ArcVision 11

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Periodico semestrale anno VI n° 11 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Global Un’Europa che si allarga a nuovi confini fino a diventare soggetto rappresentante di 25 stati deve assumersi anche l’impegno all’allargamento del sapere As Europe extends its borders to encompass a total of 25 nations, it must take on a commitment to expand its “mind” Projects L’architettura e i nuovi luoghi della contemporaneità: una intensa dialettica tra il progetto delle strutture e quello della società Modern-day architecture and new places: deep-seated dialectics between designing structures and planning society News Italcementi: una storia lunga 140 anni Italcementi: a 140-year-long story Italcementi Group: l’utile di gruppo sale nel 2003 a 376 milioni di euro (+5,3%) Italcementi Group: 2003 total net income at 376 million euro (+5.3%)

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www.italcementigroup.com

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor in Chief Sergio Crippa Caporedattore Managing Editor Francesco Galimberti Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Franca Rottola, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

Grande Europa, luoghi e non-luoghi

■ Global ■

Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places

www.italcementigroup.com

Il futuro che vogliamo

The Future We Want

Sergio Romano

Cordialmente divisi

Divided We Stand

S. M.

Oltre i confini della nuova Europa

Beyond the Boundaries of the New Europe

aV

Patto di stabilità / Perché no

Stability Pact / Why Not

Le rigidità che bloccano l’Europa

Rigidity is Holding Europe Back

Intervista a Jean-Paul Fitoussi

Interview with Jean-Paul Fitoussi

Patto di stabilità / Perché sì

Stability Pact / Why Yes

Il rigore rinforza l’Unione

Union through Rigor

Intervista a Carlo Secchi

Interview with Carlo Secchi

Nariman Behravesh Emilio Rossi

I grandi benefici dell’allargamento

The Great Benefits of Enlargement

Luigi Passamonti

L’ottimismo della speranza

The Optimism of Hope

Maurizio Vitta

Luoghi e Non-Luoghi

Places and Non-Places

Testi a cura di / Texts by l’Arca Edizioni

Nel segno della bellezza

In the Name of Beauty

Progetto di Architecture Studio

Project by Architecture Studio

Una sacralità interpersonale

Interpersonal Sacredness

Progetto di Fumihiko Maki + Maki Associates

Project by Fumihiko Maki + Maki Associates

Riti urbani

Urban Rituals

Progetto di Architecture Studio

Project by Architecture Studio

Sergio I. Minerbi

■ News

2

Romano Prodi

aV

■ Projects

Enlarged Europe: Places and Non-Places

Copertina, particolare del foyer del Palazzo del Parlamento Europeo, progettato da Architecture Studio.

Una volta sotto il cielo d’Oriente

A Dome beneath Eastern Skies

Progetto di ADP-Paul Andreu

Project by ADP-Paul Andreu

Da porta a porta

From Door to Door

Progetto di Paul Andreu

Project by Paul Andreu

L’utopia degli scambi

The Utopia of Trade

Progetto di Benthem Crouwel NACO

Project by Benthem Crouwel NACO

Movimento radiante

Radiant Motion

Progetto di BRT Architekten

Project by BRT Architekten

Viaggio e creatività

Travel and Creativity

Progetto di Samyn & Partners

Project by Samyn & Partners

La scatola magica

The Magic Box

Progetto di Coop Himmelb(l)au

Project by Coop Himmelb(l)au

Sulla collina cosmopolita

On a Cosmopolitan Hill

Lo stile Bauhaus a Tel Aviv

The Bauhaus Style in Tel Aviv

4 7 8 12 15 18 24 ■

32 36 42 48 54 60 66 72 78 84 88

Italcementi: una storia lunga 140 anni

Italcementi: a 140-year-long story

Italcementi Group: l’utile di gruppo sale nel 2003 a 376 milioni di euro (+5,3%)

Italcementi Group: 2003 total net income at 376 million euro (+5.3%)

Cover, detail of the foyer of the European Parliament Building, designed by Architecture Studio.

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Chiuso in tipografia il 15 maggio 2004 Printed May 15, 2004


Grande Europa, luoghi e non-luoghi Enlarged Europe: Places and Non-Places

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L’

Europa diventa maggiorenne e l’allargamento dei confini ad altri dieci paesi membri apre nuovi orizzonti all’Unione, non solo sotto l’aspetto politico ed economico ma anche culturale e sociale. Il dibattito sull’allargamento e sull’eventuale necessità di rivedere i limiti stringenti del Patto di Stabilità ha concentrato l’attenzione sui temi economici della Nuova Europa che da 15 paesi si è allargata a 25. “Un fatto epocale sul nostro cammino” sottolinea nell’intervento su arcVision il Presidente della Commissione Romano Prodi. Una nuova epoca si apre dunque negli spazi della Vecchia Europa che all’alba del terzo millennio cerca di recuperare il suo ruolo di centro motore per lo sviluppo mondiale. E che compie un ulteriore balzo nel tentativo di trovare un comune denominatore culturale per la nuova realtà geopolitica, ancora troppo giovane per poter dire di aver raggiunto un suo punto di stabilità. Un mutamento sociale a livello continentale che deve fare i conti con universi culturali più ampi, con spazi che si dilatano e che diventano patrimonio comune di una popolazione e di un territorio che si ampliano – rispetto all’Europa dei Quindici – rispettivamente del 20 e del 23%. E in questo scenario anche il tema dei “luoghi e non-luoghi” a cui è dedicata la sezione Projects di questo numero diventa ancora più significativo, come rimarca Maurizio Vitta. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico – sostiene Marc Augé – uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, definirà un non-luogo”. E nella nuova Europa nuovi luoghi/non-luoghi saranno per Augé “tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali”. E uno dei primi luoghi destinati a rappresentare la nuova comunità di popoli diversi è il Palazzo del Parlamento Europeo di Strasburgo, progettato con una logica di architettura centripeta in grado di rappresentare l’attrazione di tutti i paesi dell’Unione. Sicuramente anche in questa sede proseguirà il dibattito sulla necessità o meno di mantenere regole definite e non interpretabili per lo sviluppo europeo. Per Carlo Secchi le prospettive economiche di Eurolandia, in mancanza di precisi parametri di finanza pubblica come quelli indicati dal Patto di Stabilità, sarebbero compromesse nel lungo termine perdendo il punto di riferimento fondamentale di stabilità. Una condizione intesa come una questione di stabilità interna – prerequisito per gli investimenti – più che riferita unicamente al tasso di cambio. A questa impostazione si contrappone la visione di Jean-Paul Fitoussi secondo cui bisogna avere una visione più flessibile dell’applicazione delle regole, perché in una situazione come l’attuale “non ha senso affidarsi a un pilota automatico, cioè a delle regole fisse. Paradossalmente l’Europa è la sola regione del mondo che non è governata politicamente, ma solo tecnicamente”. Alla prova delle regole saranno comunque chiamati ora i nuovi paesi membri: per Nariman Behravesh ed Emilio Rossi i segnali in arrivo sono moderatamente positivi, anche se ci si aspetta un ulteriore impulso negli impegni di allineamento. Ancora più ottimista è l’analisi di Luigi Passamonti relativa ai nuovi partner centro europei: sono “paesi con le maniche ancora rimboccate per le trasformazioni in corso, alla ricerca di un equilibrio fra perseguimento dell’efficienza e necessità della solidarietà. È un prezioso laboratorio per sperimentare le migliori politiche per lo sviluppo dell’intera Unione in un mondo sempre più competitivo”. Ma quali sono i rapporti della giovane Europa con gli Usa, soprattutto dopo le divisioni interne emerse nella gestione degli eventi del post 11 Settembre? Secondo Sergio Romano, dopo la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del nemico sovietico, le divergenze fra i due blocchi acquistano maggiore evidenza e i compromessi diventano sempre più difficili. Un quadro che deve spingere l’Unione a raggiungere in tempi accelerati una sua maturità politica.

E

urope is coming of age and its enlargement to encompass another ten member nations opens up new horizons for the Union, not just politically and economically but also on a socio-cultural level. Debate about the enlargement process and the eventual need to review the tight constraints imposed by the Stability Pact has focused attention on economic issues in New Europe as it grows from 15 to 25 member states. “An époque-making moment,” as the President of the European Commission Romano Prodi describes it in his article for arcVision. A new era is beginning within the realms of Old Europe, as, at the dawning of the third millennium, it strives to regain its status as the driving force behind world growth. This is a leap forward toward finding a common cultural denominator for a new geo-political entity that is still too young to claim it has achieved a certain stability. A social change on a continental scale that must come to terms with much wider cultural realms, expanding spaces that are destined to become the common heritage of a community whose population and territorial extension are increasing respectively by 20% and 23% compared to old Europe with its fifteen member states. In this kind of context the question of “places and non-places” featured in the Projects section of this issue suddenly takes on even greater importance, as Maurizio Vitta points out. “If a place can be defined as relational, historical, and concerned with identity—so Marc Augé claims—then a space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.” And in new Europe new places/nonplaces will, according to Augé, be “the installations required for the accelerated circulation of people and goods, as well as the means of transport themselves or the big shopping malls.” And one of the first places destined to represent the new community of different nations is the European Parliament Building in Strasbourg designed along centripetal architectural lines capable of embodying the drawing force bringing together all the members of the Union. This is certainly one of the places where discussions will be held about the need or otherwise of keeping clear rules—not open to interpretation—for Europe’s growth and development. According to Carlo Secchi, without the kind of definite guidelines governing public finance set down in the Stability Pact, Euroland’s economic prospects would be compromised in the long run, as it lost such a key factor as stability. A condition taken as a question of internal stability—as a prerequisite for investments—rather than referring solely to the exchange rate. This view is opposed by Jean-Paul Fitoussi, who maintains that the rules need to be applied with greater flexibility, because at times like these “there is no point in inserting automatic pilot and relying on set rules. Ironically, Europe is the only part of the world that is governed technically, not politically.” The new member states will be expected to come to terms with these rules: according to Nariman Behravesh and Emilio Rossi the signs are moderately encouraging, although these countries will be expected to make even greater efforts to fall in line. Luigi Passamonti’s analysis of the new central European partners is even more optimistic: they are “nations, whose sleeves are still rolled up as they deal with the changes still under way, as they strive to find a political balance while working toward both greater efficiency and the need for solidarity. This is a valuable laboratory for experimenting on the best policies for developing the European Union in an increasingly competitive world.” So what kind of relations does this newly emerging Europe entertain with the USA, particularly after all the in-fighting that went on in dealing with events in the wake of September 11th? According to Sergio Romano, after the end of the Cold War and the disappearance of the old Soviet enemy, divergences between the two blocks were bound to be more evident and it is getting harder and harder to reach any compromises. A picture that ought to force the European Union to speed up its own political growth and development.

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Grande Europa, luoghi e non-luoghi Enlarged Europe: Places and Non-Places

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Europa diventa maggiorenne e l’allargamento dei confini ad altri dieci paesi membri apre nuovi orizzonti all’Unione, non solo sotto l’aspetto politico ed economico ma anche culturale e sociale. Il dibattito sull’allargamento e sull’eventuale necessità di rivedere i limiti stringenti del Patto di Stabilità ha concentrato l’attenzione sui temi economici della Nuova Europa che da 15 paesi si è allargata a 25. “Un fatto epocale sul nostro cammino” sottolinea nell’intervento su arcVision il Presidente della Commissione Romano Prodi. Una nuova epoca si apre dunque negli spazi della Vecchia Europa che all’alba del terzo millennio cerca di recuperare il suo ruolo di centro motore per lo sviluppo mondiale. E che compie un ulteriore balzo nel tentativo di trovare un comune denominatore culturale per la nuova realtà geopolitica, ancora troppo giovane per poter dire di aver raggiunto un suo punto di stabilità. Un mutamento sociale a livello continentale che deve fare i conti con universi culturali più ampi, con spazi che si dilatano e che diventano patrimonio comune di una popolazione e di un territorio che si ampliano – rispetto all’Europa dei Quindici – rispettivamente del 20 e del 23%. E in questo scenario anche il tema dei “luoghi e non-luoghi” a cui è dedicata la sezione Projects di questo numero diventa ancora più significativo, come rimarca Maurizio Vitta. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico – sostiene Marc Augé – uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico, definirà un non-luogo”. E nella nuova Europa nuovi luoghi/non-luoghi saranno per Augé “tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali”. E uno dei primi luoghi destinati a rappresentare la nuova comunità di popoli diversi è il Palazzo del Parlamento Europeo di Strasburgo, progettato con una logica di architettura centripeta in grado di rappresentare l’attrazione di tutti i paesi dell’Unione. Sicuramente anche in questa sede proseguirà il dibattito sulla necessità o meno di mantenere regole definite e non interpretabili per lo sviluppo europeo. Per Carlo Secchi le prospettive economiche di Eurolandia, in mancanza di precisi parametri di finanza pubblica come quelli indicati dal Patto di Stabilità, sarebbero compromesse nel lungo termine perdendo il punto di riferimento fondamentale di stabilità. Una condizione intesa come una questione di stabilità interna – prerequisito per gli investimenti – più che riferita unicamente al tasso di cambio. A questa impostazione si contrappone la visione di Jean-Paul Fitoussi secondo cui bisogna avere una visione più flessibile dell’applicazione delle regole, perché in una situazione come l’attuale “non ha senso affidarsi a un pilota automatico, cioè a delle regole fisse. Paradossalmente l’Europa è la sola regione del mondo che non è governata politicamente, ma solo tecnicamente”. Alla prova delle regole saranno comunque chiamati ora i nuovi paesi membri: per Nariman Behravesh ed Emilio Rossi i segnali in arrivo sono moderatamente positivi, anche se ci si aspetta un ulteriore impulso negli impegni di allineamento. Ancora più ottimista è l’analisi di Luigi Passamonti relativa ai nuovi partner centro europei: sono “paesi con le maniche ancora rimboccate per le trasformazioni in corso, alla ricerca di un equilibrio fra perseguimento dell’efficienza e necessità della solidarietà. È un prezioso laboratorio per sperimentare le migliori politiche per lo sviluppo dell’intera Unione in un mondo sempre più competitivo”. Ma quali sono i rapporti della giovane Europa con gli Usa, soprattutto dopo le divisioni interne emerse nella gestione degli eventi del post 11 Settembre? Secondo Sergio Romano, dopo la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del nemico sovietico, le divergenze fra i due blocchi acquistano maggiore evidenza e i compromessi diventano sempre più difficili. Un quadro che deve spingere l’Unione a raggiungere in tempi accelerati una sua maturità politica.

E

urope is coming of age and its enlargement to encompass another ten member nations opens up new horizons for the Union, not just politically and economically but also on a socio-cultural level. Debate about the enlargement process and the eventual need to review the tight constraints imposed by the Stability Pact has focused attention on economic issues in New Europe as it grows from 15 to 25 member states. “An époque-making moment,” as the President of the European Commission Romano Prodi describes it in his article for arcVision. A new era is beginning within the realms of Old Europe, as, at the dawning of the third millennium, it strives to regain its status as the driving force behind world growth. This is a leap forward toward finding a common cultural denominator for a new geo-political entity that is still too young to claim it has achieved a certain stability. A social change on a continental scale that must come to terms with much wider cultural realms, expanding spaces that are destined to become the common heritage of a community whose population and territorial extension are increasing respectively by 20% and 23% compared to old Europe with its fifteen member states. In this kind of context the question of “places and non-places” featured in the Projects section of this issue suddenly takes on even greater importance, as Maurizio Vitta points out. “If a place can be defined as relational, historical, and concerned with identity—so Marc Augé claims—then a space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.” And in new Europe new places/nonplaces will, according to Augé, be “the installations required for the accelerated circulation of people and goods, as well as the means of transport themselves or the big shopping malls.” And one of the first places destined to represent the new community of different nations is the European Parliament Building in Strasbourg designed along centripetal architectural lines capable of embodying the drawing force bringing together all the members of the Union. This is certainly one of the places where discussions will be held about the need or otherwise of keeping clear rules—not open to interpretation—for Europe’s growth and development. According to Carlo Secchi, without the kind of definite guidelines governing public finance set down in the Stability Pact, Euroland’s economic prospects would be compromised in the long run, as it lost such a key factor as stability. A condition taken as a question of internal stability—as a prerequisite for investments—rather than referring solely to the exchange rate. This view is opposed by Jean-Paul Fitoussi, who maintains that the rules need to be applied with greater flexibility, because at times like these “there is no point in inserting automatic pilot and relying on set rules. Ironically, Europe is the only part of the world that is governed technically, not politically.” The new member states will be expected to come to terms with these rules: according to Nariman Behravesh and Emilio Rossi the signs are moderately encouraging, although these countries will be expected to make even greater efforts to fall in line. Luigi Passamonti’s analysis of the new central European partners is even more optimistic: they are “nations, whose sleeves are still rolled up as they deal with the changes still under way, as they strive to find a political balance while working toward both greater efficiency and the need for solidarity. This is a valuable laboratory for experimenting on the best policies for developing the European Union in an increasingly competitive world.” So what kind of relations does this newly emerging Europe entertain with the USA, particularly after all the in-fighting that went on in dealing with events in the wake of September 11th? According to Sergio Romano, after the end of the Cold War and the disappearance of the old Soviet enemy, divergences between the two blocks were bound to be more evident and it is getting harder and harder to reach any compromises. A picture that ought to force the European Union to speed up its own political growth and development.

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Un’Europa che si allarga a nuovi confini fino a diventare soggetto rappresentante di 25 stati deve assumersi, oltre a quello economico, anche l’impegno all’allargamento della conoscenza. Il futuro dell’integrazione si gioca sulla capacità di portare lo sviluppo delle risorse umane verso traguardi di eccellenza, puntando a far tornare il continente europeo quello che è stato per secoli: il punto di riferimento di tutti i giovani ricercatori del mondo. As Europe extends its borders to encompass a total of 25 nations, it must take on not only its economic responsibilities but also a commitment to expanding its “mind.” The future of integration depends on its ability to project human resources onto a higher level of excellence, aiming to restore Europe to the status it enjoyed for centuries as a benchmark for all young researchers around the world.

Il futuro che vogliamo The Future We Want

Parlamentari prima e dopo l’allargamento

di Romano Prodi* by Romano Prodi*

PRIMA

DOPO

BEFORE

AFTER

Austria

21

18

Austria

21

18

Belgio

25

24

Belgium

25

24

-

6

-

6

Cipro

-

24

Czech Rep.

-

24

16

14

Denmark

16

14

Germania

99

99

Germany

99

99

Grecia

25

24

Greece

25

24

-

6

Estonia

16

14

Finland

Estonia Finlandia

Romano Prodi

G

li eventi che ci attendono nei prossimi mesi tracceranno il corso dell’Unione per molti anni a venire. Ricordo i fondamentali appuntamenti istituzionali, come il rinnovo del Parlamento europeo a metà giugno e la scadenza del mandato della mia Commissione alla fine di ottobre. Sono, inoltre, di importanza cruciale i negoziati che definiranno le future prospettive finanziarie dell’Unione, su cui la Commissione ha presentato le sue proposte. Vi sono, infine, la conclusione del processo di allargamento e i nuovi passi avanti sul Trattato costituzionale e sulla nostra strategia per la crescita. Dopo anni di meticolosa preparazione, siamo arrivati con il primo maggio 2004 a concludere un processo cruciale per il nostro futuro. L’allargamento porterà, infatti, con sé cambiamenti di ampia portata per tutte le nostre istituzioni: sul piano operativo l’organizzazione interna della Commissione e la designazione dei nuovi Commissari frutto delle consultazioni con i governi dei nuovi stati membri. L’obiettivo, ovviamente, è quello di arrivare a una rapida integrazione dei nuovi paesi

membri. Questa tappa epocale sul nostro cammino è come un passo di montagna: quando lo raggiungeremo scopriremo un paesaggio nuovo. Si vedranno i confini ultimi dell’Unione, che avrà raggiunto la sua forma definitiva quando accoglierà tutti i paesi dei Balcani occidentali. Dal valico vedremo anche i nuovi vicini dell’Europa allargata, con cui vogliamo creare un’area di cooperazione, di stabilità, di sicurezza e di pace. Quest’opera è già iniziata, grazie all’iniziativa dell’Anello dei Paesi Amici che estende dal Mediterraneo alla Russia la possibilità di cooperare profondamente e sistematicamente con l’Unione europea. Ma il modello europeo è anche la nostra proposta per impostare le relazioni fra paesi in tutto il mondo. Negli ultimi anni, il mondo è diventato meno sicuro e l’insieme delle relazioni internazionali attraversa una fase di profonda incertezza. Sostengo quindi con decisione la scelta della Presidenza irlandese a favore di un multilateralismo forte ed efficace, del rispetto dei diritti umani e della prevenzione dei conflitti.

L’Unione deve rafforzare le sue relazioni con le Nazioni Unite e deve cercare un terreno d’intesa più ampio con tutti i protagonisti della scena mondiale, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Russia. Dobbiamo cooperare con gli stati membri per aiutare il segretario generale Kofi Annan a portare avanti la riforma delle Nazioni Unite, che vogliamo forti, efficaci e presenti dove la pace è in pericolo, dove le popolazioni hanno bisogno d’aiuto, dove i diritti dell’uomo vanno protetti. Le minacce alla sicurezza e alla pace nel mondo non vengono solamente dai conflitti armati e dai movimenti che conducono la loro azione tramite la lotta armata. Mentre le organizzazioni terroriste vanno contrastate senza esitazione e messe in condizione di non nuocere, le situazioni di conflitto vanno risolte sul piano politico. Mi associo perciò alle proposte della Presidenza irlandese di concentrare l’azione dell’Unione sugli aiuti umanitari, sul rispetto dei diritti umani e sui fattori politici, economici e sociali che nutrono la violenza e la guerra. Il capitolo del Trattato costituzionale è stato il più spinoso dell’agenda del passato semestre di Presidenza italiano. Innanzitutto, voglio esprimere la mia più viva soddisfazione per la ripresa dei lavori della Conferenza intergovernativa. Per la mia Commissione, il varo della Costituzione è una priorità assoluta e il 2004 deve essere l’anno della nuova Costituzione europea. Dopo il vertice del dicembre 2003, è chiaro che i punti di contrasto ancora sul tappeto potrebbero non essere insormontabili se gli stati membri faranno uno sforzo ulteriore per far maturare il consenso sulle proposte

Cyprus

Danimarca

Rep. Ceca

Un’Europa allargata, fondata sull’economia dell’innovazione e della conoscenza EU enlargement based on the economics of innovation and knowledge

MEPs before and after enlargement

-

6

16

14

Francia

87

78

France

87

78

Irlanda

15

13

Ireland

15

13

Italia

87

78

Italy

87

78

-

9

Latvia

-

9

Lituania

-

13

Lithuania

-

13

Lussemburgo

6

6

Luxembourg

6

6

Malta

Lettonia

Malta Paesi Bassi

-

5

31

27

Netherlands

-

5

31

27

-

54

Poland

-

54

Portogallo

25

24

Portugal

25

24

Regno Unito

87

78

United Kingdom

87

78

-

14

Slovakia

-

14

Slovenia

Polonia

Slovacchia Slovenia

-

7

-

7

Spagna

64

54

Spain

64

54

Svezia

22

19

Sweden

22

19

Ungheria

-

24

Hungary

-

24

TOTALE

626

732

TOTAL

626

732

della Convenzione. Se questa maturazione avvenisse, allora l’accordo può essere vicino. Rallentare il processo di integrazione rappresenta, infatti, un costo politico ed economico troppo alto. Nessuna soluzione è certo priva di rischi e la Commissione insiste perché si proceda tutti assieme verso un’integrazione più forte e condivisa. Se gli sforzi in questa direzione dovessero ripetutamente fallire, non ci si potrebbe certo opporre a una cooperazione più forte da parte di alcuni, cooperazione che dovrebbe poi servire come punto di partenza per un’Unione più vigorosa e più coesa, utilizzando a questo scopo il metodo che ha garantito il successo di cinquant’anni d’integrazione europea. Ultimo punto importante è quello che concerne le azioni europee per la crescita economica. Dopo qualche anno di difficoltà, la congiuntura sembra finalmente migliorare; l’atmosfera torna quindi a essere favorevole per stimolare l’attività economica. Ci tengo a ribadire la visione di fondo della nostra strategia, che si fonda sulla prosecuzione della strategia di Lisbona, che resta l’unico ancoraggio per

permettere alla società e all’economia europea di mantenere prosperità, sicurezza e giustizia sociale anche in un mondo globalizzato. La Commissione farà le sue proposte, il Consiglio prenderà le sue decisioni. Tuttavia nulla accade davvero finché queste decisioni non diventano politiche reali a livello nazionale. Dobbiamo essere tutti convinti che le grandi priorità dell’Unione devono essere la conoscenza e l’innovazione. Gli investimenti nella scuola, nella formazione permanente e nella ricerca non sono un problema teorico ma un obiettivo da perseguire immediatamente, perché i nostri concorrenti internazionali ci stanno superando o ci hanno già superato. Dobbiamo, insomma, accelerare la transizione verso l’economia della conoscenza. Se alziamo gli occhi dal presente immediato, è evidente che la nostra crescita dipende essenzialmente dallo sviluppo delle risorse umane e della conoscenza. Voglio, dunque, insistere ancora una volta sulla necessità di creare in Europa dei centri di ricerca di eccellenza a livello mondiale, che devono essere il simbolo concreto e

vitale della nostra visione del futuro dell’Europa. Per la ricerca d’avanguardia, una strategia nazionale non basta. Occorre una strategia continentale. Occorre uno sforzo di tutta l’Unione. Il nostro continente deve tornare a essere ciò che è stato per secoli: il punto di riferimento di tutti i giovani ricercatori del mondo. Non solo, dobbiamo anche mettere in atto un meccanismo che consenta ai giovani che in questo momento si stanno specializzando altrove, di ritornare in Europa una volta finiti gli studi. I giovani europei devono trovare in Europa le opportunità di studio, di lavoro e di successo a cui hanno diritto. E questo non va detto solamente nel loro interesse, perché su questo si gioca la nostra stessa sopravvivenza. Questo deve essere il senso delle nostre politiche e questo deve essere il nostro impegno per rispondere alle attese dei nostri cittadini.

* Romano Prodi è presidente della Commissione europea dal marzo 1999. Nel corso della sua importante carriera, iniziata in campo accademico presso l’Università di Bologna, è stato ministro dell’Industria, presidente dell’Iri e, dal 1996 al 1998, presidente del Consiglio. Ha ricoperto, inoltre, numerosi importanti incarichi come presidente della società editrice Il Mulino e della società di ricerche economiche Nomisma. Ha ricevuto numerose lauree honoris causa in Italia e all’estero e ha pubblicato circa 20 volumi di economia e un gran numero di saggi e articoli.

T

he events awaiting us over the next few months will mark the European Union’s path forward for many years to come. I am referring to official deadlines such as the election of a new European Parliament in mid-June and the end of my term in office at the end of October. Talks defining the future economic prospects of the EU are also of crucial importance and the European Commission has already put forward its proposals. Finally, we will witness the end of the enlargement process and further progress in drawing up a Constitutional Treaty and outlining our strategy for growth and development. After years of meticulous preparation, we reached the end of a crucial process for our future on 1st May 2004. The enlargement process will lead to changes of great scope and depth for all our institutions: on a practical level, the internal organization of the Commission and the appointment of the new Commissioners resulting from intensive talks with the governments of new Member States. The objective, of course, is to achieve a quick integration of the new member nations. This époque-making moment is like crossing a mountain pass: when we get there a whole new landscape will open up before us. We will finally see the real borders of the European Union, which will take its final form when all Western Balkan nations have been welcomed in. From up on the mountain top we will also be able to see the new neighbors of the enlarged EU, with whom we plan to create an area of co-operation, stability, security, and peace. This process is already under way thanks to the development of a Ring of Friendly Countries extending the opportunity for

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Un’Europa che si allarga a nuovi confini fino a diventare soggetto rappresentante di 25 stati deve assumersi, oltre a quello economico, anche l’impegno all’allargamento della conoscenza. Il futuro dell’integrazione si gioca sulla capacità di portare lo sviluppo delle risorse umane verso traguardi di eccellenza, puntando a far tornare il continente europeo quello che è stato per secoli: il punto di riferimento di tutti i giovani ricercatori del mondo. As Europe extends its borders to encompass a total of 25 nations, it must take on not only its economic responsibilities but also a commitment to expanding its “mind.” The future of integration depends on its ability to project human resources onto a higher level of excellence, aiming to restore Europe to the status it enjoyed for centuries as a benchmark for all young researchers around the world.

Il futuro che vogliamo The Future We Want

Parlamentari prima e dopo l’allargamento

di Romano Prodi* by Romano Prodi*

PRIMA

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Austria

21

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Austria

21

18

Belgio

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Belgium

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Cipro

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Czech Rep.

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Germania

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Germany

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Grecia

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Greece

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Estonia

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Finland

Estonia Finlandia

Romano Prodi

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li eventi che ci attendono nei prossimi mesi tracceranno il corso dell’Unione per molti anni a venire. Ricordo i fondamentali appuntamenti istituzionali, come il rinnovo del Parlamento europeo a metà giugno e la scadenza del mandato della mia Commissione alla fine di ottobre. Sono, inoltre, di importanza cruciale i negoziati che definiranno le future prospettive finanziarie dell’Unione, su cui la Commissione ha presentato le sue proposte. Vi sono, infine, la conclusione del processo di allargamento e i nuovi passi avanti sul Trattato costituzionale e sulla nostra strategia per la crescita. Dopo anni di meticolosa preparazione, siamo arrivati con il primo maggio 2004 a concludere un processo cruciale per il nostro futuro. L’allargamento porterà, infatti, con sé cambiamenti di ampia portata per tutte le nostre istituzioni: sul piano operativo l’organizzazione interna della Commissione e la designazione dei nuovi Commissari frutto delle consultazioni con i governi dei nuovi stati membri. L’obiettivo, ovviamente, è quello di arrivare a una rapida integrazione dei nuovi paesi

membri. Questa tappa epocale sul nostro cammino è come un passo di montagna: quando lo raggiungeremo scopriremo un paesaggio nuovo. Si vedranno i confini ultimi dell’Unione, che avrà raggiunto la sua forma definitiva quando accoglierà tutti i paesi dei Balcani occidentali. Dal valico vedremo anche i nuovi vicini dell’Europa allargata, con cui vogliamo creare un’area di cooperazione, di stabilità, di sicurezza e di pace. Quest’opera è già iniziata, grazie all’iniziativa dell’Anello dei Paesi Amici che estende dal Mediterraneo alla Russia la possibilità di cooperare profondamente e sistematicamente con l’Unione europea. Ma il modello europeo è anche la nostra proposta per impostare le relazioni fra paesi in tutto il mondo. Negli ultimi anni, il mondo è diventato meno sicuro e l’insieme delle relazioni internazionali attraversa una fase di profonda incertezza. Sostengo quindi con decisione la scelta della Presidenza irlandese a favore di un multilateralismo forte ed efficace, del rispetto dei diritti umani e della prevenzione dei conflitti.

L’Unione deve rafforzare le sue relazioni con le Nazioni Unite e deve cercare un terreno d’intesa più ampio con tutti i protagonisti della scena mondiale, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Russia. Dobbiamo cooperare con gli stati membri per aiutare il segretario generale Kofi Annan a portare avanti la riforma delle Nazioni Unite, che vogliamo forti, efficaci e presenti dove la pace è in pericolo, dove le popolazioni hanno bisogno d’aiuto, dove i diritti dell’uomo vanno protetti. Le minacce alla sicurezza e alla pace nel mondo non vengono solamente dai conflitti armati e dai movimenti che conducono la loro azione tramite la lotta armata. Mentre le organizzazioni terroriste vanno contrastate senza esitazione e messe in condizione di non nuocere, le situazioni di conflitto vanno risolte sul piano politico. Mi associo perciò alle proposte della Presidenza irlandese di concentrare l’azione dell’Unione sugli aiuti umanitari, sul rispetto dei diritti umani e sui fattori politici, economici e sociali che nutrono la violenza e la guerra. Il capitolo del Trattato costituzionale è stato il più spinoso dell’agenda del passato semestre di Presidenza italiano. Innanzitutto, voglio esprimere la mia più viva soddisfazione per la ripresa dei lavori della Conferenza intergovernativa. Per la mia Commissione, il varo della Costituzione è una priorità assoluta e il 2004 deve essere l’anno della nuova Costituzione europea. Dopo il vertice del dicembre 2003, è chiaro che i punti di contrasto ancora sul tappeto potrebbero non essere insormontabili se gli stati membri faranno uno sforzo ulteriore per far maturare il consenso sulle proposte

Cyprus

Danimarca

Rep. Ceca

Un’Europa allargata, fondata sull’economia dell’innovazione e della conoscenza EU enlargement based on the economics of innovation and knowledge

MEPs before and after enlargement

-

6

16

14

Francia

87

78

France

87

78

Irlanda

15

13

Ireland

15

13

Italia

87

78

Italy

87

78

-

9

Latvia

-

9

Lituania

-

13

Lithuania

-

13

Lussemburgo

6

6

Luxembourg

6

6

Malta

Lettonia

Malta Paesi Bassi

-

5

31

27

Netherlands

-

5

31

27

-

54

Poland

-

54

Portogallo

25

24

Portugal

25

24

Regno Unito

87

78

United Kingdom

87

78

-

14

Slovakia

-

14

Slovenia

Polonia

Slovacchia Slovenia

-

7

-

7

Spagna

64

54

Spain

64

54

Svezia

22

19

Sweden

22

19

Ungheria

-

24

Hungary

-

24

TOTALE

626

732

TOTAL

626

732

della Convenzione. Se questa maturazione avvenisse, allora l’accordo può essere vicino. Rallentare il processo di integrazione rappresenta, infatti, un costo politico ed economico troppo alto. Nessuna soluzione è certo priva di rischi e la Commissione insiste perché si proceda tutti assieme verso un’integrazione più forte e condivisa. Se gli sforzi in questa direzione dovessero ripetutamente fallire, non ci si potrebbe certo opporre a una cooperazione più forte da parte di alcuni, cooperazione che dovrebbe poi servire come punto di partenza per un’Unione più vigorosa e più coesa, utilizzando a questo scopo il metodo che ha garantito il successo di cinquant’anni d’integrazione europea. Ultimo punto importante è quello che concerne le azioni europee per la crescita economica. Dopo qualche anno di difficoltà, la congiuntura sembra finalmente migliorare; l’atmosfera torna quindi a essere favorevole per stimolare l’attività economica. Ci tengo a ribadire la visione di fondo della nostra strategia, che si fonda sulla prosecuzione della strategia di Lisbona, che resta l’unico ancoraggio per

permettere alla società e all’economia europea di mantenere prosperità, sicurezza e giustizia sociale anche in un mondo globalizzato. La Commissione farà le sue proposte, il Consiglio prenderà le sue decisioni. Tuttavia nulla accade davvero finché queste decisioni non diventano politiche reali a livello nazionale. Dobbiamo essere tutti convinti che le grandi priorità dell’Unione devono essere la conoscenza e l’innovazione. Gli investimenti nella scuola, nella formazione permanente e nella ricerca non sono un problema teorico ma un obiettivo da perseguire immediatamente, perché i nostri concorrenti internazionali ci stanno superando o ci hanno già superato. Dobbiamo, insomma, accelerare la transizione verso l’economia della conoscenza. Se alziamo gli occhi dal presente immediato, è evidente che la nostra crescita dipende essenzialmente dallo sviluppo delle risorse umane e della conoscenza. Voglio, dunque, insistere ancora una volta sulla necessità di creare in Europa dei centri di ricerca di eccellenza a livello mondiale, che devono essere il simbolo concreto e

vitale della nostra visione del futuro dell’Europa. Per la ricerca d’avanguardia, una strategia nazionale non basta. Occorre una strategia continentale. Occorre uno sforzo di tutta l’Unione. Il nostro continente deve tornare a essere ciò che è stato per secoli: il punto di riferimento di tutti i giovani ricercatori del mondo. Non solo, dobbiamo anche mettere in atto un meccanismo che consenta ai giovani che in questo momento si stanno specializzando altrove, di ritornare in Europa una volta finiti gli studi. I giovani europei devono trovare in Europa le opportunità di studio, di lavoro e di successo a cui hanno diritto. E questo non va detto solamente nel loro interesse, perché su questo si gioca la nostra stessa sopravvivenza. Questo deve essere il senso delle nostre politiche e questo deve essere il nostro impegno per rispondere alle attese dei nostri cittadini.

* Romano Prodi è presidente della Commissione europea dal marzo 1999. Nel corso della sua importante carriera, iniziata in campo accademico presso l’Università di Bologna, è stato ministro dell’Industria, presidente dell’Iri e, dal 1996 al 1998, presidente del Consiglio. Ha ricoperto, inoltre, numerosi importanti incarichi come presidente della società editrice Il Mulino e della società di ricerche economiche Nomisma. Ha ricevuto numerose lauree honoris causa in Italia e all’estero e ha pubblicato circa 20 volumi di economia e un gran numero di saggi e articoli.

T

he events awaiting us over the next few months will mark the European Union’s path forward for many years to come. I am referring to official deadlines such as the election of a new European Parliament in mid-June and the end of my term in office at the end of October. Talks defining the future economic prospects of the EU are also of crucial importance and the European Commission has already put forward its proposals. Finally, we will witness the end of the enlargement process and further progress in drawing up a Constitutional Treaty and outlining our strategy for growth and development. After years of meticulous preparation, we reached the end of a crucial process for our future on 1st May 2004. The enlargement process will lead to changes of great scope and depth for all our institutions: on a practical level, the internal organization of the Commission and the appointment of the new Commissioners resulting from intensive talks with the governments of new Member States. The objective, of course, is to achieve a quick integration of the new member nations. This époque-making moment is like crossing a mountain pass: when we get there a whole new landscape will open up before us. We will finally see the real borders of the European Union, which will take its final form when all Western Balkan nations have been welcomed in. From up on the mountain top we will also be able to see the new neighbors of the enlarged EU, with whom we plan to create an area of co-operation, stability, security, and peace. This process is already under way thanks to the development of a Ring of Friendly Countries extending the opportunity for

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Cordialmente divisi Divided We Stand di Sergio Romano* by Sergio Romano*

Negli ultimi anni le divergenze fra Europa e Usa sono aumentate. E il fossato si allarga Over recent years divergences between Europe and the USA have accentuated. And the rift is still growing

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systematic, far-reaching co-operation with the European Union from the Mediterranean to Russia. But the guidelines adopted for Europe are also our proposal for setting up relations between nations all over the world. Over recent years the world has become a less safe place to live in, and international relations as a whole are going through a period of deep uncertainty. This is why I am pledging my full support to the decision taken by the Irish Presidency in favor of powerful and effective multilateralism, respect for human rights, and action to prevent conflicts. The European Union must strengthen its relations with the United Nations and try and find more grounds for agreement with the leading players on the world scene, starting with the United States and Russia. We must co-operate with Member States to help the SecretaryGeneral, Kofi Annan, go ahead with reforms to the United Nations to make them stronger, more effective and ever-present where peace is in peril, where nations need aid, and where human rights need safeguarding. Threats to world peace and security do not just come from armed conflicts and movements that use violence as a weapon. Although we must be unswerving in our resolve to defeat terrorism, conflicts must ultimately be resolved on a political level. I agree with the proposals put forward by the Irish Presidency, suggesting that EU action be focused on humanitarian aid,

respect for human rights, and political, economic and social factors that fuel violence and war. The writing of a Constitutional Treaty turned out to be the trickiest item on the agenda of Italy’s term of Presidency. And, first and foremost, I would like to say how delighted I am that the Inter-governmental Conference has resumed its talks. For my Commission, the approval of the Constitution is an absolute priority and 2004 must be the year of the new European Constitution. After the December 2003 summit, it is clear that certain differences in opinion can only be worked out if Member States make greater efforts to gain the approval of the Convention’s proposals. If this approval is obtained, then an agreement may be just around the corner. Slowing down the integration process will simply cost too much in political and economic terms. No solution is without its risks and the Commission is determined for us all to move forward together toward stronger and more widely approved integration. If efforts in this direction were to become bogged down, it would clearly be impossible to stand in the way of a smaller number of States seeking greater cooperation that would then serve as a starting point for a more vigorous and cohesive Union, using the method that has ensured the success of fifty years of European integration. The last key point concerns European action aimed at

economic growth. After a few difficult years, the situation finally looks brighter; this means the conditions are now right for boosting economic activity. I would like to underline the basic vision behind our plan of action, which is based on continuing the strategy set down in Lisbon that is still the only means of guaranteeing the continuing prosperity of the European economy and society in a safe and socially just climate in a global world. The Commission will make its proposals and the Council will take action. But nothing will really happen until these decisions are transformed into real policies on a domestic scale. We must all be convinced that the Union’s main priorities must be knowledge and innovation. Investments in education and life-long training and research are not a theoretical issue but a real objective to be pursued right away, bearing in mind that our international competitors are either overtaking us or already forging ahead. In other words, we must speed up the transition toward a knowledge-based economy. If we raise our sights and look further ahead, we will soon see that our growth basically depends on developing human resources and knowledge. This is why I would like to insist once again on the need to create world-class cutting-edge research centers in Europe that must be real symbols of our vision of the future of Europe. Cutting-edge research cannot be carried out on a domestic

basis. It will take a continental strategy with the entire Union working together. Our continent must regain the status it had for centuries: a benchmark for all young researchers across the globe. Moreover, we must also set the wheels in motion to let young people, who are currently studying elsewhere, to return to Europe once they have finished their training. Young Europeans must be provided with study facilities, job opportunities, and good prospects here in Europe, as is only their right. And this is not just for their benefit, it is the key to our very survival. These are the lines along which our policies lie and it is our duty to follow them to meet citizen’s expectations.

* Romano Prodi has been the President of the European Commission since March 1999. During his important career, which began teaching at Bologna University, he has been Italian Industry Minister, Chairman of the Institute for Industrial Reconstruction (IRI), and Italian Prime Minister from 1996-98. He has also held a number of important positions such as Chairman of the Italian publishing house Il Mulino and Nomisma, one of the leading Italian economic consultancies. He has been awarded a number of honorary degrees conferred by renowned universities in Italy and abroad and has published over 20 books on economics as well as a vast number of essays and articles.

Sergio Romano

I

n uno dei molti dibattiti degli scorsi mesi sui rapporti euro-americani dopo l’11 Settembre, un giornalista inglese esortava a non drammatizzare le divergenze in atto e ricordava le numerose baruffe in famiglia negli anni della Guerra Fredda. Aveva ragione. Ci fu il grande dissidio sul Vietnam, negli anni Sessanta e Settanta, quando tutti i governi europei (compreso quello della Gran Bretagna) erano contrari al conflitto. E chi si dichiara stupito per la posizione assunta dal presidente francese Jacques Chirac sulla guerra irachena dovrebbe rileggere il discorso che il generale de Gaulle pronunciò a Pnom Penh, in Cambogia nel 1967. Nel 1980, dopo l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca, si litigò per parecchi mesi sul progetto di un grande gasdotto fra Urss ed Europa occidentale, cui la nuova presidenza americana era contraria. E non vi era riunione dei ministri della Difesa della Nato in cui gli americani non parlassero di burden sharing, vale a dire della ripartizione delle spese militari, in seno all’Alleanza, tra gli Stati Uniti e i paesi del vecchio continente. Ma ogni dissidio, sosteneva il

giornalista inglese, veniva prima o dopo composto. Perché non dovrebbe accadere oggi la stessa cosa? Non esistono forse, tra Europa e America, forti interessi comuni? Questi interessi esistono e continueranno ad avere un peso determinante, ma le circostanze internazionali sono cambiate. Negli anni della Guerra Fredda tutti, in Europa e Usa, sapevano che lo spettacolo delle nostre divisioni ci avrebbe indeboliti di fronte all’URSS e avrebbe incoraggiato Mosca a prendere decisioni avventate. Ci mettevamo d’accordo, alla fine, perché non potevamo permettere che un litigio pregiudicasse la nostra sicurezza comune. Oggi, dopo la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del nemico, le divergenze acquistano maggiore evidenza e i compromessi diventano più difficili. L’elezione di Bush e l’influenza dei neoconservatori sulla politica estera americana hanno aperto nuovi contenziosi: la guerra irachena, la questione palestinese, il Protocollo di Kyoto, i dazi americani sull’importazione di acciaio. Sappiamo che molti governi europei hanno approvato la politica americana verso l’Iraq di

Saddam Hussein e la Palestina di Yasser Arafat. Ma lo hanno fatto, generalmente, contro la volontà della loro pubblica opinione. Nella società europea, indipendentemente dalle posizioni dei singoli governi, le critiche all’America, nel corso del 2003, sono state, da un paese all’altro, le stesse. Credo che all’origine di queste divergenze ve ne sia una più grande e meno difficilmente sanabile. La fine della Guerra Fredda ha prodotto sulle due sponde dell’Atlantico risultati completamente diversi. In Europa si è fatta strada la convinzione che possano, infine, esistere le premesse per una società internazionale in cui gli stati più avanzati possano accettare di sottoscrivere impegni per il perseguimento di grandi obiettivi collettivi: la sicurezza, la difesa dei diritti umani, la protezione delle minoranze, la tutela dell’ambiente, la lotta alla droga, la punizione dei crimini di guerra e dei delitti contro l’umanità. La guerra in Bosnia del 1995, la guerra del Kosovo nella primavera del 1999 e persino quella contro l’Afghanistan alla fine del 2001 sono state giustificate, agli occhi di molti europei, dal perseguimento di questi obiettivi. Occorreva quindi rafforzare le organizzazioni internazionali esistenti, creare nuove istituzioni e firmare nuovi trattati. È stato questo lo spirito con cui sono stati istituiti i tribunali penali regionali e il Tribunale penale internazionale. È stata questa la concezione che ha dato origine ad alcune grandi campagne in cui la posizione dell’Europa si è dimostrata generalmente determinante: per l’abolizione delle mine antiuomo e le armi chimiche, contro l’emissione di gas tossici, contro la tortura, per i diritti delle donne e dei bambini, per la salvaguardia di

alcune specie animali. È possibile che in queste posizioni europee vi sia talvolta stata una overdose di ottimismo e di idealismo. Ma il fenomeno era troppo diffuso perché i governi potessero ignorarlo. Anche il presidente del Consiglio italiano, dopo avere contato il numero delle bandiere arcobaleno apparse sulle finestre dei suoi connazionali alla vigilia della guerra irachena, ha dovuto mitigare la sua politica filoamericana. I realisti sanno che anche gli ideali fanno parte della realtà e che è difficile ignorare i desideri, sia pure velleitari, di una larga parte della pubblica opinione. In America è accaduto per molti aspetti l’opposto. Per una parte considerevole dell’opinione pubblica e della classe politica americana, la fine della Guerra Fredda è stata percepita come la liberazione dai vincoli e dagli impegni che gli Stati Uniti avevano assunto negli anni precedenti. L’espressione “neoisolazionismo”, con cui questo atteggiamento è stato definito, non rispecchia la realtà. L’America è conscia della sua importanza nel mondo ed è decisa a perseguire i propri interessi ovunque, ma è sempre meno incline a lasciarsi vincolare da regole generali, concluse spesso dopo negoziati che limitano la sovranità nazionale dei singoli stati. Il Congresso di Washington promulga leggi extraterritoriali, fissa norme cui gli altri stati debbono attenersi e punisce i “colpevoli” con sanzioni civili ed economiche. L’America non ha un “impero”, nel senso tradizionale della parola, ma una catena di basi militari dove l’unica legge vigente (ne avemmo la prova all’epoca dell’incidente del Cermis, quando un aereo americano tranciò il cavo di una funivia) è quella degli Stati Uniti.

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Cordialmente divisi Divided We Stand di Sergio Romano* by Sergio Romano*

Negli ultimi anni le divergenze fra Europa e Usa sono aumentate. E il fossato si allarga Over recent years divergences between Europe and the USA have accentuated. And the rift is still growing

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systematic, far-reaching co-operation with the European Union from the Mediterranean to Russia. But the guidelines adopted for Europe are also our proposal for setting up relations between nations all over the world. Over recent years the world has become a less safe place to live in, and international relations as a whole are going through a period of deep uncertainty. This is why I am pledging my full support to the decision taken by the Irish Presidency in favor of powerful and effective multilateralism, respect for human rights, and action to prevent conflicts. The European Union must strengthen its relations with the United Nations and try and find more grounds for agreement with the leading players on the world scene, starting with the United States and Russia. We must co-operate with Member States to help the SecretaryGeneral, Kofi Annan, go ahead with reforms to the United Nations to make them stronger, more effective and ever-present where peace is in peril, where nations need aid, and where human rights need safeguarding. Threats to world peace and security do not just come from armed conflicts and movements that use violence as a weapon. Although we must be unswerving in our resolve to defeat terrorism, conflicts must ultimately be resolved on a political level. I agree with the proposals put forward by the Irish Presidency, suggesting that EU action be focused on humanitarian aid,

respect for human rights, and political, economic and social factors that fuel violence and war. The writing of a Constitutional Treaty turned out to be the trickiest item on the agenda of Italy’s term of Presidency. And, first and foremost, I would like to say how delighted I am that the Inter-governmental Conference has resumed its talks. For my Commission, the approval of the Constitution is an absolute priority and 2004 must be the year of the new European Constitution. After the December 2003 summit, it is clear that certain differences in opinion can only be worked out if Member States make greater efforts to gain the approval of the Convention’s proposals. If this approval is obtained, then an agreement may be just around the corner. Slowing down the integration process will simply cost too much in political and economic terms. No solution is without its risks and the Commission is determined for us all to move forward together toward stronger and more widely approved integration. If efforts in this direction were to become bogged down, it would clearly be impossible to stand in the way of a smaller number of States seeking greater cooperation that would then serve as a starting point for a more vigorous and cohesive Union, using the method that has ensured the success of fifty years of European integration. The last key point concerns European action aimed at

economic growth. After a few difficult years, the situation finally looks brighter; this means the conditions are now right for boosting economic activity. I would like to underline the basic vision behind our plan of action, which is based on continuing the strategy set down in Lisbon that is still the only means of guaranteeing the continuing prosperity of the European economy and society in a safe and socially just climate in a global world. The Commission will make its proposals and the Council will take action. But nothing will really happen until these decisions are transformed into real policies on a domestic scale. We must all be convinced that the Union’s main priorities must be knowledge and innovation. Investments in education and life-long training and research are not a theoretical issue but a real objective to be pursued right away, bearing in mind that our international competitors are either overtaking us or already forging ahead. In other words, we must speed up the transition toward a knowledge-based economy. If we raise our sights and look further ahead, we will soon see that our growth basically depends on developing human resources and knowledge. This is why I would like to insist once again on the need to create world-class cutting-edge research centers in Europe that must be real symbols of our vision of the future of Europe. Cutting-edge research cannot be carried out on a domestic

basis. It will take a continental strategy with the entire Union working together. Our continent must regain the status it had for centuries: a benchmark for all young researchers across the globe. Moreover, we must also set the wheels in motion to let young people, who are currently studying elsewhere, to return to Europe once they have finished their training. Young Europeans must be provided with study facilities, job opportunities, and good prospects here in Europe, as is only their right. And this is not just for their benefit, it is the key to our very survival. These are the lines along which our policies lie and it is our duty to follow them to meet citizen’s expectations.

* Romano Prodi has been the President of the European Commission since March 1999. During his important career, which began teaching at Bologna University, he has been Italian Industry Minister, Chairman of the Institute for Industrial Reconstruction (IRI), and Italian Prime Minister from 1996-98. He has also held a number of important positions such as Chairman of the Italian publishing house Il Mulino and Nomisma, one of the leading Italian economic consultancies. He has been awarded a number of honorary degrees conferred by renowned universities in Italy and abroad and has published over 20 books on economics as well as a vast number of essays and articles.

Sergio Romano

I

n uno dei molti dibattiti degli scorsi mesi sui rapporti euro-americani dopo l’11 Settembre, un giornalista inglese esortava a non drammatizzare le divergenze in atto e ricordava le numerose baruffe in famiglia negli anni della Guerra Fredda. Aveva ragione. Ci fu il grande dissidio sul Vietnam, negli anni Sessanta e Settanta, quando tutti i governi europei (compreso quello della Gran Bretagna) erano contrari al conflitto. E chi si dichiara stupito per la posizione assunta dal presidente francese Jacques Chirac sulla guerra irachena dovrebbe rileggere il discorso che il generale de Gaulle pronunciò a Pnom Penh, in Cambogia nel 1967. Nel 1980, dopo l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca, si litigò per parecchi mesi sul progetto di un grande gasdotto fra Urss ed Europa occidentale, cui la nuova presidenza americana era contraria. E non vi era riunione dei ministri della Difesa della Nato in cui gli americani non parlassero di burden sharing, vale a dire della ripartizione delle spese militari, in seno all’Alleanza, tra gli Stati Uniti e i paesi del vecchio continente. Ma ogni dissidio, sosteneva il

giornalista inglese, veniva prima o dopo composto. Perché non dovrebbe accadere oggi la stessa cosa? Non esistono forse, tra Europa e America, forti interessi comuni? Questi interessi esistono e continueranno ad avere un peso determinante, ma le circostanze internazionali sono cambiate. Negli anni della Guerra Fredda tutti, in Europa e Usa, sapevano che lo spettacolo delle nostre divisioni ci avrebbe indeboliti di fronte all’URSS e avrebbe incoraggiato Mosca a prendere decisioni avventate. Ci mettevamo d’accordo, alla fine, perché non potevamo permettere che un litigio pregiudicasse la nostra sicurezza comune. Oggi, dopo la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del nemico, le divergenze acquistano maggiore evidenza e i compromessi diventano più difficili. L’elezione di Bush e l’influenza dei neoconservatori sulla politica estera americana hanno aperto nuovi contenziosi: la guerra irachena, la questione palestinese, il Protocollo di Kyoto, i dazi americani sull’importazione di acciaio. Sappiamo che molti governi europei hanno approvato la politica americana verso l’Iraq di

Saddam Hussein e la Palestina di Yasser Arafat. Ma lo hanno fatto, generalmente, contro la volontà della loro pubblica opinione. Nella società europea, indipendentemente dalle posizioni dei singoli governi, le critiche all’America, nel corso del 2003, sono state, da un paese all’altro, le stesse. Credo che all’origine di queste divergenze ve ne sia una più grande e meno difficilmente sanabile. La fine della Guerra Fredda ha prodotto sulle due sponde dell’Atlantico risultati completamente diversi. In Europa si è fatta strada la convinzione che possano, infine, esistere le premesse per una società internazionale in cui gli stati più avanzati possano accettare di sottoscrivere impegni per il perseguimento di grandi obiettivi collettivi: la sicurezza, la difesa dei diritti umani, la protezione delle minoranze, la tutela dell’ambiente, la lotta alla droga, la punizione dei crimini di guerra e dei delitti contro l’umanità. La guerra in Bosnia del 1995, la guerra del Kosovo nella primavera del 1999 e persino quella contro l’Afghanistan alla fine del 2001 sono state giustificate, agli occhi di molti europei, dal perseguimento di questi obiettivi. Occorreva quindi rafforzare le organizzazioni internazionali esistenti, creare nuove istituzioni e firmare nuovi trattati. È stato questo lo spirito con cui sono stati istituiti i tribunali penali regionali e il Tribunale penale internazionale. È stata questa la concezione che ha dato origine ad alcune grandi campagne in cui la posizione dell’Europa si è dimostrata generalmente determinante: per l’abolizione delle mine antiuomo e le armi chimiche, contro l’emissione di gas tossici, contro la tortura, per i diritti delle donne e dei bambini, per la salvaguardia di

alcune specie animali. È possibile che in queste posizioni europee vi sia talvolta stata una overdose di ottimismo e di idealismo. Ma il fenomeno era troppo diffuso perché i governi potessero ignorarlo. Anche il presidente del Consiglio italiano, dopo avere contato il numero delle bandiere arcobaleno apparse sulle finestre dei suoi connazionali alla vigilia della guerra irachena, ha dovuto mitigare la sua politica filoamericana. I realisti sanno che anche gli ideali fanno parte della realtà e che è difficile ignorare i desideri, sia pure velleitari, di una larga parte della pubblica opinione. In America è accaduto per molti aspetti l’opposto. Per una parte considerevole dell’opinione pubblica e della classe politica americana, la fine della Guerra Fredda è stata percepita come la liberazione dai vincoli e dagli impegni che gli Stati Uniti avevano assunto negli anni precedenti. L’espressione “neoisolazionismo”, con cui questo atteggiamento è stato definito, non rispecchia la realtà. L’America è conscia della sua importanza nel mondo ed è decisa a perseguire i propri interessi ovunque, ma è sempre meno incline a lasciarsi vincolare da regole generali, concluse spesso dopo negoziati che limitano la sovranità nazionale dei singoli stati. Il Congresso di Washington promulga leggi extraterritoriali, fissa norme cui gli altri stati debbono attenersi e punisce i “colpevoli” con sanzioni civili ed economiche. L’America non ha un “impero”, nel senso tradizionale della parola, ma una catena di basi militari dove l’unica legge vigente (ne avemmo la prova all’epoca dell’incidente del Cermis, quando un aereo americano tranciò il cavo di una funivia) è quella degli Stati Uniti.

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L’America non si oppone agli accordi internazionali con cui altri stati decidono di limitare la propria sovranità, ma rifiuta generalmente di firmarli. Questa nuova politica americana era già evidente all’epoca della presidenza Clinton. Ma il presidente democratico cercò di evitare che queste tendenze divenissero irrevocabili e le assecondò, quando non poteva fare altrimenti, con prudenza. Finanziò le ricerche per il sistema antimissilistico, ma siglò, con qualche riserva, gli accordi di Kyoto e si spinse sino a firmare, nell’ultimo giorno della sua presidenza, il trattato per la creazione di un Tribunale penale internazionale. Anche negli anni della sua presidenza tuttavia il Congresso continuò a emanare leggi territoriali e a chiedere sanzioni contro le ditte straniere che “osavano” avere rapporti d’affari con Cuba, la Libia e l’Iran. Il cambiamento è diventato più evidente nel momento in cui George W. Bush ha portato con sé alla Casa Bianca e nei dipartimenti della sua amministrazione i maggiori esponenti della corrente politica che aveva teorizzato, negli anni precedenti, la svolta unilateralista della politica americana. E il processo ha subito una brusca accelerazione, naturalmente, quando il presidente, dopo l’11 Settembre, ha ritenuto di dover

Oltre i confini della nuova Europa Dal 1 maggio 2004 le frontiere dell’Unione si sono spostate notevolmente a Est e sembra che il Direttorio europeo a tre, con Francia, Germania e Gran Bretagna, non abbia considerato in anticipo tutte le conseguenze del cambiamento in corso. Se fino ad oggi l’Europa ha sofferto di poca chiarezza e della mancanza di una vera e propria politica estera comune, con l’allargamento, il deficit di unità in politica estera sarà ancora più sentito e più grave. Proprio mentre l’allargamento incoraggia le ambizioni di diventare una potenza globale. Tre questioni importanti si presentano alla nuova Europa: come reagire al terrorismo, quale politica seguire nei confronti del mondo islamico, e quali relazioni stabilire con la Russia e la Cina. Il terrorismo locale non è nuovo in Europa: noi tutti ricordiamo le Brigate Rosse in Italia, il gruppo Bader-Meinhoff in Germania, gli indipendentisti corsi in Francia, l’ETA

D

dare una risposta energica alla rabbia e alle paure della sua opinione pubblica. Il resto è storia recente. Molte delle divergenze scoppiate negli scorsi mesi sono temporanee. Su quelle di carattere economico (dazi, dumping, politica agricola, organismi geneticamente modificati) Europa e Stati Uniti hanno interesse a raggiungere un accordo. Su quelle politiche (l’Iraq, la Palestina, l’Iran) Europa e America sembrano decise a evitare la rottura; e molto dipenderà in ultima analisi dall’evoluzione della situazione sul terreno. Ma esistono ormai differenze più profonde che mettono in discussione la cultura politica e legale dei due partner. Su questi dissensi le intese e i compromessi saranno d’ora in poi sempre più difficili.

uring one of the numerous debates that have taken place over recent months about EuropeanAmerican relations in the wake of September 11th, a British journalist suggested that we should not exaggerate our divergences and reminded us of all the internal squabbling that took place during the Cold War. He was right. There was a real quarrel over Vietnam in the 1960s-70s, when all European governments (including the British Government) were against the war. And anyone astonished by the stance the French President Jacques Chirac took over the Iraq War ought to re-read the speech that General de Gaulle made in Phnom Penh, Cambodia, in 1967. After Ronald Reagan was elected to the White House in 1980, there were months of arguing over the construction of a huge gas line between the USSR and Western Europe that the newly elected American government strongly opposed. And in every meeting of the Ministries of Defense belonging to NATO, the Americans kept on talking about “burden sharing” or, in other words, the sharing of military costs among the Alliance, between the United States and countries from old Europe. But, as the British journalist pointed out, all the arguments were eventually settled. Why should not the same thing happen

* Sergio Romano è oggi uno degli opinionisti più ascoltati in Italia e a livello internazionale. È stato direttore generale degli Affari Culturali del ministero degli Esteri (1977-1983), rappresentante alla Nato (1983-1985) e dal settembre 1985 ambasciatore a Mosca, durante i cruciali anni della Perestrojka, fino alla conclusione della sua carriera diplomatica nel marzo 1989. Come storico si è occupato prevalentemente di storia italiana e francese tra Ottocento e Novecento e ha scritto numerosi libri di grande diffusione. Attualmente è editorialista del Corriere della Sera e di Panorama e collabora con svariate riviste di relazioni internazionali.

in Spagna e l’IRA in Gran Bretagna. Ma ora l’Europa si sveglia con un terrorismo di dimensioni globali ben più spaventose, quello di Al-Qaida che ha massacrato l’11 Marzo 2004 a Madrid circa 200 persone e causato 1.600 feriti. Eseguito alla vigilia delle elezioni legislative, l’attentato di Madrid è riuscito in pieno nel suo scopo politico che era quello di punire il Partito Popolare per il suo appoggio a Bush nella guerra in Iraq e l’invio di un contingente simbolico in quel paese. Ha vinto il Partito Socialista che già aveva promesso il ritiro delle unità spagnole dall’Iraq. Un drammatico intervento esterno ha potuto cambiare un’elezione in un paese democratico, rispetto alle previsioni della vigilia. Improvvisamente la democrazia dei paesi europei, uno dei valori fondamentali dell’UE, è ora più fragile. Ci si domanda come ciò sia possibile, come gli elettori spagnoli abbiano eseguito ciecamente proprio quanto i terroristi si aspettavano da loro. Il professor Florentino Portero, del

Gruppo di Studi Strategici GEES di Madrid dice che più della metà degli spagnoli sono convinti di poter vivere in sicurezza solo se la Spagna non sarà coinvolta in avventure politiche in altri paesi. Essi si illudono che se la Spagna sarà neutrale, nessuno la colpirà. Spagna e Germania hanno avuto nel passato regimi totalitari e oggi, con un’ingenuità pericolosa, la nuova generazione respinge in modo istintivo tutto ciò che concerne l’esercito, la polizia e i segni esterni di potenza come l’uso della forza nell’arena internazionale. Portero sottolinea che “il terrorismo non è un’ideologia ma una tattica, è l’uso della forza contro i civili con fini politici. Si fa uso di questa tattica quando si considera che è la più appropriata per raggiungere degli obiettivi concreti. Coloro che nel mondo musulmano rifiutano il mondo moderno e sognano il ritorno a una società nella quale vige la legge coranica, sono arrivati alla conclusione che il terrorismo è la tattica che permette di colpire il nemico, causargli un danno

intollerabile, e forzarlo a cedere alle loro pretese”. Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” riassume bene la situazione: “Lo spirito di Monaco soffia sull’Europa”. Già il presidente della Polonia, Aleksander Kwasniewski, tenta una mezza svolta. Egli afferma di essere stato ingannato sull’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, dimenticando però che nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ci sono altri 13 punti che giustificano l’intervento armato in Iraq. Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi si sente minacciato. Insomma, l’Europa sembra propensa a piegarsi al diktat del terrore, come Chamberlain si piegò a Hitler nella riunione di Monaco nel 1938. Se l’Europa vuole davvero divenire una potenza globale essa dovrà rifiutare il ricatto e presentare un fronte unito anti-terrorista che richiede la cooperazione fra servizi diplomatici, intelligence e polizia fra tutti i paesi dell’Unione europea con una coordinazione unica. La reazione al terrorismo è connessa

alla formulazione di una politica islamica europea che finora manca. L’Unione deve riflettere sui mussulmani già residenti sul suo territorio e c’è chi ritiene che essi siano già 18 milioni. Bisogna definire una politica efficace per controllare l’immigrazione di altri mussulmani e si debbono prendere decisioni difficili nei riguardi di una popolazione che ha una cultura, un modo di vivere, e una fede diversa dalla maggioranza degli europei. La sola decisione presa finora è quella della Francia che concerne il modo di vestirsi delle ragazze che vanno a scuola. Si guarda più alla forma che al contenuto. La Chiesa Cattolica che ha una posizione dominante in Europa avrebbe potuto servire da riferimento su argomenti così complessi ma ha preferito invece assumere negli ultimi anni una posizione politica spiccatamente antiamericana. Ora si cominciano a notare i primi segni di una possibile rivisitazione. Come scrive Sandro Magister su www.chiesa, l’“Osservatore Romano” reagendo alla strage di Madrid

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dell’11 Marzo 2004, ha parlato della missione italiana in Iraq come “l’adempimento di un nuovo compito diretto a promuovere la pace”. Il professor Vittorio Emanuele Parsi su “Avvenire” chiede a tutti i governi europei, Francia e Germania compresi, non di lasciare l’Iraq ma al contrario di “inviarvi proprie truppe sotto le bandiere dell’ONU per partecipare alla messa in sicurezza di quel paese”. Padre Cevellera, su “Asia News”, scrive che sia la guerra sia la successiva presenza della coalizione alleata “stanno facendo bene all’Iraq”. L’essenziale è distinguere fra Islam, religione legittima, e islamisti, ossia i fondamentalisti che vogliono imporre una politica totalitaria come scrive Bassam Tibi (Euro-Islam. L’integrazione mancata, Marsilio, 2002). Le ambizioni della nuova Europa di diventare una potenza globale dovranno fatalmente basarsi sulla capacità e la volontà di gestire politicamente l’Islam e di difendersi dagli islamisti. L’Europa potrà inoltre giocare un

ruolo importante verso Est, in Russia ad esempio, e non solo nel campo energetico dove sono già in corso delle azioni comuni di grande rilevanza politico-economica come il gasdotto sotto il Mar Nero costruito dalla italiana Saipem. La rielezione del presidente Putin era scontata e lascia al suo posto un uomo che vede nella lotta contro il terrorismo ceceno un elemento essenziale della sua gestione. Questo è un fattore importante sul quale si può costruire la collaborazione con un’Europa decisa a rifiutare i ricatti. La Cina, nuova locomotiva dell’economia mondiale, è dotata di un esercito che è numericamente il più grande del mondo, si sta modernizzando rapidamente, dispone dell’arma nucleare e spera di arrivare a conquistarsi un posto anche nello spazio extraterrestre. Lo sviluppo economico della Cina negli ultimi anni ha sorpassato tutte le previsioni, anche se è difficile quantificarlo esattamente. Lo sviluppo accelerato domanderà quantità crescenti di energia e ciò spiega il profondo interesse della

Cina per il petrolio medio-orientale e quello del Kazakistan nonché per il gas naturale. La Cina, che è pronta a collaborare con gli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo globale, potrebbe però diventare un avversario per gli stessi Stati Uniti coi quali aspira a raggiungere la parità militare. E cosa farà l’Europa? Continuerà a godere dell’ombrello nucleare americano, o preferirà dotarsi di mezzi di difesa propri? Anche in questo campo è necessaria maggiore chiarezza di intenti. (S.M.)


