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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Periodico semestrale anno XI n° 24 - Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - DCB Bergamo

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Global Capitalismo umanistico come scelta responsabile di sviluppo economico, ma anche di progresso sociale e culturale. Sfida o utopia? Humanistic capitalism as a responsible choice for economic development and also socio-cultural progress. A challenge or utopian dream?

Projects Utopie urbane e tecnologie digitali prefigurano straordinarie visioni di cittĂ future svelando nuovi territori Urban utopias and digital technology prefigure extraordinary visions of cities of the future, revealing new realms

News Innovazione e ricerca: dall’utopia le leve per entrare nel mondo di domani Innovation and research: leverage from utopia for entering the world of tomorrow


Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor Sergio Crippa Comitato di redazione Editorial Committee Silvestro Capitanio, Antonio Carretta, Marielle Desmarais, Alberto Ghisalberti, Gérard Gosset, Jean-Pierre Naud, Ofelia Palma Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

■ Global ■

■ Projects ■

■ News ■

In questo numero ■

Ambiente Environment

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In this issue ■

Margot Wallström

Ricerca per un ambiente pulito

Research for a Clean Environment

Renato Mannheimer

La Corporate Reputation

Corporate Reputation

Björn Stigson

Un caso di business: sviluppo sostenibile

The Business Case for Sustainable Development

Luigi Cassar

Materiali ed eco-compatibilità

Materials and Eco-compatibility

Rino Pavanello

Tra conflitto e dialogo, trend per il Terzo Millennio

Between Conflict and Dialogue, the Third Millennium’s Trend

Cristina Rapisarda Sassoon

Imprese e ambiente, un rapporto naturale

Businesses and the Environment, a Natural Relationship

Manfredi Nicoletti

Architettura naturale

Natural Architecture

Testi a cura di Texts by Carlo Paganelli

Quando la città sogna

When the City Dreams

Progetto di Architect 5 Partnership

Project by Architect 5 Partnership

Copertina, rendering del progetto Tuin dello studio olandese MVRDV

The Ocean inside the City

Progetto di IDEA / Engil

Project by IDEA / Engil

Strutture blu per acque chiare

Blue Structures for Clear Waters

Progetto di Jacques Ferrier e François Gruson

Project by Jacques Ferrier and François Gruson

Fra localismo e modernità

Between Regionalism and Modernity

Progetto di B&M Architects / Devecon

Project by B&M Architects / Devecon

Creatività multiculturale

Multicultural Creativity

Progetto di Tadao Ando Architect and Associates

Project by Tadao Ando Architect and Associates

Appesa a un filo

Hanging by a Thread

Progetto di Mario Botta

Project by Mario Botta

Esposizioni metropolitane

Metropolitan Exhibitions

Progetto di un pool di architetti internazionali

A project by a pool of international architects

Cemento fertile

Fertile Concrete

Progetto di Snøhetta

Project by Snøhetta

India, Cement as a Consumer Good

La cementeria diventa DOC

The Cement Plant becomes DOC

La magia del titanio

The Magic of Titanium

Il team di Halyps si prepara alle Olimpiadi

The Halyps Team prepares for the Olympics

Cover, rendering of the Tuin project by the Dutch firm MVRDV

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L’oceano dentro la città

India, il cemento come bene di consumo

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Chiuso in tipografia il 30 Novembre 2001 Printed November 30, 2001


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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor in Chief Sergio Crippa Caporedattore Managing Editor Francesco Galimberti Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House Arcadata srl Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

Quando soffiano i venti del cambiamento

■ Global ■

■ News ■

NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Michele Salvati

Uno, due, tre...capitalismi!

One, Two, Three...Capitalisms!

Carlo Pesenti

Libertà, sostenibilità, responsabilità

Freedom, Sustainability, Responsibility

Combattere le diseguaglianze

Combating Inequality

Intervista a Jean-Paul Fitoussi

Interview with Jean-Paul Fitoussi

Democrazia e controlli

Democracy And Control

Intervista a Charles A. Kupchan

Interview with Charles A. Kupchan

Alba africana

African Dawn

Maurizio Vogliazzo

La Fabbrica di Utopie

The Factory Of Utopias

Testi a cura di / Texts by Arcadata

Gli opposti? Attratti

Opposites? Attract

Progetto di NIO architecten

Project by NIO architecten

Un progetto d’Opera

Project For An Opera House

Progetto di Ateliers Jean Nouvel

Project by Ateliers Jean Nouvel

Copertina, Neuronal Alien, parco scientifico futuristico

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Neocapitalism After The Crisis

Massimo Di Nola, Riccardo Barlaam ■

Neocapitalismo dopo la crisi

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Luigi Zingales

aV

■ Projects

Mondi verticali

Vertical Worlds

Progetto di WASX-Antonio Petrov

Project by WASX-Antonio Petrov

Organismi urbani

Urban Organisms

Progetti di Vincent Callebaut

Projects by Vincent Callebaut

Il collezionista di idee

The Ideas Collector

Progetti di autori vari

Projects by various architects

Il Migliore

The Natural

Passi nel futuro

Stepping into the future

Crescere nel deserto

Growing in the desert

Telefoni bianchi

White telephones

A regola d’Arte

The rule of Art

Cover, the futuristic science park Neuronal Alien

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When The Winds Of Changes Shift

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Chiuso in tipografia il 15 dicembre 2010 Printed December 15, 2010


Quando soffiano i venti del cambiamento When The Winds Of Changes Shift

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al Repubblica di Platone alla Città del Sole di Campanella fino ad Huxley, Orwell e le utopie che nel corso del XX secolo hanno investito ogni forma del sapere umano (politica, scienza, arte, letteratura, architettura e urbanistica): tutte sono l’espressione di una

naturale aspirazione al rinnovamento della società, una tensione emotiva verso un mondo perfetto privo di dolore e di falsità. Da sempre il pensiero utopico ha generato “altrovi immaginari”, “mondi alla rovescia”, “terre promesse”, “planimetrie urbane a rigorosa scansione geometrica”. Male di vivere che genera nell’uomo il desiderio di qualcosa di nuovo e di migliore in cui credere, le visioni utopistiche prendono corpo con più consistenza nelle fasi storiche di declino o di transizione, quando cioè maggiore è il carico delle aspettative di cambiamento ideale e reale. Quale miglior terreno, dunque, che l’attuale congiuntura economica per il sorgere di una nuova utopia? Se il fenomeno “crisi” può essere considerato endemico al sistema capitalistico del quale scandisce i cicli di crescita e rallentamento, la recessione globale di questi anni merita di essere meglio indagata nella sua funzione positiva di leva del cambiamento, momento di passaggio ed evoluzione. Come tale, se le ragioni che l’hanno prodotta possono essere riconducibili a una visione dell’economia in quanto scienza naturale, guidata da leggi assolute e fisse, allora la trasformazione che essa prefigura può essere ricercata in una visione dell’economia in quanto scienza dell’uomo. Il sistema economico occidentale è stato costruito su un ideale homo oeconomicus orientato solo al proprio benessere e privo di impulsi e valenze di natura etica e sociale; il concetto di crescita è stato assimilato a mero aumento quantitativo del Pil piuttosto che a miglioramento qualitativo della vita e del mondo; lo sviluppo scientifico e tecnologico e la necessità di affrontare la sfida della concorrenza internazionale hanno condotto a un’esaltazione delle capacità intellettuali dell’uomo a scapito delle sue virtù spirituali e morali. Ora che il crollo del sistema finanziario ha dimostrato tutta l’inattuabilità di questo sistema, il mercato globale, ma più in generale tutta la società civile, deve trovare un giusto equilibrio tra principi economici e valori etici, tra ricerca scientifica e analisi filosofica, tra imprenditoria e civiltà. Lo scenario che emerge dalla crisi presente è quello di una società concentrata sul recupero della dimensione spirituale dell’uomo, in quanto valore fondante il sistema politico, economico e urbano. Utopico? Forse. Ma del resto, le utopie hanno accompagnato la storia del mondo, desiderabili e vaghe, mantenendo intatta nel tempo l’ambiguità propria del termine stesso, nell’uso che ne fece Thomas More nel 1516 nel suo De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, lasciando l’uomo a chiedersi quale senso possa avere il perseguirle: “luogo del bene” (eu-tòpos) o non piuttosto “luogo che non esiste” (ou-tòpos)? Sogno o progetto? Modello impossibile da realizzare o solo ancora troppo lontano? D’accordo con Lamartine, ci piace pensare che siano solo verità premature.


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rom Plato’s Republic to Campanella’s City of the Sun, through to Huxley, Orwell and the utopias that have emerged in every branch of human knowledge during the course of the XX

century (politics, science, art, literature, architecture and town planning): all of them reflect a natural aspiration for social renewal, a yearning for a perfect world free of pain and deception. Utopian thought has always produced “imaginary elsewheres”, “inside-out worlds”, “promised lands”, “rigorously geometric urban planimetrics”. An existential malaise that kindles man’s desire for something new and better to believe in, utopian visions acquire greater substance in periods of decline or transition, when people’s expectations of ideal and real change rise. So what conditions could be more conducive to the growth of a new utopia than the current economic situation? If “crisis” is an endemic phenomenon of the capitalist system, marking out its cycles of growth and slowdown, the global recession of the last few years merits greater analysis as a positive force, a lever for change, for a period of transition and evolution. As such, if its underlying causes can be traced back to a vision of the economy as a natural science, guided by absolute and fixed laws, then the transformation it prefigures can be sought in a vision of the economy as a science of man. The West’s economic system is built on an ideal homo oeconomicus focused exclusively on his

own well-being and lacking any ethical and social impulses and values; the concept of growth has been equated with a mere quantitative increase in GDP rather than with a qualitative improvement in lifestyles and the world; scientific and technological progress and the need to respond to the challenge of international competition have generated an exaltation of man’s intellectual capabilities, to the detriment of his spiritual and moral virtues. Now that the collapse of the financial system has shown just how unachievable that system is, the global market and civil society in general have to establish a correct balance between economic principles and ethical values, between scientific research and philosophical analysis, between free enterprise and civilization. The scenario emerging from today’s crisis is a society striving to recover man’s spiritual dimension as a cornerstone of our political, economic and urban system. A utopia? Possibly. Yet utopias have been a constant of the history of the world, desirable and vague, maintaining the ambiguity inherent in the term itself, as used by Thomas More in 1516 in his De optimo rei publicae statu deque nova insula Utopia, and man has always been left to ponder the sense of pursuing them: a “place of good” (eu-tòpos) or a “no place” (ou-tòpos)? A dream or a plan? A model impossible to achieve or simply still too far away? Like Lamartine, we like to think of utopias as just premature truths.

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Global

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Neocapitalismo dopo la crisi Neocapitalism After The Crisis di Luigi Zingales* by Luigi Zingales*

Negli Stati Uniti gli errori della finanza hanno messo in crisi la visione del modello capitalistico. Con rischi, non ancora del tutto superati, di una deriva populista e statalista In the USA the errors made by the finance industry have created difficulties for the capitalist model. Generating the risk, not yet overcome, of a move toward populism and statism

Luigi Zingales

La crisi finanziaria ed economica mondiale ha profondamente incrinato il modello di sviluppo capitalistico. All’orizzonte la minaccia di moderne forme di statalismo, raffinate varianti di populismo, nuove colonizzazioni economiche. Ma disponiamo di valide alternative al capitalismo e al mercato? O non dobbiamo piuttosto ricercare alternative al modo in cui il capitalismo opera? Le distorsioni e le disomogeneità del sistema vanno corrette con gli strumenti della democrazia in un delicato equilibrio tra libertà e responsabilità. Questa è la sfida più importante che il capitalismo moderno dovrà affrontare per continuare a creare ricchezza e diffondere progresso economico e sociale. The world financial and economic crisis has put the capitalist growth model under profound strain. The threat of modern forms of statism, sophisticated variants of populism and new types of economic colonization loom on the horizon. But are there valid alternatives to capitalism and the market? Or would we be better seeking alternatives to the way capitalism operates? The distortions and inconsistencies in the system should be corrected with the instruments of democracy in a difficult balance between freedom and responsibility. This is the most important challenge facing modern capitalism if it is to continue creating wealth and fuelling economic and social progress.

