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Periodico semestrale anno VIII n° 16 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

IL COLORE DEL FUTURO THE COLOR OF THE FUTURE

Global Quale colore per il futuro 1. Innovazione: non più il risultato di una scienza monocromatica, ma la sintesi creata dalla policromia di diverse conoscenze A color for the future 1. Innovation moves away from monochromatic science into the polychromatic dimension of interdisciplinary knowledge Projects Quale colore per il futuro 2. L’innovazione progettuale che nasce dalla tavolozza dei colori A color for the future 2. The design innovations produced by a full-color palette News TX Active® incontra Vema TX Active® meets Vema Suez Cement con la scuola per lo sviluppo sostenibile Suez Cement with the school for sustainable development Agostino Bonalumi: l’architetto della tela Agostino Bonalumi: the canvas architect

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor in Chief Sergio Crippa Caporedattore Managing Editor Francesco Galimberti Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Law Court of Bergamo

La ricerca è sviluppo

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I Projects I

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I News I

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Il colore del futuro The Color of the Future

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Roberto Verganti

Istituzioni, università, imprese: le leve per l’innovazione

Government, Universities, Industry: Levers for Innovation

Luigi Nicolais

La grande sfida della società della conoscenza

Meeting the Challenge of the Knowledge Society

Adriano De Maio

Istruzione universitaria e sviluppo territoriale

University Education and Local Growth

Alberto Bombassei

Il sistema fa la forza

The Strength of the System

Andrea Moltrasio

Cittadini e aziende insieme per un salto nel futuro

People and Business Together Toward the Future

Ezio Andreta

Senza cultura del rischio l’innovazione non cresce

No Innovation without a Risk Culture

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Modernità multicolore

Multicolored Modernity

Testi a cura / Texts by Carlo Paganelli

Comunicazione programmata

Programmed Communication

Progetto di Atelier d'Architecture Brenac & Gonzales

Project by Atelier d'Architecture Brenac & Gonzales

Caleidoscopiche visioni

Kaleidoscopic Visions

Progetto di Ateliers Jean Nouvel

Project by Ateliers Jean Nouvel

Evasioni aerostatiche

Aerostatic Flights

Progetto di Herzog & de Meuron

Project by Herzog & de Meuron

Colore, spazio e rock’n’roll

Color, Space and Rock’n’Roll

Progetto di Frank O. Gehry and Associates

Project by Frank O. Gehry and Associates

Estetica del frammento

Fragmentary Aesthetics

Progetto di Mansilla+Tuñón

Project by Mansilla+Tuñón

Pop Art metropolitana

Metropolitan Pop Art

Progetto di Alsop & Störmer Architects

Project by Alsop & Störmer Architects

Quando volano gli artropodi

Flying Arthropods

Progetto di Richard Rogers Partnership+Estudio Lamela

Project by Richard Rogers Partnership+Estudio Lamela

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TX Active® incontra Vema

TX Active® meets Vema

Italcementi Group: fatturato 2006 sale a 5,8 miliardi di euro (+17,1%)

Italcementi Group: 2006 revenues rise to 5.8 billion euro (+17.1%)

Suez Cement con la scuola per lo sviluppo sostenibile

Suez Cement with the school for sustainable development

Agostino Bonalumi: l’architetto della tela

Agostino Bonalumi: the canvas architect

Cover, the Colorium Tower realized by William Alsop in Düsseldorf

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Carmelo Strano

Copertina, la Torre Colorium realizzata da William Alsop a Düsseldorf

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Chiuso in tipografia il 15 febbraio 2007 Printed February 15, 2007


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La ricerca è sviluppo Research is Development

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attuale crescente divario nel campo della ricerca tra l’Europa e i principali sistemi geopolitici con cui si confronta rappresenta una seria minaccia per la sua competitività sul lungo periodo nel campo dell’innovazione, della crescita e dell’occupazione. L’obiettivo condiviso dagli Stati Membri a Lisbona nel 2000 e fissato dal Consiglio europeo di Barcellona nel marzo 2002 si propone di fare dell’Europa l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo aumentando il livello degli investimenti nella ricerca dall’1,9% al 3% del Pil entro il 2010 e portando i finanziamenti privati ai 2/3 del totale. Questo ambizioso obiettivo è stato successivamente ribadito dalla Commissione europea nell’aprile 2003 con il programma “Investire in ricerca: un action plan per l’Europa”, nel quale si individuano azioni specifiche dirette ad accrescere il livello degli investimenti in R&S a una media dell’8% annuo, ripartita tra una crescita annua del 6% della spesa pubblica e una crescita annua del 9% degli investimenti privati. A quattro anni dalla scadenza di questo impegno, lo scorso mese di giugno il Parlamento di Strasburgo e la Commissione europea hanno approvato il VII Programma Quadro (FP7) che con oltre 53 miliardi di euro da investire in ricerca scientifica e innovazione tecnologica (dal 2007 al 2013) rappresenta l’azione più concreta e decisa in vista del raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona. Molto resta ancora da fare perché l’Europa possa recuperare rispetto ai suoi principali competitor sulla base di dati tutt’altro che confortanti: gli Stati Uniti investono in ricerca quasi il 3% del Pil, il Giappone supera il 3% e tra le economie emergenti dell’area asiatica il tasso di crescita degli investimenti in Ricerca e Sviluppo è dell’ordine di due cifre. Per quanto riguarda poi il capitale umano, l’Unione europea può contare su 5,5 ricercatori ogni 1.000 lavoratori, mentre negli Usa i ricercatori sono 9,0 e in Giappone sono 9,7. In questo scenario il VII Programma Quadro resta però un importante passo avanti, innanzitutto perché raddoppia la spesa destinata alla ricerca per i prossimi sette anni e in secondo luogo perché quasi il 10% di questa spesa sarà adesso gestita a Bruxelles con una politica organica e unitaria che, si spera, possa superare quella frammentazione che ha finora impedito una efficiente programmazione della politica della ricerca in Europa. Nella convinzione che il Vecchio Continente abbia risorse e talenti straordinari per uscire dal proprio ritardo tecnologico e recuperare capacità di innovare e di competere, la Fondazione Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti ha chiesto di tracciarne i possibili scenari futuri a un gruppo di autorevoli esperti del mondo istituzionale, industriale e accademico nel corso di una tavola rotonda tenutasi a Bergamo lo scorso dicembre. Delle loro idee e delle loro proposte arcVision ha voluto raccogliere gli estratti in questo numero monografico dedicato a una futura Europa della conoscenza. E se davvero esiste un rapporto direttamente proporzionale tra economia stagnante e grigiore della città, tra modelli tradizionali in crisi e assenza di colore nell’ambiente urbano, la stessa attesa di un futuro a tinte forti ha animato le pagine della sezione Projects dedicata alle atmosfere tonali di edifici altamente futuribili: architetture del domani come sintesi di alta tecnologia innovativa e superbe policromie.


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he widening research gap between Europe and the other geopolitical systems is a serious threat to our continent’s long-term competitiveness in innovation, growth and employment. The goal agreed by the Member States in Lisbon in 2000 and ratified by the European Council in Barcelona in March 2002 is to turn Europe into the most competitive and dynamic knowledge-based economy in the world, by raising research expenditure from 1.9% to 3% of GDP by 2010 and boosting private financing to 2/3 of total funding. This ambitious target was subsequently confirmed by the European Commission in April 2003 with “Investing in research: an action plan for Europe”, a program setting out specific measures to raise R&D investment to an annual average of 8%, based on annual 6% growth in public spending and annual 9% growth in private investment. Four years away from the 2010 deadline, in June 2006 the Strasbourg Parliament and the European Commission approved the Seventh Framework Program (FP7): with more than 53 billion euro to invest in scientific research and technological innovation (from 2007 to 2013), FP7 is the most decisive move to date toward achieving the Lisbon strategy. A great deal still needs to be done if Europe is to catch up with its main competitors: according to data that is anything but comforting, the USA invest almost 3% of GDP in research, Japan invests in excess of 3%, and the R&D expenditure growth rate among the emerging Asian economies is into double digits. As far as human resources are concerned, the European Union has 5.5 researchers for every 1,000 workers, compared with 9.0 in the USA and 9.7 in Japan. In this scenario, the Seventh Framework Program is nevertheless a significant step forward: first, because it doubles research spending for the next seven years and, second, because almost 10% of spending will now be managed in Brussels on the basis of a cohesive, unified policy, hopefully eliminating the piecemeal approach that so far has obstructed efficient research policy planning in Europe. In the belief that the Old Continent possesses the resources and expertise to bridge the technology gap and recover its capacity for innovation and competition, the Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti Foundation asked a panel of distinguished experts from the institutional, industrial and academic communities to outline possible scenarios for the future, at a round table organized in Bergamo in December. This special issue of arcVision on a future European knowledge economy offers a summary of their ideas and proposals. And if there really is a direct link between stagnant economies and gray cities, between traditional models at crisis point and colorless urban landscapes, Europe’s hope for a brightly colored future also extends to the Projects section, which looks at the tonal resonances of a series of decidedly futuristic buildings: architecture for tomorrow in a synthesis of innovative technology and exquisite polychromy.

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I profondi mutamenti del nostro tempo hanno comportato una seria trasformazione delle competenze e dei sistemi di lavoro, sempre più fondati sull’economia della conoscenza. Il passaggio all’economia della conoscenza richiede però investimenti coraggiosi: se l’Europa vuole mantenere il suo livello di vita, il suo sviluppo sostenibile, l’equilibrio regionale e vuole veramente continuare su questa strada non ha altra soluzione che investire in ricerca. L’obiettivo da porsi è di migliorare il livello della conoscenza scientifica, liberalizzare le università, realizzare modelli di interazione tra ricerca e impresa. The enormous changes in working methods and skills taking place today are carrying us rapidly into the knowledge economy. Nevertheless, the transition into the knowledge economy requires bold investments: if Europe wants to maintain its living standards, its sustainable growth, its regional balance and really wants to continue on its current course, it has no choice but to invest in research. Our aim must be to raise our level of scientific knowledge, deregulate our universities, establish models for cooperation between research and business.

Innovazione, competizione ed economia della conoscenza Innovation, Competition and Knowledge–based Economy

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n occasione della cerimonia per l’avvio dei lavori di realizzazione del nuovo centro di ricerca Italcementi ITCLab–Innovation and Technology Central Laboratory, la Fondazione Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti ha organizzato lo scorso dicembre una tavola rotonda su “Istituzioni, università, imprese: le leve per l’innovazione”. L’incontro, a cui hanno partecipato oltre 250 invitati, ha visto la partecipazione di Luigi Nicolais, ministro per le Riforme e l’Innovazione nella Pubblica Amministrazione, Adriano De Maio, delegato per l’Alta Formazione, la Ricerca e l’Innovazione della Regione Lombardia, Andrea Moltrasio, presidente del Comitato Tecnico Europa di Confindustria e presidente di “Bergamo Scienza”, Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria per le Relazioni Industriali e gli Affari Sociali ed Ezio Andreta, presidente APRE–Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea, moderati da Dario Di Vico, vicedirettore del Corriere della Sera. “Come imprenditore – ha sottolineato il presidente Italcementi Giampiero Pesenti nel saluto di apertura dei lavori – ritengo che l’innovazione sia il mezzo più efficace per essere protagonisti nella competizione globale: per questo la ricerca che genera innovazione nelle imprese è la leva per la competitività dell’intero sistema Paese”. Lo spunto per affrontare il tema della ricerca è stato offerto da Roberto Verganti, direttore dell’Alta Scuola Politecnica Milano/Torino, che ha illustrato i risultati di una ricerca dell’IReR condotta per la Fondazione Italcementi sui modelli virtuosi di rapporto tra istituzioni, università e imprese nella promozione delle innovazioni tecnologiche derivanti dalla ricerca scientifica. I meccanismi di interazione tra università e imprese, quali la creazione di spin-off, l’acquisto di brevetti da parte delle aziende, la stipula di contratti di ricerca – rileva lo studio – costituiscono solo la punta di un iceberg nel complesso sistema di confronto. Sotto la superficie esistono meccanismi più “informali” senza i quali è impossibile attivare la collaborazione. L’accogliere studenti per periodi di stage, la formazione continua, l’incontro tra ricercatori producono la base per rapporti più “formali” in quanto creano capitale relazionale. D’altro canto le imprese hanno bisogno di interagire con i centri di ricerca pubblica poiché la conoscenza necessaria per generare le innovazioni diventa sempre più elevata, multidisciplinare e complessa, mentre anche per le università e i centri di ricerca è fondamentale l’interazione con le imprese, perché da queste interazioni nascono gli stimoli che possono portare a nuove scoperte. I processi di trasferimento della conoscenza sono però spesso complessi e articolati: lo studio IReR ha messo in luce che un ruolo importante in questi processi è ricoperto dalle grandi imprese, dal momento che solo queste possono contare su centri di ricerca e sviluppo e un’organizzazione adatta a interagire con l’università. I risultati, sul piano pratico, sono commisurati alle risorse, economiche e umane, che ogni paese mette in gioco nel suo impegno a sostenere la ricerca e l’innovazione.

Istituzioni, università, imprese: le leve per l’innovazione Government, Universities, Industry: Levers for Innovation di Roberto Verganti*, Paolo Landoni e Claudio Roveda

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egli ultimi anni, sia nella comunità scientifica sia nel dibattito pubblico, è stata ampiamente evidenziata l’importanza dell’innovazione a base scientifica e tecnologica per lo sviluppo economico

e sociale ed è stata sottolineata la stretta relazione tra la capacità d’innovazione delle imprese da un lato e i sistemi locali della ricerca pubblica dall’altro. In particolare viene chiesto sempre di più alle

imprese di investire in Ricerca e Sviluppo e al sistema della ricerca pubblica di trasferire conoscenze e tecnologie al mondo industriale. Nonostante tutti gli studi e i dibattiti sul tema, non è stata ancora trovata


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n the occasion of the cornerstone ceremony in December 2006 for the new Italcementi’s Innovation and Technology Central Laboratory—ITCLab—the Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti Foundation organized a round table on the theme “Government, universities, industry: levers for innovation”. The speakers at the event, attended by more than 250 guests, were Luigi Nicolais, Italy’s Minister for Reform & Innovation in the Public Administration, Adriano De Maio, Lombardy’s Regional Delegate for Higher Education, Research & Innovation, Andrea Moltrasio, Chairman of the Confindustria Technical Committee for Europe and Chairman of “Bergamo Scienza”, Alberto Bombassei, Confindustria Vice President for Industrial Relations & Social Affairs, and Ezio Andreta, Chairman of the Agency for the Promotion of European Research (APRE). The debate was moderated by Dario Di Vico, deputy editor of the Corriere della Sera newspaper. Opening the round table, Italcementi Chairman Giampiero Pesenti said: “As a business man, I believe innovation is the most efficient path to leadership in global competition. This is why research that generates innovation in our business organizations is the lever for the competitiveness of the entire country-system.” The research debate was introduced by Roberto Verganti, Principal of the Alta Scuola Politecnica–ASP (Milan-Turin), who illustrated the results of an IReR survey conducted for the Italcementi Foundation on virtuous models for relations between government, universities and industry to promote technological innovation based on scientific research. The survey found that the mechanisms for interaction between universities and industry—the creation of spin-offs, the purchase of patents by companies, research contracts—are just the tip of the iceberg in a highly complex system of relationships between the two communities. Beneath the surface more “informal” mechanisms operate, without which cooperation would not be possible. Student internships, on-the-job training, meetings among researchers create the relational capital that lays the foundation for ties of a more “formal” nature. At the same time, industry needs to interact with public research centers, since innovation depends on increasingly advanced, interdisciplinary and complex levels of knowledge; equally, interaction with the business community is essential for universities and research centers, because it generates the stimuli that may lead to new discoveries. Knowledge transfer processes, however, are often complex and elaborate: the IReR study found that an important role in these processes is played by large corporations, who alone have the R&D centers and organization structures to interact with universities. At a practical level, results are commensurate with the economic and human resources that each country invests to support its commitment to research and innovation.

una soluzione al problema dello sviluppo, dell’innovazione e della ricerca. Il punto di partenza di questo studio condotto per la Fondazione Italcementi è stato proprio questo: il problema è estremamente complesso, investe una moltitudine di soggetti diversi, di relazioni e di processi, di azioni politiche e di scelte manageriali che lo rendono non risolvibile se affrontato “dall’alto”, cioè solo in termini numerici o statistici, con un’ottica rivolta al passato e senza la capacità di cogliere le diverse sfumature nei comportamenti e nelle organizzazioni. Abbiamo quindi deciso di utilizzare una

metodologia innovativa, di cercare una nuova chiave interpretativa per il nostro studio: abbiamo scelto di partire “dal basso”, di considerare i diversi soggetti coinvolti e in particolare le loro relazioni. Abbiamo deciso di cercare ed evidenziare alcuni casi eccellenti e da questi generalizzare e indicare opportunità di azione per i diversi attori singolarmente o in interventi coordinati. Inoltre abbiamo ritenuto necessario adottare un approccio originale anche per quanto riguarda la prospettiva adottata nello studio e abbiamo scelto di focalizzare l’attenzione sulle imprese piuttosto che sulle istituzioni

o i centri di ricerca, partendo dalla consapevolezza che è proprio nelle imprese che si sviluppano le innovazioni. Il problema Tutti i report internazionali degli ultimi anni evidenziano una situazione di difficoltà dell’Italia e dell’Europa in termini di indicatori per la ricerca e l’innovazione. Nella tabella 1 sono stati selezionati alcuni degli indicatori più rilevanti, ma la situazione è ben nota: l’Europa e in particolare l’Italia sono in una situazione di difficoltà sia rispetto agli Stati Uniti e al Giappone sia, in prospettiva, rispetto ai paesi emergenti come

Un momento della tavola rotonda. A highlight from the round table discussion.

ad esempio la Cina. Inoltre l’Italia, anche nel contesto europeo, si trova distanziata dagli altri paesi del G7 e dai paesi del Nord Europa come la Svezia. I problemi sono relativi agli investimenti in ricerca (in particolare quelli industriali), alla propensione all’innovazione tecnologica (brevetti) e soprattutto al numero di ricercatori, che sono la risorsa fondamentale per la ricerca. E inoltre, come emerge dalla seconda parte della tabella, la situazione è anche in peggioramento. Nonostante che in valore assoluto sia riscontrabile una crescita, gli altri sistemi si stanno muovendo più velocemente e quindi in termini relativi il divario aumenta. In particolare, ritornando alla prospettiva delle imprese e quindi dell’innovazione, è significativa la perdita di competitività sui mercati high-tech che si è registrata negli ultimi 20 anni. Infine, come comincia a essere evidenziato anche dai dati, nuovi paesi si affacciano sulla scena internazionale e, a differenza di quanto spesso si legge, non intendono competere solo sulle attività a basso valore aggiunto, ma soprattutto sulla ricerca e l’innovazione. Il caso dell’India e delle sue performance, in particolare sulle tecnologie dell’Information e Communication Technology (ICT), inizia a essere ben noto, così come quello della Corea e delle altre cosiddette tigri asiatiche, ma anche la Cina sta volgendosi con decisione in questa direzione come dimostrano gli investimenti in ricerca in percentuale sul Pil (già oggi più alti rispetto all’Italia)

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Tabella 1: INDICATORI PER LA RICERCA E L’INNOVAZIONE % Pil investito in R&S Spesa in R&S (milioni di €) Quota investimenti R&S da industria Ricercatori ogni 1000 lavoratori % di ricercatori industriali Brevetti (triadic) per milione di abitanti

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e il tasso di crescita della quota dei mercati high-tech negli ultimi 20 anni, che è stato pari all’800% (European Union, Key-figures 2003-2004). A questi dati ampiamente noti si sono accompagnati numerosi studi e dibattiti. Tra le varie considerazioni emerse sono ricorrenti in particolare tre conclusioni: in primo luogo c’è un problema di risorse, in secondo luogo c’è un problema di efficienza e di qualità e infine c’è un problema relativo ai processi di innovazione e di trasferimento tecnologico. Sul primo punto non si può che essere d’accordo: il confronto internazionale pone delle sfide evidenti e richiede maggiori sforzi orientati al futuro da parte delle imprese e delle amministrazioni pubbliche, nuovi sistemi di valutazione e incentivazione degli investimenti in ricerca e sviluppo nelle imprese, nelle università e nei centri di ricerca. Il secondo punto invece richiede una maggiore attenzione. È innegabile la necessità di attività di ricerca e sviluppo di qualità, è fondamentale che gli investimenti non vadano dispersi in organizzazioni non in grado di valorizzarli adeguatamente ed è altrettanto evidente che in Italia e in Europa siano possibili numerosi passi avanti in questo senso. Ma è altrettanto importante sottolineare che, pur in presenza di una realtà estremamente eterogenea, sono presenti diversi ottimi centri di ricerca e università così come numerose imprese innovative e di successo. In termini di produttività scientifica (rapporto tra numero di pubblicazioni e numero di ricercatori), ad esempio, l’Italia è perfettamente in linea con la media dell’Unione europea e ha una produttività quasi doppia rispetto agli Stati Uniti

Tasso di crescita investimenti in R&S Tasso di crescita ricercatori Tasso di crescita ricercatori industriali Crescita brevetti (triadic) per milione di abitanti (10 anni) Nuovi PhD in S&T Crescita quota dei mercati high tech (20 anni)

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92,3

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Svezia

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* EU 15 Fonti: EU Key-figures 2005 e EU Key-figures 2003-2004, US National Science Board - Science and Engineering Indicators 2004, OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2005. Dati 2003 o ultimi dati disponibili.

(European Commission – Third European Report on S&T Indicators, 2003). Sottolineare i margini di miglioramento dei centri di ricerca e delle imprese rimane un aspetto fondamentale, ma il dibattito che vede contrapposti da un lato quelli che assegnano tutte le colpe ai centri di ricerca (sostenendone l’incapacità di fare ricerca “utile”) e dall’altro quelli che considerano responsabili le imprese perché troppo piccole è stato finora un dibattito sterile che non coglie a nostro avviso gli aspetti prioritari. Per quanto siano effettivamente necessarie azioni volte ad affrontare le critiche sopra evidenziate per ognuno dei due attori principali del sistema dell’innovazione, l’attenzione maggiore deve essere posta sulle relazioni, le interazioni e i processi che vedono coinvolti entrambi. In quest’ottica sono possibili diversi spazi d’intervento per le amministrazioni pubbliche in termini di governance del sistema complessivo e di facilitazione dell’incontro e della collaborazione tra i diversi soggetti. Riprendendo il terzo dei punti prima evidenziati, possiamo quindi rilevare che c’è un problema relativo ai processi di innovazione e di trasferimento tecnologico su cui occorre

intervenire. Non a caso, infatti, negli ultimi anni la cosiddetta “economia evolutiva” ha sottolineato l’importanza per l’innovazione delle imprese di quelli che sono definiti elementi di contesto e in particolare della presenza e dell’interazione dei diversi attori: sono stati approfonditi i concetti di sistemi nazionali (o regionali o settoriali) dell’innovazione e si è affermata la consapevolezza dell’esistenza di una tripla elica di relazioni tra università, imprese e istituzioni. Il seguito di questo lavoro si concentrerà quindi su questi aspetti considerando come i diversi soggetti coinvolti interagiscono e possono interagire con gli altri attori del sistema per aumentare la capacità complessiva di fare innovazione. La prospettiva delle imprese Il soggetto da cui occorre partire, come già accennato, sono le imprese. Se il problema che stiamo affrontando riguarda l’innovazione come leva per lo sviluppo economico e sociale, occorre capire innanzitutto come le imprese fanno innovazione e come possono fare parte di un sistema interconnesso. In effetti, è sempre più chiaro che le imprese sono interessate ad aprirsi, ad assorbire conoscenza dal contesto.

Molti dati dimostrano come il fenomeno sia globale, cioè sempre più la ricerca delle imprese avviene in interazione con il contesto e non più solo all’interno dei propri laboratori. Ad esempio le scelte di localizzazione dei centri di ricerca delle imprese sono sempre più indirizzate verso parchi scientifici e tecnologici o in generale in prossimità di altri centri di ricerca industriali o pubblici e università. Questo fenomeno di apertura si verifica per una serie di motivi, tra cui l’aumentata complessità della scienza e della tecnologia e dei costi e dei rischi associati alla ricerca. Le tecnologie stesse sono sempre più complesse e trasversali e le imprese, non riuscendo a dominarle tutte e in modo completo, non possono che aprirsi all’esterno. Coesistono, inoltre, diverse traiettorie tecnologiche sia in termini di input, cioè di direzioni lungo le quali orientare la ricerca più esplorativa, sia in termini di output cioè di tecnologie da sviluppare per ottenere innovazioni. In generale le attività di ricerca e sviluppo diventano sempre più rischiose (in particolare in termini di risultati raggiungibili e probabilità di successo) e costose (in termini di sforzo necessario e risorse coinvolte)


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Figura 1. IL CASO DEL SETTORE FARMACEUTICO Investimenti totali in R&S (miliardi di $) e numero di New Chemical Entities (NCEs)

Fonte: 2004 Pharma Annual Survey, 2003/2004 Parexel's Pharmaceutical Industry Sourcebook

ed è quindi necessario rendere il processo più flessibile avvalendosi di input e collaborazioni esterne. Nel caso del settore farmaceutico, ad esempio – come emerge dalla figura 1 – gli investimenti in Ricerca e Sviluppo sono dovuti aumentare in modo quasi esponenziale per mantenere almeno costante il numero di nuovi principi attivi. In risposta a queste difficoltà le aziende farmaceutiche hanno progressivamente aumentato le loro relazioni con altri centri di ricerca e oggi quasi il 50% dei prodotti da loro commercializzati deriva da accordi di licensing con piccole imprese o centri di ricerca (Evaluate Pharma; ISO Healthcare, 2003). Questo nuovo approccio delle imprese all’innovazione è stato recentemente descritto con il termine “Open Innovation” (Chesbrough, H., 2003) in contrapposizione al vecchio modello definito di “Closed Innovation”. Si è cioè passati da grandi laboratori interni alle imprese, normalmente segreti e chiusi rispetto all’esterno, a imprese che considerano i propri confini permeabili sia alle ricerche e alle idee provenienti dall’esterno sia in termini di commercializzazione, licensing e spin-off di proprie idee e ricerche non strettamente legate al core business dell’impresa. Sono ormai disponibili numerosi esempi di questo nuovo approccio anche a livello italiano, ma due casi sono a nostro avviso particolarmente

significativi per illustrare le modalità attraverso le quali è possibile mettere in pratica questi concetti. Il primo caso riguarda la Pfizer. Questa azienda, tra le più grandi del settore farmaceutico, da alcuni anni ha lanciato un programma chiamato Drug PfinderTM che si basa sulla collaborazione dei propri grandi e attrezzati laboratori con gruppi di ricercatori accademici di tutto il mondo. L’azienda permette a ricercatori selezionati di partecipare alle prime fasi dell’identificazione di nuovi composti chimici, di ottenere benefici economici nel caso in cui i risultati del loro lavoro portino a nuovi farmaci e di ricevere finanziamenti per le loro ricerche e le loro collaborazioni. In questo modo, come sottolineato dalla stessa Pfizer, i ricercatori ottengono risorse per le proprie ricerche e l’impresa riesce ad ampliare il proprio portafoglio di risorse, idee e creatività. Ancora più interessante è il caso Procter & Gamble che è stato anche ripreso in un recente articolo della rivista Harvard Business Review (Huston & Sakkab, 2006). Questa impresa, partendo dalla considerazione che “per ognuno dei nostri 7.500 ricercatori ve ne sono almeno 200 altrettanto bravi in altre parti del mondo”, si è organizzata per accedere a questo enorme bacino di conoscenze. In particolare ha creato 70 technology entrepreneur, settanta professionisti che di mestiere

fanno scouting, ricercano tecnologie, conoscenze e competenze, vanno in giro per il mondo a cercare opportunità e soluzioni per la loro impresa. Negli Stati Uniti, ad esempio, in questo momento sono un grande successo le patatine sviluppate da questa impresa chiamate Pringles Print e caratterizzate dall’aver stampato su ogni patatina, a seconda della confezione, trivia, massime, indovinelli su vari temi. L’aspetto interessante è che l’implementazione di questa idea non è stata sviluppata nei laboratori di ricerca interni; l’impresa ha cercato di capire se e chi avesse già sviluppato una tecnologia di inchiostri alimentari o qualcosa di simile, e alla fine ha trovato la soluzione in uno spin-off accademico dell’Università di Bologna. In generale Procter & Gamble dichiara che ormai oltre il 50% dell’innovazione della propria impresa proviene dall’esterno e che con questo nuovo approccio e con questa nuova struttura organizzativa si è dimezzato il time-to-market, ottenuta una crescita della produttività della ricerca e sviluppo del 60%, e raddoppiato il tasso di successo dell’innovazione. Non a caso Huston e Sakkab, discutendo di questo caso nel loro articolo, suggeriscono di non parlare più di “ricerca e sviluppo” ma di “connessione e sviluppo” enfatizzando quindi l’aspetto del collegamento nei confronti del contesto esterno rispetto all’investimento in ricerca

all’interno della propria impresa. La necessità di sempre maggiori connessioni è evidenziata anche dall’affermarsi, in particolare a livello internazionale, di società di intermediazione e di veri e propri marketplace delle tecnologie come ad esempio Innocentive o NineSigma. Questi soggetti, che nascono sulla base delle esigenze delle imprese, hanno lo scopo di mettere in comunicazione le aziende che hanno problemi da risolvere o idee da sviluppare con i ricercatori di tutto il mondo e costituiscono un ulteriore canale attraverso il quale cercare nuove collaborazioni. I casi presentati hanno due interessanti similitudini che ci permettono di sottolineare ed esemplificare due primi risultati del nostro studio. In primo luogo emerge quanto stia diventando strategico per le imprese guardare al proprio esterno, cercare e cogliere nuove opportunità e farlo, aspetto non scontato, con un’ottica internazionale. È necessario prendere coscienza che questi fenomeni di trasferimento di conoscenze e tecnologie avvengono a livello globale, le imprese che non trovano risposte ai loro problemi nel contesto locale iniziano a cercare in altri paesi, e allo stesso tempo i ricercatori che non individuano possibilità di sviluppo per i loro ritrovati o finanziamenti per le loro ricerche nel proprio territorio iniziano a rivolgersi altrove. Pur riconoscendo il valore della prossimità per questi processi e in particolare per gli aspetti relativi alla fiducia e alle conoscenze tacite, idee e conoscenze hanno una grande mobilità e la localizzazione non può costituire una scusa o un alibi. Al contrario sono presenti

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L’avv. Giovanni Giavazzi, presidente della Fondazione Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti, saluta i partecipanti alla tavola rotonda. The Chairman of the Italcementi Cav. Lav. Carlo Pesenti Foundation, Giovanni Giavazzi, welcomes the round table speakers.