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L’America non si oppone agli accordi internazionali con cui altri stati decidono di limitare la propria sovranità, ma rifiuta generalmente di firmarli. Questa nuova politica americana era già evidente all’epoca della presidenza Clinton. Ma il presidente democratico cercò di evitare che queste tendenze divenissero irrevocabili e le assecondò, quando non poteva fare altrimenti, con prudenza. Finanziò le ricerche per il sistema antimissilistico, ma siglò, con qualche riserva, gli accordi di Kyoto e si spinse sino a firmare, nell’ultimo giorno della sua presidenza, il trattato per la creazione di un Tribunale penale internazionale. Anche negli anni della sua presidenza tuttavia il Congresso continuò a emanare leggi territoriali e a chiedere sanzioni contro le ditte straniere che “osavano” avere rapporti d’affari con Cuba, la Libia e l’Iran. Il cambiamento è diventato più evidente nel momento in cui George W. Bush ha portato con sé alla Casa Bianca e nei dipartimenti della sua amministrazione i maggiori esponenti della corrente politica che aveva teorizzato, negli anni precedenti, la svolta unilateralista della politica americana. E il processo ha subito una brusca accelerazione, naturalmente, quando il presidente, dopo l’11 Settembre, ha ritenuto di dover

Oltre i confini della nuova Europa Dal 1 maggio 2004 le frontiere dell’Unione si sono spostate notevolmente a Est e sembra che il Direttorio europeo a tre, con Francia, Germania e Gran Bretagna, non abbia considerato in anticipo tutte le conseguenze del cambiamento in corso. Se fino ad oggi l’Europa ha sofferto di poca chiarezza e della mancanza di una vera e propria politica estera comune, con l’allargamento, il deficit di unità in politica estera sarà ancora più sentito e più grave. Proprio mentre l’allargamento incoraggia le ambizioni di diventare una potenza globale. Tre questioni importanti si presentano alla nuova Europa: come reagire al terrorismo, quale politica seguire nei confronti del mondo islamico, e quali relazioni stabilire con la Russia e la Cina. Il terrorismo locale non è nuovo in Europa: noi tutti ricordiamo le Brigate Rosse in Italia, il gruppo Bader-Meinhoff in Germania, gli indipendentisti corsi in Francia, l’ETA

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dare una risposta energica alla rabbia e alle paure della sua opinione pubblica. Il resto è storia recente. Molte delle divergenze scoppiate negli scorsi mesi sono temporanee. Su quelle di carattere economico (dazi, dumping, politica agricola, organismi geneticamente modificati) Europa e Stati Uniti hanno interesse a raggiungere un accordo. Su quelle politiche (l’Iraq, la Palestina, l’Iran) Europa e America sembrano decise a evitare la rottura; e molto dipenderà in ultima analisi dall’evoluzione della situazione sul terreno. Ma esistono ormai differenze più profonde che mettono in discussione la cultura politica e legale dei due partner. Su questi dissensi le intese e i compromessi saranno d’ora in poi sempre più difficili.

uring one of the numerous debates that have taken place over recent months about EuropeanAmerican relations in the wake of September 11th, a British journalist suggested that we should not exaggerate our divergences and reminded us of all the internal squabbling that took place during the Cold War. He was right. There was a real quarrel over Vietnam in the 1960s-70s, when all European governments (including the British Government) were against the war. And anyone astonished by the stance the French President Jacques Chirac took over the Iraq War ought to re-read the speech that General de Gaulle made in Phnom Penh, Cambodia, in 1967. After Ronald Reagan was elected to the White House in 1980, there were months of arguing over the construction of a huge gas line between the USSR and Western Europe that the newly elected American government strongly opposed. And in every meeting of the Ministries of Defense belonging to NATO, the Americans kept on talking about “burden sharing” or, in other words, the sharing of military costs among the Alliance, between the United States and countries from old Europe. But, as the British journalist pointed out, all the arguments were eventually settled. Why should not the same thing happen

* Sergio Romano è oggi uno degli opinionisti più ascoltati in Italia e a livello internazionale. È stato direttore generale degli Affari Culturali del ministero degli Esteri (1977-1983), rappresentante alla Nato (1983-1985) e dal settembre 1985 ambasciatore a Mosca, durante i cruciali anni della Perestrojka, fino alla conclusione della sua carriera diplomatica nel marzo 1989. Come storico si è occupato prevalentemente di storia italiana e francese tra Ottocento e Novecento e ha scritto numerosi libri di grande diffusione. Attualmente è editorialista del Corriere della Sera e di Panorama e collabora con svariate riviste di relazioni internazionali.

in Spagna e l’IRA in Gran Bretagna. Ma ora l’Europa si sveglia con un terrorismo di dimensioni globali ben più spaventose, quello di Al-Qaida che ha massacrato l’11 Marzo 2004 a Madrid circa 200 persone e causato 1.600 feriti. Eseguito alla vigilia delle elezioni legislative, l’attentato di Madrid è riuscito in pieno nel suo scopo politico che era quello di punire il Partito Popolare per il suo appoggio a Bush nella guerra in Iraq e l’invio di un contingente simbolico in quel paese. Ha vinto il Partito Socialista che già aveva promesso il ritiro delle unità spagnole dall’Iraq. Un drammatico intervento esterno ha potuto cambiare un’elezione in un paese democratico, rispetto alle previsioni della vigilia. Improvvisamente la democrazia dei paesi europei, uno dei valori fondamentali dell’UE, è ora più fragile. Ci si domanda come ciò sia possibile, come gli elettori spagnoli abbiano eseguito ciecamente proprio quanto i terroristi si aspettavano da loro. Il professor Florentino Portero, del

Gruppo di Studi Strategici GEES di Madrid dice che più della metà degli spagnoli sono convinti di poter vivere in sicurezza solo se la Spagna non sarà coinvolta in avventure politiche in altri paesi. Essi si illudono che se la Spagna sarà neutrale, nessuno la colpirà. Spagna e Germania hanno avuto nel passato regimi totalitari e oggi, con un’ingenuità pericolosa, la nuova generazione respinge in modo istintivo tutto ciò che concerne l’esercito, la polizia e i segni esterni di potenza come l’uso della forza nell’arena internazionale. Portero sottolinea che “il terrorismo non è un’ideologia ma una tattica, è l’uso della forza contro i civili con fini politici. Si fa uso di questa tattica quando si considera che è la più appropriata per raggiungere degli obiettivi concreti. Coloro che nel mondo musulmano rifiutano il mondo moderno e sognano il ritorno a una società nella quale vige la legge coranica, sono arrivati alla conclusione che il terrorismo è la tattica che permette di colpire il nemico, causargli un danno

intollerabile, e forzarlo a cedere alle loro pretese”. Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” riassume bene la situazione: “Lo spirito di Monaco soffia sull’Europa”. Già il presidente della Polonia, Aleksander Kwasniewski, tenta una mezza svolta. Egli afferma di essere stato ingannato sull’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, dimenticando però che nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ci sono altri 13 punti che giustificano l’intervento armato in Iraq. Il primo ministro italiano Silvio Berlusconi si sente minacciato. Insomma, l’Europa sembra propensa a piegarsi al diktat del terrore, come Chamberlain si piegò a Hitler nella riunione di Monaco nel 1938. Se l’Europa vuole davvero divenire una potenza globale essa dovrà rifiutare il ricatto e presentare un fronte unito anti-terrorista che richiede la cooperazione fra servizi diplomatici, intelligence e polizia fra tutti i paesi dell’Unione europea con una coordinazione unica. La reazione al terrorismo è connessa

alla formulazione di una politica islamica europea che finora manca. L’Unione deve riflettere sui mussulmani già residenti sul suo territorio e c’è chi ritiene che essi siano già 18 milioni. Bisogna definire una politica efficace per controllare l’immigrazione di altri mussulmani e si debbono prendere decisioni difficili nei riguardi di una popolazione che ha una cultura, un modo di vivere, e una fede diversa dalla maggioranza degli europei. La sola decisione presa finora è quella della Francia che concerne il modo di vestirsi delle ragazze che vanno a scuola. Si guarda più alla forma che al contenuto. La Chiesa Cattolica che ha una posizione dominante in Europa avrebbe potuto servire da riferimento su argomenti così complessi ma ha preferito invece assumere negli ultimi anni una posizione politica spiccatamente antiamericana. Ora si cominciano a notare i primi segni di una possibile rivisitazione. Come scrive Sandro Magister su www.chiesa, l’“Osservatore Romano” reagendo alla strage di Madrid

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dell’11 Marzo 2004, ha parlato della missione italiana in Iraq come “l’adempimento di un nuovo compito diretto a promuovere la pace”. Il professor Vittorio Emanuele Parsi su “Avvenire” chiede a tutti i governi europei, Francia e Germania compresi, non di lasciare l’Iraq ma al contrario di “inviarvi proprie truppe sotto le bandiere dell’ONU per partecipare alla messa in sicurezza di quel paese”. Padre Cevellera, su “Asia News”, scrive che sia la guerra sia la successiva presenza della coalizione alleata “stanno facendo bene all’Iraq”. L’essenziale è distinguere fra Islam, religione legittima, e islamisti, ossia i fondamentalisti che vogliono imporre una politica totalitaria come scrive Bassam Tibi (Euro-Islam. L’integrazione mancata, Marsilio, 2002). Le ambizioni della nuova Europa di diventare una potenza globale dovranno fatalmente basarsi sulla capacità e la volontà di gestire politicamente l’Islam e di difendersi dagli islamisti. L’Europa potrà inoltre giocare un

ruolo importante verso Est, in Russia ad esempio, e non solo nel campo energetico dove sono già in corso delle azioni comuni di grande rilevanza politico-economica come il gasdotto sotto il Mar Nero costruito dalla italiana Saipem. La rielezione del presidente Putin era scontata e lascia al suo posto un uomo che vede nella lotta contro il terrorismo ceceno un elemento essenziale della sua gestione. Questo è un fattore importante sul quale si può costruire la collaborazione con un’Europa decisa a rifiutare i ricatti. La Cina, nuova locomotiva dell’economia mondiale, è dotata di un esercito che è numericamente il più grande del mondo, si sta modernizzando rapidamente, dispone dell’arma nucleare e spera di arrivare a conquistarsi un posto anche nello spazio extraterrestre. Lo sviluppo economico della Cina negli ultimi anni ha sorpassato tutte le previsioni, anche se è difficile quantificarlo esattamente. Lo sviluppo accelerato domanderà quantità crescenti di energia e ciò spiega il profondo interesse della

Cina per il petrolio medio-orientale e quello del Kazakistan nonché per il gas naturale. La Cina, che è pronta a collaborare con gli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo globale, potrebbe però diventare un avversario per gli stessi Stati Uniti coi quali aspira a raggiungere la parità militare. E cosa farà l’Europa? Continuerà a godere dell’ombrello nucleare americano, o preferirà dotarsi di mezzi di difesa propri? Anche in questo campo è necessaria maggiore chiarezza di intenti. (S.M.)


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turn in American policy. This process was, of course, suddenly speeded up when, in the wake of September 11th, the president decided he had to respond strongly to the anger and fears of the American people. The rest is recent history. A number of the divergences that have suddenly emerged over the last few months are just fleeting incidents. Both Europe and America are interested in settling their economic divergences (levies, dumping, farm policy, genetically modified organisms). On a political level (Iraq, Palestine, Iran), Europe and America seem keen to avoid any serious breaks; and a lot will ultimately depend on how things develop out in the field. But some deeper rifts are now emerging that call into question the politics and laws of these two partners. From now on, it will be increasingly difficult to settle disagreements and reach compromises.

today? After all, do not Europe and America share plenty of important interests? These interests are real and will continue to play a crucial role, but the international scene has changed. During the Cold War period, everybody in Europe and the United States knew that any signs of our divisions would have weakened our position in relation to the USSR and might have encouraged Moscow to make rash decisions. In the end, we would come to some agreement because we could not afford to let an argument jeopardize our security. Now that the Cold War has ended and our old enemy has disappeared, our differences are more evident and it is harder to reach a compromise. The election of George Bush and the influence of neoconservatives on American foreign policy have opened up new rifts: the war in Iraq, the Palestinian issue, the Kyoto Protocol, and American levies on steel imports. We know that several European governments have approved American foreign policy toward Saddam Hussein’s Iraq and Yasser Arafat’s Palestine. But generally speaking they have done it against the will of their own people. Quite apart from the positions of individual governments, criticism of America in European society in 2003 was the same in all countries.

I believe there is one major difference of opinion (which is actually less tricky to resolve) at the root of all these divergences. The end of the Cold War has produced quite different results on either side of the Atlantic. In Europe there is a widespread belief that we have the basis for an international society in which leading nations will be willing to sign pledges to pursue joint objectives of considerable scope and importance: security, defending human rights, protecting minorities, safeguarding the environment, the drugs war, and punishing war crimes or crimes against humanity. The 1995 war in Bosnia, the war in Kosovo in spring 1999, and even the war against Afghanistan in late-2001 can be justified in many European’s eyes in the name of these objectives. This called for a strengthening of existing international organizations, the creation of new institutions and the signing of new treaties. This is the spirit in which regional criminal courts and the International Criminal Court have been set up. This was the idea behind certain major campaigns in which Europe generally turned out to be a key player: in the elimination of land mines and chemical weapons, against emissions of poisonous gases, against torture, for women’s and children’s rights, and in safeguarding certain species of

animals. It may be that Europe’s stance on these issues has occasionally been overoptimistic and idealistic, but the state of affairs was such that governments could not afford to turn a blind eye. Even the Italian Prime Minister had to soften his pro-Americanism when he counted the number of Peace flags hanging out of the windows of so many Italians’ homes. Realists know that even ideals are part of reality and that it is hard to ignore even the most overoptimistic desires of a large chunk of public opinion. In many ways the exact opposite happened in America. For a large slice of public opinion and American politicians, the end of the Cold War meant the end of the constraints and commitments America had taken on over previous years. The term “neo-isolationism,” that was coined to describe this attitude, does not mirror reality. America is aware of its importance on the world scene and is determined to follow its interests everywhere, but it is a lot less inclined to be hemmed in by across-the-board rules, usually set after talks restricting the national sovereignty of individual nations. The Washington Congress set extra-territorial laws, laid down regulations that other states must abide by, and punished the “guilty parties” with civil-economic sanctions. America

does not have an “empire” in the traditional sense of the word, just a chain of military bases where the only law in force (as we saw at the time of the Cermis incident when an American plane broke the cable holding up a cable car) is US law. America never opposes the international agreements other states make to limit sovereignty, they just usually refuse to sign them. This new line of American policy was already evident during Clinton’s term in office. But the democratic President tried to prevent these trends from becoming irrevocable and only approved them with great caution, when he had no other choice. He financed research into the anti-missile system, signed the Kyoto agreements with some reservations, and on the last day of his second term in office even went so far as to sign the treaty to create an International Criminal Court. Nevertheless, even when he was in office, Congress carried on passing territorial laws and proposing sanctions against foreign companies that “dared” to entertain relations with Cuba, Libya and Iran. The change in policy became more obvious when George W. Bush decided to take with him to the White House and various government departments the leading exponents of a political current that had, over previous years, promoted the unilateralist

* Sergio Romano is currently one of the most respected opinion makers in Italy and worldwide. He was Director General of Cultural Affairs for the Italian Foreign Ministry (1977-1983), a Delegate at NATO (1983-85) and from September 1985 Ambassador in Moscow during the key years of the Perestroika until the end of his diplomatic career in March 1989. As a historian he has mainly studied French and Italian history in the 19th-20th centuries and has published many popular books. He currently writes editorials for the Italian publications Corriere della Sera and Panorama and works for numerous journals dealing with international relations.

Beyond the Boundaries of the New Europe

the Bader-Meinhoff Group in Germany, the Corsican Separatists in France, ETA in Spain, and the IRA in Great Britain. But Europe has suddenly found itself facing terrorism of far more devastating global proportions after al-Qaida murdered over 200 people and injured 1,600 others in Madrid on 11th March 2004. The Madrid terrorist attack, carried out on the eve of a general election, achieved its political aim of punishing the Spanish Popular Party for supporting Bush in the War in Iraq and sending out troops to provide non-combat support for coalition forces. The Socialist Party, which had already pledged to withdraw Spanish troops from Iraq, won the elections. A dramatic event of external origin succeeded in changing the predicated election result in a democratic country and suddenly democracy in European nations, one of the EU’s capital values, is now weaker. We cannot help wondering how this was allowed to happen, how Spanish voters let themselves be duped into

doing what the terrorists expected of them. Professor Florentino Portero from the GEES, Strategic Studies Team, in Madrid claims that over half the Spanish people are convinced that they can live in safety only if Spain avoids getting involved in political adventures overseas. They live in the false belief that they will not be hit, if Spain remains neutral. Spain and Germany have lived under totalitarian regimes in the past, so nowadays the younger generation has a sort of dangerously naïve knee-jerk reaction to anything involving the army, police and signs of power from the outside, like the use of force in the international arena. Portero writes that “terrorism is not an ideology but a tactic, it is the use of force against civilians for political ends. This tactic gets used when it is believed to be the most effective means of achieving definite objectives. Those who reject modern life in the Muslim world and dream of returning to a society governed by the laws of the

Koran, have reached the conclusion that terrorism is the tactic which will allow them to strike their enemies, causing them unbearable suffering and forcing them to forego their own plans.” Angelo Panebianco summed up the situation clearly in the Italian newspaper “Corriere della Sera”: “The spirit of Munich is hovering over Europe.” The President of Poland, Aleksander Kwasniewski, has already made a half about-turn. He admits to having been fooled into believing there were weapons of mass destruction in Iraq, overlooking the fact that the UN Security Council resolution also refers to a further thirteen reasons for armed intervention against Iraq. The Italian Prime Minister, Silvio Berlusconi, feels under threat. In other words, Europe seems to be willing to give way to terror dictates, just as Chamberlain yielded to Hitler at the Munich summit in 1938. If Europe really wants to be a global power, it will have to refuse to be blackmailed

and present a united front against terrorism, calling for co-operation between diplomatic/intelligence services and the police force in all the member states as part of one big concerted effort. How we react to terrorism is closely related to the formulation of the kind of European Islamic policy that has been totally lacking until now. The European Union must think about the Muslims already living within its borders, as many as 18 million according to some people. We need an effective policy for controlling the immigration of even more Muslims and difficult decisions must be taken toward people whose culture, way of life, and faith, are different from most Europeans. The only decision taken so far is France’s policy on girls’ dress code at school. There is more attention to form than content. The Catholic Church, which has a dominant role in Europe, could have provided guidelines on certain intricate issues, but over recent years it has

From 1st May 2004, the EU’s borders shifted markedly to the East, and it would seem that the Executive Board of France, Germany and Great Britain has failed to consider all the implications of the change under way. If, until now, Europe has suffered from a lack of clear thinking or a proper joint foreign policy, after the enlargement process its shortcomings in terms of unified foreign policy will be even more marked and serious, right at the moment when its ambitions to become a real world power are to the fore. New Europe will have to come up with answers to three important questions: how to react to terrorism, what policy to follow in relation to the Islamic world, and what kind of relations to establish with Russia and China. Terrorism on a local scale is nothing new in Europe: we all remember the Red Brigade in Italy,

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preferred to adopt a distinctly anti-American political stance. We are now starting to see the first signs of a change in policy. As Sandro Magister pointed out at www.chiesa, reacting to the terrorist attack in Madrid on 11th March 2004, the “Osservatore Romano,” the official Vatican newspaper, referred to Italy’s mission in Iraq as the “fulfilling of a fresh duty in the name of peace.” In “Avvenire,” the Italian daily newspaper published under the auspices of the Catholic Church, Professor Vittorio Emanuele Parsi appealed to all European governments, France and Germany included, not to leave Iraq but, on the contrary, to “send in their own troops under UN flags to contribute to making Iraq safe.” Father Cevellera wrote in “Asia News” that both the war and the ensuing presence of the allied coalition “are good for Iraq.” The important thing is to make a distinction between Islam, a legitimate religion, and Islamists, or in other words fundamentalists

who are bent on imposing a totalitarian policy, as Bassam Tibi put it (Euro-Islam. L’integrazione mancata, Marsilio, 2002). The ambitions of the new Europe to become a global power will inevitably have to be based on the capacity and will to handle Islam on a political terrain and defend ourselves against Islamists. Moreover, the EU will likely play a key role in the Eastern countries, such as Russia, and not just in the field of energy where plenty of joint ventures with high political and economic relevance are already under way, such as the gas line beneath the Black Sea built by the Italian firm Saipem. The re-election of President Putin was a foregone conclusion, re-instating a man who considers the fight against Chechen terrorism to be a key part of his administration. This is an important point that can form the foundations of co-operation with Europe, as it takes its own decisive steps against terrorist blackmail. China, the new driving force

behind the world economy, has the biggest army in the world in terms of numbers, is modernizing at a breathtaking rate, has nuclear weapons, and hopes to establish its own place in outer space. China’s economic development over recent years has exceeded all expectations, even though it is actually hard to quantify it accurately. Its fast-developing growth will call for increasing quantities of energy, which explains China’s deep interest in Middle-Eastern oil and the reserves in Kazakhstan, not to mention natural gas. China, which is ready to co-operate with the United States in the war against global terrorism, is also potentially an opponent of the United States as it strives to match the latter’s military power. So how will Europe react to this? Will it just keep on relying on America’s nuclear capacity, or will it decide to arm itself with its own defensive weapons? It needs to make its intentions clearer in this field, too. (S.M.)


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turn in American policy. This process was, of course, suddenly speeded up when, in the wake of September 11th, the president decided he had to respond strongly to the anger and fears of the American people. The rest is recent history. A number of the divergences that have suddenly emerged over the last few months are just fleeting incidents. Both Europe and America are interested in settling their economic divergences (levies, dumping, farm policy, genetically modified organisms). On a political level (Iraq, Palestine, Iran), Europe and America seem keen to avoid any serious breaks; and a lot will ultimately depend on how things develop out in the field. But some deeper rifts are now emerging that call into question the politics and laws of these two partners. From now on, it will be increasingly difficult to settle disagreements and reach compromises.

today? After all, do not Europe and America share plenty of important interests? These interests are real and will continue to play a crucial role, but the international scene has changed. During the Cold War period, everybody in Europe and the United States knew that any signs of our divisions would have weakened our position in relation to the USSR and might have encouraged Moscow to make rash decisions. In the end, we would come to some agreement because we could not afford to let an argument jeopardize our security. Now that the Cold War has ended and our old enemy has disappeared, our differences are more evident and it is harder to reach a compromise. The election of George Bush and the influence of neoconservatives on American foreign policy have opened up new rifts: the war in Iraq, the Palestinian issue, the Kyoto Protocol, and American levies on steel imports. We know that several European governments have approved American foreign policy toward Saddam Hussein’s Iraq and Yasser Arafat’s Palestine. But generally speaking they have done it against the will of their own people. Quite apart from the positions of individual governments, criticism of America in European society in 2003 was the same in all countries.

I believe there is one major difference of opinion (which is actually less tricky to resolve) at the root of all these divergences. The end of the Cold War has produced quite different results on either side of the Atlantic. In Europe there is a widespread belief that we have the basis for an international society in which leading nations will be willing to sign pledges to pursue joint objectives of considerable scope and importance: security, defending human rights, protecting minorities, safeguarding the environment, the drugs war, and punishing war crimes or crimes against humanity. The 1995 war in Bosnia, the war in Kosovo in spring 1999, and even the war against Afghanistan in late-2001 can be justified in many European’s eyes in the name of these objectives. This called for a strengthening of existing international organizations, the creation of new institutions and the signing of new treaties. This is the spirit in which regional criminal courts and the International Criminal Court have been set up. This was the idea behind certain major campaigns in which Europe generally turned out to be a key player: in the elimination of land mines and chemical weapons, against emissions of poisonous gases, against torture, for women’s and children’s rights, and in safeguarding certain species of

animals. It may be that Europe’s stance on these issues has occasionally been overoptimistic and idealistic, but the state of affairs was such that governments could not afford to turn a blind eye. Even the Italian Prime Minister had to soften his pro-Americanism when he counted the number of Peace flags hanging out of the windows of so many Italians’ homes. Realists know that even ideals are part of reality and that it is hard to ignore even the most overoptimistic desires of a large chunk of public opinion. In many ways the exact opposite happened in America. For a large slice of public opinion and American politicians, the end of the Cold War meant the end of the constraints and commitments America had taken on over previous years. The term “neo-isolationism,” that was coined to describe this attitude, does not mirror reality. America is aware of its importance on the world scene and is determined to follow its interests everywhere, but it is a lot less inclined to be hemmed in by across-the-board rules, usually set after talks restricting the national sovereignty of individual nations. The Washington Congress set extra-territorial laws, laid down regulations that other states must abide by, and punished the “guilty parties” with civil-economic sanctions. America

does not have an “empire” in the traditional sense of the word, just a chain of military bases where the only law in force (as we saw at the time of the Cermis incident when an American plane broke the cable holding up a cable car) is US law. America never opposes the international agreements other states make to limit sovereignty, they just usually refuse to sign them. This new line of American policy was already evident during Clinton’s term in office. But the democratic President tried to prevent these trends from becoming irrevocable and only approved them with great caution, when he had no other choice. He financed research into the anti-missile system, signed the Kyoto agreements with some reservations, and on the last day of his second term in office even went so far as to sign the treaty to create an International Criminal Court. Nevertheless, even when he was in office, Congress carried on passing territorial laws and proposing sanctions against foreign companies that “dared” to entertain relations with Cuba, Libya and Iran. The change in policy became more obvious when George W. Bush decided to take with him to the White House and various government departments the leading exponents of a political current that had, over previous years, promoted the unilateralist

* Sergio Romano is currently one of the most respected opinion makers in Italy and worldwide. He was Director General of Cultural Affairs for the Italian Foreign Ministry (1977-1983), a Delegate at NATO (1983-85) and from September 1985 Ambassador in Moscow during the key years of the Perestroika until the end of his diplomatic career in March 1989. As a historian he has mainly studied French and Italian history in the 19th-20th centuries and has published many popular books. He currently writes editorials for the Italian publications Corriere della Sera and Panorama and works for numerous journals dealing with international relations.

Beyond the Boundaries of the New Europe

the Bader-Meinhoff Group in Germany, the Corsican Separatists in France, ETA in Spain, and the IRA in Great Britain. But Europe has suddenly found itself facing terrorism of far more devastating global proportions after al-Qaida murdered over 200 people and injured 1,600 others in Madrid on 11th March 2004. The Madrid terrorist attack, carried out on the eve of a general election, achieved its political aim of punishing the Spanish Popular Party for supporting Bush in the War in Iraq and sending out troops to provide non-combat support for coalition forces. The Socialist Party, which had already pledged to withdraw Spanish troops from Iraq, won the elections. A dramatic event of external origin succeeded in changing the predicated election result in a democratic country and suddenly democracy in European nations, one of the EU’s capital values, is now weaker. We cannot help wondering how this was allowed to happen, how Spanish voters let themselves be duped into

doing what the terrorists expected of them. Professor Florentino Portero from the GEES, Strategic Studies Team, in Madrid claims that over half the Spanish people are convinced that they can live in safety only if Spain avoids getting involved in political adventures overseas. They live in the false belief that they will not be hit, if Spain remains neutral. Spain and Germany have lived under totalitarian regimes in the past, so nowadays the younger generation has a sort of dangerously naïve knee-jerk reaction to anything involving the army, police and signs of power from the outside, like the use of force in the international arena. Portero writes that “terrorism is not an ideology but a tactic, it is the use of force against civilians for political ends. This tactic gets used when it is believed to be the most effective means of achieving definite objectives. Those who reject modern life in the Muslim world and dream of returning to a society governed by the laws of the

Koran, have reached the conclusion that terrorism is the tactic which will allow them to strike their enemies, causing them unbearable suffering and forcing them to forego their own plans.” Angelo Panebianco summed up the situation clearly in the Italian newspaper “Corriere della Sera”: “The spirit of Munich is hovering over Europe.” The President of Poland, Aleksander Kwasniewski, has already made a half about-turn. He admits to having been fooled into believing there were weapons of mass destruction in Iraq, overlooking the fact that the UN Security Council resolution also refers to a further thirteen reasons for armed intervention against Iraq. The Italian Prime Minister, Silvio Berlusconi, feels under threat. In other words, Europe seems to be willing to give way to terror dictates, just as Chamberlain yielded to Hitler at the Munich summit in 1938. If Europe really wants to be a global power, it will have to refuse to be blackmailed

and present a united front against terrorism, calling for co-operation between diplomatic/intelligence services and the police force in all the member states as part of one big concerted effort. How we react to terrorism is closely related to the formulation of the kind of European Islamic policy that has been totally lacking until now. The European Union must think about the Muslims already living within its borders, as many as 18 million according to some people. We need an effective policy for controlling the immigration of even more Muslims and difficult decisions must be taken toward people whose culture, way of life, and faith, are different from most Europeans. The only decision taken so far is France’s policy on girls’ dress code at school. There is more attention to form than content. The Catholic Church, which has a dominant role in Europe, could have provided guidelines on certain intricate issues, but over recent years it has

From 1st May 2004, the EU’s borders shifted markedly to the East, and it would seem that the Executive Board of France, Germany and Great Britain has failed to consider all the implications of the change under way. If, until now, Europe has suffered from a lack of clear thinking or a proper joint foreign policy, after the enlargement process its shortcomings in terms of unified foreign policy will be even more marked and serious, right at the moment when its ambitions to become a real world power are to the fore. New Europe will have to come up with answers to three important questions: how to react to terrorism, what policy to follow in relation to the Islamic world, and what kind of relations to establish with Russia and China. Terrorism on a local scale is nothing new in Europe: we all remember the Red Brigade in Italy,

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preferred to adopt a distinctly anti-American political stance. We are now starting to see the first signs of a change in policy. As Sandro Magister pointed out at www.chiesa, reacting to the terrorist attack in Madrid on 11th March 2004, the “Osservatore Romano,” the official Vatican newspaper, referred to Italy’s mission in Iraq as the “fulfilling of a fresh duty in the name of peace.” In “Avvenire,” the Italian daily newspaper published under the auspices of the Catholic Church, Professor Vittorio Emanuele Parsi appealed to all European governments, France and Germany included, not to leave Iraq but, on the contrary, to “send in their own troops under UN flags to contribute to making Iraq safe.” Father Cevellera wrote in “Asia News” that both the war and the ensuing presence of the allied coalition “are good for Iraq.” The important thing is to make a distinction between Islam, a legitimate religion, and Islamists, or in other words fundamentalists

who are bent on imposing a totalitarian policy, as Bassam Tibi put it (Euro-Islam. L’integrazione mancata, Marsilio, 2002). The ambitions of the new Europe to become a global power will inevitably have to be based on the capacity and will to handle Islam on a political terrain and defend ourselves against Islamists. Moreover, the EU will likely play a key role in the Eastern countries, such as Russia, and not just in the field of energy where plenty of joint ventures with high political and economic relevance are already under way, such as the gas line beneath the Black Sea built by the Italian firm Saipem. The re-election of President Putin was a foregone conclusion, re-instating a man who considers the fight against Chechen terrorism to be a key part of his administration. This is an important point that can form the foundations of co-operation with Europe, as it takes its own decisive steps against terrorist blackmail. China, the new driving force

behind the world economy, has the biggest army in the world in terms of numbers, is modernizing at a breathtaking rate, has nuclear weapons, and hopes to establish its own place in outer space. China’s economic development over recent years has exceeded all expectations, even though it is actually hard to quantify it accurately. Its fast-developing growth will call for increasing quantities of energy, which explains China’s deep interest in Middle-Eastern oil and the reserves in Kazakhstan, not to mention natural gas. China, which is ready to co-operate with the United States in the war against global terrorism, is also potentially an opponent of the United States as it strives to match the latter’s military power. So how will Europe react to this? Will it just keep on relying on America’s nuclear capacity, or will it decide to arm itself with its own defensive weapons? It needs to make its intentions clearer in this field, too. (S.M.)


Patto di stabilità / Perché no

Le rigidità che bloccano l’Europa

LA VECCHIA E LA NUOVA EUROPA Produttività per occupato (o addetto), a parità di potere d'acquisto

Stability Pact / Why Not

UE 15 - DATI 2003

Rigidity is Holding Europe Back

GERMANIA FRANCIA SPAGNA LUSSEMBURGO

Intervista a Jean-Paul Fitoussi* Interview with Jean-Paul Fitoussi*

OLANDA SVEZIA REGNO UNITO GRECIA ITALIA

UE 15 - DATI 2002 (Francia e Spagna 2001)

95,5 113,6 95,8 129,7 95,6 96,2 97,2 91,9 106,1

NUOVI STATI MEMBRI - PREVISIONI 2004

Privilegiare il contenimento dei prezzi penalizza troppo crescita e occupazione Concentrating on keeping down prices is bad for growth and employment

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Jean-Paul Fitoussi

J

ean-Paul Fitoussi, presidente dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques di Parigi, esprime, in questa intervista ad arcVision, forti dubbi sulla possibilità di realizzare una crescita competitiva dei paesi europei nel contesto di un Patto di Stabilità eccessivamente e inutilmente rigido e focalizzato sul contenimento dei prezzi. Una perplessità, la sua, che è ancora più marcata nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione europea. Lei si è espresso più volte in modo critico rispetto all’attuale gestione della politica economica nell’Unione europea. Cosa può dire, in particolare, per quanto riguarda il modo attuale di interpretare il Patto di Stabilità? Il Patto di Stabilità così come è concepito oggi rischia di aggravare la stagnazione europea, già evidente in Germania, Francia e Italia. E non credo proprio che chi lo ha concepito originariamente volesse arrivare a questo, ossia a impedire la crescita economica in Europa. Occorre avere una visione più flessibile dell’applicazione delle regole, specie in una situazione di

difficoltà fuori dall’ordinario, che è quella nella quale ci troviamo. Vi è un cumulo di circostanze esterne che nel corso dell’ultimo secolo non si erano mai verificate in questa misura: un crack di borsa di dimensioni importanti, paragonabile a quello degli anni Trenta; due guerre, Afghanistan e Iraq, con conseguenze pesanti sul piano geo-politico; eventi climatici catastrofici in diverse parti del mondo; e, per ultimo, le nuove epidemie come la Sars e altre, che hanno avuto ampiezza senza precedenti. Tutto ciò ha influito negativamente sulla crescita economica della zona dell’euro. In tali circostanze, non ha senso affidarsi a un pilota automatico, cioè a delle regole fisse, e occorre tornare al pilotaggio manuale che consenta di modificare delle regole troppo strette. La posizione della Banca centrale europea è sempre stata, su questo punto, ben diversa, poiché ha sempre privilegiato la stabilità dei prezzi rispetto alla crescita. Che giudizio dà di questa strategia? È vero, ma occorre sempre tenere conto che fra teoria e pratica c’è una certa differenza.

La BCE persegue la stabilità dei prezzi, così come fanno tutte le Banche centrali del mondo. La differenza è che le Banche centrali non ci credono poi molto, mentre la BCE sembra perseguirla, almeno a giudicare dall’attuale evoluzione dell’euro. L’apprezzamento compromette le possibilità di una ripresa europea o le riduce al di sotto di ciò che potrebbe essere normale dopo una crisi così lunga come quella che abbiamo attraversato. È quello che la BCE vuole? La risposta per ora è incerta e non possiamo concludere che la Banca centrale dia più importanza alla teoria monetaria che alla pratica. Dobbiamo anche ricordare che la BCE è un’istituzione ancora molto giovane e che forse, con questa severità, pensa di guadagnare credibilità. La conseguenza di questa politica della BCE è, nondimeno, che i paesi dell’Ue devono competere con gli Stati Uniti con una mano legata dietro la schiena, ossia con la politica monetaria bloccata, e possono utilizzare in qualche modo solo la politica fiscale. È possibile competere in queste condizioni? Certo non è facile, ma il problema va oltre la sola politica monetaria della BCE e investe l’intero assetto della costituzione economica dell’Europa, che è fondamentalmente dogmatica. Perché dogmatica? Perché si fonda su tre pilastri: il primo è quello della politica monetaria della BCE, che nella sua indipendenza può fare ciò che ritiene più opportuno, dato che non deve rendere conto a nessuno; il secondo pilastro è lo stesso Patto di Stabilità, che è fatto apposta per impedire ai governi di agire, e di fatto non agiscono; e il terzo è la politica

di concorrenza, che è strettamente controllata dalla Commissione europea. Tutto ciò limita le possibilità degli stati membri di esercitare una vera politica industriale e blocca qualunque possibilità di praticare una vera politica economica. Voglio ribadire che non è possibile in Europa perseguire una politica improntata alla crescita, perché non si possono operare delle scelte efficaci tra stabilità dei prezzi e crescita, o tra disoccupazione ed equilibrio di bilancio. Queste cose sono invece del tutto normali per qualunque paese democratico, mentre in Europa sono diventate impossibili. In fondo, è questo l’oggetto della politica, operare decisioni e compromessi. Ne possiamo concludere che, paradossalmente, l’Europa è la sola regione del mondo che non è governata politicamente, ma solo tecnicamente. Guardando allora all’allargamento ad altri dieci paesi europei, se ne dovrebbe ricavare che il futuro sarà ancora più difficile e che il Patto di Stabilità diverrà ancor più elemento di freno dell’economia? Non c’è dubbio che con l’allargamento tutto questo diverrà ancora più difficile da governare. Quando invece che da 15 paesi l’Unione sarà composta da 25, diverrà molto forte per alcuni di essi cercare di approfittare della situazione e comportarsi da free rider, compromettendo la possibilità di arrivare a decisioni economiche unanimemente condivise, come per la politica di bilancio, la politica fiscale o gli obiettivi di stabilità del cambio. In tutti i paesi è prerogativa dei governi la definizione del tasso di cambio, ma non nell’Unione.

POLONIA SLOVACCHIA BULGARIA UNGHERIA

Salario medio annuale lordo in euro nelle industrie, nei servizi e nelle aziende con più di 10 dipendenti

GERMANIA FRANCIA SPAGNA LUSSEMBURGO OLANDA SVEZIA REGNO UNITO GRECIA

39.440 27.319 17.873 38.551 35.200 31.163 40.553 16.278

NUOVI STATI MEMBRI - DATI 2002

51,2 57,5 33,4 65,3

Potrebbe essere d’aiuto se, almeno per un certo periodo, si decidesse di attribuire ai nuovi entranti dei parametri di riferimento diversi, e meno stringenti, rispetto a quelli attualmente contemplati dal Patto di Stabilità? Credo che quante più regole imporremo ai nuovi paesi membri, e quanto più complicate esse saranno, tanto meno essi comprenderanno l’Europa. Il vero problema, che diventa ogni giorno più pressante, è dunque di avere in Europa un governo capace di operare delle scelte. L’Europa non può non darsi un assetto federale, perché ha già delle istituzioni federali, come la BCE e la Commissione, e non può essere federale solo a metà. Occorre una sede politica dove effettuare le scelte: occupazione o tasso di cambio, crescita o equilibrio di bilancio. Sono questioni politiche e non tecniche. Fino a quel momento ritengo improbabile che si possa arrivare a parametri più flessibili e concedere regole di favore, perché ci sarà sempre un paese che avrà la possibilità di opporsi. Sarebbe compito della Convenzione introdurre regole più flessibili, ma al momento non se ne vede traccia e dunque le difficoltà attuali sono destinate a restare, se non ad aumentare.

* Jean-Paul Fitoussi è presidente dell’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, e presidente dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques. Fitoussi insegna in diverse università in Europa e negli Stati Uniti ed è consigliere economico del Primo Ministro francese. Ha pubblicato numerosi saggi sulle principali riviste internazionali di economia e congiuntura e svariati libri su argomenti di economia internazionale, in particolare sulla realtà europea.

POLONIA SLOVACCHIA BULGARIA UNGHERIA

7.172 4.582 1.587 5.870

J

ean-Paul Fitoussi, President of the Observatoire Français des Conjonctures Economiques in Paris, tells arcVision of his serious doubts about the possibility of European countries achieving competitive growth within the bounds of a pointlessly over-rigid Stability Pact concentrating on keeping down prices. The prospect of the enlargement of the European Union certainly does nothing to assuage his doubts. You have criticized how the European Union handles its economic policy on more than one occasion. What have you got to say, in particular, about how the Stability Pact is being handled at the moment? The Stability Pact, as it stands at the moment, is likely to worsen the European stagnation we are already witnessing in Germany, France, and Italy. And I do not think the person who originally devised the Pact planned to impede economic growth in Europe. We need to adopt a more flexible approach to how rules are enforced, particularly in the kind of extraordinarily difficult situation in which we find ourselves. A whole combination of external circumstances that never occurred to this extent during last century have suddenly come about: a stock market crash serious enough to be compared to the crash in the 1930s; two wars in Afghanistan and Iraq with serious consequences on a geo-political level; disastrous climatic events in various parts of the world; and, most recently, new epidemics like SARS etc. of unprecedented proportions. All this has had negative effects on economic growth in the Eurozone. In circumstances like this, there is

no point in inserting automatic pilot and relying on set rules. It is time to revert back to manual pilot and slacken rules that have become too tight. The European Central Bank has always adopted a quite different position on this matter, since it has always concentrated on keeping prices stable rather than focusing on growth. How do you view this strategy? You are right, but it is important to bear in mind that there is a big difference between theory and practice. The ECB is interested, like the rest of the world’s central banks, in keeping prices stable. The difference is that central banks do not really believe in it any more, whereas the ECB seems to be carrying on along the same old lines, at least judging by the current trend in

the Euro. The strong Euro is jeopardizing the chances of a recovery in the European economy or making it less likely than usual after a long crisis of the kind we have just been through. But is this what the ECB really wants? It is hard to tell at the moment and we are not entitled to conclude that the Central Bank gives more importance to monetary theory than practice. We should also point out that the ECB is still a very recent development and perhaps believes that this kind of harsh approach will make it seem more credible. The consequence of ECB policy is that EU countries are forced to try and compete with the United States with one hand tied behind their back, that is to say with a stifling monetary policy, and in some sense

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Patto di stabilità / Perché no

Le rigidità che bloccano l’Europa

LA VECCHIA E LA NUOVA EUROPA Produttività per occupato (o addetto), a parità di potere d'acquisto

Stability Pact / Why Not

UE 15 - DATI 2003

Rigidity is Holding Europe Back

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Intervista a Jean-Paul Fitoussi* Interview with Jean-Paul Fitoussi*

OLANDA SVEZIA REGNO UNITO GRECIA ITALIA

UE 15 - DATI 2002 (Francia e Spagna 2001)

95,5 113,6 95,8 129,7 95,6 96,2 97,2 91,9 106,1

NUOVI STATI MEMBRI - PREVISIONI 2004

Privilegiare il contenimento dei prezzi penalizza troppo crescita e occupazione Concentrating on keeping down prices is bad for growth and employment

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Jean-Paul Fitoussi

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ean-Paul Fitoussi, presidente dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques di Parigi, esprime, in questa intervista ad arcVision, forti dubbi sulla possibilità di realizzare una crescita competitiva dei paesi europei nel contesto di un Patto di Stabilità eccessivamente e inutilmente rigido e focalizzato sul contenimento dei prezzi. Una perplessità, la sua, che è ancora più marcata nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione europea. Lei si è espresso più volte in modo critico rispetto all’attuale gestione della politica economica nell’Unione europea. Cosa può dire, in particolare, per quanto riguarda il modo attuale di interpretare il Patto di Stabilità? Il Patto di Stabilità così come è concepito oggi rischia di aggravare la stagnazione europea, già evidente in Germania, Francia e Italia. E non credo proprio che chi lo ha concepito originariamente volesse arrivare a questo, ossia a impedire la crescita economica in Europa. Occorre avere una visione più flessibile dell’applicazione delle regole, specie in una situazione di

difficoltà fuori dall’ordinario, che è quella nella quale ci troviamo. Vi è un cumulo di circostanze esterne che nel corso dell’ultimo secolo non si erano mai verificate in questa misura: un crack di borsa di dimensioni importanti, paragonabile a quello degli anni Trenta; due guerre, Afghanistan e Iraq, con conseguenze pesanti sul piano geo-politico; eventi climatici catastrofici in diverse parti del mondo; e, per ultimo, le nuove epidemie come la Sars e altre, che hanno avuto ampiezza senza precedenti. Tutto ciò ha influito negativamente sulla crescita economica della zona dell’euro. In tali circostanze, non ha senso affidarsi a un pilota automatico, cioè a delle regole fisse, e occorre tornare al pilotaggio manuale che consenta di modificare delle regole troppo strette. La posizione della Banca centrale europea è sempre stata, su questo punto, ben diversa, poiché ha sempre privilegiato la stabilità dei prezzi rispetto alla crescita. Che giudizio dà di questa strategia? È vero, ma occorre sempre tenere conto che fra teoria e pratica c’è una certa differenza.

La BCE persegue la stabilità dei prezzi, così come fanno tutte le Banche centrali del mondo. La differenza è che le Banche centrali non ci credono poi molto, mentre la BCE sembra perseguirla, almeno a giudicare dall’attuale evoluzione dell’euro. L’apprezzamento compromette le possibilità di una ripresa europea o le riduce al di sotto di ciò che potrebbe essere normale dopo una crisi così lunga come quella che abbiamo attraversato. È quello che la BCE vuole? La risposta per ora è incerta e non possiamo concludere che la Banca centrale dia più importanza alla teoria monetaria che alla pratica. Dobbiamo anche ricordare che la BCE è un’istituzione ancora molto giovane e che forse, con questa severità, pensa di guadagnare credibilità. La conseguenza di questa politica della BCE è, nondimeno, che i paesi dell’Ue devono competere con gli Stati Uniti con una mano legata dietro la schiena, ossia con la politica monetaria bloccata, e possono utilizzare in qualche modo solo la politica fiscale. È possibile competere in queste condizioni? Certo non è facile, ma il problema va oltre la sola politica monetaria della BCE e investe l’intero assetto della costituzione economica dell’Europa, che è fondamentalmente dogmatica. Perché dogmatica? Perché si fonda su tre pilastri: il primo è quello della politica monetaria della BCE, che nella sua indipendenza può fare ciò che ritiene più opportuno, dato che non deve rendere conto a nessuno; il secondo pilastro è lo stesso Patto di Stabilità, che è fatto apposta per impedire ai governi di agire, e di fatto non agiscono; e il terzo è la politica

di concorrenza, che è strettamente controllata dalla Commissione europea. Tutto ciò limita le possibilità degli stati membri di esercitare una vera politica industriale e blocca qualunque possibilità di praticare una vera politica economica. Voglio ribadire che non è possibile in Europa perseguire una politica improntata alla crescita, perché non si possono operare delle scelte efficaci tra stabilità dei prezzi e crescita, o tra disoccupazione ed equilibrio di bilancio. Queste cose sono invece del tutto normali per qualunque paese democratico, mentre in Europa sono diventate impossibili. In fondo, è questo l’oggetto della politica, operare decisioni e compromessi. Ne possiamo concludere che, paradossalmente, l’Europa è la sola regione del mondo che non è governata politicamente, ma solo tecnicamente. Guardando allora all’allargamento ad altri dieci paesi europei, se ne dovrebbe ricavare che il futuro sarà ancora più difficile e che il Patto di Stabilità diverrà ancor più elemento di freno dell’economia? Non c’è dubbio che con l’allargamento tutto questo diverrà ancora più difficile da governare. Quando invece che da 15 paesi l’Unione sarà composta da 25, diverrà molto forte per alcuni di essi cercare di approfittare della situazione e comportarsi da free rider, compromettendo la possibilità di arrivare a decisioni economiche unanimemente condivise, come per la politica di bilancio, la politica fiscale o gli obiettivi di stabilità del cambio. In tutti i paesi è prerogativa dei governi la definizione del tasso di cambio, ma non nell’Unione.

POLONIA SLOVACCHIA BULGARIA UNGHERIA

Salario medio annuale lordo in euro nelle industrie, nei servizi e nelle aziende con più di 10 dipendenti

GERMANIA FRANCIA SPAGNA LUSSEMBURGO OLANDA SVEZIA REGNO UNITO GRECIA

39.440 27.319 17.873 38.551 35.200 31.163 40.553 16.278

NUOVI STATI MEMBRI - DATI 2002

51,2 57,5 33,4 65,3

Potrebbe essere d’aiuto se, almeno per un certo periodo, si decidesse di attribuire ai nuovi entranti dei parametri di riferimento diversi, e meno stringenti, rispetto a quelli attualmente contemplati dal Patto di Stabilità? Credo che quante più regole imporremo ai nuovi paesi membri, e quanto più complicate esse saranno, tanto meno essi comprenderanno l’Europa. Il vero problema, che diventa ogni giorno più pressante, è dunque di avere in Europa un governo capace di operare delle scelte. L’Europa non può non darsi un assetto federale, perché ha già delle istituzioni federali, come la BCE e la Commissione, e non può essere federale solo a metà. Occorre una sede politica dove effettuare le scelte: occupazione o tasso di cambio, crescita o equilibrio di bilancio. Sono questioni politiche e non tecniche. Fino a quel momento ritengo improbabile che si possa arrivare a parametri più flessibili e concedere regole di favore, perché ci sarà sempre un paese che avrà la possibilità di opporsi. Sarebbe compito della Convenzione introdurre regole più flessibili, ma al momento non se ne vede traccia e dunque le difficoltà attuali sono destinate a restare, se non ad aumentare.

* Jean-Paul Fitoussi è presidente dell’Institut d’Etudes Politiques di Parigi, e presidente dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques. Fitoussi insegna in diverse università in Europa e negli Stati Uniti ed è consigliere economico del Primo Ministro francese. Ha pubblicato numerosi saggi sulle principali riviste internazionali di economia e congiuntura e svariati libri su argomenti di economia internazionale, in particolare sulla realtà europea.

POLONIA SLOVACCHIA BULGARIA UNGHERIA

7.172 4.582 1.587 5.870

J

ean-Paul Fitoussi, President of the Observatoire Français des Conjonctures Economiques in Paris, tells arcVision of his serious doubts about the possibility of European countries achieving competitive growth within the bounds of a pointlessly over-rigid Stability Pact concentrating on keeping down prices. The prospect of the enlargement of the European Union certainly does nothing to assuage his doubts. You have criticized how the European Union handles its economic policy on more than one occasion. What have you got to say, in particular, about how the Stability Pact is being handled at the moment? The Stability Pact, as it stands at the moment, is likely to worsen the European stagnation we are already witnessing in Germany, France, and Italy. And I do not think the person who originally devised the Pact planned to impede economic growth in Europe. We need to adopt a more flexible approach to how rules are enforced, particularly in the kind of extraordinarily difficult situation in which we find ourselves. A whole combination of external circumstances that never occurred to this extent during last century have suddenly come about: a stock market crash serious enough to be compared to the crash in the 1930s; two wars in Afghanistan and Iraq with serious consequences on a geo-political level; disastrous climatic events in various parts of the world; and, most recently, new epidemics like SARS etc. of unprecedented proportions. All this has had negative effects on economic growth in the Eurozone. In circumstances like this, there is

no point in inserting automatic pilot and relying on set rules. It is time to revert back to manual pilot and slacken rules that have become too tight. The European Central Bank has always adopted a quite different position on this matter, since it has always concentrated on keeping prices stable rather than focusing on growth. How do you view this strategy? You are right, but it is important to bear in mind that there is a big difference between theory and practice. The ECB is interested, like the rest of the world’s central banks, in keeping prices stable. The difference is that central banks do not really believe in it any more, whereas the ECB seems to be carrying on along the same old lines, at least judging by the current trend in

the Euro. The strong Euro is jeopardizing the chances of a recovery in the European economy or making it less likely than usual after a long crisis of the kind we have just been through. But is this what the ECB really wants? It is hard to tell at the moment and we are not entitled to conclude that the Central Bank gives more importance to monetary theory than practice. We should also point out that the ECB is still a very recent development and perhaps believes that this kind of harsh approach will make it seem more credible. The consequence of ECB policy is that EU countries are forced to try and compete with the United States with one hand tied behind their back, that is to say with a stifling monetary policy, and in some sense

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Patto di stabilità / Perché sì

Il rigore rinforza l’Unione

OLD AND NEW EUROPE Productivity per worker with the same purchasing power

Average gross salary in euros in industry, the services sector, and businesses with more than 10 employees

EU 15 - 2003 FIGURES GERMANY FRANCE SPAIN LUXEMBOURG NETHERLANDS SWEDEN UNITED KINGDOM GREECE ITALY

95.5 113.6 95.8 129.7 95.6 96.2 97.2 91.9 106.1

NEW MEMBER STATES - 2004 FORECASTS POLAND SLOVAKIA BULGARIA HUNGARY

14

Stability Pact / Why Yes

EU 15 - 2002 FIGURES (2001 for France and Spain) GERMANY FRANCE SPAIN LUXEMBOURG NETHERLANDS SWEDEN UNITED KINGDOM GREECE

Union through Rigor

39,440 27,319 17,873 38,551 35,200 31,163 40,553 16,278

Intervista a Carlo Secchi* Interview with Carlo Secchi*

NEW MEMBER STATES - 2002 FIGURES

51.2 57.5 33.4 65.3

only have fiscal policy to lean on. Is it possible to compete in a situation like this? It is certainly not easy, but the problems go beyond mere ECB monetary policy and touches on the entire set-up of the European Economic Constitution, which is basically dogmatic. But why is it dogmatic? Because it is based on three pillars: firstly, the monetary policy of the ECB, which is free to act as it sees fit being accountable to nobody; secondly, the Stability Pact itself, which is specially designed to prevent governments from taking action, and they do not; and thirdly political competition which is closely monitored by the European Commission. All this places constraints on the industrial policy of member states and makes it impossible to impose any real economic policy. I would like to point out that it is impossible to pursue any kind of growth-oriented policy in Europe, because there is no chance of making any effective choice between price stability and growth or unemployment and careful balanced budget. All this is quite par for the course in any democratic country, but it is now quite unthinkable in Europe. After all, politics is a matter of decision-making and compromising. We can conclude that, ironically, Europe is the only part of the world that is governed technically, not politically. Looking at the enlargement with ten other European nations, are we to expect that the future will be even harder and the Stability Pact will slow down the economy even more? Enlargement will certainly make the situation even more difficult to control. When the

POLAND SLOVAKIA BULGARIA HUNGARY

Con l’allargamento, la disciplina fiscale e monetaria sarà ancora più necessaria Fiscal and monetary discipline will be even more vital in the wake of the enlargement process

7,172 4,582 1,587 5,870

EU has 25 rather than just 15 member states, some of these nations will be tempted to take advantage of the situation and behave like free-riders, jeopardizing the possibility of reaching unanimous economic decisions on matters like budgetary policy, fiscal policy, or stability targets for exchange rates. In all countries it is the government’s job to set the exchange rate, but not in the Union. Might it be useful, at least for a certain period of time, if new members were set different, less stringent parameters and guidelines than those currently stipulated in the Stability Pact? I think the more rules imposed

on new member states and the more complicated these rules are, the less they will understand Europe. The real problem, which is getting more and more urgent with every day that goes by, is to have a European Government capable of making decisions. Europe must be organized on a federal basis, because institutions like the ECB and Commission are indeed federal and there can be no half-measures in these matters. There must be some political headquarters were decisions are made on employment or the exchange rate, growth or careful balanced budget. These are political issues not technical matters. Until this happens, I doubt very much whether more flexible

parameters will be set or any favors granted, because there will always be some country that opposes them. The Convention ought to introduce more flexible rules, but for the time being there is no sign of this happening, so the problems we have at the moment will not go away, if anything they will just continue to mount. * Jean-Paul Fitoussi is the President of the Institut d'Etudes Politiques in Paris, and President of the Observatoire Français des Conjonctures Economiques. Fitoussi teaches at a number of universities in Europe and the United States and is the French Prime Minister’s personal economic advisor. He has published numerous articles in leading international journals on economics and the state of the economy, and several books on the international economy, particularly European affairs.

Carlo Secchi

C

on il Patto di Crescita e Stabilità, che vincola i paesi europei al rispetto di precisi parametri di finanza pubblica, è certo piuttosto difficile convivere, poiché la crescita economica ne risulta a volte penalizzata; ma senza il Patto tutto sarebbe sicuramente più difficile e le prospettive economiche ne verrebbero compromesse nel più lungo termine. Non ha dubbi Carlo Secchi, rettore dell’Università Luigi Bocconi di Milano ed ex-senatore sia al Parlamento italiano che a quello europeo: nelle condizioni attuali non c’è scelta ed è più che opportuno mantenere un saldo controllo della situazione, specie nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione europea a dieci nuovi paesi. Le critiche contro le eccessive rigidità del Patto di Stabilità comunque non mancano: non sarebbe più ragionevole introdurre qualche misura di maggiore flessibilità almeno nei periodi di stagnazione, come quello attuale, o almeno in tempi di recessione? La mia impressione è che talvolta attribuire tutte le colpe al Patto di Stabilità sia un modo per coprire altre responsabilità.