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a crisi del 2008-2009, nata in quell’ingranaggio fondamentale del capitalismo che è il settore finanziario, è destinata a lasciare segni duraturi sull’economia americana. La regolamentazione finanziaria, il ruolo delle grandi banche e il rapporto tra il governo e i principali operatori di mercato non saranno mai più come prima. Ma la cosa più importante sono i possibili cambiamenti dell’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei confronti del sistema capitalista. La natura della crisi e la natura della risposta pubblica alla crisi minacciano ormai di minare quel sentimento di equità, giustizia e legittimità che sta alla base del capitalismo americano. Gli Stati Uniti, generando le condizioni che hanno reso possibile la crisi (in particolare la concentrazione del potere finanziario in pochi grandi istituti) e rispondendo alla crisi come hanno risposto (in particolare con i massicci interventi di salvataggio pubblici a favore di banche e grandi aziende), rischiano di imboccare la direzione del corporativismo europeo e del capitalismo nepotistico tipico di regimi più statalisti. E questo mette in

pericolo il brand ineguagliabile del capitalismo made in Usa, che finora era riuscito a evitare di essere associato, nella mentalità dei cittadini, a una radicata corruzione ed era riuscito a mantenere la nazione relativamente immune da sentimenti populistici anticapitalisti. Siamo all’inizio di un pericoloso cambiamento? E, in tal caso, si tratta di una reazione temporanea a una crisi economica estrema, o di un cambiamento più profondo e nocivo nell’atteggiamento degli americani? Secondo ripetuti sondaggi, una larga maggioranza di americani ritiene che il governo dovrebbe imporre un tetto ai compensi dei manager delle grandi aziende e intervenire per migliorarne i metodi di gestione. E queste opinioni non sono accompagnate da una fiducia nei confronti dello stato, di cui solo una piccola minoranza sembra fidarsi contro un buon terzo che afferma di non fidarsi affatto. Il punto è che, al momento, gli americani si fidano ancora meno delle grandi aziende: meno di 1 americano su 30 dice di fidarsi molto delle grandi aziende, mentre 1 su 3 afferma di non fidarsi affatto. Atteggiamenti di questo genere sono abbastanza insoliti per gli

Stati Uniti. Fino a poco tempo fa, gli americani si distinguevano per la loro accettazione dei principi fondamentali del mercato, e addirittura per la loro tolleranza nei confronti di alcuni degli effetti collaterali negativi che il mercato produce, come la disuguaglianza di reddito. Negli Stati Uniti il capitalismo gode da molto tempo di un consenso straordinariamente forte tra la popolazione, perché la forma che ha storicamente assunto è diversa da quelle diffuse nel resto del mondo, in particolare per via del suo sistema di mercato eccezionalmente aperto e libero. Tutti traggono beneficio da un mercato libero e competitivo, ma nessuno in particolare ricava grandi profitti dal fatto di mantenere il sistema competitivo e di offrire uguali possibilità a tutti i concorrenti. Al capitalismo autentico manca una lobby forte. È un’affermazione che può sembrare strana di fronte ai miliardi di dollari che le aziende spendono per fare pressioni sul Congresso in America, ma è esattamente questo il punto. La maggior parte delle lobby non cercano di creare una condizione di parità, ma di spostare la bilancia a proprio favore: sono pro-business, nel senso che promuovono gli interessi delle imprese esistenti, non pro-market, nel senso di incoraggiare una concorrenza autenticamente libera e aperta. Il risultato è che emergono tensioni gravi fra i pro-market e i pro-business, anche se il capitalismo americano è sempre riuscito a gestire questa tensione meglio di quasi tutti gli altri. Gli Stati Uniti hanno sviluppato un sistema di capitalismo che si avvicina più di ogni altro alla combinazione ideale di libertà economica e concorrenza aperta. L’immagine che molti americani hanno del capitalismo è quella delle storie di uomini che dalla miseria ascendono alla


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ricchezza grazie al duro lavoro, che sono diventate l’essenza del sogno americano. Questa concezione delle opportunità ha contribuito a rendere popolare e inattaccabile il capitalismo negli Stati Uniti. Ma dal momento che il sistema del libero mercato poggia su questo consenso dell’opinione pubblica, e dal momento che questo consenso dipende in certa misura dalla percezione da parte dell’opinione pubblica dell’equità del sistema, se questa impressione viene in qualche modo erosa, il sistema comincia a correre dei rischi. Questa erosione avviene quando i legami fra politici e aziende, o il potere di operatori di mercato già consolidati, sembrano rappresentare una strada alla ricchezza e al successo più efficace della libera ed equa concorrenza. Sia lo stato che le grandi imprese hanno ottime ragioni per spingere il sistema in questa direzione e dunque entrambi, se lasciati agire liberamente, rappresentano una minaccia per la peculiare forma di capitalismo americana. Gli Stati Uniti sono partiti da un modello di capitalismo supportato da una forte ideologia; ciononostante il sistema americano rimane vulnerabile a queste pressioni, e non solo in presenza di una crisi economica. Anche l’ideologia più resistente e persuasiva non può sopravvivere a lungo alle condizioni e alle idee che l’hanno generata. Il capitalismo americano ha bisogno di

sostenitori convinti, che siano consapevoli delle minacce che deve affrontare. Ma negli ultimi trent’anni, con l’affievolimento e la scomparsa della minaccia del comunismo globale, le schiere dei veri sostenitori del libero mercato si sono assottigliate, mentre ha fatto proseliti una versione del capitalismo basata sulla protezione statale e la commistione tra politica ed economia. Questo ha contribuito a preparare il terreno per la crisi che adesso occorre fronteggiare, e ha reso più difficile capire come uscirne. Un sistema finanziario sano è fondamentale per il funzionamento di qualunque economia di mercato. La possibilità di avere un accesso ampio ai finanziamenti è cruciale per imbrigliare i talenti migliori e metterli nelle condizioni di crescere e prosperare. È fondamentale per attirare nuovi operatori nel sistema e per incoraggiare la concorrenza. Il sistema che distribuisce i finanziamenti distribuisce potere e rendite: se quel sistema non è equo ci sono poche speranze che il resto dell’economia possa esserlo; e il potenziale per ingiustizie o abusi nel sistema finanziario è sempre molto alto. Gli americani da tempo sono sensibili agli abusi di questo genere. Se da un lato storicamente sono sempre riusciti a evitare inclinazioni anticapitalistiche, dall’altro una sorta di populismo anti-finanza è sempre stato presente fra gli

americani. Questa tendenza ha portato nel tempo a numerose decisioni politiche inefficienti dal punto di vista economico, ma che hanno contribuito a preservare nel lungo periodo lo stato di salute del capitalismo democratico americano (un esempio è stato la legge Glass-Steagall introdotta durante il New Deal). Negli ultimi trent’anni questi meccanismi sono stati completamente rovesciati con la progressiva deregolamentazione del settore bancario. Le restrizioni imposte dalle normative statali erano altamente inefficienti già dal principio, ma col passare degli anni il progresso della tecnologia e della finanza le aveva rese assolutamente insostenibili. È per questo che, a partire dalla fine degli anni 70, le normative statali sull’attività bancaria sono state allentate o eliminate, accrescendo l’efficienza del settore bancario e dando impulso alla crescita economica. Ma quella scelta fece aumentare anche la concentrazione. E l’apice di questo processo fu l’approvazione, nel 1999, della legge Gramm-Leach-Billey, che abrogava le restrizioni della Glass-Steagall. L’effetto reale della Gramm-Leach-Billey – ingiustamente accusata di aver giocato un ruolo importante nell’attuale crisi finanziaria – è stato politico, non direttamente economico. Secondo il vecchio sistema, le banche commerciali, le banche d’affari e le compagnie

d’assicurazione avevano obiettivi diversi e dunque i loro sforzi di lobbying tendevano a compensarsi reciprocamente. Ma dopo la rimozione delle restrizioni gli interessi di tutti i principali operatori dell’industria finanziaria si sono allineati, offrendo al settore un potere sproporzionato nella determinazione dell’agenda politica. La concentrazione del settore bancario non ha fatto altro che accrescere ulteriormente questo potere. L’ultima e più importante ragione del crescente potere dell’industria finanziaria è stata la sua redditività, quantomeno sulla carta. Questa enorme redditività ha consentito al settore di spendere cifre sproporzionate di denaro per influenzare il sistema politico. Negli ultimi vent’anni l’industria della finanza ha speso 2,2 miliardi di dollari in contributi politici, più di qualsiasi altro settore registrato dal Center for Responsive Politics. E nel corso degli ultimi dieci anni il settore finanziario è stato quello che ha speso di più per le operazioni di lobbying, con 3,5 miliardi di dollari. L’esplosione dei salari e dei profitti nell’industria della finanza ha attirato i talenti migliori, con implicazioni che sono andate al di là del settore finanziario, arrivando a interessare in profondità il settore pubblico. Trent’anni fa, i più brillanti studenti universitari lavoravano nel campo della scienza, della tecnologia, della


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giurisprudenza e dell’economia; negli ultimi vent’anni hanno lavorato nel campo della finanza. Ed è più che naturale che un governo in cerca delle menti più brillanti finisca per andare a pescare nel mondo della finanza, dove è migrato il fior fiore delle intelligenze. Il problema è che gente che ha passato tutta la vita nella finanza ha una comprensibile tendenza a ritenere che gli interessi del suo settore e gli interessi del paese coincidano sempre. Per esempio, quando il segretario al Tesoro Henry Paulson è andato al Congresso nell’autunno 2008 a sostenere che il mondo così come lo conosciamo sarebbe finito se il Congresso non avesse approvato il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari, era certamente in buona fede. E in una certa misura aveva ragione: il suo mondo – il mondo in cui viveva e lavorava – sarebbe finito in assenza del bailout. Goldman Sachs avrebbe dichiarato bancarotta e le ripercussioni per tutti quelli che lui conosceva sarebbero state colossali. Ma il mondo di Henry Paulson non è il mondo in cui la maggior parte degli americani vive, e nemmeno il mondo in cui si muove la nostra economia nel suo insieme. Che questo mondo sarebbe finito in assenza del bailout era un’affermazione molto più discutibile: ma purtroppo questa discussione non c’è mai stata. Ad aggravare il problema c’è il fatto che chi sta al governo tende ad affidarsi alla propria rete di amici fidati per raccogliere informazioni “dall’esterno”. Se tutti quelli che fanno parte di questa rete vengono dallo stesso ambiente, le informazioni e le idee che arrivano alle autorità saranno gravemente limitate. La concentrazione crescente nel settore finanziario e la sempre maggiore influenza politica

hanno minato la tradizionale concezione americana della differenza fra mercati liberi e grandi imprese. Questo significa non solo che gli interessi della finanza ormai predominano nella concezione economica dei politici, ma anche – e forse è la cosa più importante – che è a rischio la percezione da parte dell’opinione pubblica della legittimità del sistema economico. Se il sistema del libero mercato è politicamente fragile, la sua componente più fragile è proprio il settore finanziario. È così fragile perché si affida interamente all’inviolabilità dei contratti e alla legge, e quell’inviolabilità non può essere mantenuta senza un consenso popolare ampio. Quando la gente è arrabbiata al punto di minacciare di morte i banchieri, quando la maggioranza degli americani chiede interventi pubblici non soltanto per regolamentare l’industria finanziaria ma anche per mettere sotto controllo il modo di amministrare le aziende, quando gli elettori perdono fiducia nel sistema economico perché lo percepiscono come fondamentalmente corrotto, allora anche l’inviolabilità della proprietà privata corre dei rischi. E quando i diritti di proprietà non sono protetti, è in dubbio la sopravvivenza di un settore finanziario efficace e di un’economia prospera. Il coinvolgimento dello stato nel settore finanziario sulla scia della crisi – e in particolare il salvataggio di grandi banche e di altri istituti – ha accentuato questo problema. La sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti dello stato si è

combinata con la sfiducia nei confronti dei banchieri, e le preoccupazioni per lo spreco di denaro pubblico si sono aggiunte ai timori sul fatto di ricompensare quelli che avevano provocato il disastro a Wall Street. Il modello che ha preso piede sulla scia della crisi finanziaria, quindi, minaccia di avviare un circolo vizioso. Per evitare che l’opinione pubblica li collegasse alle aziende che si stavano sforzando di aiutare, i politici hanno preso parte anche loro all’assalto contro i finanzieri, lo hanno incoraggiato. Questo tiene alla larga gli investitori legittimi, non più sicuri di poter fare affidamento sui contratti e sulla legge. E questo a sua volta lascia poche alternative alle aziende in difficoltà se non cercare l’assistenza dello stato. Non è un caso che poco dopo essersi scagliata contro i manager di Wall Street per la loro avidità, la Casa Bianca abbia messo in campo la forma di sussidi più generosa mai escogitata per Wall Street: il piano di investimento pubblico-privato per l’acquisto dei titoli tossici. Se simili condizioni sono “giustificate” dall’incertezza generata dalla reazione populistica, c’è da dire però che aggravano la situazione generata inizialmente da questa reazione, perché confermano la sensazione che lo stato e le grandi aziende collaborino tra loro a spese dei contribuenti e dei piccoli investitori. Se il programma di investimento pubblico-privato funzionerà, le stesse persone che hanno dato origine al problema sono destinate a diventare favolosamente ricche con l’aiuto

dello stato, il che di sicuro non gioverà alla popolarità del capitalismo americano presso l’opinione pubblica. Questo è esattamente il malsano circolo vizioso in cui è intrappolato il capitalismo nella maggior parte dei paesi del mondo. Da un lato, gli imprenditori e i finanzieri si sentono minacciati dall’ostilità dell’opinione pubblica e dunque si sentono giustificati a cercare di ottenere privilegi speciali da parte del governo. Dall’altro lato, i semplici cittadini si sentono scandalizzati per i privilegi che ricevono imprenditori e finanzieri, fomentando quella stessa ostilità. Per chiunque abbia familiarità con la natura del capitalismo nel resto del mondo, la fase che sta attraversando l’America appare tristemente familiare. Siamo dunque a un bivio per il capitalismo americano. Una strada sarebbe quella di incanalare la rabbia popolare in consenso politico per riforme autenticamente pro-market, anche se non funzionali agli interessi della grande finanza, introducendo limiti al potere del settore finanziario – o di qualsiasi impresa, se è per questo – e ripristinando quei principi fondamentali che hanno dato una dimensione etica al capitalismo americano: libertà, meritocrazia, un collegamento diretto fra sforzo e ricompensa e un senso di responsabilità che garantisce che chi si intasca i profitti sia pronto anche ad accollarsi le perdite. Questo significherebbe abbandonare l’idea che esistano aziende troppo grandi per essere lasciate fallire e mettere