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grandi opportunità per chi si organizza per coglierle. Proprio questo aspetto “organizzativo” costituisce la seconda significativa analogia tra i due casi e ci permette di introdurre il secondo risultato del nostro lavoro: così come è necessaria una maggiore attenzione verso l’esterno dell’impresa, altrettanto e anzi ancora più importante per cogliere appieno i vantaggi del nuovo approccio è una rinnovata attenzione verso l’interno dell’impresa. In primo luogo non è sufficiente una semplice predisposizione verso l’esterno: la scoperta di nuove opportunità e nuove soluzioni non avviene naturalmente e, anche se il caso può certamente giocare un ruolo rilevante, è necessario creare le condizioni perché queste occasioni si presentino. Serve cioè essere proattivi e organizzarsi, individuare programmi e figure professionali ad hoc per queste operazioni di scouting e di selezione. E tutto ciò può non essere sufficiente se non è affiancato da un altro cambiamento interno fondamentale sempre dal punto di vista organizzativo: un nuovo assetto dei laboratori interni di ricerca e sviluppo nella direzione di una maggiore capacità d’interazione con soggetti e idee esterne. Può succedere che nuove opportunità e tecnologie si manifestino alle imprese, anche senza particolari sforzi da parte loro, attraverso l’intermediazione di altri soggetti o semplice fortuna, ma senza la capacità di cogliere e sviluppare queste opportunità è difficile che dall’incontro si sviluppino significative innovazioni. Come sottolineato in un famoso articolo di Cohen e Levinthal (1990) le imprese hanno bisogno di

capacità assorbitive per appropriarsi, rielaborare e sviluppare, al fine di ottenere delle innovazioni, le conoscenze provenienti dall’esterno. Le attività innovative non possono quasi mai essere date completamente in outsourcing, è necessario che nell’impresa ci siano le risorse, in primo luogo umane, in grado di trasformare le conoscenze in innovazioni apportando il contributo, l’esperienza e il know-how dell’impresa stessa. Nei due casi brevemente descritti si è accennato, infatti, ai “grandi e attrezzati laboratori” della Pfizer e ai “7.500 ricercatori” della Procter & Gamble. Queste imprese si aprono verso l’esterno, ma senza rinunciare a fare ricerca, senza rinunciare ai ricercatori che possono tradurre in innovazioni anche le conoscenze generate all’esterno. Su quest’ultimo punto è necessario un approfondimento in quanto un’altra evidente similitudine tra i due casi presentati è che entrambi riguardano imprese di dimensioni molto grandi che operano in mercati internazionali. Dal nostro punto di vista le considerazioni sviluppate non valgono però solo per queste tipologie di imprese: anche imprese di medie e piccole dimensioni possono seguire la strada indicata e diversi esempi lo confermano. La condizione fondamentale non è tanto la dimensione quanto la possibilità e la consapevolezza della necessità di investire in risorse umane qualificate in grado di generare innovazione, anche assorbendo conoscenze e tecnologie dall’esterno. Sicuramente questo investimento è più semplice per imprese medie e grandi, ma la considerazione che spesso

viene fatta, che cioè in un contesto molto significativo di piccole imprese il ruolo delle università e dei centri di ricerca pubblici sia ancora più importante come possibile sostituto della ricerca industriale, è a nostro avviso fuorviante. Diversi studi hanno ormai dimostrato che se le imprese non sono opportunamente organizzate internamente, se non dispongono di capacità assorbitive e non hanno strutture interne dedicate con ricercatori o tecnici specializzati, difficilmente riusciranno non solo ad appropriarsi della conoscenza generata al loro esterno e a tradurla in innovazione, ma anche a capire a chi rivolgersi, a porre le domande giuste e in generale a comunicare con il mondo della ricerca e delle tecnologie. Non a caso da un recente studio sulle imprese lombarde è emerso che tra le imprese con più di 50 addetti oltre l’80% ha laureati in organico e circa il 50% ha ospitato stage di studenti universitari, mentre tra le imprese con meno di 50 addetti solo il 35% ha laureati in organico e solo il 15% ha ospitato stage di studenti universitari. In conclusione per le imprese sta diventando strategico guardare al proprio esterno e devono quindi organizzarsi per cercare nuove opportunità, conoscenze e tecnologie; ma per far funzionare il processo di trasferimento di conoscenze e tecnologie tra imprese, centri di ricerca pubblici e università non è sufficiente che i diversi soggetti entrino in contatto: le imprese devono organizzarsi internamente per sviluppare capacità assorbitive che permettano loro di cogliere queste opportunità.

La prospettiva delle università e dei centri di ricerca pubblici Un secondo attore fondamentale del sistema dell’innovazione sono le università e i centri di ricerca pubblici. Della loro importanza come luoghi di produzione di conoscenza e di formazione di risorse umane qualificate per le imprese si è già accennato e in questa sede non è prioritario discuterne, da un lato perché sono già presenti numerosi studi al riguardo, dall’altro perché su questo punto c’è un sostanziale consenso sia a livello scientifico sia a livello di dibattito pubblico. Più interessante è invece il dibattito sull’opportunità, sulle modalità e sulla capacità di questi attori di trasferire conoscenze e tecnologie e in generale sul loro impegno nella relazione con il mondo industriale. È ormai evidente che molti di questi attori, in particolare a livello internazionale, hanno fatto di questo punto una loro terza missione. Tra i motivi che spingono a una collaborazione con le imprese tre sono a nostro avviso particolarmente rilevanti: lo stimolo alla ricerca, l’immagine e l’integrazione delle risorse finanziarie. In primo luogo, molti ricercatori hanno capito i limiti di un modello lineare che consideri unicamente un passaggio unidirezionale dalla ricerca di base alla ricerca applicata, allo sviluppo industriale. Le relazioni sono molto più complesse, e per quanto la ricerca libera, di curiosità, continui a costituire un fondamento imprescindibile dello sviluppo scientifico e tecnologico, è ormai chiaro che diversi stimoli e sfide possono venire dal mondo industriale e portare a grandi scoperte, come avvenuto ad esempio per la microbiologia


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Figura 2. INFLUENZA DEL RAPPORTO CON LE IMPRESE SULLA PRODUTTIVITÀ SCIENTIFICA Numero medio di pubblicazioni all’anno

3,5 3 2,5 2 1,5 1 0,5 0

Science oriented

Fonte: adattato da Van Looy et al., 2004

grazie agli studi di Pasteur per la risoluzione di problemi di natura industriale. In secondo luogo, la collaborazione e la stima da parte delle imprese costituiscono un elemento distintivo rilevante in termini d’immagine per i centri di ricerca e i ricercatori, sia nei confronti dell’opinione pubblica sia, soprattutto, in termini di attrattività di talenti, di nuovi ricercatori e studenti, che tra l’altro oltre all’immagine considerano anche le opportunità aperte da queste relazioni. Infine, una relazione significativa con il mondo industriale permette un’integrazione delle risorse finanziarie a disposizione, e quindi di nuovo la possibilità di migliori strutture di ricerca e ricerche eccellenti. A queste motivazioni dovrebbe poi aggiungersi il senso di responsabilità che sempre di più caratterizza le università e i centri di ricerca pubblici, cioè la consapevolezza della necessità di valorizzare i risultati della ricerca per la società. Ma in questa sede ci preme di più sottolineare l’aspetto di utilità, e in particolare il primo punto da noi evidenziato, perché ancora oggetto di un significativo dibattito. Alcuni autori, a questo riguardo, continuano a sostenere che un legame forte tra centri di ricerca pubblici e imprese pregiudichi la vera natura di queste istituzioni e il loro ruolo, e in particolare impoverisca e limiti le attività di ricerca di base. A nostro avviso è sicuramente necessario un equilibrio nella ripartizione delle attività di ricerca. Come già sottolineato, l’importanza della ricerca di base rimane fuori

Technology oriented

Collaborano

Non collaborano

discussione, ma maggiori relazioni con il mondo industriale per università e centri di ricerca pubblici sono non solo un dovere ma anche un’opportunità. Un’opportunità, come visto sopra, in termini di stimoli e risorse per la ricerca e perché, come sempre più studi dimostrano, probabilmente entro un certo limite queste collaborazioni non impattano negativamente sulla produttività scientifica. A titolo di esempio riportiamo i risultati di uno di questi studi condotto recentemente presso l’Università Cattolica di Leuven. Una serie di docenti di questa università sono stati divisi in due gruppi: quelli che collaborano con le imprese e quelli che non collaborano con le imprese se non in modo trascurabile (all’interno della stessa università ovviamente ci sono dei margini di libertà). Dalla figura 2 si può notare che quelli che collaborano, quelli che sono coinvolti in processi di trasferimento di conoscenze, sono anche quelli che pubblicano di più, anzi in campo tecnologico (pubblicazioni technology oriented) pubblicano circa 4 volte di più. La differenza è meno significativa, ma comunque rilevante, anche per quanto riguarda le pubblicazioni più teoriche, più legate alla ricerca di base (pubblicazioni science oriented). Questo esempio e altri che si potrebbero citare confermano l’opportunità di un’apertura delle università e dei centri di ricerca pubblici nei confronti delle imprese, così come specularmente, abbiamo già visto, le imprese si stanno orientando a fare nei confronti

di questo mondo. Ma da un punto di vista operativo con quali modalità questi soggetti possono implementare questa apertura? Un caso interessante è proprio quello dell’Università Cattolica di Leuven che, anche se meno famosa di altre università, ad esempio americane, ha ottime performance in termini di trasferimento di conoscenze e tecnologie e opera in un contesto europeo che è quindi più facilmente confrontabile con quello italiano. In primo luogo in questa università da oltre 20 anni è presente un ufficio di trasferimento tecnologico chiamato Leuven R&D (LRD) che ha oggi circa 25 addetti. In secondo luogo i ricercatori dei differenti dipartimenti universitari, anche appartenenti a facoltà diverse, possono decidere di unirsi virtualmente in “research division” presso l’ufficio di trasferimento tecnologico LRD mettendo a sistema le proprie diverse competenze di ricerca, commerciali e industriali. In questo modo si realizza una vera e propria struttura organizzativa a matrice di carattere interdisciplinare all’interno dell’università. Alla base di questa impostazione c’è l’idea che per risolvere i problemi applicativi, l’ottica non può essere disciplinare, ma necessariamente multi-disciplinare, cioè i problemi e le soluzioni dal punto di vista innovativo richiedono di mettere insieme competenze diverse. Inoltre, mentre il sistema di incentivi dei dipartimenti e delle facoltà è basato sulla promozione nel percorso di carriera accademica, guardando essenzialmente alla produzione di risultati di ricerca e alla qualità della didattica, per le

divisioni LRD è stato sviluppato un sistema di incentivi fondato sulla flessibilità di budget e sull’autonomia finanziaria e le divisioni LRD godono di autonomia nel gestire ricavi e spese relativi alle proprie attività di trasferimento tecnologico. In altre parole, tali divisioni possono accantonare riserve finanziarie generate dai profitti ottenuti con le attività di trasferimento tecnologico ed eventualmente investire in nuove attività di ricerca o in nuove imprese (spin-off). Infine, l’Università Cattolica di Leuven ha realizzato un fondo per il finanziamento delle imprese spin-off dell’università stessa e tale fondo è co-partecipato all’80% da due grandi banche. Un altro caso molto interessante, e più conosciuto, è quello dell’Università di Oxford. Anche Oxford ha ottenuto in questi anni significativi risultati in termini di trasferimento di conoscenze e tecnologie, in particolare per quanto riguarda la creazione di imprese spin-off della ricerca che nel 2004 hanno raggiunto un fatturato cumulato di circa 3 miliardi di euro. Anche in questa università è attivo da diversi anni un centro di trasferimento tecnologico, chiamato ISIS Innovation. In questo centro lavorano circa 35 persone e di queste ben 18 sono project manager, ricercatori PhD specializzati nell’aiutare le imprese spin-off dell’università a nascere e nei primi anni del loro sviluppo. Questi project manager hanno un compito in particolare: trovare i soggetti giusti da coinvolgere nelle nuove imprese grazie alla loro rete di relazioni e alla rete di contatti del centro ISIS Innovation. All’Università di Oxford, infatti, i ricercatori il cui lavoro è stato valutato interessante da valorizzare

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Figura 3. IL CASO DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DI LEUVEN BANCHE 80% 20%

IMPRESE

UNIVERSITÀ

Gemma Frisius Fund 25 M€

DIPARTIMENTO

DIPARTIMENTO

FACOLTÀ

LEUVEN R&D Innovation Coordinator

RESEARCH DIVISION RESEARCH DIVISION

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attraverso la fondazione di un’impresa spin-off non sono coinvolti direttamente nella gestione di questo spin-off: il capo del gruppo di ricerca può diventare il direttore della ricerca e i suoi collaboratori membri del team di ricerca e sviluppo dell’impresa, ma il management, il direttore generale e/o l’amministratore delegato sono selezionati all’esterno del mondo universitario tra persone con forti esperienze manageriali e industriali e sempre all’esterno sono selezionati esperti di marketing, degli aspetti finanziari ecc. Anche nella prospettiva delle università e dei centri di ricerca pubblici i due casi ci permettono di esemplificare sinteticamente due ulteriori risultati del nostro studio. In primo luogo anche per questi soggetti è un’opportunità aprirsi nei confronti del mondo delle imprese e quindi è necessario che si organizzino internamente per gestire queste relazioni. Le modalità organizzative possono essere diverse a seconda del contesto e delle caratteristiche della ricerca che viene condotta ed è perciò necessario che possano determinarsi autonomamente in questo senso. È inoltre importante sottolineare che per queste attività è necessario raggiungere una certa massa critica e quindi sono necessari investimenti, ma soprattutto risorse umane dedicate e specializzate; non a caso nei due casi esaminati si parlava rispettivamente di 25 e 35 addetti. Per fortuna le università e i centri di ricerca pubblici europei e italiani si stanno muovendo in questa direzione e negli ultimi anni hanno creato e ora stanno sviluppando e migliorando uffici di trasferimento tecnologico

RESEARCH DIVISION

dedicati e sempre più professionali. In secondo luogo questi soggetti devono tener presente di avere delle specificità e dei limiti. La missione principale di queste strutture rimane la ricerca e la formazione e su questa devono continuare a investire e migliorare per distinguersi e per svolgere al meglio il loro ruolo nel sistema dell’innovazione. Per quanto riguarda il trasferimento di conoscenze e di tecnologie è utile che coinvolgano gli altri soggetti con competenze specifiche, ad esempio gli attori finanziari come visto nel caso di Leuven per il fondo di finanziamento, le persone con competenze manageriali come nel caso di Oxford per dirigere gli spin-off o ancora le stesse imprese per quanto riguarda lo sviluppo, l’industrializzazione delle scoperte scientifiche e in generale l’innovazione. La prospettiva delle istituzioni L’ultima prospettiva che affrontiamo è quella delle istituzioni, ed è una prospettiva che pone delle sfide particolarmente significative. Cosa possono fare le istituzioni? Il tema di come favorire il trasferimento tecnologico e l’interazione tra imprese, università e centri di ricerca pubblici è oggi, come si può vedere anche dall’attenzione a livello europeo, nazionale e regionale, ai primi posti nelle agende politiche perché riconosciuto fondamentale ma, come già accennato, si faticano a trovare delle soluzioni. Il punto di partenza della nostra analisi sono state, ancora una

volta, le imprese. In particolare ci siamo chiesti se effettivamente tutte le imprese sono interessate a fare innovazione e quindi a dedicare attenzione alle attività di ricerca e sviluppo e alle relazioni con gli altri attori del sistema dell’innovazione. Abbiamo classificato un significativo campione di piccole e medie imprese in Lombardia: accanto alle innovatrici, che sono le aziende che hanno avuto e continuano ad avere piani di innovazione, abbiamo individuato le aspiranti e quelle che abbiamo definito inerti. Le innovatrici hanno in realtà un limitato bisogno di politiche per la ricerca e l’innovazione, sono cioè già in grado di sviluppare internamente e in relazione con altri soggetti le conoscenze e le opportunità per competere sul mercato e chiedono alle amministrazioni pubbliche più che altro di non essere ostacolate in queste loro attività e di creare condizioni di contesto favorevoli in termini infrastrutturali, finanziari, della qualità della ricerca pubblica. Le aspiranti invece, cioè le imprese che non hanno ancora fatto innovazione ma hanno idea di farne, dovrebbero costituire il target delle politiche per la ricerca e l’innovazione e ne parleremo in seguito. Poi però dal nostro studio è emerso anche che circa il 60% delle imprese, pur in una regione dinamica quale la Lombardia, sono inerti: non solo non fanno innovazione, ma non hanno nessuna intenzione di farne (Verganti, Buganza, Landoni, 2005). Per queste ultime imprese serve un ulteriore passaggio:

far capire l’importanza dell’innovazione, o ancora meglio la necessità dell’innovazione. È poi emerso che le imprese che fanno innovazione hanno una maggiore crescita del fatturato, e soprattutto hanno una maggiore crescita del fatturato all’estero. Questo ci dice una cosa che sapevamo già, e cioè che fare innovazione aiuta a competere; ma ci può dire anche un’altra cosa se letta nell’altro verso: chi è più esposto alla competizione internazionale è più portato a fare innovazione. Uno dei motivi principali per cui molte imprese non investono in innovazione è il fatto che l’innovazione non ha un valore di per sé, un valore intrinseco e oggettivo, ma serve, è funzionale, a competere sul mercato. Molte imprese non sentono la necessità di competere, non sentono la pressione competitiva o quanto meno non considerano interessante competere attraverso le leve dell’innovazione che sono quelle che garantiscono un differenziale più significativo. Per queste imprese le politiche più rilevanti sono quelle rivolte a far percepire lo stimolo della competizione in modo tale da convincerle a investire in innovazione. Diverse iniziative sono in corso in questa direzione a livello nazionale ed europeo, ma la strada rimane ancora lunga come dimostrato dal recente Global Competitiveness Report (2006) che vede l’Italia al 72° posto in termini di efficienza dei mercati. Riportando quindi l’attenzione sulle imprese aspiranti rimane da capire con quali politiche per


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la ricerca e l’innovazione è possibile facilitare le relazioni tra queste imprese e le università e i centri di ricerca pubblici. In passato una delle soluzioni più utilizzate è stata quella di mettere in mezzo tra questi due attori incapaci di parlarsi dei traduttori, dei centri di trasferimento tecnologico terzi e indipendenti che facilitassero il dialogo. Questa soluzione, che pure ha dato origine ad alcune strutture significative che continuano a essere estremamente utili, aveva senso in un contesto quale quello degli anni passati, in cui i due attori principali non avevano cominciato a organizzarsi internamente per il dialogo e presenta invece forti limiti oggi, in particolare per la ridondanza di strutture di questa natura. Molte di queste strutture rischiano di essere inefficienti in primo luogo perché sono generaliste, cercano cioè di fare un po’ di tutto e non si specializzano. Come un traduttore deve conoscere bene entrambe le lingue degli interlocutori, così queste strutture devono sviluppare significative competenze per essere in grado di far interagire con risultati significativi imprese e centri di ricerca pubblici. In secondo luogo, fare trasferimento senza focalizzazione è difficilissimo perché sono presenti moltissimi soggetti a monte (in particolare ricercatori e gruppi di ricerca) e moltissimi soggetti a valle, cioè moltissime imprese in diversi settori industriali. Spesso per queste strutture è risultato e risulta più conveniente interagire con pochi soggetti di grandi dimensioni, quali le amministrazioni pubbliche, e concentrare gli sforzi nell’ottenere da queste fonti finanziamenti e progetti. Al contrario, sono i centri di

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trasferimento tecnologico che hanno più forti legami e rapporti con il mondo della ricerca quelli che riescono a trasferire meglio alle imprese conoscenze e tecnologie. Infine, la presenza di un intermediario allontana invece che avvicinare i due interlocutori e anzi l’intermediario ha tutto l’interesse a tenere separati i due soggetti affinché il suo ruolo sia riconoscibile e necessario. A nostro avviso, da quanto discusso emerge la necessità di rivedere ruolo e organizzazione di molti di questi centri di trasferimento tecnologico avviando, al contempo, politiche di selezione e integrazione tra strutture diverse. È ormai chiaro infatti che le imprese ricorrono anche e prevalentemente ad altri intermediari come fonte delle conoscenze necessarie all’innovazione. Come noto a livello scientifico e come evidenziato anche in Italia da un recente studio del Censis (2004), infatti, la principale fonte di innovazione per le imprese in generale, e ancora di più per le piccole e medie imprese, sono i clienti (e in particolare i clienti industriali), i fornitori e i concorrenti, soprattutto grazie agli stimoli e alle sfide che impongono e ai meccanismi di emulazione. Diverse imprese, ad esempio, fanno a gara per essere fornitori della multinazionale STMicroelectronics, nonostante i margini relativamente bassi che riescono a ottenere, perché lavorare con un leader tecnologico li obbliga a essere sempre all’avanguardia e li fa accedere almeno in parte al know-how di questa grande impresa. Analogamente, diverse imprese che stiamo contattando nell’ambito del Progetto “Attrattività” della regione

Lombardia che hanno delocalizzato la produzione in altri paesi ci segnalano le difficoltà che incontrano per l’aver perso il tessuto italiano di piccoli fornitori che avevano un tempo e che era in grado di proporre e contribuire a sviluppare tante innovazioni nel processo produttivo. Da queste considerazioni emerge la complessità del sistema dell’innovazione, la presenza di una rete di attori con propri ruoli e specificità e processi di trasferimento di conoscenze e tecnologie articolati. Concentrare l’attenzione solo sui centri di trasferimento tecnologico intermediari trascurando ad esempio i marketplace delle tecnologie di cui si è già parlato o altri soggetti come quelli finanziari o i consulenti difficilmente può portare a significativi risultati. Il compito a cui sono chiamate le amministrazioni pubbliche è quindi un compito difficile, un ruolo di facilitazione e governance che si deve tradurre in un complesso e differenziato insieme di interventi e azioni su diversi aspetti e diversi soggetti, senza la pretesa di singoli interventi risolutori. Ad esempio il Baden-Wurttemberg in Germania è un caso interessante di una governance coerente del sistema dell’innovazione caratterizzata da un insieme di azioni articolate e coordinate, alcune delle quali sinteticamente rappresentate nella figura 4. Tra gli aspetti più rilevanti di questo caso è importante notare la presenza di numerosi centri di ricerca specializzati, con grandi gruppi di ricerca in grado di raggiungere la massa critica per l’ottenimento di risultati all’avanguardia. Una condizione fondamentale è infatti la presenza di ottima ricerca,

e in questo Land tedesco non mancano gli investimenti in questa direzione sia in assoluto (circa il 4% del Pil) sia per quanto riguarda le imprese, che contribuiscono per circa l’80% dell’investimento complessivo. Sono stati inoltre creati dei centri ad hoc per facilitare il trasferimento tecnologico, ma questi centri, più che porsi come intermediari, si propongono come facilitatori dell’incontro tra ricerca pubblica e imprese. Non a caso sono chiamati “agenzie di coordinamento”, hanno una funzione principalmente progettuale e di supporto e sono inoltre estremamente focalizzati su specifici settori (automotive, aerospace, ecc.) riuscendo in questo modo non solo a conoscere in modo approfondito i temi di cui si occupano ma anche, e nella maggior parte dei casi personalmente, i possibili diversi soggetti oggetto delle loro azioni di facilitazione. Un altro caso che è utile considerare è quello della regione olandese del Limburg che ha avviato nel 1998 un programma di voucher tecnologici poi finanziato dalla Comunità europea che è stato sviluppato in modo simile anche in Lombardia. Il programma consiste nel fornire alle imprese, sulla base di un piccolo progetto, circa 5.000 euro in un voucher che queste imprese possono spendere, per la realizzazione di una parte del progetto, presso tutti i centri di ricerca pubblici accreditati della regione. Ovviamente l’importo del contributo è estremamente limitato e a prima vista potrebbe sembrare inutile, anche perché, proprio per la sua entità e quindi per la capillarità dell’intervento, risulta non economico un controllo dettagliato dell’uso di questi fondi.

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Figura 4. IL CASO DEL BADEN-WURTTEMBERG

CENTRI DI RICERCA

IMPRESE Finanziamento a progetti congiunti Piattaforma Web

Specializzati per ambito Densi di competenze (non puro trasferimento) Supporto alla brevettazione Premio “Innovazione nelle PMI” Sostegno alla diffusione ICT

Supporto agli spin-off Programma Giovani Innovatori

AGENZIE DI COORDINAMENTO (focalizzate)

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Al contrario, a nostro avviso, questo caso esemplifica molto bene una delle possibili modalità di intervento delle istituzioni in un’ottica di sistema secondo quanto sopra argomentato e in particolare esemplifica bene una delle azioni possibili per la creazione di capitale relazionale in un territorio. Il capitale di relazione, la fiducia tra i diversi attori, è fondamentale per l’avvio e il successo di collaborazioni e processi di trasferimento tecnologico. L’oggetto di questo trasferimento, la conoscenza, è infatti estremamente difficile da quantificare e valutare, richiede un impegno significativo in termini finanziari e di tempo ed è spesso legato a considerevoli rischi. Per questi motivi raramente un’impresa è disposta a investire grandi risorse in progetti con ricercatori e strutture che non conosce e di cui non sa se potersi fidare. I voucher tecnologici possono contribuire a creare questo capitale relazionale, possono costituire un primo passo di avvicinamento dei diversi attori, possono creare un rapporto sul quale poi si innesteranno progetti e collaborazioni rilevanti, anche autofinanziate dalle imprese. Con questa chiave interpretativa è possibile considerare anche altri interventi e meccanismi di interazione, come ad esempio i progetti dei programmi quadro dell’Unione europea, ma soprattutto i convegni e i seminari scientifici o più divulgativi sulle nuove tecnologie o ancora il ruolo degli studenti che effettuano stage e tesi presso le imprese e le borse di studio per studenti di dottorato finanziate dalle aziende. Così come in precedenza abbiamo sottolineato che le

istituzioni non possono pensare di risolvere i problemi dei sistemi dell’innovazione con uno o due interventi miracolosi e risolutori, allo stesso modo le istituzioni non devono concentrare l’attenzione delle loro azioni solo sui più eclatanti meccanismi di interazione tra i centri di ricerca pubblica e le imprese quali grandi contratti, laboratori congiunti, licensing ecc., ma devono considerare che questi meccanismi costituiscono la punta di un iceberg che ha alla base una serie di interazioni più informali ma altrettanto preziose. Conclusioni Questo studio, adottando un approccio “dal basso” basato su casi e sulla prospettiva delle imprese, ci ha permesso di individuare alcune opportunità di azione per i tre soggetti principali del sistema dell’innovazione. In particolare ci siamo focalizzati sui processi e le relazioni, siamo entrati nel merito di questi meccanismi e abbiamo riconosciuto ampi spazi di manovra per i singoli attori; non a caso anche in Italia diversi soggetti, grazie all’autonomia di cui dispongono, si stanno muovendo per cogliere queste opportunità e, dal lato delle istituzioni, per facilitare o almeno non ostacolare questi processi. Abbiamo sottolineato diversi aspetti, tra cui la necessità sia per le imprese sia per i centri di ricerca pubblici di organizzarsi in modo diverso, l’importanza del capitale relazionale, l’opportunità di politiche capillari e sistemiche, la rilevanza di centri di trasferimento focalizzati, ecc. Ma per concludere ci preme

evidenziare un ultimo punto. I sistemi dell’innovazione sono estremamente complessi, la sfida per le istituzioni pubbliche in termini di politiche per la ricerca e l’innovazione e in termini di governance è quindi una sfida difficile. Questo implica che anche le amministrazioni devono organizzarsi per affrontare questi temi e in particolare hanno bisogno di competenze per sviluppare un’azione efficace evitando il rischio di azioni che, ad esempio limitando l’autonomia dei diversi soggetti, siano controproducenti per il sistema. Per fortuna alcuni passi in questa direzione si stanno compiendo: cresce la consapevolezza dell’importanza di queste politiche per lo sviluppo economico e sociale e si iniziano a sviluppare le competenze necessarie per progettarle e gestirle. Studio IReR a cura di Roberto Verganti con la collaborazione di Claudio Roveda e Paolo Landoni. * Roberto Verganti è direttore dell’Alta Scuola Politecnica (ASP), la scuola per talenti dei Politecnici di Milano e Torino. In precedenza è stato fondatore e primo direttore della Scuola di Dottorato di Ricerca del Politecnico di Milano. È professore ordinario di Gestione dell’Innovazione e direttore di “Made in Lab”, il laboratorio di alta formazione su Marketing, Design and Innovation Management della School of Management dell’ateneo milanese. È inoltre membro dello Scientific Committee dell’European Institute for Advanced Studies in Management, dell’Editorial Board del Journal of Product Innovation Management, dell’Advisory Council del Design Management Institute di Boston. Nel 1997-1998 è stato visiting professor alla Harvard Business School, dove tiene oggi regolarmente seminari e lezioni sui temi del design management.

O

ver the last few years, the scientific community and public debate have both stressed the importance of scientific and technological innovation in economic and social growth, underscoring the close relationship between business organizations’ capacity for innovation on one hand and local public research systems on the other. Specifically, pressure is growing on industry to invest in R&D, and on the public research system to transfer knowledge and technology to industry. Despite all the studies and debate, a solution to the problem of growth, innovation and research has still not been found. And this was the starting point of this survey conducted for the Italcementi Foundation: since the issue is so complex, involving a multitude of different players, relationships and processes, political action and managerial decisions, it cannot be resolved with a top-down approach based purely on numbers and statistics, looking at the past and unable to perceive subtle behavioral and organizational differences. So we decided to use a new method, to adopt a bottom-up interpretative approach, examining the players involved and the relationships among them. We decided to focus on a series of excellent cases and then generalize from their stories, indicating possible paths for players individually or jointly, on a coordinated basis. We also decided to take an original perspective in our survey, focusing attention on industry rather than on government or research centers, given that industry is the source of innovation.


