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indagine sullo stato dell'architettura veronese parte seconda: l'architettura degli spazi del lavoro progetti e realizzazioni: castiglioni, contec, beozzo, archingegno, arteco, mangiarotti, caccia dominioni_ albanese, la fabbrica per l’uomo _ croset su gino valle _ volkwin marg sul progetto per la fiera_ aurelio galfetti a villa il girasole _ lavori in corso: santa marta _ mostre: palladio, olivieri, lessinia di pietra architettiverona rivista quadrimestrale sulla professione di Architetto fondata nel 1959 - Terza edizione - Anno XVII n. 1 gennaio/aprile 2009 Aut. del Tribunale di VR n. 1056 del 15/06/1992 Poste Italiane Spa, spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004) art. 1, comma 1, DCB Verona

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Disegno di Legge sulla qualità architettonica

Il Disegno di Legge sulla qualità architettonica, come preannunciato dal Ministro Sandro Bondi in occasione del Congresso Mondiale di Torino, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri in via definitiva il 19 novembre 2008. Dopo il disegno di legge per la promozione della cultura architettonica e urbanistica del Ministro per i Beni e le Attività Culturali Giovanna Melandri, approvato dal Consiglio dei Ministri nel luglio del 2000, dopo il disegno di legge quadro sulla qualità architettonica del Ministro Giuliano Urbani, presentato al Consiglio dei Ministri nel marzo del 2004, ci riprova il Ministro Sandro Bondi. Nella relazione che accompagna il nuovo disegno di legge viene dichiarato l’intendimento di “(…) porre l’attenzione sul tema della qualità dell’architettura, dell’urbanistica, degli spazi urbani e del territorio attraverso il raggiungimento di più elevati standard di progettazione e di realizzazione delle opere pubbliche e delle infrastrutture, in modo da contribuire alla salvaguardia del paesaggio e al miglioramento della vita della collettività”. Tra i principi fondamentali enunciati nella relazione illustrativa, il valore culturale e sociale dell’architettura, contro la devastazione delle città dalla “bruttezza” e dal “degrado”, che genera “fenomeni allarmanti di disagio sociale”. La necessità di una disciplina organica sul tema della qualità dell’architettura, dell’urbanistica è stata “fortemente evidenziata” nel corso del XXIII Congresso mondiale di architettura promosso dall’Unione Internazionale Architetti, tenutosi a Torino. Tra le Finalità (art.1) del disegno di legge, con riferimento all’art. 9 della Costituzione viene richiamato il concetto di qualità della ideazione e della realizzazione architettonica, riconosciuta come questione di pubblico interesse in quanto incidente sulla salvaguardia del paesaggio, dello sviluppo sostenibile nonché del miglioramento della vivibilità dell’ambiente urbano e della qualità della vita. Le Amministrazioni Pubbliche, nel perseguire le suddette finalità, devono: a) promuovere la qualità del progetto e dell’opera architettonica; b) promuovere lo strumento del concorso di architettura, nelle forme del concorso di idee e del concorso di progettazione, per la progettazione degli interventi; c) favorire la partecipazione dei giovani progettisti ai concorsi di architettura; d) sostenere l’ideazione e la progettazione di opere di rilevante interesse architettonico; e) riconoscere il particolare valore artistico delle opere di architettura contemporanea;

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promuovere la continuità del processo progettuale; g) promuovere l’alta formazione e la ricerca; h) tutelare e valorizzare gli archivi di architettura contemporanea. L’Ambito di applicazione della legge (art.2) si estende ai progetti di trasformazione del territorio e ad ogni atto che riguarda l’inserimento di nuove opere nei diversi contesti naturali e urbani, gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, la tutela e valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali, la realizzazione e l’ammodernamento delle infrastrutture. Di particolare rilevanza è la Promozione dei concorsi di architettura (art.3) in particolare per l’obbligo da parte dei Ministeri per i beni e le attività culturali e delle infrastrutture per la ideazione e la progettazione di opere di rilevante interesse architettonico di ricorrere ai concorsi di architettura, e per favorire la partecipazione dei giovani progettisti mediante la previsione nei bandi di premi speciali ad essi riservati. Il Riconoscimento del particolare valore artistico delle opere di architettura contemporanea (art.4) è attuato mediante lo strumento della dichiarazione di importante carattere artistico (art.20 legge 633/1941), comunicato all’autore, al proprietario, possessore o detentore dell’opera, nonché al Comune nel cui territorio l’opera è ubicata. Il riconoscimento consente di accedere ai contributi previsti dagli articoli 35 e 37 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs n.42/2004). Le modificazioni dell’opera oggetto di riconoscimento dovranno essere preventivamente comunicate al Ministero, pena la revoca del riconoscimento stesso e la conseguente restituzione dei contributi già erogati. Premi e riconoscimenti ai progetti ed alle opere di architettura (art.5) possono essere conferiti a quegli enti pubblici e soggetti privati che si siano distinti per aver commissionato, ideato o realizzato progetti ed opere di particolare qualità architettonica o urbanistica. Il Ministero per i beni e le attività culturali cura la Conoscenza e promozione delle opere di architettura di particolare valore artistico (art.6) mediante la predisposizione, l’aggiornamento e la divulgazione degli elenchi delle opere riconosciute, che riporteranno stabilmente sul prospetto principale l’indicazione del nome del progettista, del committente e dell’esecutore nonché del riconoscimento di particolare valore artistico. La conoscenza e la diffusione della cultura architettonica, urbanistica e del paesaggio è l’obiettivo della Promozione dell’alta formazione e della ricerca (art.7) da parte dei Ministeri citati, mediante intese con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, con le singole istituzioni universitarie e sentiti gli Ordini professionali competenti .

Viene definito il ruolo del Centro nazionale per la documentazione e la valorizzazione delle arti contemporanee (art.8) con riferimento al settore dell’architettura, mediante la costituzione di centri territoriali di documentazione per l’architettura e per l’urbanistica moderna e contemporanea. Circoscritto alle costruzioni pubbliche statali è il Piano per la qualità architettonica (art.9) che redatto su base triennale, individua le linee di intervento per il conseguimento degli obiettivi indicati dal disegno di legge. Per quanto riguarda le Opere d’arte negli edifici pubblici (art.10), gli interventi, sia di nuovi edifici pubblici nonché quelli di ristrutturazione edilizia ed urbanistica esistenti, di importo superiore a un milione di euro, devono prevedere una quota non inferiore al 2 per cento della spesa totale prevista per la realizzazione dell’opera all’inserimento di opere d’arte, secondo le linee guida emanate con decreto dal Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali. Sono esentate, su espressa richiesta dei Ministeri di settore, talune tipologie di opere pubbliche. Si tratta di un dispositivo di legge in precedenza in vigore e quasi sempre disatteso. La legge del 29 luglio 1949 n.717 e successive modificazioni, recante Norme per l’arte negli edifici pubblici, viene conseguentemente abrogata. L’intenzione del legislatore di migliorare la qualità estetica delle nuove costruzioni pubbliche, valorizzando contemporaneamente le attività artigianali e artistiche locali legate alla realizzazione di opere d’arte, viene stavolta resa cogente con l’introduzione di alcune misure quali: il progetto definitivo dell’opera che non prevede l’inserimento delle opere d’arte ed il relativo costo, non può essere approvato dagli organi competenti; nelle operazioni di collaudo, il collaudatore dovrà accertare sotto la sua personale responsabilità l’adempimento degli obblighi derivanti dalla norma, ed in difetto la costruzione dovrà essere dichiarata non collaudabile. Le Regioni a statuto speciale e le province autonome, provvederanno alle finalità della legge nell’ambito delle competenze a loro riconosciute (art. 11). Va sottolineato, l’innovativo metodo promosso dal Ministro Bondi di consultazione on line del disegno di legge, finalizzato ad assicurare una maggiore partecipazione della società civile alle decisioni pubbliche, secondo le recenti tendenze in tema di produzione normativa in sede europea, dando la possibilità ad ogni interessato di formulare osservazioni e proposte inviando una e- mail all’Ufficio legislativo del Ministero. Il provvedimento legislativo è ora all’esame del Parlamento. ARNALDO TOFFALI

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CONSIGLIO DELL’ORDINE Presidente: Arnaldo Toffali - Vicepresidente: Paola Bonuzzi Segretario: Enrico Savoia - Tesoriere: Giancarlo Franchini Consiglieri: Filippo Bricolo, Vittorio Cecchini, Gian Maria Colognese, Susanna Grego, Mario Lonardi, Raffaele Malvaso, Andrea Mantovani, Michele Moserle, Paola Ravanello, Paola Severoni, Paola Tosi

Editore Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Verona Redazione via Oberdan, 3 - 37121 Verona tel. 045 8034959 - fax 045 592319 architetti.verona@libero.it

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Editor Filippo Bricolo

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Questo numero è stato curato da: A. Vignolo e F. Bricolo Si ringraziano per la preziosa collaborazione: Enrico Malli e Ettore Valori (Studio Mangiarotti), Enzo e Raffaello Bassotto Concessionaria esclusiva per la pubblicità: Promoprint Verona - Stefano Carli - tel. 335 5984516 fax 045 8589140 - info@promoprintverona.it Stampa Cierre Grafica - via Ciro Ferrari, 5 Caselle di Sommacampagna (Verona) tel. 045 8580900 fax 045 8580907 grafica@cierrenet.it - www.cierrenet.it Gli articoli e le note firmate esprimono l’opinione degli Autori, e non impegnano l’Editore e la Redazione del Periodico. La rivista è aperta a quanti, Architetti e non, intendano offrire la loro collaborazione. La riproduzione di testi e immagini è consentita citando la fonte.

disegno di legge sulla qualità architettonica Arnaldo Toffali oltre il capannone Filippo Bricolo

spazi e luoghi per il lavoro: progetti e realizzazioni

Direttore responsabile Arnaldo Toffali

Redazione: Dario Aio, Andrea Benasi, Angelo Bertolazzi Berto Bertaso, Nicola Brunelli, Roberto Carollo Laura De Stefano, Lorenzo Marconato, Alberto Vignolo, Alberto Zanardi

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cantina cubi a verona Giovanni Castiglioni cantina valentina cubi Claudia Conforti, Marzia Marandola magazzini frigoriferi a san martino b.a. Contec utilitas, firmitas, venustas Lorenzo Marconato centro stampa athesis a sommacampagna Stefano Beozzo lo spunto della funzione Giovanni Iacometti torre uffici calv a verona Ferrari_Pontiroli/Archingegno la torre del calv a verona Michele Franzina uffici e showroom franke a peschiera d.g. Arteco la costruzione del paesaggio industriale Marco Ardielli due sistemi costruttivi per due concessionarie Angelo Mangiarotti società cattolica di assicurazione a verona Luigi Caccia Dominioni lcd: disegnare gli spazi per il lavoro a cura di Laura De Stefano

anno 2008

spazi e luoghi per il lavoro: esperienze e riflessioni critiche 69 70 78

la fabbrica per l’uomo Flavio Albanese learning from gino colloquio con Pierre-Alain Croset memorie di adriano: un ingegnere che amava l’architettura Roberto Carollo

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palladio cinquecento anni: una mostra lessinia di pietra. razionalità e armonia di un’architettura vernacolare per ricordare l’architetto rinaldo olivieri ancora sul moderno nella città antica un ricordo di lorenzo rosa fauzza dall’eden bolzanino metropoli per principianti lavori in corso: santa marta un libro sulla gran guardia guadalupe e carmela

forum per l'architettura di qualità 94 100 106

lo stato dei luoghi Enzo e Raffaello Bassotto una diversità salutare Aurelio Galfetti l’ampliamento della fiera di verona: un’occasione perduta? Volkwin Marg


In copertina e in queste pagine immagini tratte da E. Turri, La megalopoli padana, Marsilio 2000

oltre il capannone filippo bricolo

Per anni, il capannone, è stato il braccio armato dell’impresa veneta. Alla base del suo successo vi sono stati molti fattori: - il capitalismo molecolare che ha sostituito, nel nord-est, il modello tayloristico-fordista della produzione pesante; - la conseguente necessità della moltiplicazione degli edifici produttivi sul territorio: uno per ogni piccola impresa; - la messa a disposizione, da parte della politica e delle amministrazioni locali, di una quantità abnorme di lottizzazioni artigianali e industriali; - l’assenza di una riflessione sulle conseguenze urbanistiche e sociali di tali scelte; - il declassamento dell’architettura da strumento essenziale per il miglioramento della qualità della vita degli uomini a mero strumento di soddisfazione della bulimia edilizia di una economia fertile; - il dilagare di un sistema costruttivo basato sulla interpretazione più sterile della prefabbricazione e sulla rinuncia, da parte degli architetti, al progetto e quindi ad uno dei principi basilari del loro statuto professionale. Dal dopoguerra ad oggi, il dilagare indisturbato del capannone nella pianura padana, è stato incentivato da tutti i livelli della società. Gli imperativi dominati sono stati due: l’eliminazione di ogni ostacolo allo sviluppo e lo sfruttamento di tutti gli strumenti possibili per agevolarlo. In questa logica, il capannone, nel suo basico modello di copertura e mero confinamento di uno

spazio vuoto riempibile di ogni funzione, è stato lo strumento giusto al momento giusto, la pagina bianca sempre pronta su cui scrivere la storia esemplare dell’affrancamento dall’indigenza. Ma se il capannone è stato il veicolo del miracolo, il paesaggio, l’architettura, il sogno di modelli di vita migliori sono diventati le sue vittime sacrificali. L’eccezione di un atteggiamento sfrenatamente liberista che, nella fase embrionale della crescita, era giustificato da reali e oggettive necessità è diventata nel tempo consuetudine. E come tutte le abitudini ripetute all’infinito, buone o cattive che siano, ha infine raggiunto lo statuto definitivo di tradizione. Tra gli alleati del capannone il più fedele è stato l’urbanistica. L’elaborazione dei piani regolatori sul dogma inviolabile dei quattro pilastri della zonizzazione (centro storico, zona industrialeartigianale, zona residenziale e zona agricola) ha creato e istituzionalizzato l’habitat in cui esso si poteva e doveva sviluppare fino alla saturazione dei metri quadri disponibili. E’ stato lì, nelle zone D, nelle ZAI, nei retini a quadretti che il capannone, protetto nel recinto affidatogli negli zoo-paesi, è diventato per inerzia fenomeno culturale, parte indissolubile di una identità provinciale. Il capannone, oggi, ha raggiunto il livello più pericoloso della sua incredibile ascesa, ovvero quello dell’invisibilità tipica degli oggetti quotidiani. È la sua normalizzazione che ha reso impercettibile la sua assoluta illogicità. È quel rapporto inversamente proporzionale tra la sua

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endemica affermazione sul territorio e la sua scomparsa visiva che gli ha permesso di diventare scenografia naturale contro ogni buon senso. Come la sindrome di Stoccolma, la sindrome del capannone, prevede che l’offeso difenda l’offensore contro il suo stesso interesse. Tanto forte è la posizione conquistata dal capannone che nulla, nemmeno le grandi trasformazioni economiche susseguitesi dagli anni ottanta fino ad oggi, hanno mai seriamente intaccato la sua inviolabilità. Delocalizzazione, passaggio da società produttrice di beni materiali a società produttrice di beni immateriali, emergere di mercati alternativi a costi di lavoro bassissimi: nulla è riuscito a fermare la folle corsa del capannone. Come certi organismi capaci di sopravvivere nelle situazioni più proibitive, il capannone ha dimostrato una capacità incredibile di adattarsi a tutto. Questa facoltà gli è derivata dalla sua unica caratteristica: l’indifferenza. Indifferente al contesto (uguale in collina, in pianura), indifferente al contenuto (lo stesso edificio va bene per officina, centro stampa, ecc.), indifferente alla vita che vi si svolge all’interno, indifferente alle mode, indifferente al tempo: stà in questa sua imperturbabilità il segreto del rimanere immutato al mutare anche drammatico delle condizioni.

L’obiettivo di questa indagine è stata la ricerca e l’individuazione, sul territorio provinciale, di segnali di vita progettuale come alternative al tracciato piatto del capannone. Nelle prossime pagine verrano presentate alcune architetture selezionate dalla redazione per essere poste alla base di una riflessione sullo stato delle cose e sul loro ipotetico sviluppo. Le architetture selezionate indicano delle possibili strade da percorrere per andare oltre il capannone. Non sono capolavori dell’architettura mondiale, non sono opere ad effetto di archistar alla ricerca di un po’ di celebrità, sono invece il risultato di un dialogo serio tra professionisti e committenti che hanno intuito l’atrofizzazione e l’infertilità innovativa e creativa del capannone e hanno provato a percorrere altre strade. Troppo poco? Non sta a noi dirlo. Il compito della nostra rivista non è far classifiche o distinzioni tra buoni e cattivi, la mission di «architettiverona» è leggere i segnali emergenti nella nostra provincia e proporne una interpretazione tentando di innescare un meccanismo di discussione partendo dal nucleo della professione e andando verso la società. Sbocceranno i germogli? Il capannone, dopo esser stato più forte di tutto compreso il buon senso, sarà più forte anche della crisi?

In questo numero di «architettiverona» verrà presentata un’indagine, promossa e realizzata dalla commissione iniziative editoriali dell’OAPPC, sullo stato dell’architettura degli spazi del lavoro nella provincia di Verona.

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Officine Grafiche Mondadori, 1959 Foto di E. e R. Bassotto (particolare)

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spazi e luoghi per il lavoro: progetti e realizzazioni

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cantina cubi a verona giovanni castiglioni

Progetto e direzione lavori Giovanni Castiglioni – A.c.M.e. studio Gruppo di progettazione Raffaela Braggio, Genziana Frigo, Carlo Dusi Strutture Nicola Di Palma – Statika Impianti Ivan Travaglini Sicurezza Andrea Malesani Consulenti Leonardo Clementi, Sebastano Pagani, Marco Montresor Imprese Mantovani Leonardo & figlio (edile), Con.Fab. (carpenteria metallica e serramenti), Varana Roberto (lattonerie e rivestimenti), DS impianti (impianti idraulici), Tezza e L’Elettricista (impianti elettrici), Texarredo (parquet), Castelleti e Ciara Legnami (copertura e rivestimenti lignei); Grassi 1880 e La Pietra (lapideo); Falegnameria Zanetti (arredi interni), SVA (ascensore); Dello Iacono (resine); Fratton (pitture murali); Marina Cherubini (sabbiatura c.a.); Arredoluce (illuminazione) Cronologia progetto definitivo ed esecutivo 2002 -2006 realizzazione 2006 -2008 Dati dimensionali superficie complessiva 1.150 mq volume complessivo 6.820mc Fotografie Giovanni Peretti 1

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Situata ai bordi orientali della periferia urbana, nella zona precollinare a nord-ovest del centro di Verona, l’azienda agricola Valentina Cubi ha realizzato, tra gli ulivi e le viti che coprono i sinuosi pendii della tenuta, quella che si può definire una “cantina di rappresentanza”. I progettisti, prendendo le distanze dal disordine e dalla scarsa qualità delle costruzioni che, come la cantina stessa, prospettano su questo tratto della strada della Valpolicella, hanno cercato di rispondere con il loro intervento alle esigenze funzionali delle nuove tecnologie di vinificazione ed alla palese necessità di integrare efficacemente il nuovo manufatto in una porzione ancora non compromessa del paesaggio circostante. Il regolare volume dell’unico corpo di fabbrica, suddiviso al proprio interno in tre livelli, di cui uno totalmente interrato, cela armoniose ma spigolose proporzioni dietro alla morbida curva della controfacciata principale e dell’onda ricciuta della copertura. Questi archi di circonferenza, distribuiti sulle tre dimensioni, riecheggiano le forme naturali dei pendii sullo sfondo. Fondamentale importanza è data in tutta la costruzione all’uso di materiali semi-autoctoni e di tecnologie che permettono non solo interessanti esperimenti cromatici, ma anche impegnative soluzioni strutturali, come quella del secondo portale di ingresso. Nelle diverse destinazioni d’uso non si trovano fastidiose commistioni o spazi ibridi, poiché ciascuna delle funzioni è ben localizzata e riconoscibile. L’ingresso pubblico all’edificio avviene dal lato lungo a sud attraverso una serie di quinte

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1. Le scale e la passerella sospesa nel volume a tripla altezza dell’atrio. 2. Sezione longitudinale. 3. Veduta esterna con, in evidenza, la testata ovest dell’edificio.

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4, 5, 8. Vedute esterne. 6, 7, 9. Vedute interne.

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10. Sezione trasversale. 11-13. Piante livelli interrato, terreno, primo. 14. La cantina sullo sfondo dei pendii della Valpolicella. 15. La scala esterna tra il muro di pietra calcarea e il muro “brutalista”. 16. Veduta esterna sulla testata est.

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murarie, ciascuna in grado di distinguere fisicamente e percettivamente un diverso livello funzionale. Il primo spazio di accoglienza (scoperto) è delimitato dal retto muro di “cesti” di pietra calcarea e dalla cortina ricurva, rivestita in lastre di diverso spessore del medesimo materiale che creano, con la scala, un movimentato puzzle di sfumature ed ombre paglierine. Tramite una porta brunita, segnata anche dalla presenza di un ulivo, si entra in un suggestivo atrio, che dal piano interrato arriva in copertura e che è delimitato dal lato opposto all’ingresso da un possente muro in calcestruzzo di ispirazione brutalista, ma dal colore addomesticato. Nella tripla altezza si sviluppano spigolose le scale in acciaio che collegano verticalmente i tre livelli e la passerella, unico elemento orizzontale, che forza l’ingresso ai locali aperti al pubblico del pian terreno. La parte più privata della cantina, quella destinata alla lavorazione ed alla maturazione dei prodotti vinicoli, è tutta raccolta ordinatamente al piano interrato e si apre ai mezzi di servizio sul lato corto ad est. Al piano terra, ideato per accogliere il pubblico, si distinguono, ben assestati nella pianta libera, il montacarichi, il banco mescita, la zona degustazione, un ufficio, i servizi e la scala che porta al livello superiore che si apre a soppalco lasciando libera buona parte della pianta. Al primo piano, dove sono raccolti spazi più privati quali uffici, servizi ed un’altra sala degustazione, si possono continuare a leggere le doppie e triple altezze, grazie ai ballatoi che su di esse si affacciano. Un capitolo a parte è infine costituito dalla resi-

denza del custode (su due livelli) che, contenuta all’interno della pianta rettangolare dell’edificio, ne costituisce la testata rivolta ad ovest, segnata da un diverso andamento della copertura. Molto ricche e ricercate sono in tutta la costruzione le cromie date dall’uso di tecnologie e di materiali assai eterogenei, studiati nel dettaglio e posti in opera con estrema cura. Lorenzo Marconato

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temi Cantina Valentina Cubi Claudia Conforti, Marzia Marandola La riscoperta dell’enologia di pregio ha portato alla valorizzazione dei vini italiani e al proliferare, nella penisola, di sofisticate coltivazioni a vigneto. Sulle colline appenniniche e prealpine curatissimi filari di viti segnalano, con le loro nitide geometrie, i luoghi di produzione, dove le cantine sono diventate laboratori tecnologici che controllano ogni fase della vinificazione. Fabbriche, ma anche manifesti delle aziende vinicole, le cantine devono attestare una produzione tecnologicamente avanzata che sa conservare e coniugare l’antica tradizione della viticoltura italiana. Esse si sono affermate dapprima in Toscana, dove sono firmate da celebri architetti: dal ticinese Mario Botta la cantina Petra a Suvereto per Moretti, da Gae Aulenti la Campo di Sasso per Antinori, da Renzo Piano la Rocca di Frassinello a Gavorrano per Panerai. Sulla scia delle grandi case, anche aziende più piccole hanno mirato alla qualità architettonica per produrre e propagandare i propri vini; tra esse la cantina dell’azienda Valentina Cubi, progettata dal giovane architetto veronese Giovanni Castiglioni con AcMe studio. L’edificio sorge lungo la strada per la Valpolicella, all’interno della proprietà agricola che, coltivata a uliveti e vigneti, è immersa tra boschi e frutteti, in un’area punteggiata da laboratori artigiani e da piccole serre. L’assetto della cantina, che asseconda l’orografia del terreno, è regolato da un impianto rettangolare stretto e lungo distribuito su tre livelli, – lo spazio della cantina vera e propria –; su un lato lungo è addossato un volume curvilineo, destinato ai servizi e ai percorsi verticali. Castiglioni in questo piccolo, ma complesso manufatto, punta a un effetto di sottili contrappunti, che interpretano il senso profondo del paesaggio collinare, modellato da una millenaria azione dell’uomo. Così in primo luogo alla semplicità geometrica dell’impianto contrappone un alzato variamente declinato da

sequenze di pareti tessute di materiali diversi ed eterogenei. Questi setti murari enfatizzano con sobria eleganza la varietà cromatica e materica che si rivela sotto l’ondulata copertura di brillanti lamiere in zinco-titanio poggiata su travi di legno lamellare. Dal viale di accesso si snoda il percorso pedonale che, separato dalla rampa carrabile più esterna, costeggia la cantina e passa davanti all’alloggio del custode, la cui presenza è segnalata fin dal lontano nel profilo dell’edificio: infatti in quel punto la copertura compie uno scarto sbarazzino e impertinente. L’ingresso dei visitatori è ritagliato tra la parete di contenimento del terreno, realizzata con gabbie metalliche riempite da pezzame di pietra di Vicenza, e un setto impercettibilmente curvato in pietra chiara, tessuto in maniera da creare tasselli lapidei diversamente sporgenti e geometricamente controllati. L’espressività materica dei setti verticali, che delimitano il passaggio di accesso, trova un contrappunto orizzontale nella pavimentazione, rustica e sofisticata a un tempo, in cemento e porfido, che si estende a regolarizzare lo spiazzo antistante, conferendogli la grazia accogliente di un sagrato antico. All’interno, dove una passerella aerea introduce agli spazio di vendita, di produzione e agli uffici amministrativi, le pareti in vivo cemento e le travature metalliche sono lasciate a vista: la loro esibita funzionalità strutturale e la loro onestà costruttiva traducono in architettura, immediatamente leggibile, il messaggio della genuinità non artefatta della produzione vinicola che lì si lavora. Al piano superiore la sala per la degustazione dei vini si spalanca, tramite una parete vetrata, sulla straordinaria vista del vigneto e delle colline circostanti, richiamando alla mente (e al palato) l’origine ‘naturale’, la radice terragna, del raffinato nettare che si degusta. Un montacarichi, ingentilito dal rivestimento in listelli di legno, e una rampa metallica dall’andamento irregolare, dalle maestranze di cantiere immediatamente denominata “la scala ubriaca”, raggiunge l’interrato dove si trovano l’ingresso carrabile per il carico e lo scarico, le grandi botti metalliche, che occupano uno spazio a doppia altezza, l’area

visitatori, la “barricaia” e il vano per la conservazione delle bottiglie antiche di pregio, una sorta di archivio storico vinicolo. Le pareti cementizie, esternamente intarsiate da lamine di zinco-titanio con inserti di multistrato okumè, un legno africano, sono visivamente staccate dall’ondulata copertura da un tagliente inserto vetrato, così che la copertura sembra galleggiare lieve e sinuosa contrapponendosi ai saldi volumi scatolari del corpo di fabbrica. La variegata ed eterogenea commistione di materiali e di colori è tenuta acrobaticamente in equilibrio dal progettista, grazie alla perfetta disciplina dei volumi, alla meticolosa cura dei dettagli costruttivi e ai misuratissimi accordi cromatici e di superficie dei materiali, che si amalgamano nella luce, dialogando armoniosamente con il dolce paesaggio collinare.