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in campo regole che impediscano alle grandi società finanziarie di sfruttare i contatti con politici e funzionari a danno dei mercati. Vorrebbe dire adottare un approccio all’economia pro-market, invece che pro-business. La strada alternativa è placare la rabbia popolare con misure come i limiti ai bonus per i manager e al contempo puntellare la posizione dei principali operatori, rendendoli dipendenti dallo stato e rendendo l’economia in generale dipendente da loro. Misure di questo genere appagano le masse sul momento, ma mettono a rischio il sistema finanziario e il prestigio del capitalismo americano presso l’opinione pubblica sul lungo periodo. Inoltre, rafforzano quegli stessi metodi che sono all’origine della crisi. Questa è la strada per il capitalismo delle grandi imprese: una strada che annacqua la distinzione tra politiche pro-market e politiche pro-business e dunque mette in pericolo la fiducia ineguagliata che il popolo americano manifesta da lungo tempo rispetto alla legittimità del capitalismo democratico. Purtroppo sembra che al momento l’amministrazione

Obama abbia scelto questa seconda strada. È una scelta che rischia di lanciarci in quella spirale letale, tanto comune negli altri paesi, che vede da un lato crescere il risentimento dell’opinione pubblica e dall’altro svilupparsi un capitalismo statalista e nepotistico, travolgendo al passaggio l’eccezionalismo economico che tanta importanza ha avuto per la prosperità americana. Quando il polverone si sarà posato e il panico si sarà definitivamente placato, questa potrebbe rivelarsi la conseguenza più grave e nociva della crisi finanziaria per il capitalismo americano.

* Luigi Zingales è professore di Imprenditoria e Finanza all’Università di Chicago ed è membro del Comitato sulla Regolamentazione del Mercato dei Capitali. È editorialista per Il Sole 24 Ore e siede nel Cda di Telecom Italia come amministratore indipendente. Ha pubblicato con Raghuram G. Rajan Saving Capitalism from the Capitalists (Random House, New York; 2003, traduzione italiana Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, 2004) e, con Salvatore Carrubba e Gianpaolo Salvini, Il buono dell’economia. Etica e mercato oltre i luoghi comuni (Ed. Università Bocconi, 2010).

aving originated in the financial sector—a cornerstone of capitalism—the 2008-2009 crisis will leave a lasting mark on the American economy. Financial regulation, the role of the top banks and the relationships between the government and key market players will never be the same again. But even more important are the possible changes in the attitude of the American public to the capitalist system. The nature of the crisis and the nature of the public response to the crisis are now threatening to undermine the belief in equity, justice and legitimacy that forms the foundation of American capitalism. By generating the conditions that made the crisis possible (specifically, by concentrating financial power in the hands of a small group of large institutions) and responding to the crisis as they did (massive public bailouts for banks and large corporations), the United States risk moving down the road of European corporatism and nepotistic capitalism typical of statist regimes. And this is endangering America’s matchless brand of capitalism, which previously had managed to avoid being associated with deep-rooted corruption in people’s minds, and kept the nation relatively immune to anti-capitalist populist sentiments. Are we on the eve of a dangerous change? And if so, is it a temporary reaction to an extreme economic crisis, or a deeper, more destructive shift in American attitudes? Repeated surveys have found that a large majority of Americans feel the government should set a ceiling on executive pay in large organizations and intervene to improve management methods. And these opinions are not accompanied by confidence in

the state, which only a small minority appears to trust, while a good third say they don’t trust the state at all. The point is, today Americans place even less trust in the corporate sector: fewer than 1 American in 30 say they have great confidence in the large corporations, while 1 in 3 say they don’t trust them at all. Attitudes of this type are fairly unusual in the USA. Until recently, Americans were notable for their acceptance of basic market principles, indeed for their tolerance of some of the negative side-effects produced by the market such as income inequalities. In the USA, capitalism has long enjoyed an extraordinarily good press among the population, because historically it has taken a different form from the models in the rest of the world, notably its exceptionally open and free market system. Everyone benefits from a free and competitive market, but no one in particular derives great profits from keeping the system competitive and offering the same opportunities to all competitors. There is no strong lobby for authentic capitalism. This observation may seem strange in view of the billions of dollars companies spend on lobbying the US Congress, but this is precisely the point. Most lobbies are not trying to create conditions of equality, but to shift the balance in their favor: they are pro-business, in the sense they promote the interests of existing companies, but they are not pro-market in the sense of promoting genuinely free and open competition. This generates serious tension between the pro-market corner and the pro-business corner, although American capitalism has always managed to handle the situation better than almost any other capitalist system.

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The capitalist system developed by the USA is closer than any other system to the ideal combination of economic freedom and open competition. The image many Americans have of capitalism are the stories of men who, through hard work, have moved from rags to riches, the personification of the American Dream. This understanding of opportunity has helped make capitalism popular and unassailable in the USA. Given that the free market system depends on public consensus, and that that consensus depends to a certain extent on public perception of the equity of the system, if this impression is eroded in some way, then the system begins to look shaky. Erosion occurs when the ties between politicians and business, or the power of firmly established market players, seem to be a more effective path to wealth and success than free, fair competition. Both the state and big business have excellent reasons for pushing the system in this direction; so both of them, if allowed a free rein, are a threat to America’s particular form of capitalism. The United States began with a capitalism model supported by a strong ideology, nevertheless the American system is vulnerable to these pressures, and not just at times of economic crisis. Even the most resistant and persuasive ideology cannot long survive the conditions and ideas that generated it. American capitalism needs convinced supporters who are aware of the hazards it faces. But over the last thirty years, as the threat of global communism has weakened and disappeared, the numbers of true believers in the free market have dwindled, while the ranks of those who advocate a version of capitalism

based on state protection and the intermingling of political and economic interests have been swelling. This has helped pave the way for the crisis we now face, and made it more difficult to find a way out. A healthy financial system is fundamental for any market economy to function. The possibility of broad access to funding is crucial to harness the best talents and enable them to grow and prosper. It is essential to attract new players into the system and encourage competition. The system that distributes finance distributes power and income: if that system is unfair, it is unlikely the rest of the economy will be fair. And the potential for injustice or abuse in the financial system will always be very high. Americans have long been aware of this. If on the one hand they have always successfully avoided anti-capitalist inclinations, on the other a sort of anti-finance populism has always been present. The many economically inefficient political decisions this has produced over the years have nevertheless helped American democratic capitalism stay healthy over the long term (one example is the Glass-Steagall Act introduced during the New Deal). In the last thirty years, these mechanisms have been completely overturned by the gradual deregulation of the banking sector. The restrictions imposed by state regulations were highly inefficient right from the start, but, as time passed, progress in technology and finance made them absolutely untenable. For this reason, beginning at the end of the 1970s, state regulations on banking were relaxed or eliminated, raising the efficiency of the banking sector and giving new impetus to economic growth. But these moves also

fuelled concentration. The process culminated in 1999 with the enactment of the Gramm-Leach-Billey bill, which repealed the restrictions imposed by Glass-Steagall. The real effect of the Gramm-Leach-Billey Act—accused, unfairly, of playing an important role in the current financial crisis—was political, not directly economic. Under the old system, commercial banks, merchant banks and insurance companies pursued different sets of goals, so their lobbying efforts tended to balance out. But when the restrictions were removed, the interests of all the main players in the finance industry merged, giving the sector disproportionate power in influencing the country’s political agenda. The concentration in the banking sector simply compounded this power. The last and most important reason for the growing power of the finance industry is its enormous profitability, on paper at least. This has enabled it to spend huge amounts of money to influence the political system. In the last twenty years, the finance industry has spent 2.2 billion dollars on political contributions, more than any other sector recorded by the Center for Responsive Politics. And in the past ten years, the financial sector is the area that has spent most on lobbying, a total of 3.5 billion dollars. The explosion in salaries and earnings in the finance industry has attracted the top talents, a phenomenon whose implications spread well beyond the financial sector into the public sector. Thirty years ago, the best university graduates went to work in science, technology, law and the economy; in the last twenty years, they have moved into finance. And it is more than natural that a government looking for the nation’s top

minds should find them in the area where the best brains go: the financial community. The problem is that people who spend their life in finance tend, understandably, to believe that the interests of their industry and those of the nation always coincide. For example, when Treasury Secretary Henry Paulson told Congress in the fall of 2008 that the world as we know it would come to an end if Congress did not approve his 700 billion dollar rescue plan, he was certainly in good faith. And to a certain extent, he was right: his world—the world in which he lived and worked—would have ended without the bailout. Goldman Sachs would have filed for bankruptcy and the repercussions for everyone he knew would have been colossal. But Henry Paulson’s world is not the world of the majority of Americans, nor is it the world in which our economy as a whole moves. That this world would have ended without a bailout is a far more debatable point: unfortunately the debate never took place. The problem is aggravated by the fact that people in government tend to depend on their own trusted network of friends to channel information “from outside”. If everyone in that network comes from the same environment, the information and ideas reaching the authorities will be dangerously limited. The financial sector’s growing concentration and its rising political influence have undermined the traditional American understanding of the difference between free markets and big business. As a result, not only are the political community’s economic views dominated by financial interests, but public perception


of the legitimacy of the economic system is endangered, which is perhaps the most important point. If the free market system is politically fragile, its most fragile component is the financial sector, which relies entirely upon the inviolability of contracts and the law: an inviolability that cannot be maintained without broad popular consensus. When public anger reaches the point where people threaten to kill bankers, when the majority of Americans call for public intervention not just to regulate the finance industry but to control corporate governance, when voters no longer trust the economic system because they consider it fundamentally corrupt, then the inviolability of private property is also in jeopardy. And when there is no protection for property rights, the survival of an effective financial sector and prosperous economy is uncertain. The state’s involvement in the financial sector in the wake of the crisis—in particular the bailout of the main banks and other institutions—has exacerbated this problem. People’s distrust of the state has merged with their distrust of the banking community, and worries over the waste of public money have fuelled alarm over the compensation for those responsible for the disaster on Wall Street. The model that has developed on the heels of the financial crisis could, therefore, set off a vicious circle. To avoid public opinion linking them to the business organizations they were trying to help, the politicians have joined in the assault on the financiers, they have encouraged it. This puts off legitimate investors, who are no longer sure they can trust contracts and the law. This in turn leaves troubled

corporations with little choice but to seek help from the state. It is no coincidence that shortly after condemning Wall Street managers for their greed, the White House produced the most generous form of subsidies ever dreamed up for Wall Street: the public-private investment plan to buy toxic securities. If the “justification” for remedies of this type is the uncertainty generated by populist reaction, the point needs to be made that they worsen the situation initially created by this reaction, because they confirm people’s impression that the state and big business are in cahoots at the expense of taxpayers and small investors. If the public-private investment program works, the very people who caused the problem will become fabulously rich with the help of the state, a situation that will do nothing to assist the cause of American capitalism among the general public. This is exactly the sort of unhealthy self-perpetuating trap capitalism has fallen into in most countries. On one side, business and financiers feel threatened by hostile public opinion and consequently justified in pressing for special privileges from government. On the other side, the man

