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la demolizione e la costruzione del moderno nella città antica architettiverona –80

la demolizione e la costruzione del moderno nella città antica: cinque casi esemplari a verona i cecchini di cecchini – mastino II a castelvecchio – herbert hamak: materia e colore – la nuova biblioteca civica – vincenzo pavan: dieci anni del premio internazionale marmomacc– jacques gubler: pedestris iter veronensis– una finestra su verona sud– milo manara: altre storie, altre città a r c h i t e t t i v e r o n a r i v i s t a q u a d r i m e s t r a l e s u l l a p r o f e s s i o n e d i A r c h i t e t t o f o n d a t a n e l 1 9 5 9 - T e r z a e d i z i o n e - A n n o X V n . 3 s e t t e m b r e / d i c e m b r e 2 0 07 Aut. del Tribunale di VR n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane Spa, spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004) art. 1, comma 1, DCB Verona

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CONSIGLIO DELL’ORDINE Presidente: Arnaldo Toffali Vicepresidente: Paola Bonuzzi - Segretario: Enrico Savoia Tesoriere: Giancarlo Franchini Consiglieri: Filippo Bricolo, Vittorio Cecchini, Gian Maria Colognese, Stefania Emiliani, Susanna Grego, Raffaele Malvaso, Andrea Mantovani, Stefano Olivieri, Paola Ravanello, Paola Severoni, Paola Tosi

Integrazione alle osservazioni al PAT di Verona

Con riferimento a quanto apparso recentemente sui quotidiani locali relativamente ad alcune osservazioni al PAT di Verona da parte di privati, immobiliaristi, agricoltori e categorie professionali, tra cui quella degli Architetti, ree, se accolte, di provocare una maggiore possibilità edificatoria, corre l’obbligo di fare alcune precisazioni al fine di consentire una completa e corretta informazione agli iscritti. Innanzitutto è necessario precisare che le osservazioni ad uno strumento urbanistico generale sono previste dalla legislazione nazionale e regionale e contribuiscono a costituire quel processo democratico “della partecipazione” al governo del territorio. È facoltà delle amministrazioni accogliere o meno, anche fuori termine, le osservazioni presentate da privati cittadini, da associazioni e categorie, ed in generale da chiunque abbia titolo per farle. Le osservazioni sono inoltre oggetto di verifica di legittimità da parte degli uffici preposti, sia a livello locale che a livello regionale. Pertanto se le stesse vengono ritenute legittime e meritevoli di accoglimento, possono costituire oggetto di modifica e/o rielaborazione degli strumenti urbanistici in fase di approvazione.

Viceversa se le osservazioni presentate risultassero illegittime e/o non pertinenti e quindi non meritevoli di accoglimento, non ne deriverebbe alcun effetto sugli erigendi strumenti urbanistici. Nello specifico l’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona attraverso il lavoro delle commissioni interne, ha sempre fornito il proprio contributo, sotto forma di osservazioni, in materia urbanistica alle Amministrazioni comunali. Relativamente alla adozione da parte del Comune di Verona del Piano di Assetto del Territorio (PAT) con deliberazione del Consiglio Comunale n. 15 del 24.03.2006, l’Ordine ha presentato le proprie osservazioni in data 22 giugno 2006 ( prot. n. 148776 – oss. n. 621), che l’amministrazione Zanotto in fase di controdeduzione ha ritenuto di non accogliere in quanto, “istanze riguardanti o problematiche specifiche oppure questioni di carattere generale”. È necessario ricordare che ai sensi dell’art. 14 della L.R. 11/04, in riferimento alla data di adozione del PAT, i termini per la presentazione delle osservazioni scadevano il 22 giugno 2006. Trattandosi tuttavia di termine non perentorio, sono state accettate e controdedotte anche le osservazioni arrivate oltre quella data. La Giunta comunale con decisione del 30 dicembre 2006, stabilì di chiudere a quella data l’analisi delle osservazioni. Successivamente giunsero altre due osservazioni comunque prese in considerazione. In sintesi fino al 22 giugno sono pervenute 954 osservazioni, tra il 22 giugno ed il 30 dicembre

2006 sono pervenute 74 osservazioni fuori termine (per un totale di 1028 osservazioni), dal 1 gennaio al 10 febbraio 2007, sono pervenute ulteriori 2 osservazioni fuori termine ed oltre il termine ultimo stabilito con la suddetta decisione di Giunta, per un totale complessivo di 1030, tutte analizzate e controdedotte (vedasi fascicolo 3 “osservazioni e controdeduzioni” allegato al PAT). L’obiettivo di sviluppare con la nuova Amministrazione di Verona un dialogo costruttivo finalizzato alla messa a punto di uno strumento urbanistico che possa contribuire in modo positivo allo sviluppo della città, fu oggetto dell’invio dei contributi redatti dall’Ordine a partire dal giugno 2003 riferiti al “Progetto Preliminare di Piano” redatto sulla base della L.R. 61/85 (Contributo per la formazione del Nuovo Piano Regolatore Generale – Verona, giugno 2003). I contributi più recenti riguardano invece la “Variante n. 282 al PAQE di Verona Sud” (Considerazioni condivise relative al Tavolo di Lavoro per Variante n.282 – Verona, aprile 2006) e le osservazioni al “PAT” di Verona, redatto in base alla nuova L.R. 11/04 (Osservazioni al Piano di Assetto del Territorio del Comune di Verona adottato dal Consiglio Comunale con deliberazione n. 15 del 24.03.2006 e pubblicato il 24.04.2006). Le ulteriori considerazioni di carattere generale, aggiuntive alle osservazioni al PAT già trasmesse, hanno lo scopo di individuare in maniera più esplicita le criticità riscontrate nella stesura del nuovo strumento urbanistico (PAT) inviato in Regione.

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L’auspicio del Consiglio dell’Ordine è che il procedimento di approvazione del Piano possa essere portato a termine, con le eventuali opportune modifiche atte a migliorarne la portata ed i contenuti, al fine di consentire che il processo di pianificazione prosegua con il Piano degli Interventi, senza lasciare la città nuovamente in balia del vecchio strumento urbanistico concepito più di trent’anni fa. La formulazione di un nuovo PAT comporterebbe infatti, il ripetersi del lungo e complesso processo di formazione, facendo slittare ulteriormente i tempi per dotare Verona di uno strumento adeguato alla nuova normativa, rallentando l’auspicato processo di sviluppo che una città di rilevanza mondiale riconosciuta, come Verona si merita. Le integrazioni alle osservazioni presentate cui si fa riferimento si dividono in “Considerazioni di carattere generale” che comprendono riflessioni su: La Partecipazione, Il Coordinamento con i diversi livelli di pianificazione, Il Coordinamento con i Comuni limitrofi; “Considerazioni metodologiche” che comprendono riflessioni su: La Verifica della metodologia adottata, Gli Aspetti normativi (Norme tecniche di Attuazione), Il Dimensionamento del Piano; “Considerazioni di merito su alcune Aree” quali: Il Centro Storico; Verona Sud (Occasione Mancata per i quartieri di B. Roma e Golosine – S. Lucia); “Considerazioni conclusive” :Quale Città? Da un’attenta lettura dei documenti inviati si evince chiaramente che non vi è stata, ne d’altra parte potrebbe esservi in quanto estranea

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alla natura di un Ordine professionale, alcuna richiesta di modificare il dimensionamento del Piano - inteso come maggiore possibilità edificatoria. Sono state invece poste in evidenza alcune “questioni metodologiche” relative alla redazione del PAT che, se non corrette, potrebbero invalidare l’intero processo pianificatorio con le conseguenze negative sopra richiamate. Si considerano pertanto diffamatorie e strumentali le esternazioni che attribuiscono all’Ordine degli Architetti, interessi particolari e/o speculativi in quanto totalmente estranei all’ordinamento professionale, che com’è noto ha tra i compiti principali la tutela dell’esercizio della professione a favore dei cittadini, e non certo la prerogativa di creare incarichi professionali. Il Presidente ARNALDO TOFFALI

Di seguito pubblichiamo il testo completo relativo alle Integrazioni alle osservazioni al PAT inviate al Comune di Verona all’Assessore all’Urbanistica ed alla Regione Veneto - Direzione Urbanistica, rispettivamente il 10 settembre 2007 (prot. n. 2756) e il 11 settembre 2007 (prot.n. 2762). Le nuove integrazioni sono in completamento delle precedenti inviate al Comune di Verona – Unità di Progetto Ufficio di Piano, in data 22.06.2006 prot. n. 148776 in riferimento alla

deliberazione di adozione del Piano di Assetto del Territorio del Consiglio Comunale n. 15 del 24 marzo 2006.

Considerazioni di carattere generale La Partecipazione Con riferimento al Capo II della L.R. 11/04 “Forme di concertazione e partecipazione nella pianificazione”, in particolare all’art. 5, come fatto osservare da parte di varie categorie ed associazioni portatrici di rilevanti interessi sul territorio, vi è subito da rilevare come questa importante novità metodologica introdotta in forma obbligatoria dalla nuova legislazione sia stata in gran parte disattesa nella redazione del PAT. Invece di essere invitati a “concorrere alla definizione degli obiettivi e delle scelte strategiche individuate dagli strumenti di pianificazione” (art.5 comma 2) ci si è trovati nelle condizioni di esprimere un parere e quindi delle osservazioni “a cose già fatte” perlopiù con l’invio (in data 11.05.06 prot. n. 112135) della necessaria documentazione, più volte richiesta, all’ultimo momento (24.06.06 termine ultimo per la presentazione delle osservazioni). Coordinamento con i diversi livelli di pianificazione Il Capo I della legge urbanistica regionale prevede all’art. 3 che i livelli di pianificazione comunale, provinciale e regionale siano tra loro coordinati nel rispetto dei principi di sussidiarietà e coerenza. A prescindere dalla correttezza


ed opportunità di adottare un piano comunale in una fase in cui il piano provinciale PTCP e quello regionale PTRC sono ancora in itinere, e quindi con il rischio che le scelte dei piani di scala maggiore comportino un successivo adeguamento dello strumento comunale appena adottato, si sollevano perplessità sui criteri seguiti nella redazione del PAT, in termini di programmazione pianificatoria generale. Infatti, a fronte dei mancati adeguamenti della strumentazione urbanistica vigente al PAQE e sue Varianti, e dell’approvazione del PRUSST di Verona Sud (deliberazione di Consiglio Comunale n. 59 del 29 settembre 2000 e D.R.G. n. 461 del 1 marzo 2002) e della cinquantina di PIRUEA presentati al Comune dai privati, che chiedono la trasformazione urbanistica delle loro aree e di cui non è certa la percentuale accettata ed inviata in Regione per la loro approvazione, è possibile che il nuovo piano regolatore comunale nasca già compromesso dalle (mancate) scelte, già effettuate con altri strumenti pianificatori. Coordinamento con i Comuni limitrofi Sempre in termini di coordinamento della pianificazione, forse meritava una valutazione maggiore la possibilità di adottare PATI anche per singoli tematismi relativi ad ambiti intercomunali omogenei per caratteristiche insediativo- strutturali, geomorfologiche, storico- culturali, ambientali e paesaggistiche come previsto all’art.16 della legge urbanistica regionale. Alcune scelte strategiche, non possono avere

che rilevanza sovracomunale, quale ad esempio quella relativa ai Servizi e la Mobilità, dove l’incidenza dei flussi di persone e mezzi derivanti dai comuni contermini possono risultare determinanti per la qualità dell’ambiente e della vita dei suoi abitanti.

Considerazioni metodologiche Verifica della metodologia adottata In linea generale almeno per quanto riguarda la “Carta della Trasformabilità” (tav. 4) appare singolare come gli ambiti di urbanizzazione consolidata (art. 50 delle N.T.A), e l’individuazione puntuale dei “limiti fisici alla nuova edificazione” (art 51 delle N.T.A.) con riferimento alla strategia insediativa definita per i singoli sistemi insediativi e per i diversi ambiti funzionali, così come le aree a servizi, e le parti di zone non urbanizzate ma incluse nelle aree edificabili rispecchi abbastanza fedelmente le delimitazioni delle Zone Territoriali Omogenee previste nelle proposte di redazione della Variante Generale al P.R.G. o comunque allo strumento urbanistico vigente, e quindi ancora legata ad un sistema di impostazione tradizionale di suddivisione del territorio a “zone” che invece la nuova legislazione tende a superare, demandando al PI la definizione puntale degli interventi da attuare. La nuova legge urbanistica infatti, nel definire all’art. 13 i contenuti del PAT, alla lettera K) del 1 comma, stabilisce che vengano determinati per ambiti territoriali omogenei (ATO) i parametri

teorici di dimensionamento, i limiti quantitativi e fisici per lo sviluppo degli insediamenti residenziali, industriali, commerciali, direzionali e i parametri per i cambi di destinazione d’uso, perseguendo l’integrazione delle funzioni compatibili, alla lettera l) dello stesso comma definisce le linee preferenziali di sviluppo insediativo e le aree di riqualificazione e di conversione. All’art. 31 la legge attribuisce sempre al PAT, la previsione di un’idonea dotazione di aree per servizi in ragione del dimensionamento teorico effettuato sulla base delle diverse destinazioni d’uso. Mentre viene demandata al PI (art. 17 L.R. 11/04), la suddivisione del territorio in zone territoriali omogenee, l’individuazione delle aree in cui negli interventi sono subordinati alla predisposizione di piani urbanistici attuativi (PUA), definire e localizzare le opere e i servizi pubblici (ecc…), individuare le aree nelle quali realizzare interventi di nuova urbanizzazione o riqualificazione (comma 4), e l’attuazione, anche attraverso gli istituti della perequazione urbanistica, del credito edilizio e della compensazione urbanistica, degli interventi di programmazione negoziata. Sempre in riferimento alla “Carta della Trasformabilità” (tav. 4), si rileva inoltre che l’individuazione della zona agricola di ammortizzazione e transizione (art. 62 delle NTA), non solo non trova riscontro nell’art. 41 – Zone di tutela e fasce di rispetto e nell’art. 43 – Tutela del territorio agricolo, della legge urbanistica ma ammessa pure la bontà dell’intento di salvaguardia, non è chiaro nella norma (NTA) quale sia il criterio di perimetrazione di tali zone richiamando un ge-

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nerico criterio di “vulnerabilità antropica”. Appare pertanto eccessivamente vincolante se non addirittura impropria, la delimitazione nel PAT di aree e/o zone che dovrebbero trovare una loro puntuale definizione nel PI. Aspetti normativi (Norme tecniche di Attuazione) Per quanto riguarda l’impostazione data nel PAT agli aspetti normativi (NTA), nel rimandare interamente alle osservazioni presentate, si ribadisce anche in questa occasione l’eccessiva rigidità e per certi versi l’inadeguatezza nell’ambito dei criteri e indicazioni metodologiche per gli interventi edilizi nei Centri storici e nel prontuario per gli interventi edilizi nel territorio agricolo. In particolar modo per quest’ultimo dove è previsto l’abaco-guida per gli interventi di nuova edificazione, si ritiene che esso sia andato ben oltre il compito richiesto. Il modello abitativo imposto per le nuove edificazioni e/o ampliamenti, legato ad un modello abitativo e quindi tipologico di un tempo risulta palesemente in contrasto con quanto espresso nelle premesse della norma stessa. Si ritiene opportuno che le norme contenute nel prontuario abbiano carattere propositivo e non prescrittivo in quanto, appare illegittimo imporre in maniera arbitraria l’esclusione di qualsiasi tipo di intervento che si discosti dagli schemi riportati nell’abaco-guida. Appare anche in questo caso eccessivamente vincolante la norma contenuta nel PAT, non lasciando margini discrezionali al PI.

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Dimensionamento del Piano Senza voler affrontare in maniera globale ed esaustiva la complessa verifica del dimensionamento stimato nel PAT (punto 4 della Relazione Generale), che prevede nel periodo di proiezione temporale di dieci anni (2014) un incremento complessivo di popolazione di circa 25.000 abitanti, si rilevano tuttavia alcune incongruenze valutando ad esempio solamente l’ambito dell’ATO n.04 “Città della trasformazione – VR/sud”, analizzato per confronto con le previsioni della Variante 282 di adeguamento al PAQE, e quindi vincolanti anche per il PAT. L’allegato “A” alle Norme Tecniche di Attuazione prevede per l’Ambito Territoriale Omogeneo (ATO) n. 04, costituito dai centri abitati di Borgo Roma, Santa Lucia, Golosine, ZAI storica, Palazzina un carico aggiuntivo di 1.729.000 mc, pari a 8.645 nuovi abitanti (considerando 200mc/ab), e la necessità di nuovi standards per 1.761.870 mq (30mq/ab). L’ambito della Variante 282 comprende invece le aree della ZAI storica attorno a Viale del Lavoro, l’ex scalo ferroviario e l’area limitrofa al casello autostradale di Verona Sud. Nella relazione alla suddetta Variante vengono indicati come nuovo carico insediativo complessivo circa 3.715.000 mc, senza conteggiare i 380.000 mc del PRUSST in quanto non oggetto di Variante. La parte residenziale ammonterebbe a 935.000 mc come sommatoria di 350.000 mc localizzati nell’ambito dell’ex Scalo Ferroviario e di 585.000 mc previsti nelle aree di trasformazione della ZAI storica. La quota di carico non re-

sidenziale ammonta a circa 2.780.000 mc. La quantità complessiva degli standard urbanistici richiesti dagli insediamenti della variante è stimata in circa 940.000 mq. Singolare risulta il conteggio degli abitanti insediabili teorici basati su un calcolo di 150 mc/ab, anziché di 200 mc/ab come indicato nel PAT.

Considerazioni di merito su alcune Aree Centro Storico Rappresentando il “cuore antico” della città di Verona, riconosciuto sito UNESCO, merita sicuramente un’attenta politica di conservazione, valorizzazione e riqualificazione che difficilmente può essere riassunta in una tabella denominata “verifiche di coerenza”. Se infatti è condivisibile l’analisi complessiva delle “criticità” esistenti, sembra insufficiente e poco efficace l’elencazione delle possibili strategie, che andrebbero invece precisate e opportunamente localizzate (es. parcheggi, aree pedonali, etc.). La principale criticità è sicuramente costituita dal congestionamento del traffico veicolare che penetra pressoché in tutte le aree, anche le più sensibili (Piazza delle Erbe), del Centro Storico con il conseguente tasso insopportabile di inquinamento e rumorosità che mal si concilia con la vocazione turistica e con l’individuazione di sito UNESCO. Una pessima politica di chiusura parziale (apparentemente a Traffico Limitato) del Centro Storico, la mancanza di mezzi pubblici di trasporto elettrificati, la carenza di parcheggi per i residenti, e la


concentrazione di attività pubbliche e scolastiche, sono tra le principali cause della invivibilità e poca gradevolezza di fruizione del Centro Storico. Onde evitare che si continui a perpetrare questo irragionevole scempio di un patrimonio che appartiene all’intera umanità, vanno assolutamente ed opportunamente “fissate” nel PAT le scelte pianificatorie atte a risolvere le criticità evidenziate (individuazione delle attività da trasferire – individuazione dei parcheggi scambiatori e di quelli pertinenziali – individuazione dei mezzi di trasporto non inquinanti e dei loro tracciati – individuazione della zona vietata a qualsiasi tipo di circolazione veicolare – individuazione della zona pedonale da estendere – individuazione di una zona a traffico riservato limitato). Per l’area di Veronetta e Teatro Romano va individuata la strategia di chiusura al traffico di attraversamento (che dovrà utilizzare la circonvallazione esistente) e l’inserimento di un mezzo pubblico di trasporto elettrificato. Per quanto riguarda l’emergenza delle problematiche sociali, va incentivata la riqualificazione, anche mediante l’intervento pubblico, del tessuto edilizio ed urbanistico esistente con politiche per la casa che inseriscano un tessuto sociale diversificato in relazione alla qualità degli interventi. Verona Sud – Occasione Mancata per i quartieri di B. Roma e Golosine – S. Lucia I quartieri più prossimi all’asse del “Cardo Massimo” sono quelli che hanno tra i più bassi standards di verde e servizi, perlopiù costituiti da edilizia di bassissima qualità.

In coerenza con le previsioni del PAT all’interno dell’ambito della Variante 282 al PRG in adeguamento al PAQE, viene previsto un nuovo carico insediativo complessivo di 3.715.000 mc, escludendo dal conteggio i 380.000 mc del PRUSST in quanto non oggetto di variante. La parte residenziale ammonta a 935.000 mc risultanti dalla somma di 585.000 mc nella Zai storica e di 350.000 mc residenziali previsti allo scalo merci. I carichi “messi in gioco dal PAT e riferimento per la Variante sono indubbiamente notevoli” (dalla relazione alla Variante 282) e corrispondono al 19% dell’intera previsione residenziale del nuovo Piano regolatore. Le Norme Tecniche di Attuazione allegato “A” nell’ATO n.04 - Città della Trasformazione Vr/sud, pongono tra gli obiettivi del PAT la riqualificazione urbana ed economico funzionale dell’area di Verona Sud, dando corpo all’integrazione delle due parti di città. Sembra abbastanza difficile poter pensare che un simile “carico insediativo” possa compensare gli standards mancanti ai due quartieri e soprattutto che si possa riqualificare il tessuto urbano esistente andando a prevedere nuove volumetrie. Non è dato sapere se e quando si attiverà un processo di rinnovamento del tessuto urbano degradato esistente sulla scia propulsiva dei fenomeni economico – finanziari messi in campo dalla nuova trasformazione urbana di Verona sud. Ecco perché si ritiene condivisibile l’opinione di chi vede nella trasformazione, così come concepita, un’occasione mancata per i due quartieri di

B.Roma e Golosine – S. Lucia che rischiano di venire ulteriormente emarginati se non si attua un vero processo di trasformazione urbana che li coinvolga direttamente.

Considerazioni conclusive Quale Città? Le scelte progettuali del PAT non lasciano intravedere quale tipo di città sarà la Verona del futuro. Da un lato si scende ad una scala di dettaglio impropria e tipica del PI, dall’altro si demandano scelte strategiche tipiche del PAT, con dizioni del tutto generiche che non enunciano gli obiettivi principali del progetto di Piano. Le opportunità fornite dalla nuova legislazione urbanistica, con gli strumenti quali la perequazione urbanistica, i crediti edilizi, ecc., trovano un favorevole riscontro solamente se vi è un solido progetto che indirizzi le scelte di governo del territorio attuate con i PI. L’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Verona

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anno 2007

Editore Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Redazione via Oberdan, 3 - 37121 Verona tel. 045 8034959 - fax 045 592319 architetti.verona@libero.it

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integrazione alle osservazioni al PAT di Verona Arnaldo Toffali i cecchini di cecchini Filippo Bricolo

la distruzione del moderno: il caso cecchini Direttore responsabile Arnaldo Toffali

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Editor Filippo Bricolo

26 Redazione: Dario Aio, Andrea Benasi, Angelo Bertolazzi Berto Bertaso, Nicola Brunelli, Laura De Stefano, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo, Alberto Zanardi Questo numero è stato curato da: L. Marconato e A. Zanardi

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Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Jacques Gubler, Vincenzo Pavan, Libero Cecchini Concessionaria esclusiva per la pubblicità: Promoprint Verona - Stefano Carli - tel. 335 5984516 fax 045 8589140 - info@promoprintverona.it Stampa Cierre Grafica - via Ciro Ferrari, 5 Caselle di Sommacampagna (Verona) tel. 045 8580900 fax 045 8580907 grafica@cierrenet.it - www.cierrenet.it Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli Autori, e non impegnano l’Editore e la Redazione del Periodico. La rivista è aperta a quanti, Architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

libero cecchini: progetto per il negozio principe di via mazzini Lorenzo Marconato libero cecchini: progetto per la sede della banca cattolica del veneto Lorenzo Marconato il novecento e gli architetti bendati del XXI secolo Lorenzo Marconato archeologia di una professione: conversazione con libero cecchini a cura di Lorenzo Marconato e Alberto Vignolo

la costruzione del moderno: biblioteca civica e museo di castelvecchio 38

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il collocamento della statua di mastino II nella torre dell’orologio di castelvecchio Giuseppe Tommasi una finestra su castelvecchio Angelo Bertolazzi herbert hamak: materia e colore a castelvecchio Angelo Bertolazzi nuove finestre nel cielo. un pittore

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e un architetto a castelvecchio: herbert hamak e carlo scarpa Alba di Lieto nuova biblioteca civica di verona: il progetto esecutivo Ugo Camerino così è se vi pare... oltre le apparenze! Angelo Bertolazzi, Alberto Zanardi le blindosbarre e il soffitto di nervi Carlo Alberto Cegan la facciatà di san nicolò Giuseppe Tommasi

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esempi di architettura: le mostre del marmomacc com’è cambiata l’architettura di pietra pushkin al palazzo della ragione uno sguardo al presente. primi passi di lettura della contemporaneità un libro su antonio citterio vinicio vianello: il design del vetro 129 x T2 = 1 (AV) il catullo vola basso

forum per l’architettura di qualità 86

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pedestris iter veronensis. due giornate di passeggiata urbana a verona Jacques Gubler altre storie, altre città: lo sguardo di milo manara a cura di Alberto Vignolo e Alberto Zanardi una finestra su verona sud


i cecchini di Cecchini Filippo Bricolo

Questo testo parla di Cecchini e dei cecchini del medesimo. Ma non è un atto d’accusa a chi ha progettato, approvato ed eseguito la distruzione di alcune sue importanti opere. Non è nemmeno la difesa a spada tratta di un maestro che non ha bisogno di difese. E tanto meno un’inutile spot per pubblicizzare l’opera di un professionista arcinoto. È un discorso su Verona, sulla sua modernità zoppa, sulla sua arretratezza in campo architettonico. E se parla di Cecchini è solo perché il suo caso è emblematico. Se non addirittura simbolico.

L’antefatto Nel gennaio del 2006, Libero Cecchini, scriveva una lettera indirizzata congiuntamente al Sindaco di Verona, al presidente dell’Ordine degli Architetti della stessa provincia e alla Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici. La lettera, breve e chiara, lanciava un allarme preciso: lavori erano in atto all’interno di opere novecentesche di importanti architetti e ingegneri veronesi; architetture di Fagiuoli, Mutinelli e Cecchini stesso stavano subendo interventi irrispettosi del valore storico artistico dei manufatti; le trasformazioni avvenivano nel vuoto normativo garantito da strumenti di vincolo inesistenti. La lettera si chiudeva con un invito a trovare una via legislativa. Passati due anni il tema lanciato da Cecchini è ancora di estrema attualità. Nessuno infatti si sta adoperando per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio architettonico del Novecento. La lista degli edifici in demolizione o in trasformazione si va sempre più ampliando e si possono ora guardare anche i primi desolanti risultati di demolizioni completate che hanno portato alla perdita anche totale di architetture di assoluto valore. Il caso Principe Uno dei esempi più significativi ed evi-

denti è quello della ristrutturazione e delle modifiche architettoniche operate all’interno e sulle vetrine dell’ex-negozio Principe. Costruito nel 1967 da Cecchini stesso, Principe, per molti anni ha offerto ai turisti e ai veronesi la sua particolarissima re-interpretazione della porosità urbana di Verona. Punto di forza del progetto era l’ingegnoso artificio della doppia vetrina che introvertendosi andava a formare una delle più piccole ed affascinanti gallerie commerciali della città. Pochi giorni prima della scorsa notte di Santa Lucia i pannelli di legno che proteggevano il cantiere dallo sguardo dei passanti sono stati tolti. Di quel piccolo capolavoro del retail scaligero non era rimasto più nulla. La galleria: chiusa da una anonima vetrina. Al posto dei calibratissimi interni: l’architettura certamente non memorabile dell’ennesimo negozio imbiancato. Nessuna protesta si è elevata in città. Nessuna discussione, nessuna dichiarazione critica. Eppure, quell’opera, forse come nessun’altra architettura del commercio, era entrata nelle abitudini e nei luoghi comuni dei veronesi. Principe era un raro esempio di azzardo controllato e accettato dalla città che stravolgeva con misura e pacatezza i dogmi intoccabili della frontalità della vetrina e dello sfruttamento massimo dei metri quadrati.

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Perchè si demolisce il moderno? La risposta è semplice: perchè si può. Se non vi sono vicoli e norme e se non vi è dunque nulla ad impedire demolizioni e manipolazioni tutto si riduce alla sensibilità personale. Mancando quella, chiunque può distruggere impunemente anche autentici capolavori se non li ritiene tali. L’allarme è quindi vasto e non interessa solo Cecchini. Da un’indagine svolta dallo IUAV, nel quadro di una convenzione con il DARC (Dipartimento per l’Arte e l’Architettura Contemporanea) avente come obiettivo la documentazione delle architetture contemporanee in Veneto e Friuli-Venezia Giulia, è emersa la carenza drammatica di vicoli apposti dalle Soprintendenze. Sul numero finale di 78 edifici schedati per il Veneto solo uno, la Tomba Brion di Carlo Scarpa, è risultato vincolato al di fuori del comune di Venezia. Stando ai risultati di questa indagine appare chiaro che la necessità di un intervento repentino ai fini di scongiurare la perdita di alcune delle più importanti testimonianze architettoniche del secolo breve sia assolutamente necessario. Tuttavia questa giusta battaglia rischia di essere inutile se non si inizia a leggere e capire il reale significato delle demolizioni. Per chi vuole capire Si demolisce ciò che non si ritiene di valore,

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ciò che non si riconosce. Chi non vede non riconosce, chi non riconosce non ritiene di dover salvare. Il ragionamento è tanto banale quanto è vero e ricco di implicazioni. Le demolizioni vanno lette come il sintomo evidente del mancato riconoscimento del valore identitario dell’architettura moderna. La demolizione è quindi epilogo di un fenomeno che viene da molto lontano e che affonda le sue origini nella nascita contraddittoria della modernità veronese. La nostra città al pari delle sue vicine non è riuscita a porre l’architettura a vessillo del suo progresso relegandola a quel ruolo secondario dal quale ancora oggi non riesce a smarcarsi e del quale le nostre lottizzazioni sono la testimonianza più triste. Altre nazioni conferiscono da tempo all’architettura un ruolo centrale. Il caso citatissimo della Spagna è eloquente come eloquente è la scelta di Siviglia di dedicare una mostra al nostro Libero Cecchini. Con una concomitanza temporale a dir poco singolare mentre a Siviglia si chiudeva la mostra “Libero Cecchini e l’antica Verona: l’architetto e il cuore della città storica” nel cuore di quella stessa città storica si stava completando la demolizione del negozio Principe. Quasi un messaggio. Per chi vuole capire. Dalla rimozione culturale alla rimozione fisica Il passaggio in fondo è stato breve. L’esito

drammatico. Una società progredisce quando appoggia i piedi sul terreno solido costruito dai predecessori. Una società si involve quando non sa valutare l’opera di quanti l’hanno preceduta. Permettere indiscriminatamente la demolizione dell’architettura novecentesca implica un giudizio totalmente negativo all’architettura di un intero secolo, significa non saper distinguere il capannone dal capolavoro, la casetta con il tetto in legno ed i barbacani sagomati da Villa Ottolenghi. Abbattere i tabù non l’architettura Sul Novecento grava un forte giudizio negativo che in Italia ed in Veneto tende a diffondersi in maniera pervasiva. L’idea è che gli architetti novecenteschi abbiano distrutto il paesaggio e le città costruendo luoghi dove non si vive bene a discapito dei cittadini. In questo terreno, denso di populismo e preconcetti, crescono i celentanismi nostrani, le indagini giornalistiche, i Tom Wolf d’accatto. Giudizi trancianti che come tutte le demagogie contengono verità ma allo stesso tempo impediscono riflessioni serie. L’obiettivo del lavoro di questa rivista è quello di spingere la società veronese a liberarsi dai tabù e a costruire un volto contemporaneo della città. Enti, municipalità e privati debbono commissionare e costruire opere di qualità che per-


mettano di confrontarsi senza imbarazzo con le altre nazioni più evolute. Solo quando questo avverrà e solo quando si sarà formata una massa critica di opere significative Verona potrà liberarsi dalla gabbia del suo provincialismo e dai fantasmi della città diffusa. L’antidoto Ai più attenti non sarà sfuggita una simmetria preoccupante: la città diffusa e la demolizione del moderno. In fondo il permessivismo nei confronti del banale e l’ostracismo nei confronti dell’architettura di qualità sono due facce della stessa medaglia: l’ignoranza. L’incapacità di vedere l’eccellenza è il male peggiore della società. Impariamo quindi a vedere Cecchini. Impariamo a conoscere l’opera dei suoi migliori colleghi. L’arch. Gonzato e il suo condominio in cemento armato in Via Mameli, la casa all’ingresso del Teatro Romano di Giorgio Ugolini, i piccoli miracoli colti dagli occhi attenti di Jacques Gubler nelle ultime pagine di questa rivista, ma anche le opere delle nuove leve che immettono nuovi riferimenti nell’immaginario veronese: i cirianismi di Burro e Bertoldi, la torre di Archingegno in Zai. Sono loro l’antidoto. La cura al male dell’architettura la si trova nell’architettura stessa.

Contro i cecchini Se il centro storico di Verona possiede anche un volto novecentesco lo deve soprattutto a Libero Cecchini. Per tutta la seconda metà del XX secolo egli ha operato in maniera continua all’interno del tessuto urbano di Verona. Ne ha curato le ferite. Ne ha ampliato e ricucito i vuoti. Ha ritessuto le sue trame interrotte lavorando nei punti nevralgici della sua struttura urbana. Nell’arco di cinquant’anni, Cecchini, ha lavorato assiduamente fino far confondere la sua voce sempre moderna dentro il racconto della città antica. Ha donato al cuore storico di Verona quel nuovo lessico urbano che le era necessario per non involversi nel culto del suo mito e non rimanere chiusa nella coltivazione sterile delle sua bellezza antica. È con l’opera di Cecchini che la città ha potuto continuare quel processo di sovrascrizione e sedimentazione di memorie che era proseguito senza interruzioni per tutto il tempo della sua storia. È Cecchini l’architetto che ha codificato le modalità attraverso le quali la modernità poteva convivere con le testimonianze romane, rinascimentali, medioevali, ottocentesche. I lavori sui due più importanti ponti veronesi andati distrutti nel secondo conflitto mondiale (Ponte Pietra, Ponte di Castelvecchio), la riscoperta della Verona sommersa con gli scavi archeologici in fondo a Via Cappello e

ai Palazzi Scaligeri, le ardite operazioni all’interno degli isolati della griglia romana (Stal delle Vecie, Palazzo Mosconi, Palazzo Forti), i lavori a San Zeno, lo straordinario capolavoro tettonico in pietra precompressa della scala della Soprintendenza. Chiunque si troverà a scrivere la storia della Verona novecentesca non potrà prescindere da Cecchini. Le sue opere sono diventate espressione culturale essenziale dell’identità storica della città e senza di esse l’immagine odierna di Verona non sarebbe riconoscibile. Cancellare Cecchini significa cancellare il lato buono del ‘900 scaligero. Non possiamo permettercelo. Non possiamo permettere che il lato buio del Novecento (l’architettura senza qualità delle nostre zone residenziali ed industriali) continui la sua corsa dentro un nuovo secolo che deve essere diverso, dimostrando di saper imparare dagli errori e dalle vittorie del passato. Salviamo Cecchini dai suoi cecchini e salveremo Verona.

