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Periodico semestrale anno VII n° 13 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Global Innovazione, leva della competitività nei paesi maturi Innovation, the driving force behind competitiveness in developed nations Projects Ricerca formale, sperimentazione tecnologica e nuove strategie progettuali: l´architettura accende la competizione Stylistic research, technological innovation and new design strategies: architecture sets competition alight News Turbocem, nuova nave cementiera Turbocem, a new cement carrier Cementos Rezola ospita Ricardo Díez-Hochleitner Cementos Rezola hosts Ricardo Díez-Hochleitner Un futuro per i bambini dello Sri Lanka A future for the children of Sri Lanka Quando il cemento diventa arte When cement becomes art

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor in Chief Sergio Crippa Caporedattore Managing Editor Francesco Galimberti Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

Alla ricerca del nuovo ordine

■ Global ■

■ News ■

Innovazione e Competitività Innovation and Competitiveness

Nariman Behravesh

Ancora una volta… la Cina

It’s China... Once Again

2 ■

Vent’anni per colmare il gap

Twenty Years to Bridge the Gap

Intervista a Adriano De Maio

Interview with Adriano De Maio

È la squadra, stupido!

It’s the Team, Stupid!

Intervista a Brian Muirhead

Interview with Brian Muirhead

La Macchina dell’Innovazione

The Free-Market Innovation Machine

Mario Antonio Arnaboldi

Tecnologia, incontro con una fede

Technology, meeting a Faith

Testi a cura / Texts by Carlo Paganelli

Fiore d’acciaio

Steel Flower

Progetto di Santiago Calatrava

Project by Santiago Calatrava

Sperimentazioni boccioniane

Boccioni-style Experimentation

Progetto di Gehry Partners

Project by Gehry Partners

Nelle spire del futuro

The Coils of the Future

Progetto di Foster and Partners

Project by Foster and Partners

Mutazioni cromatiche

Changing Colors

Progetto di Arquitectonica

Project by Arquitectonica

Nuova icona architettonica

New Architectural Icon

Progetto di Lab architecture studio + Bates Smart

Project by Lab architecture studio + Bates Smart

Fluidodinamica applicata

Applied Fluid Dynamics

Progetto di Maurice Nio

Project by Maurice Nio

Spazio luce colore

Space Light Color

Progetto di Tétrault, Dubuc, Saia con Hal Ingberg

Project by Tétrault, Dubuc, Saia with Hal Ingberg

Copertina, Montreal, Palazzo dei Congressi

www.italcementigroup.com

Relaunching Lisbon

William J. Baumol

Rilanciare Lisbona

aV

José Manuel Barroso

aV

■ Projects

The Search for a New Order

Turbocem, nuova nave cementiera

Turbocem, a new cement carrier

Cementos Rezola ospita Ricardo Díez-Hochleitner

Cementos Rezola hosts Ricardo Díez-Hochleitner

Un futuro per i bambini dello Sri Lanka

A Future for the Children of Sri Lanka

Quando il cemento diventa arte

When Cement becomes Art

Cover, Montreal, Congress Hall

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Chiuso in tipografia il 31 maggio 2005 Printed May 31, 2005


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Alla ricerca del nuovo ordine The Search for a New Order

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ipartire da Lisbona, perché al pessimismo della ragione (e dei dati fotografati da Eurostat) si contrapponga l’ottimismo della volontà. Ancora una volta la giovane Europa sorta a Maastricht si trova a rilanciare quella sfida aperta agli inizi del 2000 che si proponeva di rendere l’economia dei Paesi membri la più competitiva a livello mondiale entro il 2010, puntando prioritariamente sulla piena occupazione e la maggiore competitività basata soprattutto sull’innovazione tecnologica e scientifica. Quell’impegno, sancito nel corso del Consiglio europeo straordinario di Lisbona di cinque anni fa, non è riuscito a centrare i suoi ambiziosi propositi, complici anche i drammatici eventi dell’11 settembre 2001 e le conseguenze che questi hanno avuto sulle prospettive economiche dell’intero mondo. Ma questo non significa abbandonare ogni tentativo per ridare smalto alla ripresa economica di Eurolandia, cercando di trovare ogni possibile soluzione in grado di rilanciare la crescita. E di fronte allo sviluppo corposo delle economie asiatiche, alla concorrenza di un’economia statunitense più tonica, è necessario affrontare temi in grado di dare una risposta che non sia solo contingente ma abbia in sé il germe di uno sviluppo duraturo, in grado di garantire anche alle prossime generazioni condizioni di benessere economico attraverso occupazione e lavoro. E l’alba di questo nuovo percorso ha trovato nel concetto di “innovazione” il punto di forza su cui basare i nuovi passi di crescita, un’arma mercantile per affrontare la competitività globale. Come spiega il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, “dobbiamo creare i presupposti per lo sviluppo e l’occupazione facendo dell’Europa il luogo ideale per investire e lavorare e facendo di conoscenza e innovazione il cuore stesso della crescita europea”. Ma di fronte a un precedente fallimento su questa strada – seppure con tutte le attenuanti dovute – per puntare sull’innovazione non devono essere lesinati gli interventi a favore della ricerca con l’intento di raggiungere un obiettivo di spesa pari al 3% del Pil, soglia indispensabile per permettere a Lisbona 2 di dispiegare i suoi effetti di crescita anche perché – aggiunge Barroso – “non vi è alcuna alternativa credibile”. Su questa strategia concorda Adriano De Maio, già rettore del Politecnico di Milano e attuale rettore della Luiss, anche se la sua esperienza “sul campo” nel settore della ricerca lo porta ad assumere posizioni un po’ più critiche sui tempi di possibile efficacia di questi interventi. “Ci vorranno non meno di vent’anni per chiudere il gap che separa l’Europa dagli Stati Uniti. Bisogna investire nel capitale umano, nella formazione che è la chiave di volta dell’innovazione e della competitività”. Un impegno che invece è attualmente in piena attuazione nei Paesi asiatici – Cina e India in primo piano – che sono così in grado di sostenere i loro sforzi di modernizzazione avanzata. E proprio i riflessi di questi sviluppi sulla capacità di competere a livello globale – spiega Nariman Behravesh – hanno fatto delle Tigri asiatiche i nuovi concorrenti dell’economia mondiale. “La crescita di competitività asiatica non deve essere ricercata nei bassi salari della manodopera, ma nei rapidi incrementi delle performance produttive” sostiene il capo economista di Global Insight, ribaltando quindi quel concetto ormai datato secondo cui è solo il basso costo dei prodotti – tendenzialmente con poco valore aggiunto – ad aver spinto la crescita di India e Cina. E innovazione è anche il nuovo parametro di lettura – secondo quanto sottolinea l’economista americano William J. Baumol – che deve essere utilizzato per comprendere meglio i ritmi di sviluppo delle economie di mercato, tanto che è l’innovazione e non la fissazione dei prezzi il fattore a cui il management dà la priorità in importanti settori economici. E per chiudere il cerchio dell’innovazione, a fianco della teoria e della strategia non può mancare il fattore umano, quell’intelligenza emotiva – come spiega Brian Muirhead, ingegnere capo al Jet Propulsion Laboratory – in grado di coinvolgere e motivare un’intera squadra di persone alla realizzazione delle più diversificate sfide di innovazione. La sezione Projects di questo numero di arcVision sottolinea lo stretto legame fra l’architettura e la ricerca innovativa di soluzioni, in uno sforzo culturale – oltre che tecnologico – in grado di portare sempre più avanti il traguardo da raggiungere.


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aking a new start in Lisbon, to counter the pessimism of reason (and the latest Eurostat data) with the optimism of determination. The new Europe created in Maastricht is once again launching the challenge it set itself at the beginning of 2000, to turn the Member States into the world’s most competitive economy by 2010 by giving priority to full employment and greater competitiveness, rooted essentially in technological and scientific innovation. That commitment, endorsed during the extraordinary Lisbon European Council held five years ago, has failed to achieve its ambitious goals, in part as a result of the dramatic events of September 11, 2001 and their impact on worldwide economic prospects. But instead of abandoning all attempts to put the Eurozone’s economic recovery back on track, we should be looking for every possible solution to re-fuel growth. And faced with the powerful development of the Asian economies and the competitive pressures of a more agile US economy, we need to focus on issues that not only provide a contingent response but also lay the bases for lasting growth to ensure economic prosperity for this and future generations through work and employment. The compass with which this fresh start will chart the new path to growth is “innovation”, a key weapon in competition on the global marketplace. As European Commission President José Manuel Barroso explains “we must deliver jobs and growth by making Europe an attractive place to invest and work in and by placing knowledge and innovation at the heart of European growth.” Given the previous failure of this approach—albeit with all the extenuating circumstances—in backing innovation no expense should be spared in investing in research and attaining an expenditure target of 3% of GDP; this is essential to enable Lisbon 2 to produce its growth effects, partly because, Barroso adds, “there is no credible alternative.” Adriano De Maio, former rector of the Milan Polytechnic and now rector of the LUISS International University of Social Studies in Rome, agrees, although his field experience, in research, leads him to take a slightly more critical stance with regard to the timeframe for such action to be effective. “It will take at least twenty years to close the gap between Europe and the United States. We have to invest in human capital, education and training, which is the key to innovation and competitiveness.” This is already well underway in the Asian region—notably in China and India—and enables those countries to support their modernization drive. The benefits these developments have accrued in terms of ability to compete on global markets are what has made the Asian Tigers the new players in the world economy, explains Nariman Behravesh. “The basis for the dramatic improvement in the competitiveness of Asia is not low wages but very rapid improvements in productivity,” believes the chief economist at Global Insight, overturning the old idea that the low cost of their products—and a tendency toward low added value—is the driver behind India and China’s growth. Innovation is also the new key to a correct understanding of the growth rates of the market economies, stresses US economist William J. Baumol; indeed, innovation rather than price-fixing is the factor to which management gives priority in key sectors of the economy. Closing the innovation circle, theory and strategy need to be accompanied by the human factor, by that emotional intelligence that can motivate an entire team of people to achieve the most disparate innovation challenges, in the view of Brian Muirhead, chief engineer at the Jet Propulsion Laboratory. The Projects section of this issue of arcVision examines the close ties between architecture and an innovative search for solutions, in a cultural and not just technological thrust that always keeps the finishing line one step ahead.

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Rilanciare Lisbona Relaunching Lisbon di José Manuel Barroso* by José Manuel Barroso*

La sfida per la crescita e l’occupazione: il grande progetto dell’Europa The race for growth and jobs: Europe’s great project

José Manuel Barroso

Nuovi fattori di competitività nel nuovo scenario economico globale: istruzione e formazione permanente, tassi di crescita, apertura internazionale delle economie, sviluppo e integrazione dei mercati, investimenti in ricerca, innovazione, alta tecnologia e infrastrutture. arcVision ne ha voluto parlare con José Manuel Barroso, Nariman Behravesh, Adriano De Maio, Brian Muirhead e William J. Baumol. New competitiveness factors in today’s global business environment: education and on-going training, growth rates, international orientation of economies, development and integration of markets, investment in research, innovation, high-tech and infrastructure. arcVision discusses these issues with José Manuel Barroso, Nariman Behravesh, Adriano De Maio, Brian Muirhead and William J. Baumol.

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al suo insediamento, la Commissione europea ha presentato proposte concrete in funzione di obiettivi strategici comuni per gli anni a venire. Tra i cardini di questa visione si pone la nuova Strategia per la Crescita e l’Occupazione nell’ambito dell’Unione europea. A guidare il progetto è l’esigenza di ripristinare il dinamismo della nostra economia, creando soluzioni idonee a un rilancio dell’occupazione. Si tratta di questioni che interessano da vicino ciascuno di noi. Il loro scopo è quello di rafforzare le solide fondamenta che sono alla base stessa di una società costruita su principi di equità sociale, qualità della vita e pari opportunità. L’obiettivo primo punta a iniettare dinamismo nel motore di una crescita europea rinnovata, affinché si possa rafforzare il nostro impegno a favore della solidarietà e della sostenibilità. Una convinzione fondata su un ottimismo realista: siamo perfettamente consapevoli che è possibile liberare il potenziale non sfruttato che alberga in seno all’Unione. L’Europa ha più di un motivo per essere fiera: la pace, la prosperità, la sua diversità.

Il nostro continente rappresenta attualmente, insieme agli Stati Uniti, l’economia più avanzata su scala mondiale. L’Europa è la prima potenza commerciale e fra le principali beneficiarie degli investimenti mondiali. L’Unione è una meta ambiziosa per i Paesi che auspicano di entrarvi a far parte, per le aziende che vi vogliono investire, per coloro che intendono lavorarvi o semplicemente visitarla. Ma sullo sfondo di un mondo in costante evoluzione, l’Europa non può restare a guardare, né tanto meno può permettersi di dormire sugli allori. Il rilancio della strategia di Lisbona Cinque anni or sono, l’Unione europea promuoveva un ambizioso programma di riforme. Sono stati fatti numerosi passi avanti per disegnare una nuova Europa: i mercati delle telecomunicazioni e dell’energia sono oggi più aperti, il cielo unico europeo diviene una realtà e le reti dei trasporti europei vanno prendendo forma. Sono ancora tante le riforme in corso negli Stati membri e l’allargamento ha aperto nuovi mercati, diffondendo benessere tra i cittadini e offrendo nuove

opportunità d’investimento. Ma ciò che è stato fatto non è sufficiente. Deve essere garantita l’introduzione delle riforme, specie negli Stati membri. Proposte importanti restano troppo a lungo al vaglio del Parlamento e del Consiglio. E alcuni Paesi non sono ancora giunti a un’attuazione definitiva della normativa approvata. Il mutamento non è rapido quanto dovrebbe e i cittadini faticano ancora a percepire gli effetti del “fattore Lisbona” nell’ambito della loro vita quotidiana. L’urgenza del cambiamento A fronte di una competizione mondiale sempre più agguerrita e di un costante invecchiamento della nostra popolazione, l’urgenza di un cambiamento è oggi più forte che non nel 2000. Attualmente, il nostro potenziale di crescita sfiora il 2% e rappresenta quindi una perdita di un punto percentuale in una sola generazione. Nello stesso periodo, gli Stati Uniti hanno incrementato il loro potenziale di crescita nell’ordine del 3,5%, mentre economie emergenti, quali la Cina e l’India, continuano a registrare progressi quanto mai rapidi. Ma attenzione: non si tratta solo di fatti e di cifre. Tutto questo ha a che fare con la vita vera e con le persone. Sono troppi ancora coloro che, desiderosi di un impiego, faticano a trovare un’occupazione in Europa. Troppi coloro che si trovano davanti una porta chiusa, donne e giovani soprattutto. L’insegnamento che ci deriva da questi ultimi cinque anni è che dobbiamo dare dinamicità alla nostra economia per fare in modo che sempre più persone possano ottenere il lavoro a cui aspirano e per preservare e sviluppare il nostro modello


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unico di società quale vero e proprio biglietto da visita del nostro continente. Conferendo linfa vitale alle performance europee, potremo garantire un processo di trasformazione sostenibile e duraturo del nostro continente. Lo sviluppo sostenibile è e rimane l’obiettivo prioritario permeante tutti gli aspetti della nostra azione economica, sociale e ambientale. Tre questioni a cui tengo quasi fossero miei figli: l’economia, la nostra agenda in materia sociale e l’ambiente. Come ogni buon padre, se uno dei miei figli versa in cattive condizioni di salute, sono pronto a concentrare ogni mio sforzo su di lui e a dedicarmi a lui anima e corpo finché non ritorni in salute. Si tratta di un atteggiamento sano e responsabile e non significa che per questo io ami meno gli altri miei figli. Dobbiamo costruire nuove reti di collaborazione, una vasta coalizione per il cambiamento, che sia in grado di mobilitare la società civile, i partner sociali e i cittadini. Dobbiamo dare un nuovo e più vigoroso impulso alla strategia di Lisbona. Dobbiamo creare i presupposti per lo sviluppo e l’occupazione facendo dell’Europa il luogo

ideale per investire e lavorare e facendo di conoscenza e innovazione il cuore stesso della crescita europea. Al contempo, è nostro dovere definire idonee politiche che consentano alle nostre aziende di creare sempre più e sempre migliori posti di lavoro. Un luogo migliore per investire e lavorare Per prosperare, l’Europa deve divenire un formidabile polo d’attrazione per le attività economiche di ogni genere e dimensione nell’intera Unione. Il nostro approccio riconosce il valore della piattaforma industriale, nonché la particolare importanza delle piccole e medie imprese europee (Pmi), che rappresentano il 99% della nostra economia e soddisfano i due terzi delle esigenze occupazionali. Sono troppi gli ostacoli che ancora incontrano coloro che vogliono diventare imprenditori o avviare un’attività. Non possiamo assolutamente permetterci di perdere queste opportunità e dobbiamo impegnarci affinché il Mercato Interno funzioni correttamente. La prima responsabilità che compete agli Stati membri riguarda l’applicazione delle norme approvate dal Parlamento

e dal Consiglio europeo. È tempo di prendere sul serio la questione delle riforme. Questo nuovo atteggiamento implica la creazione di un ambiente più competitivo e il giusto approccio all’aspetto normativo, sia esso su scala nazionale che a livello europeo. Nei prossimi mesi, mi farò promotore di una nuova iniziativa riguardo al miglioramento della regolamentazione (Better Regulation) e uno dei miei obiettivi sarà quello di definire le competenze tecniche esterne necessarie per assisterci in questo processo di valutazione degli impatti in merito a proposte specifiche. Dobbiamo fare ancora tanto per i mercati globali, sia attraverso le nostre relazioni bilaterali sia, in particolare, garantendo la miglior conclusione all’Agenda di Doha per lo sviluppo. Servizi e REACH Sono ben consapevole dell’importanza che la gente attribuisce ai servizi. Mi riferisco ai servizi pubblici e anche a quei servizi che sono oggetto di nostre proposte ancora in attesa d’approvazione. E mi rendo anche conto dell’importanza del nuovo quadro legislativo

europeo in materia di prodotti chimici. Entrambe queste proposte rappresentano il cuore pulsante del nuovo equilibrio che occorre trovare se davvero vogliamo che la rinnovata strategia di Lisbona porti con sé sviluppo e opportunità di lavoro durevoli. Sono convinto che il settore dei servizi debba essere l’anima stessa del mercato interno. Un mercato interno efficacemente orientato ai servizi può essere uno straordinario motore di crescita e occupazione e può apportare benefici importanti ai consumatori in termini di prezzo e di scelta. Ma sono oltremodo convinto che servizi efficaci d’interesse generale siano essenziali per un’economia moderna e dinamica, e per la promozione della coesione sociale all’interno dell’Unione. Questa è una questione su cui la Commissione tornerà a discutere nel corso dell’anno. Per quanto concerne la direttiva REACH (Registrazione, Valutazione e Autorizzazione delle sostanze CHimiche), la sfida è di armonizzare e promuovere competitività e innovazione con conseguenti sensibili miglioramenti a livello di salute e ambiente per tutti.


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Voglio rassicurare ciascuno di voi circa il fatto che su entrambe le proposte, la mia Commissione è intenzionata a lavorare in modo costruttivo insieme a tutti gli stakeholders, al fine di individuare il giusto approccio, prendendo in debita considerazione tutti gli aspetti che riguardano le due iniziative e senza perdere di vista i nostri obiettivi principali. Conoscenza e innovazione L’Europa vanta fra i migliori cervelli e aziende innovative su scala mondiale. Per convincersene, è sufficiente dare un’occhiata all’Airbus o ai telefoni cellulari. Possiamo essere davvero orgogliosi della nostra piattaforma industriale e dei diversi milioni di piccole e medie imprese che animano un tessuto economico altamente innovativo conferendogli linfa vitale. Le nostre scuole e le nostre università rappresentano un investimento per il successo di domani e una garanzia per una società di oggi più giusta e coesa. Dobbiamo capitalizzare la nostra conoscenza per promuovere la crescita futura. Gli Stati membri devono intensificare i propri sforzi per raggiungere un obiettivo di spesa nella ricerca pari al 3%. A fronte della futura riforma delle nostre norme in materia di sovvenzioni statali, gli Stati membri insieme agli attori regionali e locali dovranno individuare nuove modalità di supporto della ricerca e dell’innovazione, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese europee. Per questo, suggeriamo sin d’ora la creazione di “Poli d’innovazione” parzialmente finanziati con fondi comunitari, destinati a fungere da polo di attrazione per le nostre migliori menti,

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in campo scientifico ed economico. Le nostre università dovranno essere un riferimento per il mondo intero. Iniziamo col creare un vero e proprio “Istituto europeo di tecnologia”, che accresca le nostre già ricche conoscenze in ambito tecnologico e che attragga le menti più brillanti da tutto il mondo. Dobbiamo intensificare i nostri sforzi al fine di promuovere l’eco-innovazione, cioè una nuova generazione di tecnologie che possono aiutarci ad affrontare le attuali sfide alla società; sfide che hanno a che fare con il cambiamento climatico, la ricerca di fonti energetiche alternative e l’efficienza energetica. Lavoro e fattore demografico Il lavoro è la migliore arma contro la povertà. Contribuendo a creare le condizioni per alti tassi di occupazione, la strategia di Lisbona potrà costruire prosperità, riducendo i rischi di emarginazione sociale. Per questo abbiamo puntato tutto sulle riforme nazionali in materia di modernizzazione del lavoro e delle politiche sociali. Questo non è che il primo passo per raccogliere le sfide dell’Ue in materia demografica. La Commissione ha intenzione di promuovere un vasto dibattito sull’impatto di una popolazione che invecchia, per mezzo di un Libro Verde. Promuovere l’impiego significa fornire a ciascun individuo, per tutto il corso della sua vita, le capacità di cui ha bisogno per adattarsi efficacemente al cambiamento e garantire che i nostri sistemi fiscali e pensionistici assistano i cittadini direttamente sul posto di lavoro, offrendo incentivi adeguati affinché vi rimangano. Siamo tuttavia consapevoli che

questo è un settore nel quale la responsabilità maggiore compete alle autorità di ciascun Stato membro, così come ai partner sociali. E in questo contesto aziende e sindacati rivestono un ruolo di prim’ordine in qualità di partner sociali. La nostra lunga tradizione di dialogo sociale, sostenuta da adeguate azioni a livello europeo, si è rivelata di estrema importanza ai fini del progresso economico e sociale. I partner sociali sono ben posizionati a livello europeo – ma anche a livello nazionale – per garantire una crescita duratura e opportunità di lavoro di qualità. Sono fiducioso che sapranno identificare in modo esemplare le azioni concrete da adottare e sono ansioso di vedere di cosa sono capaci. La Commissione avrà ovviamente l’importante ruolo di guidare e agevolare queste azioni, contribuendovi attivamente sia a livello europeo sia su scala nazionale.

L'esigenza di una mobilitazione congiunta Perché mai Lisbona non dovrebbe funzionare questa volta? Deve funzionare perché rappresenta la giusta diagnosi e il giusto rimedio e perché non vi è alcuna alternativa credibile. Credo che la crescita della fiducia sia la prova diretta che ci stiamo muovendo sulla giusta strada. Ma per ottenere dei risultati concreti, è essenziale poter contare sull’impegno congiunto di tutti gli attori nazionali ed europei. Lisbona rappresenta l’agenda condivisa–per eccellenza e capiremo se funziona solo se diventerà l’oggetto del dibattito politico nazionale. Dobbiamo saper spiegare cos’è Lisbona e perché è così importante; e per questo, è necessario mobilitare la società civile, le autorità regionali e locali, i leader economici e tutti coloro che sono direttamente coinvolti nel successo di Lisbona, avvalendoci naturalmente della preziosa


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collaborazione del Parlamento europeo e della Commissione stessa. Ecco perché l’Agenda di Lisbona non ha riscosso il successo sperato in passato. Non possiamo permetterci di lasciarci sfuggire questa seconda occasione. La “nuova governance” di Lisbona Affinché questa collaborazione dia i suoi frutti, dobbiamo garantire una maggiore padronanza degli obiettivi. Questo implica una chiara definizione delle priorità e un piano di lavoro semplice e comprensibile che ci aiuti a raggiungere e mantenere i progressi fatti. Per garantire questa migliore padronanza, abbiamo proposto: • Un approccio più integrato al programma di politiche macro-economiche e occupazionali strettamente coordinato con il ciclo di Lisbona. • Un ruolo chiaro della Commissione, del Consiglio

europeo e di questo Parlamento. • Un Piano d’azione di Lisbona a livello comunitario focalizzato su programmi di lavoro complementari ai Piani d’azione di Lisbona a livello nazionale. Questi ultimi dovranno essere sviluppati dagli Stati membri solo a fronte di una vasta consultazione degli stakeholders e dei rispettivi Parlamenti. • Gli Stati membri dovranno inoltre nominare a livello governativo un Signor o Signora Lisbona, che coordini la strategia. • Una procedura di reporting più semplice – per il futuro si prevede un solo rapporto Lisbona a livello Ue e un solo rapporto a livello nazionale. Conclusione Sono perfettamente consapevole che ci stiamo ponendo di fronte a una sfida particolarmente ambiziosa. Ma se guardiamo indietro a quanto è stato fatto, il mercato unico nel 1992, l’euro nel 1999, così come l’allargamento e la

Costituzione negli ultimi dodici mesi, ci rendiamo conto che insieme sapremo dare risposta alle istanze dei cittadini europei. Sono convinto che la sfida per la crescita e l’occupazione sarà il prossimo grande progetto europeo e sono certo che la strategia che abbiamo lanciato disegna i confini del percorso che ci condurrà a quel risultato.

* José Manuel Barroso è attualmente presidente della Commissione europea. Ha al suo attivo un’eminente carriera accademica insieme a un altrettanto importante percorso politico. È stato segretario di Stato per gli Affari interni, segretario di Stato per gli Affari esteri e ministro degli Esteri in diversi governi portoghesi. Ha inoltre ricoperto la funzione di Primo ministro del Portogallo dall’aprile 2002 a tutto il 2004. Barroso è autore di diversi volumi di politica ed economia ed è stato insignito di oltre venti onorificenze da parte di istituzioni nazionali ed internazionali.

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he European Commission has always presented proposals for joint strategic goals. The new Strategy for Growth and Jobs in the European Union is a key element in its vision. Our starting point is the need to revitalize Europe’s economy and to create conditions to stimulate employment. These are the issues that matter to the individual. They must become an integral part of the solid foundations of a society built on social justice, the quality of life and opportunities for everyone. The challenge we face is to revitalize the driving force for new European growth in order to enhance our commitment to solidarity and durability. And our confidence stems from a realistic optimism: we know we can unleash the unused potential of the Union. Europe has many reasons to be proud: it has peace, prosperity, diversity. Today, it is the world’s most advanced economy together with the United States.


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It is the primary trading power and one of the main beneficiaries of world investment. The Union is also admired by the countries that want to become members, by the business organizations that want to invest here, by the people who want to work here or visit us. But in a constantly changing world, Europe cannot afford to stand still, nor can it rest on its laurels. Relaunching the Lisbon Strategy Five years ago, the European Union drew up an ambitious agenda of reforms. Progress has been made toward a new Europe: our telecom and energy markets have been deregulated, the European Single Sky is becoming a reality, the European transport networks are taking shape. The reforms are being adopted by the Member States, and the enlargement of the Union has opened up new markets, spreading the benefits of prosperity and creating new investment opportunities. But we know that this is not enough. Introduction of the reforms must be guaranteed, especially among the Member States. A series of major proposals are still awaiting discussion by the Parliament and the Council. Some countries are dragging their feet on implementing the rules that have been adopted. Change has not been fast enough and people still do not feel the effects of the “Lisbon factor” in their daily lives. The urgent need for change The need for change to cope with world competition and our ageing population is even greater now than in 2000. Today, our growth potential is only around 2%. This is a one-point decline in

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just one generation. Over the same period, the United States have boosted their growth potential by 3.5%, while new economies like China and India continue to make rapid progress. And let’s make no mistake about it. This is not just a question of facts and figures. What we are talking about affects lives and people. Too many people who want to work cannot find jobs in Europe. Too many people find doors shut in their faces, especially women and young people. The simple truth from the last five years is that we have to get our economy moving, if more people are to find a job they want and if we hope to preserve and develop our unique model of society, which is our continent’s calling card. If we can redynamize Europe’s performance, we can help guarantee a sustainable and lasting transformation of our continent. Sustainable development remains the overarching goal that frames all our economic, social and environmental action. It is as if I have three children: the economy, our social agenda, and the environment. Like any modern father, if one of my children is sick, I am ready to drop everything and focus on him until he is back to health. That is normal and responsible and it does not mean I love the others any less. We must build a new partnership, a broad coalition for change, that mobilizes civil society, the social partners and citizens. We must give a new and stronger focus to the Lisbon Strategy. We must deliver jobs and growth by making Europe an attractive place to invest and work and by placing knowledge and innovation at the heart of European growth. At the same time, we must shape the

policies that allow our businesses to create more and better jobs. A more attractive place to invest and work If Europe is to prosper it needs to become a more attractive location for businesses of all sizes across the Union. Our approach recognizes the value of our industrial base, as well as the particular importance of Europe’s small and medium-sized businesses (SMEs), which represent 99% of our businesses and two thirds of employment. There are too many obstacles to becoming an entrepreneur or starting a business. We cannot afford to miss these opportunities, and this means making the Internal Market work better. The first responsibility is for Member States to apply the rules that the Parliament and the Council have agreed. No more foot-dragging in key areas of reform. It means ensuring a fair competitive environment and getting the right approach to regulation at national as well as European level. In the next few months I will be bringing forward a new initiative on Better Regulation, but one of my aims is to draw on external technical expertise to help us in designing impact assessments for specific proposals. But we also need to make more of global markets, both through our bilateral relations and, in particular, through a successful conclusion to the Doha Development Round. Services and REACH I understand the importance that everybody attaches to services, both to public services and to those services that are the subject of our pending proposal. And I also realize the

importance of the new EU framework for chemicals. Both proposals go to the heart of the balance we must find if the renewed Lisbon Strategy is to deliver lasting growth and jobs. I believe that service markets must be at the core of the internal market. An effective internal market for services can give a tremendous boost to growth and employment, and bring benefits to consumers in terms of price and choice. But I also believe that strong services of general interest are essential for a dynamic, modern economy and can help ensure cohesion across the Union. This is an issue the Commission will return to later this year. On the REACH (Registration, Evaluation and Authorization of CHemicals) directive, the challenge is to strike the right balance and ensure we can promote both competitiveness and innovation, and deliver a marked improvement in health and the environment for all of us. But I want to reassure everyone that on both proposals, my Commission is ready to work constructively with all stakeholders to find the right approach, taking account of all aspects of both initiatives and without losing sight of their main aims. Knowledge and innovation Europe has some of the best brains and the most innovative companies in the world. We only have to look at the Airbus or listen to our mobile phones. We can be proud of our industrial base and of the many millions of innovative small and medium-sized businesses that are the lifeblood of our economy. Our schools and universities are an investment in success for tomorrow, and a guarantee of a more inclusive, fairer society


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today. We must leverage our knowledge base to boost future growth. Member States must speed up efforts to meet the 3% research spending target. As a result of future reform of our State aid rules, Member States and regional and local actors should look at new ways of supporting research and innovation, particularly for the EU’s SMEs. One of our suggestions is the creation of “Innovation Poles,” partly drawing on EU funding to bring together our best scientific and business minds. Our universities should be a world reference. Let us start by creating a truly “European Institute of Technology” which can build on our strong track record in technology, but also attract the brightest minds from around the world. We must step up our efforts to promote eco-innovation—a new generation of technologies that can help us address the current challenges facing society; challenges such as climate change, the search for alternative fuel supplies and energy efficiency. Work and the demographic factor A job is the best weapon against poverty. By helping to create the conditions for higher rates of employment, the renewed Lisbon Strategy is building prosperity and reducing the risks of social exclusion. This

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is why we place a premium on national reforms to modernize labor and social policies. They are the first steps to addressing the EU’s demographic challenges. The Commission will be launching a broad debate on the impact of an ageing population with a Green Paper soon. Pushing up employment means equipping people throughout their lives with the skills they need to adapt to change, and ensuring that our tax and benefit systems help people into the workplace and offer the right incentives for them to remain there. But we also recognize that this is an area where the major responsibility for change falls to Member State authorities, and to the social partners. In this area, business and trade unions have an important role as social partners. Our tradition of social dialogue, backed by appropriate action at EU level, has been an important factor for economic and social progress. The social partners are particularly well placed at European—but also at national level—to help deliver lasting growth and quality jobs. I hope they will lead by example in identifying concrete initiatives and I look forward to hearing what they can do. The Commission will, of course, play its role as guide and facilitator, with contributions at EU and national level.

The need for joint mobilization Why should Lisbon work this time round? It must work, because it is the right diagnosis and the right remedy, and there is no credible alternative. I believe there is increasing recognition that we are on the right track. But to deliver results, it is essential that we have greater success in ensuring that all European and national players work together. Lisbon is a shared agenda—par excellence and we will know that it is working if it becomes the subject of national political debate. We must explain what Lisbon is and why it is important, and we must mobilize civil society, regional and local authorities, business leaders and all those with a stake in Lisbon’s success, along with the European Parliament and the Commission itself. This is where the Lisbon agenda fell down in the past. We cannot afford to let this second chance slip by. The “new Lisbon governance” To make this partnership work, we also need greater ownership of the objectives involved. This means a clear set of priorities and a simple, uniform way of following and ensuring progress. To help build this ownership, we have proposed: • A more integrated approach to macro-economic and

employment policy co-ordination within an integrated Lisbon cycle. • A clear role for the Commission, the European Council and this Parliament. • A Community Lisbon Action Plan to focus the work that needs to be complemented by National Lisbon Action Plans. These should be developed by Member States only after broad consultation with stakeholders and their Parliaments. • Appointment by Member States of a Mr. or Ms. Lisbon at government level to drive this process forward. • Simpler reporting—in future there will be only one Lisbon report at EU level and only one report at national level. Conclusion I know we are setting ourselves a daunting challenge. But if we look at the single market in 1992, the euro in 1999 or even enlargement and the Constitution in the last twelve months we know that together we can deliver the results that Europe’s citizens demand. I am quite certain that the race for growth and jobs will be Europe’s next great project and I strongly believe that the Strategy we have launched maps out the route to take us there.