Il problema della competitività europea dipende, infatti, anche dalla mancanza di riforme strutturali, cioè dal fatto che all’unione monetaria non è seguito un sistema di governo non monetario dell’economia (politiche fiscali e riforme strutturali) più coerente con le esigenze di un’area monetaria comune. E questo perché i governi hanno privilegiato interessi nazionali. Qualche volta hanno avuto paura, perché sono cambiati gli schieramenti politici e dunque le priorità. Il Patto è, nei fatti, un poderoso fattore di competitività perché rende obbligatoria la disciplina fiscale e, quindi, un approccio al bilancio rigoroso. Ciò garantisce ai mercati finanziari che la politica monetaria sia credibile, perché supportata da un quadro fiscale coerente. E quest’ultimo, a sua volta, torna a riflettersi sulla stabilità dell’area, sui tassi d’interesse e di cambio, e permette una politica monetaria meno restrittiva e una maggiore competitività. Il risultato è comunque che si privilegia la stabilità dei tassi, d’interesse e di cambio, e dei prezzi, ma la crescita ne risulta sacrificata

rispetto a un’ipotesi di maggiore flessibilità, almeno in periodi di congiuntura negativa. Questa è stata, in effetti, la politica finora seguita dalla Banca centrale europea, che evidentemente Lei condivide. Certamente, perché ritengo che la stabilità sia la precondizione fondamentale per garantire la crescita. Non si può avere una crescita duratura mettendo a rischio la stabilità, come avverrebbe con politiche espansive sul piano del bilancio, che indurrebbero tensioni inflazionistiche, che dovrebbero essere poi combattute con politiche monetarie restrittive, con il risultato finale di tornare al punto di partenza. L’euro da quota 1,18 dollari all’emissione è passato a toccare un minimo di 0,80 due anni dopo ed è poi risalito a quasi 1,30 dopo quasi altri due anni, in totale assenza di politiche di sostegno monetario e di rilancio dell’economia nell’UE. È questa la dimostrazione della correttezza delle politiche di rigore e stabilità? Senza dubbio, anche perché penso che il tasso di cambio dipenda in misura molto minore di quanto si creda dalle politiche monetarie e molto di più da fattori reali che alimentano poi le aspettative degli operatori. Il punto di differenziale nei tassi che si ha oggi tra Europa e America non giustifica minimamente l’andamento dei cambi che si è avuto recentemente. È chiaro che, rispetto alla precedente fiducia su un percorso rialzista del dollaro dovuto allo strapotere economico americano, è subentrata una valutazione più pessimistica determinata da fattori diversi, come i due deficit gemelli degli USA. La politica monetaria della

Banca centrale europea da sola non avrebbe potuto determinare questo risultato. E ribadisco che il problema della stabilità va visto in modo separato dal tasso di cambio, e sia piuttosto una questione di stabilità interna come prerequisito per gli investimenti. In questa situazione, nella quale il Patto di Stabilità viene confermato nella sua formulazione originaria, ci si accinge a fare entrare dieci nuovi paesi nell’Unione europea. Si tratta di paesi con strutture economiche e andamenti congiunturali molto disomogenei fra di loro e ancor più rispetto ai quindici membri attuali. Ci dobbiamo aspettare che, in questa nuova situazione, il Patto di Stabilità agisca ancora più da freno rispetto a quanto successo finora? Difficile a dirsi. Ricordiamoci, però, che il Patto di Stabilità non è totalmente rigido, ma prevede alcuni margini di flessibilità che possono essere convenientemente utilizzati. È vero, comunque, che attualmente prevale un confronto serrato fra i paesi che presentano problemi di divergenza e gli organismi dell’Unione europea, piuttosto che una gestione più intelligente degli strumenti disponibili. I nuovi stati membri evidenziano situazioni eterogenee sotto il profilo del bilancio pubblico: qualcuno presenta situazioni coerenti con il Patto di Stabilità e altri meno. Ma credo che per tutti loro sarà utile avere l’obiettivo di soddisfare i parametri di Maastricht e il Patto di Stabilità che li codifica, perché questi paesi dovranno comunque fare i conti con l’euro, pur senza adottarlo nell’immediato. Dovranno gestire una doppia circolazione monetaria, euro e moneta nazionale,

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Patto di stabilità / Perché sì

Il rigore rinforza l’Unione

OLD AND NEW EUROPE Productivity per worker with the same purchasing power

Average gross salary in euros in industry, the services sector, and businesses with more than 10 employees

EU 15 - 2003 FIGURES GERMANY FRANCE SPAIN LUXEMBOURG NETHERLANDS SWEDEN UNITED KINGDOM GREECE ITALY

95.5 113.6 95.8 129.7 95.6 96.2 97.2 91.9 106.1

NEW MEMBER STATES - 2004 FORECASTS POLAND SLOVAKIA BULGARIA HUNGARY

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Stability Pact / Why Yes

EU 15 - 2002 FIGURES (2001 for France and Spain) GERMANY FRANCE SPAIN LUXEMBOURG NETHERLANDS SWEDEN UNITED KINGDOM GREECE

Union through Rigor

39,440 27,319 17,873 38,551 35,200 31,163 40,553 16,278

Intervista a Carlo Secchi* Interview with Carlo Secchi*

NEW MEMBER STATES - 2002 FIGURES

51.2 57.5 33.4 65.3

only have fiscal policy to lean on. Is it possible to compete in a situation like this? It is certainly not easy, but the problems go beyond mere ECB monetary policy and touches on the entire set-up of the European Economic Constitution, which is basically dogmatic. But why is it dogmatic? Because it is based on three pillars: firstly, the monetary policy of the ECB, which is free to act as it sees fit being accountable to nobody; secondly, the Stability Pact itself, which is specially designed to prevent governments from taking action, and they do not; and thirdly political competition which is closely monitored by the European Commission. All this places constraints on the industrial policy of member states and makes it impossible to impose any real economic policy. I would like to point out that it is impossible to pursue any kind of growth-oriented policy in Europe, because there is no chance of making any effective choice between price stability and growth or unemployment and careful balanced budget. All this is quite par for the course in any democratic country, but it is now quite unthinkable in Europe. After all, politics is a matter of decision-making and compromising. We can conclude that, ironically, Europe is the only part of the world that is governed technically, not politically. Looking at the enlargement with ten other European nations, are we to expect that the future will be even harder and the Stability Pact will slow down the economy even more? Enlargement will certainly make the situation even more difficult to control. When the

POLAND SLOVAKIA BULGARIA HUNGARY

Con l’allargamento, la disciplina fiscale e monetaria sarà ancora più necessaria Fiscal and monetary discipline will be even more vital in the wake of the enlargement process

7,172 4,582 1,587 5,870

EU has 25 rather than just 15 member states, some of these nations will be tempted to take advantage of the situation and behave like free-riders, jeopardizing the possibility of reaching unanimous economic decisions on matters like budgetary policy, fiscal policy, or stability targets for exchange rates. In all countries it is the government’s job to set the exchange rate, but not in the Union. Might it be useful, at least for a certain period of time, if new members were set different, less stringent parameters and guidelines than those currently stipulated in the Stability Pact? I think the more rules imposed

on new member states and the more complicated these rules are, the less they will understand Europe. The real problem, which is getting more and more urgent with every day that goes by, is to have a European Government capable of making decisions. Europe must be organized on a federal basis, because institutions like the ECB and Commission are indeed federal and there can be no half-measures in these matters. There must be some political headquarters were decisions are made on employment or the exchange rate, growth or careful balanced budget. These are political issues not technical matters. Until this happens, I doubt very much whether more flexible

parameters will be set or any favors granted, because there will always be some country that opposes them. The Convention ought to introduce more flexible rules, but for the time being there is no sign of this happening, so the problems we have at the moment will not go away, if anything they will just continue to mount. * Jean-Paul Fitoussi is the President of the Institut d'Etudes Politiques in Paris, and President of the Observatoire Français des Conjonctures Economiques. Fitoussi teaches at a number of universities in Europe and the United States and is the French Prime Minister’s personal economic advisor. He has published numerous articles in leading international journals on economics and the state of the economy, and several books on the international economy, particularly European affairs.

Carlo Secchi

C

on il Patto di Crescita e Stabilità, che vincola i paesi europei al rispetto di precisi parametri di finanza pubblica, è certo piuttosto difficile convivere, poiché la crescita economica ne risulta a volte penalizzata; ma senza il Patto tutto sarebbe sicuramente più difficile e le prospettive economiche ne verrebbero compromesse nel più lungo termine. Non ha dubbi Carlo Secchi, rettore dell’Università Luigi Bocconi di Milano ed ex-senatore sia al Parlamento italiano che a quello europeo: nelle condizioni attuali non c’è scelta ed è più che opportuno mantenere un saldo controllo della situazione, specie nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione europea a dieci nuovi paesi. Le critiche contro le eccessive rigidità del Patto di Stabilità comunque non mancano: non sarebbe più ragionevole introdurre qualche misura di maggiore flessibilità almeno nei periodi di stagnazione, come quello attuale, o almeno in tempi di recessione? La mia impressione è che talvolta attribuire tutte le colpe al Patto di Stabilità sia un modo per coprire altre responsabilità.

Il problema della competitività europea dipende, infatti, anche dalla mancanza di riforme strutturali, cioè dal fatto che all’unione monetaria non è seguito un sistema di governo non monetario dell’economia (politiche fiscali e riforme strutturali) più coerente con le esigenze di un’area monetaria comune. E questo perché i governi hanno privilegiato interessi nazionali. Qualche volta hanno avuto paura, perché sono cambiati gli schieramenti politici e dunque le priorità. Il Patto è, nei fatti, un poderoso fattore di competitività perché rende obbligatoria la disciplina fiscale e, quindi, un approccio al bilancio rigoroso. Ciò garantisce ai mercati finanziari che la politica monetaria sia credibile, perché supportata da un quadro fiscale coerente. E quest’ultimo, a sua volta, torna a riflettersi sulla stabilità dell’area, sui tassi d’interesse e di cambio, e permette una politica monetaria meno restrittiva e una maggiore competitività. Il risultato è comunque che si privilegia la stabilità dei tassi, d’interesse e di cambio, e dei prezzi, ma la crescita ne risulta sacrificata

rispetto a un’ipotesi di maggiore flessibilità, almeno in periodi di congiuntura negativa. Questa è stata, in effetti, la politica finora seguita dalla Banca centrale europea, che evidentemente Lei condivide. Certamente, perché ritengo che la stabilità sia la precondizione fondamentale per garantire la crescita. Non si può avere una crescita duratura mettendo a rischio la stabilità, come avverrebbe con politiche espansive sul piano del bilancio, che indurrebbero tensioni inflazionistiche, che dovrebbero essere poi combattute con politiche monetarie restrittive, con il risultato finale di tornare al punto di partenza. L’euro da quota 1,18 dollari all’emissione è passato a toccare un minimo di 0,80 due anni dopo ed è poi risalito a quasi 1,30 dopo quasi altri due anni, in totale assenza di politiche di sostegno monetario e di rilancio dell’economia nell’UE. È questa la dimostrazione della correttezza delle politiche di rigore e stabilità? Senza dubbio, anche perché penso che il tasso di cambio dipenda in misura molto minore di quanto si creda dalle politiche monetarie e molto di più da fattori reali che alimentano poi le aspettative degli operatori. Il punto di differenziale nei tassi che si ha oggi tra Europa e America non giustifica minimamente l’andamento dei cambi che si è avuto recentemente. È chiaro che, rispetto alla precedente fiducia su un percorso rialzista del dollaro dovuto allo strapotere economico americano, è subentrata una valutazione più pessimistica determinata da fattori diversi, come i due deficit gemelli degli USA. La politica monetaria della

Banca centrale europea da sola non avrebbe potuto determinare questo risultato. E ribadisco che il problema della stabilità va visto in modo separato dal tasso di cambio, e sia piuttosto una questione di stabilità interna come prerequisito per gli investimenti. In questa situazione, nella quale il Patto di Stabilità viene confermato nella sua formulazione originaria, ci si accinge a fare entrare dieci nuovi paesi nell’Unione europea. Si tratta di paesi con strutture economiche e andamenti congiunturali molto disomogenei fra di loro e ancor più rispetto ai quindici membri attuali. Ci dobbiamo aspettare che, in questa nuova situazione, il Patto di Stabilità agisca ancora più da freno rispetto a quanto successo finora? Difficile a dirsi. Ricordiamoci, però, che il Patto di Stabilità non è totalmente rigido, ma prevede alcuni margini di flessibilità che possono essere convenientemente utilizzati. È vero, comunque, che attualmente prevale un confronto serrato fra i paesi che presentano problemi di divergenza e gli organismi dell’Unione europea, piuttosto che una gestione più intelligente degli strumenti disponibili. I nuovi stati membri evidenziano situazioni eterogenee sotto il profilo del bilancio pubblico: qualcuno presenta situazioni coerenti con il Patto di Stabilità e altri meno. Ma credo che per tutti loro sarà utile avere l’obiettivo di soddisfare i parametri di Maastricht e il Patto di Stabilità che li codifica, perché questi paesi dovranno comunque fare i conti con l’euro, pur senza adottarlo nell’immediato. Dovranno gestire una doppia circolazione monetaria, euro e moneta nazionale,

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L'ESAME DI BRUXELLES Deficit/Pil %

Italia

2003

4,1

0,2

2004

3,2

1,2

2004

3,7

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2005

4

2,1

2005

3,6

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Francia

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

Crescita/Pil %

2003

3,9

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2003

3,2

2004

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2004

3,5

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2005

2,8

1,8

2005

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Olanda

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

0,8

Crescita/Pil %

2003

3,2

2,2

2003

3

2004

2,8

3

2004

3,2

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2005

2,6

2,8

2005

2,8

3,3

Deficit/Pil %

Ue 15

Crescita/Pil %

0,3

Deficit/Pil %

Gran Bretagna

Deficit/Pil %

2,4

Deficit/Pil %

Germania

Crescita/Pil %

2003

Grecia

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

4,2

Crescita/Pil %

2003

2,6

0,8

2003

2,7

0,4

2004

2,6

2

2004

2,7

1,7

2005

2,4

2,4

2005

2,6

2,3

Eurolandia

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e l’esperienza pregressa insegna che, senza una sostanziale convergenza, questo non sarebbe sostenibile. Sarà perciò preciso interesse dei nuovi stati membri seguire le regole europee in materia di stabilità, disciplina di bilancio e controllo dell’inflazione, così come ogni altra. Maastricht e Patto hanno forzato nel tempo la convergenza economica dei paesi UE, aderenti o meno all’euro, ma si trattava comunque di paesi relativamente omogenei sia nella struttura, che nelle politiche economiche. Ora i nuovi entranti presentano caratteristiche molto diverse: ritiene che i criteri di convergenza agiranno anche in questo caso? Dovrei dire di sì, perché stiamo parlando di regole sottostanti la finanza pubblica da cui derivano, poi, tutte le altre conseguenze. In sostanza, la chiave di volta è il disavanzo pubblico, da cui dipende l’inflazione, da cui dipendono i tassi d’interesse, da cui dipendono i tassi di cambio e via dicendo. Questi paesi non hanno interesse ad avere, per periodi troppo lunghi e marcati, un’economia divergente dai paesi dell’Unione, che è e sarà comunque il loro mercato di riferimento. Né hanno interesse a drogare la crescita con meccanismi “all’italiana” di inflazione e svalutazione. Hanno invece interesse a una condotta più ordinata sul piano delle variabili di finanza pubblica e, quindi, coerenti con Maastricht e Patto, per sfruttare il potenziale del nuovo mercato, che è il vero fattore di crescita. Perciò mi aspetto che l’area dell’euro finisca con l’estendersi abbastanza rapidamente anche a questi nuovi paesi membri.

* Carlo Secchi è rettore dell’Università Luigi Bocconi dal settembre 2000. Nella stessa università ha la cattedra di Politica economica europea, e ha insegnato in diversi atenei sia in Italia (Sassari e Trento), sia all’estero, tra cui la Erasmus University di Rotterdam, l’HEC di Parigi, la Wirtschaft Universität di Vienna, e la Bangkok University. Considerato tra i più importanti esperti europei di problemi economici e istituzionali dell’Unione Europea, ha pubblicato molti volumi su tali argomenti. È stato senatore della Repubblica in Italia e parlamentare europeo dal 1994 al 1999. ■ ■ ■ ■ ■ ■

T

he Growth and Stability Pact, constraining European nations to conform to definite guidelines governing public finance, certainly makes it rather difficult to co-exist since it may occasionally stunt economic growth; but without the Pact everything would unquestionably be more complicated and our economic prospects would be jeopardized even further in the long run. Carlo Secchi, the Rector at Luigi Bocconi University in Milan and a former senator at both the Italian and European Parliaments, is in no doubt: in the current climate there is no alternative, and it is certainly advisable to keep close reins on the situation, particularly in light of the enlargement of the European Union with ten new nations. Nevertheless, there is no lack of criticism of the Stability Pact: would not it be reasonable to introduce a bit more flexibility, at least during stagnant periods like the kind we are going through at the moment or at least during recessions? I think we sometimes blame the Stability Pact as a way of covering up other responsibilities. The problem of Europe’s competitiveness

actually depends to some extent on a lack of structural reforms or, in other words, the fact that monetary union has not been followed up by a nonmonetary system for controlling the economy (fiscal policies and structural reforms) more closely geared to the needs of a community monetary area. This is because governments have favored national interests. At times they have been scared by changes in political alliances and hence priorities. In actual fact the Pact is really a great boost to competitiveness, because it makes fiscal discipline a must and with it a more rigorous approach to budget management. This means financial markets can rely on monetary policy because it is backed up by a consistent fiscal framework, which, in turn, reflects on the area’s stability, interest/exchange rates and allows a less restrictive monetary policy and greater competitiveness. This inevitably ends up favoring the stability of interest/exchange rates and prices, but growth is stunted compared to a policy fostering greater flexibility, at least when the economy is going through a difficult period. This is basically the policy the European Central Bank has adopted so far, which you obviously support. Certainly, because I think stability is the fundamental premise for growth. There can be no long-term growth if stability is jeopardized, as would be the case with expanding financial policies creating the risk of inflation, which could only be contrasted by restrictive monetary policies taking us back to square one. The euro/dollar exchange rate has varied from 1.18

when it was launched, to a low of 0.80 two years later, before rising to almost 1.30 two years further on without adopting a monetary support policy and boosting the EU economy. In your opinion, does this prove that a policy based on rigor and stability is appropriate and correct? Undoubtedly, partly due to the fact that in my view the exchange rate depends a lot less than people think on monetary policies and much more on real factors determining operators’ expectations. The difference in rates between Europe and America at the moment in no way justifies the recent trend in exchange rates. It is obvious that compared to past confidence in an upward trend of the dollar due to America’s overwhelming economic power, there is now greater pessimism owing to various factors, such as the USA’s twin deficits. This could never have been brought about by the monetary policy of the Central European Bank alone. I would like to emphasize once again that stability and the exchange rate are two separate issues. It is more a matter of internal stability as a prerequisite for investments. In this state of affairs, with the Stability Pact being confirmed along its original lines, ten new nations are about to be welcomed into the European Union. The nature and state of the economy in these nations are all quite different, and there is an even more marked difference between these countries and the fifteen current member states. Bearing this in mind, are we to expect that the Stability Pact will be even

more of a hindrance than it already is? It is hard to say. Let’s remember, though, that the Stability Pact is not totally inflexible and actually leaves some room to maneuver. But it is true to say that there is quite a struggle going on at the moment between nations struggling to meet the guidelines and the European Union’s bodies responsible for enforcing them. Whereas what we need is a more intelligent approach to managing the tools available. The state of the finances of the various new member states varies considerably: some meet the criteria of the Stability Pact and others do not. But I think it will be useful for them all to try and meet the Maastricht guidelines and the Stability Pact codifying them, because these countries will in any case have to come to terms with the euro, even if they do not adopt it straight away. They will have to handle two currencies, the euro and their own, and experience tells us that without suitable convergence the situation will be quite unsustainable. This means it will be in the new member states’ own interests to follow European rules governing stability, budget discipline and control over inflation, etc. Maastricht and the Pact have forced EU nations, whether they have adopted the euro or not, to achieve economic convergence. But these were all countries with the same basic economic policies and structures. The countries now joining have quite different characteristics: do you think the convergence criteria will be enforced in the same way? I would have to say yes, because we are talking about

the rules underpinning public finance with all the consequences this entails. The bench mark is the public deficit that affects inflation that affects interest rates, which in turn affect exchange rates and so on. These countries do not want their economy diverging from those of members of the European Union for a too lengthy period of time, since the Union is and will be their reference market. Neither are they interested in “pumping up” growth through “Italianstyle” inflation or devaluation. But they are interested in a more measured approach to the variables of public finance that comply with Maastricht and the Pact to exploit the new market’s potential, which is the real growth factor. So I am expecting the Eurozone to end up expanding rather quickly to encompass these new member countries.

* Carlo Secchi has been Rector of Luigi Bocconi University since September 2000. He also holds the chair in European Economic Policy at the same university and has taught in various other universities in Italy (Sassari and Trento) and abroad, including Erasmus University in Rotterdam, the HEC in Paris, Wirtschaft Universität in Vienna, and Bangkok University. Considered one of the leading European experts on economic and institutional issues related to the European Union, he has published a number of books on these subjects. He was a Senator of the Italian Republic and a Member of the European Parliament from 1994-1999.

BRUSSELS ANALYSIS Deficit as % GDP

Italy

Growth as % GDP

0.3

2003

4.1

0.2

2004

3.2

1.2

2004

3.7

1.7

2005

4

2.1

2005

3.6

2.4

France

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

Growth as % GDP

2003

3.9

-0.1

2003

3.2

2004

3.6

1.5

2004

3.5

1

2005

2.8

1.8

2005

3.3

1.6

Netherlands

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

0.8

Growth as % GDP

2003

3.2

2.2

2003

3

2004

2.8

3

2004

3.2

4

2005

2.6

2.8

2005

2.8

3.3

Deficit as % GDP

EU 15

Deficit as % GDP

2.4

Deficit as % GDP

Great Britain

Growth as % GDP

2003

Deficit as % GDP

Germany

17

Greece

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

4.2

Growth as % GDP

2003

2.6

0.8

2003

2.7

0.4

2004

2.6

2

2004

2.7

1.7

2005

2.4

2.4

2005

2.6

2.3

Euroland


L'ESAME DI BRUXELLES Deficit/Pil %

Italia

2003

4,1

0,2

2004

3,2

1,2

2004

3,7

1,7

2005

4

2,1

2005

3,6

2,4

Francia

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

Crescita/Pil %

2003

3,9

-0,1

2003

3,2

2004

3,6

1,5

2004

3,5

1

2005

2,8

1,8

2005

3,3

1,6

Olanda

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

0,8

Crescita/Pil %

2003

3,2

2,2

2003

3

2004

2,8

3

2004

3,2

4

2005

2,6

2,8

2005

2,8

3,3

Deficit/Pil %

Ue 15

Crescita/Pil %

0,3

Deficit/Pil %

Gran Bretagna

Deficit/Pil %

2,4

Deficit/Pil %

Germania

Crescita/Pil %

2003

Grecia

Crescita/Pil %

Deficit/Pil %

4,2

Crescita/Pil %

2003

2,6

0,8

2003

2,7

0,4

2004

2,6

2

2004

2,7

1,7

2005

2,4

2,4

2005

2,6

2,3

Eurolandia

16

e l’esperienza pregressa insegna che, senza una sostanziale convergenza, questo non sarebbe sostenibile. Sarà perciò preciso interesse dei nuovi stati membri seguire le regole europee in materia di stabilità, disciplina di bilancio e controllo dell’inflazione, così come ogni altra. Maastricht e Patto hanno forzato nel tempo la convergenza economica dei paesi UE, aderenti o meno all’euro, ma si trattava comunque di paesi relativamente omogenei sia nella struttura, che nelle politiche economiche. Ora i nuovi entranti presentano caratteristiche molto diverse: ritiene che i criteri di convergenza agiranno anche in questo caso? Dovrei dire di sì, perché stiamo parlando di regole sottostanti la finanza pubblica da cui derivano, poi, tutte le altre conseguenze. In sostanza, la chiave di volta è il disavanzo pubblico, da cui dipende l’inflazione, da cui dipendono i tassi d’interesse, da cui dipendono i tassi di cambio e via dicendo. Questi paesi non hanno interesse ad avere, per periodi troppo lunghi e marcati, un’economia divergente dai paesi dell’Unione, che è e sarà comunque il loro mercato di riferimento. Né hanno interesse a drogare la crescita con meccanismi “all’italiana” di inflazione e svalutazione. Hanno invece interesse a una condotta più ordinata sul piano delle variabili di finanza pubblica e, quindi, coerenti con Maastricht e Patto, per sfruttare il potenziale del nuovo mercato, che è il vero fattore di crescita. Perciò mi aspetto che l’area dell’euro finisca con l’estendersi abbastanza rapidamente anche a questi nuovi paesi membri.

* Carlo Secchi è rettore dell’Università Luigi Bocconi dal settembre 2000. Nella stessa università ha la cattedra di Politica economica europea, e ha insegnato in diversi atenei sia in Italia (Sassari e Trento), sia all’estero, tra cui la Erasmus University di Rotterdam, l’HEC di Parigi, la Wirtschaft Universität di Vienna, e la Bangkok University. Considerato tra i più importanti esperti europei di problemi economici e istituzionali dell’Unione Europea, ha pubblicato molti volumi su tali argomenti. È stato senatore della Repubblica in Italia e parlamentare europeo dal 1994 al 1999. ■ ■ ■ ■ ■ ■

T

he Growth and Stability Pact, constraining European nations to conform to definite guidelines governing public finance, certainly makes it rather difficult to co-exist since it may occasionally stunt economic growth; but without the Pact everything would unquestionably be more complicated and our economic prospects would be jeopardized even further in the long run. Carlo Secchi, the Rector at Luigi Bocconi University in Milan and a former senator at both the Italian and European Parliaments, is in no doubt: in the current climate there is no alternative, and it is certainly advisable to keep close reins on the situation, particularly in light of the enlargement of the European Union with ten new nations. Nevertheless, there is no lack of criticism of the Stability Pact: would not it be reasonable to introduce a bit more flexibility, at least during stagnant periods like the kind we are going through at the moment or at least during recessions? I think we sometimes blame the Stability Pact as a way of covering up other responsibilities. The problem of Europe’s competitiveness

actually depends to some extent on a lack of structural reforms or, in other words, the fact that monetary union has not been followed up by a nonmonetary system for controlling the economy (fiscal policies and structural reforms) more closely geared to the needs of a community monetary area. This is because governments have favored national interests. At times they have been scared by changes in political alliances and hence priorities. In actual fact the Pact is really a great boost to competitiveness, because it makes fiscal discipline a must and with it a more rigorous approach to budget management. This means financial markets can rely on monetary policy because it is backed up by a consistent fiscal framework, which, in turn, reflects on the area’s stability, interest/exchange rates and allows a less restrictive monetary policy and greater competitiveness. This inevitably ends up favoring the stability of interest/exchange rates and prices, but growth is stunted compared to a policy fostering greater flexibility, at least when the economy is going through a difficult period. This is basically the policy the European Central Bank has adopted so far, which you obviously support. Certainly, because I think stability is the fundamental premise for growth. There can be no long-term growth if stability is jeopardized, as would be the case with expanding financial policies creating the risk of inflation, which could only be contrasted by restrictive monetary policies taking us back to square one. The euro/dollar exchange rate has varied from 1.18

when it was launched, to a low of 0.80 two years later, before rising to almost 1.30 two years further on without adopting a monetary support policy and boosting the EU economy. In your opinion, does this prove that a policy based on rigor and stability is appropriate and correct? Undoubtedly, partly due to the fact that in my view the exchange rate depends a lot less than people think on monetary policies and much more on real factors determining operators’ expectations. The difference in rates between Europe and America at the moment in no way justifies the recent trend in exchange rates. It is obvious that compared to past confidence in an upward trend of the dollar due to America’s overwhelming economic power, there is now greater pessimism owing to various factors, such as the USA’s twin deficits. This could never have been brought about by the monetary policy of the Central European Bank alone. I would like to emphasize once again that stability and the exchange rate are two separate issues. It is more a matter of internal stability as a prerequisite for investments. In this state of affairs, with the Stability Pact being confirmed along its original lines, ten new nations are about to be welcomed into the European Union. The nature and state of the economy in these nations are all quite different, and there is an even more marked difference between these countries and the fifteen current member states. Bearing this in mind, are we to expect that the Stability Pact will be even

more of a hindrance than it already is? It is hard to say. Let’s remember, though, that the Stability Pact is not totally inflexible and actually leaves some room to maneuver. But it is true to say that there is quite a struggle going on at the moment between nations struggling to meet the guidelines and the European Union’s bodies responsible for enforcing them. Whereas what we need is a more intelligent approach to managing the tools available. The state of the finances of the various new member states varies considerably: some meet the criteria of the Stability Pact and others do not. But I think it will be useful for them all to try and meet the Maastricht guidelines and the Stability Pact codifying them, because these countries will in any case have to come to terms with the euro, even if they do not adopt it straight away. They will have to handle two currencies, the euro and their own, and experience tells us that without suitable convergence the situation will be quite unsustainable. This means it will be in the new member states’ own interests to follow European rules governing stability, budget discipline and control over inflation, etc. Maastricht and the Pact have forced EU nations, whether they have adopted the euro or not, to achieve economic convergence. But these were all countries with the same basic economic policies and structures. The countries now joining have quite different characteristics: do you think the convergence criteria will be enforced in the same way? I would have to say yes, because we are talking about

the rules underpinning public finance with all the consequences this entails. The bench mark is the public deficit that affects inflation that affects interest rates, which in turn affect exchange rates and so on. These countries do not want their economy diverging from those of members of the European Union for a too lengthy period of time, since the Union is and will be their reference market. Neither are they interested in “pumping up” growth through “Italianstyle” inflation or devaluation. But they are interested in a more measured approach to the variables of public finance that comply with Maastricht and the Pact to exploit the new market’s potential, which is the real growth factor. So I am expecting the Eurozone to end up expanding rather quickly to encompass these new member countries.

* Carlo Secchi has been Rector of Luigi Bocconi University since September 2000. He also holds the chair in European Economic Policy at the same university and has taught in various other universities in Italy (Sassari and Trento) and abroad, including Erasmus University in Rotterdam, the HEC in Paris, Wirtschaft Universität in Vienna, and Bangkok University. Considered one of the leading European experts on economic and institutional issues related to the European Union, he has published a number of books on these subjects. He was a Senator of the Italian Republic and a Member of the European Parliament from 1994-1999.

BRUSSELS ANALYSIS Deficit as % GDP

Italy

Growth as % GDP

0.3

2003

4.1

0.2

2004

3.2

1.2

2004

3.7

1.7

2005

4

2.1

2005

3.6

2.4

France

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

Growth as % GDP

2003

3.9

-0.1

2003

3.2

2004

3.6

1.5

2004

3.5

1

2005

2.8

1.8

2005

3.3

1.6

Netherlands

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

0.8

Growth as % GDP

2003

3.2

2.2

2003

3

2004

2.8

3

2004

3.2

4

2005

2.6

2.8

2005

2.8

3.3

Deficit as % GDP

EU 15

Deficit as % GDP

2.4

Deficit as % GDP

Great Britain

Growth as % GDP

2003

Deficit as % GDP

Germany

17

Greece

Growth as % GDP

Deficit as % GDP

4.2

Growth as % GDP

2003

2.6

0.8

2003

2.7

0.4

2004

2.6

2

2004

2.7

1.7

2005

2.4

2.4

2005

2.6

2.3

Euroland


I grandi benefici dell’allargamento The Great Benefits of Enlargement di Nariman Behravesh ed Emilio Rossi* by Nariman Behravesh and Emilio Rossi*

Lo scenario economico dei nuovi paesi membri mostra segnali di forte crescita e bassa inflazione The new member countries’ economic outlook shows strong growth with little inflation

18

Nariman Behravesh

L’

ingresso dei dieci paesi dell’Europa dell’Est nell’Unione europea influirà in maniera significativa sulla dimensione e sugli obiettivi dell’Unione stessa, poiché il Prodotto interno lordo (Pil), la popolazione e il territorio della Ue aumenteranno rispettivamente del 4,5%, 20% e 23%. La convergenza di questi paesi agli standard di vita e alla struttura economica dell’Europa Occidentale è bene avviata, tuttavia c’è ancora bisogno di apportare un certo numero di riforme istituzionali. Se da un lato potranno essere necessari ulteriori passi per adeguarsi agli standard raccomandati dalla BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) in settori come quello legale, quello bancario o nella politica della concorrenza, dall’altro i dieci paesi hanno già attuato una decisa cesura rispetto all’area dell’ex Unione Sovietica. Oggi, la loro integrazione commerciale con i paesi Ue è abbastanza avanzata, come testimonia il livello delle loro esportazioni in Eurolandia, che varia tra il 50% e il 75% a seconda del paese. Il potenziale dei nuovi paesi membri è testimoniato anche dalla loro robusta crescita negli

Emilio Rossi

ultimi anni rispetto alla debolezza dell’Europa Occidentale, primi tra tutti gli Stati Baltici con una significativa crescita annua del 4,5-5%. Il potenziale dell’area è ancora più evidente se si considera che questa importante crescita economica è stata accompagnata (a parte un paio di eccezioni) da livelli di inflazione ampiamente sotto controllo. Risultati così significativi sono stati ottenuti in un periodo di tempo relativamente breve rispetto al crollo del blocco sovietico. Il raggiungimento di un tale livello di integrazione e il miglioramento delle condizioni socio-economiche è stato possibile potendo contare su capitale umano e professionalità di prima qualità. L’ormai provata qualità della gestione politica e industriale e della manodopera sono una garanzia per un futuro ancora migliore. Rimangono tuttavia molte sfide che non devono essere sottostimate e le analisi seguenti illustrano la situazione attuale, le potenzialità e i rischi nei principali settori (crescita, inflazione, finanza pubblica e politica monetaria) delle economie dei futuri paesi membri.

Per le economie dei nuovi paesi membri prevista un’accelerazione della crescita nel 2004 I nuovi paesi membri della UE mostrano segnali di un continuo incremento della propria crescita e del potenziale economico generale, nonostante nel resto dell’Europa la ripresa sia ancora lenta. Dopo due anni difficili nel 2001 e 2002 e risultati relativamente deboli nella prima metà del 2003, la crescita ha registrato un forte impulso in tutta la regione, sostenuta da un significativo incremento delle esportazioni, una moderata espansione degli investimenti e una costante crescita della spesa al consumo. I primi segnali di una ripresa globale, in particolare gli indicatori di un lieve recupero nelle maggiori economie europee durante la seconda metà del 2003, hanno fatto presagire una crescita a breve e medio termine nei nuovi paesi membri. Sebbene sia probabile che il saldo negativo delle esportazioni nette possa ridursi con la risalita delle esportazioni, sarà la crescita della domanda interna che continuerà a giocare un ruolo sempre più dominante. E anche le nazioni, come la Slovacchia, dove le esportazioni nette hanno contribuito fortemente alla crescita vedranno questo ruolo diminuire gradualmente nei prossimi anni. La buona notizia per la regione e per il suo desiderio di accrescere la propria integrazione con i livelli di vita dell’Europa Occidentale è che la crescita sarà per lo più sostenuta da un rilancio degli investimenti e dal costante aumento dei consumi privati. Un altro fattore che offrirà una spinta alla domanda interna sarà la maggiore accessibilità ai fondi regionali e strutturali dell’Unione europea per lo

sviluppo delle infrastrutture locali. Sulla base dei dati disponibili e dei maggiori indicatori economici, ci si può attendere un’ulteriore accelerazione della crescita di quest’area nel corso dell’anno, derivante soprattutto dalle migliori performance delle maggiori economie dell’area, specialmente Polonia e Repubblica Ceca. Un rialzo dell’inflazione L’inflazione sia alla produzione sia al consumo è diminuita in modo significativo durante il 2002 e all’inizio del 2003, soprattutto grazie alla rapida discesa dei prezzi dei prodotti alimentari, al rinvio di incrementi più marcati dei prezzi controllati e al rafforzamento delle valute. L’andamento dell’inflazione è stato assai più contrastato a partire dai mesi estivi del 2003, con una grande varietà di fattori che hanno influenzato il livello dei prezzi. In tutto il continente, i raccolti di grano hanno sofferto gli effetti della siccità che ha portato a una spinta al rialzo dei prezzi dei generi alimentari di base con aumenti che sono continuati per tutto il resto dell’anno. Sebbene la rapida conclusione della guerra in Iraq avesse acceso qualche speranza circa la possibilità di un calo dei prezzi internazionali del petrolio in tempi brevi, in realtà i livelli dei prezzi hanno registrato scostamenti limitati. Inoltre, due nazioni, la Slovacchia e l’Ungheria, hanno avviato sostanziosi aggiustamenti dell’Iva e delle accise, per allinearli con le richieste europee. Questi aggiustamenti hanno spinto bruscamente al rialzo l’inflazione dei prezzi al consumo, fino a un 10% su base annua in Slovacchia e a un 8% in Ungheria. Mentre il tasso d’inflazione “core” è rimasto sotto controllo, l’impatto dei

forti rialzi dei prezzi potrebbe avere effetti più duraturi sulle aspettative di inflazione, creando una situazione più impegnativa per le autorità monetarie. Inoltre, nel caso dell’Ungheria, i livelli di inflazione hanno continuato a essere influenzati dalla rapida crescita dei salari reali. D’altra parte, il rischio di un forte riaccendersi dell’inflazione nei nuovi paesi membri è piuttosto limitato nel brevemedio termine. Le pressioni inflazionistiche nell’economia globale rimangono sotto controllo. Ciò non significa tuttavia che l’inflazione corrente non crescerà in qualche paese. La pressione salariale potrebbe essere molto maggiore in questa regione che non nell’area euro, particolarmente nel medio termine, poiché i cittadini dei nuovi paesi membri chiedono una parità del potere d’acquisto simile a quella dei loro nuovi compatrioti. L’instabilità dei tassi di cambio prima dell’ingresso nell’ERM 2 (Exchange Rate Mechanism – Meccanismo Regolatore dei Tassi di cambio) per alcune delle economie dell’Europa Centrale potrebbe determinare cadute temporanee del valore delle valute locali, come messo in evidenza dai più recenti esempi della debolezza del fiorino ungherese e dello zloti polacco. L’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e politica fiscale Gli sviluppi nel settore della finanza pubblica e la necessità di ridurre drasticamente i deficit di bilancio nei prossimi anni costituiscono di gran lunga la più grande sfida per i nuovi paesi membri. Questa sfida è di particolare importanza per le principali economie del gruppo dei 10 in quanto la crescita della spesa statale negli ultimi

anni ha portato le finanze pubbliche in una posizione difficile da sostenere nel lungo termine. Comunque sia, la risoluzione della situazione finanziaria sarà un fattore chiave per queste economie non solo per ottemperare ai criteri di Maastricht sui deficit pubblici, ma anche per centrare il proprio potenziale di crescita. Gli equilibri finanziari dei quattro paesi del Centro-Europa candidati all’adesione UE – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – si sono notevolmente deteriorati negli ultimi due anni. Le ragioni dell’allargamento del debito pubblico e del bilancio globale sono diverse per le quattro nazioni. Alcuni dei maggiori incrementi della spesa pubblica sono stati originati da uscite dovute all’attuazione di riforme pensionistiche, sanitarie e dell’istruzione. Inoltre, i governi di Ungheria e Repubblica Ceca hanno introdotto ampie misure di sostegno per stimolare le proprie economie attraverso importanti investimenti e programmi di spesa corrente. Gli attuali problemi finanziari della regione non spariranno nell’immediato, ma potranno essere significativamente ridotti qualora si raggiungesse una crescita annua nell’ordine del 4-5% in tutta la regione e si apportassero significativi tagli alla spesa pubblica – obiettivo ambizioso ma non irrealistico. Inoltre, con l’avvicinarsi della data di ingresso nella Ue dei paesi candidati, il flusso di fondi di pre-ingresso da parte della Ue richiederà ai governi di stanziare in bilancio adeguate risorse. Alla luce di tutto ciò, non sembra drammaticamente impossibile l’obiettivo di portare il disavanzo di bilancio al di sotto del 3% del Pil entro il 2007, come richiesto dai criteri di Maastricht ai principali paesi che faranno ingresso nell’Unione.

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I grandi benefici dell’allargamento The Great Benefits of Enlargement di Nariman Behravesh ed Emilio Rossi* by Nariman Behravesh and Emilio Rossi*

Lo scenario economico dei nuovi paesi membri mostra segnali di forte crescita e bassa inflazione The new member countries’ economic outlook shows strong growth with little inflation

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Nariman Behravesh

L’

ingresso dei dieci paesi dell’Europa dell’Est nell’Unione europea influirà in maniera significativa sulla dimensione e sugli obiettivi dell’Unione stessa, poiché il Prodotto interno lordo (Pil), la popolazione e il territorio della Ue aumenteranno rispettivamente del 4,5%, 20% e 23%. La convergenza di questi paesi agli standard di vita e alla struttura economica dell’Europa Occidentale è bene avviata, tuttavia c’è ancora bisogno di apportare un certo numero di riforme istituzionali. Se da un lato potranno essere necessari ulteriori passi per adeguarsi agli standard raccomandati dalla BERS (Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) in settori come quello legale, quello bancario o nella politica della concorrenza, dall’altro i dieci paesi hanno già attuato una decisa cesura rispetto all’area dell’ex Unione Sovietica. Oggi, la loro integrazione commerciale con i paesi Ue è abbastanza avanzata, come testimonia il livello delle loro esportazioni in Eurolandia, che varia tra il 50% e il 75% a seconda del paese. Il potenziale dei nuovi paesi membri è testimoniato anche dalla loro robusta crescita negli

Emilio Rossi

ultimi anni rispetto alla debolezza dell’Europa Occidentale, primi tra tutti gli Stati Baltici con una significativa crescita annua del 4,5-5%. Il potenziale dell’area è ancora più evidente se si considera che questa importante crescita economica è stata accompagnata (a parte un paio di eccezioni) da livelli di inflazione ampiamente sotto controllo. Risultati così significativi sono stati ottenuti in un periodo di tempo relativamente breve rispetto al crollo del blocco sovietico. Il raggiungimento di un tale livello di integrazione e il miglioramento delle condizioni socio-economiche è stato possibile potendo contare su capitale umano e professionalità di prima qualità. L’ormai provata qualità della gestione politica e industriale e della manodopera sono una garanzia per un futuro ancora migliore. Rimangono tuttavia molte sfide che non devono essere sottostimate e le analisi seguenti illustrano la situazione attuale, le potenzialità e i rischi nei principali settori (crescita, inflazione, finanza pubblica e politica monetaria) delle economie dei futuri paesi membri.

Per le economie dei nuovi paesi membri prevista un’accelerazione della crescita nel 2004 I nuovi paesi membri della UE mostrano segnali di un continuo incremento della propria crescita e del potenziale economico generale, nonostante nel resto dell’Europa la ripresa sia ancora lenta. Dopo due anni difficili nel 2001 e 2002 e risultati relativamente deboli nella prima metà del 2003, la crescita ha registrato un forte impulso in tutta la regione, sostenuta da un significativo incremento delle esportazioni, una moderata espansione degli investimenti e una costante crescita della spesa al consumo. I primi segnali di una ripresa globale, in particolare gli indicatori di un lieve recupero nelle maggiori economie europee durante la seconda metà del 2003, hanno fatto presagire una crescita a breve e medio termine nei nuovi paesi membri. Sebbene sia probabile che il saldo negativo delle esportazioni nette possa ridursi con la risalita delle esportazioni, sarà la crescita della domanda interna che continuerà a giocare un ruolo sempre più dominante. E anche le nazioni, come la Slovacchia, dove le esportazioni nette hanno contribuito fortemente alla crescita vedranno questo ruolo diminuire gradualmente nei prossimi anni. La buona notizia per la regione e per il suo desiderio di accrescere la propria integrazione con i livelli di vita dell’Europa Occidentale è che la crescita sarà per lo più sostenuta da un rilancio degli investimenti e dal costante aumento dei consumi privati. Un altro fattore che offrirà una spinta alla domanda interna sarà la maggiore accessibilità ai fondi regionali e strutturali dell’Unione europea per lo

sviluppo delle infrastrutture locali. Sulla base dei dati disponibili e dei maggiori indicatori economici, ci si può attendere un’ulteriore accelerazione della crescita di quest’area nel corso dell’anno, derivante soprattutto dalle migliori performance delle maggiori economie dell’area, specialmente Polonia e Repubblica Ceca. Un rialzo dell’inflazione L’inflazione sia alla produzione sia al consumo è diminuita in modo significativo durante il 2002 e all’inizio del 2003, soprattutto grazie alla rapida discesa dei prezzi dei prodotti alimentari, al rinvio di incrementi più marcati dei prezzi controllati e al rafforzamento delle valute. L’andamento dell’inflazione è stato assai più contrastato a partire dai mesi estivi del 2003, con una grande varietà di fattori che hanno influenzato il livello dei prezzi. In tutto il continente, i raccolti di grano hanno sofferto gli effetti della siccità che ha portato a una spinta al rialzo dei prezzi dei generi alimentari di base con aumenti che sono continuati per tutto il resto dell’anno. Sebbene la rapida conclusione della guerra in Iraq avesse acceso qualche speranza circa la possibilità di un calo dei prezzi internazionali del petrolio in tempi brevi, in realtà i livelli dei prezzi hanno registrato scostamenti limitati. Inoltre, due nazioni, la Slovacchia e l’Ungheria, hanno avviato sostanziosi aggiustamenti dell’Iva e delle accise, per allinearli con le richieste europee. Questi aggiustamenti hanno spinto bruscamente al rialzo l’inflazione dei prezzi al consumo, fino a un 10% su base annua in Slovacchia e a un 8% in Ungheria. Mentre il tasso d’inflazione “core” è rimasto sotto controllo, l’impatto dei

forti rialzi dei prezzi potrebbe avere effetti più duraturi sulle aspettative di inflazione, creando una situazione più impegnativa per le autorità monetarie. Inoltre, nel caso dell’Ungheria, i livelli di inflazione hanno continuato a essere influenzati dalla rapida crescita dei salari reali. D’altra parte, il rischio di un forte riaccendersi dell’inflazione nei nuovi paesi membri è piuttosto limitato nel brevemedio termine. Le pressioni inflazionistiche nell’economia globale rimangono sotto controllo. Ciò non significa tuttavia che l’inflazione corrente non crescerà in qualche paese. La pressione salariale potrebbe essere molto maggiore in questa regione che non nell’area euro, particolarmente nel medio termine, poiché i cittadini dei nuovi paesi membri chiedono una parità del potere d’acquisto simile a quella dei loro nuovi compatrioti. L’instabilità dei tassi di cambio prima dell’ingresso nell’ERM 2 (Exchange Rate Mechanism – Meccanismo Regolatore dei Tassi di cambio) per alcune delle economie dell’Europa Centrale potrebbe determinare cadute temporanee del valore delle valute locali, come messo in evidenza dai più recenti esempi della debolezza del fiorino ungherese e dello zloti polacco. L’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e politica fiscale Gli sviluppi nel settore della finanza pubblica e la necessità di ridurre drasticamente i deficit di bilancio nei prossimi anni costituiscono di gran lunga la più grande sfida per i nuovi paesi membri. Questa sfida è di particolare importanza per le principali economie del gruppo dei 10 in quanto la crescita della spesa statale negli ultimi

anni ha portato le finanze pubbliche in una posizione difficile da sostenere nel lungo termine. Comunque sia, la risoluzione della situazione finanziaria sarà un fattore chiave per queste economie non solo per ottemperare ai criteri di Maastricht sui deficit pubblici, ma anche per centrare il proprio potenziale di crescita. Gli equilibri finanziari dei quattro paesi del Centro-Europa candidati all’adesione UE – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – si sono notevolmente deteriorati negli ultimi due anni. Le ragioni dell’allargamento del debito pubblico e del bilancio globale sono diverse per le quattro nazioni. Alcuni dei maggiori incrementi della spesa pubblica sono stati originati da uscite dovute all’attuazione di riforme pensionistiche, sanitarie e dell’istruzione. Inoltre, i governi di Ungheria e Repubblica Ceca hanno introdotto ampie misure di sostegno per stimolare le proprie economie attraverso importanti investimenti e programmi di spesa corrente. Gli attuali problemi finanziari della regione non spariranno nell’immediato, ma potranno essere significativamente ridotti qualora si raggiungesse una crescita annua nell’ordine del 4-5% in tutta la regione e si apportassero significativi tagli alla spesa pubblica – obiettivo ambizioso ma non irrealistico. Inoltre, con l’avvicinarsi della data di ingresso nella Ue dei paesi candidati, il flusso di fondi di pre-ingresso da parte della Ue richiederà ai governi di stanziare in bilancio adeguate risorse. Alla luce di tutto ciò, non sembra drammaticamente impossibile l’obiettivo di portare il disavanzo di bilancio al di sotto del 3% del Pil entro il 2007, come richiesto dai criteri di Maastricht ai principali paesi che faranno ingresso nell’Unione.

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PAESI EMERGENTI EUROPEI - PIL NOMINALE NEL 2000 E CRESCITA REALE DEL PIL

20

Crescita reale del Pil (Variazione % sull’anno precedente)

Pil Nominale mld $, 2000 1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Estonia

5,1

-0,6

7,3

6,5

6,0

4,4

5,6

5,9

5,7

5,6

5,5

Lettonia

7,2

2,8

6,8

7,9

6,1

7,4

6,1

5,9

5,8

5,7

5,6

Lituania

11,2

-1,8

4,0

6,5

6,7

8,3

6,1

5,8

4,6

6,1

6,0

Rep. Ceca

55,6

0,5

3,3

3,1

2,0

2,8

3,6

4,4

4,6

4,2

4,1

Ungheria

46,1

4,2

5,2

3,8

3,5

2,8

3,2

3,5

3,4

3,0

3,9

164,0

4,1

4,0

1,0

1,4

3,7

4,6

4,9

4,5

4,2

4,5

Slovacchia

20,2

1,5

2,0

3,8

4,4

4,0

4,6

5,0

5,8

4,9

4,5

Slovenia

19,0

5,2

4,6

2,9

3,2

2,3

3,9

3,8

3,8

3,5

3,4

Cipro

8,9

4,7

5,0

4,0

2,0

2,0

3,7

3,3

3,2

3,2

3,2

Malta

3,6

4,1

6,4

-1,2

1,7

1,1

3,6

3,4

3,2

3,2

3,1

340,8

1,9

3,8

2,6

2,7

3,5

4,2

4,6

4,6

4,2

4,4

Polonia

Europa dell’Est (EE)

Il risultato immediato di un ritardo nell’adeguamento delle politiche di bilancio sarebbe uno slittamento dell’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e nell’adozione dell’euro. Sulla base degli sviluppi fin qui raggiunti, sembra che i dieci nuovi paesi adotteranno la valuta comune europea in due fasi. Gli Stati Baltici, la Slovenia, Malta e Cipro potrebbero potenzialmente adottarla fin dal 2007, mentre le altre quattro nazioni sarebbero nella condizione di rispettare tutti i criteri un po’ più tardi, probabilmente verso il 2009-2010. Autorità riluttanti a tagliare ulteriormente i tassi La ripresa, anche se ancora limitata, di pressioni inflazionistiche e l’incertezza sulla situazione di bilancio, hanno messo in allerta le autorità monetarie della regione. Dopo un rapido declino dei tassi di interesse nel 2001 e 2003, le autorità monetarie hanno iniziato il 2003 su toni considerevolmente più cauti e la situazione, da allora, non è cambiata.

Le banche centrali delle nazioni chiave erano riluttanti ad allentare la politica monetaria per evitare di dover aumentare i tassi più avanti nell’anno. In Polonia, la Banca Centrale non ha modificato i tassi, che sono al 5,25% dal giugno 2003 e nell’ultima riunione ha accennato alla possibilità di un cambiamento di rotta in senso restrittivo. Alla stessa maniera, le autorità monetarie della Repubblica Ceca che avevano deciso di tagliare i tassi nel luglio 2003, riducendoli al 2%, da allora non li hanno più modificati. La Banca Nazionale Slovacca ha optato per il mantenimento dei tassi, prima di una leggera limatura al 6,25% nel settembre 2003 per poi lasciarli a quel livello fino a oggi. Tale fermezza è stata adottata alla luce di una situazione del saldo con l’estero ancora fragile, nonostante una riduzione sia del deficit commerciale sia delle partite correnti di quest’anno e di un rapido aumento dell’inflazione al consumo come risultato dell’introduzione di forti aumenti nell’Iva. Sullo sfondo di politiche

coerenti in tutta la regione, spicca il caso ungherese. In seguito all’improvvisa svalutazione del fiorino e alla conseguente pressione sulla valuta, la Banca Nazionale Ungherese ha inaspettatamente alzato il tasso di deposito a due settimane di 300 punti base, al 9,5%, con due interventi tra l’11 e il 19 giugno. Tale mossa mirava chiaramente a rafforzare il fiorino e a dimostrare che si trattava dell’ultimo aumento del ciclo, con lo scopo di ridurre le attese di nuovi aumenti e di far tornare gli investitori del

reddito fisso sul mercato. In linea con le attese, la BNU ha mantenuto invariato il tasso di deposito a due settimane negli incontri programmati del 23 giugno, 7 luglio, 4 agosto, 18 agosto e 1 settembre. La banca ha fissato un range di riferimento per il fiorino tra i 250-260 fiorini per euro che ci si attendeva garantisse sia la stabilizzazione del cambio sia il sostegno alla competitività dei produttori ungheresi. L’inattesa svalutazione del fiorino nel mese di giugno aveva creato una nuova situazione, nella quale la banca aveva dovuto usare la propria politica dei tassi di interesse per mantenere l’obiettivo di inflazione immune da un ulteriore indebolimento del fiorino. Questo meccanismo dal doppio obiettivo (stabilità del tasso di cambio e inflazione) ha determinato un’altra imprevista mossa di politica monetaria il 28 novembre. In una riunione di emergenza in quella data la BNU ha alzato i tassi di interesse dal 9,5% al 12,5% con effetto immediato. Il tasso è stato poi mantenuto negli incontri programmati regolarmente da dicembre in avanti. Alla luce degli sviluppi illustrati, e con l’eccezione dei paesi con tassi di interesse immotivatamente alti, come

PIL 2000 NEI NUOVI PAESI MEMBRI Estonia Lettonia Lituania Rep. Ceca Ungheria Polonia Slovacchia Slovenia Cipro Malta

l’Ungheria e la Slovacchia, il periodo di tagli radicali dei tassi nell’Europa Centrale sembra definitivamente terminato. Sono più di moda la gradualità e la moderazione, poiché le autorità monetarie locali vogliono evitare qualsiasi forma di instabilità mentre preparano l’ingresso nell’Unione Europea e Monetaria. Con una crescita dell’inflazione attesa nel corso dell’anno in quasi tutti i paesi della regione, e con i deficit di bilancio ben al di sopra degli obiettivi fissati per il 2004, i banchieri centrali avranno bisogno di avviare un’azione di equilibrio tra l’offrire sostegno agli investimenti e salvaguardare i risultati raggiunti nella lotta all’inflazione. La convergenza nei tassi di interesse, soprattutto nella parte a lungo della curva, dovrebbe procedere senza disallineamenti di rilievo.

* Nariman Behravesh è capo economista e vicepresidente esecutivo di Global Insight. Prima di lavorare per Global Insight, Nariman Behravesh era capo economista internazionale di Standard & Poor’s. * Emilio Rossi è direttore della Consulenza Europea di Global Insight, con sede a Milano. ■ ■ ■ ■ ■ ■

T

he entry of the ten Eastern European countries into the European Union will significantly affect the dimension and scope of the Union itself, since the EU Gross Domestic Product (GDP), population and territory will increase 4.5% 20% and 23% respectively. Convergence of these countries to the standard of living and to the economic structure of the Western European countries is well on the way, however they will still need to implement a number of changes in their

institutional structures. While they may have to improve on institutional EBRD (European Bank for Reconstruction and Development) indicators such as the legal system, the banking sector as well as the competition policy, the ten countries have all managed a dramatic shift away from the former Soviet Union area. Today their trade integration with the European Union countries is well advanced, as witnessed by the current level of their exports to the EU, which varies between 50% to 75%, depending on the country. The potential of the Accession Countries is also witnessed by their rather robust growth despite Western Europe weakness, in the last few years, with the Baltic States leading the pack at an impressive 4.55% annual growth. The potential of the area is even more evident when one considers that such significant economic growth performance has been accompanied (with a couple of exceptions) by broadly under control levels of inflation. Such impressive results have been obtained in a relatively short timeframe since the break up of the Soviet Union block. Achieving such level of integration as well as improvement in socio-economic conditions could only be possible if the human capital and skills available in the area proved to be of prime quality. In turn, the now proved quality of the political management, workers and industry managers is also a guarantee for a brighter future. Many challenges remain however, and they should not be underestimated—the following paragraphs highlight the current situation along with the potential and risks in the major areas (growth,

inflation, public finance and monetary policy) of the Accession Countries economies. Accession Countries’ economies report accelerating growth into 2004 The new EU member countries are showing continued improvement in their growth outlook and overall economic potential despite the slow recovery in the rest of Europe. Following two difficult years in 2001 and 2002 and the relatively weak performance in the first half of last year, growth gained momentum across the region, fueled by stronger growth in exports, moderate expansion in investment activity and stable growth in consumer spending. The first signs of a global recovery, in particular the reports of a modest growth rebound in the largest EU economies in the second half of 2003, bode very well for shortto medium-term growth in the new member countries. However, although the negative contribution from net exports is likely to be reduced as exports rebound, growth in domestic demand will continue to play an increasingly dominant role. Even in countries where net exports have recently been strongly contributing to growth, such as Slovakia, their role will gradually diminish in the next several years. The good news for the region and for its desire to increase its integration with Western European living standards is that growth in the region will be mostly supported by a rebound in investment activity and steady expansion in private consumption. Another factor that will provide a boost to domestic demand will be wider access to EU regional and structural funds for the

development of local infrastructure. Based on available numbers and leading indicators, it can be expected that further acceleration will take place in regional growth this year, with the momentum stemming mostly from better economic performances in the region’s largest economies, especially Poland and the Czech Republic. Inflation is staging a rebound Both producer and consumer price inflation staged impressive declines during 2002 and early 2003, mainly due to rapid drops in prices of food products, delays in more aggressive increases in administratively controlled prices, and strengthening currencies. Performance on inflation has been considerably more mixed since the summer months of 2003, with a wide variety of factors affecting price levels. As a result of drought conditions across the continent, grain harvests suffered, putting upward pressure on prices of key food products with increases continuing all throughout the reminder of last year. Although the fast conclusion of the war in Iraq provided some hope that the international prices for oil would drop more rapidly, in reality price levels hardly budged. Furthermore, two countries, Slovakia and Hungary, embarked upon major adjustments in VAT and excise tax rates, in order to make them compliant with EU requirements. These one-off adjustments pushed headline inflation up very rapidly, to as much as 10% on a yearly basis in Slovakia and 8% in Hungary. While core inflation remained under control, the impact of sharp increases in prices could have a longer-lasting effect on inflationary expectations,

21


PAESI EMERGENTI EUROPEI - PIL NOMINALE NEL 2000 E CRESCITA REALE DEL PIL

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Crescita reale del Pil (Variazione % sull’anno precedente)

Pil Nominale mld $, 2000 1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Estonia

5,1

-0,6

7,3

6,5

6,0

4,4

5,6

5,9

5,7

5,6

5,5

Lettonia

7,2

2,8

6,8

7,9

6,1

7,4

6,1

5,9

5,8

5,7

5,6

Lituania

11,2

-1,8

4,0

6,5

6,7

8,3

6,1

5,8

4,6

6,1

6,0

Rep. Ceca

55,6

0,5

3,3

3,1

2,0

2,8

3,6

4,4

4,6

4,2

4,1

Ungheria

46,1

4,2

5,2

3,8

3,5

2,8

3,2

3,5

3,4

3,0

3,9

164,0

4,1

4,0

1,0

1,4

3,7

4,6

4,9

4,5

4,2

4,5

Slovacchia

20,2

1,5

2,0

3,8

4,4

4,0

4,6

5,0

5,8

4,9

4,5

Slovenia

19,0

5,2

4,6

2,9

3,2

2,3

3,9

3,8

3,8

3,5

3,4

Cipro

8,9

4,7

5,0

4,0

2,0

2,0

3,7

3,3

3,2

3,2

3,2

Malta

3,6

4,1

6,4

-1,2

1,7

1,1

3,6

3,4

3,2

3,2

3,1

340,8

1,9

3,8

2,6

2,7

3,5

4,2

4,6

4,6

4,2

4,4

Polonia

Europa dell’Est (EE)

Il risultato immediato di un ritardo nell’adeguamento delle politiche di bilancio sarebbe uno slittamento dell’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e nell’adozione dell’euro. Sulla base degli sviluppi fin qui raggiunti, sembra che i dieci nuovi paesi adotteranno la valuta comune europea in due fasi. Gli Stati Baltici, la Slovenia, Malta e Cipro potrebbero potenzialmente adottarla fin dal 2007, mentre le altre quattro nazioni sarebbero nella condizione di rispettare tutti i criteri un po’ più tardi, probabilmente verso il 2009-2010. Autorità riluttanti a tagliare ulteriormente i tassi La ripresa, anche se ancora limitata, di pressioni inflazionistiche e l’incertezza sulla situazione di bilancio, hanno messo in allerta le autorità monetarie della regione. Dopo un rapido declino dei tassi di interesse nel 2001 e 2003, le autorità monetarie hanno iniziato il 2003 su toni considerevolmente più cauti e la situazione, da allora, non è cambiata.

Le banche centrali delle nazioni chiave erano riluttanti ad allentare la politica monetaria per evitare di dover aumentare i tassi più avanti nell’anno. In Polonia, la Banca Centrale non ha modificato i tassi, che sono al 5,25% dal giugno 2003 e nell’ultima riunione ha accennato alla possibilità di un cambiamento di rotta in senso restrittivo. Alla stessa maniera, le autorità monetarie della Repubblica Ceca che avevano deciso di tagliare i tassi nel luglio 2003, riducendoli al 2%, da allora non li hanno più modificati. La Banca Nazionale Slovacca ha optato per il mantenimento dei tassi, prima di una leggera limatura al 6,25% nel settembre 2003 per poi lasciarli a quel livello fino a oggi. Tale fermezza è stata adottata alla luce di una situazione del saldo con l’estero ancora fragile, nonostante una riduzione sia del deficit commerciale sia delle partite correnti di quest’anno e di un rapido aumento dell’inflazione al consumo come risultato dell’introduzione di forti aumenti nell’Iva. Sullo sfondo di politiche

coerenti in tutta la regione, spicca il caso ungherese. In seguito all’improvvisa svalutazione del fiorino e alla conseguente pressione sulla valuta, la Banca Nazionale Ungherese ha inaspettatamente alzato il tasso di deposito a due settimane di 300 punti base, al 9,5%, con due interventi tra l’11 e il 19 giugno. Tale mossa mirava chiaramente a rafforzare il fiorino e a dimostrare che si trattava dell’ultimo aumento del ciclo, con lo scopo di ridurre le attese di nuovi aumenti e di far tornare gli investitori del

reddito fisso sul mercato. In linea con le attese, la BNU ha mantenuto invariato il tasso di deposito a due settimane negli incontri programmati del 23 giugno, 7 luglio, 4 agosto, 18 agosto e 1 settembre. La banca ha fissato un range di riferimento per il fiorino tra i 250-260 fiorini per euro che ci si attendeva garantisse sia la stabilizzazione del cambio sia il sostegno alla competitività dei produttori ungheresi. L’inattesa svalutazione del fiorino nel mese di giugno aveva creato una nuova situazione, nella quale la banca aveva dovuto usare la propria politica dei tassi di interesse per mantenere l’obiettivo di inflazione immune da un ulteriore indebolimento del fiorino. Questo meccanismo dal doppio obiettivo (stabilità del tasso di cambio e inflazione) ha determinato un’altra imprevista mossa di politica monetaria il 28 novembre. In una riunione di emergenza in quella data la BNU ha alzato i tassi di interesse dal 9,5% al 12,5% con effetto immediato. Il tasso è stato poi mantenuto negli incontri programmati regolarmente da dicembre in avanti. Alla luce degli sviluppi illustrati, e con l’eccezione dei paesi con tassi di interesse immotivatamente alti, come

PIL 2000 NEI NUOVI PAESI MEMBRI Estonia Lettonia Lituania Rep. Ceca Ungheria Polonia Slovacchia Slovenia Cipro Malta

l’Ungheria e la Slovacchia, il periodo di tagli radicali dei tassi nell’Europa Centrale sembra definitivamente terminato. Sono più di moda la gradualità e la moderazione, poiché le autorità monetarie locali vogliono evitare qualsiasi forma di instabilità mentre preparano l’ingresso nell’Unione Europea e Monetaria. Con una crescita dell’inflazione attesa nel corso dell’anno in quasi tutti i paesi della regione, e con i deficit di bilancio ben al di sopra degli obiettivi fissati per il 2004, i banchieri centrali avranno bisogno di avviare un’azione di equilibrio tra l’offrire sostegno agli investimenti e salvaguardare i risultati raggiunti nella lotta all’inflazione. La convergenza nei tassi di interesse, soprattutto nella parte a lungo della curva, dovrebbe procedere senza disallineamenti di rilievo.

