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MATERIA MATTER

Periodico semestrale - Spedizione in abbonamento postale - 70% - Bergamo

Global Quale scenario dopo le bufere finanziarie Rispondono: Grilli, de Montbrial Dornbusch, Soros, Scaroni What scenario in the wake of financial turmoil Responses from: Grilli, de Montbrial Dornbusch, Soros, Scaroni

Projects La materia si identifica con la forma, dando vita a straordinarie architetture Matter meets form and gives life to extraordinary architectures

News Essroc: i benefici della logistica Essroc: logistics benefits La jv tra CCB e Obourg The jv between CCB and Obourg Batimat 99 Batimat 99

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www.italcementi-group.com

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor Sergio Crippa Comitato di redazione Editorial Committee Silvestro Capitanio, Antonio Carretta, Marielle Desmarais, Gérard Gosset, Jean-Pierre Naud, Ofelia Palma, Kennet Wilder Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

■ Global ■

■ Projects ■

In questo numero ■

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Enzo Grilli

Oltre la crisi finanziaria

Beyond the financial crisis

aV

Alla ricerca di leadership

Looking for leadership

Intervista a Thierry de Montbrial

Interview with Thierry de Montbrial

aV

Eurolenta, l’America corre

Slow Europe, fast America

Intervista a Rudiger Dornbusch

Interview with Rudiger Dornbusch

George Soros

Nuova cosmo-finanza

New global finance

aV

Convivere con le crisi

Living with crises

Intervista a Paolo Scaroni

Interview with Paolo Scaroni

Riccardo Mariani

Materia Matter

In this issue

Matter, Man, Form

Nel cuore della città

In the Heart of the City

Progetto di Massimiliano Fuksas

Project by Massimiliano Fuksas

Modernità dal passato

Modernity from the Past

Progetto di Fumihiko Maki & Maki Associates

Project by Fumihiko Maki & Maki Associates

Mirabilia scientifico-tecnologiche

Scientific Technological Wonders

Progetto di Antoine Predock

Project by Antoine Predock

Natura e artificio

Nature and Artifice

Progetto di J. Sordo Madaleno Bringas, J. de Yturbe Bernal

Project by J. Sordo Madaleno Bringas, J. de Yturbe Bernal

Project by T. G. de León, J. F. Serrano, C. Tejeda

Come un drappo mosso dal vento Like Drapes Blowing in the Wind

■ News ■

www.italcementi-group.com

In copertina, Westing Regina Hotel a Los Cabos, Messico, progettato da J. Sordo Madaleno Bringas, J. de Yturbe Bernal.

Progetto di Studio 65

Project by Studio 65

Underground neorganico

Neo-organic Underground

Progetto di F.-H. Jourda e G. Perraudin

Project by F.-H. Jourda and G. Perraudin

Vele bianche per il Giubileo

White Sails for the Jubilee

Interviste a I. Breccia, R. de Salvador Interviste a G. Guala, L. Cassar

Interviews with I. Breccia, R. de Salvador Interviews with G. Guala, L. Cassar

I benefici della logistica

Logistics benefits

Fari puntati su Batimat 99

Lights on Batimat 99

La provocazione del Kursaal

The challenge of Kursaal

Italcementi Group e Holderbank: joint-venture in Belgio

Italcementi Group and Holderbank: joint-venture in Belgium

“Progetto Sistema”: il ruolo chiave degli additivi

“Progetto Sistema”: the leading role of admixtures

Cover, Westing Regina Hotel in Los Cabos, Mexico, designed by J. Sordo Madaleno Bringas, J. de Yturbe Bernal.

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Rigore razionalista e trasgressione Rationalist Rigour and Transgression

Mario Pisani Carlo Paganelli

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Materia, uomo, forma

Progetto di T. G. de León, J. F. Serrano, C. Tejeda

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Chiuso in tipografia il 22 settembre 1999 Printed 22 September 1999


In questo numero In this issue

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ul fronte economico grandi interrogativi circolano in questa ultima parte dell’anno che è anche fine del millennio. La globalizzazione rende sempre più interdipendente l’evoluzione dello scenario economico tra le diverse aree del pianeta. In questo numero intervengono studiosi, finanzieri, industriali adusi alla scena mondiale, per cercare di dare una risposta ai nostri interrogativi. Si sono esauriti gli effetti della bufera finanziaria che ha dimezzato il tasso di crescita mondiale nell’ultimo biennio? Potrà continuare l’ascesa impetuosa dell’economia americana e della Borsa di Wall Street? Come si evolverà, dopo un inizio burrascoso, il cambio della moneta unica europea con il dollaro? Quale posto è destinata a ricoprire l’Unione Europea nel contesto economico e politico mondiale? Sono temi di grande rilevanza, che fanno parte di un dibattito in atto da tempo su scala internazionale. L’editoriale di introduzione al tema della globalizzazione e della crisi finanziaria è opera di Enzo Grilli, fino a pochi mesi fa direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale e oggi docente alla Johns Hopkins University di Washington. Per Grilli la crisi finanziaria degli ultimi due anni è finita, ma occorre procedere oltre, rimodellando alcuni meccanismi essenziali del sistema finanziario mondiale. Anche per il noto finanziere americano George Soros il peggio è passato, ma le crisi sono sempre in agguato: e, per minimizzare i rischi, il finanziere presenta alcune proposte relative al sistema bancario e finanziario internazionale e al sistema dei pagamenti. Una visione decisamente controcorrente è quella del brillante economista e professore del MIT di Boston, Rudiger Dornbusch. I rischi non sono per nulla finiti, come molti pensano, ma non si annidano nei paesi dell’Asia o dell’America Latina, bensì negli Stati Uniti e in Giappone: squilibri forti che potrebbero condurre a difficoltà crescenti. Più ottimista il politologo Thierry de Montbrial, direttore dell’IFRI di Parigi. Secondo de Montbrial, l’attuale debolezza dell’Unione Europea e dell’euro è solo temporanea e nei prossimi anni il progetto complessivo dell’integrazione andrà avanti e coglierà importanti successi. Infine, il presidente della multinazionale Pilkington, Paolo Scaroni, esprime l’opinione dell’industria sul tema delle crisi: occorre imparare a convivere con le turbolenze che, in un modo o nell’altro, ci accompagneranno anche in futuro e, sottolinea, le imprese, specie quelle europee, devono impegnarsi di più sul fronte dell’innovazione e delle nuove tecnologie, con il supporto di grandi progetti educativi che i Governi devono introdurre per preparare un futuro di benessere e competitività. La sezione centrale di arcVision, che come d’abitudine è focalizzata sui temi dell’architettura e dell’arte del costruire, è integralmente dedicata alla materia. La materia che si identifica anche con la forma dando vita a straordinarie opere architettoniche. Il tema, introdotto con meditata arguzia da Riccardo Mariani, è documentato attraverso una panoramica senza confini di sorta. Viene scandagliato ed esaminato l’ambito internazionale in cui operano oggi i grandi progettisti: da Fuksas a Fumihiko Maki, da Predock a Sordo Madaleno e José de Yturbe, passando per Gonzáles de León, Serrano e Tejeda. E poi la “Yanbu Main Gate” dello Studio 65 e la “Parilly Venissieux” di Jourda e Perraudin. Per finire con un’approfondita indagine e una serie di interviste sullo stato dell’arte di una delle maggiori opere architettoniche attualmente in costruzione in Italia: la Chiesa che Richard Meier ha progettato per Roma in occasione del Giubileo del 2000, presentata sul n. 1 di arcVision. Nel cantiere romano di Tor Tre Teste sta prendendo corpo, giorno dopo giorno, un progetto avveniristico e molto impegnativo; una grande sfida per la costruzione di un’opera caratterizzata da quelle “vele bianche” volute dall’architetto americano e “capaci di condurci verso un mondo nuovo”.


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n the economic front, big question marks lie over the latter part of this year, which is also the end of the millennium. Globalization has made the evolution of the planet’s different economies increasingly interdependent. In this issue, scholars, financiers and industrialists who are involved in the international scenario intervene in an effort to find an answer to our questions. Have the effects of the financial crisis that has halved the rate of world growth in the past two years run their course? Can the impetuous rise of the American economy and Wall Street continue? After a tempestuous start, how will the exchange rate of the single European currency against the dollar evolve? What place is the European Union destined to occupy in the world economic and political context? These are issues of great importance that form part of an ongoing debate at an international level. The editorial that provides an introduction to the theme of globalization and financial crises is the work of Enzo Grilli, who, until a few months ago, was executive director of the International Monetary Fund and is today professor at the Johns Hopkins University of Washington. In Grilli’s opinion, the financial crisis of the past two years is over, but it is necessary to push ahead, reforming a number of basic mechanisms of the world financial system. It is also the point of view of the well-known American financier George Soros. The worst is over, but crises are always lying in wait. To minimize the risks, this financier presents some proposals for the international banking, financial and payments systems. A viewpoint that is decidedly against general opinion is that of the brilliant economist and Boston’s MIT professor, Rudiger Dornbusch. The risks are by no means over, as many think. However, they are not lurking in Asian countries or Latin America, but rather in the United States and Japan, where marked factors of imbalance could lead to growing difficulties. On the other hand, the political scientist Thierry de Montbrial, director of IFRI in Paris, is more optimistic. According to de Montbrial, the present weakness of the European Union and the euro is only temporary, and in the next few years the overall project of integration will go forward and be successful. Lastly, the chairman of the multi-national Pilkington, Paolo Scaroni, expresses the industry’s opinion on the subject of crises: it is necessary to learn to live with the turbulence that in one way or another will also accompany us into the future. And he emphasizes that firms, especially European ones, must be more committed on the innovation and new technologies front, backed up by major education projects that governments need to implement in order to prepare a future of well-being and competitiveness. As usual, the central section of arcVision focuses on architectural themes and the art of construction, but this time it is dedicated to matter. Matter can be identified with form by giving life to extraordinary architectural works. Riccardo Mariani has introduced this theme with well-thought acumen and it is supported by a panorama that knows no bounds. The international precincts in which the great planners work are probed and examined: from the likes of Fuksas to Fumihiko Maki, from Predock to Sordo Madaleno and José de Yturbe, not forgetting Gonzáles de León, Serrano and Tejeda. And then again, there’s “Yanbu Main Gate” from Studio 65 and “Parilly Venissieux” by Jourda and Perraudin. And to finish: an in-depth study and a series of interviews on one of the major state-of-theart architectural events happening in Italy: the Church that Richard Meier designed for Rome’s Jubilee 2000, which we presented in the first issue of arcVision. In the Roman construction site of Tor Tre Teste a futuristic, and very demanding, project takes form little by little; it is a great challenge to create this work that is characterized by the American architect’s “white sails” that should have the “power to guide us towards a new world.”

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Global

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All’ottimismo di Enzo Grilli, secondo il quale si sarebbe esaurita la crisi finanziaria che ha sconvolto i mercati mondiali negli ultimi due anni, si contrappone il realismo di Rudiger Dornbusch, che avverte: i forti squilibri di Stati Uniti e Giappone rappresentano una seria minaccia per la stabilità mondiale. Del resto, come afferma George Soros, “le crisi sono sempre dietro l’angolo”. Per questo, secondo Paolo Scaroni, è necessario imparare a convivere con le turbolenze. E sui futuri sviluppi dell’euro, Thierry de Montbrial non ha dubbi: l’attuale debolezza sarà superata, per cedere il passo a importanti successi. According to Enzo Grilli, the financial crisis that has upset the world’s markets over the past two years should come to an end; Rudiger Dornbusch takes a more realistic attitude and warns that the great imbalance of the United States and Japan represents a serious threat to world stability. Then again, as George Soros affirms, “Crises are always just around the corner.” And because of this, according to Paolo Scaroni, we must learn to live with turmoil. And as to future developments of the euro, Thierry de Montbrial has no doubts: the current fragility will be overcome to give way to major successes.

Oltre la crisi finanziaria Beyond the financial crisis di Enzo Grilli* by Enzo Grilli*

Dopo due anni di turbolenze il peggio è ormai dietro le spalle. Ma occorre comunque vigilare, perché le cause profonde delle crisi non sono state ancora rimosse After two turbulent years, the worst is now behind us. But we still need to be vigilant, because the real causes of the crisis have not yet been eradicated

Enzo Grilli

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artire dal presupposto che la crisi asiatica si sia ormai esaurita, almeno nei suoi effetti di mercato più dirompenti, sembra finalmente giustificato. Stiamo, tuttavia, ancora risentendo delle sue conseguenze negative sia sulle economie dei Paesi più direttamente colpiti che sull’economia mondiale. Questa ha già perduto l’equivalente di un anno di prodotto. Sia per il 1998 che per il 1999, infatti, la crescita della produzione mondiale è stimata a pressappoco la metà di quella normale ed attesa prima della crisi. Costo complessivo, questo, da non sottovalutare quando ci si rallegra di aver almeno evitato una recessione mondiale. Sarebbe tuttavia errato pensare che, passato l’ultimo peggio, il nuovo meglio sia necessariamente a venire. Ciò per diverse ragioni, sulle quali vale la pena riflettere. La prima è che, storicamente, le crisi valutarie e finanziarie sono fenomeni ricorrenti. Charles Kindleberger, uno degli storici viventi più informati sulle crisi finanziarie e sul loro dispiegarsi all’interno dell’economia mondiale attraverso i tempi, ci ricorda come esse si siano

regolarmente verificate, pressappoco ogni dieci anni, a partire dall’inizio del secolo scorso. L’ultimo decennio, poi, ne ha viste ben quattro di portata maggiore: la crisi del Sistema Monetario Europeo del 1992-93, che coinvolse anche l’Italia, assieme a Regno Unito, Svezia e Finlandia, quella messicana del 1994-95, quella del sud-est asiatico del 1997, ed infine quella di “contagio” che ha colpito Russia e Brasile nel corso del 1998. E’ stata proprio la loro frequenza, oltre alla loro propensione ad espandersi dalle zone di origine, che ha fatto pensare a molti di trovarsi di fronte a un fenomeno nuovo. La seconda è che, nonostante le maggiori capacità di fronteggiarle, dimostrate sia dai Paesi direttamente coinvolti che dalla comunità internazionale, le crisi scoppiate in passato, ivi incluse quelle più recenti, non hanno generato risposte sistemiche adeguate, e tali da far pensare che in futuro la loro frequenza e intensità potrà diminuire. In altre parole, se da un lato sono migliorate le capacità di gestire crisi finanziarie e valutarie a livello locale e globale, come

dimostrato sia dalla qualità delle risposte date a livello nazionale agli eventi di Messico, Corea e Brasile, sia dal livello della cooperazione internazionale raggiunto in questi stessi casi, non sembrano ancora essere aumentate in modo significativo le capacità di prevenirle. Ci sono, naturalmente, andamenti positivi che hanno sorpreso molti degli osservatori degli ultimi episodi di crisi: l’intensità della ripresa nel sudest asiatico, dove tutte le economie più direttamente colpite dalla crisi, eccetto l’Indonesia, sono già in fase di espansione e dove la crescita nell’anno in corso è ora prevista come largamente positiva (invece che appena tale); la brevità della recessione post-crisi in Brasile, dove il contenimento dell’inflazione importata a seguito della svalutazione, il rapido declino dei tassi di interesse e la forte crescita dell’export sembra stiano già facendo svoltare il ciclo economico; la tenuta della Cina, la cui crescita trainata dalla domanda interna, pur se non sostenibile alla lunga, ha finora dato sostegno a tutta l’economia dell’Asia; e infine gli apparenti segni di ripresa in Giappone, dove sia la produzione che la fiducia degli operatori sembrano migliorare. Ad essi si accompagnano andamenti meno positivi e veri e propri elementi di rischio. Tra i primi c’è il rallentamento della ripresa nell’Europa continentale (specialmente in Germania e Italia, dove la fiducia degli investitori è bassa e i consumatori rimangono cauti nelle loro decisioni di spesa), l’affanno dell’America Latina, specialmente del suo cono sud, e le persistenti difficoltà della Russia. Tra i secondi, ci sono la precarietà


di diverse economie Argentina, India, Sud Africa e in parte anche la Cina dove, nonostante risposte adeguate alla crisi asiatica, i suoi diversi effetti negativi stanno ancora incombendo su di esse, l’essenzialità della continuazione della fase di espansione negli Usa, sulla quale grava però in modo minaccioso il peso della bolla azionaria ivi in essere, e infine la variabilità dei flussi di capitale privato di cui le economie emergenti hanno forte bisogno. I rischi di altre crisi finanziarie e valutarie restano, dunque, significativi. Neanche la generalizzazione della ripresa economica nel mondo, ora prevista per il 2000, servirebbe a eliminarli. La crescita, come evidenziato nel caso del sudest asiatico, serve talvolta a mascherare le crepe che si sono già aperte nei sistemi economici, e soprattutto in quelli finanziari, e a rendere troppo compiaciuti operatori privati e pubbliche autorità. Permangono istanze abbastanza evidenti di rischi, vecchi e nuovi, in Asia e in America Latina. L’esperienza insegna che le crisi scoppiano più frequentemente laddove la debolezza finanziaria si interseca alla fragilità politica ed ai fondamentali che peggiorano. Gestirle tutte in modo adeguato non è impossibile, ma molto improbabile. Ciò vale soprattutto per i casi in cui episodi locali tendano a travasarsi altrove e ad assumere dimensioni globali, possibilità resa maggiore dall’accrescersi della finanziarizzazione dell’economia mondiale e dei collegamenti tra le sue parti componenti. Questo, nonostante il miglioramento della strumentazione disponibile a livello

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internazionale - quale l’allargamento dell’accesso al credito del Fondo Monetario Internazionale da parte dei Paesi membri in crisi o a rischio di crisi - atta a sostenere Paesi che si trovino a dover operare in tali condizioni. La sfida più ardua rimane quella delle riforme al sistema

monetario e finanziario internazionale che lo rendano meno prono a crisi di fiducia e più capace di assorbirle. I progressi in questo campo non sono pochi, ma non sono generali e ad effetto rapido. La prima e più chiara lezione tratta dalle ultime crisi è che, per funzionare in modo efficiente e stabile, i mercati

finanziari debbano essere meglio informati, meno garantiti e più in grado di esprimere giudizi di rischio autonomi e differenziati. Da qui l’enfasi posta sul miglioramento dell’informazione, sulla riduzione dei suoi costi e in generale sull’ampliamento della trasparenza nei


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comportamenti dei diversi operatori di mercato. L’altra è che in assenza di ristrutturazione, ammodernamento e solidificazione degli apparati bancari e finanziari di molti Paesi emergenti il sistema finanziario mondiale rimarrà esposto a un alto rischio di crisi, data l’accresciuta interdipendenza tra finanze nazionali. Da qui l’enfasi posta sulle riforme di tali sistemi e sulle sequenze di liberalizzazione da rispettare durante i processi di apertura di essi. Per procedere in queste direzioni occorrono misure di riforma dei sistemi finanziari nazionali che ne tocchino i meccanismi chiave (miglioramento degli standard di capitalizzazione, riassetti della proprietà, vigilanza più sistematica e competente di tutti gli operatori) e servano a modificare i comportamenti standard degli stessi operatori (obblighi più stringenti di rendiconto e di trasparenza, qualità migliore dei controlli esterni, gestione più oculata dei rischi ecc.). Esse richiedono tempo prima di poter essere implementate e ancor più tempo prima di dare i risultati desiderati. Dieci anni sono occorsi, per esempio, per migliorare significativamente il sistema finanziario del Cile, un

Paese situato non proprio alla base della piramide del sottosviluppo. Nel frattempo, sarebbe bene adottare altre regole sistemiche che diano automaticamente incentivi alla stabilità finanziaria e valutaria, rendendo così più resistente il sistema economico internazionale durante l’attuale fase di transizione. Tra queste, cruciale è una maggiore flessibilità nei regimi di cambio di tutti quei Paesi, soprattutto emergenti, che per caratteristiche di struttura, esposizione all’economia internazionale e grado di sviluppo possono adottarli e sostenerli. Si tratta di un numero ristretto di Paesi medio-grandi, a cominciare da India e Cina, che potrebbero in tal modo evitare peggioramenti nei loro equilibri esterni, ridurre gli incentivi che cambi troppo rigidi offrono all’indebitamento estero degli operatori nazionali e ripartire in modo più equilibrato i rischi di cambio, riducendo in tal modo anche lo spazio offerto alla speculazione sui loro tassi di cambio. Sistemi economici e finanziari più solidi, poiché meno esposti nei confronti dell’estero, meno dipendenti dall’accumulo di riserve valutarie, più in grado di adattarsi ai dettami della

concorrenza, più attraenti per gli investimenti diretti esteri orientati alle esportazioni, sarebbero il miglior antidoto alle crisi di fiducia (almeno a parità di altre condizioni, quali le politiche monetarie e fiscali perseguite) e la migliore assicurazione che il trapasso verso una struttura finanziaria globale più stabile ed efficiente sia meno aleatorio e meno costoso per tutti. * Enzo Grilli è attualmente professore di Economia Internazionale alla Paul Nitze School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University a Washington. E’ stato fino al 1998 direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale e fino al 1995 direttore esecutivo della Banca Mondiale a Washington. Dal 1982 al 1985 Grilli è stato segretario generale alla Programmazione Economica in Italia. E’ consulente di numerose organizzazioni internazionali e di aziende private e collabora con numerosi giornali e riviste in Italia e negli Stati Uniti. ■ ■ ■ ■ ■ ■

I

t seems that we can finally say that the Asian crisis has run its course, at least in terms of the most drastic effects on the market. Nevertheless, the economies of the countries most directly affected and the world economy are still smarting from its effects. The equivalent of a year’s production has been lost. World production for both

1998 and 1999 is reckoned to be about half the level that was predicted before the crisis. The total cost cannot be underestimated when we congratulate ourselves on avoiding a world recession. It would nevertheless be wrong to think that having gotten over the worst means that there are only good times ahead. There are several reasons for that cautious feeling that should be pondered. The first is that historically, monetary and financial crises are recurring phenomena. Charles Kindleberger, one of the greatest living experts on the history of global financial crises, reminds us that they have occurred, roughly once every ten years, from the start of the nineteenth century. This past decade has seen four major crises: the European Monetary System crisis of 1992-93, which also affected Italy, the United Kingdom, Sweden and Finland; the Mexican crisis of 1994-95; the South-East Asia crisis of 1997, and the “contagion” that spread to Russia and Brazil in 1998. It was their frequency and their tendency to spread outside the areas in which they originated that has made many people imagine that we are facing a new


phenomenon. The second reason is that crisis management abilities displayed by the countries directly affected and by the international community in past crises, including the most recent ones, have not met with the kind of adequate systemic responses that might reduce the frequency and scale of future crises. On the one hand, financial and monetary crisis management skills have improved, as shown by the way in which individual countries responded to the events in Mexico, Korea and Brazil and by the scale of international cooperation in such cases. On the other hand, the ability to prevent them does not seem to have significantly increased. Other welcome trends have, of course, pleasantly surprised many observers of the latest crises. The first surprise was the speed of the recovery in South-East Asia, where the economies of all the most seriously affected countries, apart from Indonesia, are expanding again and where much more than just sufficient growth is expected this year. The second surprise was the brevity of the recession in the wake of the crisis in Brazil, where containment of devaluation-induced inflation, the rapid decline in interest rates, and the strong growth in exports seem to be already turning the economy around. The third surprise was China’s success in weathering the storm. Its growth is sustained by domestic demand, and although this kind of growth is not sustainable in the long term, it has until now stimulated the entire Asian economy. Finally, there are clear signs of recovery in Japan, where both output and market confidence seem to be improving. At the same time, less encouraging and even some downright risky trends persist. The former include: the slowdown in the recovery in continental European economies (especially Germany and Italy, where investor confidence is low and consumers are cautious in their spending habits); the difficulties of Latin America, especially the horn of South America; and Russia’s continuing difficulties. The latter trends include the instability of different

economies - particularly Argentina, India, South Africa and to a certain extent China which are still feeling the effects of the Asian crisis although they handled it successfully; the continuing boom in the U.S., which brings with it the threat of a speculative bubble; and the variability in private capital flows, which are sorely needed by emerging economies. The risk of further financial and monetary crises therefore remains high. Not even the general recovery in the world economy that is now expected to take place in 2000 eliminates these risks. As we have seen in the case of South-East Asia, growth sometimes disguises cracks that have already opened in economic systems, especially financial systems, and makes private operators and public authorities too complacent. There are clear signs of old and new risks in Asia and Latin America. Experience teaches us that crises occur most frequently where financial weakness combines with political instability and deteriorating fundamental factors. It is not impossible to cope successfully with all these factors, but it is highly improbable. This is especially true of cases in which local episodes tend to have repercussions elsewhere and to take on global proportions. This becomes more and more likely as economies increasingly seek to finance globally so that different parts of the world economy become more closely linked. This is true despite improvements in the tools available internationally for supporting countries in difficulty, such as the greater availability of International Monetary Fund loans for members in crisis situations or those facing crises. The greatest challenge is the reform of the international monetary and financial system in order to make it less sensitive to confidence crises and more able to take them in stride. Significant progress has been made in this field, but the progress has not been general or rapid. The first and easiest lesson to be learned from the latest crises is that if financial markets are to function efficiently and be stable, they

must be better informed, less cushioned and more capable of making independent and specific risk evaluations. This is why the emphasis is on improving information, cost reductions, and improved openness in the behavior of different market operators. The other lesson is that it is necessary to restructure, modernize and consolidate the banking and financial apparatus of a large number of emerging countries. Otherwise, the world financial system will be exposed to high risks caused by increased interdependence between national financial systems. This is why priority has to be given to reforming these systems and maintaining deregulation schedules to open them. In order to make progress in these areas, national financial systems must be reformed in key areas (such as improving capitalization standards, reorganizing property, more systematic and competent supervision of all operators). Reforms must also change the

code of behavior of the operators themselves (stricter standards of accountability and transparency, better external quality control, more judicious risk management, etc.). Reforms need time before they can be implemented and even more time before they can achieve the required results. For example, ten years were required in order to significantly improve Chile’s financial system, although it was not the most underdeveloped of countries. In the meantime, other systemic rules should be

adopted that will automatically encourage financial and monetary stability in order to make the international economic system more resilient during the current transitional phase. One of the most crucial measures is greater exchangerate flexibility in all those countries, especially emerging economies, that can adopt and sustain such flexibility because of their structure, exposure to the international economy and development possibilities. A small number of medium to large countries, starting with India and China, could prevent external imbalances from getting worse, reduce the temptation to contract foreign debt stemming from excessively rigid exchange rates within the country and could spread exchange rate risks more evenly in order to limit the scope for speculation on their exchange rates. More solid economic and financial systems that are less exposed to foreign markets, less dependent on currency reserves, more competitive, and more attractive to direct foreign export-oriented investment would be the best antidote to confidence crises (provided that other conditions such as monetary and fiscal policies are met). Development of these systems are the best way of ensuring that the emergence of a more stable and efficient global financial structure is less risky and costly for everybody. * Enzo Grilli is currently professor International Economics at the Paul Nitze School of Advanced International Studies at Johns Hopkins University in Washington. Until 1998 he was executive director the International Monetary Fund and was executive director the World Bank in Washington until 1995. From 1982 to 1985 Enzo Grilli was secretary general of Economic Planning in Italy. He is a consultant to many different international organizations and private companies and works with different newspapers and journals in Italy and the United States.

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Un mondo alla ricerca di leadership A world looking for leadership Intervista a Thierry de Montbrial* Interview with Thierry de Montbrial*

Dalla caduta del comunismo è aumentata l’instabilità politica mondiale. Perché accanto agli Usa non esistono altre grandi potenze e le istituzioni internazionali sono deboli Since the fall of communism, political instability has increased in many parts of the world, because there are no great powers apart from the U.S. and international institutions are weak

perché non è più possibile governare come in passato. Tutto ciò ha provocato enormi cambiamenti e il risultato è che ormai viviamo in un mondo globalizzato, forse non più pericoloso come in passato, ma certo molto più instabile e meno controllabile.

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Thierry de Montbrial

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ondatore dell’IFRI (Institut Français des Relations Internationales), Thierry de Montbrial ne è dal 1979 il direttore. Considerato uno dei maggiori esperti viventi di problemi strategici e politici internazionali, è membro di numerosi e prestigiosi istituti di ricerca politica ed è docente presso la famosa École Polytechnique di Parigi. Con arcVision ha affrontato i problemi più importanti del quadro economico e politico mondiale di questi anni. Sono passati dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino. In questo decennio i fattori di instabilità internazionale sono aumentati o diminuiti? Non c’è dubbio, a mio parere, che dopo la caduta del Muro l’instabilità globale sia aumentata. Prima, nel corso della Guerra Fredda, ci trovavamo a che fare con un contesto assai più pericoloso e sgradevole, ma infinitamente più stabile, anche se si sapeva benissimo che quella stabilità non avrebbe potuto durare all’infinito, dato che le società dell’Est venivano mantenute in vita con metodi, diciamo, alquanto artificiali. Tuttavia, è chiaro che, soprattutto a

partire dalla crisi di Cuba del 1962, le superpotenze avevano imparato una notevole prudenza nei rapporti reciproci e la competizione avveniva al di fuori, vale a dire in Europa e nei Paesi del Terzo Mondo. D’altra parte si sapeva anche che questo equilibrio non poteva durare e che, sia pure minimo, c’era comunque un rischio di confronto nucleare. Ed era proprio questo rischio che, per quanto terrificante, garantiva la stabilità globale. Oggi la situazione è del tutto diversa. Viviamo in un mondo più “classico”, dove esiste una sola superpotenza dominante, gli Usa, che però non è in grado e non vuole essere il “gendarme del mondo”. Gli Stati Uniti sono, dunque, un impero parziale e non universale e accanto a essi c’è un gran numero di Paesi in grado di muoversi come potenze regionali. Ci sono poi degli elementi nuovi, come la rivoluzione industriale tecnologica, in parte responsabile di trasformare non solo le attività economiche, ma anche gli equilibri militari, come si è visto sia in Iraq che in Kosovo. Questo ha poi implicazioni sia di tipo culturale, sia politico,

La guerra del Golfo e quella del Kosovo hanno, in effetti, dimostrato che oggi l’America è la sola superpotenza al mondo. L’Europa resta un nano politico e militare, Russia e Cina hanno troppi problemi interni per potersi affermare come potenze globali. E’ una situazione destinata a durare? E’ difficile a dirsi, soprattutto perché il vero elemento di novità di questi anni, l’Unione Europea, è una creazione molto recente. Certo, le idee su cui si basa vengono da lontano, dalla prima guerra mondiale, anche se poi si sono concretizzate solo dopo la seconda e, in particolare, solo dopo la definizione del Trattato di Roma del 1957. Rimane il fatto che poco più di quarant’anni sono molto pochi dal punto di vista storico, ed è impossibile prevedere oggi cosa potrà essere l’Unione Europea tra venti o trent’anni. Volendo essere pessimisti si può certo sostenere che anche fra vent’anni l’Europa sarà un nano politico, ma se si vuole essere realisti si deve ammettere che il cammino compiuto in quarant’anni è stato straordinario. Innanzitutto si è garantita la pace fra tutti i Paesi dell’area, e già questo mi sembra un risultato importantissimo. Poi si è realizzata una vasta comunità di interessi, di cui la moneta unica europea è l’espressione più avanzata. Ma anche sotto il profilo politico si sono fatti importanti passi

avanti. Prendiamo la vicenda del Kosovo, nella quale tutti i Paesi europei si sono mossi in sintonia. Questo non sarebbe stato possibile anche solo pochi anni fa. Denigrare è facile, ma se si cerca di essere oggettivi occorre pensare che nei prossimi anni l’Unione Europea potrà divenire un fattore di grande peso nella scena mondiale. Vi sono, poi, altri Paesi che potranno riservare grosse sorprese. Prendiamo, ad esempio, la Cina, a sua volta un gigante economico e politico per ora solo allo stato potenziale, ma un domani in grado di tenere testa ai Paesi più potenti sia sotto il profilo economico che tecnologico e militare. Negli ultimi vent’anni la Cina ha fatto passi avanti immensi e tra vent’anni potrebbero essere il Paese più potente del mondo. Oggi noi consideriamo gli Stati Uniti come la sola superpotenza globale, ma non sappiamo cosa saranno tra dieci o vent’anni. Ci siamo scordati troppo presto che solo dieci anni fa gli Usa hanno attraversato una crisi profonda, non sapevano che direzione prendere né in economia né in politica. Alla fine degli anni Ottanta l’America attraversava una stagnazione e, sotto il profilo politico, doveva subire l’umiliazione degli ostaggi in Iran o l’impasse dell’Afganistan. Incontrava problemi nel processo di modernizzazione e doveva fare i conti con un Giappone che a quel tempo veniva considerato “number one”. Allora, forse, si esageravano le debolezze, oggi forse si sovrastimano i punti di forza. Tra dieci anni gli Usa potrebbero essere in una profonda recessione e tutti i problemi del passato potrebbero riemergere. In


sostanza, quello che voglio dire è che non è bene proiettare il presente verso il futuro in modo lineare perché il futuro ci riserva molte sorprese. Gli equilibri fra Paesi sono importanti, ma anche le persone contano. E negli ultimi anni si è creata una situazione di evidente mancanza di leadership in tutti i principali Paesi. Clinton si è auto-inflitto danni permanenti, Blair è a stento leader del suo Paese, il Giappone è in depressione, l’Europa non ha un rappresentante forte, la Russia è divisa, la Cina lontana. Quanto incide la mancanza di una leadership riconosciuta sulla situazione internazionale? Questo è un punto molto importante. Spesso mi chiedo se lo stesso concetto di leadership non si stia modificando. Intendo dire che nella realtà di oggi non vi è forse più neppure posto per le persone eccezionali. Lo sviluppo tecnologico aumenta e diffonde i centri di potere, la politica subisce un processo di demistificazione o addirittura di desacralizzazione. Nel caso degli Stati Uniti, Clinton ha perso prestigio non solo per l’affare Lewinski, ma perché in generale è la stessa presidenza ad avere subìto un ridimensionamento, e questo accade un po’ in tutti i Paesi del mondo. Non ci sono più le figure carismatiche del passato, come De Gaulle in Francia, Roosvelt negli Usa, Churchill in Gran Bretagna o, in aree più lontane, Gandhi in India o Ben Gurion in Israele. Se questo è vero, significa che non dobbiamo più aspettare uomini eccezionali per compiere imprese eccezionali. Occorre avere una visione più funzionalista, vale a dire

arrivare a creare le condizioni per cui gli eventi alla fine si producano per necessità, come è accaduto in fondo per la creazione dell’euro. Si tratta dunque di sostituire la volontà dei grandi uomini di compiere grandi imprese con la creazione di meccanismi che impongano costi molto elevati a chi non dovesse rispettare le condizioni prestabilite. La crisi finanziaria dell’ultimo biennio è stata essenzialmente un fenomeno economico e finanziario, ma si è rivelata più grave e meno controllabile in Paesi, come l’Indonesia o la Russia, dove è carente l’equilibrio politico. Viceversa, la interminabile crisi dei Balcani o le altre crisi regionali degli ultimi anni si sono prodotte in contesti compromessi sotto il profilo economico-finanziario. C’è dunque un legame stretto tra stabilità economicofinanziaria ed equilibrio politico? Credo innanzitutto che si sappia da sempre, e lo si è verificato di recente, che la crescita economica facilita la soluzione dei problemi sociopolitici, ed è in fondo il motivo per cui Clinton è rimasto al suo posto. In passato, negli anni Cinquanta e Sessanta si sapeva bene, in tutti i Paesi, che nei periodi di prosperità economica si poteva superare qualunque scoglio politico, mentre tutto diventava difficile nei momenti di crisi. Nei Paesi del Terzo Mondo le cose sono analoghe. In un Paese come l’Indonesia un despota come Suharto ha potuto dominare finché la situazione economica è rimasta espansiva, perché distribuiva benefici su un ampio numero di persone; ma quando è arrivata la crisi è stata la fine anche per lui.