* José Manuel Barroso is President of the European Commission. He has a distinguished academic career along with a remarkable political career. He has been Secretary of State for Home Affairs, Secretary of State for Foreign Affairs and Minister for Foreign Affairs in a number of Portuguese Governments. He was Prime Minister of Portugal from April 2002 to the end of 2004. Mr. Barroso has published many books on politics and economics and holds twenty decorations from national and international institutions.

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Ancora una volta… la Cina It’s China... Once Again di Nariman Behravesh* by Nariman Behravesh*

Competitività globale: la chiave è la produttività, non i bassi salari Productivity, not low wages, is the key for global competitiveness

10

Nariman Behravesh

E

sistono diversi modi di valutare la competitività su scala globale e nazionale. Fra i criteri principali, due sono particolarmente significativi: le quote d’esportazione (esportazioni nazionali quale quota delle esportazioni mondiali) e la crescita della produttività. La tendenza al ribasso o al rialzo delle quote d’esportazione rispetto agli altri Paesi e la capacità (o l’incapacità) di sostenere una solida crescita della produttività sono, per così dire, la “bottom line” della performance economica rispetto alla competitività internazionale. Sono tanti i fattori microeconomici e macroeconomici che contribuiscono al vantaggio competitivo di una nazione nell’arena del mercato globale: il livello di istruzione nazionale, la flessibilità del mercato del lavoro, l’apertura dei mercati e il grado di concorrenza sul mercato interno, gli assetti dei mercati finanziari, gli investimenti in ricerca e innovazione, l’alta tecnologia e altri tipi di infrastrutture, i tassi di risparmio e di investimento, le politiche in materia di macroeconomia e l’andamento a lungo termine dei tassi di cambio.

Crescita guidata dall’esportazione La dimensione internazionale del commercio e degli investimenti ha assunto un’importanza sempre maggiore per la crescita mondiale in questi ultimi anni. Le esportazioni, in particolare, si sono imposte quale autentico motore di sviluppo sia per i mercati emergenti sia per le economie mature. Il mondo, nel suo complesso, ha registrato un aumento del Pil in dollari di 6,5 punti percentuali su base annua dal 1985 al 2004,

Tabella 1

Canada Francia Germania Regno Unito Italia Giappone Stati Uniti Cina India Corea del sud Brasile Messico Totale mondiale

mentre le esportazioni hanno registrato una crescita nell’ordine dell’8,4%. La portata del fattore esportazioni per i singoli Paesi è sintetizzata nella Tabella 1. Le esportazioni di merci e servizi per il 1985 e il 2004 (sulla base dei conti economici nazionali) sono riportate in dollari, mentre è indicata in percentuale la quota di ogni singola nazione sul totale delle esportazioni mondiali. I dati relativi alle esportazioni sono sintomatici di alcune importanti tendenze. La più rilevante è senz’altro la rapida crescita delle esportazioni cinesi con un aumento vicino al 18% su base annua che posiziona quindi la Cina al terzo posto, davanti al Giappone, per quota di mercato mondiale delle esportazioni. Anche le esportazioni di India e Corea del sud evidenziano una rapida crescita; tuttavia, in ragione di una base di partenza piuttosto bassa, le quote di contribuzione dei due Paesi al totale delle esportazioni mondiali nel 2004 restano limitate al fondo della classifica. Dal canto loro, Germania e Messico

evidenziano una crescita leggermente più rapida rispetto alla media mondiale – queste cifre sono chiaramente dovute alla riunificazione della Germania e al Nafta – con un conseguente incremento delle rispettive quote sullo stesso periodo. Le altre nazioni crescono più lentamente rispetto alla media mondiale, con un conseguente ribasso delle rispettive quote. La Tabella 2 fornisce una serie di dati in materia di esportazioni industriali. Tra le due tabelle, è ipotizzabile un confronto solo superficiale: i dati provengono da diverse fonti (conti economici nazionali versus certificazioni doganali), la definizione stessa di aziende produttrici varia in funzione dei Paesi analizzati e i tassi di crescita media sono suscettibili di sensibili variazioni a seconda del periodo di riferimento considerato. Ancora una volta, la Cina svetta sugli altri Paesi con un tasso medio di crescita superiore al 20%. Altre nazioni industrializzate – India, Corea del sud e Messico – registrano dati a due cifre.

Esportazioni

Quote d’esportazione

(miliardi di US$)

(% delle esportazioni mondiali)

1985

2004

Tasso di crescita media annuale

1985

2004

100,6 121,6 211,3 131,4 95,7 194,5 302,0 30,5 12,1 30,9 27,2 38,9

382,3 518,4 1.032,2 508,8 432,6 607,4 1.170,2 668,3 111,6 301,4 106,8 189,5

7,3% 7,9% 8,7% 7,4% 8,3% 6,2% 7,4% 17,6% 12,4% 12,7% 7,5% 8,7%

4,6% 5,6% 9,7% 6,1% 4,4% 9,0% 13,9% 1,4% 0,6% 1,4% 1,3% 1,8%

3,8% 5,1% 10,2% 5,0% 4,3% 6,0% 11,7% 6,6% 1,1% 3,0% 1,1% 1,9%

2.167,5

10.113,7

8,4%

100%

100%


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Tabella 2

Canada Francia Germania Regno Unito Italia Giappone Stati Uniti Cina India Corea del sud Brasile Messico Totale mondiale

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Esportazioni industriali

Quote d’esportazione industriale

(miliardi di US$)

(% delle esportazioni mondiali)

1985

2004

Tasso di crescita media annuale

1985

2004

66,4 82,7 181,5 82,5 76,5 182,9 183,7 11,4 5,0 30,2 14,6 9,4

234,6 334,8 715,7 310,5 292,0 559,0 841,5 465,9 51,2 254,7 44,1 163,4

6,9% 7,6% 7,5% 7,2% 7,3% 6,1% 8,3% 21,6% 13,0% 11,9% 6,0% 16,2%

4,7% 5,8% 12,8% 5,8% 5,4% 12,9% 13,0% 0,8% 0,4% 2,1% 1,0% 0,7%

3,5% 4,9% 10,5% 4,6% 4,3% 8,2% 12,4% 6,9% 0,8% 3,8% 0,6% 2,4%

1.416,3

6.785,9

8,6%

100%

100%

Per contro, i più maturi tra i Paesi sviluppati faticano a tenere il passo, registrando tassi di crescita inferiori, che ben riflettono la trasformazione in atto nel settore delle esportazioni sempre più spesso caratterizzato da una richiesta di servizi diversificati e di merci ad alto valore aggiunto. Il driver è la produttività I confronti internazionali sono per loro natura particolarmente complessi, in ragione delle differenze tra Paese e Paese in termini di valutazione di rendimento e di prezzo, fluttuazioni nel tasso di cambio del mercato, nonché in virtù di una scarsa parità di potere d’acquisto dell’industria. Il Bureau of Labor Statistics (Agenzia di statistiche sul lavoro) del Dipartimento del lavoro degli Usa pubblica ogni anno uno studio comparativo sulla produttività industriale riferito a 14 nazioni, utilizzando il valore aggiunto reale come misura della produzione (vedi Figura 1). Tra il 2000 e il 2003, gli Stati Uniti hanno guidato il gruppo con una crescita annua del 6,0% in termini di produzione industriale oraria con Corea del sud e Taiwan immediatamente a seguire. Dal canto loro, Regno Unito e Francia hanno fatto registrare rendimenti di tutto rispetto, mentre Germania e Canada sono rimasti indietro di diverse lunghezze. L’Italia è stato l’unico Paese a soffrire di una perdita di produttività. Nel 2003, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, la Corea del sud ha guadagnato la testa della classifica: il suo 9,0% di rendimento produttivo ha ampiamente

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Figura 1: CRESCITA DELLA PRODUTTIVITÀ INDUSTRIALE (Variazione percentuale annua nel valore aggiunto reale per ora lavorata)

Stati Uniti Corea del sud Taiwan Regno Unito Francia Giappone Germania Canada Italia -2

0

2

4

6

8

10

12

1995-2000

Fonte: U.S. Bureau of Labor Statistics

2000-2003

Figura 2: COMPARAZIONE INTERNAZIONALE DELLA CRESCITA DEL PIL REALE PER ORA LAVORATA (Variazione percentuale annua)

Cina Corea del sud India Stati Uniti Regno Unito Giappone Francia Germania Messico Italia -1

0

1

2

3

4

6 1995-2000

Fonte: Database produttività Ocse; Global Insight, Inc.

sorpassato il tasso di crescita del 6,8% vantato dagli Stati Uniti. La Figura 2 presenta una comparazione internazionale condotta dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) relativa al Pil reale per ora lavorata in 30 diverse nazioni, integrata dalle stime di Global Insight relative a Cina e India. L’inclusione del settore

5

statale in questo computo allargato si traduce in tassi di crescita della produttività inferiori rispetto a quelli precedentemente registrati nel settore privato. A fronte di una performance comparabile sul finire degli anni 90, gli Stati Uniti si sono recentemente portati in testa alla classifica dei Paesi sviluppati. Forte dei massicci

7

8 2000-2003

investimenti in nuovi impianti industriali, la Cina ha distanziato le altre nazioni, con un aumento della produttività nell’ordine del 7% su base annua. La Corea del sud e l’India hanno superato gli Stati Uniti mentre Germania, Messico e Italia hanno registrato un sensibile calo nelle loro performance produttive dopo il 2000.


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on research and innovation, high-tech and other types of infrastructure, rates of saving and investment, macroeconomic policies, and long-term trends in exchange rates.

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Conclusioni Da questa analisi delle macro-tendenze in materia di competitività, si possono ricavare alcune conclusioni chiave. Tanto per cominciare, contrariamente a quanto si usa credere, la ragione che è alla base della formidabile crescita di competitività del continente asiatico in generale e della Cina, in particolare, non deve ricercarsi nei bassi salari della manodopera, bensì nei rapidi incrementi delle performance produttive. In secondo luogo, questo dato rappresenta una sfida non solo per le economie industrializzate mature, ma anche e soprattutto per i mercati emergenti, specialmente quelli dell’America Latina. Infine, è particolarmente allarmante il recente rallentamento della crescita produttiva, registrato in Giappone e nell’Unione europea e questa considerazione rinnova l’urgenza di programmi di riforme strutturali in entrambe queste importanti economie globali.

* Nariman Behravesh è capo economista globale e vice presidente esecutivo di Global Insight (la società di analisi e previsioni economicofinanziarie con base a Boston, nata dalla fusione fra Dri e Wefa). Prima di lavorare per Global Insight, Nariman Behravesh ha ricoperto la funzione di capo economista internazionale presso Standard & Poor’s.

T

here are many different ways in which competitiveness at the global and country level can be measured. Two of the broadest measures are export shares (country exports as a share of world exports) and productivity growth. The loss or gain of export shares relative to other countries and the ability (or inability) to sustain strong growth in productivity can be thought of as the “bottom line” performance of an economy vis-à-vis international competitiveness. Numerous microeconomic and macroeconomic factors contribute to the ability of a country to compete in the global market place. These include: levels of educational attainment, labor market flexibility, openness of markets and levels of internal market competition, financial market infrastructure, expenditures Table 1

Canada France Germany United Kingdom Italy Japan United States China India South Korea Brazil Mexico World

Export-Driven Growth International trade and investment has become increasingly important for global growth in recent years. Exports in particular have been growth drivers for both emerging markets and mature economies. For the world as a whole, GDP in dollars has increased 6.5% annually from 1985 to 2004, while exports grew at an 8.4% pace. The importance of exports to individual countries can be seen in Table 1. Exports of goods and services (as measured in national income accounts) are shown in U.S. dollars for 1985 and 2004. Each country’s share of world exports is also given. The export data illustrate several important trends. The most noteworthy is the rapid growth of Chinese exports: these increased at an average rate of nearly 18% per year, allowing China to pass Japan to take the number 3 position in share of

world exports. Indian and South Korean exports also grew rapidly; but since they started from a lower base, their shares in 2004 remain in the low single digits. Lastly, Germany and Mexico grew slightly faster than the world average—clearly the effects of German reunification and NAFTA are at work here—so their shares increased over this period. The other countries grew more slowly than the world average so their shares fell. Table 2 provides data for manufacturing exports. Note that only a cursory comparison can be made between these two tables: the data come from different sources (national income accounts versus customs clearance), the definition of manufactures differs from country to country, and average growth rates can vary significantly depending on the choice of time period. China again stands out with an average growth rate exceeding 20%. Other industrializing countries—India, South Korea and Mexico—are also in double-digits. The more mature developed countries, in contrast, have lower growth rates, reflecting the shift in export

Exports

Export share

(billion US$)

(% of world exports)

1985

2004

Average annual growth rate

1985

2004

100.6 121.6 211.3 131.4 95.7 194.5 302.0 30.5 12.1 30.9 27.2 38.9

382.3 518.4 1,032.2 508.8 432.6 607.4 1,170.2 668.3 111.6 301.4 106.8 189.5

7.3% 7.9% 8.7% 7.4% 8.3% 6.2% 7.4% 17.6% 12.4% 12.7% 7.5% 8.7%

4.6% 5.6% 9.7% 6.1% 4.4% 9.0% 13.9% 1.4% 0.6% 1.4% 1.3% 1.8%

3.8% 5.1% 10.2% 5.0% 4.3% 6.0% 11.7% 6.6% 1.1% 3.0% 1.1% 1.9%

2,167.5

10,113.7

8.4%

100%

100%


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Table 2

Canada France Germany United Kingdom Italy Japan United States China India South Korea Brazil Mexico World

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Manufacturing exports

Mfg. Export share

(billion US$)

(% of world exports)

1985

2004

Average annual growth rate

66.4 82.7 181.5 82.5 76.5 182.9 183.7 11.4 5.0 30.2 14.6 9.4

234.6 334.8 715.7 310.5 292.0 559.0 841.5 465.9 51.2 254.7 44.1 163.4

6.9% 7.6% 7.5% 7.2% 7.3% 6.1% 8.3% 21.6% 13.0% 11.9% 6.0% 16.2%

4.7% 5.8% 12.8% 5.8% 5.4% 12.9% 13.0% 0.8% 0.4% 2.1% 1.0% 0.7%

3.5% 4.9% 10.5% 4.6% 4.3% 8.2% 12.4% 6.9% 0.8% 3.8% 0.6% 2.4%

1,416.3

6,785.9

8.6%

100%

100%

1985

2004

Figure 1: MANUFACTURING LABOR PRODUCTIVITY GROWTH (Annual percent change in real value added per hour)

United States South Korea Taiwan United Kingdom France Japan Germany Canada Italy -2

0

2

4

6

8

10

12

1995-2000

Source: U.S. Bureau of Labor Statistics

2000-2003

Figure 2: AN INTERNATIONAL COMPARISON OF GROWTH IN REAL GDP PER HOUR WORKED (Annual percent change)

China South Korea India United States United Kingdom Japan France Germany Mexico Italy -1

0

1

2

3

4

When Productivity is the Driver International comparisons are complicated by cross-country differences in the measurement of output and prices, fluctuations in market exchange rate, and the limited availability of purchasing power parities by industry.

6 1995-2000

Source: OECD Productivity Database; Global Insight, Inc.

composition toward more services and high-valued added goods.

5

The U.S. Bureau of Labor Statistics publishes annual comparisons of manufacturing productivity for 14 countries, using real value added as the measure of output. These are shown in Figure 1. From 2000 to 2003, the United States led the pack with 6.0% annual growth in manufacturing output per hour; South Korea and Taiwan were close behind. The United Kingdom and France had

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8 2000-2003

respectable gains, but Germany and Canada lagged well behind; Italy was the only country to suffer a loss in productivity. In 2003, the latest year for which data is available, South Korea topped the list; its 9.0% productivity gain surpassed the U.S. growth rate of 6.8%. Figure 2 shows the OECD’s international comparisons of real GDP per hour worked in 30 countries, which have been

supplemental with Global Insight’s estimates for China and India. The inclusion of the government sector in this broader measure generally results in lower productivity growth rates than reported earlier for the private sector. After a comparable performance in the late 1990s, the United States pulled ahead of other developed countries in recent years. With its massive investments in new factories, China led all countries with productivity gains of close to 7% annually. South Korea and India outpaced the United States. Germany, Mexico, and Italy showed significant deteriorations in productivity performance after 2000. Implications A few key conclusions emerge from looking at these high-level trends in competitiveness. First, contrary to popular myths, the basis for the dramatic improvement in the competitiveness of Asia, in general, and China, in particular, is not low wages but very rapid improvements in productivity. Second, this poses a challenge not only for the mature industrialized economies, but also for other emerging markets, especially in Latin America. Finally, the recent deterioration in productivity growth in Japan and the European Union is particularly alarming. This increases the urgency of the structural reform programs in both of these key global economies.

* Nariman Behravesh is Chief Global Economist and Executive Vice President for Global Insight, the Boston-based economic forecasting and consulting firm formed through the merger of DRI and WEFA. Before joining Global Insight, Dr. Behravesh was Chief International Economist for Standard & Poor’s.

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Vent’anni per colmare il gap Twenty Years to Bridge the Gap Intervista a Adriano De Maio* Interview with Adriano De Maio*

Prospettive dell’innovazione: Italia ed Europa a confronto con gli Usa Prospects in Innovation: Italy and Europe versus the USA

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Adriano De Maio

C

i vorrà ben altro che gli obiettivi di Lisbona per chiudere il divario in campo tecnologico fra l’Europa e gli Stati Uniti e, in questo contesto, l’Italia dovrà fare scelte impegnative per adottare politiche coerenti nella ricerca e nell’innovazione. Ma i tempi del recupero saranno lunghi, non inferiori ai vent’anni, anche in presenza di soluzioni chiare e di orientamenti efficaci che, peraltro, allo stato attuale delle cose ancora non si vedono. Parla senza remore Adriano De Maio, oggi rettore della Luiss e un recente passato come rettore del Politecnico di Milano e di commissario straordinario del Cnr, uno dei massimi esperti italiani nel campo delle politiche dell’innovazione. In questa intervista ad arcVision delinea con impietosa chiarezza la situazione italiana ed europea di oggi per guardare alle sfide di domani. Le parole d’ordine di oggi, quando si parla di competitività dei sistemi-Paese, ruotano attorno a ricerca e innovazione e, da questo punto di vista, l’Italia denuncia un forte ritardo persino in un’Europa

gravemente arretrata rispetto agli Usa. È una questione di investimenti troppo scarsi? Prima di tutto un’osservazione prudenziale, che riguarda l’efficacia degli indicatori che misurano l’innovazione. In Italia si dice spesso che quelli utilizzati non rivelano tutta la storia, perché talvolta gli investimenti in innovazione non sono considerati tali nei bilanci delle aziende o perché spese come gli acquisti di software non vi rientrano, diversamente dalla prassi che prevale, ad esempio, nei Paesi scandinavi. D’altra parte, questa eventuale sottovalutazione è più che compensata da una sopravvalutazione nel settore pubblico, dove i semplici stipendi pagati ai ricercatori sono spesso spesati come investimenti. Detto questo, il problema quantitativo degli investimenti c’è, ed è grave. L’Italia è indietro come totale degli investimenti in R&S ed è indietro anche come ripartizione tra pubblico e privato, con una netta prevalenza del primo rispetto al secondo, fenomeno tipicamente italiano. Che fare? Il primo punto riguarda la Pubblica amministrazione: se si vogliono aumentare le spese in

R&S occorre nel contempo operare scelte di riduzione di altre voci nel bilancio pubblico, ma finora nessuno l’ha detto e fatto chiaramente. Così gli investimenti non aumentano, dato che l’attuale fase dell’economia non tollera aumenti generalizzati. Al secondo posto c’è un importante elemento politico: per decidere l’aumento delle spese in ricerca occorrerebbe un accordo bipartisan in Parlamento, così come quando fu decisa la tassa d’ingresso per l’Europa. Tutti erano d’accordo e nessuno si oppose, così la tassa venne approvata e pagata. Ma anche qui al momento non sembra esserci la benché minima possibilità anche se, in teoria, tutti si dicono d’accordo. Per quanto riguarda invece il settore privato, un fattore critico ricade di nuovo nel campo delle decisioni pubbliche, ed è quello fiscale. È chiaro che non solo la fiscalità non aiuta, ma penalizza gli investimenti in ricerca e innovazione. Pensiamo al solo fatto che l’Irap viene pagata non solo dalle imprese che investono in ricerca e non sono autorizzate a scorporare la quota relativa, ma anche dalle università. E ha ragione Confindustria quando chiede di abolire l’Irap sull’investimento in innovazione. Però esiste anche un fattore storico-culturale. Occorrerebbe capire perché e come le imprese italiane hanno smesso di credere nella ricerca. Cosa tanto più incomprensibile in quanto è ben noto il legame che intercorre fra innovazione e successo competitivo. Ma, nelle politiche per l’innovazione, c’è anche un problema qualitativo, di scelte di priorità e di focalizzazione, che sono state tanto spesso annunciate e altrettanto spesso disattese.

Naturalmente. Non solo c’è un problema qualitativo, ma è persino più importante di quello quantitativo. Addirittura, va detto che in assenza di scelte precise di qualità, maggiori investimenti in senso quantitativo rischiano di essere inutili e dispersivi. È giunto il momento di essere chiari e di affermare che occorre un sistema meritocratico e di valutazione. Questo equivale a dire che non ci possono essere centinaia di centri di eccellenza, ma solo un manipolo. Quando ho assunto l’incarico di rettore del Politecnico di Milano nel 1994, dissi nel mio discorso inaugurale che nel 2010 ci sarebbero state dieci università politecniche eccellenti in Europa e che il mio obiettivo era di fare del Poli una di esse. Era un po’ una battuta, ma nei fatti ero stato anche troppo ottimistico. Dunque, meritocrazia, valutazione, selezione e indicazione. Sappiamo che c’è una chiara correlazione fra innovatività di un Paese e spese per difesa e aerospazio, perché non c’è un rapporto diretto tra costi e benefici. Non piace dirlo, ma il fatto è che il driver difesa-aerospazio è un potente stimolo all’innovazione nei Paesi che lo adottano, a partire dagli Usa. In Italia e in Europa questo driver non c’è, per cui abbiamo bisogno di altri fattori di spinta, che si possono chiamare ambiente, salute e sicurezza, cui in Italia dovremmo aggiungere patrimonio culturale. E si deve fare una doppia selezione, una sulle priorità e una su chi le dovrà portare avanti. Ma il risultato può essere una fortissima ricaduta sia sul pubblico sia sul privato. E si potrebbe venire a creare un effetto di attrazione di investimenti dall’estero che, attualmente, non ha molte ragioni per esistere.


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programmi-quadro, non c’è nemmeno un’armonia nel raggiungimento degli obiettivi, che sono perseguiti in modo del tutto differenziato a seconda delle necessità e degli orientamenti nazionali. Quali sono i Paesi più avanzati e quali i più arretrati? I soliti noti. Sono nettamente più avanti i Paesi scandinavi, la Francia e la Germania e, sia pure solo in parte, la Gran Bretagna, e sono in coda con problemi di crescente gravità i Paesi del Sud Europa, Italia inclusa. E per superare questa situazione schizofrenica occorrerebbe applicare in modo deciso dei seri criteri di selezione e valutazione, come dicevo prima nel caso specifico dell’Italia. Solo che qui andrebbero applicati su scala europea, con l’effetto di stabilire che determinate attività si fanno in Francia e non in Italia o in Germania e non in Olanda. Ma allo stato attuale non lo accetta nessuno. A chi compete la selezione degli obiettivi, al pubblico o al privato, o ai due in una qualche combinazione da definire? Prevalentemente al settore pubblico, perché è una decisione della collettività. Poi il privato interviene e interagisce, ma in seguito a una scelta di focalizzazione che sta a monte. C’è un altro grosso problema, che è quello della difficoltà di trattenere in Italia i migliori talenti o, viceversa, di attirare i talenti che crescono all’estero. Che fare? Qui occorre avere le idee chiare. Sono diversi i motivi che trattengono o respingono i ricercatori migliori. Il primo è la disponibilità – nell’impresa, nell’università, nel laboratorio

di ricerca – di risorse di prima qualità nel proprio campo di interesse e di attività. Il secondo è l’esistenza di criteri reali di valutazione e di un grado sufficiente di autonomia nell’ambito delle attività di ricerca. Salta all’occhio che, mentre questa è la realtà prevalente in America, è del tutto assente in Europa, e particolarmente nell’Italia della burocrazia e della gerontocrazia. Ultimo, ma in questo caso un po’ meno importante, è il livello delle retribuzioni. Secondo lei, quanto pesano proporzionalmente questi tre elementi? Diciamo, per capirci, che pesano rispettivamente il 40, 40 e 20 per cento.

Se guardiamo al quadro tecnologico, l’Italia piange ma l’Europa non ride. Il grande progetto definito con l’obiettivo di Lisbona non solo è in ritardo, ma non decolla. Ne soffre la capacità di competere dell’Europa, prima di tutto con gli Usa, ma tra breve anche con Paesi come Cina e India. Com’è che non si riesce a fare seguire alle parole anche i fatti? Il motivo vero è che non esiste una strategia di ricerca in Europa, mentre esistono molte politiche di ricerca e innovazione nazionali, così vi sono Paesi che superano già gli obiettivi di Lisbona e altri che rischiano di non arrivarci mai. Così come non c’è un vero confronto e una selezione degli obiettivi nell’ambito dei

Il vantaggio tecnologico americano è anche frutto, come lei diceva prima, delle ricadute delle commesse militari all’industria privata. L’Europa queste commesse non le ha perché segue meccanismi diversi e, soprattutto, perché spende poco nella difesa. C’è una strada per compensare in altro modo questo importante moltiplicatore? C’è e non posso che ribadire quanto già detto. Ci sono altri driver più adatti all’Europa e sono quelli di investire in ambiente, sicurezza e salute. Sono importantissimi e possono riprodurre i meccanismi di ricaduta tipici dell’industria militare Usa. L’Italia ha poi un proprio moltiplicatore

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potenziale, rappresentato dal patrimonio culturale. In quanto tempo potrebbe essere possibile, secondo lei, arrivare a ridurre, o magari anche annullare, il gap tecnologico-innovativo fra Europa e Stati Uniti? È possibile se si decide oggi di operare le scelte di priorità e di investimento che sono necessarie, ma comunque ci vorranno non meno di vent’anni. Dobbiamo partire dalla base, dal capitale umano, dalla formazione, che invece si sta depauperando in molti Paesi, a partire dall’Italia. Se si guarda, ad esempio, alla Cina, ma anche all’India, è chiaro che stanno investendo in misura colossale nelle persone e nelle competenze, e sfornano ogni anno decine, centinaia di migliaia di laureati e di ingegneri, che sono in grado di sostenere il loro sforzo di modernizzazione accelerata. Questo in Europa non si fa e se ne avvertono già gli effetti. Perciò attenzione, la formazione è la chiave di volta dell’innovazione e della competitività e occorre convincersene al più presto, operando con coerenza le scelte conseguenti.

* Adriano De Maio, rettore della Luiss, dove è anche professore ordinario di “Economia e gestione dell’innovazione aziendale” è uno dei massimi esperti italiani di temi di innovazione, ricerca e sviluppo. Tra i suoi molti importanti incarichi precedenti, è stato rettore del Politecnico di Milano dal 1994 al 2002, commissario straordinario del Cnr nel 1993-94, presidente del gruppo di valutazione sui Centri di Eccellenza del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dal 2002 al 2004, ed è dal 1996 a oggi presidente dell’Irer, Istituto di Ricerca della Lombardia.

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uch more than the Lisbon goals are needed if Europe is to close the technology gap with the USA; for its part, Italy will be facing some tough decisions if it wants to establish a consistent policy approach to research and innovation. Yet even if a clear strategy and effective guidelines are set—and so far there is no sign of either—a recovery will take at least twenty years. Adriano De Maio, rector of the LUISS-Free International University of Social Studies in Rome, a former rector of Milan Polytechnic and special commissioner of Italy’s National Research Council (CNR), one of Italy’s leading experts on innovation policy, does some plain talking in this interview with arcVision, providing an unvarnished description of the situation in Italy and Europe today and the challenges that will emerge tomorrow. The key issues in any discussion of country-system competitiveness today are research and innovation, areas where Italy is struggling to keep up even in a Europe that is already trailing well behind the USA. Is lack of investment the problem? Let me begin with a comment on the indicators used to measure innovation. Commentators often say that the indicators used in Italy tell only part of the story, because investment in innovation is sometimes not recognized as such in companies’ financial statements, or because spending on software is not classified as innovation expenditure, whereas this is standard practice elsewhere, for example in the Scandinavian countries. On the other hand, this sort of under-estimation is

more than counter-balanced by over-estimation in the public sector, where even researchers’ salaries are often expensed as investments. Having said that, there is a problem with the amount of investment, and it’s a serious problem. Italy lags in terms of total R&D investment and also on the split between public and private, with the public sector, in typical Italian fashion, accounting for the lion’s share. So what can be done? The first hurdle concerns the Administration: if we want to raise R&D spending, then we have to make cuts in other areas of the State budget, but no-one has said this in so many words and done it. So investment is not rising, since there is no room for generalized expenditure hikes under current economic conditions. The second difficulty is an important political consideration: increased research spending requires bipartisan support in Parliament. The tax for entry into Europe is a case in point: all the parties agreed, there was no opposition, so the tax was approved and paid. But once again there seems to be absolutely no chance of this happening at the moment, despite the fact that, in theory, everyone supports the idea. Public policy is also the root of a critical factor in the private sector, and that is taxation. Not only is taxation obviously not an incentive to investment in research and innovation, it is actually a hindrance. The IRAP tax (Regional Tax on Productive Activities) for example is paid not just by companies that invest in research and are unable to deduct their R&D spending, but by universities too. The Confindustria manufacturers association is

right to ask for the abolition of IRAP on investment in innovation. But there’s an historical and cultural factor to consider as well: why and how have Italian enterprises stopped believing in research. This is particularly strange when everyone knows how closely innovation is linked with competitive success. But there’s also a quality problem with innovation policies. Decisions on priorities and focus are often announced and just as often they are never carried through. That’s right. What’s more, quality is an even more important issue than quantity. Indeed, without a clear policy on quality, increases in investment run the risk of being wasted. It’s time to say clearly that we need a merit-based assessment system. In other words, that we can’t have hundreds of excellence centers, just a select group. When I was installed as rector of Milan Polytechnic in 1994, I said in my inaugural speech that by 2010 there would be ten excellent polytechnics in Europe and that I intended to make Milan one of them. It wasn’t entirely serious, but as it turns out I was being overly optimistic. So, merit, assessment, selection and guidance. We know there is a clear correlation between a country’s level of innovation and its defense and aerospace budgets, because there is not a direct link between costs and benefits. It may not be a fashionable thing to say, but the fact is that defense and aerospace are powerful drivers for innovation in the countries that have them, beginning with the USA. These drivers do not exist in Italy and in Europe, so we need other motors, such as


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the environment, health and safety and, in Italy, a heritage of arts and culture. We also need decisions at two levels; first on our priorities and then on who is to carry them out. All this could have a very strong impact in both the public and the private sectors. And it could be a strong draw for foreign investment, which, as things stand at the moment, has little reason to come here. Who is responsible for setting goals, the public or the private sector, or a combination of the two? Chiefly the public sector, because this type of decision concerns the community as a whole. The private sector can intervene and interact, but only after the priorities have been decided. Another great problem is the difficulty of keeping the best talent inside Italy or, vice versa, of attracting talent from abroad. What can be done? We need to get our ideas straight here. There are several reasons why researchers stay or leave. The first is the availability—in companies, in universities, in research labs—of top-quality resources in the researcher’s field of specialization. The second is the presence of real assessment criteria and a sufficient level of independence within the research area. While these conditions prevail in America, they are notable for their

absence in Europe, and in Italy in particular, with its bureaucratic gerontocracy. A final consideration, in this case a little less important, is pay. How would you weight these three factors? I would say they rank for 40, 40 and 20 per cent respectively. Looking at technology, Italy may be in a pitiable state, but Europe is hardly laughing. The innovation strategy discussed at Lisbon is not only overdue, it has failed to take off. This is weakening Europe’s ability to compete, with the USA first of all, but soon also with countries like China and India. Why hasn’t all the talk been followed by action? The truth is that Europe doesn’t have a research strategy, but a host of national research and innovation policies; similarly some countries have already reached the Lisbon goals, while others risk never getting there at all. Nor is there any real discussion and selection of objectives within framework programs, or even any agreement on how to achieve goals, which each country pursues in its own way depending on its individual needs and preferences. Which countries have made the most progress, and which are furthest behind? The usual names. The Scandinavian countries, France and Germany have a clear lead,

and the UK too, in some respects. Whereas the southern European countries, Italy included, come in last and face increasingly serious problems. To deal with this schizophrenic situation, Europe, like Italy, needs serious selection and assessment criteria. In enforcing these criteria at European level, we would decide that certain types of work should be performed in France and not in Italy, or in Germany and not in Holland. But no-one would agree to this today. You said earlier that America’s technological advantage is partly the result of military procurement contracts awarded to private industry. Europe doesn’t have these contracts because it adopts a different system and, above all, because its defense spending is low. Is there a way to compensate this important multiplier? Yes there is, and I can only repeat what I said before. Other, more suitable drivers can be developed in Europe, namely investment in the environment, health and safety. They are extremely important and can duplicate the fall-out mechanisms of America’s military contracts. Italy of course has its own potential multiplier, in its arts heritage. Do you think it is possible to reduce or even eliminate the technology and

innovation gap between Europe and the United States and how long would it take? It is possible if we make the right priority and investment decisions today, but it will take at least twenty years. We have to start at the grass roots level, with human capital, education and training, which are being dumbed down in many countries, beginning with Italy. If you look at China, for example, or India, they are making huge investments in people and skills, and every year they turn out tens, hundreds of thousands of graduates and engineers with the knowhow to support their rapid modernization drive. None of this happens in Europe, and we are already beginning to feel the effects. Education is the key to innovation and competitiveness, and we have to realize that as soon as possible and take policy decisions accordingly.

* Adriano De Maio is the Rector of the LUISS University, where he is also chair in “Business Economics and Innovation Management.” He is one of Italy’s leading experts on innovation, research and development. He has held many prestigious posts, including that of Rector of Milan Polytechnic from 1994 to 2002, Special Commissioner of the Italian National Research Council (CNR) in 1993-94, Chairman of the Assessment Group for Excellence Centers of the Ministry of Education, Universities & Research, from 2002 to 2004. He has been Chairman of the Lombardy Research Institute (IRER) since 1996.