* Nariman Behravesh è capo economista e vicepresidente esecutivo di Global Insight. Prima di lavorare per Global Insight, Nariman Behravesh era capo economista internazionale di Standard & Poor’s. * Emilio Rossi è direttore della Consulenza Europea di Global Insight, con sede a Milano. ■ ■ ■ ■ ■ ■

T

he entry of the ten Eastern European countries into the European Union will significantly affect the dimension and scope of the Union itself, since the EU Gross Domestic Product (GDP), population and territory will increase 4.5% 20% and 23% respectively. Convergence of these countries to the standard of living and to the economic structure of the Western European countries is well on the way, however they will still need to implement a number of changes in their

institutional structures. While they may have to improve on institutional EBRD (European Bank for Reconstruction and Development) indicators such as the legal system, the banking sector as well as the competition policy, the ten countries have all managed a dramatic shift away from the former Soviet Union area. Today their trade integration with the European Union countries is well advanced, as witnessed by the current level of their exports to the EU, which varies between 50% to 75%, depending on the country. The potential of the Accession Countries is also witnessed by their rather robust growth despite Western Europe weakness, in the last few years, with the Baltic States leading the pack at an impressive 4.55% annual growth. The potential of the area is even more evident when one considers that such significant economic growth performance has been accompanied (with a couple of exceptions) by broadly under control levels of inflation. Such impressive results have been obtained in a relatively short timeframe since the break up of the Soviet Union block. Achieving such level of integration as well as improvement in socio-economic conditions could only be possible if the human capital and skills available in the area proved to be of prime quality. In turn, the now proved quality of the political management, workers and industry managers is also a guarantee for a brighter future. Many challenges remain however, and they should not be underestimated—the following paragraphs highlight the current situation along with the potential and risks in the major areas (growth,

inflation, public finance and monetary policy) of the Accession Countries economies. Accession Countries’ economies report accelerating growth into 2004 The new EU member countries are showing continued improvement in their growth outlook and overall economic potential despite the slow recovery in the rest of Europe. Following two difficult years in 2001 and 2002 and the relatively weak performance in the first half of last year, growth gained momentum across the region, fueled by stronger growth in exports, moderate expansion in investment activity and stable growth in consumer spending. The first signs of a global recovery, in particular the reports of a modest growth rebound in the largest EU economies in the second half of 2003, bode very well for shortto medium-term growth in the new member countries. However, although the negative contribution from net exports is likely to be reduced as exports rebound, growth in domestic demand will continue to play an increasingly dominant role. Even in countries where net exports have recently been strongly contributing to growth, such as Slovakia, their role will gradually diminish in the next several years. The good news for the region and for its desire to increase its integration with Western European living standards is that growth in the region will be mostly supported by a rebound in investment activity and steady expansion in private consumption. Another factor that will provide a boost to domestic demand will be wider access to EU regional and structural funds for the

development of local infrastructure. Based on available numbers and leading indicators, it can be expected that further acceleration will take place in regional growth this year, with the momentum stemming mostly from better economic performances in the region’s largest economies, especially Poland and the Czech Republic. Inflation is staging a rebound Both producer and consumer price inflation staged impressive declines during 2002 and early 2003, mainly due to rapid drops in prices of food products, delays in more aggressive increases in administratively controlled prices, and strengthening currencies. Performance on inflation has been considerably more mixed since the summer months of 2003, with a wide variety of factors affecting price levels. As a result of drought conditions across the continent, grain harvests suffered, putting upward pressure on prices of key food products with increases continuing all throughout the reminder of last year. Although the fast conclusion of the war in Iraq provided some hope that the international prices for oil would drop more rapidly, in reality price levels hardly budged. Furthermore, two countries, Slovakia and Hungary, embarked upon major adjustments in VAT and excise tax rates, in order to make them compliant with EU requirements. These one-off adjustments pushed headline inflation up very rapidly, to as much as 10% on a yearly basis in Slovakia and 8% in Hungary. While core inflation remained under control, the impact of sharp increases in prices could have a longer-lasting effect on inflationary expectations,

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EMERGING EUROPE - NOMINAL 2000 GDP AND REAL GDP GROWTH

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Real GDP Growth (Percent change from year ago)

Nominal GDP Bn. $, 2000 1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Estonia

5.1

-0.6

7.3

6.5

6.0

4.4

5.6

5.9

5.7

5.6

5.5

Latvia

7.2

2.8

6.8

7.9

6.1

7.4

6.1

5.9

5.8

5.7

5.6

Lithuania

11.2

-1.8

4.0

6.5

6.7

8.3

6.1

5.8

4.6

6.1

6.0

Czech Rep.

55.6

0.5

3.3

3.1

2.0

2.8

3.6

4.4

4.6

4.2

4.1

Hungary

46.1

4.2

5.2

3.8

3.5

2.8

3.2

3.5

3.4

3.0

3.9

164.0

4.1

4.0

1.0

1.4

3.7

4.6

4.9

4.5

4.2

4.5

Slovakia

20.2

1.5

2.0

3.8

4.4

4.0

4.6

5.0

5.8

4.9

4.5

Slovenia

19.0

5.2

4.6

2.9

3.2

2.3

3.9

3.8

3.8

3.5

3.4

Cyprus

8.9

4.7

5.0

4.0

2.0

2.0

3.7

3.3

3.2

3.2

3.2

Malta

3.6

4.1

6.4

-1.2

1.7

1.1

3.6

3.4

3.2

3.2

3.1

340.8

1.9

3.8

2.6

2.7

3.5

4.2

4.6

4.6

4.2

4.4

Poland

Eastern Europe (EE)

providing for a much more challenging environment for monetary authorities. Furthermore, in the Hungarian case, inflation levels have continued to be influenced by rapid growth in real wages. On the other hand, the risk of a major resurgence in inflation in the new member countries is rather limited in the short to medium term. The inflationary pressures in the global economy remain subdued. This is not to say, however, that headline inflation will not rise in some countries. Wage pressures could be much greater in this region than in the Eurozone, particularly in the medium term as citizens in the accession countries demand purchasing power parity closer to that of their new compatriots. The volatility in exchange rate ahead of entry into ERM II for some of the Central European economies could result in temporary falls in the value of local currencies, as evidenced by the most recent example of the weakness of the Hungarian forint and the Polish zloty.

Entry into the EMU and Fiscal Policy Developments in the area of public finance and the need to sharply reduce budget deficits in the next several years constitute by far the biggest challenge for the EU accession countries. This challenge is of particular importance for the largest economies in the group, as in their case, the build-up in government spending over the last several years resulted in a public finance position that could prove difficult to sustain in the longer term. However, solving their fiscal situations will be a key factor for these economies, not only for meeting the Maastricht criteria with respect to public finance deficits, but also for reaching their growth potential. The fiscal balances of the four Central European candidates for EU membership—Poland, Hungary, the Czech Republic and Slovakia—have deteriorated considerably over the last two years. The reasons for the widening of state and consolidated budget deficits have differed among the four

countries. Some of the excessive increases in expenditures stemmed from outlays related to the implementation of pension, health care, and educational reforms. Finally, the governments in Hungary and the Czech Republic introduced extensive fiscal packages to stimulate their struggling economies through large-scale investment and current spending programs. The current fiscal ills in the region are not going to disappear immediately but may

be significantly flattened if growth reaches 4-5% annually across the region and budget spending is seriously curtailed—an ambitious but not unrealistic target. Furthermore, as the candidate countries near the date of EU membership, the flow of pre-accession funds from the EU will require the governments to allocate amounts of matching funds within the budget. In light of the above, it appears that bringing the consolidated fiscal budgets under the 3.0% of GDP ceiling as required by the Maastricht criteria in the largest Accession Countries by 2007 is not necessarily an impossible assumption. The direct result of a delayed fiscal stabilization would be a late entry into the EMU and euro adoption. Based on the developments to date, it seems that the ten Accession Countries will be adopting the common European currency in two stages. The Baltics, Slovenia, Malta and Cyprus, could potentially adopt the euro as early as 2007, while the remaining four countries will be in position to meet all the criteria a little later, probably by 2009-2010.

GDP 2000 ACCESSION COUNTRIES Estonia Latvia Lithuania Czech Rep. Hungary Poland Slovakia Slovenia Cyprus Malta

Authorities Reluctant to Cut Rates Any Further The resurgence of, still muted, inflationary pressures, and the uncertainty about the fiscal situation, put the monetary authorities across the region on alert. Following rapid declines in policy interest rates in 2001 and 2003, the monetary authorities started 2003 on a considerably more cautious note and the situation has not changed since. Central banks in key countries were reluctant to ease monetary conditions to avoid having to hike rates later in the year. In Poland, the central bank has left the policy rate unchanged at 5.25% since June 2003 and in the most recent meeting hinted at a possibility of shifting to a tightening bias in its policies. Similarly, the monetary authorities in the Czech Republic decided to cut the rates in July 2003, reducing it to 2% and has kept the rates unchanged since. The Slovak National Bank opted for keeping the rates unchanged, before cutting them only moderately in September 2003 to 6.25% and leaving them at

the same level until today. This firmness was adopted in the light of the still fragile situation in the external accounts, despite a reduction in both trade and current account deficits so far this year, and the rapid increase in headline consumer price inflation as a result of the introduction of large increases in VAT tax. Against the background of consistent policies elsewhere in the region, the Hungarian case clearly stands out. Following the unexpected devaluation of the parity rate of the forint and the ensuing downward pressure on the currency, the NBH unexpectedly raised its key two-week deposit rate by 300 base points, to 9.5% in two steps between June 11 and June 19. The move was clearly aimed at strengthening the forint and showing that this was the last increase in the cycle in order to reduce market expectations of new increases and attract fixed income portfolio investors back to the market. In line with expectations, the NBH then kept the two-week deposit rate unchanged at its regular

scheduled meetings on June 23, July 7, August 4, August 18, and September 1. The bank set a target range for the forint at between 250-260 forints per euro that was expected to guarantee both the stabilization of the exchange rate and support the competitiveness of Hungarian producers. The unexpected devaluation of the forint in June created a new environment, under which the bank has to use its interest rate policy to keep the inflation target immune to a further weakening of the currency. This dual targeting mechanism (exchange rate stability and inflation) resulted in another undesirable monetary policy move on November 28. At an emergency meeting that day, the NBH raised interest rates from 9.5% to 12.5%, with immediate effect. The rate was then maintained during the regular scheduled meetings from December on. In light of the above developments, and with the exception of countries with unnecessarily high interest rates, such as Hungary and Slovakia, the period of radical

cuts in interest rates in Central Europe is clearly over. Gradualism and moderation are in fashion, as local monetary authorities want to avoid volatility in any form, as they prepare for the accession to the European and Monetary Union. With inflation picking up somewhat later this year in almost all countries in the region, and fiscal deficits staying well above set targets for 2004, central bankers will need to undertake a balancing act between providing support to investment activity and safeguarding the achievements in fighting inflation. The convergence in interest rates, particularly at the longer end of the curve, should continue without major disruptions.

* Nariman Behravesh is Chief Global Economist and Executive Vice President for Global Insight. Before joining Global Insight, Dr. Behravesh was Chief International Economist for Standard & Poor’s. * Emilio Rossi is Managing Director of European Consulting for Global Insight, based in Milan, Italy.

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EMERGING EUROPE - NOMINAL 2000 GDP AND REAL GDP GROWTH

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Real GDP Growth (Percent change from year ago)

Nominal GDP Bn. $, 2000 1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Estonia

5.1

-0.6

7.3

6.5

6.0

4.4

5.6

5.9

5.7

5.6

5.5

Latvia

7.2

2.8

6.8

7.9

6.1

7.4

6.1

5.9

5.8

5.7

5.6

Lithuania

11.2

-1.8

4.0

6.5

6.7

8.3

6.1

5.8

4.6

6.1

6.0

Czech Rep.

55.6

0.5

3.3

3.1

2.0

2.8

3.6

4.4

4.6

4.2

4.1

Hungary

46.1

4.2

5.2

3.8

3.5

2.8

3.2

3.5

3.4

3.0

3.9

164.0

4.1

4.0

1.0

1.4

3.7

4.6

4.9

4.5

4.2

4.5

Slovakia

20.2

1.5

2.0

3.8

4.4

4.0

4.6

5.0

5.8

4.9

4.5

Slovenia

19.0

5.2

4.6

2.9

3.2

2.3

3.9

3.8

3.8

3.5

3.4

Cyprus

8.9

4.7

5.0

4.0

2.0

2.0

3.7

3.3

3.2

3.2

3.2

Malta

3.6

4.1

6.4

-1.2

1.7

1.1

3.6

3.4

3.2

3.2

3.1

340.8

1.9

3.8

2.6

2.7

3.5

4.2

4.6

4.6

4.2

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Poland

Eastern Europe (EE)

providing for a much more challenging environment for monetary authorities. Furthermore, in the Hungarian case, inflation levels have continued to be influenced by rapid growth in real wages. On the other hand, the risk of a major resurgence in inflation in the new member countries is rather limited in the short to medium term. The inflationary pressures in the global economy remain subdued. This is not to say, however, that headline inflation will not rise in some countries. Wage pressures could be much greater in this region than in the Eurozone, particularly in the medium term as citizens in the accession countries demand purchasing power parity closer to that of their new compatriots. The volatility in exchange rate ahead of entry into ERM II for some of the Central European economies could result in temporary falls in the value of local currencies, as evidenced by the most recent example of the weakness of the Hungarian forint and the Polish zloty.

Entry into the EMU and Fiscal Policy Developments in the area of public finance and the need to sharply reduce budget deficits in the next several years constitute by far the biggest challenge for the EU accession countries. This challenge is of particular importance for the largest economies in the group, as in their case, the build-up in government spending over the last several years resulted in a public finance position that could prove difficult to sustain in the longer term. However, solving their fiscal situations will be a key factor for these economies, not only for meeting the Maastricht criteria with respect to public finance deficits, but also for reaching their growth potential. The fiscal balances of the four Central European candidates for EU membership—Poland, Hungary, the Czech Republic and Slovakia—have deteriorated considerably over the last two years. The reasons for the widening of state and consolidated budget deficits have differed among the four

countries. Some of the excessive increases in expenditures stemmed from outlays related to the implementation of pension, health care, and educational reforms. Finally, the governments in Hungary and the Czech Republic introduced extensive fiscal packages to stimulate their struggling economies through large-scale investment and current spending programs. The current fiscal ills in the region are not going to disappear immediately but may

be significantly flattened if growth reaches 4-5% annually across the region and budget spending is seriously curtailed—an ambitious but not unrealistic target. Furthermore, as the candidate countries near the date of EU membership, the flow of pre-accession funds from the EU will require the governments to allocate amounts of matching funds within the budget. In light of the above, it appears that bringing the consolidated fiscal budgets under the 3.0% of GDP ceiling as required by the Maastricht criteria in the largest Accession Countries by 2007 is not necessarily an impossible assumption. The direct result of a delayed fiscal stabilization would be a late entry into the EMU and euro adoption. Based on the developments to date, it seems that the ten Accession Countries will be adopting the common European currency in two stages. The Baltics, Slovenia, Malta and Cyprus, could potentially adopt the euro as early as 2007, while the remaining four countries will be in position to meet all the criteria a little later, probably by 2009-2010.

GDP 2000 ACCESSION COUNTRIES Estonia Latvia Lithuania Czech Rep. Hungary Poland Slovakia Slovenia Cyprus Malta

Authorities Reluctant to Cut Rates Any Further The resurgence of, still muted, inflationary pressures, and the uncertainty about the fiscal situation, put the monetary authorities across the region on alert. Following rapid declines in policy interest rates in 2001 and 2003, the monetary authorities started 2003 on a considerably more cautious note and the situation has not changed since. Central banks in key countries were reluctant to ease monetary conditions to avoid having to hike rates later in the year. In Poland, the central bank has left the policy rate unchanged at 5.25% since June 2003 and in the most recent meeting hinted at a possibility of shifting to a tightening bias in its policies. Similarly, the monetary authorities in the Czech Republic decided to cut the rates in July 2003, reducing it to 2% and has kept the rates unchanged since. The Slovak National Bank opted for keeping the rates unchanged, before cutting them only moderately in September 2003 to 6.25% and leaving them at

the same level until today. This firmness was adopted in the light of the still fragile situation in the external accounts, despite a reduction in both trade and current account deficits so far this year, and the rapid increase in headline consumer price inflation as a result of the introduction of large increases in VAT tax. Against the background of consistent policies elsewhere in the region, the Hungarian case clearly stands out. Following the unexpected devaluation of the parity rate of the forint and the ensuing downward pressure on the currency, the NBH unexpectedly raised its key two-week deposit rate by 300 base points, to 9.5% in two steps between June 11 and June 19. The move was clearly aimed at strengthening the forint and showing that this was the last increase in the cycle in order to reduce market expectations of new increases and attract fixed income portfolio investors back to the market. In line with expectations, the NBH then kept the two-week deposit rate unchanged at its regular

scheduled meetings on June 23, July 7, August 4, August 18, and September 1. The bank set a target range for the forint at between 250-260 forints per euro that was expected to guarantee both the stabilization of the exchange rate and support the competitiveness of Hungarian producers. The unexpected devaluation of the forint in June created a new environment, under which the bank has to use its interest rate policy to keep the inflation target immune to a further weakening of the currency. This dual targeting mechanism (exchange rate stability and inflation) resulted in another undesirable monetary policy move on November 28. At an emergency meeting that day, the NBH raised interest rates from 9.5% to 12.5%, with immediate effect. The rate was then maintained during the regular scheduled meetings from December on. In light of the above developments, and with the exception of countries with unnecessarily high interest rates, such as Hungary and Slovakia, the period of radical

cuts in interest rates in Central Europe is clearly over. Gradualism and moderation are in fashion, as local monetary authorities want to avoid volatility in any form, as they prepare for the accession to the European and Monetary Union. With inflation picking up somewhat later this year in almost all countries in the region, and fiscal deficits staying well above set targets for 2004, central bankers will need to undertake a balancing act between providing support to investment activity and safeguarding the achievements in fighting inflation. The convergence in interest rates, particularly at the longer end of the curve, should continue without major disruptions.

* Nariman Behravesh is Chief Global Economist and Executive Vice President for Global Insight. Before joining Global Insight, Dr. Behravesh was Chief International Economist for Standard & Poor’s. * Emilio Rossi is Managing Director of European Consulting for Global Insight, based in Milan, Italy.

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L’ottimismo della speranza The Optimism of Hope di Luigi Passamonti* by Luigi Passamonti*

Otto nazioni motivate dalla necessità di rimanere sul tracciato della convergenza con il resto dell’Europa Eight nations motivated by the urgent need to move toward convergence with the rest of Europe

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Luigi Passamonti

P

er riflettere oggi sugli otto1 paesi centro-europei che dal 1 maggio 2004 sono diventati membri dell’Unione europea, le recenti analisi della Commissione europea non sono sufficienti. Questi paesi, oggi membri della UE e non più candidati, non possono più essere valutati sui passi che hanno compiuto o quelli che restano da compiere nella prospettiva di una immaginaria uniformità. Un nuovo punto focale diventa necessario: quanto possano contribuire a quel futuro di prosperità e di pace che l’Europa persegue. Dunque uno stimolante cambiamento di metro di giudizio, ma anche accompagnato da qualche angoscia, perché il percorso di costruzione europea si snoderà secondo tappe e in modalità in larga parte ancora ignote persino ai più provetti compagni di viaggio, cioè i paesi che da tempo hanno aderito al progetto di una Europa unita. Una prima preoccupazione nasce proprio dall’equipaggio rinnovato: se non possa causare una caduta nelle performance dell’Unione europea nella regata intorno al mondo. Rassicuriamoci: anche se potranno esserci screzi

occasionali fra vecchi e nuovi membri dell’equipaggio, ci sono buoni motivi per sperare che la performance possa addirittura migliorare. Comprendendo bene motivazioni e capacità dei nuovi venuti e aiutandoli a colmare le loro carenze, infatti, potremo tutti governare con maggiore perizia venti e mari ancora poco conosciuti. L’Europa ha certamente significato molto per i primi quindici membri: basti pensare alla riconciliazione francotedesca. Ma il significato dell’Europa per gli otto nuovi membri ha una dimensione di tutt’altra grandezza. Ciascuno, nel secolo scorso, ha vissuto vicende drammatiche delle quali persino l’assenza di democrazia e libertà economiche e sociali fu l’aspetto solo superficialmente più importante. Perché la Polonia, il più grande fra gli otto, dopo aver subito la doppia aggressione nazisovietica, con la guerra perse anche le province orientali; e l’Ungheria fu amputata di due terzi del suo territorio e della sua popolazione alla fine della prima guerra mondiale. Quanto agli altri sei, hanno incominciato ad esistere con identità statale autonoma solo

negli anni Novanta, e proprio grazie al contesto di sicurezza e stabilità offerto dall’Europa. Pensiamo solamente al nostro vicino, la Slovenia, che scelse di associarsi al regno dei Serbi e Croati alla fine della prima guerra mondiale nel timore di diventare stato vassallo del regno d’Italia; fosse esistita l’Europa unita già allora, tante tragedie sul confine orientale d’Italia e nei Balcani sarebbero forse state evitate. Oggi l’Unione europea permette a questi nuovi stati la realizzazione del sogno, da secoli sfuggente, di illuminare le loro identità nazionali in coesistenza pacifica con i propri vicini. Quale che sia l’esito operativo della discussione oggi in atto sulla confluenza di scenari politici e istituzionali diversi, l’Europa sarà strumento decisivo per governare la globalizzazione, garantendo ai propri cittadini la tutela della loro dignità. Per prendere ad esempio paesi medio-grandi quali Spagna o Polonia: senza lo strumento dell’Unione europea, come potrebbero misurarsi con le complessità politiche ed economiche del contesto internazionale, dalle relazioni con paesi ricchi quali Stati Uniti e Giappone a quelle, soprattutto, con paesi quali Cina e India, che non sono ancora ricchi, ma già esprimono il 40% della popolazione mondiale? Il problema da porci, dunque, è chiaro: in quale misura gli otto nuovi membri, proprio in quanto parte dell’Unione, possano contribuire alla creazione del bene pubblico costituito dalla tutela della dignità e dal benessere individuali, e possano distribuire con equità tale bene al proprio interno. È un’analisi da compiere sulla base di criteri certi di valutazione: la competitività economica

determinata con lo stimolo di politiche pubbliche e private efficaci; la complementarietà di uno stato attivo sul versante della solidarietà e della coesione sociale; un andamento demografico equilibrato; un dialogo costante tra i paesi e all’interno di ciascuno di essi per fronteggiare con flessibilità opportunità e minacce in atto nel resto del mondo. Esaminiamo allora, paese per paese, quale possa essere il rispettivo contributo all’Europa e su quali aspetti l’Europa possa aiutarli a realizzare appieno i rispettivi potenziali. Polonia Con 38 milioni di abitanti e un Pil uguale al totale degli altri sette, è il più grande fra gli entranti. Aspira a giocare un ruolo politico che eccede il suo peso economico, anche traendo legittimità dalla inedita dimensione culturale slava che contribuisce all’Unione. Capace di far giocare un ruolo sociale al proprio movimento cattolico, è riuscito a trasformarsi dall’interno, riconvertendo l’economia di piano orientata su industria pesante, produzione di carbone e piccola agricoltura in un apparato più moderno che si basa sulla produzione di servizi, grazie anche a una rilevante partecipazione di operatori stranieri. La Polonia ha una regione depressa, sulla frontiera orientale, e infrastrutture – specie stradali – nettamente invecchiate. Con una disoccupazione al 20%, e la necessità di assorbire manodopera eccedentaria dai vecchi settori (fra cui l’agricoltura, che occupa un quarto della forza lavoro pur producendo il 4% del Pil), il paese ha l’urgenza di definire nuove politiche salariali e di riconversione professionale.

Ungheria Fra gli otto, è l’unico che abbia proprie importanti minoranze etniche all’interno dei paesi limitrofi: Romania, Slovacchia, Serbia. Grande potenza europea dal 1848 al 1918, già negli anni Ottanta, con il “socialismo al gulash”, fu il primo paese del blocco orientale ad adottare con cautela elementi dell’economia di mercato. Con un Pil pari a un terzo di quello polacco, ma con un reddito pro-capite superiore di quasi il 50%, all’inizio degli anni Novanta fu – nell’ex Europa dell’Est – la prima destinataria di investimenti esteri favoriti da una politica di quasi totale apertura e di protezione degli investitori internazionali. Oggi il paese ha i caratteri di una grande Hong Kong, con una economia aperta nella quale il commercio internazionale rappresenta il 120% del Pil, e capace di far assorbire all’Unione europea l’80% del suo export. Negli ultimi anni, come paradossale conseguenza del suo stesso successo economico, ha allargato i

cordoni della spesa pubblica, determinando l’attuale deficit pubblico vicino al 10% del Pil. Rientrarvi in conformità ai criteri europei sarà molto arduo, e ritarderà l’introduzione dell’euro, inizialmente prevista per il 2006. Ma, soprattutto, metterà alla prova la capacità del governo di attuare una politica di austerità sociale che si prospetta difficile dopo i recenti aumenti di pensioni, stipendi pubblici e minimi salariali. Slovenia È la punta di diamante tra gli otto nuovi entrati nella UE. I suoi due milioni di abitanti godono di gran lunga del più elevato livello di vita, pari a tre quarti della media europea, quindi già superiore a quello di Grecia, Portogallo e Italia centro-meridionale. Quando si staccò dalla Jugoslavia era già in una posizione privilegiata per capitali disponibili e strutture socio-economiche capaci di operare subito nell’autonomia di una economia di mercato. La sua classe dirigente ha avuto

l’accortezza di disegnare un percorso di sviluppo economico tutto proprio, imperniato su una grande cautela nel processo di riforme fatte gradualmente, lontano dal dogma della privatizzazione immediata sotto qualsiasi forma seguito invece in Cechia e Polonia. Per questo, è riuscita a tenersi fuori dal grande turbinio di ristrutturazioni e piani di austerità che altri paesi hanno dovuto adottare. Avendo perseguito una politica economica prudente e senza squilibri, di impronta germanica, il paese offre oggi un quadro di stabilità per le attività economiche. Tuttavia la ricerca della coesione sociale attraverso una politica salariale troppo rigida ha comportato dei costi: per esempio, un tasso d’inflazione che solo nel 2003 è sceso sotto il 5%. Repubblica Ceca Il più prospero dei nuovi entranti, dopo la Slovenia, con un reddito pro-capite pari al 60% della media europea, si ritrova a essere interamente circondato da paesi membri, ricordando simbolicamente il ruolo centrale che ebbero le sue regioni Moravia e Boemia nella rivoluzione industriale europea. Storicamente di stretta obbedienza comunista, con una economia al 96% controllata dallo stato, nel 1990 il paese fece una sterzata rapidissima verso il liberalismo economico, sotto la guida del primo ministro “falco” Vaclav Klaus, oggi presidente della repubblica. Ma, in assenza di un quadro legislativo adeguato, ai primi risultati positivi seguì uno stallo dello sviluppo, con gravi costi per le finanze pubbliche e il formarsi di gruppi di pressione intenti a salvaguardare i loro interessi di parte. Oggi, sostenuto da un sistema educativo e di sanità pubblica

di livello occidentale, la Repubblica Ceca (o Cechia) sta ricostruendo una posizione competitiva nell’industria, in un contesto come quello ungherese di grande apertura commerciale internazionale. Pur avendo completato la privatizzazione delle banche con l’entrata di operatori stranieri e avviato un processo di maggiore trasparenza sul mercato dei capitali, altri settori chiave quali le telecomunicazioni, l’energia e la chimica rimangono ancora sotto controllo statale. La spesa pubblica elevata e i deficit persistenti dovranno portarlo ad avviare riforme strutturali, anche se il basso volume di debito pubblico consente per ora di ritardare decisioni importanti. Slovacchia È un caso a sé. Per rifiuto delle politiche liberiste di Klaus, si staccò dalle province ceche contro la volontà popolare. Così il paese, guidato dal post-comunista Ivan Meciar, nel 1997 fu messo in quarantena politica da Unione europea e NATO. Un anno dopo, con la scelta come primo ministro di Mikulas Dzurinda, di orientamento liberale, fu avviato un programma di privatizzazioni, con apertura verso gli investimenti esteri, trasparenza nel bilancio statale e rilancio della crescita. Nel 2000 furono riaperti i ponti con la comunità internazionale. Oggi prosegue con determinazione sulla strada delle riforme strutturali, con una riforma fiscale straordinariamente ambiziosa (una aliquota unica al 19% per Iva e tassazione diretta), un riesame delle politiche sociali (salute e coesione), la riforma della giustizia per favorire le attività imprenditoriali e il loro finanziamento, una maggiore flessibilità nei contratti di

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er riflettere oggi sugli otto1 paesi centro-europei che dal 1 maggio 2004 sono diventati membri dell’Unione europea, le recenti analisi della Commissione europea non sono sufficienti. Questi paesi, oggi membri della UE e non più candidati, non possono più essere valutati sui passi che hanno compiuto o quelli che restano da compiere nella prospettiva di una immaginaria uniformità. Un nuovo punto focale diventa necessario: quanto possano contribuire a quel futuro di prosperità e di pace che l’Europa persegue. Dunque uno stimolante cambiamento di metro di giudizio, ma anche accompagnato da qualche angoscia, perché il percorso di costruzione europea si snoderà secondo tappe e in modalità in larga parte ancora ignote persino ai più provetti compagni di viaggio, cioè i paesi che da tempo hanno aderito al progetto di una Europa unita. Una prima preoccupazione nasce proprio dall’equipaggio rinnovato: se non possa causare una caduta nelle performance dell’Unione europea nella regata intorno al mondo. Rassicuriamoci: anche se potranno esserci screzi

occasionali fra vecchi e nuovi membri dell’equipaggio, ci sono buoni motivi per sperare che la performance possa addirittura migliorare. Comprendendo bene motivazioni e capacità dei nuovi venuti e aiutandoli a colmare le loro carenze, infatti, potremo tutti governare con maggiore perizia venti e mari ancora poco conosciuti. L’Europa ha certamente significato molto per i primi quindici membri: basti pensare alla riconciliazione francotedesca. Ma il significato dell’Europa per gli otto nuovi membri ha una dimensione di tutt’altra grandezza. Ciascuno, nel secolo scorso, ha vissuto vicende drammatiche delle quali persino l’assenza di democrazia e libertà economiche e sociali fu l’aspetto solo superficialmente più importante. Perché la Polonia, il più grande fra gli otto, dopo aver subito la doppia aggressione nazisovietica, con la guerra perse anche le province orientali; e l’Ungheria fu amputata di due terzi del suo territorio e della sua popolazione alla fine della prima guerra mondiale. Quanto agli altri sei, hanno incominciato ad esistere con identità statale autonoma solo

negli anni Novanta, e proprio grazie al contesto di sicurezza e stabilità offerto dall’Europa. Pensiamo solamente al nostro vicino, la Slovenia, che scelse di associarsi al regno dei Serbi e Croati alla fine della prima guerra mondiale nel timore di diventare stato vassallo del regno d’Italia; fosse esistita l’Europa unita già allora, tante tragedie sul confine orientale d’Italia e nei Balcani sarebbero forse state evitate. Oggi l’Unione europea permette a questi nuovi stati la realizzazione del sogno, da secoli sfuggente, di illuminare le loro identità nazionali in coesistenza pacifica con i propri vicini. Quale che sia l’esito operativo della discussione oggi in atto sulla confluenza di scenari politici e istituzionali diversi, l’Europa sarà strumento decisivo per governare la globalizzazione, garantendo ai propri cittadini la tutela della loro dignità. Per prendere ad esempio paesi medio-grandi quali Spagna o Polonia: senza lo strumento dell’Unione europea, come potrebbero misurarsi con le complessità politiche ed economiche del contesto internazionale, dalle relazioni con paesi ricchi quali Stati Uniti e Giappone a quelle, soprattutto, con paesi quali Cina e India, che non sono ancora ricchi, ma già esprimono il 40% della popolazione mondiale? Il problema da porci, dunque, è chiaro: in quale misura gli otto nuovi membri, proprio in quanto parte dell’Unione, possano contribuire alla creazione del bene pubblico costituito dalla tutela della dignità e dal benessere individuali, e possano distribuire con equità tale bene al proprio interno. È un’analisi da compiere sulla base di criteri certi di valutazione: la competitività economica

determinata con lo stimolo di politiche pubbliche e private efficaci; la complementarietà di uno stato attivo sul versante della solidarietà e della coesione sociale; un andamento demografico equilibrato; un dialogo costante tra i paesi e all’interno di ciascuno di essi per fronteggiare con flessibilità opportunità e minacce in atto nel resto del mondo. Esaminiamo allora, paese per paese, quale possa essere il rispettivo contributo all’Europa e su quali aspetti l’Europa possa aiutarli a realizzare appieno i rispettivi potenziali. Polonia Con 38 milioni di abitanti e un Pil uguale al totale degli altri sette, è il più grande fra gli entranti. Aspira a giocare un ruolo politico che eccede il suo peso economico, anche traendo legittimità dalla inedita dimensione culturale slava che contribuisce all’Unione. Capace di far giocare un ruolo sociale al proprio movimento cattolico, è riuscito a trasformarsi dall’interno, riconvertendo l’economia di piano orientata su industria pesante, produzione di carbone e piccola agricoltura in un apparato più moderno che si basa sulla produzione di servizi, grazie anche a una rilevante partecipazione di operatori stranieri. La Polonia ha una regione depressa, sulla frontiera orientale, e infrastrutture – specie stradali – nettamente invecchiate. Con una disoccupazione al 20%, e la necessità di assorbire manodopera eccedentaria dai vecchi settori (fra cui l’agricoltura, che occupa un quarto della forza lavoro pur producendo il 4% del Pil), il paese ha l’urgenza di definire nuove politiche salariali e di riconversione professionale.

Ungheria Fra gli otto, è l’unico che abbia proprie importanti minoranze etniche all’interno dei paesi limitrofi: Romania, Slovacchia, Serbia. Grande potenza europea dal 1848 al 1918, già negli anni Ottanta, con il “socialismo al gulash”, fu il primo paese del blocco orientale ad adottare con cautela elementi dell’economia di mercato. Con un Pil pari a un terzo di quello polacco, ma con un reddito pro-capite superiore di quasi il 50%, all’inizio degli anni Novanta fu – nell’ex Europa dell’Est – la prima destinataria di investimenti esteri favoriti da una politica di quasi totale apertura e di protezione degli investitori internazionali. Oggi il paese ha i caratteri di una grande Hong Kong, con una economia aperta nella quale il commercio internazionale rappresenta il 120% del Pil, e capace di far assorbire all’Unione europea l’80% del suo export. Negli ultimi anni, come paradossale conseguenza del suo stesso successo economico, ha allargato i

cordoni della spesa pubblica, determinando l’attuale deficit pubblico vicino al 10% del Pil. Rientrarvi in conformità ai criteri europei sarà molto arduo, e ritarderà l’introduzione dell’euro, inizialmente prevista per il 2006. Ma, soprattutto, metterà alla prova la capacità del governo di attuare una politica di austerità sociale che si prospetta difficile dopo i recenti aumenti di pensioni, stipendi pubblici e minimi salariali. Slovenia È la punta di diamante tra gli otto nuovi entrati nella UE. I suoi due milioni di abitanti godono di gran lunga del più elevato livello di vita, pari a tre quarti della media europea, quindi già superiore a quello di Grecia, Portogallo e Italia centro-meridionale. Quando si staccò dalla Jugoslavia era già in una posizione privilegiata per capitali disponibili e strutture socio-economiche capaci di operare subito nell’autonomia di una economia di mercato. La sua classe dirigente ha avuto

l’accortezza di disegnare un percorso di sviluppo economico tutto proprio, imperniato su una grande cautela nel processo di riforme fatte gradualmente, lontano dal dogma della privatizzazione immediata sotto qualsiasi forma seguito invece in Cechia e Polonia. Per questo, è riuscita a tenersi fuori dal grande turbinio di ristrutturazioni e piani di austerità che altri paesi hanno dovuto adottare. Avendo perseguito una politica economica prudente e senza squilibri, di impronta germanica, il paese offre oggi un quadro di stabilità per le attività economiche. Tuttavia la ricerca della coesione sociale attraverso una politica salariale troppo rigida ha comportato dei costi: per esempio, un tasso d’inflazione che solo nel 2003 è sceso sotto il 5%. Repubblica Ceca Il più prospero dei nuovi entranti, dopo la Slovenia, con un reddito pro-capite pari al 60% della media europea, si ritrova a essere interamente circondato da paesi membri, ricordando simbolicamente il ruolo centrale che ebbero le sue regioni Moravia e Boemia nella rivoluzione industriale europea. Storicamente di stretta obbedienza comunista, con una economia al 96% controllata dallo stato, nel 1990 il paese fece una sterzata rapidissima verso il liberalismo economico, sotto la guida del primo ministro “falco” Vaclav Klaus, oggi presidente della repubblica. Ma, in assenza di un quadro legislativo adeguato, ai primi risultati positivi seguì uno stallo dello sviluppo, con gravi costi per le finanze pubbliche e il formarsi di gruppi di pressione intenti a salvaguardare i loro interessi di parte. Oggi, sostenuto da un sistema educativo e di sanità pubblica

di livello occidentale, la Repubblica Ceca (o Cechia) sta ricostruendo una posizione competitiva nell’industria, in un contesto come quello ungherese di grande apertura commerciale internazionale. Pur avendo completato la privatizzazione delle banche con l’entrata di operatori stranieri e avviato un processo di maggiore trasparenza sul mercato dei capitali, altri settori chiave quali le telecomunicazioni, l’energia e la chimica rimangono ancora sotto controllo statale. La spesa pubblica elevata e i deficit persistenti dovranno portarlo ad avviare riforme strutturali, anche se il basso volume di debito pubblico consente per ora di ritardare decisioni importanti. Slovacchia È un caso a sé. Per rifiuto delle politiche liberiste di Klaus, si staccò dalle province ceche contro la volontà popolare. Così il paese, guidato dal post-comunista Ivan Meciar, nel 1997 fu messo in quarantena politica da Unione europea e NATO. Un anno dopo, con la scelta come primo ministro di Mikulas Dzurinda, di orientamento liberale, fu avviato un programma di privatizzazioni, con apertura verso gli investimenti esteri, trasparenza nel bilancio statale e rilancio della crescita. Nel 2000 furono riaperti i ponti con la comunità internazionale. Oggi prosegue con determinazione sulla strada delle riforme strutturali, con una riforma fiscale straordinariamente ambiziosa (una aliquota unica al 19% per Iva e tassazione diretta), un riesame delle politiche sociali (salute e coesione), la riforma della giustizia per favorire le attività imprenditoriali e il loro finanziamento, una maggiore flessibilità nei contratti di

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lavoro. Tra gli stati membri del gruppo di Visegrad (con Cechia, Polonia e Ungheria), la Slovacchia si sta attrezzando per diventare il più dinamico. I Paesi Baltici Estonia, Lettonia e Lituania, complessivamente 7 milioni di persone, costituiscono, per reddito, il gruppo di coda dei nuovi entrati: meno del 40% della media europea, la metà di quello della Slovenia. Ma rappresentano quanto di più inaspettato potesse accadere nell’Unione europea: la bandiera blu con le stelle gialle svetta ora su lembi dell’ex impero sovietico senza lo sparo di una cartuccia. Una bandiera che i cittadini di questi tre paesi meritano appieno per aver saputo costruire realtà statuali e sociali completamente diverse dal tempo peraltro recente in cui erano satelliti dell’URSS: nuove istituzioni, nuove leggi, nuova moneta, nuova struttura economica, nuovi clienti e nuovi fornitori, e capaci di guadagnarsi il cibo senza l’aiuto di “fratelli maggiori”. Lituania Il più grande dei tre, tra il 1992 e il 1995 registrò un calo della produzione industriale del 50%, subì il taglio totale delle forniture energetiche a basso prezzo dalla Russia, perse i suoi clienti, dovette intraprendere nuove attività nei settori legno, tessile e prodotti chimici. E quando le cose sembravano avviate verso il meglio, la crisi russa del 1998 provocò una pesante recessione, facendo crollare la produzione agricola del 17%. Da allora il paese, spinto da forti aumenti di produttività nonostante una riduzione della disoccupazione, è cresciuto a un tasso superiore al 5% annuo, che nel 2003 si è espanso fino all’8%.

Estonia Solo tre anni dopo l’indipendenza si è liberata da truppe sovietiche rimaste nel paese a garanzia di una forte minoranza russa, oggi in calo. È il più piccolo e il più ricco dei tre paesi baltici. Ha abbracciato senza esitazioni una filosofia economica liberale. Ha trovato un suo ruolo nello spazio economico scandinavo, anche come sub-fornitore di industrie elettroniche. Dispone di infrastrutture di telecomunicazioni di densità europea, che permettono una penetrazione record di Internet. La sua crescita robusta negli ultimi anni, superiore al 6%, è stata facilitata da una politica fiscale che incentiva gli investimenti, conservando esentasse il reddito aziendale non distribuito, da un sistema educativo avanzato dotato di 51 università e istituzioni superiori di terzo livello, da una politica salariale flessibile che permette di riconoscere livelli diversi di produttività (i salari nel settore costruzioni sono due volte superiori a quelli nel turismo). Lettonia Stretto fra Lituania ed Estonia, è il paese più povero fra gli otto. Come in Polonia, il settore agricolo, pur essendosi contratto fino al 4,7% del Pil, continua a occupare il 15% della popolazione. Durante la dominazione sovietica subì un profondo rimescolamento etnico: i lettoni scesero a poco più del 50% della popolazione; ancora oggi, il 36% della popolazione è di lingua russa. Ha conosciuto un movimento tettonico della sua base industriale: da una specializzazione nei beni strumentali per il mercato sovietico ha dovuto riconvertirsi su attività a minor valore aggiunto quali i prodotti del legno, il tessile e l’alimentare. È stata salvata da una gestione

macro-economica improntata a rigore e stabilità: l’inflazione è al 2%, il deficit pubblico è circa al 3%, il debito pubblico, con il 15% del Pil, è fra i più bassi della regione. Per entrare nell’Unione europea ciascuno di questi paesi ha dovuto superare un doppio esame: di democrazia politica e di funzionamento della propria economia secondo i principi di mercato in un contesto concorrenziale europeo. Oggi, le rispettive strutture istituzionali, normative ed economiche, stanno convergendo verso quelle dei paesi membri di più vecchia data. Un processo nel corso del quale, per anni, sono cresciuti a un tasso superiore, e in certi casi significativamente superiore, a quello del resto dell’Europa, con risultati rispetto a inflazione e stabilità del cambio che l’Italia stessa ha cominciato a conoscere solamente una decina di anni or sono. Resta per loro, tuttavia, il grande problema di un livello di vita reale, in media, pari alla metà di quello del resto d’Europa. La causa è in un divario di produttività dovuto a fattori istituzionali molto “soft”: da analisi meno sofisticate delle opportunità imprenditoriali a un tessuto economico meno ricco di potenziali clienti e fornitori, alla disponibilità di una gamma ristretta di servizi, a un’amministrazione pubblica che ancora fatica a soddisfare le necessità di una economia in rapido mutamento. Non c’è da farsi illusioni: questo divario, per l’economia nel suo complesso, potrà essere colmato solamente nel medio e lungo termine, per quanto settori o aziende specifiche possano riuscire, in tempi più brevi, a trovarsi a operare in condizioni simili a quelle dei paesi più avanzati.

Se, a causa di questo divario, la popolazione in qualunque degli otto paesi percepisse che il proprio basso livello di vita non riesce a raggiungere quello del resto dell’Unione, o che squilibri settoriali continueranno a produrre una distribuzione iniqua dei frutti della crescita, si determinerebbero serie condizioni di rischio per la stabilità sociale e politica. E allora si creerebbe un indebolimento complessivo nella capacità dell’Unione europea di raccogliere le sfide della globalizzazione, con conseguenze che arriverebbero a coinvolgere anche cittadini e imprenditori italiani, sia nella vita quotidiana che nei progetti. Peraltro, gli otto dovranno considerare un vincolo importante: non potrà essere l’aumento della spesa pubblica a stimolarne la crescita, perché essa assorbe già quote molto elevate del Pil, e alimentando un deficit pubblico che già si riflette nello squilibrio dei conti esterni, sottrarrebbe risorse preziose alla crescita del settore privato, già soggetto a elevati livelli di tassazione in molti paesi. Insomma una situazione dalla quale bisogna rientrare al più presto per non compromettere la prosperità di lungo periodo. Il vero nodo è proprio questo: gli otto devono trovare soluzioni innovative per facilitare le attività imprenditoriali, semplificando la normativa e calibrando programmi di spesa pubblica orientati sui due versanti della ricerca dell’efficienza e della solidarietà per i bisognosi, peraltro in un contesto di risorse globalmente in contrazione. Una situazione ben nota anche in Italia, per quanto in dimensioni più contenute e vissuta con un senso di minore urgenza. La sfida di riqualificazione delle

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competenze professionali e di riorientamento dell’attività del settore pubblico che i nuovi paesi membri stanno affrontando per rispondere alle esigenze dell’economia di mercato rappresenta la frontiera di quell’insieme di riforme, conosciuto come “Programma di Lisbona”, che l’Unione europea sta attuando, non certo a tamburo battente, per aumentare la propria competitività. In questa prospettiva, l’imperativo categorico di stimolare la crescita nei nuovi paesi offre a tutta l’Unione europea una preziosa opportunità per organizzare attorno a questo tema un secondo organico pilastro dell’architettura di politica economica, da aggiungere a quello, oggi predominante, della stabilità macro-economica codificato nel Patto di Stabilità. Il rigore della gestione dei conti pubblici, elemento cardine della ferrea disciplina prevista per giungere all’introduzione dell’euro nei nuovi paesi membri, non può rappresentare la sola ancora per i programmi della classe politica dei nuovi

paesi membri e dei suoi partner sociali, in sostituzione di quella, galvanizzante ma oramai già dietro le spalle, dell’entrata nell’Unione europea. Solo la fondata prospettiva di un prolungato dinamismo economico potrà motivare i cittadini dei nuovi paesi membri a sopportare nuovi sacrifici. E allora, paradossalmente, proprio le improrogabili necessità di crescita degli otto nuovi membri finirebbero con il segnare una via d’uscita, accettabile per i tutori della moneta unica, ai problemi franco-tedeschi (e italiani) derivanti dai vincoli del Patto di Stabilità. L’esperienza “operativa” fatta dai nuovi paesi nell’orchestrare questo processo di riqualificazione e riorientamento e di organizzazione della tutela di chi non riesce a inserirsi appieno nei nuovi modelli produttivi può offrire insegnamenti utili per sbloccare rigidità e ottusità presenti nelle nostre società: se l’Estonia riesce ad avere un surplus del bilancio statale pari a 1,3% del Pil, se la Slovacchia può praticare una tassazione a una aliquota

unificata del 19%, se la Slovenia investe l’1,5% del suo Pil in ricerca e sviluppo (l’Italia è appena sopra l’1%), anche i nostri paesi potrebbero forse adoperarsi per trovare delle soluzioni altrettanto coraggiose e innovative. Non è affatto utopico immaginare che, in un futuro non troppo distante, ministri dell’economia di paesi europei più avanzati possano fare riferimento a innovazioni introdotte in Estonia o in Slovenia per ottenere il consenso dei rispettivi parlamenti su innovazioni apparentemente ambiziose proposte nella Finanziaria. Ci troviamo accanto a otto nazioni vitali, con le maniche ancora rimboccate per le profonde trasformazioni in corso, motivate dalla necessità ineludibile di rimanere sul tracciato della convergenza con il resto dell’Europa, possibilmente accelerandone il passo, alla ricerca di un equilibrio anche politico fra perseguimento dell’efficienza e necessità della solidarietà. È un prezioso laboratorio per sperimentare le migliori politiche per lo sviluppo dell’Unione

europea in un mondo sempre più competitivo. Comprendendo senza supponenza e anzi con gratitudine il lavoro in corso in questi paesi, e sostenendolo generosamente, contribuiremo alla crescita dell’Unione europea nel suo insieme. 1. L’allargamento del maggio 2004 ha riguardato anche due piccoli paesi dell’area mediterranea, Cipro e Malta. Altri due paesi centro-europei, Bulgaria e Romania, dovrebbero essere ammessi nel 2007. * Luigi Passamonti è attualmente senior advisor del vicepresidente per il settore finanziario della Banca Mondiale. Tra le sue varie responsabilità riveste un ruolo importante la bank governance. Ha pubblicato un articolo su questo tema sul Financial Times nell’agosto 2002. Prima di questa posizione, era assistente del presidente della Banca Mondiale (1997-1999). Ha iniziato la sua carriera nel Gruppo Banca Mondiale con l’incarico di avviare e gestire investimenti in istituti finanziari dell’Africa Sub-Sahariana. Prima di questi incarichi ufficiali, ha rivestito varie posizioni come senior nel settore bancario. È stato responsabile delle attività di investment banking in Italia per la J.P. Morgan negli anni Ottanta. Ha lavorato come consulente strategico per vari istituti finanziari europei con il Boston Consulting Group di Parigi ed è stato direttore generale di una banca d’affari italiana.


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lavoro. Tra gli stati membri del gruppo di Visegrad (con Cechia, Polonia e Ungheria), la Slovacchia si sta attrezzando per diventare il più dinamico. I Paesi Baltici Estonia, Lettonia e Lituania, complessivamente 7 milioni di persone, costituiscono, per reddito, il gruppo di coda dei nuovi entrati: meno del 40% della media europea, la metà di quello della Slovenia. Ma rappresentano quanto di più inaspettato potesse accadere nell’Unione europea: la bandiera blu con le stelle gialle svetta ora su lembi dell’ex impero sovietico senza lo sparo di una cartuccia. Una bandiera che i cittadini di questi tre paesi meritano appieno per aver saputo costruire realtà statuali e sociali completamente diverse dal tempo peraltro recente in cui erano satelliti dell’URSS: nuove istituzioni, nuove leggi, nuova moneta, nuova struttura economica, nuovi clienti e nuovi fornitori, e capaci di guadagnarsi il cibo senza l’aiuto di “fratelli maggiori”. Lituania Il più grande dei tre, tra il 1992 e il 1995 registrò un calo della produzione industriale del 50%, subì il taglio totale delle forniture energetiche a basso prezzo dalla Russia, perse i suoi clienti, dovette intraprendere nuove attività nei settori legno, tessile e prodotti chimici. E quando le cose sembravano avviate verso il meglio, la crisi russa del 1998 provocò una pesante recessione, facendo crollare la produzione agricola del 17%. Da allora il paese, spinto da forti aumenti di produttività nonostante una riduzione della disoccupazione, è cresciuto a un tasso superiore al 5% annuo, che nel 2003 si è espanso fino all’8%.

Estonia Solo tre anni dopo l’indipendenza si è liberata da truppe sovietiche rimaste nel paese a garanzia di una forte minoranza russa, oggi in calo. È il più piccolo e il più ricco dei tre paesi baltici. Ha abbracciato senza esitazioni una filosofia economica liberale. Ha trovato un suo ruolo nello spazio economico scandinavo, anche come sub-fornitore di industrie elettroniche. Dispone di infrastrutture di telecomunicazioni di densità europea, che permettono una penetrazione record di Internet. La sua crescita robusta negli ultimi anni, superiore al 6%, è stata facilitata da una politica fiscale che incentiva gli investimenti, conservando esentasse il reddito aziendale non distribuito, da un sistema educativo avanzato dotato di 51 università e istituzioni superiori di terzo livello, da una politica salariale flessibile che permette di riconoscere livelli diversi di produttività (i salari nel settore costruzioni sono due volte superiori a quelli nel turismo). Lettonia Stretto fra Lituania ed Estonia, è il paese più povero fra gli otto. Come in Polonia, il settore agricolo, pur essendosi contratto fino al 4,7% del Pil, continua a occupare il 15% della popolazione. Durante la dominazione sovietica subì un profondo rimescolamento etnico: i lettoni scesero a poco più del 50% della popolazione; ancora oggi, il 36% della popolazione è di lingua russa. Ha conosciuto un movimento tettonico della sua base industriale: da una specializzazione nei beni strumentali per il mercato sovietico ha dovuto riconvertirsi su attività a minor valore aggiunto quali i prodotti del legno, il tessile e l’alimentare. È stata salvata da una gestione

macro-economica improntata a rigore e stabilità: l’inflazione è al 2%, il deficit pubblico è circa al 3%, il debito pubblico, con il 15% del Pil, è fra i più bassi della regione. Per entrare nell’Unione europea ciascuno di questi paesi ha dovuto superare un doppio esame: di democrazia politica e di funzionamento della propria economia secondo i principi di mercato in un contesto concorrenziale europeo. Oggi, le rispettive strutture istituzionali, normative ed economiche, stanno convergendo verso quelle dei paesi membri di più vecchia data. Un processo nel corso del quale, per anni, sono cresciuti a un tasso superiore, e in certi casi significativamente superiore, a quello del resto dell’Europa, con risultati rispetto a inflazione e stabilità del cambio che l’Italia stessa ha cominciato a conoscere solamente una decina di anni or sono. Resta per loro, tuttavia, il grande problema di un livello di vita reale, in media, pari alla metà di quello del resto d’Europa. La causa è in un divario di produttività dovuto a fattori istituzionali molto “soft”: da analisi meno sofisticate delle opportunità imprenditoriali a un tessuto economico meno ricco di potenziali clienti e fornitori, alla disponibilità di una gamma ristretta di servizi, a un’amministrazione pubblica che ancora fatica a soddisfare le necessità di una economia in rapido mutamento. Non c’è da farsi illusioni: questo divario, per l’economia nel suo complesso, potrà essere colmato solamente nel medio e lungo termine, per quanto settori o aziende specifiche possano riuscire, in tempi più brevi, a trovarsi a operare in condizioni simili a quelle dei paesi più avanzati.

Se, a causa di questo divario, la popolazione in qualunque degli otto paesi percepisse che il proprio basso livello di vita non riesce a raggiungere quello del resto dell’Unione, o che squilibri settoriali continueranno a produrre una distribuzione iniqua dei frutti della crescita, si determinerebbero serie condizioni di rischio per la stabilità sociale e politica. E allora si creerebbe un indebolimento complessivo nella capacità dell’Unione europea di raccogliere le sfide della globalizzazione, con conseguenze che arriverebbero a coinvolgere anche cittadini e imprenditori italiani, sia nella vita quotidiana che nei progetti. Peraltro, gli otto dovranno considerare un vincolo importante: non potrà essere l’aumento della spesa pubblica a stimolarne la crescita, perché essa assorbe già quote molto elevate del Pil, e alimentando un deficit pubblico che già si riflette nello squilibrio dei conti esterni, sottrarrebbe risorse preziose alla crescita del settore privato, già soggetto a elevati livelli di tassazione in molti paesi. Insomma una situazione dalla quale bisogna rientrare al più presto per non compromettere la prosperità di lungo periodo. Il vero nodo è proprio questo: gli otto devono trovare soluzioni innovative per facilitare le attività imprenditoriali, semplificando la normativa e calibrando programmi di spesa pubblica orientati sui due versanti della ricerca dell’efficienza e della solidarietà per i bisognosi, peraltro in un contesto di risorse globalmente in contrazione. Una situazione ben nota anche in Italia, per quanto in dimensioni più contenute e vissuta con un senso di minore urgenza. La sfida di riqualificazione delle

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competenze professionali e di riorientamento dell’attività del settore pubblico che i nuovi paesi membri stanno affrontando per rispondere alle esigenze dell’economia di mercato rappresenta la frontiera di quell’insieme di riforme, conosciuto come “Programma di Lisbona”, che l’Unione europea sta attuando, non certo a tamburo battente, per aumentare la propria competitività. In questa prospettiva, l’imperativo categorico di stimolare la crescita nei nuovi paesi offre a tutta l’Unione europea una preziosa opportunità per organizzare attorno a questo tema un secondo organico pilastro dell’architettura di politica economica, da aggiungere a quello, oggi predominante, della stabilità macro-economica codificato nel Patto di Stabilità. Il rigore della gestione dei conti pubblici, elemento cardine della ferrea disciplina prevista per giungere all’introduzione dell’euro nei nuovi paesi membri, non può rappresentare la sola ancora per i programmi della classe politica dei nuovi

paesi membri e dei suoi partner sociali, in sostituzione di quella, galvanizzante ma oramai già dietro le spalle, dell’entrata nell’Unione europea. Solo la fondata prospettiva di un prolungato dinamismo economico potrà motivare i cittadini dei nuovi paesi membri a sopportare nuovi sacrifici. E allora, paradossalmente, proprio le improrogabili necessità di crescita degli otto nuovi membri finirebbero con il segnare una via d’uscita, accettabile per i tutori della moneta unica, ai problemi franco-tedeschi (e italiani) derivanti dai vincoli del Patto di Stabilità. L’esperienza “operativa” fatta dai nuovi paesi nell’orchestrare questo processo di riqualificazione e riorientamento e di organizzazione della tutela di chi non riesce a inserirsi appieno nei nuovi modelli produttivi può offrire insegnamenti utili per sbloccare rigidità e ottusità presenti nelle nostre società: se l’Estonia riesce ad avere un surplus del bilancio statale pari a 1,3% del Pil, se la Slovacchia può praticare una tassazione a una aliquota

unificata del 19%, se la Slovenia investe l’1,5% del suo Pil in ricerca e sviluppo (l’Italia è appena sopra l’1%), anche i nostri paesi potrebbero forse adoperarsi per trovare delle soluzioni altrettanto coraggiose e innovative. Non è affatto utopico immaginare che, in un futuro non troppo distante, ministri dell’economia di paesi europei più avanzati possano fare riferimento a innovazioni introdotte in Estonia o in Slovenia per ottenere il consenso dei rispettivi parlamenti su innovazioni apparentemente ambiziose proposte nella Finanziaria. Ci troviamo accanto a otto nazioni vitali, con le maniche ancora rimboccate per le profonde trasformazioni in corso, motivate dalla necessità ineludibile di rimanere sul tracciato della convergenza con il resto dell’Europa, possibilmente accelerandone il passo, alla ricerca di un equilibrio anche politico fra perseguimento dell’efficienza e necessità della solidarietà. È un prezioso laboratorio per sperimentare le migliori politiche per lo sviluppo dell’Unione

europea in un mondo sempre più competitivo. Comprendendo senza supponenza e anzi con gratitudine il lavoro in corso in questi paesi, e sostenendolo generosamente, contribuiremo alla crescita dell’Unione europea nel suo insieme. 1. L’allargamento del maggio 2004 ha riguardato anche due piccoli paesi dell’area mediterranea, Cipro e Malta. Altri due paesi centro-europei, Bulgaria e Romania, dovrebbero essere ammessi nel 2007. * Luigi Passamonti è attualmente senior advisor del vicepresidente per il settore finanziario della Banca Mondiale. Tra le sue varie responsabilità riveste un ruolo importante la bank governance. Ha pubblicato un articolo su questo tema sul Financial Times nell’agosto 2002. Prima di questa posizione, era assistente del presidente della Banca Mondiale (1997-1999). Ha iniziato la sua carriera nel Gruppo Banca Mondiale con l’incarico di avviare e gestire investimenti in istituti finanziari dell’Africa Sub-Sahariana. Prima di questi incarichi ufficiali, ha rivestito varie posizioni come senior nel settore bancario. È stato responsabile delle attività di investment banking in Italia per la J.P. Morgan negli anni Ottanta. Ha lavorato come consulente strategico per vari istituti finanziari europei con il Boston Consulting Group di Parigi ed è stato direttore generale di una banca d’affari italiana.


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ecent analyses carried out by the European Commission are no longer the right means of assessing the eight1 Central European nations that became member states of the European Union on 1st May, 2004. These countries, now members of the EU and not just candidates, can no longer be assessed based on what they have achieved or what they still need to achieve from the point of view of a prospective uniformity. They must now be examined in terms of a different point of view: what can they contribute to the future peace and prosperity of Europe. This means adopting an interesting and challenging new yardstick, bringing with it a certain amount of worry and anxiety because the process of building Europe will now unfold in a sequence of largely unknown steps even to the most tried-and-tested fellow-travelers: i.e. those countries which have been part of united Europe for some time already. Initial worries derive from the fact we are dealing with a new crew: it is to be hoped that this will not detract from the European Union’s performance in the round-the-world regatta. Let us reassure ourselves: although there might be the odd quibble between the old and new members of the crew, there is good reason to hope that it might even perform better. If we come to terms with the skills and aspirations of the newcomers and help them make up for their shortcomings, then we might all manage to sail through these as yet unfamiliar seas and winds with greater skill and expertise. Europe has certainly meant a lot to its original fifteen members: take French-German reconciliation for instance. But

the meaning of Europe to the eight new members takes on a completely new dimension. Each of these nations went through traumatic events last century, some of even deeper significance than the more striking lack of democracy and socio-economic freedom. For instance Poland, the biggest of the eight, actually lost its eastern provinces in the war after suffering at the hands of both the Nazis and Soviets; and Hungary had two-thirds of its land and population taken away at the end of the First World War. As for the other six, they only became independent states in the 1990s and that was thanks to the security and stability Europe guaranteed them. Look at our neighbor Slovenia, which chose to join the kingdom of the Serbs and Croatians at the end of the First World War for fear of becoming a vassal of the kingdom of Italy. If United Europe had already existed back then, many of the tragic conflicts on the eastern border of Italy and in the Balkans might well have been avoided. After centuries of dreaming to no avail, the European Union will finally let these states take on their own national identities in peaceful co-existence with their neighbors. Whatever the actual outcome of all the discussions currently under way aimed at bringing together different political and institutional frameworks, Europe will be a key tool in controlling globalization and safeguarding its inhabitants’ dignity. Taking medium/largesized nations like Spain or Poland as an example: without the help of the European Union, how could they measure up to the politicaleconomic complexities of the international scene, such as relations with rich countries like

the United States and Japan and, most significantly, with countries like China and India, which are not yet rich but already account for 40% of the world’s population? The problem being faced is obvious: how can the eight new members of the Union contribute collectively to people’s individual well-being and dignity and also share it out evenly inside their own borders. This kind of analysis must be made along clear lines: economic competitiveness deriving from effective public and private policies; complementary input coming from plenty of solidarity and social cohesion; a balanced demographic trend; consistant dialogue between nations and within each separate country, in order to be responsive to opportunities and threats existing in the rest of the world. Taking each country in turn, let’s now take a look at how they can contribute to Europe and how Europe can help them to achieve their potential. Poland A population of 38 million and a GDP equal to all the other seven nations put together make Poland the biggest of the new entrants. It hopes its political influence will actually exceed its economic power, justified by the unusual contribution of Slavish culture it offers the Union. By allowing its Catholic movement to play a key social role, it has managed to transform itself from the inside, converting its planned economy based largely on heavy industry, coal mining and small-scale farming into a more modern apparatus based on providing services, thanks also to plenty of input from overseas business people. Poland’s eastern border region

is still depressed with extremely old infrastructure, particularly its roads. The country urgently needs new salary and occupational re-training policies to deal with its 20% unemployment and the need to re-deploy workers from old sectors (including farming, that employs a quarter of the work force while generating only 4% of the GDP). Hungary Hungary is the only one of the eight nations that has its own sizeable ethnic minorities in neighboring countries: Rumania, Slovakia, Serbia. A great European power from 1848-1918, its “goulash socialism” in the 1980s made it the first eastern block country to cautiously adopt certain aspects of a market economy. With only one third of Poland’s GDP but an almost 50% higher average income per capita, in the early 1990s it was the first former eastern European country to attract foreign investment, helped along by a policy of almost total openness to, and protection for, international investors. Nowadays, the country operates similar to Hong Kong with an open economy in which international trade accounts for 120% of the GDP, while the European Union absorbs 80% of its exports. As an ironic consequence of its own economic success, it has loosened the reins on public expenditure resulting in its current public deficit of nearly 10% of the GDP. It will be hard to get back within the European parameters, and this will inevitably slow down the introduction of the euro, initially set for 2006. But most significantly it will test the government pledge to implement a policy of social austerity that looks as though it

will come under strain from recent rises in pensions, public salaries and minimum wages. Slovenia This is the wealthiest of the new entrants in the EU. Its population of two million enjoys easily the highest standard of living, about three-quarters of the European average, making it higher than Greece, Portugal and Central-Southern Italy. When it separated from Yugoslavia it was already in a privileged position in terms of available capital and socio-economic structures ready to operate independently in a market economy. Its ruling class was smart enough to devise its own plan of economic growth hinging around an extremely cautious approach to gradually introducing reforms, a far cry from the dogma of instant privatization in any guise adopted in the Czech Republic and Poland. This meant it was able to steer clear of all the restructuring and austerity plans other nations were forced to implement. Having opted for a cautious and balanced economic policy inspired along German lines, the country can now boast a stable economy. Nevertheless, the need to create social cohesion through an over-rigid wage policy has had its costs: for instance, the inflation rate dropped below 5% only in 2003. Czech Republic The most prosperous of the new member states after Slovenia with an income per capita that is 60% the European average, it is now completely surrounded by member nations, symbolically evoking the central role the regions of Moravia and Bohemia played in Europe’s industrial revolution.

