverso l’attenta redazione e pubblicazione dei nostri libri e delle monografie. Esse danno vita ad una sorta di procedimento di archiviazione condotto in prima linea. Di fatto circa il 60-70% dei progetti prodotti viene opportunamente catalogata ed illustrata e costituisce un viatico per i collaboratori, che possono confrontarsi anche su progetti e su esperienze precedenti dello studio, che altrimenti non avrebbero modo di conoscere. AV: A proposito della vostra attività, lo studio ha una esperienza notevole di concorsi: circa 170 quelli vinti, una miriade i premi e le menzioni. Come giudica la partecipazione ad un concorso oggi in Italia, rispetto ad un affidamento diretto di incarico come quello per la Fiera di Verona? VM: Nell’affrontare i concorsi si dovrebbero tenere sotto controllo sempre due aspetti fondamentali: uno è quello prettamente razionale dell’adempimento
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alle richieste del bando, alle necessità e al funzionamento dell’edificio; l’altro è invece l’aspetto artistico o ideativo particolare del tema, che può essere più accentuato ad esempio nella progettazione di un museo e meno in altri temi. Il successo è spesso dovuto al non aver sottovalutato nessuno dei due aspetti, cioè avere in qualche maniera cercato di dare una risposta razionale alla domanda posta, senza però perdere di vista l’identità dell’edificio. In Italia si può avere successo, fortuna oppure meno… Nel concorso per l’ospedale di Borgo Trento abbiamo avuto fortuna perché tutte le richieste funzioni erano chiaramente risolte, e grazie soprattutto alla sobrietà del nuovo edificio principale e allo studio attento del parco centrale, che è stato ideato per recuperare l’identità dell’ospedale a padiglioni, siamo stati assai convincenti. Anche nel più recente concorso per l’ampliamento della fiera di Riva del Garda tutto, secondo noi, funzionava perfettamente per quanto riguarda la corrispondenza del progetto alle richieste del bando, così come per l’appropriatezza del linguaggio scelto per gli edifici, però la
giuria ha deciso di premiare chi aveva messo l’accento sull’effetto scenografico della proposta. AV: In un suo scritto, Paolo Portoghesi ricorda di essere tornato ad Amburgo molti anni dopo aver visto, nel dopoguerra, una città distrutta dalla tragedia dell’evento bellico e di averla trovata profondamente cambiata, in meglio, grazie soprattutto agli interventi dello studio Von Gerkan e Marg. L’identità di un luogo si confronta con la storia e con la tradizione, scontrandosi spesso con un’idea malintesa di modernità a tutti i costi. VM: Per quanto riguarda la ricostruzione di Amburgo, un elemento positivo per lo sviluppo della città è stato la volontà di dare seguito ad una precisa convenzione: non ogni lunedì doveva essere inventata una nuova architettura! Si è puntato soprattutto sulla continuità e sulla qualità dei singoli interventi, coordinati tra loro. Certo, le distruzioni sono avvenute per i bombardamenti bellici, ma molto più spesso le città sono state distrutte da false ideologie, o dalla mancanza di ideologie. A
7. L’ingresso su viale del Lavoro con la cupola. 8. L’ingresso su viale del Lavoro con la loggia. 9. Diagramma sul rapporto tra la fiera e la città (G.M.P.).
differenza di molti altri casi, però, ad Amburgo siamo riusciti a sviluppare e a far ricrescere la città in un clima normale, preservando l’identità della città: anche se questo mi è valso l’etichetta di “tradizionalista ortodosso”. Io sono decisamente contrario a queste ambiguità alla moda, che propongono gli stessi elementi acriticamente in luoghi differenti. Sono dell’opinione che una forma, se non è riconoscibile, è semplicemente insensata! O deriva il suo significato in qualche maniera dalla funzione, oppure trova una sua necessità da un significato derivante dalla sua storia. Il linguaggio architettonico è quindi, nella mia concezione, quello che deve derivare dalla funzione e dalla riconoscibilità come elemento della storia. Alcuni elementi classici, come la cupola, la volta, il portico, il colonnato e così via, fanno parte da sempre di una concezione del linguaggio architettonico come elemento di continuità della storia e della cultura europea. Negli ultimi cento anni, per alcuni fraintendimenti questi elementi sono stati persi, o si è pensato di doverli abbandonare in favore di un qualche filone decostruttivo, bio-
morfo o altro ancora. L’architettura parla un linguaggio di continuità, e la ripresa di questi elementi, da cui derivano i principi della simmetria, dell’assialità, del ritmo, della ripetizione, porta riconoscibilità e appartenenza nei progetti. Lo sforzo di far dialogare la parte e l’insieme in un rapporto razionale, è improntato a una ricerca della semplicità, da cui deriva la bellezza. Razionalità da una parte, e sviluppo tecnologico dall’altra, viaggiano a velocità diverse, ed è così che la razionalità deve riuscire a seguire anche lo sviluppo tecnologico. A fronte della corsa del progresso, la nostra capacità di percepire i colori, le forme, le atmosfere è rimasta sostanzialmente la stessa, e slegarsi completamente da questa consolidata e naturale percezione, intesa anche come bagaglio culturale, è davvero cinico. In tedesco esiste un modo di dire secondo il quale ”un’architettura è buona quando da anche bontà”. Quando in essa perciò si concretizzano elementi di bontà e quando non si impone in modo minaccioso e aggressivo, allora può essere considerata anche una “buona architettura”.
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g.m.p. a borgo trento, un ospedale senza limiti Nicola Brunelli, Alberto Zanardi
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Una delle priorità che la pubblica amministrazione ha dovuto affrontare, in questi ultimi anni, è stata indubbiamente la necessità di garantire alla città un ospedale capace di dare risposte veloci, concrete e definitive alle odierne istanze della medicina. L’Ospedale Civile Maggiore di Borgo Trento, realizzato nel 1914 e completato, dopo successivi ampliamenti, nel 1942 risulta oggi infatti strutturalmente ed impiantisticamente inadatto, rispetto alle moderne esigenze della medicina e degli standards minimi di sicurezza; neppure le integrazioni e le ristrutturazioni succedutesi negli anni hanno garantito all’Ospedale di Borgo Trento un sufficiente adeguamento alle evolute esigenze dei malati. Al contrario, la realizzazione del Geriatrico, poi del corpo materno-infantile e del nuovo pronto soccorso con rianimazione e, infine, di quello che sarebbe diventato il nuovo parcheggio sotterraneo per il personale, pur tamponando le singole emergenze e risolvendo momentaneamente le specifiche necessità, hanno paradossalmente aggravato una situazione complessa, che evidentemente poteva essere risolta solamente con un intervento più radicale.
L’attuale impianto a padiglioni infatti riduce sensibilmente l’efficienza e le capacità potenziali dell’ospedale, palesando limiti legati alla irrazionalità dei percorsi, alla carenza sotto il profilo alberghiero e della privacy ed obbliga tuttora l’Azienda ospedaliera ad ingenti sforzi organizzativi e ad evidenti diseconomie, a causa delle continue e sempre più frequenti manutenzioni. Non a caso le moderne tecniche costruttive prevedono per gli ospedali il ricorso al “monoblocco”; ed è infatti grazie ad un edificio “monoblocco” che un gruppo temporaneo di progettisti ha vinto sul finire del 1999 il concorso di idee, bandito dall’amministrazione degli Istituti Ospitalieri di Verona con l’obiettivo di realizzare un nuovo Polo Chirurgico, più razionale ed efficiente. La proposta progettuale del gruppo formato da Studio Altieri S.r.l. (capogruppo e coordinatore progettuale), studio Von Gerkan Marg und Partner (progetto architettonico generale), lo Studio Land S.r.l. (progetto aree verdi), la TIFS ingegneria S.r.l. (progetto impianti elettrici e meccanici) e Studio S.TE.P. (progetto impianti idrici), ha avuto la meglio sugli
altri 18 concorrenti partecipanti. Nei mesi successivi alla segnalazione del progetto vincitore, in città come tutti ricorderanno, si fece un gran parlare della scelta fatta in relazione alle diverse valutazioni sull’evoluzione delle future nuove strutture sanitarie: mentre l’Amministrazione Regionale e l’Azienda Ospedaliera premevano per la radicale ristrutturazione dell’ospedale come da progetto, l’Amministrazione Comunale sosteneva una soluzione che prevedesse la realizzazione di un moderno ospedale, costruito exnovo e decentrato rispetto al centro cittadino (ad esempio l’area dell’ex seminario, a San Massimo). Alla fine hanno prevalso le ragioni dell’Azienda Ospedaliera e, in considerazione anche dell’iter ormai avanzato e dei finanziamenti già stanziati, si è optato per la costruzione di un nuovo Polo Chirurgico su un’area di circa mq. 10.000, nella zona compresa tra i padiglioni esistenti dell’Ospedale Civile Maggiore ed il Geriatrico. Nel Luglio del 2004 il cantiere ha avuto inizio; un anno dopo, il 20 Luglio del 2005, si sono conclusi i lavori per la costruzione delle opere propedeutiche descritte dalla cosiddetta “fase 0”; opere per circa 9 milioni di
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1. Planimetria del progetto 2. Particolare di facciata 3. Vista dal parco 4. Concept 5. Modello 6. Vista dall’atrio d’ingresso
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euro che includono una cabina elettrica e una centrale per i gas medicali (poste sul lato di via Mameli) e una centrale tecnologica (termica e refrigerante) che si affaccia su Lungadige Attiraglio. Attualmente il cantiere attraversa la “fase 1”, la quale prevede la costruzione del grande edificio ospedaliero a corte, costituito da 5 piani fuori terra (3 piani per le degenze, uno ciascuno per le rianimazioni e il daysurgey) e 3 piani interrati (destinati a ospitare le sale di sterilizzazione, gli spogliatoi, le 32 sale operatorie e l’annessa radiologia): questa fase avrà una durata prevista di 3 anni; seguirà successivamente la “fase 2”- durata circa 18 mesi – con la realizzazione della piastra sotterranea dei servizi di diagnosi e cura, al di sopra della quale è previsto un giardino pensile. Una prima analisi del progetto, evidenzia l’intenzione di relazionare il nuovo “blocco” chirurgico con le restanti strutture a padiglione, destinate ad ospitare i futuri servizi specialistici, attraverso un “dialogo” fatto di allineamenti e volumetrie proporzionalmente affini, con il compito ulteriore di “filtrare ed armonizzare” la retrostante mole del polo chirurgico; tali
elementi architettonici sono in grado quindi di sottolineare il rapporto spaziale tra il luogo principale deputato alla degenza (l’edificio a pianta centrale) e gli spazi annessi (il portico, la piazza ed il parco), al fine di favorire una compartecipazione sul piano architettonico - ma anche e soprattutto dal punto di vista sociale - con il contesto urbano, del quale “l’insula” ospedaliera è ormai innegabilmente divenuta parte integrante. L’idea inoltre di concepire il nuovo polo chirurgico come un “ospedale nell’ospedale”, ossia una sorta di “matrioska compositiva” che garantisce un nuovo ambito di riservatezza ai pazienti, sembrerebbe risultare vincente; tale accorgimento ha permesso infatti di considerare il nuovo parco come uno spazio architettonico accessibile alla cittadinanza e quindi di sostituire il precedente “recinto” ospedaliero con un “sistema permeabile” ed apparentemente senza limiti; pur garantendo al nuovo polo chirurgico ed alle altre strutture ospedaliere limitrofe il dovuto grado di protezione e privacy, caratteristiche irrinunciabili e di cui un luogo destinato alle cure ed al riposo indubbiamente necessita.