Claudia Conforti insegna storia dell’architettura alla facoltà di ingegneria di Roma Tor Vergata. Autrice di diversi studi sull’architettura del Cinquecento toscano e romano, si è occupata estesamente anche di architettura contemporanea. Suoi scritti sono stati ospitati dalle principali riviste internazionali e fa parte del comitato di redazione di “Casabella”. Marzia Marandola è laureata in ingegneria edile (2002) all’Università di Roma Tor Vergata, dove ha conseguito il dottorato di ricerca (2006) su Riccardo Morandi ingegnere. Insegna Storia dell’architettura alla facoltà di Ingegneria di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato su riviste italiane e internazionali scritti sull’architettura moderna e contemporanea, e sui modi e le tecniche del costruire.

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magazzini frigoriferi a san martino b.a. contec

Progetto architettonico e direzione lavori CONTEC Ingegneria Spa Progetto strutture e sicurezza CONTEC Ingegneria Spa Imprese Mazzi Impresa generale costruzioni Spa (edile); Ferrarini Spa (prefabbricati); Holzbau Spa (opere in legno); Megadar Spa e Hedar Spa (carpenteria metallica e copertura); GEA Technofrigo (progetto e realizzazione impianto frigorifero); CEV srl (progetto e realizzazione impianto elettrico) Committente Aia Spa Cronologia progetto preliminare 1999 progetto definitivo ed esecutivo 1999-2000 realizzazione 2000-2002 Dati dimensionali area intervento 150.000 mq superficie coperta 50.000 mq volume totale 600.000 mc superficie magazzino frigorifero 12.000 mq volume magazzino frigorifero 250.000 mc Importo opere 25.000.000 7

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1. Planimetria generale. 2. Prospetto.

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Disposto letteralmente al confine tra il territorio del Comune di Verona e quello di San Martino Buon Albergo, si trova il centro amministrativo, produttivo e logistico della nota azienda veronese AIA Spa. Composto di diverse unità edilizie aggregatesi negli anni in cui il polo è cresciuto, stabilì la propria attuale configurazione nel 2002, grazie alla realizzazione del magazzino frigorifero automatizzato, della piattaforma per le spedizioni e di un nuovo padiglione produttivo, su progetto della veronese CONTEC Ingegneria. L’imponenza non solo dimensionale della composizione strutturale, il suo discostarsi dalle ritrite soluzioni architettoniche adottate per impianti simili, la particolarità della funzione del magazzino e, non ultima, l’efficacia dell’inserimento in un sistema ambientale complesso, fanno di questo progetto un ottimo esempio da citare e riprendere. Limitandosi per il momento a considerare il magazzino frigorifero come elemento di particolare valore architettonico, si è colpiti allo stesso tempo dalle dimensioni dello stesso – 84 per 123 metri in pianta e 18 di altezza in sommità – e dalla armonica pulizia della candida curva della copertura. L’intero volume del fabbricato – 250.000 mc. – è diviso al suo interno in due campate, una di 30 ed una di 54 metri, ciascuna delle quali accoglie una diversa funzione. Nella campata minore sono localizzate le zone di carico e scarico delle merci, in quella maggiore invece il vero e proprio magazzino automatizzato. Tutto il volume dell’edificio deve mantenere una temperatura interna costante pari a 0° C ed è proprio da questa necessità che nascono la for-

ma e la struttura portante della costruzione. La brillante intuizione dei progettisti ha permesso di risolvere, dopo alcuni tentativi, un problema di tipo impiantistico-funzionale con una morfologia ed una soluzione tecnologica altamente performanti, con un’ottima ricaduta sull’estetica dell’edificio. La morbida curva della copertura, sostenuta da una struttura realizzata interamente in legno lamellare, permette all’aria fredda di circolare costantemente all’interno dei due grandi vani senza che siano installati ovunque vistosissimi ed onerosi – in tutti i sensi – condotti per l’areazione forzata. Dall’interno dunque si legge inequivocabilmente l’ardita bellezza delle travi lenticolari, la cui briglia superiore è composta da due elementi identici affiancati e quella inferiore da un singolo elemento. Una sola fila di pilastri, anch’essi in lamellare, divide e sostiene le due campate al centro. Ciascuna trave della campata minore – lo schema strutturale è seriale – poggia ad un’estremità su un puntone che ne prosegue la curva, assestandosi all’esterno del fabbricato su imponenti rostri di calcestruzzo. Tutte le connessioni tra elementi verticali ed orizzontali balzano agli occhi dell’osservatore più attento per l’efficacia e la semplicità delle soluzioni adottate (spinotti passanti, cunei e cerniere). La struttura secondaria è costituita da normalissimi arcarecci longitudinali poggianti sull’estradosso delle travi lenticolari. Su di essi è steso il singolare pacchetto di copertura (tre strati di pannelli lignei e due di diversi materiali isolanti), che dal punto di vista termico funziona esattamente all’inverso

rispetto alle normali costruzioni, tenendo all’interno dell’edificio il freddo ed all’esterno l’aria più calda. Il rivestimento esterno della lunga curva, quello che le da il colore bianco lucido e cangiante a seconda delle diverse condizioni di luce, è costituito da una serie di fasce di alluminio verniciato, lunghe ben 90 metri, profilate direttamente in opera da speciali macchinari. La bontà di questo intervento si misura anche considerando il riuscitissimo inserimento ambientale, leggibile soprattutto dal versante sud del polo, interamente riconfigurato dai nuovi padiglioni. Risalta la compattezza, le proporzioni e la gerarchia dei volumi, l’eco delle retrostanti colline mimate dalla copertura curva ed i preziosi ed innumerevoli colori riflessi dai candidi rivestimenti di questo docile mastodonte. Lorenzo Marconato

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3, 8. Vedute esterne 4, 7. Schemi assonometrici della struttura lignea della copertura. 5. Particolare dell’attacco a terra di una trave lignea. 9. Le capriate lignee durante il montaggio. 6, 10. Prospetto e sezione trasversale.

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11. Veduta dall’intradosso delle travi lenticolari della copertura. 12. L'insediamento con il profilo delle colline retrostanti.

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temi Utilitas, firmitas, venustas Lorenzo Marconato Sebbene il padiglione dei magazzini frigoriferi AIA si faccia notare da chi percorre le vie in uscita da Verona in direzione est verso San Martino Buon Albergo, per le sue imponenti dimensioni e per il fervente via vai di autoarticolati che ne animano i verdi dintorni, non è certo per la sua pachidermica silhouette che lo si può annoverare tra i più pregevoli esempi di architettura industriale della nostra provincia. Da un lato stanno le esigenze di una funzione assai particolare, una colossale cella frigorifera divisa in due scompartimenti, ciascuno a sua volta specializzato, dall’altro la necessità di riconfigurare un’ampia porzione del polo produttivo e con esso tutto l’ambiente circostante, mediante l’inserimento della nuova imponente struttura. Nel mezzo, naturalmente, le brillanti idee di uno studio di progettazione integrata come CONTEC che, invece di rimanere imbrigliato in banali soluzioni da “squallidi capannonari”, con argute ma lineari intuizioni, è riuscito a trovare uno stabile equilibrio tra le questioni del progetto. Dalla funzione nasce direttamente la forma del padiglione frigorifero: elemento cardine del progetto. E la forma stessa è lo strumento che permette di ridisegnare l’aspetto esteriore e la percezione dell’intero complesso. Questo proget-

to vive di stimolanti dualismi ed apparenti contrasti. Pregevolissime per la loro semplicità ed eleganza sono tutte le soluzioni strutturali e le tecnologiche adottate. Travi lenticolari, pilastri, puntoni ed arcarecci in legno lamellare, sorridono nel loro stabile assetto statico, proprio nelle visibili e sobrie connessioni. Dall’esterno del fabbricato, se si esclude la sagoma stessa dell’edificio, gli unici elementi che denunciano la mirabile costolatura interna, sono i puntoni lignei che proseguono la morbida curva della copertura, sino ad assestarsi su solidi ed eleganti rostri in calcestruzzo: a loro volta elementi ordinatori degli spazi esterni ove brulicano i tir in frenetica attività. Se ci possiamo permettere un’appunto a questo progetto, è proprio nel rilevare il non aver saputo completamente trasporre all’esterno, tramite delle sobrie o velate trasparenze, tutto il valore intellettuale e fisico della nervatura portante. Probabilmente anche la connessione al corpo di fabbrica che ospita le linee di produzione, sul fronte sud, con qualche semplice artificio, avrebbe potuto meglio evidenziare l’autonomia figurativa del padiglione voltato. Riguardo i dualismi propri dell’intera composizione, che di fatto ne costituiscono l’animo, è necessario rilevare che l’ottimo progetto riesce a coordinare con eleganza le particolari esigenze dei fruitori e le dimensioni richieste da un’attività del genere, con l’impatto che un volume così cospicuo avrebbe potuto avere su un ambiente naturale che, prima dell’intervento, si trovava in precario equilibrio. La docile curva della copertura ed il cangiante livore dei rivestimenti esterni,

le ombre stesse ed i colori riflessi, in un rapporto di continui richiami figurativi con lo sfondo collinare, addomesticano efficacemente il pachiderma che si assopisce sul tappeto verde dell’ampia area circostante. Oggetti apparentemente fuori scala sono in realtà ben integrati nel paesaggio. Dalla funzione e dal funzionamento dell’edificio nasce la sua forma (utilitas); dalla forma gli artifizi costruttivi necessari a concretizzarla e sostenerla (firmitas); dalla morfologia dei singoli elementi e dell’insieme ne scaturisce la bellezza propria del costruito (venustas) che, non da ultimo, in sé riflette l’armonia ed i colori del paesaggio precollinare. Il cerchio è presto chiuso. L’operazione sembra quasi semplice a questa lettura, ma se realmente fosse così facile creare l’equilibrio tra le parti, ci troveremmo a percorrere amene periferie industriali che invece il nostro territorio non conosce.

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centro stampa athesis a sommacampagna Stefano Beozzo

Progetto architettonico Studio di Architettura Stefano Beozzo Direzione lavori arch. Stefano Beozzo Impianti elettrici e meccanici Ingea Strutture ing. Gino Ferrante Localizzazione Caselle di Sommacampagna (VR) - Autostrada A4 Milano – Venezia Committente Società Editrice Arena S.p.A. – Gruppo Athesis S.p.A. Destinazione d’uso Rotativa 1: L’Arena - Il Giornale di Vicenza Bresciaoggi Rotativa 2: Il Sole-24 ore Cronologia Progetto 2005 Realizzazione : 2005 / 2007 Dati dimensionali superficie lotto mq. 31.000 superficie calpestabile mq. 16.500 1

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1. Pianta piano terra: a sinistra le due sale delle rotative. 2. Esterno notte, autostrada A4: le rotative in azione. (foto D.Aio)

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3-5. Sezioni trasversale e longitudinale. 4-6. Scorcio e veduta complessiva del fronte lungo l’autostrada.

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Il complesso, sito nel Comune di Sommacampagna in località Caselle, si posiziona lungo l’asse autostradale Milano – Venezia ed è composto essenzialmente di sei reparti: magazzino deposito carta, reparto fotoformatura per la preparazione delle lastre di stampa, area rotative di stampa, reparto spedizioni, volume impianti tecnici e palazzina uffici. La tipologia costruttiva è in elementi prefabbricati con solai e copertura in tegoli, con ampi lucernari piramidali, mentre i basamenti per le rotative sono in cemento armato realizzato in opera; le pavimentazioni sono di tipo industriale con rivestimento in resina colorata, ad esclusione della palazzina uffici e del reparto fotoformatura che sono realizzati con pavimento galleggiante. Il progettista, l’arch. Stefano Beozzo, ha adottato una scelta linguistica fortemente caratterizzata dall’uso di materiali diversi come il vetro, l’acciaio, il cotto e lo zinco-titanio abbinati con abilità ed equilibrio, con la finalità di alleggerire il grande involucro industriale, superando la logica standardizzata dell'oramai accettato capannone industriale. Le facciate vetrate che guardano verso l’autostrada e ne costituiscono probabilmente la porzione di prospetto più interessante, hanno lo scopo di mettere in comunicazione, attraverso le trasparenze, l’esterno con l’interno produttivo, creando un’interessante continuità tra le frenetiche rotative all’opera e l’incessante transito veicolare lungo l’autostrada. Le due sale delle rotative, distinte tra loro, conservano la loro compiutezza di volumi, pur dialogando attraverso il ponte in acciaio che le collega, mentre la copertura inclinata a sezione variabile, sospesa sulla 4 finestratura a nastro, rivestita in zinco titanio, nono-

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stante la sua imponenza, sembra privata del suo peso reale, con una forma che le dona una certa snellezza. I vigorosi prospetti ad est e a ovest, dipinti di colore grigio, con un disegno a quadri rettangolari rilevati, e l’inserimento delle lunghe finestrature inclinate a nastro, vengono incorniciati agli angoli con il rivestimento in cotto che, oltre ad una continuità formale, ha anche la funzione di limitarne l’estensione lungo i fianchi del complesso concentrando l’osservazione che potrebbe altrimenti risultare dispersiva. La pulizia formale del prospetto principale, rivestito in doghe di cotto a sviluppo orizzontale, si contrappone fortemente al volume tecnico, apparentemente contrastante, di impronta high tech, suggerendo con un effetto plastico un dinamismo all’insieme. Il volume tecnico è inoltre suddiviso in due parti distinte: quella superiore curva sagomata, con una superficie di colore argento ad effetto metallico, che agisce al tempo stesso come superficie riflettente e illuminante, interrotta sul fianco est da uno squarcio dove si incuneano, allineati, imponenti canali in acciaio, ed una parte inferiore di colore azzurro, leggermente arretrata, con una sequenza ritmica di lesene di inclinazione variabile. L’intervento dell’architetto si prefigge di proporre una architettura “industriale” che elabora un nuovo linguaggio sul piano estetico e comunicativo, fuori da schemi rigidi e precostituiti, nell’intento di suscitare nuove sensazioni di “stupore“ e di armonia, dove l’immagine tecnologica, la cura del particolare e le contrapposizioni formali, esaltano le potenzialità espressive e compositive dell’intervento architettonico. Andrea Benasi


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temi Lo spunto della funzione. A proposito del Centro Stampa di Caselle di Sommacampagna Giovanni Iacometti La questione del rapporto tra forma e funzione non sembra più essere da tempo al centro del dibattito architettonico. Dopo averlo a lungo orientato ideologicamente e averne patrocinato l’avanzamento. Tutto l’interesse sembra essersi spostato sulla questione della forma in sé e per sé, sulle ricerche interne al linguaggio architettonico, sulla sua capacità di raffigurare un mondo in modo araldico più che di rendere possibile un mondo reale, prefigurato e risolto nel suo funzionamento. La forma dichiara trionfalmente la propria definitiva autonomia dal movente pratico e la indifferenza della sua costituzione alla motivazione funzionale che viene relegata al solo momento applicativo, contingente, puramente quantitativo dell’opera. E tale fatto viene celebrato dalla critica ufficiale come una liberazione della forma da un giogo improprio, come ingresso nel regno della libertà del vero fare artistico. Le posizioni del Movimento Moderno in materia, gli stessi slogan del funzionalismo storico che in questo termine avevano trovato le ragioni di una rigenerazione dell’architettura, sembrano definitivamente dimenticate. Ed esaurito, almeno per

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quanto concerne l’architettura dominante delle riviste, appare quel filone di ricerca che pone in continuità tale visione con quella dell’illuminismo. Dagli slogan di Francesco Algarotti (nessuna forma deve essere posta in rappresentazione che non sia in funzione) al discorso complessivo di Adolf Behne ne L’architettura funzionale o alla analisi di Teige sul monumentalismo di Le Corbusier, per intendersi. Sicché la famosa critica che Aldo Rossi ha svolto al cosiddetto funzionalismo ingenuo del Movimento Moderno nel suo libro L’architettura della città (1966) e il legame che tale posizione ha assunto con la rivalutazione delle forme storiche dell’architettura avrebbero stabilito un definitivo punto e a capo a favore di un atteggiamento definitivamente anti-funzionalista, utilizzabile anche da altre posizioni teoriche indifferenti al problema della eredità storica; in particolare dalle neoavanguardie che infatti hanno smesso di appellarsi ai moventi pratici per avanzare nel proprio sperimentalismo programmatico, contrariamente a quanto avveniva alle origini, ad esempio nel movimento organicista. Il discorso di Rossi, da posizioni che anelavano alla eredità autentica del Movimento Moderno, è stato infatti da più parti (oltre che da lui stesso, forse) assunto come una specie di ultima chiusura della questione che è servita anche a coloro che non praticavano lo stesso rapporto con le forme storiche dell’architettura anzi lo combattevano. Tant’è che molta della ricerca postmoderna svolta all’insegna del rinnovato rapporto con la storia e molta di quella sperimentalistica d’avanguar-

dia possono essere poste sotto la stessa insegna di chiusura della forma in un regime di totale autoreferenza e di ripiegamento compiaciuto dell’architettura sui problemi di puro linguaggio, destinati a svelarsi esclusivamente tali e quindi a perdersi nei vicoli ciechi del formalismo. Di un edificio, a meno che non sia una casa impossibilitata a dire altro che casa (ma c’è chi cerca di farle fare altri discorsi), non interessa più quel che rappresenta del suo funzionamento; interessa solo la ricerca compositiva che propone, avulsa da ogni richiamo alle forme pertinenti a quella funzione. Spesso è difficile oggi distinguere a prima vista tra una chiesa, un museo, un teatro, un municipio, una sede di rappresentanza commerciale, una discoteca, un supermercato, un auditorium e a volte anche un complesso abitativo, magari ridotto a collinetta erbosa. Non interessa, da parte dei ricercatori più innovativi in campo formale, dichiarare il mestiere dell’edificio; lo si maschera e lo si ammanta di figurazioni indifferenti al suo compito pratico. Per l’appunto si fanno proposte esclusivamente formali: scomposizioni volumetriche, elaborazioni plastico scultoree, schermature senza facciata, esercizi e trovate tecnologiche, fantasmagorie da luna park, eccetera. Sembra che il compito della fabbrica edilizia debba essere sollevato sempre in un’aura più elevata rispetto alla funzione ospitata o perlomeno diversa dalle aspettative, sublimata nei migliori dei casi, comunque travisata. E non appare più attuale dirlo in modo onesto, il suo compito specifico, nemmeno evocando qualche funzionamento analogo, salvo gli escamotage del formalismo stilistico minimalista.


7-8. Prospetti.

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L’edificio industriale qui presentato, il cui autore ho conosciuto di recente e per caso, per fortuna opera in una direzione opposta e fa piacere riscontrarne tale virtù con immediatezza, avvistandolo dall’autostrada e affiancandolo per qualche istante, come mi capita spesso di fare provenendo da Milano, prima di piegare per la Brennero verso Modena. Non solo perché mostra nella testata vetrata del corpo principale quel che c’è dentro e illuminato, di sera lo espone, per così dire, in vetrina. Si comprende subito che, oltre a farlo, cerca di dire quel che fa - albergare una grossa macchina da stampa con le funzioni annesse - e di manifestare questa sua intenzione evocando un mondo di fabbriche industriali simili, seppure cercando di nobilitarne il retaggio. Il funzionamento della forma cerca un clou dove dire l’oggetto industriale che ospita e innesta le relazioni analogiche necessarie. Nell’evocare ad esempio un salon des machines, sia dentro che fuori, con le finestrature alte sui lati ciechi, come nella miglior tradizione della fabbrica industriale, con i piloni rustici sul davanti a presidiare la sezione verticale - svelata - delle due aule binate e con le murature di mattoni laterali degli edifici annessi e connessi, disposti in un ordine che si intuisce necessario al funzionamento e non derivato da una scomposizione formale preventiva. Così facendo l’edificio annuncia e indica con chiarezza non solo il proprio contenuto pratico ma per l’appunto anche l’intenzione rappresentativa. Vuole dire fabbrica industriale e lo dice evocando fabbriche e rendendosi riconoscibile nella finca analogica delle fabbriche. Non cer-

ca stilismi scultorei totalizzanti e fagocitanti il senso pratico, forme e formelle plastiche forzatamente innovatrici e auto-referenziali, capaci di annunciare nient’altro che la propria virtù plastica, desideroso di diventare un oggettone giocattoloso o un giocattolone oggettoso senza scala architettonica. Seppure non rinuncia a qualche rielaborazione ornamentale: attraverso re-invenzioni decorative di elementi che stanno però dove devono stare nella tettonica canonica (vedi le sagomature-modanature di facciata della copertura principale) e non prendono potere sul tutto e sul suo ordinamento costruttivo. Il parziale resta parziale e non vuol divenire tutto rendendo tutto ornamento. L’ornamento esalta e illustra, non maschera e confonde. La funzione si fa spunto per la catena di riferimenti che instaura in rapporto alla soluzione che da e stimola l’immaginazione progettuale. Non la contraddice a priori. Merito della necessità impellente? Della grossa macchina da ospitare? C’è chi maschera e travisa credendo in tal modo di poeticizzare anche in presenza di necessità più urgenti e vuol far diventare migliaia di posti a sedere o semplici e oneste sale di riunioni sospensioni di eteree trasparenze. E così collabora irresponsabilmente a disperdere l’antico gioco di senso dell’architettura, proprio quello della forma che parla con la necessità e i suoi oggetti caratteristici e li suggerisce con sincerità; senza tradursi in architecture parlante da insegna. E ad annullare quel dialogo funzione-forma teso al consono e all’adeguato, dove la necessità pratica suggerisce alla forma una figura e un significato costantemente an-

nesso nel tempo e nel tempo la spinge sempre a ridefinirsi senza cancellare mai il proprio movente e la propria ragion d’essere. Da qui probabilmente prende lo spunto più incisivo la traccia analogica che sostiene l’immaginazione razionale del progetto.

Giovanni Iacometti (1948), si è laureato in architettura nel 1972 presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Socio dello studio COPRAT di Mantova, dal 1972 svolge attività di ricerca presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove collabora ai corsi di composizione architettonica. Dal 1992 Professore a contratto nell’area della progettazione architettonica presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano, e dal 2001 anche presso la Facoltà di Architettura di Parma. Ha pubblicato articoli su varie riviste di architettura e ricerche storiche su cataloghi di mostre.

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torre uffici calv a verona Ferrari_Pontiroli/Archingegno

Progetto Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli / Archingegno Direzione lavori e coordinamento cantiere con Paolo Girardi e Graziano Zecchinato Strutture Giovanni Montresor Imprese Fedrigoli (impresa costruttrice) Tosoni (facciate continue) Fis (finiture interne) Localizzazione via Francia 2, Verona Committente Consorzio Agrario Lombardo Veneto Cronologia aprile 2006–aprile 2007 Dati dimensionali superficie intervento: 3.600 mq volume intervento: 16.000 mc fotografie Maurizio Marcato

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Nel versante Nord dell’area del Consorzio Agrario Lombardo Veneto, accanto agli spazi già oggetto dell'intervento di Archingegno realizzato nel 2003-04 (cfr. «architettiverona», 75, pp. 34-37), si eleva la nuova torre per uffici e laboratori di sei piani, che diviene un punto di riferimento lungo il lato destro di Viale del Lavoro. La pianta è molto semplice: il vano scala e i blocchi servizi sono centrali, mentre i locali, divisi da pareti attrezzate, sono disposti lungo il perimetro completamente vetrato. Le facciate caratterizzate dal disegno della “pelle” che le modellano, sembrano voler sollecitare la persistenza cognitiva ricercando un punto d’incontro tra ordine e complessità: il disegno propone, infatti, sulla base del modulo regolare delle celle, un ritmo variabile dato dalla diversa articolazione delle fasce orizzontali in legno. Materiale che sottolinea la continuità tra il volume basso e lungo del Consorzio e la torre stessa. Il volume si presenta quindi come un parallelepipedo rettilineo e preciso avvolto da una superficie continua che si piega per adattarsi ai quattro lati dell’edificio. All’ultimo piano il volume è stato scavato sui lati più corti e precisamente a Nord e a Sud per ricavare due ampie terrazze coperte staccando così la sottile copertura piana delimitata da un bordo in alluminio bianco che si confonde con il chiarore del cielo. L’involucro è stato realizzato con la tecnologia della doppia pelle che media il rapporto tra interno ed esterno in termini climatici, acustici, energetici e luminosi. La doppia pelle è stata re-

alizzata a cellule con struttura in alluminio e vetro. La vetrata monolitica esterna è stata fissata con supporti ridotti al minimo e installata a filo con il rivestimento in legno. Le assi in legno – di lavorazione industriale atta a garantire superfici lisce e resistenti nel tempo – sono staccate tra loro permettendo la corretta aerazione della pelle e il controllo della temperatura dell’intercapedine. Tra le superfici vetrate sono alloggiate le tende a lamelle per il controllo della luce diurna. Di notte le tende scendono e vengono illuminate in modo uniforme da fibre ottiche. In modo tale l’edificio diventa una metaforica lanterna che ne accentua il suo ruolo di emergenza architettonica nell’intorno costruito. Andrea Benasi


1. La torre del Calv e, sullo sfondo, l’edificio del “Bauli”. 2. Piante dei piani terra, tipo e quinto. 3. Prospetto e sezione longitudinale.