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ecent analyses carried out by the European Commission are no longer the right means of assessing the eight1 Central European nations that became member states of the European Union on 1st May, 2004. These countries, now members of the EU and not just candidates, can no longer be assessed based on what they have achieved or what they still need to achieve from the point of view of a prospective uniformity. They must now be examined in terms of a different point of view: what can they contribute to the future peace and prosperity of Europe. This means adopting an interesting and challenging new yardstick, bringing with it a certain amount of worry and anxiety because the process of building Europe will now unfold in a sequence of largely unknown steps even to the most tried-and-tested fellow-travelers: i.e. those countries which have been part of united Europe for some time already. Initial worries derive from the fact we are dealing with a new crew: it is to be hoped that this will not detract from the European Union’s performance in the round-the-world regatta. Let us reassure ourselves: although there might be the odd quibble between the old and new members of the crew, there is good reason to hope that it might even perform better. If we come to terms with the skills and aspirations of the newcomers and help them make up for their shortcomings, then we might all manage to sail through these as yet unfamiliar seas and winds with greater skill and expertise. Europe has certainly meant a lot to its original fifteen members: take French-German reconciliation for instance. But

the meaning of Europe to the eight new members takes on a completely new dimension. Each of these nations went through traumatic events last century, some of even deeper significance than the more striking lack of democracy and socio-economic freedom. For instance Poland, the biggest of the eight, actually lost its eastern provinces in the war after suffering at the hands of both the Nazis and Soviets; and Hungary had two-thirds of its land and population taken away at the end of the First World War. As for the other six, they only became independent states in the 1990s and that was thanks to the security and stability Europe guaranteed them. Look at our neighbor Slovenia, which chose to join the kingdom of the Serbs and Croatians at the end of the First World War for fear of becoming a vassal of the kingdom of Italy. If United Europe had already existed back then, many of the tragic conflicts on the eastern border of Italy and in the Balkans might well have been avoided. After centuries of dreaming to no avail, the European Union will finally let these states take on their own national identities in peaceful co-existence with their neighbors. Whatever the actual outcome of all the discussions currently under way aimed at bringing together different political and institutional frameworks, Europe will be a key tool in controlling globalization and safeguarding its inhabitants’ dignity. Taking medium/largesized nations like Spain or Poland as an example: without the help of the European Union, how could they measure up to the politicaleconomic complexities of the international scene, such as relations with rich countries like

the United States and Japan and, most significantly, with countries like China and India, which are not yet rich but already account for 40% of the world’s population? The problem being faced is obvious: how can the eight new members of the Union contribute collectively to people’s individual well-being and dignity and also share it out evenly inside their own borders. This kind of analysis must be made along clear lines: economic competitiveness deriving from effective public and private policies; complementary input coming from plenty of solidarity and social cohesion; a balanced demographic trend; consistant dialogue between nations and within each separate country, in order to be responsive to opportunities and threats existing in the rest of the world. Taking each country in turn, let’s now take a look at how they can contribute to Europe and how Europe can help them to achieve their potential. Poland A population of 38 million and a GDP equal to all the other seven nations put together make Poland the biggest of the new entrants. It hopes its political influence will actually exceed its economic power, justified by the unusual contribution of Slavish culture it offers the Union. By allowing its Catholic movement to play a key social role, it has managed to transform itself from the inside, converting its planned economy based largely on heavy industry, coal mining and small-scale farming into a more modern apparatus based on providing services, thanks also to plenty of input from overseas business people. Poland’s eastern border region

is still depressed with extremely old infrastructure, particularly its roads. The country urgently needs new salary and occupational re-training policies to deal with its 20% unemployment and the need to re-deploy workers from old sectors (including farming, that employs a quarter of the work force while generating only 4% of the GDP). Hungary Hungary is the only one of the eight nations that has its own sizeable ethnic minorities in neighboring countries: Rumania, Slovakia, Serbia. A great European power from 1848-1918, its “goulash socialism” in the 1980s made it the first eastern block country to cautiously adopt certain aspects of a market economy. With only one third of Poland’s GDP but an almost 50% higher average income per capita, in the early 1990s it was the first former eastern European country to attract foreign investment, helped along by a policy of almost total openness to, and protection for, international investors. Nowadays, the country operates similar to Hong Kong with an open economy in which international trade accounts for 120% of the GDP, while the European Union absorbs 80% of its exports. As an ironic consequence of its own economic success, it has loosened the reins on public expenditure resulting in its current public deficit of nearly 10% of the GDP. It will be hard to get back within the European parameters, and this will inevitably slow down the introduction of the euro, initially set for 2006. But most significantly it will test the government pledge to implement a policy of social austerity that looks as though it

will come under strain from recent rises in pensions, public salaries and minimum wages. Slovenia This is the wealthiest of the new entrants in the EU. Its population of two million enjoys easily the highest standard of living, about three-quarters of the European average, making it higher than Greece, Portugal and Central-Southern Italy. When it separated from Yugoslavia it was already in a privileged position in terms of available capital and socio-economic structures ready to operate independently in a market economy. Its ruling class was smart enough to devise its own plan of economic growth hinging around an extremely cautious approach to gradually introducing reforms, a far cry from the dogma of instant privatization in any guise adopted in the Czech Republic and Poland. This meant it was able to steer clear of all the restructuring and austerity plans other nations were forced to implement. Having opted for a cautious and balanced economic policy inspired along German lines, the country can now boast a stable economy. Nevertheless, the need to create social cohesion through an over-rigid wage policy has had its costs: for instance, the inflation rate dropped below 5% only in 2003. Czech Republic The most prosperous of the new member states after Slovenia with an income per capita that is 60% the European average, it is now completely surrounded by member nations, symbolically evoking the central role the regions of Moravia and Bohemia played in Europe’s industrial revolution.

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Historically under strict Communist rule with a 96% state-controlled economy, the country made a sudden about-turn in 1990 toward economic liberalism under the leadership of its “hawkish” Prime Minister, Vaclav Klaus, now President of the Republic. But the lack of a suitable framework of laws meant that positive results at the beginning soon gave way to a period of stagnation that was extremely costly for public finance and resulted in pressure groups forming to try and safeguard partisan interests. Thanks to its western-standard education and public health services, the Czech Republic (or Czechia) is now becoming competitive in industry in a context (like the Hungarian region) that is completely open to international trade. Even though the privatization of the banks has been completed allowing foreign operators to move in and the money market has started to work along much more transparent lines, other key sectors like telecommunications, energy and chemicals are still under state control. High public spending and enduring deficits will inevitably call for structural reforms, although the low level of public debt means that any final decision can be put off for the time being. Slovakia Slovakia is a case apart. By refusing to accept Klaus’s laissez-faire politics, it chose to break away from the Czech provinces against the will of the people. So under the leadership of the post-Communist Ivan Meciar, it was placed in political quarantine by the European Union and NATO in 1997. A year later by electing the liberal Mikulas Dzurinda as Prime

Minister, a privatization program was set under way opening up to foreign investment, transparent government budgeting, and a re-launching of growth. The gates to the international community were opened up in 2000. It is now firmly committed to structural reforms, including an incredibly ambitious tax reform program (one single tax rate of 19% for VAT and direct taxation), a rethinking of social policies (health and cohesion), a reform of the justice system to encourage business and its financing, and greater flexibility in labor contracts. Slovakia looks set to become the most dynamic of the member states belonging to the Visegrad group (along with the Czech Republic, Poland and Hungary). The Baltic Nations Estonia, Latvia and Lithuania, whose combined population is 7 million, are bottom of the list of new member states in terms of income: less than 40% of the European average, half of Slovenia’s. Yet they are perhaps the most unexpected thing that could have happened to the European Union: the blue flag with yellow stars is now flying in parts of the former Soviet Union without a single bullet being fired. A flag that the inhabitants of these three nations deserve in full, after constructing totally transformed nations in terms of their by-laws and social policies compared to when they were Soviet satellites in the not so distant past: new institutions, new laws, a new currency, a new economic set-up, new clients and new suppliers. These countries are now quite capable of making a living without the help of their “bigger brothers.”

Lithuania The biggest of the three, between 1992-95 its industrial output dropped by 50%, it had its cheap electricity supply from Russia completely cut off, it lost its clients and had to set up new businesses in the wood, textiles and chemicals sectors. And when things appeared to be going better, the 1998 crisis in Russia caused a heavy recession, resulting in farm production falling by 17%. Ever since then the country has grown at a rate of over 5%-a-year, even touching up to 8% in 2003, driven along by real booms in productivity despite a drop in unemployment. Estonia Just three years after gaining independence, the remaining Soviet troops protecting a minority of Russians, now shrinking rapidly, were driven out of the country. It is actually the smallest and richest of the three Baltic countries. It certainly did not hesitate in adopting a liberal economy. It found its place in the realms of Scandinavian economy, partly as a sub-supplier of electronic industries. It has Europeanscale telecommunications infrastructures allowing record forays on the Internet. Its solid growth over recent years (over 6%) has been helped along by a fiscal policy encouraging investments, keeping undistributed business profit tax-free, and providing a cutting-edge education system with 51 universities and further education institutes, and a flexible wage policy allowing different levels of productivity to be taken into consideration (wages in the building sector are twice as high as those in the tourist industry). Latvia Wedged between Lithuania and Estonia, this is the poorest

of the eight nations. As in Poland, despite dropping to 4.7% of the GDP, its farm industry still employs 15% of the population. A melting pot of different ethnic groups formed in the nation when it was under Soviet rule: Latvians dropped to just 50% of the population; even today 36% of the population speaks Russian. Its industrial underpinnings have been shaken at the foundations: after specializing in tools serving the Soviet market, it had to convert to activities offering less added value, such as wood products, textiles and foodstuffs. It was saved by its macro-economic administration based on rigor and stability: inflation stands at 2%, the public deficit is about 3%, and at 15% of the GDP its public debt is one of the lowest in the region. Each of these countries had to pass a double test in order to enter the European Union: tests of its political democracy and of the running of its economy along market lines in the competitive context of Europe. Today their respective institutional, legislative and economic structures are converging toward those of older member nations. Over the years they have grown at a higher rate, and in some cases a significantly higher rate, than the rest of Europe, attaining results in terms of inflation and exchange-rate stability that Italy itself has only known over the last ten years or so. Nevertheless, they still face the major problem of an average real standard of living equal to half the rest of Europe. The cause is the huge difference in productivity due to extremely “soft” institutional factors: ranging from less sophisticated analyses of business opportunities to an economic

fabric offering less potential clients and suppliers, the availability of a narrow range of services and a public administration that still struggles to meet the needs of a fast-changing economy. But we should not fool ourselves: this gap in terms of the economy as a whole can only be filled in the medium/long term, even though certain sectors and firms may succeed in a shorter space of time in setting up the kind of working conditions found in more advanced nations. If, due to this gap, the people in any of the eight countries should notice that their own low standard of living cannot be raised to the standards of the rest of the Union or that imbalances in certain sectors will carry on producing an unfair distribution of the fruits of growth, this would seriously jeopardize socio-political stability. This would result in a serious weakening of the European Union’s chances of taking up the challenges of globalization, whose consequences would inevitably have a bearing also on Italian business men and people in general as they go about their everyday lives and business dealings. The eight must also bear in mind another constraint: an increase in public spending will not be able to stimulate growth since it already absorbs huge amounts of the GDP, and by feeding the public deficit that already reflects in the imbalance of external accounts, it would subtract precious resources for boosting the private sector, which is already subject to high levels of taxation in a number of countries. In other words, this state of affairs needs to be sorted out as quickly as possible so as not to jeopardize long-term prosperity. The real

crux of the issue is that the eight must come up with innovative means of making business easier, simplifying regulations and carefully gauging public spending plans focusing jointly on greater efficiency and solidarity with the more needy, bearing in mind that resources are shrinking on a global scale. This is a familiar picture in Italy too, although on a smaller scale and seen as a less urgent issue. The challenge of re-qualifying professional skills and redirecting activities in the public sector that the new member nations are facing as they attempt to meet the needs of a market economy marks the cutting-edge of that block of reforms known as the “Lisbon Program,” which the European Union is implementing (though not immediately) to increase its competitiveness. With these prospects in mind, the categorical imperative of boosting growth in the new nations offers the entire European Union the precious chance to organize a second bearing column in the architecture of its economic policy, to be added to what is currently the predominant issue of macro-economic stability set down in the Stability Pact. The rigor with which the public accounts are managed, a key feature of the tough regulations governing the introduction of the euro in the new member countries, cannot be the only anchor in the plans of the ruling classes in new member nations and its social partners, taking over from old parameters that were set for entering the European Union. Only the firmly-grounded prospect of prolonged economic dynamism could persuade the people of the new member states to make even more sacrifices. So,

ironically, the urgent need for growth in the eight new members would end up providing a solution, acceptable to the guardians of the single currency, to FrenchGerman (and Italian) problems deriving from the constraints set down in the Stability Pact. The “practical” experience gained by new nations in orchestrating this process of redevelopment and redirection and in safeguarding the interests of those who cannot fit in properly with the latest guidelines for production may provide some useful hints for loosening up and enlivening the societies in which we live. If Estonia can manage to have a budget surplus equal to 1.3% of the GDP, if Slovakia can keep taxation at a unified rate of 19%, and if Slovenia invests 1.5% of its GDP in research and development (in Italy it is just over 1%), then our nations might be able to come up with equally brave and innovative solutions. It is not utopian dreaming to imagine that in the not-todistant future the Economic Ministers in leading European nations might draw on innovations introduced in Estonia or Slovenia to win their parliaments’ approval for seemingly ambitious new ideas put forward in the Financial Law. We find ourselves in the company of eight lively nations—whose sleeves are still rolled up as they deal with the changes still under way— motivated by the urgent need to move toward convergence with the rest of Europe, perhaps even speeding up the process, as they strive to find a political balance while working toward both greater efficiency and the need for solidarity. This is a valuable laboratory for experimenting on the best policies for developing the

European Union in an increasingly competitive world. By gratefully and unassumingly welcoming the work carried out by these countries and giving them our full support, we will help the European Union as a whole to grow and prosper.

1. The enlargement process of May 2004 also involved two small countries in the Mediterranean region: Cyprus and Malta. There are also plans to let another two central European countries, Bulgaria and Rumania, join in 2007. * Luigi Passamonti is currently the Senior Advisor to the Financial Sector Vice President at the World Bank. Among his current responsibilities, he is working on bank governance. He published an article on this topic in the Financial Times in August 2002. Prior to his present position, he was an Assistant to the President of the World Bank in 1997-1999. He started his career in the World Bank Group in charge of devising and managing investments in financial institutions in Sub-Saharan Africa. Prior to these official activities, Mr. Passamonti had a number of senior positions in banking. He was responsible for J.P. Morgan’s investment banking activities in Italy in the 1980s. He then practiced strategy consultancy for European financial institutions with the Boston Consulting Group in Paris. He was also General Manager of an Italian merchant bank.

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Historically under strict Communist rule with a 96% state-controlled economy, the country made a sudden about-turn in 1990 toward economic liberalism under the leadership of its “hawkish” Prime Minister, Vaclav Klaus, now President of the Republic. But the lack of a suitable framework of laws meant that positive results at the beginning soon gave way to a period of stagnation that was extremely costly for public finance and resulted in pressure groups forming to try and safeguard partisan interests. Thanks to its western-standard education and public health services, the Czech Republic (or Czechia) is now becoming competitive in industry in a context (like the Hungarian region) that is completely open to international trade. Even though the privatization of the banks has been completed allowing foreign operators to move in and the money market has started to work along much more transparent lines, other key sectors like telecommunications, energy and chemicals are still under state control. High public spending and enduring deficits will inevitably call for structural reforms, although the low level of public debt means that any final decision can be put off for the time being. Slovakia Slovakia is a case apart. By refusing to accept Klaus’s laissez-faire politics, it chose to break away from the Czech provinces against the will of the people. So under the leadership of the post-Communist Ivan Meciar, it was placed in political quarantine by the European Union and NATO in 1997. A year later by electing the liberal Mikulas Dzurinda as Prime

Minister, a privatization program was set under way opening up to foreign investment, transparent government budgeting, and a re-launching of growth. The gates to the international community were opened up in 2000. It is now firmly committed to structural reforms, including an incredibly ambitious tax reform program (one single tax rate of 19% for VAT and direct taxation), a rethinking of social policies (health and cohesion), a reform of the justice system to encourage business and its financing, and greater flexibility in labor contracts. Slovakia looks set to become the most dynamic of the member states belonging to the Visegrad group (along with the Czech Republic, Poland and Hungary). The Baltic Nations Estonia, Latvia and Lithuania, whose combined population is 7 million, are bottom of the list of new member states in terms of income: less than 40% of the European average, half of Slovenia’s. Yet they are perhaps the most unexpected thing that could have happened to the European Union: the blue flag with yellow stars is now flying in parts of the former Soviet Union without a single bullet being fired. A flag that the inhabitants of these three nations deserve in full, after constructing totally transformed nations in terms of their by-laws and social policies compared to when they were Soviet satellites in the not so distant past: new institutions, new laws, a new currency, a new economic set-up, new clients and new suppliers. These countries are now quite capable of making a living without the help of their “bigger brothers.”

Lithuania The biggest of the three, between 1992-95 its industrial output dropped by 50%, it had its cheap electricity supply from Russia completely cut off, it lost its clients and had to set up new businesses in the wood, textiles and chemicals sectors. And when things appeared to be going better, the 1998 crisis in Russia caused a heavy recession, resulting in farm production falling by 17%. Ever since then the country has grown at a rate of over 5%-a-year, even touching up to 8% in 2003, driven along by real booms in productivity despite a drop in unemployment. Estonia Just three years after gaining independence, the remaining Soviet troops protecting a minority of Russians, now shrinking rapidly, were driven out of the country. It is actually the smallest and richest of the three Baltic countries. It certainly did not hesitate in adopting a liberal economy. It found its place in the realms of Scandinavian economy, partly as a sub-supplier of electronic industries. It has Europeanscale telecommunications infrastructures allowing record forays on the Internet. Its solid growth over recent years (over 6%) has been helped along by a fiscal policy encouraging investments, keeping undistributed business profit tax-free, and providing a cutting-edge education system with 51 universities and further education institutes, and a flexible wage policy allowing different levels of productivity to be taken into consideration (wages in the building sector are twice as high as those in the tourist industry). Latvia Wedged between Lithuania and Estonia, this is the poorest

of the eight nations. As in Poland, despite dropping to 4.7% of the GDP, its farm industry still employs 15% of the population. A melting pot of different ethnic groups formed in the nation when it was under Soviet rule: Latvians dropped to just 50% of the population; even today 36% of the population speaks Russian. Its industrial underpinnings have been shaken at the foundations: after specializing in tools serving the Soviet market, it had to convert to activities offering less added value, such as wood products, textiles and foodstuffs. It was saved by its macro-economic administration based on rigor and stability: inflation stands at 2%, the public deficit is about 3%, and at 15% of the GDP its public debt is one of the lowest in the region. Each of these countries had to pass a double test in order to enter the European Union: tests of its political democracy and of the running of its economy along market lines in the competitive context of Europe. Today their respective institutional, legislative and economic structures are converging toward those of older member nations. Over the years they have grown at a higher rate, and in some cases a significantly higher rate, than the rest of Europe, attaining results in terms of inflation and exchange-rate stability that Italy itself has only known over the last ten years or so. Nevertheless, they still face the major problem of an average real standard of living equal to half the rest of Europe. The cause is the huge difference in productivity due to extremely “soft” institutional factors: ranging from less sophisticated analyses of business opportunities to an economic

fabric offering less potential clients and suppliers, the availability of a narrow range of services and a public administration that still struggles to meet the needs of a fast-changing economy. But we should not fool ourselves: this gap in terms of the economy as a whole can only be filled in the medium/long term, even though certain sectors and firms may succeed in a shorter space of time in setting up the kind of working conditions found in more advanced nations. If, due to this gap, the people in any of the eight countries should notice that their own low standard of living cannot be raised to the standards of the rest of the Union or that imbalances in certain sectors will carry on producing an unfair distribution of the fruits of growth, this would seriously jeopardize socio-political stability. This would result in a serious weakening of the European Union’s chances of taking up the challenges of globalization, whose consequences would inevitably have a bearing also on Italian business men and people in general as they go about their everyday lives and business dealings. The eight must also bear in mind another constraint: an increase in public spending will not be able to stimulate growth since it already absorbs huge amounts of the GDP, and by feeding the public deficit that already reflects in the imbalance of external accounts, it would subtract precious resources for boosting the private sector, which is already subject to high levels of taxation in a number of countries. In other words, this state of affairs needs to be sorted out as quickly as possible so as not to jeopardize long-term prosperity. The real

crux of the issue is that the eight must come up with innovative means of making business easier, simplifying regulations and carefully gauging public spending plans focusing jointly on greater efficiency and solidarity with the more needy, bearing in mind that resources are shrinking on a global scale. This is a familiar picture in Italy too, although on a smaller scale and seen as a less urgent issue. The challenge of re-qualifying professional skills and redirecting activities in the public sector that the new member nations are facing as they attempt to meet the needs of a market economy marks the cutting-edge of that block of reforms known as the “Lisbon Program,” which the European Union is implementing (though not immediately) to increase its competitiveness. With these prospects in mind, the categorical imperative of boosting growth in the new nations offers the entire European Union the precious chance to organize a second bearing column in the architecture of its economic policy, to be added to what is currently the predominant issue of macro-economic stability set down in the Stability Pact. The rigor with which the public accounts are managed, a key feature of the tough regulations governing the introduction of the euro in the new member countries, cannot be the only anchor in the plans of the ruling classes in new member nations and its social partners, taking over from old parameters that were set for entering the European Union. Only the firmly-grounded prospect of prolonged economic dynamism could persuade the people of the new member states to make even more sacrifices. So,

ironically, the urgent need for growth in the eight new members would end up providing a solution, acceptable to the guardians of the single currency, to FrenchGerman (and Italian) problems deriving from the constraints set down in the Stability Pact. The “practical” experience gained by new nations in orchestrating this process of redevelopment and redirection and in safeguarding the interests of those who cannot fit in properly with the latest guidelines for production may provide some useful hints for loosening up and enlivening the societies in which we live. If Estonia can manage to have a budget surplus equal to 1.3% of the GDP, if Slovakia can keep taxation at a unified rate of 19%, and if Slovenia invests 1.5% of its GDP in research and development (in Italy it is just over 1%), then our nations might be able to come up with equally brave and innovative solutions. It is not utopian dreaming to imagine that in the not-todistant future the Economic Ministers in leading European nations might draw on innovations introduced in Estonia or Slovenia to win their parliaments’ approval for seemingly ambitious new ideas put forward in the Financial Law. We find ourselves in the company of eight lively nations—whose sleeves are still rolled up as they deal with the changes still under way— motivated by the urgent need to move toward convergence with the rest of Europe, perhaps even speeding up the process, as they strive to find a political balance while working toward both greater efficiency and the need for solidarity. This is a valuable laboratory for experimenting on the best policies for developing the

European Union in an increasingly competitive world. By gratefully and unassumingly welcoming the work carried out by these countries and giving them our full support, we will help the European Union as a whole to grow and prosper.

1. The enlargement process of May 2004 also involved two small countries in the Mediterranean region: Cyprus and Malta. There are also plans to let another two central European countries, Bulgaria and Rumania, join in 2007. * Luigi Passamonti is currently the Senior Advisor to the Financial Sector Vice President at the World Bank. Among his current responsibilities, he is working on bank governance. He published an article on this topic in the Financial Times in August 2002. Prior to his present position, he was an Assistant to the President of the World Bank in 1997-1999. He started his career in the World Bank Group in charge of devising and managing investments in financial institutions in Sub-Saharan Africa. Prior to these official activities, Mr. Passamonti had a number of senior positions in banking. He was responsible for J.P. Morgan’s investment banking activities in Italy in the 1980s. He then practiced strategy consultancy for European financial institutions with the Boston Consulting Group in Paris. He was also General Manager of an Italian merchant bank.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Nel radicale processo di trasformazione che caratterizza il nostro tempo, l’architettura è chiamata a progettare i “luoghi” storici, fissati dalla tradizione, e i “non-luoghi” emergenti dalla crisi della modernità. Nascono nuovi spazi, nuovi modelli di relazione, nuove immagini, nuovi linguaggi visivi. As part of the radical process of transformation characterizing the age in which we live, architecture is called upon to design historical “places” as handed on by tradition and “non-places” emerging from the crisis in modernity. This has led to the emergence of new spaces, new models for relationships, new images, and new visual idioms.

Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places Ripensare lo spazio urbano Re-thinking urban space Maurizio Vitta*

È

a Marc Augé, come è noto, che si deve la riflessione sui “luoghi” e sui “non-luoghi” che da qualche tempo appassiona architetti e urbanisti. Ma su queste nozioni bisogna intendersi: esse sono affiorate nell’ambito di studi di natura etnologica e antropologica, e hanno toccato i territori delle discipline progettuali solo in quanto queste ci hanno dato alcune tra le rappresentazioni più vivide di un mutamento sociale di dimensioni planetarie, sul quale è ancora difficile pronunciarsi. Ciò impone dunque di riferirle a universi culturali più ampi, partendo dalla percezione del mondo che attualmente domina la nostra società per arrivare ai modelli di comportamento collettivo che ne conseguono. Augé, che insegna Logica simbolica e Ideologia all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è uno studioso di antropologia delle società complesse. Nel suo libro Non-lieux, uscito in Francia nel 1992 e tradotto in Italia un anno dopo da Elèuthera col titolo Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, egli ha sviluppato un’analisi del “luogo antropologico” partendo da due idee: la prima sostiene la centralità dell’individuo nell’analisi antropologica; la seconda sottolinea come lo “sguardo antropologico” sia oggi sollecitato non più da fenomeni “esotici”, ma dal mondo contemporaneo nel quale noi stessi viviamo. Questo mondo è però soggetto a radicali trasformazioni. È mutata la percezione del tempo, oppressa da una “sovrabbondanza di avvenimenti” che provoca una “accelerazione della storia”; è mutato il concetto di spazio, che si riduce a un punto nel momento stesso in cui il mondo ci si spalanca dinanzi; ed è mutata infine la “figura dell’ego”, dell’individuo, che sempre più “si considera un mondo a sé”. Viviamo dunque, per Augé, una situazione di “eccesso” – di tempo, di spazio, di individualità – grazie alla quale la “modernità” novecentesca si è trasformata in una surmodernité – tradotta in italiano col termine “surmodernità” – che esige nuovi modelli d’analisi antropologica. È evidente che queste “tre figure dell’eccesso” tendono a condizionarsi reciprocamente; ed è altrettanto chiaro che tanto quella del “tempo” quanto quella dell’“ego” finiscono col convergere nella figura dello “spazio”, nella quale esse si trovano rappresentate, definite da situazioni concrete e composte in immagini omogenee e coerenti. È a questo punto che, nell’analisi di Augé, affiora la nozione di “luogo”, o meglio di “luogo antropologico”, vale a dire lo “spazio” socialmente e culturalmente organizzato sulla base delle relazioni, del-

le percezioni e delle immagini che definiscono la natura del gruppo che lo abita. Per comprendere una identità collettiva, l’antropologo deve dunque compiere un “percorso essenzialmente ‘culturale’, poiché, passando attraverso i segni più visibili, più istituiti e più riconosciuti dell’ordine sociale, esso ne disegna simultaneamente il luogo”. In altri termini, lo spazio abitato rispecchia i caratteri sociali del gruppo nella misura in cui questi lo trasformano in luogo antropologico. Ma che accade nella surmodernità, quando l’eccesso cancella i tratti distintivi dell’esistenza, li confonde, li rende fluidi e inafferrabili? È qui che affiora il concetto di “non-luogo” come “spazio” tipico della nostra condizione contemporanea. “I non-luoghi”, scrive Augé, “sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stesso o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”. Di questi “non-luoghi” sappiamo pochissimo. In essi, infatti, le strutture sociali storicamente codificate si dissolvono, i concetti di “tempo” e di “individuo” si contraggono o si espandono secondo ritmi imprevedibili, e la stessa nostra percezione del mondo si fa incerta. È lo stesso Augé a precisarlo: “Il mondo della surmodernità non si commisura esattamente a quello in cui crediamo di vivere; viviamo, infatti, in un mondo che non abbiamo ancora imparato a osservare. Abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio”. Pensare lo spazio è però compito istituzionale dell’architettura; e non è un caso che negli ultimi decenni la crisi dell’urbanistica e l’emergere dell’artefatto architettonico come solitario protagonista del panorama urbano siano stati i segnali più urgenti e immediati del passaggio dalla modernità novecentesca alla situazione attuale, attraverso la mediazione, in verità alquanto effimera, della cultura “postmoderna”, preludio – in prima approssimazione – alla surmodernità additata da Augé come nuova condizione del mondo. L’architettura, in effetti, è stata costretta a rivedere in profondità – e non certo da oggi – il suo statuto tecnico e culturale, la sua funzione sociale e i canoni formali destinati a fissarla come immagine icastica della nostra rappresentazione collettiva. In pratica, le sono stati affidati nuovi compiti, primo tra i quali quello di governare il mutamento disegnandone gli spazi nel momento stesso della trasformazione: compito ingrato, che fa dell’innovazione, in mancanza di solidi presupposti funzionali,

un linguaggio destinato a usurarsi rapidamente e comunque a dichiararsi fin dall’inizio soggettivo e autoreferenziale. Non per nulla le maggiori sfide poste all’architettura contemporanea sono venute proprio dai nonluoghi indicati da Augé come figure dell’eccesso surmoderno: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, cinema multiplex, musei – tutti spazi che rispecchiano, nella loro mobilità continua, nel loro flusso amorfo di presenze e significati, una realtà più ampia, segnata soprattutto da quella che l’antropologo francese definisce “la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso”. In questa sfida, la posta in gioco non è tanto il valore culturale dell’architettura, ovvero la sua capacità di rispondere a richieste sociali precise, quanto la possibilità di definire una griglia di lettura dei fenomeni dalla quale ricavare una normativa di governo del mutamento. Nell’immediato, ciò che si ricava dall’esperienza quotidiana è un processo che si avvita su se stesso. Sulla base di sollecitazioni fondate su basi incerte, si realizzano opere che si impongono come modelli immediati di interpretazione delle nuove condizioni di vita: musei spettacolari che innovano antichi panorami urbani, trasformazione delle stazioni ferroviarie in àmbiti di consumo e di transito commerciale, moltiplicazione del negozio in enormi complessi polifunzionali e così via. Ma la stessa presenza di queste strutture finisce col modellare i comportamenti di chi ne fruisce, il che moltiplica l’accelerazione delle esperienze e conferma lo stato di incertezza iniziale. Se infatti è vero che il senso dell’esistenza del nostro tempo si identifica sempre più nel movimento e nella sua velocità, è altrettanto vero che di esso ignoriamo non solo la direzione, ma anche l’orientamento. La distinzione tra luogo e non-luogo coglie per l’appunto questa condizione. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico”, osserva Augé, “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo”. Ma questo mutamento avviene in un contesto planetario che è fittamente storicizzato, e che conserva dovunque il retaggio del suo passato, spesso tuttora vivo. È il caso, soprattutto, degli edifici del culto: poli d’attrazione di una religiosità intrinsecamente estranea al mutamento, essi si propongono spontaneamente come luoghi la cui identità architettonica rispecchia quella storica e relazionale del-

la liturgia che vi si svolge e della fede che ne è ispiratrice, il che ne farebbe dei luoghi in grado di equilibrare la proliferazione dei non-luoghi. Augé non è sicuro di questo, e ritiene al contrario che la surmodernità non integri in se stessa i luoghi antichi, i quali invece, “repertoriati, classificati e promossi ‘luoghi della memoria’, vi occupano un posto circoscritto e specifico”. Il problema è però aperto, almeno per ciò che riguarda le chiese. Per un verso si può sostenere che la stabilità del culto impone una sostanziale invariabilità delle strutture e degli spazi, appena intaccata dal mutamento delle forme e delle immagini di cui può farsi carico la cultura architettonica; il che darebbe conto della presenza, nel panorama occidentale, di chiese che si richiamano a linguaggi progettuali tipici della modernità e oltre, a partire da quelle realizzate da Michelucci, Quaroni e Spadolini, per finire alla recente fatica di Richard Meier a Roma. Per un altro, però, non sono da ignorare spinte tendenti ad accogliere nel seno della tradizione sollecitazioni provenienti da realtà nuove e in ebollizione, come il mondo giovanile o le culture non occidentali, che premono per una maggiore elasticità – e molteplicità – del rapporto tra rito, fedele e spazio sacro. Il discorso è destinato, evidentemente, a restare aperto. In effetti, non solo, come osserva Augé, “i non-luoghi rappresentano l’epoca”, ma costituiscono anche lo spazio entro il quale noi stessi ci muoviamo, trasformandoci con il loro stesso ritmo. Solo che, invece che essere euclideo, questo spazio ci si presenta come un iperspazio, il cui senso è afferrabile solo nella moltiplicazione dei collegamenti, nello sterminato intreccio delle relazioni, nella moltiplicazione delle identità. Si potrebbe pensare allora allo “spazio” come non-luogo e all’iperspazio come luogo antropologico della surmodernità? Per quanto prematura, l’ipotesi è allettante. In ogni caso, varrebbe la pena di approfondirla.

* Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e Storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e Architettura del Politecnico di Milano. E’ autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale de “Il Sole24ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Nel radicale processo di trasformazione che caratterizza il nostro tempo, l’architettura è chiamata a progettare i “luoghi” storici, fissati dalla tradizione, e i “non-luoghi” emergenti dalla crisi della modernità. Nascono nuovi spazi, nuovi modelli di relazione, nuove immagini, nuovi linguaggi visivi. As part of the radical process of transformation characterizing the age in which we live, architecture is called upon to design historical “places” as handed on by tradition and “non-places” emerging from the crisis in modernity. This has led to the emergence of new spaces, new models for relationships, new images, and new visual idioms.

Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places Ripensare lo spazio urbano Re-thinking urban space Maurizio Vitta*

È

a Marc Augé, come è noto, che si deve la riflessione sui “luoghi” e sui “non-luoghi” che da qualche tempo appassiona architetti e urbanisti. Ma su queste nozioni bisogna intendersi: esse sono affiorate nell’ambito di studi di natura etnologica e antropologica, e hanno toccato i territori delle discipline progettuali solo in quanto queste ci hanno dato alcune tra le rappresentazioni più vivide di un mutamento sociale di dimensioni planetarie, sul quale è ancora difficile pronunciarsi. Ciò impone dunque di riferirle a universi culturali più ampi, partendo dalla percezione del mondo che attualmente domina la nostra società per arrivare ai modelli di comportamento collettivo che ne conseguono. Augé, che insegna Logica simbolica e Ideologia all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è uno studioso di antropologia delle società complesse. Nel suo libro Non-lieux, uscito in Francia nel 1992 e tradotto in Italia un anno dopo da Elèuthera col titolo Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, egli ha sviluppato un’analisi del “luogo antropologico” partendo da due idee: la prima sostiene la centralità dell’individuo nell’analisi antropologica; la seconda sottolinea come lo “sguardo antropologico” sia oggi sollecitato non più da fenomeni “esotici”, ma dal mondo contemporaneo nel quale noi stessi viviamo. Questo mondo è però soggetto a radicali trasformazioni. È mutata la percezione del tempo, oppressa da una “sovrabbondanza di avvenimenti” che provoca una “accelerazione della storia”; è mutato il concetto di spazio, che si riduce a un punto nel momento stesso in cui il mondo ci si spalanca dinanzi; ed è mutata infine la “figura dell’ego”, dell’individuo, che sempre più “si considera un mondo a sé”. Viviamo dunque, per Augé, una situazione di “eccesso” – di tempo, di spazio, di individualità – grazie alla quale la “modernità” novecentesca si è trasformata in una surmodernité – tradotta in italiano col termine “surmodernità” – che esige nuovi modelli d’analisi antropologica. È evidente che queste “tre figure dell’eccesso” tendono a condizionarsi reciprocamente; ed è altrettanto chiaro che tanto quella del “tempo” quanto quella dell’“ego” finiscono col convergere nella figura dello “spazio”, nella quale esse si trovano rappresentate, definite da situazioni concrete e composte in immagini omogenee e coerenti. È a questo punto che, nell’analisi di Augé, affiora la nozione di “luogo”, o meglio di “luogo antropologico”, vale a dire lo “spazio” socialmente e culturalmente organizzato sulla base delle relazioni, del-

le percezioni e delle immagini che definiscono la natura del gruppo che lo abita. Per comprendere una identità collettiva, l’antropologo deve dunque compiere un “percorso essenzialmente ‘culturale’, poiché, passando attraverso i segni più visibili, più istituiti e più riconosciuti dell’ordine sociale, esso ne disegna simultaneamente il luogo”. In altri termini, lo spazio abitato rispecchia i caratteri sociali del gruppo nella misura in cui questi lo trasformano in luogo antropologico. Ma che accade nella surmodernità, quando l’eccesso cancella i tratti distintivi dell’esistenza, li confonde, li rende fluidi e inafferrabili? È qui che affiora il concetto di “non-luogo” come “spazio” tipico della nostra condizione contemporanea. “I non-luoghi”, scrive Augé, “sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stesso o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”. Di questi “non-luoghi” sappiamo pochissimo. In essi, infatti, le strutture sociali storicamente codificate si dissolvono, i concetti di “tempo” e di “individuo” si contraggono o si espandono secondo ritmi imprevedibili, e la stessa nostra percezione del mondo si fa incerta. È lo stesso Augé a precisarlo: “Il mondo della surmodernità non si commisura esattamente a quello in cui crediamo di vivere; viviamo, infatti, in un mondo che non abbiamo ancora imparato a osservare. Abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio”. Pensare lo spazio è però compito istituzionale dell’architettura; e non è un caso che negli ultimi decenni la crisi dell’urbanistica e l’emergere dell’artefatto architettonico come solitario protagonista del panorama urbano siano stati i segnali più urgenti e immediati del passaggio dalla modernità novecentesca alla situazione attuale, attraverso la mediazione, in verità alquanto effimera, della cultura “postmoderna”, preludio – in prima approssimazione – alla surmodernità additata da Augé come nuova condizione del mondo. L’architettura, in effetti, è stata costretta a rivedere in profondità – e non certo da oggi – il suo statuto tecnico e culturale, la sua funzione sociale e i canoni formali destinati a fissarla come immagine icastica della nostra rappresentazione collettiva. In pratica, le sono stati affidati nuovi compiti, primo tra i quali quello di governare il mutamento disegnandone gli spazi nel momento stesso della trasformazione: compito ingrato, che fa dell’innovazione, in mancanza di solidi presupposti funzionali,

un linguaggio destinato a usurarsi rapidamente e comunque a dichiararsi fin dall’inizio soggettivo e autoreferenziale. Non per nulla le maggiori sfide poste all’architettura contemporanea sono venute proprio dai nonluoghi indicati da Augé come figure dell’eccesso surmoderno: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, cinema multiplex, musei – tutti spazi che rispecchiano, nella loro mobilità continua, nel loro flusso amorfo di presenze e significati, una realtà più ampia, segnata soprattutto da quella che l’antropologo francese definisce “la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso”. In questa sfida, la posta in gioco non è tanto il valore culturale dell’architettura, ovvero la sua capacità di rispondere a richieste sociali precise, quanto la possibilità di definire una griglia di lettura dei fenomeni dalla quale ricavare una normativa di governo del mutamento. Nell’immediato, ciò che si ricava dall’esperienza quotidiana è un processo che si avvita su se stesso. Sulla base di sollecitazioni fondate su basi incerte, si realizzano opere che si impongono come modelli immediati di interpretazione delle nuove condizioni di vita: musei spettacolari che innovano antichi panorami urbani, trasformazione delle stazioni ferroviarie in àmbiti di consumo e di transito commerciale, moltiplicazione del negozio in enormi complessi polifunzionali e così via. Ma la stessa presenza di queste strutture finisce col modellare i comportamenti di chi ne fruisce, il che moltiplica l’accelerazione delle esperienze e conferma lo stato di incertezza iniziale. Se infatti è vero che il senso dell’esistenza del nostro tempo si identifica sempre più nel movimento e nella sua velocità, è altrettanto vero che di esso ignoriamo non solo la direzione, ma anche l’orientamento. La distinzione tra luogo e non-luogo coglie per l’appunto questa condizione. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico”, osserva Augé, “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo”. Ma questo mutamento avviene in un contesto planetario che è fittamente storicizzato, e che conserva dovunque il retaggio del suo passato, spesso tuttora vivo. È il caso, soprattutto, degli edifici del culto: poli d’attrazione di una religiosità intrinsecamente estranea al mutamento, essi si propongono spontaneamente come luoghi la cui identità architettonica rispecchia quella storica e relazionale del-

la liturgia che vi si svolge e della fede che ne è ispiratrice, il che ne farebbe dei luoghi in grado di equilibrare la proliferazione dei non-luoghi. Augé non è sicuro di questo, e ritiene al contrario che la surmodernità non integri in se stessa i luoghi antichi, i quali invece, “repertoriati, classificati e promossi ‘luoghi della memoria’, vi occupano un posto circoscritto e specifico”. Il problema è però aperto, almeno per ciò che riguarda le chiese. Per un verso si può sostenere che la stabilità del culto impone una sostanziale invariabilità delle strutture e degli spazi, appena intaccata dal mutamento delle forme e delle immagini di cui può farsi carico la cultura architettonica; il che darebbe conto della presenza, nel panorama occidentale, di chiese che si richiamano a linguaggi progettuali tipici della modernità e oltre, a partire da quelle realizzate da Michelucci, Quaroni e Spadolini, per finire alla recente fatica di Richard Meier a Roma. Per un altro, però, non sono da ignorare spinte tendenti ad accogliere nel seno della tradizione sollecitazioni provenienti da realtà nuove e in ebollizione, come il mondo giovanile o le culture non occidentali, che premono per una maggiore elasticità – e molteplicità – del rapporto tra rito, fedele e spazio sacro. Il discorso è destinato, evidentemente, a restare aperto. In effetti, non solo, come osserva Augé, “i non-luoghi rappresentano l’epoca”, ma costituiscono anche lo spazio entro il quale noi stessi ci muoviamo, trasformandoci con il loro stesso ritmo. Solo che, invece che essere euclideo, questo spazio ci si presenta come un iperspazio, il cui senso è afferrabile solo nella moltiplicazione dei collegamenti, nello sterminato intreccio delle relazioni, nella moltiplicazione delle identità. Si potrebbe pensare allora allo “spazio” come non-luogo e all’iperspazio come luogo antropologico della surmodernità? Per quanto prematura, l’ipotesi è allettante. In ogni caso, varrebbe la pena di approfondirla.

* Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e Storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e Architettura del Politecnico di Milano. E’ autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale de “Il Sole24ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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s we know it was Marc Augé who first studied the phenomenon of “places” and “non-places,” that architects and town-planners have become so interested in over recent times. But we need to clarify these notions properly: they first emerged in the realms of ethnological and anthropological studies, and have only really been incorporated in design because it has provided us with some of the most vivid representations of social change on a planetary scale, whose consequences are still uncertain. This means they really ought to be referred to much wider fields of culture, starting with the way the world is perceived in present-day society and eventually progressing to the collective behavioural patterns they entail. Augé, who teaches Symbolic Logic and Ideology at the École des Hautes Études en Sciences Sociales in Paris, is a scholar of the anthropology of complex societies. In his book called Non-lieux, which was first published in France in 1992 and translated into English in 1995 under the title Non-Places: Introduction to an Anthropology of Supermodernity, he analyzed the concept of “anthropological place” based on two ideas: firstly placing the individual at the focus of anthropological analysis; and secondly underlining that our “anthropological eyes” are no longer attracted to “exotic” phenomena but rather to the contemporary world in which we ourselves live. But this world is undergoing radical changes. Our perception of time has changed after being bombarded by an “overabundance of events” causing an “accelerating of history;” the concept of space has changed, being reduced to a point at the very moment when the world opens up before us; and finally the “figure of the ego” has also changed, the individual who increasingly “considers he is a world of his own.” Augé thinks we are living in an “excess” of time, space and individuality, resulting in twentieth-century “modernity” being turned into surmodernité (translated into English as supermodernity) calling for new forms of anthropological analysis. It is obvious that these “three figures of excess” tend to reciprocally influence each other; and it is equally evident that the figures of both “time” and the “ego” end up converging into the figure of “space” in which they are represented, defined by concrete situations and composed of smooth and coherent images. This is the point where the notion of “place” or rather “anthropological place” emerges in Augé’s analysis, or in other words “space” which is socially and culturally organized around relations, perceptions and images defining the nature of the group inhabiting it. In order to grasp collective identity, an anthropologist must follow an “essentially ‘cultural’ path, because, through the most visi-

ble, established and widely-acknowledged signs of the social order, it simultaneously designates the place in which it unfolds.” In other words, the inhabited space mirrors the social traits of the group to the extent that they turn it into an anthropological place. But what happens in supermodernity when sheer excess cancels out the distinctive features of existence, mixes them up, and makes them fluid and ungraspable? This is where the concept of a “non-place” emerges as a typical “space” of our modern-day condition. Augé writes that “non-places are the installations required for the accelerated circulation of people and goods (fast-running roads, turn-offs, airports), as well as the means of transport themselves, big shopping malls or even refugee camps where the planet’s homeless are parked away.” We know very little about these “non-places.” The historically coded structures of society fade away here, the concepts of “time” and “individual” contract or expand at unexpected rates and our very perception of the world grows uncertain. As Augé points out: “The world of supermodernity does not correspond precisely to the world in which we think we live; we actually live in a world that we have not yet learnt to observe. We need to re-learn to think space.” But thinking about space is architecture’s official task; and it is no coincidence that the crisis in town-planning and emergence of the architectural artifact as the only leading player on the cityscape over the last few decades have become the most pressing and urgent signs of the transition from twentieth-century modernity to the current state of affairs, mediated (rather transiently it must be admitted) by “postmodern” culture as a prelude—as a first approximation—to the supermodernity Augé talks about as the world’s new condition. Architecture has in fact been forced to profoundly revise—and not just starting now—its own technical-cultural by-laws, its social functions, and the stylistic canons designed to make it an icastic image of our collective representation. In actual fact it has been given new tasks, most significantly to control change by designing its spaces as change actually occurs: a thankless task which, in the absence of firm practical premises, makes innovation a language soon destined to fade or, in any case, openly avow its subjective, selfreferential nature right from the start. It is no coincidence that the greatest challenges facing modern-day architecture have come from those very non-places Augé pointed out as being figures of supermodern excess: airports, railway stations, shopping malls, multiplex film theatres, museums—all places reflecting reality on a much wider scope and scale

through their constant motion and shapeless flow of presences and meanings; reality marked above all by what the French anthropologist describes as “an intricate skein of cabled or wireless networks mobilizing extra-terrestrial space for means of communication peculiar enough to often bring individuals into contact with just another image of themselves.” The stakes in play in this challenge are not so much the cultural value of architecture (i.e. its ability to meet specific social needs) as the possibility of setting up a grid for reading the phenomena setting the normative regulations for controlling change. The initial result of daily experience is a process that twists around itself. Based on input grounded on uncertain foundations, works are constructed that provide instant guidelines for interpreting new living conditions: spectacular museums innovating old cityscapes, the transformation of railway stations into trading and consumer sites, the multiplying of shops into huge multipurpose complexes and so on. But the very presence of these structures ends up shaping the behavior of their users, speeding up experience even more, and confirming the initial state of uncertainty. Even though our modern-day sense of life is increasingly identified with motion and speed, it is equally true that we do not know either their direction or orientation. Distinguishing between places and non-places grasps this state of affairs: “If a place can be defined as relational, historical, and concerned with identity,” so Augé points out, “then a space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.” But this change is taking place in a planetary context that is densely historicized and hence still holds onto the heritage of its past, that is still very much alive. This is particularly true in the case of places of worship: by attracting religious feeling that is intrinsically alien to change, they spontaneously present themselves as places whose architectural identity mirrors the historical/relational identity of the worshipping that goes on inside and the faith that inspires it, making them places capable of counterbalancing the proliferation of nonplaces. Augé is not so sure of this and, on the contrary, believes that supermodernity does not integrate the earlier places, which instead are “listed, classified, promoted to the status of ‘places of memory’, and assigned to a circumscribed and specific position.” This is an open issue, however, at least as far as churches are concerned. On one hand, it may be claimed that the stable nature of worship calls for basically invariant structures and spaces hardly affected at all by any change in forms and images associated with architectural design; this would account for the presence in the

West of churches designed along the typical lines of modernity and beyond, such as those designed by Michelucci, Quaroni and Spadolini, not to mention Richard Meier’s recent work in Rome. But on the other hand there can be no ignoring a certain tendency to try and incorporate into tradition fresh input from new enthusiastic sources, like the world of young people and non-western cultures, all calling for greater elasticity—and multiplicity—between ritual, faith, and religious space. Of course this is destined to remain an open question. Indeed, not only (as Augé points out) do “non-places represent our age,” they are also the space in which we ourselves move, transforming us at their own rhythm and rate. The difference is that this is not Euclidean space, it is a hyperspace, whose meaning can only be grasped through a multiplicity of links in an endless web of relations, and in a multiplication of identities. Does this mean “space” may be thought of as a non-place and hyperspace as the anthropological place of supermodernity? This is a tempting hypothesis, however premature it might seem. In any case, it is certainly worth looking into.

* Maurizio Vitta, graduated in philosophy, is professor of Theories and History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture at the Politecnico University in Milan. He has written many articles, essays and books on contemporary art, literature, architecture and design. He writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and is deputy editor of “l’Arca.” Among his recent books: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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s we know it was Marc Augé who first studied the phenomenon of “places” and “non-places,” that architects and town-planners have become so interested in over recent times. But we need to clarify these notions properly: they first emerged in the realms of ethnological and anthropological studies, and have only really been incorporated in design because it has provided us with some of the most vivid representations of social change on a planetary scale, whose consequences are still uncertain. This means they really ought to be referred to much wider fields of culture, starting with the way the world is perceived in present-day society and eventually progressing to the collective behavioural patterns they entail. Augé, who teaches Symbolic Logic and Ideology at the École des Hautes Études en Sciences Sociales in Paris, is a scholar of the anthropology of complex societies. In his book called Non-lieux, which was first published in France in 1992 and translated into English in 1995 under the title Non-Places: Introduction to an Anthropology of Supermodernity, he analyzed the concept of “anthropological place” based on two ideas: firstly placing the individual at the focus of anthropological analysis; and secondly underlining that our “anthropological eyes” are no longer attracted to “exotic” phenomena but rather to the contemporary world in which we ourselves live. But this world is undergoing radical changes. Our perception of time has changed after being bombarded by an “overabundance of events” causing an “accelerating of history;” the concept of space has changed, being reduced to a point at the very moment when the world opens up before us; and finally the “figure of the ego” has also changed, the individual who increasingly “considers he is a world of his own.” Augé thinks we are living in an “excess” of time, space and individuality, resulting in twentieth-century “modernity” being turned into surmodernité (translated into English as supermodernity) calling for new forms of anthropological analysis. It is obvious that these “three figures of excess” tend to reciprocally influence each other; and it is equally evident that the figures of both “time” and the “ego” end up converging into the figure of “space” in which they are represented, defined by concrete situations and composed of smooth and coherent images. This is the point where the notion of “place” or rather “anthropological place” emerges in Augé’s analysis, or in other words “space” which is socially and culturally organized around relations, perceptions and images defining the nature of the group inhabiting it. In order to grasp collective identity, an anthropologist must follow an “essentially ‘cultural’ path, because, through the most visi-

ble, established and widely-acknowledged signs of the social order, it simultaneously designates the place in which it unfolds.” In other words, the inhabited space mirrors the social traits of the group to the extent that they turn it into an anthropological place. But what happens in supermodernity when sheer excess cancels out the distinctive features of existence, mixes them up, and makes them fluid and ungraspable? This is where the concept of a “non-place” emerges as a typical “space” of our modern-day condition. Augé writes that “non-places are the installations required for the accelerated circulation of people and goods (fast-running roads, turn-offs, airports), as well as the means of transport themselves, big shopping malls or even refugee camps where the planet’s homeless are parked away.” We know very little about these “non-places.” The historically coded structures of society fade away here, the concepts of “time” and “individual” contract or expand at unexpected rates and our very perception of the world grows uncertain. As Augé points out: “The world of supermodernity does not correspond precisely to the world in which we think we live; we actually live in a world that we have not yet learnt to observe. We need to re-learn to think space.” But thinking about space is architecture’s official task; and it is no coincidence that the crisis in town-planning and emergence of the architectural artifact as the only leading player on the cityscape over the last few decades have become the most pressing and urgent signs of the transition from twentieth-century modernity to the current state of affairs, mediated (rather transiently it must be admitted) by “postmodern” culture as a prelude—as a first approximation—to the supermodernity Augé talks about as the world’s new condition. Architecture has in fact been forced to profoundly revise—and not just starting now—its own technical-cultural by-laws, its social functions, and the stylistic canons designed to make it an icastic image of our collective representation. In actual fact it has been given new tasks, most significantly to control change by designing its spaces as change actually occurs: a thankless task which, in the absence of firm practical premises, makes innovation a language soon destined to fade or, in any case, openly avow its subjective, selfreferential nature right from the start. It is no coincidence that the greatest challenges facing modern-day architecture have come from those very non-places Augé pointed out as being figures of supermodern excess: airports, railway stations, shopping malls, multiplex film theatres, museums—all places reflecting reality on a much wider scope and scale

through their constant motion and shapeless flow of presences and meanings; reality marked above all by what the French anthropologist describes as “an intricate skein of cabled or wireless networks mobilizing extra-terrestrial space for means of communication peculiar enough to often bring individuals into contact with just another image of themselves.” The stakes in play in this challenge are not so much the cultural value of architecture (i.e. its ability to meet specific social needs) as the possibility of setting up a grid for reading the phenomena setting the normative regulations for controlling change. The initial result of daily experience is a process that twists around itself. Based on input grounded on uncertain foundations, works are constructed that provide instant guidelines for interpreting new living conditions: spectacular museums innovating old cityscapes, the transformation of railway stations into trading and consumer sites, the multiplying of shops into huge multipurpose complexes and so on. But the very presence of these structures ends up shaping the behavior of their users, speeding up experience even more, and confirming the initial state of uncertainty. Even though our modern-day sense of life is increasingly identified with motion and speed, it is equally true that we do not know either their direction or orientation. Distinguishing between places and non-places grasps this state of affairs: “If a place can be defined as relational, historical, and concerned with identity,” so Augé points out, “then a space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.” But this change is taking place in a planetary context that is densely historicized and hence still holds onto the heritage of its past, that is still very much alive. This is particularly true in the case of places of worship: by attracting religious feeling that is intrinsically alien to change, they spontaneously present themselves as places whose architectural identity mirrors the historical/relational identity of the worshipping that goes on inside and the faith that inspires it, making them places capable of counterbalancing the proliferation of nonplaces. Augé is not so sure of this and, on the contrary, believes that supermodernity does not integrate the earlier places, which instead are “listed, classified, promoted to the status of ‘places of memory’, and assigned to a circumscribed and specific position.” This is an open issue, however, at least as far as churches are concerned. On one hand, it may be claimed that the stable nature of worship calls for basically invariant structures and spaces hardly affected at all by any change in forms and images associated with architectural design; this would account for the presence in the

West of churches designed along the typical lines of modernity and beyond, such as those designed by Michelucci, Quaroni and Spadolini, not to mention Richard Meier’s recent work in Rome. But on the other hand there can be no ignoring a certain tendency to try and incorporate into tradition fresh input from new enthusiastic sources, like the world of young people and non-western cultures, all calling for greater elasticity—and multiplicity—between ritual, faith, and religious space. Of course this is destined to remain an open question. Indeed, not only (as Augé points out) do “non-places represent our age,” they are also the space in which we ourselves move, transforming us at their own rhythm and rate. The difference is that this is not Euclidean space, it is a hyperspace, whose meaning can only be grasped through a multiplicity of links in an endless web of relations, and in a multiplication of identities. Does this mean “space” may be thought of as a non-place and hyperspace as the anthropological place of supermodernity? This is a tempting hypothesis, however premature it might seem. In any case, it is certainly worth looking into.

* Maurizio Vitta, graduated in philosophy, is professor of Theories and History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture at the Politecnico University in Milan. He has written many articles, essays and books on contemporary art, literature, architecture and design. He writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and is deputy editor of “l’Arca.” Among his recent books: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Nel segno della bellezza In the Name of Beauty Strasburgo, Palazzo del Parlamento Europeo Strasbourg, European Parliament Building Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio

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e il concetto di trasparenza sta alla politica come la bellezza sta all’architettura, il complesso del Parlamento Europeo è già un’icona, un parametro di riferimento per altre costruzioni destinate a rappresentare comunità di popoli diversi. Articolazione volumetrica, varietà di piani e scala paesaggistica restituiscono il senso di un’architettura centripeta, aperta non solo alla città di Strasburgo ma anche al mondo intero. Il tutto senza enfasi monumentale, con un elegante understatement espresso attraverso l’immaterialità di ampie superfici vetrate e senza voler stupire con effetti speciali di alta tecnologia, troppo spesso, in simili contesti, risultata inadeguata poiché autoreferenziale. Tutto ciò non ha comunque impedito ai progettisti di creare una serie di luoghi ad alto tasso emozionale, di realizzare ambienti di grande suggestione, come nel caso dello spazio intorno al grande emiciclo, caratterizzato da scale elicoidali, vari ascensori a vista, da passaggi pedonali in quota in grado di creare vertiginose quanto emozionanti visioni prospettiche. Posto alla confluenza tra il fiume Ill e il canale della Marna al Reno, il complesso si pone come un vero e proprio brano urbano, un luogo in cui coesistono una piazza, varie strade ornate da giardini e una passerella in vetro che attraversa il canale nel bacino del fiume Ill, collegando il Parlamento al Palazzo d’Europa, un edificio senza particolari attributi, realizzato negli anni Settanta. La necessità di costruire un nuovo complesso per accogliere il Parlamento Europeo si evidenzia verso la fine degli anni Ottanta, quando gli spazi del Palazzo d’Euro-

pa divengono insufficienti ad accogliere nuove strutture burocratiche. Una preselezione, che vede la partecipazione di circa cento studi di architettura, individua tra i possibili progettisti, per l’Italia il gruppo coordinato da Pierluigi Spadolini, per la Gran Bretagna Powell e Moya e per la Francia Jourda et Perraudin e Architecture Studio. Vince su tutti – forse avvantaggiato poiché ancora nella lunga scia di fama acquisita come autore (insieme a Jean Nouvel, Soria e Lézènes) dell’Istituto del Mondo Arabo, realizzato a Parigi fra il 1981 e il 1987 – il gruppo composto da Martin Robain, Rodo Tisnado, JeanFrançois Bretagnolle, René-Henry Arnaud, LaurentMarc Ficher e Gaston Valente. L’obiettivo principale del progetto era di realizzare un’architettura di forte impatto, un’icona che, attraverso un linguaggio pregnante di allusioni e rispecchiamenti al passato, traducesse in forme contemporanee archetipi – come sostengono i progettisti – del Classico e del Barocco. La classicità come portatrice dell’ordine delle proporzioni, della simmetria, dell’importanza della funzione pedagogica dell’arte e dell’architettura; del Barocco, come controcanto, si è recuperato il movimento quale trasgressione ideologica e il capriccio come espressione di geometrica follia. Il tutto mixato con una tecnologia non invasiva, affinché non fossero oscurati altri segnali, altre sonorità in sintonia con la città. La maglia, infatti, su cui è organizzato il sistema planimetrico del complesso riprende le coordinate con cui è stato concepito il reticolo viario di Strasburgo.