in the street is outraged by the privileges of business and finance, and this simply increases his hostility. For anyone who has studied the nature of capitalism in the rest of the world, the phase America is experiencing will be sadly familiar. So American capitalism stands at a crossroads. One way ahead would be to channel public anger into political support for true pro-market reforms, even if such reforms do not service the interests of high finance, by introducing limits on the power of the financial sector—or any enterprise, come to that—and restoring the fundamental principles that gave American capitalism its ethical dimension: liberty, meritocracy, a direct link between effort and reward, and a sense of accountability whereby those who enjoy the profits are also prepared to shoulder the losses. This would mean abandoning the idea of organizations that are too large to be allowed to go bust and enforcing regulations that prevent the big financial companies from exploiting their contacts with politicians and state officials at the expense of the markets. It would mean adopting a pro-market rather than pro-business approach to the economy. The other road is to placate public anger with measures

such as limits on executive bonuses, while simultaneously propping up key players, thereby making big business dependent on the state, and making the economy in general dependent on big business. Measures of this type appease the public momentarily, but in the long run they endanger the financial system and compromise the prestige of American capitalism in the eyes of the public. They also bolster the methods that caused the crisis in the first place. This is the road to capitalism for big business: a road that blurs the distinction between pro-market policies and pro-business policies and consequently jeopardizes the unique trust the American people has placed for years in the legitimacy of democratic capitalism. For now, unfortunately, the Obama administration seems to have chosen the second road. A choice that could well project America into that lethal spiral, so common in other countries, of growing public resentment and expanding statist, nepotistic capitalism, leaving the economic exceptionalism that has played such an important part in American prosperity in shreds. When the dust settles and the panic has finally subsided, this could be the most alarming and dangerous consequence of the financial crisis for American capitalism. * Luigi Zingales is a Professor of Entrepreneurship and Finance at the University of Chicago and a member of the Committee on Capital Markets Regulation. He is a leader writer for Il Sole 24 Ore and an independent director of Telecom Italia. He is the author, with Raghuram G. Rajan, of Saving Capitalism from the Capitalists (Random House, New York; 2003, translated into Italian as Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, 2004) and, with Salvatore Carrubba and Gianpaolo Salvini, of Il buono dell’economia. Etica e mercato oltre i luoghi comuni (Ed. Università Bocconi, 2010).

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Uno, due, tre...capitalismi! One, Two, Three...Capitalisms! di Michele Salvati* by Michele Salvati*

La realtà capitalistica si è imposta nel tempo rispetto ai modelli economici alternativi. Ciò non significa che non sia opportuno, ma anche utile, riflettere sulle evoluzioni possibili Capitalism has gradually come to prevail over alternative economic models. That does not mean that a reflection on possible developments is not opportune, and even useful

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Michele Salvati

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e oggi è impossibile parlare con un minimo di realismo di alternative al capitalismo, sembrerebbe possibile e utile farlo per descrivere diversi modelli nazionali di capitalismo. Sicuramente è possibile. Lo si è fatto in un recente passato, a partire dal saggio di Michel Albert sulla distinzione tra capitalismo renano e anglosassone per arrivare al lavoro più impegnativo di Hall e Soskice sulle varietà dei capitalismi, imperniato sulla distinzione tra capitalismo liberale e capitalismo coordinato. Ed è anche utile. Capire come stanno insieme in modo stabile, coerente, efficace e compatibile con gli imperativi di un sistema capitalistico internazionale diverse modalità di regolazione degli interessi aiuta a spiegare molti aspetti importanti dell’economia, della società e della politica di un paese: dalla struttura produttiva alla specializzazione commerciale, dai rapporti tra sindacati e imprese al sistema politico. E soprattutto confuta il TINA attribuito a Margaret Thatcher, “There Is No Alternative”: no, le alternative ci sono, anche se meno diverse e radicali di quanto alcuni desidererebbero e altri aborrirebbero. Possibile e utile, dunque, ma

sicuramente non facile. Quanto si poteva ragionevolmente dire in un recente passato e per un numero limitato di paesi è già stato detto. Andare oltre è difficile per due ragioni. Anzitutto significa abbandonare il contesto internazionale relativamente stabile dell’ultimo trentennio e inoltrarsi in una fase di rapporti economici e geopolitici il cui decorso è impossibile prevedere. Ma soprattutto occorre ampliare di molto lo spettro dei modelli nazionali sotto osservazione: limitarsi ai vecchi paesi di capitalismo avanzato, come sinora si è fatto, rasenta l’irrilevanza quando sono immersi in un vorticoso sviluppo capitalistico paesi come la Cina, l’India, il Brasile e molti altri. Questi sono, però, ancora oggetto di letterature specialistiche, dedicate prevalentemente alle strategie di uscita dal sottosviluppo, e non sono stati ancora accolti nella prospettiva comparativa dei “modelli di capitalismo”. Sono paesi il cui sistema politico o non è democratico, o è piuttosto lontano dalle democrazie consolidate dei paesi capitalistici avanzati. E le loro strutture economiche e sociali sono soggette a una evoluzione così intensa da

rendere difficile la costruzione di tipologie relativamente stabili, come quelle cui si è dedicata la letteratura sui modelli di capitalismo. La prima difficoltà è quella più seria. È impossibile configurare un modello nazionale senza tenere conto del regime economico e politico internazionale: è questo che impone i vincoli e crea le opportunità cui tutti i paesi devono rispondere e dunque limita lo stesso campo di variazione dei diversi modelli nazionali. Il regime di Bretton Woods, dal dopoguerra fino ai primi anni ‘70 del secolo scorso, poneva vincoli e creava opportunità assai diverse dal regime neoliberale in vigore a partire dalle due presidenze Reagan negli anni ‘80, poi sfociato, negli anni ‘90 e nel primo decennio di questo secolo, nella travolgente globalizzazione ancora in pieno corso. I regimi di cambio (fissi o flessibili), il regime di circolazione dei capitali (vincolato o libero), l’orientamento delle istituzioni che presiedono al commercio e agli equilibri finanziari internazionali (Wto, Fmi, World Bank), sommati alla fase di sviluppo in cui un paese si trova (di rapida industrializzazione o di maturità terziaria), tendono ad assicurare una forte uniformità alle politiche economiche che un paese può perseguire, indipendentemente dal “modello di capitalismo” che la sua storia l’ha indotto ad adottare. Questo spiega come mai, nel trentennio “glorioso”, come lo chiamano i francesi, anche i paesi di capitalismo liberale si ponessero come obiettivi primari la lotta alla disoccupazione e la costruzione di costosi sistemi di welfare, mentre nel trentennio successivo, dagli anni ‘80 a oggi, anche nei paesi a capitalismo

coordinato gli obiettivi più urgenti siano diventati il controllo dell’inflazione, la limitazione dei disavanzi pubblici, la privatizzazione e la de-regolazione di molti settori dell’economia. Questo non significa che il modello di capitalismo nazionale non conta. Molti degli obiettivi che il regime politico-economico internazionale impone possono essere raggiunti in modi diversi: l’inflazione può essere combattuta con politiche monetarie o con politiche di tipo neocorporativo, se i sindacati e le associazioni imprenditoriali sono abbastanza organizzati e forti da riuscire a sostenerle. E nulla impedisce a un paese a capitalismo coordinato di mantenere un costoso sistema di welfare se riesce a finanziarlo senza creare insostenibili disavanzi pubblici. Significa però che, nella fase di capitalismo liberale di questi ultimi trent’anni, i paesi a capitalismo coordinato – il Giappone, i paesi scandinavi, la Germania – sono stati oggetto di forti pressioni derivanti dal regime economico-politico internazionale e che l’influenza di forme di regolazione più liberali, in particolare quelle americane, si è fatta più forte anche a casa loro. Ed è per questo che chiedersi quale sarà il regime economico-politico internazionale che emergerà dalla grande crisi in corso riguarda anche i diversi modelli nazionali di capitalismo, i gradi di libertà loro consentiti. Purtroppo si tratta di una domanda cui è molto difficile dare una risposta. Quando venne definito il regime internazionale di Bretton Woods, all’interno del mondo occidentale gli Stati Uniti erano in una situazione di assoluto predominio nelle tre sfere cruciali che contano a livello geopolitico: economica, politica


e militare. In questa situazione le convinzioni liberal della sua élite politica, nutrite dalla memoria della grande crisi, nonché la concorrenza di sistema con l’Unione Sovietica, li indussero a disegnare il benefico regime che assicurò a quest’area del mondo il trentennio “glorioso” dell’Età dell’Oro. Quando le presidenze Reagan aprirono la strada al trentennio neo-liberale, la preminenza economica degli Stati Uniti nel mondo occidentale si era di molto attenuata, ma quella militare e quella politica erano ancora fortissime, e l’Unione Sovietica era alle soglie del collasso che si verificò pochi anni dopo: adattando una famosa battuta riferita al rapporto tra General Motors e Stati Uniti, le élite americane erano ancora libere di decidere secondo il criterio per cui ciò che giova agli Stati Uniti giova anche al resto del mondo. Oggi la potenza americana è ancora predominante a livello militare, anche se molto vincolata sia per motivi di consenso interno, sia per ragioni di efficacia in diversi teatri di impiego. A livello politico ed economico essa trova molti contendenti, e l’Unione europea non è in grado di appoggiarla in modo efficace sulla base di un disegno di impronta liberale finché resta il nano politico che è oggi. È questo che rende difficile prevedere come si svilupperà il regime politico-economico internazionale dopo una crisi che è ben lungi dall’essere risolta: se, in che misura e in

che modi verrà controllata l’anarchia del sistema finanziario e se e come saranno attenuati gli squilibri macroeconomici che ancora persistono nell’economia mondiale. Dato il nesso che lega i modelli di capitalismo nazionale al regime politico-economico internazionale, le difficoltà di previsione riguardo al secondo si estendono inevitabilmente ai primi. L’unica previsione che mi sentirei di azzardare, d’altronde evidente data la natura delle grandi potenze ammesse al G20, è che la gamma di modelli nazionali che abbiamo sinora studiato, in fondo assai modesta e rassicurante, si sventaglierà notevolmente. Se il successo capitalistico esiga la democrazia è per ora un’ipotesi smentita da almeno una vistosa eccezione (la Cina). Se il consolidamento di tale successo presto o tardi avrà una democrazia liberale come necessaria conseguenza è ancora un’ipotesi tutta da verificare.

* Michele Salvati è professore di Economia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano. È autore di numerosi libri e saggi in diversi campi di ricerca: economia industriale, dell’impresa, del lavoro, macroeconomia, storia delle dottrine economiche, economia politica, sviluppo economico italiano e comparato nel dopoguerra (il suo libro più recente: Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, Bologna). È stato deputato nella XIII legislatura ed è editorialista del Corriere della Sera.