Questo vale in generale e in qualunque Paese. Ma c’è un secondo punto, più specifico di quest’era di globalizzazione, ed è la moltiplicazione delle crisi. Gli impulsi si trasmettono molto velocemente da un punto all’altro del sistema, anche se apparentemente non hanno alcun legame o contatto. Cosa hanno a che fare, infatti, la crisi tailandese originata da fattori speculativi interni con la crisi russa, determinata dall’affondamento di un sistema socio-politico ed economico paralizzato da corruzione e inefficienza?

sembrano più funzionare a dovere, oppure sono impreparate per questi nuovi compiti, come sembra il caso dell’ONU e del Fondo Monetario Internazionale. Il che ci deve indurre a pensare che le crisi degli ultimi anni potranno ripetersi di nuovo in futuro.

Eppure ambedue i casi sono collegati perché vi è una comune causa di tipo psicologico, ed è questo il fattore caratteristico dell’era attuale. L’instabilità è in aumento perché i fattori di questo tipo si trasmettono molto velocemente e non hanno confini. Le turbolenze finanziarie si ribaltano istantaneamente da un mercato all’altro e provocano le conseguenze più marcate nei Paesi dove già esiste una instabilità politica, la quale a sua volta si aggrava in seguito alle nuove difficoltà. Tutto questo, poi, si complica per il fatto che le istituzioni internazionali che dovrebbero attenuare queste crisi non

accusa di essere la vera causa degli squilibri economici e finanziari tra i diversi Paesi e di provocare, alla fine, i confronti politicomilitari. Lei che ne pensa? È ovvio che la globalizzazione amplifica gli effetti di una crisi, come ho appena detto. Proprio le caratteristiche di un mondo globale, che sono in fondo la nuova capacità di trasporto veloce e le nuove tecnologie informatiche e di rete, consentono la trasmissione degli impulsi con una rapidità e una efficacia senza precedenti. Ma è sciocco concentrarsi solo sugli impulsi negativi, conseguenti alle crisi. In generale gli effetti della globalizzazione appaiono

C’è tutt’oggi un intenso dibattito sulla globalizzazione. Vi è chi ne sottolinea i grandi benefici in termini di interdipendenza, crescita e stabilità economica. E chi la

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molto più benefici dei guai sporadici che possono emergere. E il legame tra squilibri economico-finanziari e confronti militari non è per nulla così semplice e lineare. La guerra del Kosovo ha dimostrato come nell’Europa del Duemila vi sia ancora ampio spazio per guerre di tipo etnico e “tribale” che nulla hanno a che fare con le instabilità finanziarie della globalizzazione.

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A suo parere la debolezza dell’euro rispetto al dollaro è il riflesso del ritardo economico dell’Unione Europea? O è piuttosto il segnale che il mondo valuta l’Europa un’area politicamente meno affidabile degli Usa? Non mi pare proprio il caso di preoccuparsi troppo delle oscillazioni a breve termine dell’euro, specie per il fatto che oggi vi sarebbe molta più preoccupazione se l’euro fosse forte, anziché relativamente debole. Un euro debole consente di esportare di più e di rafforzare la crescita economica, senza che per il momento si manifestino pressioni inflazionistiche. D’altra parte, se si guarda alla forza del dollaro, è bene ricordare che alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la moneta americana sopportava delle oscillazioni colossali, in cui riusciva a perdere metà del suo valore per poi riacquistarlo qualche anno dopo. Ma non per questo si considerava che gli Stati Uniti fossero politicamente spariti dalla scena mondiale. Il punto importante è che l’euro esiste e semmai occorre sottolineare una volta di più l’urgenza che i diversi Paesi europei, Francia, Germania e Italia in testa, arrivino a fare le riforme economiche senza le quali non si riuscirà a rilanciare la crescita economica. Questi problemi mi sembrano molto più seri e importanti delle discussioni sulla debolezza dell’euro. Il ruolo delle grandi istituzioni internazionali come ONU, FMI, WTO e Banca Mondiale è ancora attuale o occorre ripensarlo in una chiave diversa? Il ruolo delle istituzioni internazionali è senz’altro importante come in passato e non solo quelle di tipo sovranazionale mondiale, come l’ONU, la Banca

Mondiale e le altre, ma anche quelle di tipo regionale. E’ evidente, però, che queste organizzazioni sono invecchiate e che non sono riuscite a stare al passo con i cambiamenti che sono intervenuti sia nello scenario politico che in quello economico e tecnologico. Il Fondo Monetario Internazionale deve, ad esempio, riflettere profondamente sul proprio orientamento di ortodossia monetaria, che potrebbe avere agito in senso addirittura peggiorativo in occasione delle recenti crisi finanziarie. L’ONU, a sua volta, ha bisogno di ritrovare il prestigio perduto, e questa è una responsabilità che fa capo soprattutto agli Stati Uniti, che non la sostengono più come in passato. * Thierry de Montbrial è direttore dell’Institut Français des Relations Internationales (IFRI) ed è presidente della Foundation for Defence Studies. Dal 1974 insegna all’École Polytechnique dove è stato preside dell’Istituto di Economia fino al 1992. Dal 1995 è anche professore al Conservatoire National des Arts et Métiers. Thierry de Montbrial è considerato uno dei più autorevoli esperti di relazioni internazionali su scala mondiale ed è tra l’altro consigliere dell’Institute of Strategic Studies di Londra, dell’Institut de France, dell’Accademia Europea e dell’Académie Royale de Belgique. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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hierry de Montbrial is the founder of IFRI (Institut Français des Relations Internationales) and has been its director since 1979. He is considered to be one of the greatest living experts on strategic issues and international politics. He is a member of numerous prestigious political research institutes and is a professor at the famous École Polytechnique in Paris. Together with arcVision he has examined the most important economic and political problems facing the world today. The Berlin Wall fell ten years ago. Have the factors causing international instability increased or decreased since then? In my opinion, global instability has unquestionably increased since the Berlin Wall came down. Formerly, during the Cold War, we were in a more dangerous and unpleasant but stable - situation, although we knew that the stability would not last forever because the economies of Eastern

Europe were being kept alive artificially. However, it was clear, at least after the Cuban missile crisis in 1962, that the superpowers had learned to use caution in their dealings with one another and that competition came from outside, i.e. from Europe and from Third World countries. On the other hand, we knew that this balance could not last forever and that there was at least a minimal chance of a nuclear conflict. But it was this terrifying prospect that guaranteed world stability. Today, the situation is completely different. We are living in a more “traditional” world in which there is only one dominant superpower, the U.S., but it is not able or willing to play “world policeman”. The United States is a partial, not a total empire, and alongside the United States, there are many other countries that can act as regional superpowers. Then there are new elements, such as the technological revolution. This is partly responsible not only for transforming economic life but also for shifting balances of military power, as we have seen in Iraq and the Kosovo. It has also both cultural and political implications, because it is not possible to rule as in the past. All this has caused enormous changes. The result is that we now live in a global village which may not be as dangerous as in the past, but which is much more unstable and difficult to control. The Gulf War and the war in the Kosovo have in fact shown that today America is the only superpower. Europe is a political and military dwarf. Russia and China have too many domestic problems to be able to become world powers. Is this situation going to last? It’s difficult to say, because a really new element now, the European Union, is a very recent creation. The ideas behind it certainly go back a long way, to the First World War, but they only took on a definite form after the Second World War, especially after the Treaties of Rome in 1957. It nevertheless remains true that only a little more than forty years is a very short period in historical terms and it is impossible to say today what the European Union may be

like twenty or thirty years from now. If one wanted to be pessimistic, one could certainly claim that Europe will still be a political dwarf in twenty years time. But to be realistic, we must admit that we have made extraordinary progress in forty years. Above all, peace has been ensured between all the countries in the area. This alone seems to me a remarkable achievement. Then a vast community of interests has been created, of which the single European currency is the most recent development. But important progress has also been made in political terms. Take the example of the Kosovo, in which all the European countries coordinated their efforts. Even a few years ago, this would not have been possible. It is easy to denigrate, but if one is objective, we must conclude that the European Union could well become an important global player. There are also other countries that might have great surprises in store for us. Take, for example, China. At the moment, it is only a potential economic and political giant, but tomorrow it will be able to hold its own with powerful countries in economic, technological and military terms. During the past twenty years, China has made immense progress and in another twenty years time, it could be the most powerful country in the world. Today, we consider that the United States is the only world superpower, but we don’t know what it will be like in another ten or twenty years time. We are apt to forget that just ten years ago the U.S. was going through a deep crisis and didn’t know which way to go economically or politically. At the end of the eighties, America was stagnating and politically, it had been subjected to the humiliation of the Iran hostages and the Afghanistan impasse. It was having problems modernizing and had to size up to a Japan that was considered top dog at the time. At the time we may have exaggerated American weaknesses. Today we may be overestimating American strengths. In ten years time, the U.S. may be in a deep recession or else all the problems of the past may surface again. What I am trying to say is that basically it is not a good idea to predict


that the future will be a continuation of the present because the future will have a lot of surprises in store for us. The balance between countries is important, but people are important, too. In the past few years, there has been a clear lack of leadership in all the main countries. Clinton has done permanent damage to himself. Blair’s leadership is questioned in his own country. Japan is in recession, Europe does not have a strong representative, Russia is divided, and China is distant. How much does the lack of recognized leaders affect the international situation? This is a very important point. I often wonder whether the concept of leadership is not being altered. What I mean is that today there may no longer be room for exceptional people. Technological development is increasing and diffusing the centers of power. Politics is demystified or even thrown off its pedestal. In the case of the United States, Clinton has lost prestige, not only through the Lewinski affair, but also because the presidency has declined in importance. This phenomenon has occurred throughout the world. There are no longer the charismatic figures of the past such as De Gaulle in France, Roosevelt in the U.S., Churchill in Great Britain, or further afield, Gandhi in India or Ben Gurion in Israel. If this is true, it means that we can no longer expect there to be exceptional men to perform exceptional feats. We need to take a more practical view. In other words, we must create conditions that will make the events occur out of necessity, which is what basically happened when the euro was created. It is a case of replacing the determination of great men to perform great feats with the creation of mechanisms that will bring high costs to those who would not respect the static conditions. The financial crisis over the past two years has basically been an economic and financial crisis, but it was more serious and difficult to control in countries like Indonesia or Russia where political checks and balances are missing. On

the other hand, the interminable crisis in the Balkans or the other regional crises of the past few years have occurred in troubled economic and financial situations. Is there therefore a close link between financial economic stability and political balance? Above all, I think that we have always known, and this has been borne out recently, that economic growth soothes social and political problems and this is basically the reason why Clinton has remained in power. In the past, in the fifties and sixties, all countries were well aware that any political problems could be solved in periods of economic prosperity, whereas everything became more difficult in moments of crisis. The same considerations apply to Third-World countries. In Indonesia a despot like Suharto was able to retain power as long as the economy continued to expand because he shared the benefits among a considerable number of people. But when the crisis occurred, it was also the end for him. This applies to any country. But there is a second, more specific, point about the era of globalization - crises have multiplied. The impulses are transmitted rapidly from

one point to another in the system, although there seems to be no point of contact. What does the Thai crisis, which originated from internal speculative factors, have to do with the Russian crisis, caused by the destruction of a socio-political and economic system paralyzed by corruption and inefficiency? Both cases are linked because there is a common psychological cause, and this is the characteristic factor of the present era. There is increasing instability because factors of this type spread very rapidly and have no borders. Financial turbulence moves immediately from one market

to another and most seriously upsets the countries that are already politically unstable. Political instability is in turn aggravated by the new difficulties. This is then all complicated by the fact that international institutions that should mitigate these crises no longer seem to be working properly or seem to be unprepared for these new tasks. This seems to be the case of the United Nations and the International Monetary Fund. This leads us to suspect that these crises could recur in future. A fierce debate is still raging about globalization. Some emphasize its great advantages in terms of interdependence, growth and economic stability. Others accuse it of being the true cause of economic and financial imbalances between countries and of leading to political and military conflict. What do you think? It’s obvious that globalization heightens the effect of a crisis, as I have just said. In the global village, rapid transportation, new information and network technologies enable impulses to be transmitted with unprecedented rapidity and efficiency. But it is foolish to dwell only on negative impulses unleashed by the crises. In general, the effects of globalization appear to greatly outweigh the sporadic harm that may develop. And the connection between economic and financial imbalances and military clashes is by no means simple and linear. The war in the Kosovo has shown that in the Europe of 2000, there is still space for ethnic and “tribal” wars that have nothing to do with financial instability brought about by globalization. In your opinion, is the euro’s weakness against the dollar a reflection of the way in which the European Union is lagging behind economically, or is it rather a signal that the world considers Europe to be politically less reliable than the U.S.? I don’t think that we need to worry too much about shortterm fluctuations of the euro, especially because there would be much more worrying if the euro were strong, instead of relatively weak. A weak euro

encourages exports and boosts growth while for now, there seems to be no inflationary pressure. On the other hand, when we look at the strength of the dollar, we should remember that at the end of the seventies and in the early eighties the U.S. dollar was subjected to tremendous fluctuations, losing half its value and then regaining it a few years later. But it did not make us think that the United States had ceased to be a global player. The important thing is that the euro exists. It is more important to stress that different European countries, France, Germany and Italy above all, need to make the economic reforms without which there can be no growth recovery. These problems seem to me to be much more serious and important than discussions about the weakness of the euro. Do the large international institutions like the United Nations (UN), the International Monetary Fund (IMF), the World Trade Organization (WTO) and the World Bank still have a role to play or do their roles have to be rewritten? The role of international institutions is certainly as important as in the past. These include not only supranational world organizations like the UN and the World Bank but also regional organizations. It is nevertheless obvious that these organizations are old and have been unable to keep up with political or economic and technological changes. The IMF, for example, needs to thoroughly reexamine its orthodox monetarism, which may have actually aggravated the recent financial crises. The UN, on the other hand, needs to regain its lost prestige. The responsibility for this lies mainly with the United States, which does not support it as it once did. * Thierry de Montbrial is director of the Institut Français des Relations Internationales (IFRI) and is president of the Foundation for Defence Studies. Since 1974 he has taught at the École Polytechnique, where he was director of the Economics Institute until 1992. Since 1995 he has also been a professor at the Conservatoire National des Arts et Métiers. Thierry de Montbrial is considered to be one of the world’s leading experts in international relations and is also a director of London’s Institute of Strategic Studies, the Institut de France, the Accademia Europea and Belgium’s Académie Royale.

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Eurolenta,l’America corre Slow Europe,fast America Intervista a Rudiger Dornbusch* Interview with Rudiger Dornbusch*

La crisi finanziaria è ormai superata. Ma l’economia europea rimane poco adeguata ad affrontare le grandi sfide della globalizzazione. Nuovi scenari per i Paesi emergenti We now have the financial crisis behind us, but the European economy is largely unprepared for the great challenges of globalization. New scenarios for emerging countries

che consumi e investimenti privati restano bloccati, nonostante i tassi d’interesse siano virtualmente zero. Il Governo giapponese spera di fare ripartire l’economia con un massiccio programma di spesa pubblica. Ma questa è una politica miope che, a lungo andare, potrebbe portare il Paese alla bancarotta.

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Rudiger Dornbusch

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onsiderato ormai da molti anni l’“enfant terrible” del ristretto giro degli economisti che contano su scala internazionale, Rudiger Dornbusch è noto soprattutto per le sue opinioni non convenzionali e, assai spesso, intelligentemente provocatorie. arcVision lo ha incontrato a Boston per un’intervista a vasto raggio sui problemi più rilevanti dell’economia mondiale. Il 1999 è stato un anno di bassa crescita per l’Europa, mentre al contrario l’espansione degli Stati Uniti è continuata per il nono anno consecutivo e non accenna a rallentare. L’Asia, dopo due anni di recessione, appare ormai in forte recupero e anche dal Giappone arrivano segnali di rafforzamento. E’, dunque, finita la crisi finanziaria iniziata nel 1997? O ci sono ancora dei rischi legati alla debolezza dei Paesi asiatici o all’esposizione di Paesi come la Russia e il Brasile? La situazione internazionale è molto migliorata rispetto al momento più grave della crisi finanziaria del 1997. Questo

riguarda in generale tutti i Paesi che sono stati coinvolti, anche se per alcuni di essi come la Corea, l’Indonesia e la Malaysia restano irrisolti numerosi problemi, sia di carattere economico che politico. Per la Russia e i Paesi dell’America Latina non vi sono pericoli immediati, ma certo i motivi di debolezza, che avevano scatenato la crisi dell’anno passato, non sono superati. Occorre, dunque, usare molta prudenza in tutti questi casi. Paradossalmente, però, i veri rischi cui siamo di fronte non vengono da questi Paesi, ma dagli Stati Uniti e dal Giappone. E’ vero che gli Stati Uniti continuano a crescere a un ritmo che è vicino al 4%, ma la Federal Reserve sta pilotando l’economia verso un “soft landing”, per paura di una possibile ripresa dell’inflazione. Ma questo atterraggio morbido potrebbe anche diventare un “crash landing” se la politica monetaria diventerà eccessivamente restrittiva, con la conseguenza di bloccare la crescita della Borsa americana e di far cadere il dollaro. E per quanto riguarda il Giappone i rischi sono ancora più alti. La ripresa degli ultimi mesi non deve, infatti, fare dimenticare

A suo parere è stato fatto abbastanza da parte del Fondo Monetario Internazionale e delle Banche Centrali, per modificare i meccanismi finanziari che hanno consentito lo sviluppo della bolla speculativa e, dunque, la crisi finanziaria? Non solo non è stato fatto abbastanza, non è stato fatto assolutamente niente. Molti si illudono pensando che i casi come quello dell’hedge fund LCTM (Long Term Capital Management) negli Usa siano stati bene o male contenuti e che i Paesi asiatici abbiano bene o male potuto riprendere a crescere dopo due soli anni di recessione. Ma sbagliano, perché in nessun caso sono state rimosse le vere cause che hanno portato alla crisi. E qui non si tratta di mettere in piedi dei meccanismi internazionali di vigilanza e controllo, magari affidati al Fondo Monetario Internazionale. In primo luogo non è possibile creare tali meccanismi, e infatti non vi sono proposte serie e credibili a questo riguardo. E in secondo luogo non funzionerebbero. L’unica cosa seria da fare è che ogni Paese e ogni istituzione finanziaria agisca con maggiore disciplina, evitando di mettersi in condizioni di eccessiva esposizione, senza una adeguata rete di garanzie. I problemi che ci stanno davanti sono troppo grandi per poter

pensare di affrontarli con dei meccanismi di regolazione. Se il mercato azionario americano è sopravvalutato, prima o poi la bolla scoppierà e non c’è niente da fare. Se il Giappone crollerà sotto il peso dei suoi debiti, nessuno potrà correre ai ripari. L’unica possibilità è che si adotti una soluzione di rigore e di disciplina all’interno di ciascun Paese. I Paesi che verranno gestiti in modo intelligente prospereranno, ma i Paesi che adotteranno una politica economica stupida passeranno da una crisi all’altra. C’è chi ha messo sotto accusa la globalizzazione dei mercati e la deregolamentazione; altri hanno indicato l’eccessiva mobilità dei capitali consentita dalle nuove tecnologie informatiche, specie quelle di rete. Sono critiche ragionevoli? Il fatto che i mercati abbiano ormai una dimensione globale è una realtà che va tenuta continuamente presente. Un’economia globale dotata di tecnologie che consentono la trasmissione immediata di informazioni e impulsi contemporaneamente su tutti i mercati è certamente un fattore che occorre avere sempre in mente, perché d’ora in poi è così che andranno le cose e chi non lo vuole capire, o chi pensa che si possa tornare indietro a mercati isolati e compartimentati, è veramente fuori dalla realtà. Nello stesso tempo, è bene non dimenticare che la globalizzazione dei mercati e delle economie porta sempre maggiore crescita e benessere. Ed è qualcosa cui non dobbiamo rinunciare solo per il fatto che porta con sé anche maggiori rischi finanziari. Anche le automobili e gli aerei hanno incidenti che provocano vittime, ma non per questo


vengono aboliti. Occorre imparare a minimizzare i rischi e i costi, questo sì. Ma non è possibile imputare alla globalizzazione la responsabilità di una crisi finanziaria, dimenticando gli immensi benefici che porta a tutti. Ricordiamoci che nel 1930 il mondo abolì quasi completamente la globalizzazione. E la conseguenza fu che per cinquant’anni abbiamo avuto recessioni, statalizzazione dell’economia, protezionismo, inefficienze e distorsioni a non finire. Certo, c’era molta stabilità, ma totalmente improduttiva. Il divario di crescita tra Europa e Usa è sempre più alto e il risultato è che negli Stati Uniti si creano milioni di posti di lavoro, mentre in Europa ci sono più di 20 milioni di disoccupati. Vince dunque il modello di flessibilità americano contro quello garantista del welfare europeo? Credo che ci siano pochi dubbi sul fatto che il modello americano sia quello vincente, ma non credo proprio che verrà adottato in Europa, almeno in un prossimo futuro. In Europa oggi c’è un’unica forma di consenso ed è quella di non fare assolutamente niente. Non si segue né l’orientamento di Lafontaine, né quello della Thatcher. La questione è che l’Europa è ricca e, nonostante un po’ di rallentamento nella crescita, non incontrerà difficoltà veramente serie. E senza un periodo di grosse difficoltà nessuno opererà le difficili scelte che occorrono per trasformare l’economia europea in una economia deregolata e veramente competitiva. Il risultato sarà che l’Europa resterà lì, senza alcuna possibilità di crescere

con i ritmi americani. E ricordo che gli Stati Uniti sono cresciuti a un tasso di poco inferiore al 4% per quattro anni consecutivi e in condizioni di pieno impiego. Lei pensa, dunque, che senza una crisi l’Europa non saprà adottare misure impopolari che consentano di liberare completamente le forze di mercato? Esattamente. Il problema europeo è proprio quello di trovare il coraggio per prendere decisioni impopolari. La questione di fondo è che nei Paesi europei ci sono troppi privilegi a favore di determinati gruppi, e questi non li vogliono perdere. Troppa gente è pagata per non lavorare e dunque si oppone a qualsiasi tentativo di farla lavorare. Da parte loro, i sindacati difendono solo gli occupati e non si preoccupano di chi non ha un lavoro. Le stesse aziende danno una mano a tenere bloccato il sistema, perché continuano a gestire il potere assieme ai sindacati. Alla fine, il risultato è che è impossibile cambiare il sistema e che l’equilibrio delle finanze pubbliche nei vari Paesi è a rischio. Oppure che si riesce a contenere il deficit provocato da pensioni e privilegi eccessivi sacrificando gli investimenti produttivi. In ogni caso, la situazione ristagna e la crescita ne viene inevitabilmente compromessa. Il rapporto di cambio eurodollaro si è costantemente deteriorato dalla nascita della moneta unica a oggi. Questa situazione è stata provocata dalla forza del dollaro o dalla debolezza dell’euro? L’euro è un po’ patetico e non credo proprio che, nelle attuali condizioni dell’Europa, potrà riuscire a diventare una

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moneta forte. Certo, tra qualche mese potrà riprendere quota rispetto al dollaro, ma sarà la conseguenza di un indebolimento del dollaro che a sua volta potrà risentire della correzione che si avrà inevitabilmente a Wall Street. L’economia americana corre dei rischi di surriscaldamento e di un ritorno dell’inflazione, come teme la Federal Reserve? I rischi sono minimi, ma la questione è di definire cosa è inflazione e cosa non lo è. Oggi si richiede un’inflazione che rimanga nel range 0-2% mentre in passato si riteneva accettabile un’inflazione attorno al 5-6%. E’ probabile che nei prossimi mesi negli

Stati Uniti l’inflazione salga dall’1,5 al 2% e questo innesca forti preoccupazioni in merito alla stabilità. Non a caso, la Federal Reserve ha aumentato i tassi d’interesse molto prima che si manifestassero dei veri segnali di ripresa dei prezzi, ma lo ha fatto in mezzo a molti contrasti perché non tutti sono d’accordo che ciò sia veramente necessario. Non dimentichiamo che Alan Greenspan aveva operato esattamente nello stesso modo fra il 1994 e il 1995, aumentando a più riprese i tassi d’interesse per contrastare una possibile ripresa dell’inflazione. Il risultato fu che non c’è stata inflazione, ma l’economia americana ha


registrato diversi trimestri di crescita molto lenta.

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Tra Europa e Stati Uniti vi sono molti motivi di contrasto sotto il profilo commerciale. Dopo le banane è scoppiata la questione dei cibi transgenici, poi quella della protezione dei dati e infine è risorta la questione dell’acciaio. Alla base ci sono certamente visioni diverse su alcuni dei problemi in discussione, ma anche il fatto che esiste un disavanzo commerciale americano che sfiora ormai i 300 miliardi di dollari. C’è un rischio di protezionismo Usa? Non credo proprio. A mio parere il protezionismo in America è morto, almeno per ora. Nessuno si mette ad agitare le questioni commerciali in una situazione di piena occupazione. Certo, ci può essere sempre qualche lobby particolarmente forte e attiva, come quella dell’acciaio, che ha portato a Washington qualche migliaio di dimostranti per ricordare al Congresso che l’industria dell’acciaio non è ancora estinta. Ma nessuno oggi ha un vero interesse a portare avanti politicamente una bandiera protezionista, perché non porta nessun ritorno di tipo elettorale e ormai siamo a un anno dalle elezioni presidenziali. A dicembre dovrebbe essere varato il nuovo negoziato globale della WTO (World Trade Organization), il Millennium Round. Cosa ci si può aspettare? La WTO è in un momento di difficoltà dopo l’uscita di Renato Ruggiero, e non sembra avere la coesione per portare avanti un negoziato troppo impegnativo. Perciò credo che verranno affrontate solo alcune problematiche minori, mentre i grossi problemi resteranno fuori. E’ comunque opportuno che si faccia partire un nuovo round in modo che tutti i Paesi continuino a rendersi conto dei vantaggi di un sistema commerciale multilaterale e aperto e dei costi connessi a un sistema chiuso e protetto, anche solo su scala regionale. Resta il fatto che problemi di vasta portata, come quelli degli Stati Uniti, non possono essere risolti con i negoziati commerciali, ma solo

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udiger Dornbusch has for many years been considered to be something of an “enfant terrible” in the select band of internationally renowned economists. He is above all known for his unconventional and often intelligently provocative opinions. arcVision met him in Boston for an interview that addressed the main issues facing the world economy.

operando sui meccanismi interni dell’economia. Alla base della globalizzazione dei mercati c’è la nuova network economy. In generale ritiene che l’economia elettronica rappresenterà un fattore di crescita su scala mondiale o di nuovi squilibri fra Paesi avanzati e Paesi arretrati? Sono convinto che l’information technology costituisca un’opportunità straordinaria per le economie dei Paesi emergenti. Equivale a una formidabile riduzione dei costi di trasporto e di circolazione delle informazioni e a un aumento altrettanto importante delle opportunità di accesso a mercati lontani. Anzi, arrivo a dire che quanto più un Paese è arretrato, tanto più potrà beneficiare dei vantaggi dell’information technology. I costi di entrata sono estremamente bassi, le informazioni circolano liberamente e domanda e offerta si possono incontrare molto più facilmente. Addirittura, determinati principi economici tradizionali e consolidati, come la legge dei ritorni decrescenti, vengono ribaltati dall’economia elettronica. In definitiva, le opportunità che emergono dalla nuova economia delle reti sono veramente eccezionali e potranno portare un contributo importante alla riduzione dei divari economici fra Paesi avanzati e Paesi arretrati. * Rudiger Dornbusch è considerato uno dei più importanti economisti contemporanei. Insegna al MIT di Boston, e il suo libro di testo Macroeconomics (scritto insieme a Stanley Fischer) è studiato nelle università di tutto il mondo. Dornbusch è membro del National Bureau of Economic Research e consigliere di importanti istituzioni come la Brookings Institution e l’Institute of International Economics, due dei più influenti “think tanks” di Washington.