Al fine della piena attuazione del progetto e della effettiva realizzazione del parco, si rende necessaria la demolizione oltre che di alcuni padiglioni, anche dell’attuale corpo edilizio che ospita il pronto soccorso – edificio tra i più recenti all’interno del complesso ospedaliero - che diviene palesemente un elemento completamente estraneo al nuovo sistema compositivo. La trasparenza delle facciate, accentua ulteriormente il dialogo tra gli edifici preesistenti ed il nuovo; ed amplifica, in maniera determinante, l’effetto umanizzante anche negli spazi interni: attraverso le grandi superfici vetrate la luce potrà diffondersi sia negli spazi più privati (camere di degenza e zone di diagnosi), che in quelli pubblici (l’atrio e l’ampia hall di ingresso, destinata ad ospitare un centinaio di poliambulatori ed alcuni negozi). La variazione di luce e di colori naturali viene altresì amplificata dalla presenza del giardino a copertura della piastra tecnologica; tutto ciò, in combinazione con raffinate soluzioni estetiche (giochi d’acqua, presenza di una diffusa vegetazione anche all’interno degli spazi comuni caratterizzati da volumi volutamente ariosi
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e sovradimensionati), contribuisce ad ingentilire un’architettura per sua natura sobria, ma funzionale. Tali geometrie semplificate consentono, datosi lo stretto rapporto simbiotico tra la sensazione di isolamento e lo stato d’animo del paziente, di rendere accogliente e sdrammatizzante un luogo che solitamente è tutt’altro che piacevole. Un’attenzione particolare sembra essere stata rivolta anche alla distribuzione dei flussi di accesso alla struttura: su Lungadige Attiraglio è prevista la collocazione dell’ingresso delle emergenze dirette al nuovo Pronto Soccorso prospiciente l’Adige, permettendo conseguentemente una ridistribuzione di superficie dei flussi carrabili e pedonali diretti al polo chirurgico e alla stessa piastra servizi (centro trasfusionale e prelievi, le radiologie e i laboratori). Quest’ultima è a sua volta collegata ai padiglioni rimasti, tramite un sistema di percorsi interrati che, su livelli distinti, permetteranno il flusso degli ammalati, la distribuzione impiantistica e la movimentazione dei materiali. Alla luce di tale sistemazione dei flussi viabilistici, Piazzale Stefani sarà alleggerita di parte del traffico che attualmente gravi-
ta intorno all’accesso principale esistente; l’accesso di via Mameli verrà invece mantenuto sotto forma di “varco aperto” verso il futuro “giardino romantico”, che è previsto nell’area tra il nuovo Polo Chirurgico, l’attuale Geriatrico e l’arteria stradale: un elegante spazio verde appartato e tranquillo in cui passeggiare. Inevitabilmente, seppur ridistribuiti su più accessi, i nuovi flussi accentueranno il “carico veicolare” sull’intera area limitrofa del quartiere; anche in considerazione di una permanente carenza di numero parcheggi nella zona. La soluzione potrebbe essere individuata nell’utilizzo, allo scopo di mantenere ai margini il flusso carrabile, di alcune aree vicine: ad esempio quella adiacente all’obitorio o, in alternativa, lo spazio sottostante all’area racchiusa tra via De Lellis e Lungadige Attiraglio; infine lo stesso Piazzale Stefani, potrebbe ospitare un parcheggio interrato. Il progetto quindi, considerando anche le dimensioni ragguardevoli dell’intervento, evidenzia che il limite o comunque la maggior lacuna riscontrabile, consiste verosimilmente nella mancanza di uno strumento urbanistico tangibile e di una
pianificazione territoriale antecedente, capace di fornire indicazioni precise e di “guidare” il singolo progetto architettonico, in completa sintonia ed armonia con l’evoluzione urbana del contesto in cui è calato. Ma questa è un’altra storia, o forse … la solita.
Committente: Azienda ospedaliera “Istituti Ospitalieri di Verona” Importo lavori: 7 203.295.913,18 7 19.334.820,44 per opere propedeutiche Superficie totale: mq. 96.296 Piani fuori terra: n° 6 + 1 piano tecnico Posti letto complessivi: n° 513 Sale operatorie: n° 24 + 6 per day surgery Area di degenza: mq. 27.800 Area di diagnosi e cura: mq. 33.695 Area direzionale: mq. 7.650 Connettivo ed impianti: mq. 21.000 Coordinamento progettuale e direzione lavori opere edili e strutturali: Studio Altieri s.p.a. Progetto architettonico generale e direzione artistica: Studio Von Gerkan, Marg und partner Progettazione e direzione opere a verde: Land s.r.l. Progettazione e direzione impianti elettrici e meccanici: TIFS Ingegneria Fellin-Siper Progettazione e direzione impianti idrici: S.T.E.P.
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1. Nuova Fiera di Lipsia (1993 – 1995) 2. Lerther Banhof, Berlino (1993-2006) 3. Stadio Olimpico di Berlino (1999-2004) 4. Fiera di Rimini 5. Sede centrale di GMP ad Amburgo (1990) 6. Centro tedesco giapponese ad Amburgo (1991-1995)
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Nel 1990, dopo trentacinque anni di attività, lo studio von Gerkan, Marg und Partner (GMP), fondato nel 1965, si trasferisce in una nuova sede in riva al fiume Elba in affaccio sul fronte-porto di Amburgo. Il luogo di lavoro è da sempre per tutti gli architetti non solo uno spazio tecnico, ma una dimensione in cui riconoscere il senso e la profondità del pensiero, nel quale si ricerca e si realizza il confronto fra teoria e prassi, luogo dove si sperimenta la propria concezione dello spazio privato e pubblico insieme. Così sembra davvero essere anche per lo studio GMP ad Amburgo, un luogo capace di riassumere l’intero percorso della loro ricerca architettonica. Nello stesso modo, sfogliando i dieci volumi che illustrano l’intera opera dello studio GMP, scorrono davanti agli occhi alcune fra le più importanti trasformazioni urbane realizzate nel dopoguerra. Progettazione e realizzazione di grandi infrastrutture, aeroporti, stazioni, edifici pubblici, edifici residenziali, gallerie, musei, scuole, fiere, centri sportivi nel mondo ma soprattutto in Germania, a Berlino, Düsseldorf, Bonn, Monaco, Francoforte, Stoccarda, ad Amburgo. Amburgo in particolare, città nella quale lo studio GMP ha cominciato
la sua incredibile avventura progettuale, dove tutt’ora ha la sua sede più rappresentativa, città che rimane la fonte iniziale degli studi di analisi urbana. Ma vi è in queste pagine molto di più, ritroviamo infatti il racconto di una attività complessa e articolata, una storia intensa di ricerca sull’architettura; vi aleggia il racconto della trasformazione insieme violenta e veloce che hanno subito le nostre città negli ultimi quaranta anni, città diventate sempre più estranee e stranianti, sempre più dominate da un’indole commerciale e dall’immagine. Guardando i progetti dello studio GMP emerge profondamente come anche queste architetture siano immerse nella complessità delle trasformazioni delle nostre città, come esse siano in grado di raccontarci insieme il nuovo e il vecchio, come raccolgano suggestioni presenti e passate e si radichino dentro la cultura della città e dei luoghi che costruiscono, come esse siano appunto capaci di narrare una storia. Ma nello stesso tempo questi progetti appaiono fortemente legati alla ridefinizione di una immagine. Guardando alle molte architetture realizzate dallo studio GMP, penso a come sia diversa l’Amburgo che svelano:
una città solare, strutturata, fortemente caratterizzata dalla presenza dell’acqua, ricca e in continua trasformazione. La sede del Centro tedesco-giapponese ad Amburgo (1991/1995) si allaccia per senso e ruolo urbano alla grande tradizione architettonica sviluppata ad Amburgo negli anni Venti, una scuola costruitasi intorno ai progetti e all’opera teorica di Fritz Schumacher e Fritz Höger. Il progetto recupera l’architettura del mattone rosso, la vibrazione dell’apparato murario e insieme il rigore della partitura di facciata, l’emergere netto dei volumi, la frammentazione delle parti così come l’innesto di elementi altri, leggeri e vibranti alla luce e ai riflessi dell’acqua. Un progetto ricco di riferimenti formali, che cerca anche nell’impostazione planivolumetrica di recuperare la complessità urbana di quella stessa tradizione. Alcuni progetti meno recenti realizzati sempre ad Amburgo, come la Zürich-Haus (1988 /1993) o la copertura del cortile del Museo di storia di Amburgo (1989), opera importantissima realizzata tra il 1914 e il 1923 da Fritz Schumacher, dimostrano come l’opera dello studio GMP sviluppi un confronto, ormai inevitabile, fra tecni-
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che realizzative avanzatissime e sofisticate scelte formali, in una continua ricerca in cui la fusione fra tradizione e innovazione è fra le caratteristiche più significative. L’edificio per la sede delle Rappresentanze regionali del Brandeburgo e del Mecklemburgo-Pomerania a Berlino, (1998/2001), rappresenta per molti aspetti un caso singolare all’interno dell’attività dello studio GMP. Si tratta infatti di una palazzina di quattro piani fuori terra da destinare a sede di due importanti rappresentanze regionali, collocata nell’area del Ministergärten, una delle parti più delicate e complesse di Berlino. L’area, compresa tra Postdamer Platz e Leipziger Platz a sud e la Porta di Brandemburgo e l’Unter den Linden a nord, è stata nel corso del tempo luogo di molte attività centrali, amministrative e direzionali della città, ed è stata quindi radicalmente trasformata dalla costruzione e dalla successiva demolizione del muro di Berlino. Il progetto affronta dunque un tema limitato dal punto di vista dimensionale ma insieme carico di importanti connotazioni simboliche e rappresentative. É forse proprio la resistenza l’elemento che più colpisce di questa architettura
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e che insieme ci riporta al principio generale di molte opere dello studio GMP. Esso infatti appare un edificio costruito per resistere, per durare nel tempo, e insieme per mostrare, dentro il flusso inarrestabile e la velocità di trasformazione e di cambiamento che travolge le grandi città d’Europa e del mondo, come le figure dell’architettura si fissino e si definiscano nel tempo; un’architettura solida, compatta e precisa come la figura di un trattato che è anche un punto di resistenza, un’alternativa possibile dentro la città.1 La Dresdner Bank in Pariser Platz a Berlino (1995/1997), un altro importante edificio per uffici, presenta una difficoltà data dalla posizione del lotto caratterizzato un unico affaccio su strada e una grande profondità. Il progetto si risolve con un unico affaccio pubblico, regolare per forma, dimensione, materiali e partitura di facciata. Mentre dal punto di vista funzionale la soluzione di distribuire l’intero edificio attraverso il foyer centrale circolare, di 31 metri di diametro e di dare l’accesso agli uffici attraverso ballatoi affacciati su questa grande corte coperta, riconduce le scelte progettuali tutte dentro la tradizione classica europea del-
l’impianto dei grandi edifici pubblici. Gli stessi principi si ritrovano con estrema chiarezza nei i progetti per le grandi opere a cui lo studio GMP partecipa con grande successo. Gli impianti fieristici, ad esempio, come la Fiera di Rimini (1997/ 2001) o la Fiera di Lipsia, si costruiscono sempre tenendo conto del legame con i principi architettonici delle grandi opere del passato. Il quartiere fieristico di Rimini ad esempio si sviluppa lungo due assi, perpendicolari far loro. Un ingresso segnato da torri luminose, una grande corte e il lungo asse di attraversamento, individuato dai portici che affacciano su una grande piscina e che mettono a loro volta in collegamento i dodici padiglioni laterali, caratterizzati da ampie coperture a volta in legno lamellare, sono gli elementi caratterizzanti l’intero schema compositivo. I caratteri fondativi, nati dai principi monumentali e ripresi nei grandi progetti europei dell’Ottocento, qui vengono messi in opera in modo estremamente sofisticato grazie ad una avanzata ricerca sulle tecnologie contemporanee. Di grande interesse ad esempio la ristrutturazione e la realizzazione della nuova copertura della Stadio Olimpico di Ber-
7. Copertura del cortile del Museo di Storia ad Amburgo (1989) 8, 9. Sede delle rappresentanze regionali del Brandeburgo e del mecklemburgo-Pomerania a Berlino (1998-2001) 10. Terminal 3 dell’Aeroporto di Stccarda (1998-2004) 11. Aeroporto di Berlino-Brandeburgo, Berlino (1998-)
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lino, (1999/2004). Il progetto di concorso vinto nel 1999 prevede che il master plan di Werner March proposto nel 1936 rimanga sostanzialmente invariato, e che le addizioni richieste nel bando per l’adeguamento dell’edifico alle nuove esigenze sportive vengano localizzate nel sottosuolo, in un’area esterna allo stadio, proprio per non modificare l’immagine storica dell’antico edificio. La nuova copertura, realizzata con una struttura in acciaio reticolare molto leggera, si interrompe in corrispondenza della torre, mettendo cosi in evidenza, anche dall’interno dell’area di gioco, il ruolo fortemente urbano dello stadio olimpico. Una foresta di diciotto giganteschi alberi di acciaio, ramificati fino all’infinito, costituiscono il poetico paesaggio del Terminal 3 dell’Aeroporto di Stoccarda (1998/2004). Una straordinaria interpretazione delle potenzialità della ricerca tecnologica e insieme della possibilità della rappresentazione di un’idea architettonica, espressione di una cultura radicata nel pensiero dell’architettura moderna, del pensiero illuminista. Una ricerca della leggerezza che prosegue nel progetto dell’Aeroporto di Berli-
no-Brandeburgo, concorso vinto nel 1998 e in via di sviluppo. Abbiamo a disposizione solo alcune immagini di studio, ma già si intravede il desiderio di unire, insieme ad un master plan generale costruito su una assialità rigorosa, la trasparenza e la leggerezza già sperimentati a Stoccarda e prima ancora ad Amburgo. Immagini che in un certo senso riconducono ai disegni delle grandi Expo ottocentesche, all’immagine indelebile del Crystal Palace di Paxton. A Berlino, sul sito della storica Lehrter Bahnhof, è attualmente in costruzione la più importante stazione europea. La nuova Stazione Centrale di Berlino (1993/ 2006) è infatti il punto di intersezione fra le linee est-ovest e nord-sud dei treni InterCity, le linee metropolitane e le linee ferroviarie regionali della capitale tedesca. Organizza interscambi tra linee nordsud che corrono a quindici metri sottoterra, passando al di sotto del fiume Spree e del Tiergarten, e linee est-ovest che corrono invece a dieci metri sopra il livello della strada. I principi architettonici che hanno guidato lo sviluppo del progetto sono stati legati proprio all’importante ruolo che un edificio di questa importan-
za deve assumere: un ampia e leggerissima copertura vetrata a volta, mette in evidenza il ruolo dei binari nel paesaggio urbano. Osservando insieme la lunga serie di concorsi e progetti realizzati dallo studio GMP, quelli analizzati in questo articolo e i molti qui non citati, essi sembrano costruire un percorso, una ricerca compositiva mai interrotta che sembra ripartire ogni volta da elementi noti, riferimenti certi e procedere quindi, per gradi successivi di astrazione, a ricondurne l’immagine a poche ma straordinarie figure della cultura architettonica europea. Anna Maritano nata a Torino nel 1966, si è laureata presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Nel 1994 ha conseguito il Prix de Rome pour l’Architecture presso l’Accademia di Francia a Roma e nel 1999 il titolo di dottore di ricerca presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Genova. È professore a contratto presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Genova. Svolge attività di libero professionista e partecipa a progetti di concorso nazionali e internazionali. Ha pubblicato saggi e tenuto lezioni presso scuole di architettura italiane e straniere, nel 2005 è stata Visiting Professor presso il Departamento de Arquitetura e Urbanismo dell’Universidade de São Paulo, Brasile. NOTE: 1. Angelo Lorenzi, Architetture costruite per resistere, in AIDN, Rivista Internazionale di Architettura, n. 10/2006.