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lthough it is impossible to talk about alternatives to capitalism with a minimum of realism today, a discussion describing different national models of capitalism might be possible and useful. It is certainly possible. The subject has been examined in recent years, from Michel Albert’s essay on the distinction between Rhine and Anglo-Saxon capitalism to Hall and Soskice’s more complex work on the varieties of capitalism and the distinction between liberal and coordinated market economies. And it is also useful. Understanding how different methods of regulating interests can work together in a stable, consistent, effective manner compatible with the imperatives of an international capitalistic system helps to explain many important elements of the economy, society and politics of a country: from its production structure to its trade specialization, from industrial relations to the political system. Above all, it refutes Margaret Thatcher’s TINA slogan, “There Is No Alternative”: no, alternatives do exist, even though they are less diverse and radical than the versions some people would prefer and others would detest. Possible and useful, therefore, but by no means easy. Everything that could reasonably be said in the recent past about a limited number of countries has already been said. Going further is difficult for two reasons. First of all, it means leaving behind the relatively stable international situation of

the past thirty years to investigate a period of economic and geopolitical relations whose evolution is impossible to predict. Above all, it requires a significant enlargement of the spectrum of national models under observation: an analysis that continues to be confined to the old advanced capitalist countries has little relevance when countries like China, India, Brazil and many others are experiencing spiraling capitalist growth. Yet these countries are still the subject of specialist studies devoted mainly to under-development exit strategies. They have not been incorporated into the comparative analysis of “models of capitalism”. Their political systems either are not democratic or bear little relation to the consolidated democracies of the advanced capitalist nations. And their economic and social systems are evolving so fast that it is difficult to construct relatively stable typologies of the kind dealt with by the literature on models of capitalism. Of these difficulties, the first is the most serious. It is impossible to configure a national model without taking the international economic and political system into account: this is what imposes the constraints and creates the opportunities to which all countries have to respond and thereby limits the range of variation among the different national models. The constraints imposed and opportunities created by the Bretton Woods system between the end of the war and the early 1970s were very different to the neo-liberal regime that began with the two Reagan presidencies in the 1980s, and led, in the 1990s and the first decade of the new century, to an overpowering and still on-going period of globalization. Exchange-rate

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systems (fixed or flexible), the circulation of capital (regulated or free), the focus of the bodies that preside over trade and over international financial imbalances (WTO, IMF, World Bank), together with a country’s current phase of development (rapid industrialization or a mature tertiary sector), tend to give the economic policies a country can pursue a high level of uniformity, independently of the “model of capitalism” it has adopted for historical reasons. This is why, during what the French describe as the “glorious” thirty years, even liberal market economies made the fight against unemployment and the development of costly welfare systems their priorities, whereas in the following thirty years, from the 1980s to today, the most urgent issues even for countries with coordinated market economies are to control inflation, rein in public deficits, privatize and deregulate many sectors of the economy. This is not to say that the national capitalism model does not count. Many of the objectives imposed by the international political-economic scenario can be reached by a variety of routes: inflation can be countered with monetary policies or with neo-corporative policies, if the unions and business associations are sufficiently well organized and strong enough to support them. And there is nothing to prevent a coordinated capitalist country from deploying a costly welfare system if it can fund it without incurring untenable public deficits. It does mean, however, that during the liberal capitalism phase of the last thirty years, the coordinated market economies—Japan, the Scandinavian countries, Germany—have come under strong pressure from the international economic-political system and that the more

liberal forms of regulation, the American models in particular, have exerted a greater influence inside their countries. This is why the question which international economic and political regime will emerge from the current sweeping recession also concerns the various national models of capitalism, the degrees of freedom they are allowed. Unfortunately, it is a very difficult question to answer. When the international Bretton Woods system was introduced, the USA occupied a position of absolute dominance within the Western world in the three spheres of crucial geopolitical importance: the economic sphere, the political sphere and the military sphere. That being the case, the liberal beliefs of the US political élite, stoked by memories of the great depression, and competition with the Soviet Union system, led to the formulation of the beneficial regime that gave the West the thirty “glorious” years of the Golden Age. When the Reagan presidencies opened the way to the thirty-year period of neo-liberalism, America’s economic pre-eminence in the West had declined significantly, but its military and political dominance were still very strong, and the Soviet Union was heading for the collapse that would come a few years later: to paraphrase a famous remark about the relationship between General Motors and the USA, the American élite was still free to decide according to the criterion that if it was good for the USA, it was good for the rest of the world. Today, America still dominates in the military sphere, even though its power is subject to significant constraints relating to domestic consensus and its effectiveness in a number of theaters of war. It has many

contenders in the political and economic spheres, and the European Union is unable to provide effective support for a liberal approach while it remains the political dwarf it is today. This makes it difficult to predict how the international political-economic system will evolve in the wake of a crisis that is still far from being resolved: whether, to what degree and how the anarchy of the financial system will be regulated, and whether and how the persisting macro-economic imbalances in the world economy will be ironed out. In view of the link between national models of capitalism and the international political-economic system, the difficulty of foreseeing how the international system will evolve inevitably also extends to the national models. The only forecast I would venture, one that is obvious

given the nature of the major powers that make up the G20, is that there will be a significant enlargement in the basically very modest and reassuring range of national models we have analyzed to date. That successful capitalism demands democracy is a supposition currently belied by at least one glaring exception (China). Whether the consolidation of China’s success will sooner or later usher in liberal democracy as a necessary consequence is still an entirely unproven hypothesis.

* Michele Salvati is a Professor of Political Economics at the Political Sciences Faculty of Milan State University. He has published many books and articles on a variety of subjects: industrial economics, business economics, labor economics, macro-economics, history of economic doctrines, political economy, Italian and comparative postwar economic growth (his most recent publication is: Capitalismo, mercato e democrazia, Il Mulino, Bologna). He was a member of the Italian House of Deputies in the XIII legislature and is a leader writer for Corriere della Sera.


Libertà, sostenibilità, responsabilità Freedom, Sustainability, Responsibility di Carlo Pesenti* by Carlo Pesenti*

Il delicato equilibrio tra libertà e controlli può essere favorito dall’adozione di nuove strategie d’impresa in un contesto di crescente integrazione sociale The delicate balance between freedom and control can be strengthened by adopting new corporate strategies in a context of growing social integration

Carlo Pesenti

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no degli aspetti più rilevanti, e tuttora controversi, del dibattito innescato su scala mondiale dalla recente crisi finanziaria ed economica, definita dal vicepresidente del Fmi, John Lipsky, come “la peggiore della storia dell’economia moderna”, riguarda una questione di profonda rilevanza non solo per l’attività economica in senso stretto, ma per l’insieme dei rapporti sociali in generale. Il punto da considerare discende dall’analisi delle cause che hanno portato alla crisi, spesso identificate prevalentemente in una scarsa regolamentazione dei mercati finanziari e/o in un’insufficiente vigilanza sul comportamento dei principali attori del mercato. L’analisi delle cause non si esaurisce certo in questi due temi, ma non c’è dubbio che, data la rilevanza della questione relativa all’esistenza di regole a garanzia del buon funzionamento dei mercati e dei risparmiatori-consumatoriinvestitori, così come dell’importanza del rispetto delle stesse da parte degli operatori di vario genere (dunque, non solo quelli finanziari, ma economici in senso lato), occorra oggi fissare lo sguardo sull’esigenza di tracciare un nuovo confine tra

libertà dell’azione economica e controllo sul corretto funzionamento dei mercati e della concorrenza. Il dilemma in cui i regolatori oggi si dibattono consiste dunque nell’esigenza – ampiamente condivisa dalle imprese di ogni tipo e dimensione – di fissare delle regole più chiare e rispettate, tali però da non travalicare i limiti della legittima libertà dell’azione economica e del buon funzionamento dei mercati. Il rischio che manager e imprenditori oggi paventano maggiormente è, infatti, che la più che normale oscillazione del pendolo tra libertà e controllo tenda a spostarsi eccessivamente sul secondo termine. Una eventualità che non va sottovalutata, soprattutto considerando l’azione di allargamento del ruolo dello stato nell’economia esercitata in diversi paesi per salvaguardare dal fallimento realtà economiche ritenute strategiche. La percezione di questo rischio non deve però portare a un atteggiamento difensivo da parte delle imprese. Anche se una adeguata dose di prudenza risulta certo del tutto consigliabile, poiché nulla può garantire che da più che giustificate preoccupazioni di stabilità del sistema e da

necessarie salvaguardie di importanti realtà economiche e sociali si passi a pericolose, e del tutto inopportune, derive di tipo statalista o dirigista, atteggiamenti di chiusura o sospetto appaiono, in questa fase, poco praticabili e ancor meno condivisibili. E anche il fatto oggettivo che la crisi del 2008-2009 sia stata innescata da comportamenti deviati di un numero relativamente contenuto di società quasi sempre, ma non esclusivamente, del settore finanziario non può né deve condurre a concludere affrettatamente che il sistema delle imprese, e il suo management ai diversi livelli, possano permettersi di abdicare da una riflessione profonda delle metodologie prevalenti di gestione o, addirittura, delle stesse filosofie gestionali oggi più diffuse. Il motivo di ciò non sta tanto nella dimensione assoluta di fenomeni di cattiva o imprudente gestione nelle società che hanno contribuito a generare la crisi (vanno ricordati almeno gli episodi relativi a Bear Stearns, Lehman Brothers e AIG negli Stati Uniti, e di Northern Rock, Dexia e Fortis in Europa), quanto nella qualità del fenomeno stesso, che va molto ben compreso per fare sì che i comportamenti deviati non possano più riprodursi con tanta facilità. Parlare di comportamenti deviati può risultare sgradito a molti tra coloro che gestiscono in modo estremamente serio, dedicato e professionale le imprese da loro dirette, e sono la stragrande maggioranza. Ma non sembra che sia più possibile rinunciare a una riflessione profonda che prenda in seria considerazione non solo le regole di buon funzionamento del mercato, o dei mercati, il che è compito dei legislatori e dei governanti; ma anche le logiche strategiche della gestione delle imprese,

la definizione delle pratiche manageriali, l’identificazione degli obiettivi societari, le regole di una buona corporate governance sensibile alle sempre più chiare responsabilità sociali delle imprese. E questo è certamente un compito che da una parte gli economisti, dall’altra i responsabili delle imprese si devono assumere con nuova determinazione. È necessario definire con nuova chiarezza il ruolo specifico dell’impresa in termini di soggetto creatore di ricchezza per la società, di erogatore e distributore di tali ricchezze e opportunità, di organismo sociale operante nel tessuto socio-economico in cui si trova inserito, con molteplicità di interazioni (positive e negative) che hanno ritmi e durata diversi, dalle relazioni di breve termine a quelle di lungo e lunghissimo termine. L’impresa, quando è sana, non nasce per realizzare obiettivi di corto respiro e per soddisfare interessi limitati a quelli dell’imprenditore e dei suoi collaboratori, ma si costituisce per durare a lungo, in modo virtualmente “perenne”, ma in ogni caso continuo, con logiche di comportamento responsabile nell’ottica di una economicità e redditività “sostenibili” che consentano di ricompensare nel lungo periodo l’imprenditore, i dipendenti, i prestatori di capitale e tutti coloro che, dentro e fuori l’impresa, collaborano a qualsiasi titolo all’obiettivo finale. Occorre, in questo senso, sottolineare che in molte occasioni gli obiettivi aziendali di molti dei soggetti coinvolti nella crisi del 2008 (e con modalità analoghe, sia pure a diverso titolo, di soggetti coinvolti in gravi episodi di cattiva gestione come gli ormai paradigmatici casi di Enron e Parmalat) non solo non hanno rispecchiato una logica razionale di raggiungimento di obiettivi

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di sostenibilità indirizzati a una platea allargata di portatori d’interesse, ma hanno invece privilegiato interessi di breve o brevissimo termine, concepiti prevalentemente per soddisfare le aspettative del management e degli azionisti. E non va sottaciuto che questi comportamenti, non solo tollerati ma spesso ingiustificatamente coperti dall’inefficacia dei controlli delle autorità di vigilanza, hanno poi avuto un chiaro effetto di contagio che hanno – chiaramente, in associazione con altri comportamenti di diversa natura – contribuito a compromettere la tenuta dell’intero sistema finanziario internazionale. In buona sostanza, ciò che emerge con crescente chiarezza per tutti coloro che detengono responsabilità di gestione delle imprese è una nuova articolazione degli obiettivi strategici dell’impresa su tre direttrici principali: • la definizione di un migliore equilibrio tra obiettivi di breve, medio e lungo termine; • il progressivo spostamento del baricentro degli interessi dagli obiettivi di creazione e massimizzazione del valore per

gli shareholder agli obiettivi di creazione del valore per i diversi stakeholder (il che include, naturalmente, gli stessi shareholder); • l’adozione di una vision che includa, nelle pratiche di buona gestione e negli obiettivi di lungo termine dell’azienda, la percezione di una responsabilità dell’impresa in stretta connessione con i valori etici degli individui, con le comunità e con l’ambiente. Le tre direttrici non sono, chiaramente, indipendenti l’una dall’altra e si presentano, anzi, caratterizzate da dense interazioni reciproche. Specie in determinati mercati, come ad esempio quello statunitense, la diffusa pratica divenuta nota come short-termism è frutto non solo di una selezione degli obiettivi da parte di un management le cui retribuzioni variabili spesso dipendono dal raggiungimento di target trimestrali (o addirittura mensili), ma anche di una pressante richiesta di elevati rendimenti da parte degli azionisti, sia in modo diretto (tramite i board e le assemblee) sia indiretto (tramite le scelte di portafoglio degli investitori, le valutazioni periodiche delle agenzie di

rating, le raccomandazioni degli analisti, le prese di posizione dell’azionariato diffuso). Occorre qui sgombrare il campo da un possibile equivoco, poiché il porre in luce la rischiosità dello short-termism e delle scelte più o meno condizionate di dedicarvi particolare attenzione non significa non tenere conto dell’esigenza di conseguire risultati nel breve termine né, tantomeno, considerarli un errore o un approccio scorretto. Le politiche d’impresa nel breve termine vanno, però, inquadrate nel più ampio contesto delle strategie e degli obiettivi generali dell’impresa sostenibile. Va affermato con chiarezza che attirare l’attenzione sulla rilevanza delle scelte e degli obiettivi di medio e lungo termine non significa negare la rilevanza di quelli a breve, che mantengono un’importanza difficilmente sottovalutabile, bensì stigmatizzare la pratica di privilegiare il risultato di breve periodo sia in sé, sia per fini “di parte”, perché da ciò consegue frequentemente il risultato di compromettere il buon funzionamento (e talvolta la stessa sopravvivenza) dell’impresa nel