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f transparency is to politics what beauty is to architecture, then the European Parliament complex is already an icon, a guideline for other constructions designed to represent communities of different people. The structural layout, variety of planes and landscape scale of the design create a sense of centripetal architecture, open not only to the city of Strasbourg but also to the world. All this without resorting to heroic-monumental forms, drawing on an elegant sense of understatement through the immateriality of wide glass surfaces and refusing to try and astound us with high-tech special effects, which far too often in this kind of context turn out to be unsatisfactory due to their self-referential nature. Nevertheless, all this has not stopped the architects from creating a series of highly emotive spaces and evocative surroundings, as epitomized by the space around the large hemicycle featuring spiral staircases, a variety of exposed lifts and high-level walkways creating head-spinning and striking views. Situated where the River Ill and the Marne-Rhine Canal flow together, the complex looks like an authentic fragment of cityscape, a place where a square, various roads lined with gardens and a glass walkway crossing the canal in the basin of the River Ill all co-exist. This is where the new Parliament complex is connected to the rather bland Palace of Europe constructed in the 1970s. It became clear in the late 1980s that a new complex would be needed to house the European Parliament, as

the Palace of Europe did not have enough room to accommodate the new bureaucratic structures. A pre-selection process picked out about one hundred architectural firms as potential designers of the new facility: a team headed by Pierluigi Spadolini for Italy, Powell and Moya for Great Britain, and Jourda et Perraudin and Architecture Studio for France. The eventual winner—perhaps exploiting the advantage of the great reputation it had earned for designing (together with Jean Nouvel, Soria and Lézènes) the Arab World Institute in Paris from 1981 to 1987—was the team composed of Martin Robain, Rodo Tisnado, Jean-François Bretagnolle, René-Henry Arnaud, Laurent-Marc Ficher and Gaston Valente. The main purpose of the project was to design a striking piece of architecture; an icon drawing on plenty of stylistic allusions and reflections of the past to translate archetypes of the Classical and Baroque periods (as the architects themselves put it) into modern-day forms. Its classical verve lends a sense of order, proportion and symmetry, focusing on the educational importance of art and architecture. In contrast, the influence of the Baroque can be seen in motion as an ideological transgression and caprice as an expression of geometric folly. All mixed with unobtrusive technology so that other signs are allowed to emerge, other sounds in harmony with the city. The basic pattern of the complex’s site plan draws on the co-ordinates used to design the Strasbourg road network.

Pagina a fianco, sezione trasversale. In alto, modello del complesso; in basso, pianta del livello +3,67/+4,00 e pianta del livello +7,33/+9,17. Pagine seguenti, un particolare del sistema di passerelle pedonali, ascensori e scale mobili che conducono all’emiciclo; scala elicoidale a doppio tornante nella corsia laterale all’asse principale; il foyer dove si erge il volume dell’emiciclo rivestito di legno di quercia. Opposite page, cross section. Top, model of the complex; bottom, plan at level +3.67/+4.00 and plan at level +7.33/+9.17. Following pages, a detail of the footpaths, lifts and escalators leading to the hemicycle; double-twisting spiral staircase at the side of the main path; the foyer where the oak-clad hemicycle stands.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Nel segno della bellezza In the Name of Beauty Strasburgo, Palazzo del Parlamento Europeo Strasbourg, European Parliament Building Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio

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e il concetto di trasparenza sta alla politica come la bellezza sta all’architettura, il complesso del Parlamento Europeo è già un’icona, un parametro di riferimento per altre costruzioni destinate a rappresentare comunità di popoli diversi. Articolazione volumetrica, varietà di piani e scala paesaggistica restituiscono il senso di un’architettura centripeta, aperta non solo alla città di Strasburgo ma anche al mondo intero. Il tutto senza enfasi monumentale, con un elegante understatement espresso attraverso l’immaterialità di ampie superfici vetrate e senza voler stupire con effetti speciali di alta tecnologia, troppo spesso, in simili contesti, risultata inadeguata poiché autoreferenziale. Tutto ciò non ha comunque impedito ai progettisti di creare una serie di luoghi ad alto tasso emozionale, di realizzare ambienti di grande suggestione, come nel caso dello spazio intorno al grande emiciclo, caratterizzato da scale elicoidali, vari ascensori a vista, da passaggi pedonali in quota in grado di creare vertiginose quanto emozionanti visioni prospettiche. Posto alla confluenza tra il fiume Ill e il canale della Marna al Reno, il complesso si pone come un vero e proprio brano urbano, un luogo in cui coesistono una piazza, varie strade ornate da giardini e una passerella in vetro che attraversa il canale nel bacino del fiume Ill, collegando il Parlamento al Palazzo d’Europa, un edificio senza particolari attributi, realizzato negli anni Settanta. La necessità di costruire un nuovo complesso per accogliere il Parlamento Europeo si evidenzia verso la fine degli anni Ottanta, quando gli spazi del Palazzo d’Euro-

pa divengono insufficienti ad accogliere nuove strutture burocratiche. Una preselezione, che vede la partecipazione di circa cento studi di architettura, individua tra i possibili progettisti, per l’Italia il gruppo coordinato da Pierluigi Spadolini, per la Gran Bretagna Powell e Moya e per la Francia Jourda et Perraudin e Architecture Studio. Vince su tutti – forse avvantaggiato poiché ancora nella lunga scia di fama acquisita come autore (insieme a Jean Nouvel, Soria e Lézènes) dell’Istituto del Mondo Arabo, realizzato a Parigi fra il 1981 e il 1987 – il gruppo composto da Martin Robain, Rodo Tisnado, JeanFrançois Bretagnolle, René-Henry Arnaud, LaurentMarc Ficher e Gaston Valente. L’obiettivo principale del progetto era di realizzare un’architettura di forte impatto, un’icona che, attraverso un linguaggio pregnante di allusioni e rispecchiamenti al passato, traducesse in forme contemporanee archetipi – come sostengono i progettisti – del Classico e del Barocco. La classicità come portatrice dell’ordine delle proporzioni, della simmetria, dell’importanza della funzione pedagogica dell’arte e dell’architettura; del Barocco, come controcanto, si è recuperato il movimento quale trasgressione ideologica e il capriccio come espressione di geometrica follia. Il tutto mixato con una tecnologia non invasiva, affinché non fossero oscurati altri segnali, altre sonorità in sintonia con la città. La maglia, infatti, su cui è organizzato il sistema planimetrico del complesso riprende le coordinate con cui è stato concepito il reticolo viario di Strasburgo.

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f transparency is to politics what beauty is to architecture, then the European Parliament complex is already an icon, a guideline for other constructions designed to represent communities of different people. The structural layout, variety of planes and landscape scale of the design create a sense of centripetal architecture, open not only to the city of Strasbourg but also to the world. All this without resorting to heroic-monumental forms, drawing on an elegant sense of understatement through the immateriality of wide glass surfaces and refusing to try and astound us with high-tech special effects, which far too often in this kind of context turn out to be unsatisfactory due to their self-referential nature. Nevertheless, all this has not stopped the architects from creating a series of highly emotive spaces and evocative surroundings, as epitomized by the space around the large hemicycle featuring spiral staircases, a variety of exposed lifts and high-level walkways creating head-spinning and striking views. Situated where the River Ill and the Marne-Rhine Canal flow together, the complex looks like an authentic fragment of cityscape, a place where a square, various roads lined with gardens and a glass walkway crossing the canal in the basin of the River Ill all co-exist. This is where the new Parliament complex is connected to the rather bland Palace of Europe constructed in the 1970s. It became clear in the late 1980s that a new complex would be needed to house the European Parliament, as

the Palace of Europe did not have enough room to accommodate the new bureaucratic structures. A pre-selection process picked out about one hundred architectural firms as potential designers of the new facility: a team headed by Pierluigi Spadolini for Italy, Powell and Moya for Great Britain, and Jourda et Perraudin and Architecture Studio for France. The eventual winner—perhaps exploiting the advantage of the great reputation it had earned for designing (together with Jean Nouvel, Soria and Lézènes) the Arab World Institute in Paris from 1981 to 1987—was the team composed of Martin Robain, Rodo Tisnado, Jean-François Bretagnolle, René-Henry Arnaud, Laurent-Marc Ficher and Gaston Valente. The main purpose of the project was to design a striking piece of architecture; an icon drawing on plenty of stylistic allusions and reflections of the past to translate archetypes of the Classical and Baroque periods (as the architects themselves put it) into modern-day forms. Its classical verve lends a sense of order, proportion and symmetry, focusing on the educational importance of art and architecture. In contrast, the influence of the Baroque can be seen in motion as an ideological transgression and caprice as an expression of geometric folly. All mixed with unobtrusive technology so that other signs are allowed to emerge, other sounds in harmony with the city. The basic pattern of the complex’s site plan draws on the co-ordinates used to design the Strasbourg road network.

Pagina a fianco, sezione trasversale. In alto, modello del complesso; in basso, pianta del livello +3,67/+4,00 e pianta del livello +7,33/+9,17. Pagine seguenti, un particolare del sistema di passerelle pedonali, ascensori e scale mobili che conducono all’emiciclo; scala elicoidale a doppio tornante nella corsia laterale all’asse principale; il foyer dove si erge il volume dell’emiciclo rivestito di legno di quercia. Opposite page, cross section. Top, model of the complex; bottom, plan at level +3.67/+4.00 and plan at level +7.33/+9.17. Following pages, a detail of the footpaths, lifts and escalators leading to the hemicycle; double-twisting spiral staircase at the side of the main path; the foyer where the oak-clad hemicycle stands.

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In senso orario, l’aula dell’emiciclo, dettagli degli interni e un particolare dell’asse principale. L’atmosfera solare è arricchita dall’illuminazione zenitale e dalle piante di filodendro rampicanti su cavi d’acciao inox.

Clockwise, the hemicycle hall, details of the interiors and detail of the main axis. The bright atmosphere is enhanced by zenith lighting and philodendron plants climbing up the stainless steel cables.


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In senso orario, l’aula dell’emiciclo, dettagli degli interni e un particolare dell’asse principale. L’atmosfera solare è arricchita dall’illuminazione zenitale e dalle piante di filodendro rampicanti su cavi d’acciao inox.

Clockwise, the hemicycle hall, details of the interiors and detail of the main axis. The bright atmosphere is enhanced by zenith lighting and philodendron plants climbing up the stainless steel cables.


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Una sacralità interpersonale Interpersonal Sacredness Tokyo, Church of Christ Tokyo, Church of Christ Progetto di Fumihiko Maki + Maki Associates Project by Fumihiko Maki + Maki Associates

È

convinzione comune che le chiese abbiano perso il senso del sacro, che non siano più la Casa di Dio. Anche quando si tratta della Cappella di NotreDame-du-Haut, a Ronchamp, realizzata su progetto di Le Corbusier, considerata un capolavoro di architettura ma non una vera chiesa poiché concepita eludendo non poche indicazioni liturgiche. Ciò è pienamente condiviso da un noto liturgista come Klaus Gamber che considera l’architettura sacra un luogo immutabile, una struttura spaziale codificata da regole liturgiche destinate a provocare particolari stati d’animo, anch’essi immutabili. Questa visione statica del sacro appare però insostenibile poiché è innegabile che l’uomo sia intimamente legato al suo tempo storico: gli stati d’animo dell’uomo postindustriale sono profondamente diversi da quelli di chi ha vissuto prima della rivoluzione industriale. Il tempo, dunque, è un forte motore di cambiamento che coinvolge la cultura, la visione della vita e quindi anche lo spirito. Anche l’architettura sta radicalmente mutando i suoi statuti disciplinari: il mondo del progetto, nelle sue espressioni più innovative, punta su un’architettura orientata verso forme spaziali talmente estreme da capovolgere gerarchie ritenute inamovibili. Che la forma segue la funzione è ormai un assioma in via d’estinzione: si tende sempre più a realizzare architetture autoreferenziali. In alcuni casi si assiste a una sorta di ritorno alle origini, quando l’uomo non costruiva ma sceglieva un luogo, adattandolo alle proprie necessità sia simboliche sia funzionali. Zaha Hadid, architetto inglese di origine irakena di fama internazionale, descrive la sua architettura “vettoriale” idealmente di-

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Pagina a fianco, particolare della fronte ovest, caratterizzata da una grande facciata continua di vetro a doppio strato. Lo strato esterno è trattato con una serigrafia ceramica puntinata in modo da mascherare in parte la struttura. Opposite page, detail of the west front featuring a large double-glazed curtain façade. The outside sheet of glass is treated with ceramic serigraphy to partially hide the structure.

segnata dalla velocità di un ipotetico missile che, sfrecciando velocissimo davanti a volumi elementari, crea forme visionarie difficilmente catalogabili rispetto all’immaginario collettivo. Tali metodologie, che, con varianti più o meno simili, sono comuni a molti progettisti, danno vita a una serie infinita di forme archetipali, il cui valore emozionale è paritario a quello della destinazione funzionale. L’annosa diatriba fra liturgisti e progettisti sembra dunque risolversi in favore di chi crede più nell’evoluzione dell’architettura che nella staticità della fede. Qualcosa in comune per dare sacralità al luogo di culto è tuttavia rimasta. La luce, grande protagonista sia del Gotico, sia del Barocco, continua a rappresentare un elemento simbolico in grado di trasformare lo spazio fisico in un luogo dell’anima. Fumihiko Maki, nella Church of Christ, usa la luce per dematerializzare la grande parete translucida prospiciente l’altare, creando nello stesso tempo un piano luminoso come ideale interfaccia di comunicazione fra Dio e i fedeli. Anche la particolare configurazione delle pareti laterali è funzionale al linguaggio della luce: inclinandosi leggermente verso l’esterno, le pareti lasciano filtrare una lama di luce che illumina la compatta trama verticale dei pannelli di rivestimento. È quindi chiaro che nelle intenzioni del progettista più l’ambiente è dematerializzato più esprime sacralità. L’interno della chiesa, caratterizzato da rivestimenti e pavimentazioni prevalentemente realizzati in legno di betulla, risulta gradevole e distensivo, adatto non solo alle procedure rituali ma anche agli incontri e agli scambi interpersonali di chi è consapevole di appartenere a una comunità.

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Una sacralità interpersonale Interpersonal Sacredness Tokyo, Church of Christ Tokyo, Church of Christ Progetto di Fumihiko Maki + Maki Associates Project by Fumihiko Maki + Maki Associates

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convinzione comune che le chiese abbiano perso il senso del sacro, che non siano più la Casa di Dio. Anche quando si tratta della Cappella di NotreDame-du-Haut, a Ronchamp, realizzata su progetto di Le Corbusier, considerata un capolavoro di architettura ma non una vera chiesa poiché concepita eludendo non poche indicazioni liturgiche. Ciò è pienamente condiviso da un noto liturgista come Klaus Gamber che considera l’architettura sacra un luogo immutabile, una struttura spaziale codificata da regole liturgiche destinate a provocare particolari stati d’animo, anch’essi immutabili. Questa visione statica del sacro appare però insostenibile poiché è innegabile che l’uomo sia intimamente legato al suo tempo storico: gli stati d’animo dell’uomo postindustriale sono profondamente diversi da quelli di chi ha vissuto prima della rivoluzione industriale. Il tempo, dunque, è un forte motore di cambiamento che coinvolge la cultura, la visione della vita e quindi anche lo spirito. Anche l’architettura sta radicalmente mutando i suoi statuti disciplinari: il mondo del progetto, nelle sue espressioni più innovative, punta su un’architettura orientata verso forme spaziali talmente estreme da capovolgere gerarchie ritenute inamovibili. Che la forma segue la funzione è ormai un assioma in via d’estinzione: si tende sempre più a realizzare architetture autoreferenziali. In alcuni casi si assiste a una sorta di ritorno alle origini, quando l’uomo non costruiva ma sceglieva un luogo, adattandolo alle proprie necessità sia simboliche sia funzionali. Zaha Hadid, architetto inglese di origine irakena di fama internazionale, descrive la sua architettura “vettoriale” idealmente di-

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Pagina a fianco, particolare della fronte ovest, caratterizzata da una grande facciata continua di vetro a doppio strato. Lo strato esterno è trattato con una serigrafia ceramica puntinata in modo da mascherare in parte la struttura. Opposite page, detail of the west front featuring a large double-glazed curtain façade. The outside sheet of glass is treated with ceramic serigraphy to partially hide the structure.

segnata dalla velocità di un ipotetico missile che, sfrecciando velocissimo davanti a volumi elementari, crea forme visionarie difficilmente catalogabili rispetto all’immaginario collettivo. Tali metodologie, che, con varianti più o meno simili, sono comuni a molti progettisti, danno vita a una serie infinita di forme archetipali, il cui valore emozionale è paritario a quello della destinazione funzionale. L’annosa diatriba fra liturgisti e progettisti sembra dunque risolversi in favore di chi crede più nell’evoluzione dell’architettura che nella staticità della fede. Qualcosa in comune per dare sacralità al luogo di culto è tuttavia rimasta. La luce, grande protagonista sia del Gotico, sia del Barocco, continua a rappresentare un elemento simbolico in grado di trasformare lo spazio fisico in un luogo dell’anima. Fumihiko Maki, nella Church of Christ, usa la luce per dematerializzare la grande parete translucida prospiciente l’altare, creando nello stesso tempo un piano luminoso come ideale interfaccia di comunicazione fra Dio e i fedeli. Anche la particolare configurazione delle pareti laterali è funzionale al linguaggio della luce: inclinandosi leggermente verso l’esterno, le pareti lasciano filtrare una lama di luce che illumina la compatta trama verticale dei pannelli di rivestimento. È quindi chiaro che nelle intenzioni del progettista più l’ambiente è dematerializzato più esprime sacralità. L’interno della chiesa, caratterizzato da rivestimenti e pavimentazioni prevalentemente realizzati in legno di betulla, risulta gradevole e distensivo, adatto non solo alle procedure rituali ma anche agli incontri e agli scambi interpersonali di chi è consapevole di appartenere a una comunità.

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La scala di legno di betulla che collega il piano terra - dove sono ubicati gli uffici e le sale destinate alle attività parrocchiali - al primo piano in cui è situata l’aula principale; a destra, l’atrio del secondo piano. The birch wood stairs connecting the ground floor – where the offices and rooms used for parish activities are located – to the first floor where the main hall is located; right, the second-floor lobby.

t is a common belief that churches are losing their sense of holiness and that they no longer feel like a House of God. Even Le Corbusier’s masterful architectural design for Notre-Dame-du-Haut Chapel in Ronchamp is not considered a “proper” church, because it was designed without paying due heed to a number of liturgical guidelines. This is certainly the view of a well-known expert in liturgy, Klaus Gamber, who believes that holy architecture should be a neverchanging place, a special structure coded according to liturgical rules designed to induce certain states of mind, that are likewise unchanging. This static vision of holiness is hard to subscribe to because there can be no doubt that man is intimately bound to the changing historical passage of time: postindustrial man’s state of mind is quite different to that of people who lived before the industrial revolution. Time is a powerful driving force behind change that encompasses culture, our view of life and hence even the human spirit. Architecture is also radically changing its disciplinary by-laws: the most innovative expressions in the world of design focus on architecture directed toward spatial forms that are so cutting-edge and extreme that even previously thought unchangeable hierarchies are being turned upside down. Form follows function is today an invalid axiom: there is now a growing tendency to design self-referential works of architecture. In certain cases there is hint of a return to our origins when man did not build anything as such, he just chose a place to live and adapted it to his own symbolic and functional needs. Zaha Hadid, a British architect of Iraqi origin renowned international-

ly, describes her architecture as “vectorial” ideally designed by the velocity of a hypothetical missile flashing past simple structures that creates visionary forms hard to be classed by the collective psyche. These working methods shared by many architects (more or less similar variations on the same basic theme) bring to life an endless series of archetypal forms, whose emotional value is on a par with their functional purposes. The age-old diatribe between liturgical experts and designers tends to lean in favor of those who believe more deeply in architectural progress than the static nature of faith. Nevertheless, there is still some common ground to ensure the place of worship remains sacred. Light, the key feature of both Gothic and Baroque architecture, is still a symbolic element enabling physical space to transform into a spiritual place. Fumihiko Maki’s Church of Christ uses light to dematerialize the huge translucent wall overlooking the altar, at the same time creating a luminous plane acting as an ideal communicative interface between God and worshippers. The peculiar design of the side walls is also geared to the language of light: as they slope gently outwards the walls let in a blade of light that illuminates the closelyknit vertical pattern of cladding panels. It is obvious that the architect feels that a more dematerialized setting is inevitably more holy. The inside of the church features predominantly birch-wood claddings and floors creating a soothing and relaxing atmosphere, suitable for both religious ceremonies and also meetings and encounters between people keenly aware that they are part of a community.

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La scala di legno di betulla che collega il piano terra - dove sono ubicati gli uffici e le sale destinate alle attività parrocchiali - al primo piano in cui è situata l’aula principale; a destra, l’atrio del secondo piano. The birch wood stairs connecting the ground floor – where the offices and rooms used for parish activities are located – to the first floor where the main hall is located; right, the second-floor lobby.

t is a common belief that churches are losing their sense of holiness and that they no longer feel like a House of God. Even Le Corbusier’s masterful architectural design for Notre-Dame-du-Haut Chapel in Ronchamp is not considered a “proper” church, because it was designed without paying due heed to a number of liturgical guidelines. This is certainly the view of a well-known expert in liturgy, Klaus Gamber, who believes that holy architecture should be a neverchanging place, a special structure coded according to liturgical rules designed to induce certain states of mind, that are likewise unchanging. This static vision of holiness is hard to subscribe to because there can be no doubt that man is intimately bound to the changing historical passage of time: postindustrial man’s state of mind is quite different to that of people who lived before the industrial revolution. Time is a powerful driving force behind change that encompasses culture, our view of life and hence even the human spirit. Architecture is also radically changing its disciplinary by-laws: the most innovative expressions in the world of design focus on architecture directed toward spatial forms that are so cutting-edge and extreme that even previously thought unchangeable hierarchies are being turned upside down. Form follows function is today an invalid axiom: there is now a growing tendency to design self-referential works of architecture. In certain cases there is hint of a return to our origins when man did not build anything as such, he just chose a place to live and adapted it to his own symbolic and functional needs. Zaha Hadid, a British architect of Iraqi origin renowned international-

ly, describes her architecture as “vectorial” ideally designed by the velocity of a hypothetical missile flashing past simple structures that creates visionary forms hard to be classed by the collective psyche. These working methods shared by many architects (more or less similar variations on the same basic theme) bring to life an endless series of archetypal forms, whose emotional value is on a par with their functional purposes. The age-old diatribe between liturgical experts and designers tends to lean in favor of those who believe more deeply in architectural progress than the static nature of faith. Nevertheless, there is still some common ground to ensure the place of worship remains sacred. Light, the key feature of both Gothic and Baroque architecture, is still a symbolic element enabling physical space to transform into a spiritual place. Fumihiko Maki’s Church of Christ uses light to dematerialize the huge translucent wall overlooking the altar, at the same time creating a luminous plane acting as an ideal communicative interface between God and worshippers. The peculiar design of the side walls is also geared to the language of light: as they slope gently outwards the walls let in a blade of light that illuminates the closelyknit vertical pattern of cladding panels. It is obvious that the architect feels that a more dematerialized setting is inevitably more holy. The inside of the church features predominantly birch-wood claddings and floors creating a soothing and relaxing atmosphere, suitable for both religious ceremonies and also meetings and encounters between people keenly aware that they are part of a community.

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Facciata ovest. West façade.

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Pagina precedente, da sinistra, piante dei piani terzo, secondo e terra e la fronte sud. In questa pagina, in senso orario, l’aula principale che può contenere fino a 700 fedeli, veduta parziale del sito e planimetria generale. Previous page, from left, plans of the third, second and ground floors and the south front. This page, clockwise, the main hall, that can accommodate up to 700 worshippers, partial view of the site, and site plan.

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Facciata ovest. West façade.

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Pagina precedente, da sinistra, piante dei piani terzo, secondo e terra e la fronte sud. In questa pagina, in senso orario, l’aula principale che può contenere fino a 700 fedeli, veduta parziale del sito e planimetria generale. Previous page, from left, plans of the third, second and ground floors and the south front. This page, clockwise, the main hall, that can accommodate up to 700 worshippers, partial view of the site, and site plan.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Facciata laterale e particolare della facciata a nord-est. La chiesa sorge al centro di un giardino pubblico ed è caratterizzata da un volume cubico sorretto da dodici pilastri simboleggianti i dodici Apostoli.

Riti urbani Urban Rituals

Side façade and detail of the north-east façade. The church stands in the middle of a public garden and features a cube-shaped structure supported by twelve columns symbolizing the twelve Apostles.

Parigi, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Paris, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio

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Planimetria generale e l’ingresso della chiesa a quota 3,5 metri. Site plan and church entrance at a height of 3.5 meters.

a chiesa di Notre-Dame de l’Arche d’Alliance sorge nel XV arrondissement, al centro di un giardino pubblico, di fronte a Piazza Falguière. Il complesso è caratterizzato da un volume cubico (contenente l’aula assembleare e il presbiterio con quattro alloggi) sorretto da dodici pilastri, che simboleggiano le dodici tribù d’Israele e i dodici Apostoli. Il volume è contenuto in un reticolo tridimensionale d’acciaio inossidabile – trasposizione spaziale del nartece – che definisce lo spazio di transizione con l’esterno. La forma cubica è un chiaro riferimento all’Arca dell’Alleanza, il contenitore in cui erano custodite le Tavole della Legge che Dio aveva consegnato a Mosé, sul Monte Sinai. Gli interni della chiesa sono, infatti, in legno d’acacia, la stessa essenza dell’Arca dell’Alleanza. L’abside del coro è di forma cilindrica, inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola. Al suo interno c’è il tabernacolo realizzato in legno d’acacia rivestito di foglie d’oro. Sull’asse di collegamento fra il coro e l’aula assembleare trovano posto l’altare, costruito in marmo di Tassos, l’ambone e gli altri elementi destinati alla funzione liturgica. Normalmente, il rapporto fra liturgia e architettura sacra riguarda soprattutto gli spazi interni della chiesa. Il percorso del credente prevede alcune soste ideali: la parte iniziale simboleggia la fase esistenziale di avvicinamento alla fede. Chi attende di essere battezzato è invitato a sostare nell’area presso l’ingresso, l’abside e il tabernacolo sono le mete finali del percorso. Nonostante siano presenti molti elementi simbolici riferibili alla tradizione, la nuova chiesa

si propone come un’architettura in qualche modo trasgressiva, una presa di posizione per dar vita alla ricerca di un nuovo linguaggio, in altre parole rimettere in gioco il rapporto fra l’edificio sacro e lo spazio urbano. La sempre maggiore densità della città pone molti limiti al suo rinnovamento. La città invecchia, l’architettura anche: poiché la sola sperimentazione rischia di rimanere semplice teoria, architettura di carta con esigue opzioni di tradursi in spazio urbano. La valenza simbolica dell’edificio sacro può dunque porsi quale efficace strumento di riflessione critica per gettare uno sguardo verso il futuro. Il reticolo posto all’esterno della chiesa che, nelle intenzioni dei progettisti, definisce lo spazio di transizione fra spazio sacro e ambiente urbano è contemporaneamente anche una soglia, una linea virtuale che segna la divisione degli opposti e nello stesso tempo anche il luogo della loro relazione. È dunque anche attraverso l’ambiguità semantica dell’assenza/presenza che si può incidere sul linguaggio dell’architettura contemporanea. Il reticolo della chiesa, quasi fosse una Gabbia di Faraday, include il tutto e nello stesso tempo è anche una soglia virtuale che estende i confini geometrici dell’insieme. L’intorno non ha quindi più una sua identità spaziale certa, poiché intervengono effetti ottici che ne mettono in discussione la stabilità della percezione. Questa trasmutabilità virtuale diviene dunque metafora del costante mutamento del mondo attraverso una scena urbana che riproduce, in scala ridotta, la condizione d’instabilità che pervade la società contemporanea.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Facciata laterale e particolare della facciata a nord-est. La chiesa sorge al centro di un giardino pubblico ed è caratterizzata da un volume cubico sorretto da dodici pilastri simboleggianti i dodici Apostoli.

Riti urbani Urban Rituals

Side façade and detail of the north-east façade. The church stands in the middle of a public garden and features a cube-shaped structure supported by twelve columns symbolizing the twelve Apostles.

Parigi, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Paris, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio

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Planimetria generale e l’ingresso della chiesa a quota 3,5 metri. Site plan and church entrance at a height of 3.5 meters.

a chiesa di Notre-Dame de l’Arche d’Alliance sorge nel XV arrondissement, al centro di un giardino pubblico, di fronte a Piazza Falguière. Il complesso è caratterizzato da un volume cubico (contenente l’aula assembleare e il presbiterio con quattro alloggi) sorretto da dodici pilastri, che simboleggiano le dodici tribù d’Israele e i dodici Apostoli. Il volume è contenuto in un reticolo tridimensionale d’acciaio inossidabile – trasposizione spaziale del nartece – che definisce lo spazio di transizione con l’esterno. La forma cubica è un chiaro riferimento all’Arca dell’Alleanza, il contenitore in cui erano custodite le Tavole della Legge che Dio aveva consegnato a Mosé, sul Monte Sinai. Gli interni della chiesa sono, infatti, in legno d’acacia, la stessa essenza dell’Arca dell’Alleanza. L’abside del coro è di forma cilindrica, inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola. Al suo interno c’è il tabernacolo realizzato in legno d’acacia rivestito di foglie d’oro. Sull’asse di collegamento fra il coro e l’aula assembleare trovano posto l’altare, costruito in marmo di Tassos, l’ambone e gli altri elementi destinati alla funzione liturgica. Normalmente, il rapporto fra liturgia e architettura sacra riguarda soprattutto gli spazi interni della chiesa. Il percorso del credente prevede alcune soste ideali: la parte iniziale simboleggia la fase esistenziale di avvicinamento alla fede. Chi attende di essere battezzato è invitato a sostare nell’area presso l’ingresso, l’abside e il tabernacolo sono le mete finali del percorso. Nonostante siano presenti molti elementi simbolici riferibili alla tradizione, la nuova chiesa

si propone come un’architettura in qualche modo trasgressiva, una presa di posizione per dar vita alla ricerca di un nuovo linguaggio, in altre parole rimettere in gioco il rapporto fra l’edificio sacro e lo spazio urbano. La sempre maggiore densità della città pone molti limiti al suo rinnovamento. La città invecchia, l’architettura anche: poiché la sola sperimentazione rischia di rimanere semplice teoria, architettura di carta con esigue opzioni di tradursi in spazio urbano. La valenza simbolica dell’edificio sacro può dunque porsi quale efficace strumento di riflessione critica per gettare uno sguardo verso il futuro. Il reticolo posto all’esterno della chiesa che, nelle intenzioni dei progettisti, definisce lo spazio di transizione fra spazio sacro e ambiente urbano è contemporaneamente anche una soglia, una linea virtuale che segna la divisione degli opposti e nello stesso tempo anche il luogo della loro relazione. È dunque anche attraverso l’ambiguità semantica dell’assenza/presenza che si può incidere sul linguaggio dell’architettura contemporanea. Il reticolo della chiesa, quasi fosse una Gabbia di Faraday, include il tutto e nello stesso tempo è anche una soglia virtuale che estende i confini geometrici dell’insieme. L’intorno non ha quindi più una sua identità spaziale certa, poiché intervengono effetti ottici che ne mettono in discussione la stabilità della percezione. Questa trasmutabilità virtuale diviene dunque metafora del costante mutamento del mondo attraverso una scena urbana che riproduce, in scala ridotta, la condizione d’instabilità che pervade la società contemporanea.

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Dal basso in alto, piante dei piani primo, terzo, quinto, sesto e sezione trasversale. From bottom up, plans of the first, third, fifth and sixth floors, and cross section.

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otre-Dame de l’Arche d’Alliance Church stands in the 15th arrondissement, in the middle of a public garden opposite Falguière Square. The church complex features a cube-shaped structure (holding the congregation hall and the presbitery with four lodges) supported by twelve columns symbolizing the twelve tribes of Israel and the twelve apostles. The structure is encompassed in a three-dimensional web made of stainless steel—spatial rendering of a narthex—marking the area of transition to the outside environment. The cube-shaped form clearly evokes the Ark of the Covenant used to hold the Tablets of Stone inscribed with the Ten Commandments that God handed down to Moses on Mount Sinai. The interiors of the church are, like the Ark of the Covenant, made of acacia wood. The church apse is cylindrical and slopes at an angle toward the façade, where it marks a parabola. The tabernacle made of acacia covered with golden leaves is placed inside here. The altar made of Tassos marble, the ambo and other liturgical features are situated along the axis connecting the choir to the congregation hall. Religious architecture and liturgy are brought together through the interiors of a church. Worshippers follow a sort of ideal path starting with a symbolic rendering of their own approach to faith. Those awaiting baptism are expected to wait near the entrance area, while the apse and tabernacle are the final destinations. Despite plenty of references to tradition, the new church is designed around rather transgressive lines, an approach aimed at searching for a new idiom or, in other words, a way of calling into question the religious building’s relation to an urban environment. The increasing density of cities is hampering their development in many ways. The city ages and so does architecture: since experimentation alone is likely to be nothing more than mere theory, architecture on paper, with little chance of being transformed into urban reality. The building’s symbolic worth might be a useful means of casting a critical eye toward the future. The web on the outside of the church, according to the architects’ plans, represents the transition between holy space and the urban environment, suggesting a threshold; a virtual line marking the division of opposites and also the place where they are united. The semantic ambiguity between absence/presence is also a means of influencing the idiom of modern-day architecture. The church’s web, almost like a Faraday Cage, encompasses everything and at the same time marks another virtual threshold extending the geometric boundaries implying the surroundings have no definite spatial identity. Optical effects are introduced to call into question its perceptual stability. This virtual transmutability ultimately turns into a metaphor for our constantly changing world as the cityscape provides a smaller scale reproduction of the instability pervading modern-day society.

Particolare della scalinata che porta all’ingresso dominata dal campanile. Il rivestimento esterno è realizzato con pannelli in resina rinforzati con fibra di legno e rivestiti con una resina acrilica serigrafata che riproduce all’infinito il testo dell’Ave Maria (Je vous salue Marie).

Pagine seguenti, l’abside del coro di forma cilindrica inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola: al suo interno, il tabernacolo è in legno d’acacia coperto di foglie d’oro. Il battistero, situato a livello del terreno.

Detail of the steps up to the entrance beneath the bell tower. The outside cladding is made of resin panels reinforced with wooden fiber and clad with a serigraphed acrylic resin featuring an endless reproduction of the Ave Marie (Je vous salue Marie).

Following pages, the cylindrical-shaped choir apse in the façade plane forming a parabola: the tabernacle inside is made of acacia wood covered with gold foil. The baptistery at ground-floor level.

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Dal basso in alto, piante dei piani primo, terzo, quinto, sesto e sezione trasversale. From bottom up, plans of the first, third, fifth and sixth floors, and cross section.

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otre-Dame de l’Arche d’Alliance Church stands in the 15th arrondissement, in the middle of a public garden opposite Falguière Square. The church complex features a cube-shaped structure (holding the congregation hall and the presbitery with four lodges) supported by twelve columns symbolizing the twelve tribes of Israel and the twelve apostles. The structure is encompassed in a three-dimensional web made of stainless steel—spatial rendering of a narthex—marking the area of transition to the outside environment. The cube-shaped form clearly evokes the Ark of the Covenant used to hold the Tablets of Stone inscribed with the Ten Commandments that God handed down to Moses on Mount Sinai. The interiors of the church are, like the Ark of the Covenant, made of acacia wood. The church apse is cylindrical and slopes at an angle toward the façade, where it marks a parabola. The tabernacle made of acacia covered with golden leaves is placed inside here. The altar made of Tassos marble, the ambo and other liturgical features are situated along the axis connecting the choir to the congregation hall. Religious architecture and liturgy are brought together through the interiors of a church. Worshippers follow a sort of ideal path starting with a symbolic rendering of their own approach to faith. Those awaiting baptism are expected to wait near the entrance area, while the apse and tabernacle are the final destinations. Despite plenty of references to tradition, the new church is designed around rather transgressive lines, an approach aimed at searching for a new idiom or, in other words, a way of calling into question the religious building’s relation to an urban environment. The increasing density of cities is hampering their development in many ways. The city ages and so does architecture: since experimentation alone is likely to be nothing more than mere theory, architecture on paper, with little chance of being transformed into urban reality. The building’s symbolic worth might be a useful means of casting a critical eye toward the future. The web on the outside of the church, according to the architects’ plans, represents the transition between holy space and the urban environment, suggesting a threshold; a virtual line marking the division of opposites and also the place where they are united. The semantic ambiguity between absence/presence is also a means of influencing the idiom of modern-day architecture. The church’s web, almost like a Faraday Cage, encompasses everything and at the same time marks another virtual threshold extending the geometric boundaries implying the surroundings have no definite spatial identity. Optical effects are introduced to call into question its perceptual stability. This virtual transmutability ultimately turns into a metaphor for our constantly changing world as the cityscape provides a smaller scale reproduction of the instability pervading modern-day society.

Particolare della scalinata che porta all’ingresso dominata dal campanile. Il rivestimento esterno è realizzato con pannelli in resina rinforzati con fibra di legno e rivestiti con una resina acrilica serigrafata che riproduce all’infinito il testo dell’Ave Maria (Je vous salue Marie).

Pagine seguenti, l’abside del coro di forma cilindrica inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola: al suo interno, il tabernacolo è in legno d’acacia coperto di foglie d’oro. Il battistero, situato a livello del terreno.

Detail of the steps up to the entrance beneath the bell tower. The outside cladding is made of resin panels reinforced with wooden fiber and clad with a serigraphed acrylic resin featuring an endless reproduction of the Ave Marie (Je vous salue Marie).

Following pages, the cylindrical-shaped choir apse in the façade plane forming a parabola: the tabernacle inside is made of acacia wood covered with gold foil. The baptistery at ground-floor level.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Una volta sotto il cielo d’Oriente A Dome beneath Eastern Skies Abu Dhabi, nuovo terminal aeroportuale Abu Dhabi, new airport terminal Progetto di ADP-Paul Andreu Project by ADP-Paul Andreu

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Sezione trasversale e prospetto. La grande copertura a volta è stata pensata come metafora di un cielo stellato nel deserto. Cross section and elevation. The large vaulted roof is designed as a metaphor for a starry night in the desert.

ell’iconografia dei complessi aeroportuali la cupola rappresenta una tipologia alquanto inusuale. Forse la sua purezza geometrica e l’intensa carica simbolica hanno il potere d’intimorire chiunque pensi di confrontarsi con un maestro come Brunelleschi, l’autore della cupola più famosa al mondo (realizzata nei primi anni del XV secolo nella chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze). Il “Module2”, come viene definito il nuovo terminal dell’aeroporto di Abu Dhabi, con la sua cupola semitrasparente e mutante, secondo l’alternarsi del giorno e della notte, potrebbe essere una sorta di omaggio-sfida lanciato da Paul Andreu verso uno dei più grandi ingegni della storia dell’architettura rinascimentale? Se così fosse, varrebbe la pena d’indagare sui possibili significati simbolici della cupola attraverso i secoli e le diverse culture che si sono avvicendate nel corso del tempo. Nel contesto culturale, temporale e geografico, la cupola è sempre stata la forma architettonica che rappresenta il cosmo, sia nell’accezione laica, sia in quella religiosa. Nel progetto del nuovo terminal si è voluto soprattutto creare in scala ridotta un cielo stellato nel deserto, una metafora che alluda alla necessità del viaggiatore di avere punti di riferimento certi per muoversi agevolmente in un luogo estremo e disorientante. L’intervento proposto da ADP-Paul Andreu riguarda il progetto di ampliamento dell’aeroporto attraverso la realizzazione di due edifici: un satellite, a pianta circolare, e una seconda unità, posta lungo la linea di raccordo con l’edificio del terminal esistente. L’edificio satellite è destinato alle operazioni d’imbarco e di arrivo e agli

spazi del duty-free, nonché ad accogliere alcune strutture accessorie organizzate su due piani separati; la seconda unità comprende invece l’area dei banchi per le operazioni di check-in e gli uffici amministrativi. La cupola che fa da copertura all’edificio satellite misura cento metri di diametro ed è sostenuta da una struttura composta di cento tubi in acciaio con un diametro di venticinque centimetri e uno spessore di un centimetro. Si tratta dunque di uno spazio di notevole ampiezza, in cui la particolare conformazione strutturale crea effetti di notevole suggestione: la disposizione a raggiera dei tubi ricorda una grande sorgente i cui getti d’acqua generano una superficie parabolica simile a una monumentale fontana zampillante. Sostenuta dal cono centrale, la grande volta è rivestita da una serie di vetri caratterizzati da diversi gradi di opacità e trasparenza, con un’intensità che aumenta progressivamente dalla base verso la sommità, per poi digradare nuovamente verso la zona perimetrale. Ad altezza d’uomo, la superficie al livello di massima circonferenza è praticamente trasparente, lasciando così la possibilità di osservare il panorama a trecentosessanta gradi. Basata su complessi calcoli statici, la cupola presenta una struttura composta di elementi portanti di sezione relativamente limitata, ma ad alta resistenza al carico, un sistema simile a quello impiegato nelle costruzioni aeronautiche. Il progetto si è basato dunque su alcune affinità fra architettura e sistema di trasporto, creando un paesaggio artificiale in cui i diversi ambiti disciplinari si fondono senza però perdere le reciproche identità.

T

he dome certainly is not the type of stylistic feature usually associated with airport designs. Perhaps its geometric purity and powerful symbolic force are a daunting prospect for any designer daring to face up to a master like Brunelleschi, who designed the world’s most famous dome (built in the early-15th century at the Santa Maria del Fiore Church in Florence). Might “Module2” (as the new Abu Dhabi airport terminal is called), whose semi-transparent dome alters between day and night, actually be a sort of homage-challenge thrown down by Paul Andreu to one of the greatest engineers in the history of Renaissance architecture? If this were so, it would be worth investigating the various possible symbolic meanings of the dome down through the centuries and across different cultures. Through every culture, the dome has always been the architectural form chosen to represent the heavens, both from a secular and religious viewpoint. The project for the new terminal was designed to simulate a starry desert sky; a metaphor alluding to a traveler’s need to have definite bearings in order to find one’s way if faced with extreme conditions. The project designed by ADP-Paul Andreu involves extending the airport through the construction of two buildings: a circular-based satellite building and a second unit placed along the connecting line to the old terminal building. The satellite building serves boarding and disembarking procedures and accommodates duty free spaces. It also houses some ancillary facilities sited over two separate levels. The second unit houses the check-in area and administration offices.

The dome over the satellite building measures one hundred meters in diameter and is held in position by a structure made of one hundred steel tubes measuring twenty-five centimeters in diameter and one centimeter thick. This is a spacious area, where the unique structural form creates striking effects: a sundial formation of tubes calls to mind spurting water creating a parabolic surface rather like a gushing monumental fountain. The large vault supported by the central cone is clad with a set of glass windows each with different degrees of opacity and transparency. The opacity increases gradually from the base up, before gradually decreasing again toward the edges. The glass surface at eye level is almost transparent providing a three hundred and sixty degree observation point. The dome, whose design is based on extremely complex static calculations, has a structure made of bearing elements with relatively small sections but high load-resistance, a system similar to that used for aeronautical constructions. The project encompasses certain similarities between the design of architecture and that of transport systems, thereby creating a sort of manmade landscape in which disciplinary boundaries break down without, however, losing their own separate identities.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Una volta sotto il cielo d’Oriente A Dome beneath Eastern Skies Abu Dhabi, nuovo terminal aeroportuale Abu Dhabi, new airport terminal Progetto di ADP-Paul Andreu Project by ADP-Paul Andreu

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Sezione trasversale e prospetto. La grande copertura a volta è stata pensata come metafora di un cielo stellato nel deserto. Cross section and elevation. The large vaulted roof is designed as a metaphor for a starry night in the desert.

ell’iconografia dei complessi aeroportuali la cupola rappresenta una tipologia alquanto inusuale. Forse la sua purezza geometrica e l’intensa carica simbolica hanno il potere d’intimorire chiunque pensi di confrontarsi con un maestro come Brunelleschi, l’autore della cupola più famosa al mondo (realizzata nei primi anni del XV secolo nella chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze). Il “Module2”, come viene definito il nuovo terminal dell’aeroporto di Abu Dhabi, con la sua cupola semitrasparente e mutante, secondo l’alternarsi del giorno e della notte, potrebbe essere una sorta di omaggio-sfida lanciato da Paul Andreu verso uno dei più grandi ingegni della storia dell’architettura rinascimentale? Se così fosse, varrebbe la pena d’indagare sui possibili significati simbolici della cupola attraverso i secoli e le diverse culture che si sono avvicendate nel corso del tempo. Nel contesto culturale, temporale e geografico, la cupola è sempre stata la forma architettonica che rappresenta il cosmo, sia nell’accezione laica, sia in quella religiosa. Nel progetto del nuovo terminal si è voluto soprattutto creare in scala ridotta un cielo stellato nel deserto, una metafora che alluda alla necessità del viaggiatore di avere punti di riferimento certi per muoversi agevolmente in un luogo estremo e disorientante. L’intervento proposto da ADP-Paul Andreu riguarda il progetto di ampliamento dell’aeroporto attraverso la realizzazione di due edifici: un satellite, a pianta circolare, e una seconda unità, posta lungo la linea di raccordo con l’edificio del terminal esistente. L’edificio satellite è destinato alle operazioni d’imbarco e di arrivo e agli

spazi del duty-free, nonché ad accogliere alcune strutture accessorie organizzate su due piani separati; la seconda unità comprende invece l’area dei banchi per le operazioni di check-in e gli uffici amministrativi. La cupola che fa da copertura all’edificio satellite misura cento metri di diametro ed è sostenuta da una struttura composta di cento tubi in acciaio con un diametro di venticinque centimetri e uno spessore di un centimetro. Si tratta dunque di uno spazio di notevole ampiezza, in cui la particolare conformazione strutturale crea effetti di notevole suggestione: la disposizione a raggiera dei tubi ricorda una grande sorgente i cui getti d’acqua generano una superficie parabolica simile a una monumentale fontana zampillante. Sostenuta dal cono centrale, la grande volta è rivestita da una serie di vetri caratterizzati da diversi gradi di opacità e trasparenza, con un’intensità che aumenta progressivamente dalla base verso la sommità, per poi digradare nuovamente verso la zona perimetrale. Ad altezza d’uomo, la superficie al livello di massima circonferenza è praticamente trasparente, lasciando così la possibilità di osservare il panorama a trecentosessanta gradi. Basata su complessi calcoli statici, la cupola presenta una struttura composta di elementi portanti di sezione relativamente limitata, ma ad alta resistenza al carico, un sistema simile a quello impiegato nelle costruzioni aeronautiche. Il progetto si è basato dunque su alcune affinità fra architettura e sistema di trasporto, creando un paesaggio artificiale in cui i diversi ambiti disciplinari si fondono senza però perdere le reciproche identità.

T

he dome certainly is not the type of stylistic feature usually associated with airport designs. Perhaps its geometric purity and powerful symbolic force are a daunting prospect for any designer daring to face up to a master like Brunelleschi, who designed the world’s most famous dome (built in the early-15th century at the Santa Maria del Fiore Church in Florence). Might “Module2” (as the new Abu Dhabi airport terminal is called), whose semi-transparent dome alters between day and night, actually be a sort of homage-challenge thrown down by Paul Andreu to one of the greatest engineers in the history of Renaissance architecture? If this were so, it would be worth investigating the various possible symbolic meanings of the dome down through the centuries and across different cultures. Through every culture, the dome has always been the architectural form chosen to represent the heavens, both from a secular and religious viewpoint. The project for the new terminal was designed to simulate a starry desert sky; a metaphor alluding to a traveler’s need to have definite bearings in order to find one’s way if faced with extreme conditions. The project designed by ADP-Paul Andreu involves extending the airport through the construction of two buildings: a circular-based satellite building and a second unit placed along the connecting line to the old terminal building. The satellite building serves boarding and disembarking procedures and accommodates duty free spaces. It also houses some ancillary facilities sited over two separate levels. The second unit houses the check-in area and administration offices.

The dome over the satellite building measures one hundred meters in diameter and is held in position by a structure made of one hundred steel tubes measuring twenty-five centimeters in diameter and one centimeter thick. This is a spacious area, where the unique structural form creates striking effects: a sundial formation of tubes calls to mind spurting water creating a parabolic surface rather like a gushing monumental fountain. The large vault supported by the central cone is clad with a set of glass windows each with different degrees of opacity and transparency. The opacity increases gradually from the base up, before gradually decreasing again toward the edges. The glass surface at eye level is almost transparent providing a three hundred and sixty degree observation point. The dome, whose design is based on extremely complex static calculations, has a structure made of bearing elements with relatively small sections but high load-resistance, a system similar to that used for aeronautical constructions. The project encompasses certain similarities between the design of architecture and that of transport systems, thereby creating a sort of manmade landscape in which disciplinary boundaries break down without, however, losing their own separate identities.

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Sezione trasversale parziale. Partial cross section.

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Pagine seguenti, prospettiva aerea del complesso aeroportuale; sezione trasversale prospettica; particolare dell’interno con la volta di 100 m di diametro, sostenuta da una struttura composta di un centinaio di tubi d’acciaio. La volta è rivestita con pannelli di vetro con diversi gradi di trasparenza e opacità.

Following pages, aerial view of the airport; perspective cross section; detail of the inside, whose vault measuring 100 meters in diameter is held up by a structure made of about one hundred steel tubes. The vault is clad with glass panels of different degrees of transparency and opacity.

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Sezione trasversale parziale. Partial cross section.

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Pagine seguenti, prospettiva aerea del complesso aeroportuale; sezione trasversale prospettica; particolare dell’interno con la volta di 100 m di diametro, sostenuta da una struttura composta di un centinaio di tubi d’acciaio. La volta è rivestita con pannelli di vetro con diversi gradi di trasparenza e opacità.

Following pages, aerial view of the airport; perspective cross section; detail of the inside, whose vault measuring 100 meters in diameter is held up by a structure made of about one hundred steel tubes. The vault is clad with glass panels of different degrees of transparency and opacity.

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Da porta a porta From Door to Door Roissy, Terminal 2F Roissy, Terminal 2F Progetto di Paul Andreu Project by Paul Andreu

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Pagina a fianco, planimetria generale e piante dei livelli partenze e arrivi. La nuova aerostazione si inserisce lungo il prolungamento est-ovest dei precedenti quattro moduli A, B, C, D e di quello di scambio con la linea ferroviaria del TGV-RER. Opposite page, site plan and plans of the departures and arrivals levels. The new airport fits in along the eastwest extension to the previous four modules (A, B, C and D) and the junction with the TGV-RER railway line.

er vastità e tipo di configurazione compositiva, il complesso aeroportuale di Roissy è un vero e proprio paesaggio artificiale, un luogo in cui si confrontano, ad armi pari, architettura e territorio, ovvero: natura e artificio. Esperto di progettazione di grandi aeroporti (fra gli altri, ha progettato quelli di Giakarta, di Osaka e di Nizza), Paul Andreu, nelle sue realizzazioni, oltre alla parte ingegneristica, cura con particolare attenzione anche gli aspetti emozionali che l’architettura è in grado di creare quando punta sull’innovazione. Nell’intervento a Roissy, grazie alla particolare concezione delle “penisole” d’imbarco, l’alternarsi di materia e di luce gioca un ruolo primario. Il progetto, sviluppato da RFR quando c’era ancora Peter Rice, poi scomparso prematuramente, presenta una soluzione di raffinata fattura ingegneristica per le parti strutturali, grazie alla modellizzazione computerizzata, ma che dimostra anche grande sensibilità nel trattamento della luce naturale. Un sistema frangisole, composto di lamelle forate in grado di filtrare e attenuare i raggi solari, permette di proteggere l’interno senza precludere il passaggio della luce. La copertura è quindi una superficie mutevole, che secondo il punto di osservazione presenta diversi gradi di opacità o di trasparenza. L’intervento a Roissy riguarda la realizzazione del nuovo Terminal F2 quale ampliamento dell’aeroporto Charles De Gaulle, di cui Andreu seguì la realizzazione alcuni decenni fa. Data l’importanza dello scalo, il complesso aeroportuale si confronta con aeroporti internazionali come il Kansai Airport, progettato da Renzo Piano e con l’Hong Kong

Airport, realizzato su progetto di Norman Foster. Contrariamente ai due grandi scali intercontinentali, Roissy presenta accentuate differenze, grazie a rotondità e accentuate contrapposizioni materiche che segnano le diverse destinazioni funzionali degli edifici. La parte cosiddetta land side, quella aperta a tutti, dove si effettua il check-in, è un volume in cemento dall’aspetto austero rivolto verso la città, mentre la struttura prossima alla fase d’imbarco è caratterizzata dalla leggerezza e dalla trasparenza, permettendo così ai viaggiatori l’osservazione diretta sull’area destinata al volo, una veduta in cui il mondo tecnologico si confronta con il paesaggio naturale. La differenziazione tra corpi materici e una superficie immateriale come il vetro gioca un importante ruolo, sia come orientamento per chi transita a terra, sia come percezione visiva dall’alto. In quest’ultimo caso, la connotazione planimetrica percepibile durante la fase di volo precedente l’atterraggio è il dato che definisce con maggiore completezza il ruolo dell’aeroporto quale moderna porta d’accesso alla città. In realtà i grandi aeroporti, per la loro notevole estensione e complessità, costituiscono un segno forte nel territorio in quanto, oltre al nucleo aeroportuale vero e proprio, sono spesso generatori di nuove reti infrastrutturali come ferrovie e autostrade a grande traffico. L’aumento costante dell’intensità del traffico passeggeri fa degli aeroporti, oltre che straordinarie macchine logistiche, importanti poli di scambio, quindi ottime occasioni per creare strutture che quando puntano su un’immagine forte e innovativa costituiscono grossi veicoli di “comunicazione culturale”.


Da porta a porta From Door to Door Roissy, Terminal 2F Roissy, Terminal 2F Progetto di Paul Andreu Project by Paul Andreu

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Pagina a fianco, planimetria generale e piante dei livelli partenze e arrivi. La nuova aerostazione si inserisce lungo il prolungamento est-ovest dei precedenti quattro moduli A, B, C, D e di quello di scambio con la linea ferroviaria del TGV-RER. Opposite page, site plan and plans of the departures and arrivals levels. The new airport fits in along the eastwest extension to the previous four modules (A, B, C and D) and the junction with the TGV-RER railway line.

er vastità e tipo di configurazione compositiva, il complesso aeroportuale di Roissy è un vero e proprio paesaggio artificiale, un luogo in cui si confrontano, ad armi pari, architettura e territorio, ovvero: natura e artificio. Esperto di progettazione di grandi aeroporti (fra gli altri, ha progettato quelli di Giakarta, di Osaka e di Nizza), Paul Andreu, nelle sue realizzazioni, oltre alla parte ingegneristica, cura con particolare attenzione anche gli aspetti emozionali che l’architettura è in grado di creare quando punta sull’innovazione. Nell’intervento a Roissy, grazie alla particolare concezione delle “penisole” d’imbarco, l’alternarsi di materia e di luce gioca un ruolo primario. Il progetto, sviluppato da RFR quando c’era ancora Peter Rice, poi scomparso prematuramente, presenta una soluzione di raffinata fattura ingegneristica per le parti strutturali, grazie alla modellizzazione computerizzata, ma che dimostra anche grande sensibilità nel trattamento della luce naturale. Un sistema frangisole, composto di lamelle forate in grado di filtrare e attenuare i raggi solari, permette di proteggere l’interno senza precludere il passaggio della luce. La copertura è quindi una superficie mutevole, che secondo il punto di osservazione presenta diversi gradi di opacità o di trasparenza. L’intervento a Roissy riguarda la realizzazione del nuovo Terminal F2 quale ampliamento dell’aeroporto Charles De Gaulle, di cui Andreu seguì la realizzazione alcuni decenni fa. Data l’importanza dello scalo, il complesso aeroportuale si confronta con aeroporti internazionali come il Kansai Airport, progettato da Renzo Piano e con l’Hong Kong

Airport, realizzato su progetto di Norman Foster. Contrariamente ai due grandi scali intercontinentali, Roissy presenta accentuate differenze, grazie a rotondità e accentuate contrapposizioni materiche che segnano le diverse destinazioni funzionali degli edifici. La parte cosiddetta land side, quella aperta a tutti, dove si effettua il check-in, è un volume in cemento dall’aspetto austero rivolto verso la città, mentre la struttura prossima alla fase d’imbarco è caratterizzata dalla leggerezza e dalla trasparenza, permettendo così ai viaggiatori l’osservazione diretta sull’area destinata al volo, una veduta in cui il mondo tecnologico si confronta con il paesaggio naturale. La differenziazione tra corpi materici e una superficie immateriale come il vetro gioca un importante ruolo, sia come orientamento per chi transita a terra, sia come percezione visiva dall’alto. In quest’ultimo caso, la connotazione planimetrica percepibile durante la fase di volo precedente l’atterraggio è il dato che definisce con maggiore completezza il ruolo dell’aeroporto quale moderna porta d’accesso alla città. In realtà i grandi aeroporti, per la loro notevole estensione e complessità, costituiscono un segno forte nel territorio in quanto, oltre al nucleo aeroportuale vero e proprio, sono spesso generatori di nuove reti infrastrutturali come ferrovie e autostrade a grande traffico. L’aumento costante dell’intensità del traffico passeggeri fa degli aeroporti, oltre che straordinarie macchine logistiche, importanti poli di scambio, quindi ottime occasioni per creare strutture che quando puntano su un’immagine forte e innovativa costituiscono grossi veicoli di “comunicazione culturale”.


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oissy Airport’s design layout and size make an impressive manmade landscape, a place where architecture and environment (or rather artifice and nature) face each other on an even standing. An expert in designing large airports (such as those in Jakarta, Osaka and Nice), Paul Andreu does not just focus on the engineering aspect, his designs also pay careful attention to the emotions architecture is capable of evoking when it is designed around innovation. Thanks to the unique design of the passenger boarding “peninsulas,” the Roissy project allows the alternation of material and light to play a key role. The project developed by RFR while Peter Rice was there (before his untimely death) works around elegant structural features drawing on computer modeling, and also shows great sensitivity in handling natural light. A sunblind system made of perforated shutter blades capable of filtering through and toning down the sun’s rays protect the interior without blocking out all the light. The roof is therefore an ever-changing surface with different degrees of opacity and transparency depending on the position from which it is viewed. The Roissy project concerns the construction of the new Terminal F2 as an extension to Charles De Gaulle Airport, designed by Andreu himself a few decades earlier. Given the importance of this airport, the complex must inevitably confront the likes of Kansai Airport designed by Renzo Piano and Hong Kong Airport designed by Norman Foster. In contrast with these two major intercontinental airports, Roissy differs due to its rotundity and accentuated contrasts between differing materials marking the different purposes the various buildings serve. The land side of the project, where passengers check in, is an austere-looking cement structure facing the city, while the building near the boarding area is much lighter and more transparent, providing passengers with a direct view of the flight area, a view of where technology meets nature. The distinction between material bodies and an immaterial surface like glass plays a key role in guiding passengers in transit and opening up vistas that can be viewed from above. In this latter case, the view of the building layout that can be seen just before landing is a distinctive feature of a modern airport’s role as a gateway to a city. The expansion and complexity of large airports make them important landmarks as, in addition to the airport complex itself, they also generate new infrastructure networks such as busy motorways and railways. The constantly increasing number of passengers make airports important points of interchange, as well as incredibly effective logistical mechanisms, providing excellent opportunities to create structures that, when focusing on a powerful new image, function as a major means of “cultural communication.”

Pagina precedente, l’area d’attesa dei passeggeri. In questa pagina, spazi relativi alle partenze e agli arrivi. Pagine seguenti, il corpo principale dove sono organizzati i due livelli delle partenze e degli arrivi e quello intermedio destinato ai passeggeri in transito. Previous page, the passenger waiting area. This page, spaces serving the departures and arrivals areas. Following pages, the main section housing the departures and arrivals levels and the intermediate level serving passengers in transit.

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oissy Airport’s design layout and size make an impressive manmade landscape, a place where architecture and environment (or rather artifice and nature) face each other on an even standing. An expert in designing large airports (such as those in Jakarta, Osaka and Nice), Paul Andreu does not just focus on the engineering aspect, his designs also pay careful attention to the emotions architecture is capable of evoking when it is designed around innovation. Thanks to the unique design of the passenger boarding “peninsulas,” the Roissy project allows the alternation of material and light to play a key role. The project developed by RFR while Peter Rice was there (before his untimely death) works around elegant structural features drawing on computer modeling, and also shows great sensitivity in handling natural light. A sunblind system made of perforated shutter blades capable of filtering through and toning down the sun’s rays protect the interior without blocking out all the light. The roof is therefore an ever-changing surface with different degrees of opacity and transparency depending on the position from which it is viewed. The Roissy project concerns the construction of the new Terminal F2 as an extension to Charles De Gaulle Airport, designed by Andreu himself a few decades earlier. Given the importance of this airport, the complex must inevitably confront the likes of Kansai Airport designed by Renzo Piano and Hong Kong Airport designed by Norman Foster. In contrast with these two major intercontinental airports, Roissy differs due to its rotundity and accentuated contrasts between differing materials marking the different purposes the various buildings serve. The land side of the project, where passengers check in, is an austere-looking cement structure facing the city, while the building near the boarding area is much lighter and more transparent, providing passengers with a direct view of the flight area, a view of where technology meets nature. The distinction between material bodies and an immaterial surface like glass plays a key role in guiding passengers in transit and opening up vistas that can be viewed from above. In this latter case, the view of the building layout that can be seen just before landing is a distinctive feature of a modern airport’s role as a gateway to a city. The expansion and complexity of large airports make them important landmarks as, in addition to the airport complex itself, they also generate new infrastructure networks such as busy motorways and railways. The constantly increasing number of passengers make airports important points of interchange, as well as incredibly effective logistical mechanisms, providing excellent opportunities to create structures that, when focusing on a powerful new image, function as a major means of “cultural communication.”

Pagina precedente, l’area d’attesa dei passeggeri. In questa pagina, spazi relativi alle partenze e agli arrivi. Pagine seguenti, il corpo principale dove sono organizzati i due livelli delle partenze e degli arrivi e quello intermedio destinato ai passeggeri in transito. Previous page, the passenger waiting area. This page, spaces serving the departures and arrivals areas. Following pages, the main section housing the departures and arrivals levels and the intermediate level serving passengers in transit.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

L’utopia degli scambi The Utopia of Trade Amsterdam, World Trade Center Amsterdam, World Trade Center Progetto di Benthem Crouwel NACO Project by Benthem Crouwel NACO

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Ingresso e atrio del nuovo WTC, realizzato presso l’aeroporto internazionale di Amsterdam Schiphol come supporto logistico. Entrance and lobby of the new WTC built inside Schiphol International Airport, Amsterdam, as a logistics facility.

a più parti si sostiene che nell’era delle comunicazioni di massa non esistano più regole sicure sull’etica dello spazio, ovvero l’architettura, globalizzandosi, sembra aver perso la sua originaria carica di strumento sensibile, di cartina di tornasole per misurare il tasso di bellezza dell’ambiente costruito. La perdita d’identità è il dato comune dei paesaggi urbani contemporanei, e l’omologazione è un segno dell’assenza della bellezza poiché manca la materia del confronto. In uno scenario dove tutto sembra destinato a soccombere alla non-bellezza, vi sono tuttavia alcune isole felici in cui la bellezza non ha ancora definitivamente abdicato. Il World Trade Center di Amsterdam è, infatti, un esempio di come l’architettura abbia a disposizione un efficace sistema immunitario in grado di assicurarle un minimo di decenza formale. Per ottenere un antivirus abbastanza vigoroso, a volte basterebbe affidarsi alla tecnologia delle costruzioni in metallo. Un’architettura realizzata sostanzialmente in ferro e vetro suggerisce un’idea di leggerezza e quindi di effimero, di transitorio e assicurerebbe un minimo impatto sull’ambiente. Ciò che si può facilmente smontare, sollecita il cambiamento, quindi fornirebbe l’occasione per costruire strutture con una maggiore qualità della volta precedente. La nuova struttura, realizzata fra il 1999 e il 2000, rappresenta l’ultima fase prevista per il completamento dell’Amsterdam Airport Schiphol, progettato sempre da Benthem Crouwel NACO. L’intervento consiste nella realizzazione di una struttura comprendente la stazione

ferroviaria che collega la capitale olandese con Bruxelles e Parigi, un grande parcheggio, alcuni alberghi e il World Trade Center, suddiviso in otto edifici per uffici. Si tratta quindi di una porzione di città ad alto tasso di specializzazione poiché al suo interno il complesso include ambienti di ricevimento, sale conferenze, negozi, banche e aree destinate agli incontri. È dunque espressione eclatante di quella modernità che ha prodotto nuovi territori di scambio, spazi della civiltà globalizzata, ovvero i “non-luoghi”, come li ha definiti l’antropologo Marc Augé: “Il mondo della globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del passaggio e della circolazione, e ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati (aggiungerei volentieri alla lista anche le basi di lancio missilistiche) sono dei non-luoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie” (da Narrazione, viaggio, alterità, relazione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna). Se il non-luogo è, in sintesi, uno spazio privo d’identità, la ricerca di segni identitari sembrerebbe dunque un percorso possibile per risolvere il problema. Ma da dove partire per iniziare con una minima probabilità di successo? Forse, dall’utopia? Richard Buckminster Fuller sosteneva che “il mondo è troppo pericoloso per qualsiasi cosa, meno che per l’utopia”.