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È la squadra, stupido! It’s the Team, Stupid! Intervista a Brian Muirhead* Interview with Brian Muirhead*

Ha portato la Nasa su Marte e Saturno, rispettando tempi e budget. Come? Puntando sulle persone He took NASA to Mars and Saturn, on time and on budget. His secret? People

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Brian Muirhead

È

l’uomo che nel 1997 ha fatto atterrare la prima sonda americana su Marte, che ha inviato la sonda Cassini su Saturno e che, tra breve, avrà la soddisfazione di compiere una nuova impresa ai limiti della fantascienza: depositare un nuovo veicolo spaziale su una cometa lanciata nello spazio per svelare i segreti dell’universo vecchi di 4,5 miliardi di anni. Quest’uomo è Brian Muirhead, fino a poco tempo fa ingegnere capo della Nasa e oggi alla testa della ricerca presso il mitico Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadena, dove porta avanti missioni ancora più ambiziose. Mr. Muirhead, lei ha la fama di uno scienziato capace di ottenere i risultati più incredibili con risorse limitate e in tempi ancora più limitati. Qual è il suo segreto? Nessun segreto. In primo luogo occorre avere le idee chiare su ciò che si vuole realizzare e poi motivare la gente rispetto al risultato. Quando hai un compito difficile da svolgere, come far atterrare un’astronave su un pianeta lontano, devi motivare le persone che lavorano con te e la chiave è dare loro delle responsabilità

importanti su ciò che fanno. Devono sentire proprio il compito e il risultato, e in questo modo riescono a dare performance di massimo successo. Io cerco di trasmettere ciò che mi aspetto e di far loro capire quanto è importante il loro ruolo. Dunque, la chiave del successo non sono le risorse, i mezzi, l’organizzazione, ma le persone? Assolutamente sì. Nel mio ultimo libro ho parafrasato la famosa espressione “è l’economia, stupido”, in una nuova che dice “è il team, stupido”, per fare capire che ciò che conta è la squadra, il lavoro di squadra e l’impegno collettivo di tutta la squadra. In ogni organizzazione ci sono persone con maggiore o minore talento. Come fa lei a riconoscere, selezionare e motivare i migliori? Ci sono due diversi tipi di talenti, uno è tecnico, ed è quello che trovi in ogni università e azienda, persone con grandi competenze e intelligenza. E poi c’è un altro tipo di talento, persone che possiedono quello che io

chiamo, assieme a Daniel Goleman, l’intelligenza emotiva, una caratteristica che spinge avanti la tua energia, il tuo dinamismo, il tuo ottimismo e ti permette di porti in modo vincente davanti a qualsiasi problema. Per me questa caratteristica è persino più importante di una grande esperienza o capacità tecnica. E io cerco di trovare nelle persone un giusto equilibrio fra queste diverse qualità e mi capita spesso di fare una scelta privilegiando l’intelligenza emotiva rispetto alle capacità e all’esperienza. Guardando lo stesso problema dalla parte delle persone di talento, cosa le attrae verso un’organizzazione come la Nasa o il JPL: il denaro, la carriera, le opportunità o altro? Non certo il denaro, non lo trovi certo in questo settore. Secondo me, la spinta più forte viene dal desiderio di fare qualcosa d’importante nella propria vita. La mia motivazione originaria è stata che volevo dare un contributo significativo alle conoscenze dell’umanità. E in questo settore è davvero possibile fare delle scoperte importanti per tutta l’umanità, di scrivere delle pagine nella storia dell’uomo e nella storia della scienza. Questa è una fortissima attrattiva, che si aggiunge al fatto di potere lavorare con persone di primo livello assoluto. Sono fattori di attrazione che esercitano sui giovani di talento un richiamo portentoso. Qual è la realizzazione di cui va più orgoglioso? Al primo posto c’è senz’altro l’avere portato su Marte la sonda Pathfinder nel luglio del 1997. E il fatto che fosse il 4 luglio, cioè la festa dell’Indipendenza

americana, è un dettaglio di cui vado particolarmente fiero. Molti critici avevano sostenuto che non saremmo neppure riusciti a lanciarla e invece non solo l’abbiamo fatta arrivare fin su Marte, ma abbiamo stabilito un nuovo record mondiale per operazioni di elevata complessità, riuscendo a stare in un budget piuttosto ristretto e a rispettare la tabella dei tempi, cosa non banale se si considera l’enorme quantità di nuove tecnologie che abbiamo utilizzato. E il suo prossimo obiettivo? In questo momento sto lavorando a un progetto molto ambizioso, la missione che abbiamo chiamato Deep Impact, ossia una sonda che abbiamo lanciato allo scopo di farla impattare sulla superficie di una cometa, per studiare le origini dell’universo così come era 4,5 miliardi di anni fa. Ma come capo scienziato del JPL, il mio obiettivo più generale è di mantenere e migliorare il livello di eccellenza tecnologica che ci ha portato su Marte e Saturno e che ci porterà sulla cometa. E questo non solo per quanto riguarda JPL, ma anche tutte le aziende che ci collaborano. L’idea è sempre quella del team, di una squadra vincente e in questo caso è composta da aziende e non da persone singole, ma il concetto è lo stesso. Deep Impact è stato il titolo di un famoso film di Steven Spielberg, in cui si racconta di una cometa che minaccia la Terra e che deve essere deviata prima del disastro universale. È a questo che vi siete ispirati? Per la verità avevamo scelto il nome prima che si facesse quel film, ma ho invitato Spielberg e Zanuck al lancio della sonda,


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result. When you work on a difficult project, like landing a spacecraft on a distant planet, you have to motivate the people who work with you, and the key is to give them important responsibilities. They have to feel that it’s their project and their result, and then they turn out an unbeatable performance. I try to explain what I expect and make them understand how important their role is.

perché abbiamo avuto parecchie idee in comune. Film a parte, voglio ricordare che abbiamo grandi partnership non solo con aziende americane, ma anche con ottime aziende europee. Per esempio, la maggior parte dei radar che utilizziamo sono italiani, e il Mars Express è stato costruito in collaborazione con eccellenti aziende europee. Tasto delicato, questo, visto che l’Europa, da un punto di vista più generale di innovazione e ricerca, presenta enormi ritardi rispetto agli Stati Uniti. Lei come spiega l’assoluto predominio tecnologico americano e lo speculare e preoccupante ritardo europeo? Al fondo della questione c’è a mio parere un diverso atteggiamento di fronte al rischio. Le aziende americane, e la cultura americana, sono molto più sintonizzate rispetto all’assunzione di un rischio, al tentare nuove strade, anche se

c’è il pericolo di un fallimento. Per cui investiamo una montagna di denaro nel cercare di battere strade nuove. Non che l’Europa non abbia ottime tecnologie, e come lei anche la Cina o la Russia. Ma la differenza sta nel fatto che in America c’è la voglia e il coraggio di rischiare e di portare l’innovazione sul mercato per verificare se è un business che funziona e se può avere successo. In Europa, mi pare, questa mentalità è molto più rara o addirittura assente.

* Brian Muirhead è stato ingegnere capo alla Nasa, responsabile dei progetti di invio delle sonde su Marte e Saturno. Oggi riveste lo stesso ruolo alla testa del Jet Propulsion Laboratory (che il California Institute for Technology gestisce per conto della Nasa). È stato nominato Engineer of the Year nel 1997 per il suo straordinario successo nelle missioni su Marte. È autore di libri di successo sulla leadership e l’innovazione e in particolare di High Velocity Leadership: the Mars Pathfinder Approach to Faster, Better, Cheaper (1999).

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e is the man who headed America’s first Pathfinder mission to Mars in 1997, who sent the Cassini probe to Saturn and who is about to achieve another triumph bordering on the realms of science fiction: landing a new spacecraft on a comet in space to unlock the secrets kept hidden by the universe for 4.5 billion years. He is Brian Muirhead, until recently chief engineer at NASA and now head of research at the legendary Jet Propulsion Laboratory (JPL) in Pasadena, where he is in charge of even more ambitious missions. Mr. Muirhead, as a scientist you have a reputation for getting unbelievable results with limited resources and in even more limited timeframes. What’s your secret? There’s no secret. First you have to know exactly what it is you want to achieve and then motivate people to obtain that

So resources, equipment and organization are not the key to success, but people? Absolutely. In my last book, I paraphrased the catchphrase “it’s the economy, stupid” and created a new one, “it’s the team, stupid,” to highlight the fact that what counts is the team, teamwork, and the collective commitment of the entire team. In every organization, some people are more talented than others. How do you recognize, select and motivate the best? There are two different kinds of talent. One is technical talent, which you find in every university and organization, people of enormous skill and intelligence. Then there is another type of talent, people who have what Daniel Goleman calls emotional intelligence, a power that drives your energy, your dynamism, your optimism and makes you a winner whatever problem you face. For me this attribute is even more important than great experience or technical expertise. I try to find the right balance of these qualities in people and I often end up choosing emotional intelligence rather than skill and experience.

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Looking at the same problem from the viewpoint of talented people, what attracts them to an organization like NASA or the JPL: is it money, career prospects, opportunities or something else? It’s certainly not money, you don’t find that in this business. I think the greatest incentive is the desire to achieve something important in your lifetime. My original motive was that I wanted to make a significant contribution to man’s knowledge. And in this industry it really is possible to make discoveries of importance to all mankind, to write new pages in the history of man and the history of science. This is a very powerful attraction, combined with the fact of being able to work alongside people of the very highest caliber. These factors have a huge appeal to talented young people. What achievement are you proudest of? Number one has to be landing the Pathfinder probe on Mars in July 1997. And the fact that it was July 4, American Independence Day, was a detail

I am particularly proud of. Many critics said we would never manage to launch it, but not only did we get it to Mars, we also set a new world record for high-complexity operations, staying within a fairly tight budget and keeping to schedule, which was no mean feat considering the huge quantity of new technology we were using. And what’s your next objective? At the moment I’m working on an extremely ambitious project called the Deep Impact mission: we have launched a probe that we hope to land on a comet with the aim of studying the origins of the universe as it was 4.5 billion years ago. But as chief scientist at the JPL, my general goal is to maintain and improve the level of technological excellence that took us to Mars and Saturn and will take us on to the comet. And this concerns not only the JPL, but all the companies who work with us. It’s the team concept again, the idea of a winning team, which in this case consists of companies rather than individuals, but the approach is the same.

Deep Impact was the title of a famous Steven Spielberg movie about a comet that threatened the Earth and had to be deflected before it caused a universal disaster. Was that where you got the name? In actual fact, we chose the name before they made the movie, but I invited Spielberg and Zanuck to the probe launch, because we had so many ideas in common. Leaving aside the film, I’d like to mention our great partnerships not just with American companies but also with a number of excellent European companies. Most of the radar we are using is Italian, and the Mars Express was built in co-operation with a number of distinguished European organizations. This is a delicate issue, given that Europe, generally speaking, lags way behind the USA in innovation and research. How do you explain American’s overriding technological dominance and, conversely, Europe’s worrying delay? In my view, it all stems from different approaches to risk.

US business, and US culture, is much more willing to take on risk, to explore new avenues, even at the cost of failure. So we invest huge sums in trying to open up new roads. This doesn’t mean that Europe doesn’t have excellent technology, as do China or Russia. The difference is that in America people have the courage to accept risk and to take innovation to the market to see if there’s a business for it and whether it’s a winner. I think this attitude is far less widespread in Europe if it exists at all.

* Brian Muirhead was Chief Engineer at NASA, and leader of the missions to send probes to Mars and Saturn. Today, he holds the equivalent post at the Jet Propulsion Laboratory (run by the California Institute for Technology on behalf of NASA). He was named Engineer of the Year in 1997 for the outstanding success of the mission to Mars. He has written a number of best-sellers on leadership and innovation, most notably High Velocity Leadership: the Mars Pathfinder Approach to Faster, Better, Cheaper (1999).


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La Macchina dell’Innovazione The Free-Market Innovation Machine di William J. Baumol* by William J. Baumol*

Tecnologia e concorrenza nel capitalismo Analyzing the Growth Miracle of Capitalism

William J. Baumol

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ell’ambito del capitalismo l’attività innovativa – che in altri tipi di economia è fortuita e opzionale – è divenuta una necessità assoluta, una questione di vita o di morte per l’impresa. E la diffusione di nuove tecnologie, che in altre economie è proceduta lentamente, richiedendo spesso decenni o addirittura secoli, nell’ambito del capitalismo ha fatto registrare una drastica accelerazione, per il semplice motivo che il tempo è denaro. Questa, in breve, è la storia che viene raccontata in questo libro: una spiegazione dell’incredibile crescita delle economie di mercato. I TEMI CENTRALI DELL’OPERA A distinguere le economie di mercato industrializzate da tutti i sistemi economici alternativi sono soprattutto gli spettacolari tassi di crescita, senza precedenti storici, della produttività e dei redditi pro capite. Quest’opera cerca di spiegare la performance di crescita senza precedenti delle economie capitalistiche e fornisce una teoria dell’efficienza, imperfetta ma non di meno meritoria, del processo di crescita capitalistico. La mia analisi attribuisce questa

performance soprattutto alla pressione della concorrenza, assente in altri tipi di economia, che costringe le imprese nei settori rilevanti dell’economia a investire incessantemente nell’innovazione e che, contrariamente a quanto comunemente si crede, incentiva la rapida diffusione e lo scambio delle tecnologie migliorate in tutta l’economia. Infine, quest’opera punta all’integrazione della teoria della crescita nel corpo centrale della dottrina economica. È chiaro che l’innovazione svolge nelle attività di molte imprese e industrie chiave un ruolo di gran lunga più importante di quello riconosciuto dalla letteratura teorica contemporanea. L’obiettivo che qui mi propongo è indicare come si possa riorientare l’analisi delle decisioni economiche al fine di eliminare questo notevole divario. Come spiegare il miracolo della crescita basata sulla libera iniziativa Il fatto che in pratica manchi qualsiasi tentativo di spiegare in modo esplicito e generale la favolosa crescita delle economie basate sulla libera iniziativa, con la loro trasformazione del tenore di vita e la creazione

di innovazioni tecnologiche impensabili in qualsiasi epoca precedente, è probabilmente l’omissione più clamorosa della recente teoria della crescita economica, nonostante tutti i suoi sostanziosi contributi. Mi concentrerò su una serie di fattori dotati di una portata esplicativa, fra i quali includo alcuni presupposti dell’esistenza di un’economia di mercato funzionale, qualche probabile conseguenza dell’esistenza di una simile economia e alcuni elementi che possono essere a un tempo presupposto e conseguenza. Fra le più importanti di queste condizioni cito: • la concorrenza oligopolistica fra grandi imprese tecnologiche che usano principalmente l’arma dell’innovazione nella concorrenza, il che assicura attività innovative ininterrotte e, molto plausibilmente, la loro crescita. In questa forma di mercato, dominato da alcune imprese gigantesche, l’innovazione ha sostituito il prezzo come variabile strategica in una serie di importanti industrie. L’industria del computer ne offre l’esempio più ovvio, con i suoi nuovi modelli potenziati che si susseguono incessantemente, e i produttori che lottano per mantenere il vantaggio sui rivali; • la routinizzazione di queste attività innovative, che ne fa una componente regolare e persino ordinaria delle attività aziendali e pertanto minimizza l’incertezza del processo; • l’imprenditorialità produttiva incoraggiata da incentivi che spingono gli imprenditori ad applicare l’innovazione alla produttività anziché alla ricerca di rendite (ossia al perseguimento di profitti economici non produttivi, come quelli generati dalle vertenze giudiziarie fra

imprese), o perfino ad attività distruttive, come quelle illegali; • lo stato di diritto, che comprende l’applicazione forzata dei contratti e l’immunità della proprietà da forme di esproprio arbitrario; • la vendita e lo scambio di tecnologie, ossia, in altre parole, il deliberato perseguimento, da parte delle imprese, delle opportunità di trarre guadagni dalla diffusione delle innovazioni e dalla concessione, anche ai concorrenti diretti, del diritto di utilizzarle dietro il pagamento di un compenso. L’imperfetta ma sostanziale efficienza economica e la crescita del sistema capitalistico Nella letteratura si sostiene comunemente che le economie basate sulla libera iniziativa sono caratterizzate dalla tendenza all’efficienza statica, ossia che le imprese sono spinte dalle forze di mercato a utilizzare i metodi di produzione più economici fra quelli disponibili e a offrire l’assortimento di prodotti che meglio soddisfa le domande dei consumatori. Non è necessario essere degli specialisti di storia economica per trarre la conclusione che le disparità di efficienza statica non costituiscono la vera differenza fra le economie capitalistiche e i sistemi economici che le hanno precedute, come quelli che fino a poc’anzi erano destinati a rimpiazzarle. Queste osservazioni sono alla base di una delle principali conclusioni eterodosse di quest’opera: benché il processo di crescita capitalistico certamente non soddisfi pienamente i requisiti della perfetta efficienza economica, vi è motivo di credere che vi si avvicini molto più di quanto la teoria economica convenzionale potrebbe indurre a credere.

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Come incorporare l’analisi della crescita nel filone centrale della teoria microeconomica L’innovazione e la crescita hanno sicuramente origine dalle attività di individui e imprese – le entità studiate dall’analisi microeconomica. Perciò non si può capire a fondo la crescita senza inquadrarla nella teoria microeconomica. Senonché nel nucleo di quel corpo di teoria si trova ben poco a questo proposito. In questo volume sosterrò – e, ritengo, dimostrerò – che fortunatamente l’innovazione può venire integrata nella struttura convenzionale dell’analisi microeconomica più direttamente e più agevolmente di quanto ci si possa aspettare. Ciò è reso possibile dalla pressione concorrenziale del mercato, che spinge le imprese a integrare l’innovazione nella routine dei processi decisionali e delle attività, con la conseguenza che l’innovazione viene a essere standardizzata e sottoposta al calcolo della massimizzazione del profitto. Inoltre la collocazione dell’innovazione nell’apparato della teoria microeconomica è agevolata dal riconoscimento che per un’impresa avente come fine il profitto l’investimento in ricerca e sviluppo è un’altra opzione di investimento, e che i prodotti di questa R&S sono semplici input intermedi per altre produzioni a cui provvedono il proprietario dell’innovazione e altre imprese. È evidente che l’analisi microeconomica convenzionale, in quanto assegna un ruolo secondario all’innovazione e non la tratta come un fondamentale strumento di concorrenza, non è andata abbastanza avanti verso la comprensione delle realizzazioni del sistema economico

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di mercato. Nella letteratura microeconomica l’innovazione è stata relegata in un ruolo periferico, esterno all’apparato centrale dell’analisi. I prezzi e le variabili direttamente connesse sono ancora al centro della microeconomia, mentre la teoria dell’innovazione rimane ai margini. Uno dei motivi per cui l’innovazione è assente dal nucleo centrale della microteoria è il fatto che non si tiene conto della routinizzazione di gran parte dell’attività inventiva e innovativa. Infatti questa trasformazione del processo rende molto più facile incorporare nel nucleo della

teoria microeconomica dell’impresa il tema della rivalità nell’innovazione. Una volta concepita come un’attività abituale, regolare e prevedibile, l’innovazione diviene di gran lunga più facile da analizzare sistematicamente di quanto non lo sia la scoperta erratica e imprevedibile – quella che fa esclamare: “Eureka! Ho trovato!” – alla quale le storie romantiche attribuiscono il grosso delle invenzioni. L’innovazione di routine cambia tutto questo, poiché il processo decisionale e le sue conseguenze per la concorrenza divengono praticamente indistinguibili da quelle che caratterizzano

qualsiasi altra forma di investimento. Il management dell’impresa viene così a trovarsi di fronte a una comune scelta di bilancio in cui le spese di investimento sono assegnate a impieghi alternativi, quali l’impianto e l’equipaggiamento, la pubblicità e la R&S. In un certo senso tutti questi impieghi vengono a essere rappresentati astrattamente come mere opportunità di guadagno pecuniario per l’impresa, la cui unica caratteristica comune è il fatto di comportare delle spese da eseguire oggi ma dalle quali ci si possono aspettare soltanto dei rendimenti (rischiosi) in futuro.


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GLI ATTRIBUTI DEL CAPITALISMO CHE PROMUOVONO LA CRESCITA: RICOMPARE AMLETO Si può essere tentati di sostenere che la totale assenza, nella recente teoria della crescita, di studi sistematici del miracolo della crescita capitalistica equivalga a rappresentare l’Amleto di Shakespeare senza il personaggio centrale, il principe di Danimarca. Ofelia, Polonio, la madre e lo zio di Amleto sono tutti presenti nelle rispettive parti, ma dalla scena manca Amleto. Anche così la letteratura sulla crescita è piena di analisi di inestimabile valore. Ma quella letteratura è per lo più incapace di trattare direttamente la distinzione fra i risultati della crescita del capitalismo e quelli di altri sistemi economici, poiché tali analisi sono prevalentemente astoriche e ne sono stati espunti tutti i riferimenti espliciti ai tratti salienti delle economie di mercato. Questo libro cerca di rompere con quest’orientamento, facendo almeno un primo passo verso l’orientamento storico di Marx e Schumpeter, affrontando gli aspetti di unicità della crescita capitalistica. Al di là del mero incentivo: l’innovazione come questione di vita o di morte per le imprese capitalistiche nei settori maturi per accogliere invenzioni Il mercato deve in buona parte la sua efficienza e la sua capacità di adattarsi ai desideri dei consumatori agli incentivi finanziari, in quanto fornisce rendimenti più elevati alle imprese che sono più efficienti e i cui prodotti rispondono meglio ai desideri dei consumatori. Ovviamente questo stesso meccanismo dà un impulso più potente all’innovazione: infatti, per le imprese oligopolistiche

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operanti nei settori ad alta tecnologia, in pratica l’innovazione è una questione di sopravvivenza. L’impresa che consente ai rivali di acquisire un sostanziale margine di vantaggio nell’innovazione di prodotti e processi è condannata alla scomparsa. L’impresa deve innovare o morire. L’irresistibile pressione a fare dell’innovazione una routine quotidiana dell’impresa integra l’attività innovativa autonoma Per proteggersi dai rischi testé descritti, le imprese hanno incorporato l’attività innovativa nelle loro operazioni di routine. L’attività innovativa routinizzata non è più un processo sostanzialmente imprevedibile, in cui i mutamenti della psicologia sociale determinano la fortuita comparsa di individui che possiedono la determinazione e la mentalità necessarie per dare vita a innovazioni. Specialmente nei settori ad alta tecnologia, le pressioni della concorrenza di mercato costringono le imprese a rendere sistematico il processo innovativo. In vaste porzioni dei settori oligopolistici, dove le grandi imprese dominano i mercati, l’innovazione è divenuta l’arma preferita nell’arena della concorrenza. In effetti la lotta per ottenere prodotti e processi migliori è divenuta una sorta di “corsa agli armamenti”, dove l’incapacità di stare al passo dei concorrenti costituisce una minaccia per la sopravvivenza dell’impresa. Si tratta di una forza che contribuisce sostanzialmente alla crescita capitalistica. La concorrenza rende troppo rischioso per le imprese lasciare che l’innovazione di prodotti e processi dipenda soprattutto dagli sforzi imprevedibili di

inventori autonomi. Per questo le imprese hanno trasformato gran parte della R&S dell’economia in un processo interno controllato burocraticamente, com’è avvenuto, per esempio, nelle industrie farmaceutica, dei computer e persino della fotografia. Ossia, le imprese hanno routinizzato l’innovazione. IL FEEDBACK: L’INNOVAZIONE STIMOLA INNOVAZIONE Dopo la fase del decollo, comprendente non soltanto la realizzazione ma anche la commercializzazione e la redditizia utilizzazione delle invenzioni, l’innovazione facilita e stimola ulteriori attività innovative. Infatti la constatazione dell’opportunità di guadagni attrae sicuramente altri inventori, altri investitori e altri imprenditori il cui compito è far sì che l’invenzione venga effettivamente utilizzata in modo remunerativo. Ma oltre a contribuire al successo del suo ulteriore sviluppo, l’innovazione incoraggia anche in altri modi la propria espansione. Lo stesso processo innovativo porta anche dei miglioramenti nel modo in cui viene svolta l’attività di ricerca e sviluppo, fornendo con ciò un ulteriore stimolo al proseguimento dell’innovazione. In breve, l’attività innovativa può venire considerata un processo cumulativo, caratterizzato dal feedback fra un’innovazione e quella successiva; non appena il mercato ha avviato il meccanismo dell’innovazione, la sua struttura intrinseca fa sì che il meccanismo divenga più potente e più produttivo col passare del tempo. INCENTIVI DI MERCATO ALLA RAPIDA DIFFUSIONE DELL’INNOVAZIONE

A seconda dei prezzi, per il proprietario monopolista di un’innovazione spesso è conveniente dedicarsi all’attività di concedere ad altri il diritto di utilizzarla, invece di impiegarla direttamente nella produzione del proprio bene finale. Molte imprese non fanno nulla per garantirsi l’uso esclusivo della propria tecnologia, e certune si dedicano attivamente a sviluppare nuove tecnologie, che gestiscono come qualunque altro affare redditizio. Questa gestione della tecnologia in quanto attività volta a realizzare profitti contribuisce a diffondere l’impiego delle ultime tecniche e la produzione dei beni e servizi più recenti, e accelera l’eliminazione delle attività economiche obsolete, mentre la remunerazione finanziaria della diffusione della tecnologia contribuisce a internalizzare le esternalità del processo d’innovazione. CONCLUSIONE: L’ECONOMIA DI MERCATO COME MECCANISMO D’INNOVAZIONE Sembra chiaro che è l’innovazione, e non la fissazione del prezzo, il fattore a cui il management dà la priorità in settori importanti dell’economia. E che è costantemente costretto a farlo dal mercato. Ma il corpo centrale della dottrina microeconomica concentra l’attenzione soprattutto sulla determinazione del prezzo, e così facendo, trascura un aspetto cruciale del processo concorrenziale nei periodi più recenti. Naturalmente il prezzo svolge legittimamente un importante ruolo nei modelli economici centrali: in quanto canale di informazione per il mercato, il prezzo è una variabile indispensabile della teoria dell’equilibrio generale.

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Tuttavia sosterrò che l’innovazione svolge un ruolo d’importanza quanto meno paragonabile per la teoria dell’impresa e della concorrenza. Le economie di mercato differiscono fondamentalmente da tutti gli altri sistemi economici che il mondo ha conosciuto. La manifestazione più spettacolare e, plausibilmente, la più importante di questa differenza è la straordinaria superiorità dei tassi di crescita delle economie di mercato.

* Le tesi riportate in questo estratto sono sviluppate nel libro di William J. Baumol La Macchina dell’Innovazione edito in Italia da Università Bocconi Editore. William J. Baumol è professore di Economia all’Università di New York e professore emerito e senior research economist presso l’Università di Princeton. Laureato in Scienze Sociali presso il City College of New York e con un Ph.D. all’Università di Londra, vanta tra i vari riconoscimenti dieci lauree honoris causa, la presidenza di prestigiose associazioni quali l’American Economic Association, la Association of Environmental and Resource Economists, la Eastern Economic Association, la Atlantic Economic Society, e la membership della National Academy of Sciences. Baumol è autore di numerosi libri e di oltre 500 articoli pubblicati sulle maggiori riviste del settore. Tra i suoi libri più recenti: Contestable Markets and the Theory of Industry Structure (insieme a R.D. Willig and J.C. Panzar), 1982, 1987; Productivity and American Leadership: The Long View (insieme a S.A. Batey Blackman e E.N. Wolff), 1989; Entrepreneurship, Management and the Structure of Payoffs, 1993; Transmission Pricing and Stranded Costs in the Electric Power Industry (insieme a Gregory J. Sidak), 1995; Global Trade and Conflicting National Interests (insieme a Ralph E. Gomory), 2000; Welfare Economics, Volumes I, II, and III, The International Library of Critical Writings in Economics 126 (edito con Charles A. Wilson), 2001; The FreeMarket Innovation Machine: Analyzing the Growth Miracle of Capitalism, 2002.

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nder capitalism, innovative activity— which in other types of economy is fortuitous and optional—becomes mandatory, a life-and-death matter for the firm. And the spread of new technology, which in other economies has proceeded at a stately pace, often requiring decades or even centuries, under capitalism is speeded up remarkably because, quite simply, time is money. That, in short, is the tale told in this book—an explanation of the incredible growth of the free-market economies. CENTRAL TOPICS OF THE BOOK It is the spectacular and historically unprecedented growth rates of the industrialized market economies—the growth rates of their productivity and their per capita incomes—that, above all, set them apart from all alternative economic systems. This book seeks to explain the unprecedented and unparalleled growth performance of the capitalist economies and provides a theory of the imperfect but, nevertheless, creditable efficiency of the capitalist growth process. The analysis attributes this performance primarily to competitive pressures, not present in other types of economy, that force firms in the relevant sectors of the economy to unrelenting investment in innovation and that, contrary to widespread belief, provide incentives for the rapid dissemination and exchange of improved technology throughout the economy. Finally, the book moves toward the integration of growth theory into the central body of

mainstream economic analysis. It is clear that innovation plays a far larger role in the activities of many key firms and industries than the current theoretical literature takes into account. My goal here is to indicate ways in which the analysis of business decisions can be reoriented to eliminate this significant gap. Explaining the Growth Miracle of Free Enterprise The virtual absence of any explicit attempt to explain the fabulous growth record of the free-enterprise economies in general, with their transformation of living standards and creation of technological innovations undreamed of in any previous era, is perhaps the most glaring omission of recent economic growth theory, despite all of its substantial contributions. I will concentrate on a number of explanatory influences, including some necessary preconditions for the existence of a workable free-market economy, some likely consequences of the existence of such an economy, and some items that are both. Among the most important of these conditions are: • Oligopolistic competition among large, high-tech business firms, with innovation as a prime competitive weapon, ensuring continued innovative activities and, very plausibly, their growth. In this market form, in which a few giant firms dominate a particular market, innovation has replaced price as the name of the game in a number of important industries. The computer industry is only the most obvious example, whose new and improved models appear constantly, each manufacturer battling to stay ahead of its rivals.

• Routinization of these innovative activities, making them a regular and even ordinary component of the activities of the firm, and thereby minimizing the uncertainty of the process. • Productive entrepreneurship encouraged by incentives for entrepreneurs to devote themselves to productive innovation rather than to innovative rent-seeking (the nonproductive pursuit of economic profit such as occurs in inter-business lawsuits), or even to destructive occupations, such as criminal activities. • The rule of law, including enforceability of contracts and immunity of property from arbitrary expropriation. • Technology selling and trading, in other words, firms’ voluntary pursuit of opportunities for profitable dissemination of innovations and rental of the right to use them, via licensing, even to direct competitors. Imperfect but Substantial Economic Efficiency and Growth under Capitalism Textbook accounts suggest that free-enterprise economies are characterized by a tendency toward static efficiency. That is, firms are driven by market forces to use the most economical of the available methods of production and to supply the product mix best suited to consumer demands. One need not be an economic historian to conclude that disparities in static efficiency do not constitute the really dramatic difference between the capitalist economies and the economic systems that preceded it, as well as those that were until recently designed to displace it. These observations underlie one of the main heterodox


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conclusions of this book: although the capitalist growth process certainly does not quite meet the requirements of perfect economic efficiency, there is reason to believe that it comes far closer than standard economic theory might lead us to conclude. Incorporating Growth Analysis into Mainstream Microeconomic Theory Innovation and growth surely originate from the activities of individuals and business firms—the entities studied in microeconomic analysis. Growth therefore cannot be fully understood without incorporating it into microeconomic theory. Yet the core of that body of analysis contains little on the subject. It will be argued in this book and, I trust, demonstrated that innovation can fortunately be integrated into the standard structure of micro-economic analysis more directly and more easily than might be expected. This is made possible by the competitive market pressures that force firms to integrate innovation into their routine decision processes and activities, thereby subjecting it to standardization and to the calculus of profit maximization. In addition, its place in the structure of microeconomic theory is facilitated by the recognition that, to a profit-seeking firm, investment in research and development is just another investment option, and that the products of this R&D are just intermediate inputs to the production of other outputs by the proprietor of the innovation and other business firms. It is apparent that the standard microeconomic analysis, in giving secondary place to innovation and failing to treat it

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as a primary weapon of competition, has not gone far enough in a direction vital for comprehension of the accomplishments of the free-market economic system. Innovation has been relegated to a peripheral place in the microeconomic literature, outside the central structure of the analysis. Prices and directly related variables still are at the heart of microeconomics, while the theory of innovation remains in the outskirts. One of the reasons innovation is absent from the core of microtheory is failure to take account of the routinization of much of inventive and innovative activity. For this transformation of the process makes it far easier to incorporate rivalry in innovation into the core of the microeconomic theory of the firm. We can far more easily subject such a customary, regular, and predictable activity to systematic analysis than the erratic, unpredictable “Eureka! I have found it!” kind of discovery, to which romantic histories attribute the bulk of invention. Routine innovation changes all that, because the decision process and its competitive consequences become nearly indistinguishable from those characterizing any other form of investment. A firm’s management is faced with an ordinary budget-allocation decision in which investment outlays are apportioned among competing uses such as plant and equipment, advertising, and R&D. In a sense, all of these are abstracted into many anonymous money-earning opportunities for the firm. Their common feature is that they all entail outlays now whose (risky) payoffs can be expected only in the future.

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THE GROWTH-PROMOTING ATTRIBUTES OF CAPITALISM: HAMLET’S REAPPEARANCE It is tempting to argue that the avoidance by recent growth theory of any systematic study of the capitalist growth miracle is like a performance of Shakespeare’s Hamlet without its central character, the Prince of Denmark. Ophelia, Polonius, and Hamlet’s mother and uncle all play their roles, but Hamlet himself is missing from the stage. So, too, the growth literature is full of invaluable analyses. But much of it is unsuited to deal directly with the distinction between the growth accomplishments of capitalism and those of other economic systems, because these analyses are preponderantly ahistorical, and all explicit references to the special features of free-market economies have been expunged. This book attempts to break away from this orientation, taking at least a preliminary step toward the historical orientation of Marx and Schumpeter, by coming to grips with the uniqueness of capitalist growth.