lungo periodo. Uno dei più autorevoli economisti d’impresa contemporanei, Gary Hamel, ha scritto recentemente a questo proposito che occorre rieducare la mentalità manageriale e allungare gli orizzonti temporali e la visione prospettica dei manager: “I sistemi di retribuzione e di incentivo spesso accorciano artificialmente gli orizzonti temporali e distorcono la prospettiva […] La maggior parte dei dirigenti non è disposta a finanziare una nuova iniziativa redditizia se, così facendo, si riducono gli utili correnti. Costruire un nuovo sistema di incentivi che riporti l’attenzione dei dirigenti sul creare valore a lungo termine per tutti gli stakeholder è una priorità cruciale per l’innovazione manageriale”. Come si vede, dunque, svincolare gli obiettivi dal risultato a breve termine, specie quando articolato in funzione prevalente, o esclusiva, degli interessi degli shareholder viene ormai considerato un fattore strategico di primaria importanza che occorre incorporare nei valori distintivi delle imprese. Naturalmente, il passaggio da una logica di massimizzazione del valore per gli azionisti a una di creazione di valore per gli stakeholder (la seconda direttrice cui si è accennato) presenta non poche difficoltà. Molti responsabili d’impresa non comprendono realmente i motivi per i quali alle imprese e al loro management si chieda qualcosa di più del mero raggiungimento del profitto più alto possibile, pre-condizione non solo per ottenere e mantenere la fiducia e il supporto degli azionisti e del mercato, ma anche per realizzare una performance di lungo periodo attraverso il consistente utilizzo dei surplus per investimenti in innovazione


e conoscenza, premesse a loro volta di competitività e profittabilità. È, questa, la mentalità cui fa riferimento Hamel e che ha avuto buon gioco a prevalere negli ultimi trent’anni del secolo scorso, che hanno segnato il trionfo incontrastato delle posizioni liberiste di cui si è parlato. Ma occorre tenere conto non solo che da almeno un decennio a questa parte è fortemente mutata la sensibilità sociale a favore di un nuovo orizzonte d’impresa, ma anche che già in passato, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quella che potremmo chiamare “l’economia degli stakeholder” costituiva una realtà tutt’altro che minoritaria. I Ceo dell’epoca tendevano a considerare centrali le figure degli stakeholder, rappresentati dai vari gruppi che entravano in contatto con l’azienda: clienti, dipendenti, fornitori, azionisti, comunità di riferimento. E ritenevano loro dovere innanzitutto coordinare e bilanciare questi interessi talvolta contrastanti. La ragione di ciò è che percepivano il proprio ruolo non solo come amministratori delle risorse loro affidate, ma anche come quello di uno stakeholder tra gli altri, in grado di raggiungere il successo mediante un efficace contributo “multilaterale” da parte dei diversi gruppi. È questo l’approccio che oggi si definirebbe “multi-stakeholder” e che sembrerebbe valere a maggior ragione dato che ci troviamo in una fase nuova dello sviluppo economico, basato su caratteri specifici e di primaria importanza quali le conoscenze, i talenti, l’innovazione, l’integrazione dei fattori e la globalizzazione delle risorse e dei mercati. Sono numerosi gli studi che mostrano come gli aumenti di profittabilità e produttività che hanno interessato le aziende

non si debbano al fatto di aver dato la precedenza agli interessi degli investitori, bensì all’implementazione di best practices di eccellenza come gli investimenti in formazione e in R&S, la decentralizzazione del decision making e il legame tra retribuzioni e performance individuale e di gruppo, la capacità di fidelizzare i clienti e di garantire alti livelli di customer satisfaction. Una nuova e ampia gamma di strumenti di valutazione basati sui principi delle balanced scorecard (Kaplan e Norton) contribuisce a confutare l’idea che le misurazioni finanziarie della performance dovrebbero essere le principali (o uniche) effettuate. Inoltre, non c’è alcuna base legale – o anche semplicemente logica – per dare priorità agli azionisti, quando si tratta di gestire le risorse di un’azienda. D’altra parte, anche l’idea che i mercati azionari costituiscano sempre lo strumento più efficiente, capace di fornire in modo sostanzialmente automatico le stime più accurate del valore aziendale è stato smentito a più riprese: lo testimonia l’aumento negli ultimi anni del numero di operazioni di rideterminazione del valore degli utili (earnings restatement) e di quello delle aziende che sono passate in breve dall’essere “le più ammirate” a “le più criticate”. In sostanza, se l’obiettivo di creazione di valore per gli azionisti resta centrale per qualunque impresa, esso va oggi crescentemente qualificato e affiancato da obiettivi complementari altrettanto rilevanti, nel senso che abbiamo definito in precedenza. Un’impresa sana e responsabile, che concepisca strategicamente il proprio ruolo di creazione di benessere e ricchezza per se stessa e per la società deve ormai sapere coniugare gli interessi del management

e degli azionisti con quelli dei diversi stakeholder. Ne emerge ciò che avevo definito in precedenza come la terza direttrice utile a reimpostare gli obiettivi strategici dell’impresa, ossia l’adozione di una vision che includa, nelle pratiche di buona gestione e negli obiettivi di lungo termine dell’azienda, la percezione di una responsabilità aziendale in stretta connessione con i valori etici degli individui e delle comunità, e con le sempre più avvertite esigenze di tutela e salvaguardia dell’ambiente. È questa la vision alla quale si fa corrispondere di norma l’espressione di Corporate Social Responsibility (CSR), ma che in questa accezione rischia spesso di venire male interpretata in termini sia teorici che pratici. In queste riflessioni si è infatti discusso il rapporto che deve intercorrere, in un’economia sana, tra libertà e autorità (o controllo) e si è indicato il rischio che, come effetto di comportamenti di cattiva gestione da parte di alcuni soggetti, si finisca per ingabbiare le pratiche economiche in vincoli troppo stretti per consentire un’adeguata ricerca del benessere collettivo. In modo non dissimile, anche l’idea di una responsabilità allargata dell’impresa deve riuscire

a trovare un contesto che consenta di interpretare l’inserimento del business nell’ambito della società in termini di libera scelta cooperativa, e non di costrizione morale, che finirebbe col rendere vano l’obiettivo di una buona e cosciente corporate citizenship. In termini generali, come ha sottolineato Michael Porter, l’esigenza di una ampia diffusione della CSR è stata motivata da quattro argomenti diversi, ma complementari tra loro: l’obbligo morale, la sostenibilità, la licenza a operare e la reputazione. Si tratta di argomenti ampiamente condivisibili, rispetto ai quali va però oggi compiuto un passo ulteriore, in una direzione unitaria che li ricomprenda. Un’impresa per operare non mobilita solo le risorse dell’imprenditore, degli azionisti e degli stakeholder. Nei fatti, essa attinge anche in senso lato alle risorse della società nel suo insieme: la sommatoria delle competenze ed esperienze che caratterizzano un contesto socio-economico e che sono composte da una varietà di risorse difficilmente valutabili e qualche volta anche scarsamente visibili. In questo senso, l’impresa inserita in modo pieno nel

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contesto sociale dà e riceve una gamma di fattori che occorre imparare a valutare, e l’aspetto del “dare” non è certamente meno importante di quello del “ricevere”. Citando di nuovo Porter, si può affermare che “per far progredire la CSR dobbiamo fare in modo che essa poggi su una diffusa consapevolezza della relazione che intercorre tra un’azienda e la società, e allo stesso tempo trovi un radicamento nelle strategie e nelle attività delle singole imprese”. Perché questo si verifichi, però, è necessario non solo che la responsabilità sociale entri a fare parte in modo sistematico degli obiettivi e del modo di operare delle imprese, ma anche che la società stessa riconosca il ruolo positivo e insostituibile di creazione di benessere che le imprese garantiscono alla società nel suo insieme. Questo significa che i governi, le organizzazioni non governative e tutti gli attori sociali devono evitare il rischio di ridurre arbitrariamente la capacità delle imprese di operare produttivamente, puntando in modo cosciente a definire un continuum in cui si riconosca la dipendenza reciproca tra le aziende e la società, secondo un principio di creazione di valore condiviso. È una prospettiva nuova che supera opportunamente la visione limitata alla definizione della responsabilità sociale dell’impresa, per impostare una nuova prospettiva cooperativa che Porter stesso ha definito di “integrazione sociale dell’impresa”. Questo è il framework concettuale nel quale è possibile inserire una visione nello stesso tempo libera e responsabile dell’attività economica. Occorre, cioè, che da un lato le imprese si rendano definitivamente persuase che perseguire i propri fini a spese della società in cui

operano si rivelerà sempre più un successo illusorio e, in fin dei conti, temporaneo. E che la società nel suo insieme riconosca il ruolo di creazione di ricchezza e di benessere diffuso del soggetto impresa che accetta di operare nel rispetto di uno sviluppo sostenibile attento alle esigenze delle persone, della collettività e dell’ambiente. Il principio della sostenibilità è ormai stabilmente entrato a fare parte dell’ambito concettuale e fattuale delle imprese più avvertite, che spesso vi fanno riferimento nei termini di una triplice bottom line, costituita dalla performance economica, sociale e ambientale. L’impresa sostenibile si pone, cioè, l’obiettivo di operare in modo da garantirsi una performance economica di lungo termine (come si è detto in precedenza), evitando quei comportamenti di corto respiro che arrecherebbero danni alla società e/o all’ambiente. Per realizzare questo obiettivo l’impresa incorpora la variabile ambientale nei costi e nelle metodologie esecutive, in termini di gestione strategica complessiva. Porre la gestione d’impresa nell’ottica delle tre direttrici fondamentali proposte può aiutare a dare realtà e concretezza al dibattito relativo all’equilibrio indispensabile tra libertà e controllo che si è discusso in precedenza. Ed è il momento di farlo. Il periodo in cui viviamo è, infatti, fortemente condizionato dagli eventi economici dirompenti che l’economia mondiale sta vivendo da alcuni anni a questa parte, anni caratterizzati da forti spinte di sviluppo alternate da anni connotati da crisi di crescente intensità, fino alla più recente ancora in atto. E vi è spesso la tendenza a identificare tra le cause delle crisi ricorrenti una

relativa carenza di regole nel dominio economico-finanziario, che rende più agevole l’iniziativa economica ma, allo stesso tempo, anche il mancato rispetto delle regole stesse. Da qui nasce una forte pressione, che si avverte sia a livello nazionale che internazionale, per un ritorno a una situazione di maggiore controllo da parte delle autorità in rapporto ai comportamenti delle imprese e delle società finanziarie. Il rischio connesso con queste pur giustificate spinte per una più stretta regolamentazione è però quello di un eccessivo irrigidimento delle regolamentazioni, al punto da compromettere l’efficacia dell’azione imprenditoriale, in nome di maggiori garanzie per la stabilità dei sistemi economici e sociali e per gli interessi dei cittadinirisparmiatori-investitori. L’identificazione del punto di equilibrio più opportuno tra libertà di azione ed esigenza di controllo è l’elemento più delicato in questione, ed ancor più nel momento in cui gli stati sono chiamati ad azioni straordinarie di salvataggio di soggetti economici compromessi, con tutti i rischi di ulteriore irrigidimento delle forze di mercato che ne conseguono. Se dunque da una parte è compito delle autorità individuare un ragionevole punto di equilibrio tra libertà e controlli, è dall’altra parte compito dei soggetti economici, in primo luogo delle imprese di ogni tipo, farsi carico delle preoccupazioni di cittadini e governi in relazione ai comportamenti deviati che, sia pure in una minoranza dei casi, hanno contribuito a creare le situazioni di crisi e instabilità che stiamo vivendo. È, però, necessario individuare un punto di equilibrio che consenta una

libera assunzione di marcate responsabilità sociali da parte delle imprese senza imbrigliare l’attività economica in vincoli insostenibili. Per uscire da una potenziale situazione di stallo, è necessario un reciproco riconoscimento tra le imprese e gli altri attori sociali per l’individuazione degli equilibri più opportuni, in una ricerca consapevole di quella che abbiamo definito come “integrazione sociale dell’impresa”, con uno spirito costruttivo che consenta alle imprese di produrre ricchezza e benessere sostenibile e condiviso arricchendo nel complesso le opportunità per la società nel suo insieme. Se riusciremo a fare questo, potremo attenuare, o in molti casi risolvere, l’apparente contrasto tra libertà e autorità che, se mal gestito, porterebbe inevitabilmente a una situazione perdente per tutti che è nostro compito riuscire a scongiurare.