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Sul realismo tragico di Giancarlo Carnevale A regola d’arte a cura di Giancarlo Carnevale Officina Edizioni, 2006 pp. 206
Se c’è una cosa che proprio non si può dire di Giancarlo Carnevale è che manchi di chiarezza. Si può non essere d’accordo sulle sue opinioni, si può anche dichiararlo apertamente, magari scrivendogli una lettera o una e-mail, ma non si può accusarlo di voler cospargere i suoi scritti di ermetici e fumosi geometrismi dialettici. Per quei pochi architetti che leggono ancora i testi questa cosa basta e avanza per annunciare un piccolo miracolo. A cura di Carnevale è uscito da poco un libro, A regola d’arte, che raccoglie saggi di diversi autori sul tema della costruzione. Il libro è di per sé degno di nota sia per le tesi espresse che per
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le voci autorevoli che vi partecipano (tra gli altri Purini, Sinopoli, Rizzi, Montuori). A porre in maggior evidenza la raccolta è il saggio che la conclude a firma del curatore stesso. Realismo tragico, questo il titolo del pezzo, accende i riflettori su tematiche scottanti su cui vorrei che si aprisse una discussione. Introdotto da una serie di desolanti scatti fotografici realizzati nell’hinterland veneziano (vedasi foto pp. 58, 59, 78), il saggio di Carnevale si offre come una riflessione breve e tagliente sulla particolarità della situazione italiana, dove ai rari esempi di qualità si contrappone la pervasiva e trionfante diffusione di una sottocultura architettonica che produce quantità allarmanti di opere brutte, sgrammaticate, talmente sbagliate che non passerebbero nemmeno ad un esame del primo anno. Troppo facile accusare gli architetti, dirà qualcuno. Frase forse un po’ di parte ma che contiene sicuramente una porzione di verità. Il problema è complesso e qualsiasi ragionamento critico serio non può che essere articolato e proiettato ad indagare le diverse sfaccettature del fenomeno. È questo il merito del saggio di Carnevale, merito a cui si aggiunge la già citata chiarezza e, cosa da non sottovalutare, una confortante brevità. Al servizio dei più pigri mi proverò, di seguito, a riassumere le questioni più interessanti poste sul tavolo del dibattito. Vi è in Italia una forte proliferazione di un’architettura grottesca, lontana dal professionismo colto e dall’accademia. Quest’architettura è molto diffusa ed è dotata di un mercato così vasto da rappresentare ormai la maggior parte della produzione edilizia esistente. Pur non essendo aprioristicamente definita da manuali o altri testi, la produzione in oggetto presenta delle evidenti codificazioni, quasi delle regole che ne fanno un vero e proprio genere, un linguaggio strutturato e riferito ad un preciso tessuto sociale. La diversità evidente tra queste costruzioni e quelle che compaiono sulle riviste di settore rende palese con inequivocabile chiarezza la spaccatura
esistente, nel nostro paese, tra la cultura architettonica alta e quella bassa, una spaccatura alimentata dalla compiaciuta autoreferenzialità dei due mondi in opposizione. Il divaricamento inizia negli anni Cinquanta, si sviluppa nel periodo del boom, per poi assumere nel presente caratteri di permanenza e stabilità. Tra i motivi di questa scissione vi è la delusione sofferta, da parte del grande pubblico, nei confronti dei modelli proposti dalla cultura alta, visti come lontani dal comune gusto del bello e sentiti come manifestazioni altezzose e sprezzanti dell’architettura d’autore. L’incomunicabilità tra accademia e utenza porta, nel tempo, al raggiungimento di un distacco consenziente gestito, da una parte, con aristocratica sufficienza, dall’altra, con dichiarato disamore. Il divorzio provoca l’anarchica deriva grottesca dell’architettura non colta che si esprime in un’orgia fastosa e fuori controllo. Le due culture si riavvicinano solo nella breve stagione del post-modern. Il nuovo stile, lanciato in Italia dalla Strada Novissima e accompagnato dall’annuncio enfatico della fine del proibizionismo, riapre la pratica professionale
Progettista: Arch. Aurelio Clementi Anno di realizzazione: 2006
all’uso di stilemi tratti dalla storia e dalla tradizione. Tuttavia, l’adesione al movimento post-moderno, segna l’inizio di un fraintendimento pericoloso. Le nuove immissioni linguistiche scatenano impulsi formali fino ad allora repressi che si esplicitano in deformazioni pulp. Il nuovo linguaggio piace all’utenza che lo fa proprio e lo diffonde su tutto il territorio italiano. L’adeguamento dell’imprenditoria alle richieste della committenza e la comune convergenza verso il nuovo stile chiude il cerchio. Il sistema diventa economicamente e culturalmente autosufficiente. Si determina un impermeabile circolo vizioso alimentato dalla domanda e dall’offerta. La figura dell’architetto si allontana drammaticamente dalla ricerca e dall’innovazione e perde di credibilità. Si afferma un’idea di architettura che supera i propri referenti istituzionali. Università, riviste di settore, ordini professionali si chiudono in sistemi bloccati ed auto-referenziali tragicamente incapaci di interagire con la realtà del paese. (Filippo Bricolo)
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Nuovi bar a Verona 2: Caffè Anselmi in Piazza delle Erbe
La filosofia dell’intervento in Piazza delle Erbe a Verona è abbastanza evidente: creare un luogo che garantisca continuità all’intorno della piazza storicamente e architettonicamente più importante della città. Difficilmente nuove tendenze architettoniche che tentano spesso di creare uno spazio autoreferenziato avrebbero potuto innestarsi così bene nella trama di archi e volte che caratterizzano il lato di maggior prestigio della piazza. Motivo, questo, che ha suggerito al progettista di riprendere materiali legati profondamente al luogo come il legno e la pietra, e di ri-
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proporli senza estreme ricerche formali, ma cercando, pur nella sua evidente contemporaneità un legame costante con atmosfere gia respirate e qui reinterpretate. Entrando e fermandosi ad osservare riemergono con piacere gli spazi caldi ed avvolgenti della prima metà del secolo dei bar viennesi realizzati da Adolf Loos (l’American bar per esempio), dove l’ornato diviene semplice materia e la funzionalità un attributo obbligatorio. Come non immmaginare un Maigret consumare un Pernot appoggiato al banco, così volutamente grande da confrontarsi con l’intero plateatico e non solamente con l’interno del bar, oppure pensare Hemingway che sorseggiando un cocktail e raccontando delle sue imprese venatorie non si aggirasse, incuriosito, attorno al bancone di forma diversa dal solito, frutto di un accurato studio al fine di aumentare sensibilmente la capienza di persone che stazionano vicino allo stesso. Ma molte altre sono le immagini evocate da questo progetto, situazioni solo delicatamente suggerite, tali da rendere uno spazio di dimensioni abbastanza limitate, un luogo, che oltre alla sua funzione socializzante, al suo apparire formale, sa aggiungere
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un valore storico, o meglio sa stratificare diverse situazioni temporali che regalano al cliente contenuti e significati sui quali è piacevole soffermarsi. Appare quindi palese la qualità intrinseca del progetto: il rifiutare collocazioni temporali precise, ma al contrario, creare un ambiente che da questo punto di vista rimane difficilmente databile o riconducibile ad uno stile evidente, rapportandosi così più facilmente alla più che millenaria stratificazione di materiali, elementi architettonici e funzioni della piazza antistante. Entrando nel bar, una volta in legno con innesti di onice retroilluminato, metafora del cielo stellato, dilata improvvisamente lo spazio, ma subito il grande bancone incalza. Rivestito di legno, onice, ottone (materiali che nella loro pulizia e rigore compositivo richiamano evidenti caratteri asburgici) diviene l’elemento principale del bar – una macchina per vendere cocktail - pienamente riuscita, che gode, inoltre, di una felice posizione rispetto all’esterno verso il quale è proiettato: i serramenti dell’entrata, completamente ripiegabili, permettono, infatti, una suggestiva visione della piazza. Purtroppo per quasi tutta la settimana questa viene seriamente ostacolata dall’incombente presenza dei massicci banchetti dislocati nella piazza; ed in effetti si può ormai solo considerare con amara ironia che del diminutivo “banchetto” riferito a ben altra attrezzatura atta alla vendita temporanea sia rimasto solo il nome e assolutamente non più né forme né dimensioni. Dal piano terra si può scendere verso un piano intermedio, utilizzato come espositore di bottiglie e come elegante deposito, dipinto anch’esso dalla luce che l’onice lascia trasparire.
L’ultimo livello, il più basso, accoglie i bagni che con raffinata eleganza accolgono il cliente, che immerso nel rosso delle sue piastrelle, affronta curioso e probabilmente stupito l’eventuale attesa. I collegamenti verticali tra i tre spazi gia stretti ed angusti sono stati volutamente colorati di nero, tali da porsi in antitesi agli spazi più luminosi che vengono così a livello percettivo ampliati e resi più interessanti. Tecnica questa già utilizzata da Wright, esperto nel creare nelle sue numerose abitazioni percorsi che alternassero costrizioni ad improvvise dilatazioni spaziali, che viene qui ripresa, sfruttando sapientemente le preesistenze, di non facile gestione. Unica nota stonata la sistemazione (non voluta dall’architetto) di un maxischermo sulla volta lignea, che rovina decisamente l’immagine del locale e soprattutto della volta stessa. (Andrea Benasi)
Progetto architettonico: Aldo Rossi con Marco Brandolisio e Luca Trazzi, 1994-1997 Progetto esecutivo e coordinamento: Marco Semprebon, S. Ambrogio di Valpolicella Direzione artistica: Gian Arnaldo Caleffi, Verona Strutture: Franco De Grandis, Verona Fondazioni speciali: Bruno Bianco, Milano Impianti: Francesco Zanini, Giulio Giavoni e Riccardo Tognetti, Verona Sicurezza: Giorgio Valentini, Villafranca Direzione lavori: Stefano Calandri, Pistoia È quasi giunta al termine la realizzazione postuma del progetto di Aldo Rossi per l’area ex Kursaal a Montecatini Terme, sulla base di un progetto che risale agli ultimi anni di attività del Maestro milanese scomparso nel 1997. Un pool di professionisti veronesi ha seguito lo sviluppo e la cantierizzazione dell’opera: Marco Semprebon ha coordinato i lavori e redatto gli esecutivi, mentre Gian Arnaldo Caleffi, già collaboratore di Rossi allo IUAV dal 1980 al 1992, ha supervisionato la realizzazione in qualità di direttore artistico. Il complesso, che comprende uffici, attività commerciali e residenze oltre a spazi culturali e ricreativi, è concluso per la parte dei nuovi edifici, mentre è ancora in corso il restauro dell’ex Kursaal che completerà l’intervento di riqualificazione di questa area centrale della cittadina toscana. Il completamento di quest’opera, che Rossi non ha potuto licenziare per esteso pur essendo giunto ad una fase avanzata di progettazione, sollecita alcune riflessioni sul valore di autenticità di casi analoghi. Grandi polemiche hanno fatto seguito infatti al completamento dopo alcuni decenni di un’incompiuta di Le Corbusier, la chiesa di Firminy, per la quale si sono riesumate le spoglie del progetto in nome della devozione al Gran Maestro della Modernità. Ma al di là di esempi limite come questo, rientra nella prassi consolidata una discrasia sempre più evidente
tra progetto ed esecuzione, che prende il posto di quell’idea eroica del cantiere quale momento creativo ultimo e definitivo di una architettura. L’interpretazione artigianale della professione, estesa ad ogni fase del processo realizzativo – dal primo schizzo al collaudo –, cede il campo a una parcellizzazione delle competenze secondo una tendenza allo specialismo, che bene si sposa tra l’altro al contemporaneo fenomeno dell’outsourcing. Nel caso in questione, la celebrata affinità tra i primi schizzi ideativi di Aldo Rossi e le successive realizzazioni è l’esito di un atteggiamento teorico che ben poco concedeva al versante costruttivo, portando consapevolmente a delegare ad altri il momento del cantiere, in maniera non dissimile da quanto si è realizzato a Montecatini. Del resto anche la realizzazione postuma del Teatro alla Fenice, condotta dal medesimo gruppo che sta portando avanti l’attività del suo studio, non ha per queste ragioni sollevato dubbi attributivi, ascrivendo pienamente quest’opera al corpus aldorossiano. La “firma” dell’autore, racchiusa entro alcune figure ed elementi ben riconoscibili, sembra del resto legittimare anche un’operazione ex post sulla sua stessa opera che perpetui la lezione, facendo diventare patrimonio condiviso quei frammenti della memoria collettiva e di quella autobiografica che ne hanno segnato il percorso entro l’architettura italiana del secondo Novecento.