Beyond Mere Incentive: Invention as a Life-and-Death Matter for Capitalist Firms in Sectors Ripe for Invention The market mechanism achieves much of its efficiency and its adaptation to consumer desires through financial incentives, by providing higher payoffs to those firms that are more efficient and whose products are most closely adapted to the wishes of consumers. The same mechanism obviously drives innovation in an even more powerful way. For oligopoly firms in the high-tech sectors of the economy, it is in fact a matter of survival. The firm that lets its rivals outperform it substantially in innovative products and processes is faced with the prospect of imminent demise. The firm must innovate or die. Irresistible Pressure for Routinized Corporate Innovation as a Supplement to Independent Innovative Activity To protect themselves from the risks just described, business enterprises have incorporated

innovative activity into their routine operations. Such innovation activity is no longer a largely unpredictable process, in which changes in social psychology control the fortuitous appearance of individuals who possess the determination and inspiration needed for innovation. Particularly in the high-tech sectors of the economy, the pressures of the competitive market force firms to systematize the innovation process. In substantial portions of the oligopolistic sectors of the economy, where huge firms dominate markets, innovation has become the preferred competitive weapon. Indeed, the contest for better new products and processes becomes an arms race, with failure to keep up constituting a threat to the firm’s survival. This is a force that contributes substantially to capitalist growth. Competition makes it too risky for firms to depend primarily for their new products and processes on the unpredictable


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efforts of independent inventors. Instead they have changed much of the economy’s R&D into an internal, bureaucratically controlled process, as, for example, in pharmaceuticals, computers, and even photography. They have routinized it.

FEEDBACK: INNOVATION STIMULATES FURTHER INNOVATION Once innovation takes off, including in this not only the inventions themselves but also their successful marketing and profitable utilization, this facilitates and stimulates further innovative effort. The obvious connection is that the demonstrated profit opportunity is sure to attract other inventors, other investors, and other entrepreneurs whose task it is to ensure that invention is put to effective and remunerative use. But successful innovation encourages more of this activity in other ways, as well as helping to ensure the success of this further effort.

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The innovation process itself leads to improvements in the way R&D is carried out, thereby providing another stimulus to further innovation. In sum, innovative activity can be considered a cumulative process, in which there is feedback from one innovation

to the next; once the free market has launched its innovation machine, the inherent structure of the mechanism leads the machine to grow more powerful and productive with the passage of time. MARKET INCENTIVES FOR RAPID DISSEMINATION Depending on prices, it is often most profitable for the monopoly owner of an innovation to specialize in the business of renting the input to others rather than using it itself as an input to its own final product. Many firms do not fight to keep the technology to themselves, and some actively promote it as a profitable business. Such dissemination of

technology as a profit-seeking business practice helps to spread the use of the latest techniques and production of the latest goods and services. It speeds the elimination of obsolete economic activities, and the financial rewards of technology dissemination help

to internalize the externalities of the innovation process. CONCLUSION: THE FREE-MARKET ECONOMY AS INNOVATION MACHINE It seems clear that it is innovation, not price-setting, to which management gives priority in important sectors of the economy. It is persistently forced to do so by the market. But the central body of microeconomic analysis gives its attention primarily to price determination, and by doing so may, arguably, be omitting a critical feature of the competitive process in more recent periods. Of course, price legitimately plays an important role in the central economic models:

as a conduit of information to the market it is an indispensable variable of general equilibrium theory. However, I will argue that innovation plays a role of at least comparable importance for the theory of the firm and competition. Free-market economies are fundamentally different from all other economies that the world has known. The most spectacular and, arguably, the most important manifestation of that difference is the extraordinarily superior growth performance of free-market economies.

* All the topics in this article are excerpted from William J. Baumol’s book The Innovation Machine, published in Italy by Università Bocconi Editore. Dr. William J. Baumol is Professor of Economics at New York University, and Professor Emeritus and Senior Research Economist at Princeton University. He received his BSS at the College of the City of New York and his Ph.D. at the University of London. His honors and awards include ten honorary degrees, presidency of the American Economic Association, the Association of Environmental and Resource Economists, the Eastern Economic Association, and the Atlantic Economic Society, and membership in the National Academy of Sciences. Dr. Baumol is the author of numerous books and over 500 articles published in professional journals. His relatively recent books include: Contestable Markets and the Theory of Industry Structure (with R.D. Willig and J.C. Panzar), 1982, 1987; Productivity and American Leadership: The Long View (with S.A. Batey Blackman and E.N. Wolff), 1989; Entrepreneurship, Management and the Structure of Payoffs, 1993; Transmission Pricing and Stranded Costs in the Electric Power Industry (with Gregory J. Sidak), 1995; Global Trade and Conflicting National Interests (with Ralph E. Gomory), 2000; Welfare Economics, Volumes I, II, and III, The International Library of Critical Writings in Economics 126 (edited with Charles A. Wilson), 2001; The Free-Market Innovation Machine: Analyzing the Growth Miracle of Capitalism, 2002.

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Projects

INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

L’architettura contemporanea è impegnata in un difficile percorso attraverso la globalizzazione, che richiede un incessante studio formale, un continuo aggiornamento tecnologico e un’accorta strategia progettuale. Modern-day architecture is struggling to come to terms with globalization, which calls for constant stylistic revision, continual technological upgrading, and wise design strategy.

Tecnologia, incontro con una fede Technology, meeting a Faith Mario Antonio Arnaboldi*

L

a fede nella Chiesa cattolica ha dimostrato di avere il potere di preparare l’incontro con la tecnologia, nel senso che, alla base di questo credo religioso, sono insite quelle caratteristiche di carnalità intesa come amore per la vita, riconosciute anche da Marshall McLuhan, come indispensabili alla comprensione dei nuovi mezzi elettronici. Può apparire un presupposto avulso dal tema della tecnologia, della competitività e dell’innovazione, ma se si riflette più a fondo può essere il fondamento, da parte dell’uomo, del gioco, della filosofia, dell’architettura, della poesia, della musica, dell’allegria e dell’amicizia, dell’arte sacra e dello stesso rito eucaristico della messa: affini alla radio e alla televisione. Tutto ciò può far riflettere sul rovesciamento della prospettiva sociologica tradizionale, come descrive Max Weber, il profeta della modernità tecnologica, che ripudiava l’etica capitalista protestante astratta, basata sulle idee e sui concetti più che sulle emozioni sensuali, condizionata dalle proibizioni e dai divieti. Al contrario, Weber esaltava la modernità del cattolicesimo, nella quale sembra di ritrovare il paradigma, cioè che il mezzo è il messaggio. È vero! Gli uomini non possono cogliere il messaggio se lo separano dalle sue manifestazioni concrete, a cominciare dai dogmi, dai riti, dalla capacità tutta cattolica d’amare le cose concrete, le immagini, in una parola, tutto ciò che è progettato. Ecco la forza di un pensiero così determinato da far ammettere che la fede, la fede nel progetto, è percezione reale, è come la vista, l’udito o il tatto ed è tanto reale e concreta quanto lo sono anche i sensi, proprio quei sensi che permettono di percepire l’architettura e la fede che si ha in lei. È anche vero che la tecnica sconfigge chi la impugna, a meno di conoscenze vere. Proprio il Cristianesimo, in Occidente, è andato incontro a una critica sempre più serrata, da parte della cultura moderna, tutta filosofica, anche se l’affinità tra Islam e Cristianesimo è accentuata da un comune fondamento filosofico. Per la Chiesa cattolica, Tommaso d’Aquino rimane il principale punto di riferimento; ma Tommaso è veramente vicino ad Avicenna, uno tra i maggiori filosofi dell’Islam. Sono radicate in questi determinati passaggi religiosi, filosofici e storici le tre valenze fondamentali della Tecnologia, dell’Innovazione e della Competitività, perché tutto il mondo della generazione del progetto e della sua applicazione passa dai fondamenti religiosi, filosofici e storici che l’uomo ha creato nei tempi come suo credo. La filosofia contemporanea non ha legittimato soltanto le forme architettoniche del nostro tempo, che risultano intollerabili alla coscienza islamica, ma ha spianato il terreno là dove la volontà di potenza della tecnica è legittimata a progettare il dominio crescente del mondo, in particolare nell’esprimere,

in toto, il manufatto architettonico. E qui appare anche l’esaltazione nietzscheana del mondo ellenico, visto non tanto nella sua espressione classica, quanto nei suoi esordi, quando il filosofo individua quell’elemento dionisiaco che ci spinge a cogliere l’eterna gioia dell’esistenza e del fare. È Platone, poi, che rileva il dualismo tra mondo sensibile e mondo delle idee, che preannunzia la visione giudaico/cristiana, con la sua innaturale scissione tra mondo terreno e mondo ultraterreno. Anche Roland Barthes pone il suo accento sulla riflessione silenziosa che è alla base del motore che genera il passaggio, nel progetto architettonico, dalla tecnologia fino all’innovazione, per finire nella competitività, in grado di comunicare agli altri la fede nel progetto che possiede l’architetto. Per Barthes il silenzio è il vero progetto: quello, cioè, di una vita ritmata, dove il rispetto, lo spazio misurato e progettato, la giusta distanza, l’esercizio, l’ascesi e la festa forniscono quell’armonica idioritmia generatrice della creatività, che è il ritmo proprio, che si snoda e alterna, diventando come lo spago che il bimbo fa scorrere lungo un centro accogliente e pacato dove siede la madre intenta a vigilare. Sono le parole di Barthes pronunciate all’inizio della sua lezione al Collège de France. I mondi possibili del progetto tecnologico, dell’innovazione e della competitività sottendono l’interpretazione delle frasi condizionali controfattuali, che tipicamente presuppongono la falsità dell’antecedente: se tutti fossero nati in Italia, parlerebbero tutti italiano. Secondo David Lewis una frase come questa è vera se nei mondi possibili, in cui sono nati tutti in Italia, tutti parlano italiano; la teoria richiede però che solo certi mondi vadano esaminati, quelli più simili al nostro, cioè, al mondo del progetto. La casualità, una delle nozioni centrali in metafisica e nell’interpretazione dei progetti, viene a sua volta interpretata come un’asimmetria controfattuale rispetto al tempo. Se oggi nascesse un progetto differente, domani ci sarebbero commenti diversi; ci sarebbero parole diverse; ma non è detto che ci sarebbero state parole diverse ieri a commentarlo. Il senso comune estende l’asimmetria temporale dei controfattuali, gli elementi innovatori del divenire architettonico, negando la possibilità dei viaggi nel mondo della cultura del progetto, che possono essere considerati del tutto legittimi; basta non pensare a un’esplorazione nella cultura progettuale solo come un viaggio nel tempo, come a uno spostamento di pensiero, ma come alla saldatura controfattuale di certe fasi presenti al progetto contemporaneo che il viaggiatore, nel tempo, con fasi passate della sua progettazione, ha esplorato. In pratica, il viaggiatore del tempo era già nel passato, non lo ha alterato con il suo viaggio e non può, quindi, alterare il presente, come invece pia-

cerebbe ai viaggiatori di fantascienza. È solo la concretezza del progetto d’architettura che si palesa con le sue continuità storiche. Scrive Edoardo Boncinelli, genetista e biologo molecolare, che il posto della scienza è una delle caratteristiche salienti della scienza occidentale, cioè quella di muoversi esattamente a mezza strada fra la contemplazione da una parte e la ricerca dell’applicazione dall’altra. Non si tratta di sola teoresi, né di mera ricerca di procedure per l’applicazione delle tecniche costruttive al fine dell’innovazione progettuale, ma di un’unione obbligata e paritaria delle due. Insomma, per un’accurata progettazione, occorre osservare per fare e fare osservando. Questo distingue la scienza del progetto dai più diversi sistemi mitologici e mitici, metodologici e formali, soprattutto dalle semplici costruzioni di pensiero dei filosofi ma, anche, dalle ricette pratiche del fai da te, che possono funzionare senza che mai ne venga chiesta la ragione o una motivazione intelligente, destinata al divenire del progetto, cioè come capita con la cosiddetta ricetta del romanticismo feticista del déjà vu. Architetti praticoni e filosofi improvvisati dell’architettura sono avvertiti: potranno sostenere la superiorità del loro sapere a seconda dei casi, tutto garantito dal cuore della gente o dal marchio di fabbrica dei pastori dell’essere. Con questa rivendicazione imboccano la via opposta a quella della ricerca e dell’innovazione. Questo è sapere pubblico di studiosi, e controllabile: il suo posto non va cercato né tra le pretese delle aristocrazie dei nuovi critici d’architettura, in cui rientrano le varie combriccole esoteriche, né tra le masse popolari, care alla retorica marxista di qualche decennio fa ma purtroppo ancora latenti, bensì nel seno stesso della società democratica, attenta allo studio dei fenomeni dell’architettura. Nella scienza non c’è niente d’attendibile se non è dimostrato e valutato collettivamente e, guarda caso, avviene soprattutto attraverso il segno corretto del costruire la casa dell’uomo e, quindi, valutato collettivamente. Nell’ambito della scienza si è tutti uguali, almeno in linea di principio, e tutti possono dire la loro. Infatti, in quale altra attività umana un giovane architetto, che sia informato e attento studioso, può mettere in discussione e dimostrare innovabili e superabili le architetture di un canuto e venerabile barone dell’architettura? Boncinelli, però, non solo fornisce consolazioni ai giovani più o meno acuti e attenti studiosi, ma mette soprattutto in luce la dinamica interna della crescita scientifica e progettuale. Ecco l’unione del sapere, ecco come un genetista e biologo, attento alla natura, è in grado di scoprire la matematica delle logiche del fare. Occorre anche rivolgere l’attenzione alla relazione che intercorre fra economia, tecnologia e architettura.

La pressante domanda del mercato spinge ad applicare e rinnovare continuamente, in modo utile, la tecnologia, che può essere controllata solo con un lavoro in comune con tecnici e ingegneri. Innovare lo spazio continua a essere, e sarà sempre, il compito dell’architetto che deve trovare, attraverso la trasformazione della tecnologia, la fonte della sua ispirazione e soddisfare, così, le esigenze dell’uomo contemporaneo. È ristabilire l’unione fra la composizione, la costruzione e l’economia, nella profonda unità che deve scaturire dalla tecnologia avanzata, dal sentimento e dalla convenienza. D’altronde, se vogliamo descrivere la figura dell’architetto nella nostra società, riferita alla tecnologia, all’innovazione e alla competitività, ci appare con una funzione marginale, adatta solo ai ricchi che vogliono comprare un plusvalore d’effimera bellezza; è più popolare, forse, la figura del geometra, dell’ingegnere e del costruttore. In effetti, se facciamo un’analisi del costruito, su 100 edifici delle nostre città solo uno è interamente progettato da un architetto. Si può capire come sia facile, per un progettista, mettersi al soldo della speculazione; occorre, però, rendersi conto che il mestiere dell’architetto è una missione. Non esiste danaro al mondo sufficiente per pagare la creatività. Di questo, purtroppo, si rende conto anche il committente, pubblico o privato che sia; sta di fatto che la nostra categoria è, in ogni modo, sottopagata. Il compito di elevare la figura dell’architetto, insieme al suo riconoscimento economico, dovrebbe appartenere agli Ordini Professionali che, però, sono destinati a scomparire in virtù di un’Europa unita e, in ogni modo, non hanno grande influenza sulla logica e sulla morale dei Bandi di Concorso. Per il momento non riescono ad accrescere l’immagine dell’architetto, forse perché sono succubi di una falsa interpretazione dell’etica professionale, codificata all’inizio del secolo e ormai estranea all’applicazione del progetto. Il riferimento ai concorsi è dovuto al fatto che è indispensabile aprire alle giovani generazioni le possibilità di un confronto pubblico e un’espletazione di una cultura creativa, che si muove col tempo e con lo spazio della cultura del progetto. Insomma, com’è solito dire Piergiorgio Odifreddi, parlare di Tecnologia, Innovazione e Competitività, per gli architetti, è come per i filosofi quando parlano di matematica, che appaiono spesso come i preti che parlano di sessualità: o l’hanno vissuta clandestinamente e interiorizzata colpevolmente, o l’hanno sentita raccontare dai peccatori in confessionale. In entrambi i casi non ne conoscono gli aspetti sani e del quotidiano nella ricerca di far combinare Tecnologia, Innovazione e Competitività. Ciò succede in particolare a chi sostiene che l’architettura è già stata inventata.

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* Mario Antonio Arnaboldi è Medaglia d’Argento del Politecnico di Milano per i 40 anni d’emerita docenza. È vicedirettore della rivista l’Arca. Ha fondato con Laura Francesca Ammaturo lo Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners, Milano, dove opera. Progetti recenti: Cargo City - Aeroporto Malpensa 2000; Calcoli strutturali della Nuova Sede Nato - Progetto Afsouth 2000 - Lago Patria, Napoli; Palazzo Comunale di Casalpusterlengo. Pubblicazioni: Architettura: dialoghi e lettere, il progetto fra tecnica e modernità, Mimesis Edizioni, 2004; La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982.


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Projects

INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

L’architettura contemporanea è impegnata in un difficile percorso attraverso la globalizzazione, che richiede un incessante studio formale, un continuo aggiornamento tecnologico e un’accorta strategia progettuale. Modern-day architecture is struggling to come to terms with globalization, which calls for constant stylistic revision, continual technological upgrading, and wise design strategy.

Tecnologia, incontro con una fede Technology, meeting a Faith Mario Antonio Arnaboldi*

L

a fede nella Chiesa cattolica ha dimostrato di avere il potere di preparare l’incontro con la tecnologia, nel senso che, alla base di questo credo religioso, sono insite quelle caratteristiche di carnalità intesa come amore per la vita, riconosciute anche da Marshall McLuhan, come indispensabili alla comprensione dei nuovi mezzi elettronici. Può apparire un presupposto avulso dal tema della tecnologia, della competitività e dell’innovazione, ma se si riflette più a fondo può essere il fondamento, da parte dell’uomo, del gioco, della filosofia, dell’architettura, della poesia, della musica, dell’allegria e dell’amicizia, dell’arte sacra e dello stesso rito eucaristico della messa: affini alla radio e alla televisione. Tutto ciò può far riflettere sul rovesciamento della prospettiva sociologica tradizionale, come descrive Max Weber, il profeta della modernità tecnologica, che ripudiava l’etica capitalista protestante astratta, basata sulle idee e sui concetti più che sulle emozioni sensuali, condizionata dalle proibizioni e dai divieti. Al contrario, Weber esaltava la modernità del cattolicesimo, nella quale sembra di ritrovare il paradigma, cioè che il mezzo è il messaggio. È vero! Gli uomini non possono cogliere il messaggio se lo separano dalle sue manifestazioni concrete, a cominciare dai dogmi, dai riti, dalla capacità tutta cattolica d’amare le cose concrete, le immagini, in una parola, tutto ciò che è progettato. Ecco la forza di un pensiero così determinato da far ammettere che la fede, la fede nel progetto, è percezione reale, è come la vista, l’udito o il tatto ed è tanto reale e concreta quanto lo sono anche i sensi, proprio quei sensi che permettono di percepire l’architettura e la fede che si ha in lei. È anche vero che la tecnica sconfigge chi la impugna, a meno di conoscenze vere. Proprio il Cristianesimo, in Occidente, è andato incontro a una critica sempre più serrata, da parte della cultura moderna, tutta filosofica, anche se l’affinità tra Islam e Cristianesimo è accentuata da un comune fondamento filosofico. Per la Chiesa cattolica, Tommaso d’Aquino rimane il principale punto di riferimento; ma Tommaso è veramente vicino ad Avicenna, uno tra i maggiori filosofi dell’Islam. Sono radicate in questi determinati passaggi religiosi, filosofici e storici le tre valenze fondamentali della Tecnologia, dell’Innovazione e della Competitività, perché tutto il mondo della generazione del progetto e della sua applicazione passa dai fondamenti religiosi, filosofici e storici che l’uomo ha creato nei tempi come suo credo. La filosofia contemporanea non ha legittimato soltanto le forme architettoniche del nostro tempo, che risultano intollerabili alla coscienza islamica, ma ha spianato il terreno là dove la volontà di potenza della tecnica è legittimata a progettare il dominio crescente del mondo, in particolare nell’esprimere,

in toto, il manufatto architettonico. E qui appare anche l’esaltazione nietzscheana del mondo ellenico, visto non tanto nella sua espressione classica, quanto nei suoi esordi, quando il filosofo individua quell’elemento dionisiaco che ci spinge a cogliere l’eterna gioia dell’esistenza e del fare. È Platone, poi, che rileva il dualismo tra mondo sensibile e mondo delle idee, che preannunzia la visione giudaico/cristiana, con la sua innaturale scissione tra mondo terreno e mondo ultraterreno. Anche Roland Barthes pone il suo accento sulla riflessione silenziosa che è alla base del motore che genera il passaggio, nel progetto architettonico, dalla tecnologia fino all’innovazione, per finire nella competitività, in grado di comunicare agli altri la fede nel progetto che possiede l’architetto. Per Barthes il silenzio è il vero progetto: quello, cioè, di una vita ritmata, dove il rispetto, lo spazio misurato e progettato, la giusta distanza, l’esercizio, l’ascesi e la festa forniscono quell’armonica idioritmia generatrice della creatività, che è il ritmo proprio, che si snoda e alterna, diventando come lo spago che il bimbo fa scorrere lungo un centro accogliente e pacato dove siede la madre intenta a vigilare. Sono le parole di Barthes pronunciate all’inizio della sua lezione al Collège de France. I mondi possibili del progetto tecnologico, dell’innovazione e della competitività sottendono l’interpretazione delle frasi condizionali controfattuali, che tipicamente presuppongono la falsità dell’antecedente: se tutti fossero nati in Italia, parlerebbero tutti italiano. Secondo David Lewis una frase come questa è vera se nei mondi possibili, in cui sono nati tutti in Italia, tutti parlano italiano; la teoria richiede però che solo certi mondi vadano esaminati, quelli più simili al nostro, cioè, al mondo del progetto. La casualità, una delle nozioni centrali in metafisica e nell’interpretazione dei progetti, viene a sua volta interpretata come un’asimmetria controfattuale rispetto al tempo. Se oggi nascesse un progetto differente, domani ci sarebbero commenti diversi; ci sarebbero parole diverse; ma non è detto che ci sarebbero state parole diverse ieri a commentarlo. Il senso comune estende l’asimmetria temporale dei controfattuali, gli elementi innovatori del divenire architettonico, negando la possibilità dei viaggi nel mondo della cultura del progetto, che possono essere considerati del tutto legittimi; basta non pensare a un’esplorazione nella cultura progettuale solo come un viaggio nel tempo, come a uno spostamento di pensiero, ma come alla saldatura controfattuale di certe fasi presenti al progetto contemporaneo che il viaggiatore, nel tempo, con fasi passate della sua progettazione, ha esplorato. In pratica, il viaggiatore del tempo era già nel passato, non lo ha alterato con il suo viaggio e non può, quindi, alterare il presente, come invece pia-

cerebbe ai viaggiatori di fantascienza. È solo la concretezza del progetto d’architettura che si palesa con le sue continuità storiche. Scrive Edoardo Boncinelli, genetista e biologo molecolare, che il posto della scienza è una delle caratteristiche salienti della scienza occidentale, cioè quella di muoversi esattamente a mezza strada fra la contemplazione da una parte e la ricerca dell’applicazione dall’altra. Non si tratta di sola teoresi, né di mera ricerca di procedure per l’applicazione delle tecniche costruttive al fine dell’innovazione progettuale, ma di un’unione obbligata e paritaria delle due. Insomma, per un’accurata progettazione, occorre osservare per fare e fare osservando. Questo distingue la scienza del progetto dai più diversi sistemi mitologici e mitici, metodologici e formali, soprattutto dalle semplici costruzioni di pensiero dei filosofi ma, anche, dalle ricette pratiche del fai da te, che possono funzionare senza che mai ne venga chiesta la ragione o una motivazione intelligente, destinata al divenire del progetto, cioè come capita con la cosiddetta ricetta del romanticismo feticista del déjà vu. Architetti praticoni e filosofi improvvisati dell’architettura sono avvertiti: potranno sostenere la superiorità del loro sapere a seconda dei casi, tutto garantito dal cuore della gente o dal marchio di fabbrica dei pastori dell’essere. Con questa rivendicazione imboccano la via opposta a quella della ricerca e dell’innovazione. Questo è sapere pubblico di studiosi, e controllabile: il suo posto non va cercato né tra le pretese delle aristocrazie dei nuovi critici d’architettura, in cui rientrano le varie combriccole esoteriche, né tra le masse popolari, care alla retorica marxista di qualche decennio fa ma purtroppo ancora latenti, bensì nel seno stesso della società democratica, attenta allo studio dei fenomeni dell’architettura. Nella scienza non c’è niente d’attendibile se non è dimostrato e valutato collettivamente e, guarda caso, avviene soprattutto attraverso il segno corretto del costruire la casa dell’uomo e, quindi, valutato collettivamente. Nell’ambito della scienza si è tutti uguali, almeno in linea di principio, e tutti possono dire la loro. Infatti, in quale altra attività umana un giovane architetto, che sia informato e attento studioso, può mettere in discussione e dimostrare innovabili e superabili le architetture di un canuto e venerabile barone dell’architettura? Boncinelli, però, non solo fornisce consolazioni ai giovani più o meno acuti e attenti studiosi, ma mette soprattutto in luce la dinamica interna della crescita scientifica e progettuale. Ecco l’unione del sapere, ecco come un genetista e biologo, attento alla natura, è in grado di scoprire la matematica delle logiche del fare. Occorre anche rivolgere l’attenzione alla relazione che intercorre fra economia, tecnologia e architettura.

La pressante domanda del mercato spinge ad applicare e rinnovare continuamente, in modo utile, la tecnologia, che può essere controllata solo con un lavoro in comune con tecnici e ingegneri. Innovare lo spazio continua a essere, e sarà sempre, il compito dell’architetto che deve trovare, attraverso la trasformazione della tecnologia, la fonte della sua ispirazione e soddisfare, così, le esigenze dell’uomo contemporaneo. È ristabilire l’unione fra la composizione, la costruzione e l’economia, nella profonda unità che deve scaturire dalla tecnologia avanzata, dal sentimento e dalla convenienza. D’altronde, se vogliamo descrivere la figura dell’architetto nella nostra società, riferita alla tecnologia, all’innovazione e alla competitività, ci appare con una funzione marginale, adatta solo ai ricchi che vogliono comprare un plusvalore d’effimera bellezza; è più popolare, forse, la figura del geometra, dell’ingegnere e del costruttore. In effetti, se facciamo un’analisi del costruito, su 100 edifici delle nostre città solo uno è interamente progettato da un architetto. Si può capire come sia facile, per un progettista, mettersi al soldo della speculazione; occorre, però, rendersi conto che il mestiere dell’architetto è una missione. Non esiste danaro al mondo sufficiente per pagare la creatività. Di questo, purtroppo, si rende conto anche il committente, pubblico o privato che sia; sta di fatto che la nostra categoria è, in ogni modo, sottopagata. Il compito di elevare la figura dell’architetto, insieme al suo riconoscimento economico, dovrebbe appartenere agli Ordini Professionali che, però, sono destinati a scomparire in virtù di un’Europa unita e, in ogni modo, non hanno grande influenza sulla logica e sulla morale dei Bandi di Concorso. Per il momento non riescono ad accrescere l’immagine dell’architetto, forse perché sono succubi di una falsa interpretazione dell’etica professionale, codificata all’inizio del secolo e ormai estranea all’applicazione del progetto. Il riferimento ai concorsi è dovuto al fatto che è indispensabile aprire alle giovani generazioni le possibilità di un confronto pubblico e un’espletazione di una cultura creativa, che si muove col tempo e con lo spazio della cultura del progetto. Insomma, com’è solito dire Piergiorgio Odifreddi, parlare di Tecnologia, Innovazione e Competitività, per gli architetti, è come per i filosofi quando parlano di matematica, che appaiono spesso come i preti che parlano di sessualità: o l’hanno vissuta clandestinamente e interiorizzata colpevolmente, o l’hanno sentita raccontare dai peccatori in confessionale. In entrambi i casi non ne conoscono gli aspetti sani e del quotidiano nella ricerca di far combinare Tecnologia, Innovazione e Competitività. Ciò succede in particolare a chi sostiene che l’architettura è già stata inventata.

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* Mario Antonio Arnaboldi è Medaglia d’Argento del Politecnico di Milano per i 40 anni d’emerita docenza. È vicedirettore della rivista l’Arca. Ha fondato con Laura Francesca Ammaturo lo Studio Architetti Associati Arnaboldi & Partners, Milano, dove opera. Progetti recenti: Cargo City - Aeroporto Malpensa 2000; Calcoli strutturali della Nuova Sede Nato - Progetto Afsouth 2000 - Lago Patria, Napoli; Palazzo Comunale di Casalpusterlengo. Pubblicazioni: Architettura: dialoghi e lettere, il progetto fra tecnica e modernità, Mimesis Edizioni, 2004; La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982.


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aith in the Catholic Church has shown it has the strength to come to terms with technology, in the sense that religious belief like this is grounded in the kind of carnality, seen as love of life, that Marshall McLuhan acknowledged as being vital for understanding the latest electronic means. This assumption might appear to be quite unrelated to the issue of technology, competitiveness and innovation, but upon deeper reflection it may provide man with the foundations for play, philosophy, architecture, poetry, music, happiness and friendship, religious art and even the Eucharistic ritual of mass: similar to radio and television. All this might make us ponder over the way conventional sociological perspectives have been turned on their head, as Max Weber points out, the prophet of technological modernity, who rejected abstract Protestant capitalist ethics based more on ideas and concepts than sensual emotions and constrained by prohibitions and bans. In contrast, Weber exalted the modernity of the Catholic faith, in which the paradigm of the means being the message can apparently be rediscovered. How true! People cannot grasp the message if it is separated from its concrete embodiments, starting with the dogmas, rituals and very Catholic ability to love real things, images or, in a word, everything designed. This is the strength of a line of thought determined enough to make us admit that faith, faith in design, is genuine perception, it is like sight, hearing and touch, and it is as real and concrete as the senses themselves, those very same senses that let us perceive architecture and the faith we have in it. It is equally true that technology will inevitably defeat anybody grappling with it without any real know-how or knowledge. In the West, Christianity has come under increasingly heavy criticism (of an entirely philosophical kind) from modern culture, even though the similarity between Islam and Christianity is accentuated by the philosophical groundings they share. Thomas Aquinas is still the key philosophical thinker for the Catholic Church; but Thomas Aquinas is actually very close to Avicenna, one of the leading Islamic thinkers. The three key issues of Technology, Innovation and Competitiveness are rooted in these specific religious, philosophical and historical moments, because the entire world of design and its subsequent application is filtered through the religious, philosophical and historical foundations that man has created down the ages, together with his beliefs. Contemporary philosophy has not only vindicated the architectural forms of the age in which we live, which the Islamic mind cannot tolerate, it has cleared the way for technology’s will to power to exert its dominion over the world, particularly in the realm of architectural design. And this is where the Nietzschian glorification of the Hellenic world emerges, viewed not so much in its classical rendering, as at the very beginning when Nietzsche pointed to that Dionysian force that constrains us to grasp the eternal

joy of life and action. It is Plato who evokes the dualism between the sensible world and world of ideas, anticipating the Judaic/Christian vision which unnaturally separates the earthly world from the heavens. Roland Barthes also focuses on silent meditation, as the driving force behind the transition (in architectural design) from technology to innovation before ending up in competitiveness, capable of passing on to others the architect’s faith in design. For Barthes silence is real design: deriving from a rhythmic life in which respect, measured and designed space, the right distance, exercise, ascesis and fun provide that harmonious idiorhythm that generates creativity, that is indeed your own rhythm winding and alternating like the piece of string a child drags around his mother sitting as she sits in the center watching over him carefully. These are Barthes’s own words spoken at the start of his lecture at the Collège de France. The possible worlds of technological design, innovation and competitiveness, drawing on the kind of counterfactual conditionals which generally assume the antecedent is actually false: if everybody was born in Italy, they would all speak Italian. According to David Lewis, a statement like this is true if in the possible worlds in which everybody is born in Italy, everybody speaks Italian; but the theory only requires certain worlds to be examined, those most similar to ours or, in other words, the world of design. Causality, one of the key notions in metaphysics and interpreting projects, is in turn interpreted as a counterfactual asymmetry in relation to time. If a new type of design were developed today, different comments would be made tomorrow; different words would be used; but that does not mean that there would have been different words yesterday to comment on it. Common sense extends the temporal asymmetry of counterfactuals, the innovative elements of architectural development, denying the possibility of travels through the world of design, which might be seen as totally legitimate; the key is not to think of an exploration of design culture as just a journey in time, a shift in thinking, but rather as a counterfactual binding of certain statements in modern-day design that the time traveler has explored during past stages in his work. In practice, the time traveler was already in the past, he has not altered it through his journey and so he cannot alter the present, as science fiction travelers would like to. This is just the concrete nature of architectural design that emerges through its historical continuity. Edoardo Boncinelli, a geneticist and molecular biologist, has written that the place of science is one of the key features of western science, setting it precisely midway between contemplation on one hand and research into application on the other. It is not just theoretical speculation, nor is it mere research into procedures for applying building methods for innovation purposes, it is the necessary union of both on an even standing. So in

order to carry out carefully gauged design work, you need to observe in order to act and act while you observe. This distinguishes the science of design from all the various mythological, mythical, methodological and formal systems, particularly from philosophers’ simple thought constructs, and also from practical do-it-yourself recipes, which may work without even asking for any intelligent reason why; rather like what happens with the so-called recipe of fetishist romanticism associated with déjà vu. Old-hand architects and impromptu philosophers be warned: they might be able to claim superiority for their know-how in certain circumstances, thanks to people’s good hearts or the blessing of some pastor of being or other. But this will only take them in the opposite direction to research and innovation. This is the realm of the public knowledge of experts and it can be controlled; it should not be looked for amongst the pretensions of the aristocratic ranks of the new critics of architecture, including the esoteric mob, nor will it be found out amongst the masses, that were so dear to the Marxist rhetoric of a few decades ago (sadly still latent), but rather in the very heart of democratic society, with a keen eye for the latest developments in architecture. In science nothing can be counted on unless it is proven and assessed collectively and, not surprisingly, this usually happens in the business of building people’s homes properly and hence is something that can be judged by the entire community. We are all equal in the eyes of science, at least in principle, and everybody is entitled to their say. Indeed in what other human enterprise can a young person (in this case an architect), provided he or she is wellinformed and educated, call into question a venerable old baron of the profession and prove that past ideas may be outmoded or superseded? But Boncinelli does not just have something reassuring to say to talented youngsters or careful scholars, he brings out the internal workings of scientific and cultural development. This is where the union lies, this is how a geneticist and biologist, who attentively studies nature, has managed to discover the mathematics of the logic of action. It is also worth focusing on the relation holding between economics, technology and architecture. A demanding market calls for the constant application and upgrading of technology, which can only be controlled through the joint efforts of technicians and engineers. Innovating space is still, and always will be, the architect’s task, as he draws on technological progress to find the means of meeting modern-day people’s needs. This means bringing back together composition, construction and economics to form a powerful unit based on cutting-edge technology, sentiment and convenience. After all, if we want to describe the architect’s role in our society in relation to technology, innovation and competitiveness, then he only plays a marginal role,

useful solely to the wealthy as they set out to buy some sort of added value in the form of transient beauty; perhaps surveyors, engineers and builders are more popular figures. Indeed, if we make a careful survey of the builtscape, it is found that only one building in a hundred is actually entirely designed by an architect. It is easy to see how tempting it might be for an architect to yield to the profitable business of speculation; but we need to realize that the profession of architecture is a mission. There still is not enough money in the world to buy creativity. Unfortunately, both public and private patrons are well aware of this, too; in any case, the fact is that our profession is underpaid. It ought to be the task of associations of architects to raise the status of architects and ensure they receive their just financial desserts. But the European Union will inevitably mean these associations disappear or, in any case, will have little say in the workings and morals of Competition Tenders. For the time being, they are not able to improve the architect’s image, perhaps because they are still held back by a wrong interpretation of professional ethics, codified at the beginning of the 20th century and now quite alien to design. The reference to competitions is due to the fact that it is vital to open up the way for the younger generations to confront the public and develop a creative background that keeps up with the space and time of the design world. So, as Piergiorgio Odifreddi is so fond of saying, for architects, speaking of Technology, Innovation and Competitiveness is like philosophers talking about mathematics, they are just like priests talking about sexuality: either they have had secret experiences they should not have or they have heard it described in the confessional box. In either case they are not familiar with its most healthy everyday aspects, as the quest continues to bring together Technology, Innovation and Competitiveness. This is generally the case with people who claim that architecture has already been invented.