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la distruzione del moderno: il caso cecchini Nelle pagine che seguono verranno presentate due opere di Libero Cecchini che sono state oggetto di demolizione e/o gravi manomissioni. Si tratta di due interventi posti nel cuore del centro storico, in quella parte della città che sembra sempre uguale a se stessa ma che invece, anche a seguito delle distruzioni belliche, è cambiata in modo più o meno sommesso. Sono opere che sfuggono ad uno sguardo poco attento, ma in questo risiede il loro pregio, di aver saputo accostare il moderno all’antico all’interno del tessuto storico, non in modo eclatante ma in modo colto e silenzioso. La presentazione di queste opere vuole dare l’avvio ad una riflessione, avviata proprio dall’architetto Cecchini sulle pagine di questa rivista, circa la conservazione del patrimonio architettonico del Novecento.


libero cecchini: progetto per il negozio principe di via mazzini Lorenzo Marconato

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Inserito a ragione nella selezione delle botteghe storiche veronesi, il negozio Principe dava il la alle passeggiate veronesi con l’interessante interpretazione del passage, scardinando le logiche tipiche del negozio borghese. Ora questo raffinato esempio dell’architettura commerciale dei primi anni sessanta non c’è più, sostituito da uno dei tanti asettici negozi imbiancati. In queste pagine intendiamo mantenere viva, almeno nella nostra memoria, quell’interessante esperienza che aveva saputo radicarsi con originalità nel tessuto urbano.

Progettista: Arch. Libero Cecchini Progetto: 1958-60 – Realizzazione: 1960-63 Il progetto per il negozio di calzature Principe venne regalato a tutti i passanti della battutissima via Mazzini – distratti e non – tra il 1958 ed il ’63. Ben tre generazioni di veronesi ormai sono passate dalla galleria della bottega, forse senza esser consci di vivere un pezzo di formidabile architettura, ma dandogli inevitabilmente una ragione e riconoscendogli il valore cronologico ed artistico che gli fu attribuito anche dalle amministrazioni, quando il negozio fu annoverato tra le botteghe storiche della città. Il contesto ambientale in cui si trova l’edificio entro il quale fu inserito lo spazio commerciale disegnato da Cecchini è sicuramente tra i più suggestivi, consolidati e, comprensibilmente, tra i più statici dell’intero panorama urbano. Si può senza indugio dire che la realizzazione del nego-

zio-galleria, pur se dalle dimensioni contenute, costituì una autentica innovazione stilisticofunzionale, nonché un pregiatissimo esercizio di composizione. L’iter che portò all’opera compiuta che tutti conosciamo fu lungo e discusso e diverse furono le soluzioni studiate dall’architetto prima di giungere a quella definitiva. Il confronto aperto fra committente, progettista e Soprintendenza fu portatore di positivi riscontri e nel succedersi lento e ponderato di idee e disegni – quella tempistica necessaria e propria di un buon progetto che oggi spesso non ci è concessa – condusse alla brillante ed innovativa rappresentazione della galleria-vetrina, nonché al ridisegno della parte bassa dei prospetti del palazzo su via Mazzini e via Alberto Mario. Di tutti, quello espresso con il disegno della galleria, è il più significativo dei valori del progetto, poiché nessuno prima di Cecchini a Verona aveva pensato di fare altrettanto per una sola bottega. Sacrificando ciò che oggi è l’incubo di molti architetti ed al contempo l’unico pensiero fisso di molti imprenditori, la “superficie commerciale” appunto, Cecchini proiettò l’area espositiva sui due lati lunghi della galleria, cristallizzandola nelle vetrine sapientemente incastonate tra rivestimenti in pietra e sottili profili in acciaio. Il risultato fu innanzitutto un’architettura assai coinvolgente, più vitale, poiché sempre aperta al pubblico che incuriosito vi veniva attratto, dimostrando così la bontà dell’idea dell’architetto. Prendendo in esame l’intervento nel suo complesso si può dire che si procedette con una logi-

ca che stava a cavallo tra inserimento ed integrazione, trattando le strutture dell’edificio esistente – esso fu interamente restaurato – come un involucro edilizio ove inserire il nuovo organismo, facilmente riconoscibile se pur estremamente articolato, ma totalmente coinvolto nell’immagine vitale della costruzione. Come per l’intervento della Banca Cattolica (di cui si parlerà nelle prossime pagine), qui forse ancora più dichiaratamente, il progetto di Cecchini mira a valorizzare il supporto esistente con una vivace ma attenta operazione di rilettura degli spazi e degli elementi costruttivi, lasciando che esso sia percepibile nella sua interezza fisica e temporale, adattandolo alla nuova funzione e permettendo al contempo una raffinata sperimentazione compositiva. Il negozio si sviluppa su tre piani, riservando al piano interrato un carattere leggermente più privato rispetto agli altri piani, ove, grazie alla presenza della galleria trasversale rispetto ai prospetti della costruzione ed al sistema di doppie altezze interne, il progetto assume maggiore complessità. L’organizzazione funzionale degli spazi è tanto semplice quanto arguta ed i percorsi studiati per fruitori e personale costituiscono di fatto il calibrato motore che rende viva e partecipata questa architettura. È palese che l’artificio della galleria-vetrina sia l’elemento più particolare della costruzione ma, come vale per tutte le altre componenti architettoniche, essa non può essere considerata se non in rapporto diretto con tutto l’organismo di cui è parte. La contaminazione tra galleria e prospetti è senza

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1. Vetrina e ingresso galleria su Via Mazzini 2. Disegno particolare parete 3. Disegno particolari arredi mobili del negozio 4. Pianta piano interrato 5. Pianta piano terra con arredi e galleria 6. Soppalco piano primo 7. Vetrine e arredi piano terra 8. Pianta piano primo con arredi 9. Disegno prospetto su via Mazzini

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10. Interni con scala e soppalco 11. Galleria da via Alberto Mario 12. Ingresso galleria da via Alberto Mario

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dubbio la più evidente, poiché gli ingressi della galleria costituiscono il basamento delle facciate prospicienti la via Mazzini e via Alberto Mario. Se in un primo momento si era pensato di mantenere la scansione data dalle forature regolari dei piani superiori anche al pian terreno, ben presto si optò per darvi maggiore linearità ed indipendenza, creando un più diretto rapporto tra basamento e prospetti interni della galleria, piuttosto che tra parte alta e bassa delle facciate del palazzo. L’unico elemento del basamento che fu conservato, non avendo gli altri alcun valore artistico, fu la cornice cinquecentesca del portale di accesso al palazzo, che fu traslata per lasciar posto allo sbocco della galleria, andando a ridefinire l’accesso alle abitazioni dei piani superiori (su via Alberto Mario). Le alte facciate della costruzione su ambo il lati risultano dunque poggiate sulle possenti travi in acciaio incassate nelle murature, ma non nascoste, ad incorniciare, assieme alle bianche pietre dei montanti verticali, l’invitante galleria-vetrina. Nelle pietre, nelle sagome metalliche e nei voluminosi cristalli del prospetto interno cieco dell’edificio si materializza uno splendido disegno: sintesi brillante di architettura, pittura e scultura. Sembra di stare di fronte ad un quadro di Mondrian a cui sia stata donata fisicamente la terza dimensione, dipinto con pennellate di pietra aurisina, ammiccanti linee metallo scuro e con i riflessi intensi dei cristalli delle teche. È questa la parte del progetto che più di altri lascia senza parole per la sua meraviglia. Ad esso fanno da partner gli altri lati della galleria, quelli che

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delimitano fisicamente, ma non visivamente, lo spazio commerciale chiuso del pian terreno. Si tratta di un abile gioco di riflessi e trasparenze pensato per far percepire lo spazio nella sua integrità: teche e vetrine finemente intagliate, sostenute ed incorniciate da liste di pietra o legno e profili metallici, da un lato mostrano la mercanzia in esposizione, ben illuminata e disposta, e dall’altro giocano in un continuo susseguirsi di rimandi con l’essenziale ma curatissimo allestimento interno. Degli ambienti interni si apprezza soprattutto l’unitarietà degli spazi lasciati liberi ed aperti gli uni sugli altri grazie ad un sistema di scale con struttura a vista e solai sbrecciati da intriganti doppie altezze. Come mostrano gli innumerevoli e bellissimi disegni che abbiamo raccolto, tutto l’organismo architettonico del negozio fu reso ancora più univoco dal competente e raffinato uso dei materiali. Il sistema intero ed anche il più piccolo elemento furono studiati da Cecchini con la stessa perizia, con coscienza, poiché ogni parte deve concorrere con i propri caratteri – morfologia, cromatismo, utilità, capacità meccaniche, ecc. – a far funzionare la macchina complessa che costituisce una buona architettura. Esistono innumerevoli tipi di materiali e soluzioni tecnologiche ed in questo progetto si dimostra come esse siano i delicati strumenti a disposizione dell’architetto che deve saperne fare un uso sempre più appropriato per dar forma tangibile alla sua idea, al suo disegno. La mano di Libero Cecchini si ritrova in ogni angolo del negozio: dal dinamismo delle scale in calcestruzzo rivestite

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ora in legno, ora in marmo bianco lucido, alla cromatica linearità di parapetti, cornici e scaffali in legno, dalla sobrietà e dallo slancio verticale di alcuni tratti di muratura in calcestruzzo a vista, sino al calibrato gioco di luci e riflessi delle vetrine e dei rivestimenti lapidei. Il progetto qui illustrato, che nei più convinti conservatori di oggi e di quegli anni avrebbe potuto destare qualche perplessità, esprime un fulgido spirito innovativo e fu preparato dall’autore con cosciente coraggio, con estrema consapevolezza del valore e dei caratteri costitutivi dell’edilizia storica per la quale fu ideato, ma anche con grande arguzia nel disegno della galleria e dei prospetti e con estrema cura nella scelta dei materiali. Nessuno prima d’ora – almeno da quel che ci risulta – si è soffermato ad apprezzarne l’unicità, la raffinata estetica ed i preziosi caratteri che ne facevano uno dei più significativi e rarissimi esempi di buona architettura nella Verona dal dopoguerra ad oggi.


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libero cecchini: progetto per la sede della banca cattolica del veneto Lorenzo Marconato Guardando le immagini in bianco e nero pubblicate nelle pagine che seguono, si respira l’atmosfera di una stagione ricca di progettisti che avevano la capacità di creare dialoghi rispettosi delle testimonianze del passato, ma allo stesso tempo orgogliosamente moderni. L’appropriatezza figurativa unita a una sapienza costruttiva in grado di porre in relazione l’art and crafts con il linguaggio moderno traspaiono in questa opera di indubbio interesse, il cui raro equilibrio è ora compromesso.

Progettista: Arch. Libero Cecchini Collaboratori: Ing. Silvano Zorzi (strutture) Progetto: 1969-70 – Realizzazione: 1970-73 Ai distratti passanti gelosamente nascosto, come accade per molte delle formidabili opere di Libero Cecchini, l’intervento per il restauro e la parziale ricostruzione del Palazzo Mosconi di Corte Farina, regala ancor oggi meraviglia ed emozione a chi, per caso o per arguto amore della buona architettura, decide di curiosare dietro la solenne facciata tardosettecentesca. Un bel salto indietro ci riporta agli anni ricompresi tra il 1969 ed il ‘73, quando l’architetto Cecchini fu chiamato a sanare una delle ultime lacerazioni, triste ricordo degli eventi bellici, che nel cuore del più antico tessuto urbano ancora offendeva il volto della città. Il Palazzo Mosconi occupa ben tre lati dell’insula che delimita il lato sud di Corte Farina. L’evidente inserimento della pianta nel reticolo del tracciato

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delle strade romane, la vicinanza del manufatto all’antica cinta delle mura di Gallieno ed alla porta della dogana, le testimonianze lasciate nel tardo medioevo dalle trasformazioni della stessa, sorvegliata da un torrazzo di cui furono riscoperte le fondazioni, testimoniano l’origine e la storia del palazzo, che trovò il proprio assetto definitivo alla fine del Cinquecento. Due secoli dopo, con l’intervento dell’architetto Adriano Cristofali, la costruzione fu completata con la realizzazione dell’austera facciata che ancor oggi, sebbene parzialmente ricostruita, fa da quinta alla corte. Una intera ala dell’edificio, quella ad est, venne ignobilmente distrutta dai bombardamenti della seconda Guerra Mondiale. Solo un sommario tentativo di ricostruzione, sul tracciato del vecchio perimetro dell’edificio, fu tentato nel 1946, ma l’opera fu immediatamente abbandonata, sino a giungere nel ’69 nelle mani di Cecchini. Negli stessi anni a Verona, esaurito spesso con disinvoltura il puzzle architettonico della ricostruzione postbellica, ferventissima ed incontrollata rimane la necessità di espandere e completare la città. Pochissimi ed arcinoti sono gli interventi in grado di inserirsi con merito in un panorama architettonico regionale o nazionale capace comunque di esprimere qualità. Di quegli anni si ricorda la realizzazione della sede centrale della Banca Popolare di Carlo Scarpa, il ponte Risorgimento e la Biblioteca civica di Pierluigi Nervi ed altri interventi puntuali, equamente divisi tra edilizia pubblica e privata, ascrivibili a pochi professionisti, tra cui il più espressivo e costante è sicuramente Libero Cecchini.

L’architetto, continuando il proprio ricco percorso attraverso tematiche della ricostruzione, si trovò di fronte ad una stimolante serie di occasioni offerte sia dal manufatto, che dalla nuova funzione da insediare: il restauro conservativo dell’ampia porzione intatta dell’edificio, la preziosa incognita dei ritrovamenti archeologici e, non ultima, la possibilità di ricostruire una intera ala del palazzo. Come per numerosi altri interventi sull’edilizia storica, anche per questo verrebbe da pensare che le questioni del restauro conservativo e quelle della nuova costruzione viaggino su binari paralleli, che prudentemente o presuntuosamente mai si vogliano incontrare e positivamente contaminare. Indagando su questo magistrale progetto, si scopre invece che, sebbene i caratteri della nuova costruzione siano ben distinti da quelli della parte storica, in realtà la sensibilità ed i tratti del progettista mirano a governare il tutto, poiché di un solo complesso organismo architettonico si tratta. Non vi è un tema dominante, ma nella composizione si dimostra che la forza sta nell’equilibrio raggiunto tra le discipline, tra il nuovo e l’antico. Cecchini scelse di ricostruire fedelmente la porzione di facciata settecentesca che dall’esterno rendeva completa la sedimentata immagine dell’elegante palazzo di Corte Farina, accostandovi, un po’ defilata, una riconoscibile parte di prospetto dal disegno pulito e geometrico. Di contrappunto, mirabile sorpresa desta la plasticità ed la folgorante modernità delle strutture interne. Davvero un capolavoro dell’architettura, che solo pochissimi hanno sino ad ora riconosciuto.


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Senza scendere nel dettaglio degli interventi di restauro dell’edificio esistente, entro al quale furono messe a nudo le stratificazioni che nel tempo diedero foggia alla costruzione: murature, affreschi cinquecenteschi, bassorilievi, stucchi veneziani e dorature, particolare attenzione vorremmo dedicare alla ricostruzione dell’ala sud del palazzo. Seguendo la logica dell’addizione che aveva segnato il percorso storico dell’edificio, la stessa che aveva guidato l’intervento del Cristofali, Cecchini concentra le sue forze creative nel moderno monolite giustapposto alla facciata storica, distinto nella forma dall’antico palazzo, ma ad esso strettamente vincolato e connesso dalla funzione, dalla struttura e dal linguaggio architettonico. All’interno del nuovo volume a pianta rettangolare, trovano armonicamente posto scansioni verticali ed orizzontali, fuse in un organismo aperto e ben leggibile: una vera e propria scultura che non ha né solai né pareti, se non quelle della teca che le racchiude. Le curve suadenti dei soppalchi e delle balaustre, la rotondità perfetta degli oculi dei lucernari e della finestra sulla corte interna, la coinvolgente dinamicità delle spirali tridimensionali che formano i collegamenti verticali, sono tutti strumenti di una sinfonia architettonica perfetta. Non si tratta però di figure fluttuanti e slegate fra di loro, isolate nella propria lucida autonomia, ma di organismi che vivono in simbiosi mutualistica, con una precisa gerarchia data dalla loro funzione e dal rapporto diretto ed inequivocabile con la costruzione esistente. Le quote dei soppalchi e delle altre strutture che marcano la successione dei

piani sono le medesime dell’edificio antico: lo si nota dal prospetto interno – una virtuale sezione – dove trovano contatto i solai del palazzo vecchio e quelli nuovi in calcestruzzo armato. Molto ben congegnato è il sistema dei percorsi ed il succedersi dei livelli; netta al pian terreno la separazione fra sportelli ed aree comuni e davvero brillante la soluzione dei soppalchi e delle passerelle che si succedono senza mai lasciar perdere la percezione dello spazio intero e filtrando, di mano in mano che si sale, il contatto tra pubblico ed operatori, fino a raggiungere il massimo della riservatezza in alto e nelle stanze del vecchio edificio. Gli strumenti che permettono il collegamento verticale sono naturalmente le due scale a chiocciola, poste su due dei quattro angoli della pianta, la cui forma mima una scala del palazzo vecchio. Esse sono figurativamente e staticamente i cardini su cui ruotano gli altri elementi del progetto, pregne di futuristico dinamismo, potrebbero avvitarsi all’infinito accompagnando di volta in volta nuovi episodi aperti l’uno sull’altro. Questa è la metafora che guida il progetto di Cecchini. La capacità di leggere e mettere in rilievo le numerose stratificazioni dell’antica costruzione, sovrapponendo, perché necessario, un nuovo livello fisico che sappia valorizzare e non coprire l’esistente e che sia in grado di vivere anche della propria autonomia linguistica, senza far mai perdere la percezione dell’intero organismo architettonico. L’uso sapiente dei materiali ed il disegno del dettaglio, ma anche degli arredi, costituiscono uno degli strumenti che l’architetto usa per rendere

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ancora più omogeneo ed ammaliante il progetto. Il calcestruzzo armato faccia a vista la fa indubbiamente da padrone, permettendo virtuosi esercizi statico-morfologici e consegnando all’edifico quell’aura di elegante solidità che è propria di una banca e che in tutto rispecchia il carattere severo della facciata settecentesca. Esso non risulta però pesante poiché trattato con estrema perizia, segnato da tagli ed ampie aperture, sospeso come negli oculi senza gravità dei lucernari, o finemente intagliato come nella alta parete prospiciente il cortile interno del palazzo ove, sottile ed ardito, quasi tende a scomparire per far godere appieno degli spazi esterni in un gioco di continui rimandi. Che emozione vivere questa costruzione! Un autentico privilegio per impiegati e correntisti. Non secondari rispetto al calcestruzzo sono gli altri materiali: il marmo in primis, ma anche acciaio e legno, partecipano all’architettura creando affascinanti effetti cromatici. I pavimenti ed i rivestimenti in marmo bianco lucidato danno maggiore luminosità e continuità agli spazi, segnano linee ed angoli, creando avvincenti contrasti tra diverse cromie e tra luci ed ombre, infine trasformandosi in elementi di arredo, punteggiando con minuscole e raffinate forme dai colori intensi tutti gli ambienti dell’edificio. I corrimani dei ballatoi in legno, l’acciaio ed il vetro, completano l’opera nei piccoli dettagli che Cecchini con tanta passione ha disegnato per tutti i suoi progetti, dimostrando che la sola differenza fra grande e piccola architettura è la scala formale dell’intervento.

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1. Pianta piano terra 2. Pianta primo livello 3. Pianta secondo livello 4. Sezione complessiva dell’intervento 5. Spaccato assonometrico della parte ricostruita 6. Scala elicoidale 7-9. Vedute interno 10. Particolare scala elicoidale 11. Apertura sul cortile interno

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temi Il Novecento e gli architetti bendati del XXI secolo Lorenzo Marconato Preoccupati per la loro incerta sorte, abbiamo scelto di illustrare nelle pagine precedenti due tra le più significative realizzazioni del fecondo e savio architetto Cecchini. Non di un ossequioso omaggio si tratta, ma di una aperta riflessione sul restauro e sulla valorizzazione del patrimonio architettonico del Novecento, sulla necessità di saper riconoscere e tutelare concretamente le opere, non numerose, che al pari delle più antiche costruzioni concorrono con merito a formare il variegato orizzonte del territorio veronese. Se a livello globale le architetture di valore del secolo passato sono state legittimate ed indagate, a Verona, forse per non risultar di parte, si indugia ancora a creare un positivo ed approfondito confronto tra opere ed autori spesso ancora attivi. È altresì vero che non vi sono periodi, né autori, né modelli univocamente positivi, ma piuttosto percorsi ed episodi significativi, collegati gli uni agli altri. Il primo passo da compiere sta nel riconoscere il valore delle opere, senza campanilismi e senza che sia solamente il tempo trascorso l’unico parametro utilizzato per distinguere ciò che è da conservare e ciò che non lo è. Troppo spesso so-

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no ambiziosi interessi di varia natura – politici ed economici – a prevalere sulla corretta valutazione e ricezione del patrimonio novecentesco che, in soli cento anni, ha saputo dimostrare una eterogeneità ed una ricca fuggevolezza mai riscontrate prima. Sull’oggetto della conservazione si può apertamente dibattere incrociando le diverse ed orientate competenze di storici dell’arte, dell’architettura, sociologi ed architetti militanti, ma con lo scopo preciso di arrivare ad una definitiva e dettagliata classificazione delle opere. Saranno dunque gli organi preposti – su tutti le Soprintendenze – a dover giustificare e codificare con urgenza i vincoli sulle architetture, lasciando che anche gli Ordini Professionali prendano le proprie responsabilità e collaborino attivamente. Definito ciò che è da conservare con una efficace normativa, si apre il periglioso e stimolante dibattimento sulle teorie e sui metodi del restauro dell’architettura novecentesca. Le competenze in gioco sono molteplici poiché assai complessa è la materia, ma ciò che molto spesso balza agli occhi per i risultati incerti prodotti, sono la disomogeneità con cui queste vengono gestite e – ancor peggio – la totale inettitudine di alcuni ahimè assai prolifici professionisti. È assolutamente necessario che architetti, storici, conservatori, esperti d’arte, tecnologi, strutturisti e costruttori lavorino di concerto, nello stesso ufficio formando un vero team progettuale, confrontandosi per essere in grado di salvare integra l’immagine e la fisicità del nostro patrimonio, pur sapendo sperimentare ed esprimere innovazione.

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Senza addentrarci nello specifico delle tendenze principali che indagano sui metodi del restauro del cosiddetto “Moderno” – termine consueto ma inappropriato – è proprio sulle questioni innanzi illustrate che ci preme soffermarci quando si parla di Verona. Gli interventi appena iniziati sui due mirabili progetti dell’architetto Cecchini sono lo spunto per aprire il dibattito. Come si sta comportando Verona con la propria recente storia costruita? Si tratta di una selettiva strategia di alto profilo culturale, o di un autentico tradimento? Di imperdonabili leggerezze, o di un masochismo alimentato dagli interessi dei soliti noti? Non entrando nel merito di progetti già in fase di realizzazione, esprimiamo – preoccupati – un’auspicabile sensibilità da parte di tutti gli operatori coinvolti nel processo di conservazione di architetture così importanti, piccole o grandi che esse siano. Con coraggio non le si lasci andare in prescrizione, ne si riconoscano invece tutti i valori, le si ami e le si conservi, non solo nell’immagine, perché chi venga dopo di noi non ci conosca come i più ciechi, arroganti e contraddittori architetti della storia, che con i mezzi e le competenze più evolute riuscirono a far scempio dei beni più preziosi.

12-15. Immagini del cantiere

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archeologia di una professione: conversazione con libero cecchini a cura di Lorenzo Marconato e Alberto Vignolo La figura di Libero Cecchini, decano degli architetti veronesi – il suo numero di iscrizione all’Ordine è il 17 - emerge come presenza costante e incisiva all’interno della città antica, segnata da numerosi interventi di sua mano. Gli edifici, i restauri, gli scavi, i percorsi di attraversamento ricavati nella trama fitta dei tessuti storici, gli svelamenti improvvisi dei livelli archeologici, sono entrati talmente a far parte del volto della città che ormai è difficile riconoscerne l’originalità e l’invenzione creativa. Partendo da un commento sulle opere presentate nelle pagine precedenti, Cecchini ha ripercorso in una conversazione con «architettiverona» alcuni momenti salienti di oltre cinquant’anni di attività. Seguendo la traccia di un intervento presentato il 23 novembre 2007 presso il Collegio degli Architetti di Siviglia, in occasione della mostra “Libero Cecchini e l’antica Verona: l’architetto e il cuore della città storica” (Siviglia, 22 novembre-14 dicembre 2007), Cecchini ci ha regalato questo amabile colloquio. Libero Cecchini: Nella conferenza di Siviglia, prima di illustrare attraverso una serie di mie opere il tema del restauro, ho voluto fare una doverosa premessa sulla mia formazione, che non è stata solo tecnica e universitaria. Mio padre era infatti il direttore della più grande cooperativa di marmi di Sant’Ambrogio di Valpolicella e il rapporto costante con il marmo, con la pietra, ancora prima che con l’architettura, si è venuto consolidando con la pratica della scultura - la mia prima scultura risale al 1936 – e con la frequen-

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tazione della Scuola d’arte del marmo, in cui ho poi insegnato e che ho in seguito per lunghi anni diretto. Dopo la laurea in architettura al Politecnico di Milano, ho avuto la fortuna che il mio professore di restauro, Pietro Gazzola, era in quel momento Soprintendente ai Beni Architettonici di Verona. Gazzola venne così a casa nostra a chiedermi di restare a lavorare con lui a Verona, anche per la mia specifica conoscenza dei materiali lapidei, evidenziando dunque l’importanza di questo aspetto indispensabile per fare restauro. Mi affidò così, alla fine del 1948, la direzione artistica della ricostruzione del ponte di Castelvecchio. Ricordo bene i rilievi che erano stati fatti dall’arch. Vanzetti ed il mio contributo nell’opera di ricostruzione delle ghiere del ponte in pietra di Prun: avevamo individuato le cave di provenienza – costituite da stratificazioni che vanno dai 3 ai 21 cm di spessore – con nomi e colori diversi e grazie all’attenta combinazione di tutti questi fattori originari è stato possibile ricucire l’immagine violata del ponte. Tra gli altri lavori dei primi anni di attività c’è il piano di ricostruzione di Volargne: recentemente studiato per una tesi di dottorato che ha messo in luce come sia stato il primo piano in cui fu presa in considerazione anche la terza dimensione, cioè l’alzato degli edifici. Il tema si era rivelato assai complesso visto che si doveva intervenire in un piccolo contesto, molto compromesso dai bombardamenti, ma segnato dalla presenza della quattrocentesca villa Del Bene, dalla chiesa e da altre ville storiche. Ho poi partecipato a Ve-

rona al concorso per il Teatro Filarmonico e al concorso per le case popolari agli Orti di Spagna, dove sono arrivato secondo. Mi hanno affidato allora il progetto delle case popolari di Santa Lucia, tuttora esistenti e sulle quali è stata fatta una piccola mostra qualche anno fa nella chiesa di S.Procolo. Le case di Santa Lucia sono tra le prime realizzazioni ex novo, assieme a quelle di Volargne e all’asilo di Sant’Ambrogio, alle scuole di Domegliara e, nel 1954, al progetto del Villaggio INA-Casa a San Donà di Trento per cui ho vinto il premio In-Arch per il Triveneto. Nel 1958 sono tornato a lavorare con Gazzola alla ricostruzione del ponte Pietra, accettando a condizione che potessi lavorare senza impresa, operando in “regia diretta”, organizzando cioè personalmente le strutture del cantiere e assumendo gli operai direttamente per trasmettere più immediate sensazioni e risolvere i problemi senza filtri burocratici. È stato un lavoro a rischio, non molto semplice. Poco dopo, al ritorno da un viaggio a Torino dove eravamo stati ad assistere a una conferenza di Le Corbusier sul tema del museo, Gazzola mi ha proposto di andare a Cagliari, dove nell’arsenale bombardato durante la guerra e posto sull’acropoli della città si voleva progettare un complesso sito d’arte. Quello è stato l’inizio di un’avventura molto qualificante. Ricordo che avevamo presentato un progetto e nel frattempo il Genio Civile aveva demolito alcuni tratti delle mura perché pericolanti. Allora abbiamo fatto uno scavo archeologico sotto le mura sabaude e abbiamo trovato quelle spagnole, poi quelle pisane,


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indagando su un’area di ben 15.000 mq. Sopra gli scavi archeologici si volevano collocare una pinacoteca, un museo etnografico e una galleria d’arte moderna, così ho pensato di coprire i grandi vuoti degli scavi con strutture modernissime. Da qui nasce un atteggiamento che si andrà poi consolidando nel corso della mia carriera: creare, cioè, di volta in volta, non una semplice copertura degli scavi archeologici, ma uno spazio architettonico autonomo, compatibile con la funzionalità della città con le sue esigenze urbanistiche e paesaggistiche, che protegga i reperti, valorizzandoli e potenziandone la leggibilità, in un dialogo sempre aperto con l’ambiente circostante. Questo principio, oltre che a Cagliari, si vede applicato anche a Verona: negli Scavi Scaligeri, nei diversi interventi di San Zeno, a Palazzo Forti e a Porta Leona. Sempre in quegli anni, precisamente nel 1959, stavo redigendo il PRG di Malcesine, quando mi venne chiesto di costruire una piccola pensione sul Garda. Ho costruito questo edificio adottando lo stesso criterio di uno spazio architettonico su una preesistenza naturalistica: e così il paesaggio è entrato nella casa. In un’altra villa, sempre a Malcesine, ci sono addirittura gli alberi nel soggiorno! Con la prima delle due realizzazioni ho ricevuto il “premio Palladio per l’architettura inserita nel paesaggio”. Quando ci si inserisce in un contesto naturalistico come in uno storico, deve scattare quella scintilla, quell’idea tradotta in architettura costruita che lo valorizzi, non che lo umili. Per esempio, tornando un po’ indietro, a Porta Leona

si vede il volume della torre mancante anche se in realtà non c’è. Agli Scavi Scaligeri poi, grazie all’artificio della copertura vetrata, si stabilisce il rapporto diretto tra la preesistenza archeologica e la città che è intorno e che ne è parte integrante. Invece a Parigi, di fronte a Notre Dame, ci sono degli scavi archeologici chiusi, che non comunicano con l’esterno e che non dialogano con la cattedrale: potrebbero essere in qualsiasi altra città e la cosa naturalmente non funziona. Se si opera nel restauro dunque, si può stilare un progetto di carattere generale, ma poi si devono verificare scelte e rapporti tra le parti giorno per giorno: il cantiere deve essere creativo. AV: Nelle pagine precedenti ci occupiamo di due dei suoi progetti più significativi: la sede della Banca Cattolica ed il negozio di Principe. Può dirci due parole in più su queste opere ed anche sul progetto per la scala della Soprintendenza? LC.: Di Palazzo Mosconi, su via Catullo, avevano ricostruito un pezzo, ma provvisorio e mi hanno chiamato perché volevano completare l’opera. Oltre che dare funzionalità alla banca, c’era il problema di ricucire una parte del palazzo settecentesco: operazione assai più difficile di quella da compiere ad esempio su un palazzo medievale. Nella costruzione medievale ci sono vari materiali e con dei neutri si può completare più facilmente – addirittura con il cemento – ma nell’architettura classica, così ben definita, che ha le sue regole e i suoi elementi determinati, o cambi materiale o ricostruisci in modo da rende-

re completo il monumento. Accetti la ricostruzione per rifare la quinta urbana per poi collocare all’interno le nuove funzioni. Nella Banca Cattolica i vari piani hanno diverse altezze: io ho preso le quote dei livelli esistenti, le ho importate nel nuovo volume e le ho spaccate nello spazio, cercando dunque di mantenere queste altezze capaci di dare armonia a tutto l’insieme. C’è una continuità degli spazi, pur essendo quello nuovo un volume “moderno” e distinguibile. Da un edificio statico si passa ad uno molto dinamico, mantenendo e valorizzando però gli scavi archeologici e tutte le parti esistenti. Per quanto riguarda la parte staccata dall’edificio principale, quella costruita sulle mura di Gallieno, avvicinare un garage alle preesistenze archeologiche è stata un’operazione molto delicata: la struttura principale perciò è stata “appesa” in maniera da lasciare libere le mura sottostanti. Anche a Cagliari c’erano grandi mura spagnole ed anche lì ho costruito sopra dei grandi gusci aperti in modo da lasciar respirare le mura come se fossero una cosa viva. Per il negozio Principe invece, ho convinto il cliente a creare uno spazio di transito, inserendo all’interno dell’edificio storico una galleria. Negli ambienti chiusi poi ho operato come se dovessi progettare un grande mobile che sale di un piano: praticamente un edificio nell’edificio, funzionale all’esposizione e alla vendita, che non disturba il tessuto storico, ma gli dà invece una notevole vivacità legando saldamente l’interno con l’esterno.