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Table 1: RESEARCH AND INNOVATION INDICATORS % GDP invested in R&D R&D spending (€ million) Portion R&D investment from industry Researchers per 1000 workers % of industrial researchers Triadic patents per 1 million inhabitants

The problem Every international report of the last few years has observed the difficult situation of research and innovation in Italy and in Europe. Table 1 presents some of the most significant indicators; the situation they reflect is familiar: Europe, and Italy in particular, lag behind the USA and Japan, and, looking ahead, the emerging nations like China. And within Europe, Italy lags behind the other G7 nations and the north European countries such as Sweden. The problems lie in research investment (industrial research investment in particular), propensity to innovate in technology (patents) and, above all, the number of researchers, the fundamental resource for research. Worse still, as the second part of the table shows, the situation is deteriorating. Although growth has been achieved as far as absolute figures are concerned, the other systems are progressing faster, so in relative terms the gap is widening. From the perspective of industry and innovation, the loss in competitiveness on the high-tech markets over the last 20 years is significant. Finally, and this is beginning to emerge in the figures, new countries are establishing an international footing, and, contrary to what we often read, they have no intention of competing only in low value-added sectors, but are moving into research and innovation. India is a rising star, especially in Information and Communication Technology (ICT), as are Korea and the other so-called Asian tigers. China, too, is making a strong move in this direction, a trend confirmed by the percentage of GDP invested in R&D (already higher than in Italy) and the growth rate

R&D investment growth rate Researcher growth rate Industrial researcher growth rate Triadic patent growth per 1 million inhabitants (10 years) New PhDs in S&T Growth high-tech market share (20 years)

ITA

EU(25)

USA

1.16

1.93

2.59

Japan Sweden

3.15

14,600 189,584 251,577

119,748

4.27

UK

Germany

France

1.89

2.51

2.15

10,459 30,085

54,310 34,122

43

55.6

63.1

74.5

71.9

43.9

66.1

52.1

2.8

5.4

9

10.1

10.1

5.5

6.3

6.8

39.3

49

80.5

67.9

60.6

57.9

58.1

51.1

14.8

43.3 *

57.7

92.3

91.8

36.7

90.7

40.3

Japan Sweden

UK

Germany

France

ITA

EU(25)

USA

2.7

4.5

4.8

3.15

8.4

2.8

3.3

2.1

0.7

2.8

3.2

2.1

4.6

4.1

1.5

3

-1.3

0.9

0.8

-0.4

1.7

1

0.5

1.6

102% 1.37

68% 0.68

26% 0.18

-36%

74%* 43% 0.49 0.41

-22%

1%

29% 0.27

-27%

n.a.

-34%

97% 32% 0.8 0.71

-54%

15%

* EU 15 Sources: EU Key-figures 2005 and EU Key-figures 2003-2004, US National Science Board - Science and Engineering Indicators 2004, OECD Science, Technology and Industry Scoreboard 2005. Figures for 2003 or most recent available figures.

of its share of high-tech markets in the last 20 years, which stands at 800% (European Union, Key-figures 2003-2004). These widely publicized figures have been accompanied by countless studies and debates, which, time and again, have reached three main conclusions: first, that there is a problem with resources, second, that there is a problem in efficiency and quality, third, that there is a problem in innovation and technology transfer processes. There is no question about the first problem: international competition creates obvious challenges and requires greater future-oriented efforts from industry and government, new systems to assess and promote R&D investment in industry, universities and research centers. Greater attention needs to be taken with the second point. Without doubt, R&D quality is essential, we have to avoid wasting investments on organizations unable to make the best use of them; it is equally clear that there is great room for improvement in this area in Italy and in Europe. At the same time, however, although the situation is extremely uneven, we have many excellent research centers

and universities, as well as many innovative and successful business organizations. For example, in terms of scientific productivity (ratio between number of publications and number of researchers), Italy is perfectly aligned with the EU average and its productivity is almost double that of the USA (European Commission – Third European Report on S&T Indicators, 2003). It is important to point out the areas for improvement in our research centers and enterprises, but the debate between those who attribute all the blame to research centers, accusing them of being unable to conduct “useful” research, and those who place responsibility with our enterprises, saying they are too small, has so far been a sterile discussion that fails in our view to grasp the key issues. While action is clearly needed to resolve the weaknesses of the two main players in the innovation system, the main focus of attention should be on the relationships, the interactions and the processes in which both are involved. At this level, a variety of measures can be taken by the authorities to improve the governance of the system as a

whole and promote exchanges and cooperation. Going back to the third problem mentioned above, there is a problem to be resolved in innovation and technology transfer processes. Over the last few years, in fact, the so-called “evolving economy” has stressed the importance of the context factor for corporate innovation, notably the presence of and interaction among different players: the concepts of national (or regional or sectorial) innovation systems have been examined, and commentators have identified the existence of a three-way relationship driver, among universities, industry and government. This paper focuses on these aspects, considering the way in which the various players interact and could interact with the other system players to enhance the overall capacity for innovation. The industry viewpoint As we explained earlier, industry is the player that should be considered first. If the topic under discussion is innovation as a lever for economic and social growth, we need to understand first of all how industry innovates and how enterprises can be part of an interconnected system.

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Figure 1. THE PHARMACEUTICALS INDUSTRY Total R&D investment ($ billion) and number of New Chemical Entities (NCEs)

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It is becoming clear that industry actually wants to open up, to absorb knowledge from outside. Many figures show this is a global trend, with increasing numbers of companies conducting research in cooperation with external partners, and no longer behind closed laboratory doors. For example, more and more companies are locating research centers in science and technology parks, or, more generally, close to other industrial or public research centers and universities. A number of factors are driving this trend, in particular the growing complexity of science and technology, and of research-related costs and risks. Technologies themselves are increasingly complex and cross-related, and since companies cannot control them all fully, they have no choice but to look outside. They also have to take account of multiple technology trajectories, as regards input, that is, the directions in which to steer exploratory research, and as regards output, that is, the technology to develop in order to innovate. Generally speaking, R&D work involves growing risks, especially in terms of possible results and the likelihood of success, and growing costs in terms of the effort and resources required, so the process needs to be made more flexible through recourse to external input and support. In the pharmaceuticals industry, for example, as figure 1 shows, R&D investments have had to increase at an almost exponential rate to ensure that the number of new active principles at least remains constant. Pharmaceutical companies have responded to these difficulties by gradually increasing ties with

Source: 2004 Pharma Annual Survey, 2003/2004 Parexel's Pharmaceutical Industry Sourcebook

other research centers, and today almost 50% of the products they market are the result of licensing agreements with small enterprises or research centers (Evaluate Pharma; ISO Healthcare, 2003). The term “Open Innovation” was used recently (Chesbrough, H., 2003) to describe industry’s new approach to innovation, as opposed to the old model of “Closed Innovation”. In other words, companies have moved away from large in-house laboratories, which usually worked in secret in closed environments, and are opening up their doors, both to external research and ideas, and to marketing, licensing agreements and spin-offs for their own ideas and research work not strictly related to their core business. There are numerous examples of this new approach, in Italy too. Two cases histories illustrate the way these concepts can be put into practice. The first is the Pfizer company, one of the largest names in pharmaceuticals. A few years ago, Pfizer introduced a program called Drug PfinderTM for cooperation between its own large and well-equipped laboratories and groups of academic researchers all round the world. The company allows selected researchers to take part in the early stages of development of new chemical compounds, to receive financial remuneration if their work results in new drugs, and to obtain funding for their research and cooperation. With this

scheme, as Pfizer points out, researchers obtain resources for their own work and the company expands its own portfolio of resources, ideas and creativity. An even more interesting case is Procter & Gamble, recently covered in an article in the Harvard Business Review (Huston & Sakkab, 2006). On the premise that “for every one of P&G’s 7,500 researchers there were 200 scientists or engineers elsewhere in the world who were just as good”, Procter & Gamble decided to tap this huge knowledge base by creating 70 technology entrepreneurs, professionals who specialize in scouting for technology, know-how and expertise, and go round the world looking for opportunities and solutions for the company. For example, P&G has achieved a huge success in the USA with its Pringles Prints, potato crisps printed with riddles, proverbs and curious facts, depending on the type of package. The point is that the idea was not developed in-house: P&G looked around to see whether an edible ink or similar technology had already been developed, and eventually found an academic spin-off at Bologna University. Procter & Gamble says that, generally speaking, more than 50% of its innovation is now sourced externally and that its new approach and new organizational structure have halved time-to-market, boosted R&D productivity by 60%, and doubled its innovation

success rate. Interestingly enough, in their article on the P&G case, Huston & Sakkab suggest that we are no longer talking about “research and development” but about “connect and develop”, a view that emphasizes the importance of connection with the external environment rather than investment in in-house research. The need for greater ties is also reflected by the growing success, particularly at international level, of science facilitators, and technology marketplaces like Innocentive or NineSigma. The mission of these operators, created in response to an industry need, is to bring together companies with problems to solve or ideas to develop with researchers around the world; in doing so they provide an additional channel through which new connections may be sought. Our case histories present two interesting similarities that underscore and exemplify two preliminary results of our survey. First, they illustrate the growing strategic importance for industry of opening up and searching for new opportunities, and of doing so from an international viewpoint, not something that is always taken for granted. We should be aware that knowledge and technology transfers occur at global level, that companies unable to resolve problems locally are beginning to look abroad, that researchers unable to find local opportunities to


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develop their discoveries or local funding for their research are beginning to look further afield. Although proximity is an important factor in these processes, especially in terms of trust and tacit know-how, ideas and knowledge are extremely mobile and localization cannot be an excuse or an alibi. On the contrary, important opportunities are available for companies prepared to organize themselves to take them. The “organizational” aspect is the second important similarity between our two case histories and brings us to the second result of our survey: if companies need to pay greater attention to what is happening outside, renewed attention to their internal operations is equally or even more important if they want to realize the full potential of an open approach. Simply being outward looking is not enough: new opportunities and new solutions do not turn up spontaneously and although chance may certainly be a significant factor, the right conditions have to be created for these opportunities to develop. In other words, the company has to be proactive, organize itself appropriately, draw up ad hoc programs and identify professional figures for scouting and selection operations. Even this may not be enough unless it is backed up by another fundamental organizational change: a new emphasis on interaction with external players and ideas among the company’s in-house R&D labs. New opportunities and technologies may present themselves to companies without any particular effort on their part, through intermediaries or simply through luck, but significant innovation is unlikely if they are

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unable to exploit these opportunities. As a seminal paper by Cohen and Levinthal (1990), companies need absorptive capacity to accumulate, re-process and develop external knowledge and produce innovation. Innovation can almost never be fully outsourced, the company must have the resources—human resources first of all—to transform knowledge into innovation through its own experience and know-how. In the two case histories described above, we mentioned Pfizer’s “large and well-equipped laboratories” and the “7,500 researchers” at Procter & Gamble. These companies look outside, but they continue to do research work, they continue to retain researchers to convert knowledge that may be sourced outside the company into innovation. This last point should be examined in greater depth, given that another obvious similarity between our two case histories is that both companies are huge international market players. Our observations, however, do not apply only to large corporations: small and medium enterprises can adopt this kind of approach too, and there are plenty of examples to prove it. The basic requirement is not so much size as the possibility and the awareness of the need to invest in qualified human resources capable of generating innovation, when appropriate by absorbing external knowledge and technology. Obviously this type of investment is easier for medium-sized and large organizations, but the frequent comment that in a context with a very large population of small enterprises, the role of

universities and public research centers is even more important as a possible substitute for industrial research is misleading. Many studies have found that if companies lack the right internal organization, if they have no absorptive capacity and lack in-house teams of specialized researchers or engineers, they will find it difficult not only to accumulate external knowledge and translate it into innovation, but also to know who to ask, to ask the right questions and in general to communicate with the research and technology community. A recent study on enterprises in Lombardy found that more than 80% of companies with more than 50 employees had university graduates on their workforce, and that about 50% organized internships for university students; among companies with fewer than 50 employees, only 35% had graduate employees and only 15% organized internships. To conclude, an outward looking approach is becoming a strategic factor for companies and they need to organize ways to find new opportunities, knowledge and technology; but for successful knowledge and technology transfers between industry, public research centers and universities, simply being in contact with one another is not enough: companies must introduce appropriate internal organizational models to develop the absorptive capacity to take advantage of these opportunities. The university and public research center viewpoint A second major role in the innovation system is played by universities and public research centers. Their importance as

producers of knowledge and creators of skilled human resources for industry has already been mentioned, and the issue is not a priority for discussion here, first, because it has already been analyzed in many other studies, and, second, because there is wide consensus on the point in the scientific community and in public debate. A more interesting topic for discussion are the opportunities, ways and ability of universities and public research centers to transfer knowledge and technology and their general commitment to partnering with industry. This has clearly become the third mission for many universities and public research centers, especially at international level. Among the reasons for cooperation with industry, three are particularly important: stimuli for research, image and additional funding. First, many researchers have realized the limits of a linear model consisting exclusively of a one-way path from basic research to applied research, and from there to industrial development. The relationships involved are far more complex, and while free research inspired by curiosity may continue to be a cornerstone of scientific and technological development, it is evident that industry can provide many stimuli and challenges and lead to great discoveries, as for example in microbiology thanks to Pasteur’s work on solutions to problems of an industrial nature. Second, cooperation with and recognition by industry are a significant enhancement to the image of research centers and researchers, in terms of public visibility and, particularly important, the power to attract talent, new researchers and

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Figure 2. INFLUENCE OF TIES WITH INDUSTRY ON SCIENTIFIC PRODUCTIVITY Average number of publications per year

3.5 3 2.5 2 1.5 1 0.5

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students, who, in addition to the image factor, also consider the opportunities opened up by a relationship with these centers. Finally, strong ties with industry are also a way to supplement funding, and thus to improve research structures and project excellence. Another reason for partnering is the growing sense of responsibility among universities and public research centers: the awareness that their research should be of benefit to society. Our main focus here, however, is the utility factor, and the first reason we mentioned, which is still a widely debated issue. Some commentators still believe that strong ties between public research centers and industry compromise the true nature and role of public bodies and, in particular, diminish and limit basic research work. We believe a balance must be achieved in distribution of research work and, as noted earlier, the importance of basic research is indisputable; nevertheless, closer ties with industry are not only a duty for universities and public research centers, they also represent an opportunity. An opportunity because they provide stimuli and resources and because, as growing numbers of studies indicate, cooperation, probably within certain limits, does not have a negative impact on scientific productivity. The results of a recent study at the Catholic University of Leuven illustrate the point. A number of lecturers from the university were divided into two groups: those who cooperate with industry and those who cooperate to an insignificant extent (obviously there is a certain degree of freedom within the university). As figure 2 shows, lecturers who cooperate and are involved in knowledge transfers are also

0

Science oriented

Source: adapted from Van Looy et al., 2004

those who publish more; indeed, the difference is four-fold for technology-oriented publications. The difference is less significant, but still noticeable, for theoretical publications covering basic research (science oriented). This example and others that could be mentioned indicate that it is important for universities and public research centers to be open to industry, in the same way that industry, as we have seen, is opening up toward them. But from a practical point of view, how can universities and public research centers put this open approach into practice? The Catholic University of Leuven is an interesting case: although it is not as famous as some American universities it has an excellent track record in knowledge and technology transfers. And since it operates in a European context it is easier to compare with Italian universities. First of all, for more than 20 years the university has had a technology transfer office—Leuven R&D (LRD)—with a staff of around 25 today. Second, the researchers in the various university departments, and also from different faculties, are able to form virtual “research divisions” in the LRD, pooling their specific research, commercial and industrial competences. The result is an interdisciplinary matrix structure inside the university. The thinking behind this approach is that application problems necessarily require an interdisciplinary rather

Technology oriented

Cooperate

Do not cooperate

than disciplinary solution: in terms of innovation, problems need solutions combining a variety of skills. Also, whereas career promotion is the main incentive in the departments and faculties, based on the production of research results and teaching quality, the incentives system developed for the LRD divisions is based on budget flexibility and financial independence, and the LRD divisions are free to manage revenues and expenditure for their technology transfers. In other words, the divisions can set aside financial provisions from the profits obtained on technology transfers, in order to invest in new research work or new spin-offs. Finally, the Catholic University of Leuven has set up a seed capital fund to finance its spin-offs, in partnership with two major banks, who hold 80%. Another very interesting and better known case is Oxford University. Oxford too has achieved impressive results in knowledge and technology transfers in recent years, particularly as regards research spin-offs, whose aggregate revenues totaled approximately 3 billion euro in 2004. A technology transfer center, ISIS Innovation, has been active at Oxford University for a number of years. The center has a staff of approximately 35, of whom 18 are project managers, PhDs who specialize in setting up spin-offs and supporting them in their first few years. One of the project managers’ specific tasks is to find the right partners for

the new companies through their network of relationships and ISIS Innovation’s network of contacts. This is because Oxford researchers whose work is developed through spin-offs are not directly involved in the management of the start-ups: the head of the research team may be appointed head of company research and his staff members of the company’s R&D group, but management, the general manager and/or the CEO are recruited outside the university among people with solid managerial and industrial experience; likewise, marketing and financial specialists are recruited externally. The two cases used to illustrate the university and public research center viewpoint exemplify briefly two further results of our survey. First, cooperation with industry is an opportunity for universities and public research centers, and, like industry, they need to adopt an internal organization to support these ties. Organizational models will depend on the context and the characteristics of the research in question, so the operators in question need to be able to decide freely. Another important point is that a critical mass needs to be reached: this requires investments and, above all, specialized human resources; the two centers examined here have staffs of 25 and 35 employees respectively. Fortunately, Europe and Italy’s universities and public research centers are moving in this direction: a number of specialized and increasingly professional technology transfer offices have been formed in the last few years, and are expanding all the time. Second, universities and public research centers should bear


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Figure 3. THE CATHOLIC UNIVERSITY OF LEUVEN BANKS 80% 20%

INDUSTRY

UNIVERSITY

Gemma Frisius Fund 25 Mâ‚Ź

DEPARTMENT

DEPARTMENT

FACULTY

LEUVEN R&D Innovation Coordinator

RESEARCH DIVISION RESEARCH DIVISION RESEARCH DIVISION

in mind their specific features and limits. Their main mission is research and education, and they must continue to invest and deliver in these areas in order to play their role in the innovation system to the full. As far as knowledge and technology transfers are concerned, it is helpful if other players with specific competences are brought in, such as banks for the Leuven fund, or management experts in Oxford to run the spin-offs or the companies themselves as regards development and industrialization of scientific discoveries and innovation in general. The government viewpoint Finally, we come to the viewpoint of government, an area that poses particularly significant challenges. What can government do? As the interest in this question at European, national and regional levels shows, ways to promote technology transfers and interaction between industry and universities and public research centers is a top priority on today’s political agendas because of its overriding importance; and yet solutions are slow in coming. Once again, the starting point for our analysis was industry. The question we asked was whether all enterprises really are interested in innovation and consequently in focusing on R&D and building ties with the other players in the innovation system. We classified a significant sample of small- and medium-sized enterprises based in Lombardy: in addition to companies

classified as innovators, enterprises that have innovated and continue to plan innovation, we identified aspirers and a third group we defined as inert. The innovators have only a limited need for research and innovation policies, because they are already capable of developing knowledge and market opportunities internally and jointly with other players; their main requirement as far as government is concerned is not to be obstructed in their work and favorable conditions in terms of infrastructure, finance and quality of public research. The aspirers, who have not yet innovated but want to, should be the targets addressed by research and innovation policies, and we will discuss them later. Our study found, however, that even in a dynamic region like Lombardy, approximately 60% of companies are inert: not only do they not innovate, they have no intention of doing so (Verganti, Buganza, Landoni, 2005). Public policy in relation to these enterprises should go one step further: it has to increase awareness of the importance, or, better still, of the need for innovation. Our study also showed that innovators report stronger revenue growth, especially stronger international revenue growth. This confirms a known fact, that innovation enhances competitiveness; but it can also be read a different way, that the companies most exposed to international competition are the ones most likely to innovate. One of the main reason why

many companies do not invest in innovation is because innovation has no intrinsic, objective value, it is a tool to compete on the market. Many companies do not feel the need to compete, they are not under competitive pressure or they are not interested in competing with the innovation lever, the lever that guarantees a more significant differential. These companies can be effectively targeted with policies designed to boost perception of competitive stimuli and convince them to invest in innovation. A number of initiatives of this kind have been organized in Italy and in Europe, but much remains to be done, as the recent Global Competitiveness Report (2006) confirms: Italy ranks 72nd in terms of market efficiency. Going back to aspiring innovators, the question is what sort of research and innovation policies can foster relations between aspirers and universities and public research centers. A solution frequently adopted in the past was to provide translators, in the shape of independent, third-party technology transfer centers, to assist communication between the two players. While this approach has produced some impressive entities who continue to play a valuable role, it was useful a few years ago, before the two main players had begun to adopt new internal models geared to dialog. Today, it has major limitations, partly because bodies of this kind are redundant.

Inefficiency is a risk for many of these centers, first because they take a generalist approach, trying to do a bit of everything rather than specializing. In the same way that a translator needs to know both the languages he works with, so this type of center has to accumulate significant expertise if it is to foster constructive interaction between industry and public research centers. Second, unfocused transfers are extremely difficult, because so many parties are active upstream (especially researchers and research groups) and downstream (countless enterprises in different industries). Often, these intermediate bodies have found it more effective to interact with a small number of large counterparts, in other words with government agencies, and concentrate on obtaining financing and projects from them. Conversely, technology transfer centers with the closest ties with the research community are the bodies that have the greatest success transferring knowledge and technology to industry. Finally, the presence of an intermediary tends to keep the two interlocutors apart rather than bring them together; indeed, it is in the intermediary’s interest to keep them apart, so that its role is recognized as necessary. We believe our findings highlight the need for a review of the role and organization of many technology transfer centers and for the introduction of a selection and merger policy. Not least because it is clear that industry tends to go elsewhere to outsource knowledge for innovation. It is a known fact at scientific level, and confirmed in Italy by a recent Censis study (2004),

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Figure 4. THE BADEN-WURTTEMBERG CASE

RESEARCH CENTERS

INDUSTRY Joint project financing Web platform

Area-specific specialization Competence intensive (not pure transfer) Support for patenting Innovation Award for SMEs Support for ICT use

Support for spin-offs Young Innovators Program

COORDINATION AGENCIES (focused)

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that the main source of innovation for industry in general, and for small- and medium-sized enterprises in particular, are customers (especially industrial customers), suppliers and competitors, due to the stimuli and challenges they provide and to emulation mechanisms. For example, many companies compete to be suppliers to the multinational STMicroelectronics, despite relatively low margins, because working with a technology leader forces them to keep ahead and provides them with at least partial access to the know-how of this major corporation. Similarly, a number of companies we are in contact with for the Lombardy region’s “Attrattività” Project, which have relocated production to other countries, have told us of the difficulties they are encountering now they no longer have the support of the small Italian suppliers who contributed to the development of so many innovations in the production process. These considerations illustrate the complexity of the innovation system, the presence of a network of players, each with their own specific characteristics and role, and the elaborate workings of knowledge and technology transfer processes. Focusing attention on intermediate technology transfer centers, and neglecting other components such as technology marketplaces, mentioned earlier, or other players like financiers or consultants is unlikely to bring significant results. So the task facing government is a difficult role of facilitation and governance, to be interpreted through a complex and varied range of

activities and initiatives relating to different aspects and different players, instead of attempting one-off solutions. Baden-Wurttemberg in Germany is an interesting example of consistent governance of the innovation system through a series of targeted, coordinated activities, some illustrated in figure 4. One of the most significant features is the presence of numerous specialized research centers with large research groups guaranteeing the critical mass needed to achieve cutting-edge results. In fact, excellent research is a fundamental condition, and in this German Land investments in research are plentiful, in absolute terms (approximately 4% of GDP) and in industry, which accounts for approximately 80% of overall spending. Also, ad hoc centers have been formed to facilitate technology transfers, but rather than act as intermediaries, they facilitate meetings between public research and industry. They are known as “coordination agencies” and their main function is to provide planning and support; they also focus on specific industries (automotives, aerospace, etc.), which gives them in-depth technical knowledge as well as direct contact, in the majority of cases at personal level, with the bodies they may facilitate. Another example is the Dutch region of Limburg, which set up a program of technology vouchers in 1998, later funded by the European Community; a similar program has been introduced in Lombardy.

Under the program, companies present small projects to receive a voucher worth around 5,000 euro, which they can use to finance development of part of the project at accredited public research centers in the region. Obviously the sum in question is very small; and at first sight, it may seem useless, partly because since it is so small and so widely disseminated, detailed checks on how the money is used are not cost-effective. In our view, however, this is a good example of one way government can intervene in a system model, to stimulate the formation of relational capital. Relational capital, ties of trust among the various players, is vital for successful cooperation and technology transfers. The knowledge transferred is extremely difficult to quantify and evaluate, it requires significant commitment in time and money, and often involves considerable risk. For these reasons, enterprises are rarely prepared to invest large resources in projects with researchers and groups they do not know, whose reliability is untested. Technology vouchers help create relational capital, they can be a first step toward bringing players together, creating a relationship as a basis for future projects and cooperation agreements, possibly financed by the companies themselves. Relational capital can be built with other types of initiative and forms of interaction, such as the projects of the European Union framework projects, or, more effectively, scientific or public conferences and

seminars on new technology, internships and opportunities for undergraduates to research their theses in companies and post-graduate scholarships financed by industry. Just as government cannot expect to resolve the problems of innovation systems with a couple of miraculous cure-all measures, so it should not focus all its efforts on headline-grabbing forms of interaction between public research centers and industry, such as major contracts, joint laboratories, licensing, etc. These mechanisms are the tip of an iceberg consisting of a whole series of more informal but equally valuable forms of interaction. Conclusions By adopting a bottom-up approach based on case histories and considering the question from an industry viewpoint, we have identified a number of opportunities for the three main players in the innovation system. Specifically, our study examines the way processes and relationships work, finding ample scope for action for the individual players; it is no coincidence that in Italy too, many players are taking advantage of their independence to exploit these opportunities and, as far as government is concerned, to facilitate or at least not obstruct these processes. We have emphasized a number of aspects, including the need for industry and for public research centers to adopt new organizational structures, the importance of relational capital, the need for


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widespread, systemic policies, the importance of focused transfer centers, etc. In concluding, we wish to stress a final point. Innovation systems are extremely complex, and the challenge for government in developing research and innovation policies and governance is a difficult one. This implies that government too should adopt organizational models to deal with these issues, to act effectively and avoid measures that could be counterproductive for the system, for example measures that limit players’ independence. Happily, steps are being taken in this direction: awareness is growing of the importance of these policies for economic and social growth, and government is beginning to develop the expertise it needs to plan and manage them. IReR survey by Roberto Verganti with the cooperation of Claudio Roveda and Paolo Landoni.

* Roberto Verganti is the Principal of the Alta Scuola Politecnica (ASP), a school for top performers from the Milan and Turin Polytechnics. Previously, he founded and was the first principal of the Research Doctorate School of Milan Polytechnic. He is Chair of Innovation Management and Director of the “Made in Lab” higher education laboratory on Marketing, Design and Innovation Management of Milan University’s School of Management. He is also a member of the Scientific Committee of the European Institute for Advanced Studies in Management, the Editorial Board of the Journal of Product Innovation Management, the Advisory Council of the Design Management Institute of Boston. In 1997-1998 he was visiting professor at Harvard Business School, where he holds regular seminars and lectures on design management.