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4. Il fronte su Viale del Lavoro con in primo piano il corpo dei laboratori. 5. Sviluppo del disegno dei prospetti. 6. La "torre" in una veduta dal basso. 7. L’involucro con la facciata continua (foto D.Aio).

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temi La torre del CALV a Verona di Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli (Archingegno) Michele Franzina Uno dei filoni più stimolanti dell’attuale ricerca architettonica ha come obiettivo -più o meno dichiarato- quello di rappresentare la complessità dinamica della società contemporanea. Il modo più semplice e immediato per aderire a un programma così ambizioso consiste nell’adottare forme sinuose -oggi non a caso tanto in voga-, nel ricorrere ad effetti speciali e sensazionalistici, nell’enfatizzare gli aspetti plastici e scultorei. La domanda che ci poniamo è: oltre a queste soluzioni, a cui si uniformano molte cosiddette archistar, esiste un altro modo per coniugare il dinamismo, anche esasperato, della nostra epoca con la staticità congenita all’architettura? Alle porte di Verona sud, lungo l’asse che conduce al centro storico, emerge dall’anonima edilizia industriale che caratterizza l’area, un nuovo oggetto architettonico: la torre del Consorzio Agrario Lombardo Veneto, progettata dallo studio Archingegno (Carlo Ferrari e Alberto Pontiroli). La torre è parte integrante di un intervento di riqualificazione di una vasta area, destinata ad ospitare la sede centrale del CALV, in cui hanno già trovato collocazione uffici, laboratori, officine e show room.

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Nella parte sud, verso via Francia, il programma funzionale ha previsto la riconversione di un grande magazzino esistente. Il progetto per ragioni derivanti dalla normativa cogente e da urgenze temporali, si è adeguato ai profili e alla volumetria preesistenti. Ai progettisti quindi non rimaneva che lavorare sull’involucro dell’edifico, sulla sua pelle. Lungo il lato nord dell’area è stato realizzata una torre per uffici e laboratori di sei piani fuori terra, che sfrutta l’altezza massima di 27 mt. concessa dal regolamento edilizio. La disposizione planimetrica è molto semplice: si tratta di un rettangolo di 15 x 40 mt., caratterizzato dalla presenza di un nucleo opaco al centro del corpo di fabbrica, che ospita i collegamenti verticali, i cavedi impiantistici e i blocchi servizi. Lungo il perimetro vetrato si dispongono i locali interni, divisibili da pareti attrezzate al fine di garantire la massima flessibilità. La massa volumetrica è compatta, un parallelepipedo regolare scavato all’ultimo livello sulle teste nord e sud per ricavare due ampie terrazze coperte. La copertura piana risulta in questo modo “galleggiante”, il cui sottile bordo in alluminio bianco quasi si smaterializza confondendosi, nella vista dal basso, con il chiarore del cielo. Alla semplicità della composizione in pianta e del volume si contrappone la ricercatezza del disegno dell’involucro. La facciata continua è stata studiata come se fosse una superficie unica, bidimensionale ed estendibile all’infinito. Analogamente ad uno

spartito musicale, il disegno propone, sulla base di un modulo regolare, un ritmo variabile dato dall’articolazione delle fasce orizzontali, dall’alternanza di opacità e trasparenza, dall’espressività dei materiali utilizzati (legno e vetro). Essa è stata pensata come un nastro continuo che solo alla fine, a seconda della lunghezza dei prospetti e della divisione dei locali interni, è stato tagliato, piegato e articolato a comporre i quattro lati dell’edificio. Il disegno a fasce perimetrali, sempre variabili in altezza, produce l’illusione di un numero maggiore di piani rispetto ai cinque effettivi. Concorre alla fluidità di tutti i prospetti il trattamento degli spigoli (dettaglio su cui molto spesso si misurano le reali capacità di un progettista), in questo caso ridotti a un minimale giunto siliconico perfettamente allineato alla linea verticale della facciata. Vista la localizzazione lungo un importante asse viario di penetrazione, la percezione dell’edificio avviene di fatto esclusivamente in movimento. Nella composizione dinamica della facciata si rivela quindi la sensibilità dei progettisti, che hanno saputo cogliere l’essenza del luogo (o del “non luogo”?). Un edificio che interpreta a proprio modo la confusione visiva ora esistente nella periferia di Verona Sud; che vuole diventare un “marcatore territoriale” senza scadere in un banale mimetismo formalista. Tecnicamente l’involucro è a doppia pelle in grado di garantire comfort climatico, acustico e luminoso. Il sistema di facciata è stata realizzato a cellule con struttura in alluminio e vetro; Il vetro monolitico esterno è fisso, con supporti ridotti al

minimo, e montato a filo con il rivestimento in legno. Le tavole in legno sono staccate tra loro permettendo la corretta aerazione della pelle e il controllo della temperatura dell’intercapedine. Tra le superfici vetrate sono alloggiate le tende a lamelle per la regolazione automatica della luce naturale diurna. Sobrietà del linguaggio architettonico, pieno controllo della sintassi, raffinatezza delle soluzioni di dettaglio sono solo gli aspetti più evidenti di questa architettura e rientrano nella cifra formale dell’intera produzione di Ferrari e Pontiroli. In realtà il contributo più originale e sorprendente della torre del CALV, ci pare risieda nella sua capacità di essere dinamica senza rinunciare al rigore euclideo, complessa pur rimanendo essenziale, eloquente senza diventare chiassosa.

Michele Franzina, architetto, membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Nazionale di Architettura e vice presidente di InArch Veneto.

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uffici e showroom franke a peschiera d.g. arteco

Progetto architettonico Arteco – Architecture Engineering Consulting s.r.l. Direzione lavori: Luigi Calcagni Impianti elettrici e meccanici: Ingea Strutture: Ing. Lorenzo Aldrighetti Sicurezza Set Studio Energia Territorio s.c.r.l. Ing. Marco Messetti Imprese Cooperativa di Costruzioni soc. coop. a r.l. (impresa costruttrice) Gelmini Cav. Nello S.p.A. (impianti meccanici) Antonini S.p.A. (impianti elettrici) Localizzazione: Peschiera del Garda (Vr) Committente: Franke S.p.A. Cronologia progetto preliminare: 2003 progetto definitivo ed esecutivo 1° lotto: 2003-04 realizzazione 1° lotto: 2004-05 progetto definitivo ed esecutivo 2° lotto: 2005 realizzazione 2° lotto: 2005-06 Dati dimensionali superficie complessiva: mq 4.669 superficie uffici: mq 1.480 superficie showroom: mq 630 superficie mensa: mq 580 superficie sale riunioni: mq 556 superficie spazi tecnici e depositi/archivi: mq 1.135

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Una filante barra argentea è l’elemento di spicco e di riconoscibilità della nuova sede direzionale della ditta Franke, punta di diamante di un vasto progetto di ristrutturazione e ampliamento dell’intero sito produttivo di Peschiera del Garda elaborato dallo studio Arteco. Posta in allineamento alla strada di accesso agli stabilimenti per assecondare le esigenze viabilistiche dei mezzi di produzione, la palazzina degli uffici diviene simbolicamente, oltre che di fatto, la nuova porta di accesso al complesso, anteponendosi ai preesistenti fabbricati disomogenei per epoca di realizzazione e fattura. La configurazione a ponte richiama l’antecedente illustre degli uffici Zanussi a Porcia di Gino Valle (195961), assumendo come principio insediativo una analoga volontà di ordine e di argine alla proliferazione incontrollata dei manufatti dell’architettura industriale. Nell’esempio attuale qui illustrato, la figura architettonica del ponte viene resa evidente dalla netta distinzione tra il volume superiore destinato agli uffici, un compatto corpo lineare lungo 112 metri e caratterizzato dal rivestimento in lastre di alucobond grigio acciaio, e i volumi inferiori, che appoggiandosi al suolo ne seguendone le variazioni, e che palesano in termini di autonomia volumetrica e materica i differenti usi: l’ingresso con la portineria, lo showroom, l’auditorium aziendale e la mensa. L’arretramento della portineria rispetto al filo superiore del corpo degli uffici ne rende evidente l’appoggio sulle colonne circolari bianche, realizzate in calcestruzzo armato con casseforme me- 1


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1. Il “ponte” dall’interno del campus aziendale. 2. Il volume in aggetto dell’auditorium e la facciata vetrata dello showroom. 3. Pianta dei piani terra, mezzanino e primo. 4. Planimetria generale. 5, 6. Le due testate dell’edificio.

talliche, a reggere l’aggetto dei solai prefabbricati in c.a. precompresso. Dall’altro versante del varco di accesso, lo showroom è caratterizzato invece come una grande vetrina a doppia altezza, lasciando trasparire al proprio interno un piano sospeso, retto da tiranti d’acciaio ancorati alla struttura principale: come in un gioco di scatole cinesi, un ponte dentro all’edificio a ponte. Il volume estroflesso dell’auditorio rompe la linearità del fabbricato con il tagliente piano inclinato della facciata di testa, che appoggiandosi al suolo in corrispondenza della zona sistemata a prato è intersecata dalla scala di sicurezza, intesa in questo caso non un semplice obbligo normativo, ma come occasione di estro formale. La terminazione ad emiciclo della mensa aziendale conclude per contrappunto la geometria del complesso. L’acceso colore rosso del volume dell’auditorio è un inevitabile richiamo alla cromia del logo aziendale, così come l’argento della “barra” allude alla lucentezza dell’acciaio, materia d’elezione della ditta produttrice di lavelli ed elettrodomestici per la cucina. Con questa realizzazione, lo studio Arteco prosegue una collaudata tradizione di esattezza tecnologica e appropriatezza produttiva, che bene si confà allo spirito dell’architettura per l’industria.

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7. Disegno di dettaglio della struttura sospesa all’interno dello showroom. 8-10. Prospetto sud ovest, sezione trasversale e prospetto sud est.

7. Disegno di dettaglio della struttura sospesa all’interno dello showroom. 8-10. Prospetto sud ovest, sezione trasversale e prospetto sud est. 11-12. Lo showroom: veduta interna e veduta esterna notturna.

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11-12. Lo showroom: veduta interna e veduta esterna notturna.

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13. Veduta esterna da sud. 14. Il complesso industriale in una veduta aerea.

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temi La costruzione del paesaggio industriale Marco Ardielli Immaginiamo un paesaggio, alla fine degli anni ’60. La sommità di un colle, un poggio dal quale con un unico sguardo è possibile ammirare il paesaggio rurale, il lago di Garda, il fiume Mincio, oasi naturalistiche di rara bellezza. L’autostrada corre vicino, segno tangibile delle modificazioni in corso. Su questo colle, nel 1969, si impianta il nucleo originario dello stabilimento della Franke – Italia. Due capannoni-magazzino segnano la spinta propulsiva verso il mercato internazionale dell’azienda svizzera nata nel 1911 come semplice laboratorio artigianale. Lo spazio della fabbrica cresce e si sviluppa coinvolgendo l’ambiente circostante, chiamato a dare risposte concrete alle nuove esigenze funzionali. Ciò che avviene dalla fine degli anni ’70 ad oggi è di fatto il consolidarsi di un luogo della produzione, sempre più complesso e articolato e per questo più incisivo nella trasformazione della geografia del territorio. All’interno di questo processo trasformativo si inserisce la realizzazione della nuova sede per uffici, showroom, mensa realizzata da Arteco tra il 2003 e il 2006.

Il progetto di architettura è chiamato a interpretare e realizzare le nuove esigenze degli spazi della produzione e al tempo stesso a rappresentare l’immagine dell’azienda, oggi leader mondiale del settore. La forza e la qualità del progetto presentato stanno proprio qui: nelle modalità con le quali ha saputo dare risposta e interpretare la “filosofia” aziendale e nel ruolo attribuito al nuovo edificio. Due le parole chiave che a mio avviso –ricordando le Lezioni Americane di Calvino- permettono di cogliere la novità del progetto: esattezza e visibilità. Esattezza, del segno architettonico con il quale Arteco dimostra il pieno controllo espressivo e tecnico di un sistema complesso interpretando in modo originale la nuova dimensione della produttività; esattezza con la quale il progetto percorre la strada della rilettura, della manipolazione e della citazione diretta a tutto campo: da Gino Valle (pensiamo al tema del grande portale che introduce al mondo della fabbrica utilizzato negli Uffici Zanussi a Porcia), a Gregotti per arrivare, azzardando, a Botta. Ma anche esattezza nel cogliere la “filosofia” aziendale, rivelando un’interessante convergenza di idee tra architetto e committente. Arteco ha saputo condensare l’immagine dell’azienda a tal punto che la stessa sul sito internet rappresenta se stessa non attraverso i prodotti ma attraverso le immagini della nuova sede. Visibilità come capacità del linguaggio architettonico di interpretare i contenuti e gli obiettivi aziendali: tecnologia avanzata, funzionalità e

qualità degli spazi, logica strutturale e riconoscibilità degli elementi essenziali. Visibilità come semplicità dell’impianto del nuovo complesso industriale al suo interno e rispetto all’organizzazione dello stabilimento: una porta, cuore delle funzioni direzionali e collettive, introduce agli spazi produttivi della fabbrica: il primo piano, passante, ospita gli uffici aziendali; i “pilastri” si organizzano come moduli funzionali (show room, mensa, sala congressi). L’azione incisiva del progetto si ripercuote nei luoghi della produzione, a tal punto da divenire essa stessa simbolo dell’azienda, valore aggiunto all’elevato standard di qualità perseguito. L’elevata qualità architettonica diventa in tal senso il miglior biglietto da visita per un azienda già affermata e consolidata. Il progetto Arteco è però a mio avviso di grande interesse perché sottolinea e manifesta l’attualità del tema della costruzione del paesaggio industriale. Arteco svela infatti la necessità/opportunità della costruzione di una nuova idea di paesaggio industriale che affronti nel progetto due temi, che vuole siano centrali nel dibattito e nell’azione professionale: il primo territoriale, di relazioni e impianto urbano e il secondo architettonico, di qualità e significanza del segno. Sarà, quindi, possibile invertire l’attuale disordine e degrado generato dagli insediamenti industriali? La strada percorsa e i risultati ottenuti dal progetto Arteco fanno pensare ad una risposta affermativa.

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due sistemi costruttivi per due concessionarie Angelo Mangiarotti

Progetto architettonico Angelo Mangiarotti Direzione lavori Ing. Rubinelli (Verona) Calcolo delle strutture prefabbricate Alessandro Striscia Fioretti (Domegliara) Giulio Ballio, Giovanni Colombo, Alberto Vintani (Bussolengo) Imprese FEAL (strutture prefabbricate) Tosoni (facciate) Localizzazione Domegliara (VR) Bussolengo (VR) Cronologia Domegliara: 1968 Bussolengo: 1976 Fotografie e disegni originali Studio Mangiarotti

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1-2. Bussolengo: veduta d’epoca e schizzo di studio. 3. Veduta complessiva del fronte principale. 4. Particolare della testata della trave. (foto D.Aio) 5. La struttura in evidenza durante la costruzione.

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Il significativo corpus delle opere di Angelo Mangiarotti nel territorio veronese, assieme al centro residenziale di Murlongo (vedi «architettiverona» 81, pp. 22-29) e ad una villa nell’entroterra di Bardolino, annovera i fabbricati di due concessionarie d’autoveicoli, a testimonianza della continua ricerca del maestro milanese nel campo della progettazione per sistemi di edilizia industrializzata. Il riferimento al sistema trilitico composto da pilastro-trave-tegolo, viene nel corso degli anni costantemente affinato da Mangiarotti che, indagando le possibilità costruttive ed espressive della prefabbricazione con elementi in cemento armato precompresso, compone spazi eloquenti ed elabora straordinari pezzi di design. La Concessionaria Fiat di Bussolengo realizzata nel 1976 inaugura un nuovo sistema di elementi prefabbricati espressamente messo a punto per questo edificio, la cui immagine è caratterizzata dal profilo ad Y capovolta della trave. Viene adottata in questo caso una soluzione con trave ribassata all’intradosso della copertura, segnata dalle nervature dei tegoli larghi 2,5 metri alternati ai lucernari. La particolare conformazione del nodo trave-pilastro consente aggetti altrove impensabili nell’edilizia industrializzata. L’evidenza espressiva della sezione delle travi, posta in risalto sul filo delle facciate di spina, è segno di una leggerezza formale a cui ne corrisponde una effettiva, ottenuta con la riduzione degli spessori degli elementi costruttivi ai limiti della resistenza del cemento precompresso. Nel disegno delle

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facciate, l’iterazione degli elementi strutturali è contrapposta alle partizioni verticali, realizzate con semplici pannellature metalliche opache o alternativamente vetrate. Per la precedente Concessionaria di Domegliara realizzata nel 1968 per il medesimo committente, era stato invece utilizzato un differente sistema costruttivo, messo a punto nel 1964 per un edificio industriale nel milanese e in seguito brevettato e declinato in numerose realizzazioni, anche se seguite solo in parte dallo studio dell’architetto milanese. Il tratto distintivo di questo sistema è l’allungamento terminale del pilastro in forma di capitello pentagonale, il che consente a parità di interasse di ridurre la dimensione della trave facilitandone la trasportabilità. Inoltre, il profilo inclinato verso l’alto costituisce un invito che facilita le operazioni di assemblaggio degli elementi. Il lato superiore del capitello corrisponde alla larghezza del tegolo di copertura, ed è a sua volta modulo della lunghezza della trave. La nervatura inferiore del tegolo disegna l’intradosso degli spazi coperti, oltre a garantire una superficie piana per il montaggio dei pannelli metallici dei tamponamenti esterni. In entrambi gli esempi illustrati, il riferimento al sistema trilitico è ben lungi da qualsivoglia arcaismo: nella storia e nella memoria, Mangiarotti coglie l’essenza degli elementi della costruzione e li reimmette nel circolo della contemporaneità secondo i mezzi che gli sono consoni. Allo stesso tempo, l’adozione di sistemi prefabbricati rifugge programmaticamente

la banale povertà e grettezza a cui si è soliti associare la produzione di tali elementi, delle quali peraltro si ha prova in termini drammatici nei capannoni, nelle zone industriali e nelle infrastrutture della città odierna. Mangiarotti ha ancora molto da insegnare. Alberto Vignolo

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6. Pianta e sezione. 7. Particolare del fronte principale in una veduta attuale. (foto D.Aio) 8. Lo spazio interno della concessionaria. 9-10. Particolare e veduta complessiva del fronte posteriore. 11. L’aggetto della struttura in corrispondenza dell’ingresso.

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12-13. Bussolengo: modello della struttura e particolare del nodo pilastro-trave-tegolo. 14-15. Dossobuono: modello della struttura e particolare del nodo pilastro-trave-tegolo. 16-18. Dossobuono: veduta d’epoca, il montaggio degli elementi prefabbricati e veduta attuale.

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societĂ cattolica di assicurazione a verona luigi caccia dominioni

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1. Veduta complessiva da via Anzani. 2. Il fronte degli uffici dal giardino. 3. L’organizzazione interna degli uffici.

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Progetto Luigi Caccia Dominioni Localizzazione Lungadige Cangrande 16, Verona Cronologia 1968-1971 Fotografie Archivio Società Cattolica di Assicurazione Mario Bellavite, Dario Aio

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Luigi Caccia Dominioni nasce a Milano, dove attualmente vive e lavora, il 7 dicembre 1913. Nel 1936, consegue la Laurea in Architettura alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e apre uno studio professionale. Architetto, urbanista e designer: la sua poliedrica creatività spazia dalla progettazione di una maniglia ad un intero quartiere. Molti sono gli spazi di lavoro progettati tra i quali a Milano gli uffici Loro & Parisini (1951-57), le cinque sedi in corso Europa (1953-59, 1963-66), gli uffici della Cartiere Binda (1966), il raccordo tra la chiesa di San Fedele e la Chase Manhattan Bank di piazza Meda (1969-70), i nuovi uffici del setificio Ratti di Como (2000). Verona, oltre la sede della Società Cattolica di Assicurazione, può vantare la sistemazione di parte del palazzo sede della Banca Popolare (1995-98) e il recente complesso residenziale in Via Albere (1998-2002).

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Il progetto per la realizzazione della nuova sede della direzione generale della Società Cattolica di Assicurazione a Verona fu commissionato all’architetto Luigi Caccia Dominioni alla fine degli anni Sessanta per dare forma ad ambienti di lavoro adeguati alle esigenze di crescita e sviluppo della società. L’area di intervento fu individuata in un sito a margine del quartiere residenziale di Borgo Trento, affacciato sul fiume Adige, non lontano dalle emergenze storiche della prospiciente abbazia di San Zeno, dell’arsenale austriaco e di Castelvecchio. Alle «preesistenze ambientali» si rivolge da subito l’architetto, con un’impostazione progettuale di matrice «urbanistica» che assume in se non soltanto i riferimenti più elevati dettati dalle caratteristiche naturali e storiche del sito, ma pure quelli minori del contesto insediativo, caratterizzato dall’iterazione della tipologia edilizia della palazzina residenziale. L’articolazione dei volumi che compongono l’edificio genera una disposizione a corte, con i corpi di maggiore altezza disposti lungo i fianchi e un elemento di connessione che si distende in orizzontale a cingere Io spazio centrale destinato a verde. Uno sviluppo in altezza fino a cinque piani caratterizza i blocchi denominati, non a caso, «palazzine» che ospitano tutti i collegamenti verticali e riprendono altezze e proporzioni dell’edificato circostante; i percorsi rettilinei che servono gli uffici a ogni livello si collocano invece in posizione baricentrica entro corpi dl fabbrica allungati, il cui carattere di orizzontalità è rimarcato dal dipanarsi lungo la facciata dell’alternanza di fasce finestrate e balconate continue.

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Particolarmente suggestiva, quanto funzionale dal punto di vista distributivo è la soluzione planimetrica che prevede l’aggregazione in un unico blocco dei tre principali corpi scala circolari (con ascensori, cavedi, montacarichi e tutto l’insieme dei vani tecnici e di servizio), in modo tale da liberare per gli uffici tutta la superficie servita dalle finestre. Il cuore della composizione è costituito però da quello spazio vuoto che l’architetto ha saputo sospendere tra il fiume e la città per farne un glardino, in modo che gli ambienti destinati al lavoro ne godessero il respiro, la luce e i colori. All’unità dell’insieme riconducono la copertura a falde in coppi, l’intensità uniforme della tinta originaria rosso-mattone e la presenza di un basamento perimetrale continuo in pietra di Prun con funzione di seduta e attacco a terra. Ricorrono anche molti altri elementi del lessico compositivo di Caccia Dominioni: dall’erosione degli angoli delle palazzine, che si fanno convessi per accogliere la discesa della gronda, al disegno raffinato di recinzioni, ringhiere e grigliati verticali in ferro, all’utilizzo di elementi lapidei monolitici dalle forme tondeggianti come basamenti dei pilastri e paracarri. L’utilizzo dei ballatoi in facciata per il passaggio degli impianti, che garantisce l’assoluta indipendenza tra le funzioni manutentive e l’operatività degli uffici, è l’emblema di un approccio progettuale estremamente pragmatico, volto a garantire soluzioni sempre funzionali ai problemi posti dalla committenza. L’architetto ha esteso la sua progettazione allo

studio degli interni: la disposizione modulare delle pareti mobili degli uffici in legno di teack e vetro, il disegno delle porte laccate e dei diversi tipi di corpi illuminanti, le maniglie, i corrimano e tutti gli arredi funzionali alle diverse attività presenti nell’edificio. Mario Bellavite, Paolo Pieri (estratto da Stile di caccia. Luigi Caccia Dominioni. Case e cose da abitare, a cura di Fulvio Irace e Paola Marini, Marsilio 2002)

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4. Prospetto su via Calatafimi. 5. Sezione trasversale. 6-7. Veduta aerea e planimetri generale. 8. Pianta piano primo (livello uffici).

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9. Prospetto su Lungadige Cangrande. 10-11. Vedute attuali (foto D.Aio) 12. LCD (foto M.Bellavite)

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temi Luigi Caccia Dominioni: disegnare gli spazi per il lavoro a cura di Laura De Stefano Abbiamo incontrato l’architetto Caccia Dominioni nel suo studio milanese di Piazza Sant’Ambrogio, all’interno dell’edificio da egli stesso realizzato nel 1947-50, che rappresenta in maniera esemplare alcuni tratti salienti della sua architettura: il felice rapporto con il contesto e le preesistenze ambientali, il razionalismo non dogmatico, il realismo costruttivo, l’eleganza schiva. A Caccia Dominioni, che prosegue instancabile ed impegnatissimo la sua attività professionale, nonostante la veneranda età lo ponga di diritto nel novero dei grandi vecchi dell’architettura, abbiamo chiesto alcune riflessioni sugli spazi e i luoghi per il lavoro a partire dal progetto per la sede della Cattolica di Verona. Ai lettori di «architettiverona» l’avvertenza di figurarsi questo sintetico resoconto della conversazione come le note a margine di un disegno, fluente e continuamente inventivo, che l’architetto Caccia ci ha generosamente tratteggiato.

Com è nato e Come come si è c sviluppato s iil progetto ddella Società Cattolica di C AssicurazioA ne? Come si è rapportato con rappo elementi “forti” gli elem presenti nella zona, San Zeno, Castelvecl’Arsenale e con il chio, l’Arse quartiere circostante?