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La scala della Soprintendenza infine è stata progettata intorno al 1966, come anche la Camera di Commercio. Quello era un periodo in cui ho fatto diversi esperimenti con il marmo. Sperimentazioni a rischio! Ogni mio progetto nasce da un concetto, da un’idea che viene al primo impatto con il luogo o con l’edificio con cui ci si confronti. La difficoltà nel nostro lavoro è quella di mantenere in vita l’idea finché non si riesce a realizzarla. È una lotta continua contro il cliente, l’impresa, la commissione edilizia, contro tutti. Ma se hai la fortuna di avere un cliente, come è successo a me, che capisce il concetto, allora molto probabilmente lo riuscirai a realizzare. Basti pensare al progetto per il complesso di San Zeno, quello che si è riuscito a fare è merito di Giorgio Zanotto, non solo per i soldi, ma per il sostegno culturale che lui ha dato anche nei confronti delle scelte del Soprintendente; insomma un committente di alta cultura. È difficile realizzare le idee se non si ha un committente illuminato, una commissione edilizia preparata e soprattutto a Verona. Tanti artisti veronesi sono scappati da questa città, perché è una città troppo ricca e superare la soglia diventa un’impresa difficile.

di ricostruire, oggi è diverso, e questo necessariamente ha comportato atteggiamenti e rapporti diversi tra il progettista e gli altri attori del processo. Ricordo che la prima persona che ho incontrato a Verona è stato Gazzola, lombardo con una preparazione razionalista, il quale era fermamente convinto che il moderno deve sapersi accostare all’antico, integrarsi con una differenziazione chiara. Poi abbiamo avuto un Soprintendente alla Ruskin, secondo il quale non si deve toccare niente. La difficoltà di rapportarsi con chi ti giudica rimane, ma raramente i miei interlocutori hanno avuto la sensibilità di capire sulla carta la spazialità architettonica. Nemmeno oggi con il computer si riesce a rappresentare lo spazio: lo spazio ce l’hai attorno e non riesci a rappresentarlo e questo è il limite.

AV: A distanza di cinquant’anni, dopo tanti interventi specialmente sul contesto storico, è cambiato qualcosa nel rapporto con la Soprintendenza, con gli amministratori ed i committenti?

LC: Quando ci si trova a intervenire in qualsiasi situazione devi rilevarti l’esistente, devi partecipare al rilievo e fare tutte le indagini storiche; insomma devi conoscere molto bene quello che hai in mano! Dunque devi proporre l’idea generale, ma prima devi essere convinto della tua scel-

LC: Se molti anni fa era impellente la necessità

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AV: Come ci si dovrebbe rapportare oggi con le opere più rappresentative del Novecento? Valgono gli stessi criteri con cui ci si confronta con l’architettura romanica o medievale? Di fatto non c’è una normativa precisa che dia indicazioni sull’architettura definita “moderna”, e spesso si procede in maniera arbitraria.

ta per poi convincere gli altri – se ti lasciano parlare – e lì nasce il colloquio con chi ti deve mettere il timbro. Non è detto che i grandi architetti del Novecento abbiano sempre operato correttamente; spesso creano del design, dei modelli e li mettono là, senza preoccuparsi dell’intorno. Se questi modelli hanno un rapporto stretto con l’ambiente circostante (storico o naturalistico) meglio, altrimenti per alcuni cosiddetti “grandi” è lo stesso. Finché l’opera magistrale di design di un buon architetto rimane isolata ed autonoma figurativamente, in qualche modo, si può inserire nel paesaggio, ma i problemi cominciano quando altri architetti tentano di inserirsi tra il paesaggio e l’autonomia dell’opera innanzi citata. Lo stesso discorso vale per gli interventi sull’esistente, anche se la questione assume caratteri diversi. Il ruolo dell’architetto è quello di attivare una rivoluzione di metodo nel campo della progettazione e del restauro: deve infatti emergere dal suo lavoro una progettualità architettonica e urbana che pone le tecniche e i materiali tradizionali al centro di ogni proposito di invenzione e di composizione, all’interno della città da restaurare e da integrare. Il linguaggio, che scaturisce da un complesso lavoro di restauro, deve dunque trarre le sue origini dalle memorie, dalle forme, dai colori, dagli spazi e dai materiali del luogo naturale e architettonico specifico. Pensate agli intonaci di Verona, realizzati con la sabbia silicea e micacea dell’Adige, ancor oggi


2. Ricostruzione di ponte Pietra 3. Scavi palazzi Scaligeri 4. Villa a Malcesine 5. Chiesa di San Procolo 6. Sistemazione chiostro abbaziale di San Zeno 7. Scala della Sovrintendenza

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con la pioggia acquistano una particolare brillantezza e luminosità, che risulta irriproducibile con altri materiali. Non si può invece pensare di portare con disinvoltura a Verona l’intonaco del Palladio, e nemmeno l’intonaco coprente (non trasparente) che Scarpa usa per Venezia. Il linguaggio che scaturisce da un complesso lavoro di restauro deve dunque trarre le sue origini dalle forme, dai colori, dagli spazi, dai materiali del luogo. Ogni restauro è diverso dall’altro e varia a seconda del monumento, della sua importanza storica, del suo stato di conservazione, del luogo in cui è ubicato, dell’utilizzo che ne è stato fatto e che se ne vuol fare. Nella mia filosofia di architetto – concludendo – sia che abbia operato sul nuovo che sull’esistente, posso dire di essere sempre stato guidato da tre principi basilari, legati al tema della continuità ambientale, storica e paesaggistica: 1) lo spazio architettonico esiste in natura: il segreto è scoprirlo; 2) cercare di trasmettere la continuità della storia è come prendere il filo di una ragnatela e muoverlo senza spezzarlo e senza interrompere la tessitura del ragno; 3) immaginare di aprire un grande ombrello sotto cui proteggere le preesistenze storiche e naturalistiche, integrandole, valorizzandole e creando intorno a loro uno spazio nuovo e vivibile.

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L i b e r o C e c c h i n i è nato a Verona e si è laureato in architettura presso il Politecnico di Milano. Ha lavorato per vent’anni per la Soprintendenza ai Monumenti e nella ricostruzione del ponte medievale di Castelvecchio (1945-51) e del romano Ponte Pietra (1957-59). In seguito si è dedicato al restauro di antichi palazzi privati e pubblici, chiese e conventi, spazi urbani e studi di siti archeologici. Dal 1972 è Ispettore Onorario della Soprintendenza alle Antichità. Vicepresidente dell’Accademia d’Arte Cignaroli, ex docente del dipartimento di Complementi di Architettura Tecnica dell’Università di Udine. Ha ricevuto la medaglia d’argento per l’arte e la cultura dal Ministero della Pubblica Istruzione. La sua opera è stata citata presso il Concorso Internazionale di Architettura Andrea Palladio, al Premio Regionale In/Arch per il Triveneto nel 1964. Assieme all’arch. Pietro Gazzola ha ricevuto il Premio In/Arch per il restauro della Cittadella dei Musei di Cagliari (1960-70), dove ha anche realizzato, in tempi più recenti, la ristrutturazione dell’ex Mattatoio adibendolo a Centro Culturale per la raccolta della grafica e delle attività ad essa connesse. Ha ricevuto inoltre il Premio Europa Nostra 1993 per la metodica della ricerca e del restauro del chiostro e del palazzo dell’abbazia di San Zeno Maggiore a Verona. Tra le numerose opere degne di particolare nota ricordiamo: il restauro del complesso abbaziale di San Fermo e la sede della soprintendenza (196668), gli scavi archeologici di Porta Leona e dei Palazzi Scaligeri (1981-85), il restauro della chiesa di

San Procolo a Verona (1985-88), il lungo restauro del museo d’arte di Palazzo Forti a Verona (198997), la chiesa di San Francesco all’Arsenale di Verona (1983-86) ed il più recente restauro della chiesa di San Giorgio in Valpolicella. Ha pubblicato molti articoli sul restauro ed è relatore in numerosi congressi e conferenze sul tema del restauro di edifici storici.

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la costruzione del moderno: biblioteca civica e museo di castelvecchio Nelle pagine che seguono verranno presentate immagini, riflessioni e progetti relativi a due luoghi veronesi diventati simbolo del rapporto tra passato e modernità. A Castelvecchio, l’installazione di Hamak e la nuova sistemazione della statua di Mastino II intessono dialoghi profondi con l’esperienza scarpiana. Alla Biblioteca Civica un nuovo intervento ridisegna e recupera gli spazi e le strutture esistenti aggiungendo nuovi tasselli alle significative esperienze già maturate in quel luogo dal Barbieri e da Pierluigi Nervi.


il collocamento della statua di mastino II nella torre dell’orologio di castelvecchio Giuseppe Tommasi La sistemazione della statua di Mastino II il 25 Gennaio 2007 ha completato il percorso espositivo del Museo di Castelvecchio e ha coinciso con una serie di opere di restauro nelle quali rientrano anche la sistemazione della Torre dell’Orologio, dl Giardino di Avena e dei camminamenti di ronda. La statua del duca scaligero ha così trovato la sua sistemazione definitiva, dopo la sua rimozione nel 1992 dalle Arche Scaligere, per motivi conservativi, e dopo il suo deposito nei cortili della Sovrintendenza. Direttore dei Musei Civici: Dott.ssa Paola Marini Direttore Area Lavori Pubblici: ing. Luciano Ortolani Responsabile del procedimento: ing. Sergio Menon Progetto definitivo: arch. Alba di Lieto, geom. Guido Spessotto Progetto esecutivo: ing. Carlo Poli, arch. Giuseppe Tommasi, geom. Nicola Olivieri (disegni), p.i. Mila Bobbo (computi) Progetto strutture torre orologio: ing. Maurizio Cossato – Contec S.r.l., ing. Solidea Faedo (collaboratrice) Progetto esecutivo impianti: ing. Mauro Ionta, p.i. Claudio Menegatti (elettrici), p.i. Roberto Rio (sicurezza) Direzione lavori: ing. Carlo Poli (direttore lavori) arch. Giuseppe Tommasi (direttore operativo opere architettoniche), geom. Nicola Olivieri (direttore operativo opere edili), ing. Mauro Ionta (direttore operativo impianti elettrici e speciali) coordinatore per la sicurezza: ing. Vittorio Scarlini collaudatore: arch. Giuliano Adami Ditte esecutrici: R.W.S. S.r.l. (aggiudicataria), Grandi F. S.r.l. (subappalto opere edili e strutturali), Mega Lightning (impianti)

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Di norma un’architettura concede a chi la frequenta la possibilità di essere esplorata in unità dì tempo e di luogo. L’apparato allestito per l’esposizione della statua di Mastino II della Scala non offre invece di sé un’immagine sintetica. Infatti la scelta di ampliare l’area di calpestio nella torre, alla quota del camminamento di ronda rubandola al precipizio, comporta una collocazione della statua a un livello tale che ne è, contrariamente a quanto accade a Cangrande, preclusa la vista dal cortile. Tuttavia un sistema di contraffissi color minio segnala con araldica perentorietà la presenza di qualche cosa di cui non è dato subito comprendere compiutamente il senso. La funzione di queste saette rosse è quella di sostenere l’orditura portante del solaio sul quale poggia la statua equestre: il loro disegno è governato dalla regola che esige per tutte la stessa pendenza a partire dai punti di appoggio sul solaio. Accade così che la loro lunghezza e la posizione degli appoggi sulla muratura siano determinate in modo univoco nella torre dell’orologio, dove il visitatore le vede come trafitture nell’ombra volgendo lo sguardo dai luoghi del corteggiamento a Cangrande orchestrati da Carlo Scarpa. Dopo non breve e suggestivo percorso, finalmente nella torre è concesso contemplare i due Signori scaligeri da un privilegiato punto di vista: Cangrande, in lontano, luminoso e benevolmente sovrano; Mastino pericolosamente vicino, la cavalcatura ben raccolta, il volto catafratto, pronto all’attacco. Da questo punto la visione di Mastino è rigorosamente frontale. La statua veneranda trasmette il suo peso sulla struttura del

solaio mediante due semplici supporti metallici; altri due che non sopportano carico ma rendono stabile il sistema alla rotazione, sono di legno, frassino come per aste di lance da guerra. L’orditura di corten che sostiene i monoliti del nuovo pavimento si compone di travi angolari distanziate in modo da offrire fessure aperte sul vuoto sottostante. Il frastagliarsi, in pianta, della nuova pavimentazione vuole non nascondere allo sguardo la vertigine prospettica degli arconi, in primo piano, e del vallo, che si auspica possa essere quanto prima allagato come in origine. Il solaio in legno sovrastante, ideato da Maurizio Cossato cui si deve anche la regia e verifica di tutte le strutture, sostituisce quello aveniano che con la sua tonalità scura contribuiva a rendere l’insieme piuttosto tetro. La struttura lignea del nuovo solaio, la cui orditura primaria è costituita da travi composte (abete e corten), è stata oggetto di un trattamento concordato con Angelo e Alberto Zardini, teso a riassumere e interpretare i colori diversi dei mattoni che compongono la muratura della torre: un fondo di cementite e polvere di alluminio con successiva velatura a base di terra di Kassel e rosso carminio. Si è così ottenuto un grigio dalla tenue qualità serica, metallica, che tende ad un alleggerimento dell’intradosso per continuità cromatica. La nuova scala in corten, che porta al piano superiore della torre, è concepita in modo da offrire dal basso un prospetto molto trasparente. La studiata leggerezza dei tiranti della ringhiera non disturba lo sguardo senza però attenuare il senso di pericolo per chi vi si avvicini. Pensieri e indagini sulla


1. L’allestimento di G. Tommasi: il solaio ligneo e i puntoni che lo sostengono.

realizzazione dell’opera sono stati sempre condivisi con Carlo Poli, direttore dei lavori. La collocazione di Mastino invita l’occhio ad un possibile ulteriore scenario: la porta dietro alla statua lascia intravedere, inatteso, il verdeggiare di un prato. Viceversa dall’esterno luminoso del giardino pensile, volgendo lo sguardo verso la torre appare la sagoma del guerriero inquadrata nella angusta apertura della porta. L’illuminazione della statua, da questo punto di vista, si rivela di importanza decisiva: il progetto prevede in futuro di realizzare un artificio che convogli la luce naturale captata sul tetto della torre in modo da illuminare il Mastino con la stessa angolazione che avrebbe nella sua posizione originaria alle arche scaligere. Le ore del giorno, gli umori stessi del tempo e delle stagioni farebbero in modo che non fosse mai immerso due volte nella stessa luce. La pianta del piccolo giardino è di forma trapezia. Su tre lati, escluso quello adiacente alla torre dell’orologio, esiste un marciapiede in pietra. Al centro era collocata da Antonio Avena, ed è stata riattivata, una fontanella fontana circolare in pietra. L’intervento di restauro prevede solo tre elementi. Un prato verde, un poggiapiedi in legno per consentire ai visitatori di sedersi sul marciapiede perimetrale che è rialzato rispetto al giardino, ed una sola pianta di rosa che si arrampica sulla torre dell’orologio. Si tratta di una prestigiosa rosa antica profumata, rifiorente e rampicante di grandi dimensioni: Madame Alfred Carriére, noisette del 1879.

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2. Monumento a Mastino II (Giovanni di Rigino, XIV sec.). 3-4-5-6. Sezioni della Torre dell’Orologio.

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7. Vista della statua all’interno della Torre dell’Orologio. Sullo sfondo quella di Cangrande.

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8. Vista della stanza all’ultimo piano della Torre dell’Orologio. 9. Il giardino pensile di A. Avena. 10. Pianta della Torre dell’Orologio con la statua di Mastino. 11. Dettaglio del montaggio del nuovo solaio ligneo. 12. Lavorazione del solaio in pietra e acciaio Cor-Ten. 13. Vista dei puntoni di sostegno del solaio. 14. La nuova scala in acciaio Cor-Ten.

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15. Planimetria di Castelvecchio con le aree interessate dai lavori. 16. Vista dei camminamenti dalla Galleria delle Sculture.

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temi Una finestra su Castelvecchio Angelo Bertolazzi Perché ancora Castelvecchio? Parlare di Castelvecchio significa parlare della città stessa. Scrivere la sua storia significa scrivere la storia della città, a partire dagli stessi materiali e dal luogo in cui fu costruito nel 1354 da Cangrande II, come Castello di San Martino in Acquaro. Per la sua costruzione vennero impiegati i materiali più diversi: per il basamento pietre provenienti dall’Arena, per le sue mura ora ciottoli dell’Adige, ora rossi mattoni alternati a blocchi di Tufo Giallo veronese. Nella sua fabbrica furono inglobate ben due porte urbiche, quella del Morbio e quella di San Zeno (ricavata dall’Arco dei Gavi), e la chiesa alto-medievale di San Martino che diede il nome al castello. L’edificio, cambiato il nome in Castelvecchio, seguì poi le vicende politiche della città, come roccaforte prima dei Visconti, poi della Serenissima. Le principali manomissioni avvennero in epoca napoleonica quando a seguito delle Pasque Veronesi (1799) vennero cimate le torri, demoliti la chiesa e l’Arco dei Gavi, il ponte ebbe modificate le rampe, abbattuti la torre ed il rivellino, mentre la piazza d’armi venne chiusa verso l’Adige da un’alta cortina e da una caserma in uso fino al 1924. Nel corso dell’Ottocento vi fu l’a-

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pertura della strada che, utilizzando il ponte scaligero e il cortile interno, collegava la città alla Campagnola. Se da un lato questo poneva Castelvecchio in diretto rapporto con la città ed i suoi abitanti, dall’altra ne rompeva la secolare unitarietà. I restauri stilistici del 1926 condotti da A. Avena e F. Forlati, con lo scopo di destinare il castello a museo, ebbero il pregio di rimediare i guasti alle torri e al mastio, ma consolidarono l’aggiunta della caserma trasformata in un falso palazzo gotico, la cui facciata fu realizzata ricomponendo sulla fronte verso il cortile elementi recuperati da palazzi cittadini demoliti a seguito della piena dell’Adige del 1882. Le bombe della Seconda Guerra Mondiale portarono nuovi danni, alla Sala Boggian e al ponte trecentesco fatto saltare, insieme a tutti gli altri della città, dai tedeschi in ritirata. Grazie alla coraggiosa azione di P. Gazzola, allora Soprintendente ai Monumenti, in un periodo in cui tale operazione era considerata eretica sotto il profilo scientifico, il ponte fu ricostruito nel 1951 “com’era e dov’era” assecondando la richiesta fatta a gran voce dai veronesi. Il resto del castello venne invece restaurato e curato da Avena, e già nel 1947 il Museo poté riaprire. Nel 1958 l’allora Direttore del Museo L. Magagnato affidò a C. Scarpa il compito di riprogettare il museo: si trattò di un’operazione dissacrante, soprattutto per lo svuotamento della caserma francese e la sua riorganizzazione funzionale, ma il cui merito più grande fu quello di ricercare e di mettere in luce, ora con l’occhio dell’archeologo,

ora con quello del pittore e dell’architetto, tutte le parti originali rimaste del castello e gli altri segni della sua storia, liberandole dalle incrostazioni e le falsificazioni aggiunte, senza tuttavia negarle completamente: con questo intervento acquistò credibilità non solo tutto il castello ma anche tutta la sua storia. Il progetto che ha portato alla riapertura dei camminamenti lungo un tratto dell’antica cinta comunale e alla sistemazione definitiva della statua di Mastino II, ha visto la necessità di conciliare la “funzione” (ampliamento dei percorsi, restauro e adeguamento) con la “forma” (dialogo e declinazione al contemporaneo). Gli interventi possono essere suddivisi in due ambiti, i cui confini a volte tendono a sfumare, come spesso accade in un progetto di restauro. Da una parte ci sono stati gli interventi di manutenzione minore, per adeguare alla sicurezza gli impianti (elettrico, rilevazione fumi e presenze) dei percorsi espositivi e la sistemazione di alcune parti delle coperture della Sala Boggian e della Galleria. Si è trattato di una serie di interventi che hanno portato il Museo a rispondere ai più recenti requisiti normativi in una prospettiva sempre più contemporanea, cercando di non snaturare per quanto possibile l’edificio e l’opera. Ad esempio l’ascensore per disabili, che permette ora il collegamento del piano terra con la sala “Avena”, la sala “Boggian” e la Galleria”, è stato ricavato collegando verticalmente alcuni locali di servizio che avevano perso la loro funzione (ripostigli e laboratorio fotografico).


L’altro elemento fondamentale del progetto è stato il restauro dell’opera di Scarpa e il suo completamento, con l’apertura dei camminamenti che ampliano i percorsi museali portando il visitatore davanti alla statua di Mastino II. Entrambi gli interventi ci mettono subito in rapporto con l’opera del maestro veneziano. Da una parte la sua conservazione, intesa ormai filologicamente, che deve comunque risolvere problemi pratici, come l’adeguamento tecnico. Dall’altra intervenire a stretto contatto sia fisico che concettuale pone invece domande di carattere metodologico e linguistico. Chiunque lavori nell’ambito di Castelvecchio non può fare a meno di provare fascino per questo palinsesto scarpiano, “macchina” per esporre, ma allo stesso tempo oggetto di ammirazione, e non può sottrarsi al timore reverenziale del suo Autore. Le scelte, come sempre accade in Architettura non sono univoche: da un lato si può negare programmaticamente ciò che è stato, provocare, ma assumersi la responsabilità di essere originali esporsi al pericolo di essere. Dall’altra si po’ invece essere discreti e cercare di riprendere un discorso sulla storia e stabilire un silenzioso dialogo con quella più recente. Questo avviene non in maniera scontata, fisicamente espressa, ma attraverso punti di contatto immateriali come sguardi, viste o impressioni, rileggendo alcuni elementi del lessico di Scarpa, sia dei materiali che cromatici, in modo che solo ad uno sguardo più attento appaia la loro rispettosa contemporaneità. Sembra quasi che ci sia stata una silenziosa mu-

tazione di alcuni materiali che nel passaggio da un linguaggio all’altro si sono trasformati: il legno scuro della parete del Cangrande è diventato un chiaro solaio ligneo che sovrasta Mastino, il ferro brunito si è trasformato nel tono caldo del Cor-Ten, mentre altri, come la pietra intrec-

ciano un discorso geometrico e concettuale con le lastre di ingresso al Museo. Si tratta di un esempio di arte di passare inosservati, rispettoso della presenza di Scarpa ma consapevole che ogni azione lascia un segno nella storia del Castello.

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herbert hamak: materia e colore a castelvecchio Angelo Bertolazzi

L’allestimento di Herbert Hamak (19 Marzo-30 Ottobre 2007) ha colto l’occasione di poter utilizzare i camminamenti di ronda, recentemente riaperti al pubblico, quale nuovo punto di vista concettuale e fisico verso la città e verso il castello, e per riprendere il dialogo con la storia passata e recente del castello, come aveva fatto P. Eisenmann in precedenza, con “il Giardino dei Passi Perduti”. La mostra ha interessato, oltre ai camminamenti, anche la Galleria delle Sculture dell’allestimento di Scarpa.

Progetto: Herbert Hamak Cura dell’installazione: Luca Massimo Barbero, Paola Marini Direzione dell’installazione: Paola Marini, Alba Di Lieto Consulenza ingegneristica: Gianfranco Pozzato Progetto luci: Mario Nanni –Viabizzuno, Oscar Scattolo Servizi tecnici: Oscar Scattolo, Fabio Guardini, Claudio Furlani Trasporto e montaggio: E.S. Logistica, Firenze, Marco Fusi

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L’installazione di H. Hamak “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” ha un indiscutibile pregio: quello di essere estremamente silenziosa, in un epoca in cui si cerca in ogni modo di apparire più che di essere. Si è ormai troppo abituati alla provocazione che questa ha perso di significato, e in mezzo a questo frastuono l’unico capace di farsi sentire è il silenzio. Questo atteggiamento consente di instaurare un dialogo con l’opera di Scarpa, maestro anche lui del silenzio, e con lo stesso edificio, la sua storia e i suoi significati. Come P. Eisenman, Hamak coglie alcuni elementi della complessa poetica scarpiana, li fa propri e li elabora per esprimerli secondo il suo essere contemporaneo. In questo caso l’elemento che viene ripreso è quello del “colore”: la pittura si fonde con la scultura diventando tattile. La ricerca personale di Hamak sul colore si basa sullo studio delle possibilità della pittura di diventare corpo attraverso la tecnica della cera. È presente un riferimento all’ideazione di Scarpa dei piani usati come sfondo per le sculture nella Galleria al piano terra, che perdono la loro astratta bidimensionalità pittorica per trasformarsi in tattile presenza cromatica. Questi due interventi si ricollegano idealmente, e non per caso, alle sculture medievali nelle quali si incontra nuovamente il colore trasformato in corpo, anche se di questa trasmutazione non rimangono che lievi tracce. L’altra parte dell’allestimento è invece realizzato sui camminamenti di ronda, di recente riaperti, attraverso diciotto barre blu marino disposte a cavallo delle merlature antiche. La loro presenza crea un percorso visivo che consente

di vedere una sequenza di ritagli del cielo, allo stesso modo di come le viste della città sono intervallate dai diaframmi delle merlature. Questa si trasforma in una promenade nella quale si fondono elementi contemporanei e antichi, suggestioni del luogo e dell’arte che vengono trasformati in un racconto dentro l’architettura del castello e nel quale non si può fare a meno di ricordare le parole dello stesso Scarpa: “Io amo molto… la luce naturale: volevo ritagliare, se possibile, l’azzurro del cielo […]”.

Herbert Hamak studia alla Scuola d’Arte di Stato di Francoforte dal 1972 al 1980. Dopo una fase intellettualmente ricca di spunti, di confronto con i movimenti concettuali e di riflessioni sulle possibilità di un nuovo modo di dipingere, medita lungamente sulle potenzialità della pittura stessa. In un primo momento il suo dipingere includeva la presenza di una possibile Figura, per poi evolversi in un modo astratto caratterizzato da una sostanziale monocromia luministica che inizia a prendere in forte considerazione la Materia, la trasparenza e la luce.


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17. Il Monumento di Cangrande, (Rigino di Enrico XIV sec.). 18. Vista dall’alto di Castelvecchio e di “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” (H. Hamak). 19. Castelvecchio e “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” (H. Hamak).

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temi Nuove finestre nel cielo. Un pittore e un architetto a Castelvecchio: Herbert Hamak e Carlo Scarpa Alba di Lieto Seguendo un percorso già tracciato da altri, Herbert Hamak si è accostato, con sapienza agli stimolanti spazi del castello e del museo, calandosi con calcolata semplicità nel complesso linguaggio architettonico di Carlo Scarpa. L’architetto veneziano nel restauro della Galleria delle Sculture, ha messo a punto un rigoroso sistema dove pavimenti, soffitti e apparati espositivi obbediscono ad un ordine geometrico all’interno del quale le opere d’arte risultano collocate secondo una armoniosa disposizione che tiene conto del loro valore plastico, materico, cromatico e in particolare del rapporto con la luce. La complessa poetica scarpiana pur appartenendo al mondo della geometria euclidea risulta “svincolata da modelli univoci” con profondi legami con la cultura artistica del Novecento, mediante la “riappropriazione dei linguaggi delle avanguardie storiche, ma filtrati dal gusto dell’Informel.”1 Scarpa elabora un personale lessico nel quale condensa il bagaglio culturale acquisito con la consuetudine alla pittura di Paul Klee e Piet Mondrian2 esprimendolo in maniera esemplare nell’allestimento della Galleria delle Sculture. La magica atmosfera di questo luogo ha sollecitato la ricerca formale di Herbert Hamak che, so-

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lo dopo aver messo a punto l’installazione Ultramarinblaudunkel PB 29.77007 sui camminamenti di ronda, progetta qui sette installazioni. In ciascuna sala espositiva lascia un incisivo segno cromatico e, pur essendo definite dall’artista opere di “pura pittura” tuttavia esse possiedono una valenza tridimensionale. Sono delle geometrie elementari: un cubo e parallelepipedi di svariate forme e dimensioni; dimensioni precise che in modo stupefacente raccordano la scultura medievale all’architettura, variano con il variare della luminosità naturale, con il formarsi di ombre e riflessi, con nuovi ritagli di luce. Nella prima sala, vicino ad una iscrizione del IX secolo, l’artista posiziona, con un inclinazione a 45° un angolare verde-acqua, S.T.099N, connessione discreta tra la ruvida lastra in pietra bianca e il traslucido pavimento. Il colore, quasi opalescente, del catalizzatore varia con il variare della luce assumendo tonalità prossime al calcestruzzo lisciato e indicando al tempo stesso, in modo discreto ma efficace, la relazione tra l’oggetto e l’apparato espositivo. Gli incerti appoggi di legno grezzo, dai quali si intravede il risvolto della tela, sottolineano l’estrema provvisorietà delle installazioni, accentuata dall’inclinazione che le rende quasi instabili, talora barcollanti. Inusuale modalità espositiva che attira l’attenzione e le fa sembrare appartenenti al mondo della scultura; una sobrietà di forme associata ad un cromatismo potente che amplifica il rapporto tra scultura, architettura e pittura. Poiché di pittura si tratta, di pittura solida e stratificata all’interno di elementari forme solide.

Già in passato altri si erano misurati con gli spazi scarpiani: nel 2004 l’architetto Peter Eisenman invece di presentare una tradizionale mostra della sua opera aveva preferito la complessa realizzazione di una stupefacente installazione: “Il giardino dei passi perduti”3. Un intervento in esterno che dal restauro di Carlo Scarpa estrapolava alcuni elementi maggiormente espressivi: i pavimenti in cemento e pietra, la griglia, la trave di ferro e li rielaborava nel giardino. Scegliendo cinque progetti “indice” rappresentativi della propria ricerca formale, traeva alcuni elementi simbolici che venivano amalgamati, con un processo di scomposizione e ricongiunzione, alle citazioni scarpiane. Il tema dell’ortogonalità veniva affrontato proponendo una sovrapposizione della griglia eisenmaniana a quella di Carlo Scarpa; i frammenti di questo reticolato, composizioni scultoree di colore rosso, emergevano dal suolo e si disseminavano tra le sale della Galleria Sculture, secondo un progetto coinvolgente e spregiudicato. La memoria di questo intervento passato accentua la sobrietà estrema di quello odierno di Herbert Hamak e fa riflettere come l’opera di Scarpa indirizzi e ispiri ad una ricerca di assoluta essenzialità. L’installazione, già intravista dal basso, per quelli che in verità hanno un occhio attento, prosegue ad una altezza di tredici metri, dove attraverso stralci di vedute urbane e del giardino di Carlo Scarpa si percorre lo stretto passaggio merlato, che conduce alla torre dell’Orologio che ospita la statua di Mastino II nella sua nuova collocazione. Il percorso, era probabilmente parte del camminamento di ronda approntato in


20. La Galleria delle Sculture (C. Scarpa) e “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” (H. Hamak). 21. L’Antico, il Moderno e il Contemporaneo: “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” (H. Hamak). 22. La Galleria delle Sculture (C. Scarpa) e “Ultramarinblau Dunkel PB 29.77007” (H. Hamak).

epoca viscontea che partiva da Castelvecchio, scavalcava l’Arco dei Gavi e si collegava alla cittadella fortificata correndo sopra le mura4. Riaperto al pubblico il 18 marzo 2007, dopo mezzo secolo di chiusura, il camminamento subisce una provvisoria metamorfosi con la posa a cavallo delle code di rondine di 18 barre blu - marino di Ultramarinblaudunkel PB 29.77007 che scandiscono un preciso ritmo trasformando la promenade consentendoci di vedere tra l’una e l’altra ritagli di cielo che curiosamente ricordano una famosa lezione di Scarpa intitolata: “volevo ritagliare l’azzurro del cielo”5. Come ha spiegato Hamak stesso diventa un nuovo osservatorio del cielo, ma, anche un racconto dentro la spazialità dell’architettura medievale da cui trarre nuovi spunti. L’artista “con piccole gocce di pittura concentrata pronta a diluirsi e a riversarsi sull’edificio”6 ci fa vedere con un nuovo sguardo una contemporanea urbs picta, quale Verona era. Ristampa del testo pubblicato in: Herbert Hamak. Ultramdrinblau Durkel PB 29.77007, a cura di L.M. Barbero e P. Marini, Marsilio, 2007

4 A.M.Conforti Calcagni, Le mura di Verona, p.67, Verona 1999. 5 “Io amo molto… la luce naturale: volevo ritagliare se possibile, l’azzurro del cielo… Lo spigolo vetrato diventa un blocco azzurro spinto verso l’alto, e quando si è all’interno la luce illumina perfettamente tutte le quattro pareti. La mia tendenza di ricerca formale mi faceva preferire la trasparenza assoluta e dunque non volevo avere l’incrocio dei vetri fissato da un telaio. È stato un tour de force, perché tutto sommato non è possibile ottenere questa idea di trasparenze: quando sovrappongo il vetro l’angolo lo vedo lo stesso, soprattutto se il vetro è di grosso spessore.” Lezione tenuta da Carlo Scarpa agli studenti dello IUAV Istituto Universitario di Architettura di Venezia, il 13.1.1976 sul progetto di ampliamento della Gipsoteca Canoviana a Possagno, “Volevo ritagliare l’azzurro del cielo”, trascrizione a cura di Franca Semi pubblicata in: Carlo Scarpa, Frammenti 1926/1978, Rassegna, numero monografico a cura di A. Rudi, n. 7, luglio 1981, pp. 82-85. 6 Intervista a Herbert Hamak a cura di Luca Massimo Barbero, La mia installazione a Castelvecchio? una piccola goccia di pittura pronta a diluirsi sul Castello.

Le foto 1, 2, 7, 8, 9, 17, 18, 19 sono di Stefano Tenaglia. La foto 16 è di Dario Aio.

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M. Dalai Emiliani, Il progetto di allestimento tra effimero e durata: una traccia per le fonti visive di Carlo Scarpa, in Carlo Scarpa Mostre e Musei 1944/1976-Case e paesaggi 1972/1978, pp. 41. 2 L’allestimento della mostra di Paul Klee alla Biennale di Venezia è del 1948, quella di Piet Mondrian alla Galleria d’Arte Moderna di Roma è del 1956. La modalità espositiva è indagata sia nel saggio sopracitato e da O. Lanzarini, 2003. 3 Peter Eisenman: Il giardino dei passi perduti. The Garden of Lost Footsteps, 2004.

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nuova biblioteca civica di verona: il progetto esecutivo Ugo Camerino

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La scelta di presentare l’intervento dell’Arch. Camerino per la Biblioteca Civica deriva dal convincimento che questa sia una tappa importante per la storia della biblioteca stessa e di riflesso per la città. Il recente progetto costituisce anche uno strumento critico per la conoscenza dell’“archeologia” degli edifici e della stratigrafia urbana, che arricchisce il recupero e la valorizzazione della Biblioteca.