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La grande sfida della società della conoscenza Meeting the Challenge of the Knowledge Society Luigi Nicolais*

Sistema privato e sistema pubblico devono collaborare e investire di più nell’innovazione The private and public systems have to cooperate and invest more in innovation

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grandi cambiamenti che caratterizzano la nostra epoca hanno comportato una profonda modifica delle competenze e dei sistemi di lavoro, sempre più basati sull’economia della conoscenza. In questo passaggio il rischio è che alcune imprese riescano ad adattarsi e a trovare lo spazio per competere e che altre, invece, ne restino escluse. E riusciranno meglio le imprese che saranno più pronte e capaci di smaterializzare i loro prodotti. Si tratta, com’è chiaro, di un passaggio di grande complessità e dobbiamo riuscire a pensare a una serie di filiere su cui investire. Questo non dipende da una singola Legge Finanziaria: la competitività migliorerà se saremo capaci di investire a più lungo termine su tutta la filiera della conoscenza. L’obiettivo da porsi è di migliorare il livello della conoscenza scientifica, liberalizzare le università, realizzare modelli di interazione tra ricerca e impresa. Lo studio realizzato dall’IReR per la Fondazione Italcementi descrive alcuni dei più efficaci modelli esistenti e mette giustamente in evidenza come modelli passati, quali i parchi scientifici e tecnologici, oggi non rispondano più alle esigenze del

mercato. Dobbiamo quindi pensare a nuovi modelli di interazione, legati alle caratteristiche del territorio. Vi è l’esigenza di un nuovo e più efficace modello di governance delle complessità del sistema che comprenda, oltre al Governo, le Regioni e l’Europa. Un ruolo molto importante potrà essere svolto dagli enti locali, se sapranno organizzarsi in maniera sinergica, per scongiurare il rischio di una diluizione delle responsabilità, e conseguentemente di una scarsa efficienza. Posso dire, infatti, sulla base della mia esperienza come assessore regionale per sei anni in una regione difficile come la Campania, che senza una governance forte sul territorio non si riesce a garantire lo sviluppo. Il governo centrale deve operare per consentire che si generi la governance di questi sistemi complessi. La catena del valore si è allungata a monte e a valle: il valore non nasce più solo dalla produzione, ma soprattutto a monte, dalla ricerca, l’innovazione, e la capacità di riuscire ad accedere alla conoscenza più avanzata. In passato l’innovazione nasceva nelle grandi imprese, come nel caso della Montecatini che, con

il suo grande Istituto Donegani, attraverso forti investimenti riuscì a creare quella barriera della conoscenza che la proteggeva dalle altre imprese competitive. Oggi questo processo non è più possibile, perché un vero breakthrough tecnologico si produce solo se si riesce a integrare le conoscenze, se si è in grado di cogliere il meglio dai vari settori. Dobbiamo, quindi, accedere alla conoscenza libera che viene dalle università e dagli enti di ricerca pubblici e privati cambiando radicalmente il nostro modo di operare, anche se questo processo creerà, naturalmente, delle grandi difficoltà. La stessa pubblica amministrazione ha un forte bisogno di cambiare: negli scorsi anni è passata attraverso una serie di tentativi di riforma, come quelli avviati da Cassese e Bassanini, che si sono però sempre rivelati parziali. Di recente abbiamo introdotto il protocollo informatico in sostituzione del protocollo cartaceo che una recente legge ha espressamente vietato; questo, unitamente al flusso documentale a firma digitale, è stato un passo importante per la pubblica amministrazione. Non abbiamo, però, ancora

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operato il breakthrough tecnologico: occorre cominciare a pensare in termini globali di informatica e a riscrivere tutte le norme e le leggi tenendo conto delle tecnologie informatiche, per evitare di portarci dietro tutti gli errori del mondo cartaceo. Si tratta di un cambiamento essenziale, che va però realizzato ricordando che in un contesto così complesso non si può lavorare solo sulla tecnologia, ma anche e soprattutto sull’organizzazione del lavoro e sui contratti di lavoro. Questo spiega perché anche nell’ultima Finanziaria c’è stato un forte impegno per allocare i fondi per il rinnovo contrattuale dei pubblici dipendenti: non solo per tenere conto della variazione dell’inflazione, ma per configurare un contratto di lavoro sostanzialmente diverso dal passato, in cui siano presenti concetti-chiave come competitività e valutazione. Qui si apre un altro grande problema, dal momento che nell’ambito pubblico in Italia non esiste la cultura della valutazione. Le imprese, in questo senso, non possono prescindere dalla valutazione del mercato, ma la pubblica amministrazione e gli enti pubblici non hanno questo punto di riferimento e tendono, anzi, a concepire la valutazione come un elemento di punizione e non di crescita. Questo è, a mio parere, il punto centrale delle grandi difficoltà della pubblica amministrazione in generale. In tal senso il governo ha già avviato alcuni provvedimenti e si è iniziato a investire sull’innovazione, con alcuni importanti progetti che coinvolgono collegialmente tre ministri: il ministro dell’Innovazione, il ministro della Ricerca e il ministro dello Sviluppo Economico. In questo

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modo si è voluto dare un segnale della volontà del governo di lavorare insieme in vista di un obiettivo critico e cruciale per lo sviluppo del paese. È chiaro che bisognerà fare molto di più e investire molto di più, ma ritengo che ricerca e innovazione debbano diventare l’elemento trainante di questo governo, pur riconoscendo che per questo occorrerà del tempo. Va, però, ugualmente detto che il rilancio dell’università e della ricerca non è solo un problema di sovvenzioni. Anche in questo caso, alla base delle scelte di finanziamento va posto il tema della valutazione di efficacia, cosa che non deve venire solo dal governo. Noi intendiamo istituire un’agenzia per la valutazione della ricerca ma non sarà sufficiente: occorre che le università sviluppino dei loro sistemi di valutazione oggettiva che migliorino la capacità di ottenere risultati. Questo però necessita, a mio parere, di un grande cambiamento culturale dell’università italiana, perché nell’ambito della ricerca abbiamo bisogno di individuare le tematiche critiche su cui puntare e quindi predisporre le risorse umane e i fondi per perseguire gli obiettivi prescelti: massa critica non significa solo mettere insieme 300 persone per fare un progetto di ricerca; significa anche mettere lì 300 milioni di euro per fare quella ricerca.

In un quadro di competizione globale non è più sufficiente competere in uno o due settori con un numero limitato di paesi, ma si deve riuscire a essere i primi della classe in alcuni ambiti specifici. Il “Made in Italy” rimane un insieme di settori forti, ma per rimanere trainanti hanno comunque bisogno di innovazione tecnologica. A mio parere vi sono le condizioni perché questo succeda, ma in termini di finanziamento, occorre tenere presenti tutte le fonti di sovvenzione. Si commette un errore se nel calcolo degli investimenti in ricerca si tiene conto solo del governo centrale e non delle regioni. Questo è ancora più importante in termini di efficacia, perché gli investimenti delle regioni hanno un forte impatto in quanto particolarmente mirati, grazie alla conoscenza del territorio. È dunque giusto che a livello centrale si investa su ricerche di grande respiro, capaci di determinare le condizioni future di sviluppo, ma bisogna tener presente che le regioni hanno una capacità superiore di incidere sullo sviluppo locale. Oggi la scelta di dove creare un centro di ricerche o di dove insediare un’azienda high-tech è legata alla materia prima, che è costituita dalla disponibilità di cervelli. Da questo punto di vista, la decisione di Italcementi

di creare il proprio centro di ricerche al Kilometro Rosso è pienamente condivisibile. In passato si decideva di avviare la produzione di acciaio o di metalli vicino alle miniere: oggi dobbiamo sviluppare gli elementi critici, in grado di diventare fattori di attrazione di investimento là dove c’è la nuova risorsa critica, i cervelli. Ricerca, università, innovazione non devono essere viste semplicemente come un sistema per supportare la singola impresa, ma anche e soprattutto come un elemento di attrazione di investimenti pubblici internazionali.

* Luigi Nicolais è ministro per le Riforme e l’Innovazione nella Pubblica Amministrazione del secondo Governo Prodi. Ha al suo attivo un’autorevole carriera accademica: Ordinario di Tecnologie dei Polimeri presso la Facoltà d’Ingegneria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e professore aggiunto presso le Università del Connecticut e di Washington a Seattle negli Stati Uniti. Ha pubblicato circa 400 lavori scientifici su riviste internazionali ed è autore di oltre 20 brevetti. È tra i 63 ricercatori italiani più citati nel mondo e nel 2006 gli è stata conferita l’onorificenza dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana quale componente del “Gruppo 2003 per la Ricerca Scientifica” firmatario del “Manifesto del Gruppo 2003: per una rinascita della ricerca scientifica in Italia”. Dal 2004 è presidente e fondatore di IMAST Distretto Tecnologico sull’Ingegneria dei Materiali Polimerici e Compositi e Strutture e dal maggio 2005 è presidente di Città della Scienza.


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he enormous changes in working methods and skills taking place today are carrying us rapidly into the knowledge economy. The danger is that while some companies will adapt and become successful competitors, others may be left behind. The winners will be the companies that successfully dematerialize their products. Clearly, this is an enormously complex transition and we need to select the business sectors in which to invest. It is not something that depends on this or that Government Budget: our competitiveness will improve if we invest over the longer term across the whole knowledge sector. Our aim must be to raise our level of scientific knowledge, deregulate our universities, establish models for cooperation between research and business. The IReR survey conducted for the Italcementi Foundation describes some of today’s most effective models and rightly points out that the older

models, like science and technology parks, no longer fit the bill. We should be thinking about new forms of interaction that take account of local characteristics. What we need is a new, more effective model to govern the complexities of a system comprising, in addition to the Government, the Regions and Europe. Local government agencies can play a very important role if they can organize themselves on a synergetic basis and avoid diluting responsibilities, a risk that could compromise the effectiveness of the end result. My experience as a regional councilman for six years in a difficult region like Campania has taught me that growth cannot be guaranteed without strong local governance. Central government has to take steps to enable the governance of these complex systems. The value chain has been extended, both upstream and downstream, and production is no longer the sole source

of value: the main source today lies upstream, in research, innovation, the ability to access leading-edge technology. In the past, innovation was generated by large corporations like Montecatini, whose famous Donegani Institute invested large sums to create a knowledge barrier as protection against competitors. Today, that process no longer exists, because a real technological breakthrough is only possible through integration of the best knowledge in every field. In other words, we need access to free knowledge, the knowledge in our universities, in our public and private research bodies. This implies sweeping changes in the way we work, something that naturally creates huge difficulties. There is a great need for change in public administration, too. Any number of reforms have been attempted in the last few years, for example by Cassese and Bassanini, but they have always been halfway measures. We recently

introduced document registers in electronic format to take the place of hard-copy registers, which a recent law expressly prohibits. This is an important step for the public administration, as are document flows with digital signatures. Nevertheless, we have not yet achieved a technological breakthrough. We need to start thinking in global IT terms and re-write all our laws and regulations to take account of the advent of information technology if we want to avoid bringing the errors of the paper-based world with us. This is a vital change, and it is important to remember that it is not just a question of technology, it also involves the organization of labor and employment contracts. This is why the latest Budget is firmly committed to allocating funds for the renewal of state employees’ contracts. Not just to take account of inflation, but also to establish a substantially different type of contract encompassing key concepts like competitiveness and assessment. This brings us to another major problem, the fact that assessment is an unfamiliar concept in the Italian public sector. Business cannot avoid assessment by the market, but the public administration and government agencies are not subject to this type of evaluation; indeed they tend to regard assessment as a punitive element rather than as a driver for growth. In my view, this is the root of the enormous difficulties in the public sector in general. The government has begun the process of change. Investment in innovation has begun, with a number of important projects involving three ministers on a joint basis: the Minister for Innovation, the Minister for

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Research and the Minister for Economic Growth. This is a sign that the government wants us to work together to achieve an objective of critical importance for the country’s growth. Much more needs to be done, of course, much more needs to be invested, but I believe that research and innovation should be the priority of this government, even though it will take time. It also needs to be said that restoring the role of universities and research is not just a question of funding. Here again, assessment of effectiveness should be the criterion for the government financing policy. Nor can assessment be conducted by the government alone: we intend to create a research assessment agency, but it is not enough. Universities should organize their own evaluation systems to improve their ability to achieve results. This will fuel a major cultural change in Italian universities, because the research community needs to identify priority projects and organize people and funding accordingly. Critical mass does not just mean bringing 300 people together to work on a research project, it also means providing the necessary 300 million euro to carry out that research. In a scenario of global competition, we have to do more than compete in one or two industries against a handful of countries. We have to be top of the class in certain areas. “Made in Italy” is still a powerful force, but it needs technological innovation if it is to remain a driver for growth. And I believe this is possible. As far as funding goes, however, every source of finance should be considered. Research investments plans should include the regions

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as well as central government. This is especially important as regards effectiveness: thanks to their particular local knowledge, the regions can focus investments more specifically and have a strong impact. So while central government should be investing in wide-ranging research projects that can foster future conditions for growth, the regions have greater power to influence local growth. Choosing where to locate a new research center or high-tech company depends on the availability of raw materials, which today means the

availability of brain power. From this point of view, Italcementi’s decision to set up its research center in the Kilometro Rosso science park is perfectly logical. Years ago, companies located their steel or metal production plants close to the mines: today we have to develop the critical factors that can attract investment in the areas where today’s new vital resource, brain power, is located. Research, universities and innovation should not be regarded simply as a system to support an individual enterprise; they are also a force to attract international public investment.

* Luigi Nicolais is the Minister for Reform & Innovation in the Public Administration, in the second Prodi Government. A distinguished academic, he is Chair of Polymer Technology in the Engineering Faculty of Naples’ “Federico II” University and Associate Professor at the University of Connecticut and the University of Washington, Seattle, in the USA. He has published almost 400 scientific articles in international journals and holds more than 20 patents. He is one of Italy’s 63 best-known researchers worldwide and in 2006 he was decorated with the Italian Republic’s Order of Merit for his work as a member of the “2003 Group for Scientific Research”, a signatory of the “2003 Group Manifesto: for the rebirth of scientific research in Italy”. In 2004 he founded the District for Polymer and Composite Materials Engineering and Structures–IMAST, of which he is Chairman; he has been Chairman of the “Città della Scienza” science center since May 2005.

Istruzione universitaria e sviluppo territoriale University Education and Local Growth

Adriano De Maio*

Solo con una maggiore liberalizzazione è possibile rafforzare la ricerca e lo sviluppo scientifico e tecnologico Greater deregulation is the only way to strengthen scientific and technological research and development

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na breve considerazione preliminare: di solito, quando un problema viene continuamente evocato sui giornali o nei convegni, è perché non è stato ancora risolto. In Italia, per esempio, si parla sempre della necessità di “fare sistema” mentre in paesi come la Germania o la Francia non si può dire che sia un tema molto discusso per il semplice motivo che già lo fanno. Non è un caso, quindi, che in Europa adesso si continui

a parlare di ricerca. Le mie osservazioni partono da questa considerazione di fondo perché è collegata al tema centrale espresso dalla ricerca dell’IReR per la Fondazione Italcementi. È vero che ci sono molte cose da discutere, da vedere, da migliorare: il problema è proprio che occorre attivare una rete, quel complesso di interazioni che chiamiamo sistema, un network in cui tutte le parti interagiscano tra di loro. La competizione rende

indispensabile entrare in rete e “fare sistema”. Uno degli elementi forti dell’entrare in rete è che chi vi partecipa viene messo costantemente in discussione. E, inoltre, partecipare alla rete non è un’operazione che si fa una volta per tutte: se si entra in una rete, in un sistema collegato, si deve poi operare con continuità. A mio avviso, uno degli aspetti più forti della liberalizzazione riguarda le università, dove


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liberalizzazione non coincide con privatizzazione, come del resto ha dimostrato il caso della privatizzazione delle autostrade, che non ha portato a una effettiva liberalizzazione. I termini ‘liberalizzazione’ e ‘privatizzazione’ non vanno confusi: è perfettamente possibile avere un sistema universitario ‘pubblico’ liberalizzato, tramite la messa in concorrenza degli atenei. Solo con una forte liberalizzazione di tutte le componenti del mercato si arriva a creare competitività. E nell’ambito del mercato ci sono anche le università, che oggi costituiscono un mercato bloccato. Se non c’è concorrenza del sistema formativo di ricerca non ci può essere miglioramento e io ritengo che la liberalizzazione – e quindi la competitività – di università, sistema formativo e sistema di ricerca sia un elemento estremamente importante: i due elementi si rinforzano reciprocamente. A questo proposito vorrei citare una mia recente esperienza in occasione di un incontro delle regioni europee a Bruxelles sullo spazio e sulla ricerca aerospaziale che, come ben si sa, non è soltanto aerospazio, ma vuol dire anche telecomunicazioni, telemedicina, security etc. Per la Francia era presente la regione dei Midi-Pyrénées, designata dal governo francese, con una delegazione composta dall’autorità regionale, le università, i centri di ricerca e l’industria, mentre per l’Italia io ero l’unico rappresentante, in veste di delegato per l’Alta Formazione, la Ricerca e l’Innovazione della regione Lombardia. In Lombardia sono presenti molte importanti imprese aeronautiche dotate di ottime capacità di realizzare

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connessioni avanzate per la media e piccola impresa e con eccellenti sistemi di telecomunicazione. C’è, però, anche un grosso problema: a Bruxelles, in occasione dell’incontro delle regioni europee nell’ambito del tanto osannato “facciamo l’Europa delle Regioni”, l’unico rappresentante dell’Italia ero io. Personalmente condivido pienamente questa idea dell’“Europa delle Regioni”: come regione Lombardia, per lo meno nei settori di mia competenza quali l’alta formazione, la ricerca e l’innovazione, stiamo già procedendo alla stipula di importanti accordi tra regioni italiane e regioni dell’Unione europea, proprio perché riteniamo che questi collegamenti diano più rilevanza al territorio. E questo è un punto politico importante: il territorio, infatti, vede muoversi le risorse, ne vede gli eventuali progressi, vede fisicamente le aziende e le persone, quindi è più attento, è più vicino alla realtà concreta. Se per la grande ricerca di base probabilmente il livello d’intervento ha un ambito internazionale che va ben oltre gli stessi confini dello stato o dell’Europa, negli altri campi, invece, il territorio è estremamente importante. Due osservazioni finali. In primo luogo, non ci può essere innovazione senza appropriate risorse umane: è ovvio che le risorse economiche sono importantissime, ma ritengo che la priorità vada alle persone attivando l’intera filiera formativa, dalla scuola

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elementare all’università. Dobbiamo batterci per un sistema efficace di selezione, valutazione e incentivazione dei docenti migliori. Sono decenni che questo tema non viene trattato in Italia con la giusta attenzione ed è quindi opportuno che il governo assuma ora un impegno forte in questo senso. La seconda osservazione riguarda il ruolo delle regioni. Il ministro Luigi Nicolais ha ragione quando sostiene che i ruoli devono essere giocati in un sistema di governance complesso, e in questo sistema il ruolo della regione è di coordinare e facilitare diversi grandi progetti, creando le condizioni perché possano essere attivati. Lo studio dell’IReR ricorda giustamente il caso di successo di Leuven; io vorrei citare anche quello dell’IMEC, un eccellente centro di ricerca pubblica e privata per la micro e nano elettronica, un organismo no-profit che reinveste tutto quello che guadagna in ricerca. Fondato nel 1986 con un investimento della regione delle Fiandre concentrato sulle

facilities, l’IMEC contava all’epoca 70 addetti, mentre adesso può vantare ben 1100 ricercatori e laboratori di tutte le più grosse industrie del mondo, inclusa la nostra STM. Questo è il ruolo che vuole avere la regione Lombardia: investire su alcune facilities che generino sviluppo attraverso organismi pubblici-privati prima fra tutte la creazione di un qualificato centro di ricerca dedicato alla nano medicina.

* Adriano De Maio, delegato per l’Alta Formazione, la Ricerca e l’Innovazione della Regione Lombardia, è uno dei massimi esperti italiani di temi di innovazione, ricerca e sviluppo. È professore ordinario di Economia e gestione dell’innovazione aziendale presso la facoltà di Economia dell’Università Luiss Guido Carli di cui è stato rettore dal 2002 al 2005. Tra i suoi molti importanti incarichi precedenti, è stato rettore del Politecnico di Milano dal 1994 al 2002, commissario straordinario del CNR nel 1993-94, presidente del gruppo di valutazione sui Centri di Eccellenza del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca dal 2002 al 2004, ed è dal 1996 a oggi presidente dell’IReR, Istituto di Ricerca della Lombardia.


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et me begin with an elementary observation. When an issue is a frequent topic for debate in the papers or at conferences, it is usually because it is an unresolved question. In Italy, we are always talking about the need to “work as a system”: you never hear this mentioned in Germany or France, for the simple reason that these countries already are systems. So the fact that people are always talking about research in Europe today is because research is not conducted at European level. I wanted to stress this point because it is related to the central issue raised by the IReR survey conducted for the Italcementi Foundation. It is true that many things need to be discussed, reviewed and improved: the problem lies in the fact that we need to organize a network, establish a complex system in which each part interacts with all the others. To compete you have to set up a network and work as a system. One of the advantages of being part of a network is that you are always under scrutiny. Joining a network is not a one-off action. When you become part of a network, an interacting system, then you have to work on a consistent basis. I believe that universities are one of the main candidates for deregulation. This is not the same thing as privatization, as Italy’s highways prove: their privatization did not bring any real deregulation. So we should not confuse the two terms ‘deregulation’ and ‘privatization’: it is perfectly possible to have a deregulated ‘public’ university system, where universities compete with one another. Full deregulation of all market components is the only way

to create competitiveness. And one of the market components are universities, which, today, are a blocked market. Without competition in the research and education system, improvement is not possible and in my view the deregulation—and thus the competitiveness—of our universities, the education system and the research system, is extremely important. Each strengthens the other. In this regard, I want to mention a recent experience of my own. I lately attended a meeting of the European regions in Brussels to discuss space and airspace research (which of course means not just aerospace, but telecommunications, telemedicine, security and so on). The problem was that whereas France was represented by the Midi-Pyrénées region, with its regional council, universities, research centers and industry, I was the only representative for Italy, in my capacity as Delegate for Further Education, Research & Innovation for the Lombardy Regional Authority. Lombardy is home to many important airspace companies; we successfully implement advanced connections for small and medium enterprises, and we have excellent telecommunications systems. Yet we also have a problem, which is that I was in Brussels on my own. And of course, the event was a meeting of European regions according to the newly fashionable claim “let’s create a Europe of Regions”.

Personally I fully support this view. The Lombardy region, at least in the fields with which I am concerned, further education, research and innovation, is already moving ahead with major agreements with Italian regions and EU regions, because we believe these ties give our area greater prominence. This is an important political point: the community sees resources moving, it sees the progress being made, it physically sees the business enterprises and people, so it is more attentive, it is closer to reality. For major basic research, the right level is probably not even the State or Europe. In other fields, however, the local community is extremely important. Two final points. One is a fundamental problem, and that is that you cannot have innovation without the right people. Of course economic resources are of enormous importance, but I believe people have to be our priority. That means we have to review the entire educational system, from primary schools to universities. We have to fight for an effective system for the selection, assessment and motivation of the best teachers. This is an issue the Italian Government has ignored for decades, but it has to be tackled now. The second point is the role of the regions. Minister Luigi Nicolais is right when he says that everyone has to play their role in a complex system of governance. Within this system, the role of the region is to

coordinate and facilitate a series of major projects, to create the right conditions for them. The IReR survey rightly mentions the success achieved by the city of Leuven; I would also mention IMEC, an excellent public-private research center in micro and nano electronics, a no-profit body that reinvests all its earnings in research. The IMEC center was established in 1986 with an investment in the facility by the Flanders regional authority: it began with 70 people and now they have 1100 researchers. All the world’s largest industries have set up micro and nano electronics laboratories there, including our own STM. This is the role the Lombardy Region wants to play. It wants to invest in facilities that stimulate growth through public-private bodies, and one of the first ideas currently under consideration is the creation of a major center for nano medicine.

* Adriano De Maio, Lombardy’s Regional Delegate for Further Education, Research & Innovation, is one of Italy’s leading experts in innovation, research and development. He is Chair of Corporate Economics & Innovation Management in the Economics Faculty of the Luiss Guido Carli University, of which he was Rector from 2002 to 2005. He has held many distinguished posts, including Rector of Milan Polytechnic from 1994 to 2002, Extraordinary Commissioner of Italy’s National Research Council from 1993 to 1994, Chairman of the Centers of Excellence assessment group of the Ministry for Education, Universities & Research from 2002 to 2004. He has been Chairman of the Lombardy Research Institute (IReR) since 1996.


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Il sistema fa la forza

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The Strength of the System Alberto Bombassei*

La competitività delle imprese è anche frutto della capacità di un paese di essere innovativo Business competitiveness depends in part on the nation’s capacity for innovation

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icerca e sviluppo sono elementi imprescindibili per la competitività del nostro paese. Il punto, però, è che oggigiorno gli attori della competitività non sono più soltanto le singole imprese e i loro prodotti. La globalizzazione e l’euro hanno cambiato i parametri della concorrenza e, ad esempio, l’incidenza della mano d’opera sul prodotto può risultare inferiore al costo della logistica. Diventa, allora, più importante realizzare un’autostrada come la Milano-Bergamo che avere una riduzione di tre punti del cuneo fiscale. Un alleggerimento di tre punti è comunque sempre il benvenuto, sia chiaro, ma ci sono attualmente dei fattori di competitività nuovi e differenti – ben descritti dalla ricerca IReR per la Fondazione Italcementi – su cui investire per fare del nostro paese un sistema moderno e concorrenziale. Preoccupa, peraltro, il posizionamento presente dell’Italia nel contesto internazionale della competitività e la sua possibile evoluzione futura. Emergono fortunatamente dei

segnali positivi. Negli ultimi due anni gli imprenditori italiani, soprattutto delle piccole e medie imprese, hanno ricominciato a orientare all’estero le proprie dinamiche industriali per recuperare competitività a livello internazionale. Positivo è stato anche l’andamento dell’economia europea che ha registrato risultati in crescita. E buoni gli ultimi dati della Germania dove in un anno la disoccupazione è diminuita di un milione di unità, scendendo da un picco di 5 milioni a poco più di 4: un risultato raggiunto attraverso un intenso programma di investimenti, una politica fiscale intelligente, e uno sguardo attento alla ricerca. In poche parole, una coerente politica di paese. È questo il punto cruciale: la capacità di competere di un’azienda passa anche attraverso la competitività del territorio. È difficile definirne con esattezza il perimetro, se è il comune, la provincia o la regione, ma credo che oggi il sistema di un territorio (come nell’esempio del Baden Wuttenberg, citato dalla ricerca IReR), dove agiscono scuola,

università, enti di ricerca e aziende, debba essere un sistema competitivo. Sono convinto, cioè, che il confronto oltre che tra prodotti e aziende, sia sempre più un confronto tra sistemi territoriali. E questo vale sia sulla piccola scala territoriale, sia a livello di macrosistemi, dove le grandi sfide si svolgono a livello mondiale: l’Europa compete con gli Stati Uniti e con l’Asia. Dobbiamo quindi fare un ulteriore passo avanti e capire che oltre che italiani siamo anche europei (concetto auspicato ma poco messo in pratica). Per il futuro, sarà questo, credo, l’unico modo per poter contare ancora qualcosa. Dobbiamo dare atto al governo attuale che, pur avendo avviato una politica di riduzione delle sovvenzioni alle aziende, è riuscito in alcuni casi a dare delle buone risposte e, soprattutto, sono stati introdotti alcuni concetti che serviranno per il futuro. C’è, in primo luogo, un accenno di politica industriale che finora è sempre mancata nel nostro paese: una buona politica industriale deve saper mettere a punto una programmazione d’interventi su 10-20 anni e non

elargire aiuti pioggia. Sappiamo che alcuni settori dovranno chiudere. E, se è vero che oggi solo il 10% delle nostre esportazioni è costituito da prodotti high-tech, dovremo arrivare a trasformare il nostro paese identificando alcuni settori prioritari dove investire in modo coerente nell’intera filiera: formazione professionale, scuola, università, centri di ricerca, imprese del settore. Molti paesi più virtuosi dell’Italia lo hanno già fatto. In Scandinavia, per esempio, Finlandia e Svezia sono diventate leader mondiali nel settore delle telecomunicazioni attraverso scelte coerenti e investimenti appropriati. Fortunatamente anche in Italia ci sono dei casi interessanti: basti pensare a Catania, dove la STMicroelectronics è riuscita a impiantare un’azienda con 4 mila dipendenti, un vasto indotto di imprese high-tech e a stretto contatto con l’Università di Catania che rappresenta una sorta di vivaio di giovani ingegneri che spesso trovano nella STM il loro sbocco professionale. Questo è un esempio da tenere in alta considerazione perché offre


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un’ideale combinazione di fabbrica di buoni cervelli, buona scuola e buona università.

* Alberto Bombassei è presidente e amministratore delegato di Brembo Spa, società leader a livello mondiale nella progettazione, sviluppo e produzione di sistemi e componenti frenanti di alte prestazioni per auto, moto, veicoli industriali e commerciali. Consigliere d’amministrazione di Sole 24 Ore, Credito Bergamasco e Italcementi, Bombassei ricopre inoltre la carica di vicepresidente di Confindustria per le Relazioni Industriali e gli Affari Sociali dal maggio 2004. Nel corso degli ultimi anni gli sono stati conferiti importanti riconoscimenti tra cui il Premio Eurostar 2004 da parte della rivista internazionale Automotive News Europe per gli eccezionali risultati raggiunti alla guida di Brembo; la Laurea Honoris Causa in Ingegneria Meccanica da parte dell’Università degli Studi di Bergamo per chiari meriti industriali; il Premio Leonardo “Qualità Italia” consegnato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel dicembre 2003 per aver portato il Made in Italy nel mondo.

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esearch and development is certainly a vital element in Italian competitiveness. Until a few years ago, competition was our businesses competing with their counterparts from abroad; today, however, it is no longer simply a question of making competitive products. Globalization and the euro have changed the rules of the game: for example, the labor cost of a product may be lower than the logistic costs.

So a highway between Milan and Bergamo may be more important than a three-point reduction in the fiscal wedge. Certainly, those three points are very welcome, but today we have to come to terms with a whole new set of factors—very well analyzed in the survey carried out by IReR for the Italcementi Foundation—if we want Italy to be a modern, competitive country. And it is worrying to see how Italy ranks in the world competitiveness scoreboard and how it will be ranked in the future. Fortunately, some positive signs are emerging. In the last two years, our entrepreneurs, especially from our small and medium businesses, have started going round the world to strengthen their organizations’ bases. The European economy is picking up, too, and the latest figures from Germany show that the number of unemployed has fallen by one million in the last year, from the 5 million peak to just over 4 million today. Germany has invested, introduced an intelligent fiscal policy, supported research. In other words, it has adopted a systematic country policy. And this is the crucial point: a company’s ability to compete depends in part on the competitiveness of the community. It is difficult to establish exactly the boundaries of this community: whether it is the commune, the province or the region, but the system of a territory (such as Baden

Wuttenberg, the example mentioned by the IReR survey), which encompasses schools, universities, research bodies and business organizations, has to be a competitive system. In other words, competition today is not just between products and companies, increasingly it is between territorial systems. It applies on the small territorial scale, and also on the scale of the macro-systems that play out the great world challenges: Europe competes with the USA and with Asia. And at this level you have to take another step and realize that not only are we Italians, we are also Europeans, a notion people talk about a lot, but generally do not put into practice. And in the future I believe this will be the only way we can still count for something. Although the present government has cut a series of investments that the business community was counting on, in some cases it has made some interesting moves. Above all, it has established a series of concepts that will serve us well in the future. First of all, an attempt has been made to set up an industrial policy, something Italy lacked. A good industrial policy should set goals for the next 10 or 20 years rather than provide indiscriminate subsidies. We know certain sectors will have to close. If it is true that today only 10% of our exports are high-tech products, then action must be taken to transform the country. Next, we have to identify a series

of priority sectors in which to direct across-the-board investment: professional training, schools, universities, research centers, the companies active in that sector. This is something many other countries, more virtuous than Italy, have already done. In Scandinavia, Finland and Sweden have become world leaders in telecommunications because they have adopted a consistent policy and invested in the communications industry. But we have important examples in Italy, too: in Catania for instance, STMicroelectronics has successfully created a company with 4,000 employees, served by countless allied high-tech firms, with Catania University regularly turning out new engineers who often find their first job in STM. This is an example we should watch closely, a case where you have a factory with excellent minds, a good school and a good university.