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La Ca Cattolica mi aveva indicato la località e messo a

disposizione il terreno per la costruzione di una sede per la direzione e per i nuovi uffici della società. Il terreno si presentava più o meno come un quadrato prospiciente quattro strade, tra cui un lungadige. Ho pensato allora quale fosse la soluzione più semplice e più facile per risolvere i vari problemi sia funzionali che di ambientazione nella zona. Come in tutta la mia esperienza, ho cercato di progettare delle costruzioni che urbanisticamente si inserissero abbastanza bene nel tessuto circostante, prendendo come riferimento le altezze esistenti; sul fronte anteriore, non avendo vincoli, sono stato più libero, dedicando una vasta area al giardino. Su tale fronte, come pare logico, ho creato il maggior numero di aperture che illuminano gli uffici e premettono a chi lavora di godere del meraviglioso affaccio sul fiume. Mi faceva piacere confrontarmi con Castelvecchio e San Zeno e speravo che la mia costruzione fosse abbastanza bella e non sfigurasse rispetto a loro! Adesso spero che mettano a posto i colori delle facciate: ci sono sette diversi colori, mentre dovrebbe essere uno solo. Lei ha affermato che “se un architetto vuole bene operare deve cominciare il proprio lavoro dall’interno piuttosto che dall’esterno: la disposizione di ogni singolo arredo condiziona la disposizione interna dell’alloggio e di conseguenza delle facciate; anche se faccio un grattacielo, la facciata nasce dal letto”. Questo vale anche per gli spazi di lavoro? E qual è l’elemento di partenza? Io mi definisco un “piantista”, uno specialista in piante, non in alberi, ma in piante! Quando progetto un appartamento studio prima le piante. Per esempio, adesso sto progettando un albergo a Sanremo e dal disegno può vedere la perfezione della pianta. Credo che nessuno disegni mai una pianta così... Ogni camera ha una terrazza e una finestra, così ognuno ha la sua vista, ma nessuno può essere visto. Ogni progetto è studiato fin nei minimi particolari dall’inizio. Quando penso a tutti i grattacieli curvi che stanno costruendo qui a Milano, penso

che sono tutte storie, sono invenzioni per l’esterno, non per l’interno. Io invece parto dall’interno: prima devo essere soddisfatto dell’interno in modo totale e poi mi preoccupo dell’esterno. Qui nell’albergo sono partito dal letto: due letti uniti fanno il letto matrimoniale, quindi io parto da questa misura che può andare bene sia per il letto unito che per il letto diviso. L’armadio è dentro una nicchia; dalla porta di ingresso non si vede il letto. Insomma un modo di lavorare intenso sulle basi, in modo che poi tutto il progetto si sviluppi senza problemi. Per progettare degli uffici si parte dalla scrivania semplice, doppia; dalla scaffalatura, partendo comunque sempre dall’uomo. La manutenzione degli edifici è un fattore importante nella progettazione. Come ha impostato la soluzione in questo fabbricato? A Milano nel fabbricato della ditta Loro & Parisini, che purtroppo adesso hanno quasi disfatto, c’era un altro genere di problematiche: esisteva già uno stabilimento e mi avevano richiesto degli uffici. Allora io ho disegnato una cabina di comando sospesa sopra la costruzione esistente e lì ho sistemato la direzione. Con questo elemento ho dato carattere e forza all’intera costruzione. Nel palazzo delle Cartiere Binda ho progettato la facciata in modo che ognuno avesse la sua finestra e la sua luce. La testata è invece completamente dedicata ai servizi e questa specie di scriminatura che caratterizza il fronte, sono in realtà le canalizzazioni che passano sotto i balconi e vanno ad inserirsi nei vari locali per il condizionamento: una soluzione abbastanza interessante, che ho ripreso anche alla Cattolica. Quella specie di poggiolo, in realtà è uno spazio dove passano gli impianti che poi si distribuiscono nei vari locali, con facilità di ispezione e manutenzione. Questo permette di intervenire in caso di necessità, senza mettere sottosopra l’ufficio. Sono soluzioni pensate non solo per il presente, ma soprattutto per il futuro.

Colloquio tenuto a Milano il 23 ottobre 2008. Si ringrazia l’arch. Mario Bellavite e il suo studio.

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San Michele Extra, Tiberghien, Campo sportivo dell'Audacia (2007) Foto di E. e R. Bassotto (particolare)

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spazi e luoghi per il lavoro: esperienze e riflessioni critiche In questa sezione «architettiverona» raccoglie alcune testimonianze legate al tema degli spazi del lavoro. In particolare, l’intervento di Flavio Albanese, che come meglio specificato in seguito è frutto della sua partecipazione al Forum organizzato dalla rivista congiuntamente a Confindustria Verona, suggerisce una serie di parole chiave da porre al centro del pensiero e dell’azione dei progettisti, posti di fronte a sfide e obiettivi assai impegnativi nel mutato scenario economico e produttivo in cui viviamo. Pensando di proporre dei casi positivi legati al territorio del Triveneto, la figura di Gino Valle è emersa con evidenza grazie alla sua notevole produzione di fabbriche, magazzini, uffici e luoghi di lavoro: un corpus assai significativo all’interno dell’opera del maestro udinese, che attraverso le parole di Pierre-Alain Croset viene riproposto all’attenzione dei lettori. Da ultimo, è parso doveroso ricordare il “caso” Olivetti, che ha visto un fortissimo legame tra urbanistica, architettura e design da una parte, e il mondo del lavoro nella accezione di una complessa visione politica e sociale dall’altra. Un’esperienza unica e probabilmente irripetibile, legata al momento storico in cui si è svolta e alla figura del suo artefice Adriano Olivetti, ma che rimane un modello esemplare. (A.V.)

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LA FABBRICA PER L’UOMO Flavio Albanese Abbiamo invitato Flavio Albanese, progettista vicentino titolare dello studio ASA Studioalbanese e dal maggio 2007 direttore della rivista internazionale di architettura Domus, in occasione di un incontro organizzato dalla redazione di «architettiverona», che si è tenuto il giorno 18 dicembre 2008. presso la sede veronese di Confindustria. Scopo di tale iniziativa era di porre a confronto, in vista dell’uscita di questo numero della rivista, il mondo dei progettisti e quello degli imprenditori-committenti sul tema degli spazi del lavoro. L’incontro si è aperto con i saluti di Andrea Bolla, Vice Presidente di Confindustria Verona, e di Arnaldo Toffali, presidente dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della provincia di Verona. È poi intervenuto portando i saluti dell’Amministrazione Comunale di Verona l’Assessore alle Attività Economiche Enrico Corsi. Di seguito, sono stati presentati due casi studio, proposti da Confindustria tra le esperienze più significative dei propri associati. L’ingegner Bruno Bigaran, direttore generale di Franke Spa, ha presentato assieme all’architetto Luigi Calcagni di Arteco i progetti e le realizzazioni del sito produttivo di Peschiera del Garda. L’ingegner Alessandro Zelger, consigliere delegato del Gruppo Athesis, e l’architetto Stefano Beozzo hanno invece illustrato la genesi del centro stampa quotidiani di Caselle di Sommacampagna. Entrambi i progetti sono illustrati ampliamente nelle pagine precedenti. A fronte di questi contributi, al momento del suo intervento Flavio Albanese non ha fatto mistero del proprio disappunto, dovuto da un lato all’impossibilità di una discussione – per il prolungarsi dell’esposizione dei due casi studio – dall’altro alla mancanza, a suo giudizio, negli esempi illustrati di risposte nei confronti delle sollecitazioni che i luoghi del lavoro pongono oggi alla cultura del progetto. Abbiamo quindi incontrato nuovamente Flavio Albanese, per non perdere l’occasione di ascoltare la sua riflessione, che pone l’uomo al centro dello spazio del lavoro. (Roberto Carollo, Alberto Vignolo)

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Cosa sono i luoghi di lavoro oggi? Una buona risposta nasce da una buona domanda, una domanda posta correttamente dal punto di vista grammaticale così come da quello linguistico. È pertanto necessario che chi si occupa di progetti di luoghi del lavoro prenda consapevolmente una posizione e decida, in anticipo su ogni risposta, quale dovrà essere il suo vocabolario in uso. Da questo vocabolario verranno attinti i lemmi necessari perché si mettano in relazione in una filiera costruttiva ed etica le varie fasi del discorso dell’architettura. È necessario decidere prima a quale registro linguistico vogliamo affidare il discorso architettonico: se sto facendo un ospedale, non utilizzo lo stesso lemmario utile per un asilo, poiché se alcuni termini non cambiano e sono condivisibili, altri invece sono specifici. Queste valutazioni dovrebbero appartenere automaticamente al sistema dell’architettura, ma in realtà assistiamo ad un evidente impoverimento, ad un depauperamento, ad una omolo-

gazione in senso tecnicistico dei discorsi usati per concepire ed illustrare i progetti: perché nessuno parla di amore, di sentimento, di aspirazioni? Perché nessuno si pone maniera seria il tema della natura e parla invece di territorio assolutamente disponibile, quando di fatto è una risorsa indisponibile? Quali sono gli atteggiamenti che si mettono in atto quando si pensa al ricovero di una attività, se non la si pone in relazione proficua con il luogo dove questa attività si insedia? Quanti metri quadrati di verde sono stati collocati dentro e fuori la fabbrica? Quanti pezzi di pelle viva si è sottratta a madre terra, come dice Zanzotto, per costruire un benessere funzionale e puntuale, precludendo l’idea di un benessere più alto? L’architetto è il primo a doversi porre questi dilemmi, senza lasciarsi scavalcare dall’urgenza del profitto. Ciò che mi fa impallidire, tuttavia, è la sommersione e lo sprofondamento del linguaggio dell’architetto - che dovrebbe essere a disposi-

Arnaldo Toffali, Flavio Albanese e Filippo Bricolo durante l’incontro presso la sede di Confindustria Verona (foto D.Aio)


zione di un profitto equo - in un gergo tecnico asettico e dis-umano. Succede quindi che l’imprenditore, che ha investito denari perché gli si consegni un prodotto che risponda a dei requisiti di tipo umanistico, si venga a trovare di fronte a risposte in cui non solo i requisiti, ma anche il linguaggio specifico di questi requisiti sono stati rimossi e non più considerati. Questo atteggiamento rivela una impreparazione, o peggio una indifferenza, da parte di chi fa il mestiere dell’architetto ed è ancora legato ad -ismi architetturali di tipo paraestetico: una indifferenza nei confronti di discipline come la sociologia, l’antropologia, la psicologia, e tutto il sistema della filosofia e dei lessici dell’umanesimo. Se l’architettura progetta spazi, questi spazi riguardano l’uomo. Perciò risulta ancora più inspiegabile l’abdicazione dei discorsi architettonici rispetto ai linguaggi che hanno a che fare con l’umanesimo. Ci si chiedeva inizialmente cosa fossero i luoghi di lavoro. Proviamo a porci la domanda da una prospettiva umanistica, chiedendoci qual è la differenza tra uno spazio occupato da un oggetto e un luogo occupato da un essere umano. C’è differenza tra merci e teste? Lo spazio per un magazzino di bulloni richiede l’identica attenzione che dedico ad uno spazio dove cinquanta cervelli vivono e lavorano, o è differente? I luoghi di lavoro sono spazi che cercano di ricucire con grande rispetto della risorsa umana un rapporto che si è alienato, forse anche con una certa indifferenza del fruitore stesso, con tante componenti del sistema umanistico. Sopra le nostre teste è passato un altro valore, quello dell’efficienza, per cui di fronte ad una spesa X doveva corrispondere un guadagno X+Y. Una logica lineare, quella dell’efficienza, che risponde al contesto della tecnica, in cui si contemplano prima i fini e poi i mezzi più redditizi per ottenerli. L’efficienza si è imposta a scapito dell’efficacia, che è un concetto molto più complesso e meno meccanico, perché tiene conto delle condizioni empiriche, oggettive e

soggettive, che possono portare ad una conseguenza. L’efficacia tiene in considerazione le premesse migliori (per esempio, la capacità delle risorse umane) e le fa lievitare per produrre conseguenze favorevoli. Oggi l’efficienza è in crisi perché non ha saputo pensarsi in termini di efficacia: perché la risorsa umana non è solo uno stipendio da versare, ma anche un soggetto che richiede gratificazioni di tipo umano. Già la definizione di “risorsa umana” dovrebbe esserci sospetta perché denuncia quanto la considerazione delle donne e degli uomini che lavorano sia compromessa con un deficit linguistico che equipara l’umanità ad una cosa di cui si ha risorsa. In questa definizione si manifesta la mancanza di un lessico: quello della percezione di un benessere soggettivo, che trascende ogni discorso quantitativo. Ritorna attuale l’esempio di Adriano Olivetti, un tipo di imprenditore sparito dalla faccia dell’Italia, il quale si preoccupava che l’uomo stesse bene in fabbrica, in colonia, nella scuola,

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nel parco pubblico, a casa sua, cioè nell’intero sistema della vita. La questione delle risorse umane, quindi, è un discorso attuale, di questi tempi. Nell’occidente in generale, siamo passati da una condizione nella quale le macchine andavano a sostituire l’essere umano ad una fase nella quale si rendono disponibili macchine tecnologicamente sempre più perfette, ma concepite e fatte funzionare da intelligenze niente affatto artificiali. Per questo motivo, ciò di cui è necessario oggi non sono più solo i denari per acquistare le macchine, ma quelli necessari alle risorse umane che servono a farle parlare, lavorare, condurle. L’attenzione si è spostata dalla techné alla psyché, e dalla meccanica dello spazio alla sua filosofia, nel rispetto dell’umanità che vi lavora. Questo spostamento d’asse radicale ha riguardato tutto il sistema post fordista e post keynesiano, facendo sì che oggi nel sistema del lavoro la questione degli spazi approntati per le risorse umane vada riformulata entro parametri linguistici completamente diversi da quelli precedenti. Cosa domanda oggi la risorsa umana?

Fa istanza in primo luogo di rispetto, di un rapporto con la natura che gli manca, di un rapporto corretto con la luce. Fa istanza perché si costruiscano dei rapporti sociali all’interno del sistema di lavoro, persi in altre condizioni – l’oratorio, la piazza, il paese ecc. Fa istanza affinché sia tenuto in considerazione l’aspetto etico, ecologico e paesaggistico che si riferisce ai luoghi di lavoro: qual è l’atteggiamento architettonico da adottare nei confronti dei risparmi energetici, dello sfruttamento del sottosuolo e di quanto sfrutto il fuori terra, rispetto all’ingombro dello skyline che mi impedisce di vedere il tramonto del sole se non dietro ad una serie di bussolotti che fondamentalmente sono semplici contenitori di merci (e di conseguenza rispetto alla responsabilità verso un fruitore terzo danneggiato dall’ingombro di una azienda di cui non è direttamente beneficiario)? Queste istanze non si risolvono in un progetto efficiente che usa i termini della tecnologia, molto semplicemente perché i lemmi di queste istanze appartengono a un vocabolario di tipo umanistico.

Non è sufficiente parlare di benessere per le risorse umane solo in termini di disponibilità economiche. Certo questo è importante: ma è altrettanto fondamentale ripristinare una proporzione tra quantitativo e qualitativo che oggi non regge, essendo tutta sbilanciata verso l’ordine del misurabile a discapito di quello umano. Eppure l’uomo porta con sé nel luogo dove lavora, e dove trascorre più tempo che con i propri familiari, tutto un afflato umano o umanistico. Questo ordine degli affetti, delle percezioni e delle sensazioni, dell’etica e dell’estetica, è quanto nel racconto degli architetti protagonisti dell’incontro è andato perso. Io penso, invece, che i progetti di spazi produttivi abbiano senso solo se c’è mutualità: solo se esiste una comunicazione e una circuitazione di istanze che si esprimono attraverso sistemi linguistici differenti, si dà luogo architettonico. Non c’è nessun sistema produttivo che funziona se una parte è ignara dell’altra. Una buona risposta nasce quindi non solo da una eccellente domanda, ma anche da una condizione mutuale, da un reciproco ascoltarsi: non se la premessa è unicamente la risposta ad un budget come assoluto e sostanziale supporto. L’architetto è un semplice amanuense: trascrive i desiderata della committenza, di un insieme di figure che gli chiedono di risolvere un problema nella forma calligrafica più corretta possibile. Per farlo deve saper maneggiare l’insieme dei registri linguistici con cui viene a contatto il suo esercizio, avendo consapevolezza che prima della forma calligrafica c’è il problema dell’etica.

In queste pagine: ASA Studio Albanese, Complesso Neores, Schio, Vicenza 2001 (immagini tratte da «Casabella», 699, aprile 2002, pp. 24-33).

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LEARNING FROM GINO Colloquio con Pierre-Alain Croset Il tema dell’architettura per l’industria ha avuto un interprete tra i più fecondi in Gino Valle. Opere come le celebri fabbriche per la Zanussi, o ancora quelle per le ditte Fantoni o Bergamin, sono ancora oggi esemplari per affrontare, tra l’altro, il complesso dialogo tra edifici industriali e produttivi con il paesaggio. Le idee innovative di Valle, realizzate in buona parte nel territorio del Friuli, possono essere prese come riferimento anche da una rivista come la nostra, che si concentra su un ambito locale, perché dimostrative di regole generali ed empiriche che superano i confini regionali. Il problema di porre l’architettura al centro del sistema qualitativo interessa in effetti le piccole e medie imprese di successo di tutto il nord-est. Per parlare di questi temi, abbiamo incontrato Pierre-Alain Croset, architetto e critico, che di Valle è profondo conoscitore, avendo tra l’altro curato i volumi Gino Valle. Progetti e architetture, Electa 1989, e Gino Valle a Udine, Mazzotta, 2007. (a cura di F. Bricolo, A. Vignolo, A. Zanardi).

La figura di Gino Valle è effettivamente molto importante per il tema dell’architettura industriale. Questa importanza è dimostrata da interventi esemplari come la Zanussi a Porcia e la Fantoni ad Osoppo. Si tratta infatti di grandi recinti industriali, all’interno dei quali troviamo riunite diverse tipologie di edifici: dal capannone di produzione ai servizi per l’impresa, dalle mense agli edifici di servizio, dai centro di calcolo alle strutture per il tempo libero. Entro questi grandi recinti, l’architetto ha potuto seguire e controllare, nel corso di molti anni, tutta la logica distributiva degli edifici, intervenendo sia a livello delle tipologie dei singoli interventi che a quello del masterplan. Sul tema generale dell’architettura per l’industria, che interessa la vostra rivista, l’apparente fallimento della cultura progettuale contemporanea non riguarda tanto il singolo intervento architettonico, quanto piuttosto la quasi totale sconfitta dell’urbanistica. Manca completamente la capacità di ragionare ad una scala di comparto, che consenta di ottenere un’identità architettonica o meglio urbana degli interventi. Ogni

piccolo produttore pensa solo al proprio piccolo capannone, alla propria piccola officina. Quando si programma una nuova zona industriale – nonostante la valenza pubblica che dovrebbe assumere - manca completamente la volontà di pensare ai servizi all’impresa in termini anche di architettura e di qualità. Nel caso specifico di uno degli esempi che Lei citava precedentemente, quello della Bergamin, abbiamo un interessante fenomeno di diffusione sul territorio di un “marchio di qualità” che si rappresenta prevalentemente nella forma specifica delle sue architetture. La Bergamin non produce ma è un’azienda di distribuzione: una specie di “grande magazzino” con servizio alla clientela distribuito in più edifici piccoli diffusi sul territorio. In questo caso Gino Valle ha potuto controllare un processo di progressiva qualificazione dell’immagine. Il colore rosso è l’elemento più marcante, e assume un aspetto quasi grafico che connota le diverse sedi della ditta sul territorio. Per la Bergamin Valle ha lavorato molti anni in situazioni diversificate: mentre all’inizio si trattava di costruire il primo centro

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di stoccaggio e gli uffici, successivamente fu necessario ridefinire, con l’espansione dell’attività dell’azienda, la morfologia dei magazzini nuovi o acquisiti da altre ditte. Sono tutti interventi fatti con pochi soldi: con questo Gino Valle dimostrò una volta di più la sua grande capacità di gestire molto bene il limitato budget a disposizione. Questo fatto è particolarmente importante per l’architettura industriale, che solitamente investe una percentuale molto bassa del suo volume d’affari per produrre qualità architettonica. Un’altra riflessione importante, per quanto riguarda i rapporti tra Gino Valle e l’industria, dovrebbe essere dedicata al rapporto tra il progettista e l’ufficio tecnico della ditta. Valle fu un pioniere di un modo radicalmente nuovo di progettare con gli uffici tecnici interni all’industria, iniziando con i primi lavori degli anni ’50 per la Solari e per la Zanussi. Valle amava ricordare che aveva iniziato con il design del prodotto, lavorando come consulente esterno dell’ufficio tecnico aziendale, per arrivare poi all’architettura degli edifici, che era ciò che veramente gli interessava. I primi interventi architettonici riguardavano edifici di produzione, nei quali la qualità architettonica doveva concentrarsi sul pannello di rivestimento, dal momento che lo scheletro – spesso metallico – non poteva avere una qualità propria. Si può citare a questo proposito il bellissimo intervento per il capannone della Sipre, nel quale i pannelli prefabbricati in cls vengono “incatenati” fra loro: un esempio particolarmente felice del modo in cui il disegno

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del particolare costruttivo riesce a controllare anche la grande dimensione dell’intervento. Un altro tema che ci piacerebbe trattare è quello del rapporto tra infrastruttura e paesaggio. Valle è stato uno dei primi a comprendere la potenzialità dell’infrastruttura: basta prendere l’autostrada che va da Venezia verso Trieste, per vedere come i suoi interventi rompano il tabù della opacità del capannone, generalmente chiuso e introverso come per un ideale di autosufficienza dell’impresa. Sono infatti questi interventi realizzati nei primi anni ’70 - in particolare la Dapres e la Bergamin – che hanno evidenziato l’importanza del colore per l’architettura industriale. Gino Valle ha avuto un’esperienza giovanile come pittore: già da ragazzo andava con suo padre nei cam-

pi per dipingere acquerelli di paesaggio, e da questa esperienza è nato il suo interesse per il colore. In questi interventi, Valle ha proposto di ridurre al massimo la percezione dell’architettura, che diventa una presenza quasi scultorea nel paesaggio circostante: il capannone, ridotto ad essere una semplice macchia colorata ben visibile dall’autostrada, viene velocemente e distrattamente percepito dall’osservatore che viaggia in automobile. Questa lezione di Gino Valle ci permette nuovamente di riflettere sull’impatto che può avere non solo un singolo edificio, bensì un’intera zona industriale. Il problema è che le zone industriali non sono quasi mai pensate in termini di intervento complessivo: spesso non esiste un piano unico del colore o per controllare le regole e i materiali delle superfici di rivestimento. Manca completamente una regia dell’intervento in gra-


do di qualificare complessivamente tali zone, pur nel rispetto del principio di realizzare tanti piccoli capannoni frammentati. Le opere di Valle - anche se purtroppo oggi la Dapres è stata trasformata in un irriconoscibile contenitore commerciale – hanno assunto uno statuto di monumenti nel paesaggio. È una cosa alla quale lo stesso Valle non aveva mai pensato: agiva semplicemente nella ricerca di dare qualità alla normalissima richiesta di fare un grande magazzino. Si può verificare una stessa attitudine progettuale nell’IBM Distribution Center a Basiano: si tratta di un grandissimo magazzino automatizzato, con una piccola parte di uffici, in un paesaggio ancora agricolo, il cui forte impatto è mediato attraverso l’impiego di un rivestimento a strisce di alluminio grigio-bianche che riprendono la grafica del logo aziendale. Di nuovo, l’attenzione va portata non sul singolo edificio, ma sulla metodologia d’intervento. Questo insegnamento dovrebbe interessare anche la committenza: anche gli interventi più semplici e modesti necessitano della qualità di veri architetti. E poiché i veri architetti di qualità non mancano in questo paese, mentre mancano semmai le occasioni di lavoro, il problema è proprio quello di ricorrere sempre all’invenzione e alla qualità. Non è un problema di budget: ciò che un’industria cerca abitualmente di risparmiare sull’architetto corrisponde più o meno all’importo destinato settimanalmente alla pubblicità su una pagina di un giornale locale. Bisognerebbe far capire agli industriali che investire su un bravo progettista

è un ottimo affare. Questo ci insegna l’esperienza di Gino Valle: egli ha dimostrato che l’architettura industriale - nella sua semplicità e nella sua essenzialità - può diventare una presenza qualificante nel paesaggio. Non serve intervenire come un nuovo Gaudì, o affermarsi come un architetto-artista che pretende di fare cose assolutamente originali. La sua lezione, universale, riguarda una specifica etica della progettazione, secondo la quale la qualità del progetto deve essere promossa come un valore fondamentale che richiede di essere generalizzato. Ma per ottenere questo dovrebbe essere anche rilanciata l’idea di una committenza di qualità, rifacendosi per esempio ad un industriale umanista come Adriano Olivetti. Ciò che stupisce negli edifici di Gino Valle è la capacità di creare spazi per il lavoro estremamente interessanti, anche attraverso l’uso di tipologie assolutamente insolite per l’architettura industriale come nel caso delle corti dell’edificio Bergamin. Sembra che lui abbia la capacità di prendere gli elementi più semplici e farli diventare progetto: la luce, la macchina, il rapporto tra l’edificio e la strada, tra il parcheggio delle automobili, l’ingresso… È vero, gli interventi di Gino Valle dovrebbero essere presi ad esempio da ognuno di noi in casi analoghi. Sono cose semplici che apparentemente chiunque potrebbe fare: per esempio concepire un parcheggio come un giardino in grado

di nascondere la presenza delle automobili. Purtroppo questo fatto avviene raramente. Bisogna ricordare che Valle possedeva un’abile capacità seduttiva nei confronti della sua committenza: era in grado di convincere un industriale della bontà di un parcheggio ben progettato. Abitualmente – questo vale per le zone industriali ma anche per le lottizzazioni residenziali – il problema del disegno e dei materiali della cinta, ma anche quello della piantumazione degli alberi, oppure del trattamento del parcheggio, viene lasciato per ultimo. Le imprese di costruzione trascurano l’idea che la cinta – per esempio - possa diventare momento di qualità, e la pensano quindi quasi sempre come una voce di capitolato sulla quale cercare di risparmiare qualcosa. Lo stesso avviene per i parcheggi. Nell’architettura di Valle c’è una continuità con la tradizione urbana ottocentesca – si potrebbe ricordare il caso di Vienna o di New York – secondo la quale si eseguivano strade e cinte prima di vendere i lotti dei nuovi quartieri. La città pubblica arriva fino alla cinta, oltre c’è l’individuo, il singolo proprietario che intende realizzare la propria architettura. Per Valle la qualità architettonica va concentrata anzitutto sull’importante “soglia” di passaggio tra il privato/residenza e il pubblico/lavoro. Nel caso degli uffici a corte della Bergamin,

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si deve riconoscere il valore antropologico e primario dell’insolita scelta architettonica. La “casa a corte” è un archetipo della nostra civiltà - la civiltà mediterranea - che può benissimo applicarsi ad un ufficio situato in campagna. Un ufficio, o una piccola industria nella campagna, assume un valore di “atto di fondazione” che è una cosa ben diversa rispetto al contesto di una vasta zona industriale di una grande città sviluppatasi a partire dai primi anni del ‘900. Gino Valle non aveva pregiudizi, e riusciva a convincere anche i committenti apparente-

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mente più difficili riferendosi a valori umani primordiali. Mi piace immaginare che Bergamin sia stato convinto della bontà del progetto per i suoi uffici in un’osteria paesana, magari davanti ad un piatto e un buon bicchiere di vino; partendo da valori che appartengono al codice genetico degli abitanti del luogo. Mi sembra che la lezione di Gino Valle sia ancora di estrema attualità, e per questo motivo abbiamo voluto ricordarla. Le sue lezioni ci fanno capire che il segreto sta nel porre al centro una regione - un ambito territoriale produttivo

specifico - che deve per forza puntare su valori quali innovazione tipologica ed architettonica, idee, creatività. Una regione che deve trovare una coesione tra l’architettura e la propria idea di produzione. La maggiore lezione di Gino Valle – architetto e artista - va proprio in questo senso. E a voi con la vostra rivista va dato atto di cercare di aprire un dibattito, favorendo la crescita di una nuova cultura della qualità nella costruzione. Le opere di Valle – apparentemente anonime e molto semplici – possiedono una qualità rara nell’in-


dicare un metodo che possa essere generalizzato. A lui, come anche a tutti noi, dispiaceva moltissimo vedere pessimi capannoni e villette della città diffusa andare a consumare il territorio agricolo. Egli credeva al valore universale dell’architettura di qualità, e noi dovremmo diffondere questo messaggio. Dovremmo pensare ad un regolamento o ad una regia, o comunque all’idea che ci sia un architetto responsabile del masterplan ed anche del controllo della qualità: che dia delle regole sui materiali, sui colori, sul trattamento dello spazio stradale e di ciò che sta tra la strada e il capannone, sui parcheggi.