Mercato delle ciliegie a Marcellise Progetto: ABW Architetti Associati Arch. Alberto Burro, Arch. Alessandra Bertoldi Anno di realizzazione: 2006-2007 Percorrendo le strade della provincia veronese in direzione delle colline nord orientali, superato San Martino Buon Albergo e la frazione di Marcellise, tra un cambio di stazione radio e una discussione al cellulare è facile lasciarsi sfuggire, sul versante sinistro, una piccola collina artificiale, contornata da due setti in cemento e dalla linea fluida di una moderna copertura. Questo è probabilmente ciò che appare ad un viaggiatore poco attento e niente più, se non la memoria della verde vallata. Chi invece abbia la pazienza e la curiosità di andare oltre la prima immagine quasi mimetica, avrà modo di scoprire il nuovo Mercato delle Ciliegie di Marcellise. Il setto murario, memore al tempo stesso della chiara e robusta materialità del basamento di Villa Girasole, che si trova a poche centinaia di metri, e dei muri di cinta delle aree limitrofe, rappresenta assieme alla collinetta, al piazzale e alla copertura uno degli elementi che, quasi con timidezza, riescono a creare un luogo. L’edificio, infatti, frutto di una razionale riduzione a poche ma significative componenti, trova nel paesaggio un eloquente interlocutore. D’altronde, obiettivo principale dei progettisti era la realizzazione di un edificio funzionale che contemporaneamente preservasse i bellissimi caratteri del luogo. È dal luogo infatti che il progetto trae spunto, proponendo una costruzione che ha le caratteristiche di elemento fondativo di uno spazio antropico, ma che si riveste e quasi si nasconde con elementi naturali. La nuova struttura, che si inserisce sul sedime dei precedenti capannoni arretrato di qualche metro, va a costituire un limite tra strada e mercato. Quest’ultimo è costituito da un basamento rettangolare, rivestito in autobloccanti simili al
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Un progetto differito: Aldo Rossi a Montecatini Terme
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odeon cotto, con un tipo di finitura che richiama il colore ed i materiali dell’aia. Su di esso si inserisce una copertura ad un’unica falda inclinata, sostenuta da sei colonne in ferro a loro volta inclinate, e composta principalmente da lastre in policarbonato alveolare e da pannelli frangisole in legno, che modulano il passaggio della luce naturale. Alle spalle, verso la strada, si colloca il muro di contenimento della collinetta artificiale, realizzato in cemento armato con la presenza di scanalature orizzontali atte a richiamare il disegno della pietra, elemento abbondantemente presente nella vallata. Nella parte sottostante la balza si inseriscono gli spazi di servizio accessibili dal piazzale coperto che guarda, nascosto al traffico veicolare, verso le colline.
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Il carattere distintivo di questo progetto è il lavoro di affinamento che, a partire da una serie di elementi architettonici, ha cercato di selezionarne pochi e sostanziali. Assistendo ad una professione che porta l’architetto ad aggiungere a posteriori elementi per così dire decorativi, assistiamo in quest’occasione a un atteggiamento che porta l’architettura ad essere il fine di specifiche esigenze, e il tramite che porta al loro adempimento, senza inutili superfetazioni formalistiche. In un momento in cui si assiste alla proliferazione di edifici urlanti, in cui l’immagine o la forma diventano elementi di culto, o che affondano nella banale, ripetuta pratica dell’edificare che non esprime altro che il proprio scanda-
loso grigiore, c’è ancora chi propone architetture meditate, “semplici”, come in questo caso, di chiara interpretazione, frutto di sintesi di diversi bisogni. L’utilizzo del mercato è stato pensato per non limitarsi a quello di tipo agricolo, cioè alla raccolta delle ciliegie provenienti dalle varie zone della vallata, ma potrà accogliere nel corso dell’anno anche feste di paese o mercatini di varia natura. Dipenderà dall’amministrazione comunale utilizzare al meglio tale struttura che, in virtù della proprie caratteristiche morfologiche, reinterpreta in chiave contemporanea gli usi al tempo stesso ludici e produttivi dell’aia. (Andrea Benasi)
Il progetto di Carlo Alberto Cegan, Giacinto Patuzzi e Valeria Zalin che si è aggiudicato il primo premio al concorso di idee bandito dal Comune di Illasi, propone un insieme significativo di interventi per un contesto delicato e assai composito. Selezionato da una qualificata giuria (composta da Alessandro Tutino, Bruno Dolcetta, Claudia Conforti, João Luís Carrilho da Graça, Arrigo Rudi e Dino Formaggio), l’intervento ha interessato il sistema dei luoghi centrali del paese che, nonostante la presenza degli edifici istituzionali e la prossimità con le storiche ville Pompei-Perez Sagramoso e Pompei Carlotti, risultava scarsamente riconoscibile come spazio collettivo urbano. Rifiutando la ricerca di una forzata unità formale, e tematizzando differenti ambiti spaziali per vocazione, conformazione ed utilizzo, il progetto si fa carico della molteplice articolazione del contesto, facendo dialogare i segni della contemporaneità con le tracce della storia. A ragione gli autori parlano di architetture a volume zero, avvalendosi della definizione recentemente introdotta da Aldo Aymonino, per si-
gnificare misura e scala degli interventi proposti. È così che il percorso di avvicinamento al centro viene segnato dallo stradon, dove il cambio di registro della pavimentazione e la messa a regime di traffico e sosta aprono il campo alla nuova piazza del mercato. Caratterizzata da una compiuta figura ellittica che dialoga con le forme settecentesche del giardino della villa, la piazza del mercato rimanda in maniera esplicita al modello del Prato della Valle, e individua una nuova centralità – duale ed eccentrica - nel sistema delle relazioni urbane. Analogamente, il suo fronte a vocazione commerciale, invero di scarsa qualità, viene nobilitato con l’appellativo di liston, facendo leva su carattere e significato che questa denominazione comporta. L’adiacente piazza del municipio, sgomberata dal transito delle auto e pedonalizzata, riassume invece il duplice ruolo di sagrato della chiesa e di parterre della sede comunale. La geometria netta e incisa del luogo delle istituzioni, fissata dal disegno del suolo e dei sottili dislivelli, si libera nelle forme fluide del parco alle sue spalle. Il fronte posteriore del municipio è ridefinito da una sorta di grande
pergola, involucro di un sistema di volumi separati tra loro, per consentire in maniera flessibile l’ampliamento degli uffici amministrativi e l’inserimento di attività legate alla fruizione del parco. Prendendo a prestito, con una sorta di autocitazione, la conformazione dell’invaso del mercato, il disegno del parco dispone una serie di ellissi spezzate sul margine, che definiscono in negativo una rete di camminamenti sinuosi tra piani erbosi lievemente rialzati. Interpretazione contemporanea della tradizione paesaggistica del giardino pubblico, questa figurazione riassume i caratteri del progetto in una immagine di gusto grafico, con una connotazione organica e biomorfa che potrà apparire in tutta la sua evidenza nelle vedute dall’alto delle colline, tra i pruni e gli sterpi. L’attualità di questa riflessione sullo spazio pubblico contemporaneo attende ora che la comunità di Illasi sappia appropriarsi del progetto e concretizzare così il suggestivo disegno in spazi concreti e vissuti.
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Attualità dello spazio pubblico: un progetto per Illasi
(Alberto Vignolo)
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Le Mura e i Forti di Verona. Itinerari e percorsi Fiorenzo Meneghelli Cierre Edizioni, 2006 pp. 96
Il sottotitolo di copertina “Itinerari e percorsi” è un’utile glossa del titolo principale, che in maniera diretta ci illumina sui contenuti del testo. Si tratta, difatti, di una sistematica illustrazione di itinerari storico-monumentali finalizzati alla libera creazione, da parte del lettore, di percorsi territoriali finalizzati alla scoperta degli innumerevoli manufatti, puntuali e lineari, costituenti lo storico sistema difensivo veronese. Il testo ha un approccio programmatico e didattico che positivamente risente della formazione dell’autore, insegnante oltre che libero professionista. La lettura invita, senza indugi, ad alzarsi ed incamminarsi in un petit tour veronese alla scoperta di quel vastissimo e articolato palinsesto storico-architettonico formato dal sistema fortificato veronese. Un vero e proprio museo a cielo aperto
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che costituisce un unicum diacronico che parte dal periodo romano repubblicano quando Verona, nel 49 a.C., diviene Municipio, passando per l’epoca Romana Imperiale 827 a.C. – 476 d.C.) , Teodoriciana (493-526), Comunale (1136-1259), Scaligera (1259-1387), Viscontea (1387 –1402), Veneziana (1405-1797, con la soluzione di continuità imperiale dal 1509 al 1516), Francese (1797 –1814), Austriaca (1814 –1866) ed infine Italiana a quando, nel 1866, la città entrò a far parte del Regno d’Italia. Con questo “Der Cicerone” delle fortificazioni veronesi, Fiorenzo Meneghelli, novello Jacob Burckhardt, ci guida piacevolmente, integrando il testo, funzionalmente essenziale, con un fittissimo apparato iconografico costituito da mappe storiche, elaborazioni grafiche di cartografie, foto, aerofoto, rappresentazioni di plastici, schemi grafici didattici complementari al glossario dei termini specialistici. Quest’ultimo ci introduce nell’interpretazione dello specifico vocabolario, indispensabile per un minimo approccio alla conoscenza dei termini dell’architettura fortificata così poco, colpevolmente, conosciuti anche alla maggior parte di noi architetti veronesi. Siamo così, finalmente, in grado di sapere la funzione di un muro alla Carnot all’interno della “macchina” fortificatoria austriaca piuttosto che una caponiera, un rivellino, una torre scudata del periodo scaligero e quant’altro. La visita guidata non si ferma però all’interno delle mura, magistrali, ma ci porta alla scoperta di quel sistema di forticazioni, definito dalle Torri Massimilianee sulle Torricelle (1837-42), ma soprattutto dalla prima (1848-59) e dalla seconda (1860-66) cerchia forti, che costituirono l’ultimo sviluppo temporale dello storico sistema difensivo veronese purtroppo pesantemente mutilato, nel dopoguerra, da insensate demolizioni a scopi viabilistici e pseudo-urbanistici. Se dopo questo primo approccio sistemico il lettore-esploratore avesse necessità di approfondimenti, la bibliografia finale lo indirizzerà a puntuali ed indispensabili referenze sia di carattere storico che architettonico. (Berto Bertaso)
Committente: Comune di Verona Settore LL.PP. Responsabile del Procedimento: Ing. Sergio Menon Coordinamento al Progetto: Ing. Carlo Poli Progetto Definitivo-Esecutivo: Arch. Marco Molon Direzione Lavori: Arch. Marco Molon Consulenza e analisi statica: Ing. Ilaria Segala Collaboratori: Arch. Erica Giacomi, Arch. Chiara Girardi, Arch. Nicoletta Forigo, Arch. Elisa Bagattini, Arch. Cecilia Stevanin Il percorso progettuale di restauro su Porta San Giorgio ha avuto inizio per l’improvvisa frattura di una mensola di supporto ad uno scudo del fronte di epoca veneziana. Da ciò è iniziata una attenta analisi che ha reso evidente lo stato di degrado sulla generalità del monumento e stimolato l’amministrazione comunale di Verona ad un serio intervento di restauro. L’opera prevede per il fronte austriaco1 e italiano e per gli interni delle due arcate libere interventi di sostanziale ripristino e pulizia dei paramenti lapidei e delle murature, per il fronte veneziano si prevedono invece interventi prima di consolidamento strutturale, poi di ricomposizione lapidea e solo successivamente il ripristino e la pulizia dei paramenti lapidei attraverso le normali operazioni di restauro conservativo. Sul tetto verranno invece
previsti interventi di sigillatura con la costituzione di una nuova pavimentazione in pietra proprio in funzione di una futura quanto probabile praticabilità del tetto. Infatti è dal delicato problema
delle infiltrazioni d’acqua dal tetto che provengono la maggior parte dei dissesti, anche statici, del fronte veneziano e dei degradi da tempo presenti sulle volte della porzione austriaca.