* Alberto Bombassei is Chairman and Chief Executive Officer of Brembo Spa, a world leader in the design, development and production of high-performance brake systems and components for automobiles, motorcycles, industrial and commercial vehicles. A member of the boards of directors of Sole 24 Ore, Credito Bergamasco and Italcementi, he has been Confindustria Vice President for Labor Relations & Social Affairs since May 2004. He has received many important accolades in the last few years, including the Eurostar 2004 award from Automotive News Europe magazine for his outstanding achievements at the head of Brembo; an honorary degree in Mechanical Engineering from Bergamo University for industrial merits; the Leonardo Award of the Italian Quality Committee, presented by the President of the Italian Republic Carlo Azeglio Ciampi in December 2003, for his contribution to Italian prestige worldwide.


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Cittadini e aziende insieme per un salto nel futuro

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Andrea Moltrasio*

Occorre orientare sempre più l’attenzione di cittadini e imprese verso la scienza e la tecnologia People and business should pay greater attention to science and technology

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l settore della scienza e della tecnologia in un’area dinamica come la Bergamasca è in forte evoluzione. La ricerca IReR per la Fondazione Italcementi ne ha tracciato con chiarezza strumenti e obiettivi. Ma è anche chiaro che le tecnologie con cui finora abbiamo operato sono molto diverse rispetto a quelle descritte dallo studio. Molte aziende, compresa la mia, si sono mosse sul terreno di una “innovazione spinta dai clienti” o di una “innovazione spinta dai fornitori”. “Dai clienti” perché l’azienda va alla ricerca di un prodotto di nicchia esclusivo, capace di soddisfare le richieste del consumatore, il che, ovviamente, necessita di un’innovazione di tipo adattativo o incrementale, realizzabile senza l’intervento di un ingegnere super-specializzato. “Dai fornitori” perché trae origine di norma da una grande azienda (nel caso della mia azienda era la Bayer), che attraverso il lancio di un nuovo prodotto, per esempio una nuova resina o un nuovo polimero, indica la strada per nuove applicazioni. L’innovazione su grande scala

e basata sulla scienza è, invece, tradizionalmente poco presente, poiché la struttura del territorio è prevalentemente formata da aziende medio-piccole, tranne casi eccellenti come Brembo o Italcementi. Una volta i giovani con formazione di scuola media superiore, con un profilo tecnico di skills intermedie, soddisfacevano ampiamente i bisogni delle aziende. Oggi, per contro, siamo chiamati a fare un salto di qualità nel campo della ricerca e dell’innovazione, a Bergamo come altrove in Italia e in Europa. Per quanto riguarda la formazione, molto è già stato fatto; basti pensare alla fondazione della Facoltà di Ingegneria all’Università di Bergamo, una scelta che all’epoca venne vista con molta perplessità da altri atenei, come il Politecnico di Milano, che non ne comprendevano la necessità. Oggi, invece, si assiste all’inserimento professionale di nuove leve di giovani con formazione universitaria adeguata che trasferiscono alle aziende del territorio un più vasto patrimonio di conoscenze e competenze.

La creazione al Kilometro Rosso di un laboratorio Italcementi per la ricerca avanzata è di cruciale importanza tanto su scala locale quanto su scala nazionale e internazionale. È un progetto che tiene conto sia della complessità, sia dell’alto livello di rischio dell’innovazione su forti basi scientifiche, e dimostra che l’incontro tra domanda e offerta di personale con competenze tecniche elevate è cambiato radicalmente. Dobbiamo, però, essere anche realisti, perché sappiamo bene che, in generale, il pubblico rimane culturalmente indifferente, per non dire ostile, a scienza e tecnologia. Diventano così importantissimi eventi come quello del Festival della Scienza organizzato a Bergamo, con l’obiettivo di creare un catalizzatore di nuove iniziative tecnologiche capace di orientare le molecole del pubblico a un maggiore interesse nei confronti del futuro e della scienza: con lo scopo finale di far entrare “con forza” nelle nostre aziende la ricerca scientifica e tecnologica e realizzare quell’innovazione basata sulla scienza che finora non abbiamo saputo mettere in atto.

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People and Business Together Toward the Future

È una sfida molto importante e c’è molto da fare perché purtroppo in Italia lo stato della formazione scientifica è molto arretrato. Per fare un esempio, la preparazione matematica dei nostri studenti a 15 anni è superiore solo a quella dei ragazzi in Messico, Grecia e Turchia e, per di più, ci sono anche forti differenze tra Italia del Nord e Italia del Sud. Occorre dunque essere coscienti della situazione e operare i necessari investimenti nella direzione che la ricerca IReR ha indicato in modo così chiaro ed efficace.

* Andrea Moltrasio è consigliere delegato di Icro Coatings Spa, azienda all’avanguardia nel settore delle vernici industriali, e presidente del Comitato Tecnico Europa di Confindustria. Siede nel consiglio d’amministrazione di RCS MediaGroup, Banca Popolare di Bergamo e BPU Banche Popolari Unite. Già Presidente dell’Unione degli Industriali della Provincia di Bergamo dal 2001 al 2005, ricopre attualmente la carica di presidente di “Bergamo Scienza” ed è coordinatore del Gruppo di lavoro “Club dei 15” di Confindustria dal 2004.


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mportant developments are taking place in Bergamo’s dynamic science and technology community. The survey carried out by IReR for the Italcementi Foundation clearly outlines the tools and goals of these changes. Yet it is also evident that the technologies we have been involved with so far are quite different to those described in the study. Many companies, my own included, have achieved “customer-driven innovation” or “supplier-driven innovation”. Customer-driven, because the company focuses on an exclusive niche product to meet customer requirements. Innovation in this case is an adaptive, incremental process, without the need for super-specialized engineers. Supplier-driven, because it usually originates from a major company, Bayer in the case of my organization, which presents a product such as a new resin or new polymer, and opens up the way toward new application areas. Large-scale innovation based on science, on the other hand, tends to be very limited, because, apart from a few outstanding exceptions like Brembo or Italcementi, the local business community consists largely of small and medium enterprises. Young people with a high-school diploma and intermediate technical skills easily met our local companies’ needs. But now we have to take a qualitative leap forward in research and innovation, in Bergamo as in the rest of Italy and in Europe. A great deal has already been done as far as education is concerned, for example with the institution of the Faculty of Engineering at Bergamo University. At the time, this raised eyebrows in

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other universities including Milan Polytechnic, who did not feel it was necessary. Today our young people are university graduates who are taking a higher level of knowledge into local companies. The creation of an Italcementi advanced research laboratory in the “Kilometro Rosso” science park is crucially important, at local, national and international level. This project takes account of both the complexity and the high level of risk of advanced scientific innovation, and confirms that the fit between the demand for and supply of high-level technical skills has changed significantly. Nevertheless, we have to be realistic too: we know that,

generally speaking, people are culturally indifferent if not hostile to science and technology. For this reason, events like the Bergamo Science Festival are extremely important, as catalysts for new technological initiatives and to foster greater public interest in the future and science. With the ultimate goal of creating a larger role for scientific and technological research in our companies and promoting the sort of science-based innovation that so far has been absent. This is a major challenge. Much needs to be done to deal with the backward state of science education in Italy. For example, the math education of our 15-year-olds is better only than

that of students in Mexico, Greece and Turkey, and significant differences exist between northern and southern Italy. We have to understand exactly what the situation is and make the necessary investments in the direction so clearly indicated by the IReR survey.

* Andrea Moltrasio is Chief Executive Officer of Icro Coatings Spa, a leading producer of industrial coatings, and Chairman of the Confindustria Technical Committee for Europe. He is a member of the boards of directors of RCS MediaGroup, Banca Popolare di Bergamo and BPU Banche Popolari Unite. Chairman of the Industrialists Union of the Province of Bergamo from 2001 to 2005, he is chairman of “Bergamo Scienza” and has been coordinator of Confindustria’s “Club dei 15” work group since 2004.

Senza cultura del rischio l’innovazione non cresce No Innovation without a Risk Culture

Ezio Andreta*

Il passaggio all’economia della conoscenza richiede il coraggio di operare investimenti importanti The transition into the knowledge economy requires the courage to make important investments

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ministri europei che nel 2000 lanciarono gli obiettivi di Lisbona su innovazione, ricerca e sviluppo avevano una visione di lungo termine estremamente ambiziosa: dichiararono, in sostanza, che l’Europa avrebbe dovuto abbandonare il sistema economico tradizionale – basato sui fattori di produzione e le risorse naturali, con una forte

incidenza del costo del lavoro e con prodotti a basso valore aggiunto – per abbracciare il nuovo sistema economico emergente, dove i fattori economici sono la conoscenza e il capitale e dove il prodotto è sempre più smaterializzato. La dichiarazione di Lisbona indica, dunque, un percorso che ha importanti implicazioni. Vanno, infatti, ristudiati i fattori

di produzione e le tradizionali teorie economiche e va accantonata l’economia classica da Adam Smith in poi per entrare in un sistema nuovo, dove la risorsa-chiave è la conoscenza. Chi produce conoscenza può produrre ricchezza, chi non la produce rischia di rimanere tagliato fuori. Ma ancora più interessante della dichiarazione di Lisbona era il corollario e cioè: se l’Europa vuole mantenere il suo livello di vita, il suo sviluppo sostenibile, l’equilibrio regionale e vuole veramente continuare su questa


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strada non ha altra soluzione che investire in ricerca. Questo è stato il messaggio forte: se vogliamo mantenere il nostro stato attuale di benessere, dobbiamo investire. E da qui nasce il problema, perché la struttura industriale europea è composta per l’80% di industrie che producono beni a basso valore aggiunto, mentre solo il 20% fa parte dell’economia della conoscenza. La situazione italiana è anche peggiore, perché non si arriva neanche al 10%. L’Europa in 15 anni ha perso la metà del suo mercato di esportazione e, secondo le previsioni, tra 5 anni non sarà in grado di fornire al mercato mondiale più del 10% del totale. È per questo che la Cina si appresta a diventare la fabbrica del futuro. Per uscire da questo sistema dovremo trasformare le industrie esistenti in industrie che utilizzano la conoscenza e non le materie prime. Italcementi è, ad esempio, un gruppo che utilizza molta materia prima. In questo caso, a mio modo di vedere, la sfida è continuare a produrre cemento ma partendo dalle nano-polveri e integrando nel prodotto una serie di funzioni che non sono soltanto la stabilità dell’edificio, ma anche

la sua capacità di fare auto-diagnostica e di autoripararsi. Questo è un mondo completamente differente. Partendo dalle nano-polveri è possibile produrre un cemento completamente rivoluzionario. Questo approccio si può applicare a tutti i prodotti, ma per farlo entra in gioco l’innovazione. E qui sta un altro grande equivoco italiano, perché c’è una grandissima confusione sul concetto di innovazione. Che cos’è l’innovazione e come avviene? L’innovazione è la capacità che ha l’imprenditore di sognare, ma il suo sogno si trasforma in realtà nella misura in cui c’è un sistema che supporta tutte le fasi di questa trasformazione. Il sistema della ricerca, però, è molto complesso e può capitare di fare molta ricerca senza che ne venga fuori nulla. È un po’ il caso attuale dei cinesi: fanno molta ricerca, ma non è detto che ne risultino prodotti ad alto valore aggiunto. Questa situazione è però destinata a cambiare. Nel sistema gli attori sono tanti, come identifica lo studio IReR per la Fondazione Italcementi, ma ce n’è uno che sta assumendo un’importanza strategica fondamentale:

la finanza. Non si fa trasformazione da un’economia tradizionale a una nuova senza la finanza, e questo è un grosso problema. Ora, traghettare l’Europa da una sponda all’altra è un po’ come attraversare il Mar Rosso; ci vuole tempo e chiarezza di idee. L’innovazione di cui abbiamo bisogno è orientata a trasformare la natura delle industrie e a crearne di nuove. Per fare questo non c’è altra soluzione che utilizzare l’innovazione radicale e di prodotto. L’innovazione incrementale di norma viene fatta sul processo, ma così si rimane prigionieri del proprio sistema, perché si può guadagnare qualche punto di efficienza e di produttività, ma si rimane sempre nello stesso ambito. L’innovazione radicale, invece, ci obbliga a rompere con il sistema precedente e a entrare in un sistema dove si ridefinisce il prodotto non più come un singolo bene, ma come una risposta al problema dell’individuo. Questo significa che nel prodotto si integrano sempre di più le tecnologie, ma soprattutto si danno delle risposte a dei problemi. Non cemento, ma stabilità e altri servizi accessori.

Quando si scopre questa realtà, ci si rende conto che per spostarci nel mondo del futuro servono le tecnologie del futuro. Quelle che utilizziamo oggi sono tutte al capolinea e al massimo possiamo valutare cosa è ancora possibile ricavarne. L’esempio dell’industria farmaceutica, citato nello studio IReR, è veramente importante. La ricerca tradizionale è molto costosa e inefficiente; ormai è chiaro che il settore deve cambiare e che occorrono nuove tecnologie, come la nano medicina e la nano farmacologia. Si aprono, dunque, scenari nuovi. Se si comprende che l’approccio da adottare si basa sulle innovazioni radicali, significa che ci si deve orientare a utilizzare tutti i sistemi di ricerca avanzata come le nanotecnologie, le tecnologie convergenti, le biotecnologie, quelle bio-info-cognitive, e altre ancora. Per quanto riguarda il ruolo della finanza, nel sistema di innovazione è importante la cultura del rischio che, purtroppo, non esiste in Europa. Questa è una verità che deve essere condivisa da tutti gli attori in campo, e non soltanto dall’imprenditore. L’università di Leuven, ricorda lo studio, ha prodotto 50 spin-off all’anno più dell’Italia. Il vero problema, però, è generare un cash flow sufficiente a finanziare la crescita. L’imprenditore deve impegnare fondi rilevanti per anticipare potenziali vendite sul mercato e questo rappresenta un grande rischio che i piccoli fondi di venture capital non riescono a sostenere. È un compito che spetta ai fondi di grande dimensione, con una massa economica di almeno 500 milioni o 1 miliardo di euro.

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Su questo occorre avere le idee chiare. Sappiamo, infatti, che in genere di 10 spin-off dopo tre anni ne sopravvivono solo 3 e dopo sette anni ne resta uno solo, che però ripaga l’investimento. Questo significa che il finanziamento non può venire dalle banche tradizionali, che danno poco valore all’intangibile, alle idee, perché sono ancora attaccate al modello delle garanzie reali. Occorrono, chiaramente, dei nuovi organismi finanziari che possono anche essere degli spin-off di aziende che si sono smaterializzate. Ne è un esempio la General Electric, che è il più grande organismo finanziario al mondo, pur mantenendo la presenza industriale in settori strategici. In Europa mancano questi nuovi venture capitalist che nascono o dall’industria che si è smaterializzata, o da una finanza con una cultura diversa e orientata al rischio. Non è soltanto un problema di investimento nel capitale dell’azienda, ma di meccanismi predisposti per anticipare delle risorse; e questa è in parte una questione finanziaria e in parte, forse anche maggiore, una questione culturale. Tutto questo ci disorienta. Abbiamo perso gli abituali punti di riferimento, sia come imprese sia come cittadini: ciò che chiamavamo valori, mercato, moneta, innovazione. Tutto questo è cambiato e va inserito in un nuovo contesto in cui le stesse cose con gli stessi nomi hanno significato diverso. Questi, a mio parere, i punti fondamentali. 1) Il primo è la competitività: oggi è solo di sistema e ciò significa, in modo quasi antinaturale, che più si collabora con il concorrente più si riesce a essere competitivi.

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2) Il secondo è il concetto della rete, che é il luogo della collaborazione. Ma, attenzione, per essere un attore della rete occorre essere riconosciuti dalla rete, altrimenti se ne viene esclusi. 3) Il terzo è forse il più interessante di tutti ed è l’indicatore della mobilità: tutto è mobile, le persone, i capitali, i prodotti, la finanza. E per chi resta sul territorio, come nel caso dei comuni, la competitività vuol dire capacità di attrazione, saper attrarre le risorse. 4) L’ultimo, che è l’indicatore più difficile, è che la linearità è finita, e al suo posto è subentrata la complessità. Ma se si coniuga complessità con sistema ci si rende conto che ci vuole una fortissima capacità di integrazione non lineare. Tutto questo mi porta a concludere che, quando si parla dei meccanismi all’interno dell’università, un approccio troppo lineare non è più sufficiente. L’approccio corretto è quello dell’integrazione e questo implica che la governance cambi natura e diventi condivisione della responsabilità in una comune visione di lungo termine.

* Ezio Andreta è presidente di APRE–Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea dal giugno 2006. APRE, associazione no-profit sostenuta da numerose università e organizzazioni private e pubbliche del mondo della ricerca e dell’industria, si propone di promuovere la partecipazione italiana ai programmi di ricerca e sviluppo finanziati dalla Commissione europea. Direttore generale della Ricerca e della Crescita Competitiva e Sostenibile dell’Unione europea dal 1995, Ezio Andreta è inoltre professore alla scuola di PhD del Politecnico di Torino.

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he European Ministers who drew up the Lisbon Agenda for innovation, research and development in 2000 had an extremely ambitious long-term vision: in essence, what they said was that Europe had to abandon its traditional economic system—based on production factors and natural resources, a high incidence of labor costs and products with low added value—and embrace the emerging new economic system based on knowledge and capital, whose products tend increasingly to be intangible. The path indicated by the Lisbon Conference has important implications. Production factors and traditional economic theories need to be reviewed, the classical economic systems from Adam Smith onward should be set aside in favor of a new system whose key resource is knowledge. Those who produce knowledge produce wealth, those who do not risk being left behind. The corollary to Lisbon is even more interesting: if Europe wants to maintain its living standards, its sustainable growth, its regional balance and

really wants to continue on its current course, it has no choice but to invest in research. That was the key message: if we want to maintain our current standard of wealth, we have to invest. And that is the root of the problem, because 80% of European industry are producers of low value added goods, while only 20% operate in the knowledge economy. The situation is even worse in Italy, with less than 10%. In 15 years Europe has lost half of its export market and projections indicate that within five years it will be unable to supply more than 10% of the needs of the total world market. This is why China is preparing to be the factory of the future. To find a way out of this situation, we have to transform our existing industries into industries that use knowledge rather than raw materials. Italcementi, for example, is a group that uses a great deal of raw materials. As I see it, the challenge it faces is to continue producing cement, but beginning with nano-powders and integrating a series of functions into the product, not


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just the stability of the building, but also auto-diagnostic and self-repair capabilities. This is a completely different world. When you begin with nano-powders you can produce a revolutionary cement. This approach can be applied to all products, but to do so you need innovation. And therein lies another great Italian misunderstanding, because innovation is a concept over which confusion reigns. What is innovation and how does it come about? Innovation is the entrepreneur’s ability to dream, but the dream becomes reality to the extent that a system exists to support each step in the transformation process. The research system, however, is extremely complex and a great deal of research may be performed without anything being produced. China is in a similar situation today: it conducts a great deal of research but this will not necessarily lead to high value-added products. Things are bound to change, however. The system involves a host of players, as the IReR survey conducted for the Italcementi Foundation indicates, but one in particular is acquiring a crucially important strategic role: finance. You cannot move from a traditional economy to a new one without finance, and this is a major obstacle. Taking Europe across from one shore to the other is rather like crossing the Red Sea; you need time and clear ideas. The innovation we need focuses on transforming the nature of our industries and creating new ones. And the only solution is radical product innovation. Incremental innovation usually applies to processes, but this keeps you tied to the system: you may make some productivity and efficiency gains, but the

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environment is always the same. Radical innovation, on the other hand, breaks away from the old system into one that defines the product as the answer to the problem of the individual rather than as an individual article. This means that products incorporate an increasingly high technology content, above all that solutions are provided to problems. Not cement, but stability and other auxiliary services. When you see this, you realize that to move into tomorrow’s world you need tomorrow’s technologies. All the technologies we use today have come to the end of the line, at the most we can assess what they still have to offer us. The example of the pharmaceuticals industry mentioned in the IReR survey is an important case in point. Traditional research is extremely expensive and inefficient; clearly, the industry has to change and new technologies are needed, such as nano-medicine and nano-pharmacology. So new horizons are opening up. When you understand that radical innovation is the way forward, then you have to be prepared to use every possible advanced research system: nano-technologies, converging technologies, biotechnologies, bio-info-cognitive technologies, and still others. As far as the role of finance is concerned, the risk culture is important for the innovation system, but unfortunately it does not exist in Europe. All the players need to understand this point, not just the entrepreneur. As the survey points, Leuven University has produced 50 spin-offs a year more than Italy. Yet the real problem is to generate sufficient cash flow to finance their growth.

The entrepreneur has to invest huge amounts ahead of potential market sales, and small venture capital funds are unable to support the risk. This is a role for the large funds, with assets of at least 500 million or one billion euro. We have to be clear about this. We know that, as a rule, of 10 spin-offs only three are still going after three years and only one after seven years, but that one repays the investment. So funding cannot be sourced from traditional banks, who put little value on intangible assets, on ideas, because they are still tied to the model of real collateral. Clearly, new financial bodies are needed, and may indeed be spin-offs of companies that have dematerialized. One example is General Electric, which continues its core industrial operations but is the world’s largest financial body. Europe lacks these new venture capitalists created either by dematerialized industry or within a financial community with a risk-oriented culture. It is not just a question of investing capital in an enterprise, but of mechanisms organized to anticipate resources. To some degree this is a financial issue, but to an even more important degree it is a cultural issue. We find all this confusing. As business organizations and as private individuals, we have lost our traditional points of reference, everything we understood as values, market, money, innovation. Everything has changed and is part of a new scenario where the same things with the same names have a different meaning. In my view, the basic points are the following. 1) The first is competitiveness: competitiveness today is a question of systems, and that

means, almost unnaturally, that the more you cooperate with your competitor, the more competitive you become. 2) The second is the concept of the network, where cooperation takes place. But to be a network player you have to be recognized by the network, otherwise you are excluded. 3) The third and perhaps most interesting point is the mobility indicator: everything is mobile, people, capital, products, finance. And for bodies linked to the local community, such as local government, competitiveness means attractiveness, the ability to attract resources. 4) The fourth and final point is the most difficult: it is that linearity is finished, and has been replaced by complexity. But when you combine complexity with system, you realize you need a very great capacity for non-linear integration. These considerations lead me to the conclusion that as far as mechanisms inside universities are concerned, an overly linear approach is no longer enough. The correct approach is integration, and this requires a new form of governance based on shared responsibilities in a common long-term vision.

* Ezio Andreta has been Chairman of the Agency for Promotion of European Research (APRE) since June 2006. A no-profit association supported by universities and public and private research and industrial organizations, APRE promotes Italian involvement in R&D programs funded by the European Commission. EC Director General for Research & Competitive Sustainable Growth since 1995, Ezio Andreta is also a member of the Doctorate School Committee at Turin Polytechnic.

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La fastosa policromia dei palazzi della Civiltà Minoica e la modernissima Allianz Arena, in cui le mutazioni cromatiche sono governate dal computer, dimostrano che l’architettura, a parte alcuni intervalli di tempo, ha nel colore uno dei punti di forza più significativi. È dunque prevedibile che gli edifici del futuro avranno come segni identitari una forte componente tecnologica ma anche fantastiche performance cromatiche. The sumptuous polychrome palaces of the Minoan Civilization and the computer-controlled chromatic mutations of the ultra-modern Allianz Arena show that, apart from a few brief periods, color has always been one of architecture’s greatest strengths. So, in addition to technology, fabulous color patterns are likely to rank among the distinguishing characteristics of the buildings of the future.

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Modernità multicolore Multicolored Modernity

Carmelo Strano*

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a società dello spettacolo, per ricordare l’espressione coniata da Guy Debord negli anni ’50 del secolo passato, non rinuncia al divertimento dato dal colore. Non può. Il colore è il primo divertimento, il più naturale, il più incisivo e irresistibile. È elemento direttamente collegato con gli stati psicologici. Il colore si pone al di sopra della dialettica figurazione-astrazione. Esso “è”: in tutta la sua pregnante autosufficienza. Il colore colpisce inesorabilmente la mente e lo spirito. Provoca una forte esperienza percettiva e veicola i moti psicologici o, come diceva Kandinsky, le risonanze interiori. Una città senza colori è spenta, smorta. E giustamente per questi casi Pier Paolo Pasolini parlava di stinte metropoli. C’è, certo, rapporto direttamente proporzionale tra economia in grande crisi e grigiore della città o assenza di colore. E c’è rapporto direttamente proporzionale tra indigenza a carico di una famiglia e asciuttezza cromatica nell’ambiente in cui essa vive. Ma c’è un filo rosso tra la citata condizione di società dello spettacolo, il periodo del postmoderno e il nostro momento storico? Tra società dello spettacolo e postmoderno sicuramente sì. Ma nel senso che la società dello spettacolo può essere vista come annuncio del postmoderno e non nel senso di un paritetico interesse per il colore. Guy Debord ha sostanzialmente intuito una società votata alla festa, all’esplosione dei colori, al divertimento aperto e persino smodato. Peraltro, una società che viveva ancora le negatività e gli sfasci dell’immediato dopoguerra e che stava per vivere il periodo dell’illusorio e comunque effimero boom economico non poteva certo essere euforica ed esteticamente esaltata. E poi l’eventuale slancio allora faceva ancora i conti con un severo modernismo, con contenuti e timorati rapporti interpersonali e con un clima di rispetto delle gerarchie e delle ideologie. È chiaro dunque che il vero spettacolo scoppia col postmoderno, e precisamente a partire dalla fine degli anni ’70. Gli anni ’80 sono stati improntati allo scoppio dei colori, del divertimento, dell’anomia o assenza di leggi, della sregolatezza, della libertà tutta da giocare. Nello stesso tempo si dava libero sfogo all’eclettismo, parente stretto della festa sfrenata. Anche l’eclettismo presuppone la disponibilità alla festa: la festa della libera scelta. La libera scelta di stili, modi espressivi di qualunque periodo, la messa assieme disinvolta di elementi linguistici differenti e persino contrastanti. In questa festa stilistica grande ruolo ricopre il colore, come testimoniano le opere di Aldo Rossi e soprattutto di Alessandro Mendini.

Per quanto riguarda il rapporto tra postmoderno e l’oggi la questione spinge a verificare se il postmoderno è cessato o continua ad agire. Diciamo subito che non siamo in pieno postmoderno. Anzi, preciso che non vedo più i segni di esso. E, poiché sin dal suo primo apparire, lo avevo dichiarato una parentesi, non faccio fatica a registrarne la fine. Quella festa è stata l’ultimo colpo di coda di una tendenza all’avanguardismo che era iniziata con la seconda parte dell’Ottocento. Lo stesso segno presenta la coeva pittura neoespressionistica o brutalistica. Un’unica sorte: quella di una breve vita e di un contributo di mera transizione. La vita del colore di oggi si misura allora non col postmoderno ma con tutta l’epoca moderna alla quale segue, oggi, una post-modernità che non ha nulla a che vedere col postmoderno. Il nostro tempo è contrassegnato dalla tendenza ad attenuare gli estremi e a formare equilibri. Equilibri incessanti, inarrestabili che tali sono proprio perché risultano precari: non appena si forma un equilibrio si parte subito per un altro. Ma se questo è il cammino, si può dire che si ha una condizione costante, pur se mutabile e di segno continuamente differente, di equilibrio. Da quest’osservazione sono stato indotto a definire il nostro quale tempo di nuova classicità o di nonimplosività (né predominanza di implosione né predominanza di esplosione). In questo grande clima di tendenza agli equilibri il colore non sarà e non è sparato, smodato, festaiolo, ma non è neanche austero e severo. Non rinunciamo al colore e però non ci ubriachiamo di colore. Le società di oggi (il plurale, dato il multiculturalismo dilagante, è ormai d’obbligo) sono improntate a un’incessante e multiforme comunicazione. Questa comunicazione non è asciutta, ma ricca di umori, di odori e di colori, come dimostrano anche gli strumenti della comunicazione, che hanno forme ricercate, vivaci e molto colorate. Questo cromatismo non è dunque propaggine del postmoderno ma senso del colore tipico del nostro tempo di nuova classicità. Sono i colori di società che sono in fermento, elettrizzate, superorganizzate, votate al tempo reale. E il tempo reale è colorato. Come lo sono, pochezza dei contenuti a parte, i reality show. Questa condizione si è appena avviata e durerà a lungo, essendo legata a una condizione epocale, la nuova classicità, che succede a un tempo lunghissimo di modernità. È la vera post-modernità nel senso asciutto e letterale del termine. Dunque, capire i segni della nuova classicità aiuta a cogliere bene il


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IL COLORE DEL FUTURO THE COLOR OF THE FUTURE

senso del colore connesso con la nuova epoca. Che è epoca di fermento e di creatività. Lo sappiano gli architetti, i docenti e gli allievi di architettura. Oggi più che mai l’architettura esibisce la propria comune radice con l’arte. I tecnologi fanno bene a vantare l’ineludibilità e l’importanza delle tecnologie. Ma lo facciano con la coscienza che esse, anche se spesso condizionano la progettazione della forma, non sono da assumere come fine a se stesse. Per altro verso si osserva che le tecnologie possono presentare naturalmente valenze artistiche e ciò farà certo felici gli art-tects, per dirla con una battuta, i quali, scevri da sciocche nostalgie e romanticherie, terranno in grande considerazione le tecnologie e i nuovi materiali quali fonti importanti di ispirazione e di progettazione. In questo clima epocale di creatività il colore ha un grande ruolo. Altro che perderlo! La città è tutta un fermento e un brulichio di colori. Ogni oggetto che in essa si muove e agisce è portatore di valori cromatici, la pubblicità addirittura prende il posto che è stato proprio della pittura “deputata” o canonica. La pittura, quale tipologia artistica, è ovunque. A tal punto che forse, quando mi ritiro dalla città e mi rifugio nella mia casa, potrò sentire il bisogno di riposarmi dal colore. Il bisogno di ritrovarmi con la natura. Eh sì, perché si può dire che il colore ci riporta allo stadio della cultura e, di conseguenza, l’attenuazione del colore (non diremo, certo, semplicisticamente, l’assenza di esso) ci riporta allo stadio di natura. Non mancano, certo, le manifestazioni supercolorate in natura. Ad esempio, un cielo infuocato o un’eruzione vulcanica. Ma queste manifestazioni naturali sono appunto naturali nel senso che non presentano modi o pieghe dal sapore artificiale. Non c’è presenza di artificio, di espressioni fatte ad arte dall’uomo. Insomma, il circo equestre è un caleidoscopio di colori, ma è artificiale. È un prodotto della cultura, ossia di una dimensione che si addossa per così dire alla natura ma avendo segno diverso da essa. Da questo punto di vista anche i materiali tecnologici e sintetici sono un prodotto della cultura e non della natura e rivelano questa loro origine. Essi contribuiscono a determinare il circo equestre della società multicolore inframmezzandosi alle manifestazioni cromatiche naturali della natura. Perfetto! Nella nostra epoca di nuova classicità, natura e cultura tendono costantemente a trovare motivi di equilibrio. Quindi il colore delle città sarà connotato da segni naturali e segni artificiali. D’altra parte non è più come un tempo: oggi non c’è soluzione di continuità tra natura e cultura o, meglio, tra ambiente o ecosiste-

ma della natura e ambiente o ecosistema della cultura. Una volta la campagna era fortemente contrapposta alla città, quest’ultima qualificandosi come segno della cultura e la prima come segno della natura. Come ebbi modo di precisare nel 1979 nella rivista “Natura Integrale” nella quale Pierre Restany e chi scrive agitavano queste problematiche, esiste ormai un unico flusso culturalenaturale che è la natura urbana-clorofilliana. Ne segue che i colori dell’architettura non sono solo artificiali né solo naturali. Il dirimpettaio dell’edificio dove ha sede l’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo che lamenta di essere disturbato dai riflessi prodotti dal rosso con cui Gae Aulenti ha ricoperto quell’opera sappia che si trova davanti un pattern naturacultura e che il colore è salutare ed esso, per quanto forte, si attenua in ogni caso nel fluire della tavolozza urbana. Si pensi a come viene esaltato e vivificato il waterfront di Düsseldorf dove William Alsop ha costruito il Colorium. I numerosi spaccati di geometrie timbriche stabiliscono un mosaico multicolore e un trompe-l’oeil ambientale che stravolge la monotona e anonima sequenza di grigi e marroni degli edifici intorno. Qui il rapporto natura-cultura diventa intenso per via che la vertiginosa verticalità della facciata si riflette, sfaccettata e liquidiforme, nell’acqua antistante. L’enorme siluro a chiazze rosse e blu, tutte tonali, che è la Torre Agbar realizzata a Barcellona da Jean Nouvel dialoga, in un forte contraddittorio sul piano morfologico e cromatico, con la Sagrada Familia di Gaudí. Segnale di un impiego proiettivo o futuribile del colore è anche lo stadio di Monaco “Allianz Arena” progettato da Jacques Herzog e Pierre de Meuron per l’occasione dei Mondiali di calcio del 2006. In un grande spaccato di natura (campagna) si inserisce con prepotenza l’enorme ruota costituita da circa 3000 cuscini pneumatici. Ufo piovuto dai cieli, l’Arena presenta una superficie o pelle illuminata da diversissimi colori. Analoga testimonianza di impegno forte nel colore offre l’edificio destinato a uffici progettato per Aubervilliers da Brenac e Gonzales. Analogamente al citato Colorium di Alsop a Düsseldorf, l’edificio di Aubervilliers si abbandona alla pittura ma stavolta non con un segno geometrico bensì con l’atmosfera tonale. L’Experience Music Project di Seattle, opera di Frank O. Gehry, assieme al New Barajas Air Terminal di Madrid (Richard Rogers e Estudio Lamela) e il Museo d’Arte Contemporanea di León pensato da Mansilla e Tuñón sono un segnale forte di un nuovo cammino di impegno del colore nell’architettura e quindi nella città.