Tutte cose molto semplici che andrebbero governate. L’intervento molto scenografico del Kilometro Rosso di Jean Nouvel a Dalmine, lungo l’autostrada tra Bergamo e Milano, sotto certi aspetti riprende un po’ quello che faceva Gino Valle più di 30 anni fa: una macchia di colore. Ma c’è anche una grande differenza: il parcheggio di Valle era un po’ incassato ed era alberato, in quanto pensava all’automobilista come un essere umano a cui fa piacere prendere la sua macchina alla sera senza che sia diventata un forno. Nell’intervento di Jean Nouvel, nonostante l’asfalto rosso e le luci notturne molto

belle, non c’è nemmeno un albero: è un deserto di asfalto! Un intervento molto scenografico, ma non pensato per chi posteggia l’auto.

In queste pagine: immagini tratte da Pierre-Alain Croset, Gino Valle. Progetti e architetture, Electa 1989, e da «Lotus navigator», 1, novembre 2000.

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MEMORIE DI ADRIANO. UN INGEGNERE CHE AMAVA L’ARCHITETTURA Roberto Carollo Quando si affronta un tema come quello del lavoro, dei suoi luoghi e dei suoi paesaggi, sarebbe assai negligente ignorare o, peggio ancora, dimenticare la figura di Adriano Olivetti. Tantomeno, ce lo possiamo permettere, in tempi in cui non manca certo di attualità la riflessione sul rapporto tra l’industria, la società e il territorio; o tra la produzione e la creatività, il design, la ricerca e l’innovazione. Capitalista anomalo, utopico, talvolta sovversivo, Adriano ha saputo avviare un processo di radicale rinnovamento della produzione industriale – attento alle indicazioni provenienti dalle esperienze internazionali e alle politiche di diffusione del prodotto1. Ma ha saputo, insieme, attivare un’azione riformista fondata su politiche sociali e culturali che hanno fatto di Ivrea e del Canavese un modello ancora ineguagliato2.

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Figlio secondogenito di Camillo, Adriano nasce nel 1901 a Ivrea. Consegue la laurea in Ingegneria Chimica Industriale presso il Politecnico di Torino, nel 1924. L’anno successivo, sulle orme del padre, si reca negli Stati Uniti per un soggiorno di sei mesi. Al suo ritorno inizia a lavorare nell’azienda di famiglia, occupandosi del prodotto e della sua immagine. Nel 1928 dirige il nuovo Ufficio Pubblicità, che favorirà le prime collaborazioni con importanti protagonisti della grafica e dell’architettura, vicini alle avanguardie internazionali. Nel 1933 – anno di celebrazione del XXV anniversario dalla fondazione della società – Adriano assumeva la carica di direttore generale, inaugurando una feconda stagione maturata grazie ad un’attenzione speciale per l’architettura, per il disegno industriale e per la grafica pubblicitaria. Ma anche per l’urbanistica e la pianificazione territoriale3, discipline alla base di un progetto di riorganizzazione del territorio che tenta di costruire una comunità segnata dall’integrazione

tra produzione e servizi. Un progetto che riguarda direttamente l’organizzazione della società e che approderà, nell’immediato dopoguerra, alla creazione del Movimento Comunità 4. A partire dal suo rientro in Italia5 nel 1945, Ivrea diverrà infatti un punto di riferimento per gli intellettuali italiani interessati alla costruzione di una nuova società civile. Ma anche la meta di architetti e urbanisti che attraverso la loro opera daranno forma alle idee di Olivetti: Luigi Figini e Gino Pollini, Ludovico Quaroni, Ignazio Gardella, Marcello Nizzoli, Eduardo Vittoria o il veronese Luigi Piccinato. Mentre Carlo Scarpa e Franco Albini disegnavano i negozi Olivetti in Italia e nel mondo. Intanto l’azienda subiva un processo di rinnovamento tecnico e organizzativo dei sistemi di produzione, mentre le politiche di commercializzazione portavano l’esportazione a rappresentare il 60% della produzione. La successiva fase di internazionalizzazione porterà ad inaugurare impianti industriali in Italia e all’estero, ma non farà mai perdere di vista il progetto politico e territoriale legato a Ivrea e al Canavese. Anche dopo la morte di Adriano - avvenuta nel 1960 per un attacco cardiaco - l’attenzione per la qualità del prodotto e della sua immagine verrà garantita dalla tenacia di personaggi come Renzo Zorzi, responsabile della direzione dell’Immagine della società – già a fianco di Adriano alle Edizioni di Comunità 6 e all’omonima rivista. Nonostante le politiche di risanamento economico e le operazioni di radicale ristrutturazione, la società non rinunciò mai a questi obiettivi, anche grazie alla presenza di nuovi protagonisti dell’architettura italiana (Marco Zanuso, Ettore Sottsass Jr, Cappai e Mainardis, Gabetti e Isola, Gino Valle) e internazionale (James Stirling, Louis kahn e Kenzo Tange). Quello che interessa in questa sede sottolineare è la visione che ha alimentato questa straordinaria esperienza. Una visione del lavoro e un’organizzazione della società che metteva al centro l’uomo, i suoi bisogni e le sue aspirazioni. La centralità della risorsa umana comporta un grande rispetto per la creatività e la professionalità, la fiducia nei giovani e nella loro capacità di innovazione e sperimentazione, una ricerca inin-


terrotta dell’eccellenza - che ha portato Adriano a circondarsi costantemente di personalità illustri o destinate a diventarlo. La sua lezione rimane ancora oggi viva e assolutamente attuale; il richiamo implicito a non appiattirsi sui tecnicismi, o sul professionismo fine a se stesso. Solo un approccio umanistico e colto, solo una visione integrata dell’azione di rinnovamento sull’economia, sulla società e sul territorio possono tutelarci dagli effetti travolgenti della rivoluzione tecnica che ha caratterizzato il secolo breve, il novecento, e che oggi sembrano incessantemente e inesorabilmente accelerare. Per chi non l’avesse già fatto, infine, raccomandiamo un viaggio-studio tra il ricchissimo patrimonio delle architetture olivettiane a Ivrea, dove dal 2001 si può anche contare sul supporto informativo e organizzativo del Maam-Ivrea, museo a cielo aperto dell’architettura moderna.

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Anticipando la definizione di corporate image, intesa come strategia globale di comunicazione aziendale. 2 Una vicenda lunga più di un secolo unisce l’impresa e la famiglia Olivetti con la storia economica, sociale e culturale della città di Ivrea e del Canavese. Era il 29 ottobre 1908 quando Camillo – padre di Adriano – costituiva la Ico, la Società Ing. Camillo Olivetti & C. Nel 2008 si è celebrato il centenario dalla fondazione. 3 Rievocando il vecchio adagio “dal cucchiaio alla città” del Deutscher Werkbund. 4 Un movimento politico che vede la luce con la pubblicazione (1947) di un libro dello stesso Olivetti: L’Ordine politico delle comunità e con la nascita della rivista “Comunità”. 5 Le vicende della guerra lo portarono – dopo aver maturato un chiaro dissenso dal regime che gli costò il carcere, nel 1943 a Roma - a riparare in Svizzera, dove incontrerà molti intellettuali liberali in esilio. 6 Casa editrice che ha permesso a molti lettori italiani di conoscere testi fondamentali come le opere di L.Mumford, E.A.Gutkind e Le Corbusier.

In queste pagine: Gabetti e Isola, centro residenziale Olivetti, Ivrea, 1969-70. Figini e Pollini, ampliamento delle officine Olivetti e case per impiegati, Ivrea, 1939-40.

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palladio cinquecento anni: una mostra A cura di H.Burns e G. Beltramini Vicenza, Palazzo Barbaran da Porto 20/09/08-06/01/09 Palladio e la sua opera suscitano sempre un grande interesse, tanto negli “addetti ai lavori”, storici e critici d’arte e d’architettura, quanto nella persona comune: tutti sono affascinati dal suo particolare senso di misura per tutte le cose, mentre la sua fama valica i confini del Veneto e di un sapere sempre più specialistico, a tal punto che pronunciando il nome, il pensiero corre rapido al candore ricco di umanità e calore che avvolge i suoi palazzi, le sue chiese e le ville. Lo scadere dei cinquecento anni dalla nascita di Andrea di Pietro della Gondola è sicuramente l’occasione per tuffarci in quel paesaggio palladiano fatto di sognanti visioni, come lo definisce D. Cosgrove, dove l’uomo e l’architettura appaiono chiaramente distinti dalla natura e dal paesaggio, pur essendovi indissolubilmente legati a tal punto che anche la natura sembra pensata dall’architettura. Ma non è solo questo. L’occasione è quella anche di riflettere sul significato stesso dell’Architettura, negli stessi giorni in cui alla vicina Biennale di Venezia viene presentata “l’architettura oltre la costruzione” affermando che “l’architettura termina con la costruzione” (come se la musica terminasse quando si inizia a suonarla…). Oggi una grande distanza ci separa dall’architettura di Palladio, non solo temporalmente ma anche e soprattutto culturalmente. Ormai da più di un secolo l’architettura occidentale ha abbandonato del tutto, per la prima volta nella storia dell’arte dai tempi aurei della civiltà greca, quel formulario classicistico, sporadicamente riesumato in chiave parodistica, che per tanti secoli era stato ad essa inseparabile. Colonne, capitelli, timpani e modanature sono completamente scomparsi dalle nostre costruzioni, venendo qualificati come “retorici” e “privi di funzione”, a tal punto che non si può nemmeno parlare di adattamento. Le realizzazioni moderne e contemporanee han-

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no talmente permeato il nostro gusto critico che l’opera palladiana ci appare ancora più lontana, specchio di una società e di una civiltà, quella veneta, ormai scomparsa sotto le conseguenze del miracolo economico che ha trasformato il Veneto nell’attuale espressione geografica del “Nord-Est”. La mostra ci consente di ripensare alla figura di Palladio progettista e alla costruzione dell’architettura, e la sua opera ci ricorda come anche oggi l’Architettura non dovrebbe esaurirsi in un gioco di forme che appaiono sempre più insolite, impenetrabili e che si svalutano rapidamente, come quelle di una moda che, andando presto incontro ad una certa stanchezza, si inflazionano. Una riflessione quindi per confrontarsi in modo serio e rigoroso con il significato attribuito o da attribuire all’architettura stessa, in modo da cercare, oltre che di capire e criticare la contemporaneità, anche risposte progettuali migliori, provviste di senso e di valore non effimero, condizione fondamentale nella costruzione del paesaggio umano. Oggi si parla molto di paesaggio ma non si riesce, non solo a preservarlo, ma neppure a trasformarlo, perchè nessun progetto sembra in grado di svolgere il compito di ricomporlo, reinventarlo o ricostruirlo, e si assiste, nonostante alcune pregevoli quanto sporadiche iniziative, alla continua, lenta e sincera distruzione del territorio veneto, compiuta attraverso centri commerciali, infrastrutture e nuove lottizzazioni che avendo ancora modelli insediativi obsoleti come la “villetta veneta”, divorano il territorio. Anche in questo Palladio dimostra di essere eternamente contemporaneo, come lo definisce H. Burns, curatore della mostra insieme a G. Beltramini e autore di un saggio del catalogo dallo stesso titolo. Il paesaggio viene oggi visto come “l’espressione culturale della società in cui si articola la totalità dell’esperienza, connessa quindi non solo alla consueta oggettività della prassi antropica sulla base naturale, ma anche di significati più profondi, ai valori simbolici e alle dinamiche culturali leggibili in tale prassi” (F. Vallerani). In questa ottica assolutamente contemporanea si può leggere la tipologia della

villa palladiana (sviluppata ma non inventata da Palladio) non solo come modello insediativo, ma anche come modo di interpretare le trasformazioni subite dal paesaggio della terraferma veneta, che ne ha ridisegnato tanto l’aspetto quanto l’assetto. Le costruzioni palladiane modificano e consolidano il paesaggio, focalizzandone le linee che lo segnano e restituendone una nuova lettura. In questo modo l’architettura è strumento di costruzione del territorio allo stesso modo di come il territorio lo è dell’architettura. La lezione di Palladio può essere ancora utile a patto che, con ancora le immagini negli occhi dei disegni, dei quadri e dei modelli che si spiegano lungo le nove sale della mostra, si esca per le strade della sua Vicenza ad osservare i palazzi e attraverso la campagna veneta costellata delle ville, sempre simili mai uguali, si approdi a Venezia davanti alle chiese di S. Giorgio e del Redentore, scoprendo quell’antichità che Palladio non intendeva riproporre in senso letterale e naturalistico, bensì quell’antichità ideale che sopravvive eterna nello spirito umano. Angelo Bertolazzi


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lessinia di pietra. razionalità e armonia di un’architettura vernacolare Mostra a cura di Vincenzo Pavan Boscochiesanuova, 23/31 agosto 2008 Era l’ormai lontano 1960 quando sulle pagine di questa stessa rivista, nel numero 9, veniva pubblicato l’articolo di L. Magagnato Architettura nei Lessini, quasi un anticipo della famosa mostra di Castelvecchio del 1963, inaugurata da C.L. Raggianti. Si trattava di iniziative volte a mettere in moto un “problema critico di architettura e un problema di conservazione e tutela del paesaggio” minacciato da trasformazioni edilizie scriteriate (si era negli anni del boom economico portato avanti con spirito sconsideratamente positivista attraverso gli strumenti di un’architettura moderna non ancora toccata dalle critiche degli anni ’70). Quello che successe dopo è ormai storia: l’emergenza ambientale e il nascere di una coscienza “ecologista” che in Italia non ha mai fatto presa veramente, l’affermarsi del modello della città diffusa del nord-est, che ha danneggiato il territorio e il paesaggio, e ha infranto l’immagine stessa della pianura veneta. Oggi, a distanza di quasi mezzo secolo si tiene un’altra mostra dal titolo “Lessinia di Pietra. Razionalità e armonia di un’architettura vernacolare” a cura dell’Arch. Vincenzo Pavan e organizzata dalla Comunità Montana della Lessinia congiuntamente al Parco Naturale Regionale della Lessinia. Si tratta di una mostra fotografica divisa in dieci sezioni, essenziale come l’Architettura che presenta attraverso le spettacolari foto di Pietro Savorelli, Ugo Sauro, Marco Comencini e dello stesso Vincenzo Pavan. E il monito che questa Architettura rivolge all’osservatore è altrettanto essenziale e diretto, tanto al turista quanto all’abitante, all’amministratore e al progettista. Il messaggio di questa spettacolare fusione di architettura, natura e paesaggio va oltre a quello contenuto nelle oramai consolidate (e forse un po’ abusate) idee di tutela del patrimonio “de-

moetnoantropologico”, di quello ambientale e paesaggistico. L’architettura di pietra della Lessinia ci fa riscoprire il valore della “costruzione” del progetto dell’architettura, un tempo chiamata “tettonica”, capace di mediare forma con struttura, e ora spesso emarginata dagli eccessi formali e/o strutturali di certa architettura da rivista. Le semplici costruzioni che punteggiano le montagne di Verona ci ricordano che l’obbiettivo da perseguire è quello di una “qualità diffusa”, di un’architettura compiutamente civile che, abbandonando ogni autoreferenzialità, sia capace di rispondere alle esigenze qualitative e quantitative di una società sempre più complessa. Ci ricordano la necessità di migliorare la qualità degli spazi che la società è in grado di realiz-

zare con le risorse di cui dispone e l’importanza di intessere quell’insieme di delicati legami tra edificio e contesto, artificiale o naturale che sia, capaci di radicare l’architettura nel territorio. Ci ricordano come il luogo sia un’importante fattore da comporre in quel delicato punto di equilibrio che ha per esito un’opera di architettura e che la “costruzione” intesa come trasformazione dell’ambiente in funzione della sua abitabilità, è il fine cui l’architettura tende. Ma soprattutto ci ricordano come un tempo ogni progetto di architettura fosse il progetto di una costruzione e come tale principio fosse “spontaneamente” condiviso dagli anonimi costruttori dell’Architettura di Pietra della Lessinia. Angelo Bertolazzi

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per ricordare l’architetto rinaldo olivieri In occasione della mostra allestita presso il teatro Camploy dal 10 ottobre al 30 novembre 2008 e della pubblicazione del catalogo per il decennale dalla scomparsa di Rinaldo Olivieri, la redazione ha chiesto alla figlia del nostro compianto collega una testimonianza personale e professionale. Ci sembrava doveroso, a me come figlia, a Isabella Lonardi come moglie, all’Associazione “Amici di Rinaldo Olivieri” come gruppo di professionisti legati a Rinaldo, organizzare qualcosa per i dieci anni dalla sua scomparsa che lo ricordasse degnamente. Non tanto perché Verona si sia dimenticata di uno dei personaggi più interessanti ed eclettici che abbia mai avuto l’onore di avere come cittadino, quanto per dare l’opportunità di vedere ancora le sue opere e poter ascoltare il parere di illustri personaggi che lo hanno conosciuto, ammirato e stimato come uomo e professionista. Ecco perché, con l’aiuto di tutti coloro che hanno collaborato, abbiamo realizzato un convegno concentrato su Rinaldo Olivieri come architetto, scenografo e uomo di mondo e una mostra nel foyer del teatro C a m p l o y. Hanno partecipato come relatori l’ingegner Claudio Di Luzio, che scrisse nel 1983 un libro intitolato “Rinaldo Olivieri. Architettura come luogo della memoria”, il m

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Sovrintendente dell’Opera di Roma Francesco Ernani, che durante la sua Sovrintendenza all’Ente Lirico dell’Arena di Verona diede l’incarico del Nabucco a Olivieri, il professor Gilberto Lonardi, docente universitario nonché cognato di Rinaldo, e il giornalista di architettura Carlo Paganelli, che ha scritto numerosi articoli sulle sue opere. La mostra è intitolata “Rinaldo Olivieri. Architetto e scenografo. Genio e razionalità”. Ho scelto questo titolo per sintetizzare in modo efficace la sua personalità: estroso, geniale, aperto a cogliere sempre nuove sfide e proporre sempre nuove idee, ma anche razionale, serio e concreto nella vita e nel lavoro. Parallelamente alla mostra ho curato con Andrea Mancini un libro-catalogo, edito dalla casa editrice Titivillus, “Rinaldo Olivieri. Architetto e scenografo. Rinaldo in campo” che racchiude gran parte delle sue opere architettoniche e scenografiche, accompagnate da testi significativi di autori vari. Ho avuto la fortuna di vivere, seppure per soli 24 anni, con un padre come Rinaldo Olivieri, da ammirare completamente, instaurando un rapporto molto stretto, fatto di intesa e profondo affetto. Il vuoto che ha lasciato morendo è stato percepito non solo da noi della famiglia; anzi, abbiamo avuto testimonianza da ogni parte del mondo di quanto si sia fatto stimare e apprezzare. Era un uomo che sapeva dedicare del tempo ad imbastire un teatrino di burattini nella nostra casa in collina per intrattenere noi e gli ospiti, come invece passare l’intera notte a creare, disegnando e concentrandosi su un progetto, oppure ancora entusiasmarsi durante le prove luci per illuminare una enorme scenografia. Forse è superfluo ricordare qui alcune tra le sue opere più significative, ma è giusto farlo. Nel decennio ’60-’70 alterna la sua attività tra l’Italia e la Costa d’Avorio. Da sottolineare: la “Pyramide” di Abidjan, la scuola a S. Bonifacio (VR), il municipio di Trevenzuolo (VR), la chiesa di S. Benedetto a Verona e una lunga serie di progetti per l’Africa e di partecipazioni a concorsi vari. Nel 1979 partecipa alla mostra internazionale “Trasformation in Modern Architecture” nel

Museum of Modern Art (M.O.M.A.) a New York. Progetti più recenti sono il teatro di Oberhausen in Germania e il teatro Camploy a Verona che è stato inaugurato nel 1998, pochi mesi prima che morisse. Da ricordare infine la Stella in piazza Bra che accompagna da ormai molti anni il periodo natalizio. Dal 1982 al 1998 si dedica a scenografie teatrali per l’Arena di Verona, con Aida, Nabucco e Carmen, per il Theatre Royale de Wallonie di Liegi, con Così fan tutte, Romeo e Giulietta e Norma, per il Grosfestspielhaus di Salisburgo, con il Trovatore in coproduzione con il Teatro Filarmonico di Verona, e, ancora con Aida, per l’Olimpic Pool di Tokyo del grande architetto Kenzo Tange, il quale rimase talmente soddisfatto del lavoro di Olivieri, che gli mandò cinquanta rose rosse come ringraziamento. Questo è un episodio che, insieme a tanti altri importanti riconoscimenti che ha ricevuto durante la sua vita, dimostra quanti lo stimassero, anche perché il papà aveva una carica umana che affascinava molti. Conquistava tutti perché non ostentava nulla, ma nella sua semplicità esplicava ciò che veramente era: un professionista sempre preparato e un uomo generoso e illuminato. Micol Rebecca Olivieri


Sabina Ferrari* Nell’ambito del convegno promosso il 9 maggio 2008 dall’Ordine degli Architetti sul tema “Demolizione e costruzione del moderno nella città antica” è stata chiesta la mia opinione sull’argomento trattato nel n. 80 della rivista architettiverona. Il mio intervento non vuole essere un commento polemico a ciò che ho letto nella rivista; voglio invece prendere lo spunto dai suoi contenuti per fornire alcune informazioni su aspetti che a mio avviso non hanno avuto adeguato approfondimento. Per affrontare il tema correttamente ritengo che non si possa prescindere dal considerare il contesto normativo vigente nel settore, con il quale tutti noi ci dobbiamo confrontare quotidianamente. Da un lato i cittadini e i liberi professionisti che sono obbligati a rispettare le leggi e dall’altro i soggetti istituzionalmente deputati a farle rispettare, e mi riferisco in particolare gli organi centrali e periferici del Ministero per i beni e le attività culturali, in materia di tutela del patrimonio di interesse artistico. Tra i vari aspetti evidenziati nella rivista, emerge che le Soprintendenze non esplicano in modo efficace l’azione di tutela nei confronti dell’architettura contemporanea; prendo lo spunto dal testo intitolato“i cecchini di cecchini” di Filippo Bricolo il quale, pur avendo sviluppato un interessante articolo, giunge a una conclusione che ritengo non condivisibile; innanzitutto non mi è chiaro se si tratta dell’interpretazione di un dato da parte dell’autore o di una valutazione a cui è giunto l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Prendo le mosse da questo articolo perché le sue conclusioni mi consentono di introdurre un discorso di carattere generale. Il testo riferisce l’esito preoccupante dell’indagine svolta dall’IUAV nel quadro di una convenzione con la DARC (Direzione Generale per l’architettura e l’arte contemporanee) sull’architettura contemporanea in Veneto e Friuli-Venezia Giulia.

Si legge testualmente: “è emersa la drammatica carenza di vincoli apposti dalle Soprintendenze. Su un numero totale di 78 edifici schedati per il Veneto, solo uno, la Tomba Brion di Carlo Scarpa, è risultato vincolato al di fuori del comune di Venezia”. Premetto che non conosco il tipo di vincolo adottato per la Tomba Brion dalla soprintendenza competente territorialmente e quindi non posso fare valutazioni di merito, ma non è questo il punto, vorrei invece partire dall’ambiguità del testo sopra richiamato, per fornire il quadro degli strumenti legislativi, non del tutto chiari, che allo stato attuale consentono alle soprintendenze di esplicare l’azione di tutela nel settore dell’architettura contemporanea. Va subito detto che, sia il D.lgs 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio, sia il Regolamento del Ministero per i beni e le attività culturali DPR 233/2007 - entrambi aggiornati recentemente - non attribuiscono al ministero competenze particolarmente incisive in ordine alla tutela dell’architettura contemporanea. In tale ambito, le competenze specifiche degli uffici centrali e periferici del ministero e in particolare della soprintendenza per i beni architettonici, non sono delineate in modo inequivocabile ma si deducono dal combinato disposto delle seguenti norme.