Lavori 2005 / 2007 Importo dell’opera 7 12.000.000,00 Dimensione compl. dell’intervento: mq 12.700 RUP e progettazione definitiva: Arch. Costanzo Tovo Direttore dei lavori: Arch. Ugo Camerino Impresa Costruttrice: A.T.I. Cooperativa di Costruzioni Soc. Coop. / Cooperativa Archeologia/ Gelmini Cav. Nello S.p.A.

Committente: Comune di Verona Finanziamento: Fondazione Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona Progetto architettonico esecutivo e coordinamento generale della progettazione: Arch. Ugo Camerino Progettazione architettonica: Arch. Ugo Camerino, Arch. Pasquale Fontanarosa, Arch. Lara La Rosa, Arch. Andrea Renier Progettisti delle strutture: Prof. Ing. Giorgio Croci, Ing. Giuseppe Carluccio Progettista degli Impianti: Prof. Ing. Mauro Strada (Steam S.r.l.) Progettazione impianti: P.I. Andrea Del Puppo, P.I. Federico Guerra Prevenzione Incendi: Prof. Ing. Mauro Strada (Steam S.r.l.) Coordinatore per la sicurezza: Arch. Benedetto Tedeschi Progetto di restauro delle parti lignee: Dott. Carlo Mancinelli Biblioteconomia: Dott.ssa Antonella Agnoli Grafica: Giorgio Camuffo Cronologia degli interventi: Progettazione esecutiva marzo-dicembre 2003

La presentazione del progetto della nuova Biblioteca Civica di Verona si presta a diversi tipi di letture: certamente quelle che sono proprie della sua progettazione architettonica e realizzazione, ma anche quelle che riguardano il modo di concepire una biblioteca moderna in un organismo antico. La biblioteca precedente è stata smontata, non solo materialmente ma anche figurativamente, ed è stata rimpaginata seguendo un disegno organizzativo che ha rivoluzionato le abitudini e il modo di utilizzazione tradizionale di quel complesso glorioso. Sono stati ridisegnati i percorsi e i collegamenti. Spazi consolidati sono stati scompaginati per introdurre nuove funzioni. La mia ambizione era di realizzare nel centro della città, di fronte ai luoghi commerciali più popolari, un “attrezzo” che sapesse attrarre un numero di utenti analogo a quello delle nuove biblioteche e mediateche. Volevo che da questo restauro nascesse una nuova biblioteca, poiché penso che il recupero di un organismo storico così complesso non si può limitare al solo restauro statico e a quello degli ap-

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parati decorativi. Penso che, dove è possibile, si debba naturalmente realizzare il recupero filologico di tutte le sue componenti, ma ritengo che il successo dell’intervento si misuri anche nel modo in cui il complesso monumentale viene riutilizzato e, terminati i lavori di restauro, riprende, coerentemente con la sua identità, il ruolo che gli è stato affidato, recuperando l’efficienza funzionale che rimane, comunque, uno dei parametri per misurare la qualità di un progetto. La Biblioteca Civica di Verona era già in origine il risultato della aggregazione di tre importanti edifici, l’ex Collegio Gesuita, il Palazzetto Sebastiani e la Casa Perini, trasformati dall’architetto Barbieri nella prima metà dell’Ottocento. A questo primo nucleo, dopo la demolizione della chiesa di San Sebastiano, era stato aggiunto alla fine degli anni Settanta del Novecento un quarto edificio, il deposito dei libri, progettato dallo Studio Nervi di Roma. Dopo una lunghissima vicenda amministrativa cominciata negli anni Settanta con lo spostamento della facciata della chiesa e la realizzazione del deposito librario, l’arch. Costanzo Tovo, dirigente del servizio di progettazione del Comune di Verona, con la consulenza per la progettazione statica del professor Modena, aveva realizzato un progetto organico per il recupero della biblioteca. Il nostro incarico, che derivava da una gara internazionale vinta assieme al prof. Giorgio Croci, all’ing. Giuseppe Carluccio, al prof. Mauro Strada, agli architetti B. Tedeschi e P. Fontanarosa, riguardava quindi la stesura dell’esecutivo di


1. Render vista fronte principale con nuovo ingresso vetrato. 2. Vista d’angolo Nuova Sala lettura al piano terra del deposito. 3. Vista parziale affreschi perimetrali della Sala Farinati.

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SCHEMA DISTRIBUTIVO-FUNZIONALE

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quel progetto, approvato nel 1992, e la successiva direzione dei lavori. Questa la cornice al nostro lavoro. Il progetto dell’Amministrazione, benché fosse stato sviluppato in maniera complessiva e coerente, necessitava di una revisione. La metodologia su cui esso era costruito prevedeva l’abbandono della concezione strutturale seguita dal Barbieri, sostituita da una nuova struttura di cemento armato e acciaio. Inoltre il programma su cui si basava il progetto architettonico era ancora impostato sul modello di funzionamento della biblioteca precedente. Io invece volevo che da questo restauro nascesse un organismo nuovo, e già dai tempi del concorso avevamo riflettuto sul ruolo che hanno le biblioteche pubbliche nella cultura contemporanea. Secondo noi si dovevano quindi introdurre nel progetto nuovi servizi e soprattutto ridefinire l’esperienza della biblioteca tradizionale. Una sfida difficile, perché la Biblioteca Civica di Verona ha una tradizione consolidata ed un ruolo autorevole e riconosciuto. Svolge dalla sua fondazione, nel 1743, un servizio di conservazione e di sostegno allo studio, e possiede documenti preziosi, che conserva basandosi su una tradizione di rigore scientifico che la pone tra le biblioteche di eccellenza del nostro paese. Ma la sua posizione nel centro storico e la sua dimensione consentono di aprire servizi che si possono rivolgere anche ad un pubblico nuovo,a fianco di quello tradizionale degli studiosi e dei ricercatori, che con la loro presenza possono alimentare nuovi interessi anche in utenti diversi da loro per età, abitudini ed esigenze culturali.

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Negli anni durante i quali siamo stati coinvolti in questa progettazione, dialogando solo con chi era direttamente coinvolto nel progetto o al suo controllo, lo studio del programma della nuova biblioteca, che è stato una parte determinante nella concezione del nostro lavoro, è cresciuto e si è consolidato durante la stesura dell’esecutivo e, successivamente, nell’esperienza del cantiere. La biblioteca che abbiamo portato a termine è diversa da quella che ci era stata consegnata e, forse per tranquillizzare le nostre ansie, prima ancora dell’apertura al pubblico e del trasferimento dei materiali librari negli scaffali, a cantiere aperto abbiamo studiato una sua presentazione alla città, con viste guidate su appuntamento. Questa iniziativa si è rivelata un vero successo, prima di tutto perché, come abbiamo subito capito, l’essere di nuovo funzionante di questo edificio rispondeva ad una esigenza di identità, anche se la nuova biblioteca si è dimostrata subito più complessa e diversa da quella che si ricordava. Sapevamo fin dall’inizio di questa diversità e speravamo che sarebbe stata accettata. Anzi, per dire esattamente come stavano le cose, la revisione del programma funzionale era stata una delle linee di lavoro dichiarata anche nei contenuti della proposta del concorso: per questo avevo chiamato a fare parte del gruppo di progettazione Antonella Agnoli, che è stata dal tempo del concorso la nostra consulente sui problemi della gestione della biblioteca. Con lei abbiamo svolto una revisione critica delle proposte che ci erano state consegnate con il progetto definitivo, e abbiamo introdotto nuovi

contenuti e soprattutto disegnato le relazioni tra i diversi servizi; senza sovrapporci al sistema bibliotecario veronese o sostituire le biblioteche universitarie presenti in città. Abbiamo confrontato la situazione di Verona con modelli, già realizzati in Italia ed all’estero, di biblioteche analoghe per dimensione, servizi e collezioni. Sappiamo, dalle esperienze delle mediateche francesi (da Poitiers a Limoges, a Villeurbanne) e da quelle italiane (Bologna, Pesaro), che nuovi edifici, progettati in modo razionale, trasparenti, confortevoli, collocati in modo centrale nella città, attirano molte migliaia di persone ogni giorno. Si può calcolare che una città di oltre 250.000 abitanti come Verona, possa facilmente avere una presenza di 2.000 visitatori al giorno in una biblioteca moderna. Possiamo quindi immaginare di passare da un’utenza tradizionale di non più di 40.000 persone l’anno ad un pubblico che, assieme alle manifestazioni promosse dalla biblioteca, può arrivare ad un milione di contatti l’anno. Naturalmente non basta un progetto per trasformare consuetudini culturali e avvicinare un nuovo pubblico alla lettura. Il passaggio può avvenire solo se nella percezione del pubblico la biblioteca non è più il luogo tradizionale di conservazione dei documenti storici, aperto soltanto agli studiosi o agli studenti universitari. L’intera cittadinanza deve avere la sensazione di poter usufruire di una struttura aperta alla società, un servizio dove le esigenze e le curiosità quotidiane di tutti possono essere soddisfatte. Occorrono quindi progetti mirati a diverse fasce di pubblico (i ragazzi, gli adolescenti, le casalin-


4. Pianta piano terra. 5. Pianta piano ammezzato. 6. Pianta piano primo. 7. Pianta piano secondo.

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ghe, i pensionati), che possono essere avvicinate all’attività della biblioteca offrendo strumenti adeguati ai loro interessi contingenti: la lettura infantile, internet, la musica, i romanzi, i giornali e le riviste, modificando gli orari di apertura secondo le esigenze delle diverse fasce di utenza e valorizzando i patrimoni librari con programmi tagliati sulle tradizioni locali, la storia di Verona, i luoghi, la letteratura, i personaggi, le donazioni, la teologia, i fondi legati al territorio, senza dimenticare le traversie culturali specifiche della città, dal futurismo alle trasformazioni industriali. Questi temi possono essere contenuti nelle sale della biblioteca storica, che diventano luoghi attrezzati anche didatticamente per essere oggetto di programmi di consultazione che si sviluppano a diversi livelli. Occorre però crederci e bisogna che l’Amministrazione Pubblica sappia alimentare questo processo, selezionando finanziamenti da far confluire verso il polo della biblioteca - mediateca del Centro Storico. Perché essa possa accrescere la propria sofisticata presenza culturale, deve utilizzare personale specializzato e preparato, in grado di alimentare programmi ed acquisizioni che consentano un aggiornamento e diano la possibilità di rispondere alle vere esigenze della nuova utenza cittadina. Le manovre che abbiamo messo a punto, oltre l’apertura degli spazi del piano terra e del primo piano del deposito, hanno consentito il recupero di un’area centrale e di uno spazio che fino ad oggi ha avuto una utilizzazione inefficiente e un passato di degrado sociale. Verrà presto realizzato anche il nuovo ingresso,

che è stato progettato nello spazio tra i palazzi Perini e Nervi: un corpo vetrato trasparente che manterrà libera la visuale del campanile ma soprattutto dinamizzerà il passaggio tra i due edifici, completando la passerella - libreria che già collega i due livelli della sala di lettura al piano terra con la sala di ingresso. Questo nuovo ingresso permetterà di regolare l’apertura delle diverse sezioni mantenendo un unico presidio per le diverse attività. In base alle esigenze, senza dover tenere aperta tutta la biblioteca, sarà possibile aprire solo alcune sezioni anche in orari serali e senza gravare sul costo di gestione. Sono stati naturalmente affrontati i tradizionali problemi della catalogazione, della accessibilità dei materiali, della logistica, dei flussi di informazioni, della crescita degli utenti e dei documenti. Si è cercato di stimolare soprattutto la rispondenza tra le attività scientifiche degli operatori e le nuove mansioni nella nuova biblioteca e quindi l’organizzazione del personale. Il nuovo progetto affronta il tema della razionalizzazione degli investimenti necessari per attivare un servizio aperto ed innovativo. Uno dei problemi che abbiamo dovuto affrontare, perché specifico di questo intervento, è stato di dar una immagine rinnovata ed omogenea alla nuova biblioteca. Questo era infatti un problema molto complesso, perché si trattava di trovare soluzioni architettoniche che non tradissero la forte identità di ogni parte del complesso, costituito come è noto, da quattro edifici diversi. Ci siamo subito convinti che la prima questione era di segnalare il cambiamento rispetto al mo-

dello tradizionale, operando anche in maniera spregiudicata nella impaginazione dei servizi e nella loro distribuzione nel complesso sistema di edifici. Quindi un nuovo ingresso con una segnaletica integrata al progetto, che abbiamo studiato con Giorgio Camuffo. In uno spazio così ri-articolato era poi indispensabile rinnovare le abitudini di lavoro del personale per stabilire un rapporto diverso tra operatori e utenti. Abbiamo modificato abitudini consolidate ricorrendo anche a forzature, mirate a rompere il rapporto gerarchico utente – operatore, a cui molti degli operatori stessi erano abituati. In generale, si è cercato di valorizzare il coinvolgimento con pubblici diversi, mantenendo però l’equilibrio tra le esigenze della lettura individuale e la partecipazione collettiva. I banchi di reference sono stati sostituiti con tavoli tondi per mescolare i bibliotecari agli utenti. La sala di lettura al piano terra è stata articolata in più luoghi per assecondare procedure e attitudini diverse dei nuovi lettori che possono consultare i volumi concentrati in una nuova libreria a due livelli utilizzando postazioni tradizionali o divani nel chiostro o il chiostro stesso. Per la lettura dei filmati della videoteca sono stati studiati dei banchi appositi con sedie da regista, attrezzati con video, in modo da sfruttare la straordinaria possibilità di avere, in un ambiente unico, contemporaneamente aperti più di 20 schermi. La nuova biblioteca si presenta quindi come un interessante mosaico di abitudini che si stanno

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8. Rinforzi delle murature con inserti in acciaio. 9. Placcaggio e resinatura, con archi in piatto di acciaio, delle pareti per integrare l’intervento ottocentesco. 10. Recupero delle capriate esistenti con protesi e rinforzi delle travi di copertura. 11. Integrazione delle capriate lignee esistenti inserendo coppie di capriate reticolari prefabbricate in acciaio. 12. Recupero della colonna Sala Messedaglia, mediante l’impiego di strutture in acciaio e l’inserimento nel legno monolitico di resine.

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adeguando all’impostazione generale, senza però avere perso niente della sua identità storica; già nei primi tre mesi l’afflusso ha raggiunto la quota di 2.000 persone al giorno. Il progetto esecutivo, come è stato già detto, è stato impostato innanzi tutto sulla comprensione dell’identità del monumento, e quindi rispettando la sua storia costruttiva, con l’obiettivo di perseguire la conservazione in primo luogo della “materia” di tutti gli elementi costruttivi e delle tecniche che sono state utilizzate nelle varie fasi di costruzione. Sono quindi state riviste radicalmente la strategia costruttiva e le scelte tecnologiche del progetto del Comune. Abbiamo individuato interventi più discreti, prevedendo il restauro integrale delle strutture senza dovere smontare l’edificio. Tutte le strutture verticali e orizzontali, così come la copertura, sono state mantenute per evitare inutili traumi. Traumi che si sarebbero aggiunti a quelli oramai irreversibili subiti per le trasformazioni distributive, le distruzioni della guerra e per le mancate manutenzioni. La scelta è stata di riprendere il progetto di trasformazione del Barbieri, il primo grande progetto di ristrutturazione che ha coinvolto il complesso tardo gotico del convento dei Gesuiti e i due palazzi confinanti, per realizzare una biblioteca neoclassica costruita sui modelli monumentali dell’epoca, con accorgimenti ed astuzie tecnologiche raffinate ed innovative. Barbieri aveva saputo adattare il complesso tardo gotico agendo sulle strutture murarie esistenti, togliendo setti murari e piegandoli ad una vo-

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lontà distributiva predeterminata fino a farli aderire al suo modello teorico, e realizzare così la classica tipologia di edificio pubblico con spazi concatenati, che formano un impianto per la lettura a croce latina, ai piani superiori, dilatati al piano terra attorno al chiostro fino a realizzare spazi monumentali liberati dalle murature e sostenuti da colonne doriche. Il nostro progetto ripercorre le stesse intuizioni strutturali che aveva seguito Barbieri, intervenendo sulle strutture esistenti dei solai, ripristinando strutture portanti verticali - archi ed intelaiature lignee dei muri di spina - utilizzando tecniche avanzate che hanno consentito di mantenere, e quindi di restaurare, tutte le componenti del fabbricato fino alle pavimentazioni in legno e ai serramenti originali. Il progetto definitivo prevedeva lo smontaggio completo dei solai, fino a mettere in evidenza le travi, e la sostituzione del tavolato, della pavimentazione in tavole di legno e dei soffitti. Le soluzioni che abbiamo realizzato hanno invece permesso la conservazione integrale delle strutture dei solai e delle pavimentazioni in legno. Siamo intervenuti operando solo dall’intradosso dei solai, dopo avere rimosso le porzioni ancora esistenti dei soffitti in arelle, che comunque dovevano essere sacrificati per realizzare le compartimentazioni antincendio tra i piani. Attraverso consolidamenti, mirati sulle singole travi di legno, siamo riusciti a garantire la resistenza agli ingenti carichi costituiti dagli archivi e dai libri a disposizione e dal pubblico. Ogni trave è stata fresata in opera con un attrezzo appositamente studiato

e successivamente nella fresatura è stato inserito un profilato di acciaio a T, che è stato reso solidale alle travi di legno mediante resine epossidiche; sopra il tavolato originale è stato poi chiodato un secondo tavolato incrociato al quale sono stati a loro volta fissati i tiranti che collegano gli archi di acciaio utilizzati per placcare sui due lati le pareti in laterizio. Per conferire ai solai in legno la capacità, in caso di incendio, di mantenere la resistenza meccanica e di sbarramento ai fumi ed al calore per un tempo prefissato abbiamo realizzato nuovi soffitti in lastre di silicato di calcio, riempiendo inoltre le intercapedini tra pavimento in tavole e tavolato portante. Abbiamo poi realizzato sotto il pavimento del piano terra dei cunicoli di limitate dimensioni per il passaggio dei canali dell’aria e delle condutture elettriche e idriche, evitando di realizzare un piano tecnico interrato che avrebbe necessitato di uno scavo generalizzato che avrebbe sconvolto, come abbiamo potuto poi verificare, un diffuso ed interessante strato archeologico. Le dorsali di distribuzione dell’aria per i piani primo e secondo sono state realizzate nello spazio del sottotetto. In questo modo la mandata e la ripresa dell’aria nei piani primo e secondo sfruttano, per i condotti verticali, il vuoto esistente negli angoli ciechi delle librerie in legno e lo spazio libero sopra le librerie mascherato dalle loro cornici di coronamento. La posizione delle centrali di trattamento dell’aria ed il sistema di recupero del calore ed espulsione dell’aria di ripresa è stato riprogettato in modo da


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ridurre i percorsi dei condotti che richiedevano maggiori ingombri, e che avrebbero comportato manomissioni più estese e importanti. Le riprese dell’aria del primo e secondo piano, poi, vengono concentrate tutte nei corridoi, con i relativi canali principali nella zona centrale delle capriate, dove, in corrispondenza dei lucernari esistenti, vengono dotati di recuperatori di calore e di bocche di espulsione. Tutte le librerie ottocentesche sono state smontate e restaurate per essere riutilizzate, integrate da arredi appositamente studiati. Il restauro delle librerie lignee dell’ex Collegio Gesuita è stata una operazione complessa durata due anni, condotta da personale specializzato che ne ha seguito tutte le fasi, dallo smontaggio al trasporto al restauro fino al montaggio definitivo. Tutte le librerie, prima dello smontaggio, sono state dettagliatamente censite ed ogni singola componente rimovibile idoneamente marcata, in modo tale che ne risulti inequivocabile l’appartenenza e la posizione. Lo smontaggio ha permesso di analizzare il sistema di assemblaggio delle parti e di individuare per ogni tipo, il modulo trasportabile ed il sistema di scomposizione realizzabile con il minor numero di interventi e di danni al materiale. Una volta smontate, le singole componenti delle librerie sono state imballate con materiali protettivi e depositate nel laboratorio di restauro, dove è stato realizzato il trattamento di pulizia antitarlo, il mantenimento dei materiali prima e dopo gli interventi di restauro: il consolidamento, le riparazioni, le lavorazioni ebanistiche, le modifiche

strutturali e dimensionali e le finiture superficiali. Completati gli interventi di risanamento, gli elementi sono stati nuovamente trasportati nelle posizioni originali dove le operazioni di rimontaggio e ricomposizione erano state precedute dalle installazioni impiantistiche (condutture elettriche, canali e bocchette dell’aria, ecc.). Un capitolo a parte è stato quello del recupero delle strutture e delle decorazioni esistenti. La sala Messedaglia al primo piano del convento dei Gesuiti può essere un esempio tra i molti. L’intervento è consistito nel risanamento statico del pilastro monolitico centrale, realizzato con un unico magnifico tronco, mascherato da colonna dorica e decorato con stucco e marmorino a finto marmo. Utilizzando come cassaforma lo stesso marmorino, lo abbiamo potuto recuperare con iniezioni di resine epossidiche, armandolo in verticale con due profilati di acciaio a vista, imprigionati in sommità con dei collari di acciaio, a loro volta collegati alla struttura di rinforzo delle travi e del solaio. Con questa tecnica, frutto dell’esperienza di restauratori e di consolidate tecnologie del restauro del legno e dell’acciaio, abbiamo sacrificato solo una fascia minima della decorazione, corrispondente all’ala del profilato di acciaio, e mantenendo così il marmorino originale e soprattutto la maestosa colonna di legno. Un particolare capitolo è stato anche il recupero della sala di lettura al piano terra del Convento dei Gesuiti, perché durante il lavoro sono emersi gli apparati decorativi dei primi anni del Novecento, che erano stati coperti da intonaci e dimenticati.

Si tratta di un programma decorativo realizzato con il gusto eclettico del tempo, che si rifaceva ai modelli quattrocenteschi presenti nella pittura classica veronese ed in un certo modo ispirato ai programmi architettonici mantegneschi. Dopo una sistematica campagna di sondaggi ci siamo resi conto di trovarci di fronte ad un apparato decorativo sostanzialmente integro, che comprendeva anche le due colonne in ghisa altrimenti incomprensibili, anch’esse ispirate alla decorazione classica rinascimentale veronese. Questa scoperta ci ha spinto a condurre una campagna di restauro e di reintegro degli affreschi delle pareti, ma soprattutto ci ha obbligati a reimpostare la strategia di protezione antincendio di questi locali e della loro compartimentazione, perché era previsto, come per il resto della biblioteca, di realizzare delle controsoffittature che avrebbero reso necessario il sacrificio dei soffitti decorati. Le librerie in acciaio di questa sala sono state attrezzate con un nuovo impianto antincendio ad acqua a pressione mista a gas, il cui funzionamento è comandato da sensori che in caso di incendio fanno sprigionare dagli ugelli una nube di acqua vaporizzata che ha l’effetto di abbassare localmente, in maniera drastica, la temperatura, senza danneggiare i documenti cartacei. In precedenti esperienze avevano già testato questo sistema in laboratorio e abbiamo quindi realizzato, tra un montante e l’altro della libreria, un “ambiente” che consente un controllo locale delle temperature per ogni ugello. In questo modo abbiamo mantenuto il modello funzionale che ci eravamo dati per la sala di let-

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tura del piano terra, mantenendo il deposito a scaffale aperto e le diverse modalità previste: a seconda delle esigenze, del temperamento e della personalità dei lettori: da un livello più formale con tavoli di lettura attrezzati e cablati, ad una lettura più informale nella sala del chiostro, senza interruzioni di barriere o porte tagliafuoco, come si trattasse del medesimo ambiente che si prolunga poi anche nel cortile per la lettura all’aperto. È confortante concludere, ricordando quanto scriveva Étienne-Luis Boullée, con considerazioni che posso fare mie. Presentando la sua grande Biblioteca Reale, Boullée si preoccupava del giudizio dei contemporanei sulla qualità della sua proposta, chiedendo loro se la soluzione fosse funzionale e se la disposizione da lui proposta fosse efficiente rispetto ai percorsi, agli spostamenti dei documenti, alla razionalità e quindi all’efficienza. Il risultato di questo lavoro appena concluso a Verona è che la fedeltà ai libri e le acquisite conoscenze di altre forme di informazione sono mantenute. Le nuove biblioteche non reinventano, come abbiamo visto, e nemmeno modernizzano l’istituzione tradizionale, ma molto semplicemente assemblano in un nuovo modo abitudini nuove che possono convivere. Un pubblico che prima era solo potenziale è finalmente catturato. FONTI ICONOGRAFICHE Le foto sono state realizzate da Alessandra Chemollo (Studio Orch). I disegni appartengono all’archivio dello Studio Camerino.

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Ugo Camerino, laureato a Venezia, ha insegnato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dal 1974 al 1981. L’attività professionale si è sviluppata, in Italia e all’estero, nei settori dell’urbanistica e dell’architettura. Nel corso degli ultimi anni lo studio ha intensificato la partecipazione ai concorsi di progettazione nazionali ed internazionali. Opere recenti: Progetto per l’ampliamento della Fiera di Vicenza / Restauro del complesso palladiano delle Zitelle centro culturale di esposizione e comunicazione nell’isola della Giudecca a Venezia / Stazione Marittima Passeggeri Trieste Autorità Portuale di Trieste / Residenza per studiosi e ricercatori nell’isola di San Giorgio Maggiore – Venezia, Fondazione Giorgio Cini / Stazione Crociere di Venezia, Autorità Portuale di Venezia / Nuova struttura ospedaliera - A.S.L. n. 18 di Alba / Porto turistico di Porto Caleri Rosolina Rosamarina S.r.l./ Restauro dell’ex Convento di Sant’Anna a Castello – Comune di Venezia.

PUBBLICAZIONI - U. Camerino: Port of Venice, Ferry Terminal, Venice, Italy, GA Contemporary Architecture, n. 8/2007, Edited and Photographed by Yukio Futagawa, Tokyo, Giappone. - U. Camerino, Approdi e partenze: La Stazione crociere del porto di Venezia, Venezia, Marsilio Editori, 2002. - U. Camerino, R. Vitaliani, F. Navarra in Ipotesi di sviluppo per la Fiera di Vicenza, Vicenza, Immobiliare Fiera di Vicenza S.p.A., 1998, pagg. 16-19. - D. Calabi, U. Camerino, E. Concina, La città degli ebrei, Venezia, Marsilio Editori, 1996. - U. Camerino, W.W. Weitz und Partner, Maszregel-Regelmasz, in Auf der Suche nach dem verlorenen Bild. International Architekten seminar Potsdam 1991, Potsdam, Potsdamer Verlagsbuchhandlung, 1991, pagg. 64-75. - U. Camerino, W. W. Weitz und Partner, Wettbewerbsentwurf Preis in Grundschule der Judischen Gemeinde zu Berlin, Berlin, Stadtebau und Architektur, 1991, pagg. 80-87.


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13. Vista longitudinale interni della Videoteca. 14. Particolare della sezione relativa al collegamento vetrato tra Casa Perini e l’edificio di Nervi. 15. Vista nuova scala interna di collegamento. 16. Rinforzo delle travi principali in legno con placcaggi e inserimento di tiranti in acciaio. 17. Dettaglio particolare esecutivo capriate. 18. Dettaglio particolare esecutivo struttura portante rinforzata. 17

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19. Prospetto parziale della Sala lettura affrescata, nel Convento dei Gesuiti, con inserimento nuova libreria. 20. Pianta parziale della Sala lettura al piano terra del Convento dei Gesuiti con inserimento “libreria in acciaio�. 21. Immagine della Sala affrescata presso il piano terra del Convento dei Gesuiti 22. Sezione trasversale e libreria.

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temi Così è se vi pare... oltre le apparenze! Angelo Bertolazzi, Alberto Zanardi Scrive L. Kahn “Ricordati che, quando pensi alla tua città, pensi immediatamente a determinati luoghi che la identificano, non appena vi entri. Se questi sono spariti, il tuo sentimento per la città è perso, è spacciato…”1. A Verona esiste un universo di questi luoghi, alcuni sono l’immagine stratificata della storia della città, spazi pubblici come il sistema delle piazze attorno a quella delle Erbe, o edifici specifici, come Castelvecchio. Tutti questi sono fedeli testimonianze delle storie della città, di eventi anche tragici che hanno rischiato di farli scomparire. Tra questi ultimi c’è sicuramente la Biblioteca Civica che, già per il fatto di trovarsi nel cuore del tracciato romano e di occuparne quasi un intero isolato, ha sicuramente le potenzialità per diventare uno dei principali luoghi di quell’universo sopracitato. La nuova Biblioteca Pubblica di Verona fu istituita nell’oratorio del soppresso collegio dei gesuiti a San Sebastiano nel lontano 1792, ma in realtà fu aperta al pubblico solo più tardi nel 1802. Da allora fino ai nostri giorni sono gelosamente custoditi: i libri di San Zeno, quelli dei Gesuiti, ottenuti in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, quelli lasciati alla città dal conte A. Fracastoro e dal matematico A.M. Lorgna, nonché altre pregevoli opere frutto di doni o lasciti come

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quelli dell‘architetto Luigi Trezza, dell’abate G.Venturi, del naturalista A. Massalongo, di B.Fregoso e parte della libreria del marchese P. Gianfilippi. Infine G.B.C. Giuliari donò in più riprese la sua ricca raccolta di libri e opuscoli veronesi. La Biblioteca fu ampliata, durante la direzione di Cesare Cavattoni (1835-1872), con l’inaugurazione di nuovi spazi ricavati dall’attiguo ex-convento dei Gesuiti, e il 15 Aprile 1869 furono istituiti gli Antichi Archivi Veronesi. Solo nel 1939 la biblioteca otterrà una sede più prestigiosa con un’ulteriore ampliamento nella ex chiesa di San Sebastiano che, eccezion fatta per la splendida facciata dotata di quattro mezze colonne ioniche, fu distrutta quasi completamente dal bombardamento del 4 Gennaio 1945. Il bombardamento aereo alleato distrusse anche i solai della sala Poligrafia e di quella Teologica,e facciata, vestibolo, nonché atri e scale dell’ex convento dei gesuiti. Lo stesso Palazzo Sebastiani fu gravemente danneggiato. Miracolosamente si salvò il bellissimo fregio del Farinati che adornava il perimetro della sala Campostrini. Inizia per la Biblioteca, che nel frattempo riaprì nei vecchi spazi, un periodo “buio” che terminerà solo il 16 Gennaio del 1973 con l’approvazione del progetto dell’ingegner P.L. Nervi per la costruzione del nuovo magazzino librario nell’area precedentemente occupata dalla chiesa. Nel frattempo la facciata della chiesa, ormai staticamente compromessa, venne smontata e trasportata a San Nicolò tra il 1950 e il 1951, per interessamento dell’allora Soprintendente Pietro Gazzola, sotto la direzione dell’arch. Libero Cecchini. Tra il 1945 e il 1950

iniziarono i lavori di recupero del palazzo Sebastiani, futura sede della ritrovata Biblioteca civica, grazie alla supervisione dello stesso Gazzola : il restauro della facciata della Biblioteca, l’ingresso, la sala degli schedari al piano terra, la sala teologica, quella della Poligrafia e del vestibolo al piano rialzato. Contemporaneamente vennero eseguiti i lavori di consolidamento e restauro dell’affresco del Farinati da parte di R. Brenzoni, sotto la direzione di V. Filippini. Nel 1950 La Soprintendenza d’accordo con l’allora amministrazione comunale bandì un concorso di idee per la realizzazione della nuova sede sulle “ceneri” dell’ex chiesa di S. Sebastiano. Per facilitare la selezione degli elaborati, vennero indicati fin dall’inizio dei “vincoli inderogabili”: “…La nuova struttura doveva essere alta metri 18,50 (altezza suggerita dal Gazzola) e collegata ai locali adiacenti; al piano terreno erano previsti l’atrio, la sala delle conferenze, i locali di deposito dei libri, la guardiola del custode con l’abitazione, la legatoria. Al piano primo il vestibolo, il guardaroba, la sala lettura, la sala consultazione e periodici, gli uffici distribuzione-prestiti, l’economato, la direzione, la sala cataloghi, la sala ordinamento. Al piano superiore dovevano essere dislocati gli archivi, la sala disegni-stampe-fotografie, l’ufficio dell’archivista, i laboratori di restauro, il gabinetto fotografico...”2. Tra i membri della commissione incaricati di esaminare i trenta progetti partecipanti spiccano i nomi di B. Zevi, A. Annoni, G. Muzio e di Pietro Gazzola. Tra i cinque ammessi alla seconda fase un solo veronese (arch. M. Zamarchi) e un nome prestigioso


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1. L’effetto del bombardamento alleato avvenuto il 4 Gennaio del ’45 nella zona di San Sebastiano. 2. Il fregio del Farinati nella Sala Campostrini danneggiata dalle bombe.