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* Carmelo Strano, filosofo, critico delle arti visive. Tra i maggiori maîtres-à-penser, ha indagato per molti anni i segni del nostro cambiamento epocale, con ricerche e teorie innovative nel campo della filosofia, dell’estetica e dell’arte che gli hanno valso numerosi riconoscimenti scientifici in varie parti del mondo e la cattedra di Estetica quale professore ordinario per chiara fama presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Catania. Tra i concetti introdotti quelli di Similarità (in sostituzione della mimesi), Nuova Classicità, Unimplosiveness, Opera Ellittica, Urbanistica Parcellizzata. Ha messo a fuoco i fondamenti teorici dell’arte ambientale e di quella decostruttivista. Ha curato rassegne d’arte contemporanea, anche nell’ambito della Biennale di Venezia, alcune divenute pietre miliari (Il sud del mondo, La Nuova Europa, Unimplosive Art, Mediterraneo Sacro). Oltre che di innumerevoli saggi è autore di svariati volumi, alcuni ormai testi di riferimento: Il segno della devianza, Dall’opera aperta all’opera ellittica, Il riscatto d’Europa, Mai visto un tempo così – come sentiamo, pensiamo, agiamo all’apertura del nuovo millennio.


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he society of the spectacle, to use the phrase coined by Guy Debord in the 1950s, has no intention of giving up the enjoyment provided by color. Nor could it. Color is our first, most natural, incisive and irresistible form of entertainment. It is directly connected with our state of mind. Color stands above the figuration-abstraction dialectic. It “is”, in all its pregnant self-sufficiency. Color is uncompromising in its effect on mind and spirit. It generates a powerful perceptual experience and provides a channel for psychological moods or what Kandinsky calls inner resonances. A city without color is dull and lifeless. The faded metropolis, as Pier Paolo Pasolini so neatly put it. Clearly, there is a directly proportional relationship between a struggling economy and the drabness or lack of color of a city. As there is between the poverty of a family and the chromatic aridity of the environment in which it lives. But is there some thread linking this society of the spectacle, the postmodern period and the present age? A link certainly exists between the society of the spectacle and the postmodern, but in the sense that the former was the forerunner of the postmodern period, rather than in terms of some shared interest in color. Guy Debord perceived a society devoted to celebration in an explosion of color, to open, even outrageous fun. After all, a society still afflicted by the difficulties and devastation of the immediate post-war period and being about to experience an illusory and, in any case, transient economic boom, certainly could not be euphoric and aesthetically inspired. Furthermore, at that time any outburst still had to reckon with the severity of modernism, restrained and rather timid interpersonal relations, and a general sense of respect for hierarchies and ideologies. Clearly, then, the real spectacle exploded with the advent of the postmodern, at the end of the 1970s. The 1980s were a time of riotous color and entertainment, of lawlessness or an absence of rules, of intemperance, of boundless freedom. They were also a time of unbridled eclecticism, which is a close relation of wild partying. Eclecticism, too, presupposes a willingness to celebrate: to celebrate freedom of choice. Freedom of choice in styles, in forms of expression from any period, the uninhibited mixing of different, even conflicting linguistic elements. Color plays an important part in this kind of stylistic celebration, as can be seen in the works of Aldo Rossi and, above all, Alessandro Mendini. As far as the relationship between the postmodern and the present day is concerned, the interesting question is whether the postmodern period has come to an end

or not. Let’s start by saying that we are not in the full throes of postmodern. In fact I no longer see any signs of it. And since I described it as just a phase as soon as it emerged, I have no difficulty noting that it is over. That celebratory period was the final fling of a preoccupation with avant-gardism that began in the latter half of the nineteenth century. Contemporary neoexpressionist or brutalist painting displayed similar tendencies and ultimately shared the same fate: a brief life and a purely transitional contribution. So today’s color experience is to be gauged not against the postmodern but against the whole modern age, now being followed by a kind of post-modernity which has nothing to do with the postmodern. Today there is a tendency to soften extremes and to achieve balances. Incessant, unstoppable balances, made so because they are precarious: as soon as one balance is obtained, another is in the making. This being so, we can say that we are in a constant, albeit continually shifting, state of balance. Which leads me to describe our times as a period of new classicism or of unimplosiveness (in which neither implosion nor explosion dominate). When the focus is on balance as it is today, color will be neither too bright, excessive or showy, nor too harsh and austere. We will not give up color, but neither will we gorge ourselves on it. Today’s societies (given sweeping multi-culturism, I used the plural advisedly) are geared to non-stop multiform communication. Contemporary communication is not dry, it has many moods, scents and colors, as do our communication devices with their stylish, lively and highly colorful forms. This chromaticism is not a ramification from the postmodern but a notion of color typical of today’s new classicism. These are the colors of electrified, super-organized societies always on the go, operating in real-time. And real-time is colored. As are reality shows, despite their dearth of content. This state has just begun; and since it is associated with the epoch-making condition of new classicism that has succeeded the lengthy period of modernity, it will last for a long time. This is true post-modernity, in the dry, literal sense of the term. So an understanding of the signs of the new classicism can help us grasp the significance of color in the new age, an age of ferment and creativity. This is something architects, and teachers and students of architecture should know. Now, more than ever before, architecture is revealing the roots it shares with art. Technologists are right to boast about the inevitability and importance of technology. But they ought to be aware that although technology often influences form, it is not to be regarded as an end in itself. Equally, technology may naturally display


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artistic qualities, something which will certainly please the art-tects (excuse the pun), who, unencumbered by foolish romantic notions and nostalgia, will hold technology and new materials in great esteem as important sources of inspiration and design. Color has a great part to play in this epoch-making age of creativity. It will certainly not disappear! The city is alive and bursting with color. Every moving object is a bearer of color, indeed, advertising is taking the place once canonically occupied by painting. Painting, as an artistic genre, is everywhere. To such an extent that when I go home and shut the door on the city, I may feel the need to take a break from color and surround myself with nature. Yes, because it is fair to say that color takes us into a state of culture, so a toning down of color (talking about an absence of color would be simplistic) takes us into a state of nature. Of course, there are plenty of super-colored phenomena in nature. Bright red skies, for example, or an exploding volcano. But these are natural occurrences in the sense that there is nothing artificial about them. There is no artifice about them, nothing manmade. The equestrian number in a circus is a kaleidoscope of color, but it is artificial. It is a product of culture, a manifestation that borrows from nature but is different from it. In the same way, technological and synthetic materials are a product of culture rather than nature, and it shows. They help shape the circus of our multi-colored society, interposed with the natural chromatic manifestations of nature. Perfect! In our new classicist age, nature and culture are constantly striking new balances. So the color of the city will display both nature and artifice. After all, things have changed: nowadays there is no interruption between nature and culture or, rather, between the natural environment or ecosystem and the cultural environment or ecosystem. The countryside was once set against the city, with the latter standing for culture and the former for nature. As I pointed out in 1979 in “Natura Integrale”, the magazine where Pierre Restany and I thrashed out these issues, there is now one single flux of culture and nature, chlorophyllaceous-urban nature. It follows that the colors of architecture are neither wholly artificial nor wholly natural. The people in the building opposite the Italian Institute of Culture in Tokyo, who complain about the reflections produced by the red Gae Aulenti has used to clad the building, should be told that this is a nature-color pattern, that the color is healthy and however bright it may be, it is toned down in the context of the urban palette. Look at how the Düsseldorf waterfront has been enhanced and enlivened by William Alsop’s Colorium. The col-

ored geometric cut-outs create a multi-colored mosaic and environmental trompe-l’oeil that overwhelms the monotonous, anonymous sequence of grays and browns of the surrounding buildings. Here, the natureculture pairing intensifies as the dizzying verticality of the facade is reflected, in multifaceted liquid form, in the water below. In Barcelona, the huge red and blue torpedo which is the Agbar Tower designed by Jean Nouvel stands in powerful morphological and chromatic contrast with Gaudí’s Sagrada Familia. Another instance of forward-looking or futuristic use of color is the “Allianz Arena” in Munich, designed by Jacques Herzog and Pierre de Meuron for the 2006 World Cup Football. The huge wheel formed by 3000 pneumatic cushions stands boldly in a huge natural clearing (countryside). A UFO dropped out of the sky, the Arena displays a huge variety of colors on its surface or skin. The office block designed by Brenac and Gonzales for Aubervilliers offers another example of the powerful use of color. Like Alsop’s Colorium in Düsseldorf, the Aubervilliers building is an exercise in painting, this time through creation of a tonal mood rather than use of geometric patterns. Frank O. Gehry’s Experience Music Project in Seattle, along with the New Barajas Air Terminal in Madrid (Richard Rogers and Estudio Lamela) and the Léon Museum of Contemporary Art by Mansilla and Tuñón are all powerful pointers to a new way of using color in architecture and, hence, in the city.

* Carmelo Strano, philosopher, visual arts critic. One of today’s leading maîtres-à-penser, he has analyzed the manifestations of our changing times for many years, producing innovative work and theories in philosophy, aesthetics and art which have won him important scientific recognition in various parts of the world and the chair in Aesthetics at the Faculty of Architecture at Catania University. Concepts introduced by Strano include Similarity (in the place of mimesis), New Classicism, Unimplosiveness, Elliptic Work, and Parceled Town-Planning. He has established the theoretical foundations of environmental art and deconstructivist art. He has curated contemporary art exhibitions, many at the Venice Biennale, some of which are now regarded as milestones (Il sud del mondo, La Nuova Europa, Unimplosive Art, Mediterraneo Sacro). In addition to countless essays, Strano is the author of several books, many now regarded as standard works of reference: Il segno della devianza, Dall’opera aperta all’opera ellittica, Il riscatto d’Europa, Mai visto un tempo così – come sentiamo, pensiamo, agiamo all’apertura del nuovo millennio.

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Comunicazione programmata Programmed Communication Aubervilliers, Bâtiment 270 Aubervilliers, Bâtiment 270 Progetto di Atelier d’Architecture Brenac & Gonzales Project by Atelier d’Architecture Brenac & Gonzales

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Sistema di facciata, dettagli costruttivi. Facade system, construction details.

uello che soprattutto distingue l’architettura dall’arte è la sua capacità di mutare in valore ciò che per l’arte è un disvalore causato dal trascorrere del tempo. L’Arte Programmata appartiene a esperienze nate negli anni Sessanta. Si tratta dunque di un linguaggio che ha ormai esaurito la sua carica innovativa. Per Bâtiment 270 (opera apertamente in sintonia con quel linguaggio fondato sulla tecnologia per una diversa collocazione culturale del lavoro dell’artista nella contemporaneità), il fattore tempo è pressoché ininfluente. La scala urbana dà all’architettura una grande carica di energia poiché è struttura pubblica, elemento identitario che definisce un luogo della città. Inoltre, se è anche portatrice di valori ecologici come Bâtiment 270 collabora attivamente alla salvaguardia dell’ambiente. Il progetto, commissionato dalla società ICADE EMGP, punta su due principali direzioni. Il primo obiettivo è la qualità estetica raggiunta attraverso un’immagine complessiva fuori dagli schemi e portatrice di innovazioni destinate a dare una forte identità al luogo urbano, realizzando un oggetto architettonico dotato di una propria vitalità oltre alla semplice funzione di contenitore. L’altro obiettivo è rappresentato dalla necessità di assicurare bassi consumi energetici senza trascurare però un alto grado di comfort diffuso. In tal senso, il complesso possiede tutte le possibili certificazioni (è infatti il primo edificio per uffici certificato “NF Bâtiments tertiaires, Démarche HQE-Haute Qualité Environnementale”) riguardanti l’impiego di materiali secondo norme particolarmente restrittive. Molta attenzione è stata riservata alla corretta gestione delle risorse principali come acqua ed energia ma anche al controllo e monitoraggio del rumore di cantiere, dei livelli acustici, igrometrici e di quanto contribuisce al comfort generale. Il tutto entro un budget che non permetteva costi elevati. Bâtiment 270 è una vera e propria macchina per abitare, tenuta sotto controllo grazie a sistemi telecomandati avanzati, in grado di offrire prestazioni personalizzate all’interno dei vari spazi lavorativi. Non si tratta però di un mostro tecnologico, di una massa invasiva, ma di una presenza leggera, una sorta di Wunderkammer estroflessa che espone se stessa attraverso l’emissione di effetti cromatici con configurazioni programmabili e comunque potenzialmente sempre diversificati. È infatti possibile ottenere facciate “impaginate” con configurazioni astratte ma anche con ampie superfici animate da brevi testi simili a macro-pixelature fuori scala. Nel panorama dell’architettura internazionale, Bâtiment 270 si pone come un esempio riuscito di minimalismo a geometria variabile attraverso una doppia identità: di giorno l’edificio è un volume elementare “incrostato” da sporgenze di vario spessore e dimensione, una sorta

di bassorilievo geometrico, per nulla anticipatore di effetti speciali in grado di creare fantasmagorici illusionismi durante le ore notturne, quando luce e colore tolgono matericità, ovvero quando l’architettura trasmuta in fenomeno visionario.


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Tavole sinottiche delle combinazioni cromatiche dell’involucro dell’edificio. Pagina a fianco, schema di sviluppo delle facciate e dettaglio delle finestre. Synoptic tables of the color combinations on the building shell. Opposite page, diagram of the facades and detail of the windows.

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he quality that distinguishes architecture from art is its ability to create value out of what for art is the non-value caused by the passing of time. Programmed Art dates back to experimental work in the 1960s and as such has now lost its innovative force. For Bâtiment 270 (a work clearly aligned with that technology-grounded idiom aimed at a cultural repositioning of the work of the artist in modern society), time is virtually a non-factor. Architecture on an urban scale acquires enormous energy, because it becomes a public means to identify a city location. If, like Bâtiment 270, it is also based on ecological values, then it can make an active contribution to the protection of the environment. This project—commissioned by the ICADE EMGP company—works along two main lines. The first aim is to achieve aesthetic quality through an unconventional global image whose innovations give the urban location a strong identity. In other words, to produce an architectural object with its own inner vitality, over and beyond its function as a container. The other goal is to keep energy consumption down, while providing a high degree of general comfort. In this respect, the building has obtained every available construction materials certification, in accordance with the most stringent regulations; it is actually the first office building with NF Bâtiments tertiaires, Démarche HQE-Haute Qualité

Environnementale certification. Priority was given to proper use of key resources like water and energy, as well as to monitoring and controlling building site noise, acoustic levels, hygrometric conditions and all the other elements that make for all-round comfort. All within the constraints of a budget that could not cater for high costs. Bâtiment 270 is an authentic machine for living, managed by advanced remotely controlled systems, and able to support customized services for each different workspace. Yet it is no technological monster or invasive mass; rather, it is an agile presence, a sort of extroverted Wunderkammer revealed through color effects in programmable and infinitely diversified configurations. The “paged” facades can be created with abstract layouts, or with wider surfaces enlivened by short texts, rather like over-sized macro-pixel patterns. Bâtiment 270 takes its place on the international architectural scene as a successful example of variable geometrics minimalism, thanks to its double identity. During the daytime the building is a simple structure “encrusted” with projections of various shapes and sizes, a sort of geometric bas-relief giving no hint of those phantasmagoric illusions that emerge after dark, when light and color take over from material substance and architecture turns into a visionary phenomenon.

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Dall’alto, planimetria generale, facciata sud-ovest, piante dei piani tipo e terreno, rapporto edificio e contesto e sezione. From top, site plan, south-west facade, plans of a standard floor and ground floor, interaction between building and setting, and section.

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Rapporto esterni e interni e veduta notturna. Relations between the exteriors and interiors and nighttime view.


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Caleidoscopiche visioni Kaleidoscopic Visions Barcellona, Torre Agbar Barcelona, Agbar Tower Progetto di Ateliers Jean Nouvel Project by Ateliers Jean Nouvel

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hi vedesse in quest’opera dalla forma vagamente “imbarazzante” un’errata interpretazione della venustas vitruviana sbaglierebbe clamorosamente. Jean Nouvel, infatti, non cerca simmetrie formali con i grattacieli americani orientati a conquistare il cielo attraverso città verticali sempre più alte. Al contrario, egli indaga l’emergenza non come superamento del limite altimetrico bensì quale evidenza urbana dalla forte identità funzionale. Sente la necessità di creare un corpo significante per nuovi orientamenti verso ridotti consumi energetici e l’importanza di organizzare un luogo connesso con le reti di comunicazione a copertura planetaria rimanendo però, al tempo stesso, isola autonoma, elemento generatore di un nuovo paesaggio metropolitano. Il complesso è stato realizzato per la nuova sede di Agbar-Aguas de Barcelona, società che gestisce le risorse idriche della città. La torre sorge sul nodo in cui incrociano importanti strade come Avenida Diagonal, Meridiana e Gran Via. La particolare configurazione ogivale nasce dalla necessità di realizzare una doppia pelle avvolgente (evitando così spigoli e quant’altro interrompa la continuità della superficie) che frapponga tra l’interno e l’esterno uno scudo termico capace di assicurare il massimo benessere climatico con ridotti consumi, sia durante la stagione estiva sia nei mesi più freddi. La particolare conformazione della facciata a doppia pelle crea un effetto di “velo d’acqua” sgorgante dalla

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Variazioni dell’angolo di incidenza dei raggi solari durante il solstizio d’estate. Variations in the angle at which sunlight hits during the summer solstice.

sommità, realizzando così un’immagine complessiva fortemente identitaria, sia nella forma sia nel contenuto simbolico: la vivace brillantezza e trasparenza evoca la vibratile mobilità della superficie dell’acqua, costantemente sensibile ai cambi di luce e alle tonalità cromatiche del cielo. Ma l’architettura deve anche confrontarsi con l’intorno urbano, con la globalità della città e le sue sedimentazioni culturali, le sue memorie storiche. E Barcellona, città dove visse e operò Antonio Gaudí, non poteva non stimolare relazioni dirette fra il nuovo e la storia dell’architettura catalana. Muovendosi su più livelli, Nouvel lavora sul recupero di certi materiali dell’immaginario gaudiniano, ma anche sulla visibilità della Sagrada Familia. L’irregolare griglia su cui è distribuito l’ordito delle finestre, la variabilità cromatica e la presenza di un’ulteriore riquadratura creata con il brise-soleil, evocano le superfici musive di alcune importanti opere del maestro del modernismo. Per esempio: Palazzo Güell, Casa Vicens, Casa Batlló. La Sagrada Familia è il prezioso oggetto su cui è impostata la disposizione asimmetrica delle finestre che inquadrano la famosa cattedrale; all’osservatore è data la possibilità di simulare una propria regia, ricostruendo virtualmente per dettagli la visione dell’insieme, una sorta di montaggio cinematografico al contrario, una rivisitazione personalizzata di un’icona modernista fra le più celebri del mondo.


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Sezioni alle diverse quote della torre. Sections at the various tower heights.

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eople who consider this project with its vaguely “embarrassing” shape an ill-judged interpretation of Vitruvius’ venustas would be well off the mark. Jean Nouvel is not trying to achieve a formal symmetry with those American skyscrapers that set out to conquer the sky by constructing ever-taller vertical cities. On the contrary, he explores the protruding form not as a device to beat height limitations, but as a way of creating functionally distinctive urban elements. He feels the need to create a building that makes a significant contribution to the move toward lower energy consumption and the importance of organizing a location with access to today’s planetary communication networks, which, at the same time, is an independent island capable of generating a brand-new metropolitan cityscape. The building was designed as the new headquarters of Agbar-Aguas de Barcelona, the municipal water company. The tower stands at the crossroads of three major streets, Avenida Diagonal, Meridiana and Gran Via. Its unusual egg-shaped form arose from the need to create a double encasing skin (thereby eliminating corners and protuberances from its seamless surface), that would act as a heat shield between inside and outside and ensure the best possible conditions, while cutting down on energy consumption during both the summer and the winter months. The special double-skinned facade creates the effect of

a “veil of water” pouring down from the top of the tower, a highly distinctive overall image, in terms of both form and symbolic content: the striking brightness and transparency suggest the shimmering surface of water, constantly sensitive to changes in the light and the chromatic shades of the skies. But architecture must also co-habit with its urban surroundings, the globality of the city, its culture and history. And Barcelona, the city where Antonio Gaudí lived and worked, was bound to stimulate a direct link between new design and the architectural history of Catalonia. Moving on various levels, Nouvel retrieves certain materials from the Gaudí repertoire, as well as creating a visual link with the Sagrada Familia cathedral. The irregular-shaped grille over which the windows are arranged, the color variations and the presence of an extra bay composed of shutters, all evoke the mosaic surfaces of some of the most important works of the master of modernism. For instance, Palacio Güell, Casa Vicens, and Casa Batlló. The Sagrada Familia is the vital object dictating the asymmetric layout of the windows framing the famous cathedral; the onlooker is given the opportunity to direct his own film, virtually reconstructing details of the overall view in a sort of backwards piece of film editing, a customized re-reading of one of the world’s most famous modernist icons.


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Rapporto fra contesto e torre, sezione e comparazione delle altezze fra la Torre Agbar e alcuni edifici presenti a Barcellona.

The building set in its context, section and comparison in height between Agbar Tower and some other buildings in Barcelona.

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In alto, sezione della parte terminale, dettagli dei sistemi di facciata e lo spazio interno della parte terminale. Top, section of the end part, details of the system of facades and space inside the end part.


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Rapporto fra la Torre Agbar e il contesto paesaggistico. Agbar Tower in comparison with the surrounding landscape.

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Evasioni aerostatiche Aerostatic Flights Monaco di Baviera, Stadio Allianz Arena Munich, Allianz Arena Stadium Progetto di Herzog & de Meuron Project by Herzog & de Meuron

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l nuovo stadio Allianz Arena (destinato alle squadre di calcio tedesche TSV 1860 Monaco e FC Bayern Monaco) ribadisce con grande evidenza che il passaggio dall’architettura “tradizionale” a quella che verrà è in una fase di forte tensione creativa. Ai progettisti Herzog & de Meuron va riconosciuto il merito di aver compiuto un notevole passo avanti, seppure partendo da esperienze passate risalenti agli anni Sessanta e Settanta quando, in piena euforia rivoluzionaria, il mondo del progetto iniziò a interessarsi ai materiali sintetici e ai grandi involucri pneumatici. Da allora la tecnologia ha davvero compiuto passi da gigante producendo sistemi alquanto evoluti, in grado di assicurare performance di alto livello, come nel caso dello stadio di Monaco, che dichiara apertamente la sua complessità costruttiva attraverso uno straordinario involucro scolpito da bolle pneumatiche traslucide (oltre 2.800, realizzate in ETFE, etilentetrafluoroetilene) in grado di illuminarsi, e colorarsi, ciascuna con colori diversi (soprattutto quelli istituzionali delle squadre che di volta in volta giocano all’interno dello stadio), tenute in pressione grazie a speciali stazioni di pompaggio sistemate ai quattro angoli del complesso sportivo. Allianz Arena non è solamente uno stupefacente oggetto urbano entrato prepotentemente all’interno dello star system mediatico, ma anche una vera e propria dichiarazione di guerra rivolta all’architettura passatista, quella che non vuole crescere in sintonia con un mondo sem-

pre più proiettato verso il futuro. Una guerra in partenza già vinta, poiché Allianz Arena apre nuovi orizzonti di senso alla cultura del progetto. Un mondo, quello del progetto, sempre più consapevole del fatto che tutto passa inevitabilmente attraverso un tritacarne mediatico che, se da una parte privilegia i grandi numeri della cultura di massa, dall’altra brucia alla velocità della luce qualsiasi idea innovativa, seppure geniale. I Mondiali di Germania 2006 sono passati e lo stadio, anche se destinato ad attività oltre il calcio quali accoglienza di eventi di vario genere (attualmente sono attivi negozi, ristoranti e asili per i bambini degli spettatori che frequentano lo stadio), appare ormai privato dell’allure iniziale e, forse, anche solo tra qualche anno qualcuno sentirà il bisogno di rilanciarlo con una nuova immagine, che naturalmente non potrà essere meno eclatante della precedente. In tal caso, sarebbe comunque un’operazione possibile senza modificare la struttura principale in cemento armato. Si tratterebbe di rimuovere l’involucro pneumatico sostituendolo con un altro parimenti efficace. Magari puntando su qualcosa di ancora più leggero e immateriale. Vista l’accelerazione con cui le tecnologie evolvono, forse si arriverà a realizzare flussi d’aria (o di energia) liberi, talmente compatti da assicurare la necessaria protezione dagli agenti atmosferici ma anche porsi come grandi strutture di comunicazione a scala urbana.


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he new Allianz Arena stadium (home to the local German football teams TSV 1860 Munich and FC Bayern Munich) provides forceful proof that the transition from “traditional” architecture to the architecture of the future is going through a phase of great creative tension. Herzog & de Meuron deserve recognition for taking an important step forward, even if they have built on experiences dating back to the Sixties and Seventies when the mood of revolutionary euphoria sweeping through the design world generated an interest in synthetic materials and large pneumatic shells. Technology really has taken giant steps forward since then, producing cutting-edge systems that deliver superior performance. The Munich stadium is a case in point, a building that openly declares its structural complexity through an incredible shell sculpted from translucent pneumatic bubbles (more than 2,800, made of ETFE, ethylene–tetrafluoroethylene) which light up in different colors—notably the official colors of the teams playing in the stadium—and are kept pressurized by special pumping stations positioned at the four corners of the sports ground. An astonishing urban object that has elbowed its way into the media star system, Allianz Arena is also a declaration of war on traditionalist architecture that refuses

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Piante dei diversi livelli. Pagine precedenti, spaccato prospettico e dettaglio dell’involucro pneumatico. Plans of the various levels. Previous pages, perspective cutaway and detail of the pneumatic shell.

to move with a world increasingly projected into the future. A war won from the outset, because Allianz Arena opens up meaningful new horizons for architectural design. The world of design is acutely aware that everything inevitably goes through the media mincer, an instrument that favors the big numbers of mass culture on one hand, and on the other burns up new ideas at the speed of light, however brilliant they might be. The 2006 World Cup in Germany has come and gone. The stadium may be intended to host other events besides football matches—at the moment it has shops, restaurants and nurseries for visitors’ children—but it appears to have lost its initial allure; in just a few years time, somebody will, perhaps, decide it needs a new image, naturally no less striking than the old one. This could be achieved without altering the main reinforced concrete frame. It would mean replacing the pneumatic shell with another equally effective structure. Something even lighter and insubstantial, perhaps. One idea, given the increasing pace of technological progress, could be free flows of air (or energy) of sufficient density to provide protection against atmospheric agents, acting as urban-scale communication structures.