- Il D.lgs 42/2004 come modificato dai DD.lgs 62-63/2004, all’art. 10 individua in un lungo elenco, le tipologie di beni culturali ed esclude da tale disciplina le cose “che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad otre cinquanta anni”. In tale elenco non sono espressamente richiamate le opere di architettura contemporanea anche se alcune di esse potrebbero avere i requisiti richiesti per essere sottoposte a tale tipologia di vincolo in quanto riconosciute di interesse quali beni culturali. L’art. 11, tra le “Cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela”, comprende alla lettera “e) le opere di architettura contemporanea di particolare valore artistico, a termine dell’art. 37”. In questo caso non si tratta di beni culturali ma di tipologie di cose assoggettate solo alle disposizioni espressamente richiamate all’art. 11, comma 1. Quindi, per gli interventi conservativi su opere di architettura contemporanea, come recita l’art. 37, può essere concesso il contributo in conto interessi, solo qualora il Ministero per tali opere “abbia riconosciuto, su richiesta del proprietario, il particolare valore artistico”. In tale circostanza è evidente che, ove l’immobile abbia i requisiti richiesti, il procedimento di riconoscimento del particolare valore artistico può essere avviato su iniziativa di parte e non su iniziativa d’ufficio promossa dalla soprintendenza - Il DPR 233/2007, cronologicamente successivo al Codice, all’art. 18, comma 1, lettera i) attribuisce genericamente alle Soprintendenze il compito di svolgere le istruttorie e proporre al Direttore Generale competente i provvedimenti relativi a beni di proprietà privata. E’ evidente, in tale disposizione normativa, la mancanza di riferimenti specifici all’azione di tutela da parte delle soprintendenze in riferimento all’arte contemporanea. - Il medesimo D.P.R., all’art. 7, comma 2, lettera o), attribuisce al Direttore Generale per la qualità e la tutela del paesaggio, l’architettura e l’arte contemporanee, la competenza di dichiarare l’importante carattere artistico di opere di architettura contemporanea ai sensi e per gli ef-

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ancora sul moderno nella città antica

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fetti dell’art. 20 della Legge 633/1941 e s. m., e dell’art. 37 del Codice. - La L. 633/1941, all’art. 20, reca disposizioni sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio. Detto questo, e ho solo elencato gli strumenti normativi che riguardano l’argomento di cui si tratta, va ricordato che in via generale un bene di interesse artistico, per essere dichiarato bene culturale sottoposto a tutela ai sensi dell’art. 10 del D.lgs 42/2004 deve possedere due requisiti essenziali: che l’opera abbia più di 50 anni e che sia di autore non vivente. Nel caso dell’architettura contemporanea di interesse artistico, spesso si verifica che essa possieda uno solo dei requisiti richiesti; essa può avere infatti superato i 50 anni ma se l’autore è vivente, mancando un requisito essenziale, la soprintendenza non può attivare d’ufficio il procedimento di vincolo ai sensi degli artt. 10, 12 e 13 del D.lgs 42/2004. In tale circostanza, ai sensi dell’art. 20 della Legge 633/1941, può essere invece attivato il procedimento di vincolo su iniziativa di parte. C’è comunque una sostanziale differenza tra i due tipi di procedimento e tra gli obiettivi che con essi si possono raggiungere. Nella prima ipotesi (tutela del bene ai sensi degli artt. 10, 12 e 13 del D.lgs 42/04), il proprietario di un’architettura contemporanea vincolata è soggetto al rispetto di tutte le disposizioni del codice come se si trattasse di un edificio antico; tra queste l’obbligo di assicurarne il buono stato di conservazione e di sottoporre alla soprintendenza eventuali progetti di modifica del bene, per ottenere l’autorizzazione. Nella seconda ipotesi, invece (tutela del diritto d’autore ai sensi della L 633/41), il proprietario dell’opera vincolata non è tenuto a presentare i progetti di modifica alla soprintendenza, ma sulle eventuali sue trasformazioni ha facoltà di agire l’autore dell’opera medesima. In che modo? Recita l’art. 20 della Legge 633/1941 “se l’opera è riconosciuta dalla competente autorità di par-

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ticolare carattere artistico spetteranno all’autore lo studio e l’attuazione di tali modificazioni”. In questo ultimo caso, è evidente che qualora l’autore abbia chiesto e ottenuto il riconoscimento del particolare interesse artistico della sua opera, egli si opporrà alla realizzazione di modifiche sostanziali al progetto originario. In tale circostanza, paradossalmente, l’opera si conserverà pressoché integra, forse più degli edifici soggetti ad altra tipologia di vincolo. La Legge 633/1941 e il suo regolamento (R.D. 16 maggio 1942 n. 136) nonché le successive norme di organizzazione del MiBAC, non hanno definito con precisione la procedura che consente di verificare l’effettivo carattere artistico dell’opera per la quale il riconoscimento viene richiesto, quindi la DARC, Direzione Generale per l’architettura e l’arte contemporanee, quando ancora dipendeva gerarchicamente dal Dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, nel giugno del 2007, ha emanato una direttiva per meglio definire le linee procedurali e indicare la documentazione necessaria da inoltrare al ministero a corredo della richiesta (nota prot. 3046 del 28/06/2007). Tra i documenti individuati assumono notevole valenza le notizie bibliografiche sul bene oggetto di valutazione, suggerisco quindi all’arch. Libero Cecchini, al quale è in gran parte dedicato il n. 80 della rivista, di utilizzare la medesima come allegato alla domanda che dovrà inoltrare necessariamente al Ministero, se intenderà chiedere il riconoscimento del particolare interesse artistico di alcune sue opere; ciò, considerato che con le norme vigenti, se l’autore è vivente non ci sono altre possibilità di tutela dell’architettura contemporanea, se non quella sopra citata. Con tali premesse, in riferimento all’architettura contemporanea, anziché lamentare la mancata apposizione di vincoli da parte delle soprintendenze, ritengo che si debba prendere atto della presenza di limiti normativi che non consentono la tutela diffusa di tali beni. Ad oggi, per la conservazione di un'opera di architettura contemporanea, eccetto i pochi casi in cui sia possibile riconoscerne l’interesse artistico ai sensi degli

artt. 10, 12 e 13 del Codice, ci si deve affidare al buon senso e alla sensibilità culturale dei proprietari dei beni e dei professionisti incaricati di progettare non solo le trasformazioni delle architetture in questione, ma anche dei loro contesti e del territorio in generale; e non ultima anche alla sensibilità dei tecnici degli enti locali chiamati istituzionalmente a valutare i progetti. Così, come del resto osserva acutamente Libero Cecchini nella sua intervista, quando afferma che “E’ difficile realizzare idee se non si ha un committente illuminato, una commissione edilizia preparata”; accanto alla commissione edilizia aggiungerei pure la Soprintendenza, che, nello svolgimento del ruolo istituzionale di vigilanza e tutela del patrimonio di interesse culturale (e nel patrimonio di interesse culturale è compreso anche il paesaggio che spesso comprende opere di architettura contemporanea non vincolate per i motivi su esposti), ha il delicato compito di trovare il giusto equilibrio per consentire interventi innovativi al passo coi tempi e, al contempo di conservare e preservare il patrimonio vincolato; ma vedrei coinvolti nelle responsabilità dei risultati anche molti liberi professionisti, che spesso, non tutti per fortuna, “dimostrano totale inettitudine”, come giustamente afferma nel suo articolo Lorenzo Marconato. Non vorrei andare fuori tema ma su questo argomento avrei molte cose da aggiungere, anche alla luce di un’indagine pubblicata nel febbraio 2007 nella rivista Paesaggio urbano, svolta dalla Direzione Generale per i beni culturali e paesaggistici, che sintetizzo di seguito brevemente. La Direzione Generale con il Politecnico di Milano ha esaminato i progetti sottoposti a VIA (Valutazione d’impatto ambientale) in legge obiettivo e speciale. Si tratta di 250 progetti pervenuti tra il 2000 e il 2005, il cui esame è di competenza della Direzione Generale. E’ stato analizzato un campione significativo degli elaborati progettuali relativi alle principali tipologie di interventi: strade, ferrovie, elettrodotti, porti e simili. L’analisi ha evidenziato che molti progetti hanno tratti comuni per nulla consolanti come:


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- scelta progettuale e localizzazione dell’opera individuate in base a valutazioni di mero carattere economico, strutturale e funzionale; - la valutazione di impatto è considerata quale mera verifica della validità della proposta progettuale e non uno strumento per individuare la migliore soluzione in ordine alla minore incidenza ambientale e paesaggistica; - i progetti sono privi di elaborati utili a dimostrare e a far comprendere l’effettiva incidenza sul paesaggio in cui vanno ad inserirsi. - le ipotesi progettuali esaminate, mirate ad avvallare se stesse piuttosto che a svolgere una reale analisi dell’impatto ambientale e paesaggistico mettono in evidenza una cultura del progetto non avvezza a ragionare in termini di paesaggio o più semplicemente di rapporto col contesto. Questa è solo una breve sintesi di ciò che riferisce il Direttore Generale Roberto Cecchi sull’esito di quella indagine e conclude affermando che emerge una generale mancanza di preparazione da parte dei progettisti. Da tutto ciò discendono anche i tempi lunghi per le autorizzazioni perché è sempre necessario ricorrere a richieste di integrazione, che inserendosi all’interno di un procedimento amministrativo complesso, determinano l’innesco di quegli appesantimenti burocratici che gli stessi proponenti lamentano e che giustamente vorrebbero evitare. L’esito di tale indagine è sostanzialmente congruente con l’opinione espressa da Lorenzo Marconato e chiarisce che ritardi e carenze non sempre sono imputabili, come spesso accade, agli uffici periferici del Ministero per i beni culturali. Nel settore della tutela del paesaggio, comprendendo in esso tutti gli ambiti territoriali, penso che i progettisti rivestano un ruolo di rilievo e di responsabilità; infatti, con la situazione normativa attuale, i progettisti, e non tutti forse ne sono pienamente consapevoli, sono chiamati a svolgere un’attività che dovrebbe affiancare l’azione di tutela a cui sono preposti istituzionalmente gli enti delegati in materia di paesaggio e le soprintendenze. Quindi, all’azione di salvaguardia

dell’architettura contemporanea di interesse artistico, sono chiamati non solo i soggetti istituzionali ma tutti coloro che svolgono un ruolo attivo nella trasformazione del territorio, siano essi i committenti o i progettisti. *Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza

un ricordo di lorenzo rosa fauzza Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana. Essa suona per te. Dalle parole di John Donne, inizio per parlare di una persona che, recentemente scomparsa, ha lasciato sicuramente un profondo senso di vuoto tra amici e colleghi. Una persona la cui umiltà sicuramente poteva sconcertare, un architetto che ha realizzato tra Verona, Roma, Pordenone, la Grecia e addirittura la Thailandia, più di ottocento progetti di cui una grande parte completati tra nuovi edifici, ristrutturazioni, allestimenti museali, arredi sacri e alcuni pezzi di design. Un architetto che seguiva le idee di L.C. riguardo alla vastità di temi di cui la nostra professione dovrebbe occuparsi.

Laureato con Carlo Scarpa, amante nella giovinezza delle opere lecorbusieriane, amante del lavoro di F.L. Wright e di A. Aalto, ha saputo creare edifici che riprendono e in cui vengono rieletti gli insegnamenti di questi maestri. Ha conosciuto personalmente Wright accompagnandolo in un suo soggiorno veneziano invitato da Scarpa, e chiamato dallo stesso come traduttore. Nonostante fosse stato invitato dallo stesso Scarpa a seguire i suoi lavori, ha preferito intraprendere un’attività personale, che forse gli ha precluso alcune porte ma lo ha lasciato libero di esprimersi in maniera tranquilla e costante, riuscendo a creare il suo modo di fare architettura, il suo modo di realizzare compiutamente la sua passione.

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Una persona modesta, appassionata del proprio mestiere che nonostante l’età continuava ad esercitare. Ricordo che, appena conosciuto, avendo capito il mio interesse, mi ha mostrato la sua casa, realizzata rifacendo completamente una vecchia fabbrica. Mi mostrava il rivestimento in legno ad assi verticali che segnavano un corridoio, il taglio esterno dell’edificio che realizza una terrazza rivolta verso la Valpolicella ed altri piccoli dettagli studiati con la mente di chi passa le notti a disegnare e si sveglia la mattina con il desiderio di prendere la matita in mano e ricominciare. Non ho mai conosciuto un architetto che abbia saputo costruire opere di qualità, senza scopiazzare qua e la come la moda impone a molti, dichiarando apertamente i propri limiti, sorridendo quasi imbarazzato quando mi complimentavo per un suo progetto. Sintomatica era la sua volontà di non voler fotografare i suoi lavori dicendo che “ormai sono lì, la gente li vede, li utilizza, cosa serve fotografare un'immagine statica, quando l’architettura dovrebbe essere pregna di vitalità”. Non è facile in questi anni conoscere persone dedite cosi appassionatamente al nostro lavoro, che esercitino la professione realizzando a poco a poco il loro sogno, quello di lasciare una traccia di noi stessi per gli altri. Io ho avuto la fortuna di conoscere un uomo così, anche se per poco tempo, e con queste poche righe vorrei esprimere il mio saluto ad un professionista, ma soprattutto ad una persona che stimavo. Andrea Benasi

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dall'eden bolzanino

“Unternehmen/Imprese” è l’argomento del numero 76 della rivista «Turrisbabel», uscito nei mesi scorsi. Pubblicata dalla Fondazione dell’Ordine degli Architetti PPC della Provincia Autonoma di Bolzano, e in quanto tale omologa e parente stretta di «architettiverona», Turris gode di una cura e di una considerazione, che le valgono un generoso apprezzamento anche fuori dall’ambito di diffusione provinciale. Concorre a tal senso anche il mito di un territorio che è considerato, a ragione, un’isola felice per l’architettura contemporanea: accanto ai lacerti di una tradizione montana fatta di tetti aguzzi, bovindi e balconi di legno con gli immancabili gerani fioriti, convive infatti nell’Adige-Sud Tirol – la correttezza linguistica politically correct è d’obbligo per non incorrere in imbarazzanti gaffes – una diffusa produzione di aggiornato gusto moderno. L’incontro tra culture e tradizioni orgogliosamente differenti, che pure non manca di generare di tanto in tanto polemiche pretestuose, in chiave positiva è una delle ragioni di quella ba-

belica mescolanza delle lingue, evocata dalla testata della rivista, che ha dato corpo a una condivisa diffusione di un linguaggio schiettamente moderno dell’architettura: forse anche grazie al fatto che tale idioma non è considerato pregiudizialmente né tedescante, né italico. Alle ragioni di questo incontro si può addurre la formazione delle giovani leve degli architetti, condivisa tra le scuole austro-germaniche e quelle italiane, oltre ad un quadro legislativo ad hoc garantito dall’autonomia statutaria della Provincia, promotrice tra l’altro di strumenti innovativi come il protocollo Casaclima, che si è rapidamente diffuso anche a sud dell’Adige, sia pure secondo interpretazioni sovente banalizzanti. Il profondo attaccamento a un territorio che è la fonte primaria del diffuso benessere, si accompagna a una quasi imbarazzante ricchezza della committenza pubblica: le sontuose sedi provinciali costituiscono uno schiaffo morale ai traballanti bilanci di enti e comuni quaggiù in Italia, in tempo di vacche magre. La copiosità delle occasioni sia sul fronte privato che su quello pubblico ha così favorito la crescita di generazioni di architetti, anche grazie al sistematico ricorso allo strumento concorsuale. Un simpatico esempio su tutti: persino il bancone di accoglienza e gli arredi della segreteria dell’Ordine sono stati realizzati, qualche anno fa, sulla base di un concorso di progettazione. Appare così semplice e naturale che si avvalgano del concorso anche gli operatori privati, come testimonia il citato numero di Turris. Tre importanti aziende del luogo - onore al merito delle ditte Höller, Mila e Salewa -, hanno posto a confronto le proposte di professionisti locali e di alcuni nomi di richiamo, per scegliere i progetti delle rispettive nuove sedi o per l’adeguamento di quelle esistenti. Lasciando la documentazione degli esiti alle pagine della rivista, sorge spontaneo il paragone con una realtà praticamente contermine come la nostra. Cari signori imprenditori veronesi, risulta difficile pensare che i vostri colleghi di cui


mento costa una certa fatica: ma l’ostacolo si può superare semplicemente ‘guardando le figure’, come fanno i bimbi in età prescolare, e riuscendo così attraverso le nitide immagini in bianco e nero ad apprezzare gli interessanti contenuti della rivista. Alberto Vignolo

metropoli per principianti Gianni Biondillo Guanda, 2008, pp. 207

«Non fate studiare architettura ai vostri figli. Non ne vale la pena.» È questo l’incipit apparentemente senza speranza del bel libro di Gianni Biondillo, architetto regolarmente iscritto all’Albo e socio di uno studio professionale, ma dedito con successo alla scrittura creativa, in particolare come autore di una fortunata serie di romanzi polizieschi. Il disincanto nasce da una amara ed ironica analisi sullo stato dell’architettura in Ita-

lia, a partire dall’iter iniziatico del giovane architetto in erba, tra concorsi fatti di notte “con altri quattro sfigati compagni di corso”, assistentato universitario come opera volontaristica e pratica di studio a disegnar chiusini e pozzetti di fognature: quando si consumano le speranze della meglio gioventù architettonica tra ambizioni di cambiare il mondo e frustrazione dell’accesso al mercato della professione. Il libro mescola la forma della raccolta di saggi a quella del memoriale fino al racconto-denuncia, con alcune punte di partecipato autobiografismo, come quando viene rievocata la bomba che nel 1993 ha distrutto il PAC, con l’assurda e sconcertante precisione nell’individuare come obiettivo la più nitida architettura moderna di Milano. E sono gli esempi dell’architettura del Novecento nel nostro paese a far compiere al nostro autore un antologico viaggio di scoperta su e giù per la penisola, per compilare una sorta di playlist di quei luoghi notevoli che tutti, prima o poi, abbiamo cercato, attraversato, scrutato, fotografato e catalogato nel personale repertorio dello spazio vissuto. Passiamo così dalla Torino del Lingotto alla Milano del Razionalismo, di Muzio e di Ponti, dalla Venezia di Scarpa alla Genova di Albini, passando per l’Emilia senza facoltà (di architettura, una volta) alla Firenze di Michelucci, con passioni tematiche come quella per il brutalismo e per i cosiddetti casermoni, per scendere infine oltre Roma e Napoli nel profondo sud “dove tutto finisce”, e che conosce il Novecento solo attraverso l’emigrazione del suo popolo nelle grandi città del Nord. Non manca poi un liberatorio medaglione del “signor Rossi”: si, proprio lui, quell’aldorossi divenuto quasi un sostantivo, onore di pochi, che fa prorompere Biondillo in una catartica battuta di fantozziana memoria. L’approdo alla contemporaneità si scontra poi con il fervore edilizio e immobiliare della Milano odierna, tra nuovi simboli di urbanità e sgangherati progetti sui quali è fin troppo facile ironizzare. Ma è nella periferia meneghina,

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sopra siano semplicemente dei generosi mecenati, o degli improvvidi scialacquoni. È probabile invece che abbiano saputo cogliere, attraverso lo strumento del concorso l’opportunità di una scelta meditata, in funzione del valore d’immagine dell’azienda e del lustro che le può derivare da una sede degna di definirsi un’architettura. Lo mette in luce nel suo editoriale il direttore Carlo Calderan: «L’architettura non è chiamata solo a dare corpo a una funzione, ma anche ad esprimere un contenuto, a farsi carico di una “filosofia” aziendale se non di un vero e proprio messaggio pubblicitario». L’esempio cui fa riferimento è in realtà quello degli storici stabilimenti della birreria Forst di Fortezza, lungo la strada che da Merano sale in Val Venosta: un compendio di torri e torrette in forma di artificioso castellozzo, che apre simbolicamente la rassegna dei progetti e delle realizzazioni di edifici direzionali e produttivi. Verrebbe voglia di organizzare un bel giro in torpedone nell’eden bolzanino per ripercorrere, Turrisbabel alla mano, le tappe di questo moderno panorama industriale, che nella sequenza degli esempi illustrati offre alcuni spunti di sicuro interesse: come nella magniloquenza metallica di Frener & Reifer, nella plastica cavità dell’interno di Blaas OHG o nella mimetica urbanità di Eurolicht. Un discorso a parte merita la sede del complesso produttivo “Consorzio 10” di Bolzano: un interessante progetto pilota promosso dalla Provincia per la realizzazione di un condominio produttivo a destinazione funzionale mista, comprendente unità produttive e artigianali, residenze e servizi, che sfugge alla consueta equazione “un capannone per una attività”, causa primaria di un abnorme consumo di suolo, per investigare nuove forme insediative delle attività produttive. Un’ultima nota: Turrisbabel è perfettamente bilingue, e dà per scontato che i propri lettori passino con indifferenza dall’italiano al tedesco e viceversa: ragione per la quale gli articoli compaiono solo nella lingua originale. Una furbizia che ai lettori al di fuori del territorio di riferi-

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della quale si autonomina cantore e flâneur, che l’autore trova il suo territorio di elezione, a partire da quel quartiere di Quarto Oggiaro assurto a simbolo per antonomasia del degrado urbano, dove egli stesso è nato e vissuto, e dove ha ambientato le gesta dello sgarruppato ma fascinoso poliziotto Ferraro, il protagonista di Per cosa si uccide e del Giovane sbirro. Con il pretesto della narrazione romanzesca, Biondillo fa vivere i personaggi dei suoi romanzi in contesti dove temi urbani come la marginalità, il degrado, la sicurezza, la “periferia” escono dai luoghi comuni del giornalismo e della propaganda spiccia e diventano parte del racconto. Case, quartieri e città sono spazi animati, teatri d'azione dei delitti e delle indagini su una malavita un po’ guascona, dove il degrado è il contorno di una vitalità che i luoghi comuni sulle periferie non colgono. In questo, il conflitto di interessi tra l’architetto e lo scrittore riuniti in un medesimo soggetto si risolve a vantaggio del lettore: a maggior ragione quando questi sia, a sua volta, un architetto che possa apprezzare oltre la trama del racconto, la dimensione spaziale, lo sfondo su cui si muovono le figure. Paradossalmente, è proprio a partire da questo sguardo marginale e ‘dal basso’, e non dai centellinati esiti dell’architettura d’autore, che sembra riemergere una via d’uscita dal disincanto iniziale, la stessa che porta a rovesciare l’invito negativo dell’avvio per suggerire al contrario di studiare l’architettura e di farla studiare, nonostante tutto e per tutte le ragioni in cui, a costo di scontrarci con l’evidenza, abbiamo tutti creduto. Salvo poi suggerire di fuggire all’estero, “ché qui non c’è speranza”. Nonostante queste continue sollecitazioni alterne, e contraddicendo la graziosa stroncatura di Casabella (che gli concede l'aggettivo simpatico come alle fanciulle delle quali non si voglia confessare la scarsa avvenenza), il libro è assai gustoso, arguto e piacevole, da far leggere agli amici. Principianti o meno che siano. Alberto Vignolo

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lavori in corso: santa marta La redazione di «architettiverona» il 5 Settembre 2008 ha fatto visita al cantiere di restauro del Silo di Ponente all’interno del complesso monumentale della “Provianda” o meglio, come definito nella originale denominazione austriaca dello stabilimento di Santa Marta, il K.K.Militar Verplegs Etablissement (1860/65). La visita è stata resa possibile dalla disponibilità dell’Amministrazione universitaria, nella persona di Sara Mauroner dell’Ufficio Stampa dell’Ateneo, che con grande efficienza ha organizzato l’evento. All’interno del cantiere siamo stati accolti, con cortesia e competenza dal R.U.P. arch. Arieti e dal Dir. Lavori Ing. Mario Spinelli che ci hanno accompagnato all'interno di questo interessantissimo laboratorio di restauro. La nostra rivista nel numero 79, aveva già recensito, con un preciso commento di Angelo Bertolazzi, il bel volume Massimo Carmassi, Conservazione ed architettura. Progetto per il Campus

universitario di Verona, all’interno del quale è compreso anche il Silo di Ponente. L’ambito della ex Caserma di Santa Marta ha costituito, per quasi un secolo e mezzo, una sorta di “città proibita” all’interno delle mura magistrali veronesi, incredibilmente nascosta nella sua grandiosità monumentale e nella sua autarchia urbana alla stragrande maggioranza dei veronesi. Questo enorme patrimonio viene ora finalmente messo a disposizione della città e costituisce per Verona un’opportunità strategica di valorizzazione storica, architettonica ed urbana, che inizia proprio con il recupero di uno dei due sili. Il termine silo, costituisce nella fattispecie, sia linguisticamente che architettonicamente, una fuorviante e sorprendente metonimia di una precoce e perduta funzionalità, verificato che all'indomani del suo completamento il “contenitore edilizio" fu radicalmente riformato dalla nuova amministrazione militare italiana come magazzino, con l'inserimento al suo interno di due possenti orizzontamenti e dai loro complementari rinforzi