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come quello dell’arch. Liliana Grassi. Tale concorso di idee, allora come oggi la storia non cambia, in realtà si rivelò una “bolla di sapone” e a detta dei testimoni non fu mai nominato un vincitore. Successivamente nel 1969 il Comune di Verona presentò un progetto di massima con l’indicazione delle linee guida e dello schema distributivo e funzionale per la ricostruzione sul sedime dell’ex chiesa. Venne incaricato della progettazione l’ingegner P.L. Nervi che nel 1970 presentò all’esame della Soprintendenza il suo elaborato, che non ottenne tuttavia il benestare del Gazzola. La prima soluzione prevedeva la realizzazione di un’architettura razionalista in cemento e vetro che, secondo le intenzioni del progettista, avrebbe dovuto “dialogare” con il prospiciente Grande Magazzino Coin già esistente. Il vero motivo di scontro fu la quota massima imposta dalla Soprintendenza che, venendo meno alle precedenti imposizioni dello stesso Gazzola, venne ora ridotta a soli 12 metri in gronda. Con il senno di poi, guardando i disegni di allora, si evince che l’idea originaria di Nervi si discostava non poco rispetto alla soluzione definitiva poi approvata dalla Soprintendenza il 16 Gennaio 1973. Apparentemente sembrerebbe che l’idea iniziale, sulla base di considerazioni meramente funzionali, fosse quella di chiudere il piano terra del magazzino con “tamponamenti in cementovetro”in merito ai quali Nervi disse: “L’idea generale…è quella di utilizzare il vetro, un elemento semplice, modesto, non aggressivo, l’unico che a mio avviso possa inserirsi senza creare stonature. Il nuovo edificio…dovrebbe appunto essere in ve-

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tro ‘sospeso’, senza armature, cioè con il pianterreno libero, da utilizzarsi o nell’ambito della Biblioteca o come punto di incontro per la cittadinanza”. Oggi, a distanza di più di 25 anni, quell’idea di spazio funzionale filtrato da un diaframma di vetro sembrerebbe essere stata ripresa dal progetto dell’ arch. U. Camerino per il restauro e il riutilizzo degli antichi spazi dell’ex collegio dei Gesuiti. Si può discutere sul modo, ma non certo sul fatto che egli si sia avvicinato alle pre-esistenze: il vetro è per sua natura un materiale (oggi come allora) che, pur creando uno spazio fruibile, permette di mantenere l’impressione sensoriale/visiva originaria: la forza delle strutture nerviane è infatti praticamente rimasta inalterata. Anzi passandovi davanti in orario serale, noterete come la loro plasticità risulti essere in qualche modo accentuata proprio dalla simbiosi artificiosa tra vetro e luce, che enfatizza e da nuovo slancio ai bellissimi plinti che sostengono l’intera struttura. Stessa cosa si può dire per il nuovo ingresso vetrato, ancora da realizzare, che permetterà con la sua trasparenza di inserirsi in modo discreto nello spazio antistante il campanile. Lasciano perplessi i cromatismi utilizzati per i materiali ignifughi con cui si sono adeguate le strutture in c.a. alle recenti normative antincendio: forse sarebbe stato più opportuno l’uso di pigmenti meno cangianti e più rispettosi di un’opera realizzata da un autorevole progettista quale era Nervi. Altrettanto poco adatte sono le fonti di illuminazione appese secondo uno schema articolato dal soffitto ma che negano, sia per

qualità che per discrezione, il suo moderno disegno neo-gotico. Ci si rende altresì conto che, se queste sono le “colpe” da additare al bravo Camerino, sono comunque “mali minori” non permanenti. Va dato invece merito al progettista di essere riuscito a rivalutare l’uso sociale di uno spazio altrimenti lasciato in balia di patiti dello skate, o peggio, rifugio di sbandati nelle ore notturne. Nel 1971, in conseguenza ad alcuni sondaggi stratigrafici, si presentò l’esigenza di creare un percorso archeologico al piano terra (poi in realtà mai realizzato nella sua interezza) e la necessità di modificare il partito architettonico degli otto plinti armati. Venne inoltre imposta la riduzione da 6 a 5 piani del progetto definitivo che verrà inaugurato solo il 2 Giugno del 1980. Se la motivazione che sta alla base della realizzazione del piano terreno “porticato” del progetto di Nervi sono riconducibili ad un’esigenza importante, ma meramente divulgativa dalle sopraggiunte scoperte archeologiche, allora a maggior ragione (essendo venuto fin da subito meno lo scopo iniziale) può essere considerata accettabile e condivisibile l’idea di Camerino di “chiudere” fisicamente ma non visivamente la mancata piazza. A suffragio di questa affermazione c’è il pensiero dello stesso Nervi che in tempi non sospetti scrisse“…espressività estetica e sostanza funzionale e costruttiva di un edificio, sono elementi inscindibili, e che architettura, come del resto si era affermato fin dai tempi più antichi, vuol dire “arte e tecnica del costruire”(…)non può esistere


3. La prima soluzione progettuale di P.L.Nervi, in cemento e vetro, per il magazzino libri della Biblioteca Civica.

opera costruttiva che non abbia un corpo materiale e visibile e quindi, contemporaneamente, una esigenza tecnica ed una estetica.”3. E aggiungeva: “..Fino a pochi decenni or sono le piante di un edificio erano determinate più da prefissi schemi formali che dalle funzioni che in esso dovevano svolgersi, e molte volte queste venivano sacrificate per seguire astrattismi geometrici o vincoli di rigida simmetria.. una buona funzionalità distributiva è la necessaria premessa di una buona architettura(…)qualcosa dell’ordine e della razionalità di una corretta distribuzione interna si manifesta anche nell’aspetto di un edificio. Il corretto studio di una costruzione parte dal suo interno per concludersi all’esterno…naturalezza statica e corretta costruttività sono gli equivalenti, in campo strutturale, di quello che la buona funzionalità distributiva è nella concezione generale di un fabbricato.”4. È proprio sulla base di queste convinzioni che a Verona venne realizzata tra il 1963 e il 1968 l’altra grande opera di Nervi: il bellissimo Ponte del Risorgimento. Un ponte (a trave continua con 3 campate su 4 appoggi) i cui elementi strutturali portanti fanno ricordare le antiche imbarcazioni che solcavano un Adige navigabile: due pile-barche centrali in cemento armato rivestite in pietra, dotate di superiori nervature-vele longitudinali, realizzate con grande cura nelle casserature e nell’uniformità dei conglomerati che solo un progettista attento alla qualità costruttiva poteva avere. Ernesto N. Rogers, a proposito delle relazioni tra tecnica ed espressione, affermava che la sintesi

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tra questi due termini del fenomeno architettonico è da ricercarsi nell’antico concetto greco di “tekné”, dove il bello e l’utile (e quindi funzionale) si identificano come soluzione ideale. Al riguardo Nervi, rispondendo ad un “attacco” da parte di Bruno Zevi in “L’architettura n°44”, dicendo: “...Solamente un tecnoide di mente molto ristretta potrebbe sostenere che una buona tecnica costruttiva o una valida struttura portante possano di per se stesse essere sufficienti a fare una buona architettura; ma bisognerebbe anche essere inguaribilmente ammalati di vuoto intellettualismo per considerare architettonicamente valevole un’opera che non servisse alle sue finalità per gravi deficienze tecnologiche o giudicare favorevolmente un progetto che presentasse troppo gravi, se non insuperabili, difficoltà costruttive. …per una grande struttura la correttezza tecnica è la indispensabile premessa della bellezza architettonica. ”5. Nervi accusava Zevi di confondere formalismo con strutturalismo, dal momento che, a suo dire, la mancanza di una vera e propria funzione statica riduce ogni azione ad un fatto semplicemente formale. Nervi, architetto che amava farsi chiamare “ingegnere”6, era uno dei massimi esponenti dell’ar-

chitettura razionalista di quegli anni e polemizzava su quanti, annullando ogni possibile fantasia, sostenevano che l’architettura fosse definita esclusivamente dal calcolo. Egli, attraverso un uso sperimentale ed attivo della “forza dei numeri”, ruppe uno dei sacri vincoli del razionalismo; facendo sua l’affermazione di Viollet-leDuc “L’architettura e la costruzione devono essere pensate o praticate simultaneamente… perché la costruzione è il mezzo, l’architettura è il risultato”7. Rogers afferma che, pur essendosi lasciato attrarre da certi “slogan” della sua dottrina, al punto di illudersi che la bellezza delle sue opere fosse frutto esclusivamente di un “pensiero neutro e passivo o comunque agnostico di fronte ai problemi estetici” tipico della mentalità di un ingegnere, egli era “un artista suo malgrado(…)talvolta perfino a dispetto delle sue convinzioni teoriche”8. Tutti i progetti di Nervi, anche quelli meno riusciti, sono caratterizzati da una purezza formale e strutturale che li rende, anche agli occhi dei profani, inconfondibili: in tutti si legge un tentativo di ricerca e creazione formale, attraverso la poetica modellazione del c.a. Il Magazzino della Biblioteca Civica di Verona, nonostante venga inaugurato solo un anno dopo la morte di

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4. Veduta frontale del Magazzino Libri dell’ing. P.L. Nervi. 5. Veduta longitudinale, lato accesso campanile, del Magazzino Libri. 6. Particolare della sezione trasversale del progetto definitivo dell’ing. P.L. Nervi. 7. Prospetto laterale del progetto, poi eseguito, approvato dalla Soprintendenza ai monumenti di Verona. 8. Particolare esecutivo pilastro a sezione variabile rastremato. 9. Fronte principale del progetto di P.L. Nervi approvato il 16 Gennaio del 1973. 5

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Nervi avvenuta nel 1979, è a tutti gli effetti un’opera che sottolinea la sua capacità di delineare spazi significanti che, pur adatti alla funzione, siano proporzionati al loro scopo. Lo si capisce dall’accentuazione plastica, moderna derivazione del gotico, delle linee di resistenza del solaio del piano terra secondo nervature isostatiche e vuoti ellittici, ora destinato a sala di lettura. Ma è ancor più evidente nella modulazione dei pilastri che dalle fondamenta salgono fino alla sommità del magazzino: ora rastremati, in base agli sforzi a cui sono sollecitati, ora inclinati per adeguarsi alla risultante dei carichi. La sezione variabile dei pilastri segue in realtà la regola, tanto cara a un cultore del “corretto costruire” come Nervi, dell’ “assorbimento sufficiente” del carico che sollecita la struttura in un preciso punto. Infine è interessante come l’edificio, pur nel suo aspetto brutalista spesso non condiviso dal passante che, alzando lo sguardo, arriccia il naso, conservi la memoria delle distruzioni belliche attraverso il taglio che lo separa dall’edificio storico, nel quale si staglia il campanile seicentesco e dove si può ancora vedere la parete interna della chiesa distrutta, con le sue statue e gli elementi di imposta della copertura. Sappiamo che ogni invenzione architettonica è frutto di realtà esterne alla volontà del progettista (non esistono cioè libertà assolute) che comunque egli deve saper dominare; ed è per questa ragione che in architettura vige la legge della reversibilità: dall’esterno all’interno e, da questo, nuovamente all’esterno; tenendo conto di tutte le variabili in gioco. E concluderò con le pa-

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role di A. Pica: “La soluzione di un problema tecnico o funzionale non è mai univoca, a parità di risultati le versioni sono teoricamente infinite e praticamente in numero sempre superiore all’unità. Esiste dunque, sempre, un margine di scelta di considerevole ampiezza in cui deve esercitarsi una determinazione finale (…) È quel margine che corrisponde al momento più squisitamente creativo, quello spazio la cui esistenza ha sempre vietato una architettura soltanto dettata dalla casistica funzionale o dalla ragione tecnica” 9. 1

Da L.I. Kahn, Designing with the Automobile: the Animal World, in “Canadian Art XIX”, n° 1 2 Da M. Vecchiato, Verona, la guerra e la ricostruzione, Verona, 2006 3 Da P.L. Nervi, Critica delle strutture – Rapporti tra ingegneria e architettura, “Casabella - Continuità” n° 225 4 Da P.L. Nervi, Critica delle strutture – Cinque ponti, “Casabella - Continuità” n° 224 5 Da P.L. Nervi, Critica delle strutture – Architettura e strutturalismo, “Casabella - Continuità n° 229 6 Da A. Pica, Pier Luigi Nervi, Roma, 1969 7 Da P.L. Nervi, Costruire correttamente, Milano, 1955 8 Da E.N. Rogers, Pier Luigi Nervi, Milano, 1957 9 Da A. Pica, op. cit.

FONTI ICONOGRAFICHE 1, 2, 3, 7, 9: “Verona, la guerra e la ricostruzione”, a cura di Maristella Vecchiato, Rotary Club Verona Nord, 2006. 4, 5, 6, 8: “ArchitettiVerona n° 46”, rivista bimestrale sulla professione di architetto dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Verona, Terza Edizione, Anno VIII. 10: Archivio Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Verona, n. 2223 del 30 maggio 1978. 11: Foto arch. Alberto Zanardi. 12 e 13: Foto arch. Dario Aio.

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10. Sezione trasversale quota - 1,14. Piano terra del Magazzino Libri. 11. Vista interna longitudinale della Sala lettura al piano terra dell’edificio di P.L. Nervi.

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temi Le blindosbarre e il soffitto di Nervi Carlo Alberto Cegan C’è qualcosa di straniante e impalpabile che accade nel prendere possesso dello spazio oggi recuperato alla funzione sociale di sala lettura della gloriosa biblioteca civica. È purtroppo il senso della indifferenza fra le cose. Nessuna, verrebbe da dire con un termine caro a Cacciari, nessuna pietas verso l’esistente, pure appartenente alla modernità e quindi vicino e in qualche modo familiare. Obbligava l’atteggiamento ad un modesto, eppur necessario gesto di com-prensione. Di necessaria e delicata relazione con il testo, neppure con un con-testo. E questo sembra svilito, reso evanescente, indistinguibile nella sua pur eccezionalità di casseformi che piegano il calcestruzzo ad un intreccio quasi gotico perché articolate e fuse scultoreamente per forma e non per massa. Che l’edificio in se rappresenti una delle opere più felici di Nervi, appare irrilevante. Già lo scarto volumetrico per rendere ancora visibile il campanile esistente appare gesto di delicata comprensione dello spazio urbano. Ma esso è testimonianza, non già reliquia, come vorrebbe il sigillo del vincolo. È testo storico documentario, nell’accezione che ne ha fornito A. Riegl.

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Ma ciò, la distinzione, fra ciò che è e ciò che appare è smarrito nell’amnesia di troppa indifferente progettualità. Lo stupore del meraviglioso avvitarsi dei plinti a doppia iperboloide iperbolico, del magico cassettonato ad ellisse schiacciata sono diventati solo e miseramente supporti. Pilastro e soffitto. Mondanamente cemento armato. La differenza fra il suolo esterno ed interno è solo spazio da riempire, saturare, impiegare. Nessuna minima sacralità dello spazio che rimane solo un dentro la cui lamina di vetro rafforza lo straniamento. Infine il soffitto, raggelato e reso disponibile e docile supporto (!!!!). Semplice e banale supporto. Ciò che è prassi per il monumento , appare

imbarazzo per il documento. Allora le blindosbarre appaiono come l’invadenza degli short nei luoghi di culto, l’irriverenza verso l’esistente che non si ri-conosce, che è smarrito nel capitolato d’appalto. Nelle pur difficoltose ansie del conto economico, nella tabella dei requisiti funzionali . Tutto giusto. Ma non basta a giustificare l’indifferenza, che rende incapaci poi di distinguere, comprendere, capire. Tutto esiste, dicono le blindosbarre, tutto è annullato nella similitudine: per noi che siamo attenti alle differenze, alle distinzioni, alle sfumature, al dettaglio, al sacro bosco, per noi esse segnano il confine che non vogliamo e non possiamo oltrepassare e valicare.

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temi La facciata di San Nicolò Giuseppe Tommasi Se qualcuno, in Verona, penetra attraverso Porta Borsari dopo aver contemplato e dipanato mentalmente coordinate e subordinate di romani timpani, può essere attratto dal capriccio di una ricognizione del paramento interno delle mura della città romana: vicolo del Guasto lo accompagnerà fino ad un largo in via Mazzini. Colà giunto il viandante che sosti di fronte alla farmacia “Due Campane” può ammirare contemporaneamente, volgendo lo sguardo verso l’alto, due timpani: uno, vicino, corona la loggia di palazzo Arvedi, l’altro, in lontano, appartiene alla facciata di san Nicolò. Entrambe si devono a Giuseppe Barbieri; il primo è un’invenzione, il secondo anastilosi di anastilosi. Ma qualcosa, un disturbo, un rumore apocrifo si percepisce subito sull’estradosso del nobile frontone: protesi incongrue che si intromettono maldestre nel delicato attacco tra architettura e cielo. Tuttavia, avvicinandosi al monumento per via san Nicolò, la sontuosa facciata con il suo ordine gigante rapisce lo sguardo. Ma l’incanto svanisce all’arrivo in piazza e il cuore smorza il suo battito. C’è qualcosa di deludente che il tristissimo assetto della piazza e la congenita povertà degli edifici recenti non spiega sufficientemente, perché sono insulti che

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12. Loggia di palazzo Arvedi 13. Facciata della chiesa di San Nicolò (foto di Dario Aio)

siamo abituati a sopportare. In realtà il frontespizio della chiesa perde tensione, non mantiene la promessa, offre un aspetto dignitoso ma accademico. Applicato nel 1950 alla facciata incompiuta della chiesa era stato invece concepito e costruito altrove, per la chiesa di san Sebastiano in via Cappello, proprio dove ora si trova il nuovo edificio della civica biblioteca. Nella sua sede originaria dunque, la facciata si offriva di scorcio, con linee fuggenti, proprio come ancora fortunosamente la si può vedere da via san Nicolò. È rischioso ma non impossibile, anche se spesso proibito da ciechi rigori e mortifere teorie, traslare un’architettura in altro contesto; qualcosa comunque si perde ma in nuova scena la fabbrica potrebbe forse esprimere di sé un che di impensato, costruire un inaudito frammento di “città analoga”. È chiaro invece il fallimento di questa manovra, che lascia orfani ed afoni i due luoghi, uno sofferente dell’assenza e l’altro dell’intrusione. Le stesse vicissitudini di questo monumento tormentato e nomade disegnano un destino che potrebbe ora compiersi restituendo forza e decoro al luogo orfano e onesto esempio di incompiutezza alla piazza comunque irrisolta: potrebbe essere, ricollocato nel luogo originario, degna facciata dell’ opera di Pier Luigi Nervi.

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esempi di architettura: le mostre del marmomacc Una mostra si può trasformare in un’importante opportunità per dare spazio al dibattito architettonico, capace di innescare una serie di riflessioni. Le mostre organizzate da Veronafiere nell’ambito delle iniziative culturali del Marmomacc, oltre che promuovere l’architettura di pietra e la cultura che è a questa sottesa, vogliono anche diventare strumento critico per leggere la contemporaneità, a disposizione di chiunque si voglia occupare della materia. Non si tratta solo di una ricerca di prodotti architettonici di successo, risultati della vincente architettura-spettacolo, qui occasionalmente accomunati dall’impiego del materiale lapideo, ma si pongono un preciso obiettivo culturale: il taglio delle mostre, evidenziato dai due cataloghi e dai pannelli espositivi, è quello dell’indagine scientifica volta a scoprire il profondo, anche se a volte dimenticato, accordo tra correttezza tecnica ed espressività estetica, tra oggettività ed espressività e tra materia e forma. La decima edizione del “Premio Internazionale Architetture di Pietra”, attraverso la selezione di cinque opere, vuole premiare l’uso del materiale lapideo non come semplice rivestimento e dispiego di forme accattivanti, ma come elemento fondante dell’intero progetto, anche dal punto di vista costruttivo e della ricerca sia estetica che tecnica.

Paulo David: Piscinas do Atlantico, Madeira, Portogallo (foto FG+SG)

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Elemento interessante di questa edizione è stata la presenza di giovani progettisti che attraverso la loro opera vogliono ribadire i valori artistici, costruttivi dell’Architettura. Tra le opere premiate, oltre all’ Ampliamento del Banco de España a Madrid di Rafael Moneo, colta e raffinata parodia dell’eclettismo del XIX e XX secolo, troviamo infatti le Piscinas do Atlantico nell’isola di Madeira, di Paulo David, dove la pietra serve a rapportare il progetto alla scala paesaggistica che la grande scogliera di lava impone. Il rimodellamento della casa bifamiliare di Beniamino Servino a Pozzovetere, costituisce un volume compatto ma rispettoso della tradizione costruttiva locale, dove le aperture irregolari tracciano dei segni sulla rigorosa facciata di tufo giallo. Il Monastero Cistercense nell’Isola di Tautra in Norvegia, degli architetti Jensen e Skodvin, costituisce un’aggregazione di forme elementari dove il legno e le lastre di ardesia policrome rafforzano il potente legame tra architettura e paesaggio. La ricostruzione della Muralla Nazarì a Granada di Antonio Torrecillas, si pone invece a cavallo tra il restauro e l’opera di land art, tra architettura e scultura. Infine sono da ricordare il premio ad memoriam, assegnato in questa occasione al Mausoleo delle Fosse Ardeatine dove le pietre locali lavorate in modo arcaico, accentuano il senso di monumentalità. Il premio Architettura Vernacolare è invece stato assegnato all’ Architettura di Pietra della Lessinia, unico e ineguagliabile esempio di quella corrispondenza tra forma e materia, nata dall’opera di contadini muratori che hanno saputo sfruttare al meglio le qualità tecniche ed estetiche della pietra locale. La mostra “La Natural Seducción de la Piedra. Arquitectura Contemporanéa de España”, dopo quelle dedicate all’Italia e alla Germania è un tentativo di capire le specificità culturali e costruttive di ogni paese preso in esame attraverso quello che si può definire un regionalismo critico. Nel caso della Spagna si è trattato di concentrarsi su quello che è considerato come uno dei paesi più dinamici, dal punto di vista del dibattito culturale e della progettazione architettonica. Sono

state selezionate quindici opere dell’ultimo decennio, un periodo significativo in quanto ha visto svilupparsi nuove ricerche riguardo l’uso della pietra, le sue tecniche costruttive e le sue lavorazioni. Dall’impiego della pietra come rivestimento esterno secondo un linguaggio minimale e purista, si è passati a quello dei piani interni traslucidi che ricercano effetti luminosi, per arrivare all’impiego della pietra con una marcata funzione “tettonica” nella costruzione dell’edificio. Gli autori di queste opere sono alcuni tra i nomi più illustri e pubblicati sulle riviste di tutto il mondo (Rafael Moneo, Juan Navarro Baldeweg, César Portela, EMBT Arquitectes, Carlos Ferrater, Alberto Campo Baeza, Paredes-Pedrosa, Sancho-Madridejos, Palerm-Tabares de Nava), ai quali si sono affiancati giovani architetti della nuova generazione, che da diversi anni continuano l’opera dei maestri (RCR Arquitectes, AMP Arquitectos, Vicens-Ramos, Picado-De Blas, Antón García Abril). Queste opere testimoniano tutte con quanta coerenza si è sviluppata l’arte del costruire in Spagna e come l’impiego di questo materiale, uno dei più tradizionali, non sia semplice moda ma costituisca un preciso impegno culturale nel ribadire i valori dell’Architettura, come bellezza, utilità e costruzione, all’interno della ricerca contemporanea. L’edizione 2007 di Marmomacc, ha inaugurato nell’ambito degli manifestazioni culturali l’iniziativa “Marmomacc incontra il design”: dieci designers (Riccardo Blumer, Aldo Cibic, Odile Decq,

Carlos Ferrater: casa Tagomago a Ibiza,Spagna (foto Alejo Bagué)


Michele De Lucchi, Kengo Kuma, Alberto Meda, Simone Micheli, Marco Piva, Denis Santachiara, Tobia Scarpa) a livello internazionale sono stati invitati a elaborare un progetto da realizzare in collaborazione con altrettante aziende leader nel settore lapideo. “La leggerezza del marmo”, questo l’affascinante tema su cui sono stati invitati a confrontarsi. Le aziende hanno provato a sperimentare sulla pietra nuove lavorazioni che esaltassero la matericità pur lavorando con spessori sottili; i designers hanno potuto esplorare nuove possibilità di espressione, favorendo un arricchimento reciproco nei rispettivi ambiti operativi. Tutte le opere realizzate sono state esposte negli stands delle aziende produttrici: tavoli illuminati, lampade e casette, pannelli con intagli simili a merletti, vasche con fiori di pietra galleggianti, blocchi cucina, addirittura coltelli di candido marmo Lasa. In alcuni casi il gioco ha preso la mano, identificando la “leggerezza del marmo” con la creazione dello stand stesso, ottenendo risultati davvero notevoli tali da meritare i primi tre posti al Best Communicator Award, premio che Veronafiere assegna ai migliori stands presenti alla manifestazione. Angelo Bertolazzi, Laura De Stefano

com’è cambiata l’architettura di pietra Dieci edizioni del Premio Internazionale Architetture di Pietra Guardando a ritroso le dieci edizioni del Premio Internazionale di Marmomacc mi sembra di cogliere un aspetto dimenticato, riguardante l’inizio di un percorso critico all’interno della “architettura di pietra” che ho avuto l’opportunità di seguire nel corso di un ventennio. Considerando la straordinaria evoluzione che questa “disciplina nella disciplina” ha raggiunto oggi nell’innovazione dei linguaggi, delle tecniche e della ricerca creativa sono stato portato a considerare le opere premiate nelle prime edizioni della rassegna come testimonianze di residue qualità di una cultura costruttiva ancora presente in alcuni “maestri” fino alla prima metà degli anni ottanta, ma in via di rapida estinzione. In realtà fin dalla prima edizione erano invece visibili in nuce gli aspetti innovativi che avrebbero alimentato la rivoluzione attuale nell’impiego dei materiali lapidei. La selezione delle opere nel 1987, anno d’inizio del Premio, fu effettuata da una giuria, di cui ho fatto fino ad oggi parte e coordinato, composta da Mario Bellini, Kenneth Frampton, Vittorio Magnago Lampugnani, Christian NorbergSchulz, eterogenea per storia e orientamento culturale ma assai salda e autorevole nella qualità delle scelte. E proprio sull’aspetto qualitativo

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Kengo Kuma: stand per Marmomacc 2007 (foto Peppe Maisto)

delle opere selezionate il Premio di Marmomacc si differenziò programmaticamente da altri premi analoghi legati a eventi commerciali, dove l’aspetto privilegiato era la quantità di materiale lapideo utilizzato senza alcun interesse per la qualità dell’architettura. In effetti in quegli anni, come nei due decenni precedenti, il panorama era desolatamente convenzionale, la presenza della pietra nelle costruzioni consisteva nel rivestimento delle facciate degli edifici quasi esclusivamente secondo un concetto puramente “ornamentale”, come del resto sono ancora oggi definite dalle aziende produttrici le pietre destinate all’edilizia. Lo stesso si applicava alle superfici orizzontali e di collegamento, dai pavimenti alle scale. La “facciata ventilata” si era imposta a livello internazionale come ideale soluzione tecnico-igienica per i rivestimenti esterni degli edifici e unica forma “realisticamente” praticabile, cioè sostenibile a livello economico, inducendo a una ulteriore costrizione in senso decorativo del ruolo dei materiali lapidei in architettura. In tale contesto alcune delle opere premiate nella prima edizione del 1987 rappresentano certamente una rottura della convenzione, come ad esempio la casa di Jørn Utzon nell’isola di Mallorca, costruita in pietra massiva locale - una concezione costruttiva praticamente estinta – da una delle figure più innovative dell’architettura della seconda metà del Novecento. A proporla fu Christian Norberg Schulz, storico dell’architettura all’epoca considerato conservatore per le sue simpatie per alcuni autori del “post-modern” internazionale, in quegli anni vincente. In realtà Norberg Schulz, che divenne la figura centrale nella giuria del Premio fino alla sua scomparsa nel 1999, si rivelò entusiasta sostenitore delle opere in pietra più avanzate. Fu lui a coniare il termine, oggi molto in uso di “architettura di pietra” riconoscendole un linguaggio proprio, “autonomo” rispetto a quelli ottenuti con altri materiali. La casa di Utzon prefigurava precocemente una tendenza sempre più diffusa nell’architettura odierna a riappropriarsi,

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odeon Prima edizione del Premio Architetture di Pietra, 1987.

rielaborandolo in modo nuovo, del linguaggio costruttivo arcaico: la costruzione tettonica pietra su pietra. Ugualmente importante, sempre in quella prima edizione, fu la scelta di un piccolo, singolare edificio di Arata Isozaki, il Museum of Contemporary Art di Los Angeles, proposto e sostenuto da Kenneth Frampton. In questo caso un rivestimento sottile che, grazie alla scelta di un materiale dai particolari valori cromatici e tattili, un’arenaria rosso intenso con superficie ruvida, si è trasformato in convincente mezzo per attribuire alla costruzione una forte identità materica “pietrosa”, ottenendo in tal modo un effetto massivo senza ricorrere al muro “tettonico”. La successiva edizione del Premio, avvenuta dopo quattro anni nel 1991, aveva visto importanti mutamenti nella composizione della giuria. Oltre a Norberg Schulz e allo scrivente erano stati inseriti tre architetti operanti, due dei quali, Boris Po-

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drecca e Alessandro Mendini, con forte propensione alla critica dell’architettura, e il terzo una figura storica monumentale, Ignazio Gardella. Non solo fu confermata la ricerca di nuovi approcci costruttivi ma anche fu introdotta una chiave interpretativa diversa dei materiali. Il progetto del Banco de España de Jaén di Rafael Moneo introduceva il tema della pietra “collaborante” con altri materiali alla struttura dell’edificio, una più sostanziosa partecipazione della pietra alla rappresentazione dell’architettura massiva. Più sottilmente mentale la scelta di Aldo Rossi per la facciata dell’Hotel il Palazzo di Fukuoka, dove utilizzò un rivestimento con un Travertino Persiano Rosso combinato con il verde acido delle grandi trabeazioni in acciaio. Una scelta che, attraverso l’effetto di scorza lignea prodotto dalla texture della pietra, aveva reso ambigua la natura del materiale spingendolo sul confine della transmaterialità.

Nella stessa edizione, su suggerimento di Podrecca fu inserito il premio “ad memoriam”, assegnato a Dimitris Pikionis per il percorso sull’Acropoli di Atene, avviando una ricerca e riproposizione di opere di autori scomparsi, dimenticati o poco noti ma significativi per l’indirizzo originale dato nel passato recente all’architettura di pietra. Questa particolare sezione fu sempre mantenuta nelle successive edizioni del Premio. Nella terza edizione del 1993 la giuria tornò in mano agli storici e ai critici con le new entry di Ignasi de Solà Morales, Bernard Huet e Fulvio Irace. Oltre ad opere di Robert Venturi e Juan Navarro Baldeweg fu scelto un insolitamente “materico” complesso di Vittorio Gregotti a Lisbona: il Centro Culturale Belem nel quale il rivestimento “a spacco” di pietra calcarea Lioz aveva fatto mutare il senso dei corpi e dei volumi dell’edificio dimostrando la possibilità, attraverso i materiali lapidei di trasformare un vasto intervento a scala urbana in un’opera architettonica dotata di un forte carattere personale, e di una discreta “sensualità”. Alla riscoperta della pietra strutturale fu dedicato il premio “ad memoriam” a Fernand Pouillon, l’autore della “piazza delle 200 colonne”, l’incredibile complesso di residenze popolari Climat de France, costruito a Algeri negli anni ’50. Nella quarta edizione del 1995 entrano in giuria Werner Oechslin, Joseph Rykwert e nuovamente Vittorio Magagnati Lampugnago. Nella rosa dei premiati ancora personaggi autorevoli come Siza, Zumthor, Souto de Moura, Botta, ma sopratutto in questa edizione del Premio entra una concezione litica che porta a riscoprire la “naturalità” della pietra, ossia le qualità tattili-visive originarie del materiale, spesso cancellate nella lavorazione alla ricerca di effetti “ornamentali” ancora ritenuti il suo pregio fondamentale. Due opere in particolare sviluppano questo tema: la Cappella del Monte Tamaro nel Ticino di Mario Botta in cui il Porfido Trentino “a spacco naturale” forma la spessa scorza lapidea che “collabora” con la struttura o lavora autonomamente per


blocco lapideo di quarzite in lastre sottili per ricomporlo artificialmente in continuum monolitico che disegna spazi ipogei di straordinaria suggestione. Nel frattempo nella giuria si sono alternate altre figure di storici dell’architettura come Francois Burkardt, Francesco Dal Co, Mirko Zardini, a cui si aggiungeranno Dietmar Steiner e nuovamente Bernard Huet nel 2001, oltre alla presenza di Werner Oechslin ormai costante dopo la scomparsa di Christian Norberg Schulz. Tema centrale di questa edizione, la settima, è la pietra strutturale giunta ormai a uno sviluppo del linguaggio che va oltre la pura sperimentalità. L’esempio più radicale e rigoroso è la cantina vinicola di Vauvert nel sud della Francia di Gilles Perraudin, un edificio con strutture murarie interamente formate di grandi blocchi di pietra calcarea “Pont du Gard”. Montate in modo

trilitico le pietre costituiscono anche una risposta di sostenibilità alle necessità termiche degli ambienti di maturazione dei vini. Una variazione al concetto di stratificazione delle lastre lapidee e di smaterializzazione del corpo murario è proposto da Kengo Kuma nel suo Stone Museum a Tachigi in Giappone. Gli effetti di “porosità” e “trasparenza” delle cortine murarie sono ottenuti grazie a un intelligente e misurato assemblaggio di pezzi della pietra lavica locale tagliata in lastre sottili. Particolarmente interessante anche la riscoperta nella sezione “ad memoriam” della Beinecke Library della Yale University negli USA di Gordon Bunschaft, un piccolo gioiello di pietra “traslucida” degli anni sessanta. Tutti i temi delle ultime edizioni trovano sviluppi creativi che aprono a nuovi percorsi nelle successive.

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gravità nei grandi archi; e la Casa del Bom Jesus in Portogallo di Eduardo Souto de Moura dove alla fragile struttura dell’edificio si affiancano i possenti muri in blocchi di granito raccolti dallo spoglio dei vecchi edifici rurali a terrazzamenti crollati nella zona. La quinta edizione del 1997 da un lato conferma la tendenza “massiva” su cui si muove una parte della ricerca ma indaga anche l’evoluzione in atto nel rivestimento lapideo sottile. Pervenuto in quegli anni a nuove e raffinate ricerche come quelle messe in atto dalla politica delle “facciate di pietra” nella ricostruzione delle città tedesche dopo la riunificazione del paese. Il premio alla Banca di Lipsia di Hans Kollhoff è assegnato a un edificio rappresentativo di una ricerca tesa, attraverso la sovrapposizione di lastre lapidee in facciata, a superare il convenzionale ruolo di pelle del rivestimento, e a svelare l’”intenzione” tettonica della facciata, con le sue membrature. Contemporaneamente il Museo La Casa del Hombre in Spagna di Arata Isozaki trae dall’intreccio “a squamatura” di lastre di ardesia locale la forza che l’edificio sembra opporre con la sua forma ricurva alla potenza dell’oceano sulle coste galiziane. Un’altra selezione di opere e autori di qualità contrassegna la sesta edizione del 1999. Dudler, Herzog & de Meuron, Moneo, Zumthor e Tobia Scarpa sono gli autori di opere eccellenti. Tra queste presentano aspetti innovativi la celebre Cantina vinicola Dominus a Napa Valley negli USA di Herzog e de Meuron, il primo clamoroso esempio di rivestimento degli edifici con gabbioni di acciaio riempiti di pietra, una tecnica presa a prestito dall’ingegneria idraulica per creare un cuscinetto di inerzia termica intorno all’edificio e mantenere costante la temperatura all’interno; ma pure sperimentare un muro “poroso” con nuove valenze estetiche, anche negli interni dove la luce passa tra le pietre e forma sul pavimento un tappeto di frammenti luminosi. Un tema diverso, tettonico e concettuale allo stesso tempo, viene sviluppato nelle Terme di Vals in Svizzera da Peter Zumthor, il quale scompone il

Quarta edizione del Premio Architetture di Pietra, 1993: Vittorio Gregotti e Manuel Salgado.