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Dettaglio costruttivo dell’involucro pneumatico, sezione, piante e veduta aerea. Construction detail of the pneumatic shell, section, plans and aerial view.

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Dall’alto, piante dei piani secondo, primo e terra. From top, plans of the second, first and ground floors.

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Dall’alto, planimetria generale e l’involucro visto in diverse condizioni di luce e colore. From top, site plan and shell seen in various light and color conditions.


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L’involucro pneumatico ha una superficie di circa 66.500 mq ed è costituito da oltre 2.800 cuscini pneumatici. The pneumatic shell covers approximately 66,500 square meters and is composed of more than 2,800 pneumatic cushions.

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Colore, spazio e rock’n’roll Color, Space and Rock’n’Roll Seattle, Museo Experience Music Project Seattle, Experience Music Project Museum Progetto di Frank O. Gehry and Associates Project by Frank O. Gehry and Associates

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os’hanno in comune l’universo rock-blues di Jimi Hendrix (Seattle, 27 novembre 1942 – Londra, 18 settembre 1970) e le convulsioni post-futuriste di Frank O. Gehry? Probabilmente, una risposta sensata non c’è. La “follia” può essere spiegata solamente attraverso metafore estreme: Hendrix e Gehry si sono “virtualmente” trovati in quel di Seattle e, insieme al multimiliardario Paul Allen (il co-fondatore di Microsoft che ha investito i cento milioni di dollari per la realizzazione di questo museo della musica interattivo dedicato al suo idolo), hanno estratto dalle profondità dell’inferno un muscoloso mausoleo con cui Allen ha voluto celebrare una delle controculture più longeve, sorta tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche realizzare un potente magnete per attirare da ogni parte del mondo moltitudini di fans, sicuri di raggiungere la felicità terrena semplicemente acquistando un biglietto d’ingresso da 19,95 dollari. L’Experience Music Project (EMP) possiede varie anime: oltre a essere per i più un sulfureo santuario (non va dimenticato che a volte Hendrix amava incendiare le sue chitarre) è anche un luogo per giocare. La componente ludica ha contaminato prima di tutto Gehry, quando ha deciso di colorare gli edifici come le mitiche chitarre prodotte in quegli anni immergendo i visitatori in una miriade di colori dal blu Fender all’oro della Gibson Les Paul ma anche al porpora di Purple Haze,

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Griglia prospettica dei volumi. Pagina a fianco, gli spazi espositivi del crossroads offrono un percorso attraverso diverse esperienze e tradizioni della musica pop. Perspective grid of the structures. Opposite page, the exhibition spaces of the crossroads provide a pathway through various experiences and traditions of pop music.

uno dei brani più noti della vastissima produzione discografica di Hendrix. La complessità volumetrica dell’EMP ha richiesto il supporto di CATIA, noto programma di digitalizzazione 3D (usato originariamente per la progettazione degli aerei Mirage), ma ne è valsa la pena poiché, anche se ormai alcune opere di Gehry appaiono lussuosi multipli, l’EMP è davvero un universo a parte. Nonostante la prassi progettuale sia quella di partire dall’esterno, ovvero di creare un modello scultoreo e, in seguito, adattargli i contenuti espositivi, il risultato è sorprendente. A differenza del Guggenheim Museum di Bilbao, in cui permane ancora una seppur minima traccia di ricerca compositiva “tradizionale”, l’EMP è un territorio tellurico, un dramma tettonico pari alle lancinanti note della dylaniana All Along The Watchtower, straordinaria cover di Hendrix inserita nell’album Electric Ladyland, uscito nel lontano 1968. Se l’esterno dell’EMP coinvolge l’intorno urbano in uno stretto corpo a corpo, lasciando l’avversario pieno di lividi e tumefazioni sanguinolente, anche l’interno in quanto a emozioni forti non è da meno: è un’immersione in un immaginario rutilante, una lunga apnea nei profondi abissi della psichedelia più virulenta e sensuale. L’enorme grappolo di strumenti appeso (naturalmente, moltissime chitarre d’ogni forma e tipo ma anche strumenti ad arco, tastiere, percussioni ecc.) rappresenta l’acme di un percorso emozionante e indimenticabile.


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hat does the rock-blues world of Jimi Hendrix (Seattle, November 27, 1942 – London, September 18, 1970) have in common with Frank O. Gehry’s post-futurist convulsions? There is probably no sensible answer to that. “Madness” can only be explained in terms of extreme metaphors: Hendrix and Gehry have come together in a “virtual” encounter in Seattle, where, with the support of Microsoft co-founder and billionaire entrepreneur Paul Allen (who provided the one hundred million dollars to build this interactive music museum dedicated to his idol), they have gone to hell and back to produce a muscular mausoleum intended by Allen as a celebration of an enduring counter-culture from the 1950s-60s and, also, as a powerful magnet attracting hoards of fans from all over the world, who know that happiness on earth can be found simply for the cost of a $ 19.95

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Griglia prospettica dei volumi e, pagina a fianco, veduta aerea del complesso. Perspective grid of the structures and, opposite page, aerial view of the complex.

entrance ticket. Experience Music Project (EMP) has multiple personalities: a sort of sulphurous sanctuary for most people (Hendrix occasionally enjoying setting his guitars on fire), it is also a playground. Gehry was the first person to be infected by the concept of play, when he decided to give the buildings the colors of those legendary old guitars. He plunges visitors into a riot of colors: Fender blue, Gibson Les Paul gold, as well as the purple of Purple Haze, one of the most popular tracks in the vast Hendrix opus. EMP’s structural complexity needed the support of CATIA, a well-known 3D digitization program (originally used to design Mirage planes); and it has paid off, because, while some of Gehry’s buildings look like luxurious multiples, EMP really is a world apart. Even though the design method starts from the outside, creating a


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sculptural model and then adapting what is on display inside to the sculpture, the result is startling. Whereas the Guggenheim Museum in Bilbao still bears the odd trace of “conventional” compositional design, EMP is a piece of telluric landscape, as tectonically dramatic as the lacerating notes of Hendrix’s extraordinary cover version of Dylan’s All Along The Watchtower in the Electric Ladyland album from 1968. If the EMP exterior engages its urban surroundings in a hold that leaves the opponent battered and bruised, the interior packs an equally powerful punch, thrusting the visitor into a gleaming imaginary world, into the most breathtakingly virulent and sensual psychedelic depths. The huge collection of hanging instruments (guitars of all shapes and styles, of course, but also keyboards, percussion and string instruments and so on) is the high point of an exciting and quite unforgettable experience.

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Piante dei diversi livelli e dettaglio del rivestimento esterno realizzato con mosaico di vetro colorato su base di resine epossidiche, acciaio inox, piastrelle di vetro e cavi in titanio. Plans of the various levels and detail of the outside cladding made of a mosaic of colored glass on a base of epoxy resin, stainless steel, glass tiles and titanium cables.

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Piante, planimetria e una parte degli 80.000 oggetti e strumenti legati alla storia del rock. Plans, site plan and part of the 80,000 objects and instruments connected with the history of rock music.


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Alcune viste degli spazi interni. La complessa configurazione volumetrica del museo comprende corpi alti fino a 30 m. Views of the interiors. The museum’s intricate structural layout includes constructions up to 30 meters high.

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Dettagli dell’involucro che mettono in risalto la particolare volumetria del museo, il cui progetto ha richiesto l’uso di CATIA, sofisticato software in grado di calcolare strutture portanti di grande complessità.

Details of the shell highlighting the museum’s peculiar structural design, which called for the use of CATIA, a sophisticated software program capable of calculating highly complex bearing structures.

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Estetica del frammento Fragmentary Aesthetics León, MUSAC Museo d’Arte Contemporanea León, MUSAC Museum of Contemporary Art Progetto di Mansilla+Tuñón Project by Mansilla+Tuñón

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Veduta aerea del cantiere e il complesso decontestualizzato dal suo intorno. Pagina a fianco, dettaglio degli accostamenti cromatici. Aerial view of the building site and complex set out of its context. Opposite page, detail of the color combinations.

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a perentoria mancanza di evidenti segni identitari indurrebbe a considerarli grandi container, forse deformati da un misterioso cataclisma governato da un’intelligenza euclidea in vena di trasgressioni. Eppure il MUSAC non trasmette nulla di drammatico, soprattutto per la vivace colorazione delle facciate: una sapiente messa in scena cromatologica che riscatta (anche se solo parzialmente) un intorno composto di edifici anonimi, inseriti in un paesaggio urbano senza particolari emergenze. Là dove il colore è assente, grandi superfici traslucide riflettono le varianti cromatiche e le gradazioni tonali del cielo di Castiglia. Un po’ cattedrale – per via delle lastre di vetro colorato, che ricordano le grandi vetrate istoriate delle chiese gotiche – ma anche sofisticato esercizio di composizione minimalista, il complesso museale è divenuto spirito del luogo, condizionando così il futuro insediativo della zona. Gli interventi successivi dovranno tener conto della presenza di un importante edificio che ha nel colore la sua più forte connotazione identitaria. Grazie ai molteplici piani inclinati, il MUSAC è un corpo riflettente anomalo ma affascinante: un gioco di specchi in qualche caso deformante poiché teso a moltiplicare l’intorno metropolitano per frammenti, creando così una città nella città che si autoriproduce attraverso immagini sghembe, prodotte dalla diversa inclinazione dei piani di facciata. Se l’esterno è di difficile decodificazione tipologica (l’essenzialità dell’involucro giustificherebbe ogni ipotesi d’uso), l’interno rivela invece spazi di tipo industriale. Le grandi travi in cemento prefabbricate filtrano la luce proveniente dalle aperture poste sulla sommità, disegnando fendenti luminosi su pareti e pavimento. Tema del Museo: la riflessione sul complesso rapporto fra la natura e l’uomo, organizzata attraverso immagini

immateriali, decontestualizzate. Tale sistema espositivo, se da una parte crea una spettacolarizzazione che limita la percezione del dato scientifico, dall’altra riesce a coinvolgere chi normalmente è impermeabile alle suggestioni del mondo naturale e alle sue implicazioni antropologiche. Il tutto avviene in ambienti quasi vuoti, grandi spazi volumetricamente liberi dove su una parete di cemento grezzo può apparire proiettata l’immagine di un albero: il risalto simbolico che ne deriva è evidentemente molto forte, data la diversità materica di artificiale e naturale. Gli eventi espositivi avvengono in un contesto scandito dal diverso orientamento della tessitura strutturale delle travi che dà vita a un insieme di grandi volumi spazialmente simili ma planimetricamente zigzaganti secondo una griglia fuori-squadra. L’irregolarità planimetrica crea forti tensioni dinamiche e lo spazio diviene un percorso ricco di epifanie inaspettate, visioni di un mondo possibile in cui l’architettura non “ruba” spazio vitale agli universi animale e vegetale, ma ne esalta la bellezza attraverso la scienza del costruire.


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Sezione assonometrica e sezione generale. Axonometric section and main section.

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he imperious lack of any evident distinguishing features could suggest large containers, perhaps deformed by some mysterious cataclysm wrought by a scandal-seeking Euclidean mind. Yet there is nothing dramatic about MUSAC, with its brightly colored facades: a clever chromatic display that counterbalances (if only partially) the rather faceless buildings around it, set in an urban landscape with no striking features. Where color is missing, large translucent surfaces reflect the variations in color and hue of the Castilian skies. In some ways a cathedral— with its sheets of colored glass recalling the large stained-glass windows of Gothic churches—but also a sophisticated exercise in minimalist composition, the museum complex has come to represent the spirit of the location, and will influence the area’s future development. New projects will have to take into account the presence of an important building whose most distinctive trait is color. With its many sloping levels, MUSAC is an unusual but intriguing reflecting construction, a sometimes deforming hall of mirrors that multiplies the metropolitan surroundings in fragments, whose oblique images formed by the varying degree of inclination of the facade planes create a self-replicating city within the city. If the exterior is difficult to decipher, typologically speaking (the simplicity of the shell could be adapted to suit every imaginable application), the interior is reminiscent of industrial buildings. The large prefabricated concrete beams filter the light coming down from the openings at the top, creating luminous slits on the walls and floor. The Museum’s underlying theme is the intricate relationship between man and nature, examined in a series of immaterial de-contextualized images. Although this type of expositionary approach creates a sense of spectacle that limits perception of the scientific facts, it successfully engages the attention of people who usually have no interest in the natural world and its anthropological implications. The entire exhibit is presented in almost empty areas, huge, volumetrically free spaces where the projected image of a tree might appear on a rough concrete wall; clearly, given the material difference between artifice and nature, the symbolic effect is extremely powerful. The exhibits are arranged around the varying layout of the structural beams, to create a set of large, spatially similar structures that zigzag across an oblique base scheme. The irregular nature of the floor plan creates strong dynamic tensions, turning the space into a sequence of unexpected epiphanies, visions of a possible world where instead of “stealing” vital space from the animal and vegetable worlds, architecture enhances their beauty through the science of building.


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In queste pagine, il complesso museale è caratterizzato da una serie di edifici indipendenti collegati a catena. These pages, the museum complex features a set of separate buildings linked together to form a chain.

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Alcune sale caratterizzate da colori e finiture diversi. Some of the rooms showing their various color schemes and finishes.

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Pop Art metropolitana Metropolitan Pop Art Düsseldorf, Torre Colorium Düsseldorf, the Colorium Tower Progetto di Alsop & Störmer Architects Project by Alsop & Störmer Architects

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terribile come sia gli urbanisti sia i politici presumano che il pubblico voglia solo il tradizionale e l’ordinario. Non hanno messo alla prova il punto di vista della gente. Io l’ho fatto. … Per capire quanto il pubblico apprezzi le novità, basta vedere la quantità di persone che sono sciamate a Bilbao per il Guggenheim o, a livello più locale, alla Peckham Library, nella parte meridionale di Londra, che attrae un numero di lettori tre volte maggiore a quello per cui era stata progettata” (Alsop. “Le città di William Alsop”, l’Arca, luglio-agosto 2006, n. 216, p. 28-43). Il colore come antidoto al tradizionale e all’ordinario (naturalmente insieme a una visione ludica e disincantata del progetto di architettura) è per il provocatorio architetto londinese William Alsop l’aspetto propriamente politico del suo lavoro. Colorium, per esempio, può essere visto come trasfigurazione di una coloratissima lampada da tavolo amplificata a scala urbana (il percorso potrebbe essere inverso, senza che l’una o l’altra cosa perdano dignità estetica). La città come gioco di un Monopoli fuori scala è per i più un’astrazione di comodo, un modo “carino” per sfuggire da grandi problematiche urbane di cui invece si fa carico l’urbanista dell’establishment, quello “serio”, conscio della responsabilità del professionista che decide il destino della metropoli. In realtà, la città

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Sezione e, pagina a fianco, veduta di scorcio. Section and, opposite page, partial view.

è un insieme di luoghi non solo fisici ma anche mentali: più la città è densa di segni culturali più corrisponde a quell’idea di democrazia diffusa che si evidenzia nell’accettare anche la diversità dei punti di vista fuori dagli schemi. Più il paesaggio urbano risulta eterogeneo, complesso, denso di influenze multiculturali, più la città è ricca di opportunità per tutti. Obiettivo di Colorium, una torre di diciotto piani alta sessantadue metri, utilizzata come edificio per uffici, è di innescare un processo di rivitalizzazione della zona del vecchio porto fluviale di Düsseldorf. Alsop imposta il progetto scegliendo come referente primario l’immaginario pubblicitario, soprattutto i grandi manifesti stradali che, attraverso un linguaggio immediato e sopra le righe, riescono a catturare l’attenzione dell’osservatore. Colorium, torre pop che termina con una sorta di parabola scatolare che si illumina come una grande lampada, si confronta con i docks del porto fluviale di Düsseldorf, zona di archeologia industriale sostanzialmente connotata dal mattone faccia a vista e da anonimi edifici in vetro e acciaio. In tale contesto, il complesso è un’esplosione cromatica, un totem contemporaneo, un unicum in grado di porsi come segno di orientamento visibile a grande distanza, facilitando così la localizzazione di una particolare zona della città.


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Dall’alto, planimetria generale, piante e rapporto fra la torre e il suo intorno. Pagina a fianco, schizzo di progetto. From top, site plan, plans and interaction between the tower and its surroundings. Opposite page, project sketch.

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oth planners and politicians make the terrible assumption that the public only want the traditional or the ordinary. They have not tested out the people’s view, I have. … We know the public have an appetite for the new by looking at the numbers of people who flock to Bilbao for the Guggenheim or at a more local level, the Peckham Library in South London, which attracts three times as many readers as it was designed for.” (Alsop, “William Alsop’s Cities”, l’Arca, July-August 2006, no. 216, p. 28-43). Color as an antidote to what is traditional and ordinary (together, of course, with a playful, realistic approach to architectural design) is the truly political side of the work of provocative London architect William Alsop. Colorium, for example, might be seen as a transfiguration of a brightly colored table lamp amplified onto an urban scale (it could easily be the other way round without jeopardizing either object’s aesthetic dignity). Approaching the city as if it were an over-sized game of Monopoly is for most people a convenient abstraction, a “genteel” way of steering clear of the major urban issues taken on by establishment town-planners, the “serious” professionals aware of their responsibility in deciding the city’s fate. In actual fact, the city is a combination of mental as well as physical places: the greater its density of cultural signs, the more effectively it corresponds to a broad-based concept of democracy, where even the most unconventional points of view are accepted. The more heterogeneous and complex the urban landscape, the stronger its concentration of multi-cultural influences, the more opportunities the city can offer everybody. The purpose of the 18-story Colorium tower—a 62-meter high office building—is to trigger a regeneration of Düsseldorf’s old river port area. Alsop’s project is designed around advertising, notably the huge roadside billboards that use a high-impact, overstated idiom to capture attention. Colorium, a pop tower topped by a sort of box-shaped parabola which lights up like a large lamp, interacts with Düsseldorf’s river docklands, an old industrial district whose main features are exposed brick and faceless glass and steel buildings. In this kind of setting, the tower is an explosion of color, a modern-day totem, a unicum easily seen from afar as a prominent landmark for this part of the city.


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In queste pagine, il Colorium ambientato nel contesto urbano. These pages, the Colorium in its urban setting.


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Quando volano gli artropodi Flying Arthropods Madrid, aeroporto internazionale Barajas Madrid, Barajas International Airport Progetto di Richard Rogers Partnership+Estudio Lamela Project by Richard Rogers Partnership+Estudio Lamela

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Particolare dell’area ritiro bagagli e planimetria generale. Detail of the luggage reclaim area and site plan.

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arc Augé, studioso di antropologia delle società complesse (autore del libro Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 1993) sostiene che l’individuo quando si trova, per esempio, in un aeroporto tende a perdere la sua individualità per divenire semplice utente. Tale assunto ha in un qualche modo stimolato gli architetti più sensibili a cercare soluzioni alternative. Richard Rogers ci ha provato e, insieme a Estudio Lamela, ha proposto una soluzione condivisibile. Partendo dall’assunto che se l’algida ingegneria si unisce alla creatività dell’architettura nulla è impossibile, Rogers ha puntato tutto sulla qualità architettonica. Se l’obiettivo era di dare un’anima a una macchina destinata a smaltire un eccezionale volume di traffico aereo (a pieno regime raggiunge un movimento di 35 mila passeggeri annui con a disposizione 174 sportelli per il check-in e 38 accessi diretti agli aeromobili), il nuovo terminal può davvero rappresentare un modello di efficienza e di innegabile bellezza. L’intervento riguarda l’ampliamento di un aeroporto realizzato negli anni Trenta. Scelta dei materiali (nel nuovo complesso è presente il legno, normalmente assente come elemento antitecnologico), configurazione strutturale e un impiego non convenzionale della declinazione cromatica, formano un’alchimia di notevole sostanza paesaggistica. Non va dimenticato che le dimensioni del complesso sono a scala territoriale (si

tratta di circa un milione di metri quadrati) per cui si può parlare di un’infrastruttura-paesaggio. Dopo circa trentacinque anni dalla realizzazione del Centro Georges Pompidou a Parigi, progettato con Renzo Piano e Ove Arup, Rogers è tuttora convinto che l’architettura high-tech possa ancora suggerire ottimi percorsi di innovazione attraverso una ricerca non solo tecnologica ma anche di rinnovamento del linguaggio. Come? Realizzando una struttura ibridata con altri ambiti disciplinari come, per esempio, l’entomologia. È infatti difficile non riconoscere nelle affusolate stampelle d’acciaio prefabbricate somiglianze con il fantastico mondo degli artropodi. Anche la sezione sinusoidale della copertura in lamiera di alluminio rimanda a un mondo organico rivisitato con un raffinato high-tech in cui la preziosità del dettaglio costruttivo supera l’esibizionismo tecnologico delle origini, fino a divenire condizione necessaria per creare un nuovo immaginario, in un settore noto, sino a non molto tempo fa, per il mediocre livello formale. Ecco allora come un non-luogo originariamente privo di contenuti antropologici può trasformarsi, attraverso nuovi segni identitari, in un medium portatore di bellezza, uno spazio relazionale per nuove modalità comportamentali che recuperino la perduta umanità dell’“uomo generico”, costretto a vivere sempre più diffusamente come utente di servizi e compratore di beni di consumo.


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IL COLORE DEL FUTURO THE COLOR OF THE FUTURE

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arc AugĂŠ, a scholar of the anthropology of complex societies (author of the book Nonplaces. Introduction to an Anthropology of Supermodernity, London & New York: Verso Books, 1995), claims that when an individual finds himself in, say, an airport, he tends to lose his identity and turn into a mere user. This idea has in some way encouraged more sensitive architects to search for alternatives. Richard Rogers, together with Estudio Lamela, has come up with a feasible solution. Working on the assumption that nothing is impossible if chilly engineering is brought together with the creativity of architecture, Rogers has focused all his efforts on architectural quality. If the goal was to create a soul for a piece of machinery intended to handle exceptional air traffic volumes (when fully operational, the airport copes with 35,000 passengers a year, with 174 check-in desks and 38 direct gates to the planes), the new terminal may well set the standard in terms of efficiency and indisputable beauty. The project was an extension of an airport built in the 1930s. The choice of materials (the new complex makes use of wood, normally rejected as a non-technological substance), the structural layout and the non-conventional use of color combine to create a striking landscape. Since this is a territorialscale complex (covering approximately one million

square meters), reference to a landscape-infrastructure is not inappropriate. Thirty-five years after designing the Georges Pompidou Center in Paris with Renzo Piano and Ove Arup, Rogers is still convinced that high-tech architecture can deliver cutting-edge lines of innovation, not just through technological experimentation but also through research into new idioms. How exactly? By creating a hybrid structure that uses elements from other disciplines such as entomology. It is hard not to see similarities between the tapering prefabricated steel legs and the fabulous world of arthropods. Even the winding roof section built from sheet aluminum evokes an organic world given an elegant high-tech flourish. The elaborate nature of the construction details moves beyond the original idea of technological exhibitionism to become the necessary condition for a new imagery in a sector noted, until not so long ago, for its mediocre stylistic standards. Barajas shows how the introduction of new distinguishing features can transform a non-place originally lacking any anthropological content into a medium of beauty, a relational space for new forms of behavior that retrieve the lost humanity of the “generic man�, forced increasingly to live as a user of services and purchaser of consumer goods.


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Schema degli imbarchi agli aeromobili, torre di controllo e sezione trasversale. Pagina a fianco, ingresso principale e sezione longitudinale. Diagram of the boarding gates for the planes, control tower and cross section. Opposite page, main entrance and longitudinal section.

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Area controllo sicurezza e area ritiro bagagli. Pagina a fianco, dettaglio del sistema strutturale di sostegno della copertura. Security check area and luggage reclaim area. Opposite page, detail of the structural system holding up the roof.

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TX Active® incontra Vema TX Active® meets Vema

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TX Active® incontra Vema TX Active® meets Vema Italcementi Group: fatturato 2006 sale a 5,8 miliardi di euro (+17,1%) Italcementi Group: 2006 revenues rise to 5.8 billion euro (+17.1%) Suez Cement con la scuola per lo sviluppo sostenibile Suez Cement with the school for sustainable development Agostino Bonalumi: l’architetto della tela Agostino Bonalumi: the canvas architect

a Fondazione La Biennale di Venezia ha voluto dedicare la sua 10. Mostra Internazionale di Architettura 2006 all’analisi della “Città” nella rete della urbanizzazione globale e alle nuove architetture futuribili che ne definiranno le linee guida della governance e della convivenza civile. Diretta da Richard Burdett e dedicata al tema “Città. Architettura e società”, la Mostra ha voluto analizzare tematiche cruciali della società contemporanea. Come si costruiranno i nuovi luoghi dell’abitare? Avremo case e strade “antismog”? L’innovazione e la ricerca in che misura potranno migliorare la qualità della vita nelle città del futuro? Per la prima volta in Biennale sono state affrontate problematiche di grande attualità quali l’interazione e le sinergie tra città, architettura e abitanti. Obiettivo comune: migliorare la qualità della vita nelle città del futuro in un’ottica di sviluppo sostenibile generale. Main partner della Mostra, Italcementi ha voluto dare il suo contributo al mondo dell’architettura e dell’edilizia, presentando il recente frutto della propria attività di ricerca (cfr. arcVision n. 15, pp. 92-93): una soluzione innovativa che risponde appieno alle richieste progettuali del prossimo futuro. TX Active® è un principio attivo fotocatalitico per prodotti cementizi in grado di contribuire ad abbattere gli inquinanti atmosferici nei centri urbani e preservare la qualità estetica delle superfici. Questo principio attivo è messo a disposizione da Italcementi a tutta la filiera dei materiali per l’edilizia – dalle pitture alle malte ai manufatti prefabbricati – per la realizzazione di pavimentazioni, intonaci e ogni tipo di struttura o rivestimento orizzontale e verticale garantendo al mercato una gamma di prodotti con alti standard qualitativi sotto il marchio TX Active®. Con TX Active® è stato realizzato il rivestimento della struttura “Ellisse” nel Padiglione Italiano nonché il rivestimento di pareti e pedane nelle aree espositive ai Giardini e all’Arsenale. I visitatori hanno così potuto “toccare con mano” la qualità del nuovo prodotto brevettato da Italcementi. Tra le varie iniziative della Mostra, l’incontro“Architetti e materiali per le città del futuro”, promosso da Italcementi, ha permesso di leggere attraverso la lente dei risultati del Progetto PICADA (Photocatalytic Innovative Coverings Applications for Depollution Assessment) quanto l’applicazione di materiali cementizi fotoattivi possa contribuire a migliorare la qualità di vita delle città. Iniziato nel 2002 nell’ambito del programma di ricerca europeo “Competitive and Sustainable

Growth”, il Progetto PICADA ha coinvolto nel proprio lavoro diversi soggetti pubblici e privati e centri di ricerca di altissimo livello che hanno verificato come l’utilizzo di materiali cementizi fotoattivi possa contribuire alla riduzione degli inquinanti atmosferici. I risultati emersi, attraverso test sperimentali di validazione, sono stati assolutamente positivi. I ricercatori hanno infatti certificato che tali materiali assorbono ed eliminano gli inquinanti atmosferici in una percentuale variabile dal 20 all’80% in relazione alle condizioni atmosferiche e all’irraggiamento luminoso che innesca il processo di fotocatalisi. Italcementi ha collaborato con i ricercatori del Progetto PICADA nello sviluppo dei metodi di prova in laboratorio per studiare l’abbattimento fotoattivo di sostanze organiche e inorganiche nelle concentrazioni ordinariamente presenti in ambiente esterno urbano. L’impegno per l’innovazione in un’ottica di sviluppo sostenibile e i risultati del Progetto PICADA hanno

in un tentativo di coinvolgere il tema della sostenibilità, come un esperimento totale che ripercorre ogni ambito progettuale della città. Vema vuole anche contrastare la città diffusa sostituendo alla proliferazione incontrollata e indistinta di case, capannoni e shopping mall, entità urbane finite e riconoscibili, in grado di favorire nuove relazioni territoriali rendendo al contempo esplicite quelle oggi già esistenti nel territorio padano come potenzialità inespresse”. “Vema, è un esempio concreto del raggiungimento di un sostanziale progresso tecnico-estetico per le città del futuro. Dalle risultanze sperimentali dei modelli realizzati dai nostri ricercatori – ha aggiunto Fabrizio Donegà, vice direttore generale di Italcementi e responsabile delle attività operative in Italia – è emerso un abbattimento del 47% degli inquinanti urbani nell’ipotesi di costruzione di una città innovativa, quale Vema, con cementi fotocatalitici a base di TX Active® anziché con l’impiego di cementi standard”.

portato all’incontro a Venezia fra TX Active® e Vema, la città del futuro protagonista del Padiglione Italiano. Franco Purini, architetto, professore di Composizione Architettonica e Urbana dell’Università La Sapienza e curatore del Padiglione Italiano alla 10. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia ha commentato:“Vema è la progettazione di una nuova città situata fra Verona e Mantova, una città ideale, una città innovativa che affronta problemi quali la casa, i luoghi di lavoro, le infrastrutture, il verde,

Veduta complessiva del plastico di Vema. Overview of the Vema model. I I I I I I

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he Venice Biennale Foundation has dedicated the 10th International Architecture Exhibition in 2006 to the analysis of the “City” in the context of global urbanization and the new architectures of the future that will determine the guidelines for governance and civil society.