1999 has been a year of slow growth for Europe while the U.S. boom has continued for the ninth straight year and shows no signs of slowing down. Asia, after two years of recession, appears to be recovering strongly and Japan also seems to be consolidating its position. Has the crisis that started in 1997 now finished, or does the weakness of Asian countries and the exposure of countries like Russia and Brazil still pose risks? The international situation has greatly improved compared to the worst moments of the 1997 financial crisis, although some countries, like Korea, Indonesia and Malaysia still have a lot of unsolved economic and political problems. There are no immediate dangers for Russia and the countries of Latin America, but the weaknesses that sparked the crisis of the previous year have not been remedied. We therefore have to be very careful in all these cases. But paradoxically the real risks facing us do not come from these countries but from the U.S. and from Japan. It’s true that the United States continues to grow at around 4%, but the Federal Reserve is piloting the economy towards a soft landing for fear of a possible return of inflation. However, this soft landing could become a crash landing if monetary policy becomes so excessively restrictive that Wall Street stagnates and the dollar falls. In Japan, the risks are even greater. The recovery during the past few months should not blind us to the fact that private investments and consumption are stagnating although interest rates are virtually zero. The Japanese government hopes to jumpstart the economy with a massive program of public spending. But this is a

shortsighted policy that could eventually bankrupt the country. Have the International Monetary Fund and Central Banks done enough to adjust the financial mechanisms that allowed the speculative bubble to form which ultimately led to the financial crisis? It’s not a question of too little being done. Absolutely nothing was done. Many people kid themselves into thinking that cases like that of the hedge fund LCTM (Long Term Capital Management) in the United States have been isolated and that Asian countries have been able to resume growth after just two years of recession. But they are wrong because in none of the cases have the reasons for the crisis been removed. It is not a question of setting up international supervisory and control mechanisms, perhaps under the auspices of the International Monetary Fund. In the first place, such mechanisms can’t be created, and in fact, no serious and credible suggestions on this subject have been made. In the second place, they would not work. The only solution is for every country and every financial institution to behave with greater discipline and not expose itself excessively without an adequate network of guarantees. The problems that we have in front of us are too great for us to be able to tackle them with regulatory mechanisms. If the American stock market is overvalued, the bubble will burst sooner or later and nobody will be able to do anything about it. If Japan sinks under the burden of its debts, nobody will be able to do anything about it. The only possibility is to adopt strict discipline inside each market. Countries that are managed intelligently will prosper, but countries that pursue foolish economic policies will lurch from one crisis to the next. Some people have blamed globalization of markets and deregulation; others have blamed the excessive mobility of capital that is made possible by the new computer technologies, especially networks. Are these criticisms justified? The fact that markets are now global must always be kept in


mind. The global economy with its technologies that enable information and impulses to be transmitted simultaneously to all markets is certainly a factor that should always be borne in mind because that is the way things will be from now on. Anyone who refuses to understand this, or thinks that we can go back to isolated compartmentalized markets is really out of touch with reality. At the same time, it must not be forgotten that globalization of markets and economies brings ever greater growth and prosperity. We must not give it up just because it brings with it the chance of greater financial risks. Careless use of cars and planes also cause injury and death, but they are not banned. Of course, we have to minimize risks and costs. But we can’t blame globalization for a financial crisis and forget the immense advantages that it brings everybody. We should remember that in 1930, the world abolished globalization almost completely. The result was that for fifty years we had recessions, nationalized economies, protectionism, as well as endless inefficiencies and distortions. There was certainly a lot of stability, but it was totally unproductive. The gap between growth rates in the U.S. and Europe is widening the whole time and the result is that the United States has created millions of jobs while in Europe there are more than 20 million unemployed. Does the American model of flexibility beat the conservative European welfare state model? I think that there is little doubt that the American model is the successful one, but I don’t think that it will be adopted in Europe, not in the near future at least. In Europe today there is a kind of consensus not to do anything at all. Neither Lafontaine’s or Thatcher’s way is being followed. The fact of the matter is that Europe is rich and despite a slowdown in the growth rate it will not encounter really serious difficulties. And without a period of great difficulties nobody is going to make the hard choices that are needed to deregulate the European economy and make it really competitive. The result will be that Europe will stay put with

no chance of growing at American rates. Remember, the United States has grown at almost 4 percent a year with full employment for four years running. So you think that without a crisis Europe will not take the unpopular measures that will enable it to be completely free of market forces? That’s exactly the point. Europe’s problem is that it needs to have the guts to make unpopular decisions. The basic problem is that in European countries there are groups that have too many privileges that they don’t want to lose. Too many people are paid for not working and therefore oppose any attempt at getting them with work. The labor unions defend only the interests of people with work and don’t care about what happens to those who have no work. Even companies help to maintain the system because they continue to manage power together with the unions. The final result is that it is impossible to change the system. This puts the stability of public finances in the different countries at risk. Consequently, the deficits created by pensions and excessive privileges are kept under control by sacrificing productive investments. In all cases, stagnation follows and growth is inevitably stunted. The euro has fallen continuously against the dollar since the single currency was introduced. Has this situation been brought about by the strength of the dollar or by the weakness of the euro? The euro is a little pathetic, and in the current European situation, I do not think that it will be able to become a strong currency. In a few months it may well gain some ground against the dollar, but this will be because the dollar has weakened in the wake of the downward adjustment that will inevitably occur on Wall Street. Is the American economy in danger of overheating or is it threatened by inflation, as the Federal Reserve fears? The risks are minimal, but we have to define what inflation is. Today, we require that inflation remain within the 0-2 percent range, while in the

past 5-6 percent was regarded as acceptable. During the next few months, the annual inflation rate in the United States is likely to rise from 1.5 to 2 percent, and will cause great concern about economic stability. It is no coincidence that the Federal Reserve increased interest rates well before the first signs of price rises occurred, but it did so in the face of considerable opposition from those who didn’t feel that it was strictly necessary. We must not forget that Alan Greenspan behaved in exactly the same way between 1994 and 1995, when he raised interest rates several times in order to prevent a return of inflation. The result was that inflation did not return, but the American economy grew very slowly during several quarters. There are many bones of contention between Europe and the United States regarding trade. After the banana war, the question of genetically modified foods flared up, then the question of data protection, and finally, there has been the question of steel. There are certainly different ways to look at the problems under discussion, but there is also an American trade deficit that amounts to almost US$ 300 billion. Is there a risk of American protectionism? I don’t think so. In my opinion, protectionism is dead in America, at least for now. Nobody starts agitating about the terms of trade when there’s full employment. Of course, there may still be some particularly vociferous and active lobby like the steel lobby, which brought a few thousand demonstrators to Washington to remind Congress that the steel industry is not dead yet. But nobody is really interested in waving a protectionist flag because it earns no votes and the presidential election is just a year off. A new global round of the WTO (World Trade Organization), the Millennium Round is scheduled for December. What should we expect? The WTO has been experiencing difficulty since Renato Ruggiero left, and it does not seem to have enough adhesion to engage in really conclusive negotiations. That is

why I believe that only minor issues will be addressed while major issues will be neglected. It is, nevertheless, a good idea to hold another round so that countries will become more aware of the advantages of an open multilateral trading system and of the costs of a closed and protected system. It nevertheless remains true that really great problems like the United States’ can’t be solved by commercial negotiations but only by adjusting the internal mechanisms of the economy. Behind the globalization of markets, there is the new electronic network economy. Generally speaking, do you think that electronic commerce is a world growth factor or that it will lead to new imbalances between advanced and backward countries? I am convinced that information technology is an extraordinary opportunity for the economies of emerging countries. It is the equivalent of a tremendous reduction in transportation and information transfer costs and just as important, it will open up distant markets. I would in fact go as far as to say that the more backward a country is, the more it can benefit from the advantages of information technology. The entry costs are extremely low and supply and demand can be much more easily matched. In fact, certain traditional, well-established economic principles like the law of diminishing returns are turned on their heads by the electronic economy. The opportunities that emerge from the new network economy are exceptional and can make important contributions to reducing the economic gap between advanced and backward countries. * Rudiger Dornbusch is considered to be one of the most important contemporary economists. He teaches at Boston’s MIT and his textbook Macroeconomics (written with Stanley Fischer) is studied in universities throughout the world. Dornbusch is a member of the National Bureau of Economic Research and a director of important institutions like the Brookings Institution and the Institute of International Economics, two of the most influential of Washington’s think tanks.

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Nuova cosmo-finanza New global finance di George Soros* by George Soros*

La crisi asiatica è terminata, ma dovremo evitare nuove turbolenze The Asian crisis is over, but we should avoid new turbulences

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George Soros

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a crisi finanziaria globale è ora ufficialmente finita. I mercati emergenti dell’Asia e dell’America Latina sono tornati ai loro momenti “ruggenti”. I mercati maturi al centro del sistema capitalista globale non hanno mai subito vere e proprie conseguenze negative, se non per un breve naufragio nell’autunno del 1998. L’economia globale ha subìto una battuta d’arresto e alcuni paesi hanno sofferto conseguenze devastanti, ma l’economia degli Stati Uniti si è andata sempre più rafforzando e ora vi sono chiari segnali di ricupero nel resto del mondo, in particolare in Asia. Se anche i mercati finanziari dovessero crollare ora, bisognerebbe parlare di una nuova crisi e non di un prolungamento di quella passata. All’apice della crisi si è parlato molto dell’architettura finanziaria globale e della necessità di una nuova Bretton Woods, e personalmente sono stato decisamente favorevole a questo tipo di dibattito. L’emergenza della riforma radicale è ormai passata e d’ora in poi lavoreremo ai dettagli. Per usare una

metafora di moda, aggiusteremo le tubature, piuttosto che procedere a una riprogettazione radicale. Voglio subito rendere chiaro che non sono in alcun modo contrario ad aggiustare le tubature. A mio parere, ogni progetto è destinato a fallire e un progetto tradizionale combinato con tubature moderne può offrire una soluzione molto attraente. Ma non dovremo trascurare l’architettura, perché la recente crisi ha portato alla luce alcune gravi debolezze strutturali e - ricorrendo a un’altra metafora è importante comprendere dove sono le crepe nelle pareti, prima di ricoprirle con della tappezzeria. Così facendo, ci ritroveremo in una posizione migliore per affrontare la prossima crisi. Vi è un certo numero di riforme che sono già state avviate o vengono attivamente prese in considerazione. La conseguenza è che i mercati finanziari globali non saranno mai più come sono stati in passato. Le riforme sono per la maggior parte auspicabili, ma alcune, soprattutto quelle mirate al “bail-in”dei prestatori, potrebbero rivelarsi

controproducenti. La mia convinzione è che le varie misure debbano essere collegate reciprocamente in un unico concetto coerente, al fine di renderle effettive. Mi concentrerò qui sul ruolo del FMI (Fondo Monetario Internazionale), perché è nel suo ambito che tali collegamenti devono essere realizzati. Vi è un ampio accordo sul fatto che nella recente crisi il FMI sia diventato altrettanto parte del problema di quanto sia stato parte della soluzione. Non vi è dubbio che il FMI abbia fatto diversi specifici errori di politica. Ha insistito sul taglio delle spese pubbliche, quando la causa dei problemi risiedeva nel settore privato, ha sottovalutato la gravità del contagio e nel caso dell’Indonesia ha causato una precipitosa corsa alle banche, facendone chiudere alcune senza prima mettere in atto un piano di garanzia dei depositi. Ma non è ciò che mi interessa. Il mio obiettivo è quello di identificare le carenze strutturali nel modo in cui il FMI ha operato, perché sono quelle che richiedono cambiamenti strutturali. Posso identificare due di tali carenze. Una consiste nella disparità tra la prevenzione della crisi e l’intervento successivo; l’altra consiste nella disparità tra il trattamento riservato ai prestatori e quello riservato ai mutuatari. Voglio sottolineare che la gestione del FMI non può essere incolpata di tutte le carenze, perché esse erano implicite nel sistema. Il compito primario del FMI è quello di salvaguardare il sistema finanziario internazionale. Il suo obiettivo è garantire che un Paese debitore sia in grado di adempiere ai propri obblighi

internazionali, se non in tempi immediati, almeno entro un futuro intravedibile. Le condizioni che esso impone al Paese debitore includono degli alti tassi di interesse punitivi, il cui doppio scopo è quello di stabilizzare i tassi di cambio e di creare un surplus commerciale scatenando una recessione. Entrambi questi sviluppi vanno indirettamente a beneficio dei prestatori, perché rendono più facile il rimborso dei debiti. Questo metodo di lavoro ha dato luogo a quello che ora viene ampiamente riconosciuto come un rischio morale. In caso di problemi, i prestatori possono contare sul fatto che il FMI metta in atto un’operazione di “bail-out” per loro; tendenzialmente ciò ha incoraggiato i prestatori internazionali a prestare in misura maggiore di quanto altrimenti avrebbero fatto. Il rischio morale può essere definito nel migliore dei modi come un’asimmetria nel trattamento riservato ai prestatori e ai mutuatari. C’è un’altra asimmetria nel modo in cui il FMI ha operato. Esso ha potuto intervenire solo nei momenti di crisi; non ha avuto alcuna facoltà di intervento per prevenire lo sviluppo di una crisi. Poiché l’esperienza ha mostrato che il miglior modo di prevenire le congiunture negative è quello di moderare i periodi di boom che le precedono, questo fatto si è rivelato una vera e propria fonte di problemi. Il FMI ha visto che in Tailandia stava fermentando una situazione problematica e - come ora sappiamo - ha messo in guardia le autorità tailandesi in modo inequivocabile, ma ha dovuto attendere fino a quando non è stato chiamato a intervenire.


Queste due asimmetrie, prese insieme, spiegano perché il FMI è diventato parte del problema. Nella recente crisi, il FMI ha imposto tassi d’interesse punitivi e i Paesi che ne sono stati oggetto sono sprofondati in una grave recessione. Ma quando la crisi ha minacciato gli Usa, la Federal Reserve ha abbassato i tassi d’interesse e l’economia Usa ne è uscita indenne. Prendiamo in considerazione i casi dei tre paesi asiatici, Tailandia, Indonesia e Corea. Tutti e tre hanno sofferto di uno squilibrio strutturale: il settore privato aveva preso in prestito troppo denaro in valuta pregiata senza coprirsi dai rischi e allo stesso tempo non disponeva di un capitale netto sufficiente. La svalutazione, quando è arrivata, ha aumentato il rapporto tra il debito estero e il capitale netto. Gli alti tassi d’interesse e l’improvviso crollo della domanda interna imposti dai programmi del FMI hanno aumentato ulteriormente l’onere del debito, mettendo in questione la solvibilità dei debitori. Quello di cui questi Paesi avevano bisogno era un modo per convertire il debito in capitale netto. Ma imporre una moratoria e acconsentire a un piano di conversione del debito in capitale netto avrebbe danneggiato in misura eccessiva le banche internazionali e i titolari di obbligazioni, il FMI quindi non ha potuto nemmeno prendere in considerazione una tale mossa. Di conseguenza ha proceduto con le abituali ricette, che hanno dato l’usuale risultato di sprofondare i Paesi nella recessione. La ricapitalizzazione delle aziende debitrici ha dovuto attendere fino a dopo che la

crisi avesse terminato il suo corso, cosa che sta avvenendo attualmente. Naturalmente, non sono l’unico a identificare queste carenze strutturali. Il rischio morale è diventato un argomento largamente dibattuto nella recente crisi. Vi è stata un’ondata di opposizione politica all’idea che fosse necessario impiegare fondi pubblici per salvare il settore privato. La pressione si è fatta così grande, che è diventato praticamente impossibile per il FMI mettere insieme un pacchetto d’emergenza che, in una maniera o nell’altra, non preveda il “bail-in” del settore privato. Cosa significhi esattamente “bailin”, in questo caso, rimane poco chiaro. Implica fare dei sacrifici assumendosi delle perdite o prendendo degli impegni a lungo termine. Il problema è che il settore privato non fa sacrifici senza addebitarli a qualcuno, così alla fine i costi vengono trasmessi ai mutuatari. Si tratta di un argomento che oggi è al centro di roventi polemiche. Il FMI sta ora utilizzando l’Ucraina come una cavia, imponendole di ristrutturare le proprie obbligazioni prima di ricevere assistenza dal FMI. Allo stesso tempo, le autorità hanno preso atto dell’importanza della prevenzione delle crisi. I vari sforzi per la messa a punto di standard e di “best practices”, soprattutto nel settore bancario, ma anche nella “corporate governance” e nelle politiche macroeconomiche e strutturali, puntano alla prevenzione, come nel caso delle Linee di Credito Contingenti recentemente introdotte dal FMI. Vi sono anche proposte per la

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creazione di migliori procedure di fallimento e di riorganizzazione volontaria e per modificare i termini dei contratti obbligazionari mediante l’introduzione di clausole di azione collettiva: tutto ciò aiuterà il processo di “bail-in”. Si può quindi vedere che le varie iniziative, mirate a migliorare il funzionamento del sistema finanziario globale, affrontano una o più delle disparità che ho identificato.

Le Linee di Credito Contingenti recentemente introdotte hanno perfino cominciato a creare un nesso diretto tra le due disparità. Il fatto di mettere delle agevolazioni a disposizione dei Paesi che seguono politiche solide, costituisce un incentivo proprio all’adozione di tali politiche. Io sono stato favorevole a una tale soluzione e la ritengo il più significativo passo in avanti fatto fino a oggi


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nell’architettura finanziaria globale. Sfortunatamente, sono pochi i Paesi che hanno dimostrato di essere interessati ad avvalersi di questa agevolazione. Ciò non è sorprendente se si tiene conto di un difetto inerente alla sua struttura. Per quanto riguarda la domanda, non vi è alcun limite generale di accesso qualora essa venga formulata a causa di circostanze eccezionali. Per quanto riguarda l’offerta, essa è limitata dalla mancanza di fondi. Alcuni fondi - i GAB e i NAB - sono disponibili solo per i Paesi che pongono un rischio sistemico e ciò lascia privi di difese i Paesi più piccoli, anch’essi esposti al contagio. Ritengo che affinché le Linee di Credito Contingenti abbiano senso sia necessario sostenerle con l’emissione di Linee di Prelievo Speciali. La fonte principale di confusione rimane il problema di provvedere a un “bail-in” del settore privato e si tratta di un’incertezza che può causare molti danni. Per esempio, nel caso del Brasile, sono state esercitate molte pressioni sul Governo brasiliano affinché costringesse le banche commerciali a mantenere le loro linee di credito nell’ambito del pacchetto di salvataggio. Il Brasile si è opposto al suggerimento, ma le banche hanno colto il messaggio e hanno ridotto le loro linee di credito fino a quando è stato possibile. Ciò è servito ad aggravare la crisi. Allo stesso tempo, ha anche reso più facile aggirarla, perché nel momento in cui il pacchetto è stato messo a punto, le banche internazionali erano largamente carenti di investimenti in Brasile. Ritengo che il miglior modo per eliminare l’incertezza sia quello di collegare tra di loro le misure mirate a correggere contemporaneamente le due disparità. Affrontandole separatamente, i vari sforzi di riforma risultano di valore discutibile. Per esempio, noi possiamo anche stabilire degli standard, ma come fornire degli incentivi che inducano i Paesi a uniformarsi a questi standard? Possiamo introdurre clausole di azione collettiva nei contratti obbligazionari, ma come possiamo evitare che gli investitori cambino uno

strumento ad alto rischio? Vogliamo premiare i Paesi che si uniformano ai nuovi standard, ma cambiando i termini dei contratti obbligazionari ci assumiamo la responsabilità di penalizzare i mutuatari che dovranno in conseguenza di ciò pagare tassi d’interesse più alti. La contraddizione potrebbe essere risolta creando un vincolo tra le prestazioni dei singoli Paesi e il tipo di assistenza che si possono attendere dal FMI. E’ questa la soluzione. In base alle riforme proposte di recente, il FMI è già impegnato nell’emissione di avvisi di informazione pubblica (PINS) successivi alle consultazioni conformi all’Articolo 4, i quali esprimono la valutazione del Fondo in merito allo stato di salute macroeconomica di un Paese e al suo grado di conformità agli standard e ai codici di condotta stabiliti. Propongo che il FMI faccia un passo più in là e dichiari che per i Paesi conformi agli standard richiesti, i programmi del FMI non implicheranno una ristrutturazione del debito, in modo tale che i titolari di obbligazioni non debbano temere il ricorso alle clausole di azione collettiva, se non nel caso di eventuali fallimenti di singole aziende. Ciò consentirebbe ai Paesi in questione di contrarre sui mercati prestiti a tassi inferiori. Fornirebbe inoltre un efficace incentivo all’adeguamento agli standard richiesti e consentirebbe al FMI di agire in maniera preventiva. La garanzia del FMI sarebbe limitata alle obbligazioni di emissione pubblica ed escluderebbe le linee di credito. La messa a disposizione delle banche di garanzie implicite è stato un elemento fondamentale dei problemi causati dalla recente crisi. Nel caso delle banche, l’elemento di stimolo di cui il FMI ha bisogno per prevenire l’originarsi delle crisi potrebbe essere fornito da una variazione dei requisiti di capitale previsti dall’accordo di Basilea sulla base di una graduatoria assegnata dal FMI. L’accordo di Basilea è attualmente in corso di revisione; questo meccanismo potrebbe essere integrato nelle norme riviste. Le due modifiche, prese nel

loro insieme, rappresenterebbero allo stesso tempo il bastone e la carota di cui il FMI ha bisogno per diventare un’istituzione efficace nella prevenzione delle crisi. Inoltre, le “carote” dovranno incoraggiare i prestiti a lungo termine e i “bastoni” dovranno scoraggiare quelli a breve termine. Si tratterebbe di uno sviluppo salutare. Penso che questa proposta sia più che corretta, ma nonostante questo ha incontrato una forte opposizione, perché agita lo spettro del rischio morale. Una garanzia del FMI non incoraggerebbe forse delle attività di prestito poco solide? Essa diminuirebbe

sicuramente il costo dei prestiti contratti, ma la garanzia non sarebbe incondizionata. Un Paese potrebbe retrocedere in classifica se non dovesse rispettare gli standard oppure se dovesse superare determinati limiti di contrazione di prestiti, e inoltre non potrebbe emettere obbligazioni aggiuntive con la sicurezza che non si produca un ricorso alla clausola di azione collettiva. E’ stato osservato che le conseguenze di una retrocessione sarebbero così disastrose che il FMI non oserebbe mai andare fino in fondo, oppure, se lo facesse, potrebbe causare proprio la crisi che si presumeva volesse prevenire. Ma il FMI è istituzionalmente interessato alla prevenzione delle crisi e fare retrocedere un Paese prima piuttosto che dopo ridurrebbe il rischio di una crisi. E’ stato inoltre obiettato che una distinzione tra Paesi idonei e quelli che non lo sono creerebbe una discontinuità eccessiva. Ma la discontinuità potrebbe essere ridotta introducendo criteri

flessibili, per esempio distinguendo tra Paesi per i quali verrà richiesta una riorganizzazione del debito, e Paesi in cui essa verrà tollerata, ma non richiesta, e Paesi in cui invece non verrà tollerata. Anche i requisiti di capitale potranno essere oggetto di una classificazione per gradi. Rimane tuttavia il fatto che un piccolo elemento di rischio morale non potrà mai essere evitato. Il rischio morale è implicito nelle operazioni di qualsiasi prestatore di ultima istanza. La misura che propongo - stabilire un nesso tra le prestazioni dei singoli Paesi e il tipo di assistenza che essi si possono attendere dal FMI non è certo rivoluzionaria. E proprio per questo è ancora più strano che abbia incontrato un’opposizione così forte. I rischi morali di qualsivoglia tipo sono diventati inaccettabili. Ma l’attuale campagna contro il rischio morale è solo una scusa per opporre resistenza a ogni tipo di interferenza con i meccanismi di mercato. Questa resistenza si basa sulla falsa dottrina della nostra era, cioè quella secondo la quale i mercati finanziari tendono automaticamente verso l’equilibrio. Fatto da cui consegue che non vi è alcun bisogno di interferire perché i mercati correggeranno da soli i propri eccessi. La crisi finanziaria globale avrebbe dovuto dimostrare quanto questo punto di vista sia falso, ma paradossalmente essa può essere anche usata per rafforzare la dottrina. Dopo tutto, il FMI non ha dato buona prova di sé, al contrario dei mercati, che si sono ripresi. Ritengo questo punto di vista allo stesso tempo falso e pericoloso. Vorrei giustapporre qui allo slogan del rischio morale, lo slogan del campo di gioco equo. Il campo di gioco della finanza globale è tutto fuorché equo, se si tiene presente che i tassi d’interesse in periferia sono molto più alti che al centro. Può anche darsi che sotto quella che veniva percepita come la protezione del FMI, troppe risorse siano passate dal centro alla periferia, scatenando la crisi dalla quale solo ora cominciamo a riprenderci. Ma ora stiamo andando verso l’estremo opposto. La maggior parte delle misure


di riforma attualmente allo studio sono state messe a punto per scoraggiare flussi di capitale eccessivi. Di conseguenza ora vi è il nuovo pericolo che per i Paesi della periferia si venga a creare una disponibilità di capitali finanziari eccessivamente limitata e che i differenziali dei tassi d’interesse rimangano di gran lunga troppo alti. La disparità nel costo dei capitali - sia nella forma di debito, che in quella di capitale netto incoraggerà l’acquisizione di aziende nazionali da parte delle multinazionali, sia nel settore industriale che in quello dei servizi finanziari. La nuova architettura che emerge dopo la crisi tende a rendere più difficile per le aziende nazionali dei Paesi della periferia la competizione con le multinazionali. Prendiamo un esempio recente: nella privatizzazione della società petrolifera statale argentina YPF, la società spagnola Repsol ha potuto facilmente battere con la sua offerta gli acquirenti argentini perché ha avuto la possibilità di contrarre prestiti a costi di gran lunga inferiori, e alla fine ha potuto acquisire l’intera società. Attualmente, gli investimenti diretti vengono considerati la forma più virtuosa di investimenti internazionali e certamente essi hanno il merito di essere più stabili di qualsiasi portafoglio di investimenti o dei prestiti a breve termine. Ma hanno anche i loro svantaggi e possono incontrare resistenze politiche non indifferenti, soprattutto se vengono attuati su un campo di gioco non equo. Nel sistema capitalista globale, così come è oggi strutturato, il centro ha già troppi vantaggi sulla periferia. Coloro che sono responsabili dell’architettura globale dovrebbero lavorare per ridurre la disparità, e non per aumentarla. Quando il terreno è per sua natura iniquo, per creare un campo di gioco equo è necessario un intervento ufficiale. Il rischio morale è diventato una parola in codice per opporsi a questo tipo di intervento. Ritengo che non lo si debba consentire. La creazione di un campo di gioco equo dovrebbe essere una priorità decisamente maggiore, perché il pericolo sistemico reale che minaccia il

sistema capitalista globale è di carattere politico. La crescente ondata di nazionalismo può essere contenuta solo diffondendo maggiormente e in maniera più equa i benefici del capitalismo globale. La proposta che ho delineato qui è un passo molto modesto nella direzione giusta. Per questo è ancora più deplorevole che incontri un’opposizione così forte. Mi sono concentrato su un’area problematica molto ristretta, perché avevo da dare un suggerimento molto pratico. Guardando a orizzonti più vasti, desidererei ora terminare con la seguente riflessione. Le misure di riforma attualmente in corso garantiranno che non assisteremo a una ripetizione della crisi appena superata, così come la Linea Maginot, realizzata secondo i codici della Prima Guerra Mondiale non ha difeso i francesi dalla Seconda. La prossima crisi arriverà necessariamente da un’altra direzione. La recente crisi è stata unica nel suo genere, perché non è stata scatenata da un aumento dei tassi d’interesse o da un calo di Wall Street. La prossima prova che dovremo affrontare arriverà sicuramente con il verificarsi di uno di questi eventi. La recente crisi ha dimostrato che disponiamo di un meccanismo molto efficiente, la Federal Reserve, per iniettare liquidità nel centro, ma decisamente inadeguato per iniettare liquidità nei Paesi della periferia. E’ questo il problema che deve essere risolto per rendere il sistema capitalista globale più accettabile e più duraturo. * George Soros è nato a Budapest, in Ungheria, nel 1930. E’ emigrato nel 1947 in Inghilterra, dove si è diplomato presso la London School of Economics, e nel 1956 negli Stati Uniti, dove ha cominciato ad accumulare un’ampia fortuna attraverso un fondo d’investimento internazionale da egli stesso fondato e gestito. Mentre era studente presso la London School of Economics, Soros è venuto a contatto con l’opera del filosofo Karl Popper, che ha profondamente influenzato il suo pensiero e successivamente le sue attività filantropiche. Soros ha dato vita alla sua prima fondazione, la Open Society Fund, a New York nel 1979, alla quale hanno fatto seguito la sua prima fondazione per l’Europa orientale, in Ungheria nel 1984, e la Fondazione Soros-Unione Sovietica nel 1987. Attualmente finanzia una rete di fondazioni che opera in 31 paesi dell’Europa centrale e orientale, dell’ex Unione Sovietica e dell’Eurasia centrale, nonché in Sudafrica, ad Haiti, in Guatemala e

negli Stati Uniti. Tali fondazioni si dedicano alla costruzione e al mantenimento dell’infrastruttura e delle istituzioni di una società aperta. Soros ha inoltre fondato altre istituzioni di rilievo, come la Central European University e la International Science Foundation. Nel 1994, le fondazioni della rete hanno speso circa 300 milioni di dollari, nel 1995, 350 milioni di dollari e nel 1996, 362 milioni di dollari. Oltre ai molti articoli sui cambiamenti politici ed economici nell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, Soros è l’autore di The Alchemy of Finance, pubblicato da Simon & Schuster nel 1987 e ripubblicato nel 1994 da John Wiley & Sons; di Opening the Soviet System, pubblicato da Weidenfeld & Nicholson nel 1990; di Underwriting Democracy, pubblicato da The Free Press nel 1991; e di Soros on Soros: Staying Ahead of the Curve, pubblicato nel settembre 1995 da John Wiley & Sons. Il libro più recente di Soros, The Crisis of Global Capitalism, è stato pubblicato nel novembre 1998 da Public Affairs. Soros ha ricevuto dottorati ad honorem dalla New School for Social Research, dall’Università di Oxford, dall’Università di Economia di Budapest e dalla Yale University. Nel 1995, l’Università di Bologna ha insignito Soros del suo titolo più alto, la Laurea Honoris Causa, in riconoscimento dei suoi sforzi per promuovere società aperte in tutto il mondo. Soros è presidente del Soros Fund Management LCC, una società per la gestione di investimenti privati che svolge la funzione di principale consulente per gli investimenti del Quantum Group of Funds. Il Quantum Fund N.V., il fondo storico e più grande all’interno del Quantum Group, viene generalmente apprezzato come il fondo di investimento che ha accumulato il miglior curriculum di prestazioni del mondo nel corso dei suoi 28 anni di vita. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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he global financial crisis is now officially over. Emerging markets in Asia and Latin America have come roaring back. The mature markets at the center of the global capitalist system were never really hurt, except for a brief sinking spell in the fall of 1998. The global economy did suffer a setback and some countries were devastated, but the U.S. economy went from strength to strength and there are now clear signs of recovery in the rest of the world, particularly Asia. Even if financial markets were to collapse now, it would have to be called a new crisis, not an extension of the old one. At the height of the crisis there was a lot of talk about the global financial architecture and the need for a new Bretton Woods, and I was very much in favor of those discussions. The urge for radical reform has now subsided and from now on we shall work on the details. To use a fashionable metaphor, we shall fix the

plumbing rather than work on a radically new design. I want to make it clear that I am in no way opposed to fixing the plumbing. In my view every design is bound to be flawed and traditional design combined with modern plumbing can provide very attractive accommodation. But we should not forget about the architecture because the recent crisis has revealed some serious structural weaknesses and - mixing my metaphors - it is important to understand where the cracks in the wall are before we paper them over. This will put us in a better position to deal with the next crisis. A number of reforms have already been introduced or are under active consideration. As a result, global financial markets will never be quite the same as they were before. Most of the reforms are desirable, although some, particularly those concerned with “bailing in” the lenders, could turn out to be counterproductive. I contend that the various measures need to be linked together into a coherent concept in order to make them effective. I shall focus on the role of the IMF (International Monetary Fund) because that is where the linkage needs to be made. There is widespread agreement that in the recent crisis the IMF became as much a part of the problem as part of the solution. No doubt the IMF made several specific policy mistakes. It insisted on cutting public expenditures when the cause of the trouble was in the private sector, it underestimated the severity of the contagion and in the case of Indonesia it precipitated a run on the banks by closing some banks without first putting a deposit insurance scheme in place. But that is not what I am interested in. My aim is to identify the structural deficiencies in the way the IMF was operating because they are the ones that require structural changes. I can identify two such deficiencies. One is a disparity between crisis prevention and intervention; the other is a disparity in the treatment of lenders and borrowers. I want to emphasize that the management of the IMF

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cannot really be blamed for either deficiency because they were built into the system. The primary mission of the IMF is to preserve the international financial system. Its task is to ensure that a debtor country will be able to meet its international obligations, if not right away, then within the foreseeable future. The conditions it imposes on the debtor country include punitively high interest rates, which serve the dual purpose of stabilizing exchange rates and creating a trade surplus by precipitating a recession. Both developments indirectly benefit lenders because they facilitate the repayment of debts. This method of operation has given rise to what is now recognized as a moral hazard. In case of trouble, lenders could count on the IMF to bail them out; this has tended to encourage international lenders to lend more than they would have otherwise. Actually, the moral hazard is better described as an asymmetry in the treatment of lenders and borrowers. There is another asymmetry in the way the IMF has been operating. It could intervene only in times of crisis; it had no authority to prevent a crisis from developing. Since experience has shown that busts are best prevented by moderating the booms that precede them, this has been an invitation for trouble. The IMF could see trouble brewing in Thailand and - as we now know - it warned the Thai authorities in no uncertain terms; but it had to wait until it was called upon to intervene. These two asymmetries, taken together, explain why the IMF has become part of the problem. In the recent crisis, the IMF imposed punitive interest rates and the countries concerned were plunged into deep recession. But when the crisis threatened the U.S., the Federal Reserve lowered interest rates and the U.S. economy escaped unscathed. Let’s take a look at the three Asian countries, Thailand, Indonesia and Korea. All three suffered from a structural imbalance: the private sector had borrowed too much money in hard currency without hedging it, and it did not have enough equity.