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L’architettura di pietra si manifesta sulla scena internazionale con propri linguaggi originali i quali trovano veicolo di comunicazione negli autori di successo che li creano e nel carisma di cui godono. Così nella edizione del 2003 si impongono opere straordinarie come la DZ Bank di Berlino di Frank O. Gehry e il parco Museale del Vulcanesimo di Hans Hollein in Francia. Ma vengono inclusi anche raffinati lavori di autori meno conosciuti come il Ponte pedonale di Suransuns in Svizzera di Conzett-Bronzini-Gartmann AG, una ingegnosa e flessibile passerella in Granito dei Grigioni, e il piccolo intervento di Vincenzo Latina a Siracusa nella riqualificazione con pietre locali di una corte interna a un isolato del centro storico. Emergono più frequentemente nuove personalità che spostano ancora “oltre” la ricerca, come nella nona edizione del 2005 in cui accanto alla presenza di Campo Baeza, Machado & Silvetti, Sivestrin emerge clamorosamente l’opera di un giovane architetto spagnolo: Anton Grarcia Abril. Nel suo Centro Studi Musicali di Santiago de Compostela interpreta le costruzioni megalitiche in pietra della Galizia rivestendo l’edificio di grandi e spesse lastre di Granito Grigio che conserva in superficie lo spacco di cava, creando così un drammatico contrasto tra perfezione concettuale della scatola architettonica e imperfezione del materiale. Sulla ricerca di nuove esperienze di autori non affermati, “periferiche” rispetto al clamore dello star system ma concepite e realizzate con grande intelligenza e coerenza, si è mossa la decima edizione dell’International Award Architecture in Stone. I nuovi entrati in giuria Marco Casamonti, Luis Fernandez-Galiano, Francesco Venezia, hanno sostenuto con entusiasmo questa linea che ha portato una ricca messe di progetti e proposte. Tra queste emergono ancora quelle di giovani architetti iberici come l’intervento di grande scala sulla costa dell’isola di Madeira del portoghese Paulo David, un progetto chiaro e intelligente realizzato con la pietra vulcanica locale usata in

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modo massivo per riqualificare un sito degradato e recuperare un paesaggio straordinario. Minimale ma intenso l’intervento di Antonio Jiménez Torrecillas a Granada dove costruisce un doppio muro di granito con un suggestivo percorso interno per ricucire una breccia sulle antiche mura della città spagnola. E a questi si aggiungono altri interventi importanti di giovani architetti norvegesi e italiani. Singolare in tale contesto, ma significativa, la presenza di Rafael Moneo, una star che ha scelto di mimetizzarsi, lasciando qualche strano segno rivelatore, nel completamento di un prestigioso edificio di Madrid. Coerente con la linea di valorizzazione dell’opera rispetto a autori dai nomi altisonanti l’assegnazione di un premio speciale all’”architettura vernacolare”, ossia all’architettura anonima, without architects. E’ stata così segnalata all’attenzione internazionale l’architettura della Lessinia, un’opera collettiva in pietra sparsa sul territorio montuoso a nord di Verona, in parte sconosciuta anche agli stessi veronesi, ricca di origi-

nali episodi di edilizia contadina, stalle, fienili e abitazioni di sorprendente bellezza, in un paesaggio straordinario disegnato dalle pietre calcaree lastriformi cavate su tutto il territorio. Un architettura di pietra del passato densa di insegnamenti anche per quella “colta” del nostro tempo. Singolare che la sfilata di personaggi illustri e opere affermate, spesso oggetto di visite-pellegrinaggio, che hanno attraversato le dieci edizioni del Premio sia approdata alla ricerca di una architettura meno celebrata (ma già non è più così), in alcuni casi “periferica” o addirittura anonima. Penso che questo sia il vero successo del Premio Internazionale Architetture di Pietra di Marmomacc. Aver contribuito a un salto qualitativo nella cultura della pietra inimmaginabile venti anni or sono, ora non più esclusiva di una élite di architetti ma diffusa in opere di qualità anche se ancora non necessariamente di successo, tuttavia concepite e realizzate con intelligenza, creatività e rigore. Vincenzo Pavan

Decima edizione del Premio Architetture di Pietra, 2007. Da sinistra: Vincenzo Pavan, Marco Casamonti, Francesco Venezia, Luís Fernandez-Galiano.


committente: Zetema Ingegneria per la Cultura progetto architettonico: studio gris - Stefano Gris, Luisa Tonietto, Laura Bello, Elisa Castiglioni progetto grafico: studio gris - Cinzia Maconi impresa allestitrice: Schiavon Arredamenti snc fotografie: Enrico Pasinato È sempre una bella sfida e una forte emozione entrare in una storica ed importante architettura e trovarsi a pensare di progettare un allestimento che si integri con la monumentalità dell’esistente e nel contempo abbia una sua precisa personalità che aiuti a valorizzare non solo,

come è ovvio, ciò che viene esposto ma anche il “contenitore” ospitante. In questo caso il nostro contenitore è lo splendido Palazzo della Ragione di Verona, da poco restituito alla città dopo un lungo restauro, e questa è la seconda esposizione che viene ospitata nei suoi spazi. Dunque molto entusiasmo, certamente, ma anche tante incognite dal punto di vista tecnico e organizzativo non solo per noi ma anche per chi da poco gestisce questa complessa ed articolata struttura espositiva che è il Palazzo della Ragione. L’idea iniziale è stata, fin da subito, di agire con dei segni leggeri, di giocare con la luce e con le trasparenze, di racchiudere alcuni angoli per l’osservazione tranquilla di una o due opere alla volta ed aprire altri scorci privilegiati su particolari dettagli dell’architettura. E poi il colore. Il colore che rimanda alla Russia, con la suggestione delle sue cupole d’oro e azzurre, la preziosità delle sue icone, i suoi paesaggi luminosi e aperti. Il percorso tematico dell’esposizione si svolge attraverso sei sezioni temporali (il cinquecento, il seicento, la pittura di genere e le nature morte, la pittura barocca e il primo settecento, le vedute, l’ottocento e il novecento), da segnare chiaramente ma non separare, e a questo fine si è scelto di utilizzare dei velari, delle quinte semitrasparenti in leggerissima rete microforata tesata su esili strutture metalliche bianche e stampata con dettagli ingigantiti delle opere più significative o evocative di ciascuna sezione. Per ogni periodo storico era prevista una citazione di un critico o di un pittore, contemporaneo o passato, e anche queste parole sono andate a poggiarsi su una stretta striscia di plexiglas blu trasparente sovrapposta alla grande immagine del velario.

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il progetto di allestimento della mostra “pittura italiana nelle collezioni del museo pushkin dal cinquecento al novecento”

Non sempre facile è stata invece la collocazione delle opere, poiché l’ idea di progetto era quella di utilizzare il più possibile le pareti perimetrali, al fine di mantenere ariosi e ben leggibili gli spazi, senza percorsi incomprensibili o tortuosi, ma la quantità delle tele esigeva anche la collocazione di pannelli espositivi centrali. L’utilizzo dunque delle strutture già presenti nella sede dell’esposizione si è rivelato necessario, visti i tempi strettissimi a nostra disposizione, ma non sempre agevole, data la loro dimensione, e soprattutto un po’ difforme dall’idea di leggerezza che guidava il nostro pensiero. La soluzione per utilizzare al meglio questi piccoli “muri” attrezzati è stata infine quella di disporli lungo alcuni precisi assi prospettici, delle fughe di visuale che portassero ad avere un immediato colpo d’occhio sulle parti più belle e monumentali del palazzo, come il grande portale in pietra sul fondo della sala delle quattro colonne. Se le visuali più belle degli interni del palazzo sono state inquadrate da lontano e lo spazio sgombrato da qualsiasi ostacolo per far correre l’occhio lungo queste prospettive, il susseguirsi dei quadri lungo le pareti è stato invece spezzato, ritmato secondo una cadenza più lenta, intima, che predisponga all’osservazione e alla concentrazione. Sono stati creati degli spazi raccolti, quasi delle nicchie, sempre utilizzando le strutture metalliche ricoperte di tela microforata, questa volta in colore oro, e le singole opere o i piccoli gruppi di quadri sono stati visivamente isolati per dar loro uno spazio quasi privato in cui essere ammirati e goduti.

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odeon Ma non appena lo sguardo si distoglie dall’opera e riacquista la profondità di un’osservazione più globale, anche attraverso questi piccoli sipari d’oro semitrasparente l’occhio può cogliere la profondità dello spazio, la grandiosità del tutto. Particolare attenzione è stata data all’illuminazione, studiata in modo tale da esaltare la sensazione di raccoglimento attorno alla singola opera o al piccolo gruppo. L’illuminazione generale, dove esistente, è stata completamente abbassata e i piccoli faretti orientabili, sistemati su tutti i pannelli espositivi sia centrali che a perimetro, sono stati opportunamente puntati al fine di ottenere una luce morbida ma non troppo diffusa, senza riflessi sulle tele, e, nel rispetto dei limiti molto rigidi di lux ammessi per opere di tale pregio, molto teatrale. Le panche dorate dal disegno rigoroso completano l’allestimento della zona espositiva dando la possibilità di soffermarsi più a lungo dinnanzi ad alcune opere. Alla storia del museo Pushkin è dedicata tutta la prima sala, uno spazio ad L che si

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svolge attorno alle forti mura di pietra e mattoni della torre dei Lamberti. L’evocazione della Russia è stata affidata ad enormi dettagli fotografici in bianco e nero delle cupole di Mosca, stampati anch’essi su velari leggeri in rete microforata, e sui quali poi la parte di testo e di più piccole foto del museo è stata applicata tramite scenografiche fasce in legno dorato. Queste alte pareti sono state rese autoportanti tramite il reciproco aggancio e la loro angolazione – vista naturalmente l’impossibilità di ancorarsi agli storici muri del palazzo - e sono state posizionate lungo le due pareti finestrate della sala, così da creare degli interessanti giochi di luce e trasparenze durante le ore di sole di tutta la giornata. Lo spazio centrale di questa prima sala è stato lasciato libero come invito e via d’accesso alla mostra e come area organizzativa utilizzata per la conferenza stampa e i discorsi di inaugurazione. Stefano Gris

uno sguardo al presente. primi passi di lettura della contemporaneità Mario Pisani L’architettura del tempo presente Libria, 2007 Francesca B. Filippi, Luca Gibello, Manfredo di Robilant 1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura Celid, 2007 Due libri affini, di recente pubblicazione, sono stati presi in esame: un primo motivo di questa scelta è costituito dal fatto che entrambi si addentrano nella difficile analisi dell’architettura contemporanea, il secondo perché gli autori, da una parte Mario Pisani, dall’altra Luca Gibello (in collaborazione con Francesca Filippi e Manfredo di Robilant), quali redattori di due importanti riviste di architettura, hanno preso parte nei mesi scorsi a dibattiti che la rivista ha promosso. Persone, quindi, che hanno dimostrato particolare attenzione per i diversi eventi architettonici del nostro tempo. Il primo libro che trattiamo, “L’architettura del tempo presente”, scritto da Mario Pisani, redattore di Abitare la terra, propone una carrellata dei protagonisti dell’architettura contemporanea, restituisce con notevole esattezza descrittiva ed interpretativa lo stato di una vicenda in continua evoluzione. Ciascun architetto viene


raccolta di lezioni svolte da più voci nell’ambito del corso opzionale di quint’anno intitolato Storia dell’architettura 1970-2000, tenuto nell’anno accademico 2004-2005 presso la I Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino da Luca Gibello con la collaborazione di Francesca B. Filippi e Manfredo Robilant. Il programma del corso è stato elaborato avvalendosi delle specifiche competenze, nell’ambito cronologico in oggetto, d’un gruppo di docenti, ricercatori e dottori di ricerca formatisi in prevalenza nel Dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica del Politecnico stesso. Il volume indaga attraverso diversi temi lo sviluppo dell’architettura contemporanea: si passa da interventi di edilizia pubblica a Roma al Centro Pompidou parigino, dalle tesi di Robert Venturi a quelle di Rem Koolhaas, dall’architettura delle capitali a quella delle nazioni la cui architettura occupa un ruolo importante nel dibattito contemporaneo (vedi Spagna e Portogallo). Il tutto diviso in tre decenni: gli anni settanta, ot-

tanta e novanta. Caratteristica che emerge nel libro è il costante attacco all’architettura che diviene solo apparire, alle modalità di creare edifici assolutamente non durevoli nel tempo. Anche questo testo offre molti spunti di approfondimento e soprattutto di meditazione dal quale un architetto dei nostri giorni non può esimersi, induce inoltre a prendere posizione su problematiche che caratterizzano l’architettura e che possono farla divenire un banale gioco speculativo oppure fonte di benessere e di cultura.

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esposto e analizzato in maniera rapida, quasi enciclopedica, senza comunque far mancare apprezzamenti o critiche. Particolare attenzione viene rivolta all’architettura italiana. Questo libro ha la qualità di comprendere e di descrivere, a volte anche piuttosto velocemente ma sempre con estrema attenzione, la quasi totalità delle presenze architettoniche operanti: fornisce interessanti input culturali, la cui conseguenza, si presume, porti ad un approfondimento tramite anche altre fonti. Il volume è inoltre arricchito dalla prefazione di Franco Purini il quale riconosce all’autore la capacità di riuscire a ricostruire la necessaria continuità tra direzioni diverse della ricerca architettonica dimostrandone la complementarietà nonché la reciproca interdipendenza. Per quanto riguarda il secondo libro che proponiamo, “1970-2000. Episodi e temi di storia dell’architettura”, curato da Luca Gibello (redattore de Il giornale dell’architettura) viene ad essere formato, nella sua quasi interezza, da una

Andrea Benasi

un libro su antonio citterio Alba Cappellieri Antonio Citterio: Architettura e design Skira, 2007, pp. 336 La sontuosa monografia che l’editore Skira dedica ad Antonio Citterio (1950) raccoglie l’elenco completo dei lavori per il design, gli interni e l’architettura dell’affermato progettista milanese e del suo studio. Raffinato interprete di uno stile moderno, elegante e à la page, pezzo dopo pezzo ha dato forma a una formidabile famiglia di oggetti, tra cui alcuni capisaldi che incarnano a pieno titolo il nuovo paesaggio domestico della contemporaneità. Il percorso professionale di Citterio si è alimentato di una feconda committenza industriale, estesa dal design degli oggetti d’uso agli uffici, alle fabbriche, alle residenze degli agiati proprietari. Un considerevole catalogo di realizzazioni nel territorio sospeso tra moda e design - show room, boutiques e concept stores – ha aperto la strada di più recenti progetti di alcuni grandi spazi collettivi, che hanno ampliato la scala degli interventi dello studio. Il passaggio all’architettura costruita estende il glamour del marchio Citterio da Milano a Bali, dalla Russia al Giappone, con una sostanziale disinvoltura rispetto ai luoghi in nome e per conto di quell’italian style del quale è abilissimo interprete.

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Un catalogo del buon gusto (e dei buoni clienti), la cui cifra stilistica sta nel controllato manierismo minimale, scevro degli accenti più rigoristici. Non mancano nel volume la bella casa e l’elegante studio di Citterio, il quale piace e indubbiamente si piace assai. Resta da capire l’utilità di un tale esercizio di egotismo, salvo a pensarlo come uno strumento di marketing professionale: solo così si spiega il tono agiografico dei testi, rischio del resto sempre in agguato in ogni monumentale monografia. Anche le categorie critiche che l’autrice Alba Cappellieri prende a prestito da una definizione di Philip Johnson delle ‘sette stampelle’ dell’architettura, per raggruppare diacronicamente i lavori dello studio (storia, comodità, utilità, struttura, tecnologia, economia, cliente), rendono confusa e poco agevole la lettura del percorso progettuale. Non è forse il caso di cercare a tutti i costi dei padri nobili per un progettista che, uscito dalla facoltà di architettura in anni bui per l’insegnamento, come egli stesso ricorda, ha avuto la forza di rimboccarsi le maniche, facendosi interprete di quel sano e ruspante pragmatismo di stampo brianzolo che gli scorreva nel sangue. Nella prefazione al volume, Rolf Fehlbaum, presidente di Vitra, afferma che Antonio Citterio è il maestro del buon compromesso. Non vi è dubbio che nel mondo della produzione industriale questo rappresenti una grande virtù. Che l’architettura possa essere assimilata a un semplice prodotto, appare invece quanto meno ridut-

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tivo. L’eleganza, la cura del dettaglio, l’efficienza tecnologica e il gusto grafico della composizione non esauriscono appieno la dimensione del fenomeno architettonico, e accanto alla severa austerità di alcune realizzazioni, in particolare residenziali, altri progetti appaiono eccessivamente piegati alle derive del gusto del momento o alle strategie del real estate. Le opere realizzate in area veronese, l’asilo per il campus aziendale di GlaxoSmithKline (vedi «architettiverona» 76, p. 63), selezionato per il premio europeo Mies van der Rohe, e gli uffici di rappresentanza per la stessa azienda, proseguono una ricerca sulla qualità degli ambienti di lavoro, volta a con-

ferire una cura da ambiente domestico ad un contesto dal carattere prettamente tecnologico. Di grande interesse per la città è il progetto illustrato in questa pagina, vincitore nel 2005 di un bando di gara per la riqualificazione della ex Manifattura tabacchi a polo congressuale e ricettivo nell’ambito di Verona sud, del quale si attende di comprendere le relazioni con il piano particolareggiato adottato per l’area (vedi «architettiverona» 79, pp. 34-36). Per una efficace ricognizione critica dell’opera di Citterio, si consiglia infine l’agile volume di Luigi Prestinenza Puglisi, Antonio Citterio, Edilstampa, 2005. Alberto Vignolo


Comune di Verona, Assessorato alla Cultura, Musei d’Arte e Monumenti con il contributo di Toni Follina Verona, Museo di Castelvecchio-Sala Boggian 25 novembre 2007 – 30 marzo 2008 La mostra “Vinicio Vianello: il design del vetro” è dedicata ad uno degli artisti più interessanti degli anni cinquanta e sessanta, protagonista della “cultura del progetto” in Italia. Pittura, ceramica, vetro, design, illuminazione, interventi nell’architettura sino alla ricerca delle energie solari e alternative sono i campi di interesse di questo poliedrico artista che più volte espose alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano e ottenne il

prestigioso Premio del Compasso d’Oro nel 1957. Esponente dello spazialismo al fianco del maestro Lucio Fontana, ha operato nella Venezia della galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo,ma ,a partire dalla formazione veneziana e dalle giovanili frequentazioni milanesi, il percorso artistico di Vinicio Vianello è quasi naturalmente trasversale all’ufficialità e alle correnti artistiche in genere, ponendosi al di fuori di ogni possibile etichetta critica. Con Fontana – notoriamente uno degli esponenti più importanti e originali dell’arte italiana del secondo dopoguerra – Vinicio condivide lo spirito di ricerca d’avanguardia e l’interesse nei confronti di ogni possibile materiale funzionale alla nascita di nuove espressioni d’arte. Sin dal 1950 Vianello è considerato un ingegnoso sperimentatore e inventore di forme nel mondo del vetro e

del design, un interesse, questo, che lo accompagnerà tutta la vita e che lo segnala tra i più geniali seppur appartati creatori italiani. Le sue sculture in vetro o i suoi vasi asimmetrici, così come le lampade o le immense strutture in vetro degli anni sessanta e settanta, sono considerati capisaldi del design e della sperimentazione tecnica. Curata da Alberto Bassi, Paola Marini e Alba Di Lieto, la mostra racconta l’originale attività di Vianello in questo campo, in parte inedita e poco nota al grande pubblico, attraverso una selezionata scelta di 50 opere in vetro poste in stretta relazione con alcuni oggetti di design, lampade, ceramiche, disegnati dagli anni quaranta fino agli anni ottanta. Collocati all’interno di vetrine disegnate da Carlo Scarpa per il Museo di Castelvecchio – allestite ora dallo Studio Follina con progetto grafico di Sergio Brugiolo – i Vasi asimmetrici, la Reazione nucleare, lo Scoppio a Las Vegas, autentici esemplari di una ricerca inedita sul materiale, le tecniche e le forme, si avvicendano ai capisaldi del design ideati da Vianello, come i singolari vasi “variante”, che nel 1957 ricevettero il premio Compasso d’oro Adi, o la lampada Nelson, caratterizzata dalla componibilità delle parti e brevettata. La lettura degli oggetti, che dai primissimi anni cinquanta sono stati esposti alla Biennale di Venezia, alla Triennale di Milano, in mostre personali e collettive in varie parti del mondo, è completata da una cospicua documentazione – disegni, foto d’epoca, schizzi preparatori, libri, cataloghi di mostre, brevetti – proveniente, come la maggior parte dei vetri esposti, dall’archivio Vinicio Vianello, conservato da Toni Follina a Treviso. Accompagnano l’esposizione due pubblicazioni: la monografia “Vinicio Vianello, Pittura, vetro e design”, a cura di Luca Massimo Barbero, Milano, Skira, 2004 e l’agile volume “Vinicio Vianello: il design del vetro”, curato da Alberto Bassi, Paola Marini e Alba Di Lieto, edito da Marsilio in occasione di questa mostra. (A.B., L.D.S.)

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Vinicio Vianello: il design del vetro

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odeon 129 x T2 = 1 (AV) Sveliamo la semplice equazione. Si prendano le 129 cartoline scritte da Jacques Gubler tra il 1982 e il 1996 e pubblicate mese dopo mese sulla Casabella anni Ottanta, durante l’era della direzione Gregotti, e indirizzate alla ‘Cara Signora Tosoni’, figura che lì per lì pareva al lettore un pretesto retorico, o una creatura mitologica. Si prenda poi l’industriale veronese Bruno Tosoni, che in un viaggio per appassionati d’architettura incontra casualmente una certa Signora Tosoni la quale, dialogando sull’onda dell’omonimia, si svela essere la personificazione della presunta creatura mitica. Tosoni al quadrato. Raccolte le cartoline in un bel volume edito da Skira, il risultato di questi fattori è l’incontro organizzato da «architettiverona» e tenuto a Villafranca il 13 luglio 2007, con la presenza di tutti i protagonisti della vicenda. Si è così ricomposto nell’occasione un piccolo nucleo della redazione di quella Casabella, a partire dalla figura di Pierre Alain Croset, allora assistente del direttore e a sua volta allievo dello storico svizzero Jacques Gubler. Nel rievocare la genesi apparentemente scherzosa della rubrica, proposta da Gubler allorquando gli era stato chiesto di collaborare in maniera continuativa al nuovo corso della rivista, Croset ha ricordato l’attesa della cartolina, suggello del

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numero in uscita e contraltare dell’altro appuntamento fisso, quello dell’editoriale del direttore, del quale bilanciava il tono apodittico e dottorale – invero non sempre accessibile - con una gustosa, ironica e spiazzante lievità. La scelta dei temi e delle figure ricorrenti, che Croset ha passato in rassegna criticamente, dava lo spunto a Gubler per esercitarsi in piccoli saggi di iconologia, facendo letteralmente parlare le immagini e individuandone in maniera coltissima i riferimenti. I ponti, la cultura materiale, la storia delle tecniche, il paese natale di Le Corbusier, La Chauxde Fonds, o ancora un intero bestiario – cani, mucche, tigri, elefanti… - che nutre l’immaginario architettonico dell’autore, sono solo alcuni degli argomenti gubleriani, che la raccolta delle cartoline nel volume mette bene in evidenza. La forma della scrittura è stilisticamente vezzosa, e non mancano dei veri e propri enigmi posti al lettore, alle volte svelati dalla puntata successiva della cartolina cui rimanda il viatico finale dei saluti, di per se un raffinatissimo esercizio di stile in punta di penna. Non vi è dubbio che la figura della Signora Tosoni abbia incarnato per Gubler una interlocutrice ideale sia pure silente, e il suo ruolo sottotraccia all’interno della rivista come storico punto di riferimento, in qualità di segretaria di redazione dal 1958 al 1995, viene rivelato anche dalla testimonianza di Antonio Angelillo, membro

della redazione per diversi anni. Ed è stato proprio grazie ad un viaggio organizzato dal Centro Italiano di Architettura ACMA, fondato e diretto da Angelillo, a fornire l’occasione dell’incontro fatidico tra i due Tosoni, prima scintilla di una simpatetica liaison che avrebbe portato alla raccolta delle cartoline in volume. Ma è il racconto in prima persona di Jacques Gubler, che con squisita verve fa partecipe l’uditorio del suo arrivo a Villafranca sulla piccola Chevrolet dell’architetto Alberto Zanardi, infaticabile organizzatore dell’incontro, a porre le basi di climax verso il momento culminante. Ebbene si, “la Signora Tosoni esiste”, ribadisce senza tema di smentita Gubler, rimarcando il titolo del saggio nel quale con fine arguzia storica ripercorre il filo degli eventi umani e professionali che hanno portato la mitica segretaria di redazione di Casabella nel cuore di uno dei principali luoghi di produzione della cultura architettonica italiana ed europea del dopoguerra. Così facendo, i fortunati partecipanti all’incontro sono entrati in familiarità con la figura minuta e cinetica di Myriam Tosoni, che fino a questo momento ha messo a freno il suo divertito e compiaciuto imbarazzo per un ruolo da


senza un disegno, senza estetica, farraginosa nella fruibilità degli spazi, senza percorsi, senza servizi di livello adeguato, senza tutto ciò che invece dovrebbe essere proprio di una struttura di una città di livello internazionale come Verona. Se comparata ad altre infrastrutture del genere in Europa, quella del Catullo senza indugi si potrebbe definire come una orrenda e disarticolata cozzaglia di pseudo-capannoni in raffinato stile padano. Che immagine da della nostra meravigliosa urbs picta la sua porta dell’aria? Non vi siete mai chiesti, o non avete mai sentito, che effetto fa agli impegnati imprenditori che vanno e

vengono dal nostro territorio – portando investimenti – ed ai turisti, baluardo della nostra economia nazionale, arrivare o partire da un aeroporto come il Catullo di oggi? Pensino allora gli amministratori coinvolti ad accapigliarsi di meno ed a mettere al più presto in atto una comune strategia che permetta di progettare e realizzare una nuova aerostazione degna della nostra città. Si faccia un serio concorso internazionale di architettura, aperto a tutti, ed i risultati arriveranno brillanti più di quanto non si pensi.

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protagonista che la sua straordinaria esperienza le rende impossibile schivare. La sua tenace memoria conserva nomi, luoghi, eventi e circostanze che compongono una irripetibile ‘esperienza dell’architettura’. Myriam ripercorre per accenni la vicenda editoriale di Casabella, a partire dagli esordi sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers e con la presenza in redazione di Vittorio Gregotti, al fianco del quale avrebbe poi percorso i lunghi quattordici anni della sua conduzione della rivista. L’onda lunga di questa lucidissima e partecipe testimonianza alimenta il senso dell’incontro, promosso dall’Ordine degli Architetti di Verona con l’obiettivo di ridurre lo stacco che si genera tra il mondo della cultura e il mondo della professione. La gatta Streghina, che fa compagnia a Myriam nella sua casa milanese di Porta Romana, ne sentirà delle belle!

Lorenzo Marconato

A.V.

il catullo vola basso Dalla fine degli anni Sessanta l’aeroporto civile di Verona Villafranca opera con sempre maggior vigore nel rinnovato panorama del trasporto aereo di passeggeri e merci di tutto il nord est. Numeri alla mano, visto anche il fiorire delle alternative offerte dai cosiddetti voli low-cost, consapevoli dell’esigente ed iperattivo bacino di utenza cui è offerto il servizio, non si può che rimanere positivamente impressionati da quella che, sulla carta, è una realtà imprenditoriale d’avanguardia. Senza percorrere cronologicamente l’evoluzione fisica dello scalo veronese, alla luce delle risorse finanziarie di recente stanziate per sostenere la crescita del Catullo, ci sentiamo in dovere di sottoporre a lettori ed amministratori una questione fondamentale. È giusto continuare a far crescere una struttura, immagine della città per 3 milioni di passeggeri annui, così come, fallendo, è cresciuta anche la Verona del dopoguerra? È più che mai evidente che la struttura dell’aviostazione si sia evoluta senza strategia,

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pedestris iter veronensis due giornate di passeggiata urbana a verona Jacques Gubler

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14 giugno 2007 Il tuo piede, che non può mentire, ti dice che la storia di Verona comincia dalle ammonite iscritte nelle lastre rosse & bianche del cammino.

& La città delle policromie profumate…

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Ponte del Risorgimento. La curva in salita della carreggiata regala all’Adige una carezza automobilistica. Sulle pile il velo del cassone diventa prora. Due pile fanno quattro prore. Il ponte si costruisce in levitazione sopra le veloci acque verdi. A Verona, Nervi lavora con metafore prelevate in situ.

Via delle Mille No 5. Palazzina: 12 appartamenti. Esercizio sapiente di tettonica. Opposizione tra c.a. & mattone rosso. Il bel grigio delle logge sotto il bel grigio dei cornicioni forma la corazza del lotto all’angolo di Via Rovereto. Il muscolo dei mattoni rossi rafforza il muscolo del c.a.. Vedo la ruggine dei ferri. Una lacrima ben salata esce dal mio occhio. Mi consola l’intelligenza sottile del progetto. Chi tiene nelle mani il futuro dell’edificio?…

& Più di un monumento, il campanile di San Zeno è un mostro, una torre d’altitudine diabolica.

& Via T. Farinata degli Uberti No 1. Starnuto controllato & signorile. Melodia poetica “neoliberty”. Colpo vincente nel poker degli ismi dell’architettura.

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& Il capitello romanico non è solo un pezzo di pietra scolpita: è il motore degli archi, il focolare della volta.

Sant’Anastasia. L’horror vacui è stato il panico della Chiesa. Il panico infernale si combatte con il remplissage. I muri si riempiono di pitture in una lunga trance, vero patch-work cronologico, fusione-confusione babelica. I libri di storia dell’arte & loro apparato d’immagini fuori ambiente ti trasportano sull’altro pianeta del book shop. Nella navata di Sant’Anastasia compare oggi il miracolo di una tela bianca di nylon, la masche-

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ra erotica semitrasparente dei ponteggi necessari al restauro. Una navata tagliata in due? Sì… Allora riscopri la presenza maggiore dell’architettura & la forza dei vuoti interni, forse responsabili dell’horror vacui ecclesiastico… Forse sono anche responsabili i tantissimi bravissimi specialisti del restauro pittorico…

& Durante la rappresentazione serale, nell’asse centrale del Municipio, si alza il rumore passeggero degli applausi. Il plauso è scontato. Risulta dal repertorio lirico scelto ogni anno in tutta tranquillità. Le quinte dell’arena sono scese sulla piazza. Osservo il ballo silenzioso & l’attesa degli operatori: croce verde, bianca o rossa (non ricordo bene il colore della croce), polizia, carabinieri, vigili del fuoco. Ammiro il deposito delle impalcature, meccanismo raffinato d’acciaio in sosta provvisoria. Nella penombra mi godo l’edificio bicefalo del Municipio. Tra la geometria quadrata del primo palazzo & la rotondità del secondo s’istalla una complementarità contrastata. Di fronte alle fortificazioni del muro medievale, ormai sfruttato per la commemorazione di tutte le bravure nazionali italiane, la mezza luna della seconda tappa cerca di abbottonarsi al movimento ellittico dell’arena. So che l’edificio è più amato dai giovani che si godono le scale & gli angoli della facciata che dall’élite vero-

nese. Ho visto che gli zii voyeurs si affiancano sulla cornice di Via Dietro Anfiteatro per guardare cosa succede all’intervallo, quando i VIPS escono dal settore delle “Poltronissime Entrata/Gate 1” per bere champagne. Gli zii non credono più nell’esistenza di panem & circenses. Sperano solo di riconoscere una faccia vista alla tivù. Oggi l’edificio del Municipio bicefalo non è più guardato dall’élite. Posso capire perché: troppo accademismo da regime o non abbastanza accademismo sbottonato alla berlinese. Tra le ragioni per apprezzare o snobbare il Municipio, preferisco gustare l’esercizio difficile dell’ampliamento in contrasto.

& Piazza & chiesa S.S. Apostoli dopo tramonto. Luogo d’eccezione nella città storica turistica. Ivi abitano genti. Finalmente una situazione urbana normale dell’anno 2007. La piazza si compone di tre elementi, la statua borghese d’Aleardo Aleardi, l’allineamento perimetrale degli alberi (tigli & acacie) il parcheggio molto popolato di bellezze recenti, tutte targate VR: Renault, FIAT, Mini One, Mini Cooper, Audi, Citroën, BMW, Toyota, Ford, mentre una sola Cayenne occupa due posti. Il recente restauro del campanile è stato offerto dalla “Cassa di risparmio di Verona Vicenza Belluno e Ancona”. Nella penombra della piazza la chiesa presenta la sua volumetria romanica leggibile. Sembra una radiografia di pietra. Ho trovato l’isola lontana che tutti cercano senza sapere dove si trova.

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& Data 15 07 Ore 10 35 Temperatura +32° Sulla piazzetta davanti alla Farmacia Due Campane. Qual è la temperatura sotto la gonna dorata della mummia verticale? Bevo l’acqua fresca di Verona che sorge da tre becchi sopra il gran bacino semisferico di bronzo su tripode d’acciaio. Temperatura stimata dell’acqua: 14 °. Gran servizio dissetante offerto al flusso mormorante delle gambe e dei pantaloni che rende difficile le mie osservazioni riservate all’architettura del suolo. Dovrei chiedere il suo parare al cagnolino fermo all’angolo. Opera dell’impresa Biondan, uno zigzag di bronzo corre tra le lastre della “zona pedonale”. Davanti alla Farmacia due Campane questo lussuoso tappeto è disegnato come se la terra fosse piatta. In Via Mazzini invece le lastre


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chiare sono separate dagli zoccoli & dalle soglie tramite un nastro orizzontale di ciottoli fluviali immersi in un letto di cemento grigio. In questo modo l’architetto vuole attenuare la differenza dei livelli dopo la rimozione dei marciapiedi.