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Directed by Richard Burdett and dedicated to “Cities. Architecture and society”, the Exhibition looks at a number of crucial themes in contemporary society. How will homes be built in the future? Will we have “antismog” homes and streets? To what extent will innovation and research be able to improve quality of life in the city of the future? For the first time the Biennale addresses issues of great importance today such as the interaction and synergies between the city, architecture and citizens. The common goal is improving quality of life in the city of the future with the aim of ensuring sustainable development. The Exhibition main partner Italcementi wanted to make its contribution to the world of architecture and construction by presenting the result of recent research work (see arcVision no. 15, pp. 92-93): an innovative solution that meets all the requirements for construction in the future. TX Active® is a photocatalytic active principle for cement products that helps reduce atmospheric pollutants in city centers while preserving the aesthetic quality of building surfaces. Italcementi offers this active ingredient to the entire construction materials industry—from paints to mortars and prefabricates—for construction of flooring, plaster and all types of structures and horizontal and vertical coatings, providing the market with a range of high quality products under the TX Active® brand. TX Active® was used in the finishes for the “Ellisse” structure in the Italian Pavilion and to cover walls and platforms in the exhibition areas in the Gardens and the Arsenal, giving visitors an opportunity to directly experience the new product patented by Italcementi. “Architects and materials for the cities of the future”, a conference organized by Italcementi at the Biennale Exhibition, provided an insight, in the form of the results of the PICADA (Photocatalytic Innovative Coverings Applications for Depollution Assessment) Project, into the way photoactive cements can help improve the quality of urban life. The PICADA Project began in 2002 under the “Competitive and Sustainable Growth” European research program, involving a number of public and private bodies as well as top level research centers, who tested use of photoactive cement materials to reduce atmospheric pollutants. The results of the experimental validation tests were highly positive. The researchers certified that photoactive cement materials absorb and eliminate 20% to 80% of all atmospheric pollutants, depending on atmospheric conditions and the amount of light triggering the photocatalysis process. Italcementi worked with the PICADA Project researchers on developing, in a laboratory environment, test procedures to study photoactive removal of organic and non-organic substances in the concentrations normally found in outdoor urban environments. The commitment to innovation geared to sustainable development and the results of the PICADA Project led to the rendezvous between TX Active® and

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I rivestimenti della struttura “Ellisse” contenenti il principio attivo TX Active®. The “Ellisse” structure finishes containing TX Active®.

Vema, the city of the future featured in the Italian Pavilion in Venice. Architect Franco Purini, professor of Architectonic and Urban Composition at La Sapienza University in Rome and curator of the Italian Pavilion at the 10th International Architecture Exhibition in Venice offered

his comments: “Vema is a plan for a new city to be located in the Po Valley between Verona and Mantua, an ideal city, an innovative city that addresses issues such as housing, the workplace, infrastructures and greenery in an attempt to respond to the question of sustainability and as a total

experiment covering all aspects of urban design. Vema is also intended to oppose urban spread, replacing uncontrolled, indistinct proliferation of homes, warehouses, and shopping malls with finite, recognizable urban entities that promote new kinds of territorial relationships while at the same time giving explicit form to the unexpressed potential of those which already exist in the Po Valley area.” Fabrizio Donegà, Italcementi Deputy General Manager and head of business operations in Italy, adds that “Vema is a tangible example of significant technical and aesthetic progress toward the cities of the future. The results of the tests conducted by Italcementi researchers showed a 47% reduction in urban pollutants when an innovative city like Vema is built with photocatalytic cement based on the TX Active® principle, rather than with standard cement formulations.”

Italcementi Group: fatturato 2006 sale a 5,8 miliardi di euro (+17,1%) Italcementi Group: 2006 revenues rise to 5.8 billion euro (+17.1%)

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l fatturato consolidato 2006 è ammontato a 5.854,1 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2005 del 17,1% (+13,4% a parità di perimetro e tassi di cambio). L’aumento dei ricavi è dovuto per i 3/4 allo sviluppo dell’attività, mentre l’effetto perimetro (+4,4%) ha riguardato il consolidamento totale delle attività in India (Zuari Cement) a partire dal 1° giugno 2006 e delle attività in Egitto (Suez Cement da aprile 2005, Helwan da agosto 2005). L’effetto cambio ha determinato una marginale contrazione dello 0,7%. I ricavi sono cresciuti in tutti i paesi in cui il Gruppo opera, sostenuti da una generale positiva evoluzione del mercato e dalle dinamiche dei ricavi unitari. Nel quarto trimestre i ricavi, sostenuti anche da un favorevole andamento meteorologico, hanno registrato una crescita del 14,4% a 1.462,6 milioni, con il contributo positivo di tutte le aree geografiche ad eccezione del Nord America, dove nella seconda parte dell’anno si è registrata un’inversione di tendenza nelle vendite. Nel corso dell’anno tutti i settori di attività hanno registrato miglioramenti, con volumi di vendita – a perimetro omogeneo – in crescita del 4,1% per il settore del cemento e clinker, dell’8,1% per quello degli inerti e del 2,3% per il calcestruzzo. Uniche eccezioni al generale trend positivo, le contrazioni dei volumi di vendita di cemento nel Nord America e di calcestruzzo in Asia (Thailandia). Per quanto riguarda l’ultimo trimestre dell’esercizio, le vendite di cemento e clinker sono cresciute del 3,1%,

mentre gli inerti (+18,1%) e il calcestruzzo (+6,6%) hanno registrato un trend migliore rispetto alla media dell’intero anno. L’incremento dei ricavi unitari registrato in tutti i paesi in cui il Gruppo opera, unito all’incremento dei volumi di vendita, ha portato a un sensibile incremento dei ricavi in tutti i settori di attività. Gli effetti economici del buon andamento dei ricavi nel quarto trimestre sono stati contrastati da significativi incrementi dei costi operativi. Ciononostante, per l’intero esercizio 2006 si confermano le previsioni di risultati, sia a livello operativo sia netto, in sensibile miglioramento rispetto a quelli del 2005.

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006 consolidated revenues amounted to 5,854.1 million euro, an improvement of 17.1% on 2005 (+13.4% at constant size and exchange rates). Three quarters of the revenue increase arose from business growth, while the effect of changes in the consolidation area (+4.4%) reflected the line-by-line consolidation of operations in India (Zuari Cement) as from June 1, 2006 and in Egypt (Suez Cement as from April 2005, Helwan as from August 2005). The exchange-rate effect had a marginally negative impact of 0.7%. Revenues rose in all countries in which the Group operates, buoyed by

a generally positive market climate and an upward trend in revenues per unit. Fourth-quarter revenues, assisted by favorable meteorological conditions, gained 14.4% to reach 1,462.6 million euro. Growth was achieved in all regions with the exception of North America, where sales suffered a downturn in the second half of the year. All lines of business reported growth for the year, with sales volumes—at constant size—rising by 4.1% in the cement and clinker business, 8.1% in aggregates and 2.3% in ready mixed concrete. The only exceptions to the generally positive trend were the decreases in cement sales volumes in North America and ready mixed concrete sales volumes in Asia (Thailand). During the last quarter of the year, cement and clinker sales climbed 3.1%, while the improvements in aggregates (+18.1%) and in ready mixed concrete (+6.6%) were stronger than the average full-year growth rates. The increase in revenues per unit reported by all countries in which the Group operates, together with the rise in sales volumes, generated a significant improvement in revenues in all lines of business. The economic effects of the fourth quarter’s healthy revenue performance were offset by sizeable increases in operating costs. Nevertheless, Italcementi confirmed its full-year forecasts for a significant rise in both operating profit and net profit compared with the results in 2005.

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Suez Cement con la scuola per lo sviluppo sostenibile Suez Cement with the school for sustainable development

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n mondo in cui tutti abbiano la possibilità di beneficiare dell’educazione e di apprendere i valori, i comportamenti e gli stili di vita necessari per un futuro sostenibile e per una positiva trasformazione della società”. Questa la vision che ha ispirato il “Decennio dell’Educazione per lo Sviluppo Sostenibile” (DESS) proclamato dall’Onu per il periodo 2005-2014: un impegno a cui è stata chiamata tutta la società civile a tutti i livelli (locale, nazionale, regionale e internazionale); un’assunzione di responsabilità da parte delle forze sociali, economiche e politiche ad attivare ampi e diffusi processi di cambiamento e rinnovamento dell’educazione. Questa la vision che ha ugualmente ispirato un gruppo di aziende private italiane (tra cui il Gruppo Italcementi) ed egiziane a sostenere e promuovere lo sviluppo scolastico nella terra dei Faraoni in un’ottica di partecipazione concreta ai programmi di sviluppo sostenibile. A tali aziende è andato il ringraziamento e l’espressione di stima dell’Ambasciatore d’Italia al Cairo, S.E. Antonio Badini, nel corso di una cerimonia ufficiale tenutasi lo scorso ottobre 2006 presso l’Istituto Tecnico Don Bosco in occasione dell’inaugurazione di una nuova ala dell’edificio scolastico. Prima scuola italiana in Africa, l’Istituto Don Bosco fu fondato al Cairo nel lontano 1926 con l’obiettivo di dare ai giovani egiziani di diversa estrazione sociale una formazione professionale di base. Da sempre considerata un modello di successo per aver saputo fondere formazione tecnico-industriale qualificata e moderni metodi educativi, la scuola rientra in un accordo internazionale tra il governo italiano e quello egiziano, siglato con uno speciale Protocollo di Cooperazione Tecnico-Scientifica, approvato dai parlamenti dei due paesi. In particolare la cerimonia ha inteso celebrare il nuovo progetto triennale “Support for the expansion of

Don Bosco activities in Cairo”, patrocinato dalle società Suez Cement (filiale egiziana di Italcementi Group) e Orascom Telecom e volto a sostenere e migliorare le attività didattiche della scuola salesiana. Firmato al Cairo il 15 maggio 2006 da Don Renzo Leonarduzzi (direttore dell’Istituto Salesiano), Naguib Sawiris (Orascom Telecom), e Giorgio Ghinaglia (Suez Cement), l’accordo triennale è focalizzato al miglioramento delle strutture scolastiche attraverso la costruzione e la ristrutturazione di laboratori e classi, e la fornitura di

consigliere delegato di Suez Cement, ha premiato 24 studenti che durante la scorsa estate hanno avuto il loro primo contatto col mondo del lavoro seguendo un corso di formazione presso le cementerie di Kattameya, Helwan e Tourah. Il programma di addestramento della durata di 51 giorni era suddiviso in teorico e pratico con particolare attenzione per i temi della Sicurezza e delle Politiche Ambientali di Italcementi Group insieme alle principali nozioni sul ciclo produttivo del cemento.

The first Italian school in Africa, the Institute was founded by the Don Bosco Salesians in Cairo back in 1926, to offer basic vocational training to young Egyptians from different social backgrounds. Always regarded as a successful model for its combination of high-quality technical and industrial training and modern educational methods, the school is part of an international agreement between the Italian and Egyptian governments formalized by a special Technical-Scientific Cooperation Protocol approved by the parliaments of both countries. In particular, the opening ceremony was an opportunity to celebrate “Support for the expansion of Don Bosco activities in Cairo”, a new three-year project to improve teaching activities at the Salesian school sponsored by the Suez Cement company (the Egyptian subsidiary of the Italcementi Group) and Orascom Telecom. Signed in Cairo on May 15, 2006, by Don Renzo Leonarduzzi (Director of the Don Bosco Institute), Naguib Sawiris (Orascom Telecom), and Giorgio Ghinaglia (Suez Cement), Da sinistra: il vice governatore del Cairo, Hassan Mukhtar Yahia Al Said; il consigliere delegato di Suez Cement, Roberto Callieri; il ministro dell’Educazione, Yousri Saber Hussein Al Gamal; l’Ambasciatore d’Italia, Antonio Badini; il direttore dell’Istituto Don Bosco, Don Renzo Leonarduzzi. From left: the Deputy Governor of Cairo, Hassan Mukhtar Yahia Al Said; Suez Cement Managing Director, Roberto Callieri; Minister of Education, Yousri Saber Hussein Al Gamal; the Italian Ambassador, Antonio Badini; the Director of the Don Bosco Institute, Don Renzo Leonarduzzi.

attrezzature e materiale didattico. È anche previsto un progetto di avviamento di nuovi corsi professionali rivolti a studenti provenienti da famiglie a basso reddito che permetterà l’immissione sul mercato del lavoro di giovani diplomati altamente qualificati (carpenteria, falegnameria, idraulica, etc.). All’evento hanno preso parte il ministro dell’Industria e del Commercio Estero, Rashid Mohamed Rashid, il ministro dell’Educazione, Yousri Saber Hussein Al Gamal, il vice governatore del Cairo, Hassan Mukhtar Yahia Al Said, e il primo sottosegretario al ministero del Lavoro e capo del Dipartimento Emigrazione, Magda Abdel Rahman. Nell’occasione Roberto Callieri,

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world where everyone has the opportunity to benefit from quality education and learn the values, behavior and lifestyles required for a sustainable future and for positive societal transformation.” This is the guiding vision of the “Decade of Education for Sustainable Development” (DESD) proclaimed by the United Nations for the ten years 2005-2014: a commitment involving civil society at every level (local, national, regional and international); an assumption of responsibility by social, economic and political players to promote wide-ranging processes of change and renewal in all forms of learning. This same vision has also inspired a group of private Egyptian and Italian companies (including the Italcementi Group) to support education in the land of the Pharaohs by making a tangible contribution to sustainable development programs. The companies received the thanks of the Italian Ambassador in Cairo, Antonio Badini, during the official opening in October 2006 of a new wing of the Don Bosco Technical Institute.

Foto di gruppo degli studenti dell’Istituto Don Bosco. The students of the Don Bosco Institute pose for a group photo.

the three-year agreement provides for the improvement of the school’s facilities with the construction and re-organization of laboratories and classrooms, and the supply of teaching aids and equipment. It also introduces new vocational courses for students from low-income families, to assist the entry of skilled young people on to the labor market (carpenters, joiners, plumbers, etc.). The event was attended by Egypt’s Minister of Foreign Trade and Industry, Rashid Mohamed Rashid, the Minister of Education, Yousri Saber Hussein Al Gamal, the Deputy Governor of Cairo, Hassan Mukhtar Yahia Al Said, and the First Under-Secretary to the Ministry of Manpower and Immigration Department Head, Magda Abdel Rahman. One of the highlights was the presentation of awards by Roberto Callieri, Suez Cement Managing Director, to 24 students who had their first work experience during last summer when they attended a training course at the Kattameya, Helwan and Tourah cement plants. The 51-day program was a combination of theory and practice, with a particular focus on the Italcementi Group’s Safety and Environmental Policies, together with key concepts in the cement production cycle.


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Agostino Bonalumi: l’architetto della tela Agostino Bonalumi: the canvas architect

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gostino Bonalumi, nato nel 1935, muove i primi passi d’artista nella Milano degli anni Cinquanta. L’epoca dell’insanabile conflitto tra sostenitori dell’informale e seguaci dell’astrattismo, consumato il più delle volte a credito, ai tavoli del mitico Bar Giamaica, sotto gli occhi preoccupati e tolleranti della signora Lina, la “mamma” di tutti gli artisti, squattrinati per definizione. L’epoca del “Gesto” definitivo di Lucio Fontana e della continua ricerca di nuovi linguaggi espressivi. In quella palestra ideale dove si facevano i conti col passato e si costruiva un pezzo importante della cultura italiana del dopoguerra.

Nello studio di Enrico Baj conosce Piero Manzoni che diventa il sodale compagno di numerose scorribande artistiche. “Più che dipingere facevamo degli sberleffi”, ricorda divertito Bonalumi. E come poteva essere diversamente. Basti pensare che si sono incontrati la prima volta sul tetto a terrazza di un garage dove Baj preparava le sue grandi tele nucleari prima di rifinirle nello studio. “Sorreggevamo i bordi del telaio mentre lui ci lanciava dentro secchiate di ‘acqua pesante’. Un misto d’acqua e smalti di vari colori mescolati vigorosamente con un bastone”. Per le due giovani teste calde, “i rivoluzionari”, come li chiamava Baj, inizia una stagione di incursioni, di performance, che smuovono anche il più paludato ambiente artistico meneghino. Dalla mostra sul taxi, con piccoli lavori esposti nelle vetture di alcuni autisti compiacenti, al disegno di due chilometri: fogli di carta stesi lungo i marciapiedi di Brera “pitturati” dalle orme dei passanti. Molti storcono il naso, ma c’è anche chi nota e apprezza. Tra questi Lucio Fontana, il padre dello Spazialismo, quello che con il suo squarcio sulla tela ha rotto definitivamente col passato. Il modello a cui, più o meno consapevolmente, si ispirano le giovani avanguardie artistiche, non solo milanesi. I due iniziano a frequentare lo studio del maestro che li aveva presi in simpatia. E a poco a poco la simpatia si trasforma “in stima e affettuosa amicizia”. La coppia diventa un trio con l’arrivo di Enrico Castellani, altra testa calda, che da un po’ osservava con attenzione i loro “sberleffi”. Insieme progettano una rivista che dovrebbe chiamarsi Pragma. Mesi e mesi di discussioni, litigate, notti in bianco. La pubblicazione non vedrà mai la luce, ma le idee che l’ispirano, di totale rottura con l’informale, confluiscono nel gruppo “Azimuth”

che darà il nome alla rivista data alle stampe nella primavera del 1959. Con il gruppo, per il “trio” arriva anche la prima vera mostra: nel 1958, alla Galleria Pater di Milano. Ma è proprio intorno al 1959 che il sodalizio si interrompe e ognuno imbocca la sua strada. Ripercorrendo a ritroso la strada di Agostino Bonalumi lo ritroviamo nella seconda metà degli anni Quaranta alle prese con l’arte figurativa. Faceva ritratti, paesaggi, con abile maestria e con discreto successo nella cerchia dei suoi estimatori. Il suo primo autoritratto è del 1946, quando aveva appena 11 anni. “Di autoritratti ne ho fatti almeno un centinaio”, confessa con una punta di narcisismo. Poi è passato all’informale fino ad approdare all’astrazione. “Ma tutto è durato molto poco. Colorare, imbrattare la tela. Mettere e togliere colore fino a quando la macchia arriva a titillare la sensibilità dell’osservatore non era nelle mie corde. Non rientrava nelle mie ambizioni di artista”, spiega. Bonalumi voleva andare oltre e l’occasione arriva con la mostra alla Galleria Pater dove espone un abbigliamento completo, maschile e femminile, dalla biancheria intima alle scarpe, applicato su due tele “sporcate di colore”. Poi passa al cemento realizzando superfici dalle quali sporgevano in avanti tubi di ferro, rubinetti e altri oggetti metallici. Dopodiché spariscono i tubi e compaiono fiori, erba, paglia, fascine di legno, rami d’albero. Alcuni di questi lavori sono conservati nella collezione Comit, oggi Intesa Sanpaolo. È verso la fine del 1959 che nascono le prime tele estroflesse. Sono ancora segnate da un gusto per la materia, dipinte con un impasto di cemento e colore che ne rendono ruvida la superficie. Ma la strada è imboccata. La strada che lo porterà piano piano a diventare un sapiente architetto della tela. Se Fontana squarcia la tela per liberare l’arte e farla volteggiare nello spazio, Bonalumi la spinge verso l’alto, verso l’infinito. Entrambi però non intendono la tela come supporto, come luogo di rappresentazione, ma come superficie dalla quale emerge e si struttura la forma. Nelle opere di Bonalumi la superficie della tela viene modellata grazie a un sistema di supporti lignei (o più recentemente metallici) sottostanti. Un gioco fra sensibilità e astrazione, organico e geometrico, arricchito dalle stesure uniformi e quasi sempre monocrome del colore. “Nei suoi lavori Agostino Bonalumi – scrive di lui Elena Pontiggia – lascia che le tele si dilatino nello spazio, divenendo forme tridimensionali e architettoniche. Il suo problema

non è quello di mettere un segno su una superficie, ma di trasformare la superficie in un oggetto. Sospinta dall’interno, la tela si gonfia

Opere di Agostino Bonalumi sono presenti in prestigiose collezioni pubbliche e private in tutto il mondo. Ha esposto alla Biennale di Venezia e di San Paolo del Brasile (1966), alla Biennale di Parigi (1968). Nel 1970 è presente con una sala personale alla Biennale di Venezia. Nel 1974 una sua retrospettiva a cura di Giulio Carlo Argan è ospitata al Palazzo dei Musei di Modena. Nel 1981 partecipa con Dorazio, Rotella e Santomaso alla mostra “Italian Art four Contemporary Directions” al Museum of Art di Fort Lauderdale in Florida. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale di Roma e alla XLII Biennale di Venezia. Nel 2001 gli viene conferito il Premio Presidente della Repubblica

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Scultura rossa, 2005 Cortesia Galleria Fumagalli, Bergamo. Red Sculpture, 2005 Courtesy Galleria Fumagalli, Bergamo.

e manifesta una tensione sconosciuta. Tutto avviene al di là di quel velo, che non è possibile sollevare. Possiamo pensare al suo lavoro come a una meditazione sull’energia, sulle forze che animano il movimento, sul respiro delle cose. Il suo fascino consiste nell’aver dimostrato che quelle forze, quell’energia e quel respiro non sono elementi viscerali. Sono elementi metafisici”. Negli anni Sessanta e Settanta Bonalumi è fra i principali esponenti di una concezione “forte” dell’arte, intesa come esperienza tattile fra pittura e scultura, analogamente a quanto sviluppato dalle contemporanee esperienze americane delle shaped canvas. A questa sintesi fra rigore razionale e potente impatto sensoriale l’artista è rimasto sempre fedele, accentuandone progressivamente gli aspetti tridimensionali, in ossequio alla sua poetica dell’arte come tensione continua fra pensiero e realtà fisica.

ed è allestita una sua personale all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma. Dello stesso anno è la presentazione, nell’ambito del progetto “Temi e Variazioni” per il Guggenheim Museum di Venezia, di alcune opere storiche e dell’imponente Ambiente Bianco. Nel novembre 2003 in occasione del Semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea ha partecipato alla mostra “Futuro Italiano” allestita nelle sale del Parlamento europeo a Bruxelles. Nel 2004 l’Institut Mathildenhöe di Darmstadt gli ha dedicato una grande antologica, con opere dal 1959 al 2003. È stato uno dei protagonisti di “Visioni” la grande mostra internazionale realizzata nel 2005 con il patrocinio di Italcementi nella ex chiesa di Sant’Agostino a Bergamo. Nel 2006 viene nominato artista dell’anno dalla città di Cortina. La fedeltà a una concezione personale mai tradita lungo i vari momenti della ricerca percorre le linee guida di tutta l’esperienza artistica di Agostino Bonalumi. “Nel mio lavoro cambiano di continuo anche le tecniche e


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i materiali. Se varia la tecnica significa che anche i problemi sono mutati; mezzi e modi non sono indifferenti rispetto all’obiettivo”, spiega l’artista. Beatrice Buscaroli, definisce “sperimentale” il suo lavoro, nel senso proprio della parola, applicato cioè alle infinite possibilità di sviluppo del suo personalissimo percorso: una ricerca continua basata sull’organizzazione formale espressa su linee curve fino agli anni 70, dove si assiste a una estroflessione che si definisce per linee rette (“Sempre quattro, parallele, in ripetizione – l’estroflessione – per un determinato numero di volte, in scansione ritmica”), per poi “rientrare” negli ultimi anni su uno sviluppo prevalente dove la curva torna a essere l’elemento base. La forza espressiva del colore, vera e propria esplosione monocromatica, combinato allo spazio e alla luce, resta il fulcro del lavoro di Bonalumi, così fortemente plastico da rendere le opere un oggetto in sé autonomo, tra razionalità del pensiero costruttivo e “apparenza”: opere dove il colore asseconda ed esalta l’andamento delle linee in una spinta continua e univoca, sfondamento e contrazione dello spazio, dismisura dei tradizionali parametri di colore e spazio, dei confini di ciascuno. Giuliano Papalini I I I I I I

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gostino Bonalumi, born in 1935, first appeared on the art scene in Milan in the Fifties. It was a time of great irreconcilable arguments between the supporters of informal and abstract art over the tables of the legendary Giamaica Bar, under the worried but tolerant gaze of Lina, the “mother” of all artists, who are by definition penniless. The time of the final “Gesture” of Lucio Fontana and the unending search for new expressive idioms, in this ideal training ground of reconciliation with the past and construction of an important part of post-war Italian culture.

Bonalumi met Piero Manzoni in Enrico Baj’s studio. Manzoni became his constant companion on countless artistic excursions. “We fooled around more than we painted,” Bonalumi recalls with a smile. And how could it have been otherwise? They met for the first time on the roof of a garage where Baj was preparing his gigantic nuclear canvases prior to finishing them in his studio. “We held the edges of the canvas while he cast buckets of ‘heavy water’ into it. A mixture of water with enamel paints of various different colors all mixed together with a big stick.” For these two young hotheads, “the revolutionaries” as Baj called them, this was the beginning of a time of incursions, performances that disturbed even the most stagnant corners of Milan’s art scene. From the taxi exhibition, with small works exhibited in the cars of a number of taxi drivers, to the two-kilometer long artwork: sheets of paper spread along the Brera sidewalks and “painted” with the footsteps of passers-by.

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Rosso, 1973 Cortesia Galleria Fumagalli, Bergamo. Red, 1973 Courtesy Galleria Fumagalli, Bergamo.

Many people turned their noses up at it, but others took note and approved. One of these was Lucio Fontana, the father of Spatialism, the man whose slashes in the canvas finally broke with the past. He is the model who inspires young avant-garde artists in Milan and elsewhere, whether they realize it or not. The two began to hang around the master’s studio, and he didn’t mind. They soon became friends who “held one another in great esteem and affection”. The pair became a trio with the arrival of Enrico Castellani, another hothead, who had been watching them “fool around” for a while. Together they decided to publish a magazine called Pragma. Months and months of arguments, fights, sleepless nights. The publication never saw the light, but the ideas behind it, which broke completely with informal art, inspired the “Azimuth” group which was to give its name to a magazine first printed in the spring of 1959. With this group, the “trio” held its first real exhibition: in 1958, at Pater Gallery in Milan. But in 1959 the trio broke up and each of them went his own way. If we look further back in Agostino Bonalumi’s career, in the second half of the Forties we find him working in figurative art. He painted portraits and landscapes with great skill and a fair degree of success among his admirers. His first self-portrait is dated 1946, when he was only 11 years old. “I have painted at least a hundred self-portraits,” he confesses with a touch of narcissism. Then he went on to informal art and finally abstraction. “But it didn’t last long. Coloring, dirtying the canvas. Adding color and taking it away until the stain titillates the observer’s sensibility was not my thing. It was not one of my aims as an artist,” he explains. Bonalumi wanted to go beyond this, and the opportunity came with the Pater Gallery exhibition, where he exhibited a complete outfit, for men and women, from underwear to shoes, applied to two canvases “dirtied with paint”. Then he went on to cement, making surfaces from which metal pipes, taps, and other

metal objects protruded. After which the pipes disappeared and were replaced by flowers, grass, straw, bundles of sticks, tree branches. Some of these works are kept in the collection of Comit, now Intesa Sanpaolo. It was toward the end of 1959 when he produced his first extroflexed canvases. They still reveal a taste for matter, painted with a mix of cement and paint that gives them rough surfaces. But he is on the right path. The path that will gradually make him into a skilled architect of canvas. While Fontana rent his canvases to free art and let it wheel through space, Bonalumi drives it upward, toward infinity. But neither of them considers the canvas a base, a place on which to represent things; they see it as a surface out of which a form emerges and takes on a structure. In Bonalumi’s works the surface of the canvas is modeled by a system of wooden supports (or, more recently, metal supports) below it. A contrast of sensibility and abstraction, the organic and the geometric, enriched with even, almost always monochrome application of paint. Elena Pontiggia writes, “In his work Agostino Bonalumi lets his canvases be dilated in space, becoming three-dimensional or architectural forms. His problem is not a matter of making a mark on a surface, but a matter of making a surface into an object. Pushed from the inside, the canvas swells up, revealing tension of unknown origin. All this takes place beyond that veil which cannot be lifted. We might think of his work as a meditation on energy, on the forces driving movement, on how things breathe. What is fascinating about him is that he has demonstrated that these forces, this energy and this breathing are not visceral elements. They are metaphysical elements.” In the Sixties and Seventies Bonalumi was one of the most important proponents of a “strong” idea of art, viewed as a tactile experience somewhere between painting and sculpture, somewhat like that produced by contemporary American work with shaped canvas. The artist always stayed true to this synthesis of rational rigor and powerful sensorial impact, gradually accentuating its three-dimensional aspects in homage

to his poetic of art as continuous tension between thought and physical reality. Works by Agostino Bonalumi are included in numerous prestigious public and private collections the world over. He has exhibited his works at the Biennales in Venice, Saô Paulo, Brazil (1966) and Paris (1968). In 1970 he had his own room at the Venice Biennale. In 1974 a retrospective of his works curated by Giulio Carlo Argan was shown in Modena’s Palazzo dei Musei. In 1981 Bonalumi, Dorazio, Rotella and Santomaso participated in the “Italian Art four Contemporary Directions” exhibition at Fort Lauderdale Museum of Art in Florida. In 1986 he participated in the 11th Quadriennale in Rome and the 42nd Biennale in Venice. In 2001 he was awarded the Medal of the President of the Italian Republic and an exhibition of his works was held at Rome’s Accademia Nazionale di San Luca. In the same year, a number of his historical works and his imposing Ambiente Bianco were exhibited as part of the “Themes and Variations” project at the Guggenheim Museum in Venice. In November 2003, he participated in the “Futuro Italiano” exhibition in the European Parliament in Brussels celebrating Italy’s six-month Presidency of the Council of the European Union. In 2004 Institut Mathildenhöe in Darmstadt dedicated a major anthological exhibition to his career, including works from 1959 to 2003. His works appeared in “Visions”, a great international exhibition held in 2005 with the contribution of Italcementi in the former church of Sant’Agostino in Bergamo. In 2006 he was appointed artist of the year in the town of Cortina. Agostino Bonalumi stayed faithful to a personal concept of art which he never betrayed at any time in his long artistic career. “In my work, techniques and materials change all the time. If technique changes, this means the problems have changed too; methods and means are not independent of aims,” the artist explains. Beatrice Buscaroli calls his work “experimental”, in the strict sense of the word, applied to the infinite possibilities for development of his unique personal mission: an ongoing enterprise based on a formal organization that was expressed in curved lines until the 70s, when there was an extroflexion defined by straight lines (“Always four parallel lines, repeated—extroflexion— a given number of times, in a rhythmic pattern”), to “go back” to a prevalent form of development in which the curve is the basic element once again in recent years. The expressive force of color, a true monochromatic explosion, combined with space and light remain the fulcrum of Bonalumi’s work, which is so strongly plastic as to make his works freestanding objects in their own right, falling somewhere between the rationality of constructive thought and “appearance”: works in which color follows and enhances lines in a continuous, univocal striving, penetration and contraction of space, out of proportion to the traditional parameters of color and space and of their borders. Giuliano Papalini




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