I contenuti di questo articolo sono tratti dal saggio “Libertà, sostenibilità, responsabilità” pubblicato nel libro Diritto, mercato ed etica. Dopo la crisi. (Ed. Università Bocconi, 2010). * Carlo Pesenti è consigliere delegato di Italcementi e direttore generale della holding Italmobiliare. Dopo la laurea in Ingegneria Meccanica e un periodo di studio e lavoro all’estero, sviluppa diverse esperienze in Italcementi e poi in Italcementi Ingegneria. Matura inoltre un significativo tirocinio presso la Direzione Finanza Amministrazione e Controllo di Italcementi, consolidando così il master di Economia e Management conseguito all’Università Bocconi. Siede nel consiglio di amministrazione di alcune società italiane fra cui UniCredit Group, Mediobanca e RCS MediaGroup. Nel 2003 è stato nominato membro della Giunta di Confindustria. Nel biennio 2006-2008 ha ricoperto la carica di co-presidente del Business Council Italo-Egiziano ed è componente del Board Italy-India Ceo Forum. È stato co-presidente del CSI (Cement Sustainability Initiative) nell’ambito del WBCSD (World Business Council for Sustainable Development).


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ne of the most significant and, even now, controversial aspects of the worldwide debate triggered by the recent financial and economic crisis, described by the IMF first deputy managing director John Lipsky as “the worst in the history of the modern economy”, concerns an issue of profound relevance not only to economic activities in the strict sense, but to social relations in general. The point in question stems from analyses that often identify the causes of the crisis largely as inadequate regulation of the financial markets and/or insufficient vigilance of key market players by the authorities. Of course, these are not the only causes pinpointed by the analysts, but given the relevance of the question of rules to ensure the markets function correctly and safeguard savers-consumers-investors, and the importance of compliance with those rules (by economic players in general, not just financial players), without doubt the focus today must be on the need for a new demarcation between freedom of economic action and checks for the correct functioning of markets and competition. The dilemma facing today’s regulators, therefore, is to meet the need—widely felt by business organizations of all types and sizes—for clearer, enforced rules, without curbing the legitimate freedom of economic action and the correct working of the market. The greatest danger in the eyes of managers and entrepreneurs is that the entirely normal oscillation between freedom and control will tend to swing too far in the direction of control. This eventuality should not be underestimated, especially in view of growing state intervention in a number of

countries in order to safeguard strategic business players. Perception of this risk should not push the corporate sector to assume a defensive position, however. Although a certain dose of prudence is entirely advisable, since there is no guarantee that legitimate concerns over the stability of the system and necessary measures to safeguard key economic and social operators might not pave the way for worrying and entirely inappropriate moves in a statist or dirigiste direction, attitudes of suspicion and withdrawal would be unrealistic and ill-advised at the present time. Moreover, the objective fact that the 2008-2009 crisis was triggered by the reckless actions of a relatively small number of companies, the majority but not all in the financial sector, cannot and must not lead to the hasty conclusion that the corporate system, and management at every level, can afford not to conduct a full examination of prevailing management methods or, indeed, of today’s most widespread management philosophies. The reason is not so much to establish the absolute dimension of cases of bad or imprudent management in the companies that fuelled the crisis (mention should be made at least of events at Bear Stearns, Lehman Brothers and AIG in the USA, and Northern Rock, Dexia and Fortis in Europe), as to assess the quality of the phenomenon itself, which needs to be very well understood to ensure that such abnormal practices cannot be so easily repeated. The reference to abnormal practices may be disagreeable to the many managers who run their companies with extreme diligence, dedication and professionalism, and they represent the very great majority. But we really can no

longer avoid a thorough analysis that seriously considers not just the rules for a correctly functioning market, or markets, and this is a task for legislators and government; but also strategic guidelines for corporate management, definition of management practices, identification of corporate goals, rules of good corporate governance catering for the increasingly clear social responsibilities of enterprises. And this is certainly a task that economists on one hand, and corporate leaders on the other, have to assume with fresh determination. We have to establish a clear new definition of the specific role of the business corporation as a creator of wealth for society, as a provider and distributor of wealth and opportunities, as a social body in the socio-economic fabric of the community, with multiple interactions (positive and negative) of varying duration, operating at different rates, from short-term relations to long- and very long-term relations. When an enterprise is a healthy organization, it is not set up to achieve short-term objectives and simply satisfy the interests of the entrepreneur and his team, it is intended to be a long-term, virtually “perennial” player; an on-going concern that operates in a responsible manner geared to “sustainable” cost-effectiveness and profitability, which, over the long term, will remunerate the entrepreneur, the employees, the financers and all the other parties, in and outside the company, with an interest in its ultimate objective. On this point, it needs to be said that, in many cases, the corporate objectives of many of the organizations involved in the 2008 crisis (and in a similar fashion, but for different purposes, of corporations guilty

of serious mismanagement such as the now textbook cases of Enron and Parmalat) were not based on a logical rationale for achieving sustainability goals addressing a broad range of stakeholders, but instead gave priority to short- or very short-term interests, in order mainly to satisfy the expectations of management and shareholders. Nor should we ignore the fact that their behavior, tolerated and frequently unjustifiably covered by the ineffective vigilance of the supervisory authorities, was clearly contagious, and that this—combined of course with a variety of other factors—undermined the entire international financial system. Substantially, it is becoming increasingly clear to everyone with corporate management responsibilities that the enterprise’s strategic objectives should move in three main directions: • definition of a better balance between short-, medium- and long-term goals; • a gradual shift in focus from creation and maximization of shareholder value to creation of value for the various stakeholder groups (obviously including shareholders); • uptake of a vision whose good management practices and long-term goals include a perception of corporate responsibility as being closely connected with the ethical values of individuals, the community and the environment. Clearly, these three objectives are closely inter-related, not separate. In some markets, including the US market, the widespread practice known as short-termism is the result not only of the choice of goals made by managers whose variable remuneration is often linked to attainment of quarterly (or even monthly)

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targets, but also of shareholder pressure for high returns, which may be direct (through the board and shareholders’ meetings) or indirect (through investors’ portfolio decisions, rating agencies’ periodical assessments, analysts’ recommendations, trends on the stock markets). Here, we need to eliminate a possible misinterpretation: highlighting the risks of short-termism and the more or less automatic responses this engenders does not mean not taking account of the need for short-term results, much less considering short-term results an error or an incorrect approach. Corporate short-term policies need, however, to be placed within the wider context of the general strategies and goals of the sustainable enterprise. We should be clear that drawing attention to the importance of medium- and long-term decisions and objectives does not equate to a denial of the relevance of short-term objectives, whose significance should not be underestimated; the criticism is directed at the practice of making the short-term result a priority, in itself and to serve “vested” interests, because this frequently compromises the corporation’s long-term operations (and sometimes even its survival). Writing about this recently, one of today’s most authoritative corporate economists, Gary Hamel, said it was necessary to re-educate the management mentality and extend managers’ timeframes and perspective: “Pay and incentives systems often artificially shorten timeframes and distort perspectives […] The majority of managers is not willing to finance a profitable new initiative if it means cutting current profits. Building a new system of incentives that returns management attention to

long-term value creation for all stakeholders is a crucial priority for managerial innovation.” Today then, releasing objectives from the obsession for short-term results, especially when this focuses mainly or exclusively on shareholder interests, is now considered a primary strategic factor to be incorporated into companies’ core values. Naturally, the move from an approach geared to maximizing shareholder value to one that creates value for stakeholders (the second of our three objectives) is not plain sailing. Many corporate executives do not really understand why companies and their management should be asked to do more than simply deliver the highest possible earnings, a pre-requisite not only to secure and maintain the trust and support of shareholders and the market, but also to sustain performance over the long term by investing surpluses in innovation and knowledge, which in turn are essential for competitiveness and profitability. This is the mentality referred to by Hamel, and it had no difficulty prevailing in the final thirty years of the 20th century, a period of unchallenged supremacy for the liberist positions discussed earlier. We should consider not only that, for the last ten years at least, social attitudes have shifted in favor of a new corporate approach, but also that what could be described as the “stakeholder economy” was already a by no means minority reality in the 1950s and 1960s. In those years, CEOs accorded a core role to stakeholders, the different groups with which the company came into contact: customers, employees, suppliers, shareholders, the local community. And they considered it their duty to coordinate and balance the

sometimes conflicting interests of their stakeholders. This was because they viewed themselves not simply as wise administrators of the resources entrusted to them, but also as another group of stakeholders, whose success depended on an effective multilateral contribution from all the different groups. This is what is known as a “multi-stakeholder” approach, and its importance is heightened in the current new period of economic growth based on specific factors of primary importance such as knowledge, talent, innovation, integration of factors and globalization of resources and markets. Many studies show that corporations that have boosted their profitability and productivity have done so not by giving precedence to investor interests, but by implementing best practices of excellence: investing in training and R&D, decentralizing decision making, linking remuneration to individual and group performance, improving customer retention rates and guaranteeing high levels of customer satisfaction. A broad new range of assessment tools based on balanced scorecard principles (Kaplan and Norton) helps refute the idea that performance should be measured mainly (or only) with financial yardsticks. Also, there is no legal basis—or logical basis—for giving priority to shareholders when managing corporate resources. Indeed, the idea that the stock markets are always the most efficient tool, turning out more or less automatically the most accurate estimates of corporate worth, has been disproved repeatedly: this is reflected in the growing numbers of earnings restatements and companies that have gone from being “the most admired” to

“the most criticized”. In short, while creating shareholder value continues to be a core goal for any business enterprise, increasingly it must be qualified and flanked by equally important complementary objectives, as we noted earlier. Today, a healthy and responsible corporation, with a strategic conception of its role in creating well-being and wealth for itself and for society, must combine the interests of management and shareholders with those of the other stakeholders. What emerges is what we indicated earlier as the third objective for a review of the enterprise’s strategic goals: a vision whose good management practices and long-term goals include a perception of corporate responsibility as being closely connected with the ethical values of individuals, the community and the need to safeguard the environment, an issue of growing importance today. This is the vision normally associated with the expression Corporate Social Responsibility (CSR), but seen in that context it often risks being misunderstood, in both theory and practice. Earlier, we looked at the relationship that should operate, in a healthy economy, between freedom and authority (or regulation) and indicated the risk that, due to poor management by some players, overly restrictive constraints might be placed on business methods, preventing a proper pursuit of collective well-being. In a not dissimilar way, the idea of broader corporate responsibility needs to be set in a context that enables business’ role in society to be interpreted as a cooperative free choice, not as a moral constriction, which would invalidate the goal of good, responsible corporate citizenship.


Broadly speaking, as Michael Porter has pointed out, advocates of CSR cite four different but complementary arguments to make their case: moral obligation, sustainability, license to operate and reputation. These are convincing arguments, but today they need to be accompanied by an additional step in a single direction embracing all four. The resources mobilized by an enterprise to operate are not just the resources of the entrepreneur, the shareholders and the stakeholders. In practice, the company also draws broadly on the resources of the community as a whole: the sum of the competences and experience of a particular socio-economic context, which consist of a variety of resources that are difficult to assess and not always easy to see. In this sense, an enterprise that is fully engaged with the social context gives and receives a range of factors we have to learn to assess, and the “giving” is certainly no less important than the “receiving”. Going back to Porter, we can say that “to advance CSR, we must root it in a broad understanding of the interrelationship between a corporation and society while at the same time anchoring it in the strategies and activities of specific companies.” For this to happen, however, not only must social responsibility become integral to business objectives and operating methods, society itself must recognize the positive and irreplaceable role of wealth creation that business guarantees for society as a whole. Consequently, government, non-government organizations and all the social players must avoid the risk of arbitrary curtailments of enterprises’ ability to operate productively, and consciously strive to define a continuum recognizing the

mutual dependence between business and society, based on the principle of creation of shared value. This new perspective neatly overcomes the vision that thinks in terms of corporate social responsibility, and establishes a new cooperative approach described by Porter as “corporate social integration”. This provides a conceptual framework for a simultaneously free and responsible understanding of business activity. On the one hand, corporations must come to the realization that pursuing their own ends at the expense of the society in which they operate will bring illusory and, ultimately, short-lived success. On the other, society as a whole must recognize that the enterprise that agrees to operate in compliance with the principle of sustainable growth—care for the needs of individuals, the community and the environment—creates widespread wealth and well-being. The principle of sustainability is now an accepted part of the conceptual and factual mindset of more evolved corporations, who often describe it in terms of a triple bottom line consisting of economic, social and environmental performance. The sustainable enterprise, in other words, sets out to guarantee long-term economic performance (as discussed earlier), and avoids short-term approaches that would harm society and/or the environment. To do so, it incorporates the environmental variable in its costs and operating methods, in terms of overall strategic management. Approaching corporate management in terms of the three fundamental objectives described here can help put the debate on the vital balance between freedom and control

on a practical, concrete basis. And this is the right time. The current climate is heavily conditioned by the explosive events in the world economy in recent years, when periods of intense growth have alternated with years marked by increasingly severe crises, bringing us to the latest ongoing crisis. There is often a tendency to identify one of the causes of these recurring crises as a relative lack of rules in the business community, which gives new economic initiatives an easier start but also fosters non-compliance with what rules there are. The result is strong pressure, at national and international levels, for a return to greater control by the authorities over the operations of corporations and financial companies. The risk inherent in these albeit legitimate calls for tighter regulation is that, in the name of greater guarantees for economic and social stability and the interests of individuals-savers-investors, the rules may become so rigid that they compromise business effectiveness. Establishing the most suitable point of balance between freedom of action and the need for control is the trickiest part, especially when states are being asked to take extraordinary measures to bail out economic players, with all the consequential risks of a further congealing of market forces. So while the duty of the authorities is to identify a reasonable point of balance between freedom and control, the duty of economic players, and of business organizations first of all, in all areas, is to embrace the concerns of individuals and government with regard to the bad practices responsible for the current crisis and instability, even if those concerned were in a minority.