* Mario Antonio Arnaboldi was awarded Milan Polytechnic’s Silver Medal for forty years’ devoted teaching service. He is the assistant editor of l’Arca magazine. He also set up the Arnaboldi & Partners architecture firm in Milan, where he works, in partnership with Laura Francesca Ammaturo. His recent projects include: Cargo City – Aeroporto Malpensa 2000; the Structural Computations for the New Nato Headquarters– Afsouth 2000 Project – Lago Patria, Naplesi; Casalpusterlengo Town Hall. Published works: Architettura: dialoghi e lettere, il progetto fra tecnica e modernità, Mimesis Edizioni, 2004; La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982.

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aith in the Catholic Church has shown it has the strength to come to terms with technology, in the sense that religious belief like this is grounded in the kind of carnality, seen as love of life, that Marshall McLuhan acknowledged as being vital for understanding the latest electronic means. This assumption might appear to be quite unrelated to the issue of technology, competitiveness and innovation, but upon deeper reflection it may provide man with the foundations for play, philosophy, architecture, poetry, music, happiness and friendship, religious art and even the Eucharistic ritual of mass: similar to radio and television. All this might make us ponder over the way conventional sociological perspectives have been turned on their head, as Max Weber points out, the prophet of technological modernity, who rejected abstract Protestant capitalist ethics based more on ideas and concepts than sensual emotions and constrained by prohibitions and bans. In contrast, Weber exalted the modernity of the Catholic faith, in which the paradigm of the means being the message can apparently be rediscovered. How true! People cannot grasp the message if it is separated from its concrete embodiments, starting with the dogmas, rituals and very Catholic ability to love real things, images or, in a word, everything designed. This is the strength of a line of thought determined enough to make us admit that faith, faith in design, is genuine perception, it is like sight, hearing and touch, and it is as real and concrete as the senses themselves, those very same senses that let us perceive architecture and the faith we have in it. It is equally true that technology will inevitably defeat anybody grappling with it without any real know-how or knowledge. In the West, Christianity has come under increasingly heavy criticism (of an entirely philosophical kind) from modern culture, even though the similarity between Islam and Christianity is accentuated by the philosophical groundings they share. Thomas Aquinas is still the key philosophical thinker for the Catholic Church; but Thomas Aquinas is actually very close to Avicenna, one of the leading Islamic thinkers. The three key issues of Technology, Innovation and Competitiveness are rooted in these specific religious, philosophical and historical moments, because the entire world of design and its subsequent application is filtered through the religious, philosophical and historical foundations that man has created down the ages, together with his beliefs. Contemporary philosophy has not only vindicated the architectural forms of the age in which we live, which the Islamic mind cannot tolerate, it has cleared the way for technology’s will to power to exert its dominion over the world, particularly in the realm of architectural design. And this is where the Nietzschian glorification of the Hellenic world emerges, viewed not so much in its classical rendering, as at the very beginning when Nietzsche pointed to that Dionysian force that constrains us to grasp the eternal

joy of life and action. It is Plato who evokes the dualism between the sensible world and world of ideas, anticipating the Judaic/Christian vision which unnaturally separates the earthly world from the heavens. Roland Barthes also focuses on silent meditation, as the driving force behind the transition (in architectural design) from technology to innovation before ending up in competitiveness, capable of passing on to others the architect’s faith in design. For Barthes silence is real design: deriving from a rhythmic life in which respect, measured and designed space, the right distance, exercise, ascesis and fun provide that harmonious idiorhythm that generates creativity, that is indeed your own rhythm winding and alternating like the piece of string a child drags around his mother sitting as she sits in the center watching over him carefully. These are Barthes’s own words spoken at the start of his lecture at the Collège de France. The possible worlds of technological design, innovation and competitiveness, drawing on the kind of counterfactual conditionals which generally assume the antecedent is actually false: if everybody was born in Italy, they would all speak Italian. According to David Lewis, a statement like this is true if in the possible worlds in which everybody is born in Italy, everybody speaks Italian; but the theory only requires certain worlds to be examined, those most similar to ours or, in other words, the world of design. Causality, one of the key notions in metaphysics and interpreting projects, is in turn interpreted as a counterfactual asymmetry in relation to time. If a new type of design were developed today, different comments would be made tomorrow; different words would be used; but that does not mean that there would have been different words yesterday to comment on it. Common sense extends the temporal asymmetry of counterfactuals, the innovative elements of architectural development, denying the possibility of travels through the world of design, which might be seen as totally legitimate; the key is not to think of an exploration of design culture as just a journey in time, a shift in thinking, but rather as a counterfactual binding of certain statements in modern-day design that the time traveler has explored during past stages in his work. In practice, the time traveler was already in the past, he has not altered it through his journey and so he cannot alter the present, as science fiction travelers would like to. This is just the concrete nature of architectural design that emerges through its historical continuity. Edoardo Boncinelli, a geneticist and molecular biologist, has written that the place of science is one of the key features of western science, setting it precisely midway between contemplation on one hand and research into application on the other. It is not just theoretical speculation, nor is it mere research into procedures for applying building methods for innovation purposes, it is the necessary union of both on an even standing. So in

order to carry out carefully gauged design work, you need to observe in order to act and act while you observe. This distinguishes the science of design from all the various mythological, mythical, methodological and formal systems, particularly from philosophers’ simple thought constructs, and also from practical do-it-yourself recipes, which may work without even asking for any intelligent reason why; rather like what happens with the so-called recipe of fetishist romanticism associated with déjà vu. Old-hand architects and impromptu philosophers be warned: they might be able to claim superiority for their know-how in certain circumstances, thanks to people’s good hearts or the blessing of some pastor of being or other. But this will only take them in the opposite direction to research and innovation. This is the realm of the public knowledge of experts and it can be controlled; it should not be looked for amongst the pretensions of the aristocratic ranks of the new critics of architecture, including the esoteric mob, nor will it be found out amongst the masses, that were so dear to the Marxist rhetoric of a few decades ago (sadly still latent), but rather in the very heart of democratic society, with a keen eye for the latest developments in architecture. In science nothing can be counted on unless it is proven and assessed collectively and, not surprisingly, this usually happens in the business of building people’s homes properly and hence is something that can be judged by the entire community. We are all equal in the eyes of science, at least in principle, and everybody is entitled to their say. Indeed in what other human enterprise can a young person (in this case an architect), provided he or she is wellinformed and educated, call into question a venerable old baron of the profession and prove that past ideas may be outmoded or superseded? But Boncinelli does not just have something reassuring to say to talented youngsters or careful scholars, he brings out the internal workings of scientific and cultural development. This is where the union lies, this is how a geneticist and biologist, who attentively studies nature, has managed to discover the mathematics of the logic of action. It is also worth focusing on the relation holding between economics, technology and architecture. A demanding market calls for the constant application and upgrading of technology, which can only be controlled through the joint efforts of technicians and engineers. Innovating space is still, and always will be, the architect’s task, as he draws on technological progress to find the means of meeting modern-day people’s needs. This means bringing back together composition, construction and economics to form a powerful unit based on cutting-edge technology, sentiment and convenience. After all, if we want to describe the architect’s role in our society in relation to technology, innovation and competitiveness, then he only plays a marginal role,

useful solely to the wealthy as they set out to buy some sort of added value in the form of transient beauty; perhaps surveyors, engineers and builders are more popular figures. Indeed, if we make a careful survey of the builtscape, it is found that only one building in a hundred is actually entirely designed by an architect. It is easy to see how tempting it might be for an architect to yield to the profitable business of speculation; but we need to realize that the profession of architecture is a mission. There still is not enough money in the world to buy creativity. Unfortunately, both public and private patrons are well aware of this, too; in any case, the fact is that our profession is underpaid. It ought to be the task of associations of architects to raise the status of architects and ensure they receive their just financial desserts. But the European Union will inevitably mean these associations disappear or, in any case, will have little say in the workings and morals of Competition Tenders. For the time being, they are not able to improve the architect’s image, perhaps because they are still held back by a wrong interpretation of professional ethics, codified at the beginning of the 20th century and now quite alien to design. The reference to competitions is due to the fact that it is vital to open up the way for the younger generations to confront the public and develop a creative background that keeps up with the space and time of the design world. So, as Piergiorgio Odifreddi is so fond of saying, for architects, speaking of Technology, Innovation and Competitiveness is like philosophers talking about mathematics, they are just like priests talking about sexuality: either they have had secret experiences they should not have or they have heard it described in the confessional box. In either case they are not familiar with its most healthy everyday aspects, as the quest continues to bring together Technology, Innovation and Competitiveness. This is generally the case with people who claim that architecture has already been invented.

* Mario Antonio Arnaboldi was awarded Milan Polytechnic’s Silver Medal for forty years’ devoted teaching service. He is the assistant editor of l’Arca magazine. He also set up the Arnaboldi & Partners architecture firm in Milan, where he works, in partnership with Laura Francesca Ammaturo. His recent projects include: Cargo City – Aeroporto Malpensa 2000; the Structural Computations for the New Nato Headquarters– Afsouth 2000 Project – Lago Patria, Naplesi; Casalpusterlengo Town Hall. Published works: Architettura: dialoghi e lettere, il progetto fra tecnica e modernità, Mimesis Edizioni, 2004; La città visibile, l’Arcaedizioni, 1992; Progettare oggi, l’Arcaedizioni, 1992; Il senso universale dell’architettura, Liguori Editore, 1993; Il giudizio universale, l’Arcaedizioni, 1995; La disciplina del progetto, Clup, 1989; Genesi della forma, Marsilio Editore, 1966; Genesi e propedeusi al progetto, Silvia Editrice, 1987; Atlante degli impianti sportivi, Hoepli, 1982.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Fiore d’acciaio Steel Flower Santa Cruz de Tenerife, Auditorium Santa Cruz de Tenerife, Opera House Progetto di Santiago Calatrava Project by Santiago Calatrava

S

tabilire relazioni e somiglianze tra le cose è parte di quel pensiero analogico che da sempre informa i progetti di Calatrava. Di volta in volta, l’immaginario di riferimento può evidenziarsi nella morfologia di grandi mammiferi preistorici o nell’esasperazione formale di strutture ossee talmente fantastiche da renderne impossibile l’individuazione della specie. Nel nuovo auditorium realizzato a Tenerife, l’intreccio delle relazioni pare rivolto al mondo vegetale, come se Calatrava fosse alla ricerca di inedite riletture del Liberty attraverso alchimie fra creazione artistica e complesse elaborazioni matematiche sulle coordinate di sviluppo di foglie e petali di straordinarie creature floreali. Potrebbe trattarsi del giglio fiorentino che presenta, infatti, non poche analogie con la forma dell’auditorium, soprattutto con la grande ala che sovrasta la sala centrale. Il ricorso non più a forme organiche animali ma al mondo vegetale potrebbe essere collegato alle straordinarie caratteristiche ambientali delle Isole Canarie. L’auditorium sorge, infatti, nei pressi del lungomare, nella zona di Los Llanos di Santa Cruz, importante città dell’arcipelago, in uno scenario naturalistico dove mare e vegetazione sono tuttora incontaminati paradisi tropicali. Posto fra il porto e il Parco Marino, il complesso funge da elemento di connessione fra il mare e la città, ponendosi come punto di riferimento certo rispetto a uno spazio urbano privo di emergenze significative. Il complesso si estende su una superficie di circa 24 mila

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Sezione longitudinale dell’Auditorium. Il complesso sorge nella zona di Los Llanos, in posizione panoramica fra il Parco Marino e il Porto. La nuova struttura, che dispone di una sala concerti da 1.660 posti, è anche sede della Orquesta Sinfónica de Tenerife. Longitudinal section of the Opera House. The complex is situated in the Los Llanos area in a panoramic location between the Marine Park and the Harbor. The new facility, which includes a 1,660-seat concert hall, is also home to the Tenerife Orquesta Sinfónica.

metri quadrati, la grande sala concerti può ospitare 1.660 posti distribuiti su tre piattaforme indipendenti. Oltre alla sala, si alternano piazze e giardini in tema con la natura tropicale del luogo. Con la sua grande ala alta sessanta metri, l’auditorium mostra tutta la sua forza evocativa e contemporaneamente definisce il primato di un’architettura ibridata con le forme dell’arte, in questo caso l’arte plastica, e con il valore aggiunto della scienza del costruire, del calcolo matematico come linguaggio di una ritrovata modernità, offuscata negli anni addietro dalle nebbie storicistiche che avvolsero l’architettura in grotteschi recuperi stilistici, rivelatisi poi facili escamotage per coprire mancanza di idee e scarsa propensione all’innovazione. Pur lavorando con materiali tradizionali, primo fra tutti il calcestruzzo, Calatrava dimostra come l’innovazione non sia strettamente legata all’impiego di materiali ipertecnologici, ma sia piuttosto espressione di un nuovo linguaggio in grado di formulare inedite configurazioni spaziali e suggerire nuove direzioni comportamentali ai fruitori dell’architettura – anche a costo di rivoluzionare radicalmente concetti ritenuti inamovibili, come per esempio “l’architettura non è scultura abitabile”. Calatrava è fautore dell’esatto contrario: le sue opere sono sculture, naturalmente non come espressioni astratte di concetti estetici, bensì come “manufatti esemplari” destinati a creare segni indelebili nel territorio, come i suoi famosi ponti, o nello spazio urbano attraverso strutture di forte impatto formale.

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Fiore d’acciaio Steel Flower Santa Cruz de Tenerife, Auditorium Santa Cruz de Tenerife, Opera House Progetto di Santiago Calatrava Project by Santiago Calatrava

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tabilire relazioni e somiglianze tra le cose è parte di quel pensiero analogico che da sempre informa i progetti di Calatrava. Di volta in volta, l’immaginario di riferimento può evidenziarsi nella morfologia di grandi mammiferi preistorici o nell’esasperazione formale di strutture ossee talmente fantastiche da renderne impossibile l’individuazione della specie. Nel nuovo auditorium realizzato a Tenerife, l’intreccio delle relazioni pare rivolto al mondo vegetale, come se Calatrava fosse alla ricerca di inedite riletture del Liberty attraverso alchimie fra creazione artistica e complesse elaborazioni matematiche sulle coordinate di sviluppo di foglie e petali di straordinarie creature floreali. Potrebbe trattarsi del giglio fiorentino che presenta, infatti, non poche analogie con la forma dell’auditorium, soprattutto con la grande ala che sovrasta la sala centrale. Il ricorso non più a forme organiche animali ma al mondo vegetale potrebbe essere collegato alle straordinarie caratteristiche ambientali delle Isole Canarie. L’auditorium sorge, infatti, nei pressi del lungomare, nella zona di Los Llanos di Santa Cruz, importante città dell’arcipelago, in uno scenario naturalistico dove mare e vegetazione sono tuttora incontaminati paradisi tropicali. Posto fra il porto e il Parco Marino, il complesso funge da elemento di connessione fra il mare e la città, ponendosi come punto di riferimento certo rispetto a uno spazio urbano privo di emergenze significative. Il complesso si estende su una superficie di circa 24 mila

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Sezione longitudinale dell’Auditorium. Il complesso sorge nella zona di Los Llanos, in posizione panoramica fra il Parco Marino e il Porto. La nuova struttura, che dispone di una sala concerti da 1.660 posti, è anche sede della Orquesta Sinfónica de Tenerife. Longitudinal section of the Opera House. The complex is situated in the Los Llanos area in a panoramic location between the Marine Park and the Harbor. The new facility, which includes a 1,660-seat concert hall, is also home to the Tenerife Orquesta Sinfónica.

metri quadrati, la grande sala concerti può ospitare 1.660 posti distribuiti su tre piattaforme indipendenti. Oltre alla sala, si alternano piazze e giardini in tema con la natura tropicale del luogo. Con la sua grande ala alta sessanta metri, l’auditorium mostra tutta la sua forza evocativa e contemporaneamente definisce il primato di un’architettura ibridata con le forme dell’arte, in questo caso l’arte plastica, e con il valore aggiunto della scienza del costruire, del calcolo matematico come linguaggio di una ritrovata modernità, offuscata negli anni addietro dalle nebbie storicistiche che avvolsero l’architettura in grotteschi recuperi stilistici, rivelatisi poi facili escamotage per coprire mancanza di idee e scarsa propensione all’innovazione. Pur lavorando con materiali tradizionali, primo fra tutti il calcestruzzo, Calatrava dimostra come l’innovazione non sia strettamente legata all’impiego di materiali ipertecnologici, ma sia piuttosto espressione di un nuovo linguaggio in grado di formulare inedite configurazioni spaziali e suggerire nuove direzioni comportamentali ai fruitori dell’architettura – anche a costo di rivoluzionare radicalmente concetti ritenuti inamovibili, come per esempio “l’architettura non è scultura abitabile”. Calatrava è fautore dell’esatto contrario: le sue opere sono sculture, naturalmente non come espressioni astratte di concetti estetici, bensì come “manufatti esemplari” destinati a creare segni indelebili nel territorio, come i suoi famosi ponti, o nello spazio urbano attraverso strutture di forte impatto formale.

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L’Auditorium visto dal lato caratterizzato dalla struttura in forma di una grande ala alta 60 m. Side view of the Opera House, showing the 60-meter-high wing.

stablishing relationships and similarities between things is part of the analogical thinking that has always informed Calatrava’s projects. The inspiration behind his works might well lie in the morphological forms of giant prehistoric animals or bone structures so stylistically rendered that it is impossible to guess what species they come from. The web of relationships in the new opera house in Tenerife seems to be directed at the vegetable world, as if Calatrava were looking for innovative interpretations of the Art Nouveau style through strange combinations of artistic creativity and mathematical computations on the growth co-ordinates of the leaves and petals of rare floral creatures. In this case, the inspiration could well be the Florentine fleur-de-lys, which actually has many similarities with the opera house design, particularly the large wing over the main hall. The decision to draw on the vegetable world rather than organic animal forms may be connected with the incredible environmental features of the Canary Islands. The opera house is located near the seafront in Los Llanos de Santa Cruz, one of the archipelago’s most important cities, in a natural setting where the sea and vegetation are still uncontaminated tropical paradises. Set between the harbor and the Marine Park, the complex acts as a link between the city and sea, providing a stable landmark in an urban setting with no notable features. The complex covers an area of 24,000 square meters and the large auditorium has 1,660 seats spread over three separate platforms. In addition to the auditorium, the opera house offers a series of squares and gardens that blend with the tropical environment. The full evocative force of the building is displayed by the towering sixty-meter wing, a supreme example of architecture embodying art—in this case sculpture— with the added value of construction science and mathematical computation providing the idiom for a modernist revival after years of historicism, when architecture was clouded in grotesque stylistic revivals that were simply a means to conceal a dearth of ideas and a reluctance to innovate. Although Calatrava works with conventional materials, most notably concrete, he shows that innovation is not so much a question of hyper-technological materials as the expression of a new vocabulary, which can be employed to construct unprecedented spatial configurations and point the way to new uses of architecture— even at the cost of revolutionizing such unquestionable tenets as “architecture is not inhabitable sculpture.” Calatrava sets out to prove quite the opposite: his works are sculptures; not, of course, abstract expressions of aesthetic concepts, but “exemplary constructions” designed to leave a permanent trace on their surroundings, as in the case of his famous bridges, or mark the cityscape through stylistically striking structures.

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stablishing relationships and similarities between things is part of the analogical thinking that has always informed Calatrava’s projects. The inspiration behind his works might well lie in the morphological forms of giant prehistoric animals or bone structures so stylistically rendered that it is impossible to guess what species they come from. The web of relationships in the new opera house in Tenerife seems to be directed at the vegetable world, as if Calatrava were looking for innovative interpretations of the Art Nouveau style through strange combinations of artistic creativity and mathematical computations on the growth co-ordinates of the leaves and petals of rare floral creatures. In this case, the inspiration could well be the Florentine fleur-de-lys, which actually has many similarities with the opera house design, particularly the large wing over the main hall. The decision to draw on the vegetable world rather than organic animal forms may be connected with the incredible environmental features of the Canary Islands. The opera house is located near the seafront in Los Llanos de Santa Cruz, one of the archipelago’s most important cities, in a natural setting where the sea and vegetation are still uncontaminated tropical paradises. Set between the harbor and the Marine Park, the complex acts as a link between the city and sea, providing a stable landmark in an urban setting with no notable features. The complex covers an area of 24,000 square meters and the large auditorium has 1,660 seats spread over three separate platforms. In addition to the auditorium, the opera house offers a series of squares and gardens that blend with the tropical environment. The full evocative force of the building is displayed by the towering sixty-meter wing, a supreme example of architecture embodying art—in this case sculpture— with the added value of construction science and mathematical computation providing the idiom for a modernist revival after years of historicism, when architecture was clouded in grotesque stylistic revivals that were simply a means to conceal a dearth of ideas and a reluctance to innovate. Although Calatrava works with conventional materials, most notably concrete, he shows that innovation is not so much a question of hyper-technological materials as the expression of a new vocabulary, which can be employed to construct unprecedented spatial configurations and point the way to new uses of architecture— even at the cost of revolutionizing such unquestionable tenets as “architecture is not inhabitable sculpture.” Calatrava sets out to prove quite the opposite: his works are sculptures; not, of course, abstract expressions of aesthetic concepts, but “exemplary constructions” designed to leave a permanent trace on their surroundings, as in the case of his famous bridges, or mark the cityscape through stylistically striking structures.

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Sezione trasversale e, in basso, veduta generale del complesso. Oltre ad essere un segno di forte identità urbana, l’Auditorium funge da elemento di collegamento fra la città e il mare. Pagina a fianco, la sala concerti. Cross section and, bottom, overall view of the complex. As well as constituting a major city landmark, the Opera House acts as a link between the city and the sea. Facing page, the concert hall.

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Sezione trasversale e, in basso, veduta generale del complesso. Oltre ad essere un segno di forte identità urbana, l’Auditorium funge da elemento di collegamento fra la città e il mare. Pagina a fianco, la sala concerti. Cross section and, bottom, overall view of the complex. As well as constituting a major city landmark, the Opera House acts as a link between the city and the sea. Facing page, the concert hall.

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Particolare di un terrazzo con vista sul mare. Detail of a terrace overlooking the sea.

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Il foyer della sala per musica da camera: tale spazio funge anche da isolamento per il foyer principale. The foyer of the chamber music hall, which also provides insulation for the main foyer.

La sala per musica da camera da 400 posti. The 400-seat chamber music hall.


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Particolare di un terrazzo con vista sul mare. Detail of a terrace overlooking the sea.

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Il foyer della sala per musica da camera: tale spazio funge anche da isolamento per il foyer principale. The foyer of the chamber music hall, which also provides insulation for the main foyer.

La sala per musica da camera da 400 posti. The 400-seat chamber music hall.


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Costituito da un doppio rivestimento in calcestruzzo, l’Auditorium presenta un alto coefficiente d’isolamento dai rumori esterni. Qui a destra, dettaglio degli schemi strutturali delle coperture. With its double concrete facing, the Opera House is well insulated from outside noise. Right, details of the roof.

Un particolare del percorso che si snoda nella complessa configurazione spaziale dell’Auditorium. Detail of the pathway through the Opera House’s intricate spatial layout.


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Costituito da un doppio rivestimento in calcestruzzo, l’Auditorium presenta un alto coefficiente d’isolamento dai rumori esterni. Qui a destra, dettaglio degli schemi strutturali delle coperture. With its double concrete facing, the Opera House is well insulated from outside noise. Right, details of the roof.

Un particolare del percorso che si snoda nella complessa configurazione spaziale dell’Auditorium. Detail of the pathway through the Opera House’s intricate spatial layout.


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Planimetria generale e, in basso, veduta laterale dove sono sistemate le grandi vetrate che lasciano intravedere parte dell’interno. Pagina a fianco, il foyer e un particolare della scalinata laterale. Site plan and, bottom, side view showing the large glass windows that provide a glimpse of the interior. Facing page, the foyer and a detail of the side stairs.

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Planimetria generale e, in basso, veduta laterale dove sono sistemate le grandi vetrate che lasciano intravedere parte dell’interno. Pagina a fianco, il foyer e un particolare della scalinata laterale. Site plan and, bottom, side view showing the large glass windows that provide a glimpse of the interior. Facing page, the foyer and a detail of the side stairs.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Sperimentazioni boccioniane Boccioni-style Experimentation Los Angeles, Walt Disney Concert Hall Los Angeles, Walt Disney Concert Hall Progetto di Gehry Partners Project by Gehry Partners

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Uno degli schizzi preliminari prima di affrontare il progetto definitivo. Pagina a fianco, il nuovo skyline della Downtown di Los Angeles creato con l’inserimento della Walt Disney Concert Hall. One of the preliminary sketches prior to the final project. Facing page, the new Los Angeles Downtown skyline after construction of the Walt Disney Concert Hall.

R

ealizzata dopo una lunga gestazione iniziata alla fine degli anni Ottanta, la Walt Disney Concert Hall è stata inaugurata nel 2003. A dar vita all’iniziativa è stata Lillian, vedova di Walt Disney, che ha donato oltre cinquanta milioni di dollari alla Los Angeles Philharmonic per la realizzazione di una grande sala concerti. Negli anni Ottanta, Gehry non è ancora una star mondiale dell’architettura e quel progetto così fuori dagli schemi crea non poche perplessità, si mormora che la stravagante configurazione del complesso sia una sintesi compositiva scaturita da due diverse passioni: quella di Gehry per le vele e quella di Lillian per i fiori. Effettivamente, sul piano delle analogie morfologiche, qualcosa di vero c’è. Ma se da una parte ciò rappresenta la concretizzazione milionaria di due sogni, è anche detonatore di proteste al calor bianco. Per i critici più ostili trasporre in architettura passioni hobbistiche è il massimo della banalità, qualcosa che un architetto impegnato non dovrebbe mai fare. In realtà, l’operazione ha ben altre motivazioni e s’inquadra in una ricerca che contempla uno degli aspetti nodali del rapporto fra l’architettura e l’arte. Un nodo mai completamente sciolto e per questo occasione di profonde riflessioni. Ma se cambiano le metodologie, non cambia l’obiettivo: ovvero mettere a punto un codice, una sorta di manuale cui attenersi per realizzare un’opera totale, sintesi della cultura del tempo, ma anche suggerire possibili percorsi progettuali per il futuro. La soluzione di Gehry è nell’azzeramento di qualsiasi vincolo sintattico, ovvero nella rivoluzione delle funzioni

proprie della struttura del linguaggio. A supporto di tale proposizione, il digitale si rivela la carta vincente. La complessità compositiva della Walt Disney Concert Hall non avrebbe avuto seguito se non si fosse ricorso a programmi di grafica estremamente sofisticati, in grado di gestire operazioni cosiddette booleane. In estrema sintesi, tale sistema prevede la definizione di un terzo solido derivante da altri due, rapportati attraverso calcoli matematici relativamente semplificati. L’idea boccioniana del fondere masse e volumi trova nel lavoro di Gehry la congiunzione fra una geniale intuizione del passato e la sua effettiva applicazione scientifica esattamente un secolo dopo, consentendo la realizzazione di ottime performance, sia formali sia prestazionali, come nel caso della sala da concerto di oltre 2.200 posti della WDCH. Per lo studio dell’acustica, Minoru Nagata e Yasuhisa Toyota, del team Nagata Acoustics, sono ricorsi prima a prove sperimentali impiegando un grande modello in scala, in seguito con test dal vero con la consulenza di Zubin Mehta, Pierre Boulez, Simon Rattle e altri importanti musicisti e direttori d’orchestra come Esa-Pekka Salonen, membro della Los Angeles Philharmonic. Per i detrattori di Gehry, ormai pochi visto il successo di opere successive come il Guggenheim di Bilbao, la WDCH è l’archetipo di una visione anomala dell’architettura, una metodologia progettuale avulsa dal contesto e dunque antistorica. Per chi invece lo sostiene, Gehry ha aperto una nuova stagione, un’inedita visione del rapporto fra luogo e nuovo intervento, demandando alla nuova costruzione la creazione del genius loci.

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Sperimentazioni boccioniane Boccioni-style Experimentation Los Angeles, Walt Disney Concert Hall Los Angeles, Walt Disney Concert Hall Progetto di Gehry Partners Project by Gehry Partners

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Uno degli schizzi preliminari prima di affrontare il progetto definitivo. Pagina a fianco, il nuovo skyline della Downtown di Los Angeles creato con l’inserimento della Walt Disney Concert Hall. One of the preliminary sketches prior to the final project. Facing page, the new Los Angeles Downtown skyline after construction of the Walt Disney Concert Hall.

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ealizzata dopo una lunga gestazione iniziata alla fine degli anni Ottanta, la Walt Disney Concert Hall è stata inaugurata nel 2003. A dar vita all’iniziativa è stata Lillian, vedova di Walt Disney, che ha donato oltre cinquanta milioni di dollari alla Los Angeles Philharmonic per la realizzazione di una grande sala concerti. Negli anni Ottanta, Gehry non è ancora una star mondiale dell’architettura e quel progetto così fuori dagli schemi crea non poche perplessità, si mormora che la stravagante configurazione del complesso sia una sintesi compositiva scaturita da due diverse passioni: quella di Gehry per le vele e quella di Lillian per i fiori. Effettivamente, sul piano delle analogie morfologiche, qualcosa di vero c’è. Ma se da una parte ciò rappresenta la concretizzazione milionaria di due sogni, è anche detonatore di proteste al calor bianco. Per i critici più ostili trasporre in architettura passioni hobbistiche è il massimo della banalità, qualcosa che un architetto impegnato non dovrebbe mai fare. In realtà, l’operazione ha ben altre motivazioni e s’inquadra in una ricerca che contempla uno degli aspetti nodali del rapporto fra l’architettura e l’arte. Un nodo mai completamente sciolto e per questo occasione di profonde riflessioni. Ma se cambiano le metodologie, non cambia l’obiettivo: ovvero mettere a punto un codice, una sorta di manuale cui attenersi per realizzare un’opera totale, sintesi della cultura del tempo, ma anche suggerire possibili percorsi progettuali per il futuro. La soluzione di Gehry è nell’azzeramento di qualsiasi vincolo sintattico, ovvero nella rivoluzione delle funzioni

proprie della struttura del linguaggio. A supporto di tale proposizione, il digitale si rivela la carta vincente. La complessità compositiva della Walt Disney Concert Hall non avrebbe avuto seguito se non si fosse ricorso a programmi di grafica estremamente sofisticati, in grado di gestire operazioni cosiddette booleane. In estrema sintesi, tale sistema prevede la definizione di un terzo solido derivante da altri due, rapportati attraverso calcoli matematici relativamente semplificati. L’idea boccioniana del fondere masse e volumi trova nel lavoro di Gehry la congiunzione fra una geniale intuizione del passato e la sua effettiva applicazione scientifica esattamente un secolo dopo, consentendo la realizzazione di ottime performance, sia formali sia prestazionali, come nel caso della sala da concerto di oltre 2.200 posti della WDCH. Per lo studio dell’acustica, Minoru Nagata e Yasuhisa Toyota, del team Nagata Acoustics, sono ricorsi prima a prove sperimentali impiegando un grande modello in scala, in seguito con test dal vero con la consulenza di Zubin Mehta, Pierre Boulez, Simon Rattle e altri importanti musicisti e direttori d’orchestra come Esa-Pekka Salonen, membro della Los Angeles Philharmonic. Per i detrattori di Gehry, ormai pochi visto il successo di opere successive come il Guggenheim di Bilbao, la WDCH è l’archetipo di una visione anomala dell’architettura, una metodologia progettuale avulsa dal contesto e dunque antistorica. Per chi invece lo sostiene, Gehry ha aperto una nuova stagione, un’inedita visione del rapporto fra luogo e nuovo intervento, demandando alla nuova costruzione la creazione del genius loci.