Da un punto di vista ideativi e volendo esprimere l’atteggiamento generale che ha guidato il progetto, si può definire il riconoscimento del “primato della forma” come assunto capace di guidare anche la ricerca del giusto restauro e che riguarda il ruolo della Forma Pura espressa nel monumento. Più semplicemente il progetto valuta quei caratteri formali, soprattutto del fronte veneziano, che esprimono l’articolazione degli ordini delle paraste, gli incassi dei paramenti murari negli interspazi laterali, gli stessi doppi ordini “in cubica” degli ingressi pedonali, la proiezione orizzontale degli scudi e la rilevante sporgenza della cornice di coronamento come caratteri altamente specifici della stessa Porta. Essi esprimono unitamente ai materiali costitutivi e al comportamento statico delle masse lapidee nelle linee di tensione interna l’intero patrimonio “genetico”del manufatto; costituiscono inoltre un’articolazione unica e vincolante la vita stessa del monumento proprio per influire nella conformazione dei vari degradi che a volte,unitamente alle azioni di dissesto statico, producono il quadro complessivo delle potenziali anomalie2. Con tale atteggiamento si sono affrontate sul fronte veneziano, in aggiunta alle indagini ordinarie sui materiali e degradi, anche altre specifiche relative le problematiche individuate nel progetto definitivo; le indagini al Georadar sono state utili all’ipotesi di dimensionamento dello spessore dei conci del paramento lapideo, men-
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Il Restauro di Porta San Giorgio
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tre le endoscopie hanno messo in evidenza la reale situazione di scollamento tra il paramento lapideo di finitura e il controparamento in mattoni dell’originaria cinta muraria veneziana. L’insieme delle risultanze analitiche ha poi delineato il quadro complessivo della reale situazione del fronte monumentale, fissando quelle che saranno le opere inserite nel progetto esecutivo in linea sia con la Legge Antisismica Nazionale che con il Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, indicando come prioritario l’intervento di miglioramento strutturale descritto all’art. 29 comma 4. Su alcune aree del fronte veneziano saranno
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pertanto operate delle perforazioni armate per vincolare stabilmente i conci maggiormente esposti alle tensioni di carico individuati negli studi preliminari, e successivamente verranno saturati gli interspazi tra i conci e il controparamento con miscele di leganti ad alta viscosità. Altra fase importante del progetto, sopratutto da un punto di vista metodologico, è stata l’implicazione della ricostruzione di parti mancanti dei paramenti lapidei. Qui Il problema si è posto soprattutto nel fronte veneziano in cui molti conci risultano effettivamente privi di piccole porzioni di modanature o fregi dovuti ad eventi bellici o
scollamenti originati da dissesti localizzati ma, anche in questo caso, si è dato corso alla valutazione del Primato della Forma come principio: quelle parti così importanti da definire la struttura stessa dell’elemento architettonico verranno ricostruite mentre altre di minore importanza saranno soltanto restaurate. La scelta della sostituzione lapidea o della stuccatura morfologica è stata definita in base alla migliore pertinenza tecnica rispetto all’ambito di intervento. Il Progetto esecutivo, entro un quadro di coerenza generale, stimola inoltre gli enti preposti nell’ipotizzare altri interventi importanti sia in fun-
L’invisibile realtà della forma3 Agli occhi di chi entra in città da nord appare immediata allo sguardo l’immagine di Porta San Giorgio con sullo sfondo la Chiesa di San Giorgio in Braida. Ebbene per chi osserva più attentamente esistono dei luoghi sull’asse congiungente la Porta e il fronte della Chiesa che restituiscono un’immagine univoca al punto da apparire un solo edificio. La sovrapposizione prospettica dei fronti in quanto posti su piani paralleli, la monomatericità ed eguaglianza dei materiali lapidei e la regola della tripartizione dei prospetti
fanno in modo che ciò accada in una visione composita ma strutturata. L’asse virtuale congiungente ha anch’esso una regola che dipende dagli antichi tracciati delle partizioni agricole di probabile epoca romana sul sito dell’attuale Borgo Trento e che hanno un andamento a 45° rispetto il Decumano della Verona Romana. Nulla di strano allora se riscontriamo che la parte rettilinea dell’asse di via Mameli-Via Ca’ di Cozzi trova il suo punto terminale nella Cupola di San Giorgio che, al tempo della “spianà”4 veneziana trovava ampio respiro nelle visioni dei viandanti in ingresso a Verona. È proprio sulla collocazione della nuova Porta infatti che si sviluppano parte degli interessi di questo studio in quanto sorge proprio sopra i resti dell’antica strada Romana Claudia Augusta in diretta antitesi con la precedente Porta de Sorio voluta dagli Scaligeri nel tratto di mura a nord. Importante a tal riguardo risulta la verifica fatta su un disegno attribuito ad Antonio da Sangallo
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zione manutentiva del restauro che per una migliore salvaguardia del monumento da un punto di vista ambientale. Per questo sono in fase di elaborazione preliminare alcune soluzioni utili al migliore drenaggio delle acque superficiali, e una dignitosa sistemazione del suolo nel primo intorno fuoriporta unitamente all’ipotesi di limitazione delle vibrazioni dovute al transito delle auto.
il Giovane (Uffizi A/ 814), che rappresenta Porta San Giorgio in progetto unitario anche nella parte urbana. Tale impianto non fu mai realizzato totalmente, ma la precisa corrispondenza di alcuni elementi sia metrici che architettonici del fronte verso campagna rispondono al manufatto reale. Possiamo immaginare che il disegno sia databile nel periodo della visita(1527) di Michele Sanmicheli con Sangallo a Verona dopo la visita di Parma e Piacenza per conto del Papa Clemente VII. Questo dato reintroduce in modo evidente la figura del Sanmicheli in una nuova prospettiva sia per la stretta collaborazione che lo legava ad Antonio da Sangallo il Giovane che per l’esemplarità del documento. P.Davies e D.Hemsoll5 riportano al riguardo un valido sostegno proprio relativo i caratteri grafici e ortografici del disegno, dove appaiono evidenti le misurazioni in piedi veronesi che possono significare due cose: una che il disegno fosse proprio del Sanmicheli in quanto risaputo abile disegnatore, e l’altra che ne prevedesse un uso preciso nel cantiere veronese. Altro dato interessante riguarda la relazione della Cupola della Chiesa di San Giorgio con la Rondella angolare delle mura difensive che disvela la vera relazione tra campanile e cupola; in realtà l’asse congiungente la cupola con il campanile termina in Palazzo Canossa, dello stesso Sanmicheli, per una dimensione che riproduce dieci volte la distanza esistente tra il centro della Cupola e il centro della rondella proprio sull’asse perpendicolare. Tale meccanismo fa si che la Cupola di San Giorgio copra totalmente il campanile in una delle visioni più importanti per chi accede a Verona attraverso l’Adige, da Castelvecchio, dal ponte e dai vari scorci in affaccio sul fiume; se riflettiamo attentamente Il tema della Cupola, nel rinascimento maturo, non poteva essere certo inficiato da un campanile slanciato che ne occupava lo sfondo e ne minacciava la rotondità. Siamo in presenza di un atteggiamento che vede il complesso monumentale al centro di una serie programmata di relazioni e non a caso il Puppi definisce San Giorgio come vero “sigillo urbano”. Significativo è che tale atteggiamento
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viene ripreso più tardi da Michele Sanmicheli anche per la collocazione di Porta San Zeno. Il programma figurativo si ripete attraverso l’uso strumentale dell’asse generato dall’antico tracciato della strada romana Gallia e traslato come congiungente tra il baricentro della Porta San Zeno e l’asse della facciata della Chiesa di San Zeno: il risultato lascia chi guarda con attenzione e sensibilità in una condizione di stupore e meraviglia sia per il risultato di unitarietà che per il serrato dialogo degli stessi materiali della Porta con il complesso monumentale di San Zeno. Anche in questo caso l’intuizione della prospettiva tiene uniti due luoghi della città attraverso una valida retorica e tutto ciò che il Concina6 medita sulle relazioni tra Porta Nuova e l’Arena o tra Porta Palio e il Teatro Romano per quanto riguarda la citazione nelle porte di elementi architettonici di quei monumenti romani, in San Zeno e in San Giorgio diviene evidenza attraverso un utile uso della prospettiva con funzione urbana. In questa logica non deve stupire se all’interno del Lazzaretto di Porto ritroviamo i muri di separazione centrati sul tempietto con la stessa giacitura dell’andamento del Cardo e Decumano in Verona Romana, o se l’asse longitudinale del Lazzaretto punta esattamente sul centro geometrico del Teatro Romano e prosegue fino a San Dionigi. È probabile che queste siano semplici registrazioni di contenuto compositivo, ma ciò che stupisce è che il referente cui la geometria si rapporta è sempre quel grande ed organico monumento che è la Verona Romana così cara al Sanmicheli non solo per gli elementi architettonici che ritroviamo minuziosamente in ogni sua realizzazione ma addirittura per la grande realtà geometrica che essa esprime nel suo complesso palinsesto. Ciò serenamente trova ragione anche nella Basilica della Madonna di Campagna che si orienta verso Verona con lo stesso orientamento della Postumia e che interseca, in Verona, Porta Leoni per poi proseguire ad intersecare la Postumia in entrata proprio davanti a Porta Borsari; non a caso due accessi importanti alla Verona Romana.
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Ritornando a San Giorgio ci è utile riferire che la ricerca ha rilevato con un certo interesse che la cornice superiore della Porta, l’imposta del primo ordine dei paramenti lapidei interni alle cappelle laterali della Chiesa di San Giorgio e la cornice d’imposta dell’ordine gigante del Campanile stanno su un unico piano, perfettamente alla stessa quota. Questo significa che anche presupponendo una reale discontinuità dei progetti e degli eventi temporali, l’idea del progettista era quella di dare un significato al “ruolo” delle geometrie e dimensioni altimetriche degli edifici. L’unico criterio per il progettista era tenere insieme tre edifici costruiti in tempi differenti e la volontà di unificare attraverso i rapporti dimensionali una unità linguistica interna al Complesso Monumentale. Nella Porta sono poi riscontrabili alcuni stilemi ripetuti nelle Porte urbiche; la tripartizione del fronte come regola; la monomate-
ricità; le decorazioni e scudi come emblemi dei mecenati; le modanature delle cornici dei varchi pedonali così simili alle finestre in Palazzo Petrucci di Orvieto; la somiglianza estrema nella forma e sezione degli scudi presenti in tutte le porte veronesi; o ancora i tondi come decoro dei punti medi delle paraste che ritroviamo in molti progetti. Ma per un momento pensiamo ora all’atteggiamento che fece dire al Tafuri7: “Inoltre sia gli artisti citati che Palladio o Michele Sanmicheli adottano ampiamente il metodo dell’estrapolazione caldeggiato da Castiglione: l’antico è spesso da loro citato per frammenti cui è assegnata altra significazione che la lor propria”. Una definizione che spinge a credere come tale concetto venne ben espresso da Michele Sanmicheli sia nelle opere architettoniche dove la citazione rimaneva entro il quadro compositivo dell’edificio
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nella relazione con il primo più prossimo intorno, che nel processo di collocazione e ideazione compositiva alla grande scala. Un Manierismo intriso di spezzatura, il suo, ma finalizzato al gioco sapiente del progetto come ricerca della migliore forma, collocazione e relazione alla grande scala per dare senso alla nuova urbanità di Verona. Quegli anni segnano infatti l’inizio di una esperienza del progetto verso il territorio più vasto, e anche Verona ne venne ben pervasa anche per effetto della Spianà del 1517 che la disvelò nel suo più emblematico rapporto con il Territorio.
Illustrazioni: p. 66 Estratto dal progetto esecutivo p. 67 Schizzo di Marco Molon p. 68 Porta San Giorgio e la Chiesa p. 69 Veduta del Van Wittel p. 69 Fortificazioni nei pressi di porta San Giorgio e altrove a Verona, disegno di Antonio da Sangallo il Giovane o della sua cerchia (Uffizi, 814A)
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L’identificazione dei differenti fronti del monumento viene chiarita nella tavola 1 del P.D. attraverso la ricostruzione degli interventi succedutisi: per fronte austriaco si intende il prospetto intraurbano verso la Chiesa edificato dagli Austriaci nel 1840, il fronte veneziano è quello extraurbano iniziato nel 1525 mentre il fronte italiano è quello risultante dalla breccia stradale praticata nel 1913. 2 Lo studio delle tensioni interne al paramento lapideo è stato condotto al fine di definire le parti della Porta Veneziana più esposte a stati di crisi in base ai soli carichi propri. 3 Sintesi dalla Relazione Storica e parte di una più ampia trattazione in fase di pubblicazione dal titolo “La Città di Michele Sanmicheli” – Ed. Sprinter2G -Verona 2007. 4 La Spianà definì per Verona non solo un valido sistema difensivo ma decise una nuova importante immagine di Verona e un tema importante per i pittori del tempo. 5 P. Davies, -D. Hemsol, Michele Sanmicheli, Electa, 2004. 6 E. Concina, La Macchina Territoriale, Bari 1983. 7 M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento, Einaudi 1992.