L’architettura dei palazzi di Corso Cavour potrebbe nutrire la ricerca scientifica & la carriera accademica di tre (forse quattro) specialisti che vorrebbero rimanere negli atenei italiani.

& Vicolo del Guasto, senza più numero (lato pari). Nomen omen? Palazzina abbandonata sulla cinta romana presso Porta Borsari. Gran lezione di combinazione dei materiali: pietra + c.a. + acciaio. Vorrei offrire tante stelle & fiori a questa bella addormentata che non sveglia neanche il rombo nervoso di una potente moto.

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Trovo L’Arena al bar del primo caffé mattutino & leggo la cronaca del giorno, una domenica. Antonio Pastorello, presidente delle Acque Veronesi, ti dice che l’acqua degli acquedotti è di qualità chimica eguale o superiore all’acqua delle bottiglie di PET o di vetro. In oltre “l’acqua di rubinetto costa oltre il 370% in meno”. Tornerò sì alla fontana delle Due Campane alle ore 16.25, temperatura +40° (cosi dice il termometro della farmacia) temperatura stimata dell’acqua: 14°. La stessa acqua alla stessa temperatura esce dal rubinetto del lavandino nella mia camera al quarto piano del Giulietta & Romeo: &viva l’acqua di VR.

Castelvecchio. Rischio superato nell’uso combinato dell’acciaio & del cemento armato. In maggiore suona la gamma dei materiali. Nel giardino, sottile incontro tra pietra & c.a. All’interno, allestimento uguale messa in scena del repertorio scolpito. Contrasto tra la “dolcezza” parabolica, drammatica, psicologica del Maestro di Sant’Anastasia & la potenza onnipresente dell’angolo retto: soffitto, serramenti delle finestre, pannelli, basi, suolo. &viva l’architettura del suolo. La luce si costruisce tramite “contenitori” (cappelle?) laterali chiaroscuri. Una sosta per fumare nel dramma del piccolo cortile tra museo & cinta rossa. Passano le persone. Guardano con l’occhio

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della camera digitale portata a due mani in posizione orizzontale. Che bello deve essere questo cortile sotto la pioggia. Sotto il sole nessuno si accorge della presenza della statua equestre di Cangrande della Scala. Il cavaliere & il suo cavallo sono corazzati. Sono in posizione pericolosa ma si rifiutano di tuffarsi dalla torretta di c.a., un ibrido costruttivista tra ascensore & trampolino. Mi chiedo se la lezione scarpiana dell’uso simultaneo del metallo & della pietra proviene dal Cangrande. A Castelvecchio ho raggiunto l’apice della mia passeggiata veronese.

della città ti cadrà nella memoria attraverso la coda dell’occhio. Dalla finestra di Castelvecchio ho salutato il ponte per l’ultima volta. Mi sogno il castello sotto la pioggia…

PS Angolo Via Teatro Filarmonico & Vicolo Teatro Filarmonico, un pilastro d’angolo di c.a. risolto in ritiro quadrangolare sotto il cornicione: bell’esempio d’eleganza costruttiva.

& Apice gastronomico colto con grande chance all’Osteria il Ciottolo, Corso Cavour: polenta & baccala, una bottiglia 2006 di Valpolicella classico. Passo in rivista due giornate copiose. In Italia le città regalano al turista un’overdose d’arte. Quando vado a Ronchamp parto con l’amore esclusivo di Le Corbusier. Se la tua passione per Nervi è forte, vai a Verona solo per Nervi. Il resto

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Jacques Gubler è nato nel 1940 a Nyon (Svizzera). Nel 1965 si laurea in Storia dell’Arte presso l’Università di Losanna, dove consegue il dottorato nel 1975. Dal 1983 al 1984 è professore presso il New Jersey Institute of Technology di Newark (Usa), e presso l’Istituto di Teoria e Storia dell’Architettura di Losanna. Dal 1984 al 1999 è ordinario di Storia dell’Architettura Moderna presso l’ETH di Losanna, e dal 1999 al 2006 presso l’USI di Mendrisio. Dal 2007 vive a Basilea. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Cara Signora Tosoni. Le cartoline di Casabella, 1982-1995 (2005); Johann Rudolf Rahn, Geografia e monumenti con G. Germann e B. Weber (2004); Motion, Emotions (2003); Richter & Dahl Rocha Architects. A Modern Move, Transforming Nestlé Headquarters in Vevey, con M. Campi, e O. R. Ojeda, (2002); Le Corbusier, Early Works by CharlesEdouard Jeanneret-Gris, con A. Tzonis e G. H. Baker (1987); Transformation. Livio Vacchini, con W. Blaser, J. C. Vigato (1994); Bonell e Gil. Architetti Barcellona. Il dialogo del progetto (2001); George Baines, con K. Frampton, F. Strauven, L. Verpoest, Ludion 2006; Rassegna: Electricity United States and USSR, France and Italy, 63, con S. Protasoni. Inoltre ricordiamo interessanti interventi su importanti riviste di architettura: - Progetto vs composizione: una piccola antologia, in «Casabella», 520-521, 1986 - Reklame & Architektur, in «Rassegna», 43, 1990 - LHdeK e le opere postume progettate in vita, in «Casabella», 546, 1990 - Louis Herman de Koninck & les AAM: itinéraires croisés, in «Archives d’architecture moderne», 1990, 40 - L.I. Kahn in rassegna: a dieci anni dalla morte, in «Casabella», 517, 1985 - Prolegomeni a Hennebique: Documenti di architettura, in «Casabella», 485, 1982 - A.D. Profile 32: From Futurism to Rationalism: the origins of modern Italian architecture, in «Architectural Design», 2/1981 con B. Tschumi, B. Zevi, R. Banham, D. P. Doordan, J. Gargus, E. R. Shapiro - L’architettura scolpita, in «Casabella», 1989, 556 - Henri Sauvage, in «Architectural Design», 2/1979 Fonte delle immagini: arch. Dario Aio


un incontro tosondorato Alberto Zanardi Il 13 luglio di quest’anno ho avuto il piacere di conoscere un personaggio speciale, svizzero di Basilea, il cui spirito guascone mi ha affascinato fin dal primo istante. L’occasione è sorta nell’organizzare la presentazione del libro Cara Signora Tosoni, Le cartoline di Casabella, 1982-1995, che lo storico Jacques Gubler aveva pubblicato nel 2005 per l’editore Skira. Quell’incontro è stato una vera e propria rivelazione. Fin dai primi contatti avevo capito di trovarmi al cospetto di un raffinato cultore delle buone cose, che sapeva abilmente miscelare campi diversi del sapere, siano essi storici, architettonici, culinari o musicali (è un vero intenditore di musica jazz). Ricordo ancora che in quei giorni, dovendo fissare la data della presentazione, Gubler mi convinse ad accettare l’ipotesi poi messa in pratica con queste parole: “...non so perché l’eventualità di un incontro la prima o la seconda settimana di luglio è stata esclusa a priori, quando la spiaggia è ancora lontana, all’inizio del Tour de France. Solo Olandesi & Belgi anticipano le vacanze per campeggiare sulle strade ciclistiche & godersi i migliori formaggi & vini del mondo...”. Il giorno che andai a prenderlo in albergo per accompagnarlo a Villafranca lo trovai ad attendermi, confermando la fama della puntualità svizzera, accomodato su una poltrona nella sala d’attesa; dopo i saluti di rito mi porse un pacchettino, contenente alcuni deliziosi dolcetti di una pasticceria di Basilea, e una copia del suo libro. Inutile dire che gli chiesi la dedica, che egli mi concesse in bicromia: “All’architetto Alberto Zanardi costruttore dell’incontro tosondorato di Villafranca, grazie!” Accompagnandolo quel giorno, ebbi modo di scoprire il lato umano di uno storico dell’arte filologicamente preparatissimo. E fu proprio durante il nostro girovagare in una sera di inizio estate che, sapendo che avrebbe trascorso i due giorni successivi in visita a Verona, osai chiedergli un resoconto per la nostra rivista.

A distanza di alcuni mesi, con il bel testo qui pubblicato, posso confessare che per convincere Gubler, vista la sua iniziale riluttanza, feci leva sul suo animo violletle-ducchiano (è un profondo estimatore di Viollet-le-Duc), citando i Diari di viaggio di Ruskin: credo che l’idea di antitesi lo abbia convinto della bontà di questo mio blasfemo paragone tra ideologie. D’altronde “archiviare, criticare, esibire” è il suo motto (si veda il commento a un disegno di interni del 1923 di Louis H. De Koninck), ragione per la quale non ha più potuto tirarsi indietro. Così mi scrisse infatti poco tempo dopo: “Ho seguito il tuo invito di scrivere una specie di diario architettonico. Ho visitato la città il 14 & il 15 luglio. Ho cercato di scrivere un testo sotto forma di passeggiata.” Ancor oggi, a distanza di qualche mese dall’evento, ho la fortuna comunicando saltuariamente con lui di godere di alcune sue “perle”: “Grazie per le belle foto di Spalato. Il mio ricordo di turista fotografo della stessa città si colloca nell’ambito storico degli ultimi anni di Tito. Arrivando col battello da Dubrovnic, abbiamo passato una giornata prima di prendere un altro battello per raggiungere Fiume. Avevo letto prima grandi & piccole cose sul Palazzo. La cosa che mi ha colpita, oltre alla densità urbana, al rumore particolare della passeggiata intra muros, fu il collegamento tra città romana & città medievale. Ho capito che la “fine dei CIAM” poteva occorrere dopo una riunione goduta tra Dubrovnic & Split.” Grazie a “jg”, per avermi concesso la sua amicizia.

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altre storie, altre cittĂ : lo sguardo di milo manara a cura di Alberto Vignolo e Alberto Zanardi

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ARCHITETTIVERONA: Partendo dal presupposto che una rappresentazione della città debba alimentarsi di tutti i contributi di chi, per mestiere o per sensibilità, posi il suo sguardo critico sui fenomeni urbani, incontriamo Milo Manara, celebre autore di una particolare forma artistica, quella del fumetto, che fa confluire in un prodotto dalla vasta diffusione editoriale una espressività dal segno “seducente e insieme evocativo”, come la definiva Fellini riferendosi al noto disegnatore. Bolzanino di nascita, Manara ha nei suoi trascorsi anche degli studi di architettura interrotti, ed è solito dialogare proficuamente con altri mezzi di espressione, con un rapporto privilegiato con il cinema. Ma è a partire dalle ricche suggestioni dei suoi sfondi, dai contesti talvolta riconoscibili e tal altra trasognati in una dimensione onirica, e che accompagnano in una selezione di tavole queste pagine, che «architettiverona» lo ha voluto incontrare, aprendo un dialogo che ha preso il via dal territorio comune tra architetti e fumettisti, ovvero dal disegno come mezzo di espressione. Che valore ha oggi, nella sua attività di fumettista, questo antico strumento? Milo Manara: sono molto affezionato al tratto a mano, perché mi affascina particolarmente l’idea che, nonostante la tecnologia consenta oggi di realizzare virtualmente dei disegni senza prendere in mano la matita, il mestiere del fumettista – ma vale in parte anche per quello dell’architetto – avviene esattamente con gli stessi gesti che facevano 50.000 anni fa gli uomini delle caverne. Il passaggio a una dimensione professionale avviene però con la consapevolezza che il segno non ha solamente un percorso orizzontale ma ne ha anche uno verticale. Il professionista sa che la matita può essere più o meno compressa, legando così di fatto l’espressività al movimento verticale dello strumento di lavoro. In particolare noi disegnatori di fumetti adoperiamo pennini o pennelli, ovvero strumenti morbidi che risentono in maniera sensibile di questa pressione: salvo eccezioni significative, come uno dei grandi geni del fumetto, Moebius, che lavorava mantenendo sempre un tratto uniforme del segno. Il disegno architettonico invece, rispetto al disegno di fumetto, rimane sostanzialmente legato a una di-

mensione orizzontale del tratto. Entrambi sono però accomunati dal fatto di lavorare non sul “come”, ma sul ”che cosa’”: e questo li distingue dalle altre arti figurative, il cui valore risiede nel “come” viene rappresentato un certo soggetto. Tra l’Annunciazione del Beato Angelico e quella di Leonardo, per fare un esempio, il soggetto – il “che cosa “ - è il medesimo, mentre varia il “come”, ed è nel come che risiede il valore di ogni opera: è il famoso caso in cui il significante si fa significato. Tutta la storia dell’arte figurativa è basata sul cambiamento del modo in cui viene rappresentato un certo soggetto. Salvo eccezioni significative: per la pittura surrealista, ad esempio, è proprio il “che cosa “ad assumere valore, mentre il modo è semplicemente il più realistico possibile. Prendiamo Magritte: uno dei suoi quadri più celebri rappresenta una pipa, dipinta con precisione, al di sotto della quale si legge “questa non è una pipa”. La provocazione di Magritte, di fronte alle proteste di chi sosteneva che si trattasse inequivocabilmente di una pipa, era di chiedere di provare a fumarla, con questo volendo sottolineare la differenza tra l’oggetto dalla sua raffigurazione. È interessante poi notare come questa vicenda abbia avuto un seguito. Jasper Johns, grande pittore della Pop americana, ha dipinto su una tela la bandiera americana, intitolando il quadro Flag: a quel punto ha fatto un passo avanti, proprio perché la bandiera è su tela e quindi di tela come una bandiera vera e propria, però contemporaneamente è dipinta e dunque è un quadro. Tornando alla storia a fumetti, il “come “ è funzionale a caricare di pathos la vicenda, ma quello che conta è la vicenda stessa, il “che cosa”: ogni disegno deve così essere messo in relazione con quello che lo precede e con quello che segue, generando così quel valore di narrazione che Pasolini definiva affabulatorio. Anche per il disegno architettonico l’espressività è un valore secondario, fatte salve le rappresentazioni prospettiche o tridimensionali con un esplicito intento raffigurativo. Il disegno in sezione in particolare si basa su un codice di simboli che devono essere rispettati - la sezione del calcestruzzo è fatta in un certo modo, quella del ferro in un altro ecc. – ed è per questo assai affascinante: il simbolo è in-

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fatti alla radice sia del disegno che della scrittura. Il momento di passaggio tra disegno e scrittura avviene col geroglifico, e da lì le codificazioni successive hanno dato luogo alle altre forme di scrittura. AV: Dal famoso atterraggio dell’aereo sulla piazza antistante la Cattedrale gotica di Colonia nel “Il Viaggio di G. Mastorna, detto Fernet” agli scorci veneziani di “H.P. e Giuseppe Bergman”, passando per la Babel Tower di “Viaggio a Tulum”, nelle sue storie il contesto architettonico ha un ruolo spesso importante nella definizione di questo valore di narrazione del racconto. MM: Nel fumetto anche le città, analogamente ai

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personaggi che sono dei tipi quasi lombrosiani, sono caratterizzate secondo schemi convenzionali, dovendo servire a dare una determinata ambientazione storica o emotiva alla vicenda, a seconda che si tratti di un giallo o di un noir o altro. Va detto però che esiste un caso macroscopico, anche sul piano della quantità, rappresentato dai fumetti giapponesi, i manga, che sono caratterizzati da un rigore e da una solidità del disegno e delle ambientazioni architettoniche che è sorprendente, tanto più al confronto con i personaggi che viceversa tendono ad essere fortemente stereotipati. Per un autore come me che ha la fortuna di essere tradotto in tutto il mondo, uno degli scenari più facilmente riconoscibili, restando nell’ambito dei luoghi a me noti, è quello veneziano. D’altro canto, Venezia è uno dei luoghi più frequentati non solo dal fumetto, ma anche dal cinema, dalla letteratura e dalle altre arti. Bastano pochi segni per evocare in tutto il mondo la città e quello che rappresenta, con tutte le suggestioni da Goldoni a Casanova. Ho disegnato in particolare la zona del Ghetto, ricchissima di testimonianze e di sedimentazioni umane di ogni tipo, che mi è stata fatta conoscere dal mio maestro Hugo Pratt, profondo conoscitore dei segreti della città. Ma è il mare che arriva fin le case, lo stesso mare che va dal Venezuela al Polo Nord, a rappresentare tutta la potenzialità narrativa di Venezia. AV: Se lei dovesse invece ambientare una storia a partire da una suggestione veronese? MM: I miei miti nell’ambito della cultura veronese sono soprattutto pittorici. Uno su tutti è Paolo Veronese, narratore straordinario che ha raccontato il veneto felix in tutta la sua magnificenza. Il detto veronesi tuti mati conferma in fondo quello che ho sempre pensato, cioè che Verona è una città piena di contrasti, gli stessi che ha messo in luce un grande veronese onorario, Shakespeare. Io credo che bisognerebbe dedicare un monumento a Shakespeare, perché è colui che l’ha resa non solo conosciuta, ma anche seducente agli occhi del mondo intero - non c’è felicità fuori dalle mura di Verona, così recita l’incipit di Giulietta e Romeo. È straordinario che un

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personaggio come lui, che probabilmente a Verona non è mai stato, abbia capito che la città si basa su contrasti enormi: è la città di Giulietta e Romeo, quindi dell’amore, però al tempo stesso è anche la città di Rosmunda, che è stata costretta da Alboino a bere nel teschio del padre. Verona è tutto questo, una città barbara retta da una dinastia, quella degli Scaligeri, che parlavano una sorta di tedesco un po’ latinizzato. Quando Dante è venuto a Verona, penso che abbia avuto non pochi problemi a comunicare con gli ufficiali, i soldati, le signorie, ecc, patendo la sua alterità di fiorentino in una città sostanzialmente tedesca - non a caso ha detto quella frase, “ahi come duro cale scender e salir l’altrui scale”…. D’altro canto, Verona è una città che da una parte gode una cattiva reputazione di esclusione rispetto all’immigrato, se non di razzismo, ma contemporaneamente è anche la città di Daniele Comboni e dei suoi accoliti, che si sono messi in una posizione molto aperta e innovativa, per non dire rivoluzionaria, rispetto anche alla chiesa. Queste straordinarie contraddizioni si riflettono anche nella forma della città. Dalla stratificazione millenaria dei siti prediletti dai romani – il colle, l’ansa, il fiume - che si sedimentano fino a tutto l’Ottocento, dopo un certo momento si verifica uno iato, per cui non c’è più niente, salvo edifici senza storia e senza alcuna connotazione culturale.

AV: Questa linea di demarcazione si colloca nel pieno del Novecento, secolo che sul piano artistico ci ha consegnato esperienze straordinarie. MM: È vero, il Novecento però è anche il momento di grandissime crisi, non solo nell’architettura ma in tutte le arti visive. La mia impressione è che non siamo ancora riusciti a chiudere i conti con la Modernità, a farla diventare un linguaggio condiviso, salvo in alcuni campi, ad esempio quello del design, che io trovo si sia caricato di questa responsabilità, diversamente dall’architettura. Nelle arti figurative, il ciclone Picasso ha stabilito una linea di demarcazione nettissima tra passato e presente, e dopo di lui non si è più riusciti a ritrovare un linguaggio condiviso. Anche il grande momento della pittura astrattista, che va da Kandinsky fino a Pollock, non ha lasciato un seguito se non nell’arte concettuale, che però mi pare si sia involuta in se stessa. La Shoah ha provocato una crisi espressiva enorme in moltissimi artisti, e si è teorizzato che dopo il genocidio degli ebrei non fosse più possibile praticare arte. Le Biennali di Venezia del primo dopoguerra erano infatti cariche di drammaticità, di un senso di disperazione privo di speranza che non lasciava nessun dubbio. Anche la pittura americana, che è sempre stata molto positiva, con la stagione dell’’espressionismo astratto

(Jackson Pollock, Arshile Gorky, Mark Rothko…) ha dimostrato di essere piombata in un periodo di tragedia totale. Solo con la Pop-Art ha iniziato a riprendere fiato un certo tipo di ottimismo americano, anche se molto di maniera e che poi non è durato tantissimo. Poi ci sono stati alcuni tentativi come la Transavanguardia, frutto soprattutto dell’intelligenza di un critico, ma di fatto si è consolidata una frattura nettissima fra società e artisti. Questo perché le arti figurative – ma in questo caso escluderei l’architettura – hanno progressivamente ceduto la propria funzione e il proprio ruolo nella società al cinema e alla televisione, perdendo così di importanza e di valore. Anche per quanto riguarda l’architettura, nonostante l’innovazione tecnologica dia possibilità immense, con materiali che possono essere al tempo stesso portanti e coibentanti, non si riesce ugualmente a trovare un linguaggio adeguato, almeno nell’architettura di civile abitazione. AV: Arriviamo così alla confusione dei linguaggi, la cui immagine mitica è quella della Torre di Babele, la Babel Tower che lei ha raffigurato in “Viaggio a Tulum” MM: Si, è straordinario che la figura posta all’inizio della diaspora dell’umanità sia proprio una immagine architettonica: l’architettura infatti ha una responsabilità enorme, che ha giocato come forza centrifuga e dovrebbe viceversa gio-

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care con un ruolo centripeto e pacificatorio. Ci sono case in cui uno non andrebbe mai ad abitare, probabilmente perché sono costruite con criteri puramente economici: ma poi bisognerebbe rendersi conto che, se si pensa ad esempio alla quantità di turisti che vengono a Verona per vedere i monumenti e anche il centro storico, che è fatto di case, probabilmente un’architettura così sciatta e dimessa alla lunga è una scelta miope per una nazione come l’Italia in cui il turismo è una voce così importante. Certamente chi costruisce guarda al suo guadagno immediato. Per deformazione professionale, mi verrebbe da pensare che ogni casa è come un fotogramma di un fumetto, un passaggio di una narrazione che dovrebbe tenere conto dell’immagine precedente e di quella successiva. Oggi invece vediamo che nella continuità del racconto, ad un certo punto troviamo una pagina strappata. Ci sono ancora, ovviamente, le grandi architetture di alcuni isolati maestri, ma una cultura vera dell’architettura non è penetrata nella società. Se pensiamo a una qualunque casa di un borgo antico, capiamo che non sono della nostra epoca e che per chi l’ha costruita l’architettura aveva un’altra dimensione: ritroviamo la misura d’uomo, riusciamo ad allargare le braccia e toccare le pareti, alzare una mano e incontrare il soffitto, con una gestualità che richiama quella del Modulor di Le Corbusier, piena di ricchezza e di nobiltà.

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AV: L’immagine della città contemporanea che emerge nei fumetti di Manara è invece quella della metropoli caotica e selvaggia, un continuum edificato e ipertrofico che annulla l’individuo. Ma questo rovinismo può assumere però una forma affascinante come quella ritratta in “A riveder le stelle”. MM: La mia idea di città che appare in quel fumetto subisce certamente la fascinazione da una parte di Piranesi, per il gusto di queste vestigia affastellate, e dall’altra di Sant’Elia per lo slancio verso il cielo e verso il futuro. In realtà, una delle immagini architettoniche più affascinanti per me è quella del falansterio: il sogno di un modello fisico al quale dovrebbe corrispondere un ideale autenticamente democratico. Una struttura del genere l’ho già disegnata in un mio fumetto, “Lo Scimmiotto”, con una grande copertura al di sotto della quale ci siano tante unità di abitazione comunicanti con le altre in un tessuto di spazi collettivi :un bel sogno! In realtà, viviamo attualmente nel primo periodo nella storia dell’uomo in cui la società è divisa in cellule molto piccole, coincidenti con la famiglia, fatto del tutto inedito nella storia dell’umanità. Fino a tutto l’Ottocento invece la società rurale era divisa nelle corti, e quella urbana in quartieri, borghi, o cortili: i bambini giocavano nel cortile in città come in campagna, quindi in territori col-

lettivi, anche il bucato spesso era fatto in spazi comuni, e le varie supplenze parentali riguardavano un grande agglomerato di famiglie. Non so dire se l’architettura abbia una responsabilità a questo riguardo o se si sia evoluta proprio in seguito a questa parcellizzazione sociale. Nasce a questo punto il problema di che tipo di società rappresentare per il futuro. Io mi voglio augurare che ci sia forse un ritorno a un allargamento della cellula, come d’altra parte aveva teorizzato anche Le Corbusier: nelle sue Unité d’Habitation c’era una grande ricchezza di spazi collettivi, però anche l’utopia di Le Corbusier non ha avuto seguito. Non c’è dubbio che l’architettura giochi un ruolo importante nella rappresentazione dell’umanità: anche da persona non esperta della materia quale sono, quando vedo ad esempio una chiesa nei quartieri nuovi e mi domando se l’abbia fatta un marziano o chi altro. Se noi guardiamo una qualsiasi chiesetta antica sperduta nelle campagne, troviamo una dignità, una misura e un tipo di accoglienza cordiale che invece questi “capannoni” odierni non hanno, nonostante le pretese. Salvo casi particolari, come ad esempio la chiesa di Michelucci, che però potrebbe costituire al limite un modello negativo, con l’idea dei pilastrialberi al limite del kitsch, così come per l’aspetto aggressivo e poco mistico del cemento a vista: niente a che vedere con la cappella di Ron-


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champ, che ha un tipo di presupposto completamente diverso, e l’atmosfera religiosa che si respira lì è veramente straordinaria. AV: La distinzione tra l’architettura d’autore e quella seriale ripropone del resto una differenza che vale anche per il fumetto. MM: La differenza è che nel fumetto seriale il personaggio è più importante dell’autore: sia gli sceneggiatori che i disegnatori variano, e sono costretti a rinunciare al proprio stile autorale e al proprio segno per uniformarsi al personaggio. Il lettore non deve accorgersi, ad esempio, che tra un Dylan Dog e l’altro cambia la mano. Detto questo, anche nel fumetto seriale ci sono una qualità e una dignità di grandissimo livello, grazie ad autori straordinari (sia che scrivano, sia che disegnino). Nel fumetto d’autore, invece, ci si può abbandonare alla propria inclinazione ed esprimere anche se stessi attraverso le proprie storie: ma naturalmente sul piano economico è molto più dura, perché non si ha la garanzia di vendita del personaggio collaudato, ma bisogna conquistarsi di volta in volta la simpatia del pubblico in libreria. A questo concorrono le scelte dell’autore e una serie di espedienti di cui bisogna tener conto, per caricare di pathos e di tensione la vicenda. Ritorniamo così al valore affabulatorio del disegno, laddove le scelte espressive non sono principalmente di tipo estetico, bensì di tipo narrativo. La collocazione dei miei personaggi ad esempio riesce a stuzzicare particolarmente la fantasia: è chiaro che

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una fanciulla in costume da bagno ritratta su una spiaggia non ha nessun tipo di tensione erotica, ma se la colloco invece in una chiesa, o in un ospedale, poniamo, la situazione è già diversa. Si tratta quindi di costruire la vicenda basandosi su degli effetti di contrasto o di sorpresa, che non sono semplicemente studiati a tavolino, ma sono il frutto dell’entusiasmo narrativo, della freschezza e spontaneità che un autore deve avere. Naturalmente ci sono delle regole anche grafiche da rispettare. Quando da giovane ho incontrato Hugo Pratt, mi ha praticamente obbligato a disegnare su striscia, invece che tavola per tavola. Ogni striscia può essere poi montata per assemblare la pagina secondo diversi schemi, ma l’unità minima è sempre la medesima. Come diceva Pratt, anche il cinema riesce a raccontare qualunque cosa mantenendo sempre lo schermo rettangolare! Ho rinunciato così a lavorare ingrandendo e rimpicciolendo le vignette per muovere la pagina con montaggi elaborati, cosa di cui adesso non sarei più nemmeno capace e della quale all’epoca era maestro Guido Crepax. Tutta la vicenda rimane dentro il medesimo formato, dando così sempre più importanza alla narrazione rispetto al disegno. Del resto, il formato dei libri rimane lo stesso, le dimensioni degli scaffali delle librerie pure… La libertà, alla fin fine, ha sempre dei limiti: la vera libertà è data dalla costrizione della gabbia, all’interno della quale si devono trovare le proprie possibilità.

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AV: Ma esiste una via di fuga dalle regole, l’avventura. Il suo personaggio-alter ego Giuseppe Bergman,da quando esclama è arrivata l’avventura, cerca in tutti gli episodi della fortunata serie di dare uno scopo alla sua vita, dando un calcio alle leggi e alle convenzioni e seguendo il proprio istinto ribelle. MM: Quel fumetto nasceva dalla considerazione di un particolare concetto di avventura, così come l’aveva espresso in mondo inimitabile Dante, quando collocando Ulisse all’Inferno fra i consiglieri fraudolenti gli fa dire, rivolgendosi ai marinai che non lo vogliono seguire: “Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. È il concetto dell’autodeterminazione umana questo seguire la virtù e la conoscenza: un’idea di avventura vista quindi come elemento di straordinaria eversione sociale. In realtà, tutta la grande tradizione della letteratura di avventura, in genere di radice anglosassone (con Stevenson, Conrad, Melville… ), ha avuto una brusca interruzione esattamente nella stessa epoca e nella stessa zona geografica in cui ha preso piede la catena di montaggio. Quando cioè all’umanità è stata richiesta una prestazione da macchina, che è quanto di più lontano ci sia dal concetto stesso di avventura, la letteratura del genere 11 ha iniziato ad assumere una

connotazione negativa, al punto di essere relegata nelle categorie del giallo o del noir. Dopo il ’68 poi, era rimasto solo Hugo Pratt a raccontare storie di avventura, attirandosi anche molte critiche che gli erano valse l’etichetta di letteratura di evasione. È in questo clima culturale che ho iniziato la mia riflessione in forma di racconto sul meccanismo dell’avventura. Oggi è facile verificare come i luoghi e i templi canonici dell’avventura siano completamente scomparsi: se uno andasse nel deserto del Sahara convinto di fare un viaggio fra i Tuareg, si troverebbe magari nel bel mezzo di moto e macchine della Parigi Dakar, così come se uno volesse andare in Amazzonia per incontrare gli Indios, si renderebbe conto che ormai sono schiavi di droghe e vittime di malattie secolari. Per riflettere, ci rimane ancora una volta solo la voce isolata di Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”…


1. Scorcio dell’immaginario “falansterio” della grotta del velario d’acqua; tratto da: Lo Scimmiotto. 2. Un sensuale profilo femminile disegnato da Milo Manara durante l’intervista. 3. Il “paese dei balocchi”, una Roma futurista a metà tra le incisioni di Piranesi e le architetture futuriste di Sant’Elia; tratto da: A riveder le stelle. 4. Scorci veneziani e il Ghetto Vecchio; tratto da: H.P. e Giuseppe Bergman. 5. Il convento del “Divino Spasimo”, dal sapore vagamente famigliare; tratto da: Il Gioco 4. 6. Milo Manara, mentre disegna alcune strutture facciali: scelta dei punti di vista e caratteristiche di un volto seducente. (foto Marco Semprebon) 7. Milo Manara, mentre disegna alcune vignette per spiegare la giusta collocazione della linea dell’orizzonte. (foto Marco Semprebon) 8. Milo Manara, mentre applica il “canone di Policleto” nel disegnare un nudo femminile. (foto Marco Semprebon) 9. Immagine pubblicata per la prima volta su Repubblica Auto supplemento del quotidiano La Repubblica e inserita in seguito nel volume Donne e motori, Edizioni Di, 2003. 10. Vignetta della “Cena in casa di Levi” fu “Ultima cena”, opera del pittore Paolo Caliari di Verona, detto il Veronese, tratta dalla storia breve: Mors tua vita mea. 11. Un esempio di volto seducente disegnato da Milo Manara durante l’intervista. 12. La “Babel Tower”, tratta da: Viaggio a Tulum I disegni sono tratti da “Manara. Le opere”, 2006, “Il Sole 24 ore”, edizione speciale pubblicata su licenza di Panini S.p.A.

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M i l o ( M a u r i l i o ) M a n a r a è nato a Luson, Bolzano, nel 1945. Ha debuttato nel 1969 con Genius, prima tappa di una straordinaria carriera fumettistica. Nel 1975 disegna la serie La parola alla giuria (testi di Mino Milani) per il Corriere dei Ragazzi. Seguono Lo Scimmiotto (1976-1977, testi di Silverio Pisu), H.P. e Giuseppe Bergman (1978), Alessio, il borghese rivoluzionario (1979), il best seller erotico Il gioco (1983), Un’estate indiana ed El Gaucho (1983-1992, testi di Hugo Pratt), Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet (1986-1992, testi di Federico Fellini), la saga I Borgia (testi di Alejandro Jodorowsky, in corso di pubblicazione).

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una finestra su verona sud

A partire da questo numero la nostra rivista intende aprire una finestra su Verona Sud. In questo spazio verranno pubblicati i testi, i progetti ed i commenti che perverranno in redazione e che avranno come tema lo sviluppo e la trasformazione di questa importante parte di città. Le diverse opinioni, le inevitabili polemiche, le posizioni contrastanti, gli sviluppi della pianificazione troveranno uno nuovo spazio nel quale presentarsi e confrontarsi. In questa occasione riportiamo, oltre alla cronaca del convegno tenuto in occasione della presentazione del numero 79 di AV, un contributo di Luca Gibello (caporedattore de Il Giornale dell’Architettura) sui primi sviluppi del post-convegno, l’intervento di Giorgio Ugolini previsto per la stessa occasione ed un testo di Luciano Marchesini (direttore dell’Area Gestione del Territorio del Comune di Verona) che indica gli sviluppi della pianificazione a seguito dell’approvazione definitiva del PAT di Verona.

Punto a capo per Verona Sud (Cronaca del convegno tenutosi a Verona Sabato 20 ottobre 2007 Solo pochi mesi fa il governo della città è passato nelle mani di una nuova Giunta Comunale che, nell’entusiasmo di inizio mandato, già lascia trapelare, tra le altre rivoluzioni annunciate, la volontà di rivedere sensibilmente gli indirizzi per quanto concerne la gestione del territorio, nella fattispecie la cosiddetta variante Gabrielli.