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uilt after a lengthy gestation that began back in the late-1980s, the Walt Disney Concert Hall officially opened in 2003. It was Walt Disney’s widow Lillian who set the ball rolling by donating over fifty million dollars to the Los Angeles Philharmonic to design a huge concert hall. Back in the 1980s Gehry was not yet a big-name architect and this highly unorthodox project caused quite a stir. Rumor had it that its extravagant design was a stylistic synthesis of two different passions: Gehry’s love of sails and Lillian’s love of flowers. As a morphological analogy, there is some truth in this. But although the hall was two multi-million dollar dreams come true, it also triggered off some heated protests. For the most hostile critics, turning hobbies into architecture is the height of banality, something a truly committed architect should never do. In actual fact the project is designed along quite different lines and considers one of the key aspects of the way architecture relates to art. A tricky issue that has never been fully examined and hence still the source of plenty of careful thought. But even if the methodologies are different, the goal is not: viz. to devise a code or handbook for designing a total work of architecture, a synthesis of contemporary culture that also sets down some possible design guidelines for the future. Gehry’s solution is to wipe out any syntactic constraints by revolutionizing the very functions of the idiomatic structure. Digital technology holds the key to achieving this aim. The stylistic complexity of the Walt Disney Concert Hall would have been a non-starter without the use of highly sophisticated graphics programs capable of handling Boolean operations. In a nutshell,

46

L’ingresso costituito da una grande scalinata e da una piazza, su cui si affaccia anche il preesistente complesso del Music Center. The entrance formed by a large stairway and plaza, also overlooked by the old Music Center.

this system involves the definition of a third solid from two others, related by relatively simplified mathematical operations. Gehry’s work takes Boccioni’s idea of blending together mass and structures to combine a brilliant idea from the past and its scientific application exactly one century later. The result is a series of stylistically striking and functionally efficient designs, as in the case of the over 2,200-seat WDCH. To tackle the acoustics, Minoru Nagata and Yasuhisa Toyota from the Nagata Acoustics team carried out some preliminary experimental tests using a large scale model and then real tests under the supervision of leading musicians and conductors including Zubin Mehta, Pierre Boulez, Simon Rattle and Esa-Pekka Salonen, a member of the Los Angeles Philharmonic. According to his critics, although there are very few left now in the wake of all his later successes works such as the Guggenheim in Bilbao, the WDCH is an archetypal architectural anomaly, a design method detached from context and hence from history. For his supporters, on the contrary, Gehry has paved the way for a new period in architecture, a previously unseen vision of the interaction between project and place, where the genius loci is created by the new building.

47

Rivestita di lastre d’acciaio inox, la nuova struttura presenta una forte identità tecnologica, un segno simbolico che celebra il dinamismo culturale della metropoli californiana. In alto, pianta del secondo livello. Clad with stainless steel, the new facility has a striking technological identity, symbolizing the cultural dynamism of this Californian metropolis. Top, plan of the second level.


B

uilt after a lengthy gestation that began back in the late-1980s, the Walt Disney Concert Hall officially opened in 2003. It was Walt Disney’s widow Lillian who set the ball rolling by donating over fifty million dollars to the Los Angeles Philharmonic to design a huge concert hall. Back in the 1980s Gehry was not yet a big-name architect and this highly unorthodox project caused quite a stir. Rumor had it that its extravagant design was a stylistic synthesis of two different passions: Gehry’s love of sails and Lillian’s love of flowers. As a morphological analogy, there is some truth in this. But although the hall was two multi-million dollar dreams come true, it also triggered off some heated protests. For the most hostile critics, turning hobbies into architecture is the height of banality, something a truly committed architect should never do. In actual fact the project is designed along quite different lines and considers one of the key aspects of the way architecture relates to art. A tricky issue that has never been fully examined and hence still the source of plenty of careful thought. But even if the methodologies are different, the goal is not: viz. to devise a code or handbook for designing a total work of architecture, a synthesis of contemporary culture that also sets down some possible design guidelines for the future. Gehry’s solution is to wipe out any syntactic constraints by revolutionizing the very functions of the idiomatic structure. Digital technology holds the key to achieving this aim. The stylistic complexity of the Walt Disney Concert Hall would have been a non-starter without the use of highly sophisticated graphics programs capable of handling Boolean operations. In a nutshell,

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L’ingresso costituito da una grande scalinata e da una piazza, su cui si affaccia anche il preesistente complesso del Music Center. The entrance formed by a large stairway and plaza, also overlooked by the old Music Center.

this system involves the definition of a third solid from two others, related by relatively simplified mathematical operations. Gehry’s work takes Boccioni’s idea of blending together mass and structures to combine a brilliant idea from the past and its scientific application exactly one century later. The result is a series of stylistically striking and functionally efficient designs, as in the case of the over 2,200-seat WDCH. To tackle the acoustics, Minoru Nagata and Yasuhisa Toyota from the Nagata Acoustics team carried out some preliminary experimental tests using a large scale model and then real tests under the supervision of leading musicians and conductors including Zubin Mehta, Pierre Boulez, Simon Rattle and Esa-Pekka Salonen, a member of the Los Angeles Philharmonic. According to his critics, although there are very few left now in the wake of all his later successes works such as the Guggenheim in Bilbao, the WDCH is an archetypal architectural anomaly, a design method detached from context and hence from history. For his supporters, on the contrary, Gehry has paved the way for a new period in architecture, a previously unseen vision of the interaction between project and place, where the genius loci is created by the new building.

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Rivestita di lastre d’acciaio inox, la nuova struttura presenta una forte identità tecnologica, un segno simbolico che celebra il dinamismo culturale della metropoli californiana. In alto, pianta del secondo livello. Clad with stainless steel, the new facility has a striking technological identity, symbolizing the cultural dynamism of this Californian metropolis. Top, plan of the second level.


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Particolare del rivestimento in acciaio inox e, in basso, pianta del sesto livello.

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Detail of the stainless steel coating and, bottom, plan of the sixth level.

Il complesso visto dalla strada e, in alto, sezione. The complex seen from the road and, top, section.


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Particolare del rivestimento in acciaio inox e, in basso, pianta del sesto livello.

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Detail of the stainless steel coating and, bottom, plan of the sixth level.

Il complesso visto dalla strada e, in alto, sezione. The complex seen from the road and, top, section.


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50

La platea della sala principale da 2.265 posti. La qualità dell’acustica è garantita dai rivestimenti in pino Douglas. La sala principale con il grande organo a canne. The main hall showing the huge pipe organ.

The stalls of the main 2,265-seat hall. Acoustic quality is guaranteed by the Douglas pine paneling.


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La platea della sala principale da 2.265 posti. La qualità dell’acustica è garantita dai rivestimenti in pino Douglas. La sala principale con il grande organo a canne. The main hall showing the huge pipe organ.

The stalls of the main 2,265-seat hall. Acoustic quality is guaranteed by the Douglas pine paneling.


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Sopra, particolare dell’organo a canne; dettagli di uno spazio interno e del rivestimento esterno.

Particolare delle poltrone della platea, un dettaglio del lucernario e, in alto, assonometria generale del complesso.

Above, detail of the pipe organ; details of an interior and the external cladding.

Detail of the seats in the stalls, a detail of the skylight and, top, overall axonometry of the complex.


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Sopra, particolare dell’organo a canne; dettagli di uno spazio interno e del rivestimento esterno.

Particolare delle poltrone della platea, un dettaglio del lucernario e, in alto, assonometria generale del complesso.

Above, detail of the pipe organ; details of an interior and the external cladding.

Detail of the seats in the stalls, a detail of the skylight and, top, overall axonometry of the complex.


INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Nelle spire del futuro The Coils of the Future Londra, quartier generale Swiss Re London, Swiss Re Headquarters Progetto di Foster and Partners Project by Foster and Partners

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In basso a destra, sezione della nuova sede della Swiss Reinsurance Company realizzata da Foster and Partners al 30 St. Mary Axe nella City di Londra. Nella pagina a fianco, particolare della facciata per la quale sono stati utilizzati 5.500 pannelli di vetro triangolari a diamante le cui dimensioni variano a ogni livello. Bottom right, section of the new headquarters of Swiss Reinsurance Company designed by Foster and Partners at 30 St. Mary Axe in the City, London. Facing page, detail of the facade with its 5,500 triangular and diamond-shaped glass panels, which vary in size from one floor to another.

N

ello skyline londinese la “pigna” è stata senza dubbio un prodigioso assist per chi aspirava a qualcosa di veramente innovativo. Ma è innegabile che oltre all’immagine della pigna la Swiss Re Tower, nuova sede della Swiss Reinsurance Company, rimanda a qualcosa di meno innocente, addirittura a qualcosa di “bellico”; un paradosso iconico, se paragonato alla secolare neutralità elvetica. In realtà, anche se la forma ricorda un missile o un gigantesco proiettile ogivale, si tratta invece di uno dei primi grattacieli ecocompatibili sorti nella Londra di questi ultimi anni. Notevole il risparmio energetico – circa il cinquanta per cento rispetto all’energia utilizzata da un edificio con uguali dimensioni ma costruito con criteri tradizionali – sia nella concezione progettuale sia nella scelta dei materiali. La complessa configurazione della sezione, concepita attraverso solette le cui superfici sono suddivise in settori radiali, spiega come la rotazione a spirale dei piani crei un sistema spaziale fortemente diversificato nella configurazione ed estremamente funzionale per la circolazione dell’aria. Alto quaranta piani, l’involucro architettonico è composto di 5.500 pannelli di vetro triangolari a diamante, le cui dimensioni variano a ogni livello. I pannelli, doppi nella superficie esterna e singoli in quella interna, configurano un sistema a sandwich con una cavità centrale ventilata, contenente sofisticati dispositivi di controllo dell’irraggiamento solare che consentono una radicale riduzione dell’utilizzo del condizionamento dell’aria. Nonostante l’aspetto inusuale, forma e funzione si integrano dando vita a una macchina architettonica in grado di sopportare le eventuali sollecitazioni che potrebbero compromettere le caratteristiche statiche dell’edificio. La particolare configurazione aerodinamica del grattacielo è frutto di una ricerca su una serie di curvature progressive, definite grazie all’impiego di una modellazione parametrica al computer; la sezione a cono bombato consente la regolazione dei flussi d’aria intorno all’edificio, riducendo così la quantità di pressione eolica al livello della piazza, mentre la struttura in acciaio a spirale, che segna diagonalmente l’edificio, permette una maggiore efficienza energetica e intensità luminosa. I particolari materiali impiegati, la futuristica forma ogivale, le caratteristiche innovative del sistema eco-compatibile fanno di questa architettura uno degli elementi più caratterizzanti dello skyline londinese. Esiste dunque un “prima” e un “dopo” la Swiss Re Tower? Se il “prima” è noto, per quanto concerne il futuro la tendenza in atto pare sia quella della massima libertà, ovvero del superamento dell’architettura dalle forme scatola-

ri, dei parallelepipedi le cui declinazioni formali sono condizionate dal concetto di facciata. È soprattutto la tipologia del grattacielo che sta mutando radicalmente i modelli di riferimento. Il cambiamento non dipende solo dall’innovazione tecnologica ma anche da una diversa visione culturale: il mondo dell’architettura è attualmente testa di ponte nei processi innovativi che hanno come centro propulsivo linguaggi intensamente ispirati al mondo della fiction, verso un immaginario che ha nel cinema di fantascienza uno dei maggiori modelli di riferimento.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Nelle spire del futuro The Coils of the Future Londra, quartier generale Swiss Re London, Swiss Re Headquarters Progetto di Foster and Partners Project by Foster and Partners

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In basso a destra, sezione della nuova sede della Swiss Reinsurance Company realizzata da Foster and Partners al 30 St. Mary Axe nella City di Londra. Nella pagina a fianco, particolare della facciata per la quale sono stati utilizzati 5.500 pannelli di vetro triangolari a diamante le cui dimensioni variano a ogni livello. Bottom right, section of the new headquarters of Swiss Reinsurance Company designed by Foster and Partners at 30 St. Mary Axe in the City, London. Facing page, detail of the facade with its 5,500 triangular and diamond-shaped glass panels, which vary in size from one floor to another.

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ello skyline londinese la “pigna” è stata senza dubbio un prodigioso assist per chi aspirava a qualcosa di veramente innovativo. Ma è innegabile che oltre all’immagine della pigna la Swiss Re Tower, nuova sede della Swiss Reinsurance Company, rimanda a qualcosa di meno innocente, addirittura a qualcosa di “bellico”; un paradosso iconico, se paragonato alla secolare neutralità elvetica. In realtà, anche se la forma ricorda un missile o un gigantesco proiettile ogivale, si tratta invece di uno dei primi grattacieli ecocompatibili sorti nella Londra di questi ultimi anni. Notevole il risparmio energetico – circa il cinquanta per cento rispetto all’energia utilizzata da un edificio con uguali dimensioni ma costruito con criteri tradizionali – sia nella concezione progettuale sia nella scelta dei materiali. La complessa configurazione della sezione, concepita attraverso solette le cui superfici sono suddivise in settori radiali, spiega come la rotazione a spirale dei piani crei un sistema spaziale fortemente diversificato nella configurazione ed estremamente funzionale per la circolazione dell’aria. Alto quaranta piani, l’involucro architettonico è composto di 5.500 pannelli di vetro triangolari a diamante, le cui dimensioni variano a ogni livello. I pannelli, doppi nella superficie esterna e singoli in quella interna, configurano un sistema a sandwich con una cavità centrale ventilata, contenente sofisticati dispositivi di controllo dell’irraggiamento solare che consentono una radicale riduzione dell’utilizzo del condizionamento dell’aria. Nonostante l’aspetto inusuale, forma e funzione si integrano dando vita a una macchina architettonica in grado di sopportare le eventuali sollecitazioni che potrebbero compromettere le caratteristiche statiche dell’edificio. La particolare configurazione aerodinamica del grattacielo è frutto di una ricerca su una serie di curvature progressive, definite grazie all’impiego di una modellazione parametrica al computer; la sezione a cono bombato consente la regolazione dei flussi d’aria intorno all’edificio, riducendo così la quantità di pressione eolica al livello della piazza, mentre la struttura in acciaio a spirale, che segna diagonalmente l’edificio, permette una maggiore efficienza energetica e intensità luminosa. I particolari materiali impiegati, la futuristica forma ogivale, le caratteristiche innovative del sistema eco-compatibile fanno di questa architettura uno degli elementi più caratterizzanti dello skyline londinese. Esiste dunque un “prima” e un “dopo” la Swiss Re Tower? Se il “prima” è noto, per quanto concerne il futuro la tendenza in atto pare sia quella della massima libertà, ovvero del superamento dell’architettura dalle forme scatola-

ri, dei parallelepipedi le cui declinazioni formali sono condizionate dal concetto di facciata. È soprattutto la tipologia del grattacielo che sta mutando radicalmente i modelli di riferimento. Il cambiamento non dipende solo dall’innovazione tecnologica ma anche da una diversa visione culturale: il mondo dell’architettura è attualmente testa di ponte nei processi innovativi che hanno come centro propulsivo linguaggi intensamente ispirati al mondo della fiction, verso un immaginario che ha nel cinema di fantascienza uno dei maggiori modelli di riferimento.

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Schizzi concettuali per lo studio della dinamica del vento sulla torre che si innalza per 179,8 metri e ha una superficie utile di 76.400 mq. Conceptual sketches for analysis of the wind dynamics on the tower, which is 179.8 meters high and has a surface area of 76,400 sq.m.

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T

he “pine cone” on the London skyline is certainly a formidable conquest for anybody aspiring for something really new. Nevertheless, apart from the image of a pine cone, the Swiss Re Tower, the new headquarters of the Swiss Reinsurance Company, undoubtedly conjures up something less innocent, something that might even be described as “bellicose”; which, considering Switzerland’s neutrality over the centuries, is something of an iconic paradox. In actual fact, although the form calls to mind a missile or even a huge egg-shaped bullet, the tower is one of the first eco-compatible skyscrapers to be built in London over recent years. Both its design and the choice of materials are geared to saving energy: approximately fifty percent of the amount used in a similar-size building constructed along conventional lines. The complex section design, working around slabs whose surfaces are divided into radial sections, reveals how the spatial system created by the spiral rotation of the planes is stylistically varied and ideal for circulating air. The forty-story architectural shell is composed of 5,500 diamond-patterned triangular glass panels, whose size varies on each level. The panels, which are double on the outside surface and single on the inside, form a sandwich system with a ventilated central cavity containing sophisticated sunlight control devices to allow a notable reduction in the use of air-conditioning. Despite the building’s unusual appearance, form and function come together to create an architectural machine capable of withstanding any stress that might compromise its static properties. The skyscraper’s unusual aerodynamic design is the result of research into a set of gradually increasing curvatures calculated by means of parametric computer modeling; the rounded conical section makes it possible to control air flows around the building, thereby reducing the amount of air pressure at square level, while the spiral-shaped steel structure (marking the building diagonally) ensures greater energy efficiency and lighting intensity. The use of special materials, the futuristic egg-shaped form, and the innovative eco-compatible system make this one of the most distinctive architectural objects on the London skyline. So can we talk about a “before” and “after” Swiss Re Tower? We know about the “before”; as far as the future is concerned, current trends seem to favor maximum freedom, moving beyond box-shaped architectural forms, parallelepipeds whose stylistic design is constrained by the notion of a facade. What really is changing is the underlying concept of a skyscraper. A change driven not only by technological innovation, but also by a new cultural vision: at the moment, the world of architecture is the bridgehead for innovative processes fuelled by powerful idioms inspired by fiction, realms of imagination that take science fiction as one of their main guidelines.

Viste del grattacielo costituito da 40 piani a pianta circolare. Nelle pagine successive, lo skyline della riva del Tamigi con la nuova torre. La forma del grattacielo è frutto di una ricerca su una serie di curvature progressive definite con l’aiuto di una modellazione parametrica al computer. Views of the 40-story circular plan skyscraper. Following pages, the Thames skyline with the new tower. The shape of the skyscraper is the result of a study on a series of progressive curves defined with the aid of parametric computer-modeling techniques.

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Schizzi concettuali per lo studio della dinamica del vento sulla torre che si innalza per 179,8 metri e ha una superficie utile di 76.400 mq. Conceptual sketches for analysis of the wind dynamics on the tower, which is 179.8 meters high and has a surface area of 76,400 sq.m.

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he “pine cone” on the London skyline is certainly a formidable conquest for anybody aspiring for something really new. Nevertheless, apart from the image of a pine cone, the Swiss Re Tower, the new headquarters of the Swiss Reinsurance Company, undoubtedly conjures up something less innocent, something that might even be described as “bellicose”; which, considering Switzerland’s neutrality over the centuries, is something of an iconic paradox. In actual fact, although the form calls to mind a missile or even a huge egg-shaped bullet, the tower is one of the first eco-compatible skyscrapers to be built in London over recent years. Both its design and the choice of materials are geared to saving energy: approximately fifty percent of the amount used in a similar-size building constructed along conventional lines. The complex section design, working around slabs whose surfaces are divided into radial sections, reveals how the spatial system created by the spiral rotation of the planes is stylistically varied and ideal for circulating air. The forty-story architectural shell is composed of 5,500 diamond-patterned triangular glass panels, whose size varies on each level. The panels, which are double on the outside surface and single on the inside, form a sandwich system with a ventilated central cavity containing sophisticated sunlight control devices to allow a notable reduction in the use of air-conditioning. Despite the building’s unusual appearance, form and function come together to create an architectural machine capable of withstanding any stress that might compromise its static properties. The skyscraper’s unusual aerodynamic design is the result of research into a set of gradually increasing curvatures calculated by means of parametric computer modeling; the rounded conical section makes it possible to control air flows around the building, thereby reducing the amount of air pressure at square level, while the spiral-shaped steel structure (marking the building diagonally) ensures greater energy efficiency and lighting intensity. The use of special materials, the futuristic egg-shaped form, and the innovative eco-compatible system make this one of the most distinctive architectural objects on the London skyline. So can we talk about a “before” and “after” Swiss Re Tower? We know about the “before”; as far as the future is concerned, current trends seem to favor maximum freedom, moving beyond box-shaped architectural forms, parallelepipeds whose stylistic design is constrained by the notion of a facade. What really is changing is the underlying concept of a skyscraper. A change driven not only by technological innovation, but also by a new cultural vision: at the moment, the world of architecture is the bridgehead for innovative processes fuelled by powerful idioms inspired by fiction, realms of imagination that take science fiction as one of their main guidelines.

Viste del grattacielo costituito da 40 piani a pianta circolare. Nelle pagine successive, lo skyline della riva del Tamigi con la nuova torre. La forma del grattacielo è frutto di una ricerca su una serie di curvature progressive definite con l’aiuto di una modellazione parametrica al computer. Views of the 40-story circular plan skyscraper. Following pages, the Thames skyline with the new tower. The shape of the skyscraper is the result of a study on a series of progressive curves defined with the aid of parametric computer-modeling techniques.

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Planimetria generale e, a sinistra dal basso, piante del 39° e del 6° piano; a destra dal basso, piante del 33° e 40° piano. Site plan and, left from the bottom, plans of the 39th and 6th floors; right from bottom, plans of the 33rd and 40th floors.

60

Il salone-bar panoramico al 40° piano. Sotto, la piazza che si apre davanti al monumentale ingresso. The panoramic lounge bar on the 40th floor. Bottom, the plaza in front the monumental main entrance.

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Planimetria generale e, a sinistra dal basso, piante del 39° e del 6° piano; a destra dal basso, piante del 33° e 40° piano. Site plan and, left from the bottom, plans of the 39th and 6th floors; right from bottom, plans of the 33rd and 40th floors.

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Il salone-bar panoramico al 40° piano. Sotto, la piazza che si apre davanti al monumentale ingresso. The panoramic lounge bar on the 40th floor. Bottom, the plaza in front the monumental main entrance.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Mutazioni cromatiche Changing Colors New York, Westin New York at Times Square New York, Westin New York at Times Square Progetto di Arquitectonica Project by Arquitectonica

62

Schizzo preliminare in cui sono già evocate le caratteristiche architettoniche del Westin Hotel. Pagina a fianco, Times Square e le mille luci della pubblicità e del mondo dello spettacolo. Preliminary sketch in which the architectural features of the Westin Hotel are already recognizable. Facing page, Times Square and the myriad advertising and entertainment lights.

I

l tema dell’hotel come progetto di architettura sembra afflitto da uno stereotipo piuttosto diffuso che si può riassumere nell’aforisma: “il massimo del comfort non coincide mai col massimo della bellezza”. Vero o non vero, sta di fatto che, a parte la gloriosa stagione degli hotel realizzati fra l’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la situazione è davvero desolante. Difficile capire a fondo dove sia il nodo del problema e forse i nodi sono più di uno e andrebbero ricercati con

strumenti disciplinari adeguati. Una cosa però è certa: la committenza, in quanto parte economica della realizzazione degli edifici, non può non considerarsi corresponsabile di una produzione di così mediocre livello. Insomma, le grandi compagnie che costruiscono hotel pare soffrano di allergia acuta verso tutto ciò che è innovativo, e quindi si affidano alla tradizione, poiché ritenuta meno scostante e più rassicurante rispetto al nuovo. Bernardo Fort-Brescia e Laurinda Hope Spear, titolari di Arquitectonica, con il Westin Hotel at Times Square hanno cercato di aggirare l’ostacolo, puntando sullo straniamento tipologico, ovvero realizzando un hotel che non sembri un hotel, ma un oggetto a scala urbana più simile a un’installazione, cioè a una struttura effimera, che a un edificio immediatamente riconoscibile per la sua destinazione funzionale. La costruzione è connotata da un accentuato cromatismo e da una composizione simile a un’opera d’arte astratta, quindi avulsa da qualsiasi funzione che non sia quella di rappresentare un concetto estetico. Il risultato ottenuto è quello di una struttura fortemente comunicativa e in perfetta mimesi con il rutilante paesaggio urbano di Times Square, luogo ad alta densità di insegne al neon e di megaschermi televisivi sempre accesi. Realizzato nell’ambito di un concorso internazionale bandito nel 1994 dalla Urban Development Corporation di New York, l’hotel è stato costruito da Tishman Realty & Construction Co., Inc. a Manhattan, nel cuore della New York che non va mai a dormire, quella degli eccessi, come quando a capodanno centinaia di migliaia di persone confluiscono nella piazza per assistere allo show della palla illuminata sospesa nel cielo: l’evento dura soltanto novanta secondi ma pare mandi in delirio una folla desiderosa di facili emozioni. Nonostante la forma “anomala”, il Westin offre uno standard d’accoglienza di tutto rispetto: 863 camere, di cui 34 suites, e numerosi servizi quali ristoranti, spazi dedicati al fitness, bar e sale da intrattenimento. Se l’esterno dell’hotel brilla come un’immensa insegna pubblicitaria, gli interni non sono da meno e ricordano, attraverso l’acceso cromatismo degli arredi, le colorate atmosfere dei paesaggi della Florida: i progettisti, infatti, sono originari di Miami e la loro provenienza culturale è spesso il valore aggiunto per edifici di ogni tipologia e dimensione, diffusi a livello internazionale.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Mutazioni cromatiche Changing Colors New York, Westin New York at Times Square New York, Westin New York at Times Square Progetto di Arquitectonica Project by Arquitectonica

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Schizzo preliminare in cui sono già evocate le caratteristiche architettoniche del Westin Hotel. Pagina a fianco, Times Square e le mille luci della pubblicità e del mondo dello spettacolo. Preliminary sketch in which the architectural features of the Westin Hotel are already recognizable. Facing page, Times Square and the myriad advertising and entertainment lights.

I

l tema dell’hotel come progetto di architettura sembra afflitto da uno stereotipo piuttosto diffuso che si può riassumere nell’aforisma: “il massimo del comfort non coincide mai col massimo della bellezza”. Vero o non vero, sta di fatto che, a parte la gloriosa stagione degli hotel realizzati fra l’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, la situazione è davvero desolante. Difficile capire a fondo dove sia il nodo del problema e forse i nodi sono più di uno e andrebbero ricercati con

strumenti disciplinari adeguati. Una cosa però è certa: la committenza, in quanto parte economica della realizzazione degli edifici, non può non considerarsi corresponsabile di una produzione di così mediocre livello. Insomma, le grandi compagnie che costruiscono hotel pare soffrano di allergia acuta verso tutto ciò che è innovativo, e quindi si affidano alla tradizione, poiché ritenuta meno scostante e più rassicurante rispetto al nuovo. Bernardo Fort-Brescia e Laurinda Hope Spear, titolari di Arquitectonica, con il Westin Hotel at Times Square hanno cercato di aggirare l’ostacolo, puntando sullo straniamento tipologico, ovvero realizzando un hotel che non sembri un hotel, ma un oggetto a scala urbana più simile a un’installazione, cioè a una struttura effimera, che a un edificio immediatamente riconoscibile per la sua destinazione funzionale. La costruzione è connotata da un accentuato cromatismo e da una composizione simile a un’opera d’arte astratta, quindi avulsa da qualsiasi funzione che non sia quella di rappresentare un concetto estetico. Il risultato ottenuto è quello di una struttura fortemente comunicativa e in perfetta mimesi con il rutilante paesaggio urbano di Times Square, luogo ad alta densità di insegne al neon e di megaschermi televisivi sempre accesi. Realizzato nell’ambito di un concorso internazionale bandito nel 1994 dalla Urban Development Corporation di New York, l’hotel è stato costruito da Tishman Realty & Construction Co., Inc. a Manhattan, nel cuore della New York che non va mai a dormire, quella degli eccessi, come quando a capodanno centinaia di migliaia di persone confluiscono nella piazza per assistere allo show della palla illuminata sospesa nel cielo: l’evento dura soltanto novanta secondi ma pare mandi in delirio una folla desiderosa di facili emozioni. Nonostante la forma “anomala”, il Westin offre uno standard d’accoglienza di tutto rispetto: 863 camere, di cui 34 suites, e numerosi servizi quali ristoranti, spazi dedicati al fitness, bar e sale da intrattenimento. Se l’esterno dell’hotel brilla come un’immensa insegna pubblicitaria, gli interni non sono da meno e ricordano, attraverso l’acceso cromatismo degli arredi, le colorate atmosfere dei paesaggi della Florida: i progettisti, infatti, sono originari di Miami e la loro provenienza culturale è spesso il valore aggiunto per edifici di ogni tipologia e dimensione, diffusi a livello internazionale.

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Piante dei piani tipo del complesso alto 45 piani. Pagina a fianco, l’ingresso del Westin. L’hotel dispone di 863 stanze, di cui 34 suites. Standard floor plans of the 45-story complex. Facing page, the Westin entrance. The hotel has 863 rooms, including 34 suites.

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here seems to be a widespread stereotype surrounding architectural designs for hotels that might be summed up by the following saying: “maximum comfort never coincides with maximum beauty.” Whether that is true or not, there can be no doubt that, apart from a glorious period between the 19th century and the 1920s-30s, the hotel situation is pretty dismal. It is hard to see where the problem lies; indeed, numerous problems may be involved and they all need tackling with the appropriate tools. One thing is for certain: as an economic player in the construction of buildings, clients must take a share of the responsibility for the current mediocre standards. The big hotel constructors seem to be allergic to any kind of innovation, so they rely on tradition since the old is more steady and reassuring than the new. Bernardo Fort-Brescia and Laurinda Hope Spear, the chief architects at Arquitectonica, have tried to get round this obstacle in their project for the Westin Hotel at Times Square by focusing on stylistic estrangement. This meant designing a hotel that looks more like an urban-scale installation than a hotel, in other words, more a temporary structure than a building for an immediately obvious function. The construction has a striking color scheme and is designed like an abstract work of art serving no particular purpose except to represent an aesthetic concept. The resulting structure is highly communicative and perfectly camouflaged in the gleaming Times Square cityscape, with its neon signs and giant TV screens. Designed as part of an international tender organized in 1994 by the New York Urban Development Corporation, the hotel was built by Tishman Realty & Construction Co., Inc. in Manhattan. It is located right in the heart of the city that never sleeps and is renowned for its excesses: excesses like New Year’s Eve, when hundreds of thousands of people flood into the square to watch the illuminated crystal ball drop. The show only lasts ninety seconds but the crowd—primed for easy emotions—literally goes wild. Despite its “strange” form, the Westin boasts very respectable accommodation standards: 863 rooms, including 34 suites, and a full range of facilities including restaurants, fitness rooms, bars and entertainment halls. The outside of the hotel shines like a huge advertising billboard; not to be outdone, the brightly colored interior evokes the lush atmosphere of Florida’s landscapes: the designers are actually originally from Miami and their cultural background often injects something extra into buildings of all sizes and styles located around the world.

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Piante dei piani tipo del complesso alto 45 piani. Pagina a fianco, l’ingresso del Westin. L’hotel dispone di 863 stanze, di cui 34 suites. Standard floor plans of the 45-story complex. Facing page, the Westin entrance. The hotel has 863 rooms, including 34 suites.

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here seems to be a widespread stereotype surrounding architectural designs for hotels that might be summed up by the following saying: “maximum comfort never coincides with maximum beauty.” Whether that is true or not, there can be no doubt that, apart from a glorious period between the 19th century and the 1920s-30s, the hotel situation is pretty dismal. It is hard to see where the problem lies; indeed, numerous problems may be involved and they all need tackling with the appropriate tools. One thing is for certain: as an economic player in the construction of buildings, clients must take a share of the responsibility for the current mediocre standards. The big hotel constructors seem to be allergic to any kind of innovation, so they rely on tradition since the old is more steady and reassuring than the new. Bernardo Fort-Brescia and Laurinda Hope Spear, the chief architects at Arquitectonica, have tried to get round this obstacle in their project for the Westin Hotel at Times Square by focusing on stylistic estrangement. This meant designing a hotel that looks more like an urban-scale installation than a hotel, in other words, more a temporary structure than a building for an immediately obvious function. The construction has a striking color scheme and is designed like an abstract work of art serving no particular purpose except to represent an aesthetic concept. The resulting structure is highly communicative and perfectly camouflaged in the gleaming Times Square cityscape, with its neon signs and giant TV screens. Designed as part of an international tender organized in 1994 by the New York Urban Development Corporation, the hotel was built by Tishman Realty & Construction Co., Inc. in Manhattan. It is located right in the heart of the city that never sleeps and is renowned for its excesses: excesses like New Year’s Eve, when hundreds of thousands of people flood into the square to watch the illuminated crystal ball drop. The show only lasts ninety seconds but the crowd—primed for easy emotions—literally goes wild. Despite its “strange” form, the Westin boasts very respectable accommodation standards: 863 rooms, including 34 suites, and a full range of facilities including restaurants, fitness rooms, bars and entertainment halls. The outside of the hotel shines like a huge advertising billboard; not to be outdone, the brightly colored interior evokes the lush atmosphere of Florida’s landscapes: the designers are actually originally from Miami and their cultural background often injects something extra into buildings of all sizes and styles located around the world.

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Piante di alcuni piani tipo. Standard floor plans.


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Piante di alcuni piani tipo. Standard floor plans.


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Piante di alcuni piani tipo. Standard floor plans.

L’atrio dell’hotel. The hotel lobby.


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Piante di alcuni piani tipo. Standard floor plans.

L’atrio dell’hotel. The hotel lobby.


INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Nuova icona architettonica New Architectural Icon Melbourne, Federation Square Melbourne, Federation Square Progetto di Lab architecture studio + Bates Smart Project by Lab architecture studio + Bates Smart

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Sezione su Federation Square. Pagina a fianco, in alto, prospetto ovest della piazza con, da sinistra a destra, il West Shard, l’ACMI, The Atrium, il Crossbar e il Neo Pub; in basso, l’ingresso dell’ACMI. Section across Federation Square. Facing page, top, west elevation of the square showing, from left to right, the West Shard, the ACMI, The Atrium, the Crossbar and the Neo Pub; bottom, the ACMI entrance.