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forum per l’architettura di qualità Spero che voi capirete che l’architettura non ha nulla a che fare con l’invenzione di forme... L’architettura è l’autentico campo di battaglia dello spirito. Mies van der Rohe, Tecnica e Architettura, 1950.
tre domande indispensabili a margherita petranzan a cura di Nicola Brunelli
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ARCHITETTIVERONA: Quali sono, secondo la sua esperienza, i doveri e le responsabilità che si assume una rivista di architettura, in quanto influente strumento divulgatore del fare architettura? MARGHERITA PETRANZAN: Sono molteplici. Innanzitutto deve assumersi la responsabilità di organizzarsi entro un orizzonte critico ed interpretativo di chiare matrici, consapevole che non è mai possibile la cosidetta ‘neutralità’ di approccio all’architettura, perchè normalmente essa si presenta come mistificante finzione. Se di neutralità si vuole parlare, è unicamente una neutralità da ‘ideologie’, perché, così come si legge nella dichiarazione d’intenti che compare in ogni numero di Anfione e Zeto, una rivista di architettura deve, secondo me, riempire il vuoto esistente attraverso la pratica concreta delle scritture (nel senso di linguaggi) mettendole a confronto tra loro. Dall’interno di una rivista l’architettura, che è struttura di relazione, deve ritrovare un rinnovato rapporto con le altre discipline. Una rivista di architettura deve inoltre praticare la critica della critica, che oggi è spesso rappresentata da figure professionalmente poco autorevoli perché, non appartenendo né alla categoria degli architetti che hanno quotidianamente a che fare con il ‘mestiere’, né a quella degli storici, che sono usi approfondire il rapporto tra il tempo e i suoi prodotti, conoscono solo superficialmente il complesso fenomeno architettura, e, di conseguenza, ne sviliscono l’interpretazione utilizzando più frequentemente ‘mode’, al posto di collaudate modalità interpretative. Deve poi occuparsi di tutta la pro-
duzione architettonica, anche se a volte solo per demolirla: produzione permeata da assenze, oggi, più che da presenze; assenza di una committenza con un mandato sociale forte, assenza di limiti disciplinari e umani, ma, soprattutto, assenza di realtà, a causa del perdurante intreccio tra mondo reale e mondo apparente tanto da non essere più distinguibili. Un corretto contenitore ‘rivista’ deve infine chiedere ‘i come’ della pratica architettonica, non i perché, e deve pretendere che siano mostrati non sotto forma di ideologie, ma di tecniche, che è la messa in opera della cultura stessa, pur dimostrando grande modestia nei confronti della complessità del reale. Compito decisamente essenziale di una rivista è quello di presentare l’opera come fare e come fatto, attraverso il suo farsi. AV: Quale dovrebbe essere invece il ruolo di una rivista pubblicata da un ordine professionale, quindi maggiormente legata al territorio, ed in che modo può contribuire a contrastare la mancanza di qualità architettonica, fenomeno purtroppo ampiamente diffuso anche nella regione veneta? MP: Se una rivista legata al territorio ha sicuramente alcune agevolazioni per il restringimento del campo d’analisi, corre un grosso rischio dal punto di vista della proposta progettuale, che può ‘provincializzarsi’ se si riferisce unicamente a modelli culturali che appartengono alla storia e alla cultura del luogo. Vanno sicuramente indagate le matrici che stanno a fondamento dell’architettura che distingue un territorio, per recuperarle senza però troppo compiacimento. Sof-
fermarsi a riprendere stilemi formali caratteristici di una regione significa anche cadere nel kitsch e ignorare ogni sperimentazione che a livello globale l’architettura sta percorrendo. Locale e globale, che spesso oggi sono in antagonismo, dovrebbero dialogare, soprattutto nell’individuare modalità costruttive che possano, pur salvaguardando le specificità territoriali, stare al passo con la difficile ricerca della qualità del vivere che deve caratterizzare l’architettura delle città, nessuna esclusa. L’oneroso e pesante compito di una rivista di questo tipo consiste anche nel segnalare con grande determinazione le ‘derive’ che subisce la produzione edilizia della provincia analizzata, per poter porvi rimedio, evidenziando la non percorribilità di alcune scelte miopi e dannose. Credo tale rivista dovrebbe anche cercare, insieme agli esempi negativi, con grande attenzione dentro al tessuto connettivo di città e paesi le architetture nuove di qualità mai individuate, e darne risalto sul piano dell’esemplarità non solo da segnalare, ma soprattutto da imitare. AV: Ci parli, infine, della sua esperienza come Direttore di Anfione e Zeto, una rivista caratterizzata dalla coerenza e dalla chiarezza del programma editoriale, che ancora resiste alle imposizioni delle leggi di mercato e che non si lascia tentare dalle passeggere tendenze architettoniche alla moda. MP: Ho fondato Anfione e Zeto nel 1988 dopo una stimolante esperienza di ‘gestione’ di una sezione della rivista mensile ‘l’Architettura’ di Zevi, che avevo chia-
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mato ‘Tecnologia-progetto’. La rivista nasce come risposta alla formazione dilagante di periodici alla ‘moda’ che fornivano molte proposte per architetture forse sperimentali, ma poche interrogazioni sul problema della ricerca della qualità e soprattutto sull’essenza e sul destino delle architetture delle città che stavano, in quel tempo, esplodendo a dismisura e in maniera incontrollata. Dal mio osservatorio di provincia, da bravo architetto ‘operaio’ come amo definirmi, perché da quasi trent’anni progetto e costruisco ‘sporcandomi le mani’ nei cantieri, non potevo accettare né di passare sotto silenzio tale situazione, né potevo evitare di confrontarmi, e di scontrarmi, con le tendenze dell’architettura internazionale. Con l’aiuto straordinario ed importantissimo di alcuni architetti e filosofi (Giuseppe Mazzariol, Massimo Cacciari, Edoardo Benvenuto, Valeriano Pastor, Adolfo Natalini, Vittorio Savi e Paolo Valesio dalla Yale University), dopo parecchi mesi di gestazione, ho individuato questo strano nome, prendendo come nume tutelare Valery, che, presentando la figura di Amphion ai suoi studenti, parlava loro dell’architettura, filtrata da questo personaggio ispirato da Apollo da cui apprende l’arte dell’edificare attraverso la musica. Al suono della lira le pietre informi intorno a lui diventano architettura, formano una città. Nel mito è Zeto, il fratello gemello, a prendere le pietre sulle spalle per aiutare Anfione a costruire la città, e quindi ecco la tecnica che arriva forte e potente ad aiutare il lato poetico e creativo. Per me Anfione e Zeto sono i due volti attraverso i quali l’architettura, che è scienza (come disse Vitruvio) si mostra. Ma era sul farsi
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dell’opera che continuavo ad interrogarmi, per decantare e comprendere il processo che porta dalla prima idea di progetto alla forma realizzata, e in questo processo quanto poteva incidere il sociale, il politico, la storia, la memoria. Un’opera realizzata viene presentata da allora in AZ come ‘fare’ e come fatto, dagli schizzi di progetto iniziali alle cose più circostanziate e legate al rapporto che il progettista ha con il sito, con le amministrazioni, con i committenti. Attraverso le dichiarazioni del progettista viene individuata la genesi dell’opera, subito dopo la progettazione di massima, la parte esecutiva ed il realizzato viene mostrato attraverso immagini costruite con numerose ‘zoomate’, per evidenziare anche ogni dettaglio costruito. Dell’architettura mi appassiona il progetto perché rappresenta la speranza per l’uomo di costruire se stesso attraverso la costruzione del proprio futuro, ma anche la speranza di dare un segno e un senso al proprio vivere. Mi appassiona il concetto di tempo che sta dentro l’architettura, ancor più che lo spazio. L’architettura, quando è costruita, entra a far parte del tessuto connettivo della struttura sociale, ed è rappresentazione stessa del vivere dell’uomo nel mondo. È inoltre sempre stata mia intenzione che in AZ non ci si fermasse sulla soglia della pratica architettonica, ma ci si avvicinasse, apparentandosi, alla stessa domanda che sorge nelle altre pratiche, perché sono consapevole che l’architettura è il luogo dove da sempre tutte le pratiche umane si incontrano e ritrovano il loro significato; è il luogo da dove si può partire per interrogarsi. Posso dire, per concludere, che il fare di Mies Van der
Rohe mi ha da sempre molto coinvolta e mi ha strutturata, aiutandomi a mettere in atto, anche attraverso la fondazione e la Direzione di AZ quel suo fondamentale pensiero sull’architettura vista come grande battaglia dello spirito. Margherita Petranzan si laurea in architettura allo IUAV nel 1972, e dal 1974 esercita la professione di architetto. Responsabile della sezione Tecnologia-progetto della rivista “L’architettura” diretta da Bruno Zevi (198586), nel 1988 fonda e dirige la Rivista di Architettura e Arti “Anfione e Zeto”, che si avvale di un comitato scientifico formato da Aulenti, Gravagnuolo, Pastor, Purini, Valesio, dei vice direttori Gelli e Peressa e di un comitato di coordinamento redazionale formato da Biraghi, Borsotti e Cassani. Direttore responsabile della rivista di filosofia “Paradosso” il cui comitato direttivo è composto da Cacciari. Curi, Givone, Marramao, Sini, Vitello. Dal 1990 al 1992 dirige una collana di Estetica con S. Givone e M.Donà. Autrice di numerosi saggi, ha scritto il volume Gae Aulenti, Rizzoli International, 1996. Dal 1990 al 2006 organizza numerosi seminari e convegni; nel 2002 è selezionata per la mostra internazionale Dal futurismo al futuro possibile, Tokyo. Nel 2005-06 dirige con franco Purini il workshop Abitare la luce, Potenza. Nel 2006 collabora con Purini alla cura del Padiglione Italiano alla 10 Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia, ed è membro della giuria del Padiglione Italiano. Professore di Elementi di critica dell’architettura presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano. Nel dicembre 2006 è nominata dalla Consulta Nazionale per le Politiche del Turismo a Coordinatore del gruppo tecnico Territorio-PaesaggioArchitetture.
1. Mies van der Rohe. Casa Farnsworth a Plano, Illinois 1945-50. 2, 3, 4, 5, 6. Alcune copertine di numeri della rivista “Anfione e Zeto”.
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forum per l’architettura di qualità
le piazze di illasi Alessandro Tutino
Concorso di idee per la riqualificazione urbanistica, ambientale, paesaggistica ed architettonica di Piazza della Libertà, Piazza Polonia con annesso campo sportivo e Piazza Sprea in Illasi.
Giuria: Prof. Giuseppe Trabucchi Presidente Prof. Alessandro Tutino Prof. Bruno Dolcetta Prof.ssa Claudia Conforti Prof. Joào Luis Carrilho da Graça Prof. Arch. Arrigo Rudi Arch. Giovanni Castiglioni 1° premio: Arch. Carlo Alberto Cegan con Arch. Giacinto Patuzzi, Arch. Valeria Zalin 2° premio: Arch. Gaspare Paolin con Arch. Maurizio Rossi; collaboratori: Dott. Lino Paolin, Dott. Marco Maurizio Rossi, Dott. Paolo Maria Piziati 3° premio: Arch. Emanuela Zorzoni con Arch. Federica Scappini; collaboratori: dott. Luca Brandalise Menzione: Arch. Pierluigi Grigoletti Menzione: Arch. Maurizio Ori, con Arch. Paola Arienti, Arch. Sebastiano Brandolini, collaboratori: Dott. Daniele Cuizzi, Quargnale Maurizio, Ing. Stefano Migliaro, Ing. Marco Taccini, Dott. Nicola Azzini, Arch. Fedrico Bianchessi, Arch Giovanni Gaggia, Arch. Francesca Magri, Arch. Ezio Vancheri.