Devaluation, when it came, increased the ratio of foreign debt to equity. The high interest rates and the sudden collapse in domestic demand imposed by the IMF programs increased the burden of debt even further, bringing the solvency of the debtors into question. What these countries needed was a way to convert debt into equity. But to impose a moratorium and allow for a debt to equity conversion scheme would have hurt the international banks and bondholders too much and the IMF could not even contemplate such a move. So it proceeded with the usual prescriptions with the usual result of plunging the countries into recession. The recapitalization of the debtor companies had to wait until after the crisis has run its course. It is taking place currently. I am, of course, not the only one to identify these structural deficiencies. Moral hazard has become a big issue in the recent crisis. There has been a groundswell of political opposition to the idea that public funds should be used to bail out the private sector. The pressure is so great that it has become practically impossible for the IMF to put together a rescue package without “bailing in” the private sector in some way or another. Exactly what “bailing in” means remains unclear. It involves making some sacrifice by taking losses or making long-term commitments. The trouble is that the private sector does not make sacrifices without charging for it so in the end the costs will be passed on to the borrowers. This is the most hotly debated subject today. The IMF is now using the Ukraine as a guinea pig requiring it to restructure its bonds before receiving IMF assistance. At the same time the authorities have recognized the importance of crisis prevention. The various endeavors to establish standards and best practices, particularly in banking but also in corporate governance and macro and structural policies aim at prevention; so do the Contingent Credit Lines recently introduced by the IMF. Then there are proposals for establishing better bankruptcy and voluntary reorganization

procedures and for changing the terms of bond contracts and introducing collective action clauses: these would help the “bailing in” process. So it can be seen that the various initiatives to improve the functioning of the global financial system address one or the other of the disparities I have identified. The recently introduced Contingent Credit Lines have even begun to link the two disparities together. Making the facility available to those countries which follow sound policies provides an incentive for them to do so. I have been advocating such a facility and I consider it the most significant advance in the

global financial architecture to date. Unfortunately few countries have indicated an interest to avail themselves of the facility. This is not surprising in view of an inherent flaw in its construction. On the demand side, there is no general access limit when warranted by exceptional circumstances. The supply side is constrained by the lack of funds. Certain funds - the GAB and the NAB - are available only for countries which pose a systemic risk and this leaves smaller countries which are also exposed to contagion out in the cold. I think the Contingent Credit Lines to be meaningful need to be backed by an issue of Special Drawing Lines. The main area of confusion remains the issue of “bailing in” the private sector and the uncertainty can be very harmful. For instance, in the case of Brazil, there was a lot of pressure on the Brazilian government to force the commercial banks to maintain their credit lines as part of the rescue package. Brazil resisted the suggestion but the banks

saw the handwriting on the wall and reduced their credit lines while they could. This served to deepen the crisis. On the other hand, it has also made it easier to turn it around because by the time the package was put together, the international banks were severely underinvested in Brazil. I contend that the uncertainty could be best removed by linking the measures aimed at correcting two disparities together. Taking them separately, the various reform efforts are of questionable value. For instance, we may establish standards, but how can we provide incentives that would induce countries to abide by those standards? We may introduce collective action clauses into bond contracts, but how can we avoid investors changing a hefty risk premium? We want to reward countries which abide by the newly established standards but by changing the terms of bond contracts we are liable to penalize the borrowers who will then have to pay higher interest rates. The contradiction could be resolved by linking the performance of individual countries to the kind of assistance they can expect from the IMF. This is how it would work. Under the recently proposed reforms, the IMF is already committed to issue Public Information Notices or PINS subsequent to Article 4 consultations, giving its assessment of a country’s macro-economic health and its degree of conformity to established standards and codes of conduct. I propose that the IMF should go a step further and declare that in the case of those countries which meet the required standards, IMF programs would not involve debt restructuring, so that bondholders need not fear that the collective action clauses would be invoked except in the case of individual companies failing. This would enable the countries concerned to borrow in the markets at cheaper rates. It would provide a powerful incentive to meet the required standards and it would enable the IMF to act in a preventive manner. The IMF assurance would be confined to publicly issued bonds and it would exclude


bank lines. Providing banks with implicit guarantees has been at the core of the trouble in the recent crisis. In the case of the banks, the leverage that the IMF needs in order to prevent crises from developing could be provided by varying the capital requirements under the Basle accord according to the grade awarded by the IMF. The Basle accord is under review; this could be incorporated in the revised regulations. The two changes taken together would provide both the sticks and the carrots the IMF needs in order to become an effective institution for crisis prevention. Moreover, the carrots would encourage long-term lending and the sticks discourage short-term lending. This would be a healthy development. I believe this proposal makes eminent sense, yet it has run into heavy opposition, because it raises the specter of moral hazard. Wouldn’t an IMF guarantee encourage unsound lending? It would certainly lower the cost of borrowing but the guarantee would not be unconditional. A country could be downgraded if it slips from the standards or exceeds certain limits on its borrowing and it could not issue additional bonds with the assurance that the collective action clause would not be invoked. It has been suggested that the consequences of disqualification would be so dire that the IMF would not dare to follow through with it, or, if it did, that may precipitate the crisis it was supposed to prevent. But the IMF has an institutional interest in preventing crises and downgrading a country sooner rather than later would reduce the risk of a crisis. It has also been objected that a distinction between countries that qualify and those that do not would create too much of a discontinuity. But the discontinuity could be moderated by introducing gradations, for instance by distinguishing between countries where debt reorganization would be required, where it would be tolerated but not required, and where it would not be tolerated. Capital requirements would also be graduated. But the fact

remains that a small element of moral hazard cannot be avoided. Moral hazard is implicit in the operation of any lender of last resort. The measure I am proposing - linking the performance of individual countries to the kind of assistance they can expect from the IMF - is hardly revolutionary. It is all the more remarkable that it has run into such heavy opposition. Moral hazard of any kind has become unacceptable. But the current campaign against moral hazard is just an excuse for resisting any kind of interference with the market mechanism. This resistance is based on the false doctrine of our age, namely that financial markets automatically tend towards equilibrium - from which it follows that there is no need to interfere because markets will correct their own excesses. The global financial crisis should have given the lie to this point of view but in a funny way it can also be used to reinforce the doctrine. After all, the IMF has not done well but the markets have recovered. I regard this point of view as both false and dangerous. I should like to juxtapose to the slogan of moral hazard the slogan of a level playing field. The playing field of global finance is anything but level when interest rates at the periphery are so much higher than they are at the center. Perhaps under the perceived protection of the IMF too much money has flown from the center to the periphery, precipitating the crisis from which we are just now beginning to recover. But we are now swinging to the opposite extreme. Most of the reform measures currently contemplated are designed to discourage excessive capital flows. As a result the new danger is that there will be too little financial capital available to the periphery countries and interest rate differentials will remain much too high. The disparity in the cost of capital - both in the form of debt and equity - will encourage the acquisition of domestic companies by multinationals - both in industry and in financial services. The new architecture emerging after the crisis tends to make it more difficult for domestic companies in periphery

countries to compete with multinationals. Let’s take a recent example: in the privatization of the state owned Argentine oil company YPF, the Spanish company Repsol could easily outbid Argentine buyers because it could borrow much cheaper and eventually it could take over the entire company. At present, direct investment is considered the most virtuous form of international investment and it certainly has the merit of being more stable than either portfolio investment or short-term lending. But it has its drawbacks and it may well run into political resistance, especially if it takes place on an uneven playing field. In the global capitalist system as it is currently constituted the center has already too many advantages over the periphery. Those who are responsible for the global architecture ought to exert themselves to reduce the disparity rather than to increase it. When the ground is naturally uneven, creating a level playing field does require official intervention. Moral hazard has become a code word for resisting it. I think it should not be allowed to dominate the discourse. Creating a level playing field should rank much higher as a priority because the real systemic danger facing the global capitalist system is political in character. The rising tide of nationalism can be contained only by spreading the benefits of global capitalism more evenly. The proposal I have outlined here is a very modest step in the right direction. It is all the more regrettable that it is running into such heavy opposition. I have focussed on a very narrow problem area because I had a very practical suggestion to make. Taking a larger view I should like to end with the following thought. The reform measures currently undertaken will ensure that we shall not have a repetition of the crisis we have just endured - much as the Maginot Line protected France in the Second World War against the conditions that prevailed in the First World War. But the next crisis is bound to originate from a different direction. The recent crisis was unique in the sense that it was not precipitated by a rise in interest rates or a

decline in Wall Street. The next test is liable to come when one of those events occurs. The recent crisis has shown that we have a very efficient mechanism for injecting liquidity at the center, namely the Federal Reserve, but a very inadequate one for injecting liquidity into the countries at the periphery. That is the problem which needs to be solved in order to make the global capitalist system more acceptable and more enduring.

* George Soros was born in Budapest, Hungary in 1930. He emigrated in 1947 to England, where he graduated from the London School of Economics, and in 1956 to the United States, where he began to accumulate a large fortune through an international investment fund he founded and managed. While a student at the London School of Economics, Soros became familiar with the work of the philosopher Karl Popper, who had a profound influence on his thinking and later on his philanthropic activities. Soros established his first foundation, the Open Society Fund, in New York in 1979, his first Eastern European foundation in Hungary in 1984, and the Soros Foundation-Soviet Union in 1987. He now funds a network of foundations that operate in 31 countries throughout Central and Eastern Europe, the former Soviet Union and Central Eurasia, as well as South Africa, Haiti, Guatemala, and the United States. These foundations are dedicated to building and maintaining the infrastructure and institutions of an open society. Soros has also founded other major institutions, such as the Central European University and the International Science Foundation. In 1994, the foundations in the network spent approximately $300 million; in 1995, $350 million; and in 1996, $362 million. In addition to many articles on the political and economic changes in Eastern Europe and the former Soviet Union, Soros is the author of The Alchemy of Finance, published by Simon & Schuster in 1987 and republished in 1994 by John Wiley & Sons; Opening the Soviet System, published by Weidenfeld & Nicholson in 1990; Underwriting Democracy, published by The Free Press in 1991; and Soros on Soros: Staying Ahead of the Curve, published by John Wiley & Sons in September 1995. Soros’s most recent book, The Crisis of Global Capitalism, was published in November 1998 by Public Affairs. Soros has received honorary doctoral degrees from the New School for Social Research, the University of Oxford, the Budapest University of Economics, and Yale University. In 1995, the University of Bologna awarded Soros its highest honor, the Laurea Honoris Causa, in recognition of his efforts to promote open societies throughout the world. Soros is chairman of Soros Fund Management LCC, a private investment management firm that serves as principal investment advisor to the Quantum Group of Funds. The Quantum Fund N.V., the oldest and largest fund within the Quantum Group, is generally recognized as having the best performance record of any investment fund in the world in its 28-year history.

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Convivere con le crisi Living with crises Intervista a Paolo Scaroni* Interview with Paolo Scaroni*

Per il presidente della Pilkington le turbolenze finanziarie fanno parte della nostra realtà. Occorre affrontarle e trasformarle in opportunità For the chairman of Pilkington, financial turbulence is part of today’s reality. It must be faced and turned into opportunities

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Paolo Scaroni

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on 10 mila miliardi di fatturato e 35 mila dipendenti in tutto il mondo, la Pilkington è uno dei grandi players mondiali nel campo del vetro. E Paolo Scaroni ne è dal 1996 il presidente e amministratore delegato su scala mondiale. Nella sua lunga carriera professionale, Scaroni ha accumulato una vasta esperienza nella gestione di imprese complesse, con operazioni su scala multinazionale. arcVision lo ha intervistato per conoscere il suo punto di vista su temi, sia di grande rilevanza economico-finanziaria, sia specificamente riferiti alla sua esperienza attuale a capo di un’impresa globale. Quali problemi ha provocato a una multinazionale come la Pilkington la crisi finanziaria scoppiata in Asia nel 1997 e che si è poi estesa a Russia e Brasile nell’anno successivo? La Pilkington in Asia ha una presenza produttiva limitata, mentre è molto presente in termini commerciali, per cui è in questa seconda area che abbiamo avvertito le conseguenze più serie. In particolare, sono crollati due

mercati per noi molto importanti, quello del vetro per l’elettronica e quello relativo al settore aerospaziale. Nello stesso tempo, i produttori di vetro dell’Estremo Oriente hanno cercato di compensare la crisi interna con esportazioni molto aggressive, basate su taglio di prezzi e dumping, sui mercati dell’Europa, degli Stati Uniti, del Sud America e dell’Australia, tutte zone dove Pilkington opera in modo intenso. Questa crisi è sostanzialmente finita, sia perché i mercati asiatici hanno iniziato a riprendersi, sia perché è ormai in calo l’export di vetro dall’Asia verso l’Europa e gli Stati Uniti. Per noi la crisi ha avuto, dunque, un impatto serio ma comunque già virtualmente esaurito. Chi invece ne ha sofferto e continuerà a soffrirne sono i tre grandi produttori giapponesi, cui la crisi finanziaria ha prodotto conseguenze gravissime sul piano della corporate finance. Per loro la crisi non è ancora finita. Infine, per quanto concerne l’America Latina, il peggio si è verificato tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999. Per Pilkington il punto principale di crisi è stato il

Brasile, dove la svalutazione del real si è tradotta in una perdita valutabile in circa 15 milioni di sterline. Sotto il profilo commerciale, il mercato dell’auto in Brasile e Argentina ha registrato un calo drammatico, nell’ordine del 50%, e non si è ancora ripreso. Sono peraltro molto ottimista sulle capacità di recupero del Brasile, mentre mi preoccupa maggiormente l’Argentina, il cui legame con il dollaro può rivelarsi molto costoso, a meno che non decida di allentare i legami con il Mercosur. In che modo vi cautelate rispetto a nuovi possibili eventi come questi? Io parto da un principio di buon senso, perché ritengo che un’azienda globale come Pilkington non possa sperare che il sole continui a splendere sempre in tutte le aree in cui opera, perciò credo che da qualche parte dovremo sempre affrontare delle crisi. Nell’insieme noi teniamo la nostra contabilità in dollari e in sterline, ma riteniamo di indebitarci, quando occorre, nella valuta locale del Paese in cui operiamo. Certo, in caso di svalutazione questo ci espone a dei rischi soprattutto in relazione al capitale circolante, ma sono danni limitati e relativamente sopportabili. Ma la contropartita viene dagli utili che è possibile realizzare in questi mercati sul lungo termine, dato che hanno un tasso di crescita superiore. Ad esempio, in Argentina e Brasile operiamo da cinquant’anni, un periodo nel quale in questi Paesi è successo di tutto, dai golpe alle guerre. Ma i nostri tassi di profitto sono stati altissimi, come in nessun altro Paese. Perciò, vale la pena assumersi dei rischi rispetto a possibili crisi ricorrenti.

Dalla sua introduzione il 4 gennaio 1999 in poi l’euro si è progressivamente indebolito contro il dollaro, anche se in estate ha dato segni di ripresa. Come è cambiata, rispetto alle originarie attese, la problematica di gestione della Pilkington con la moneta unica europea? Innanzitutto, la novità è che nel settore auto europeo abbiamo preso a fatturare con prezzi in euro, perché così ci hanno chiesto i nostri clienti. Ci attendiamo che questa richiesta ci arrivi quanto prima anche dai nostri clienti nel settore edilizio, certo con qualche ritardo rispetto al settore auto a causa della composizione particolare di questo settore che vede un gran numero di imprese di limitate dimensioni. Ma non cambierà molto, perché nel settore edilizio comunque il vetro per l’edilizia aveva già da 15 anni un prezzo europeo vicino ai 5 marchi al metro quadro. Ora si trasformerà in prezzi in euro, con scarse conseguenze. Certo, se l’euro si indebolisce contro il dollaro e contro la sterlina qualche effetto negativo lo abbiamo, perché le entrate tradotte in sterline diminuiscono e perché i prodotti del continente diventano più concorrenziali rispetto a quelli fabbricati in Inghilterra. Ritiene possibile e auspicabile un rafforzamento delle istituzioni economiche e finanziarie dell’Europa, come premessa per una sempre maggiore coesione politico-istituzionale? Lo ritengo possibile ma, soprattutto, auspicabile. Penso che la moneta unica sia la colla dell’unione politica. Se così non fosse, nulla potrebbe stare in piedi. Una moneta


unica può esistere solo in quanto vi siano politiche economiche, fiscali e commerciali coerenti che diano gradualmente vita a politiche istituzionali comuni. Altrimenti, la stessa moneta unica non ha più ragione d’essere. E credo che proprio per questo motivo, ossia per la prospettiva di un’Unione Europea sempre più coesa sotto il profilo politico, che la Gran Bretagna non entrerà nell’euro, o quantomeno non ci entrerà a breve. Nessuno, in Inghilterra, è disposto a farsi governare da qualche burocrate di Bruxelles. E’ esattamente l’opposto di quanto accade in Italia, dove molti sognano di avere dei tedeschi o degli inglesi che ci costringano a fare ciò che è meglio. Ma neppure l’inglese più favorevole all’Europa si sente a suo agio all’idea di un Governo europeo che stia sopra al Governo britannico. Ci sono almeno 15 Paesi che vorrebbero entrare a fare parte dell’Unione Europea. L’allargamento potrà portare dei vantaggi o rischierà di compromettere l’intero progetto europeo? A mio parere c’è un forte rischio che l’allargamento possa compromettere il progetto di rafforzamento dell’Unione Europea. Proprio perché si tratta di un’unione che tende a passare dall’unità economico-finanziaria a una unità politica, l’ingresso di realtà non omogenee non può che ritardare il processo. Se entra, ad esempio, un Paese come la Polonia, che ha forti problemi e forti interessi sia in campo agricolo che industriale, occorrerà dedicare molto tempo e risorse per un’integrazione che potrebbe richiedere anni. Non dimentichiamo che, in passato, tutte le volte che

sono entrati nella Comunità nuovi Paesi membri, il processo di integrazione ha subìto rallentamenti. Perciò, prima occorre concludere il processo di unificazione con i membri attuali, poi si potrà pensare ad allargare a nuovi Paesi. L’Europa cresce meno dell’America e non crea nuovi posti di lavoro, mentre in dieci anni negli Usa ne sono stati creati oltre 20 milioni. Questo significa che per competere l’Europa dovrà adottare il modello americano di flessibilità e liberalizzazione spinta? Vorrei premettere due osservazioni. La prima, forse un po’ paradossale, è che non necessariamente il 10% di disoccupazione in Europa è un male sul quale disperarsi. Infatti, Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia producono molta ricchezza e non mi stupisce che a produrla siano sempre meno persone. In futuro, probabilmente il 5% della popolazione creerà il 95% della ricchezza nazionale. Gli altri beneficiano indirettamente di questa ricchezza, grazie ai trasferimenti e alla ridistribuzione garantita dallo Stato in modi diversi. La seconda osservazione è che il modello americano è del tutto logico negli Stati Uniti, dove ci sono determinate condizioni sociali e territoriali, ma non lo è altrettanto in Europa, dove le condizioni sono diverse. Quello che è auspicabile è che l’Europa introduca maggiori flessibilità specie nel mercato del lavoro, e questo mi pare che si inizi a vedere, ma non credo che ci avvicineremo molto al modello americano. Sotto il profilo tecnologico l’Europa, e soprattutto l’Italia, è in grande ritardo

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rispetto agli Usa. Il gap è evidente nell’information technology ma anche nelle tecnologie di rete, in Internet e nell’E-Commerce. E’ possibile colmare questo nuovo distacco, che rischia di costare molto in termini di competitività delle imprese e di crescita economica? Non so se sia possibile, in effetti, ma certo è sperabile perché è indispensabile. Ogni Paese europeo è, peraltro, un po’ un caso a sé. L’Italia è certamente in estremo ritardo, sia nell’introduzione delle tecnologie informatiche, di telecomunicazione e di rete, sia nell’educazione dei giovani e dei lavoratori in genere in queste nuove tecnologie. E questo rischia di provocare un danno rilevante in termini di competitività delle imprese, ma anche in termini di vantaggi dei consumatori, che non potranno approfittare dei grandi benefici di un fenomeno come l’E-Commerce. In Italia c’è poco e, oltre a tutto, quello che c’è è straniero e dunque va a vantaggio di imprese di altri Paesi. Occorrerebbe che politici, sindacati e gli stessi cittadini si ponessero come priorità le information

technologies, invece di puntare a un aumento indiscriminato dell’occupazione. Ha poco senso aumentare quantitativamente il numero di occupati se non sale la qualità, perché alla fine non si guadagna in competitività e quei posti di lavoro sono destinati a sparire. In altri Paesi europei ci sono dei ritardi, ma meno che in Italia. La Francia è molto più avanti grazie all’esperienza del Minitel e a una forte educazione in termini informatici e di rete; la Scandinavia ha realizzato molto, specie in Finlandia e Norvegia; la Germania ha prodotto un gigante del software gestionale come Sap; persino la Spagna ha superato l’Italia. Perciò credo che ci si debba muovere in fretta se si vuole recuperare un po’ del ritardo accumulato. La crisi asiatica, che ha provocato un dimezzamento del tasso di crescita mondiale nel 1998 e nel 1999, è stata da molti considerata un inevitabile corollario della globalizzazione. Ciò significa che non si può fare nulla per evitare nuovi episodi analoghi?


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Le crisi finanziarie faranno sempre parte del nostro futuro. Ricordiamoci che l’origine di quasi tutte le crisi recenti è stato l’avere finanziato l’espansione economica con un indebitamento eccessivo, e di averlo fatto con il ricorso a crediti a breve per finanziare progetti a lungo termine. Ma, tutto sommato, va sottolineato che la crisi asiatica si è risolta piuttosto in fretta, certo prima del previsto. Ciò che mi preoccupa non è la crisi che interviene in un Paese come la Corea o la Tailandia, dove la gente lavora moltissimo per arrivare a creare maggiore ricchezza e benessere. Ma le difficoltà di un Paese come il Giappone, dove ormai le aziende hanno paura a investire, i consumatori hanno paura di consumare e dove tutto ristagna senza prospettive. Come pensa che si evolverà il mercato internazionale nel prossimo biennio: un rallentamento centrato sugli Usa, come molti temono, o la prosecuzione del recupero in corso rispetto alla crisi del 1997 e 1998? Personalmente sono piuttosto ottimista sulle prospettive di recupero e di crescita, sia in Europa, dove mi aspetto una forte ripresa che, in qualche modo, si sta già manifestando, sia ancora negli Stati Uniti. Con un solo punto di preoccupazione. Queste prospettive si potrebbero invertire se a Wall Street arrivasse una correzione significativa, nell’ordine del 20-25%. Infatti, gli americani detengono proporzioni altissime del loro reddito e dei loro risparmi in azioni di aziende quotate. In seguito a un calo di un qualche peso del valore dei loro investimenti, essi ridurrebbero immediatamente i consumi e l’economia americana entrerebbe in crisi. Per ora vi sono solo dei segnali di un possibile scenario di questo tipo, ma poiché nessuna crescita è eterna, è possibile che prima o poi la correzione arrivi. In caso contrario, se cioè la Borsa americana continuasse a crescere o se il calo arrivasse ma fosse solo marginale, mi aspetto un lungo periodo di incremento a ritmi crescenti sia in Europa che altrove.

* Paolo Scaroni è dal 1996 presidente e amministratore delegato della Pilkington, punto di arrivo di un importante percorso professionale iniziato nel 1972 in McKinsey e proseguito negli anni successivi, fino al 1984, in Saint Gobain Italia, dove è arrivato a ricoprire la posizione di amministratore delegato generale. Nel 1984 ha assunto cariche di responsabilità nel gruppo Saint Gobain su scala mondiale e nel 1985 è diventato amministratore delegato della Techint. Dal 1993 al 1995 è stato anche amministratore delegato della Siv, per approdare, l’anno dopo, all’attuale posizione in Pilkington. ■ ■ ■ ■ ■ ■

W

ith a turnover of 10 thousand billion lira and 35 thousand employees throughout the world, Pilkington is one of the major world players in the glass sector. Paolo Scaroni has been its chairman and managing director at the world level since 1996. In his long professional career, Scaroni has accumulated a vast experience in the management of complex firms with operations on a multinational scale. arcVision interviewed him to get his point of view on a number of issues of both great economic and financial importance and those specifically related to his present position as head of a global firm. What problems has the financial crisis that broke out in Asia in 1997 subsequently spreading to Russia and Brazil the year after - caused for a multinational company like Pilkington? Pilkington has a limited production presence in Asia, whereas it is very much present commercially. It is in the latter area that we have felt the most serious consequences. In particular, two of our very important markets collapsed: glass for the electronics industry and for the aerospace sector. At the same time, glass manufacturers in the Far East have sought to make up for their internal crises with very aggressive export policies for the European, North American, South American and Australian markets - all areas where Pilkington has a very strong presence. To a large extent, this crisis is over, both because the Asian markets have started to pick up and because by now there is a drop in glass exports from Asia to Europe and the United

States. For us, the crisis has had a serious impact, but it has now virtually run its course. However, the three major Japanese producers are the ones who have suffered and will continue to suffer as the crisis has had extremely serious financial consequences. For them, the crisis is not yet over. Finally, as far as Latin America is concerned, the worst occurred between the end of 1998 and the start of 1999. For Pilkington the main point of crisis has been Brazil, where devaluation of the real has meant a loss that can be estimated at around 15 million pounds. From the sales standpoint, the automobile market in Brazil and Argentina has registered a dramatic drop - in the area of 50 percent - and has not yet picked up. I am, however, very optimistic about Brazil’s capacity for recovery, whereas I’m much more concerned about Argentina, whose link with the U.S. dollar may prove very costly, unless Argentina decides to loosen its ties with Mercosur. What precautions do you intend to take in regard to the possible re-occurrence of events of this kind? It’s really a question of common sense; I believe that a global firm like Pilkington cannot expect the sun to constantly shine in all the areas in which it operates. For this reason, I think that somewhere or other we shall always have to face some crises. As a general rule, we do all our bookkeeping in dollars and sterling, but, whenever necessary, we do our borrowing in the local currency of the country in which we are operating. Certainly, in the event of devaluation this exposes us to some risks, especially with regard to working capital, but the possible harm is limited and fairly easy to bear. However, this is offset by the profits that are possible in these markets over the long term, given that these countries have a higher growth rate. For instance, we have been operating in Argentina and Brazil for fifty years now. This is a timeframe in which practically everything has happened in these countries, from military coups to wars. But our profit margins have been very high indeed more than in any other

country, in fact. For this reason alone, it is worthwhile taking the risks involved in possible recurrent crises. From its introduction on January 4, 1999 until now, the euro has progressively weakened against the dollar, even though it has shown some signs of recovery this summer. How have the problems of managing Pilkington changed compared with the original expectations, with the advent of the single European currency? To start with, the major novelty is that, in the European automobile sector. We have begun to invoice in euro because this is what our customers have asked us to do. We expect the same request from our building sector customers understandably with some delay with respect to the automobile sector as the building sector represents a large number of small firms. But nothing much will change, because in the building sector, glass had already had (for the past 15 years), a European price close to 5 marks per square meter. Now this will be switched into prices in euro, with very few consequences. Certainly, if the euro weakens against the dollar and against the pound sterling, we will see some negative effects, because our earnings, translated into pounds sterling, will decrease and because the products manufactured on the continent will become more competitive with respect to those manufactured in Britain. Do you think a reinforcement of Europe’s economic and financial institutions is possible and desirable, as grounds for an increasingly greater political and institutional cohesion? I believe it is possible and, above all, desirable. I think that the single currency is the glue of political union. If it weren’t so, nothing could stand up. A single currency can exist only in so far as there exists consistent economic, fiscal and commercial policies such as may gradually animate common institutional policies. Otherwise, the single currency itself has no reason to exist any longer. And I believe it is precisely for this reason, (i.e.,


for the prospect of a European Union that is increasingly cohesive from the political standpoint) that Great Britain will not enter the euro, or at least will not enter in the near future. Nobody in England is willing to be governed by a few bureaucrats in Brussels. It is exactly the opposite of what happens in Italy, where many dream of having the Germans or the English who decide what is best for us. But not even the Englishman who is most favorable to Europe would feel easy about the idea of a European Government that is over and above the British Government. There are at least 15 countries that would like to enter and form part of the European Union. Can this enlargement lead to advantages or will it risk jeopardizing the entire European project? In my opinion, there’s a big risk that the enlargement may jeopardize the project of reinforcing the European Union. Precisely because it is a union that tends to move from economic and financial unity towards political unity, the entry of non-homogeneous realities may only delay the process. If, for example, a country like Poland, where there are big problems and big interests both in the agricultural field and in the industrial field, enters it will be necessary to devote a great deal of time and resources to bringing about an integration which could require years of effort. We should not forget that in the past, whenever new countries entered the Community, the process of integration was slowed. For this reason, it is necessary to first bring the process of unification with the present members to a conclusion, and then start thinking about extending the Community to include new countries. Europe presents a slower growth than the United States and fails to create new jobs, whereas in the past 10 years the U.S. has created more than 20 million new jobs. Does this mean that in order for Europe to compete, it will have to adopt the American model of extreme flexibility and liberalization? I should like to make two preliminary remarks. The first

one, which may seem a little paradoxical, is that a 10 percent unemployment rate in Europe is not necessarily something to despair about. In fact, countries like France, Germany and Italy produce a lot of wealth, and I’m not surprised that to produce it, increasingly fewer people are needed. In future, probably 5 percent of the population will create 95 percent of national wealth. The others will benefit indirectly from this wealth, thanks to the transfer and redistribution guaranteed by the State in different ways. The second remark is that the American model is perfectly

logical in the United States, where particular social and territorial conditions exist, but it is not equally logical in Europe, where conditions are quite different. What is desirable is that Europe should introduce greater flexibility, especially in the labor market, and it seems to me that we are beginning to see the first signs of this, but I don’t think that we will come very close to the American model. From the technological standpoint, Europe, and especially Italy, lag a long way behind the U.S. The gap is evident in information and in network technologies, as well as in the Internet and E-Commerce. Is it possible to close this new gap, which risks costing a great deal in terms of enterprise and economic growth competitiveness? I don’t know whether it is possible, in fact, but it is certainly desirable because it is indispensable. On the other hand, every European country is something of a case in itself. Italy certainly is lagging a long way behind both in regard to the introduction of information technologies, telecommunications and networks, and in the area of

educating young people and workers in general in these new technologies. This risks causing major harm not only in terms of the competitiveness of firms, but also in terms of advantages to consumers, who will not be able to profit from the benefits of a phenomenon such as E-Commerce. In Italy there is very little, and moreover, what little there is comes from abroad, hence to the advantage of firms from other countries. What is needed is that politicians, trade-unionists and citizens themselves should set information technologies as a priority, instead of banking on an indiscriminate increase in employment. There is little sense in increasing the number of people employed in purely quantitative terms if the quality does not improve, because, when all is said and done, you don’t gain anything in terms of competitiveness, and those jobs are bound to disappear anyway. Other European countries are also lagging behind, but much less so than Italy. France is much further ahead thanks to the Minitel experience and to a solid education in terms of information and network technologies; Scandinavia has done a lot, especially in Finland and Norway; Germany has produced a management software giant, such as Sap. Even Spain has overtaken Italy. Consequently, I believe that we’ll have to move fast if we want to recover a little of the ground that we have already lost. The Asian crisis, which has brought about a halving of the world growth rate in 1998 and 1999, has by many been considered an inevitable corollary of globalization. Does this mean that it is not possible to do anything at all to prevent new episodes of the same kind? Financial crises will always form part of our future. We must remember that the origin of almost all the recent crises has been the financing of economic expansion with excessive indebtedness, and doing so via recourse to shortterm credit for financing longterm projects. However, all things considered, it should be emphasized that the Asian crisis was over rather quickly, certainly before anybody

expected. What concerns me is not the crisis that occurs in a country like Korea or Thailand, where people work very hard to achieve greater wealth and well-being, but rather the difficulties in a country like Japan, where by now firms are afraid to invest, consumers are afraid to consume, and where everything stagnates without any prospects. How do you think the international market will evolve in the next two years: a slow-down centered in the U.S., as many fear, or the continuance of the recovery that has been in progress since the crises of 1997 and 1998? Personally, I’m rather optimistic about the prospects of recovery and growth, both in Europe, where I expect a big recovery, which, to some extent is already appearing, and, again, in the United States. My only concern is that these prospects could be reversed if Wall Street were to show a significant correction, in the region of 20-25 percent. In fact, Americans hold extremely high proportions of their income and savings in shares of firms quoted on the stock market. Following any sizeable drop in the value of their investments, they would immediately reduce their consumption, and the American economy would be back in trouble. For the moment, there are only a few indications of a possible scenario of this kind, but since what goes up must come down, it is possible that sooner or later the correction will arrive. Otherwise, I mean, if the American stock market were to continue to grow or if the drop were to come but were only marginal, I expect a long period of growth at an increasingly fast rate both in Europe and elsewhere. * Paolo Scaroni has been the chairman and managing director of Pilkington since 1996, the pinnacle of an important professional career that started back in 1972 in McKinsey and proceeded in the following years, up to 1984, in Saint Gobain Italia, where he reached the position of managing director. In 1984, he assumed positions of responsibility in the Saint Gobain Group at a world level, and in 1985 became managing director of Techint. From 1993 to 1995 he was also managing director of Siv. The following year he obtained his present position at Pilkington.

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Projects

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In architettura la materia può essere forma dell’utile, come nel caso dell’Arcos Bosques Corporativo di Città del Messico, ma anche espressione di grande tensione spirituale, come la Chiesa di Tor Tre Teste a Roma, simbolo del Giubileo del 2000. In architecture, matter can take on useful shape, as in the case of the Arcos Bosques Corporativo in Mexico City, or it can express a sense of spiritual tension like the Tor Tre Teste Church in Rome, a landmark for the Jubilee in the year 2000.

Materia, uomo, forma Matter, Man, Form Con la sua carica sensoriale, la materia si identifica con la forma dando vita a straordinare opere architettoniche Matter combines with form through its sensory drive, generating extraordinary architectural artefacts Riccardo Mariani*

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e apparenze, sebbene non siano comprese come cose in sé tra gli oggetti dell’intelletto puro, sono tuttavia i soli oggetti, rispetto a cui la nostra conoscenza possa avere una realtà oggettiva, rispetto a cui, cioè, corrisponda ai concetti un’intuizione.”1 Probabilmente non era necessario scomodare l’illustre filosofo tedesco per introdurci all’idea di materia e forma, ma forse sì, considerando le infinite ambiguità e contraddizioni che in questo senso si sono enunciate a partire dalle stesse tradizioni popolari. Infatti, “l’abito non fa il monaco” recita un vecchio adagio che ci hanno insegnato per secoli, per dirci che ciò che conta, in fondo, è solo ciò che non si vede, che non ha né forma né materia, appunto; conta ciò che sta dentro. Proprio per questo, giorno dopo giorno, il termine “contenuto” assume una miriade di sinonimi che gli garantiscono una apparente perennità. I più recenti sinonimi, frutto dell’ultimo secolo, e i più sfrontati, si chiamano utilità e funzionalità; ogni oggetto dovrà essere utile e funzionale e questi ingredienti faranno la sua vera bellezza concreta. Una domanda sorge spontanea, esiste in architettura e nelle arti affini qualcosa che non sia utile e funzionale? Per definizione ogni architettura è funzionale e utile a qualcuno, quanto meno a chi l’ha commissionata; ma è proprio qui che si pone il vero problema, al di là dell’architettura stessa; l’utilità e funzionalità sono infatti misurate sul carattere dell’utenza; di fatto non parliamo più di che cosa ma di chi. Verso la metà del XIV secolo, il saggio Maïmonide, a proposito della causa delle cose, affermava che sono quattro: la materia, l’agente, la forma, il fine; nel caso di una seggiola, per esempio, “La sua materia è il legno. Il suo agente è il falegname. La sua forma è quadrangolare, se è quadrata, triangolare, se è un triangolo, rotonda se è un cerchio. Il suo fine è che ci si sieda sopra. ”2 In altri termini, materia, uomo, forma, fine, per fare qualunque cosa, una seggiola, una saliera, un ventilatore, una casa; nella logica dell’esposizione per prima sta la materia, con la sua bellezza e adattabilità, con la sua struttura intrinseca e il suo fascino sensoriale, e in base a tutto questo è scelta dall’uomo che si

confronta col suo carattere per ottenere qualcosa di cui servirsi. Scegliere significa già riconoscere nella materia ciò che essa può dare e addirittura la forma che potrà assumere; il fine è l’uso della cosa stessa, senza che mai si citi né una funzione né una funzionalità, proprio per impedire che la forma più nobile di una cultura, il linguaggio, cada nella banalità e nella confusione, e nella inutilità. Di fatto, il tema dell’utilità dell’oggetto è ancora un derivato dell’abito del monaco, che, certo, può indurre in errore come tutte le apparenze; da qui lo sforzo immane per leggere nell’animo dell’architettura come se essa fosse qualcosa di organico e di spirituale, come l’uomo; legata alla logica dell’utilità è la soddisfazione dei bisogni della società che non produce più architettura ma la domanda secondo canoni prestabiliti: utilitari, funzionali, ugualitari, gli stessi che hanno edificato la città del medio evo, quando ogni insediamento era uguale a mille altri e per distinguersi, cioè per identificarsi, gli era necessario costruirsi una grande cattedrale, uguale alle altre, ma forse più bella. Che accadeva infine nella più bella delle cattedrali? Esattamente ciò che accadeva nella più modesta; le stesse cerimonie, le stesse feste, gli stessi abusi, i medesimi scandali, almeno fino alla Riforma. Dunque è vero! L’abito non fa il monaco; ma come leggeremmo oggi quella civiltà se non attraverso gli abiti che ancora sopravvivono? Scopriamo così che il loro messaggio ci perviene perché qualcuno non ha avuto timore di affidarlo al materiale più importante che si trovasse nella sua regione al quale ha impresso tutta l’apparenza che gli fu possibile. L’apparenza, leggi la forma tutt’uno con la materia, è tutto ciò che abbiamo per esprimerci, niente altro esiste. Che ogni forma assuma le proprie responsabilità, poiché quelle della fede dell’uomo hanno altri giudici. Esiste il ventilatore e il bel ventilatore; il problema non è se farà vento anche fra cent’anni, ma se fra cent’anni lo guarderemo ancora come un bel oggetto che faceva vento cent’anni fa. Professore di Urbanistica all’Università di Firenze e di Teoria e Storia dell’Urbanistica all’Università di Ginevra. È autore di libri, saggi e articoli; tra i libri: Città e campagna in Italia 1917-43, Mondadori Comunità, Milano, 1986; Tony Garnier Une cité industrielle, Jaca Book, Milano, Rizzoli America, N.Y., 1990.