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verticali. Entrando all’interno del cantiere della fabbrica si rimane immediatamente colpiti dalla suggestione degli enormi spazi sviluppati longitudinalmente e tripartiti, al piano terra e primo, da una doppia serie di pilastrature, in essenziali navate. Le indagini geotecniche, che hanno preceduto la fase esecutiva dei lavori, hanno rivelato la presenza, al piano interrato, all’interno del perimetro dell’edificio, di una serie articolata di spazi e percorsi, prima ignoti e probabilmente volutamente interrati successivamente per esigenze statiche connesse alla sopra riportata rifunzionalizzazione dell'edificio. Il progetto che si sta portando a compimento prevede la creazione, al piano terra e primo, di spazi didattici definiti e limitati da diaframmi vetrati che permetteranno, articolandola ed arricchendola, la conservazione percettiva dell’unitarietà dei volumi originari. Il bellissimo piano secondo sottotetto, il cui spazio é scandito da una serie impressionante di capriate lignee, diverrà una clamorosa aula magna. Nella parte meridionale dell’edificio, il progetto ha razionalmente concentrato il vano scale, oltre agli spazi di servizio e a quelli tecnici. L’intervento al Silo di Ponente costituisce il primo importante passo che porterà al restauro complessivo dell’intero compendio monumentale definito dall’altro Silo gemello di Levante e dall’imponente Panificio. Verificata l’alta qualità progettuale ed esecutiva dell’intervento in corso, è auspicabile che l’intero complesso monumentale ne segua coerentemente le indicazioni, indipendentemente dalla destinazione funzionale e dal committente (mentre il Silo di Ponente ed il Panificio saranno funzionali alle attività didattiche-amministrative dell’Università, il Silo di Levante sarà utilizzato dal Comune di Verona). A tal fine, si sarebbe potuto anche ipotizzare la traslazione dei tre nuovi corpi scala esterni previsti dal progetto ad ovest del Silo di Ponente, all’interno del corridoio fra i due fabbricati gemelli, in modo da enfatizzarne la sinergica funzionalità a servizio dei due grandi “contenitori”. Rimane un unico limitato dubbio metodologico sull’ottimo progetto dell’arch. Carmassi: quello legato alla scelta di lasciare a

vista le pur bellissime superfici murarie esterne, definite dall’alternanza, in elevazione, tra strutture murarie magistralmente apparecchiate con grossi ed irregolari blocchi calcarei (tufo d’Avesa) con strati isodomi di laterizi. Tale scelta, che vincolerà presumibilmente i successivi interventi di restauro, costituisce una strategica scelta progettuale che si pone, con consapevole discontinuità, rispetto quella originaria che prevedeva l’intonaco quale pelle dello storico edificio. Berto Bertaso

un libro sulla gran guardia Pierpaolo Brugnoli, AlbertoTotolo Il Palazzo della Gran Guardia di Verona Cierre edizioni, 2008 Dobbiamo essere grati ai due autori, Pierpaolo Brugnoli, uno dei decani degli storici veronesi, ed il giovane ma già esperto Alberto Totolo, per averci svelato questa bellissima, quanto poco conosciuta, pagina di storia dell’ architettura veronese. Per emulazione, ci augureremmo di vedere trasposto un similare abbinamento anagrafico, verificatone il felice esito letterario, anche nella pratica della progettazione architettonica veronese, dove il “substrato umano”, sicuramente non difetterebbe! Ma veniamo al contenuto del libro ed alle interessanti riflessioni che si sono innescate dalla sua densa lettura. L’edificazione del Palazzo della Gran Guardia rappresenta un episodio cruciale per la definizione urbanistica di Piazza Brà, della quale ne costituisce il monumentale fronte scenografico a mezzogiorno. La sua tribolata vicenda costruttiva si lega, strettamente, a quella della riforma dell’ambito urbano che diverrà intorno alla metà del sec. XIX il nuovo foro moderno della città in contrapposizione di quello romano-medioevale di Piazza delle Erbe. Intorno ai primi anni del sec. XVII la piazza, intesa come tale, non esisteva, limitandosi ad uno smisurato ed indefinito slargo uti-

lizzato per rassegne militari e in parte come pubblica discarica, delimitato perlopiù da un’edilizia anonima e miseranda, il tutto sovrastato dalla grandiosa mole del monumentale rudere dell’anfiteatro romano. Tale sorprendente stato di fatto costituiva l’evidente cifra di come la città, ancora ai primi del ‘600 non si fosse adeguata alla riforma spaziale conseguente all’addizione cangrandesca della prima metà del sec. XIV, che dilatando abnormemente a sud il perimetro urbano ne aveva d’emblée rivoluzionato gli equilibri urbani. Tuttavia nel corso del ‘500, alcuni importanti segni preannunciarono l’incipiente riforma urbana: in primis la costruzione della Porta Nuova, eretta tra il 1533 ed il 1544. In essa, Michele Sammicheli trasfuse una evidente romanità, quale emblematico segno dell’originale riferimento antiquario romano, posto all’estremo simmetrico del nuovo rettifilo urbano; allo stesso modo, la testa di Giove Ammone, a fastigio del fornice extra moenia di Porta Nuova, troverà anch’essa una significativa e consapevole citazione, all’interno del “Bell’occhio della Brà”, il Palazzo degli Honorij, sempre del Sanmi-

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cheli, eretto nella seconda metà del ‘500, nel mezzo del futuro “Liston”. È palese, in tale contesto territoriale, come acutamente ha sintetizzato Lionello Puppi che “...la volontà evocativa finisce consapevolmente per dilatarsi dalla porta e per estendersi a coinvolgere, impressionare ed informare la dimensione presagita, e più estesa, di scala urbanistica”. Appare tuttavia insolito che, in un così fertile substrato pieno di edificanti premesse, l’incipit della costruzione sia stato quello un po’ narcisistico ed autoreferenziale di Giovanni Mocenigo, Rettore e Capitano della Serenissima a Verona dal 1608 al 1610. Il Mocenigo, rappresentante di una delle famiglie patrizie più importanti di Venezia, si pose l’obbiettivo, durante il proprio mandato, di rivitalizzare l’elitaria e ormai decaduta “Accademia Filotima” e di accasarla in una nuova e prestigiosa sede. A tale scopo utilizzò, per la promozione del suo precipuo e personalistico disegno, le contingenti necessità di fornire ai soldati un luogo coperto per le loro rassegne nei giorni di pioggia e, in sovrappiù, di procurare alle alte cari-

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che veneziane in visita a Verona un sontuoso ostello. Le problematiche legate al finanziamento che costituivano, allora come oggi, un rilevante ostacolo alla realizzazione dell’opera, vennero brillantemente aggirate dal Mocenigo, a cui va ascritta un’indubbia spregiudicata gestione della res pubblica, “allestendo” una sorta di Finanza di Progetto ante litteram. Questo surrettizio escamotage spianò la strada all’approvazione veneziana, concessa, peraltro, senza aver la giusta contezza oggettiva della proposta. In tal modo, nel 1610, i lavori poterono tempestivamente partire. Ben presto, però, l’importanza della realizzazione, che doveva costituire, al tempo, la più rilevante opera pubblica veronese evidenziò l’inevitabile necessità, per il proseguimento dei lavori, dell’apporto finanziario delle casse dello Stato Veneto. Tuttavia, nonostante la successiva concessione di un importante contributo economico da Venezia, già nel 1615, causa l’impossibilità di far fronte alla crescente domanda finanziaria richiesta, si dovettero sospendere i lavori, “restando imperfetto tutto il

lato a mattina dalla nona finestra del secondo piano, oltre due terzi delle volte e del tetto” come annotò Giovan Battista Da Persico (1820). Numerose ed icastiche stampe del Settecento e degli inizi dell'Ottocento, ben rappresentano la fabbrica incompiuta. In soli cinque anni, i lavori furono comunque portati avanti con grande impulso, innalzando buona parte dell’edificio. Ne sarebbero, probabilmente, bastati altri due o tre per completarlo. Per varie ed articolate ragioni, invece la fabbrica rimase così, incredibilmente, incompiuta fino al 1819. Benché non sia agevole elaborare una “diagnosi” che possa individuare le cause di un così prolungato e patologico abbandono dei lavori, a questo scopo può essere di aiuto l’utilizzo di una strumentazione critica consolidata, quale quella espressa dalla celebre triade vitruviana (Firmitas, Utilitas e Venustas). Appare nel nostro caso evidente, come fra le tre condizioni citate da Vitruvio, l’Utilitas opportunamente declinata in una accezione lodoliana, fosse la condizione più inadeguata. Tale carenza, nel nostro caso, appare infatti quasi come una tara presente sin dalla nascita di un progetto che definisce un grandioso contenitore senza dotarlo di un coerente contenuto ovvero in termini semiologici, il segno architettonico della fabbrica, il significante, senza il significato, rappresentato dalla sua esplicita e conseguente destinazione funzionale. Ma dopo aver parlato, finora, solo dell’oggetto architettonico e della sua valenza urbanistica oltreché del suo committente, è opportuno soffermarci sulla misteriosa figura del suo progettista. I due autori sull’argomento dedicano un bel paragrafo del libro informandoci, sin dall’inizio, che la storiografia veronese non è mai riuscita, sulla base di documenti certi ad attribuire con sicurezza la paternità dell’opera, rivelandoci nel contempo d'importanti indizi documentali inediti, che collegano direttamente il Curtoni alla fabbrica tardorinascimentale. Viene a memoria il diffuso detto popolare a riguardo della certezza, nel concepimento, della figura della madre rispetto all’indeterminatezza della figura paterna. Facile è la trasposizione metaforica, nel caso di un’architettura, della madre con il committente (persona


urbanisticamente presenza, proprio nel bel mezzo della Brà, dell’Ospedale della Misericordia (del quale sarebbe interessante approfondire, peraltro le vicende) innalzato appena pochi decenni prima, nel 1788. La fine dell’esigua parentesi storica napoleonica, sancita dal Congresso di Vienna del 1815, e la conseguente restaurazione austro-ungarica, non arrestarono, se non temporaneamente, il progettato completamento del Palazzo. La nuova amministrazione ne cambiò tuttavia la destinazione funzionale da Palazzo municipale a Pinacoteca. Se nel 1819, fu abbattuto l’inopportuno volume della Ospedale della Misericordia, con il 1821 l’Amministrazione comunale riuscì, in appena tre anni, a completare il contenitore con il suo fronte prospettico principale e le imponenti volte ribassate, ancora mancanti, definenti l’intradosso del monumentale porticato. La necessità, dopo l’abbattimento dell’Ospedale della Misericordia, di un appianamento del terreno della piazza ebbe come conseguenza di far emergere il Palazzo dal suo immediato contesto, che dovette essere quindi dota-

to di una prima scalinata, a tre gradini, sviluppata lungo tutto il prospetto principale sulla Brà, al fine di restituirgli la dovuta accessibilità. Nel 1846, al seguito di un ulteriore abbassamento del livello della Piazza, fu realizzata l’attuale scalinata, a sette gradini. L’aggiunta funzionale alla fabbrica di questo moderno crepidoma, non originariamente previsto, pur alterandone la lettura prospettica costituisce un elemento linguistico, tutto sommato coerente, se non fosse per il contrasto cromatico tra la pietra di Prun del nuovo basamento, con la più calda tonalità del calcare veronese degli elevati. Ma quello che può essere un difetto, d’altra parte può diventare, seppur involontariamente, nella fattispecie, una buona pratica del restauro, quale appunto la doverosa differenziazione materica fra il nuovo intervento e la preesistenza come sancito, a posteriori, dalle numerose carte del Restauro contemporanee. L’esigenza del completamento della volta ribassata pose dei dubbi sulla capacità statica della mura comunali, definenti il lato meridionale del Palazzo, ad assolvere al loro

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fisica o giuridica che sia) e del padre con l’architetto. In effetti questa indeterminatezza ha costituito, a lungo, una prassi significativa, della quale, peraltro, ne possiamo ancor oggi percepirne il pesante retaggio, di come l’architetto sia considerato, frequentemente, una figura secondaria rispetto a quella, appunto, sia del committente che dell’opera stessa. Emblematico, in tale accezione è il caso in questione della Gran Guardia. Verso la fine del Settecento la storiografia cominciò, dopo che per lungo tempo era stato evocato l’autorevole nome del Sanmicheli, ad accreditare quale progettista del Palazzo il nome di Domenico Curtoni, che del grande architetto veronese era, del resto, nipote ed apprezzato allievo nonché continuatore della feconda “bottega” sanmicheliana, che annovera oltre a lui, tra gli altri, l’altro nipote, Giangirolamo Sanmicheli ed il cognato di questi, Bernardino Brugnuoli. L’attribuzione, seppur solo presunta, al Curtoni mise d’accordo tutti apponendo, seppur indirettamente, l’autorevole sigillo sanmicheliano sull’opera e sull’intera pianificazione urbanistica, nei termini che abbiamo già evidenziato in precedenza. E se solo verso il termine del sec. XVIII, l’incompiuto contenitore, aveva, pirandellianamente, infine trovato un autore mancava sempre quella Utilitas che costituiva il suo vero difetto di “fabbrica”. Bisogna aspettare i primi dell’ottocento, affinché le sorti della fabbrica ritornino all’ordine del giorno degli interessi amministrativi della città. Durante l’epoca napoleonica (17961814), il Palazzo fu donato nel 1808 al Comune, con l’obbligo di completarlo entro tre anni, dal Vicerè del Regno D’Italia, Eugenio de Beauharnais, perchè ne faccesse la sua nuova sede, ridefinendone, nel contempo, l’ambito antistante della Piazza. E così con la nuova destinazione della Gran Guardia, anche per lo slargo della Brà si potè, analogamente, prefigurare la trasformazione da piazza d’armi a nuovo centro civico della città quale novello Foro Bonaparte veronese intra moenia. Ma la ormai lucida presa di coscienza che il completamento dell’edificio andasse inevitabilmente di pari passo alla riforma della piazza, si scontrò con l’ingombrante e monumentale, quanto incongrua

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odeon compito di sostegno. Al dir il vero tale preoccupazione appare alquanto sorprendente, tenuto conto che la struttura voltata esistente, portata a termine nel 1615, aveva fino allora, per quanto conosciuto, svolto senza problemi la propria funzione. Ma tant’è, che per assicurare una adeguata con-

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trospinta alle forze orizzontali delle volte, il Barbieri progettò, probabilmente prima del 1820/21, la costruzione di un ampliamento volumetrico sul lato meridionale della muraglia comunale, costituito da dieci nuovi vani le cui murature divisorie avrebbero rinforzato, come speroni di sostegno,

l’antico struttura in elevazione. Il progetto prevedeva, inoltre, la contestuale realizzazione di un monumentale scalone, posto centralmente tra i nuovi spazi commerciali, per collegare il piano terra porticato a quello nobile. Entro il 1824 furono completate le opere relative alla fabbrica originaria, ma non quelle previste dal nuovo ampliamento progettato dal Barbieri. Nel 1834, una nuova proposta progettuale del Conte Antonio Pompei previde per il Palazzo, oltre alla destinazione ormai definita a pinacoteca, quella di sede delle tre più autorevoli istituzioni culturali cittadine: l’Accademia di Agricoltura, quella di pittura (della quale il Pompei era anche il Presidente) e la Società Letteraria. Il Progetto del Pompei che in pratica riprendeva, a grandi linee, quello redatto dal Barbieri nel 1819, venne approvato nel 1836 e appaltato nel 1840. I lavori terminarono solo nel 1847 e furono collaudati nel 1853. Nel 1848 a sigillo scenografico e dell’assetto urbanistico-edilizio della Piazza, trovò conclusione anche la fabbrica della “Gran Guardia nuova” di Giuseppe Barbieri, la cui realizzazione era però iniziata appena tredici anni prima, nel 1835. La funzione strategica dell’edificio del Barbieri è indubbiamente debitrice, come del resto la concezione dell’ampliamento della Gran Guardia, nei confronti del “Masterplan” di Gaetano Pinali (1819?), come appare rappresentato nella bella incisione di Francesco Ronzani del 1822. In esso è lucidamente definita l’organizzazione compositiva della piazza e dei suoi nuovi elementi costitutivi. In particolare, la Gran Guardia Nuova che vi si trova rappresentata è la realistica anticipazione, in icnografia ed in alzato, di quella che sarà poi innalzata dal “tecnico” Giuseppe Barbieri. La visione del Pinali attribuisce alla Gran Guardia un ruolo strategico di cerniera tra l’Arena e la Gran Guardia vecchia, un magniloquente scenario, a chiusura del cono ottico principale dell’invaso della Brà, in grado di rivaleggiare per importanza e monumentalità, ad armi pari, con i principali monumentali attori presenti nel teatro della Piazza. L’amarezza del Pinali, originale e romantica quanto ormai anacronistica figura di architetto dilettante, è significativamente trasposta nelle sue


Berto Bertaso

guadalupe e carmela La tentazione era troppo forte: citare la rivista «Abitare», nostra prestigiosa sorella maggiore, che ha squadernato addirittura in copertina un ben piazzato donnone con tanto di grembiule d’ordinanza e aspirapolvere professionale. Tale da suscitare l’immediato stupore di essere incappati non nella storica testata che si dichiara dedita all’interior, design, architecture, art,

indagine sullo stato dell'architettura veronese parte seconda: l'architettura degli spazi del lavoro progetti e realizzazioni: castiglioni, contec, beozzo, archingegno, arteco, mangiarotti, caccia dominioni_ albanese, la fabbrica per l’uomo _ croset su gino valle _ volkwin marg sul progetto per la fiera_ aurelio galfetti a villa il girasole _ lavori in corso: santa marta _ mostre: palladio, olivieri, lessinia di pietra

ma piuttosto in un magazine su detergenti e prodotti per la pulizia domestica: che potrebbe tutt’al più chiamarsi Casalinda. Cotanto personaggio, che risponde all’esotico nome di Guadalupe, deve tale onore alla sua mansione di custode e colf, o donna di servizio che dir si voglia, di una celebre abitazione costruita a Bordeaux da Rem Koolhaas. Sdoganato così il ruolo di custode di una architettura d’autore, ecco rivelarsi improvvisamente un inatteso corrispettivo veronese. Nell’ambito della presentazione di «architettiverona» 81 tenuta al Girasole di Marcellise, preziosa e discreta è stata infatti la figura della signora Carmela, che della villa è custode, guida, interprete. Nell’accogliere i visitatori tra gli spazi domestici e gli affascinanti meccanismi giratori, la signora Carmela espone con passione e consapevolezza la storia e le vicende del luogo, svelandone altresì con piglio fermo gli anditi più recessi e le problematiche di pulitura e lustratura. Dacché ella svolge il proprio compito con il comprovato impegno che l’odore di cera dei parquet palesa all’olfatto degli avventori. Accompagnata da una fedele “custode della custode” che risponde all’appellativo di Stella, mansuetissima lupacchiotta che gode delle privilegiate comodità dell’ascensore della Villa, Carmela è una presenza tanto singolare quanto lo è il luogo dove svolge la propria attività, anche se ella, per fortuna, non ha smarrito per nulla la capacità di piroettare su se stessa. Aleggia costante nelle sue parole la venerata figura della Signora, che della Villa è stata erede, proprietaria e generosa donatrice, per il pubblico godimento. Della Signora, Carmela è latrice della testimonianza diretta che risale al geniale inventore di spazi & meccanismi. Di questa potenziale copertina-omaggio alla nettezza architettonica, resta però solo una bozza: il capriccio della citazione è rimasto tale, mentre autentico è il ringraziamento di «architettiverona». A.V.

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riflessioni relative la gestione della cosa pubblica, contenute in una lettera del 1833, indirizzata ad un amico, dove scrive “...quale melanconia tornando, nella insula Verona, ove tutto si fa male e si spende allegramente”. Visionario nella sua concezione utopistica e romantica dell’architettura, ma assolutamente lucido in una posizione che molti probabilmente sottoscriverebbero, trasposta, anche nella contemporaneità delle cose veronesi. Nella seconda metà dell’ottocento, la Giunta Camuzzoni realizzò, all’interno dell’ormai definita e consolidata immagine scenografica della Brà, il discutibile arredo a verde a forma trilobata, che ancor oggi nella sua forma consolidata possiamo “ammirare”. Tale intervento costituiva l’esito, in questo importante contesto, dell’incontrollato fervore, che fin dagli inizi del secolo cercava di dotare di arredi verdi, dovunque e comunque, l’intera città. L’operazione, seppur ormai purtroppo urbanisticamente metabolizzata , ha avuto come esito con l’introduzione di essenze dall’alto fusto la creazione di un assurdo ed improprio boschetto, comportando una devastante interruzione di tutti i principali coni ottici presenti all’interno della piazza. Concludiamo il nostro lungo percorso storico, iniziato ai primi del ‘600, con una breve ma doverosa nota sulle ultime vicende contemporanee della storica fabbrica. Il palazzo della Gran Guardia, a riprova della difficoltà storica nel trovare una destinazione funzionale stabile, è stata oggetto, tra il 1995 ed il 2001 su progetto dello Studio Arteco e dell’arch. G. Perbellini, di un importante intervento di restauro, che ha comportato la sua strategica riconversione come Centro Congressi. Quest’ultimo si è sostanziato come una sorta di ampliamento dell’ampliamento ottocentesco, definito in posizione traslata ad est posteriormente al primigenio volume secentesco a ridosso delle mura comunali, con la creazione di una grande sala a piano terra da 560 posti a sedere a cui vanno aggiunti ulteriori 120 posti ricavati in una balconata alla quota del portico dell’edificio monumentale.

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lo stato dei luoghi colloquio con enzo e raffaello bassotto

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All’interno dell’indagine sull’architettura industriale nel territorio veronese, un posto di rilievo spetta alle immagini fotografiche di Enzo e Raffaello Bassotto. Fabbriche e opifici, stabilimenti e manufatti appartenenti in buona parte all’epoca d’oro dell’industrializzazione, sono i soggetti del corposo volume al quale i fratelli Bassotto hanno affidato la loro pluriennale indagine (Lo stato dei luoghi. Per un inventario fotografico del patrimonio industriale nel veronese, Cierre 2008, pubblicato in occasione dell’omonima mostra tenuta presso il Centro Internazionale di Fotografia agli Scavi Scaligeri di Verona dall’11 maggio all’8 giugno 2008). Prendendo spunto da questo volume, abbiamo incontrato i fratelli Bassotto per parlare della loro esperienza, che unisce al valore artistico della rappresentazione fotografica uno straordinario valore di documentazione, e che compone un vero e proprio archivio dei luoghi ritratti. Le immagini che accompagnano questo intervento, scelte tra le numerosissime del volume che compongono il volume, vogliono suggerire un potenziale itinerario nella provincia veronese sulle tracce di alcuni sorprendenti ed inattesi esempi, cui l’abbandono ha conferito, nella maggior parte dei casi, un plusvalore estetico che pone in maniera problematica l’ipotesi di un loro eventuale recupero o riuso: in maniera analoga a quanto si potrebbe dire delle più note rovine industriali cittadine, quotidianamente all’ordine del giorno nelle cronache urbanistiche, politiche e finanziarie. Ai fratelli Bassotto abbiamo chiesto come è nata

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la loro attenzione per gli spazi del lavoro, e come il loro sguardo si pone, attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, nei confronti di questo tema e di quelli sui quali stanno orientando la loro ricerca. (Alberto Vignolo) Fin dall’inizio del nostro lavoro, quello del patrimonio industriale è uno dei filoni che abbiamo seguito, perché l’architettura e il paesaggio – quello naturale e quello costruito, compreso quello industriale - ci hanno sempre affascinato e ci interessano. Nel corso del tempo, continuando a lavorare su questo tema, l’interesse specifico ha preso corpo, ed è sorta l’esigenza di mettere ordine rispetto a quanto già fatto, in prospettiva del lavoro futuro. È per questo che siamo andati alla ricerca delle testimonianze mancanti, e ciò ha un po’ mutato il modo di raffigurare questi spazi. Un aspetto importante, che appare ora dal volume, è infatti che tutto il nostro lavoro estetico e di documentazione è legato alla raffigurazione del sito, cioè del suo valore di documento. Non si tratta cioè delle classiche fotografie di architettura, nè abbiamo cercato di fare solo delle immagini suggestive: abbiamo sempre cercato di mantenere una “distanza” omogenea per poter dare un minimo di sistematicità alle immagini. È come se ci togliessimo il vestito di fotografo - di artista - e racchiudessimo tutta l’arte nell’oggetto che stiamo fotografando. Nostri maestri di riferimento in questo atteggiamento sono stati i tedeschi della scuola di Dusseldorf, come Bernd e Hilla

Becker: fotografi che hanno fatto diventare la raffigurazione dell’oggetto un vero e proprio linguaggio artistico. Per alcuni siti, come ad esempio per i Magazzini Generali, per il Mercato Ortofrutticolo o per la Manifattura Tabacchi, abbiamo lavorato molto in questa direzione pensando che in futuro non resterà quasi nulla di questi luoghi, e quindi con il dovere di dare una testimonianza di qualcosa che non ci sarà più. In realtà, c’è ancora molto altro da fare per completare il lavoro in questa direzione. Per realizzare questo libro, abbiamo intrecciato i dati delle pubblicazioni specializzate con il piano programma del Comune di Verona per un censimento generico dei luoghi dell’industria; poi siamo andati sul territorio a verificare, scoprendo a volte anche casualmente siti molto interessanti, specialmente nella bassa veronese, dove abbiamo trovato dei luoghi affascinanti e ancora abbastanza integri e mai documentati. In realtà, la nostra idea è che se non c’è un particolare interesse architettonico, il sito industriale possa anche essere abbattuto, perché ogni tentativo di conservazione, almeno del genere al quale si assiste a Verona e in Italia in generale, purtroppo non rispetta il valore storico di quello che si sta teoricamente recuperando. Il rudere è fondamentale, diventa bellissimo, nella sua decadenza, anche da un punto di vista architettonico. Per capire il senso delle nostre fotografie, la rotonda dei Magazzini Generali è perfetta così com’è, appena ripulita e lasciata con la sua patina, mostrando quali erano le sue funzioni. Se la trasformassimo

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in un auditorio, cosa risolveremmo? Può darsi che ne esca un progetto bellissimo, però non avremo più il rudere: a nessuno verrebbe in mente, poniamo, di ristrutturare l’Arena… Ora stiamo iniziando un’ulteriore avventura che è quella di scendere più in basso, con l’idea di fotografare luoghi, manufatti ed edifici che pensiamo possano un giorno appartenere ad una nuova archeologia. Già ci sono alcuni esempi ne Lo stato dei luoghi, come i distributori di benzina o le torri degli acquedotti, manufatti che stanno progressivamente scomparendo e che invece sono molto interessanti, perché più passa il tempo, più diventano interessanti. Rientrano in questa visione le villette degli anni ’50, caratterizzate da una serie di elementi ricorrenti che rasentano spesso il kitsch. Su questo tema c’è molto da lavorare, perché ci sono ancora degli esempi molto interessanti, come anche le case popolari di San Bernardino a Verona, sia da un punto di vista fotografico ma anche, secondo noi, da quello architettonico, perché rappresentano delle forme che si sono perse e che crediamo andrebbero documentate. Scoprire e rappresentare questi esempi è sicuramente per noi anche un motivo di orgoglio. La fotografia è una “arma” che non ci interessa usare politicamente: secondo noi, l’impegno non sta nelle dichiarazioni, ma nell’essenza delle cose. Già dal primo libro che abbiamo fatto a Borgo Nuovo alcuni anni fa, ci siamo resi conto del fatto che la fotografia deve essere esaustiva di per sé. Se si è onesti nel fotografare, l’essenza stessa sta all’interno delle cose che si stanno fotografando, non c’è bisogno di aggiungere altro. E questo è già sufficiente.

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Enzo e Raffaello Bassotto, nati a Verona, rispettivamente nel 1938 e nel 1946, iniziano la loro attività comune alla fine degli anni Settanta. Dal 1980, dopo aver costituito l’Archivio Fotografico del Comune di Verona, pur continuando la collaborazione con vari periodici e quotidiani italiani e stranieri, si dedicano prevalentemente alla realizzazione di libri esclusivamente fotografici e di mostre personali in spazi pubblici e privati in Italia e all’estero. In questi libri e nelle contestuali mostre personali alternano l’indagine di carattere socioletterario alla rilettura del paesaggio, soprattutto urbano. In questo ambito collaborano al programma di documentazione del territorio Archivio dello Spazio, organizzato dal Progetto Beni Architettonici e Ambientali della Provincia di Milano e ad altre analoghe iniziative. Nel 1995 sono stati invitati alla XLVI Biennale di Venezia nell’ambito della mostra l’Io e il suo doppio presso il Padiglione Italia ai Giardini della Biennale. Negli ultimi anni collaborano con il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri curando diverse mostre e contribuendo alla costituzione del Centro di Documentazione Fotografica. Molte loro fotografie sono conservate presso collezioni museali pubbliche e private sia in Italia che all’estero.