O

ccupa un intero isolato urbano, ma ciò che maggiormente colpisce è il gigantesco origami delle facciate, una delle maggiori icone architettoniche australiane, come la notissima Sydney Opera House, realizzata nel 1973 su progetto di Jørn Utzon. Alla ricerca di un rinnovamento urbano che proiettasse l’Australia nel novero dei Paesi più all’avanguardia, Melbourne ha realizzato Federation Square che, per complessità e qualità progettuale, è stata definita una delle opere architettoniche più rappresentative di fine millennio. Federation Square è il risultato di un concorso internazionale bandito nella seconda metà degli anni Novanta, vinto dallo studio di architetti Lab di Londra, in associazione con il gruppo australiano Bates Smart. Il progetto, del costo complessivo di circa 450 milioni di dollari, è stata un’iniziativa del governo dello Stato di Victoria con l’appoggio finanziario del comune di Melbourne e del governo federale d’Australia. Elemento connettivo tra il fiume Yarra e il resto della città, il nuovo insediamento è un importante polo attrattivo, sia per la dislocazione centrale sia per i servizi offerti. Il complesso comprende undici edifici, al cui interno sono presenti numerose attività commerciali, luoghi pubblici e spazi culturali, tra cui l’Australian Centre for the Moving Image (ACMI) e la National Gallery of Victoria. Inserito in un contesto variegato, formato da costruzioni storiche di epoche diverse (per esempio la cattedrale di St. Paul) e edifici contemporanei, Federation Square spicca, sia per la notevole dimensione sia anche per la

sua configurazione assolutamente fuori dagli schemi come The Atrium, che afferma la propria unicità attraverso facciate costituite dall’aggregazione a “frattale” delle intelaiature metalliche, modulate attraverso elementi triangolari. Tale sistema è composto di tre materiali: pietra australiana (sandstone), zinco e vetro. La particolare disposizione degli elementi di facciata, tutti con orientamenti diversi, crea una sorta di trompe-l’oeil geometrico, un effetto tridimensionale di straordinaria suggestione, che rende le superfici simili a una grande opera d’arte contemporanea. Federation Square dispone di un sistema in grado di gestire, nel rispetto dei principi di eco-compatibilità, i suoi apparati per il comfort ambientale. All’interno della struttura sorge il Labyrinth, dispositivo per il raffrescamento naturale degli spazi interni. Tale sistema consta di una struttura ipogea posta sotto la piazza, dove una serie di pareti in cemento forma delle celle in cui è convogliata sia l’aria calda sia quella fredda. Il principio utilizzato è quello collaudato del raffrescamento passivo: durante le ore notturne viene immessa aria fredda nei meandri del Labyrinth: la sua stessa configurazione e il trattamento delle pareti favoriscono il movimento continuo dei flussi d’aria, permettendo così lo scambio di calore fra il cemento e l’aria. In sinergia con il Labyrinth, agisce The Atrium che, attraverso facciate costituite da lastre di vetro montate separatamente sulla struttura metallica e provviste di un sistema di apertura, permette ai flussi d’aria calda di entrare e dissipare il calore nella zona alta dell’ambiente.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Nuova icona architettonica New Architectural Icon Melbourne, Federation Square Melbourne, Federation Square Progetto di Lab architecture studio + Bates Smart Project by Lab architecture studio + Bates Smart

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Sezione su Federation Square. Pagina a fianco, in alto, prospetto ovest della piazza con, da sinistra a destra, il West Shard, l’ACMI, The Atrium, il Crossbar e il Neo Pub; in basso, l’ingresso dell’ACMI. Section across Federation Square. Facing page, top, west elevation of the square showing, from left to right, the West Shard, the ACMI, The Atrium, the Crossbar and the Neo Pub; bottom, the ACMI entrance.

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ccupa un intero isolato urbano, ma ciò che maggiormente colpisce è il gigantesco origami delle facciate, una delle maggiori icone architettoniche australiane, come la notissima Sydney Opera House, realizzata nel 1973 su progetto di Jørn Utzon. Alla ricerca di un rinnovamento urbano che proiettasse l’Australia nel novero dei Paesi più all’avanguardia, Melbourne ha realizzato Federation Square che, per complessità e qualità progettuale, è stata definita una delle opere architettoniche più rappresentative di fine millennio. Federation Square è il risultato di un concorso internazionale bandito nella seconda metà degli anni Novanta, vinto dallo studio di architetti Lab di Londra, in associazione con il gruppo australiano Bates Smart. Il progetto, del costo complessivo di circa 450 milioni di dollari, è stata un’iniziativa del governo dello Stato di Victoria con l’appoggio finanziario del comune di Melbourne e del governo federale d’Australia. Elemento connettivo tra il fiume Yarra e il resto della città, il nuovo insediamento è un importante polo attrattivo, sia per la dislocazione centrale sia per i servizi offerti. Il complesso comprende undici edifici, al cui interno sono presenti numerose attività commerciali, luoghi pubblici e spazi culturali, tra cui l’Australian Centre for the Moving Image (ACMI) e la National Gallery of Victoria. Inserito in un contesto variegato, formato da costruzioni storiche di epoche diverse (per esempio la cattedrale di St. Paul) e edifici contemporanei, Federation Square spicca, sia per la notevole dimensione sia anche per la

sua configurazione assolutamente fuori dagli schemi come The Atrium, che afferma la propria unicità attraverso facciate costituite dall’aggregazione a “frattale” delle intelaiature metalliche, modulate attraverso elementi triangolari. Tale sistema è composto di tre materiali: pietra australiana (sandstone), zinco e vetro. La particolare disposizione degli elementi di facciata, tutti con orientamenti diversi, crea una sorta di trompe-l’oeil geometrico, un effetto tridimensionale di straordinaria suggestione, che rende le superfici simili a una grande opera d’arte contemporanea. Federation Square dispone di un sistema in grado di gestire, nel rispetto dei principi di eco-compatibilità, i suoi apparati per il comfort ambientale. All’interno della struttura sorge il Labyrinth, dispositivo per il raffrescamento naturale degli spazi interni. Tale sistema consta di una struttura ipogea posta sotto la piazza, dove una serie di pareti in cemento forma delle celle in cui è convogliata sia l’aria calda sia quella fredda. Il principio utilizzato è quello collaudato del raffrescamento passivo: durante le ore notturne viene immessa aria fredda nei meandri del Labyrinth: la sua stessa configurazione e il trattamento delle pareti favoriscono il movimento continuo dei flussi d’aria, permettendo così lo scambio di calore fra il cemento e l’aria. In sinergia con il Labyrinth, agisce The Atrium che, attraverso facciate costituite da lastre di vetro montate separatamente sulla struttura metallica e provviste di un sistema di apertura, permette ai flussi d’aria calda di entrare e dissipare il calore nella zona alta dell’ambiente.

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La piazza illuminata nelle ore notturne. Pagina a fianco, pianta del piano terra del NGVA. The plaza at night. Facing page, ground floor plan of the NGVA.

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I

t takes up an entire city block, but the most striking feature is the huge origami-style design of the facades, one of Australia’s most notable architectural icons, just like the famous Sydney Opera House designed by Jørn Utzon in 1973. In an attempt to redevelop Australian cities to project the nation to the international cutting-edge, Melbourne decided to build Federation Square, whose design intricacy and quality have created what has been described as one of the most distinctive works of end-of-millennium architecture. The international tender to design Federation Square organized in the mid-1990s was won by the Lab architecture studio from London, in association with the Australian team Bates Smart. The project, whose overall cost was approximately 450 million dollars, was commissioned by the Government of the State of Victoria, with the financial backing of Melbourne City Council and the Australian Federal Government. This new link between the River Yarra and the rest of the city is a real attraction, due to both its central setting and the services it provides. The square is bordered by eleven buildings, comprising a host of business activities, public areas and cultural venues, such as the Australian Centre for the Moving Image (ACMI) and the National Gallery of Victoria. Set in a varied context featuring historical buildings from different periods (St. Paul’s Cathedral, to mention

one) and modern-day buildings, Federation Square stands out for both sheer size and totally non-mainstream design, with constructions such as The Atrium, whose uniqueness is based on facades constructed out of a “fractal” combination of metal frames modulated by triangular elements. Three materials are employed: Australian stone (sandstone), zinc and glass. The layout of the facade elements, all set out in different directions, creates an impressive three-dimensional geometric trompe-l’oeil effect, turning the surfaces into a huge work of contemporary art. Federation Square has its own special eco-compatible system for environmental comfort control. The Labyrinth is an internal device that ensures natural cooling of the interior spaces. It consists of an underground structure located beneath the square, where a set of cement walls forms cells into which both warm and cool air are conveyed. This works along the tried-and-trusted principle of passive cooling: cool air is sent through the winding paths of the Labyrinth: the layout and wall design help generate constantly moving air flows, thereby allowing a heat exchange between the cement and air. The Atrium works in synergy with the Labyrinth; its facades are composed of sheets of glass fitted separately onto the metal structure and featuring a system of apertures to let warm air in and then dissipate heat upwards.

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La piazza illuminata nelle ore notturne. Pagina a fianco, pianta del piano terra del NGVA. The plaza at night. Facing page, ground floor plan of the NGVA.

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t takes up an entire city block, but the most striking feature is the huge origami-style design of the facades, one of Australia’s most notable architectural icons, just like the famous Sydney Opera House designed by Jørn Utzon in 1973. In an attempt to redevelop Australian cities to project the nation to the international cutting-edge, Melbourne decided to build Federation Square, whose design intricacy and quality have created what has been described as one of the most distinctive works of end-of-millennium architecture. The international tender to design Federation Square organized in the mid-1990s was won by the Lab architecture studio from London, in association with the Australian team Bates Smart. The project, whose overall cost was approximately 450 million dollars, was commissioned by the Government of the State of Victoria, with the financial backing of Melbourne City Council and the Australian Federal Government. This new link between the River Yarra and the rest of the city is a real attraction, due to both its central setting and the services it provides. The square is bordered by eleven buildings, comprising a host of business activities, public areas and cultural venues, such as the Australian Centre for the Moving Image (ACMI) and the National Gallery of Victoria. Set in a varied context featuring historical buildings from different periods (St. Paul’s Cathedral, to mention

one) and modern-day buildings, Federation Square stands out for both sheer size and totally non-mainstream design, with constructions such as The Atrium, whose uniqueness is based on facades constructed out of a “fractal” combination of metal frames modulated by triangular elements. Three materials are employed: Australian stone (sandstone), zinc and glass. The layout of the facade elements, all set out in different directions, creates an impressive three-dimensional geometric trompe-l’oeil effect, turning the surfaces into a huge work of contemporary art. Federation Square has its own special eco-compatible system for environmental comfort control. The Labyrinth is an internal device that ensures natural cooling of the interior spaces. It consists of an underground structure located beneath the square, where a set of cement walls forms cells into which both warm and cool air are conveyed. This works along the tried-and-trusted principle of passive cooling: cool air is sent through the winding paths of the Labyrinth: the layout and wall design help generate constantly moving air flows, thereby allowing a heat exchange between the cement and air. The Atrium works in synergy with the Labyrinth; its facades are composed of sheets of glass fitted separately onto the metal structure and featuring a system of apertures to let warm air in and then dissipate heat upwards.

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Uno dei percorsi in quota dell’NGVA e, in basso, il complesso dell’ACMI. Pagina a fianco, planimetria generale. One of the overhead pathways of the NGVA and, bottom, the ACMI complex. Facing page, site plan.

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Uno dei percorsi in quota dell’NGVA e, in basso, il complesso dell’ACMI. Pagina a fianco, planimetria generale. One of the overhead pathways of the NGVA and, bottom, the ACMI complex. Facing page, site plan.

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La piazza di 7.500 mq durante il giorno diventa centro della vita pubblica della città. Il complesso dispone di un anfiteatro che può contenere fino a 35.000 persone. The 7,500-square-meter plaza is the hub of city life during the daytime. The complex includes an amphitheater that can hold up to 35,000 people.

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76

Il nuovo complesso inserito nel contesto urbano di Melbourne. In basso, l’interno di The Atrium, spazio pubblico di 3.250 mq. The new complex set in the Melbourne cityscape. Bottom, the interior of The Atrium, a 3,250-square-meter public space.


La piazza di 7.500 mq durante il giorno diventa centro della vita pubblica della città. Il complesso dispone di un anfiteatro che può contenere fino a 35.000 persone. The 7,500-square-meter plaza is the hub of city life during the daytime. The complex includes an amphitheater that can hold up to 35,000 people.

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Il nuovo complesso inserito nel contesto urbano di Melbourne. In basso, l’interno di The Atrium, spazio pubblico di 3.250 mq. The new complex set in the Melbourne cityscape. Bottom, the interior of The Atrium, a 3,250-square-meter public space.


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Interno di The Atrium, caratterizzato dalla struttura in acciaio zincato organizzata secondo una maglia tridimensionale con una doppia pelle di pannelli in grado di realizzare la regolazione passiva della temperatura interna. Interior of The Atrium, which features a galvanized steel structure set out on a three-dimensional web with a double layer of paneling for passive internal temperature control.

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Interno di The Atrium, caratterizzato dalla struttura in acciaio zincato organizzata secondo una maglia tridimensionale con una doppia pelle di pannelli in grado di realizzare la regolazione passiva della temperatura interna. Interior of The Atrium, which features a galvanized steel structure set out on a three-dimensional web with a double layer of paneling for passive internal temperature control.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Fluidodinamica applicata Applied Fluid Dynamics Hoofddorp, stazione degli autobus Fluid Vehicle Hoofddorp, Fluid Vehicle Bus Station Progetto di Maurice Nio Project by Maurice Nio

80

Sezioni trasversali e longitudinali. Pagina a fianco, il Fluid Vehicle sorge nello spiazzo antistante l’ospedale della città. Cross and longitudinal sections. Opposite, the Fluid Vehicle faces the city hospital.

A

lcune materie plastiche hanno la proprietà di mutare il loro appeal estetico in relazione alla dimensione: il polistirene, per esempio, in forma di oggetto domestico rivela la sua condizione di prodotto seriale, dunque di oggetto a basso costo. Se invece si tratta di una struttura a scala urbana diviene “altro”, si trasforma in una presenza dalla forte carica estetica. La materia è la stessa, ma cambia la relazione con l’intorno e, soprattutto, con il corpo. Tuttavia, la percezione non è mai riferibile a un’architettura bensì a un oggetto fuori scala, a una scultura spaziale. Oggetto al limite delle sue potenzialità dimensionali, la stazione degli autobus Fluid Vehicle pare sia la più grande struttura finora mai realizzata in polistirene. Tale primato potrebbe però essere presto superato. Insomma, l’architettura potrebbe farsi portatrice di una rinascita della Pop Art come espressione di un’arte diffusa a scala territoriale. In un’epoca in cui l’effimero pare essere l’unità di misura che governa il cambiamento, l’“architettura di plastica” avrebbe un suo ruolo come veicolo di comunicazione. La presenza nelle aree metropolitane di manufatti realizzati in materiale sintetico certo favorirebbe la riflessione sulla mancanza di cultura del riciclaggio, una pratica che, con l’evolu-

zione tecnologica in atto, ha prodotto materiali di grande interesse grazie alla capacità di fondersi fra loro, dando vita a sorprendenti composti che, per consistenza, colore e aspetto, richiamano materie presenti anche in natura. Una natura aliena, si direbbe nel caso in questione, una sorta di archetipo proveniente da un passato che potrebbe anche trasformarsi in costruzione di futuro, qualora si decidesse di dar seguito a un linguaggio in grado di dominare la materia con la forza propulsiva delle leggi della fluidodinamica. Paragonabile per slancio a un’onda anomala, la stazione degli autobus di Hoofddorp è un corpo compatto autoportante, realizzato per pezzi in schiuma di polistirene e assemblato in laboratorio. Il tutto protetto da una guaina in poliestere. Luogo di terra e d’acqua, l’Olanda è un Paese dove l’architettura sembra autogenerarsi sul flusso e il riflusso; non a caso architetti come Nio, Kas Oosterhuis e altri hanno una produzione architettonica basata su ricerche di materiali, soprattutto guaine speciali, in grado di comportarsi alla maniera di una pelle flessibile per potersi meglio adattare a configurazioni spaziali fluide e di grande complessità realizzativa.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Fluidodinamica applicata Applied Fluid Dynamics Hoofddorp, stazione degli autobus Fluid Vehicle Hoofddorp, Fluid Vehicle Bus Station Progetto di Maurice Nio Project by Maurice Nio

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Sezioni trasversali e longitudinali. Pagina a fianco, il Fluid Vehicle sorge nello spiazzo antistante l’ospedale della città. Cross and longitudinal sections. Opposite, the Fluid Vehicle faces the city hospital.

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lcune materie plastiche hanno la proprietà di mutare il loro appeal estetico in relazione alla dimensione: il polistirene, per esempio, in forma di oggetto domestico rivela la sua condizione di prodotto seriale, dunque di oggetto a basso costo. Se invece si tratta di una struttura a scala urbana diviene “altro”, si trasforma in una presenza dalla forte carica estetica. La materia è la stessa, ma cambia la relazione con l’intorno e, soprattutto, con il corpo. Tuttavia, la percezione non è mai riferibile a un’architettura bensì a un oggetto fuori scala, a una scultura spaziale. Oggetto al limite delle sue potenzialità dimensionali, la stazione degli autobus Fluid Vehicle pare sia la più grande struttura finora mai realizzata in polistirene. Tale primato potrebbe però essere presto superato. Insomma, l’architettura potrebbe farsi portatrice di una rinascita della Pop Art come espressione di un’arte diffusa a scala territoriale. In un’epoca in cui l’effimero pare essere l’unità di misura che governa il cambiamento, l’“architettura di plastica” avrebbe un suo ruolo come veicolo di comunicazione. La presenza nelle aree metropolitane di manufatti realizzati in materiale sintetico certo favorirebbe la riflessione sulla mancanza di cultura del riciclaggio, una pratica che, con l’evolu-

zione tecnologica in atto, ha prodotto materiali di grande interesse grazie alla capacità di fondersi fra loro, dando vita a sorprendenti composti che, per consistenza, colore e aspetto, richiamano materie presenti anche in natura. Una natura aliena, si direbbe nel caso in questione, una sorta di archetipo proveniente da un passato che potrebbe anche trasformarsi in costruzione di futuro, qualora si decidesse di dar seguito a un linguaggio in grado di dominare la materia con la forza propulsiva delle leggi della fluidodinamica. Paragonabile per slancio a un’onda anomala, la stazione degli autobus di Hoofddorp è un corpo compatto autoportante, realizzato per pezzi in schiuma di polistirene e assemblato in laboratorio. Il tutto protetto da una guaina in poliestere. Luogo di terra e d’acqua, l’Olanda è un Paese dove l’architettura sembra autogenerarsi sul flusso e il riflusso; non a caso architetti come Nio, Kas Oosterhuis e altri hanno una produzione architettonica basata su ricerche di materiali, soprattutto guaine speciali, in grado di comportarsi alla maniera di una pelle flessibile per potersi meglio adattare a configurazioni spaziali fluide e di grande complessità realizzativa.

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Planimetria generale e pianta. Site plan and building plan.

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S

ome plastics seem to be able to alter their aesthetic appeal in relation to size: polystyrene, for instance, when used as a domestic object, reveals its propensity for low-cost mass production. But it turns into something else when used as an urbanscale structure, literally bursting with aesthetic force. The material is the same, but it relates differently to its surroundings and, most significantly, to the human body. Nevertheless, perception is never related to architecture but rather to an over-sized object, a spatial sculpture. As an object taken to its dimensional extremes, the Fluid Vehicle Bus Station may well be the biggest object ever made of polystyrene. But this record could easily be beaten quite soon. Architecture could well foster a revival of Pop Art as a popular territorial-scale form of art. In an age in which the transient seems to be the measure of change, “plastic architecture� will have its part to play as a means of communication. The presence of buildings made from synthetic material in metropolitan areas would certainly focus attention on the absence of a culture geared to recycling, a practice which, driven by rapid technological progress, has produced some high-

ly interesting materials thanks to their ability to blend together, generating some startling compounds, whose consistency, color and appearance call to mind materials found in nature. Alien nature, it might be said in this case, a sort of archetype from the past that might turn into a construction of the future, if designers were to develop an idiom capable of dominating matter through the driving force of the laws of fluid dynamics. Comparable in terms of thrust to a rogue wave, Hoofddorp Bus Station is a compact self-supporting construction made from pieces of polystyrene foam assembled in the workshop. The whole structure is protected by a polyester sheath. The Netherlands, a land of earth and water, is a country in which architecture seems to regenerate itself in a sort of ebb and flow; it is no coincidence that architects like Nio, Kas Oosterhuis and others design their works based on research into materials, particularly special sheaths capable of acting like a flexible skin to adapt most effectively to fluid spatial configurations of great structural complexity.

La struttura è stata realizzata in pezzi separati in schiuma di polistirene e poi composta in laboratorio. The structure was built from separate pieces of polystyrene foam and then assembled in the workshop.

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Planimetria generale e pianta. Site plan and building plan.

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ome plastics seem to be able to alter their aesthetic appeal in relation to size: polystyrene, for instance, when used as a domestic object, reveals its propensity for low-cost mass production. But it turns into something else when used as an urbanscale structure, literally bursting with aesthetic force. The material is the same, but it relates differently to its surroundings and, most significantly, to the human body. Nevertheless, perception is never related to architecture but rather to an over-sized object, a spatial sculpture. As an object taken to its dimensional extremes, the Fluid Vehicle Bus Station may well be the biggest object ever made of polystyrene. But this record could easily be beaten quite soon. Architecture could well foster a revival of Pop Art as a popular territorial-scale form of art. In an age in which the transient seems to be the measure of change, “plastic architecture� will have its part to play as a means of communication. The presence of buildings made from synthetic material in metropolitan areas would certainly focus attention on the absence of a culture geared to recycling, a practice which, driven by rapid technological progress, has produced some high-

ly interesting materials thanks to their ability to blend together, generating some startling compounds, whose consistency, color and appearance call to mind materials found in nature. Alien nature, it might be said in this case, a sort of archetype from the past that might turn into a construction of the future, if designers were to develop an idiom capable of dominating matter through the driving force of the laws of fluid dynamics. Comparable in terms of thrust to a rogue wave, Hoofddorp Bus Station is a compact self-supporting construction made from pieces of polystyrene foam assembled in the workshop. The whole structure is protected by a polyester sheath. The Netherlands, a land of earth and water, is a country in which architecture seems to regenerate itself in a sort of ebb and flow; it is no coincidence that architects like Nio, Kas Oosterhuis and others design their works based on research into materials, particularly special sheaths capable of acting like a flexible skin to adapt most effectively to fluid spatial configurations of great structural complexity.

La struttura è stata realizzata in pezzi separati in schiuma di polistirene e poi composta in laboratorio. The structure was built from separate pieces of polystyrene foam and then assembled in the workshop.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Spazio luce colore Space Light Color Montreal, nuovo Palazzo dei Congressi Montreal, New Congress Hall Progetto di Tétrault, Dubuc, Saia con Hal Ingberg Project by Tétrault, Dubuc, Saia with Hal Ingberg

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Particolare della facciata lungo Rue de Bleury. Pagina a fianco, un interno dominato da un’infinita gamma di colori e rispecchiamenti. Detail of the facade along Rue de Bleury. Facing page, an interior designed around an endless array of colors and reflections.

S

ostanzialmente acromatica, tendenzialmente asettica, l’architettura contemporanea sta comunque vivendo un momento di ripensamento. L’intenzione sottesa è il graduale affrancamento dal dictat post-razionalista. Oltre al rinnovamento dei linguaggi, si punta molto anche sulla valorizzazione del colore quale elemento identitario. Esempio eclatante del cambio di direzione, l’ampliamento del Palazzo dei Congressi di Montreal dimostra come l’elemento cromatico sia in grado di rinnovare l’ambiente urbano senza snaturarne l’identità contestuale, le origini storiche sedimentatesi nel corso del tempo. Posto in un’area di confine fra il centro storico e la zona di più recente costruzione, il nuovo complesso congressuale è un unicum, e in quanto tale non in grado di creare interferenze al suo intorno; anzi, è un’ottima occasione per valorizzarne la diversità. Metropoli intensamente connotata della presenza di moltissime

culture – le principali sono naturalmente quella francese e quella nordamericana – Montreal ha accolto il nuovo insediamento come espressione di un ottimismo proprio delle società relativamente giovani e composite. Impossibile non intravedere nell’ampia gamma cromatica del Palazzo un forte riferimento simbolico alla multiculturalità della città canadese. Realizzato nel 2003 sulla base del progetto vincitore del concorso internazionale bandito nel 1999, l’ampliamento aveva come obiettivo l’eliminazione della barriera psicologica e urbana rappresentata dal vecchio palazzo tramite un nuovo edificio che lo collegasse al centro storico della città e ai passaggi sotterranei che formano l’adiacente Cité Internationale. Era inoltre richiesta la costruzione di un grande spazio destinato alle esposizioni e il raddoppiamento degli spazi per gli incontri e le conferenze. Elemento focale dell’intervento, la nuova Hall Bleury si evidenzia per la particolare facciata costituita da vetri trasparenti, vivacemente colorati, un forte segnale proiettato lungo rue de Bleury. Gli interni sono caratterizzati da un complesso gioco di luci, di riflessi ed effetti cromatici di notevole raffinatezza, il tutto ottenuto grazie all’utilizzo di montanti colorati che si riflettono sulle pareti specchiate. Policromie ed “effetti speciali”, tutti prodotti attraverso un’accurata regia di drammatizzazione cromatica dello spazio, sono ottenuti grazie alla rifrazione e riflessione della luce. Una luce che pervade gli ambienti, creando così un luogo per certi versi surreale ed emotivamente coinvolgente, uno spazio pubblico davvero singolare in cui ognuno può ritagliarsi un frammento di arcobaleno. Il nuovo Palazzo comprende un edificio con pianta a “L” che si connette all’esistente galleria pedonale, dividendosi in tre “anelli” concettuali: la parte più esterna d’ogni anello contiene varie attività commerciali, mentre le aperture interne accolgono gli spazi di servizio, le rampe per gli autocarri, la stazione dei bus; tra ogni anello, due passaggi pedonali riconnettono il nuovo edificio alla città storica.

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INNOVAZIONE E COMPETITIVITÀ INNOVATION AND COMPETITIVENESS

Spazio luce colore Space Light Color Montreal, nuovo Palazzo dei Congressi Montreal, New Congress Hall Progetto di Tétrault, Dubuc, Saia con Hal Ingberg Project by Tétrault, Dubuc, Saia with Hal Ingberg

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Particolare della facciata lungo Rue de Bleury. Pagina a fianco, un interno dominato da un’infinita gamma di colori e rispecchiamenti. Detail of the facade along Rue de Bleury. Facing page, an interior designed around an endless array of colors and reflections.

S

ostanzialmente acromatica, tendenzialmente asettica, l’architettura contemporanea sta comunque vivendo un momento di ripensamento. L’intenzione sottesa è il graduale affrancamento dal dictat post-razionalista. Oltre al rinnovamento dei linguaggi, si punta molto anche sulla valorizzazione del colore quale elemento identitario. Esempio eclatante del cambio di direzione, l’ampliamento del Palazzo dei Congressi di Montreal dimostra come l’elemento cromatico sia in grado di rinnovare l’ambiente urbano senza snaturarne l’identità contestuale, le origini storiche sedimentatesi nel corso del tempo. Posto in un’area di confine fra il centro storico e la zona di più recente costruzione, il nuovo complesso congressuale è un unicum, e in quanto tale non in grado di creare interferenze al suo intorno; anzi, è un’ottima occasione per valorizzarne la diversità. Metropoli intensamente connotata della presenza di moltissime

culture – le principali sono naturalmente quella francese e quella nordamericana – Montreal ha accolto il nuovo insediamento come espressione di un ottimismo proprio delle società relativamente giovani e composite. Impossibile non intravedere nell’ampia gamma cromatica del Palazzo un forte riferimento simbolico alla multiculturalità della città canadese. Realizzato nel 2003 sulla base del progetto vincitore del concorso internazionale bandito nel 1999, l’ampliamento aveva come obiettivo l’eliminazione della barriera psicologica e urbana rappresentata dal vecchio palazzo tramite un nuovo edificio che lo collegasse al centro storico della città e ai passaggi sotterranei che formano l’adiacente Cité Internationale. Era inoltre richiesta la costruzione di un grande spazio destinato alle esposizioni e il raddoppiamento degli spazi per gli incontri e le conferenze. Elemento focale dell’intervento, la nuova Hall Bleury si evidenzia per la particolare facciata costituita da vetri trasparenti, vivacemente colorati, un forte segnale proiettato lungo rue de Bleury. Gli interni sono caratterizzati da un complesso gioco di luci, di riflessi ed effetti cromatici di notevole raffinatezza, il tutto ottenuto grazie all’utilizzo di montanti colorati che si riflettono sulle pareti specchiate. Policromie ed “effetti speciali”, tutti prodotti attraverso un’accurata regia di drammatizzazione cromatica dello spazio, sono ottenuti grazie alla rifrazione e riflessione della luce. Una luce che pervade gli ambienti, creando così un luogo per certi versi surreale ed emotivamente coinvolgente, uno spazio pubblico davvero singolare in cui ognuno può ritagliarsi un frammento di arcobaleno. Il nuovo Palazzo comprende un edificio con pianta a “L” che si connette all’esistente galleria pedonale, dividendosi in tre “anelli” concettuali: la parte più esterna d’ogni anello contiene varie attività commerciali, mentre le aperture interne accolgono gli spazi di servizio, le rampe per gli autocarri, la stazione dei bus; tra ogni anello, due passaggi pedonali riconnettono il nuovo edificio alla città storica.

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Piante dei livelli quinto e terra. Plans of the fifth and ground floors.

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asically colorless, even cold, modern-day architecture is currently rethinking itself. In the attempt to break free from post-rationalist dictates, the underlying idea is to update idioms and, above all, exploit color as a means of instilling identity. The extension to the Montreal Congress Hall is a striking example of this change in direction and shows how color can actually upgrade an urban setting, without interfering with contextual connotations or historical roots that have been entrenched for years. Set in a location between the old city center and a recently developed area, the new conference facility is a unicum, and as such it does not interfere with its surroundings; on the contrary, it provides an excellent opportunity to enhance their distinctive features. Montreal is a large city in which plenty of different cultures flourish—notably French and North American of course—and it has embraced this new design as the embodiment of the kind of optimism associated with a young and multilayered society. The Congress Hall’s wide range of colors are bound to be seen as a symbolic allusion to the multi-cultured nature of this Canadian city. Built in 2003 following an international tender organized in 1999, the extension was designed to remove the psychological and urban barrier constituted by the old building by

creating a new facility linking it to the old city center and the subways of the adjoining Cité Internationale. The tender also called for the construction of a large exhibition space and the doubling of the meeting and conference venues. As the hub of the entire design, the new Hall Bleury stands out for its distinctive facade made of brightly colored transparent glass, a powerful sign projecting along Rue de Bleury. The interiors feature an intricate interplay of light, reflections and color effects of great elegance, all obtained through the use of colored stanchions reflected on the mirrored walls. The multi-colors and “special effects” produced by a carefully orchestrated combination of spatial color are achieved by refracted and reflected light flowing throughout the complex to create an environment that, in certain respects, is surreal and emotionally involving, a truly distinctive public space in which everybody can get their piece of the rainbow. The new Congress Hall includes an L-shaped building connected to the old pedestrian arcade, formed of three conceptual “rings”: the outermost part of each ring contains a variety of business activities, while the inner openings contain utility spaces, ramps for trucks and the bus station; two pedestrian ways placed between each ring reconnect the new building to the old city.

L’intervento di ampliamento del Palazzo dei Congressi, caratterizzato da facciate in vetri trasparenti colorati. The extension to the Congress Hall featuring facades made of colored transparent glass panels.

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Piante dei livelli quinto e terra. Plans of the fifth and ground floors.

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asically colorless, even cold, modern-day architecture is currently rethinking itself. In the attempt to break free from post-rationalist dictates, the underlying idea is to update idioms and, above all, exploit color as a means of instilling identity. The extension to the Montreal Congress Hall is a striking example of this change in direction and shows how color can actually upgrade an urban setting, without interfering with contextual connotations or historical roots that have been entrenched for years. Set in a location between the old city center and a recently developed area, the new conference facility is a unicum, and as such it does not interfere with its surroundings; on the contrary, it provides an excellent opportunity to enhance their distinctive features. Montreal is a large city in which plenty of different cultures flourish—notably French and North American of course—and it has embraced this new design as the embodiment of the kind of optimism associated with a young and multilayered society. The Congress Hall’s wide range of colors are bound to be seen as a symbolic allusion to the multi-cultured nature of this Canadian city. Built in 2003 following an international tender organized in 1999, the extension was designed to remove the psychological and urban barrier constituted by the old building by

creating a new facility linking it to the old city center and the subways of the adjoining Cité Internationale. The tender also called for the construction of a large exhibition space and the doubling of the meeting and conference venues. As the hub of the entire design, the new Hall Bleury stands out for its distinctive facade made of brightly colored transparent glass, a powerful sign projecting along Rue de Bleury. The interiors feature an intricate interplay of light, reflections and color effects of great elegance, all obtained through the use of colored stanchions reflected on the mirrored walls. The multi-colors and “special effects” produced by a carefully orchestrated combination of spatial color are achieved by refracted and reflected light flowing throughout the complex to create an environment that, in certain respects, is surreal and emotionally involving, a truly distinctive public space in which everybody can get their piece of the rainbow. The new Congress Hall includes an L-shaped building connected to the old pedestrian arcade, formed of three conceptual “rings”: the outermost part of each ring contains a variety of business activities, while the inner openings contain utility spaces, ramps for trucks and the bus station; two pedestrian ways placed between each ring reconnect the new building to the old city.

L’intervento di ampliamento del Palazzo dei Congressi, caratterizzato da facciate in vetri trasparenti colorati. The extension to the Congress Hall featuring facades made of colored transparent glass panels.

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Dettagli dei vetri colorati. Sotto, pianta del secondo livello. Details of the colored glass panels. Below, second-floor plan.

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Dettagli dei vetri colorati. Sotto, pianta del secondo livello. Details of the colored glass panels. Below, second-floor plan.

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Particolari della nuova struttura in relazione alla struttura preesistente e la scala mobile dell’atrio. Details of the new structure in relation to the old one and the lobby escalator.

Particolare di un interno e, in basso, l’entrata su Rue de Bleury. Detail of an interior and, bottom, the Rue de Bleury entrance.

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Particolari della nuova struttura in relazione alla struttura preesistente e la scala mobile dell’atrio. Details of the new structure in relation to the old one and the lobby escalator.

Particolare di un interno e, in basso, l’entrata su Rue de Bleury. Detail of an interior and, bottom, the Rue de Bleury entrance.