MATERIA MATTER

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ppearance, though not itself considered an essential factor of pure intellect, is nonetheless the only thing to which our consciousness can relate an objective reality in which, that is to say, an intuition corresponds to a concept”1. It probably wasn’t strictly necessary to bother the renowned German philosopher in order to introduce an idea of matter and form, but there again, maybe it was, considering the endless ambiguities and contradictions which have been formulated ever since the earliest popular beliefs. In fact, the old saying “The cowl does not make the monk”, has been telling people for centuries that what really counts, deep down, is that which the eye cannot see, that which has neither form nor substance. What is truly important is what is inside. Precisely for this reason, day after day, the word “content” took on a myriad of meanings, guaranteeing it apparent perpetuity. The most recent synonyms, fruit of the last century – and the most shameless of all – are utility and functionality. Every object should be useful and functional, essential ingredients to its real concrete beauty. One question comes automatically to mind: is there anything in architecture or its related arts which is not useful or functional? By definition, all architecture is functional and useful to someone, at the very least to those who commissioned it. But here is the crux of the problem: beyond the architecture itself, utility and functionality are in fact measured against the nature of its consumers. In fact, we no longer talk of what but of who. Toward the middle of the 14th century, when discussing the reason for things, the wise Maïmonide professed that there were four: the matter, the agent, the form, the purpose. Take a chair, for example, “Its matter is wood; its agent is the carpenter. Its form is quadrangular if the chair is square, triangular if a triangle, or circular if round. Its purpose is for sitting.”2 In other words, matter, man, form, and purpose are necessary to create anything at all: a chair, a salt-cellar, a ventilator, a house. Logically, matter, with its beauty and adaptability, its essential structure and sensory attraction, is first on the list, based upon which it is chosen by man, who examines its nature with the aim to obtain something useful. The act of choosing is automatically a recognition of what the matter can yield and even of the form it may take. The purpose is the actual use of the object itself, without mentioning its function or functionality, thus avoiding that the language, which in any culture’s most noble form, becomes banal, confusing or useless. Indeed, the theme of the object’s utility is once again derived from “the monk’s cowl” which certainly, like all appearances, can be deceiving. Hence, the huge effort to penetrate the very soul of architecture, as if it were something organic or spiritual, such as man, tied to the logic of

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utility and to the meeting of the needs of a society which no longer produces architecture while demanding that it stays within certainys set standards – utilitarian, functional, egalitarian. These are the very same standards upon which medieval towns were built, when each settlement was the same as a thousand others, and in order to be distinguishable, or rather identifiable, man found it necessary to build a great cathedral, identical to all the others but possibly more beautiful. What happened then in the most beautiful cathedrals? Precisely, what happened in the less beautiful ones: the same ceremonies, the same feasts, the same abuses, the same scandals, at least until the Reform. Ah, so it is true! The cowl does not make the monk. But how could we now have an understanding for that civilization, if not through its surviving “cowl”? Thus we discover that the message has reached us thanks to someone who was not afraid to entrust it to the most important material available in that particular region, material upon which he impressed as much appearance as he could – appearance in the sense of form combined with matter. This is all we have with which to express ourselves; nothing else exists. Let every form take on its own responsibility, since that pertaining to man’s faith has other judges. There is the ventilator and then the beautiful ventilator. The problem is not whether it will still produce cool air in one hundred years, but whether we will still regard it as a beautiful object which produced cool air one hundred years ago.

Professor of Town-Planning at Florence University and of Theory and History of Town-Planning at Geneva University. He has written books, essays, and articles; his books include: Città e campagna in Italia 1917-43, Mondadori Comunità, Milan, 1986; Tony Garnier Une cité industrielle, Jaca Book, Milan, Rizzoli America, N.Y., 1990.

Architetto Eric Owen Moss. Los Angeles, The Box: l’edificio contiene uno spazio pubblico per conferenze. Architect Eric Owen Moss. Los Angeles, The Box: the building contains a public meeting area.

1. Immanuel Kant, Critica della ragione pura, Milano, 1976, III, pag. 348. 2. Maïmonide, Traité de logique, Paris, 1996, pag. 65.


Nel cuore della città In the Heart of the City Parigi, una modernissima palestra nello storico faubourg della Bastiglia Paris, an ultra-modern gymnasium in the historic Bastille faubourg Progetto di Massimiliano Fuksas Project by Massimiliano Fuksas

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Nella pagina a destra, la Hall des Sports che fa parte di un programma di ristrutturazione di un lotto del quartiere della Bastiglia a Parigi. Il piano d’intervento prevede anche la costruzione di abitazioni, strutture per il commercio, un parcheggio e la sistemazione degli spazi pubblici. Opposite page, the Hall des Sports, part of a renovation program in the Bastille quarter of Paris. It also envisages the building of houses, commercial structures, parking areas and urban landscape.

a Hall des Sports fa parte di un programma di ristrutturazione di un lotto del quartiere della Bastiglia a Parigi, una zona in continua evoluzione, dove è prevista la costruzione di edifici residenziali, strutture commerciali, parcheggi e sistemazioni di alcuni spazi pubblici. Il contesto è quello tipico di un faubourg parigino: facciate compatte, interrotte solo da frequenti passaggi, case bianche, garage con grandi cartelloni pubblicitari montati sul tetto, pareti ricoperte di graffiti metropolitani. Ovunque odori di spezie orientali, musiche etniche, soprattutto arabe. L’area dove sorge la Hall des Sports, anche se frammentaria e degradata, possiede una sua omogeneità; sussisteva quindi la possibilità che la nuova struttura rompesse l’equilibrio delicato, precario, di un quartiere di grande interesse storico-culturale. “L’idea forte del progetto - spiega l’architetto Fuksas - è quella del continuo, inarrestabile fenomeno di mutazione delle città contemporanee, dei cambiamenti impalpabili e ininterrotti, fatti di una moltitudine di elementi. L’idea della mutazione, del cambiamento, mi appassionava, perciò ho ideato degli edifici simili a quelli esistenti, salvo che dal tetto scende, lungo le costruzioni, un foglio di zinco, con aperture simili ad asole, differenti dalle finestre, parti di un meccanismo infernale. Le cose cambiano talmente in fretta che noi non abbiamo nemmeno il tempo di prenderne coscienza”. La Hall des Sports rappresenta un progetto di transizione tra due periodi: uno concettuale, l’altro descrittivo, quasi narrativo. Molti dettagli di quest’opera somigliano a una storia, a volte sognata, a volte in forma di citazioni provenienti dal cinema, dalla letteratura ma anche dalla quotidianità. La copertura della palestra seminterrata, come fosse vittima di un forte e improvviso sisma, pare scollarsi, mettendo a nudo parti strutturali che lasciano passare la luce in un interscambio continuo tra esterno e interno. Dentro l’edificio le finiture sono molto diversificate: le pareti sono trattate con metallo nero, cemento a vista, pannelli fonoassorbenti lasciati senza nessuna copertura. Insomma, i materiali più poveri, normalmente occultati, qui sono in grande evidenza, quasi a creare tensioni espressive proprie dell’opera d’arte. Fuksas, infatti, ha chiesto la collaborazione di un importante artista come Enzo Cucchi per creare atmosfere suggestive che rimandassero appunto all’opera d’arte. Se per il progettista è stato importante il contesto, anche

Cucchi ha tenuto conto di ciò che si trovava nell’ambiente circostante, riuscendo però a trasferire in un’opera architettonica la sua posizione polemica sull’inutilità della pittura. Sulla parete cementizia piena di finestre ha steso una base leggera su cui ha disegnato a carboncino alcuni tratti, poi colmati con cemento nero. I materiali impiegati sono quelli del cantiere: ovvero gomma nera utilizzata per il grande sole passante attraverso le finestre, cemento scuro per riempire i solchi, latte di calce per l’approntamento della base su cui incidere una figura antica, primordiale come un sole che tramonta alle spalle di una montagna, mentre alcuni spettatori assistono attoniti all’evento naturale. Le Hall des Sports è dunque un’architettura diversa dalla consueta composizione di volumi investiti dalla luce. In quest’opera i volumi quasi si annullano, rimane solo la luce e le sue innumerevoli variazioni. Dettagli costruttivi, materiali e forme non hanno quasi importanza, e anche il cemento - la materia inondato dalla luce, si frantuma, si dematerializza, comunicando emozioni che toccano il profondo. In una simile regia architettonica, non esistono più punti di osservazione privilegiati ma immagini mai definitive, una sorta di dissolvenza continua, come in un film, dove le immagini svaniscono per lasciare spazio ad altre visioni. Anche in questo progetto, come in tanti altri di Fuksas, la costruzione appare come un’opera in progress: che il cantiere sia finito o ancora aperto poco importa, poiché tutto, fin dall’inizio, si amalgama in modo naturale con gli umori del quartiere, con le atmosfere di un luogo carico di odori, colori e suoni. La nuova struttura sfugge a qualsiasi valutazione tradizionale: non è né bella, né brutta. E’ semplicemente parte integrante di un frammento di città, come fosse sempre esistita in quel contesto urbano. L’architettura dunque, non come oggetto isolato, ma come sommatoria di suggestioni e impressioni, è la cifra stilistica di Fuksas, che riesce a vitalizzare anche il luogo più degradato, caricandolo di energie positive. La dinamica alla base di questi risultati va forse cercata nell’abitudine di Fuksas di iniziare ogni progetto come fosse un grande dipinto da realizzare tridimensionalmente attraverso sapienti giochi cromatici, segni e visioni, che toccheranno sicuramente le corde sensibili del subconscio.


MATERIA MATTER

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he Hall des Sports is part of a renovation program in the Bastille quarter of Paris. This is a continuously evolving area where the construction of new residential buildings, commercial structures, parking areas and urban landscapes are envisaged. The area is that of a typical Paris working-class neighborhood: compact façades interrupted by frequent passage-ways, white houses, garages with large advertising posts placed on the roof and walls covered with metropolitan graffiti. Smells of oriental spices and the sound of ethnic music especially Arabic - are everywhere. The area where the Hall des Sports stands, although rundown, is homogeneous. There was therefore a risk that the new structure would break the delicate, precarious historical and cultural balance of the great Bastille quarter. “The strongpoint of the project - architect Fuksas explains - exists in the continuous and unstoppable mutation of modern cities, in the impalpable and uninterrupted changing of a multitude of elements. The idea of mutation, of change, excited me, so I designed buildings similar to those already there, but different in that a sheet of zinc descends from the roof along their flanks with openings similar to buttonholes, not windows but parts of an infernal mechanism. Things change so quickly that we don’t even have the time to become aware of them”. The Hall des Sports represents a transitional project between two periods: one conceptual and the other descriptive, almost narrative. Many details of this work resemble a story, sometimes dreamed, sometimes in the form of quotations from movies, from literature and from everyday life. The roof of the semi-basement gymnasium, as if seized by a sudden and violent tremor, seems to have shaken itself, revealing structural parts that let in the light in a continuous interchange between indoor and outdoor. Within the building, finishings are greatly diversified: the walls are treated with black metal, exposed concrete and soundproof panels without lining. In other words, materials, usually hidden, are highlighted here, almost as if to create expressive tensions typical of a work of art. Indeed, Fuksas obtained the collaboration of an important artist - Enzo Cucchi - to create suggestive atmospheres evoking the feeling of a work of art. Like the designer, Cucchi too took into consi-

deration the surroundings, while managing to transfer his polemic stance on the uselessness of painting into this architectural work. He has laid a light hand over the concrete wall of windows on which he has drawn a few charcoal strokes, then filled in with black concrete. The materials used are those of the building supply dealer: black rubber used for the great sun passing through the windows, dark concrete for filling in gaps, limewash for preparing the bed in which to cut an antique figure, as primordial as a sun setting behind a mountain, while rapt spectators watch the natural event. The Hall des Sports thus shows an architecture which is different from the usual composition of volumes invested by light. In this structure, the volumes almost cancel each other out, leaving only the light and its multitudinous variations. Constructive details, materials and shapes almost have no importance, and even cement, the matter, when bathed in light fragments, dematerializes, communicating deep emotions. In such an architectural scenario, there are no privileged points of observation but never-defined images, a sort of continuous fading, as in a movie, where images dissolve to leave room for other visions. As with many other Fuksas projects, this too appears like a work in progress. That the building supply dealer is closed or still open is not very important, because everything, from the very start, amalgamates in a natural fashion with the quarter’s sap, with the atmosphere of a place charged with smells, colours and sounds. The new structure escapes all traditional descriptions. It is neither beautiful nor ugly. It is simply an essential part of a sliver of the city, as if it had always existed. Architecture not as the isolated object but as the sum of suggestions and impressions, this is Fuksas’s style. An architect capable of vitalising even the most neglected place and charging it with positive vibrations. The dynamics on which these results are based are perhaps to be found in Fuksas’s habit of starting each project as if it were a large painting about to be created in 3D through experienced variations in colour, signs and visions that will surely touch the sensitive chords of the subconscious.


Planimetria generale e, sotto, modello del complesso della Hall des Sports.

Below, general plan. Bottom, model of the Hall des Sports.

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Schizzo di progetto e, sotto, particolare della copertura che accoglie varie attrezzature sportive. Sketch of the project and, below, details of the covering that contains various sports equipment.

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Altri dettagli della copertura con le reti metalliche che, oltre a proteggere l’area di gioco, mediano il rapporto fra nuova struttura e paesaggio urbano.

Some other details of the metal fences, that, as well as cordoning off the outside playing field, act as an intermediary between the new structure and the existing district.

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Prospetto ovest e, sotto, sezione longitudinale. West view; and, below, longitudinal section.

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Particolari della palestra con l’intervento pittorico di Enzo Cucchi. Details of the gymnasium as rendered by artist Enzo Cucchi.

Nelle pagine successive, una veduta generale dell’interno della palestra. On the following pages, general view of the gymnasium interior.

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Modernità dal passato Modernity from the Past Shona-Fujishawa, il campus della Keio University Shona-Fujishawa, the Keio University campus Progetto di Fumihiko Maki e Maki & Associates Project by Fumihiko Maki and Maki & Associates

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rchitetto giapponese fra i più conosciuti sulla scena internazionale, Fumihiko Maki è forse tra i progettisti suoi conterranei quello più vicino alla cultura europea, o meglio ancora, occidentale. Negli ultimi anni, infatti, i suoi progetti, prima caratterizzati da una spiccata connotazione nordamericana, di provenienza West Coast, ora sembrano stemperarsi nel Movimento Moderno. E quest’opera realizzata a Shona-Fujishawa ne è un esempio eclatante. Situato in una città satellite, a circa 30 chilometri a sud-ovest di Tokyo, il campus della Keio University sorge su un’area il cui sviluppo è regolato dal master plan concepito nella seconda metà degli anni Ottanta. L’area è ancora in buona parte rurale, e nel programma del master è previ-

sto che almeno il 50% dei 33 ettari di terreno deve essere riservata ad area verde. Composto di cinque parti, destinate a ospitare circa 4.500 studenti, il complesso è suddiviso in università, area per i seminari, strutture per varie attività sportive, aule per la scuola secondaria e locali per la ricerca. Abbandonate da tempo le strutture organiche e gli edifici-oggetto, con questo complesso universitario Maki si cimenta con rapporti a grande scala, realizzando un’architettura che abbraccia grandi spazi, quasi a scala urbana. Confrontandosi con maestri universali come Le Corbusier e Terragni, Maki ha realizzato un’opera citando architetture come Villa Savoye e la Casa del Fascio a Como. L’ingresso del campus è in prossimità degli uffici amministrati-


MATERIA MATTER Nella pagina a sinistra, planimetria generale del campus. Qui sotto, il complesso realizzato all’interno di un anello viario, lungo assi che riprendono l’impianto urbano delle città romane.

Opposite page, general plan of the campus. Below, the buildings which make up the complex are articulated within a circular road along orthogonal axes modelled on the urban fabric of ancient Roman cities.

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vi e della sala-conferenze principale, situati di fronte alla zona universitaria. Il tutto contribuisce a creare un luogo monumentale, senza però cadere nel monumentalismo, ma organizzandosi in numerose piazze, luoghi d’incontro e spazi pubblici. Pur essendo costituita da elementi formalmente ben connotati, la composizione conserva forte unità stilistica. L’insieme del complesso si articola attorno a un anello viario alberato, disposto secondo uno schema geometrico rigoroso, con chiari riferimenti al Razionalismo italiano. Nella sua globalità il complesso risulta tuttavia caratterizzato da alcune “trasgressioni”, come il grande anfiteatro e il centro sportivo. Pur rispettando tutti gli aspetti funzionali di un moderno campus universitario, il luogo evoca

altri siti. Fa pensare, per esempio, a un impianto archeologico simile a Efeso o a Pompei. Sembra insomma di essere in un cantiere di scavi archeologici, dove si riconosce una struttura classica, connotata da assoluta ortogonalità e da cui sembrano emergere rovine di una grande città, che oggi affiora alla contemporaneità attraverso piccoli frammenti di architettura greco-romana. Il tracciato viario è strutturato con un centro che sembra scaturito dall’incrocio fra cardo e decumano, quasi suggerendo che in passato, in quel punto, poteva sorgere una grande basilica. Tutto è inserito armoniosamente nel sito. E per la prima volta la strada smentisce la rigidità dello schema, sottolineando in maniera assolutamente giapponese l’espressione


In questa pagina, veduta del portico compreso fra l’auditorium e gli uffici amministrativi.

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Below, view of the arcade passage between the auditorium and the administrative offices.

della natura. La differenza di scala su cui è organizzato il campus rispetto ad altri lavori precedenti è stata per Maki il motivo di maggior interesse, un’ottima occasione per misurarsi con problematiche per lui nuove: “Se il progetto è piccolo, se si tratta di un solo edificio - spiega l’architetto giapponese - posso immaginarlo come una villa. Le case individuali giapponesi sono come piccole ville del Palladio. Devono essere osservate da una certa distanza, devono corrispondere sempre a una stessa immagine. Il problema maggiore - continua Maki - è lo skyline, la loro presenza in un determinato contesto. La cosa più interessante è la maniera in cui l’edificio tocca il cielo, specialmente in campagna, dove quasi sicuramente il tetto verrà visto contro il cielo”. Giocando sull’astrazione, Maki ha creato sapienti contrasti fra natura e strutture, realizzando pannelli di alluminio ondulato, ma anche superfici e volumi in vetro, cemento e ceramica, costruendo una sorta di geometria astratta. Attraverso l’uso della luce,

dunque, anche lo spazio perde rigidità. L’insieme tuttavia non si distacca molto da una struttura destinata alla vita universitaria. Ovvero di luogo monofunzionale, in cui sono allocate tutte le attività didattiche. Il campus supera questa limitazione attraverso proporzioni armoniose e calibrate, che rimandano a un’architettura “silenziosa”, carica di fascino. Questa realizzazione presenta inoltre caratteristiche inaspettate rispetto alle opere normalmente costruite in Giappone: il campus è stato oggetto di molte varianti in corso d’opera, fatto assolutamente inusuale nella pratica costruttiva giapponese, dove tutto - anche i dettagli più secondari - è sempre pianificato: “Il cinquanta per cento di un’architettura - aggiunge Maki - avviene nel cantiere. Per avere maggiore flessibilità in seguito, per ottenere insomma la possibilità di ampliare la struttura in un secondo tempo, bisogna sempre prevedere una buona percentuale di varianti”.


Pianta parziale del primo piano, con il settore dell’auditorium, della biblioteca e dell’aula magna; in basso, il centro studentesco visto dal lago. Top, partial first floor plan with auditorium, library, and lecture hall; bottom, the student center seen from the lake.

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La piazza con l’auditorium e il centro documentazione. Nella pagina a destra, particolare del porticato. The square with the auditorium and media center. Opposite page, a detail of the porch.

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mong the most renown Japanese architects in the world, Fumihiko Maki is perhaps the designer who is the most related to European - or, even better, Western - culture in Japan. Indeed, most recently his projects, which previously featured a marked North American connotation of West Coast origin, seem to have absorbed a modern movement animation. The particular project erected in Shona-Fujishawa is a brilliant example of this recent evolution. Situated in a satellite city, about 30 kilometers south-west of Tokyo, the Keio University campus rises in an area where development is regulated by a master plan conceived in the second half of the Eighties. The area is still mainly rural, and the master plan requires that at least 50% of the thirty-three hectares of land has to be preserved for park landscaping. The five-part complex will meet the needs of about 4500 students and includes a university area, seminar area, various sports structures, classrooms for the secondary school and research laboratories. Having by now abandoned the organic structures and the building-object projects, Maki today tackles large scale mega-projects, creating a type of architecture that embraces wide spaces, almost at city-scale level. In the confrontation with universal Masters like Le Corbusier and Terragni, Maki has created an artefact inspired by architectures such as that of Villa Savoye and the Casa del Fascio in Como. The entrance to the campus is close to the administration offices and the main Conference

Hall. Both are located in front of the university area. The whole contributes in creating a monumental place, however without stalling in monumentalism but being organized into a large number of squares, meeting places and public spaces. Although consisting of shapely elements, the composition maintains a strong stylistic unity. The whole complex rotates around a tree-landscaped circular road, laid out according to a strict geometric plan, with references to Italian Rationalism evident. The complex is marked in its entirety by several "transgressions" such as the large amphitheatre and the sports center. Albeit in full accordance with all of the functional aspects of a modern university campus, the place evokes other realities. It reminds one of an archaeological site such as Ephesus or Pompei, for example. In short, it makes one feel like being on archaeological excavation grounds where a classical structure can be recognized, featuring absolute orthogonality and which seems to reveal the ruins of a great city surfacing in modern times through small fragments of Greek and Roman architecture. The road system is structured with a center which seems stemming from the crossing of the “cardo” with the “decumanus”, almost as if to suggest that in the past, in that point, there existed a great basilica. Everything is harmoniously inserted within the site. And for the first time, the road contrasts the rigidity of the scheme, underlining the expression of nature in an absolutely Japanese manner.



Qui a fianco, la palestra e, sotto, piante del primo e del secondo piano. Nella pagina a destra, particolare della palestra. Right, the gymnasium and, below, plans of the first and second floor. Opposite page, a detail of the gymnasium.

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The difference in scale permeating the campus layout compared to previous projects has been the element of most interest for Maki, an excellent opportunity to challenge problems new to him: "When the project is small, when it concerns a single building - the Japanese architect says – I can imagine it as a villa. Single Japanese houses are like small Palladian villas. They have to be observed from a certain distance and must always correspond to a same image. The greatest problem – Maki explains – is the skyline, their presence in a given context. The most interesting thing is the way in which the building touches the sky, especially in the countryside where the roof is almost surely seen against the sky". By playing with abstraction, Maki has created masterly contrasts between nature and structure, applying panels of undulated aluminium as well as surfaces and volumes of glass, concrete and ceramic, conceiving a sort of abstract geometry. Through the use of light even space becomes less rigid. However, the whole does not differ much from a university style structure, that is a monofunctional place where all teaching activities are located. The campus goes beyond this limitation through harmonious and calibrated proportions which remind one of a “silent” architecture loaded with charm. This realization also reveals several unexpected characteristics compared to the works which are normally built in Japan: the campus has undergone many plan variations during the course of the project, a very unusual practice in Japanese building construction where everything – even the most secondary details – is always carefully planned. “Fifty percent of an architecture – Maki explains – occurs in the building supply dealer. To enjoy greater flexibility further on, in other words to have the possibility of widening the structure later, one should always foresee a good amount of variation”.



Qui sotto, interno della palestra. Nella pagina a destra, in senso orario, particolare del modello dell’ingresso del Centro Ricerca; la scala che conduce al campo principale della palestra; interno dell’aula magna.

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Below, interior of the gymnasium. Opposite page, clockwise, model of the atrium at the entrance to the Research Center; stairway leading to the main sports hall; interior of the lecture hall.


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Mirabilia scientifico-tecnologiche Scientific Technological Wonders Museo della Scienza e dell’Industria, Tampa, Florida Museum of Science and Industry, Tampa, Florida Progetto di Antoine Predock Project by Antoine Predock

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MATERIA MATTER Museo della Scienza e dell’Industria a Tampa, Florida. Il complesso museale occupa un’area di circa 11.000 mq.

The Museum of Science and Industry in Tampa, Florida. The museum complex covers an area of about 11,000 sq. m.

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rchitetto d’inconfondibile “griffe”, con quest’opera Antoine Predock ha creato un segno forte nel territorio. Realizzato circa due anni fa a Tampa, in Florida, il Museo della Scienza e dell’Industria mantiene quei caratteri monumentalistici presenti nella maggior parte delle architetture progettate dall’architetto americano. Predock ha realizzato opere caratterizzate da ampie strutture e volumi geometrici, inframmezzati da tralicci metallici e pannellature traslucide che ne interrompono la monotona continuità. Distribuito su un’area di circa 11.000 metri quadrati, il nuovo museo è sostanzialmente un contenitore, un enorme archivio di informazioni sul progresso scientifico e sulle innovazioni tecnologiche dell’industria americana. Si tratta però anche di un panorama di invenzioni e tecnologie industriali proprie delle aziende che operano nella zona di Tampa. Lo Stato della Florida può contare, infatti, oltre che su un’avviata economia di grandi coltivazioni di agrumi e frutteti, anche su un’avanzata industria di costruzioni meccaniche. Pezzo forte del museo di Tampa è l’Omnimax Theater, caratterizzato dalla gigantesca sfera segnata da una leggera trama che riprende il reticolo geodetico di Fuller. Contrassegnata da tagli, fori e nicchie, la pianta dell’edificio somiglia a un complesso meccanismo assemblato attraverso placche e piastre, e animato da movimenti rotatori infiniti. Sembra insomma che l’immaginario tecnologico abbia generato forma e volume di questa architettura del sapere scientifico-tecnologico.

L’Omnimax Theater, oltre a essere uno spazio destinato agli incontri, a vari momenti di spettacolo e ad attività didattiche, organizzate dal museo stesso, è l’elemento di più forte impatto sull’ambiente circostante. Il pubblico accede alle sale espositive attraverso una rampa priva di barriere architettoniche, con parapetti realizzati in pannelli di cemento bianco. Il viaggio all’interno di questo tempio moderno comincia dal grande atrio-reception su cui campeggia la sagoma di un grande animale preistorico, per poi svolgersi su articolati percorsi a vari livelli. Uno degli spazi di maggior suggestione è la lunga galleria che attraversa quasi tutto il complesso museale e che, grazie a visori luminosi dislocati ad altezza d’uomo, ma anche di bambino, racconta attraverso immagini e suoni l’evoluzione del sapere scientifico e tecnologico della civiltà occidentale. Questo museo è però anche una struttura pensata quale sosta e luogo d’incontro per coloro che transitano nella grande pianura della Florida, poiché al suo interno vi sono un ristorante, una libreria e un punto vendita di oggetti e gadget relativi ai materiali contenuti nel museo. Se gli interni sono caratterizzati da suggestive ricostruzioni storiche, l’esterno presenta invece forme dure e taglienti, mitigate però da un micropaesaggio composto di giardini, logge e portali che formano un ambiente armonioso, quasi di sapore rinascimentale, evocando così le festose atmosfere delle corti e dei palazzi italiani del Quattrocento e del Cinquecento.


A

n architect with an unmistakable style, Antoine Predock has made a distinct mark on the territory with this project. The Museum of Science and Industry, built about two years ago in Tampa, Florida, maintains the monumental characteristics identifiable in the majority of the buildings designed by the American architect. Predock has created a structure made up of spacious constructions and geometric dimensions, interposed with metallic trusses and translucent panels that interrupt the continuous monotony. The new museum, covering an area of approximately eleven thousand square meters, is substantially a container, an enormous archive of information of scientific progress and of the latest technology in American industry. It gives, moreover, a general view of the companies which operate in the Tampa area. Florida's economy, in fact, is based not only on the vast cultivations of citrus fruits and orchards but also on its advanced mechanical construction industry. The Omnimax Theater, the museum's showpiece, is characterized by a gigantic sphere, scored with light tracings which recall Fuller's geodetic network. The plan of the building, marked with incisions, perforations and niches, resembles a complex mechanism, assembled with plates and slabs, and animated by infinite rotary movements. In short, a technological imagination appears to have generated the form and volume of this building, a home for scientific and technological knowledge.

The Omnimax Theater, apart from being the area designated for meetings, entertainment and didactic activities organized by the museum, is also the most striking feature in the environs. The public reaches the museum's exhibition rooms by way of a ramp, totally devoid of architectural barriers, but with parapets made of white concrete panels. The journey around the interior of this modern temple which begins in the large reception hall beneath the towering shape of an enormous prehistoric animal, follows fixed routes at various levels. One of the most impressive areas is the long gallery that crosses almost the entire museum and that, thanks to the viewing devices or screens situated along the route, both at adult and child level, narrate the evolution of scientific and technological knowledge in the western world through images and sounds. This museum, however, was also built with the idea of creating a meeting place and stopover for people travelling across Florida's vast plain. In fact the museum also houses a restaurant, a bookshop and a gift shop that sells souveniers and other items pertaining to the museum's exhibits. The interior of the museum is characterized by impressive historical reconstructions while the exterior presents rigid, severe forms, softened however by a micro-landscape consisting of gardens, loggias and portals which create a harmonious environment, almost Renaissance in style, lightly evoking the festive atmosphere of Italian 15th and 16th century palaces or courts.

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Il corpo sferico dell’Omnimax Theater all’interno del complesso che ospita il Museo della Scienza e dell’Industria. The spherical body of the Omnimax Theater within the Museum of Science and Industry complex.


Dall’alto in basso, piante dei piani quarto, secondo e terreno. From top to bottom, plans of the fourth, second and ground floors.

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A sinistra, planimetria generale e, sotto, il fronte strada con il percorso interno che conduce al parcheggio.

Left, general plan and, below, the front showing the private road leading to the parking lot.

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Due particolari dell’Omnimax Theater: il lato opposto alla grande sfera e, in basso, la gradinata riservata agli spettatori.

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Two details of the Omnimax Theater: the side opposite the large sphere, and below, the terraces reserved for spectators.


L’atrio dell’ingresso all’Omnimax Theater da due diversi punti di vista. Reception lobby of the Omnimax Theater from two different points of view.