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1. San Bonifacio, Zuccherificio, 1900. 2. Cerea, Fornace. 3. Montorio, Ponte Florio, Fornace La Calce. 4. Verona, Veronetta, Provianda di Santa Marta, 1866. 5. Salizzole, Calcinaro, Tabacchificio Cristofoli. 6. Verona, Garage Fiat (Fagiuoli), 1920. 7. Verona, Zai, Manifattura Tabacchi, 1932. 8. Albaredo all'Adige, Ex Tabacchificio Carlo Brena, 1949. 9. Tregnago, Cementificio Italcementi, 1922. 10. Sega, Val del Tasso, Canale Biffis.

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una diversitĂ salutare intervento di aurelio galfetti a villa il girasole

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Le fotografie della Villa Girasole (Fagiuoli-Invernizzi) 1936 a Marcellise sono tratte dal volume "Lo stato dei luoghi" di Enzo e Raffaello Bassotto, Cierre Edizioni. Le immagini dell'incontro di presentazione di AV81 sono di Dario Aio

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La riflessione sul tema dell’abitazione condotta nel numero 81 di «architettiverona» ha avuto un ulteriore momento di confronto e dibattito in occasione della presentazione del numero, che si è tenuta sabato 20 settembre 2008 in un contesto d’eccezione: Villa Il Girasole a Marcellise, luogo emblematico di una sperimentazione sulla casa che ha raggiunto in questo caso esiti senza eguali. Noto soprattutto per la fama diffusa da alcuni testi pionieristici e dalle fotografie che ne hanno propagato l’immagine di bizzarra curiosità, il Girasole è risultato in realtà poco conosciuto anche agli stessi architetti veronesi, che in questa occasione l’hanno potuto finalmente scoprire e visitare, anche grazie alla preziosa guida di Simone Nicolini, architetto veronese profondo conoscitore del luogo. Dobbiamo l’opportunità di questa visita e l’ospitalità dell’incontro alla cortesia del professor Aurelio Galfetti, architetto ticinese e presidente della Fondazione Angelo e Lina Invernizzi che ora custodisce la villa, a seguito della donazione all’Università di Mendrisio da parte della figlia dell’ingegner Invernizzi, signora Lidia, cui va la nostra riconoscenza per avere custodito fino ai nostri giorni questo esempio davvero straordinario. Nell’ambito di questo incontro, che avuto il patrocinio del Comune di San Martino Buon Albergo, abbiamo chiesto ad Aurelio Galfetti, approfittando della sua presenza veronese, una riflessione sul tema della casa, che egli ha affrontato presentando la sua dimora estiva realizzata sull’isola di Paros in Grecia. A questo intervento è seguito quello di Roberto Masiero, professore di Storia dell’architettura allo IUAV, con una testi-

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monianza a ricordo di Livio Vacchini, altro esponente di quel fertile territorio dell’architettura rappresentato dal Canton Ticino in particolare a partire dagli anni 70, del quale ha presentato alcune architetture residenziali. Nell’intervenire al Girasole, Galfetti ha voluto leggere e confrontare un progetto pubblicato sul numero 81 di «architettiverona» e a lui ben noto, la casa Andreoli di Crotti - Invernizzi, in parallelo al carattere innovativo dell’edificio di Marcellise. Riportiamo di seguito il testo dell’intervento, associandoci all’auspicio che il Girasole, recuperando il moto rotatorio oggi bloccato, possa simbolicamenteri entrare nel circolo della vita culturale veronese. (Alberto Vignolo) Con molto piacere e molte speranze, a nome della Fondazione Angelo e Lina Invernizzi, che ha ricevuto in donazione questa proprietà e che gestisce la villa, vi do il più cordiale benvenuto al Girasole, che oggi ospita la prima manifestazione di un progetto, non ancora tutto scritto, per una futura attività culturale propria del Girasole, che vuole affrontare i temi dell’architettura contemporanea e che ha, fra i principali obiettivi, quello di far rinascere questo edificio. Rinascere non è in realtà la parola giusta, perché penso che il Girasole non sia mai morto. Negli ultimi anni si è forse un po’ assopito, ma è sempre stato amorevolmente curato dalla Signora Lidia, la figlia dell’ing. Angelo Invernizzi, e in seguito dalla nostra Fondazione, in attesa di incontri come quello di oggi che, vista la presenza di tanti

architetti, lascia effettivamente sperare in un suo inserimento nella vita culturale del Veneto. Oggi il Girasole appare ancora così attuale e così ricco di speranze, che credo sia pienamente giustificato il desiderio della nostra Fondazione di presentarlo al mondo della critica contemporanea, per riproporre alcune di quelle idee che l’hanno generato e che hanno influenzato tutto il movimento moderno durante il secolo scorso. Quando, alcune settimane fa, mi è stato proposto di ospitare al Girasole la presentazione del numero 81 della rivista «architettiverona» che presentava alcune interessanti architetture veronesi e, fra queste, un progetto straordinario degli anni Settanta degli architetti Sergio Crotti e Enrica Invernizzi, ho subito pensato che si trattava di un’occasione da non perdere: vi dirò il perché. Premetto che non sono un critico dell’architettura, e sicuramente, dirò cose un po’ strane che vi prego di perdonare pensando che sono dettate da una grande ammirazione per tutte quelle opere di architettura, come il Girasole e la casa Andreoli, che rappresentano un momento di ottimismo, di speranza per un futuro diverso e migliore del presente; per quelle opere che scardinano le certezze, che sovvertono i valori e le regole da tutti condivisi. Parlando di questo incontro, era nata l’idea di mettere a confronto due periodi straordinari, oggi un po’ dimenticati e, negli anni scorsi anche fortemente criticati: gli anni 20-30 e gli anni 60-70. Ovviamente non oso farlo in termini generali, ma mi permetto di mettere a confronto le due case,

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1,4,7-9. Vedute esterne, il loggiato e la "ralla" di Villa Il Girasole. 2-3. Due momenti dell'incontro organizzato da «architettiverona». 5. Aurelio Galfetti. 6. Roberto Masiero.

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il Girasole e la casa Andreoli. Il Girasole, a mio avviso, fa parte di quelle architetture, di livello internazionale, che alla fine degli anni 20, inizio anni 30 concludono un periodo straordinario che, negli anni stessi, vede la realizzazione della villa Savoye, della casa di vetro di Mies, della casa sulla cascata ecc.. Poi verrà la guerra e tutto si fermerà. Gli anni 60-70 sono pure un periodo molto interessante che, nella scia dei capolavori di Corbu, Mies, Aalto, Niemeyer, ecc., produce architetture che, ancora oggi, possono essere un riferimento importante per i migliori architetti contemporanei come appunto la casa a Praelle di Novaglie. Tra tutte le architetture veronesi cito questa anche perché è la sola che conosco veramente. Quest’ultimo periodo, dal 1955 al 70 è stato, a mio modo di vedere, ricchissimo di stimoli, di invenzioni, di scoperte, che hanno continuato l’eredità dei grandi del movimento moderno con opere degne dei maestri, lavori che erano il frutto di una ricerca libera da preoccupazioni storicistiche, che rielaboravano i nuovi spazi inventati della modernità negli anni 20-30, gli spazi della fluidità, della dinamicità, del rapporto tra esterno e interno, delle trasparenze ecc., insomma gli spazi che corrispondono e interpretano il vivere contemporaneo. Una fioritura di opere che ha generato la reazione di chi vedeva nel moderno la fine del mestiere, la fine di secoli di certezze, la perdita delle regole, dei dogmi, dei valori dell’architettura tradizionale. L’architettura era arrivata, secondo alcuni, sull’orlo del baratro e molti chiedevano

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una risposta rassicurante anche sul piano urbanistico. A questo proposito, ad esempio, Roland Castro a Parigi nel ‘68 tuonava (e tuona ancora oggi) contro Le Corbusier reo di avere generato figli come Crotti e come chi vi parla. Era iniziata la postmodernità, era iniziato quel periodo che intendeva recuperare i valori tradizionali e locali attraverso ricerche assolutamente improprie per un’architettura che cerca di creare spazi corrispondenti alle necessità del vivere contemporaneo come è il caso delle due opere citate. Mi scuseranno gli storici per le mie approssimazioni, ma penso di poter dire che ogni rivoluzione vera è sempre seguita da una restaurazione. E così è stato anche per la rivoluzione del moderno e la reazione corrispondente ha fatto dimenticare l’architettura degli anni 60-70. Oggi però quest’ultima viene nuovamente considerata, così come si ripensa, in termini positivi, l’urbanistica di quegli anni. Ho scoperto la casa di Crotti, come molti, solo ora, perché dimenticata per 30 anni, così come è stato dimenticato, per circa 60 anni, anche il Girasole. Oggi, una vera villa veneta, come appunto è il Girasole, una villa però di cemento armato e alluminio, e per di più girevole, e una casa di cemento armato, brut de décoffrage, e per di più inclinata, si incontrano, si confrontano, si valorizzano; insomma si capiscono, dicono cose simili. Hanno linguaggi diversi ma parlano di valori sostanzialmente simili.

Che cosa le accomuna? Forse quelle cose che mancano all’architettura oggi vincente, quella del rumore delle immagini. Nelle due costruzioni ci sono certamente similitudini con le nostre ultime tendenze come la sfida alla gravità, alla staticità, il gusto dell’innovazione, il piacere dell’anticonformismo, la tentazione della dissacrazione, ecc., tutte cose che non si possono relegare solo fra gli aspetti negativi del fare contemporaneo. Sono atteggiamenti che, se sostenuti da componenti sostanziali sono più che legittimi. Penso di poter dire che ciò che veramente accomuna questi lavori è qualcosa di più profondo, qualcosa che io credo sia il nocciolo duro dell’architettura. Sono architetture che nascono da una ricerca sullo spazio. La parola spazio è oggi in disuso, altri sono i valori privilegiati, ma io credo che la qualità dello spazio di vita dell’uomo sia veramente l’essenza, la ragion e ultima del fare architettura. La qualità essenziale del Girasole e della casa Andreoli è il loro spazio nel senso moderno del termine, lo spazio che privilegia il rapporto interno e esterno, lo spazio continuo, lo spazio fluido, lo spazio complesso. Il Girasole si qualifica per le sue preoccupazioni ecologistiche che anticipano quelle attuali di circa 60 anni, ma il Girasole è un’invenzione spaziale. L’invenzione spaziale dell’ing. Invernizzi è strettamente connessa con il movimento dell’edificio stesso. Si tratta di una materializzazione parti-

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colare del concetto di spazio tempo e di un rapporto interessantissimo tra lo spazio principale della casa (la terrazza triangolare) e il paesaggio che appunto nel tempo cambia continuamente. Ovviamente, senza il movimento rotatorio dell’edificio nel paesaggio molte qualità non sono oggi percepibili, ed è per questo che la Fondazione prevede, come primo intervento, il restauro del movimento. Il Girasole deve rinascere girando, e può diventare anche il simbolo di una ricerca architettonica particolare tutta volta al sostenibile. La casa Andreoli è inclinata per dare una risposta particolare alla forma del sito ma ne deduce anche le componenti per la costruzione di uno spazio interno che pure si arricchisce con il tempo e il movimento. Ho parlato solo del Girasole e della casa Andreoli per comodità. Potrei aggiungere tante altre opere veronesi ma forse queste due hanno una “diversità” che mi sembra salutare non solo per l’architettura veronese ma per tutta l’architettura europea. Sono opere che osano andare oltre i limiti del conosciuto, che inventano, che corrono rischi, ed è questa l’unica strada da percorrere per creare nuovi spazi che vogliono restare tali come appunto sono rimaste le due ville. Ringrazio gli organizzatori e, in particolar modo, il Sindaco di San Martino Buon Albergo per il suo generoso sostegno. Vi ringrazio tutti per essere venuti numerosi a questa iniziativa che, come detto, segna i primi passi per far tornare a girare il Girasole.

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l’ampliamento della fiera di verona: un’occasione perduta? volkwin marg

In occasione del numero dedicato all’architettura del lavoro, «architettiverona» riapre una finestra sul progetto per il nuovo quartiere fieristico di Verona redatto dallo studio GMP di Amburgo, con l’intento di illustrare ai lettori lo stato di avanzamento dei lavori iniziati alla fine del 2004. Pubblichiamo di seguito il testo che il Prof. Volkwin Marg ha inviato alla redazione per dare la propria versione dei fatti. Ci auguriamo che Veronafiere, più volte sollecitata da parte nostra, possa presto replicare non solo a parole, ma con brillanti soluzioni e strategie, per uscire da questa situazione di stallo e garantirsi un futuro di crescita. Quando nel 2004, ormai già quattro anni fa, siamo stati chiamati da Veronafiere ad elaborare un Masterplan per il futuro sviluppo del quartiere, eravamo entusiasti. In Europa il settore fieristico si stava sviluppando velocemente e si stava profilando un nuovo assetto del posizionamento delle fiere a livello internazionale. Dall’originaria caratteristica delle fiere come luogo di scambio, si erano sviluppate già da tempo fiere dedicate alla presentazione dei campionari di merce. Via via sono infine diventate veri e propri luoghi di scambio di informazioni con numerose attività di supporto parallele come seminari e congressi. Ad ogni prodotto va ormai infatti associata l’informazione sul suo utilizzo e sulle sue forme di impiego, nonché sugli sviluppi futuri del mercato specifico. Con l’allargamento dell’Europa e l’espansione glo-

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bale del commercio il settore fieristico ha avuto in questo contesto una spinta evolutiva fortissima. Il settore fieristico tedesco ha attraversato, negli anni passati, un radicale ammodernamento ed espansione. Successivamente anche la Spagna e l’Italia si sono adeguate. Nel frattempo i paesi dell’Europa orientale si stanno accingendo ad entrare in concorrenza con i paesi dell’Europa occidentale e stanno progettando e realizzando moderni quartieri fieristici. Come architetto avevo avuto già molte esperienze nel settore delle fiere, progettando, tra gli altri, i quartieri fieristici nati completamente ex-novo, di Lipsia e di Friedrichshafen, l’ampliamento e l’ammodernamento delle fiere di Hannover e Düsseldorf e la riqualificazione delle fiere di Stoccarda, Francoforte, Amburgo e Berlino. Queste esperienze sono state particolarmente preziose nella progettazione e realizzazione della nuova Fiera di Rimini, dove al posto di un primo studio di fattibilità, programmaticamente errato nella sua concezione, veniva invece adottato il progetto da noi concepito e realizzato in tre successive fasi. L’aspetto essenziale della nuova fiera di Rimini è stato quello di offrire, per le manifestazioni esistenti e di nuova concezione, non solo sufficiente spazio espositivo per vincere la concorrenza con gli altri quartieri, ma anche una nuova marcata qualità. Questo significava la realizzazione di un ambiente piacevole e funzionale con una particolare attenzione alle esigenze dell’espositore e del visitatore. In questi ultimi anni in Italia la competizione tra sedi fieristiche si è accentuata e ogni sede ha cercato di garantirsi le condizioni ottimali e una

posizione strategica nel mercato delle manifestazioni. A Milano è stata realizzata in tempi record una nuova, grande sede, a Roma è nato un nuovo quartiere fieristico in una posizione fondamentale della città, mentre sono stati realizzati progetti di riqualificazione e ampliamento di quasi tutti i quartieri esistenti come Bologna, Padova, Arezzo, per citarne solo alcuni, proprio mentre a Rimini è in corso di realizzazione un nuovo grande palazzo dei congressi che opererà in sinergia con la fiera. Dopo il nostro iniziale entusiasmo nel progettare la riqualificazione del quartiere di Verona abbiamo però constatato, man mano che si procedeva con la realizzazione di nuovi spazi espositivi, che le nostre convinzioni non venivano considerate. Il consiglio d’amministrazione e la direzione si fecero inizialmente convincere dell’esigenza del miglioramento qualitativo del triste ambiente del quartiere fieristico di Verona. La priorità era il soddisfacimento dell’urgente esigenza di nuovo spazio espositivo, ma successivamente doveva seguire la rivalutazione della qualità degli spazi coperti e scoperti, l’accessibilità, la circolazione e l’orientamento all’interno del quartiere, nonché l’offerta di spazi di supporto per attività congressuale. Purtroppo nell’avanzamento dei lavori per i nuovi padiglioni abbiamo avuto sempre di più l’impressione che l’interesse per la rivalutazione qualitativa del quartiere stava venendo meno. Con tutta la comprensione per l’esigenza di non squalificare i padiglioni originari, nati per le fiere agricole, con altre tipologie di padiglioni di caratteristiche troppo diverse, non possiamo comprendere però che non sia stato fatto ancora nulla per


1-2. Volkwin Marg presenta nel gennaio 2007 il progetto della Fiera alla redazione di «architettiverona» (foto D.Aio).

riqualificare la penosa immagine della fiera verso l’esterno e nulla per offrire, all’interno del quartiere, una maggiore qualità degli spazi scoperti, dell’orientamento dei tanti visitatori e della qualità architettonica complessiva. Già all’inizio della frequentazione di Verona sono rimasto sconvolto dal fatto che l’unico edificio con una qualità architettonica nelle dirette vicinanze della Fiera, ossia la coppia simmetrica di padiglioni dell’ex mercato ortofrutticolo, veniva amputata demolendone la metà. Avevo ipotizzato che quell’area potesse diventare una zona di presentazione del mercato automobilistico europeo creando una sinergia e un insieme coerente dal punto di vista urbano e funzionale. Sono stato depresso nell’osservare che per l’orrenda strada di accesso principale a Verona veniva consumata molta carta per la progettazione, mentre la demolizione urbana proseguiva indisturbata. Giungendo al (brutto) aeroporto di Verona poteva essere osservata bene la devastazione brutale del paesaggio della pianura padana attraverso una viabilità automobilistica e ferroviaria confusa, una caotica urbanizzazione di zone produttive, un terrorismo di cartelli pubblicitari ed una scadente qualità edili-

zia. Perché, mi chiedevo, viene sprecata in maniera così dilettantesca l’occasione di riqualificare l’accesso ad una città come Verona? Sono stato colto da frustrazione quando ho dovuto constatare che non riuscivo nemmeno a risvegliare una qualche esigenza di migliorare la diretta zona di accesso al quartiere fieristico. La maniera nella quale la fiera di Verona si presenta verso l’esterno, con il massiccio blocco del centro affari e con la torre dell’amministrazione é, rispetto a come si presentano le fiere moderne e concorrenti, semplicemente penoso. Spianate di asfalto, parcheggi disordinati con esagerate strutture pubblicitarie conducono ad ingressi altrettanto squallidi. È difficile accogliere i visitatori in modo più indecente! Speravo che questa brutta situazione potesse essere riqualificata partendo dal nostro Masterplan, approvato e condiviso dal consiglio d’amministrazione della Fiera. Invece veniva steso un nuovo strato di asfalto sull’area antistante gli uffici e l’occasione di riqualificare la zona d’ingresso, insieme alla inderogabile sostituzione del fatiscente padiglione 1, svaniva sempre di più. Forse con la nostra insistenza per una maggiore qualità architettonica eravamo diventati, almeno

per questa zona sensibile e in questo contesto, troppo fastidiosi. Comunque Veronafiere ha rinunciato in maniera dimostrativa, in questa occasione, alla nostra collaborazione, facendo portare avanti la realizzazione del padiglione 1 senza il contributo della nostra supervisione e il nostro controllo artistico. Al nostro gruppo appassionato e a me personalmente non rimane altro da fare che prendere atto della volontà (o del disinteresse?) del nostro committente. Abbiamo fortunatamente tante altre occasioni per progettare e costruire. Ma mi chiedo: cosa sta succedendo all’Italia e a Verona, un paese e una città che viene invidiata in tutta Europa per la sua cultura edilizia e che per disinteresse e mancanza di sensibilità si gioca del tutto la sua posizione di dominio della cultura costruttiva? Nella competizione globale di mercati e prodotti, la concorrenza diviene sempre più forte. Di questo sono ben consapevole avendo progettato diverse fiere in Cina e quindi conosco le sfide davanti alle quale si trova l’Europa. Non è sufficiente riposarsi sugli allori di vecchi privilegi commerciali e rendite di posizione, perché questi vengono persi velocemente. Il commercio del vino funziona anche a Milano, o quello dei marmi anche in Cina. Se Verona vuole cogliere le sue opportunità, questo può avvenire solo con decisioni che vadano a favore degli espositori e dei visitatori offrendo una particolare qualità, non solo della città storica, ma molto di più con la qualità da sviluppare per la zona di Veronafiere e le aree circostanti. Sono ottimista e spero che ancora non sia troppo tardi.

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Da questa lettera la redazione prende spunto per inaugurare un dibattito sul rapporto assai particolare che nella nostra città si instaura tra committenti e progettisti. Invitiamo chiunque voglia intervenire direttamente ad inviarci il proprio contributo (all’indirizzo: architetti.verona@libero.it), ed apriamo la rassegna con il testo del collega della redazione Lorenzo Marconato. Il caso innanzi illustrato è emblematico e non lascia certo indifferenti. Per non essere frainteso, mi sembra doveroso anticipare che è mia ferma convinzione che le ragioni di un rapporto così difficile non stiano tutte da una parte o dall’altra, ma i risultati, troppo di frequente negativi, sono sotto gli occhi di tutti. A che punto sono tutte le grandi opere della Verona del futuro che ormai si è fatto presente? Chi sono e come si muovono i protagonisti di questi complessi processi di trasformazione del territorio? Conscio che il confine tra committente pubblico e privato oggi è sempre più impercettibile, con sguardo impietosamente democratico mi volgo verso l’Arsenale, verso tutta Verona sud – gigante dai tratti incerti – verso il quartiere fieristico ovviamente, Castel San Pietro, le aree dismesse e verso tutti i microcosmi che assieme formano un territorio così disordinato e ignobilmente martoriato. Rimandare tutte le responsabilità del complesso problema alla carenza di risorse finanziarie, oltre che a non fornire una lettura realistica, non permette di individuare delle strategie sostenibili tali da attenuare sensibilmente la patologia di un ambiente gravemente malato. Una chiave di lettura fondamentale nella diagnosi del problema sta, a mio avviso, proprio nel rapporto tra potere economico-amministrativo e progettisti. Gli uni sono assolutamente indispensabili agli altri. Quando una delle due parti entra in gioco pensando di pesare di più dell’altra, la strada che si prospetta innanzi è assai buia. È proprio la ricerca dell’equilibrio che rende fruttifera l’interazione tra committente ed architetto. L’errore imperdonabile dei nostri principi è di frequente quello di essere convinti di poter disporre delle risorse, proprie o a loro affidate, in maniera incondizionata ed arrogante. Per contro, gli architetti commettono l’altrettanto

grave mancanza di non saper ascoltare e stimolare intelligentemente le richieste e le aspettative del proprio committente. La comunicazione tra le due parti è latente, frammentaria, contrastata. Per fortuna la storia del nostro paese ed anche della nostra città ci insegna che un’auspicabile e proficua interazione è possibile, senza che si creino squilibri o che si sconfini in casi di mecenatismo utopico. Difficilmente si può immaginare quanto brillino di fulgida acutezza gli occhi di un saggio e preparato architetto che abbia trovato un principe capace di fidarsi di lui, della sua esperienza e delle sue capacità, o di un principe che veda realizzarsi le proprie idee e le proprie aspettative, magari ancor più preziose e stupefacenti di quanto egli stesso potesse aspettarsi. Tutto ciò ha un prezzo molto alto, che si traduce nella rinuncia del proprio primato da parte di ognuno degli attori. L’obbiettivo è quello di scrivere un’equazione dove ad un capo del segno uguale stia il principe e dall’altro l’architetto. In realtà le posizioni non sono quasi mai equilibrate. I professionisti proni agli ordini più scriteriati, mentre la percezione di un diffuso dilettantismo è forte. È innanzitutto un problema socio-culturale, e se è vero che proprio l’architettura, tra tutte, è la disciplina artistica con i più importanti risvolti sociali, si tratta dunque di una grave disfunzione sociale. La sensazione è che tanto gelosamente quanto ottusamente ognuno guardi solo ed esclusivamente al proprio orticello, senza rendersi conto che il mondo non ruota attorno ad esso. In realtà ogni pezzo conta tanto quanto gli altri, piccolo o grande che sia. Senza anche un solo tassello il puzzle non è completo. Con spirito criticamente introspettivo mi sentirei di affermare che se l’architetto non riesce a sviscerare i problemi propostigli, a preparare soluzioni progettuali veramente efficaci ed a renderle leggibili a chi non è del mestiere, guadagnandone la fiducia, il rischio è quello di rimanere arroccati ciascuno sulle proprie posizioni, senza un punto di incontro, senza produrre nulla di positivo. Il punto di incontro però non può essere un compromesso, una rinuncia di entrambi, un aborto generato da arroganza e pressapochismo. Esso invece deve rappresentare l’apice di un’esperienza comune e costruttiva, in tutti i sensi, capace di soddisfare senza strozzature

il principe che l’ha sostenuta, l’architetto che l’ha concepita ed ancor più chiunque ne possa in qualche modo godere, cioè la società intera. L’architettura, come prodotto di una positiva sinergia, disegna i luoghi in cui tutti viviamo e ci muoviamo, diffondendo benessere e democrazia. Questa è la teoria. La pratica a Verona, ma non solo, dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi, proprio perché il rapporto tra le parti è fortemente compromesso, si opera ottenendo effetti opposti. Si costruiscono dunque architetture terribilmente introverse, mute o ancor peggio sgrammaticate, incapaci di diffondere benessere, prive di qualità, spesso costose ma brutte. Come proposto da «architettiverona», sarebbe allora davvero interessante aprire un tavolo di discussione per analizzare a fondo un problema che va ben al di la dell’architettura di cui questa pubblicazione si occupa. Dovremmo farlo naturalmente concentrandoci sul nostro territorio ed avvalendoci delle competenze più diverse. L’auspicio sarebbe quello di riuscire a leggere compiutamente la patologia e di proporre delle cure per migliorare la produzione architettonica e gli intricati rapporti fra i vari soggetti. Risolvere definitivamente il problema è pura utopia. Troppe sono le variabili e le individualità per essere controllate e guidate, ma la speranza è quella che, forse proprio a partire dalle occasioni più prossime, come quella del quartiere fieristico, ci sia un palese e proficuo riavvicinamento tra rinsaviti principi e coscienti, aperti e preparati architetti. Lorenzo Marconato


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