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News

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Turbocem, nuova nave cementiera Turbocem, a new cement carrier

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Turbocem, nuova nave cementiera Turbocem, a new cement carrier Cementos Rezola ospita Ricardo Díez-Hochleitner Cementos Rezola hosts Ricardo Díez-Hochleitner Un futuro per i bambini dello Sri Lanka A Future for the Children of Sri Lanka Quando il cemento diventa arte When Cement becomes Art

talcementi Group entra direttamente nel settore del trasporto via mare del cemento sfuso. È stata varata a Dordrecht (Olanda) la motonave M/V Turbocem, nave cementiera autoscaricante da 5.500 tonnellate di portata netta. Turbocem fa capo a Medcem, joint venture paritetica costituita da Intercom (Italcementi Group) e Romeo Shipping (Gruppo Romeo) che già opera come partner logistico di Italcementi per il trasporto navale di cemento e di altri intermedi e materie prime. L’investimento per la realizzazione della nuova nave è stato nell’ordine dei 6,5 milioni di euro, e rappresenta il primo passo di una strategia che porterà Italcementi Group a incrementare in futuro la presenza diretta nel trasporto marittimo. Con questa iniziativa Italcementi intende assicurarsi con mezzi propri la continuità nel trasporto del cemento ai terminali marittimi del Gruppo in area mediterranea, anche alla luce del forte incremento del costo dei noli marittimi emerso a partire dal 2003 e che è previsto in ulteriore rialzo

per i prossimi anni. L’aver effettuato un investimento diretto nel settore del trasporto marittimo – è stato sottolineato nel corso della cerimonia di varo della nave nei cantieri Van Aalst lo scorso aprile – permetterà a Italcementi Group una maggiore flessibilità ed economicità nel trasporto di cemento via mare per far fronte con più tempestività alle richieste del mercato. Le caratteristiche di una nave autoscaricante permettono, infatti, di trasbordare il cemento direttamente – e quindi con impatto ecologico pari a zero – dalla nave ai sili portuali del Gruppo oppure alle autobotti per la consegna finale del prodotto. Turbocem, che batte bandiera italiana, sarà prevalentemente impiegata nel bacino del Mediterraneo dove Italcementi Group ricopre un ruolo di leadership, approvvigionandosi presso gli impianti – spesso situati in prossimità della costa – di Spagna, Francia, Italia, Grecia, Cipro, Turchia, Egitto oltre a quelli della Bulgaria sul Mar Nero.

Turbocem, che si avvarrà dei terminal portuali italiani di Italcementi (Ortona, Marghera, Ancona, La Spezia, e prossimamente Ravenna e Genova), sarà impegnata su tratte di navigazione con durata compresa fra i 3 e i 6 giorni e garantirà la copertura del 10-15% del traffico totale di Italcementi Group nell’area del Mediterraneo, per un totale annuo di circa 150.000 tonnellate di cemento trasportato. ■ ■ ■ ■ ■ ■

I

talcementi Group has made a direct move into the sea transport business for bulk cement with the launch in Dordrecht (Netherlands) of the M/V Turbocem—a self-unloading cement carrier with a 5,500 tonne net load capacity. Turbocem is controlled by Medcem, an equally owned joint venture set up by Intercom (Italcementi Group) and Romeo Shipping (Romeo Group), which already operates as a logistic partner for Italcementi in the shipping of cement and other intermediate goods

TURBOCEM – SCHEDA TECNICA

TURBOCEM - TECHNICAL DETAILS

Nome della nave: M/V TURBOCEM Numero IMO: 8906482 Tipo di nave: nave cementiera autoscaricante con impianto meccanico-pneumatico Stato di Bandiera: Italia Compartimento: Napoli Ente di classifica: Bureau Veritas Codice identificativo internazionale: I Z O E Anno costruzione: 1992 nel cantiere SEDEF (Turchia) Lunghezza: 92,80 m Larghezza: 17,00 m Pescaggio: 06,68 m Portata lorda: 6037 tonnellate Stazza lorda/netta: 3779/1731 tonnellate Stive: 2 autostivanti ad alta pressione Capacità di scarico: 250 m/ora a distanza di 300 m e con 30° di dislivello Capacità di scaricare su 4 camion contemporaneamente Adatto per fungere da silo galleggiante Motore principale: MaK 2.650 Kw Motori ausiliari: 3 Scania + 4 caterpillar solo per lo scarico Equipaggiato con thruster di prua e di poppa

Vessel name: M/V TURBOCEM IMO Number: 8906482 Vessel Type: Pneumatic/mechanical self-unloading cement carrier Flag: Italy Port of Registry: Naples Classification body: Bureau Veritas International Call Sign: I Z O E Year of construction: 1992 at the SEDEF naval yard (Turkey) LOA: 92.80m Beam: 17.00m Draft: 06.68m Deadweight: 6037 T GT/NT: 3779/1731 Holds: 2 self-trimming, high pressure holds Self-unloading capacity: 250m/hour at 300m and 30° gradient Possibility of discharging on 4 trucks simultaneously Suitable for use as floating silo Principal engine: MaK 2,650 Kw Auxiliary engines: 3 Scania + 4 caterpillars for unloading Fitted with bow and stern thrusters


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and raw materials. The investment made to construct the new vessel totaled around 6.5 million euro, and represents the first step in a strategy that will lead the Italcementi Group to increase its direct presence in sea transport in the future. The initiative provides Italcementi with its own resources to ensure continuity of cement delivery to its maritime terminals in the Mediterranean, and was decided also in light of the

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sharp increase in sea freight costs since 2003, which is expected to continue in the future. This direct investment in the maritime transport sector will give the Italcementi Group greater flexibility and cost savings in cement transport by sea in order to meet market demands in a more timely fashion, commented Italcementi representatives at the launching ceremony in the Van Aalst shipyards last April. The features

of a self-unloading vessel allow the cement to be unloaded directly—and therefore with zero environmental impact— from the ship to the Group’s port silos or to trucks for final delivery of the product. The Turbocem, which flies the Italian flag, will be used mainly in the Mediterranean basin where the Italcementi Group plays an important role, stocking up at the plants— often located near the coast—in Spain, France, Italy, Greece,

Cyprus, Turkey, and Egypt, as well as Bulgaria on the Black Sea. The ship will make use of Italcementi’s Italian port terminals (Ortona, Marghera, Ancona, La Spezia, and soon Ravenna and Genoa) and will sail on shipping routes for journeys of 3 to 6 days, guaranteeing coverage of 10-15% of the Italcementi Group’s total traffic in the Mediterranean, for an annual total of around 150,000 tonnes of transported cement.

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Cementos Rezola ospita Ricardo Díez-Hochleitner Cementos Rezola hosts Ricardo Díez-Hochleitner

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l professor Ricardo Díez-Hochleitner, presidente onorario del Club di Roma e membro del Consiglio esecutivo dell’Unesco, ha dichiarato in un recente intervento che “gli obiettivi ambientali del Protocollo di Kyoto sono molto modesti”, offrendo un’ampia documentazione di dati a sostegno delle più pessimistiche previsioni di scienziati ed esperti di ecologia sulla salute globale del pianeta. L’appuntamento è stato il 3° Simposio sul tema “Infrastrutture e Costruzioni per lo Sviluppo Sostenibile nel 21° secolo”, organizzato a Bilbao lo scorso febbraio da Cementos Rezola, società del gruppo spagnolo Financiera y Minera (Italcementi Group), con lo scopo di condurre un’analisi sullo sviluppo sostenibile dal punto di vista delle costruzioni e delle infrastrutture, due elementi essenziali per il progresso e il benessere dell’uomo. Al tavolo dei relatori, oltre al professor Díez-Hochleitner: Isidoro Reguera Pérez, professore di filosofia all’Università di Extremadura, l’architetto navarrese Patxi Mangado, e Ignacio Fernández Bayo, giornalista scientifico. Oltre 300 persone hanno preso Da sinistra: Patxi Mangado, Ricardo Díez-Hochleitner, Ignacio Fernández Bayo, Isidoro Reguera Pérez. From left, Patxi Mangado, Ricardo Díez-Hochleitner, Ignacio Fernández Bayo, Isidoro Reguera Pérez.

parte all’evento. Tra gli altri, il sindaco di Bilbao, Iñaki Azkuna, il segretario generale di Confebask, Guillermo Zubía, il presidente di Cementos Rezola, Hervé de Saint Pierre, e il presidente onorario di Cementos Rezola, José María Echarri. Di tutte le minacce ambientali, la più preoccupante in questo momento resta, secondo Díez-Hochleitner, “l’effetto-serra dovuto, soprattutto, all’emissione di circa 3.000 mega-tonnellate di CO2 l’anno con il conseguente aumento (+0,5%) della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, che ha ormai superato la capacità di assorbimento dell’ambiente necessaria a mantenere l’equilibrio energetico del pianeta, problema che Arrhenius aveva già segnalato oltre cento anni fa”.

“L’attuale pressione sull’ambiente proviene principalmente dai rifiuti – afferma il professor Díez-Hochleitner – e dall’eccesso di consumi dei Paesi più ricchi, in uno scandaloso abuso di energia e risorse naturali. La verità è che oggigiorno il 15% della popolazione mondiale consuma quasi il 70% delle risorse energetiche e naturali del pianeta”. Díez-Hochleitner ha inoltre denunciato il fatto che “politiche opportunistiche e cattive gestioni in molti Paesi in via di sviluppo contribuiscono a creare una relazione diretta tra povertà e dissipazione dell’eredità ambientale”. Nonostante questo fosco scenario, il presidente onorario del Club di Roma si è dichiarato ancora fiducioso nella fondamentale capacità di

governi e imprese di “correggere” questa situazione attraverso una seria assunzione di responsabilità affinché sfruttamento delle risorse naturali e consumo/produzione di energia siano realmente “razionali, responsabili, sostenibili e rispettosi dell’ambiente”. Sempre con le parole di Díez-Hochleitner: “ci troviamo di fronte a una sfida culturale ma anche e soprattutto morale in cui è in gioco la vita delle generazioni future”. La prima edizione del Simposio “Infrastrutture e Costruzioni per lo Sviluppo Sostenibile nel 21° secolo” ha avuto luogo nel 2001 a testimonianza dell’impegno attivamente profuso da Cementos Rezola a favore di una strategia di sviluppo sostenibile volta, in questo caso, a un’evoluzione della società verso forme d’azione capaci di rendere compatibili industria e ambiente. Come risultato di questo impegno, la società ha pubblicato il suo “Rapporto sullo Sviluppo Sostenibile relativo all’anno 2003”, redatto secondo le linee guida per il reporting di sostenibilità pubblicate nel 2002 dal GRI (Global Reporting Initiative). In questa pubblicazione, la prima del settore del cemento in Spagna, Cementos Rezola illustra, con un approccio equilibrato e razionale, la propria attività economica, ambientale e sociale. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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rofessor Ricardo Díez-Hochleitner, honorary president of the Club of Rome and member of the UNESCO Executive Council, said recently that “the


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and raw materials. The investment made to construct the new vessel totaled around 6.5 million euro, and represents the first step in a strategy that will lead the Italcementi Group to increase its direct presence in sea transport in the future. The initiative provides Italcementi with its own resources to ensure continuity of cement delivery to its maritime terminals in the Mediterranean, and was decided also in light of the

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sharp increase in sea freight costs since 2003, which is expected to continue in the future. This direct investment in the maritime transport sector will give the Italcementi Group greater flexibility and cost savings in cement transport by sea in order to meet market demands in a more timely fashion, commented Italcementi representatives at the launching ceremony in the Van Aalst shipyards last April. The features

of a self-unloading vessel allow the cement to be unloaded directly—and therefore with zero environmental impact— from the ship to the Group’s port silos or to trucks for final delivery of the product. The Turbocem, which flies the Italian flag, will be used mainly in the Mediterranean basin where the Italcementi Group plays an important role, stocking up at the plants— often located near the coast—in Spain, France, Italy, Greece,

Cyprus, Turkey, and Egypt, as well as Bulgaria on the Black Sea. The ship will make use of Italcementi’s Italian port terminals (Ortona, Marghera, Ancona, La Spezia, and soon Ravenna and Genoa) and will sail on shipping routes for journeys of 3 to 6 days, guaranteeing coverage of 10-15% of the Italcementi Group’s total traffic in the Mediterranean, for an annual total of around 150,000 tonnes of transported cement.

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Cementos Rezola ospita Ricardo Díez-Hochleitner Cementos Rezola hosts Ricardo Díez-Hochleitner

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l professor Ricardo Díez-Hochleitner, presidente onorario del Club di Roma e membro del Consiglio esecutivo dell’Unesco, ha dichiarato in un recente intervento che “gli obiettivi ambientali del Protocollo di Kyoto sono molto modesti”, offrendo un’ampia documentazione di dati a sostegno delle più pessimistiche previsioni di scienziati ed esperti di ecologia sulla salute globale del pianeta. L’appuntamento è stato il 3° Simposio sul tema “Infrastrutture e Costruzioni per lo Sviluppo Sostenibile nel 21° secolo”, organizzato a Bilbao lo scorso febbraio da Cementos Rezola, società del gruppo spagnolo Financiera y Minera (Italcementi Group), con lo scopo di condurre un’analisi sullo sviluppo sostenibile dal punto di vista delle costruzioni e delle infrastrutture, due elementi essenziali per il progresso e il benessere dell’uomo. Al tavolo dei relatori, oltre al professor Díez-Hochleitner: Isidoro Reguera Pérez, professore di filosofia all’Università di Extremadura, l’architetto navarrese Patxi Mangado, e Ignacio Fernández Bayo, giornalista scientifico. Oltre 300 persone hanno preso Da sinistra: Patxi Mangado, Ricardo Díez-Hochleitner, Ignacio Fernández Bayo, Isidoro Reguera Pérez. From left, Patxi Mangado, Ricardo Díez-Hochleitner, Ignacio Fernández Bayo, Isidoro Reguera Pérez.

parte all’evento. Tra gli altri, il sindaco di Bilbao, Iñaki Azkuna, il segretario generale di Confebask, Guillermo Zubía, il presidente di Cementos Rezola, Hervé de Saint Pierre, e il presidente onorario di Cementos Rezola, José María Echarri. Di tutte le minacce ambientali, la più preoccupante in questo momento resta, secondo Díez-Hochleitner, “l’effetto-serra dovuto, soprattutto, all’emissione di circa 3.000 mega-tonnellate di CO2 l’anno con il conseguente aumento (+0,5%) della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, che ha ormai superato la capacità di assorbimento dell’ambiente necessaria a mantenere l’equilibrio energetico del pianeta, problema che Arrhenius aveva già segnalato oltre cento anni fa”.

“L’attuale pressione sull’ambiente proviene principalmente dai rifiuti – afferma il professor Díez-Hochleitner – e dall’eccesso di consumi dei Paesi più ricchi, in uno scandaloso abuso di energia e risorse naturali. La verità è che oggigiorno il 15% della popolazione mondiale consuma quasi il 70% delle risorse energetiche e naturali del pianeta”. Díez-Hochleitner ha inoltre denunciato il fatto che “politiche opportunistiche e cattive gestioni in molti Paesi in via di sviluppo contribuiscono a creare una relazione diretta tra povertà e dissipazione dell’eredità ambientale”. Nonostante questo fosco scenario, il presidente onorario del Club di Roma si è dichiarato ancora fiducioso nella fondamentale capacità di

governi e imprese di “correggere” questa situazione attraverso una seria assunzione di responsabilità affinché sfruttamento delle risorse naturali e consumo/produzione di energia siano realmente “razionali, responsabili, sostenibili e rispettosi dell’ambiente”. Sempre con le parole di Díez-Hochleitner: “ci troviamo di fronte a una sfida culturale ma anche e soprattutto morale in cui è in gioco la vita delle generazioni future”. La prima edizione del Simposio “Infrastrutture e Costruzioni per lo Sviluppo Sostenibile nel 21° secolo” ha avuto luogo nel 2001 a testimonianza dell’impegno attivamente profuso da Cementos Rezola a favore di una strategia di sviluppo sostenibile volta, in questo caso, a un’evoluzione della società verso forme d’azione capaci di rendere compatibili industria e ambiente. Come risultato di questo impegno, la società ha pubblicato il suo “Rapporto sullo Sviluppo Sostenibile relativo all’anno 2003”, redatto secondo le linee guida per il reporting di sostenibilità pubblicate nel 2002 dal GRI (Global Reporting Initiative). In questa pubblicazione, la prima del settore del cemento in Spagna, Cementos Rezola illustra, con un approccio equilibrato e razionale, la propria attività economica, ambientale e sociale. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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rofessor Ricardo Díez-Hochleitner, honorary president of the Club of Rome and member of the UNESCO Executive Council, said recently that “the


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environmental objectives of the Kyoto Protocol are very modest” and provided data supporting the gloomiest predictions of scientists and ecology experts with regard to the global health of the planet. Mr. Díez-Hochleitner was speaking at the 3rd Symposium on “Infrastructure and Construction for Sustainable Development in the 21st Century”, organized last February in Bilbao by Cementos Rezola—a company in Spain’s Financiera y Minera group (Italcementi Group)—to discuss sustainable development in terms of construction and infrastructure, two essential elements for progress and well-being. Joining Professor Díez-Hochleitner on the podium were Isidoro Reguera Pérez, professor of philosophy at the University of Extremadura, Navarrese architect Patxi Mangado, and Ignacio Fernández Bayo, a science journalist. More than 300 people attended the event, among them the mayor of Bilbao, Iñaki Azkuna; the secretary general of Confebask, Guillermo Zubía; the chairman of Cementos Rezola, Hervé de Saint Pierre; and the honorary chairman of Cementos Rezola, José María Echarri. Of all the environmental threats, the most serious at the present time, according to Mr. Díez-Hochleitner, is “the greenhouse effect, caused largely by the emission of around 3,000 mega metric tons of carbon dioxide every year and the consequent 0.5% increase in the concentration of CO2 in the atmosphere, a level that has already exceeded the environment’s capacity for absorption on which the ability to maintain a global balance depends—a danger that Arrhenius warned of more than one hundred years ago.” “The current pressure on the environment comes, above all, from the waste and excessive consumption of the richest countries, in a scandalous abuse of energy and natural resources,” said Mr. Díez-Hochleitner. “The simple fact is that today 15% of the world population consumes approximately 70% of the total available natural and energy resources.” He added that “the opportunistic policies and bad

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management of many of the developing countries are contributing to the continuation of a direct relationship between poverty and our declining environmental heritage.” Despite this bleak outlook, the honorary president of the Club of Rome is confident that governments and business will be able to “rectify” the situation and make a serious commitment to “rational, responsible, sustainable and environmentally respectful” use of natural resources, energy

consumption and production. “We face a cultural and, above all, moral challenge in which the life of future generations is at stake,” he declared. The first Cementos Rezola Symposium on “Infrastructure and Construction for Sustainable Development in the 21st Century” was held in 2001, as part of the company’s active commitment to a sustainable development strategy, concerning, in this case, adoption by society of practices that make

industry compatible with the environment. Cementos Rezola’s activities in this area include publication of a “Sustainability Report 2003”, drawn up in accordance with the 2002 Sustainability Reporting Guidelines of the Global Reporting Initiative (GRI). In the report—the first to be published by a Spanish cement company—Cementos Rezola provides a balanced and rational description of its economic, environmental and social performance.

Un futuro per i bambini dello Sri Lanka A Future for the Children of Sri Lanka

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talcementi Group, tramite la Fondazione Italcementi Carlo Pesenti, si è fatto promotore di una raccolta fondi a favore dei bambini dello Sri Lanka, per contribuire concretamente alla ricostruzione del tessuto sociale, economico e produttivo delle popolazioni sopravvissute alla tragedia dello tsunami nel Sud Est Asiatico. L’impegno richiesto è per una prospettiva di lungo periodo che sappia garantire risposte anche quando il clamore mediatico che accompagna ogni emergenza sarà esaurito e, con esso, l’attenzione e la disponibilità a finanziare le fasi successive all’emergenza. Italcementi Group, presente nello Sri Lanka con la propria struttura industriale, ha messo a disposizione di questo Paese, in modo unitario e fortemente integrato, le straordinarie competenze in termini di mezzi, ma soprattutto di capitale umano, di cui dispone. La raccolta di fondi, rivolta alle società e ai dipendenti del Gruppo, ha però costituito anche un fattore di sensibilizzazione e di diffusione dell’appello per lo sforzo umanitario presso tutti gli stakeholders esterni. Il processo che si è avviato ha mirato essenzialmente a mettere a disposizione programmi e interventi finalizzati all’infanzia nel processo di ricostruzione. Nulla può forse portare più

speranza che la riedificazione e la riapertura delle scuole perché i bambini dello Sri Lanka tornino a vivere in un ambiente che dia loro la possibilità di concentrarsi su attività positive e di guardare al futuro con serenità. Grazie ai contributi raccolti si è avviata la costruzione di un centro d’accoglienza e di una scuola i cui lavori di realizzazione sono stati direttamente verificati e monitorati dallo staff di Italcementi Group presente in loco. Dalle prime stime si valuta che la raccolta abbia già superato il milione di dollari a fine aprile, con una sottoscrizione iniziale della Fondazione di 200.000 dollari e i successivi contributi di Italcementi S.p.A. e Italmobiliare S.p.A. di 100.000 dollari ciascuno. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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he Italcementi Group, through the Italcementi Carlo Pesenti Foundation, is promoting a fund-raising effort for the children of Sri Lanka to make a tangible contribution to the social, economic and production reconstruction of the areas devastated by the tsunami in south-east Asia. The project takes a long-term view aimed at continuation of support once the media clamor provoked by the emergency dies

down, together with people’s attention to providing financial assistance beyond the immediate post-emergency period. The Italcementi Group has industrial facilities in Sri Lanka and has put the outstanding resources at its disposal— equipment and, above all, people—to provide unified, integrated support. At the same time, the fund-raising campaign targeting Group companies and employees has been a means to raise awareness and extend the humanitarian appeal to external stakeholders. Essentially, the project aims to organize programs and assistance for children during the reconstruction. Nothing offers greater hope, perhaps, than the re-building and re-opening of schools so that the children of Sri Lanka can return to an environment that allows them to concentrate on positive activities and look forward to the future. With the funds that have been raised, work has begun on the construction of a reception center and a school, under the direct supervision of local Italcementi Group staff. Initial estimates indicate that by the end of April the campaign had already raised more than one million dollars, with an initial amount of 200,000 dollars provided by the Foundation and 100,000 dollars each by Italcementi S.p.A. and Italmobiliare S.p.A.


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Quando il cemento diventa arte When Cement becomes Art

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iuseppe Uncini ha scelto il cemento come espressione del suo linguaggio artistico. Da oltre cinquant’anni, combinando ferro e cemento, costruisce forme, oggetti, che vivono di vita propria. Che si collocano nello spazio con assoluta autonomia e grande forza espressiva. Le sue opere sono esposte nei principali musei italiani e internazionali. Invitato alla Biennale di Venezia del 1996, è uno dei protagonisti della mostra “Visioni”, curata da Anna Maria Maggi, presso la ex chiesa di Sant’Agostino a Bergamo, realizzata con il contributo di Italcementi, dal 9 aprile all’11 giugno 2005. Prima di essere folgorato sulla via del cemento, Giuseppe Uncini, nato a Fabriano nel 1929, lavorava con le terre. Ogni genere di terre, dalla sabbia al fango delle pozzanghere. Le raccoglieva per strada, le preparava e le stendeva su tavole di masonite e magari ci passava sopra un po’ di catrame e un po’ di carbone, tanto per dare un tocco di colore. Qualche volta usava anche la cenere che produceva in abbondanza la vecchia stufa a legna dello studio. Voleva fare il pittore e la sua intenzione era “fare dei quadri”. Ma non funzionava. “Li sentivo falsi. Erano solo la rappresentazione effimera di una idea, niente di concreto”, racconta. E anche se sono passati più di cinquant’anni nelle sue parole, nel suo viso dolce e sempre sorridente, traspare ancora il “tormento”, l’insoddisfazione di allora. Lui voleva fare qualcosa di “vero, di concreto”. Costruire un oggetto che vivesse di vita propria. Che occupasse da solo tutta la scena, senza bisogno di effetti speciali

o di mediazioni interpretative. “Con questo pensiero fisso, un giorno, quasi per caso, entrai in una rivendita di materiali edilizi. Dovevo comprare qualcosa per fare dei lavori in casa. Lì mi venne l’idea di usare il cemento. All’inizio tendevo a usarlo come adoperavo le terre. Ma continuavo ad essere insoddisfatto”. Poi la grande intuizione, improvvisa, irrefrenabile: “usare il cemento eliminando il supporto del quadro per costruire un oggetto autoportante, autosignificante”. E così Giuseppe Uncini ha imboccato la via del cemento scoprendo, sperimentando man mano, da bravo carpentiere in erba, le tecniche per armarlo con il ferro e per iniziare a progettare e costruire i suoi “oggetti”. Questo accadeva verso la metà degli anni 50: era il periodo in cui, allo stanco dibattito tra i fautori del realismo e quelli dell’astrazione, Burri e Fontana contrapponevano le alternative della materia e dello spazio. Uncini ha un debole per Burri, ma resta della sua idea. Nel lavoro del grande artista umbro non lo convince lo scarto tra materia e forma, tra processo e risultato. Non corrisponde alla sua ricerca. “Quando cominciai a usare il ferro e il cemento – spiega – la scelta di queste materie non fu determinata da interessi espressionistici o materici, ma solo come mezzo per realizzare un’idea”. E l’idea era sempre quella, un’idea fissa, costante: voleva costruire, strutturare. Primocementarmato del 1958-59 rappresenta il passaggio definitivo di Uncini verso la forma dove processo e esito coincidono: una struttura di cemento grezzo rinforzato da rete e ferri, dove però è ancora

presente una memoria di pittura alla base. Memoria che col tempo è andata praticamente scomparendo, quasi rifiutata dal cemento, come un corpo estraneo. “Finalmente costruivo l’oggetto e, lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi, riuscivo a porre il primo punto fermo nell’iter del mio lavoro. Cioè non ottenevo più un ‘quadro rappresentante’ ma un ‘oggetto autosignificante’: insomma realizzavo l’idea che il modo tecnico fosse il concetto e il concetto il modo tecnico”. Fino al 1961, quando tiene la prima personale alla Galleria L’Attico, Uncini approfondisce la ricerca sui Cementarmati. In un articolo del 1998 Adachiara Zevi descrive così quel periodo dell’artista: “E una straordinaria stagione creativa: nelle opere, tutte rigorosamente con lo stesso titolo, l’esito coincide con il suo processo, lasciando la materia scabrosa e corrugata, mentre i ferri si contorcono e piegano, s’infilzano liberamente nel cemento per fuoriuscirvi ancora più sofferenti. La costruzione non è frutto di progetto ma di processo. Già nei Cementarmati del ‘62, però, l’artista intraprende una strada diversa, che privilegerà nel percorso successivo: in essa il progetto vince sul processo. Se infatti i ferri si raddrizzano e dispongono non più a caso ma a formare tralicci, il cemento si riduce e si leviga; gli esiti sono certamente lucidi e rigorosi ma a essi manca il fermento e la vibrazione della materia. Dal ‘67 alla fine degli anni Settanta l’attenzione si sposta

sul tema dell’ombra, sul problema di come dare consistenza al vuoto: preso un oggetto, porta, finestra o sedia, Uncini lo riproduce fedelmente con un profilo di ferro che prolunga nello spazio per circoscriverne l’ombra. Inizialmente un limite posto al vuoto. Quell’ombra tenderà poi a solidificarsi, a diventare essa stessa il soggetto. In alcune opere del 1969, Uncini allarga la cerchia dei materiali costruttivi, includendo il mattone con cui erige muri, archi, cloache, appesi al muro o liberi nello spazio, naturalmente con l’ombra. In questo alternarsi tra parete e spazio, tra bidimensionalità e volume, nel ‘79 è la volta della parete, su cui appende Dimore. Opere bidimensionali che il disegno inciso nel cemento, ora di semicerchi, ora di rettangoli, ora di trapezi, viola alludendo a una profondità illusionistica. Quando nell’82 sottrae alcune porzioni di cemento per sostituirle con tralicci di ferro, Uncini annuncia una nuova uscita nello spazio. Spazi di ferro combinano quinte di cemento con intrecci fittissimi di ferro in vere e proprie costruzioni che alternano il pieno alla trasparenza. Nel 1993, tornato alla parete, Uncini inaugura una felice stagione creativa. Come nei Cementarmato del ‘59, negli Spazicemento la materia assurge a protagonista; pur non scabrosa come allora, reca tuttavia le tracce del processo di lavorazione. Se però i Cementarmato erano ‘oggetti autosignificanti’, le forme di cemento, ritagliate in foggia irregolare, giocano oggi illusionisticamente contro il piano di fondo, la parete stessa incorniciata in modo aperto e dinamico da tondini e ferro”. Il dialogo tra progetto e gesto, tra pittura e struttura di Giuseppe Uncini, iniziato da oltre mezzo secolo, si è sviluppato negli anni con un’evoluzione artistica sorprendente da cui è nata un’arte di inconfondibile autonomia. E quel piccolo grande uomo che si ferma a guardare i ponti delle autostrade per riprogettarli mentalmente e farli diventare opere d’arte, “se non lo sono già”, continua ancora a pensarla come allora: “la mia preoccupazione quotidiana è quella di fare, di costruire, di pensare mentre costruisco e viceversa. Mi è sempre interessata la disciplina

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arcVision 13 news

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storica del costruttivismo, però la mia attenzione è diretta ai gesti primari dell’uomo, a tutti quei congegni base che costituiscono l’embrione della costruzione. Mi interessa il desiderio dell’uomo di costruirsi la propria dimora, l’azione del contadino nello squadrare il campo per la coltura. Tutte azioni che vengono dirette da leggi ben precise, frutto di un pensiero e di un calcolo che determinano anche una estetica”.

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ement is the artistic medium chosen by sculptor Giuseppe Uncini. For more than fifty years, Uncini has been combining iron and cement to create shapes and objects that take on a life of their own, asserting their individual personalities with great expressive power. Uncini’s works are exhibited in leading Italian and international museums. A guest at the 1996 Venice Biennial, he is one of the artists in the “Visioni” exhibition—on display from April 9 through June 11, 2005 in the ex-church of Sant’Agostino in Bergamo— directed by Anna Maria Maggi and sponsored by Italcementi. Until he “discovered” cement, Giuseppe Uncini, born in Fabriano in 1929, worked with earth. Earth of every kind, from sand to puddle mud. Earth that he collected on the roadside, prepared and spread on

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masonite boards, possibly adding a little tar or coal for color. At times he used some of the copious amounts of ash produced by the wood-burning stove in his studio. His ambition was to be a painter and “make pictures”. But something was missing. “They felt wrong. They were just an ephemeral representation of an idea, nothing concrete,” he explains. And although fifty years have gone by since them, the “torment”, the dissatisfaction of that period are still evident in his words and on his gentle smiling face. He wanted to do something “true, concrete”. To build an object that would have a life of its own, that would hold people’s attention on the strength of its own merits, without the need for any special effects or interpretative filters. “With this idée fixe, one day, almost by chance, I went into a store that sold construction materials. I needed something for some job at home. While I was there, I had the idea of using cement. At first, I tended to use it the same way as the earth. But I still wasn’t satisfied.” Then, out of the blue, an overpowering revelation: “get rid of the frame and use the cement to create a self-standing, self-referential object.” So Uncini began his adventure in cement, gradually discovering, through experimentation as a novice artisan, the best techniques to reinforce the cement with iron and begin to design and build his “objects”. This was in the mid-1950s. These were the years in which Burri and Fontana, with their explorations of matter and space, were moving beyond the tired old debate between realism and abstract art. Uncini had a weakness for Burri, but stuck to his own ideas. The divide between matter and form, between process and result that characterized the work of the great Umbrian artist did not convince him. It did not match his own research. “When I first started using iron and cement,” he explains, “the choice of materials was not dictated by expressionist or material concerns; I simply wanted a means to realize an idea.” And the idea was always the same, a fixation, a constant: he wanted to build, to

structure. Primocementarmato, 1958-59, marks Uncini’s move to a form where process and result coincide: a structure in unrefined cement, reinforced by a mesh and iron, which, nevertheless, still retains a trace of the painter. A trace that over the years has virtually disappeared, almost as if it were a foreign body rejected by the cement. “At last I was building the object, and by leaving bare all the technical procedures involved in its construction, I established the first constant in the development of my work. In other words, I was no longer producing a ‘representational picture’ but an ‘object in its own right’: in short, I was realizing the idea that the technical method is the concept and the concept is the technical method.” Until 1961, when he held his first one-man exhibition at the L’Attico Gallery, Uncini continued his research on his reinforced cement pieces, the Cementarmati. In an article published in 1998, Adachiara Zevi describes this period in the artist’s career: “An extraordinarily creative season: in his works, all given exactly the same name, the outcome coincides with the process, with the material in its raw, corrugated state, while the iron elements bend and contort, freely piercing the cement and re-emerging in an even more agonized form. The construction is achieved not through design but through process. In the Cementarmati pieces of 1962 he is already moving in a different direction, which will be the main focus of his subsequent development: here, design prevails over process. If the iron bars straighten out and are arranged no longer at random but in grid formations, the cement is reduced and evened out; the results are certainly lucid and rigorous, but they lack the ferment and vibration of matter. From 1967 to the end of the 1970s, his attention focused on the theme of shadow, on how to give substance to emptiness: Uncini takes an object—a door, a window, a chair—and reproduces it faithfully with an iron contour which he extends into space to circumscribe the object’s shadow. Initially, this is a limit around empty space. Later, the shadow tends to become

solid, to become the subject of the piece. In a number of works from 1969, Uncini enlarges his range of construction materials to include bricks, which he uses to erect walls, arches, sewers, hanging from a wall or standing free in space, all with their shadow. In this alternation between wall and space, between two-dimensionality and volume, the wall takes centerstage in 1979, as the hanging point for the Dimore pieces: two-dimensional works violated by the drawing engraved in the cement—semi-circles, rectangles, trapeziums—in a reference to an illusionist depth. In 1982 the removal of portions of cement to be replaced by iron latticework heralds a new venture into space. Spazi di ferro combine side-wings of cement with closely meshed iron in constructions that alternate solids and transparency. In 1993, the move back to the wall marks a fortunate creative season. As in the Cementarmato pieces of 1959, matter is the protagonist of the Spazicemento works; while not as coarse as in the earlier works, it still reveals the traces of the construction process. However, while the Cementarmato were ‘objects in their own right’, the cement shapes cut out in an irregular pattern make an illusionist play against the back wall, which is itself enclosed in an open, dynamic frame of iron rods.” The dialog between design and gesture, between painting and structure begun by Giuseppe Uncini more than fifty years ago has accompanied a surprising artistic evolution and generated an unmistakably autonomous art. And the little big man who stops to study motorway bridges so that he can redesign them mentally and turn them into works of art, “if they are not already”, still thinks today as he did then: “my daily concern is to make, to build, to think while I construct and vice versa. I have always been interested in the discipline of constructivism, but with a focus on man’s primary gestures, on all those basic devices that form the embryo of a construction. I’m interested in man’s desire to build his own home, in the way the farmer squares up the field for his crops. All these actions are governed by precise laws, and are the result of thoughts and calculations that also create an esthetic.”



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