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Natura e artificio Nature and Artifice Los Cabos, Messico, Westing Regina Hotel Los Cabos, Mexico, Westing Regina Hotel Progetto di Javier Sordo Madaleno Bringas, José de Yturbe Bernal Project by Javier Sordo Madaleno Bringas, José de Yturbe Bernal

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I

n accordo con i colori dell’oceano e della cornice montuosa della baia californiana di Los Cabos, il Westing Regina Hotel è un’architettura in perfetto equilibrio fra storia e contemporaneità. Il costruire è un atto con una forte componente sociale, dunque deve sì rispondere alla sua storia ma anche al suo presente. Oggi il tema del rinnovo dei linguaggi è di grande attualità e questo progetto appare emblematico della ricerca linguistica del gruppo di architetti messicani. Il tema della casa temporanea, dell’ospitalità nella vacanza, della ricreazione, della serena organizzazione del tempo libero è stato svolto all’insegna di un ambiente naturale prorompente, evitando ogni connotazione di saccente sfoggio culturale ed enfasi monumentalistica. Sembra insomma che l’intervento sia stato ideato tenendo in maggior conto un’accoglienza interiore più che esteriore. La forma trapezoidale della cellula tipo dell’albergo crea un’ospitalità basata sulla partecipazione spettacolare di un intorno di grande bellezza naturalistica, rendendo così gli spazi degli alloggi, oltre 230, elementi nodali dell’intero progetto. In questa architettura traspare una forte relazione fra esterno e interno, entrambi saturi di indici di coesistenza fra spazio abitato e ambiente. Trasformata dallo stato selvaggio in luogo costruito e organizzato, la baia di Los Cabos accoglie l’artificio architettonico come componente armonica del suo contesto, offrendo nelle migliori condizioni

Planimetria generale e, nella pagina a destra, particolare dell’ingresso del Westing Regina Hotel di Los Cabos, in Messico. General plan and, opposite page, a detail of the entrance to the Westing Regina Hotel of Los Cabos, Mexico.

la vitalità propria della sua natura rigogliosa e aggressiva. Gli aspetti portanti di questo progetto, impostato su un serrato dialogo tra natura e artificio sembrano essere sostanzialmente due. Il primo è il ritorno al moderno attraverso criteri compositivi e distributivi di matrice razionalista, ma con in più una particolare attenzione al rapporto fra costruito e ambiente naturale. In questo caso, la solarità e la selvaggia bellezza del luogo sono esaltate dalla purezza di volumi architettonici avvolti in colori - il rosso, l’azzurro e il giallo - che riprendono gli accesi cromatismi della natura circostante, ma anche l’espressiva vivacità delle ville progettate da Luis Barragán, indiscusso maestro dell’architettura messicana contemporanea. Il secondo aspetto riguarda possibili connessioni tra modernità e tradizione, qui risolte con delicati equilibri tra forma e funzione, tra natura e artificio, tra muro e oceano. Il Westing Regina Hotel sorge in un luogo isolato, al centro di una scena naturalistica alquanto suggestiva, in grado di dare massimo risalto a qualsiasi enfasi monumentalistica. Evitando facili virtuosismi compositivi, Sordo Madaleno e José de Yturbe hanno invece rivisitato l’architettura locale elaborando, su un impianto decisamente moderno, una struttura “contaminata” da alcune icone della tradizione architettonica ispanica come il patio e il porticato, distribuite con sapienza compositiva sulla spiaggia della penisola di Baja California.


MATERIA MATTER


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T

he architecture of the Westing Regina Hotel blends in with the colours of the ocean and the surrounding mountains of the Californian bay of Los Cabos, creating a perfect balance between past and present. The art of building has a strong social element and consequently should be faithful to its history as well as the present. Currently the theme of re-establishing languages is extremely topical and the project appears to symbolize the linguistic research of this group of Mexican designers. The idea of a temporary home, of hospitality on vacation, of recreation, of a peaceful organization of leisure time has been developed in harmony with the natural environment, avoiding any cultural ostentation or monumental emphasis. In short, it appears that the project was planned taking into consideration interior rather than exterior reception. The trapezoid form of the hotel’s core units creates a warm feeling of hospitality based on the spectacular participation of the extremely beautiful natural surroundings, thus making the more than 230 guest rooms fundamental elements of the entire project. The exterior and the interior, abundant with features of co-existence between living space and environment, create a powerful affinity, clearly evident in the architecture. The bay of Los Cabos, transformed from its wild conditions into an organized area, accommodates the architectural artifice as a harmonious element of its own environment adding its own vital, luxuriant and aggressive natural splendor to the best possible conditions. There appears to be two substantial and impelling aspects of this project based on a firm dialogue between nature and artifice. The first is a return to modernism through compositional and distributive criteria of a rationalist nature but with the addition of a particular focus on the relationship between man-made and natural environments. In this case, the brightness and wild beauty of the place are exalted by the purity in architectural volumes wrapped in colours - red, deep blue and yellow - which pick up on the bright chromatic effects of surrounding nature, as well as the expressive vivacity of the villas designed by Luis Barragán, undisputed master of contemporary Mexican architecture. The second aspect pertains to possible connections between modernism and tradition resolved here in the delicate balances between shape and function, between nature and artifice, between wall and ocean. The Westing Regina Hotel rises in an isolated location, at the center of a considerably appealing natural scenario, capable of optimally highlighting whatever monumentalist emphasis. While avoiding stale compositional virtuosities, Sordo Madaleno and José de Yturbe have instead revisited the local architecture by processing, through a decisively modern template, a structure “contaminated” by several icons of Hispanic architectural tradition such as the patio and the porch, distributed with compositional expertize on the beach of the Baja California peninsula.

La facciata del ristorante prospettante sul patio centrale. In alto, a sinistra, pianta del complesso. The façade of the restaurant overlooking the central patio. Above, on the left, plan view of the complex.


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Sotto, due sezioni del complesso e, in basso, l’hotel visto dall’oceano. Nella pagina a destra, particolare del porticato centrale. Nelle pagine seguenti, veduta del grande patio.

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Below, two sections of the complex. Bottom, the hotel as seen from the ocean. On the opposite page, a detail of the central porch. On the following pages, views of the large patio.


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Rigore razionalista e trasgressione Rationalist Rigour and Transgression Città del Messico, Arcos Bosques Corporativo Mexico City, Arcos Bosques Corporativo Progetto di Teodoro Gonzáles de León, J. Francisco Serrano, Carlos Tejeda Project by Teodoro Gonzáles de León, J. Francisco Serrano, Carlos Tejeda

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ato il rapporto di scala, questo edificio può essere accostato a una piccola città verticale in cui traspaiono ricchezza espressiva e rigore razionalista. Non bisogna dimenticare che i progettisti in questione sono autori di molti edifici in cui è riconoscibile la matrice lecorbuseriana. Cogliendo appieno la lezione del maestro del Razionalismo, de León, Serrano e Tejeda, hanno realizzato una struttura attingendo alle suggestioni della natura come vera ispiratrice e supporto vitale dell’uomo moderno. Senza però cadere in un paesaggismo didascalico, che della natura mostra solamente gli aspetti più evidenti e superficiali. Qui invece se ne osservano causa, forma, sviluppo vitale, riuscendo così a realizzare una sintesi e a creare un vero e proprio organismo architettonico. Questa attenzione alle

forze che regolano il processo del costruire indica come sia fondativa una metodologia che tragga la logica dai ritmi della natura, per rimodellarli in aritmie spaziali, proprie del paesaggio costruito, dell’architettura. Il complesso Arcos Bosques Corporativo accoglie uffici, abitazioni, ma anche spazi destinati allo sport. La concezione della struttura ricorda la conformazione di un aggregato urbano, dove viene rappresentata la tradizione del Messico attraverso il rapporto tra passato e modernità. Modernità evidenziata come stratificazione verticale di funzioni quale emblema della complessità urbana. Sembra attuarsi insomma l’antico sogno dei maestri del Razionalismo quando prefiguravano la città del futuro come organismo compatto in cui con-


Nella pagina a fianco, planimetria generale dell’Arcos Bosques Corporativo a Città del Messico. Il complesso è composto da due torri di 32 piani e da un edificio trasversale di 5 piani; intorno alle torri, si sviluppano tre corpi orizzontali di 6 piani, di cui uno lungo circa 400 metri. Sotto, pianta a livello della strada.

centrare in aree distinte tutte le funzioni del vivere contemporaneo. Come una gigantesca struttura vegetale, l’Arcos Bosques Corporativo affonda le sue radici nel suolo, congegnando le aree dei servizi, dei depositi e dei parcheggi con le funzioni raccolte nella parte emergente dal terreno che, insieme, vanno lette come una specie di diagramma verticale. Le ipotesi funzionali predisposte dai progettisti vanno inquadrate come disponibilità a comprendere nel proprio meccanismo distributivo strutture pubbliche e private, invece che come un programma aprioristicamente ben delineato. Si tratta insomma di una vera e propria porzione di città verticale, con una struttura autosufficiente, capace di assolvere alle esigenze qualitative e quantitative espresse dal-

l’ambiente circostante. Non casualmente, anche in questo progetto, gli architetti de León, Serrano e Tejeda inseriscono un segno trasgressivo, una sorta di diagonale, quasi a segnalare una diversa dinamica tridimensionale riferita al contesto, rompendo così in parte, ma clamorosamente, logica, simmetrie e rigore razionalisti. Spesso, come anche in questo caso specifico, il materiale impiegato contribuisce a trasmettere la cifra stilistica dei progettisti; è un segno per dare identità certa alla struttura nel suo contesto urbano. Non a caso il vetro qui impiegato, materiale leggero, trasparente, quasi immateriale, ha la capacità di creare comunque un racconto forte e consistente, riuscendo a smuovere qualsiasi freddezza “numerica” insita nel linguaggio razionalista.

Opposite page, site plan of the Arcos Bosques Corporativo in Mexico City. The building is composed of two 32-story towers and a 5-story transversal structure. Around the towers, there are three horizontal 6-story buildings. The longest among them is 400 m. Below, plan at street level.

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iven the scale, this building can be compared to a small vertical city boasting expressive richness and rationalist rigor. Keep in mind that the authors of this project have created many buildings where Le Corbusier’s influence is all too evident. Having fully absorbed the lesson taught by the Master of Rationalism, Gonzáles de León, Serrano and Tejeda have created a structure drawing from the charms of nature, the real muse and vital support of modern man. But they are talented enough to avoid falling prey to a didactic landscapist style, where nature is shown only through its most evident and superficial aspects. Observing the cause, the form and the vital support of nature, these artists synthesize all this and create a sheer architectural organism. This attention is focused on the forces that regulate the construction process and proves the fundamental importance of a method based on the logic of nature’s rhythms, that transforms them into spatial arrhythmias typical of the built landscape, or architecture. The Arcos Bosques Corporativo includes offices, houses, and areas dedicated to sports. The concept of the structure resembles the organization of an urban aggregate where Mexico’s tradition is depicted through the relationship between past and modernity, a modernity displayed as a vertical bedding of functions taken as symbol of urban complexity. In other words, the Masters of Rationalism old dream, whereby the city of the future is seen as a compact organism with all functions of contemporary life concentrated around different areas,

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Sezione trasversale e, nella pagina a destra, veduta laterale della torre alta 165 m. Transversal section and, opposite page, a lateral view of the 165 meter high tower.

seems to come true. The Arcos Bosques Corporativo structure looks like a gigantic vegetable rooted in the ground, where the service, depot and parking areas are located together with the functions gathered in the emerging part of the ground. Together, they must be interpreted as a sort of vertical diagram. The functional hypotheses prepared by the architects must be interpreted as the possibility to include private and public facilities in the distribution mechanism and not as a plan outlined in detail from the very beginning. In other words, this really is a portion of a vertical city, with a self-contained structure, capable of meeting the qualitative and quantitative needs of the surrounding environment. This is why, also in this project, architects Gonzáles de León, Serrano and Tejeda add a note of transgression, a sort of diagonal line that seems to suggest the possibility of a different kind of threedimensional dynamics referred to the context, thus breaking down in part, but still sensationally, the logic, symmetries and rigor of rationalism. Often, as is the case here, the material used contributes to identify the stylistic feature of the architects in question: it is a mark that grants a clear identity to the structure in its urban context. This is why the glass used here, in spite of being a light, transparent, almost intangible material, can create a strong and solid narration and remove whatever “numerical” frigidity that is so typical of the rationalist language.



In queste pagine, la torre vista dal lato d’innesto con l’edificio inclinato. On these pages, side view of the tower and sloping-base building.

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Particolare della “strada” interna e, a fianco, piante della torre. Detail of the internal “road” and, right, plans of the tower.


Particolare di uno degli ingressi alle torri. Detail of one entrance to the tower.

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Come un drappo mosso dal vento Like Drapes Blowing in the Wind Arabia Saudita, portale d’ingresso del cementificio di Yanbu Saudi Arabia, the main gate of the Yanbu cement plant Progetto di Studio 65 Project by Studio 65

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MATERIA MATTER

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’edificio fa parte, insieme alla torre di controllo e al Technical Building, di un gruppo di costruzioni definite dal committente “di rappresentanza”, comprendente gli uffici operativi e quelli destinati agli uffici direzionali del complesso produttivo. La costruzione ospita il personale addetto alla sicurezza e al controllo dell’accesso al cementificio. A differenza degli altri edifici destinati a fasi del processo produttivo completamente robotizzate, questa costruzione si distingue per la forma insolita, a sottolineare la sua funzione di luogo di lavoro dei dipendenti, dunque a simboleggiare un’architettura a dimensione umana. Essendo posta all’ingresso del complesso, la costruzione funge da portale, pertanto la sua forza simbolica doveva suggerire accoglienza per visitatori e clienti, ma anche soglia di protezione tra esterno e interno. Obiettivo del progetto era inoltre di creare una

struttura capace di esprimere nuove figurazioni nell’uso del cemento attraverso tecnologie inusuali. Le forme volutamente libere da ogni vincolo geometrico dovevano “raccontare” la materia svincolata dal proprio peso, come si trattasse di un grande drappo mosso dal vento. La forma ottenuta è frutto di calcoli realizzati grazie a complessi studi strutturali a computer, mentre la realizzazione è frutto della tecnologia del ferrocemento. Si tratta di una tecnica che permette di escludere le casserature - in questo caso molto costose - mantenendo i costi a livelli accettabili. L’edificio è composto di un’unica superficie che si sviluppa dal muro fino alla copertura senza interrompersi, avvolgendo nelle sue spire una torre troncoconica che di giorno è luogo di lavoro, mentre di notte è un faro illuminato per i viaggiatori del deserto.

Portale d’ingresso del cementificio di Yanbu in Arabia Saudita. L’edificio accoglie gli uffici del personale addetto alla sicurezza e al controllo dell’accesso al complesso produttivo. The main gate of the Yanbu cement plant in Saudi Arabia. This building houses the offices for the security and check point staff.

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Dall’alto in basso: sezione longitudinale, e pianta del piano terra, veduta di scorcio del portale. Above, longitudinal section and groundfloor plan. Below, shortened view of the portal.


Particolare dell’ingresso con le sinuose volute realizzate in cemento, che ne evidenziano le particolari doti di plasticità. Detail of the entrance with its sinuous concrete volutes, that show the plasticity of the materials used.

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he building, together with the watch-tower and the Technical Building, is part of a complex which the clients call “official”. The entire complex includes the central offices and the buildings that house the management of the manufacturing facility. The building houses the security personnel and the check-point for access to the cement plant. Unlike the other buildings of the complex that are completely automated, the distinguishing feature of this structure is its unusual form, intended to enlight the complex as a workplace for human beings, symbolized by its people friendly architectural style. Because it is the entrance to the complex, the building acts as a portal. Therefore, its symbolic power had to create both a welcome atmosphere for visitors and clients, as well serve as a protective threshold between the exterior and the interior. Furthermore, the project's intention was to create a structure capable of expressing new shapes by combining the use of concrete with unusual technology. The shapes, deliberately free of any geometrical restrictions, had to “narrate” the material, released from its own weight, as if it were drapes blowing in the wind. The final shape is the result of complex com-

puter-aided structural studies, while the actual structure is the result of the technology of iron-ore cement. This technique eliminates the need for special frameworks (in this case extremely expensive), resulting in cost savings. The building’s walls extend from the floor to the roof covering without interruption, culminating in spires which encircle a truncated conical tower. By day it acts as a workplace and by night it is a guiding light for desert travellers.


Underground neorganico Neo-organic Underground Lione, stazione della metropolitana Parilly Venissieux Lyon: Parilly Venissieux underground station Progetto di Françoise-Hélène Jourda e Gilles Perraudin Project by Françoise-Hélène Jourda and Gilles Perraudin

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uesta stazione - raccontano Jourda e Perraudin - è testimone del mondo sotterraneo che irriga le città contemporanee, composto di canali di distribuzione di energie (acqua, elettricità e quant’altro), ma anche di persone (trasporti, automobili ecc.). Insomma, questo nostro mondo è sempre più abitato, sempre più saturo di strutture e infrastrutture come, per esempio, la metropolitana, le cui stazioni sono una porta di accesso o di transizione tra due mondi”. La stazione è dunque collegamento e metafora del passaggio tra luce e tenebra, un’icastica architettura ipogea attraversata dalla luce del giorno grazie a cavedi e aperture in superficie. L’intervento in questione riguarda la stazione Parilly Venissieux della metropolitana di Lione, situata in un quartiere periferico e poco urbanizzato, posto su un nodo di grandi assi di circolazione. La costruzione della stazione è stata anche occasione di definizione di un piano ZAC (Zone d’Aménagement Concerté, Area di Sviluppo Regionale) che prevede un edificio di circa 10.000 metri quadrati, il cui ingresso funge anche come accesso ai binari. Il complesso infrastrutturale è caratterizzato dall’intersecarsi di due dimensioni fondamentali: sopra, la trama strutturale della costruzione e, sotto, l’asse della metropolitana fortemente inclinato rispetto alla parte superiore. Due diverse trattazioni formali caratterizzano l’intervento: il sottosuolo greve, quasi scolpito, in cui viene sfruttata abilmente la plasticità del cemento armato, contrapposto alla costruzione aerea del grande atrio di vetro e metallo dell’immobile realizzato fuori terra. I due ampi cavedi, che immettono luce nel sottosuolo, e la continuità arborea della struttura suggeriscono un’ideale continuità tra esterno e interno, tra chiuso e aperto: “Gli alberi della stazione appartengono - spiegano i progettisti -, come veri alberi, ai due mondi attraverso il loro radicarsi nel sottosuolo e il loro fiorire in superficie”. La transizione tra superficie e sottosuolo avviene

Banchina di sosta della stazione della Metropolitana Parilly Venissieux, realizzata nelle periferia di Lione.

Platform in the Parilly Venissieux Underground Station, located in a Lyon suburb.

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senza rotture; la materia non si automodella, assorbita dalla terra, ma si estende plasticamente, quasi fluidamente, verso l’alto. La stessa materia non viene contrapposta al vuoto, totalmente abitato e irrigato dai flussi del divenire, ma finisce per trasformarlo in pieno, anche se non allo stato solido. Le costruzioni realizzate dai due architetti francesi, e questo progetto in particolare, sembrano fondarsi sull’equilibrio - che si realizza nel confronto, nella compensazione, piuttosto che nella contraddizione - della sovrapposizione: “Il nostro è un mondo - spiegano Jourda e Perraudin - composto di molti mondi. In architettura questi universi sono sistemi (tecnici, spaziali, strutturali, programmatici) che si sovrappongono, coesistono, si ignorano e si organizzano indipendentemente. L’architetto è uno

stratega che gestisce connessioni, conflitti, e lascia che i sistemi dei mondi possano svilupparsi nella loro pienezza”. In questo progetto - in cui si leggono influenze delle strutture catenarie presenti nella cripta della Colonia Güell, a Santa Coloma de Cervellò, di Gaudì, e le fantastiche arborescenze di Frei Otto - la struttura diviene organismo, corpo e conformazione. Jourda e Perraudin vanno insomma alla ricerca di una sintesi di tutte le forze e tensioni che lavorano nella statica di una struttura architettonica. Questa realizzazione potrebbe definirsi quasi una sorta di high-tech organico, poiché dalla Natura si è riusciti a estrapolare una grande lezione sulla materia e le sue leggi attraverso l’osservazione del mondo vegetale.


Nella pagina a fianco, sezione longitudinale e, sotto, atrio di accesso alla stazione. Opposite page, longitudinal section and, below, the station entrance.

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his station”, in the words of Jourda and Perraudin,”is witness to the underground world irrigating contemporary cities, consisting of channels for the distribution of energy (hydro, power and so on) as well as of people (public transport, cars, etc.). In other words, this world of ours is evermore inhabited, evermore saturated with structures and infrastructures such as the underground railway, for example, the stations of which are access or exchange points between two worlds”. The station therefore seen as link and metaphor of the passage from light to darkness, a representative underground architecture shafted by daylight, thanks to air ducts and surface openings. The project is the Parilly Venissieux station of the Lyon underground system, located in a peripheral and sparingly urbanized quarter at the intersection of large transportation axes. Construction of the station has also been the opportunity for the definition of a ZAC (Zone d’Amenagement Concerté, Joint Development Area) plan which foresees a 10,000 sq. m. building whose main entrance is also the access to the train platforms. The infrastructural complex features the intersection of two fundamental dimensions: above, the structural layout of the building and, below, the underground axis, strongly sloped with respect to the building. Two different formal approaches characterize the project - the serious, almost sculptured underground where the plasticity of reinforced concrete is skilfully exploited, contrasting with the aerial construction of the glass and metal atrium of the building rising above it. Two ample air shafts, which let light into the underground area, and the arboreal continuity of the structure suggest an ideal flow between interior and exterior, between indoor and outdoor: “The station’s trees,” according to the designers, “just like real trees belong to the two worlds, through their rooting into the soil and their blossoming above ground”. The transition between surface and subsoil occurs without breaks. Matter does not congeal, absorbed by the earth, but extends upwards in a plastic manner, almost like a fluid. Matter itself here is not opposed to empty space, totally permeated and irrigated by the stream of development, but ends up transforming it totally, even if not into solid state. The buildings designed by the two French archi-

tects - and this project in particular - seem to be founded on the balance resulting from overlay created by comparison, by compensation rather than by contradiction: “Ours is a world - Jourda and Perraudin explain - consisting of many worlds. In architecture, these universes are systems (technical, spatial, structural, programmatic) which overlap, coexist, ignore each other and organize themselves independently one from the other. The architect is a strategist who manages the connections, the conflicts and allows the systems of the worlds to develop fully”. In this project - which reflects the influence of the catenary structures found in the crypt of the Colonia Güell in Santa Coloma de Cervellò by Gaudì and the fantastic arborescences by Frei Otto - the structure becomes organism, body, and shape. In short, Jourda and Perraudin have searched for a synthesis among all forces and tensions constituting the statics of an architectural structure. This project could almost be defined as a kind of organic high-tech, seeing that from nature they have been able to extrapolate a great lesson on matter and its laws through the observation of the plant world.

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Prospetti delle colonne laterale e centrale. Nella pagina a fianco, interno della stazione.

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Elevations of the central and lateral columns. Opposite page, the station interior.


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Vele bianche per il Giubileo White Sails for the Jubilee Roma, cantiere della Chiesa di Tor Tre Teste Rome, building site of Tor Tre Teste Church

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Per l’architettura, il cantiere è il momento della verità, luogo dove il sogno dell’architetto diventa realtà grazie all’opera di tecnici e maestranze capaci di dar forma e materia al progetto. Da vari mesi il cantiere della chiesa di Tor Tre Teste a Roma è in piena attività e, giorno dopo giorno, sta prendendo corpo un complesso chiesastico su cui si è scommesso molto. A cominciare dal committente, il Vicariato di Roma, che, coraggiosamente, ha deciso di realizzare una chiesa così fuori dagli schemi, ma anche Italcementi Group che lo affianca in un’opera tecnicamente impegnativa, caratterizzata da quelle “vele bianche” volute da Richard Meier e “capaci di condurci verso un mondo nuovo”. In attesa dell’evento, arcVision dà voce a quegli uomini che oggi incarnano gli antichi costruttori di cattedrali.

Una chiesa-simbolo Intervista all'ingegner Ignazio Breccia Fradadocchi del Vicariato di Roma (nella foto), direttore lavori della chiesa di Tor Tre Teste. di Mario Pisani

In quanto rappresentante dei desiderata della committenza, il Vicariato di Roma, ci può descrivere la storia della realizzazione di questa chiesa, a iniziare dal concorso a cui parteciparono un gran numero di archi-

tetti, ma che si risolse con un nulla di fatto? Nulla di fatto soprattutto per quanto riguarda l’erigenda chiesa nell’area di Tor Tre Teste, dove nessuno dei partecipanti - a giudizio unanime della giuria - ha presentato soluzioni attendibili. È noto che le committenze, anche se dispongono già di una cerchia di professionisti che operano al loro servizio, indicono concorsi nella speranza che possano emergere voci nuove, specialmente tra le giovani leve, al fine di migliorare la qualità architettonica delle chiese. In tempi non più tanto recenti, molti grandi nomi dell’architettura italiana erano emersi proprio tramite l’istituto del concorso. Ma nella gara aperta a tutti, indetta nel 1994, malgrado una imprevedibile partecipazione di massa, come credo non sia mai avvenuta, costituita da ben 534 gruppi per un totale di circa 2000 tra ingegneri e architetti, i risultati sono stati abbastanza deludenti. Anche il concorso indetto dalla Diocesi di Milano nel 1990 e che ha visto la partecipazione di 312 progettisti ha avuto risultati analoghi. Lei è stato membro della giuria di un concorso cui ha partecipato il meglio dell’architettura del nostro tempo, da Eisenman a Gehry. Perché vince proprio la proposta di Richard Meier? Qualcuno ha sostenuto maliziosamente perché è ebreo. In realtà lo sono anche altri tra gli invitati... Devo premettere che a Roma e in Italia, luoghi dove vengono costruite il maggior numero di chiese, le committenze ecclesiastiche troppo spesso, nel corso di questo secolo, hanno promosso opere insignificanti che vanno dall’inutile monumentalità alla inattendibile semplicità, provocando così, per diffidenza o scarsa conoscenza dei linguaggi della modernità, una evidente frattura tra architettura del sacro e architettura contemporanea. Questo per la prima volta nella storia della Chiesa. Si direbbe quasi che la committenza ecclesiastica nel XX secolo ha in un certo senso scoperto prima il post-moderno del moderno. Sul finire di questo secolo era quindi necessario un “gesto” forte, tale da superare i vecchi formalismi e ricondurre la ricerca architettonica verso forme e valori più autentici e più appropriati per l’edificio di culto. Questo è stato il vero movente dell’invito ai sei architetti. La scelta di questi nomi - certamente il panorama internazionale ne poteva suggerire anche altri - è stata quella di vedere come poetiche e

linguaggi diversi, ma tutti con la sensibilità del nostro tempo, riuscissero a interpretare lo spazio del sacro. Non ha importanza il credo religioso dell’architetto perché, come disse Ernesto Rogers, ciò che conta è la capacità essenziale del vero artista di immedesimarsi profondamente nei contenuti, come fosse un “credente d’osservanza”. Pensare diversamente sarebbe fare torto alla capacità dimostrata da grandi architetti, come il calvinista Le Corbusier, o il “laico” Alvar Aalto e altri ancora. I capolavori dell’architettura moderna, dalla cappella di Ronchamp di Le Corbusier alla chiesa sull’Autosole di Michelucci, sono stati fortemente attaccati dagli esperti in teologia perché il loro messaggio, la grotta e la spiritualità dei primitivi oppure la tenda, non sono simboli che si possono identificare con quelli cristiani. Pensa invece che lo sia la vela? Indubbiamente la vela ha sempre suggerito all’immaginario collettivo l’ipotesi del viaggio verso un mondo nuovo. È sufficiente rammentare quello di Colombo e forse proprio alle soglie del nuovo millennio la metafora del viaggio bene si addice a una Chiesa che non vuole e non può stare ferma... Nell’edificio di culto i veri simboli cristiani sono quelli che traggono i loro significati dalla liturgia o da altre verità che provengono dal magistero e dalla vita sacramentale della Chiesa. Le allegorie o le metafore sono rappresentazioni formali diverse dal significato proprio e quindi bene fanno quei teologi che dicono che non sono simboli essenziali del cristianesimo. È però importante che i teologi sappiano distinguere gli architetti che fanno del segno secondario l’unica motivazione dell’opera da quelli che invece hanno voluto esprimere, con forme spaziali appropriate, ben altri contenuti e dove, se vi sono allegorie e altri fatti esteriori, questi rimangono del tutto marginali. Per esempio le catacombe: finché erano cave di pozzolana erano solo grotte, ma, con la ricca simbologia cristiana che ha assunto un valore artistico ancora attuale (Mirò, Klee, Kandinsky...), testimoniano la vita e il sacrificio dei primi martiri. Chi le percorre oggi, a distanza di duemila anni, viene coinvolto, anche emotivamente, dalla forza spirituale che, in quegli spazi particolari, provengono da segni e da simboli autentici. Un architetto che oggi volesse fare una chiesa scavata come una grotta ma senza


Richard Meier accanto ai prototipi dei conci destinati a formare le vele in cemento; in basso, sequenza delle fasi di montaggio dei conci.

Richard Meier standing next to prototypes of the ashlars designed to form the concrete sails; bottom of page, sequence of ashlar assembly phases.

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trasfondervi altri segni appropriati, farebbe solo un inutile traslato. Altro esempio: la Croce è il simbolo fondamentale del culto cristiano, ma resta semplicemente un segno se non viene inserita in un’opera architettonica adeguata; è frequente incontrare tanti edifici di culto piuttosto squallidi dove l’architetto, apponendo un “crocione” in facciata, ha creduto dare specificità e senso del sacro a un edificio che resta comunque insignificante. Per tornare ai due esempi citati, Le Corbusier, se avesse voluto fare solo una grotta per la spiritualità dell’uomo primitivo (ci è caduto pure Argan), non avrebbe fatto il più grande capolavoro dell’architettura sacra di questo secolo, con uno spazio interno che avvince e sorprende anche la spiritualità dell’uomo d’oggi. Se la tenda di Michelucci posata sull’autostrada può richiamare la tenda biblica dell’uomo in cammino, il fatto è solo secondario e sarebbe rimasto del tutto ignoto come tantissime altre chiese a forma di tenda o di “mani giunte”, come dicono i loro autori. Ma la chiesa di Michelucci è anche e soprattutto un interessante esempio di architettura espressionista. È cosa certa che Meier non ha mai parlato di “vele” (denominazione postuma di altri), ma, fatto più importante, ha voluto creare tre grandi superfici sferiche prefigurando uno spazio avvolgente, segno di accoglienza, fortemente illuminato dalla luce che dall’alto discende, modellandosi sulla curvatura delle pareti e trasformandosi gradualmente in penombra. Per la verità, Meier le ha chiamate “conchiglie”, ma non sono certo se solo come termine di riferimento topico o anche nel significato del guscio che protegge al suo interno esseri viventi. Visitando il cantiere la sensazione che si prova è simile a quella che precede un grande evento. Eppure nasce spontanea la domanda: ma questo è l’unico modo di realizzare quelle vele? Per quanto riguarda questo aspetto, nonostante

la consulenza dello studio Arup, i progettisti delle strutture si sono trovati di fronte a problemi di scienza delle costruzioni e a difficoltà esecutive, in laboratorio, in stabilimento, in cantiere, senza precedenti. È quindi un cantiere sperimentale, non voluto, ma con il quale occorre misurarsi. L’idea di costruire le vele o meglio le conchiglie con grandi e pesanti conci, prefabbricati e posttesi, di calcestruzzo bianco e dalla geometria a doppia curvatura, è sistema costruttivo inedito. Il professor Antonio Michetti, consulente del committente e collaudatore in corso d’opera, lo ha ideato preferendolo ad altri processi costruttivi per ricondursi, in quest’opera, alle tecniche murarie dei grossi blocchi di travertino degli antichi romani, che durano da due millenni, evitando le tecniche sofisticate di oggi, come le vele in lamiera o cose simili che avrebbero invece durata effimera. Certamente questa chiesa, oltre a essere simbolo del Giubileo del 2000, farà anche testo per il suo singolare valore scientifico. Del resto il gotico è stato inventato dalla Chiesa perché non vi erano altre strutture che meglio si confacessero alle concezioni teologiche e alle necessità del culto di quel tempo, ma quel linguaggio è poi divenuto parte anche dell’architettura civile. Ancora nella seconda metà del secolo scorso, all’insorgere dei primi stabilimenti industriali, lo schema strutturale del gotico è stato rivisitato come quello che meglio si confaceva per coprire ampi spazi. Alla fine dei conti, quanto costerà questa impresa e quanto incide la realizzazione delle vele sull’intera costruzione? Si dice che la chiesa di Meier costerà 20 miliardi di lire. È vero? Non l’ha mai sfiorata l’idea dello spreco, l’immagine di una Chiesa “trionfante” che non è più quella dei giorni nostri, soprattutto se poniamo questa costruzione in rapporto con le chiese dei quartieri poveri, delle missioni del Terzo Mondo, delle favelas...

In effetti non sapremo mai il costo delle opere perché, venendo fornite gratuitamente o a prezzo ridotto, naturalmente non sono contabilizzate; ancor più difficile sarebbe la valutazione del costo di tutte le sperimentazioni preliminari e in corso d’opera di cui si è detto prima, comprese le attrezzature particolari e le loro opere accessorie che rientrano negli oneri degli sponsor. Pertanto in questo caso il costo dell’opera non coincide con il suo valore, ma ne rimane molto al di sotto. Il Vicariato di Roma nella costruzione degli altri centri parrocchiali interamente a suo onere prevede una spesa, per le opere murarie e gli impianti, contenuta nei 4 miliardi e, tenendo conto che detti complessi si aggirano sui 12.000 metri cubi, il costo è alquanto modesto. Riguardo alla chiesa del 2000, occorre tenere presente che sicuramente gli sponsor non sarebbero mai intervenuti se questo progetto non avesse avuto la firma di Meier e conseguentemente una pubblicità a livello internazionale, per cui possiamo concludere che anziché spreco vi è stata valorizzazione. Ne consegue che nulla viene tolto al Terzo Mondo e alle chiese povere, poiché queste non ne avrebbero avuto alcun vantaggio compensativo, anche se il Vicariato, per un principio di falso pauperismo, avesse rinunciato a quest’opera particolare. Pertanto la chiesa di Meier non può essere considerata chiesa “trionfante” nemmeno dal punto di vista dei costi. Trattandosi di impresa il cui interesse va oltre quello dei fedeli, ma investe anche quello degli altri cittadini che credono ancora nell’architettura come ricchezza della città, credo proprio che per le generazioni future la chiesa del 2000 diventi “chiesa trionfante”, nello stesso modo in cui noi siamo fortunati fruitori di quell’immenso patrimonio culturale delle tante chiese trionfanti e consegnate alla storia, senza le quali non saprei immaginare la Roma di oggi, né tante altre città del passato.