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Planimetria generale e atrio del terzo livello. Site plan and third-floor lobby.


LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

L’utopia degli scambi The Utopia of Trade Amsterdam, World Trade Center Amsterdam, World Trade Center Progetto di Benthem Crouwel NACO Project by Benthem Crouwel NACO

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Ingresso e atrio del nuovo WTC, realizzato presso l’aeroporto internazionale di Amsterdam Schiphol come supporto logistico. Entrance and lobby of the new WTC built inside Schiphol International Airport, Amsterdam, as a logistics facility.

a più parti si sostiene che nell’era delle comunicazioni di massa non esistano più regole sicure sull’etica dello spazio, ovvero l’architettura, globalizzandosi, sembra aver perso la sua originaria carica di strumento sensibile, di cartina di tornasole per misurare il tasso di bellezza dell’ambiente costruito. La perdita d’identità è il dato comune dei paesaggi urbani contemporanei, e l’omologazione è un segno dell’assenza della bellezza poiché manca la materia del confronto. In uno scenario dove tutto sembra destinato a soccombere alla non-bellezza, vi sono tuttavia alcune isole felici in cui la bellezza non ha ancora definitivamente abdicato. Il World Trade Center di Amsterdam è, infatti, un esempio di come l’architettura abbia a disposizione un efficace sistema immunitario in grado di assicurarle un minimo di decenza formale. Per ottenere un antivirus abbastanza vigoroso, a volte basterebbe affidarsi alla tecnologia delle costruzioni in metallo. Un’architettura realizzata sostanzialmente in ferro e vetro suggerisce un’idea di leggerezza e quindi di effimero, di transitorio e assicurerebbe un minimo impatto sull’ambiente. Ciò che si può facilmente smontare, sollecita il cambiamento, quindi fornirebbe l’occasione per costruire strutture con una maggiore qualità della volta precedente. La nuova struttura, realizzata fra il 1999 e il 2000, rappresenta l’ultima fase prevista per il completamento dell’Amsterdam Airport Schiphol, progettato sempre da Benthem Crouwel NACO. L’intervento consiste nella realizzazione di una struttura comprendente la stazione

ferroviaria che collega la capitale olandese con Bruxelles e Parigi, un grande parcheggio, alcuni alberghi e il World Trade Center, suddiviso in otto edifici per uffici. Si tratta quindi di una porzione di città ad alto tasso di specializzazione poiché al suo interno il complesso include ambienti di ricevimento, sale conferenze, negozi, banche e aree destinate agli incontri. È dunque espressione eclatante di quella modernità che ha prodotto nuovi territori di scambio, spazi della civiltà globalizzata, ovvero i “non-luoghi”, come li ha definiti l’antropologo Marc Augé: “Il mondo della globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del passaggio e della circolazione, e ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati (aggiungerei volentieri alla lista anche le basi di lancio missilistiche) sono dei non-luoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie” (da Narrazione, viaggio, alterità, relazione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna). Se il non-luogo è, in sintesi, uno spazio privo d’identità, la ricerca di segni identitari sembrerebbe dunque un percorso possibile per risolvere il problema. Ma da dove partire per iniziare con una minima probabilità di successo? Forse, dall’utopia? Richard Buckminster Fuller sosteneva che “il mondo è troppo pericoloso per qualsiasi cosa, meno che per l’utopia”.

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Planimetria generale e atrio del terzo livello. Site plan and third-floor lobby.


Atrio di ingresso al secondo piano. Entrance lobby on the second floor.

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Sezione trasversale e longitudinale. Cross section and longitudinal section.

M

any people claim that in an age of mass communication there are no longer any defining rules governing the ethics of space or in other words architecture. As standards have globalized architecture has lost some of its original force as a yardstick for gauging the beauty of the built environment. Loss of identity is the real leitmotif of modern-day cityscapes and indistinctiveness is a sign of a certain lack of beauty due to the absence of any means of comparison. In an environment where everything seems destined to give way to non-beauty, there are still some examples of outstanding beauty that have refused to abdicate once and for all. The World Trade Center in Amsterdam is an example of how architecture is still blessed with an effective immune system capable of providing at least minimal stylistic decency. To find a reasonably strong antivirus, we need only turn to the technology used for metallic constructions. Architecture using mainly iron and glass creates a sense of lightness, impermanence and transience, with little environmental impact. What can be easily dismantled, encourages change and hence would provide the chance to build structures of a better quality than in the past. This new facility, built between 1999-2000, is the last phase envisaged in the completion of Schiphol Airport, Amsterdam, also designed by Benthem Crouwel NACO. The project involves a structure encompassing the

railway station that connects the Dutch capital to Brussels and Paris, a large car park, several hotels and the World Trade Center divided into eight office buildings. This is a highly specialized corner of the city: the inside of the complex houses reception rooms, conference halls, shops, banks and meeting areas. This makes it a striking example of the kind of modernity that has produced new areas of exchange, places of globalized civilization or “non-places” as Marc Augé called them: “The world of economic and technological globalization is the world of passage and circulation, and its background is consumerism. Airports, hotel chains, motorways and supermarkets (I’d also gladly add missile launch pads to the list) are non-places in as much as their main vocation is not territorial, they are not designed to create individual identities, symbolic relations or common wealth but rather to make circulation easier (and hence consumerism) in a world of planetary dimensions.” (From Narration, voyage, altérité, a publication circulated at a seminar held at the University of Bologna's Superior School of Human Studies.) If, in brief, a non-place is a space with no identity, the quest for identifying signs would seem to be a possible means of solving the problem. But where do we start to have even a minimum chance of success? Perhaps from utopia? Richard Buckminster Fuller claimed that “the world is too dangerous for anything; except for utopia.”

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Atrio di ingresso al secondo piano. Entrance lobby on the second floor.

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Sezione trasversale e longitudinale. Cross section and longitudinal section.

M

any people claim that in an age of mass communication there are no longer any defining rules governing the ethics of space or in other words architecture. As standards have globalized architecture has lost some of its original force as a yardstick for gauging the beauty of the built environment. Loss of identity is the real leitmotif of modern-day cityscapes and indistinctiveness is a sign of a certain lack of beauty due to the absence of any means of comparison. In an environment where everything seems destined to give way to non-beauty, there are still some examples of outstanding beauty that have refused to abdicate once and for all. The World Trade Center in Amsterdam is an example of how architecture is still blessed with an effective immune system capable of providing at least minimal stylistic decency. To find a reasonably strong antivirus, we need only turn to the technology used for metallic constructions. Architecture using mainly iron and glass creates a sense of lightness, impermanence and transience, with little environmental impact. What can be easily dismantled, encourages change and hence would provide the chance to build structures of a better quality than in the past. This new facility, built between 1999-2000, is the last phase envisaged in the completion of Schiphol Airport, Amsterdam, also designed by Benthem Crouwel NACO. The project involves a structure encompassing the

railway station that connects the Dutch capital to Brussels and Paris, a large car park, several hotels and the World Trade Center divided into eight office buildings. This is a highly specialized corner of the city: the inside of the complex houses reception rooms, conference halls, shops, banks and meeting areas. This makes it a striking example of the kind of modernity that has produced new areas of exchange, places of globalized civilization or “non-places” as Marc Augé called them: “The world of economic and technological globalization is the world of passage and circulation, and its background is consumerism. Airports, hotel chains, motorways and supermarkets (I’d also gladly add missile launch pads to the list) are non-places in as much as their main vocation is not territorial, they are not designed to create individual identities, symbolic relations or common wealth but rather to make circulation easier (and hence consumerism) in a world of planetary dimensions.” (From Narration, voyage, altérité, a publication circulated at a seminar held at the University of Bologna's Superior School of Human Studies.) If, in brief, a non-place is a space with no identity, the quest for identifying signs would seem to be a possible means of solving the problem. But where do we start to have even a minimum chance of success? Perhaps from utopia? Richard Buckminster Fuller claimed that “the world is too dangerous for anything; except for utopia.”

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Corridoio di arrivo degli ascensori.

Interno della grande vetrata.

Lift corridor.

Inside the large glass section.

Atrio del terzo piano.

Grande atrio centrale a tutta altezza con le installazioni dell’artista statunitense Dale Chihuly.

Third-floor lobby.

Huge full-height central lobby showing the installations by the American artist Dale Chihuly.

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Corridoio di arrivo degli ascensori.

Interno della grande vetrata.

Lift corridor.

Inside the large glass section.

Atrio del terzo piano.

Grande atrio centrale a tutta altezza con le installazioni dell’artista statunitense Dale Chihuly.

Third-floor lobby.

Huge full-height central lobby showing the installations by the American artist Dale Chihuly.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Movimento radiante Radiant Motion

Pianta del terzo livello e sezione est-ovest. Plan of the third level and east-west section.

Dortmund, Nuova Stazione Centrale Dortmund, New Central Station Progetto di BRT Architekten Project by BRT Architekten

F

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Sezione nord-sud. North-south section.

ra le tante definizioni che tentano di esprimere sinteticamente lo spazio urbano, una delle più concise e pregnanti è: la città è umana mentre la metropoli è disumana. L’aforisma è senza dubbio efficace, ma il concetto andrebbe approfondito attraverso alcune riflessioni. Disumana, perché? Il rapido sviluppo delle metropoli sembra non coincidere con i desiderata dell’individuo, poiché l’enorme quantità di nuove costruzioni sembra sempre più orientata a soddisfare le necessità della collettività. Sembra ormai che l’habitat metropolitano si autogeneri per clonazione, obbedendo solo a leggi interne, la cui unica finalità è l’autoproduzione/autoconsumo. Insomma, la metropoli sembra ignorare le emozioni e i desideri dell’individuo. Se tutto ciò corrisponde a verità, è necessario porsi con urgenza il problema del vivere collettivo non solo per risolvere gli aspetti tecnici dell’abitare ma soprattutto per riflettere sul come gestire l’immaginario metropolitano, dal momento che è proprio l’immagine della metropoli a subire la crisi più profonda e radicale. La post-metropoli sembra, infatti, produrre un immaginario sempre più ripetitivo e di conseguenza senza qualità. L’immaginario ha un nemico inesorabile, che si evidenzia soprattutto nell’astrazione espressa dal rigore classicista della triade vitruviana utilitas, firmitas, venustas che ha in gran parte condizionato la cultura architettonica occidentale. Il progetto per la realizzazione della nuova Stazione Centrale di Dortmund propone un’astronave metropolitana per legittimarla come simbolo di architettura

del futuro. Ricreando un set per film di fantascienza a scala urbana, l’astronave-stazione azzera l’immagine dell’intorno, trasformando un brano di città in un semplice accumulo di volumi, destinati a svolgere determinate funzioni ma non a essere una porzione di città. Solo il tempo potrà stabilire definitivamente se si trattava di un’operazione kitsch, oppure di un percorso capace d’innescare nuovi orizzonti progettuali. Suddivisa in otto livelli, la nuova struttura accoglie più o meno tutte le funzioni urbane: dalla residenza temporanea al commercio, dalle attività sportive e per il tempo libero a quelle culturali, dai servizi ai parcheggi interrati. Posto al di sopra del sedime ferroviario, il complesso oltre a porsi come grande scambiatore è anche un passaggio di attraversamento in grado di collegare, in direzione nord-sud, due zone urbane interrotte dalla cesura operata dai binari della ferrovia. La forma oblunga dell’atrio posto al centro dell’edificio, oltre a essere in asse con la passerella pedonale esterna che corre sulla ferrovia, è anche un segno ordinatore dei flussi interni relativi alla grande piazza coperta su cui si affacciano gli spazi e i percorsi relativi alla funzionalità degli ambienti. Simile a un gigantesco multisala Omnimax, con un diametro di 240 metri, una volta realizzata, la nuova stazione centrale – simbolo delle mutate condizioni socio-ambientali delle regioni della Rheinland e della Ruhr – diverrà uno straordinario moltiplicatore di presenze turistiche, attirate dal clamore mediatico che nasce sempre in simili occasioni.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Movimento radiante Radiant Motion

Pianta del terzo livello e sezione est-ovest. Plan of the third level and east-west section.

Dortmund, Nuova Stazione Centrale Dortmund, New Central Station Progetto di BRT Architekten Project by BRT Architekten

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Sezione nord-sud. North-south section.

ra le tante definizioni che tentano di esprimere sinteticamente lo spazio urbano, una delle più concise e pregnanti è: la città è umana mentre la metropoli è disumana. L’aforisma è senza dubbio efficace, ma il concetto andrebbe approfondito attraverso alcune riflessioni. Disumana, perché? Il rapido sviluppo delle metropoli sembra non coincidere con i desiderata dell’individuo, poiché l’enorme quantità di nuove costruzioni sembra sempre più orientata a soddisfare le necessità della collettività. Sembra ormai che l’habitat metropolitano si autogeneri per clonazione, obbedendo solo a leggi interne, la cui unica finalità è l’autoproduzione/autoconsumo. Insomma, la metropoli sembra ignorare le emozioni e i desideri dell’individuo. Se tutto ciò corrisponde a verità, è necessario porsi con urgenza il problema del vivere collettivo non solo per risolvere gli aspetti tecnici dell’abitare ma soprattutto per riflettere sul come gestire l’immaginario metropolitano, dal momento che è proprio l’immagine della metropoli a subire la crisi più profonda e radicale. La post-metropoli sembra, infatti, produrre un immaginario sempre più ripetitivo e di conseguenza senza qualità. L’immaginario ha un nemico inesorabile, che si evidenzia soprattutto nell’astrazione espressa dal rigore classicista della triade vitruviana utilitas, firmitas, venustas che ha in gran parte condizionato la cultura architettonica occidentale. Il progetto per la realizzazione della nuova Stazione Centrale di Dortmund propone un’astronave metropolitana per legittimarla come simbolo di architettura

del futuro. Ricreando un set per film di fantascienza a scala urbana, l’astronave-stazione azzera l’immagine dell’intorno, trasformando un brano di città in un semplice accumulo di volumi, destinati a svolgere determinate funzioni ma non a essere una porzione di città. Solo il tempo potrà stabilire definitivamente se si trattava di un’operazione kitsch, oppure di un percorso capace d’innescare nuovi orizzonti progettuali. Suddivisa in otto livelli, la nuova struttura accoglie più o meno tutte le funzioni urbane: dalla residenza temporanea al commercio, dalle attività sportive e per il tempo libero a quelle culturali, dai servizi ai parcheggi interrati. Posto al di sopra del sedime ferroviario, il complesso oltre a porsi come grande scambiatore è anche un passaggio di attraversamento in grado di collegare, in direzione nord-sud, due zone urbane interrotte dalla cesura operata dai binari della ferrovia. La forma oblunga dell’atrio posto al centro dell’edificio, oltre a essere in asse con la passerella pedonale esterna che corre sulla ferrovia, è anche un segno ordinatore dei flussi interni relativi alla grande piazza coperta su cui si affacciano gli spazi e i percorsi relativi alla funzionalità degli ambienti. Simile a un gigantesco multisala Omnimax, con un diametro di 240 metri, una volta realizzata, la nuova stazione centrale – simbolo delle mutate condizioni socio-ambientali delle regioni della Rheinland e della Ruhr – diverrà uno straordinario moltiplicatore di presenze turistiche, attirate dal clamore mediatico che nasce sempre in simili occasioni.

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A destra, planimetria generale; rendering del grande disco sospeso, del diametro di 240 m. Pagina a fianco, in alto, fotomontaggio e rendering dell’atrio. Right, site plan; rendering of the huge hanging disk measuring 240 meters in diameter. Opposite page, top, photo-montage and rendering of the lobby.

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O

ne of the most precise and concise definitions summing up urban environment reads: the city is humane, whereas the metropolis is inhumane. This is certainly an effective aphorism, but it would be worth supplementing it with a few extra remarks. Why is it inhumane? The sudden growth of metropolises does not seem to cater for people’s individual needs, as the huge quantity of new inner-city constructions appears to be increasingly geared toward the community’s requirements. It is as though the metropolitan habitat is now capable of self-reproduction through cloning, only obeying its own internal laws whose sole aim is self-production/self-consumption. In other words, the metropolis seems to ignore the feelings and desires of the individual. If this happens to be true, we need to face up to the problem of communal life on a vast scale, not just deal with the technical aspects of dwellings but also reflect on how to handle the question of its image, as it is the metropolis’s image that will likely suffer the real and most radical crisis. The imagery produced by the post-metropolis is one of repetitiveness and hence totally lacking in quality. The imagery has an unrelenting enemy that is most obvious in the abstraction expressed by the classicist rigor of the Vitruvian triad utilitas, firmitas, venustas (utility, stability, beauty), which has exercised a notable influence on western architectural culture. The project to design the new Dortmund Central Station is designed around the idea of a metropolitan spaceship to make it an authentic symbol of the architecture of the future. By re-creating a science fiction film set on an urban scale, the spaceship-station eclipses its surroundings, turning a part of the city into a simple mass of structures serving specific purposes but not constituting a portion of the city. Only time will really tell whether this is a piece of kitsch or whether it is actually a path capable of opening up new horizons for design. Divided over eight levels, the new station serves almost every imaginable urban purpose: from temporary housing to trade, from sports-leisure activities to cultural events, from utilities to underground car parks. Situated above the old railway line, the complex will be a major junction and a crossing point providing a northsouth connection between two urban zones separated by the railway tracks. As well as being on the same axis of the external pedestrian walkway running over the railway, the oblongshaped lobby in the middle of the building also helps distribute internal flows around the covered main plaza lined with zones and corridors serving the various parts of the premises. Like some huge Omnimax multi-screen film complex with a diameter of two-hundred and forty meters, once the new central station has been built— symbolizing changes in the socio-environmental conditions in the Rhineland and Ruhr regions—it will no doubt encourage tourism in the area, attracted by the media attention that surrounds such landmarks.

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A destra, planimetria generale; rendering del grande disco sospeso, del diametro di 240 m. Pagina a fianco, in alto, fotomontaggio e rendering dell’atrio. Right, site plan; rendering of the huge hanging disk measuring 240 meters in diameter. Opposite page, top, photo-montage and rendering of the lobby.

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O

ne of the most precise and concise definitions summing up urban environment reads: the city is humane, whereas the metropolis is inhumane. This is certainly an effective aphorism, but it would be worth supplementing it with a few extra remarks. Why is it inhumane? The sudden growth of metropolises does not seem to cater for people’s individual needs, as the huge quantity of new inner-city constructions appears to be increasingly geared toward the community’s requirements. It is as though the metropolitan habitat is now capable of self-reproduction through cloning, only obeying its own internal laws whose sole aim is self-production/self-consumption. In other words, the metropolis seems to ignore the feelings and desires of the individual. If this happens to be true, we need to face up to the problem of communal life on a vast scale, not just deal with the technical aspects of dwellings but also reflect on how to handle the question of its image, as it is the metropolis’s image that will likely suffer the real and most radical crisis. The imagery produced by the post-metropolis is one of repetitiveness and hence totally lacking in quality. The imagery has an unrelenting enemy that is most obvious in the abstraction expressed by the classicist rigor of the Vitruvian triad utilitas, firmitas, venustas (utility, stability, beauty), which has exercised a notable influence on western architectural culture. The project to design the new Dortmund Central Station is designed around the idea of a metropolitan spaceship to make it an authentic symbol of the architecture of the future. By re-creating a science fiction film set on an urban scale, the spaceship-station eclipses its surroundings, turning a part of the city into a simple mass of structures serving specific purposes but not constituting a portion of the city. Only time will really tell whether this is a piece of kitsch or whether it is actually a path capable of opening up new horizons for design. Divided over eight levels, the new station serves almost every imaginable urban purpose: from temporary housing to trade, from sports-leisure activities to cultural events, from utilities to underground car parks. Situated above the old railway line, the complex will be a major junction and a crossing point providing a northsouth connection between two urban zones separated by the railway tracks. As well as being on the same axis of the external pedestrian walkway running over the railway, the oblongshaped lobby in the middle of the building also helps distribute internal flows around the covered main plaza lined with zones and corridors serving the various parts of the premises. Like some huge Omnimax multi-screen film complex with a diameter of two-hundred and forty meters, once the new central station has been built— symbolizing changes in the socio-environmental conditions in the Rhineland and Ruhr regions—it will no doubt encourage tourism in the area, attracted by the media attention that surrounds such landmarks.

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Particolare del grande atrio con la passerella pedonale che lo collega direttamente all’esterno e al centro della città . Detail of the large lobby showing the footpath connecting it directly to the outside and city center.

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Particolare del grande atrio con la passerella pedonale che lo collega direttamente all’esterno e al centro della città . Detail of the large lobby showing the footpath connecting it directly to the outside and city center.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Viaggio e creatività Travel and Creativity Leuven, la nuova stazione ferroviaria Leuven, the New Railway Station Progetto di Samyn & Partners Project by Samyn & Partners

L’

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Modello: il progetto, vincitore di un concorso internazionale, fa parte di un più ampio programma di rinnovo della stazione esistente e dei suoi immediati dintorni. Model of the winning project in an international tender that is part of more extensive redevelopment plans for the old station and its surroundings.

architettura è un sistema produttivo complesso, in cui è necessario far convivere armoniosamente grandi capitali, contrattazioni con le amministrazioni e istanze creative del progettista. La sfaccettata cultura di cui è permeata la proietta in situazioni dove è prevista anche l’assenza di qualità. Che fare per evitare di disseminare strutture che poco hanno da spartire con l’architettura e molto da condividere con la semplice edilizia? Se l’edilizia si identifica nella reiterazione meccanica di schemi costruttivi consolidati, il progetto per la nuova stazione di Leuven si pone completamente fuori da tale categoria, poiché, pur rispecchiando in parte l’iconografia della stazione nata a cavallo fra Ottocento e Novecento, ripropone varianti ricche di invenzioni linguistiche e di innovative soluzioni strutturali. Il tutto con la consapevolezza che è fondamentale un giusto equilibrio fra tecnica e linguaggio. L’evoluzione delle tecniche costruttive intesa come unico percorso non è in grado di assicurare un’architettura esente da quel narcisismo high-tech che in passato ha prodotto vere e proprie mostruosità tecnologiche, la cui rimozione è auspicata da più parti. Il programma di progetto prevede il recupero e la riorganizzazione di una vasta superficie intorno alla stazione ferroviaria. L’iniziativa dell’amministrazione delle ferrovie belghe offre l’occasione alla città di recuperare grandi aree da destinare a nuove funzioni per la collettività di Leuven, città fiamminga che conta circa 65.000 abitanti, cui si aggiungono 35.000 studenti, in massima parte pendolari. Una città, dunque, dove è costante la necessità di offrire ai cittadini spazi e adeguate infrastrutture.

Il gruppo di progettazione coordinato da Philippe Samyn risulta vincitore di un concorso a inviti in cui sono selezionati sei progettisti, fra cui Santiago Calatrava e Richard Rogers. Raffinata nell’equilibrio compositivo, la proposta di Samyn si relaziona alla scala del contesto, una zona di elevata complessità come lo sono tutte quelle in cui grandi opere infrastrutturali creano forti cesure nel tessuto urbano. Una complessità il cui nodo fondamentale da risolvere è come organizzare due diverse identità urbane: la zona storica di Leuven e la periferia oltre il percorso ferroviario. Recuperando l’immaginario delle antiche stazioni dei primi del Novecento, con le loro strutture in ferro caratterizzate da grandi arcate, l’intervento ricorda l’essenzialità e la coerenza strutturale ottenuta dagli ingegneri del passato grazie alla perfetta conoscenza e al rigore nell’applicazione delle regole costruttive. Punto focale dell’intera composizione, la grande copertura, da realizzare attraverso una sequenza di arcate appoggiate l'una alle altre. La dimensione ragguardevole della copertura voltata diviene il rapporto di scala cui si misura l’intero complesso. Le due realtà urbane, composte dalla parte storica della città e dalla zona in divenire rappresentata dalla periferia, hanno nel ponte coperto pedonale un elemento di connessione caratterizzato da una leggerezza esemplare. Di grande raffinatezza appare anche il sistema strutturale generale attuato attraverso una serie di pilastri in acciaio che si dividono in puntoni obliqui, in grado di scaricare a terra il peso delle volte e contemporaneamente contrastare le spinte laterali.

A

rchitecture is a complex production system calling for a smoothly balanced combination of major capital, contracts with administration bodies, and the creative requirements of the architectural designer. Its multi-faceted cultural nature projects it into situations where quality is bound to be missing. So what can be done to prevent construction that has little or nothing to do with architecture and plenty in common with ad hoc building for its own sake? If ad hoc building were to be described as the mechanical reiteration of well-established construction schemes, then the project for the new Leuven Station is in a completely different category, since, while partly mirroring the iconography typical of railway stations built at the turn of the nineteenth-twentieth centuries, it features its own highly distinctive stylistic touches and innovative structural designs. All with a keen awareness of the need for just the right balance between technology and style. Developments in building methods are not enough on their own to produce works of architecture free from the kind of high-tech narcissism that resulted in some real technological monstrosities in the past, which many of us hope will soon be blotted off the landscape. The project brief referred to the redevelopment and reorganization of a huge area around the railway station. The Belgian Railway Board has given the city the chance to salvage large areas for fresh purposes to serve the people of Leuven, a Flemish city with a population of about 65 thousand, plus an additional 35 thousand students, mainly commuting. This makes it a city with a

constant need to provide its local community with adequate space and infrastructure. The design team headed by Philippe Samyn won an invitational tender, whose six finalists included Santiago Calatrava and Richard Rogers. Samyn’s elegantly balanced design relates to the scale of its surroundings, a highly intricate area like all those where major infrastructures cause major rips in the urban fabric. The most tricky aspect of all this intricacy concerns the identity of two different urban areas: old Leuven city center and the suburbs over on the other side of the railway line. Drawing on the popular imagery surrounding the old early-20th century stations with their iron structures with wide arches, the design evokes the structural simplicity and coherence that engineers used in the past thanks to their meticulous knowledge and precision in applying construction rules. The roof, which is the focal point of the whole design, is planned to be constructed around a sequence of arches resting against each other. The sheer size of the vaulted roof sets the scale of the entire complex. The two parts of the cityscape, composed of the old city neighborhood and a developing suburban area, are connected by a covered footbridge designed with exemplary lightness. Refined elegance distinguishes also the overall structural engineering system based on a series of steel columns divided into oblique rafters capable of dispersing the weight of the vaults into the ground and, at the same time, contrasting lateral thrust.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Viaggio e creatività Travel and Creativity Leuven, la nuova stazione ferroviaria Leuven, the New Railway Station Progetto di Samyn & Partners Project by Samyn & Partners

L’

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Modello: il progetto, vincitore di un concorso internazionale, fa parte di un più ampio programma di rinnovo della stazione esistente e dei suoi immediati dintorni. Model of the winning project in an international tender that is part of more extensive redevelopment plans for the old station and its surroundings.

architettura è un sistema produttivo complesso, in cui è necessario far convivere armoniosamente grandi capitali, contrattazioni con le amministrazioni e istanze creative del progettista. La sfaccettata cultura di cui è permeata la proietta in situazioni dove è prevista anche l’assenza di qualità. Che fare per evitare di disseminare strutture che poco hanno da spartire con l’architettura e molto da condividere con la semplice edilizia? Se l’edilizia si identifica nella reiterazione meccanica di schemi costruttivi consolidati, il progetto per la nuova stazione di Leuven si pone completamente fuori da tale categoria, poiché, pur rispecchiando in parte l’iconografia della stazione nata a cavallo fra Ottocento e Novecento, ripropone varianti ricche di invenzioni linguistiche e di innovative soluzioni strutturali. Il tutto con la consapevolezza che è fondamentale un giusto equilibrio fra tecnica e linguaggio. L’evoluzione delle tecniche costruttive intesa come unico percorso non è in grado di assicurare un’architettura esente da quel narcisismo high-tech che in passato ha prodotto vere e proprie mostruosità tecnologiche, la cui rimozione è auspicata da più parti. Il programma di progetto prevede il recupero e la riorganizzazione di una vasta superficie intorno alla stazione ferroviaria. L’iniziativa dell’amministrazione delle ferrovie belghe offre l’occasione alla città di recuperare grandi aree da destinare a nuove funzioni per la collettività di Leuven, città fiamminga che conta circa 65.000 abitanti, cui si aggiungono 35.000 studenti, in massima parte pendolari. Una città, dunque, dove è costante la necessità di offrire ai cittadini spazi e adeguate infrastrutture.

Il gruppo di progettazione coordinato da Philippe Samyn risulta vincitore di un concorso a inviti in cui sono selezionati sei progettisti, fra cui Santiago Calatrava e Richard Rogers. Raffinata nell’equilibrio compositivo, la proposta di Samyn si relaziona alla scala del contesto, una zona di elevata complessità come lo sono tutte quelle in cui grandi opere infrastrutturali creano forti cesure nel tessuto urbano. Una complessità il cui nodo fondamentale da risolvere è come organizzare due diverse identità urbane: la zona storica di Leuven e la periferia oltre il percorso ferroviario. Recuperando l’immaginario delle antiche stazioni dei primi del Novecento, con le loro strutture in ferro caratterizzate da grandi arcate, l’intervento ricorda l’essenzialità e la coerenza strutturale ottenuta dagli ingegneri del passato grazie alla perfetta conoscenza e al rigore nell’applicazione delle regole costruttive. Punto focale dell’intera composizione, la grande copertura, da realizzare attraverso una sequenza di arcate appoggiate l'una alle altre. La dimensione ragguardevole della copertura voltata diviene il rapporto di scala cui si misura l’intero complesso. Le due realtà urbane, composte dalla parte storica della città e dalla zona in divenire rappresentata dalla periferia, hanno nel ponte coperto pedonale un elemento di connessione caratterizzato da una leggerezza esemplare. Di grande raffinatezza appare anche il sistema strutturale generale attuato attraverso una serie di pilastri in acciaio che si dividono in puntoni obliqui, in grado di scaricare a terra il peso delle volte e contemporaneamente contrastare le spinte laterali.

A

rchitecture is a complex production system calling for a smoothly balanced combination of major capital, contracts with administration bodies, and the creative requirements of the architectural designer. Its multi-faceted cultural nature projects it into situations where quality is bound to be missing. So what can be done to prevent construction that has little or nothing to do with architecture and plenty in common with ad hoc building for its own sake? If ad hoc building were to be described as the mechanical reiteration of well-established construction schemes, then the project for the new Leuven Station is in a completely different category, since, while partly mirroring the iconography typical of railway stations built at the turn of the nineteenth-twentieth centuries, it features its own highly distinctive stylistic touches and innovative structural designs. All with a keen awareness of the need for just the right balance between technology and style. Developments in building methods are not enough on their own to produce works of architecture free from the kind of high-tech narcissism that resulted in some real technological monstrosities in the past, which many of us hope will soon be blotted off the landscape. The project brief referred to the redevelopment and reorganization of a huge area around the railway station. The Belgian Railway Board has given the city the chance to salvage large areas for fresh purposes to serve the people of Leuven, a Flemish city with a population of about 65 thousand, plus an additional 35 thousand students, mainly commuting. This makes it a city with a

constant need to provide its local community with adequate space and infrastructure. The design team headed by Philippe Samyn won an invitational tender, whose six finalists included Santiago Calatrava and Richard Rogers. Samyn’s elegantly balanced design relates to the scale of its surroundings, a highly intricate area like all those where major infrastructures cause major rips in the urban fabric. The most tricky aspect of all this intricacy concerns the identity of two different urban areas: old Leuven city center and the suburbs over on the other side of the railway line. Drawing on the popular imagery surrounding the old early-20th century stations with their iron structures with wide arches, the design evokes the structural simplicity and coherence that engineers used in the past thanks to their meticulous knowledge and precision in applying construction rules. The roof, which is the focal point of the whole design, is planned to be constructed around a sequence of arches resting against each other. The sheer size of the vaulted roof sets the scale of the entire complex. The two parts of the cityscape, composed of the old city neighborhood and a developing suburban area, are connected by a covered footbridge designed with exemplary lightness. Refined elegance distinguishes also the overall structural engineering system based on a series of steel columns divided into oblique rafters capable of dispersing the weight of the vaults into the ground and, at the same time, contrasting lateral thrust.

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Rendering degli interni con la struttura primaria di copertura sostenuta da 25 elementi tubolari formati ciascuno da quattro (parte centrale) o tre colonne inclinate (perimetro) che si incontrano a 7,13 m dal piano dei binari.

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Rendering of the interiors showing the main roof structure supported by 25 tubular elements, each formed of four (central part) or three sloping columns (perimeter), that intersect at 7.13 m from track level.

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Rendering degli interni con la struttura primaria di copertura sostenuta da 25 elementi tubolari formati ciascuno da quattro (parte centrale) o tre colonne inclinate (perimetro) che si incontrano a 7,13 m dal piano dei binari.

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Rendering of the interiors showing the main roof structure supported by 25 tubular elements, each formed of four (central part) or three sloping columns (perimeter), that intersect at 7.13 m from track level.

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Particolari della struttura secondaria, formata da travi d’acciaio paraboliche che incrociano trasversalmente gli archi primari. Details of the secondary structure formed of parabolic steel girders cutting across the main arches.

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Particolari della struttura secondaria, formata da travi d’acciaio paraboliche che incrociano trasversalmente gli archi primari. Details of the secondary structure formed of parabolic steel girders cutting across the main arches.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

La scatola magica The Magic Box

Modello e pianta del piano terra e sezione longitudinale. Model and plan of the ground floor and longitudinal section.

Dresda, UFA Cinema Center Dresden, UFA Cinema Center Progetto di Coop Himmelb(l)au Project by Coop Himmelb(l)au

L’

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Piante a quota +19,70 m e +5,80 m. Il complesso è formato da due corpi uniti: Cinema Block, una sala cinematografica di 2.500 posti e Crystal, uno spazio polivalente che funge sia da foyer sia da piazza pubblica. Levels +19.70 m and +5.80 m. The complex is formed of two combined units: Cinema Block, a 2,500-seat film theatre, and Crystal, a multi-purpose space acting as both a foyer and public plaza.

UFA Cinema Center fa parte del concorso urbanistico Pragerstrasse Nord, una gara a partecipazione internazionale organizzata per rivalutare una zona settentrionale di Dresda destinata a essere trasformata in un centro pedonalizzato in grado di rinnovare una parte significativa della città. Quello che prima era un luogo senza particolare qualità, uno spazio destinato a una rapida perdita d’identità, sarà trasformato in percorso articolato in una sequenza di luoghi pubblici e privati, facilmente permeabili ai flussi pedonali. La tipologia della sala cinematografica, per la sua intrinseca vocazione orientata al visionario, è un tema congeniale a Coop Himmelb(l)au. Il gruppo austriaco (fondato a Vienna da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky alla fine degli anni Sessanta) ha tra i suoi obiettivi programmatici la realizzazione di architetture di forte suggestione visiva attuata attraverso composizioni astratte, disequilibranti, opere che presuppongono una lettura non contemplativa ma partecipativa di un evento architettonico strutturato attraverso un montaggio conflittuale, instabile, consapevole delle contraddizioni e della complessità insita in ogni percorso progettuale, dunque una visione che rifiuta un’architettura ufficiale come fuga dalla realtà. Il decostruttivismo nasce, infatti, dall’istanza di ricondurre l’architettura verso territori legati alla realtà, verso una riflessione sulla condizione conflittuale della metropoli contemporanea. Composto da due corpi distinti ma comunicanti, l’UFA Center comprende il Cinema Block, una struttura che può accogliere circa duemilacinquecento spettatori, e il Crystal, uno spazio avvolto da un grande guscio traspa-

rente che funge da foyer per la sala cinematografica ma anche da piazza pubblica offerta alla città. Per la sua particolare configurazione compositiva, la nuova struttura si pone nel tessuto cittadino come un segno di forte identità, una presenza iconica quale elemento catalizzatore per la messinscena di microeventi urbani. Articolato secondo una complessa geometria e nonostante offra ampie superfici vetrate, l’UFA Center a un primo sguardo pare opporsi a qualsiasi contaminazione umana. L’intricata trama spaziale potrebbe, infatti, essere interpretata come un’aggiornata versione del pozzo dei rasoi di medievale memoria. In realtà è una sorta di moderna caverna delle meraviglie, una Wunderkammer a scala urbana capace di risucchiare al suo interno un gran numero di divoratori d’immagini, ben felici di perdersi nel grande ventre della balena. Lo spettacolo inizia già a partire dalla complessa articolazione spaziale del foyer: percorsi in quota, scale sospese e vertiginose passerelle tracciano diagrammi saettanti simili a rasoiate impazzite. Schermi giganteschi proiettano all’esterno schegge di cinema lanciate in ogni direzione, creando a ciclo continuo flussi di immagini e suoni di una Metropolis riveduta e corretta grazie alle tecnologie digitali. Ormai lontani i tempi dei progetti destinati a rimanere architettura di carta per il loro linguaggio provocatorio, il gruppo Coop Himmelb(l)au pare definitivamente entrato nel circuito dell’architettura costruita grazie ad alcune realizzazioni sparse un po’ in tutto il mondo. La cultura di massa, per non morire, divora anche i frutti più indigesti dell’avanguardia.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

La scatola magica The Magic Box

Modello e pianta del piano terra e sezione longitudinale. Model and plan of the ground floor and longitudinal section.

Dresda, UFA Cinema Center Dresden, UFA Cinema Center Progetto di Coop Himmelb(l)au Project by Coop Himmelb(l)au

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Piante a quota +19,70 m e +5,80 m. Il complesso è formato da due corpi uniti: Cinema Block, una sala cinematografica di 2.500 posti e Crystal, uno spazio polivalente che funge sia da foyer sia da piazza pubblica. Levels +19.70 m and +5.80 m. The complex is formed of two combined units: Cinema Block, a 2,500-seat film theatre, and Crystal, a multi-purpose space acting as both a foyer and public plaza.

UFA Cinema Center fa parte del concorso urbanistico Pragerstrasse Nord, una gara a partecipazione internazionale organizzata per rivalutare una zona settentrionale di Dresda destinata a essere trasformata in un centro pedonalizzato in grado di rinnovare una parte significativa della città. Quello che prima era un luogo senza particolare qualità, uno spazio destinato a una rapida perdita d’identità, sarà trasformato in percorso articolato in una sequenza di luoghi pubblici e privati, facilmente permeabili ai flussi pedonali. La tipologia della sala cinematografica, per la sua intrinseca vocazione orientata al visionario, è un tema congeniale a Coop Himmelb(l)au. Il gruppo austriaco (fondato a Vienna da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky alla fine degli anni Sessanta) ha tra i suoi obiettivi programmatici la realizzazione di architetture di forte suggestione visiva attuata attraverso composizioni astratte, disequilibranti, opere che presuppongono una lettura non contemplativa ma partecipativa di un evento architettonico strutturato attraverso un montaggio conflittuale, instabile, consapevole delle contraddizioni e della complessità insita in ogni percorso progettuale, dunque una visione che rifiuta un’architettura ufficiale come fuga dalla realtà. Il decostruttivismo nasce, infatti, dall’istanza di ricondurre l’architettura verso territori legati alla realtà, verso una riflessione sulla condizione conflittuale della metropoli contemporanea. Composto da due corpi distinti ma comunicanti, l’UFA Center comprende il Cinema Block, una struttura che può accogliere circa duemilacinquecento spettatori, e il Crystal, uno spazio avvolto da un grande guscio traspa-

rente che funge da foyer per la sala cinematografica ma anche da piazza pubblica offerta alla città. Per la sua particolare configurazione compositiva, la nuova struttura si pone nel tessuto cittadino come un segno di forte identità, una presenza iconica quale elemento catalizzatore per la messinscena di microeventi urbani. Articolato secondo una complessa geometria e nonostante offra ampie superfici vetrate, l’UFA Center a un primo sguardo pare opporsi a qualsiasi contaminazione umana. L’intricata trama spaziale potrebbe, infatti, essere interpretata come un’aggiornata versione del pozzo dei rasoi di medievale memoria. In realtà è una sorta di moderna caverna delle meraviglie, una Wunderkammer a scala urbana capace di risucchiare al suo interno un gran numero di divoratori d’immagini, ben felici di perdersi nel grande ventre della balena. Lo spettacolo inizia già a partire dalla complessa articolazione spaziale del foyer: percorsi in quota, scale sospese e vertiginose passerelle tracciano diagrammi saettanti simili a rasoiate impazzite. Schermi giganteschi proiettano all’esterno schegge di cinema lanciate in ogni direzione, creando a ciclo continuo flussi di immagini e suoni di una Metropolis riveduta e corretta grazie alle tecnologie digitali. Ormai lontani i tempi dei progetti destinati a rimanere architettura di carta per il loro linguaggio provocatorio, il gruppo Coop Himmelb(l)au pare definitivamente entrato nel circuito dell’architettura costruita grazie ad alcune realizzazioni sparse un po’ in tutto il mondo. La cultura di massa, per non morire, divora anche i frutti più indigesti dell’avanguardia.

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Pagina a fianco, sezione trasversale e modello. Opposite page, cross section and model.

he UFA Cinema Center was incorporated at the Pragerstrasse Nord town-planning competition, an international tender organized to redevelop a northern part of Dresden earmarked for conversion into a pedestrian center regenerating a major part of the city. What was previously a rather inauspicious place of no real substance, an area destined to rapidly lose its identity, will be transformed into a series of public and private zones easily accessible to pedestrian flows. The intrinsically visionary vocation of film theatre design is a favorite theme of Coop Himmelb(l)au. The Austrian team (set up in Vienna by Wolf D. Prix and Helmut Swiczinsky in the late-1960s) bases its artistry on the creation of visually striking pieces of architecture assembled out of destabilizing abstract compositions. Pieces of architecture whose perception calls for the creative collaboration of the observer, or in other words a subject willing to participate in an architectural event structured around a conflictual, unstable assemblage, aware of the contradictions and complexity inherent in all design. A vision rejecting official architecture as a flight from reality. In this respect, Deconstructivism derives from the need to bring architecture back into the realms of reality and to an analysis of the conflictual nature of the modern-day metropolis. Composed of two separate but interconnecting sections, the UFA Center includes the Cinema Block, a facility with room for audiences of about two thousand fivehundred, and the Crystal, a space enveloped by a large transparent shell acting as a foyer for the film theatre and also as a public square at the community’s disposal. The new facility’s peculiar design incorporates the building into the urban fabric as a striking landmark, an icon acting as a catalyst for the staging of urban microevents. Despite its intricate layout and large swathes of glass surfaces, at first sight the UFA Center appears to repel any sort of human contact. Indeed, its elaborate spatial pattern could even be interpreted as a modernday version of the Medieval well of razors. However, it is almost a modern cave of wonders, an urban-scale Wunderkammer capable of swallowing up a large number of image-devourers, happy to be lost in the huge whale’s belly. The show begins with the intricate spatial layout of the foyer: high-level pathways, suspended steps and headspinning walkways trace darting graphics that look like wild razor slashes. Huge screens project film clips on the external walls, creating an endless loop of sounds and images in a Metropolis that has been updated by digital technology. Gone are the days of projects destined to remain on the drawing board because of their provocative nature. The Coop Himmelb(l)au team seems finally to have joined mainstream architecture thanks to a number of constructions built in all parts of the world. Mass culture is ready to consume even the most indigestible fruits of the avant-garde in order to survive.

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Pagina a fianco, sezione trasversale e modello. Opposite page, cross section and model.

he UFA Cinema Center was incorporated at the Pragerstrasse Nord town-planning competition, an international tender organized to redevelop a northern part of Dresden earmarked for conversion into a pedestrian center regenerating a major part of the city. What was previously a rather inauspicious place of no real substance, an area destined to rapidly lose its identity, will be transformed into a series of public and private zones easily accessible to pedestrian flows. The intrinsically visionary vocation of film theatre design is a favorite theme of Coop Himmelb(l)au. The Austrian team (set up in Vienna by Wolf D. Prix and Helmut Swiczinsky in the late-1960s) bases its artistry on the creation of visually striking pieces of architecture assembled out of destabilizing abstract compositions. Pieces of architecture whose perception calls for the creative collaboration of the observer, or in other words a subject willing to participate in an architectural event structured around a conflictual, unstable assemblage, aware of the contradictions and complexity inherent in all design. A vision rejecting official architecture as a flight from reality. In this respect, Deconstructivism derives from the need to bring architecture back into the realms of reality and to an analysis of the conflictual nature of the modern-day metropolis. Composed of two separate but interconnecting sections, the UFA Center includes the Cinema Block, a facility with room for audiences of about two thousand fivehundred, and the Crystal, a space enveloped by a large transparent shell acting as a foyer for the film theatre and also as a public square at the community’s disposal. The new facility’s peculiar design incorporates the building into the urban fabric as a striking landmark, an icon acting as a catalyst for the staging of urban microevents. Despite its intricate layout and large swathes of glass surfaces, at first sight the UFA Center appears to repel any sort of human contact. Indeed, its elaborate spatial pattern could even be interpreted as a modernday version of the Medieval well of razors. However, it is almost a modern cave of wonders, an urban-scale Wunderkammer capable of swallowing up a large number of image-devourers, happy to be lost in the huge whale’s belly. The show begins with the intricate spatial layout of the foyer: high-level pathways, suspended steps and headspinning walkways trace darting graphics that look like wild razor slashes. Huge screens project film clips on the external walls, creating an endless loop of sounds and images in a Metropolis that has been updated by digital technology. Gone are the days of projects destined to remain on the drawing board because of their provocative nature. The Coop Himmelb(l)au team seems finally to have joined mainstream architecture thanks to a number of constructions built in all parts of the world. Mass culture is ready to consume even the most indigestible fruits of the avant-garde in order to survive.

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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Sulla collina cosmopolita On a Cosmopolitan Hill Lo stile Bauhaus a Tel Aviv The Bauhaus Style in Tel Aviv di Sergio I. Minerbi by Sergio I. Minerbi

cia oggi il Municipio per la conservazione degli edifici più importanti. Secondo l’architetto Szmuk non si è fatto fino ad ora quasi nulla per documentare l’influenza del Bauhaus sugli edifici di Tel Aviv. C’erano tre architetti fra i quali Arieh Sharon, il quale era stato nel kibbutz Gan Shmuel e fu il principale progettatore delle case popolari per i lavoratori. Esse furono costruite secondo il concetto che con una quota mensile pari all’affitto, ognuno si sarebbe comprato un appartamento. Sharon era stato discepolo di Meyer e fu lui a portare la denominazione del Bauhaus che, secondo Szmuk, non è uno stile poiché definendolo così gli si dà una dimensione visuale statica. Molti dei duecento architetti di Tel Aviv avevano studiato in Belgio, a Bruxelles e a Gent, mentre gli architetti di Gerusalemme provenivano in gran parte dalla Germania. Questi professionisti erano arrivati in maggioranza negli anni Trenta e alcuni, in seguito alla crisi economica, se ne andarono nel 1937 in America o tornarono in Europa. Fino al 1937 furono costruiti 3.000 edifici con l’impronta del Bauhaus e altri 1.000 fino al 1948. L’architetto Szmuk è pieno di lodi per il piano regolatore progettato dall’urbanista scozzese Sir Patrick Geddes. Questi era stato invitato dal Sindaco Meir Dizengoff ed era urbanista e biologo e produsse un rapporto affascinante negli anni 1925-1927. Nel 1927 il suo piano regolatore fu approvato dal Municipio di Tel Aviv ed erano previsti 60 giardini pubblici dei quali ne furono realizzati solo la metà, ma si può affermare che i principi stabiliti da Geddes sono applicati fino a oggi. Durante l’epoca mandatoria (1922-1948) il Municipio non permise di deturpare il Centro Storico. Oggi alcune strade sono trascurate e sporche anche perché con solamente 60 giorni di pioggia l’anno, l’acqua piovana non riesce a ripulire le facciate delle case. L’Unesco fu impressionato dalla grande quantità degli edifici presenti, dalla loro centralità e dalla sintesi di tutte le correnti moderne europee arrivate all’allora Palestina in seguito all’immigrazione ebraica. Ogni corrente architettonica diede il suo contributo e alle volte cercò un adattamento alla cultura islamica locale. Quindi piuttosto che un modello Bauhaus rigido, minimalista e alla fine noioso, si ha a Tel Aviv una situazione nella quale nessun edificio si ripete. Una delle caratteristiche è la linea dolce, la curva sinuosa orizzontale, i giochi di volumi. Secondo le norme di “Ahuzat Bayit”, il primo quartiere costruito accanto a Giaffa, le prime 66 case dovevano avere una superficie di almeno 300 mq ognuna con attorno ancora 260 mq. L’altezza era limitata a 2-3 piani. Il Municipio sta attuando un piano di conservazione che include 1.650 edifici, dei quali circa mille in Stile Internazionale. Fin dagli anni Novanta ne è stata proibita la demolizione e non si ripeterà quindi lo scempio della demolizione del ginnasio di Herzlya, il primo grande edificio pubbli-

co della città. Non esiste purtroppo ancora una politica nazionale di conservazione poiché Israele non ha ancora cristallizzato una cultura propria. Viviamo in un periodo di transizione, ci sono ancora molte questioni sociali ed economiche da risolvere e l’estetica non è mai stato un valore molto apprezzato. Tel Aviv era una città esteticamente valida soprattutto nel periodo del mandato britannico. Oggi la conservazione è affidata a un consiglio formato però da non professionisti, e una proposta di legge affida la responsabilità all’ente locale. Quindi ogni ente locale dovrebbe fare delle liste e per legge includerle nel piano regolatore. A Tel Aviv la legge impone al Municipio delle misure draconiane che sono state applicate. D’altronde senza un piano di conservazione serio, l’Unesco non avrebbe mai dato il suo riconoscimento. Da quando abbiamo iniziato l’opera di conservazione negli anni Sessanta, dice Szmuk, abbiamo capito che dovremo riaprire i balconi che sono stati chiusi dagli inquilini per ricavarne un vano supplementare. In ognuno degli edifici destinati alla conservazione, si debbono quindi riaprire i suoi balconi. Questa non è una cosa facile, poiché in alcuni casi il proprietario vuole utilizzare i suoi diritti di costruzione. Per 120 edifici non abbiamo concesso nessuna modifica, ma per tutti gli altri dobbiamo approvare l’aggiunta di diritti di costruzione supplementari per evitare richieste di indennizzi che il municipio non può finanziare. È stata fatta una selezione severa degli edifici più importanti per i quali le proporzioni sono definitivamente chiuse in modo ermetico e qualsiasi aggiunta di piani superiori cambierebbe sostanzialmente il progetto architettonico. Se verranno costruite torri o grattacieli nei paraggi, il proprietario di un edificio conservato può vendere ai loro proprietari, i suoi diritti di costruzione. Quando il proprietario di una

torre vuole aumentare i vani da affittare al di là del 70% egli può acquistare dei diritti di costruzione dal vicino, che così si astiene dall’apportare modifiche al suo edificio. In questo modo abbiamo salvato almeno 60 edifici storici che sono rimasti intatti. Rivisitando Tel Aviv secondo le indicazioni ricevute dall’architetto Nitza Szmuk, siamo rimasti impressionati da quelle linee orizzontali tagliate talvolta a 90 gradi da rampe di scale o addolcite da una serie di balconi a semicerchio che erano quanto di più moderno si potesse immaginare nell’architettura di allora. Costruire in quel modo pur essendo così lontani dalla civiltà, significava essere “in”, sulla cresta dell’onda del XX secolo, essere insomma in comunione spirituale con l’Europa da dove provenivano molti giovani immigranti ebrei venuti sotto la spinta del nascente ideale sionista. Tel Aviv era allora una città di giovani idealisti, gente che lavorava sodo, non aveva tempo né soldi per i fronzoli e che spesso per vivere lavorava nella costruzione di quegli stessi edifici. Oggi Tel Aviv è il centro pulsante della gioventù laica, il cuore dell’economia, la culla dell’High-Tech ormai trasferitosi nei sobborghi, la sede delle banche e dei quotidiani. È un po’ la Milano di Israele, mentre Gerusalemme, spesso paragonata a Roma, rimane una città piena di spiritualità religiosa e di brucianti problemi politici. Breve Bibliografia Nitza Metzger Szmuk, Case dalla sabbia, Architettura in stile internazionale a Tel Aviv, 1931-1940, (in ebraico), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, La Città Bianca. Architettura in stile internazionale in Israele. Ritratto di un’epoca, (in ebraico), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976.

Nourit Melcer Padon

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ome il borghese di Molière che non sapeva di parlare in prosa, così molti abitanti di Tel Aviv ignorano di risiedere in un museo vivente dello stile Bauhaus. Quattromila sono gli edifici di Tel Aviv costruiti sulla scia di questo stile ma solo recentemente il Municipio si sta occupando seriamente della loro conservazione e miglioria. Questa ricchezza unica al mondo ha convinto l’Unesco a dichiarare Tel Aviv come facente parte della “World Heritage List of Monuments”. Il fenomeno si spiega con la storia di Tel Aviv. In riva al mare c’è l’antichissima città di Giaffa, che risale all’era neolitica. Secondo la tradizione Andromeda, legata a uno scoglio di Giaffa ed esposta a un mostro marino per placarlo, venne salvata da Perseo che la sposò. Alla fine del XIX secolo cominciarono ad arrivare gli immigranti ebrei che sbarcavano nel porto di Giaffa e si disperdevano nell’allora Palestina posta sotto il regime Ottomano. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1909, gli ebrei cominciarono a costruire Tel Aviv, la collina della primavera, sulle dune di sabbia deserte al limite settentrionale di Giaffa. Quella sabbia vale oggi milioni di dollari. L’acquisto di quelle dune ha fatto la fortuna immobiliare di alcune famiglie come gli Chelouche, di origine marocchina. Nel 1914 il nuovo quartiere aveva già una popolazione di 2.000 abitanti per raggiungere i 34.000 nel 1925. Il costante aumento della popolazione portò gli abitanti a 120.000 nel 1931, e ci fu poi un notevole incremento dovuto all’arrivo degli ebrei dalla Germania in seguito all’avvento al potere di Hitler nel 1933, raggiungendo i 160.000 abitanti nel 1939. Fu questo periodo dal 1931 al 1939 il più fertile per lo stile Bauhaus. La possibilità di costruire una città ex-novo senza le limitazioni di edifici precedenti, diede un grande slancio ad architetti e costruttori. Ci vollero alcuni decenni per far capire al Municipio di Tel Aviv di avere in mano la gallina dalle uova d’oro senza che nessuno se ne fosse accorto. L’artista israeliano di fama internazionale Dani Karavan convinse alla fine degli anni Settanta Shlomo Lahat, allora Sindaco di Tel Aviv, dell’importanza internazionale degli edifici di stile Bauhaus. Fu così iniziato l’inventario di questi edifici e si cominciarono a raccogliere fondi per la loro conservazione e miglioria. All’inizio degli anni Novanta fu creato presso il Municipio un gruppo di conservazione diretto dall’architetto Nitza Szmuk, che ha studiato in Italia, dove ha trascorso molti anni. Nel 1994 una conferenza internazionale ebbe luogo a Tel Aviv in cooperazione con l’Unesco, e fu dedicata al Movimento Moderno in generale chiamato in Israele lo Stile Internazionale. Questa è una definizione esatta, che però non ha avuto successo. Abbiamo chiesto alla sig.ra Nitza Szmuk Metzger, Sovrintendente alla Conservazione del Municipio di Tel Aviv, come si sia arrivati al riconoscimento dell’Unesco e cosa fac-

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Sotto a sinistra, l’edificio progettato nel 1931 dall’architetto Richard Kaufman. Questo edificio è stato progettato come espressione di modernità con una sottile vena medio-orientale. Sotto, l’edificio progettato nel 1936 dall’architetto Dov Carmi. Le lunghe e profonde finestre sono una versione locale di quelle orizzontali di Le Corbusier. Below left, the building designed in 1931 by architect Richard Kaufman. This building was designed as a statement of modernity with subtle MiddleEastern overtones. Below, the building designed in 1936 by architect Dov Carmi. The long, sunken windows are the local version of the long, horizontal windows of Le Corbusier.


LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES

Sulla collina cosmopolita On a Cosmopolitan Hill Lo stile Bauhaus a Tel Aviv The Bauhaus Style in Tel Aviv di Sergio I. Minerbi by Sergio I. Minerbi

cia oggi il Municipio per la conservazione degli edifici più importanti. Secondo l’architetto Szmuk non si è fatto fino ad ora quasi nulla per documentare l’influenza del Bauhaus sugli edifici di Tel Aviv. C’erano tre architetti fra i quali Arieh Sharon, il quale era stato nel kibbutz Gan Shmuel e fu il principale progettatore delle case popolari per i lavoratori. Esse furono costruite secondo il concetto che con una quota mensile pari all’affitto, ognuno si sarebbe comprato un appartamento. Sharon era stato discepolo di Meyer e fu lui a portare la denominazione del Bauhaus che, secondo Szmuk, non è uno stile poiché definendolo così gli si dà una dimensione visuale statica. Molti dei duecento architetti di Tel Aviv avevano studiato in Belgio, a Bruxelles e a Gent, mentre gli architetti di Gerusalemme provenivano in gran parte dalla Germania. Questi professionisti erano arrivati in maggioranza negli anni Trenta e alcuni, in seguito alla crisi economica, se ne andarono nel 1937 in America o tornarono in Europa. Fino al 1937 furono costruiti 3.000 edifici con l’impronta del Bauhaus e altri 1.000 fino al 1948. L’architetto Szmuk è pieno di lodi per il piano regolatore progettato dall’urbanista scozzese Sir Patrick Geddes. Questi era stato invitato dal Sindaco Meir Dizengoff ed era urbanista e biologo e produsse un rapporto affascinante negli anni 1925-1927. Nel 1927 il suo piano regolatore fu approvato dal Municipio di Tel Aviv ed erano previsti 60 giardini pubblici dei quali ne furono realizzati solo la metà, ma si può affermare che i principi stabiliti da Geddes sono applicati fino a oggi. Durante l’epoca mandatoria (1922-1948) il Municipio non permise di deturpare il Centro Storico. Oggi alcune strade sono trascurate e sporche anche perché con solamente 60 giorni di pioggia l’anno, l’acqua piovana non riesce a ripulire le facciate delle case. L’Unesco fu impressionato dalla grande quantità degli edifici presenti, dalla loro centralità e dalla sintesi di tutte le correnti moderne europee arrivate all’allora Palestina in seguito all’immigrazione ebraica. Ogni corrente architettonica diede il suo contributo e alle volte cercò un adattamento alla cultura islamica locale. Quindi piuttosto che un modello Bauhaus rigido, minimalista e alla fine noioso, si ha a Tel Aviv una situazione nella quale nessun edificio si ripete. Una delle caratteristiche è la linea dolce, la curva sinuosa orizzontale, i giochi di volumi. Secondo le norme di “Ahuzat Bayit”, il primo quartiere costruito accanto a Giaffa, le prime 66 case dovevano avere una superficie di almeno 300 mq ognuna con attorno ancora 260 mq. L’altezza era limitata a 2-3 piani. Il Municipio sta attuando un piano di conservazione che include 1.650 edifici, dei quali circa mille in Stile Internazionale. Fin dagli anni Novanta ne è stata proibita la demolizione e non si ripeterà quindi lo scempio della demolizione del ginnasio di Herzlya, il primo grande edificio pubbli-

co della città. Non esiste purtroppo ancora una politica nazionale di conservazione poiché Israele non ha ancora cristallizzato una cultura propria. Viviamo in un periodo di transizione, ci sono ancora molte questioni sociali ed economiche da risolvere e l’estetica non è mai stato un valore molto apprezzato. Tel Aviv era una città esteticamente valida soprattutto nel periodo del mandato britannico. Oggi la conservazione è affidata a un consiglio formato però da non professionisti, e una proposta di legge affida la responsabilità all’ente locale. Quindi ogni ente locale dovrebbe fare delle liste e per legge includerle nel piano regolatore. A Tel Aviv la legge impone al Municipio delle misure draconiane che sono state applicate. D’altronde senza un piano di conservazione serio, l’Unesco non avrebbe mai dato il suo riconoscimento. Da quando abbiamo iniziato l’opera di conservazione negli anni Sessanta, dice Szmuk, abbiamo capito che dovremo riaprire i balconi che sono stati chiusi dagli inquilini per ricavarne un vano supplementare. In ognuno degli edifici destinati alla conservazione, si debbono quindi riaprire i suoi balconi. Questa non è una cosa facile, poiché in alcuni casi il proprietario vuole utilizzare i suoi diritti di costruzione. Per 120 edifici non abbiamo concesso nessuna modifica, ma per tutti gli altri dobbiamo approvare l’aggiunta di diritti di costruzione supplementari per evitare richieste di indennizzi che il municipio non può finanziare. È stata fatta una selezione severa degli edifici più importanti per i quali le proporzioni sono definitivamente chiuse in modo ermetico e qualsiasi aggiunta di piani superiori cambierebbe sostanzialmente il progetto architettonico. Se verranno costruite torri o grattacieli nei paraggi, il proprietario di un edificio conservato può vendere ai loro proprietari, i suoi diritti di costruzione. Quando il proprietario di una

torre vuole aumentare i vani da affittare al di là del 70% egli può acquistare dei diritti di costruzione dal vicino, che così si astiene dall’apportare modifiche al suo edificio. In questo modo abbiamo salvato almeno 60 edifici storici che sono rimasti intatti. Rivisitando Tel Aviv secondo le indicazioni ricevute dall’architetto Nitza Szmuk, siamo rimasti impressionati da quelle linee orizzontali tagliate talvolta a 90 gradi da rampe di scale o addolcite da una serie di balconi a semicerchio che erano quanto di più moderno si potesse immaginare nell’architettura di allora. Costruire in quel modo pur essendo così lontani dalla civiltà, significava essere “in”, sulla cresta dell’onda del XX secolo, essere insomma in comunione spirituale con l’Europa da dove provenivano molti giovani immigranti ebrei venuti sotto la spinta del nascente ideale sionista. Tel Aviv era allora una città di giovani idealisti, gente che lavorava sodo, non aveva tempo né soldi per i fronzoli e che spesso per vivere lavorava nella costruzione di quegli stessi edifici. Oggi Tel Aviv è il centro pulsante della gioventù laica, il cuore dell’economia, la culla dell’High-Tech ormai trasferitosi nei sobborghi, la sede delle banche e dei quotidiani. È un po’ la Milano di Israele, mentre Gerusalemme, spesso paragonata a Roma, rimane una città piena di spiritualità religiosa e di brucianti problemi politici. Breve Bibliografia Nitza Metzger Szmuk, Case dalla sabbia, Architettura in stile internazionale a Tel Aviv, 1931-1940, (in ebraico), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, La Città Bianca. Architettura in stile internazionale in Israele. Ritratto di un’epoca, (in ebraico), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976.