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La variante al Piano Regolatore Generale n° 282, ad opera dell’urbanista professor Bruno Gabrielli, rappresenta la risposta alle problematiche di Verona Sud messa in campo dalla precedente Amministrazione Comunale. La Giunta Zanotto infatti, nel tentativo di infrangere l’immobilismo che da troppo tempo affligge e frena i tentativi di riconversione di Verona Sud, affida lo studio di una proposta progettuale a Bruno Gabrielli, il quale elabora un programma indubbiamente chiaro, valido e coraggioso, anche se non esente da critiche, forse perché troppo ambizioso e di difficile attuazione. La Giunta stessa non ha la forza necessaria per far approvare la variante e farla divenire a tutti gli effetti un nuovo strumento per il controllo del territorio e per Verona Sud si annuncia quindi l’ennesimo stop e l’ennesimo cambio di direzione, prassi che caratterizza in Italia l’avvicendamento delle amministrazione pubbliche, in particolare se di “colore” diverso. L’ennesima fumata nera e l’impossibilità di avere uno strumento urbanistico di sviluppo che ci tolga dall’empasse della cronica immobilità, ci permette paradossalmente di ridiscutere non solo i contenuti della variante 282, ma anche le problematiche alle quali Bruno Gabrielli voleva con il suo piano dare risposta. Per una volta inoltre (la prima?) si prospetta anche per noi progettisti la possibilità di intervenire in maniera concreta nel dibattito per Verona Sud, questa volta perfino prima che le scelte siano già certezze e con contributi che possano andare oltre le formali osservazioni di categoria. Il convegno “Punto a capo per Verona Sud, piani

progetti e riflessioni per la città postindustriale” si inserisce in questo contesto e si propone come un momento di discussione in cui al fianco dei politici, dei committenti e degli imprenditori (a volte i ruoli non sono così palesemente distinti) si esprimano anche gli architetti, in particolare gli architetti veronesi, sia quelli che la città l’hanno costruita, sia quelli che la costruiranno. Gli architetti evidentemente sono chiamati ad alzare la voce per rivendicare il loro ruolo nel pianificare la città del futuro, ma devono al contempo rispondere della mancanza di qualità urbana ed architettonica, nella città del presente. Il fallimento del progetto urbano ed architettonico di Verona Sud - che a solo cinquant’anni dalla costruzione dovrà necessariamente subire una sensibile demolizione, per ovviare alle molteplici problematiche funzionali oltre che estetiche - riecheggiato dal fallimento che si rinnova continuamente nell’incapacità politica di proporre soluzioni concrete, diviene oggi una nuova ed irrinunciabile opportunità. Forse l’ultima occasione che gli architetti hanno per alimentare un confronto costruttivo con la pubblica amministrazione, sulle scelte urbanistiche che dovranno guidare le trasformazioni di Verona Sud, incentivando una profonda riflessione sulle esigenze e sulle aspirazioni della città del futuro; tema affascinante e complesso, al centro del dibattuto culturale anche alla recente Biennale di Architettura di Venezia. Rimandando ad «ArchitettiVerona» 79 per i contenuti, le riflessioni ed i progetti per Verona Sud, dettagliatamente illustrati, si vuole in questa sede invece testimoniare gli interventi che hanno arric-


chito il convegno organizzato dalla Commissione Iniziative Editoriali dell’OAPPCPV e che ha visto la partecipazione di alcuni esponenti del mondo politico ed economico, oltre che degli amministratori invitati e soprattutto dei cittadini, anche in rappresentanza dei vari comitati di quartiere. Ovviamente la sala si affollava anche di progettisti. Dopo i saluti di rito, una premessa del Presidente dell’OAPPCPV ed una esauriente introduzione sulle motivazioni che ci hanno spinto ad affrontare il tema - a cura dell’editor di ArchitettiVerona - il Sindaco Flavio Tosi ha brevemente illustrato le linee generali che contrassegneranno il suo mandato, demandando all’assessore Vito Giacino il compito di entrare specificatamente nel merito delle questioni affrontate dal dibattito in corso. Luca Gibello, caporedattore de «Il Giornale dell’Architettura», chiamato a coordinare e moderare l’incontro, nel suo successivo intervento auspica una sempre maggiore condivisione delle problematiche inerenti la pianificazione delle città del futuro, tra i vari soggetti sociali chiamati a realizzarla. Egli giudica giustamente fallimentare qualsiasi esperienza progettuale, se misurata con i tempi della politica: non è possibile verificare gli effetti di una operazione urbana, nel breve tempo di un mandato amministrativo; ed è altresì impensabile pianificare la città ragionando in tempi così brevi. Pianificare significa investire sul futuro, con continuità e lungimiranza. Quindi è necessariamente richiesta al politico, o meglio all’amministratore, una capacità critica superiore ad ogni ideologia e ad ogni convinzione aprioristica. Nello stesso tempo però, ci avverte Gibello, la pianificazione deve tenere conto della rapida mutazione delle esigenze e dei bisogni dei cittadini e delle trasformazioni economiche che la società contemporanea ci impone, altrettanto repentine. Solo l’equilibrio tra queste velocità farà della pianificazione territoriale uno strumento utile ed efficace. La parola passa quindi all’Assessore all’Urbanistica del Comune di Verona Vito Giacino, il quale dichiara di preferire l’ascolto delle analisi e delle eventuali proposte fatte dai singoli progettisti e dall’Ordine come categoria, al fine di avviare una nuova fase di concertazione “pianificatoria”. Appare chiaro comunque dal suo intervento che la va-

riante 282, se per alcuni aspetti può essere condivisa dall’Amministrazione Comunale attuale (il Magnete, il parcheggio Scambiatore, il ribaltamento del casello autostradale), per molti altri è indubbiamente osteggiata (interramento di Viale Piave, il sistema della perequazione urbanistica); parla inoltre della necessità di munirsi di strumenti urbanistici e di piani che riqualifichino una porzione maggiore di territorio rispetto al solo Cardo Massimo e che comprendano quindi i quartieri residenziali ad Ovest dello stesso (Santa Lucia, Golosine) e si protraggano ad Est fino a Basso Acquar. Egli ringrazia infine l’Ordine per questa iniziativa che apre un dialogo-confronto che si auspica possa rivelarsi proficuo per il futuro assetto della città. Si succedono poi gli interventi degli architetti veronesi invitati al Convegno. Luigi Calcagni nel suo intervento lamenta la mancanza di opportunità: non viene data la possibilità ai professionisti veronesi di partecipare al processo progettuale nella pianificazione della città; fino ad oggi infatti, ribadisce l’architetto Calcagni, veniva richiesto il parere dei progettisti solo al termine del percorso formativo di un piano, quando ormai il progetto era compiuto. Lamenta la tendenza delle amministrazioni che si sono succedute a Verona, di “dimenticarsi” di alcuni progetti anche innovativi che sono stati elaborati per alcune aree strategiche cittadine, non ultima la ZAI medesima, che più volte ha chiesto a gran voce di essere modificata ed aggiornata nella sua conformazione, ma senza risposta. Concorda infine con la legittima volontà da parte della Giunta Tosi di intervenire in Verona Sud, riqualificando anche i quartieri residenziali limitrofi alla ZAI storica, come ha dichiarato precedentemente l’Assessore Giacino, ma ci avverte altresì dell’importanza fondamentale della variante Gabrielli: essa infatti ha il pregio innegabile di innescare un procedimento di pianificazione, che può essere migliorato, integrato e modificato in itinere, ma non deve assolutamente essere rallentato o rimandato. Luciano Cenna esprime una critica razionale e ragionata alla variante Gabrielli, ma anche ad alcune scelte urbanistiche precedenti e che essa ha fatto proprie. In particolare l’architetto critica la scelta di mantenere la Fiera in loco, anziché

trasferirla in un ambito di più ampio respiro, come ad esempio il Quadrante Europa. Egli ritiene perlomeno discutibile il posizionamento del Polo Finanziario, che dovrebbe sorgere frontalmente alla Fiera, criticandone anche l’impianto edilizio planimetrico e lo schema volumetrico che lo caratterizza. Non condivide la scelta che prevede il Polo Culturale presso gli ex Magazzini Generali, in quanto tale isolato presenta seri problemi di accesso; inoltre questa destinazione implicherebbe un invadente intervento impiantisco e funzionale. Un cenno è riservato anche alla destinazione poco appropriata per la ex manifattura Tabacchi, sulla quale si vorrebbe far sorgere un centro benessere. Luciano Cenna sembra affievolire la sua critica ferma e risoluta solo di fronte ai progetti di Rogers e Bellini, rispettivamente per le ex Officine Adige e l’ex Foro Boario, per poi rinvigorire l’impeto accusatorio scatenandolo contro quella che secondo lui è la scelta più discutibile, in quanto essa ha “condizionato tutte le scelte successive allontanandole dalla giusta misura”: il Cardo Massimo. Maria Grazia Eccheli in contraddittorio con il collega Luciano Cenna, disapprovandone l’intervento molto critico, rilancia la volontà di Verona di essere una grande città e di pensare come una grande città. Richiama alcuni esempi storici che partono dall’architettura romana fino alla nascita di Piazza Bra: uno spazio pubblico realizzato per dare a Verona un nuovo impulso, integrando quello che fino ad allora era il cuore della città, Piazza Erbe. Una operazione, diremmo oggi, riuscita. Esalta la pianificazione come occasione per contrastare la frammentazione urbana, che ha dato origine al disordine dell’area di Verona Sud, compresi i quartieri residenziali di Borgo Roma, Golosine e Santa Lucia e dei mille problemi che ne

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derivano. La professoressa Eccheli durante l’esposizione pone l’attenzione sul concetto di bellezza, che in architettura deve essere sinonimo anche di funzionalità e durevolezza; enuncia infine quelli che a suo modo di vedere rappresentano gli effettivi limiti della città contemporanea, a cui bisogna porre urgentemente rimedio e che sono a suo dire collegati con la mobilità, ovvero le infrastrutture (strade, parcheggi, sistemi di trasporto). Con infrastrutture efficienti ed “attraenti”, si supera ad esempio il problema della ricollocazione della Fiera, posto da Cenna. Gian Arnaldo Caleffi esprime interesse sull’occasione che la riqualificazione di Verona Sud può rappresentare per gli architetti veronesi e per la loro crescita professionale; purchè questi però siano in grado di accettare la sfida che un progetto di tale grandezza lancia. Caleffi evoca palesemente un nuovo modo di intendere l’organizzazione di un studio di progettazione, non più laboratorio artigianale in cui l’architetto elabora e realizza le sue idee, accompagandole dalla “scintilla” iniziale fino alla completa realizzazione dell’opera. Ma al contrario un moderno studio che raggruppa diverse professionalità, una struttura organica ed intergrata, efficiente e veloce, capace di dare risposte valide e repentine alle problematiche dell’architettura e della pianificazione contemporanea; sull’esempio degli studi di progettazione nordeuropei e nordamericani, che contano una moltitudine di soci, consulenti specializzati e collaboratori. Tramonta quindi l’idea romantica dell’artista-architetto-artigiano alla Arrigo Rudi, scalzata dalle grandi società internazionali di architettura e di engeeniring. Proseguendo il suo discorso, Caleffi si dice favorevole alla presenza a Verona Sud di progettisti interna-

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zionali, le cui opere possono rappresentare occasione di stimolo per noi professionisti di provincia. Auspica infine una tabula rasa della selva di normative obsolete e inadatte, una riorganizzazione della pubblica amministrazione, una nuova dimensione per la nuova classe imprenditoriale; a tutto ciò ovviamente deve corrispondere una nuova e più adeguata dimensione professionale e soprattutto etica della figura dell’architetto. Carlo Alberto Cegan ha parlato della vocazione intrinseca del luogo, in contrapposizione allo strumento della perequazione urbanistica, che prevede lo spostamento di volumi edificabili, ma anche di funzioni e destinazioni d’uso. Individua nel quartiere fieristico l’elemento determinante la vocazione dell’area, ricercando nelle sue attività espositive e nell’enorme bacino di utenza le potenziali risorse per il futuro sviluppo di Verona Sud; uno sviluppo che deve perseguire obiettivi diversi dalle caratteristiche che rappresentano la vicina città storica. Proseguendo, Cegan indica nella crescita frammentaria per singole aree autoreferenziali, una delle cause della mancata realizzazione della naturale aspirazione di Verona Sud. Infine segue una critica alla mancanza di una visione complessiva e di sinergia nei piani e negli interventi varati dalle precedenti amministrazioni, rimasti almeno un passo indietro rispetto ai piani di riqualificazione realizzati in Europa, o anche rispetto ad alcuni casi italiani come la riqualificazione del Porto di Genova o della Darsena di Ravenna. In questi casi sono stati adottati infatti strumenti urbanistici innovativi molto più efficaci, capaci di stimolare un dialogo produttivo ed una dinamica cooperazione tra l’Ente Pubblico e l’investitore privato. Carlo Ferrari invece auspica un maggiore interesse per le piccole architetture, per i microinterventi in quanto, afferma, le giovani generazioni di progettisti si misureranno nel breve periodo soprattutto con progetti minori. È persuaso che la qualità architettonica nasca dal basso, dalle piccole opere, per poi crescere progressivamente. Quindi ritiene doveroso riqualificare quei ritagli urbani in cui la città non è definita, non è compiuta. Senza cadere però nella semplificazione del mero arredo urbano. L’architetto Ferrari nel suo intervento accenna an-

che al concorso di architettura che, se ben fatto, può essere un mezzo per far emergere i giovani progettisti. In sintesi egli afferma che, se ogni professionista, sia esso imprenditore, amministratore o progettista, compisse con onestà etica il suo ruolo lo scenario collettivo ne gioverebbe. Dopo tale premessa, Ferrari traccia una veloce analisi per punti della Variante Gabrielli, della quale critica la difficile concretizzazione e la mancanza di una programmazione degli interventi. A suo modo di vedere, prima di ogni altro intervento si dovranno realizzare le infrastrutture, che dovranno essere di indubbia qualità e funzionalità; strade, parcheggi, definizione di un sistema di viabilità efficace e capillare, costituiscono inevitabilmente l’emergenza primaria. Enrico Massagrande con il suo intervento ha un approccio più generale rispetto al tema trattato; egli ci ricorda che la magia di Verona vacilla a causa di una moltitudine di problematiche ambientali innescate anche da alcune scelte urbanistiche mancate. A questo proposito, egli auspica un futuro prossimo in cui le amministrazioni pubbliche, ma anche i progettisti e gli imprenditori si adoperino per agevolare ed incentivare l’ecocompatibilità e l’architettura sostenibile. Si augura infine che le amministrazioni comunali ed in genere le autorità competenti, si affidino a professionisti competenti e di rilievo non solo per la notorietà acquisita, ma soprattutto per le capacità manifestate e che con questi instaurino un rapporto sinergico e proficuo. Infine sono seguiti gli interventi di Mauro Grison dirigente Pianificazione Territoriale del Comune di Verona e Paolo Boninsegna, dirigente Progettazione Urbanistica Qualità Urbana del Comune di Verona. Nella moltitudine di ringraziamenti, auspici e speranze, anche noi ci accodiamo e ci sentiamo di esprimere il nostro augurio: contiamo che l’entusiasmo, i propositi e la passione manifestati nelle critiche, nelle riflessioni, nelle proposte che si sono susseguite durante il convegno e che qui solo in parte e purtroppo sinteticamente sono state testimoniate, non svaniscano a breve tramutando il convegno nell’ennesimo rituale sterile ed autoreferenziale. Nicola Brunelli


Alla fine della Fiera... c’è il risiko urbano Per una volta, lasciamo da parte gli accademismi. Vista da fuori, la vicenda di Verona Sud, da inscriversi nel più ampio ridisegno strategico che intende tracciare il Piano di Assetto del Territorio, non suona poi tanto diversa da quella di altre realtà urbane italiche. È la perenne storia di poteri forti contrapposti, rispetto ai quali il momento pubblico si trova costretto a destreggiarsi attraverso sottili equilibrismi, ormai privo del potere negoziale che lo contraddistingueva in epoche passate. E se lo zeitgeist odierno implica fatalmente una doverosa quanto opportuna concertazione, alla fine una decisione va pur presa. Magari con il coraggio di dar continuità ad azioni pianificate da una giunta precedente di colore diverso. Magari consci che i tempi della politica (e del ritorno d’immagine) non coincidono con quelli lunghi delle trasformazioni fisiche del territorio (con magari altri soggetti che si arrogheranno meriti non loro). Spesso, invece, si preferisce rimettere tutto in discussione a ogni giro di walzer, anche solo per partito preso: talvolta, più si allarga l’entità dell’oggetto da ridefinire, tratteggiando nuovi scenari futuri, più rischia di latitare il momento decisionale. Eppure in gioco c’è un comparto urbano davvero strategico: per dimensioni, storia, collocazione, potenzialità. Un comparto che, adeguatamente trasformato, non costituirebbe un semplice tassello della periferia che si riqualifica, bensì un possibile vero e proprio nucleo alternativo a quello di antica formazione, dotato di una sua identità. Sarebbe il biglietto da visita per uno degli accessi veicolari nevralgici alla città: quello dall’autostrada Torino-Trieste. E proprio i veicoli paiono essere il principale oggetto del contendere, con le necessità manifestate dall’ente Fiera a servizio (pare esclusivo) degli operatori: paradossale emblema di un modello di sviluppo urbano che tenta di limitare ma che al contempo alimenta tale forma di mobilità. I parcheggi, ancor più se recintati, non accrescono la qualità della vita di uno spazio. In compenso, implicano la «migrazione» di proposte per destinazioni d’uso, di piani urbanistici (e talvolta di soluzioni architettoniche già sviluppate) da un sito all’altro, con

buona pace sia degli elaborati grafici destinati così solo agli archivi, sia dell’approccio progettuale contestualista al luogo specifico. E infine, è lecito avanzare dubbi sull’imparzialità delle perorazioni di un assessore ai Lavori pubblici a favore della Fiera, quando ne è egli stesso un alto dirigente. L’auspicio è, per questa città cui sono particolarmente legato, che sappia «comporre» i conflitti tra i vari attori della trasformazione senza cedere alla legge del più forte, al fine di cogliere un’occasione di riplasmazione forse irripetibile. Luca Gibello (caporedattore de «Il Giornale dell’Architettura»)

Un contributo di Giorgio Ugolini Mentre stava lavorando al Paqe, a qualcuno venne l’idea di chiamarlo Cardo. Ebbe successo, ed oggi denota ormai in modo metaforico e stringato uno dei primi problemi locali di progettazione urbana. Ad ogni modo, è noto a tutti come quella strada sia nata, a partire dagli anni trenta, per connettere importanti funzioni urbane che si andavano via via realizzando: il mercato ortofrutticolo, i magazzini generali, la fiera, la zai (oggi detta storica), l’autostrada. È noto a tutti come quella via, pur in prosecuzione di una delle più belle porte sammicheliane, non vada da nessuna parte, non ricalchi segni del territorio storicamente consolidati, come accade invece per le vie che escono dalle altre porte sammicheliane, ed anche da quelle non sammicheliane. È soprattutto a partire dalla costruzione della zai storica che quella via diventa un problema di progettazione. Nasce come una mera strada di distribuzione locale (non più importante di altre, o forse solo un poco di più) di una lottizzazione ingombrante e, all’inizio, con poche o nulle finalità di rendita. Come tale essa cerca aree di scarso valore, lontane dalle grandi direttrici territoriali invece già interessate dai primi effetti del nascente boom: Borgo Roma da un lato, Santa Lucia e Golosine

dall’altro ed in mezzo una lacuna da riempire. Ma quello scarso valore dura poco, anche a causa della scelta del luogo del casello autostradale di Verona Sud, ma soprattutto per una diffusa incapacità (o non volontà) dei governi locali che si sono succeduti di controllare che nelle aree (urbanizzate con risorse pubbliche) non si innescassero processi di valorizzazione immobiliare e fondiaria e soprattutto che gli effetti di questi non fossero privatizzati. È così che si forma un asse urbano primario ed incompiuto, nel quale oggi vediamo il citato problema di progettazione urbana. Che fare? Confermarlo e rafforzarlo come asse urbano principale, oppure riportarlo alla sua origine di via di lottizzazione? Nel primo caso, l’intervento più urgente appare quello del suo efficiente collegamento con la tangenziale sud, oggi assolutamente penoso. E subito dopo si pone la questione della conferma, oppure della ristrutturazione (probabilmente consistente nella sua inversione), oppure dello spostamento del casello autostradale. Occorre avere presente che una simile scelta (la conferma cioè) implica la prosecuzione dei processi di valorizzazione della aree della zai storica e quindi diventa delicata la regolamentazione

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della loro trasformazione. Nel secondo caso (via di lottizzazione), l’intervento più urgente appare quello del rafforzamento e della razionalizzazione delle connessioni da est ad ovest, oggi in più punti tortuose e discontinue. E subito dopo si porrebbe la questione della conferma della localizzazione, oppure del trasferimento di alcune importanti funzioni urbane. E quindi si pone anche la riflessione intorno alle nuove funzioni che lì sono previste. Occorre avere presente che una simile scelta (completamente alternativa l quella precedente) dovrebbe fare i conti con il livello che i processi di valorizzazione delle aree della zai storica hanno già raggiunto e con il loro prevedibile rallentamento. Quello che sembra apparire chiaro dalle considerazioni fin qui svolte è che una volta scelto l’obiettivo che si vuole perseguire (asse urbano o via di lottizzazione?) le opportune azioni ad esso conseguenti e coerenti possono essere individuate, si fa per dire, con relativa facilità. E con simile facilità ne possono essere visti anche gli effetti collaterali, se non fosse che tra tali effetti c’è anche sempre lo spostamento di milioni e milioni di euro. Infatti il problema non è nelle azioni conseguenti, che sono un fatto di tecnica e di professionalità che dobbiamo pensa-

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re gli addetti ai lavori posseggano. Il problema è nella individuazione degli obiettivi, che invece un fatto di strategia politica. Dove vogliamo andare? Dove vogliamo che questa città vada? Come è potuto accadere che i governi locali diversi che si sono susseguiti, portatori di esperienze e valori diversi e spesso tra loro fieramente avversi, in questa materia abbiano avuto in comune una sorta di insipienza bipartisan? A loro parziale attenuante penso che può essere dipeso anche dal fatto che la strategia non è stata trovata perché è stata cercata dove non c’era. Essa infatti è stata per lo più cercata nella città, nell’idea che questa possieda una dimensione compiuta entro la quale far tornare gli equilibri. E invece la compiutezza non è più l’attributo della città, di nessuna città che si trovi in una porzione ampia di territorio economicamente sviluppata e poco accidentata (megalopoli). Altri usano altri termini ed altre espressioni per esprimere un unico concetto: che qualunque problema di progettazione urbana che superi il livello del vicinato è affrontabile solo in riferimento ad una dimensione territoriale che ha ormai trasceso città e villaggi, fatta di reti infrastrutturali materiali ed immateriali, dove persone, merci, informazioni ed idee si muovono incessantemente. A fronte di una simile situazione, difficilmente contestabile con argomenti diversi da quelli spuntati della nostalgia, il quadro attuale delle istituzioni non pare sufficientemente adeguato. Un solo auspicio: che chi è investito di responsabilità di governo (sia pure locale) non si senta appagato solo dal navigare a vista tra le piccole aspettative, ma comprenda tutta intera la necessitò di una profonda modernizzazione delle istituzioni locali. E che in tale direzioni si attivi. Giorgio Ugolini Nella pagina precedente: Centro direzionale Europa a Verona Sud (Giorgio Ugolini, Giacomo Gabrieli – Architetti&Associati, 2005). A sinistra: edificio per uffici e piastra parcheggio Europark. Committente: Generalbau S.p.A. Progetto: Giorgio Ugolini, Giacomo Gabrieli – Architetti&Associati, 2006 - proposta di PIRUEA.

Verona Sud - il futuro di Verona Con l’approvazione definitiva del PAT da parte della Giunta Regionale il 20 dicembre scorso, Verona ha, dopo 32 anni, un nuovo strumento di programmazione urbanistica, che apre le porte alla pianificazione comunale. Il PAT è infatti lo strumento di pianificazione che delinea le scelte strategiche di assetto e di sviluppo per il governo del territorio comunale, individuando le specifiche vocazioni e le invarianti, in conformità agli obiettivi ed agli indirizzi espressi nella pianificazione territoriale di livello superiore ed alle esigenze dalla comunità locale. Per Verona Sud, il PAT, recependo e sviluppando le direttive e le prescrizioni del Piano d’Area del Quadrante Europa (PAQE), ed in particolare le varianti 1 e 2, si caratterizza: a) Nell’individuazione dell’ambito delle aree strategiche per la riqualificazione, riconversione e ristrutturazione delle aree produttive di Verona Sud; b) Nella individuazione dei contesti territoriali destinati alla realizzazione di programmi complessi (Ex Scalo Ferroviario, le aree dell’ex Mercato Ortofrutticolo, dei Magazzini Generali e le aree limitrofe comprese nel P.R.U.S.S.T., ed infine il deposito Ex Gasometro AGSM ed area limitrofa); c) Nel recepimento della scheda di riorganizzazione urbana e riqualificazione paesaggistica del Quadrante Europa, prevista dalla variante 2 al PAQE, e del compendio immobiliare Ex Cartiere, previsto nella variante n. 1 al PAQE; A seguito della proposta di accoglimento di una specifica osservazione operata con deliberazione del Consiglio Comunale n. 96 del 30/11/2007, la Giunta Regionale ha approvato il PAT accogliendo l’osservazione tendente ad unificare in un unico ambito di ristrutturazione la ZAI e Basso Acquar, coinvolgendo direttamente anche i quartieri di Borgo Roma e Golosine/S. Lucia. Ciò modificando il PAT adottato dalla precedente amministrazione, che aveva previsto due zone di ristrutturazione della ZAI storica e l’inserimento di Basso Acquar ed i quartieri nella città consolidata. Tale modifica permetterà al P.I. di procedere ad


una progettazione unitaria ed integrata della ristrutturazione della ZAI, in relazione ai quartieri di Borgo Roma e Golosine/S. Lucia, differenziandone vocazioni e carichi urbanistici e distribuendo le potenzialità edificatorie in modo da salvaguardare l’identità delle zone residenziali e delle dotazioni di standards e servizi. Inoltre le nuove funzioni potranno essere meglio distribuite sul territorio, evitando una eccessiva concentrazione volumetrica. Fanno parte di questi interventi tutti gli ambiti individuati nella tav 4 come: di “riqualificazione e riconversione e di ristrutturazione” e quelli destinati a “programmi complessi”. Sono due categorie che si differenzieranno tra di loro per le dimensioni, le modalità di attuazione e gli attori proponenti. Dal punto di vista urbanistico invece sono tutti volti alle rifunzionalizzazione di parti di città esistente attraverso operazioni di totale riprogettazione morfologica e tipologica. Inoltre per la loro collocazione sono accomunate dall’alto carattere di urbanità. Potranno essere privilegiati conseguentemente insediamenti aventi destinazioni miste nei quali la residenza, che sarà l’elemento funzionale di connessione, si alternerà al commercio, al terziario e al direzionale. Le analisi condotte hanno peraltro confermato le potenzialità delle aree sia in termini urbanistici che economico-finanziari. Questi ambiti sono concentrati soprattutto nella Zai storica lungo l’asse di V.le del Lavoro dove è in atto un processo di profonda ristrutturazione e riconversione con l’insediamento di un numero sempre maggiore di attività e di funzioni di tipo terziario, che provoca un crescente addensamento delle edificazioni, con diffusi fenomeni di congestione, resi più gravi dalla assoluta inadeguatezza della maglia stradale e dalle dimensioni degli isolati. Intervenire in maniera programmata in questi ambiti assume una grande importanza perché può dare continuità al processo di trasformazione di Verona Sud, iniziato con la programmazione degli interventi del PRUSST. Gli interventi, inquadrati in una progettazione complessiva della Zai storica, possono avere un ruolo trainante nella ristrutturazione delle aree di contorno.

L’attenzione è naturalmente concentrata lungo l’asta casello autostradale-V.le del Lavoro-P.ta Nuova, ma la progettazione è estesa anche alle aree retrostanti sulle quali saranno previsti interventi di ristrutturazione urbanistica integrata che andranno a saldarsi con i quartieri di Golosine-S.Lucia da una parte e B.go Roma dall’altra dando corpo all’integrazione edilizio-urbanistica e funzionale delle due parti di città divise dalla zona industriale. È necessario che nel portare avanti queste operazioni l’intero sistema di Verona Sud (Golosine /S. Lucia, Zai storica, Tomba/Borgo Roma) sia considerato, in quanto altamente integrato, in maniera unitaria. Per questo motivo, nelle proposte di riutilizzo, si dovranno possibilmente evitare le zone monofunzionali: la residenza, gli uffici e i servizi si dovranno alternare e mescolare in ogni intervento, nell’intento di riproporre ogni volta un insediamento che ricordi il tradizionale quartiere piuttosto che un centro direzionale o un quartiere dormitorio. La struttura urbana della Zai storica è nata su un impianto stradale che ha cercato di inglobare tracciati preesistenti rinunciando a determinare un reticolo morfologico di riferimento, cosi che gli isolati si sono riempiti in modo irregolare tanto da rendere impossibile l’identificazione del rapporto tra i lotti, gli edifici e soprattutto tra gli edifici e la strada. Perciò il primo problema che si pone nella progettazione della Zai storica sta nella definizione di una nuova morfologia urbana, che legandosi ai grandi capisaldi esistenti ridisegni un nuovo tessuto connettivo che sostenga l’impianto urbano della nuova città. Questa operazione perché possa avere successo e sia sostenibile, dato il forte aumento di carichi urbanistici, dovrà accompagnarsi alla reinfrastrutturazione dell’asse di Verona Sud. Essa dovrà essere posta con priorità e come condizione necessaria a qualsiasi azione di ristrutturazione urbanistica di questa zona. La scelta più importante e impegnativa, anche dal punto di vista economico riguarderà la realizzazione di un nuovo sistema di trasporto urbano, di tipo veloce ed alta frequenza che, parten-

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do da un grande parcheggio scambiatore posto oltre il casello autostradale, raccolga i flussi e li convogli lungo l’asta di V.le del Lavoro, Stazione di P.ta Nuova e Centro Città dove sono localizzate le funzioni urbane più importanti e di prestigio. Solo così il grande aumento dei carichi, sia in termini di edificabilità che di traffico, potrà essere sostenuto dal nuovo impianto urbano e non andrà a scaricarsi, con effetti negativi facilmente prevedibili nelle zone circostanti. I nuovi assi portanti dell’intero sistema sono: - il Viale del Lavoro – Viale delle Nazioni in senso nord-sud; - l’asse Via Po – Viale dell’Industria e l’asse Via Fermi – Via Gioia – Via Pasteur in senso est-ovest. Questi assi, (tranne l’ultimo più legato al sistema industriale) vanno pensati come assi urbani – viali alberati interni ad un tessuto urbano denso di relazioni, di funzioni tipiche della città residenziale e non della città produttiva. Ciò significa una proposta di ristrutturazione e di trasformazione del tessuto esistente sostenuto da una densità edificatoria opportuna per ricreare il rapporto tra gli spazi liberi (le strade) ed i servizi (verde e parcheggi) e l’edificato tipici della città. All’interno di questo impianto si collocano in maniera determinante i quartieri di S. Lucia, di Golosine e di Borgo Roma – Tombetta che presentano al proprio interno una loro struttura ed un relativo grado di autonomia. Il quartiere che presenta i maggiori problemi di

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1. CittĂ della trasformazione Verona Sud, Circoscrizione 04-05 2. Simulazione della congestione veicolare nello scenario di progetto senza e con la realizzazione di TRM 3. Polo fieristico 4. Individuazione dei contesti territoriali destinati alla realizzazione di programmi complessi 5. Scheda di riorganizzazione urbana e riqualificazione paesaggistica - Quadrante Europa 6. Veduta aerea di Verona Sud 7. Individuazione delle aree strategiche per la riqualificazione, riconversione e ristrutturazione delle aree produttive di Verona Sud 2

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frammentazione e necessità di ricucitura urbanistica ed edilizia è quello di Golosine che si presenta a nuclei e con caratteristiche edilizie molto diverse a sud e a nord di Via Po. Questo morfologia, oltre alla presenza di molte aree libere ancora non utilizzate può dar luogo ad una ricomposizione del quartiere ed ad una maggior relazione dello stesso con S. Lucia e con Borgo Roma. Il quartiere di S. Lucia presenta alcuni problemi di riordino e di riqualificazione funzionale soprattutto lungo la Via Mantovana. Collegano i due quartieri le Vie Po, dell’ Industria, della Polveriera, su cui si affacciano molte aree libere che possono diventare il luogo di aggregazione di un sistema del verde tale da formare un vero e proprio Parco Urbano. L’area oggi occupata dai binari ferroviari (ex scalo), tra la stazione e Golosine potrà essere interpretata come un’area di completamento del borgo e come opportunità di realizzare insieme un sistema abitativo, un centro direzionale e un parco. Lungo Viale del Lavoro – Via delle Nazioni potranno essere previste le trasformazioni maggiormente strategiche, tenendo conto dei programmi di sviluppo del Polo Fieristico e recuperando alla città quella che un tempo è stata la zona industriale storica. Occorre notare come la parte orientale del “Cardo Massimo” presenti le opportunità maggiori di trasformabilità. A ridosso di quest’area si colloca il quartiere di Borgo Roma che risulta il più complesso e unitario dei quartieri della città. Il sistema di piazze e di slarghi oggi esistenti potrebbero essere riqualificati e altrettanto si può ipotizzare lungo Viale dell’Industria – Via della Polveriera Vecchia. È inoltre da affrontare il problema del traffico di attraversamento del quartiere e la dotazione di verde. Ma la questione centrale, e dalla quale dipenderà l’intero esito del processo di trasformazione di Verona sud, riguarda la ristrutturazione della fascia centrale della ZAI storica, da porre in relazione allo sviluppo del Polo Fieristico. È certamente un’operazione molto complessa,

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lunga ed impegnativa, ma indispensabile, in quanto il valore strategico, dal punto di vista urbanistico, per il futuro di Verona è indubbio. Da come il Piano degli Interventi saprà dare una risposta efficace a tali problematiche e prospettive, dipenderà ogni futura possibilità di riorganizzazione e di riequilibrio del sistema produttivo ed urbano di Verona. Luciano Marchesini (Direttore Area Gestione del Territorio Comune di Verona)

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