Il vero problema è forse passare dal simbolo alla realtà e quindi come realizzare e tenere in piedi queste vele. A questo proposito occorre tenere presente diversi aspetti. Il primo riguarda la realizzazione dei diversi conci, costruiti altrove; quindi il sistema delle fondazioni per sostenere i diversi conci, che nella fase attuale sono state già completate, tenendo presente che tale sistema deve anche essere in grado di sostenere la macchina che monta i conci. Il montaggio dei conci avviene attraverso una macchina particolare che chiamiamo “carro ponte”.

Nel segno di Leonardo Intervista all'ingegner Rinaldo De Salvador, (nella foto) direttore del cantiere della chiesa di Tor Tre Teste a Roma, progettata da Richard Meier. 84

di Mario Pisani

Dopo aver compiuto una puntuale visita a quello che senza dubbio si presenta tra i cantieri più complessi della Capitale e aver visionato i disegni esposti, a memoria di quanto già visto nelle pubblicazioni (i risultati di quel famoso concorso per la realizzazione della Chiesa del Giubileo a Roma), inizia un fertile domanda e risposta con Rinaldo De Salvador, l’ingegnere che dirige il cantiere. La prima domanda che nasce spontanea è saperne di più sulla nostra guida a cui chiedo una sorta di autopresentazione. Ho lavorato per due terzi della mia vita all’estero, per la realizzazione di centrali idroelettriche in Argentina, in Brasile (in Amazzonia), in Colombia. Sono dieci anni che vivo in Italia e l’ultimo cantiere che ho seguito si trovava in Alto Adige. Oggi con la Lamaro mi trovo a Roma, per seguire questa opera che mi permette di acquisire nuove esperienze. In ogni cantiere c’è sempre qualcosa da imparare. In questa chiesa cosa la colpisce più direttamente: l’aspetto architettonico o quello costruttivo? Entrambi, la presenza di tre ampie vele lega insieme sia l’architettura che il modo di realizzarla. Se non rammento male l’ipotesi iniziale era di realizzare queste grandi vele impiegando la lamiera. Con il progetto architettonico elaborato da Richard Meier, che ha vinto il concorso, è stata bandita una gara d’appalto e le diverse imprese che si sono presentate hanno proposto le loro soluzioni. Quella che ha vinto l’appalto e sta realizzando l’opera prevede che le tre grandi vele che costituiscono la parte più appariscente della chiesa siano realizzate attraverso un sistema di conci in calcestruzzo, con l’utilizzo del cemento bianco, messi insieme con la tecnica del precompresso. In tutti i progetti si presta attenzione alla volumetria, ai particolari architettonici e al colore. Anche nel nostro caso l’intervento presenta un alto numero di particolari architettonici, un attento studio del colore, ma ciò che si apprezza maggiormente è proprio questa volumetria complessa, realizzata attraverso delle curve e delle sezioni di sfera che denotano la caratteristica del progetto. L’occhio umano è abituato a percepire continuamente linee rette e angoli a 90 gradi, le vediamo continuamente in ogni luogo, mentre qui la superficie che verrà fuori è davvero diversa. Si vedrà una sorta di vela che sembra gonfiarsi per il vento? Si tratta dell’allusione alla marcia verso il futuro.

Vuole spiegare meglio in che cosa consiste? Si tratta di una macchina (vedi pagg. 82 e 83) che cammina su quattro rotaie circolari A, B, C e D : possiede quindi otto punti d’appoggio su cui scorre. Nella parte interna tra le rotaie B e C presenta una piattaforma mobile che viene impiegata verticalmente per sollevare da terra i diversi conci. Questa particolarità la fa somigliare proprio a un carro ponte, mentre sull’altro lato, nella rotaia A, possiede una struttura a forma di banana che abbraccia la vela, mentre quest’ultima scorre in orizzontale e cresce in altezza proprio al suo interno. Apparentemente sembra tutto molto complesso. Come avviene il montaggio dei conci? La prima fila si monta a terra, con una auto gru perché la piattaforma non può scendere al di sotto di un determinato livello, quindi l’intervento del carro ponte inizia dalla seconda fila. Le vele sono composte da file e da colonne: completata la prima fila si passa alla seconda e così via. Il montaggio avviene “pescando” il concio tramite un argano idraulico che lo solleva e lo poggia nella piattaforma che si predispone alla quota di montaggio. Una struttura, che si chiama rala, lo ruota di 180 gradi e lo posiziona nella fila e colonna corrispondente. Quindi i conci sono tutti diversi e numerati in progressione? Anche il fatto che ogni concio sia diverso da un altro ha rappresentato una difficoltà aggiuntiva per il processo di prefabbricazione, che avviene attraverso quattro casseri e ogni cassero è predisposto per completare una colonna alla volta. Le spondine laterali cambiano angolazione passando da una colonna all’altra e cambia la lunghezza. Una volta posizionato il concio si procede al fissaggio con barre e dadi Freyssinet. Tra un concio e l’altro si avvita un manicotto che funziona da collegamento tra la barra già montata e quella ancora da montare. Come avviene l’attacco tra un concio e l’altro? Una volta fissato al manicotto della fila precedente la barra Freyssinet, il concio viene appoggiato su quello della fila inferiore e la barra viene fissata con un dado alla parte superiore. Si fa la tesatura e il concio non si muove, all’interno esiste una cavità in corrispondenza dei giunti che viene riempita con un prodotto iniettato con la pompa. Una malta espansiva che unisce i conci e permette di realizzare la continuità della struttura, con un modulo per l’elasticità e la resistenza che saranno del tutto simili a quelle del materiale utilizzato per i conci. Il grande problema che avete incontrato in cantiere è stato quello di progettare e realizzare una struttura che è servita unicamente per sostenere il carro ponte, in pratica una macchina progettata appositamente per realizzare le tre vele. Sì, si è lavorato in parallelo: per la predisposizione del progetto per le strutture in cemento armato e del carro ponte, mentre la particolarità della macchina consiste nella sua forma a banana, che serve per avvolgere la forma sferica delle

vele. Ha un’altezza di 32 metri e una superficie di 260 metri quadri che corrisponde quindi a un palazzo con 20 piani che però si muove e trasla lungo quattro rotaie, mentre il peso complessivo, con la zavorra, arriva a 230 tonnellate. Una macchina quindi che trasmette considerevoli pressioni al terreno: arrivano a 80 tonnellate in operazione e 130 tonnellate a riposo. Il dato particolare consiste nel fatto che siete stati costretti a prevedere un doppio sistema di sostegno: sia quando il carro ponte è in movimento sia quando si trova in riposo. La macchina deve poter sopportare, quando è in operazione, una velocità del vento che può toccare i 45 km l’ora, mentre quando è a riposo la velocità può giungere fino a 100 km orari. Ciò significa che quando è attiva trasmette alla ruota più carica una pressione di 80 tonnellate, mentre a riposo la pressione arriva a 130 tonnellate e la trazione sulla ruota opposta giunge a 90 tonnellate e quindi è necessario ancorarla. Per poter montare il carro ponte sono state studiate fondazioni il cui requisito è dato dalla necessità di confondersi con quelle della chiesa, altrimenti saremmo stati costretti a demolirle. Le fondazioni previste per il carro ponte coincidono sempre con quelle della chiesa? In alcuni casi saremo costretti a eseguire delle demolizioni, come quelle per i cordoli delle rotaie su cui transita il carro ponte che via via si sposta per la realizzazione della vela uno, due e tre. Poiché, però, le vele hanno posizioni diverse ciò significa che la macchina sarà costretta a traslare una volta montata la prima vela. Per realizzare l’intera impresa sono stati necessari 12 binari che nella struttura interna della chiesa si confondono parzialmente con quella del solaio, che a sua volta trasmette il carico fino a 80 tonnellate alla struttura di fondazione che si trova nello scantinato, utilizzando 210 puntelli che si trasferiscono da una vela all’altra via via che vengono montate le vele. Occorrono due puntelli ogni 80 centimetri perché ciascuno sostiene 20 tonnellate.


Il cantiere della chiesa di Tor Tre Teste a Roma nella fase iniziale dei lavori; nella pagina a sinistra, particolare della base su cui poggiano i conci delle vele in cemento, tenuti insieme da un sistema di cavi d’acciaio in tensione.

The building site of the Tor Tre Teste church in Rome during the initial work phase; opposite page, detail of the base supporting the ashlars of the concrete sails held together by a system of stretched steel cables.

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C’è chi ha paragonato il vostro cantiere a un cantiere rinascimentale, simile a quello per la Cupola di Santa Maria del Fiore, utilizzando però una tecnologia dei nostri giorni. Certamente per costruire la Cupola hanno inventato macchine simili a queste. Sì, e anche la nostra macchina, terminato il montaggio dei conci sarà praticamente inutile perché non si ripeterà una costruzione simile che impiegherà la stessa geometria per realizzare vele la cui altezza massima è di 26 metri.

Una sfida avveniristica Intervista all’ingegner Gennaro Guala, (nella foto) direttore Opere Civili di Italcementi Group. di Carlo Paganelli Complessità volumetrica, candore assoluto, superfici sferiche: la chiesa di Tor Tre Teste a Roma è davvero un concentrato di problemi. Una bella sfida per chi ha dovuto dirigere l’équipe tecnica di strutturisti impegnata a definire soluzioni statico-costruttive così complesse e inedite. Le prime serie riflessioni sul come procedere sono nate dopo aver appreso come intendevano realizzare la chiesa gli strutturisti americani consulenti di Meier. Avevano proposto, per le pareti sferiche, una struttura metallica posta all’interno a sostegno di lastre in calcestruzzo successivamente intonacate. A parte l’estraneità di tale tecnica rispetto alla tradizione costruttiva italiana, la soluzione era subito parsa poco percorribile sia per problemi di deformabilità della struttura, sia per l’eterogeneità dei materiali, che non potevano essere così facilmente “appiccicabili” l’uno all’altro. Insomma, non c’erano sufficienti garanzie sulla durabilità dell’opera.

Un altro elemento di difficoltà sarà certamente l’aggancio delle lastre di cristallo che tamponano la costruzione. Per questo abbiamo previsto la realizzazione di appositi inserti che verranno lasciati tra i diversi prefabbricati sui quali successivamente appoggeranno le vetrate, sia quelle delle pareti che quelle della copertura. Occorre anche tenere presente che questi inserti devono prevedere il movimento delle vele e consentirlo.

Certo è davvero affascinante l’immagine delle vele che si muovono al vento… Esiste una oscillazione orizzontale per la vela all’estremo superiore che giunge ad alcuni centimetri. La prima vela, oltre ad avere un movimento di oscillazione, ne possiede anche uno lungo l’asse orizzontale proprio perché ha un appoggio fisso ad una estremità ed uno mobile nell’altra. Si tratta di appoggi di neoprene simili a quelli impiegati per i ponti. Anche le vetrate devono quindi assorbire questi movimenti.

Quale è stata, dunque, la soluzione? In un primo tempo si erano ipotizzate due soluzioni: getto in opera, oppure prefabbricazione. Entrambe le ipotesi presentavano vantaggi, ma anche alcune difficoltà. Alla fine è però prevalsa la prefabbricazione: per molti motivi, alcuni dei quali molto pratici. Si è pensato, fra le altre cose, che un elemento prefabbricato difettoso poteva essere scartato: un getto in opera mal riuscito poteva mettere in crisi tutta la struttura. Inoltre il controllo delle fessurazioni e la loro eventuale eliminazione sarebbero risultate molto più agevoli.

bero favorito fenomeni di carbonatazione, in grado di danneggiare le armature.

La fessurazione delle superfici era quindi l’incognita più temuta? Certamente sì. Su una superficie non impermeabilizzata una fessurazione passante avrebbe causato situazioni disastrose. L’obiettivo era trovare una soluzione tecnica che salvaguardasse soprattutto la splendida immagine del progetto architettonico. Questa chiesa è davvero molto particolare. Basti considerare le grandi vele - pensate come spicchi ritagliati da una sfera cava - oppure le ampie aperture che collegano la navata centrale alle due navate laterali. L’effetto generale è di grande leggerezza e suggestione visiva. Oltre alle fessurazioni, esisteva anche il problema delle polluzioni atmosferiche che avrebbero potuto alterare il candore voluto da Meier… Siamo riusciti a mettere a punto un tipo di calcestruzzo con particolari componenti che contribuiranno a mantenere più pulite le superfici. Si tratta inoltre di un ottimo calcestruzzo strutturale in grado di garantire le necessarie resistenze. In effetti, il problema principale, oltre a quello di far stare in piedi la struttura, era di garantire le migliori condizioni di durabilità. In tal senso, si è pensato di porre in compressione tutte le superfici esterne, onde evitare eventuali fessurazioni che avrebbero facilitato l’accumulo di sporco, con il conseguente degrado estetico delle vele e, soprattutto, avreb-

Si era accennato alla prefabbricazione, alla realizzazione di elementi che, posti uno sull’altro, avrebbero dato forma alle grandi vele bianche. Le grandi vele sono costituite da elementi prefabbricati montati uno sull’altro e bloccati uno sull’altro da barre in acciaio messe in tensione. Tale tensione è stata maggiorata o corretta attraverso cavi post-tesi, ancorati alla fondazione e a opportuni livelli sulla testa dei conci. È stata pure introdotta una indispensabile serie di cavi orizzontali. Essendo spicchi di sfera concava, i conci presentavano una certa complessità realizzativa. A cominciare dal tipo di cassero. Come avete proceduto in proposito? Il cassero, come la vela, è caratterizzato da una doppia curvatura, dunque non poteva essere realizzato con lamiere semplicemente calandrate. Le lamiere in acciaio inox che sagomano le superfici sono quindi adagiate su un graticcio metallico di sostegno, che - tagliato col laser riproduce esattamente il profilo delle vele. Un tentativo di semplificare il problema ricorrendo a casseri in resina, pur se rinforzati in acciaio, non aveva dato esiti soddisfacenti. Considerando il peso, circa 12 tonnellate, e il tipo di collocazione dei conci, come è stato risolto il problema della loro messa in opera? Si è dovuto inventare e poi realizzare una speciale macchina, in grado di posizionare i conci con la precisione e la delicatezza di una mano. La difficoltà consiste nel fatto che, essendo i conci accostati l’uno all’altro, possono essere agganciati solo al lato superiore. E come se non bastasse, c’è inoltre il fatto che man mano si sale, varia la loro inclinazione rispetto al piano, aumentando dal basso verso l’alto.


Un prodotto “intelligente” Intervista al dottor Luigi Cassar (al centro nella foto), direttore Ricerca e Sviluppo di Italcementi Group. 86

di Carlo Paganelli

“Le vele bianche ci condurranno verso un mondo nuovo”. Così Richard Meier parla della “sua” chiesa di Tor Tre Teste a Roma. Una bella sfida per Italcementi Group. Come avete risolto il problema del tipo di cemento da impiegare nella realizzazione delle vele bianche della chiesa considerata l’architettura-simbolo del Giubileo del 2000? L’estrema importanza dell’opera in questione, la qualità estetica voluta dall’architetto Meier, ma anche il grado di finitura e la durabilità imposta dal tipo di manufatto, hanno spinto Italcementi Group a sviluppare un nuovo cemento, cui

The building site is the moment of truth for architecture. It is the place where the architect's dream becomes reality thanks to the work of technicians and skilled workers who are able to give shape and form to the project. The building site for the church in the Tor Tre Teste quarter of Rome has been a hub of activity for several months. Day by day, the body of an ecclesiastical complex is taking shape. The project has involved a lot of risk-taking, beginning with the consignor, the Vicariate of Rome, who agreed to a church so out of the ordinary. Italcementi Group supports it, by building a project that is so technically binding, characterized by the “white sails” of Richard Meier that will be “able to lead us toward a new world”. In waiting for the event, arcVision gives voice to the men that today embody the builders of antique cathedrals.

A church, a symbol An interview with engineer Ignazio Breccia Fradadocchi, representative of the Vicariate of Rome and building site manager at the Tor Tre Teste church. by Mario Pisani In your capacity as representative of the wishes of the Vicariate of Rome who commissioned the work, the first thing I would like you to do is narrate the history of this church, starting from the bid for tenders in which a large number of architects participa-

abbiamo dato il nome commerciale di “Bianco TX Millennium”. Si tratta di un prodotto speciale, innovativo, la cui formulazione, brevettata, assicura un candore ineguagliabile e, soprattutto, costante nel tempo. Lo sviluppo di questo materiale si è avvalso delle ricerche che Italcementi Group conduce da oltre 10 anni in Italia e in Francia sui calcestruzzi ad alte prestazioni, sui cementi speciali e sugli additivi. In particolare hanno contribuito allo sviluppo di questo materiale i nostri ricercatori e tecnici. Per questa ricerca ci siamo avvalsi della collaborazione di alcuni importanti Politecnici e Università italiane con competenze specifiche di alto livello.

to domestico, scarichi industriali di sostanze chimiche aromatiche, pesticidi e quant’altro oggi è presente nell’aria delle città. Tali sostanze, una volta a contatto con la superficie cementizia, si ossidano fino a trasformarsi in anidride carbonica. Agli agenti inquinanti viene così a mancare il substrato su cui aderire, quindi la superficie del manufatto rimane pressoché inalterata nel tempo.

Cosa distingue “Bianco TX Millennium” dagli altri prodotti forniti da Italcementi Group? Sostanzialmente la presenza di particelle di fotocatalizzatori. L’introduzione di queste particelle nel cemento bianco permette allo stesso, una volta indurito - sotto forma di pasta, malta o calcestruzzo - di ossidare in presenza di luce e aria le sostanze inquinanti presenti nell’atmosfera che si depositano sul manufatto. Inoltre le alte prestazioni del prodotto sono state ottenute grazie all’impiego di additivi speciali studiati appositamente per questo materiale.

Oltre all’utilizzo per la chiesa di Tor Tre Teste, a quali altri impieghi è destinato “Bianco TX Millennium”? Numerosi impieghi. Per esempio: restauri, interventi che necessitano di elevata resistenza iniziale e finale, opere edilizie particolarmente impegnative sia per l’aspetto statico che estetico, ma anche pavimentazioni pregiate, manufatti da realizzare con trattamenti a vapore e non, getti per superfici faccia a vista, stucchi e sigillature.

“Bianco TX Millennium” prevede particolari accorgimenti durante la sua messa in opera? Assolutamente no. A parte la corretta osservanza di quanto prescritto dalle norme d’uso del prodotto.

Si tratta dunque di un prodotto “intelligente”, in grado di reagire all’aggressione di agenti atmosferici naturali, ma anche di quelli prodotti dall’uomo? Sì, l’azione fotocatalitica permette di eliminare inquinanti atmosferici come, per esempio, scarichi di automobili, fumi provocati da riscaldamen-

ted, but gave no final results. Above all it gave no results regarding the church which is being built at Tor Tre Teste, because none of the participants - in the jury's unanimous opinion - submitted a suitable project. It is well known that the commissioners, though having at their disposal a group of professionals, called for tenders hoping to discover new talents, especially among the younger generation, as well as to improve the architectural quality of churches. Through the ages, many of the great names of Italian architecture emerged thanks to this type of competition. However the open competition, which took place in 1994, had a disappointing outcome, despite the I believe unprecedented mass participation involving approximately 2,000 engineers and architects representing 534 groups. Likewise, the bid for tenders called by the Milanese Diocese in 1990, gave similar results for all 312 project submissions. You were a member of the jury in a competition in which the leading architects of our times participated, from Eisenman to Gehry. What exactly made Richard Meier's project the winner? Some claimed that it is due to his being Jewish, but actually others of those invited to submit a project were also Jewish... I must state in advance that in Rome and Italy, where the greatest number of churches are built, ecclesiastic commissions have all too often favoured insignificant projects which go from useless monumentality to unreliable simplicity, thus creating, through mistrust or a scarce knowledge of modern methods, a clear break in the relationship between religious architecture and contemporary architecture for the first time in the Church's history. It could almost be said that the 20th century ecclesiastic commissions, discovered post-modern

architecture before modern. At the end of the century, it was therefore necessary to make a strong statement in order to overcome past formalisms and to lead back to an architectural exploration of more authentic forms and values more suitable to a religious building. This was the real purpose behind the invitation extended to the six architects. Certainly, on an international level other names could have been added to our list, however the choice of these names was made in an effort to discover if different types of poetry and style would be capable of re-interpreting religious spaces, while still maintaining the sensitivity of our times. The architects' personal religious beliefs are of no importance because, in the words of Ernesto Rogers, what counts is the true artist's essential capacity to identify himself completely in the church's contents as if he were a practicing believer. To believe differently would be unjust towards great architects like the Calvinist Le Corbusier, or the layman Alvar Aalto as well as others. The masterpieces of modern architecture, from Le Corbusier's chapel at Ronchamp to Michelucci's church on the Autosole motorway, have all been severely criticized by experts in theology because of their message. Neither the cave and the spirituality of the primitives, nor the tent, are symbols which can be identified with Christianity. Do you think that sails are? Undoubtedly sails have always created the suggestion of a voyage to a new world, one must only think of Columbus; and perhaps at the dawn of the new millennium the metaphor of a journey is well suited to a Church which no longer wishes to - and may - stand still... In a religious building the real symbols of Christianity are those which have their significance


in the liturgy or other realities which derive from the teachings or sacramental spirit of the Church. Allegories and metaphors are formal representations differing from their original significance, and consequently those theologians who declare that they are not essential symbols of Christianity are correct. These same theologians, however, must be capable of distinguishing those architects who base the whole meaning of their project on the secondary aspect, from those who, through the appropriate use of form and space, wish to express other ideas, and whose use of allegory or other exterior methods remain purely marginal. The catacombs, for example, as long as they were only pozzolana caves, were merely grottoes, but through vivid Christian symbology they have assumed an artistic value still topical today (MirÚ, Klee, Kandinsky...) and remain legacies of the lives and sacrifices of the early Christian martyrs. Those who pass through the catacombs today, after 2,000 years, are enveloped, even emotionally, by the spiritual force which, in those particular places, springs directly from authentic symbols and signs. Today, if an architect attempted to create a church resembling a cave, but without adding any visible and appropriate signs, he would merely create a useless and empty shell. Another example: the cross is the fundamental symbol of Christian faith. However, it remains simply a sign unless it is located in a suitable architectural context; it is not uncommon to see somewhat sordid religious buildings where the architect, in placing a large cross on the face of the church, believes to have given sacred meaning and detail to a building which otherwise remains insignificant. Let us return to the two examples, mentioned earlier. If Le Corbusier had wished to simply create a cave representing the spirituality of the caveman (also one of Argan's misconceptions), then he would never have created the greatest masterpiece in religious architecture of this century, with an interior which enthrals and surprises even the spirituality of modern man. If Michelucci's tent, situated on the motorway, is capable of evoking the biblical tent, the fact is purely secondary and would surely have remained anonymous like many other churches shaped like tents or “joined hands”, to use the words of their projectors. But, Michelucci's church is also and above all an interesting example of expressionist architecture. It is a fact that Meier never spoke of “sails”, (a posthumous label coined by others) but, more importantly, wished to create three vast superficial spheres prefiguring an encirclement of space, symbolizing an atmosphere of acceptance and welcome, brightly illuminated by the light entering from high up which moulds itself from the pattern of the curved walls, gradually changing into half shadow. To be perfectly honest, Meier called them “shells”, but I'm not sure if this were intended as a topical reference or as a symbol of the shell which protects living beings within its interior. As you know I paid a visit to the work site and I got the general impression of a great event being underway. And yet, anyone would ask: is this the only possible way to build those sails? Despite consultation with the Arup Studio, as far as this aspect is concerned, the project designers were presented with unprecedented problems regarding the construction theory and actual building, both in the laboratory and factory as well as on the work site. It is therefore an experimental work site, unintentional, but nevertheless necessary. The idea of building the “sails” or rather “shells” with large, heavy prefabricated, open-textured white concrete ashlars, with double curves, is a method of construction never used before. Professor Antonio Michetti, the commissioner's consultant and on-site inspector, invented this procedure, preferring it to other methods, thus

adopting the technique of huge blocks of travertine already used by the ancient Romans for buildings which are still standing after two thousand years. In this way it was possible to avoid sophisticated, modern techniques, such as metal sheets, which would surely have been short-lived. Certainly, this church, apart from being the symbol of the Jubilee of the year 2000, will have a singular scientific value. Moreover, the gothic style was invented by the Church because there were no structures better suited to the theological conceptions and religious needs of those times; however that particular style then became part of the civil architectural style. Even up to the first half of the past century, when the first industrial plants and factories were built, a slightly modified gothic structural plan was considered to be the best possible way of covering large spaces. In the end, how much is the whole operation going to cost, and in particular how much of that is for the construction of the sails? Some say that Meier's church is going to cost 20 billion lire. Is that correct? Have you ever thought of the waste, the idea of a “triumphant” Church, no longer the Church we know today, above all if we compare this construction to churches in poorer areas, to Third World missions, to the “favelas”... As a matter of fact, we shall never know the exact cost of this church because, having received so much gratuitous collaboration or materials and labour at cost, it is impossible to put a value on it. It would be even more difficult to estimate the cost of all the preliminary experiments and those carried out during the work which were mentioned earlier, including the dedicated machinery and the consequent accessory work carried out which are at the expense of the sponsors. Therefore in this case the cost of the work does not coincide with its worth. It is much lower.

It is true that the Roman Vicariate has a provision of maximum 4 billion lire (entirely at its own expense) for the construction of other parish churches, and considering that these churches cover approximately 12 thousand cubic meters, the cost is rather low. In regard to the new millennium church, it must be remembered that if the project had not been designed by Meier, with the ensuing international publicity, then the sponsors would probably never have intervened, for which reason we can conclude that rather than waste there has been a valorisation. Naturally, it follows that nothing has been taken from the Third World or from the poorer churches, as there would have been no compensatory advantage, even if the Vicariate in a gesture of false pauperism had rejected this particular project. Therefore Meier's church cannot be considered a “triumphant” church, not even from the point of view of its cost. We are dealing with a project that does not simply concern the “faithful”. Instead, it concerns all of those other citizens who still believe in architecture as an enrichment of the city, I believe that the Millennium Jubilee church will indeed become a “triumphant” church, in the same way that we are the fortunate beneficiaries of that immense cultural heritage of the many triumphant churches delivered throughout history, without which it would be impossible to imagine Rome or many other historical cities today.

Plastico della chiesa del Giubileo. Plastic model of the church of the Jubilee.

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In the Sign of Leonardo An interview with engineer Rinaldo De Salvador, construction manager at the Tor Tre Teste church in Rome, designed by Richard Meier. by Mario Pisani

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After paying a timely visit to what is without doubt one of the most complex building sites in the capital, and after seeing the plans on display, recalling those already seen in the publications pertaining to the famous competition for the design of a church in Rome, a lively question and answer session with Rinaldo De Salvador, the engineer who manages the site. The first question which comes automatically to mind concerns our guide, from whom we request a sort of self-presentation. I have worked abroad for two thirds of my life, building hydro-electric plants in Argentina, Brazil (Amazon) and Columbia. I have lived in Italy for ten years. The most recent project that I managed was in the Alto Adige province. I'm managing this site in Rome on behalf of the Lamaro company, to gain new experience. There is always something new to learn on every building project. Which aspect of the church would you say strikes you the most, the architectural or its construction? I'd say both. The presence of three large sails binds the architectural aspect to the way in which it has to be built. If I remember correctly, the initial idea was to build these enormous sails using sheet metal. Following the architectural design conceived by Richard Meier who won the competition, a tender was called for and various companies submitted their ideas. The company that won the tender and is carrying out the building work devised a system for creating the three large sails, which are the most striking feature of the church, by using a series of white prestressed concrete ashlars. In all architectural projects the volume, as well as the architectural characteristics and color, are all carefully considered. Naturally, in our case too, the work involves a great deal of architectural details and an accurate study of the color, but

Simulazione al CAD dell’interno della chiesa con l’aula vista dall’altare. CAD simulation of the interior of the church with the hall seen from the altar.

undoubtedly, the most valuable aspect of all, is the complex nature of the volume created using curves and sections of spheres which characterize the whole project. The human eye is accustomed to perceiving continuous straight lines and 90 degree angles, found in fact everywhere, while the surface of this project will be something entirely different. The sails will appear to be billowing in the wind. It is indeed an allusion to the journey toward the future. The real problem is how to turn the symbol into reality and how to erect and support these sails. With regard to this, several aspects must be considered. The first aspect concerns the realisation of the different ashlars, built elsewhere; and the second aspect deals with the foundation system for supporting the various preconstructed ashlars, not forgetting that such a system must be capable also of supporting the machine which mounts the ashlars. The ashlars are in fact mounted by a special bridge crane. Would you like to explain how it is made? It is a vehicle (see pages 82-83) which moves on four circular rails A, B, C and D, therefore having eight different supporting sites on which to run. The interior section between rails B and C has a mobile platform which is used vertically for lifting the ashlars up from the ground. This characteristic in fact resembles precisely a bridge crane, while the other half, on the A rail, has a banana shaped structure which embraces the sail while the latter flows horizontally and grows in height from the inside. It all seems very complex. How are the ashlars mounted ? The first row is mounted on the ground, with a mobile crane because the platform cannot go below a certain level. The bridge crane is used from the second row upward. The sails are made up of rows and columns. At the end of each row a new one begins and so on. The ashlars are "fished" by a hydraulic winch which lifts them from the ground and places them on the platform set at the correct height for assembly. Another structure rotates them 180 degrees and places the ashlars in the corresponding rows and columns. So the ashlars are all different and progressively numbered.

Actually, the fact that the ashlars are all different has created further difficulties for their prefabrication. For example, each ashlar uses four casings, each of which is used for completing one column at a time. The side edges change their angle between columns and consequently their length. Once positioned, the ashlar is fixed with Freyssinet bars and nuts. A joint is also screwed into place between each ashlar as a connector between the bar which has already been fixed and the next which has yet to be mounted. How are the ashlars attached one to the other ? Once each ashlar has been fixed to the joint of the row preceding the Freyssinet bar, it is placed against the one in the row below and the bar is fixed with a nut to the higher part. After it is tightened, the ashlar doesn't move. Inside, there is a cavity in correspondence with the joints which is filled with a pump injected product. It is an expansive mortar which joins the ashlars, permitting the continuity of the structure, with a modulus of elasticity and resistance similar to the material used to make the ashlars themselves. An enormous problem which you had to face on the worksite was to design and build a structure whose sole purpose was to support the bridge crane, a machine designed specifically for building the three sails. Yes, the solutions to the problems were processed simultaneously: one for the preparation of the project of the concrete structures and one for the bridge crane. The machine's main feature is its banana shape, which serves the purpose of accompanying the spherical shape of the sails. It is 32 meters high and covers an area of 260 square meters, which in short corresponds to a block of twenty flats. It moves and travels along four rails, and its entire weight, including the cantledge, is as much as 230 tons. It is thus a machine that creates a considerable pressure on the ground, reaching 80 tons when in movement and 130 tons when stationary. The particular problem was, however, that it was necessary to create a double system of support, for when the machine is both in movement and when it is stationary. When moving, the machine must be capable of withstanding a wind speed up to 45 km an hour. When stationary, the wind resistance must be up to 100 km an hour. This means that when it is in action it transmits a pressure of 80 tons to the most heavily loaded wheel. When it is stationary the pressure reaches 130 tons and the traction


on the opposite wheel reaches 90 tons making it necessary to anchor it. In order to erect the bridge crane it was necessary to design foundations which could be combined with those of the church, otherwise it would have been necessary to demolish them upon completion of the project. Do all the foundations planned for the bridge crane correspond to those of the church ? In certain limited areas we shall have to carry out some demolition work. For example the curbs for the bridge crane rails, which will advance gradually as the three sails are built one after the other. However, since the sails are all in different positions, the crane has to be moved after each sail is finished. For the whole operation it has been necessary to build 12 tracks, which partly combine with the floor structure, and transmit the loads of up to 80 tons to the structure of the foundations in the basement below through 210 braces that are transferred from one sail to the next as they are built. Two braces are used every 80 centimeters, and each brace supports 20 tons. Someone compared this worksite to a Renaissance one, similar to that realized for the dome of Santa Maria del Fiore Cathedral, only with present day technology. Surely they invented cranes or machines similar to this one in order to build the dome. Yes, and our special crane too, once the ashlars are mounted, will be practically unusable, since a similar construction using the same geometry for erecting the 26 meter high sails will never be built elsewhere. Certainly another difficulty will be the installation of the crystal sheets which fill in the construction. For this purpose we have designed inserts which will be placed between the different prefabricated structures on which the glazing panels rest, both on the walls and on the roof. It must be remembered that the inserts have to accompany and allow the movement of the sails. This idea of sails moving in the wind is truly fascinating. There is a horizontal oscillation on the highest sail which measures only a few centimeters. The first sail, as well as having a swaying movement, also has movement along its horizontal axis because it is fastened at one end but free at the other. These are neoprene bearings, similar to those used for building bridges. Even the crystal panels then, will have to absorb these movements.