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La piazza di continuo invita le distanti finestre a rientrare nella sua vastità, mentre il seguito ed accompagnamento del vuoto lentamente si distribuisce ed ordina tra le fila del commercio. (…) Così Rainer Maria Rilke (Neue Gedichte) descrive magistralmente la piazza di Fiume, nella quale pure si organizzava il mercato settimanale. Anche ad Illasi, il mercato del venerdì è l’occasione nella quale “il vuoto lentamente si distribuisce ed ordina” in una piazza altrimenti curiosamente informe. Possiamo muovere da queste suggestioni per introdurre un discorso intorno alla lodevole iniziativa dell’amministrazione comunale di Illasi di indire un concorso di idee per il riordino urbanistico ed edilizio del sistema delle piazze centrali. Come è ben noto ai colleghi architetti ed urbanisti, la piazza è luogo privilegiato dell’organismo urbano in tutto il mondo occidentale e soprattutto in Italia, e soprattutto negli organismi di formazione comunale, ed ancor più il “sistema di piazze” specializzate, ossia destinate ognuna ad ospitare e celebrare i riti collettivi della cittadinanza, il culto, l’organizzazione civica, gli affari o il mercato. Si da il caso che Illasi disponga proprio di tre piazze contigue, che nella planimetria del centro sembrerebbero proprio configurare il tradizionale “sistema di piazze”, e invece no: le tre funzioni canoniche sono tutte e tre collocate nella piazza principale che peraltro, al pari delle altre due è, come già detto, curiosamente informe. Come si sia generata ad Illasi questa anomalia distributiva e compositiva è difficile dirlo, né ci aiutano le antiche
mappe. Si direbbe che l’unica vera piazza, la piazza della Libertà, sia nata come sagrato della chiesa collocata al termine dello “Stradone” che collegava e collega il centro con la strada di fondovalle, e che in questa posizione abbia dovuto anche svolgere la funzione di bivio, a NordEst verso il castello, il monte Tenda e la valle Tramigna, a Sud-Est verso la contrada Prognolo, e pertanto condizionata da questo ruolo. Le altre due piazze viceversa sono sempre rimaste allo stadio di spazi di risulta, morfologicamente irrisolte, sicché la definizione di piazze è puramente toponomastica. Per un comune dall’impianto urbanistico di esemplare chiarezza, impostato su due assi ortogonali, uno dedicato alle grandi dimore patrizie, e l’altro alle funzioni pubbliche, e dal patrimonio monumentale eccezionale, questa inadeguatezza della configurazione del centro urbano non poteva non provocare, prima o poi, un forte desiderio di intervento. A farsene carico, lodevolmente, è stata l’amministrazione guidata da Giuseppe Trabucchi, con l’iniziativa di questo concorso. Le finalità dichiarate del concorso erano quelle di definire l’identità delle tre piazze, del loro sistema, e delle loro relazioni; di attribuire specificità funzionale alle tre piazze; di riorganizzare la viabilità che attraversa o lambisce il centro; di trovare uno spazio appropriato per il mercato settimanale; di valorizzare i caratteri architettonici presenti e migliorare quelli delle quinte edificate di scarso valore; di far confluire nel sistema centrale con diversa utilizzazione lo spazio del campo sportivo dimesso. Compito non facile, occorre riconoscerlo,
ma allo stesso tempo suggestivo e stimolante per chiunque ami misurarsi e mettere a confronto le proprie capacità, l’inventiva e la fantasia. L’esito del concorso, diciamolo subito, ha lasciato piuttosto insoddisfatta la commissione giudicatrice (prof. Giuseppe Trabucchi, prof. Alessandro Tutino, prof. Dino Formaggio, prof. Bruno Dolcetta, prof.ssa Claudia Conforti, arch. Joäo Luis Carrilho da Graça, Prof. Arrigo Rudi). Possono aver congiurato contro un più felice esito sia la stagione estiva, ovviamente poco favorevole, sia la brevità dei termini, sia alcune caratteristiche del bando, che per esempio non offriva alcuna prospettiva di successiva realizzazione, o anche limitava in modo troppo rigido le possibilità di nuova edificazione, sia l’oggettiva difficoltà del tema, fatto sta che la partecipazione numericamente soddisfacente è stata però qualitativamente inferiore alle attese. Sorprendenti, ad esempio, alcune caratteristiche comuni alla maggioranza dei progetti presentati: l’oggetto del concorso essendo “l’elaborazione di un progetto unitario per la riqualificazione e valorizzazione urbanistica, ambientale, paesaggistica ed architettonica delle piazze e del campo sportivo dismesso”, l’urbanistica è rimasta relativamente trascurata e così pure gli evidenti problemi della viabilità, mentre grande attenzione, con risultati a volte pregevoli, è stata dedicata al disegno e alla scenografia urbana. Quando dico che l’urbanistica è sembrata generalmente trascurata voglio dire che non si sono visti tentativi convincenti di affrontare in primo piano i problemi di forma e di relazione tra gli spazi og-
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getto di intervento: queste tre cosiddette piazze, di cui la principale priva di una quinta e con una quinta inadeguata, e le altre due prive di tre lati su quattro e dunque spazialmente indeterminate, nella maggioranza dei progetti sono rimaste quasi allo stesso stadio, oppure occupate da chioschi, fontane, giochi di pavimentazione, aiuole o alberature ma senza che mai questi inserimenti appaiano concepiti con il fine di risolvere il problema della forma e della delimitazione. Anche la distribuzione delle funzioni, che in verità offriva solo l’opportunità di traslocare il mercato settimanale e un auspicabile rafforzamento delle attività commerciali centrali, comunque appare sempre proposta come puro provvedimento di ordine distributivo e mai come occasione per risolvere con operazioni di disegno urbano l’obiettivo di attribuire importanza, riconoscibilità, identità, e dignità di spazi centrali della cittadinanza a questi luoghi. Naturalmente sono ben consapevole che da molto (troppo) tempo l’urbanistica è in crisi come strumento di governo delle trasformazioni territoriali, ma mi risultava che proprio questa crisi aveva viceversa rafforzato l’interesse per il disegno urbano e per la rappresentazione nobile delle virtù civiche in adeguati spazi e scenografie. Scenografie come elementi di composizione urbanistica e non solo come superfici disegnate. L’esito di questo concorso suggerisce dunque qualche interrogativo preoccupato sulla dinamica di questa disciplina e sullo stato dell’arte. Queste considerazioni poco esaltanti nascono da una valutazione complessiva
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dei quaranta progetti esaminati (su quarantuno presentati, uno escluso per incompletezza della documentazione). Il discorso cambia, per fortuna, se invece fermiamo l’attenzione sui tre progetti premiati, anche se la commissione giudicatrice ha voluto rimarcare in apertura del suo giudizio che nessun progetto aveva pienamente corrisposto alle attese e alle richieste del bando. Il progetto vincente (Carlo Alberto Cegan, Giacinto Patuzzi, Valeria Zalin) è efficacemente illustrato da una nota redazionale in altra parte di questa rivista, sicché mi resta solo da sottolineare la felice proposta di recuperare il disegno ellittico della vasca presente fino ai primi anni del ‘900 nella stessa posizione, e qui utilizzata per organizzare in una forma non gratuita i banchi del mercato settimanale, ma poi anche come suggerimento per dare forma alle aiuole del parco a Nord della sede comunale. Coraggiosa e interessante anche la decisione di sopprimere la piazza Polonia, già inesistente, occupandone lo spazio con leggeri volumi progressivamente necessari alle esigenze degli uffici comunali e portando a ridosso di questi il verde del nuovo parco pubblico. Volutamente e sbrigativamente sacrificata la viabilità, alla stregua di puro disturbo. Del progetto secondo classificato (Gaspare Paolin, Maurizio Rossi, Lino Paolin, Marco Maurizio Rossi, Paolo Maria Piziati) è da apprezzare la ricerca dei segni e dei tracciati del passato, recuperati nel disegno progettuale, Gli spazi delle tre piazze sono ricondotti ad unità di ruolo attraverso un sapiente
uso dei materiali di pavimentazione. Interessante anche la soluzione della sala ipogea sotto al parco, che risolve ogni attuale e futura necessità di spazi coperti senza intaccare l’occupazione di suolo e il verde pubblico. La viabilità è risolta nel modo più facile, deviando il traffico motorizzato dietro alla sede comunale, con inevitabile sacrificio dello spazio della piazza Polonia che infatti anche in questo caso risulta annullata, a favore della viabilità e dell’ampliamento del parco. L’esame del progetto terzo classificato (Emanuela Zorzoni, Federica Scappini, Luca Brandalise) richiede un notevole sforzo di buona volontà per superare il disagio provocato da una relazione scritta in un italiano alquanto incerto (ai miei tempi alle elementari e alle medie si insegnava almeno a scrivere correttamente), e da una rappresentazione tutta notturna delle viste prospettiche. Una volta superati questi scogli si viene premiati dalla scoperta di soluzioni apprezzabili, come il teatro dietro alla sede comunale e il volume di risulta della gradinata, capace di offrire spazi mimetizzati per svariate utilizzazioni, o l’uso forse qualche volta ingombrante, ma sempre attentamente graduato dei supporti luminosi e delle luci, che diventano elementi della composizione spaziale, o la coraggiosa destinazione dello spazio del parco ad una diversificazione di funzioni. Non c’è dubbio che questo concorso ha offerto ad Illasi suggerimenti e provocazioni che non potranno non lasciare un segno, anche se purtroppo rimane del tutto indeterminata la probabilità di
realizzazioni sia pure parziali di questi progetti. È il fatto che un piccolo comune abbia affrontato problemi di questa natura con un progetto di concorso così ambizioso che stupisce e desta ammirazione, e insieme ci conduce ad augurarci che questa esperienza trovi imitatori e che i suoi pregevoli risultati non rimangano lettera morta.
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Alessandro Tutino (Milano, 1926) è Professore emerito di Pianificazione Territoriale. Ha insegnato allo IUAV di Venezia e all’Università della Calabria, dove ha diretto il Dipartimento di Pianificazione Territoriale dal 1988 al 1996. Presidente dell’INU dal 1977 al 1983, è autore di numerosi saggi e pubblicazioni. Ha svolto consulenze scientifiche per enti pubblici e redatto numerosi progetti urbanistici, tra cui il PRG di Concordia Sagittaria (VE), 1982, il Piano Particolareggiato del Centro Direzionale e il PRG di San Donato Milanese, 1988-1993 (in collaborazione), la Variante generale al PRG di Paola (CS), 1998 e di Sommacampagna (VR), in corso.
1. Concorso di idee per la riqualificazione delle piazze di Illasi. Progetto primo classificato: arch. Carlo Alberto Cegan, arch. Giacinto Patuzzi, arch. Valeria Zalin, Verona 2. Progetto secondo classificato: arch. Gaspare Paolin, arch. Maurizio Rossi, dott. Lino Paolin, dott. Marco Maurizio Rossi, dott. Paolo Maria Piziati, Bassano del Grappa (VI) 3. Progetto terzo classificato: arch. Emanuela Zorzoni, arch. Federica Scappini, dott. Luca Brandalise, Verona
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forum per l’architettura di qualità
Grottesco Padano, un dialogo con Giancarlo Carnevale a cura di Filippo Bricolo
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Il 27 ottobre 2006 con 57 voti a favore, dopo tre votazioni e un decisivo ballottaggio finale, Giancarlo Carnevale è stato eletto preside della Facoltà di architettura dell'Università IUAV di Venezia. Succede a Carlo Magnani. Uomo colto e dalla parlata suadente, Carnevale coltiva da oltre trent'anni, con dedizione ed ostinato entusiasmo, il terreno notoriamente arido della didattica. Chi ha avuto l'occasione di poterne frequentare i corsi è stato testimone di un autentica passione nei confronti dell'insegnamento. In testi didattici come "Litanie e Griffonages" o "Caro studente ti scrivo" questo amore si è esplicitato in una prosa chiara, ironica, non priva di suggerimenti utili e pratici ai giovani lettori, di storie e storielle emblematiche e di slogan ripetuti. "Non è un bel mestiere....", "Piccoli muri crescono", "Copiare, ah...copiare!", "Occhio alle spine". Anche gli indici delle sue raccolte testimoniano la volontà di attirare l'attenzione, il desiderio di essere letto e di stimolare la curiosità. A colpire è il linguaggio utilizzato: accessibile, cortese, più simile al Daniel Pennac di "Come un romanzo" o al Cerami di "Consigli ad un giovane scrittore" che alla prosa elitaria, ermetica e respingente di molta saggistica d'architettura. Non poco per un accademico. Nei testi non direttamente dedicati alla pratica dell’insegnamento, la leggerezza dello stile permane e si pone in riuscito contrasto con la spinosità dei temi trattati e delle opinioni espresse, sovente contrarie all’ordine costituito e volte ad indagare le storture del
complesso e contraddittorio mondo dell’architettura italiana. Alcuni esempi: “Chi ha paura del gusto cattivo?” che indaga le colpe e gli esiti contraddittori degli studi sull’analisi urbana; “Deformazioni ai margini” sul divergere preoccupante della cultura bassa da quella alta; le riflessioni continuative sul grottesco, iniziate dalla omonima voce curata per il dizionario di Luciano Semerani (improntata sulle tesi di Bachtin e sulle opere di Plecˇnik) e poi evolute in ragionamenti sul costruito e sull’architettura non autorale come “Il grottesco prossimo venturo”, “Architettura grottesca, una non evitabile opportunità”. A pochi mesi di distanza dalla sua elezione ai vertici dello IUAV esce “A regola d’arte”, un volume da lui curato e chiuso significativamente con un saggio, “Realismo tragico”, in cui raccoglie e riordina molte delle sue fissazioni in un percorso lineare ed affascinante che sembra tracciare un identikit preciso dell’architettura italiana. La conversazione che segue ha avuto luogo nel nuovo ufficio di presidenza ai Tolentini a partire dalle riflessioni su quel testo. FILIPPO BRICOLO: “Realismo tragico” sembra far confluire in un unico percorso gli esiti di tracciati riflessivi che sembravano tra loro autonomi. Quasi un filo che raccoglie, in un nuovo disegno, pietre diverse. L’anima del racconto sembra essere il grottesco. Come si è evoluto questo ragionamento? GIANCARLO CARNEVALE: Inizialmente ero partito da un bel saggio di Bacthin