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ome il borghese di Molière che non sapeva di parlare in prosa, così molti abitanti di Tel Aviv ignorano di risiedere in un museo vivente dello stile Bauhaus. Quattromila sono gli edifici di Tel Aviv costruiti sulla scia di questo stile ma solo recentemente il Municipio si sta occupando seriamente della loro conservazione e miglioria. Questa ricchezza unica al mondo ha convinto l’Unesco a dichiarare Tel Aviv come facente parte della “World Heritage List of Monuments”. Il fenomeno si spiega con la storia di Tel Aviv. In riva al mare c’è l’antichissima città di Giaffa, che risale all’era neolitica. Secondo la tradizione Andromeda, legata a uno scoglio di Giaffa ed esposta a un mostro marino per placarlo, venne salvata da Perseo che la sposò. Alla fine del XIX secolo cominciarono ad arrivare gli immigranti ebrei che sbarcavano nel porto di Giaffa e si disperdevano nell’allora Palestina posta sotto il regime Ottomano. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1909, gli ebrei cominciarono a costruire Tel Aviv, la collina della primavera, sulle dune di sabbia deserte al limite settentrionale di Giaffa. Quella sabbia vale oggi milioni di dollari. L’acquisto di quelle dune ha fatto la fortuna immobiliare di alcune famiglie come gli Chelouche, di origine marocchina. Nel 1914 il nuovo quartiere aveva già una popolazione di 2.000 abitanti per raggiungere i 34.000 nel 1925. Il costante aumento della popolazione portò gli abitanti a 120.000 nel 1931, e ci fu poi un notevole incremento dovuto all’arrivo degli ebrei dalla Germania in seguito all’avvento al potere di Hitler nel 1933, raggiungendo i 160.000 abitanti nel 1939. Fu questo periodo dal 1931 al 1939 il più fertile per lo stile Bauhaus. La possibilità di costruire una città ex-novo senza le limitazioni di edifici precedenti, diede un grande slancio ad architetti e costruttori. Ci vollero alcuni decenni per far capire al Municipio di Tel Aviv di avere in mano la gallina dalle uova d’oro senza che nessuno se ne fosse accorto. L’artista israeliano di fama internazionale Dani Karavan convinse alla fine degli anni Settanta Shlomo Lahat, allora Sindaco di Tel Aviv, dell’importanza internazionale degli edifici di stile Bauhaus. Fu così iniziato l’inventario di questi edifici e si cominciarono a raccogliere fondi per la loro conservazione e miglioria. All’inizio degli anni Novanta fu creato presso il Municipio un gruppo di conservazione diretto dall’architetto Nitza Szmuk, che ha studiato in Italia, dove ha trascorso molti anni. Nel 1994 una conferenza internazionale ebbe luogo a Tel Aviv in cooperazione con l’Unesco, e fu dedicata al Movimento Moderno in generale chiamato in Israele lo Stile Internazionale. Questa è una definizione esatta, che però non ha avuto successo. Abbiamo chiesto alla sig.ra Nitza Szmuk Metzger, Sovrintendente alla Conservazione del Municipio di Tel Aviv, come si sia arrivati al riconoscimento dell’Unesco e cosa fac-

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Sotto a sinistra, l’edificio progettato nel 1931 dall’architetto Richard Kaufman. Questo edificio è stato progettato come espressione di modernità con una sottile vena medio-orientale. Sotto, l’edificio progettato nel 1936 dall’architetto Dov Carmi. Le lunghe e profonde finestre sono una versione locale di quelle orizzontali di Le Corbusier. Below left, the building designed in 1931 by architect Richard Kaufman. This building was designed as a statement of modernity with subtle MiddleEastern overtones. Below, the building designed in 1936 by architect Dov Carmi. The long, sunken windows are the local version of the long, horizontal windows of Le Corbusier.


identifying those whose proportions could not in any way be altered (through the addition of extra stories) without interfering with their architectural design. Owners of conserved buildings can sell their construction rights if towers or high-rise buildings are constructed in the neighborhood. When the owner of a tower wants to increase the premises for rent by over 70%, he can buy construction rights from his neighbor, who thereby pledges to not alter his own building. In this way at least 60 historical buildings have been saved and kept intact. Revisiting Tel Aviv along the guidelines provided by the architect Nitza Szmuk, we were astounded by the horizontal lines sometimes cut through at 90 degrees by flights of steps or toned down by semi-circular balconies, which were the height of modernity in architecture back then. Building in this way, despite being so cut off from civilization, meant being “in” on the crest of the wave of the 20th century. In other words, it meant being in spiritual harmony with Europe, where plenty of young Jews

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were coming in the wake of a newly emerging Zionist ideal. Tel Aviv was then a city of young idealists. People who worked hard, had neither the time nor the money to waste and often worked on the construction of these very buildings to make a living. Nowadays Tel Aviv is the hub of secular youth, the heart of the economy, a cradle of high technology that has now been transferred to the suburbs, and the headquarters of banks and newspapers. It is rather like the Milan of Israel, whereas Jerusalem, often compared to Rome, is likewise a highly religious city with a host of political problems. Short list of bibliographical references Nitza Metzger Szmuk, Dwelling on the dunes, International-style Architecture in Tel Aviv, 1931-1940, (in Hebrew), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, The White Town, International-style Architecture in Israel. A Portrait of an Age, (in Hebrew), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976.

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A sinistra e in basso a sinistra, l’Hotel Cinema progettato nel 1939 dagli architetti Yehuda e Rafael Megidovitz. Sorto come cinema per mille persone, è stato poi trasformato in un albergo. Sotto, l’edificio progettato nel 1934 dagli architetti Joseph e Zeev Berlin. L’ampio e libero impiego di vetrate con infissi di acciaio è controbilanciato da forti forme quadrate di stucco. Left and below left, the Hotel Cinema designed in 1939 by architects Yehuda and Rafael Megidovitz. It was bult as a cinema for 1,000 people and then transformed into a hotel. Below, the building designed in 1934 by architects Joseph and Zeev Berlin. The free and lavish use of steel-framed glass is offset by strong, square stuccoed shapes.

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wake of the economic crisis, left for America in 1937 or returned to Europe. 3,000 buildings were built in the Bauhaus style up to 1937 and another 1,000 from then till 1948. The architect Szmuk is full of praise for the master plan drawn up by the Scottish town-planner Sir Patrick Geddes. Geddes had been invited by the Mayor, Meir Dizengoff, and was actually a town-planner and biologist, who compiled a fascinating report in 1925-1927. His master plan was approved by the Tel Aviv City Council in 1927 and encompassed 60 public gardens, only half of which were actually constructed, but it would be fair to say that the guidelines set down by Geddes are still employed today. During the 1922-1948 period, the City Council refused to let the old city center be disfigured. Nowadays some of the roads are dirty and neglected, partly because only 60 days of rain a year does not provide enough water to clean the facades of the houses. UNESCO was impressed by the striking number of existing buildings, their central location and the synthesis of all modern European currents that were imported to what was then Palestine in the wake of Jewish immigration. Each architectural school made its own contribution and sometimes attempted to adapt to local Islamic culture. This meant that instead of having a rigid, minimalist and, in the end, rather boring rendition of the Bauhaus style, no two buildings in Tel Aviv are alike. One of the features is the soft lines, sinuous horizontal curves and structural interplay. According to the guidelines for “Ahuzat Bayit”, the first neighborhood to be built alongside Jaffa, the first 66 houses were to cover surface areas of at least 300 square meters with a further 260 square meters around them. Buildings were confined to a height of 2-3 stories. The City Council is implementing a conservation program encompassing 1,650 buildings, about one thousand of which are in the International Style. Ever since the 1990s there has been a ban on demolition work, so that the disastrous destruction of the Herzlya Gymnasium (the city’s first major public building) will not be repeated. Unfortunately, there is still no national conservation program, because Israel has not yet developed its own cultural heritage. We are living in a transitional period, which means plenty of socio-economic issues still need solving and, after all, aesthetics have never really received the attention they deserve. Tel Aviv was once an aesthetically notable city, particularly during the period of British rule. Nowadays conservation work is in the hands of a council composed of non-architects, and there is a bill to make it the responsibility of a local body. This means all local associations must draw up lists and, by law, incorporate them in the master plan. In Tel Aviv the law forces the City Council to take draconian measures which have duly been enforced. After all, without a proper conservation program, UNESCO would never have made its proclamation. Szmuk claims that since the conservation work began in the 1960s, people have realized that the balconies enclosed by tenants must be re-opened to create extra premises. This means the balconies must be opened up in all the buildings involved in the conservation program. This is no easy matter, because some owners are keen to impose their construction rights. Authorization for alterations has not been given for 120 of the buildings, but for all the others extra construction rights must be authorized so that the local authorities do not have to award compensation that they cannot afford. A careful inventory of all the most important buildings was drawn up,

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ust like Molière’s bourgeois gentleman, who was not aware he talked in prose, many inhabitants of Tel Aviv do not know their city is a living museum of the Bauhaus style. There are four thousand buildings in Tel Aviv built along these stylistic lines, but the City Council has only recently seriously started conserving and improving them. This heritage, unique of its kind, has resulted in UNESCO proclaiming Tel Aviv to be part of the “World Heritage List of Monuments.” All this can be traced back to Tel Aviv’s historical background. The ancient city of Jaffa, dating back to the Neolithic period, is built by the seaside. According to legend, Andromeda was tied to a cliff at Jaffa and attacked by a sea monster, but she was saved by Perseus who then married her. Jewish immigrants started landing in the port of Jaffa in the late-19th century, eventually dispersing into what was then Palestine under Ottoman rule. On the eve of the First World War in 1909, the Jews started to build the city of Tel Aviv, which actually means the spring hill, on desert dunes at the northernmost edge of Jaffa. That sand is now worth millions of dollars. Buying those dunes made the real-estate fortune of families like the Chelouches originally from Morocco. In 1914, the new neighborhood already had a population of 2,000, eventually rising to 34,000 in 1925. The constant increase in population reached a total of 120,000 in 1931. There was then a notable boom due to the arrival of Jews fleeing Germany when Hitler came to power in 1933, reaching a peak of 160,000 in 1939. The period of 1931-39 was the most fertile for the Bauhaus style. The possibility of building a city from scratch without the constraints of old buildings was a real stimulus for architects and builders. It took a few decades to convince the Tel Aviv City Council that, although nobody had realized it yet, they had a goose that lays golden eggs in their hands. In the late1970s the internationally famous Israeli artist, Dani Karavan, persuaded Shlomo Lahat, who was then the Mayor of Tel Aviv, that Bauhaus-style buildings were of the greatest international importance. This resulted in a list of these buildings being drawn up and funds collected to conserve and improve them. A conservation team headed by the architect Nitza Szmuk, who had lived and studied in Italy for many years, was created in the early 1990s. An international conference was then held in Tel Aviv in 1994, organized in conjunction with UNESCO, that was devoted to the Modern Movement in general, called the International Style in Israel. This is a precise definition which never really caught on. We asked Mrs. Nitza Szmuk Metzger, Superintendent for Conservation on the Tel Aviv City Council, how UNESCO came to its decision and what the City Council is now doing to conserve the most important buildings. According to the architect Szmuk, until now almost nothing has been done to examine the influence of the Bauhaus Movement on buildings in Tel Aviv. There were originally three main architects, including Arieh Sharon, who had lived in the Gan Shmuel kibbutz and was in charge of designing workers’ council houses. They were built according to the idea that everybody could buy their own flat paying the same monthly rent. Sharon, who had studied under Meyer, came up with the name Bauhaus, which, according to Szmuk, is not a style since this would inevitably load it with static-visual connotations. Many of the two-hundred architects in Tel Aviv had studied in Brussels and Gent, Belgium, while the architects in Jerusalem mainly came from Germany. Most of these professionals arrived in the 1930s and some, in


identifying those whose proportions could not in any way be altered (through the addition of extra stories) without interfering with their architectural design. Owners of conserved buildings can sell their construction rights if towers or high-rise buildings are constructed in the neighborhood. When the owner of a tower wants to increase the premises for rent by over 70%, he can buy construction rights from his neighbor, who thereby pledges to not alter his own building. In this way at least 60 historical buildings have been saved and kept intact. Revisiting Tel Aviv along the guidelines provided by the architect Nitza Szmuk, we were astounded by the horizontal lines sometimes cut through at 90 degrees by flights of steps or toned down by semi-circular balconies, which were the height of modernity in architecture back then. Building in this way, despite being so cut off from civilization, meant being “in” on the crest of the wave of the 20th century. In other words, it meant being in spiritual harmony with Europe, where plenty of young Jews

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were coming in the wake of a newly emerging Zionist ideal. Tel Aviv was then a city of young idealists. People who worked hard, had neither the time nor the money to waste and often worked on the construction of these very buildings to make a living. Nowadays Tel Aviv is the hub of secular youth, the heart of the economy, a cradle of high technology that has now been transferred to the suburbs, and the headquarters of banks and newspapers. It is rather like the Milan of Israel, whereas Jerusalem, often compared to Rome, is likewise a highly religious city with a host of political problems. Short list of bibliographical references Nitza Metzger Szmuk, Dwelling on the dunes, International-style Architecture in Tel Aviv, 1931-1940, (in Hebrew), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, The White Town, International-style Architecture in Israel. A Portrait of an Age, (in Hebrew), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976.

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A sinistra e in basso a sinistra, l’Hotel Cinema progettato nel 1939 dagli architetti Yehuda e Rafael Megidovitz. Sorto come cinema per mille persone, è stato poi trasformato in un albergo. Sotto, l’edificio progettato nel 1934 dagli architetti Joseph e Zeev Berlin. L’ampio e libero impiego di vetrate con infissi di acciaio è controbilanciato da forti forme quadrate di stucco. Left and below left, the Hotel Cinema designed in 1939 by architects Yehuda and Rafael Megidovitz. It was bult as a cinema for 1,000 people and then transformed into a hotel. Below, the building designed in 1934 by architects Joseph and Zeev Berlin. The free and lavish use of steel-framed glass is offset by strong, square stuccoed shapes.

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wake of the economic crisis, left for America in 1937 or returned to Europe. 3,000 buildings were built in the Bauhaus style up to 1937 and another 1,000 from then till 1948. The architect Szmuk is full of praise for the master plan drawn up by the Scottish town-planner Sir Patrick Geddes. Geddes had been invited by the Mayor, Meir Dizengoff, and was actually a town-planner and biologist, who compiled a fascinating report in 1925-1927. His master plan was approved by the Tel Aviv City Council in 1927 and encompassed 60 public gardens, only half of which were actually constructed, but it would be fair to say that the guidelines set down by Geddes are still employed today. During the 1922-1948 period, the City Council refused to let the old city center be disfigured. Nowadays some of the roads are dirty and neglected, partly because only 60 days of rain a year does not provide enough water to clean the facades of the houses. UNESCO was impressed by the striking number of existing buildings, their central location and the synthesis of all modern European currents that were imported to what was then Palestine in the wake of Jewish immigration. Each architectural school made its own contribution and sometimes attempted to adapt to local Islamic culture. This meant that instead of having a rigid, minimalist and, in the end, rather boring rendition of the Bauhaus style, no two buildings in Tel Aviv are alike. One of the features is the soft lines, sinuous horizontal curves and structural interplay. According to the guidelines for “Ahuzat Bayit”, the first neighborhood to be built alongside Jaffa, the first 66 houses were to cover surface areas of at least 300 square meters with a further 260 square meters around them. Buildings were confined to a height of 2-3 stories. The City Council is implementing a conservation program encompassing 1,650 buildings, about one thousand of which are in the International Style. Ever since the 1990s there has been a ban on demolition work, so that the disastrous destruction of the Herzlya Gymnasium (the city’s first major public building) will not be repeated. Unfortunately, there is still no national conservation program, because Israel has not yet developed its own cultural heritage. We are living in a transitional period, which means plenty of socio-economic issues still need solving and, after all, aesthetics have never really received the attention they deserve. Tel Aviv was once an aesthetically notable city, particularly during the period of British rule. Nowadays conservation work is in the hands of a council composed of non-architects, and there is a bill to make it the responsibility of a local body. This means all local associations must draw up lists and, by law, incorporate them in the master plan. In Tel Aviv the law forces the City Council to take draconian measures which have duly been enforced. After all, without a proper conservation program, UNESCO would never have made its proclamation. Szmuk claims that since the conservation work began in the 1960s, people have realized that the balconies enclosed by tenants must be re-opened to create extra premises. This means the balconies must be opened up in all the buildings involved in the conservation program. This is no easy matter, because some owners are keen to impose their construction rights. Authorization for alterations has not been given for 120 of the buildings, but for all the others extra construction rights must be authorized so that the local authorities do not have to award compensation that they cannot afford. A careful inventory of all the most important buildings was drawn up,

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ust like Molière’s bourgeois gentleman, who was not aware he talked in prose, many inhabitants of Tel Aviv do not know their city is a living museum of the Bauhaus style. There are four thousand buildings in Tel Aviv built along these stylistic lines, but the City Council has only recently seriously started conserving and improving them. This heritage, unique of its kind, has resulted in UNESCO proclaiming Tel Aviv to be part of the “World Heritage List of Monuments.” All this can be traced back to Tel Aviv’s historical background. The ancient city of Jaffa, dating back to the Neolithic period, is built by the seaside. According to legend, Andromeda was tied to a cliff at Jaffa and attacked by a sea monster, but she was saved by Perseus who then married her. Jewish immigrants started landing in the port of Jaffa in the late-19th century, eventually dispersing into what was then Palestine under Ottoman rule. On the eve of the First World War in 1909, the Jews started to build the city of Tel Aviv, which actually means the spring hill, on desert dunes at the northernmost edge of Jaffa. That sand is now worth millions of dollars. Buying those dunes made the real-estate fortune of families like the Chelouches originally from Morocco. In 1914, the new neighborhood already had a population of 2,000, eventually rising to 34,000 in 1925. The constant increase in population reached a total of 120,000 in 1931. There was then a notable boom due to the arrival of Jews fleeing Germany when Hitler came to power in 1933, reaching a peak of 160,000 in 1939. The period of 1931-39 was the most fertile for the Bauhaus style. The possibility of building a city from scratch without the constraints of old buildings was a real stimulus for architects and builders. It took a few decades to convince the Tel Aviv City Council that, although nobody had realized it yet, they had a goose that lays golden eggs in their hands. In the late1970s the internationally famous Israeli artist, Dani Karavan, persuaded Shlomo Lahat, who was then the Mayor of Tel Aviv, that Bauhaus-style buildings were of the greatest international importance. This resulted in a list of these buildings being drawn up and funds collected to conserve and improve them. A conservation team headed by the architect Nitza Szmuk, who had lived and studied in Italy for many years, was created in the early 1990s. An international conference was then held in Tel Aviv in 1994, organized in conjunction with UNESCO, that was devoted to the Modern Movement in general, called the International Style in Israel. This is a precise definition which never really caught on. We asked Mrs. Nitza Szmuk Metzger, Superintendent for Conservation on the Tel Aviv City Council, how UNESCO came to its decision and what the City Council is now doing to conserve the most important buildings. According to the architect Szmuk, until now almost nothing has been done to examine the influence of the Bauhaus Movement on buildings in Tel Aviv. There were originally three main architects, including Arieh Sharon, who had lived in the Gan Shmuel kibbutz and was in charge of designing workers’ council houses. They were built according to the idea that everybody could buy their own flat paying the same monthly rent. Sharon, who had studied under Meyer, came up with the name Bauhaus, which, according to Szmuk, is not a style since this would inevitably load it with static-visual connotations. Many of the two-hundred architects in Tel Aviv had studied in Brussels and Gent, Belgium, while the architects in Jerusalem mainly came from Germany. Most of these professionals arrived in the 1930s and some, in


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Italcementi: una storia lunga 140 anni Italcementi: a 140-year-long story

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Italcementi: una storia lunga 140 anni Italcementi: a 140-year-long story Italcementi Group: l’utile di gruppo sale nel 2003 a 376 milioni di euro (+5,3%) Italcementi Group: 2003 total net income at 376 million euro (+5.3%)

a un primo esperimento nel 1864 in una villa di Scanzo, alle porte di Bergamo, alla presenza in 19 paesi nel mondo, attraverso quattro continenti. Dalla macinazione dei primi prodotti in un mulino ad acqua precedentemente utilizzato per il grano a 60 cementerie e oltre 17 mila dipendenti. La fotografia scattata in occasione del 140° compleanno del gruppo Italcementi, raffronta una realtà industriale nata sulla scia delle prime grandi opere civili dell’Italia nella seconda parte dell’800 (nel caso specifico la linea ferroviaria fra Venezia e Milano) con quella attuale di un gruppo internazionale tra i leader mondiali del settore, con una produzione di 45,6 milioni di tonnellate di cemento e di 20,9 milioni di metri cubi di calcestruzzo. Le radici di Italcementi affondano nella Società Bergamasca per la Fabbricazione del Cemento e della Calce Idraulica, nata su iniziativa di Giuseppe Piccinelli che, sulle orme del successo di una fabbrica di calce a Palazzolo, decide di avviare la produzione di leganti idraulici. Nel giro di soli due anni la produzione raggiunge le 7 mila tonnellate di cemento e si amplia ulteriormente con l’acquisto nel 1873 della originaria concorrente di Palazzolo. Agli inizi del ’900, la gestione passa nelle mani dei fratelli Pesenti che fondono la loro società Fabbrica Cementi e Calci Idrauliche Fratelli Pesenti fu Antonio con la società creata da Piccinelli: nasce un gruppo che può contare su 12 cementerie e oltre 1.500 addetti e su una produzione di oltre 210 mila tonnellate. Nel 1927, poco più di sessanta anni dopo la nascita e con il titolo già quotato in Borsa da 2 anni, la società assume la sua attuale

ragione sociale: le cementerie sono 33 con una produzione di 1,8 milioni di tonnellate, pari al 44% del mercato nazionale. Nel periodo fra le due guerre il gruppo prosegue nell’espansione a tappe forzate di acquisizioni, prima fra tutte la Società Anonima Fabbrica Calce e Cemento di Casale, il principale concorrente dotato di impianti di produzione con tecnologie innovative per l’epoca. Nei primi anni Quaranta le redini passano a Carlo Pesenti, che con il cugino Antonio rappresenta l’impegno della terza generazione della famiglia. Il suo dinamismo porterà allo sviluppo della società e più in generale alla crescita dell’imprenditoria italiana. Nel 1946 il gruppo si riorganizza con la creazione di tre nuove società: Sacelit, Società Calci Idrate d’Italia e Italmobiliare. A quest’ultima (che nel 1979 passa da controllata a controllante di Italcementi) vengono assegnate le partecipazioni azionarie non legate al core business che nel tempo includeranno assicurazioni, banche, industrie e giornali. Al giro di boa del centenario, nel 1964, Italcementi può contare su 8 consociate e 28 stabilimenti. Ha una produzione di 7,5 milioni di tonnellate e occupa il tredicesimo posto fra le società nazionali per fatturato. Un’immagine storica del vecchio stabilimento di Calusco d’Adda. A historic photo of the old facility in Calusco d’Adda.

Alla fase di espansione, sostenuta dal ciclo positivo dell’edilizia, segue negli anni Settanta un periodo più critico legato alle difficoltà connesse alla crisi petrolifera e alla conseguente esplosione dell’inflazione e dei tassi di interesse. Nel 1984, alla scomparsa del padre, la guida viene assunta da Giampiero Pesenti – già direttore generale – che decide di concentrare il gruppo sul core business, avviando un piano per la riduzione dell’indebitamento attraverso il contenimento dei costi, la cessione di alcune attività e lo sviluppo di nuove sinergie. Il gruppo ha intanto raggiunto il livello di 14 milioni di tonnellate di produzione, impiegando 6.500 dipendenti. Alla fine degli anni Ottanta Italcementi avvia le prime iniziative di internazionalizzazione del gruppo. Ma è con l’acqusizione di Ciments Français, nell’aprile del 1992, una mossa che sorprende il mercato, che si realizza in un sol colpo il processo di globalizzazione della società. Un’operazione che racchiude tre primati: si tratta della più rilevante acquisizione industriale realizzata all’estero da un gruppo italiano, è il più importante aumento di capitale (5 miliardi di vecchi franchi francesi pari a 762 milioni di euro) effettuato alla Borsa di

Parigi ed è il più rapido aumento di dimensioni mai registrato da una società industriale italiana, cha passa da un fatturato pre-acquisizione di 1.500 miliardi di lire (775 milioni di euro) a un giro d’affari consolidato di oltre 5 mila miliardi (2.582 milioni di euro) del nuovo gruppo. L’acquisizione – che ha richiesto un impegno di circa 1.500 miliardi di lire (775 milioni di euro) – cambia la fisionomia del gruppo: il peso dell’Italia sui ricavi scende dal 97% al 27,5%, mentre le cementerie salgono a 51, le centrali di calcestruzzo a circa 500, mentre i dipendenti, dislocati in 13 paesi, sono oltre 20 mila. Come primo processo di integrazione, a fianco del Comitato Esecutivo che delinea le linee strategiche, nasce il CTG – Centro Tecnico di Gruppo – a cui è demandata tutta l’attività di sviluppo della performance degli impianti e la ricerca, da sempre uno degli impegni irrinunciabili nella storia di Italcementi. “Il criterio fondamentale che ci ha guidato – ha sottolineato il Presidente di Italcementi, Giampiero Pesenti, rimarcando l’intenso piano di internazionalizzazione – è stato quello di ottenere un’integrazione migliore fra le aziende che costituivano il gruppo aumentando efficienza e sinergie. Si sono omogeneizzate culture, consuetudini, modi di pensare diversi fra loro. Le società che facevano parte del gruppo Ciments Français avevano amplissima autonomia. I controlli erano poco efficienti. Bisognava diffondere le conoscenze tra aziende di vari paesi, dettare nuove procedure comuni, abituare le persone a sentirsi appartenenti a un solo gruppo: ecco le linee direttrici lungo le quali ci siamo mossi. È

stato un lavoro molto impegnativo, ma i risultati raggiunti hanno premiato quegli sforzi”. La strada per portare Italcementi a una presenza mondiale è ormai tracciata. Mentre in Italia viene portata a termine nel 1997 l’acquisizione di Calcestruzzi, l’attenzione si focalizza sullo sviluppo nei paesi emergenti, nella logica di diversificare i mercati verso aree geografiche con maggiori potenziali di crescita. I primi passi sono rivolti verso l’Europa dell’Est (Bulgaria), ampliando l’orizzonte verso Oriente dove vengono acquisite nuove società in Kazakistan e in Thailandia. La tappa successiva è il posizionamento in India, che rappresenta il terzo mercato mondiale del cemento. Dai piani di sviluppo non resta escluso il continente africano: al rafforzamento della presenza in Marocco si affianca lo sbarco in Egitto. Oggi questa strategia di allargamento verso i paesi emergenti ha portato a un incremento del peso di queste aree a più del 40% della capacità produttiva del gruppo. Sempre più “A world class local business”. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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t all began with an initial experiment carried out in 1864 in a villa in Scanzo on the outskirts of Bergamo, and it is now an international enterprise operating in 19 countries worldwide across four different continents. After originally grinding the first products in an old water mill previously used for wheat, the company now has 60 cement plants and employs 17 thousand people. This snapshot of the Italcementi group taken at its 140th birthday celebrations shows how an industrial concern

developed in the wake of the first major civil engineering works carried out in Italy in the second half of the 19th century—specifically the VeniceMilan railway line—has developed into one of the world’s leading international groups in the sector, producing 45.6 million metric tons of cement and 20.9 million cubic meters of concrete. Italcementi’s roots lie in the Società Bergamasca per la Fabbricazione del Cemento e della Calce Idraulica, founded by Giuseppe Piccinelli, who, in the wake of the success of a lime works in Palazzolo, decided to start manufacturing hydraulic binders. In the space of just two years production rose to 7 thousand metric tons of cement and was further boosted by purchasing its original rival company from Palazzolo in 1873. In the early 20th century, management was handed over to the Pesenti brothers who merged their own company Fabbrica Cementi e Calci Idrauliche Fratelli Pesenti fu Antonio with the firm created by Piccinelli: this resulted in a group that could count on 12 cement plants and over 1,500 workers and production of over 210 thousand metric tons. Just over sixty years after its first founding and having already been quoted on the Italian Stock Exchange for 2 years, the company took on its current corporate name in 1927: 33 cement plants producing 1.8 million metric tons corresponding to 44% of the entire domestic market. Between the world wars the group kept on expanding by making further key purchases, first and foremost the Società Anonima Fabbrica Calce e Cemento in Casale, its main rival equipped with what at the time were technologically innovative production plants.

Carlo Pesenti took control of the company in the early 1940s, working with his cousin Antonio as the third generation of the family. His dynamism helped expand the company and boost the Italian business sector. The group reorganized in 1946 with the addition of three new companies: Sacelit, Società Calci Idrate d’Italia and Italmobiliare. The latter company (initially a subsidiary and since 1979 the holding company) handled stocks not connected with core business, subsequently including interests in insurance, banking, industry, and publishing. When Italcementi celebrated its centenary in 1964, it had 8 associate companies and 28 plants. Its production had reached 7.5 million metric tons and it had the thirteenth biggest turnover in the country. After this boom period during a favorable economic cycle for the building industry, there was a more critical period in the 1970s connected with problems related to the oil crisis and the resulting boom in inflation and interest rates. When Giampiero Pesenti—at that time Managing Director— took over control after his father died in 1984, he decided to concentrate on core business, setting up a plan to reduce debt by keeping down costs, selling off some businesses, and developing new synergies. Meanwhile the group had reached an overall production level of 14 million metric tons and was now employing 6,500 people. In the late 1980s Italcementi took its first steps toward internationalization. But it was in April 1992 with the purchase of Ciments Français—a move that took the market by surprise—that Italcementi became a global concern all at once. This was a record-breaking deal

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Italcementi: una storia lunga 140 anni Italcementi: a 140-year-long story

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Italcementi: una storia lunga 140 anni Italcementi: a 140-year-long story Italcementi Group: l’utile di gruppo sale nel 2003 a 376 milioni di euro (+5,3%) Italcementi Group: 2003 total net income at 376 million euro (+5.3%)

a un primo esperimento nel 1864 in una villa di Scanzo, alle porte di Bergamo, alla presenza in 19 paesi nel mondo, attraverso quattro continenti. Dalla macinazione dei primi prodotti in un mulino ad acqua precedentemente utilizzato per il grano a 60 cementerie e oltre 17 mila dipendenti. La fotografia scattata in occasione del 140° compleanno del gruppo Italcementi, raffronta una realtà industriale nata sulla scia delle prime grandi opere civili dell’Italia nella seconda parte dell’800 (nel caso specifico la linea ferroviaria fra Venezia e Milano) con quella attuale di un gruppo internazionale tra i leader mondiali del settore, con una produzione di 45,6 milioni di tonnellate di cemento e di 20,9 milioni di metri cubi di calcestruzzo. Le radici di Italcementi affondano nella Società Bergamasca per la Fabbricazione del Cemento e della Calce Idraulica, nata su iniziativa di Giuseppe Piccinelli che, sulle orme del successo di una fabbrica di calce a Palazzolo, decide di avviare la produzione di leganti idraulici. Nel giro di soli due anni la produzione raggiunge le 7 mila tonnellate di cemento e si amplia ulteriormente con l’acquisto nel 1873 della originaria concorrente di Palazzolo. Agli inizi del ’900, la gestione passa nelle mani dei fratelli Pesenti che fondono la loro società Fabbrica Cementi e Calci Idrauliche Fratelli Pesenti fu Antonio con la società creata da Piccinelli: nasce un gruppo che può contare su 12 cementerie e oltre 1.500 addetti e su una produzione di oltre 210 mila tonnellate. Nel 1927, poco più di sessanta anni dopo la nascita e con il titolo già quotato in Borsa da 2 anni, la società assume la sua attuale

ragione sociale: le cementerie sono 33 con una produzione di 1,8 milioni di tonnellate, pari al 44% del mercato nazionale. Nel periodo fra le due guerre il gruppo prosegue nell’espansione a tappe forzate di acquisizioni, prima fra tutte la Società Anonima Fabbrica Calce e Cemento di Casale, il principale concorrente dotato di impianti di produzione con tecnologie innovative per l’epoca. Nei primi anni Quaranta le redini passano a Carlo Pesenti, che con il cugino Antonio rappresenta l’impegno della terza generazione della famiglia. Il suo dinamismo porterà allo sviluppo della società e più in generale alla crescita dell’imprenditoria italiana. Nel 1946 il gruppo si riorganizza con la creazione di tre nuove società: Sacelit, Società Calci Idrate d’Italia e Italmobiliare. A quest’ultima (che nel 1979 passa da controllata a controllante di Italcementi) vengono assegnate le partecipazioni azionarie non legate al core business che nel tempo includeranno assicurazioni, banche, industrie e giornali. Al giro di boa del centenario, nel 1964, Italcementi può contare su 8 consociate e 28 stabilimenti. Ha una produzione di 7,5 milioni di tonnellate e occupa il tredicesimo posto fra le società nazionali per fatturato. Un’immagine storica del vecchio stabilimento di Calusco d’Adda. A historic photo of the old facility in Calusco d’Adda.

Alla fase di espansione, sostenuta dal ciclo positivo dell’edilizia, segue negli anni Settanta un periodo più critico legato alle difficoltà connesse alla crisi petrolifera e alla conseguente esplosione dell’inflazione e dei tassi di interesse. Nel 1984, alla scomparsa del padre, la guida viene assunta da Giampiero Pesenti – già direttore generale – che decide di concentrare il gruppo sul core business, avviando un piano per la riduzione dell’indebitamento attraverso il contenimento dei costi, la cessione di alcune attività e lo sviluppo di nuove sinergie. Il gruppo ha intanto raggiunto il livello di 14 milioni di tonnellate di produzione, impiegando 6.500 dipendenti. Alla fine degli anni Ottanta Italcementi avvia le prime iniziative di internazionalizzazione del gruppo. Ma è con l’acqusizione di Ciments Français, nell’aprile del 1992, una mossa che sorprende il mercato, che si realizza in un sol colpo il processo di globalizzazione della società. Un’operazione che racchiude tre primati: si tratta della più rilevante acquisizione industriale realizzata all’estero da un gruppo italiano, è il più importante aumento di capitale (5 miliardi di vecchi franchi francesi pari a 762 milioni di euro) effettuato alla Borsa di

Parigi ed è il più rapido aumento di dimensioni mai registrato da una società industriale italiana, cha passa da un fatturato pre-acquisizione di 1.500 miliardi di lire (775 milioni di euro) a un giro d’affari consolidato di oltre 5 mila miliardi (2.582 milioni di euro) del nuovo gruppo. L’acquisizione – che ha richiesto un impegno di circa 1.500 miliardi di lire (775 milioni di euro) – cambia la fisionomia del gruppo: il peso dell’Italia sui ricavi scende dal 97% al 27,5%, mentre le cementerie salgono a 51, le centrali di calcestruzzo a circa 500, mentre i dipendenti, dislocati in 13 paesi, sono oltre 20 mila. Come primo processo di integrazione, a fianco del Comitato Esecutivo che delinea le linee strategiche, nasce il CTG – Centro Tecnico di Gruppo – a cui è demandata tutta l’attività di sviluppo della performance degli impianti e la ricerca, da sempre uno degli impegni irrinunciabili nella storia di Italcementi. “Il criterio fondamentale che ci ha guidato – ha sottolineato il Presidente di Italcementi, Giampiero Pesenti, rimarcando l’intenso piano di internazionalizzazione – è stato quello di ottenere un’integrazione migliore fra le aziende che costituivano il gruppo aumentando efficienza e sinergie. Si sono omogeneizzate culture, consuetudini, modi di pensare diversi fra loro. Le società che facevano parte del gruppo Ciments Français avevano amplissima autonomia. I controlli erano poco efficienti. Bisognava diffondere le conoscenze tra aziende di vari paesi, dettare nuove procedure comuni, abituare le persone a sentirsi appartenenti a un solo gruppo: ecco le linee direttrici lungo le quali ci siamo mossi. È

stato un lavoro molto impegnativo, ma i risultati raggiunti hanno premiato quegli sforzi”. La strada per portare Italcementi a una presenza mondiale è ormai tracciata. Mentre in Italia viene portata a termine nel 1997 l’acquisizione di Calcestruzzi, l’attenzione si focalizza sullo sviluppo nei paesi emergenti, nella logica di diversificare i mercati verso aree geografiche con maggiori potenziali di crescita. I primi passi sono rivolti verso l’Europa dell’Est (Bulgaria), ampliando l’orizzonte verso Oriente dove vengono acquisite nuove società in Kazakistan e in Thailandia. La tappa successiva è il posizionamento in India, che rappresenta il terzo mercato mondiale del cemento. Dai piani di sviluppo non resta escluso il continente africano: al rafforzamento della presenza in Marocco si affianca lo sbarco in Egitto. Oggi questa strategia di allargamento verso i paesi emergenti ha portato a un incremento del peso di queste aree a più del 40% della capacità produttiva del gruppo. Sempre più “A world class local business”. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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t all began with an initial experiment carried out in 1864 in a villa in Scanzo on the outskirts of Bergamo, and it is now an international enterprise operating in 19 countries worldwide across four different continents. After originally grinding the first products in an old water mill previously used for wheat, the company now has 60 cement plants and employs 17 thousand people. This snapshot of the Italcementi group taken at its 140th birthday celebrations shows how an industrial concern

developed in the wake of the first major civil engineering works carried out in Italy in the second half of the 19th century—specifically the VeniceMilan railway line—has developed into one of the world’s leading international groups in the sector, producing 45.6 million metric tons of cement and 20.9 million cubic meters of concrete. Italcementi’s roots lie in the Società Bergamasca per la Fabbricazione del Cemento e della Calce Idraulica, founded by Giuseppe Piccinelli, who, in the wake of the success of a lime works in Palazzolo, decided to start manufacturing hydraulic binders. In the space of just two years production rose to 7 thousand metric tons of cement and was further boosted by purchasing its original rival company from Palazzolo in 1873. In the early 20th century, management was handed over to the Pesenti brothers who merged their own company Fabbrica Cementi e Calci Idrauliche Fratelli Pesenti fu Antonio with the firm created by Piccinelli: this resulted in a group that could count on 12 cement plants and over 1,500 workers and production of over 210 thousand metric tons. Just over sixty years after its first founding and having already been quoted on the Italian Stock Exchange for 2 years, the company took on its current corporate name in 1927: 33 cement plants producing 1.8 million metric tons corresponding to 44% of the entire domestic market. Between the world wars the group kept on expanding by making further key purchases, first and foremost the Società Anonima Fabbrica Calce e Cemento in Casale, its main rival equipped with what at the time were technologically innovative production plants.

Carlo Pesenti took control of the company in the early 1940s, working with his cousin Antonio as the third generation of the family. His dynamism helped expand the company and boost the Italian business sector. The group reorganized in 1946 with the addition of three new companies: Sacelit, Società Calci Idrate d’Italia and Italmobiliare. The latter company (initially a subsidiary and since 1979 the holding company) handled stocks not connected with core business, subsequently including interests in insurance, banking, industry, and publishing. When Italcementi celebrated its centenary in 1964, it had 8 associate companies and 28 plants. Its production had reached 7.5 million metric tons and it had the thirteenth biggest turnover in the country. After this boom period during a favorable economic cycle for the building industry, there was a more critical period in the 1970s connected with problems related to the oil crisis and the resulting boom in inflation and interest rates. When Giampiero Pesenti—at that time Managing Director— took over control after his father died in 1984, he decided to concentrate on core business, setting up a plan to reduce debt by keeping down costs, selling off some businesses, and developing new synergies. Meanwhile the group had reached an overall production level of 14 million metric tons and was now employing 6,500 people. In the late 1980s Italcementi took its first steps toward internationalization. But it was in April 1992 with the purchase of Ciments Français—a move that took the market by surprise—that Italcementi became a global concern all at once. This was a record-breaking deal

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Italcementi Group: l’utile di gruppo sale nel 2003 a 376 milioni di euro (+5,3%) Italcementi Group: 2003 total net income at 376 million euro (+5.3%)

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La nuova cementeria di Calusco d’Adda. The new cement plant in Calusco d’Adda.

on three fronts: it was the biggest foreign industrial take-over by an Italian industrial company, the most significant increase in capital (5 billion francs—762 million euro) on the Paris Stock Exchange, and the fastest up-sizing operation ever recorded by an Italian company, as the pre-purchase turnover of 1,500 billion Italian lire (775 million euro) rocketed to a consolidated turnover for the new group of over 5 thousand billion (2.582 million euro). The take-over—calling for an investment of about 1,500 billion lire (775 million euro)— changed the shape of the group: income from Italy dropped from 97% to 27.5% and there were 51 cement plants, about 500 concrete batching plants, and over 20 thousand employees in 13 different countries. To set the merger process under way, the Executive Committee responsible for

setting the basic strategy was flanked by the CTG—Group Technical Center—which was set up to handle all the performance implementation of the plants and the research and development work, traditionally one of Italcementi’s real fortes. “The main guideline we followed—so Giampiero Pesenti, President of Italcementi, pointed out when commenting on the intensive internationalization program— was to try and merge the group’s companies as effectively as possible: increasing efficiency and sinergies, and smoothly integrating different cultures, ways of thinking and doing business. The companies belonging to the Ciments Français group had plenty of autonomy. The controls were not very efficient. Know-how had to spread throughout firms working in different countries, new joint procedures had to be laid down, and people had to learn to feel they were part of a

group: these were the guidelines we followed. It was a challenging task, but our efforts have been duly rewarded.” Italcementi was now on the way to becoming a world player. While the takeover of Calcestruzzi was being finalized in Italy in 1997, the group’s attention was now being focused on expanding into emerging countries with a view to opening up to markets in geographical areas with much greater potential for growth. The first steps were taken in Eastern Europe (Bulgaria), eventually widening the group’s business horizons to encompass takeovers in Kazakhstan and Thailand. The next step forward was India, now the world’s third largest market for cement. Development plans also encompassed Africa: the strengthening of the group presence in Morocco was accompanied by the landing in Egypt. This strategy of expanding into emerging

countries has now led to these areas accounting for more than 40% of overall group production capacity. More than ever “A world class local business.”

esercizio 2003 si è chiuso con un utile netto di 376 milioni e ricavi per 4,3 miliardi di euro: un risultato a livelli record per il gruppo che ha beneficiato di significativi proventi straordinari. I ricavi consolidati si sono attestati a 4.284,7 milioni di euro: all’aumento dello 0,5% rispetto al 2002 hanno concorso l’evoluzione positiva dell’attività per il 3,6%; le variazioni intervenute nell’area di consolidamento per lo 0,3% e l’effetto cambio negativo (derivante dal deprezzamento delle altre valute, in particolare il dollaro Usa, nei confronti dell’euro) per il -3,4%. Il gruppo ha registrato una crescita dei volumi nei settori cemento (45,6 milioni di tonnellate +2,1%) e calcestruzzo (20,9 milioni di metri cubi +8,3%) e una leggera flessione nel settore degli inerti (54,9 milioni di tonnellate -1,1%) Al miglioramento dei ricavi hanno contribuito i paesi dell’Unione europea, e con un’elevata dinamica a parità di perimetro e di tassi di cambio i paesi emergenti, in particolare Thailandia e Marocco nonché l’attività di Trading. In calo è risultato il Nord America, anche se la riduzione risulta notevolmente inferiore a parità di perimetro e di tassi di cambio. Il margine operativo lordo ha registrato una flessione di 47,9 milioni di euro (-4,3%) rispetto al 2002, riferibile principalmente al negativo impatto del deprezzamento delle altre valute rispetto all’euro, che ha inciso per circa 37 milioni di euro. I risultati gestionali hanno peraltro risentito anche di un aumento dei costi operativi, in particolare materie prime e trasporti, che non è stato possibile trasferire interamente sui prezzi di vendita. Nell’ambito dei paesi dell’Unione europea, i buoni

miglioramenti del margine operativo lordo realizzati in Spagna e in Grecia non hanno compensato la flessione in Italia e in Belgio. Il forte ridimensionamento del margine nel Nord America è sostanzialmente imputabile al negativo effetto cambio, al calo dei volumi di vendita e all’aumento dei costi dei fattori energetici e del personale. Fra i paesi emergenti miglioramenti significativi sono stati conseguiti dalle filiali in Thailandia e in Marocco, malgrado il deprezzamento delle valute locali nei confronti dell’euro, mentre la Turchia ha subito un calo essenzialmente per la debolezza dei prezzi di vendita nella prima parte dell’esercizio. Dopo ammortamenti e altre svalutazioni delle immobilizzazioni per complessivi 404,5 milioni di euro il risultato operativo si è attestato a 656,5 milioni di euro, pari al 15,3% dei ricavi, con una flessione del 7,7% rispetto al valore del precedente esercizio. Gli oneri finanziari, al netto dei proventi, hanno registrato un calo rispetto al 2002 di 13,1 milioni di euro (-10,3%), con una riduzione dell’incidenza sui ricavi dal 3,0% al 2,7%. Su tale dinamica positiva hanno influito il duplice effetto di una riduzione dei tassi di interesse e dell’indebitamento finanziario inclusivo dei Tsdi, oltre che un impatto decisamente più contenuto della svalutazione della lira turca rispetto al 2002. Le rettifiche di valore di attività finanziarie hanno evidenziato un saldo netto positivo di 8,9 milioni di euro, a fronte di un saldo negativo di 10,4 milioni di euro nel 2002. Il miglioramento di 19,2 milioni di euro è ascrivibile oltre che al positivo contributo di Suez Cement Ltd nel 2003, anche alle più limitate svalutazioni di

altre partecipazioni. Il gruppo ha beneficiato nel 2003 di un contributo assai rilevante di proventi straordinari al netto degli oneri (+54 milioni di euro), mentre nel 2002 il saldo, altrettanto significativo, era risultato negativo (-42,2 milioni di euro). Tale contributo è stato determinato principalmente dalla favorevole soluzione di una serie di contenziosi fiscali in Belgio e da plusvalenze su cessioni di immobilizzazioni. Il risultato ante imposte è stato pari a 604,8 milioni di euro, in crescita del 13,9% rispetto a quello consuntivato nel 2002 (531,0 milioni di euro). Dopo imposte per 229,1 milioni di euro, si è determinato un utile netto complessivo di 375,7 milioni di euro a fronte di un utile di 356,9 milioni di euro nel 2002 (+5,3%). Nel 2003 si sono registrati oneri fiscali superiori di 55 milioni di euro rispetto a quelli di competenza del 2002; ma va ricordato che nell’esercizio precedente si era beneficiato in Italia di incentivi fiscali legati alla Tremonti bis e in Belgio di una riduzione delle imposte differite a seguito della diminuzione del tasso di imposizione. L’utile netto di competenza del gruppo è stato di 276,8 milioni di euro, in aumento dell’1,0% rispetto al 2002. Nel 2003 l’esborso complessivo per investimenti in immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie è stato pari a 373 milioni di euro, a fronte di 812,3 milioni di euro nel precedente esercizio. La forte riduzione ha principalmente riguardato gli investimenti finanziari, diminuiti di 327,5 milioni di euro rispetto al 2002, esercizio caratterizzato da numerose acquisizioni di partecipazioni. Anche gli investimenti in immobilizzazioni materiali sono stati più

contenuti: la riduzione è principalmente riferibile all’Italia, in relazione ai consistenti investimenti che avevano caratterizzato l’esercizio 2002 per la nuova linea di produzione della cementeria di Calusco (Bergamo). La crescita dei flussi finanziari originati dalla gestione e il più contenuto fabbisogno per investimenti hanno consentito di ottenere una riduzione di 288,2 milioni di euro nell’indebitamento finanziario netto rispetto al valore di fine 2002. Il patrimonio netto complessivo, ha registrato un decremento di 11,8 milioni di euro rispetto al 31 dicembre 2002, mentre il patrimonio netto di competenza del gruppo, pari a 2.185,8 milioni di euro, in aumento di 57,3 milioni di euro rispetto al 31 dicembre 2002, avrebbe registrato, senza il negativo effetto cambi, una crescita di 199,2 milioni di euro. Nel quadro di una razionalizzazione dei settori di attività del gruppo in Spagna, è stata realizzata, nella seconda parte dell’esercizio, la cessione di 7 centrali di calcestruzzo e di 2 cave di inerti, con una plusvalenza complessiva di 13,3 milioni di euro prima delle imposte. Le previsioni per l’esercizio in corso prevedono una positiva evoluzione delle attività del gruppo, e le attese per fine anno sono di un risultato – escluse le poste straordinarie – almeno in linea con quello del 2003. Una tendenza che si è già confermata nel bilancio del primo trimestre, chiuso con un aumento del 6% del fatturato rispetto all’analogo periodo 2003. Il risultato netto, sostenuto anche dalla riduzione degli oneri finanziari e da un apporto positivo delle poste straordinarie, è pressoché raddoppiato rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno.

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La nuova cementeria di Calusco d’Adda. The new cement plant in Calusco d’Adda.

on three fronts: it was the biggest foreign industrial take-over by an Italian industrial company, the most significant increase in capital (5 billion francs—762 million euro) on the Paris Stock Exchange, and the fastest up-sizing operation ever recorded by an Italian company, as the pre-purchase turnover of 1,500 billion Italian lire (775 million euro) rocketed to a consolidated turnover for the new group of over 5 thousand billion (2.582 million euro). The take-over—calling for an investment of about 1,500 billion lire (775 million euro)— changed the shape of the group: income from Italy dropped from 97% to 27.5% and there were 51 cement plants, about 500 concrete batching plants, and over 20 thousand employees in 13 different countries. To set the merger process under way, the Executive Committee responsible for

setting the basic strategy was flanked by the CTG—Group Technical Center—which was set up to handle all the performance implementation of the plants and the research and development work, traditionally one of Italcementi’s real fortes. “The main guideline we followed—so Giampiero Pesenti, President of Italcementi, pointed out when commenting on the intensive internationalization program— was to try and merge the group’s companies as effectively as possible: increasing efficiency and sinergies, and smoothly integrating different cultures, ways of thinking and doing business. The companies belonging to the Ciments Français group had plenty of autonomy. The controls were not very efficient. Know-how had to spread throughout firms working in different countries, new joint procedures had to be laid down, and people had to learn to feel they were part of a

group: these were the guidelines we followed. It was a challenging task, but our efforts have been duly rewarded.” Italcementi was now on the way to becoming a world player. While the takeover of Calcestruzzi was being finalized in Italy in 1997, the group’s attention was now being focused on expanding into emerging countries with a view to opening up to markets in geographical areas with much greater potential for growth. The first steps were taken in Eastern Europe (Bulgaria), eventually widening the group’s business horizons to encompass takeovers in Kazakhstan and Thailand. The next step forward was India, now the world’s third largest market for cement. Development plans also encompassed Africa: the strengthening of the group presence in Morocco was accompanied by the landing in Egypt. This strategy of expanding into emerging

countries has now led to these areas accounting for more than 40% of overall group production capacity. More than ever “A world class local business.”

esercizio 2003 si è chiuso con un utile netto di 376 milioni e ricavi per 4,3 miliardi di euro: un risultato a livelli record per il gruppo che ha beneficiato di significativi proventi straordinari. I ricavi consolidati si sono attestati a 4.284,7 milioni di euro: all’aumento dello 0,5% rispetto al 2002 hanno concorso l’evoluzione positiva dell’attività per il 3,6%; le variazioni intervenute nell’area di consolidamento per lo 0,3% e l’effetto cambio negativo (derivante dal deprezzamento delle altre valute, in particolare il dollaro Usa, nei confronti dell’euro) per il -3,4%. Il gruppo ha registrato una crescita dei volumi nei settori cemento (45,6 milioni di tonnellate +2,1%) e calcestruzzo (20,9 milioni di metri cubi +8,3%) e una leggera flessione nel settore degli inerti (54,9 milioni di tonnellate -1,1%) Al miglioramento dei ricavi hanno contribuito i paesi dell’Unione europea, e con un’elevata dinamica a parità di perimetro e di tassi di cambio i paesi emergenti, in particolare Thailandia e Marocco nonché l’attività di Trading. In calo è risultato il Nord America, anche se la riduzione risulta notevolmente inferiore a parità di perimetro e di tassi di cambio. Il margine operativo lordo ha registrato una flessione di 47,9 milioni di euro (-4,3%) rispetto al 2002, riferibile principalmente al negativo impatto del deprezzamento delle altre valute rispetto all’euro, che ha inciso per circa 37 milioni di euro. I risultati gestionali hanno peraltro risentito anche di un aumento dei costi operativi, in particolare materie prime e trasporti, che non è stato possibile trasferire interamente sui prezzi di vendita. Nell’ambito dei paesi dell’Unione europea, i buoni

miglioramenti del margine operativo lordo realizzati in Spagna e in Grecia non hanno compensato la flessione in Italia e in Belgio. Il forte ridimensionamento del margine nel Nord America è sostanzialmente imputabile al negativo effetto cambio, al calo dei volumi di vendita e all’aumento dei costi dei fattori energetici e del personale. Fra i paesi emergenti miglioramenti significativi sono stati conseguiti dalle filiali in Thailandia e in Marocco, malgrado il deprezzamento delle valute locali nei confronti dell’euro, mentre la Turchia ha subito un calo essenzialmente per la debolezza dei prezzi di vendita nella prima parte dell’esercizio. Dopo ammortamenti e altre svalutazioni delle immobilizzazioni per complessivi 404,5 milioni di euro il risultato operativo si è attestato a 656,5 milioni di euro, pari al 15,3% dei ricavi, con una flessione del 7,7% rispetto al valore del precedente esercizio. Gli oneri finanziari, al netto dei proventi, hanno registrato un calo rispetto al 2002 di 13,1 milioni di euro (-10,3%), con una riduzione dell’incidenza sui ricavi dal 3,0% al 2,7%. Su tale dinamica positiva hanno influito il duplice effetto di una riduzione dei tassi di interesse e dell’indebitamento finanziario inclusivo dei Tsdi, oltre che un impatto decisamente più contenuto della svalutazione della lira turca rispetto al 2002. Le rettifiche di valore di attività finanziarie hanno evidenziato un saldo netto positivo di 8,9 milioni di euro, a fronte di un saldo negativo di 10,4 milioni di euro nel 2002. Il miglioramento di 19,2 milioni di euro è ascrivibile oltre che al positivo contributo di Suez Cement Ltd nel 2003, anche alle più limitate svalutazioni di

altre partecipazioni. Il gruppo ha beneficiato nel 2003 di un contributo assai rilevante di proventi straordinari al netto degli oneri (+54 milioni di euro), mentre nel 2002 il saldo, altrettanto significativo, era risultato negativo (-42,2 milioni di euro). Tale contributo è stato determinato principalmente dalla favorevole soluzione di una serie di contenziosi fiscali in Belgio e da plusvalenze su cessioni di immobilizzazioni. Il risultato ante imposte è stato pari a 604,8 milioni di euro, in crescita del 13,9% rispetto a quello consuntivato nel 2002 (531,0 milioni di euro). Dopo imposte per 229,1 milioni di euro, si è determinato un utile netto complessivo di 375,7 milioni di euro a fronte di un utile di 356,9 milioni di euro nel 2002 (+5,3%). Nel 2003 si sono registrati oneri fiscali superiori di 55 milioni di euro rispetto a quelli di competenza del 2002; ma va ricordato che nell’esercizio precedente si era beneficiato in Italia di incentivi fiscali legati alla Tremonti bis e in Belgio di una riduzione delle imposte differite a seguito della diminuzione del tasso di imposizione. L’utile netto di competenza del gruppo è stato di 276,8 milioni di euro, in aumento dell’1,0% rispetto al 2002. Nel 2003 l’esborso complessivo per investimenti in immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie è stato pari a 373 milioni di euro, a fronte di 812,3 milioni di euro nel precedente esercizio. La forte riduzione ha principalmente riguardato gli investimenti finanziari, diminuiti di 327,5 milioni di euro rispetto al 2002, esercizio caratterizzato da numerose acquisizioni di partecipazioni. Anche gli investimenti in immobilizzazioni materiali sono stati più

contenuti: la riduzione è principalmente riferibile all’Italia, in relazione ai consistenti investimenti che avevano caratterizzato l’esercizio 2002 per la nuova linea di produzione della cementeria di Calusco (Bergamo). La crescita dei flussi finanziari originati dalla gestione e il più contenuto fabbisogno per investimenti hanno consentito di ottenere una riduzione di 288,2 milioni di euro nell’indebitamento finanziario netto rispetto al valore di fine 2002. Il patrimonio netto complessivo, ha registrato un decremento di 11,8 milioni di euro rispetto al 31 dicembre 2002, mentre il patrimonio netto di competenza del gruppo, pari a 2.185,8 milioni di euro, in aumento di 57,3 milioni di euro rispetto al 31 dicembre 2002, avrebbe registrato, senza il negativo effetto cambi, una crescita di 199,2 milioni di euro. Nel quadro di una razionalizzazione dei settori di attività del gruppo in Spagna, è stata realizzata, nella seconda parte dell’esercizio, la cessione di 7 centrali di calcestruzzo e di 2 cave di inerti, con una plusvalenza complessiva di 13,3 milioni di euro prima delle imposte. Le previsioni per l’esercizio in corso prevedono una positiva evoluzione delle attività del gruppo, e le attese per fine anno sono di un risultato – escluse le poste straordinarie – almeno in linea con quello del 2003. Una tendenza che si è già confermata nel bilancio del primo trimestre, chiuso con un aumento del 6% del fatturato rispetto all’analogo periodo 2003. Il risultato netto, sostenuto anche dalla riduzione degli oneri finanziari e da un apporto positivo delle poste straordinarie, è pressoché raddoppiato rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno.

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inancial year 2003 reported a total net income of 376 million euro and net sales of 4.3 billion euro: a record performance for the group benefiting from significant non-recurring income. Consolidated net sales totaled 4,284.7 million euro: the increase of 0.5% against 2002 arose from higher business volumes for 3.6 %, changes in the consolidation area for 0.3%, and a negative exchange-rate effect (stemming from the depreciation of other currencies, chiefly the US dollar, against the euro) for 3.4%. Sales volumes rise for cement (45.6 million metric tons +2.1%) and concrete (20.9 million cubic meters +8.3%) while a slight slowdown was recorded in aggregates (54.9 million metric tons -1.1%). Contributions to the improvement in net sales came from the EU countries; from the Emerging Countries, which reported strong growth at constant size and exchange rates, particularly in Thailand and Morocco; and from Trading. North America reported lower net sales, although the decrease was considerably smaller at constant size and exchange rates. Gross operating profit decreased by 47.9 million euro (-4.3%) on 2002, mainly as a result of the negative exchange rate for other currencies against the euro, which had an impact of approximately 37 million euro. Operating results were also affected by the rise in operating costs, especially for raw materials and transport, which it was not possible to transfer in full to sales prices. Among the EU countries, the important improvements in gross operating profit in Spain and Greece did not offset the

slowdown in Italy and Belgium. The significant downturn in gross operating profit in North America was due largely to the negative exchange-rate effect, the fall in sales volumes and higher energy and labor costs. Among Emerging Countries, significant improvements were reported by the subsidiaries in Thailand and Morocco, despite the depreciation of the local currencies against the euro, while Turkey reported a decline caused essentially by weak sales prices in the first part of the year. After depreciation and amortization and other fixedasset write-downs totaling 404.5 million euro, operating income was 656.5 million euro, or 15.3% of net sales, a decrease of 7.7% compared with the previous year. Financial charges, net of financial income, decreased by approximately 13.1 million euro (-10.3%) on 2002, to stand at 3.0% of net sales, down from 2.7% the previous year. This positive trend reflected the combined effect of a reduction in interest rates and in net debt including floating rate subordinated securities, and a notable slowdown in the devaluation of the Turkish lira compared with 2002. Adjustments to financial asset values produced a net positive balance of approximately 8.9 million euro, compared with a net negative balance of 10.4 million euro in 2002. The 19.2 million euro improvement was due not only to the positive contribution from Suez Cement Ltd in 2003, but also to smaller adjustments on other equity investments. Non-recurring income net of charges was an extremely significant factor in 2003 (+54 million euro), after an equally significant negative balance in 2002 (-42.2 million euro). The improvement arose largely as a

result of the favorable settlement of a series of tax disputes in Belgium and capital gains on property sales. Income before taxes amounted to 604.8 million euro, an improvement of 13.9% compared with the 2002 figure (531.0 million euro). After taxes totaling 229.1 million euro, total net income stood at 375.7 million euro, compared with 356.9 million euro in 2002 (+5.3%). 2003 tax charges were 55 million euro higher than those of 2002; in 2002, however, results benefited from fiscal incentives under the Tremonti bis law in Italy and from a reduction in the tax rate in Belgium. Group net income was 276.8 million euro, an increase of 1.0% on 2002. Total investments in fixed assets amounted to 373 million euro in 2003, compared with 812.3 million euro in 2002. This sharp reduction occurred mainly in financial investments, which decreased by 327.5 million euro from 2002, a period in which the group effected a large number of equity investments. Investments were also lower in tangible assets: the reduction referred in the main to Italy, after significant expenditure in 2002 for the new production line at the Calusco cement plant (Bergamo). The growth in cash flow from operations and the lower investment requirement generated a reduction of 288.2 million euro in net debt compared with year-end 2002. Total shareholders’ equity decreased by 11.8 million euro compared with 31 December 2002, while group shareholders’ equity, which rose by 57.3 million euro from 31 December 2002 to 2,185.8 million euro, would have grown by 199.2 million euro at constant exchange rates.

As part of the re-organization of the group’s business in Spain, 7 concrete plants and 2 aggregates quarries were sold during the second half of the year, for an overall capital gain of 13.3 million euro before taxes. Projections for 2004 indicate a positive evolution in group activities and expectations are that year-end earnings—before non-recurring items—will be at least in line with 2003. This trend was confirmed for the first quarter of 2004 when the Italcementi Group reported a 6% increase in net sales compared to the first quarter of the previous year. Net income nearly doubled compared to the first three months of 2003, partly due to a reduction in financial charges, and a favorable trend in non-recurring items.




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