A futuristic challenge An interview with engineer Gennaro Guala, Civil Works manager of Italcementi Group. by Carlo Paganelli

Volume complexity, absolute candour, round surfaces: the Tor Tre Teste church in Rome is undoubtedly a complexity of problems. An absolute challenge for the director of the designer’s technical team called to find static-construction solutions as complex and novel as these. We started to look for a plan of action as soon as we got to know about the church layout prepared by the American structure designers chosen by Meier as his advisors. For the round surfaces, they suggested a metal structure be placed internally in order to support plastered concrete panels. This solution was immediately judged as unrealistic. Not only is such technique remote from the Italian building tradition, but also

because of the structure’s deformability and of the heterogeneity of the materials chosen, materials which cannot be so easily “stuck” one to the other. In short, the building’s durability could not be guaranteed. What solution did you opt for, then? At the beginning, we had two possible solutions in mind: either cast-in-place or prefabrication. Both hypotheses offered a series of benefits, but also some setbacks. In the end, we opted for prefabrication for a variety of practical reasons. Among other things, we thought that a faulty prefabricated element could be discarded, whereas an unsuccessful cast-in-place could jeopardize the entire structure. In addition, it would be much easier to control small cracks or fissures and, if necessary, eliminate them. Was surface cracking therefore the most feared uncertainty? Yes indeed. A split in a non water-proofed surface would have caused a disaster. Our aim was to find a technical solution that maintained the beauty of the architectural design. This church is really a very peculiar one. Just consider the large sails - designed as segments of a hollow sphere or the large openings that connect the central nave to the two side naves. The overall effect is that of utmost lightness and extreme visual impact. In addition to the risk of cracking, you also had to address the problem of air pollution, which threatened the candour pursued by Meier… We have succeeded in creating a type of concrete with special components that will help keep the surfaces cleaner. And it is perfect also for our structural needs. In fact, the main problem is not just to pull up the structure, but also to make it as durable as possible. We have therefore thought to compress all external surfaces to reduce the risk of cracks where dirt could collect. This would have entailed the aesthetic deterioration of the sails and, above all, would have given way to carbonation phenomena liable to damage the reinforcements. Before you mentioned prefabrication, that is the realization of overlapping elements that give shape to the large white sails. The large sails consist of prefabricated elements, assembled one on top of the other and locked in place by means of tensioned steel bars. This tension has been increased or adjusted by means of post-tensioned cables anchored to the foundation and to the ashlar heads at the right levels. It was also necessary to introduce a series of horizontal cables. Since they reproduce segments of a hollow sphere, the ashlars were quite difficult to realize, starting from the type of forms. How did you proceed? The forms, like the sail, are characterized by a double curve. Therefore, they could not be used merely with rolled sections. The stainless steel sheets used to shape the surfaces are laid on a laser-cut supporting metal grid that perfectly imitates the profile of sails. We had tried to solve this problem by using resin formworks, reinforced with steel, but with little success. Considering the weight, approximately 12 tons, and the placing of the ashlars, how did you solve the problem of their installation? We had to invent and then build a special bridge crane to lay the ashlars with the precision and delicacy of human hands. The difficulty is that the ashlars are placed side-by-side and therefore can be hooked only on the upper side. In addition, the higher we lay them, the greater is the incline with respect to the ground.

An “intelligent” product An interview with Luigi Cassar, Research & Development manager of Italcementi Group. by Carlo Paganelli

“The white sails will lead us toward a new world”. These were Richard Meier’s words when describing “his” church at Tor Tre Teste in Rome. Such a challenge for Italcementi Group. How did you solve the problem concerning which type of cement to use for the “white sails” of this church, considered the architectural symbol of the Millennium Jubilee? The considerable importance of the project itself, the quality of the external appearance upon which architect Meier insisted, as well as the degree of finish and durability required, inspired Italcementi Group to develop a new cement which we have named “Bianco TX Millennium”. This is a special and totally new type of product that guarantees an incomparable whiteness capable, above all, of remaining white even with the passage of time. The development of this product is a direct result of the research which Italcementi Group has been conducting on high-yield concrete, special cements and admixtures for the past ten years in Italy and France. Our researchers and technicians have contributed considerably to the development of this product. Furthermore, several important Italian technical schools and universities collaborated in the research. What distinguishes “Bianco TX Millennium” from the other products manufactured by Italcementi Group? Primarily the presence of photocatalysts. The addition of these particles into white cement allows it, once it has hardened - into paste, mortar or concrete - to oxidize in the presence of light and air the air-borne particulate deposited on the surface of the artefact. Moreover, the product’s other characteristics were achieved thanks to the use of admixtures, made specifically for this material. We are dealing therefore with an “intelligent” product, capable of reacting to natural atmospheric agents as well as those produced artificially? Yes, photocatalysis eliminates the effect of pollutants in the surrounding atmosphere, such as car exhaust, fumes from domestic central heating, industrial fumes and chemical discharges, pesticides and whatever else is present in our city air. Once these substances come into contact with the concrete surface, they oxidize and are transformed into carbon dioxide. Hence pollutants no longer find a sub-layer to attach themselves, and thus the surface of the building remains more or less unaltered over time. Does “Bianco TX Millennium” need any special handling during application? Absolutely not. Simply follow the product’s instructions for use. For which other applications is “Bianco TX Millennium” intended, apart from the Tor Tre Teste church? Various types of use, as for example: restoration works requiring considerable resistance both at the start and at the end of operations, particularly complex building construction projects in terms of stability and appearance, as well as for valuable flooring applications, artefacts to be built using steam treatment or not, surfaces, stuccoing and sealing.

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News

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I benefici della logistica Logistics benefits Fari puntati su Batimat 99 Lights on Batimat 99 La provocazione del Kursaal The challenge of Kursaal Italcementi Group e Holderbank: joint-venture in Belgio Italcementi Group and Holderbank: joint-venture in Belgium “Progetto Sistema”: il ruolo chiave degli additivi “Progetto Sistema”: the leading role of admixtures

I benefici della logistica Logistics benefits

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ssroc (Italcementi Group) ha aperto un nuovo terminale di importazione a Cleveland (Ohio). Il nuovo insediamento multimodale sarà utilizzato per fornire ai clienti dell’Ohio il cemento proveniente dall’impianto Essroc di Picton (Ontario) o da impianti esteri. Quest’anno, Essroc aggiungerà un silo da 4.000 tonnellate di cemento destinato al suo terminale per cemento sfuso di Columbus (Ohio). L’espansione porterà ad una capacità di stoccaggio più che raddoppiata rispetto a quella attuale di 3.000 tonnellate. Il terminale di Columbus, costruito nel 1992, è il cuore del sistema logistico di Essroc e rinnova le sue scorte quattro o cinque volte la settimana nei mesi di massima attività delle spedizioni. Nel 1998, è stato il terminale che ha registrato il maggiore volume di distribuzione. La società sta accelerando i tempi per le procedure di autorizzazione di un altro terminale di importazione sulla East Coast e fra breve inizierà la costruzione di un terminale di terra per cemento sfuso, a Indianapolis (Indiana), in un mercato importante per Essroc, a metà strada fra le cementiere di Logansport e Speed. (vedi mappa pagina a fronte) Logistica flessibile Il sistema logistico flessibile è la chiave per soddisfare la sempre crescente domanda da parte dei clienti. Si tratta di una soluzione innovativa per garantire l’approvvigionamento, ottimizzare l’utilizzazione della capacità produttiva e minimizzare i costi legati alla logistica della fornitura. Il mercato cementiero nordamericano è a carattere prevalentemente regionale ed è, pertanto, sensibile alle oscillazioni locali dell’economia e dell’attività edilizia. Tuttavia, date le diversità economiche di ciascuna regione, i cicli di attività, e quindi i cicli del mercato delle costruzioni, presentano caratteristiche locali diverse. Tradizionalmente, i produttori di cemento del Nord America utilizzano i terminali di distribuzione dello sfuso come

estensioni del sistema distributivo di un singolo impianto al fine di ridurre i costi di accesso a mercati metropolitani più grandi e situati a maggiore distanza. Tuttavia, nei periodi di maggiore domanda, alcuni produttori possono non avere una capacità produttiva sufficiente per soddisfare i crescenti bisogni dei mercati regionali serviti dai singoli impianti. Quando ciò accade, i produttori regionali riversano il cemento sui mercati locali più redditizi, abbandonando i mercati meno redditizi o riservando loro una fornitura limitata. Viceversa, nei periodi di rallentamento economico, durante i quali l’attività edilizia è in calo e la domanda è bassa, i produttori di cemento non solo si trovano ad avere problemi di eccedenza, ma devono anche, spesso, limitare l’utilizzazione degli impianti. Per questo, molti produttori di cemento incrementano la propria capacità produttiva per soddisfare le esigenze del mercato quando la domanda è forte, mentre passano ad un ritmo produttivo ben al di sotto della loro capacità quando si verifica un forte calo della domanda locale. Nel 1992, Essroc ha valutato la fattibilità di abbandonare la tradizionale pratica industriale cementiera, che isola a livello locale gli impianti di produzione e di distribuzione, in favore di una rete interregionale, ovvero in favore di una rete logistica flessibile. Il sistema è incentrato su tre principali impianti a via secca Picton (Ontario), Speed (Indiana) e Nazareth (Pennsylvania) - con una capacità produttiva totale di 4 milioni di tonnellate. A questi si aggiungono tre impianti a via umida - Bessemer (Pennsylvania), Logansport (Indiana) e Frederick (Maryland) - con una capacità totale di 1,5 milioni di tonnellate - insieme a tre centri di macinazione e tre terminali di importazione attivi. I terminali chiave di distribuzione sono ubicati in modo tale da poter essere riforniti da più di un impianto o terminale di importazione. Ad esempio, il nuovo terminale di Indianapolis può essere rifornito sia da Speed

che da Logansport, a seconda delle esigenze dei clienti, delle disponibilità e dei costi. I terminali situati a Columbus e Fairfield (Ohio) possono essere riforniti tanto dagli impianti produttivi di Essroc quanto dal cemento del terminale di importazione di Wilder (Kentucky). Negli Stati Uniti e nel Canada, Essroc gestisce otto terminali di terra per cemento sfuso, con l’esclusione di Indianapolis, nove magazzini di prodotti in sacco, sei terminali marittimi, nonché numerosi magazzini in locazione. Il team di logistica utilizza oltre 250 vagoni ferroviari, l’M/V Roman (la nave da carico più veloce dei Grandi Laghi), camion e chiatte per trasferire il cemento all’interno del sistema. Le importazioni sono la chiave per la stabilità e il rispetto degli impegni assunti I manager di zona di Essroc non frenano lo sviluppo dell’attività quando i picchi di produzione e gli impianti sono giunti a saturazione, ma continuano ad offrire i propri prodotti ben al di là della capacità produttiva. Infatti, per sostenere i clienti nella fase di forte espansione edilizia del 1998, gli impianti di Essroc non solo hanno funzionato al massimo della capacità, ma hanno anche importato un milione di tonnellate supplementari di cemento e di clinker. Nel 1998, il cemento importato a Newport News (Virginia) non solo è stato distribuito ai clienti locali, ma, unito al cemento prodotto da Essroc, è stato anche fornito al terminale di distribuzione di Charlotte (North Carolina). Il particolare terminale di importazione di Wilder (Kentucky) è al centro del mercato del Midwest di Essroc. Il cemento giunge dall’Europa in un punto del delta del Mississippi, al di sopra di New Orleans, da dove inizia un viaggio su chiatta di 15 giorni, risalendo il Mississippi fino al fiume Ohio per raggiungere infine Wilder. 45 chiatte vengono legate insieme a gruppi di 5 per un’area di sette acri.


Cosa significa tutto ciò per Essroc e i suoi clienti? E’ strategicamente importante ottimizzare le risorse produttive e distributive in ogni momento dell’anno e mantenere gli impegni con i clienti, indipendentemente dalle situazioni economiche contingenti. Capitalizzando scorte tampone di importazione per contribuire ad accrescere la propria capacità di fornitura nei periodi di maggiore domanda, Essroc può mantenere un pieno ritmo produttivo anche durante i periodi di calo della domanda riducendo le importazioni. Le scorte tampone di importazione contribuiscono inoltre a minimizzare i rischi di mercato associati a programmi di espansione della capacità produttiva a lungo termine assicurando gli sbocchi commerciali prima di incrementare la produzione. Questa strategia conduce ad una riduzione dei rischi in quanto questi vengono ripartiti fra le molteplici economie regionali. L’impegno dei manager di zona di Essroc è di soddisfare al meglio le esigenze dei clienti. Il loro obiettivo è di proporsi come partner leale; per questo, quando i clienti devono scegliere un fornitore, sceglieranno Essroc, anche quando la domanda è bassa. Il sistema di logistica flessibile consente a Essroc di raggiungere gli obiettivi prefissati, continuando nel contempo ad accrescere il proprio valore nel lungo termine. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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ssroc (Italcementi Group) opened its new import terminal in Cleveland, Ohio. The new multi-modal deepwater facility will be used to supply Ohio customers with cement from Essroc’s Picton, Ontario, plant, or from foreign suppliers. Essroc will add a 4,000-ton concrete silo and load-out spout to its Columbus, Ohio, bulk terminal this year. The expansion will more than double its current 3000-ton silo storage capacity. The Columbus terminal, built in 1992, is the heart of Essroc’s flexible logistics system and turns over its inventory four or five times a week during the peak months of the shipping season. In 1998, it was Essroc’s highest volume distribution terminal. The company is anticipating final approval for another East Coast import terminal soon.

Construction of a new land based bulk cement terminal is about to begin in Indianapolis, Indiana, a strong Essroc market midway between the company’s Logansport and Speed, Indiana, cement plants. (see map below)

Flexible logistics Essroc’s flexible logistics system is the key to meeting the everincreasing product demands of its customers. It’s an innovative solution to assure supply, optimize production capacity and minimize logistics supply costs. The North American cement market is a regional business and is, therefore, sensitive to regional swings in economic and construction activity. However, because the economic base of each region is different, the business cycle and hence the construction cycle of each region is different. Traditionally, North American cement producers use bulk distribution terminals as extensions of a single plant’s distribution system to reduce the cost of gaining access to larger more distant metropolitan markets. However, during peak demand periods, some producers may not have enough production capacity to meet the burgeoning needs of each plant’s regional markets. When this occurs, producers will often allocate cement to their most profitable local markets and abandon or limit shipments to their less profitable markets. Conversely, during economic slowdowns when construction activity is waning and product demand is low, cement producers not only have a surplus of cement in a region but must often curtail production, too. Hence, while many cement producers expand their

production capacity to meet the needs of the market when demand is strong, they often produce well below full production capacity when regional demand falls. In 1992, Essroc evaluated the feasibility of abandoning the

more traditional cement industry practice of regionally isolating production and distribution facilities in favor of an interregional distribution, or flexible logistics network. The system is structured around Essroc’s three core dry-process plants - Picton, Ontario; Speed, Indiana; and Nazareth, Pennsylvania - with a combined production capacity of four million metric tonnes. They are complemented by three wetprocess plants - Bessemer, Pennsylvania; Logansport, Indiana; and Frederick, Maryland - with a combined capacity of 1.5 million metric tonnes, as well as three grinding facilities and three active import terminals. Key distribution terminals are located where they can be sourced by more than one plant or import terminal. For example, the new Indianapolis terminal can be sourced from either Speed or Logansport depending on customer need, availability and cost. Terminals at Columbus and Fairfield, Ohio, can be sourced by Essroc production facilities as well as cement from the import terminal at Wilder, Kentucky. In the United States and Canada, Essroc operates eight bulk land terminals, not including Indianapolis, nine package products warehouses, and six marine terminals, as well as many leased warehouses. The logistics team uses more than 250 rail cars, the M/V Roman (the fastest freighter on the Great Lakes), trucks and barges to move cement

throughout the system. Imports are the key to stability and commitment Essroc territory managers don’t stop developing business when production peaks and the plants are sold out. They continue to offer products well beyond production capacity. In fact, to support its customers in the strong construction economy of 1998, Essroc’s plants not only operated at full capacity, but the company imported one million tons of additional cement and clinker, too. In 1998, cement imported at Newport News, Virginia, was not only shipped to customers locally, it also supplemented Essroc produced cement at the company’s Charlotte, North Carolina, distribution terminal. The unusual Wilder, Kentucky, import terminal is in the center of Essroc’s Midwest market. Cement arrives from Europe at a point on the Mississippi River delta above New Orleans where it is transferred to barges before beginning a 15-day trip up the Mississippi River to the Ohio River and eventually to Wilder. As many as 45 barges will be tied together in groups of five across, and will span seven acres. What does it mean for Essroc and its customers? It is strategically important to optimize production and distribution resources at all times and be committed to customers, regardless of economic conditions. By capitalizing on an import buffer to help extend its supply capacity during peak demand periods, Essroc can keep its plants fully utilized during offpeak demand periods by reducing imports. The import buffer also helps Essroc minimize market risks associated with major long-term production capacity expansion programs by securing market outlets ahead of adding production capacity and spreads a much lower level of risk among multiple regional economies. Essroc’s territory managers commit themselves to serving the needs of their customers. Their goal is to develop loyalty so that when customers are faced with a choice of suppliers, they will pick Essroc, even when demand is down. The flexible logistics system allows Essroc to meet its goals while at the same time continuing to grow Essroc’s value in the long term.

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Fari puntati su Batimat 99 Lights on Batimat 99

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Nelle immagini, il progetto dello stand di Ciments Calcia al BATIMAT 99 In the pictures some views of Ciments Calcia’s stand project at BATIMAT 99

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iments Calcia (una delle filiali francesi di Italcementi Group) partecipa al salone professionale dei materiali da costruzione, BATIMAT 99, che si svolge dall’8 al 13 novembre 1999 a Parigi. BATIMAT è il primo salone internazionale del settore Costruzioni e Lavori Pubblici, che raggruppa gli industriali di 13 Paesi dell’intera Europa, del Canada e degli Stati Uniti. Il salone ha luogo con frequenza biennale e, nel 1997, ha accolto 573.000 visitatori. Altre cifre hanno evidenziato l’importanza di questo appuntamento: 47 nazioni estere rappresentate, 3.986 fabbricanti e costruttori espositori di cui 2.253 industriali francesi, 300.000 m2 di superficie espositiva, ecc. Le statistiche dei visitatori indicano che si tratta di negozianti e distributori di materiali (15%), architetti (15%), imprese di costruzione (12%), artigiani indipendenti (20%). Nel 1997, inoltre, BATIMAT è stato visitato da 1.789 giornalisti. Nel 1997, anno della

creazione della nuova immagine di gruppo, Ciments Calcia aveva scelto questo tema, insistendo sul perimetro di Italcementi Group e sull’organizzazione delle attività industriali in Francia. Quest’anno viene privilegiata l’attività del gruppo nel settore cemento in Francia e l’accento sarà posto sulla gamma dei prodotti e i loro differenti mercati. Tutte le filiali francesi – Ciments Français, Ciments Calcia, Unibéton, GSM, Axim – partecipano quali invitati alla manifestazione con la possibilità di ricevere i loro clienti presso lo stand. La decorazione dello stand da 225 m2 è dedicata in particolare ai sacchi e al packaging: i visitatori hanno la possibilità di assistere giornalmente a dimostrazioni professionali e tecniche. Una conferenza sul calcestruzzo utilizzato per la costruzione della Chiesa del Giubileo è in calendario per venerdì 12 novembre 1999, destinata agli architetti e ai prescrittori. Ciments Calcia attende oltre un migliaio di visitatori, clienti, architetti, costruttori, scultori, ecc.

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talcementi Group French subsidiary, Ciments Calcia, will be taking part in BATIMAT 99, a construction materials show for trade professionals, November 8 – 13, 1999 in Paris. The BATIMAT show is held every two years and is put on by industry professionals from 13 countries including Canada, the United States, and many European nations. In 1997, it attracted 573,000 visitors from 47 countries. There were 3,986 manufacturers and builders exhibiting, 2,253 of which were French, in more than

300,000 square meters of show space. Fifteen percent of the visitors at the 1997 show were dealers and distributors of construction materials, 15 percent were architects, 12 percent represented construction companies and 20 percent were self employed artisans. The show also attracted 1,789 journalists. The 1997 show featured the new Italcementi Group corporate image and the different activities in France. This year, Ciments Calcia will emphasize the group’s cement activity in France, its products and its markets. All Italcementi Group companies in France – Ciments Français, Ciments Calcia, Unibéton, GSM and Axim – will be invited to welcome customers at the Group’s 225 square meter booth which will offer a variety of professional and technical demonstrations throughout the show. A special conference on the concrete used in the Jubilee Church will be held Friday, 12 November for architects and specification writers. Ciments Calcia alone is expecting more than a thousand visitors including customers, architects, builders and precasters.


La provocazione del Kursaal The challenge of Kursaal

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commessa “a rischio” (architettura e ubicazione provocatorie, da molti contestate) e, al tempo stesso, chiave di volta di un ambizioso programma di ristrutturazione di San Sebastian. Il Kursaal sottolinea la volontà dell’orgogliosa città basca di riannodare il filo con un prestigioso passato che l’ha vista accogliere diverse generazioni dei grandi del nostro mondo, pur portando avanti con decisione la sfida della modernità. Questo edificio, inaugurato nel mese di giugno, permetterà a San Sebastian di offrire al mondo degli affari e al flusso del turismo economico quel Palazzo dei Congressi di cui si sentiva chiaramente la mancanza. Realizzato ad alcune centinaia di metri dalla baia de La Concha, nel punto dove sorgeva il vecchio casinò, il complesso è situato fra la foce del fiume Urumea e l’emblematica spiaggia del Gros, un quartiere dotato di una forte personalità culturale e sociale. A un costo globale di 9.000 milioni di pesetas (circa 55 milioni di euro), il progetto futurista dell’architetto navarrese Rafael Moneo si è imposto per l’originalità delle sue forme e l’eccellente arredamento interno, nonché per la sua perfetta integrazione nel piano regolatore della città, voluto dai suoi architetti alla vigilia del Terzo Millennio. La sua ambizione è di accogliere manifestazioni, le più svariate, dai convegni alle fiere, dai festival ai concerti, ecc. Cementos Rezola (Italcementi Group) è orgogliosa della sua partecipazione a questa realizzazione con la fornitura di circa 15.000 tonnellate di

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Veduta aerea del Kursaal Aerial view of the Kursaal

cemento (delle qualità CEM II/A-L 42.5 R e IV/A 32.5 SR) provenienti dagli stabilimenti di Añorga (San Sebastian) e di Arrigorriaga (Bilbao).

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“risky” bet (controversial architecture and location that have been criticized in some quarters) and at the same time the cornerstone of an ambitious renovation scheme for San Sebastian. The Kursaal reflects the desire of this proud Basque town to continue with its prestigious past during which it welcomed many generations of the great of our world, while at the same time taking up the

challenge of modernity. The building, which was inaugurated last June, will enable San Sebastian to provide business travelers and budget minded tourists the conference center that was so badly needed. Just a few hundred meters from La Concha Bay on the site of the former casino. It is situated between the mouth of the Urumea river and the famous Gros Beach, an area with a strong cultural and social personality. This 9,000 million pesetas (about 55 million euros) futuristic project by the Navarre architect Rafael Moneo was chosen because of the originality of its forms, its excellent indoor design and because it fits in perfectly with

that urban architecture specified by the town’s architects at the eve of the third millennium. It is designed to host such widely differing events as conventions, exhibitions, festivals, concerts, etc. Cementos Rezola (Italcementi Group) is proud to be involved by contributing about 15,000 tons of cement (CEM II/A-L 42.5 R and IV/A 32.5 SR) from the Añorga plant (San Sebastian) and the Arrigorriaga plant (Bilbao).


Italcementi Group e Holderbank: joint-venture in Belgio Italcementi Group and Holderbank: joint-venture in Belgium

Panoramica degli insediamenti di CCB e Obourg Panoramic view of the CCB and Obourg plants

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a globalizzazione dei mercati del cemento e dei granulati richiede un sostanziale miglioramento della competitività. Nell’intento di dare una risposta industriale a questo problema, le società CCB (Italcementi Group) e Obourg Granulats (Holderbank) hanno firmato un accordo allo scopo di mettere in comune, nell’ambito di una nuova società, lo sfruttamento dei giacimenti di calcare per una produzione annua di 10 milioni di tonnellate distribuite sui siti della cava del Milieu appartenente a Obourg Granulats e delle due cave di Gaurain-Ramecroix e Barry appartenenti a CCB. Il volume di produzione la renderà quindi la più grande società di estrazione del Belgio. Le attività comuni riguarderanno esclusivamente la preparazione dei giacimenti, il taglio, il caricamento, il

trasporto e la frantumazione primaria. I giacimenti resteranno di proprietà di ciascuna società. L’accordo vincolerà le due società fino al 2030. 1. Obiettivi Questa strategia di razionalizzazione e ottimizzazione delle risorse tecniche e umane presenta numerosi vantaggi per i due partner: - un più razionale sfruttamento dei giacimenti con un positivo impatto ambientale (2 cave al posto di 3); - un miglioramento della competitività; - un’ottimizzazione degli investimenti; - una maggiore garanzia di continuità delle attività ‘cemento’ e ‘granulati’. 2. Investimenti A breve termine, cioè nel periodo 1999-2001, sono

previsti investimenti per 500600 milioni di franchi belgi. Gli investimenti riguarderanno sostanzialmente il tunnel di collegamento fra le cave e la trasformazione degli impianti di frantumazione e vagliatura primarie. Se i normali tempi di concessione delle necessarie autorizzazioni saranno rispettati, l’inizio delle attività della nuova società è previsto per la primavera del 2002. 3. Dipendenti La nuova società intende utilizzare il personale e le risorse esistenti. In tale ottica, i trasferimenti di personale riguarderanno all’incirca 150 operai e una decina di impiegati. 4. Ambiente Al di là dell’evidente interesse economico e finanziario, il progetto avrà un notevole impatto sull’ambiente. Esso permetterà infatti, a breve termine, di concentrare

l’estrazione del calcare in due cave al posto di tre. Nel 2035 la totalità del calcare necessario potrebbe provenire dalla sola cava di Barry. Degna di nota è anche la scelta di trasportare il materiale via tunnel eliminando così eventuali interferenze paesaggistiche, ambientali e acustiche. La condivisione dell’importante know-how delle società madri in tema ambientale costituirà un ulteriore vantaggio per le attività della nuova società. 5. Rapporti con gli abitanti Sono state tenute in alta considerazione le comprensibili preoccupazioni degli abitanti, soprattutto per quanto riguarda il tunnel di collegamento da realizzare fra i siti del Milieu e di Gaurain. Le prime reazioni registrate sono comunque favorevoli al progetto. 6. Mercato CCB e Obourg Granulats manterranno la loro totale indipendenza dal punto di vista commerciale. L’approvvigionamento di prodotti primari presso la nuova società di estrazione non avrà alcuna conseguenza sulle rispettive strategie commerciali dei due azionisti, che restano concorrenti sul mercato dei granulati.


2. Investments In the short term, from 1999 to 2001, 500 to 600 million Belgian Francs will be invested. The main investments will be made in the tunnel linking the quarries and transformation of the primary crusher and first classifying facilities. If the applications are approved within the normal time, the new company should begin operations in the spring of 2002.

Quarry

3. Employment The new company will use existing personnel and resources. About 150 blue-collar workers and a dozen white-collar workers will be transferred.

Stone conveyor Primary crushing Stock piles

T

Schema del nuovo processo produttivo Scheme of the new production process

Un tunnel fa l’unione Tied together by a tunnel Il progetto consiste nell’apertura di un tunnel dotato di un impianto di trasporto del materiale estratto dalla cava di Obourg Granulats agli impianti di trattamento della CCB, dove il materiale sarà successivamente utilizzato per la produzione di cemento o granulati. Il tunnel, della larghezza e altezza di 4,5 metri, accoglierà un trasportatore della capacità annua di 4/4,5 milioni di tonnellate di materiali già sottoposti a una prima frantumazione nella cava del Milieu (Obourg Granulats). La lunghezza del tunnel sarà di 1.400 metri.

The project consists in opening a tunnel equipped with a conveyor that will take the stone quarried from the Obourg Granulats site to the CCB processing facilities, where it will be turned into cement or aggregates. The tunnel will be 4.5 meters high and wide and will accommodate a conveyor that will each year transport 4 to 4.5 million tons of materials that have undergone primary crushing at the Milieu quarry (Obourg Granulats). The tunnel will be 1400 meters long.

Planimetria di collegamento tra le due cave General plan of the connection between the two quarries

he globalization of the cement and aggregates markets makes these two industries more competitive than ever. In response, CCB (Italcementi Group) and Obourg Granulats (Holderbank) signed a business agreement to combine their quarrying operations into a new company with a 10 million ton annual production capacity to be divided between Obourg Granulats’ Milieu quarry and CCB’s Gaurain-Ramecroix and Barry quarries. The new company will therefore have the largest output of any quarrying company in Belgium. Joint operations will be limited to quarrying, primary crushing, loading and shipping limestone. The quarries will remain the property of each company. The agreement will link the two companies until 2030. 1. Aims of the operation This strategy of rationalizing and optimizing technical and human resources is of considerable advantage to both partners: - more efficient use of their quarries with positive environmental impact (two quarries instead of three); - competitiveness improvement; - investment optimization; - assurance of supply for their own ‘cement’ and ‘aggregates’ activities.

4. Environment In addition to clear economic and financial benefits, the project will also have a considerably positive impact on the environment. In fact, in the short term, quarrying will be limited to two of the three sites. In fact, by 2035, all required stone could be supplied by the Barry quarry alone. The choice of conveying stone through tunnels has to be pointed out too. This will avoid the potential nuisance of noise and dust and impacting the landscape. Pooling the important environmental know-how of the parent companies will also benefit the activities of the new company. 5. Relations with the local residents Concerns of the local residents have been taken into account, especially with regard to the tunnel that is to connect the sites of Milieu and Gaurain. First reactions to the project are favorable. 6. Market CCB and Obourg Granulats will maintain complete commercial independence. The supply of raw materials at the new quarrying company will have no impact on the respective commercial strategies of the parent companies, which will still compete in the aggregates market.

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“Progetto Sistema”: il ruolo chiave degli additivi “Progetto Sistema”: the leading role of admixtures

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talcementi Group è uno dei primi produttori di additivi a livello europeo e mondiale ed è il principale operatore nel bacino del Mediterraneo. In questo contesto l’obiettivo del gruppo è creare valore attraverso una strategia che prevede globalizzazione, consolidamento e diversificazione. Una strategia importante che ha come punto di riferimento le esigenze del cliente e la sua soddisfazione. Il Progetto Sistema, che riguarda l’offerta combinata di cemento, additivi e servizi tecnici, rappresenta un passo in questa direzione. Questa nuova visione dell’offerta “cemento + additivi + servizi tecnici” fa quindi parte della strategia internazionale di Italcementi e sarà applicata nei Paesi dove operano aziende specializzate nel settore additivi. Un primo significativo passo è stato uniformare il nome delle varie società del gruppo ed in questa logica Italeux, operante sul mercato italiano con una significativa presenza ed una quota di mercato pari a circa il 12%, ha modificato il proprio nome in Axim Italia, affiancandosi alle altre società Axim France ed Axim USA. Tra le varie Axim verrà avviato un programma intenso di scambio di esperienze e di ricerca in modo da mettere in comune, e quindi al servizio dell’utilizzatore finale, brevetti, esperienze, ricerche su nuovi prodotti o processi, nonché una banca dati, aggiornata in tempo reale, contenente migliaia di risultati

ottenuti presso i cantieri dei clienti serviti. L’additivo è il quarto componente del calcestruzzo, dopo il cemento, gli inerti e l’acqua, in ordine sequenziale. In ordine di importanza, invece, ai fini delle prestazioni finali del calcestruzzo, l’additivo assume un ruolo determinante assieme al cemento, in quanto crea un valore per il cliente superiore alla somma dei due componenti. Il pacchetto “cemento – additivo – servizio” diventa quindi per il Cliente una integrazione positiva dell’offerta, in quanto la conoscenza diretta di ogni componente permette a Italcementi di formulare la migliore proposta tecnicoeconomica. La miscela viene così ottimizzata in funzione della specifica applicazione costruttiva, garantendo all’utilizzatore finale le prestazioni richieste ed il massimo valore aggiunto. Il Progetto Sistema rappresenta quindi la volontà di Italcementi di perseguire la soddisfazione dei clienti, attraverso l’integrazione globale delle sue strutture, delle sue competenze e dei suoi meccanismi operativi, offrendo, al di là dei prodotti, le migliori soluzioni ai loro problemi. In Italia il Progetto Sistema è stato presentato all’organizzazione commerciale con un incontro svoltosi a Bergamo lo scorso 29 luglio.

talcementi Group is one of the leading admixture producers at both the European and world levels and is the main producer in the Mediterranean area. In this context, the aim of the Group is to create value through a strategy that envisages globalization, consolidation and diversification. An important strategy emphasizes customer needs and satisfaction. The “Progetto Sistema” (System Project), which revolves around the combined supply of cement, admixtures and technical services, represents a step in this direction. This new approach of a “cement + admixtures + technical services” package forms part of Italcementi’s international strategy. It will be applied in the countries where firms specializing in admitxtures are operating. A significant first step was to render the name of the various companies of the Group the same. For this reason, Italeux, operating in the Italian market with a significant presence and a market share of approximately 12 percent, has changed its name to Axim Italia to align it with the other companies, Axim France and Axim USA. An intense program of research and experience exchange will be set under way among the various Axim companies to bring together, and hence offer the end user, patents, experience, and research on new products or processes, as well as a technical data base. The latter

will be updated in real time and contain thousands of results achieved at Axim customer construction sites. The admixture is the fourth component of concrete, after cement, aggregates and water, in sequential order. However, in order of importance, and for the purposes of the final performance characteristics of concrete, admixtures assume a determining role. Together with the cement, they create a synergistic value for the customer, one which is higher than the mere sum of its various components. For the customer, the “cement + admixture + technical service” package thus becomes an advantageous integration of the supply, in that the direct knowledge of each component enables Italcementi to formulate the very best technical and economic proposal. This way the mix design is optimized for the specific building application, guaranteeing the required performance and maximizing added value to the end user. The “Progetto Sistema” represents the Italcementi’s desire to pursue customer satisfaction through global integration of its resources, expertise and operating mechanisms. It will therefore offer the best solutions to customer problems, in addition to its products. In Italy, the “Progetto Sistema” was presented to the sales organization during a meeting held at Bergamo July 29, 1999. Stoccaggio e distribuzione: due fasi importanti dell’attività di Italcementi Group nel settore additivi Storage and distribution: two important steps of Italcementi Group’s activity in the admixtures sector


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