scritto, credo negli anni Cinquanta, un libro su Rabelais. In quel testo lui individuava il grottesco come una categoria che si contrapponeva al classico visto come qualcosa che nasconde e rende levigato lo sforzo, mentre il grottesco era inteso come esaltazione di quello che lui definiva “un universo basso” e quindi un mondo alla rovescia con tutta una serie di eccessi. Si tratta di un modello di interpretazione che funziona benissimo anche per l’architettura, per descrivere quella subcultura dilagante e di successo che era nata, in contemporanea al post-modern, come una risposta caricaturale dell’architettura non colta riguardo invece ad un linguaggio più alto, più raffinato. FB: Il grottesco: da Bacthin alle lottizzazioni? Il salto sembra rischioso ma suggestivo. GC: Si, perché ho capito che non bisognava avvicinarsi allo studio di questa patologia con la supponenza o il disprezzo che sono invece le prime reazioni che vengono spontanee. I fenomeni vanno studiati nella loro genesi, nella loro irrazionalità apparente; anche perché, se prevalgono, se determinano frange non secondarie dello sviluppo urbano (dovunque e in modo pervasivo in Sicilia, in Calabria, nel Veneto) allora sono manifestazioni che non vanno sottovalutate dalla nostra cultura. FB: Rileggendo i suoi testi e confrontandoli con “Realismo Tragico” si nota un percorso, una evoluzione. GC: Saranno quindici anni che ci gioco intorno. Per un periodo ho seguito del-
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le ricerche in cui provavo a fare delle classificazioni, procedendo come si fa in questi casi... tu raccogli una documentazione anche molto vasta e poi cerchi di ordinarla, di trovare delle matrici. Devo dire che funzionava. Capivo che c'era quasi sempre un riferimento confuso, anche arrogante nei confronti di materiali presi dalla storia in modo disordinato, ma poi c'era anche una capacità di manipolarli, di aggregarli, di ricombinarli tra loro con una forza a noi sconosciuta, una violenza un po' barbara. Ma più andavo avanti con questi ragionamenti, di cinque anni in cinque anni, mi rendevo conto della difficoltà di descrivere un fenomeno ad esempio come il villaggio Coppola di Pineta mare, un insediamento speculativo lungo la costa napoletana. Era una operazione andata avanti dagli anni Sessanta fino ancora agli anni Novanta, una fiera di atrocità... però più provavo a descrivere queste cose con un testo, più mi rendevo conto che quella descrizione andava bene anche per Plecˇnik o Gaudì... insomma, non riuscivo a definire il grottesco e a collegarlo ad un giudizio di valore semplicemente lavorando sulla fenomenologia. È stato questo che mi ha portato a capire che forse è solo una nostra sovrastruttura ideologica quella di considerare infima questa produzione. FB: Cosa intende dire? GC: Voglio dire che queste opere, pur essendo indubbiamente infime e rozze, esprimono in realtà un bisogno profondo, un bisogno di bello altrove trascurato. Questa domanda non ha trovato una
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risposta adeguata da parte della nostra cultura disciplinare e quindi si è soddisfatta da sé, in modo occasionale, forzando la richiesta e poi trovando, prima nei geometri e poi ora anche negli architetti, degli esecutori che la interpretano e che in qualche modo la assecondano. Non credo che si possa educare il pubblico ad un nuovo gusto ma credo che si possa interpretare questa domanda perché riflette un desiderio reale che è stato in un certo periodo e da un certo gruppo ignorato, calpestato. È da lì che bisogna partire per capire queste realizzazioni. FB: Non la seguo, a quale periodo si riferisce? GC: Parlo della “Tendenza”, anche se ora nessuno la chiama più così. Io sono sempre stato critico verso la “Tendenza”, mi sembrava quasi il frutto di una rimozione collettiva. Era un senso di colpa che si trasformava in una ricerca solo in apparenza di low-profile ma che invece era una sorta di aristocratico minimalismo ante-litteram che si traduceva poi in una architettura inflazionabile e di fatto inflazionata. Questa vicenda ha avuto degli effetti non secondari sull’architettura italiana. L’occupazione di importanti posizioni nel dibattito culturale, la possibilità di poter realizzare delle opere significative anche a livello di opere pubbliche e la conseguente diffusione del fenomeno hanno contribuito ad allontanare definitivamente la cultura alta da quella bassa. Io ho vissuto a Napoli ma insegnavo anche a Pescara e vedevo crescere questo successo della cultura italiana che
in quegli anni vantava un esponente del calibro di Aldo Rossi e rincalzi validissimi ovunque in ogni provincia e che stava addirittura colonizzando la Svizzera, la Spagna, il Portogallo. Se ti guardi le annate di Controspazio puoi ricostruire una vicenda che con il senno del poi ha dell'inverosimile, una rincorsa collettiva al brutto. Ricordo una delle prime volte che venivo a Venezia, circa 22 o 25 anni fa, in un convegno chiesi a Giorgio Grassi ragione di quei prospetti che definii, forse in modo irriverente, apatici. Lui non reagì, anzi sembrò apprezzare la mia definizione che vide quasi come un complimento. Mi ricordo molto bene che, da vero snob qual è, disse: “si, mi accorgo anch’io che sono brutti, ma che posso farci, non mi riesce di farli più belli”. Ed era un compiacimento perché in realtà la sua architettura produceva un successo straordinario basato sui sensi di colpa, sull'illusione di poter democratizzare l’arte e l’architettura. FB: Perché in riferimento a quella generazione parla di sensi colpa? È la seconda volta che usa questa definizione. GC: Ne parlo perché l'architettura italiana degli anni Sessanta aveva avuto dei filoni che anticipavano in qualche modo quello che sta accadendo oggi. Cioè c’era un filone organico che vedeva in Savioli, in Aldo Loris Rossi, in Leonardo Ricci e nello stesso Michelucci esponenti assolutamente autorevoli. Era una vicenda che partendo dall’informale stava producendo effettivamente un’architettura manierata, riccioluta. Allora erano anni in cui la poli-
ticizzazione invadeva il privato e reagire a questa architettura, opporsi razionalisticamente sembrava una risposta di sinistra. Ricordiamo che in quel periodo Aldo Rossi faceva uscire i suoi testi più importanti, contribuendo di fatto a far nascere il convincimento che l’architettura potesse essere progressiva, cioè una di quelle scienze che appurano il sapere e che quindi si evolvono. L’architettura come disciplina progressiva, una disciplina che cresce in modo democratico distribuendo la conoscenza, trasferendola secondo progressioni razionali e quindi ecco l’aggancio con l’illuminismo, con queste matrici anche monumentali. Ma in realtà dietro queste pur valide e affascinanti teorizzazioni si celava un’operazione elitaria e anche un po’ militaresca, che si traduceva per esempio nell’occupazione delle accademie. In quegli anni le facoltà erano affollatissime perché da poco c’era stata una liberalizzazione degli accessi, non c’era numero chiuso e questo tipo di didattica era ideale per ottenere risultati alti. Si codificavano anche le grafie. C’erano i disegni con gli aerografi che rendevano belle queste facciate uniformi... insomma si stava correndo in modo scriteriato verso tutt’altro che un’evoluzione, si stava affermando un’accademia che ormai era giunta a ripetersi in non meno di cinque anni. I risultati tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta sono assolutamente equivalenti. Questo fatto dimostra che era nata una maniera che si riproduceva con una facilità impressionante.
“L’architettura della città”, testo di indubbio fascino, in realtà prometteva un’evoluzione, un progresso che poi non avvenne e fu proprio Aldo Rossi, spiazzando molti dei suoi più fedeli sostenitori, a seguire un suo percorso individualista e provocatoriamente autobiografico. FB: Credo però che non si possa negare la qualità delle teorie prodotte in quegli anni. GC: Confesso che il blocco che avevo a quei tempi mi impediva di vedere cosa c’era stato di positivo sotto altri fronti come la letteratura teorica prodotta da parte di quei gruppi. Gli studi sull’analisi urbana erano raffinatissimi e le indagini di Muratori, di Aymonino hanno portato tutti a masticare bene lo studio delle città, la lettura dei tessuti. Gli italiani confermano ancora oggi questa capacità di decifrare le mappe. Credo però che quest’analisi non abbia fatto molto per considerare anche la terza dimensione, gli alzati. Tutto questo ha prodotto secondo me un distacco pesantissimo tra la cultura accademica e il pubblico, perché la gente restava non solo indifferente a quelle architetture ma non vi si riconosceva in nessun modo. FB: Ritorniamo al collegamento tra questa vicenda e quella che lei definisce l’attuale subcultura trionfante. GC: È stato studiando la subcultura popolare che ho capito che essa è in realtà un sottoprodotto, un risultato di questa operazione più alta. Il distacco, l’altezzosità, l’atteggiamento sprezzante che si ostentava nei confronti del bisogno
del bello ha prodotto nel territorio una simmetria, cioè distacco, disprezzo verso la produzione architettonica colta. FB: Ma le altre esperienze del Novecento in tutto questo che fine hanno fatto? GC: In quel periodo la tesi era che l’architetto che progetta dovesse operare in modo razionale con una strumentazione linguistica controllata, senza abbandonarsi alla figurazione. È a causa di questa impostazione che sono state buttate via esperienze importanti come quella di Giò Ponti e tutta una bellissima tradizione degli anni Cinquanta: Scarpa, Gardella, la grande professionalità dei milanesi degli Albini e dei Magistretti. In quegli anni si è sviluppato anche un certo disprezzo per il cantiere. L’architettura semplificata, elementarizzata, ridotta quasi a simbolo di sé stessa era indipendente dal cantiere, notoriamente il luogo della contaminazione. La conseguenza è stata una sorta di legittimazione dell’ignoranza costruttiva, un atteggiamento che loro, i maestri, si potevano anche permettere. In realtà era quasi una civetteria d’artista. Ma lo stesso approccio, proiettato in uno scenario più ampio, ha provocato una deriva pericolosa, un distacco dalla costruzione, dalla materialità, da queste cose fastidiose, difficili da capire, che richiedono un grandissimo artigianato e la capacità di negoziare sia le proprie idee che la propria scelta formale e figurativa. FB: Ora lei diventa preside di quella che è probabilmente la facoltà italiana più prestigiosa, un’università ca-
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lata in un territorio compromesso che non la riconosce più come punto di riferimento. Come si pone di fronte a questo problema? GC: Io credo che ci sia consapevolezza della crisi ormai da tanto tempo, ma che nessuno sa bene dove cercare le prospettive. Da una parte vedo, in una regione vicina come l’Alto Adige, delle buone produzioni di case unifamiliari o anche di edifici anomali tipo terme, chiese, piccoli musei. Quanto questo sia dovuto anche a un scelta diversa di auto-regolamentarsi e ad una minore incidenza delle soprintendenze non saprei dirlo con certezza, ma ho il sospetto che in quelle zone vi siano degli esiti virtuosi proprio perché certi regolamenti edilizi molto avanzati, che loro praticano, hanno influenza sulla forma e in qualche modo condizionano l’utilizzo dei materiali, creando quasi una filosofia spicciola del costruire che poi si riverbera anche sulla qualità diffusa di queste architetture. Forse l’impostazione normativa è un fattore che può dare qualche indicazione. Ma sinceramente lo sprawl veneto mi sembra assolutamente sordo e refrattario nei confronti di questi piccoli avanzamenti. FB: Qual è il motivo di questa opposizione al rinnovamento che sembra essere un tratto distintivo del territorio veneto? GC: La mia convinzione è che sia un problema di cultura di base. L’italiano medio ha un gusto abbastanza evoluto e raffinato per quanto riguarda ad esempio la forma del vestire, lo stesso possiamo dire per la produzione del de-
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sign. Anche l’editoria del nostro paese continua ad essere considerata un riferimento per la grafica e l’impaginazione, il cinema si sta riprendendo, abbiamo fotografi di grande caratura, insomma lo sguardo italiano è ancora educato, ma non nei confronti dell’architettura. Questo accade perché c’è proprio un danno che si è prodotto nel tempo. Il cambiamento deve partire dagli architetti, dagli ordini ma anche qui dalla scuola, dove bisogna saper dare degli strumenti critici. Non è possibile che i nostri studenti qui siano bravissimi e non appena fuori siano pronti a costruire delle cose di scarsa qualità. Io ho nei miei archivi migliaia di fotografie fatte dagli studenti. Ho insegnato al primo anno per due decadi e il primo giorno ho sempre chiesto di fotografare l’architettura più bella e l’architettura più brutta nei pressi della propria abitazione. Tempo fa avevo ipotizzato di realizzare una rivista che avevo scherzosamente battezzato Casabrutta-discontinuità, era uno dei miei pallini. Ma poi si sono reso conto che questa sequenza di mostruosità diventava monotona. FB: Come si approccia nell’insegnamento a questo problema culturale? Quali sono le cose più importanti su cui puntare nella formazione dei nuovi professionisti? GC: Noi siamo geneticamente vitruviani, ma la triade per me ha gerarchie interne. Nel tempo ho deciso che la firmitas è al primo posto, l’utilitas al secondo e la venustas può anche non starci. Non credo che un risultato sicuro possa
provenire direttamente dall’applicazione di due dei vertici del triangolo però dovendo rinunciare a qualcosa penso sia stato un errore rinunciare alla costruzione, come sbagliato è compromettere l’utilitas. Costruire bene continua ad essere per me imprescindibile, uno di quei valori fondamentali da cui non bisogna recedere. Senza una corretta costruzione non c’è architettura ma anche la funzione ha i suoi diritti e non è possibile, come accade spesso, calpestarla fino agli angoli acuti. Ecco, questa può essere oggi una linea di resistenza.
Giancarlo Carnevale nasce a Napoli il 25 agosto 1942, dove si laurea in architettura nel 1969. Svolge attività didattica e di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Pescara nel 1970, di Napoli dal 1971 al 1984, di Venezia dal 1985 al 1989, di Palermo dal 1989 al 1992. Attualmente, vive e lavora a Venezia. È professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura dell’Università Iuav di Venezia dove ha ricoperto la carica di Direttore del Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e del Dipartimento di Progettazione Architettonica. Attualmente è preside della Facoltà di Architettura. È stato redattore del “Drago”, ha preso parte al comitato direttivo di “Aura”, collabora con “Op. Cit.”, con “Modo” e con altre riviste. Ha curato gli “Annali della Architettura Italiana Contemporanea” 1986-87 e 1988-89 ed è responsabile di collana per la Officina Edizioni. Nelle foto: edifici realizzati nell’hinterland veneziano.