The point of balance in question must, however, allow enterprises to freely assume clear social responsibilities without placing unsustainable restrictions on their activities. To avoid a potential stalemate, business and the other social players should come to a mutual recognition of their roles in establishing the most suitable balances for a conscious pursuit of “corporate social integration”, in a constructive spirit that enables business to produce shared, sustainable wealth and well-being and thereby enhance the opportunities open to society as a whole. If we are successful, we shall be able to reduce, or in many cases resolve, the apparent contrast between freedom and authority which, if badly managed, would inevitably create a situation where everyone is a loser, which it is our duty to prevent.

The topics of this article are an excerpt from the essay “Libertà, sostenibilità, responsabilità” published in Diritto, mercato ed etica. Dopo la crisi. (Ed. Bocconi University, 2010). * Carlo Pesenti is the Chief Executive Officer of Italcementi and Chief Operating Officer of the Italmobiliare holding. After graduating in Mechanical Engineering and spending a work/study period abroad, he gained important experience initially in Italcementi and later in Italcementi Engineering. He also completed an important apprenticeship in the Italcementi’s Finance, Administration & Control Division, where he consolidated his master’s degree in Economics & Management from the Bocconi University. Pesenti is a member of the Board of Directors of a number of Italian companies including UniCredit Group, Mediobanca and RCS MediaGroup. In 2003 he was appointed to the Confindustria Board. For the 2006-2008 term he was Co-Chairman of the Italian-Egyptian Business Council; he is a member of the Board for the Italy-India CEO Forum. Co-Chairman of CSI (Cement Sustainability Initiative) within the WBCSD (World Business Council for Sustainable Development).

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Combattere le diseguaglianze Combating Inequality Intervista a Jean-Paul Fitoussi* Interview with Jean-Paul Fitoussi*

Gli squilibri del mercato vanno corretti con gli strumenti della democrazia. Solo così il capitalismo può continuare a creare ricchezza Market imbalances have to be corrected with the instruments of democracy. This is the only way capitalism can continue to create wealth

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Jean-Paul Fitoussi

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he relazione lega democrazia e crescita economica? La crisi degli anni scorsi è stata una crisi ciclica del capitalismo o un fallimento del capitalismo? È possibile immaginare delle alternative all’economia capitalista per scongiurare nuove crisi recessive dell’ampiezza di quella del 2008-2009? Ma, soprattutto, ha senso pensare a delle alternative quando è ancora recente e presente nella coscienza di tutti il clamoroso fallimento di oltre mezzo secolo di politiche economiche centralizzate e pianificate in regimi autoritari? Queste sono, tra le altre, alcune delle questioni che si sono discusse nei mesi scorsi, all’indomani della peggior crisi economica della storia, e che ancora sono oggetto di attenzione. Un importante economista e opinionista francese, Jean-Paul Fitoussi, risponde alle sollecitazioni di arcVision su questi temi e mette bene in chiaro un punto: il capitalismo può prosperare solo nella democrazia, ma occorre agire per attenuare le diseguaglianze che lo potrebbero distruggere. Guardando alla peggior crisi della storia economica,

possiamo dire che i regimi democratici hanno tenuto bene. La democrazia non è mai stata messa in discussione, nessuno ha evocato l’opportunità di puntare a regimi più autoritari per mettere sotto controllo le forze del mercato. Un netto contrasto rispetto agli anni Trenta, quando invece tra le conseguenze della crisi c’erano stati protezionismo e nazionalismo, e poi fascismo e nazismo. Dunque, si conferma quanto diceva Churchill, che la democrazia è il peggior regime possibile, tranne che tutti gli altri sono peggiori? Quella che si è verificata negli anni scorsi è stata una crisi del capitalismo, non una crisi del regime politico della democrazia. Quanto abbiamo vissuto ci ricorda un’importante lezione della storia ed è che il capitalismo è sempre stato salvato dalla democrazia, come ad esempio abbiamo chiaramente verificato dopo la seconda guerra mondiale. È vero che il salvataggio del capitalismo dai regimi autoritari non ha funzionato dopo la crisi degli anni Trenta, che ha condotto alla guerra e ai regimi totalitari. Ma la questione è che

non esiste un sistema economico che non faccia parte di un regime politico e noi stiamo vivendo in un regime politico che io chiamo “democrazia di mercato”. Questo regime politico consente di evitare gli estremi cui il capitalismo può condurre. Il capitalismo, infatti, non è un sistema che si preoccupa delle disuguaglianze e può, dunque, condurre a situazioni di estrema disuguaglianza. Ma la democrazia non può consentire eccessive disparità e, dunque, la democrazia salva il capitalismo in un modo benefico, impedendogli di arrivare a degli estremi che lo distruggerebbero. È significativo, comunque, che anche nel peggior momento della crisi nessuno abbia auspicato un ritorno a un’economia pianificata o abbia espresso nostalgia per le esperienze di centralizzazione di stile sovietico. È un altro segno della forza del capitalismo o della sua mancanza di alternative realistiche? Io non credo che si possa essere del tutto assoluti da questo punto di vista e dire che non c’è una alternativa al capitalismo, perché in realtà se non ci fosse occorrerebbe inventarla. Il problema è che quando un regime si crede totalmente dominante e senza alternative si crea una situazione fortemente critica perché il sistema tende ad andare agli estremi. Per esempio, sappiamo che le imprese in una situazione di capitalismo estremo puntano al monopolio per evitare la concorrenza di altre imprese. Ciò che lo impedisce sono le regole introdotte dalla democrazia che garantiscono una concorrenza leale. Tornando, quindi, alla questione dell’alternativa, direi che forse non è stata inventata perché già

esiste, ed è un sistema che opera la sintesi tra il capitalismo e la democrazia, o per dirla in altro modo, un capitalismo contaminato in qualche misura da forme di socialismo. È in effetti quello che abbiamo oggi, ed è ciò che consente al capitalismo di sopravvivere. La pianificazione non esiste nei programmi, ma assai spesso esiste nei fatti. Quando si parla di programmi a lungo termine o di piani per le infrastrutture e i beni pubblici, si tratta di una sorta di pianificazione, anche se di norma la definiamo razionalizzazione, dato che il termine pianificazione è ormai caduto in desuetudine. Dunque l’alternativa al capitalismo è un capitalismo migliore? Non esattamente, l’alternativa al capitalismo è prendere sul serio la democrazia e l’esigenza che la democrazia assicuri un massimo di uguaglianza, perché la democrazia è basata sulla legge dell’uguaglianza. Oggi a crescere di più sono i paesi emergenti, in cui spesso la democrazia è di facciata o, come nel caso della Cina, è quasi inesistente. Fino a ieri la crescita mondiale è stata invece trainata dai paesi di democrazia occidentale, Usa, Europa, Giappone. Come legge questo passaggio in termini di relazione tra democrazia e crescita economica? Il fatto che oggi i paesi poveri crescano più velocemente dei paesi ricchi è frutto di una legge economica che non ha niente a che fare con il regime politico. Quando ci si muove iniziando da un punto molto in basso è facile raddoppiare. Quando si parte da un tenore di vita di un ventesimo di quello dell’Italia, come in Cina, è facile arrivare a una crescita del 10%.


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Il problema viene dopo ed è che a misura che un paese diventa più ricco, la sua crescita potenziale si abbassa. Perciò il fatto che i paesi emergenti crescano più velocemente dei paesi avanzati è del tutto normale, è quasi una legge fisica che non ha nulla a che fare con i regimi politici. Ma ciò che sappiamo è che anche per i paesi emergenti la democrazia è un sistema di governance dell’economia migliore di un’autocrazia. La ragione è stata chiaramente enunciata da Amartya Sen. Non esiste, per esempio, un caso di carestia in democrazia, ma ce ne sono tanti nei regimi dittatoriali. E dunque anche per questo la democrazia è un regime più favorevole alla crescita. La democrazia introduce l’informazione e il dibattito pubblico e si sa bene che una carestia non è un problema di disponibilità assoluta di risorse alimentari, ma un problema di ripartizione di queste risorse. Perciò quando si ha un’informazione e una stampa libera, un parlamento che dibatte i problemi, un’opinione pubblica che ne

prende coscienza, allora si interviene sulla distribuzione e questo impedisce le carestie. Non c’è, in definitiva, alcuno studio che prova che sia possibile realizzare una crescita più forte in un regime autocratico.

* Jean-Paul Fitoussi è professore di Economia all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e presidente dell’Observatoire Français des Conjonctures Economiques. Consulente della Commissione degli Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo, è stato presidente del Consiglio Economico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Ha ricevuto molteplici premi e riconoscimenti tra cui il Premio della Association Française de Sciences Economiques e le onorificenze di Chevalier de l’Ordre National du Mérite e Chevalier de la Legion d’Honneur. Il professor Fitoussi è direttore responsabile della Revue et Lettre de l’OFCE, membro del Comitato Scientifico della Revue Française d’Economie, ed editorialista per La Repubblica e Le Monde. Tra le numerose pubblicazioni, da segnalare i libri La nuova ecologia politica. Economia e Sviluppo Umano (2008) e La democrazia e il mercato (2004).

hat is the relationship between democracy and economic growth? Is the recent crisis a cyclical crisis of capitalism or a failure of capitalism? Do alternatives to the capitalist economy exist which can ward off the threat of new recessionary crises on the scale of the 2008-2009 crisis? Above all, is a debate on alternatives relevant when the resounding failure of more than half a century of centralized planned economic policies in authoritarian regimes is still fresh in everyone’s mind? These are just some of the questions that have been under discussion recently, in the wake of the worst economic crisis in history. Jean-Paul Fitoussi, a leading French economist and opinion-maker, talks about these issues with arcVision and is very clear about one point: capitalism can only prosper in a democracy,

but action must be taken to ease the inequalities that could destroy it. Looking at the worst crisis in economic history, the democratic regimes seem to have held up well. Democracy has never been questioned, no one has called for regimes of a more authoritarian nature to bring market forces under control. This is in sharp contrast with the 1930s, when the consequences of the crisis were protectionism and nationalism, as well as fascism and nazism. So was Churchill right, democracy is the worst of all possible political systems, the only problem is that none of the others is better? The crisis of the past few years is a crisis of capitalism, not a crisis of the political regime of

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democracy. It is a reminder of an important lesson in history, which is that capitalism has always been saved by democracy, as was certainly the case after the Second World War. It’s true that the authoritarian regimes failed to rescue capitalism after the crisis of the 1930s, which led to the war and the totalitarian regimes. But the point is that there is no economic system that is not part of a political system and we are living in a political system I call “market democracy”. This political system allows us to avoid the extremes that capitalism can create. Capitalism does not worry about inequalities and therefore it can create situations of extreme inequality. But democracy cannot permit excessive disparities and so it rescues capitalism in a beneficial way, preventing it from reaching the extremes that would destroy it. It is nevertheless significant that even when the crisis was at its height no one called for a return to a planned economy or expressed nostalgia for soviet-style centralization. Is this another sign of the strength of capitalism or of a lack of realistic alternatives? I don’t think you can reason in absolute terms here and say there is no alternative to capitalism, because the fact is if one didn’t exist we would have to invent it. The problem is that when a regime believes it is totally dominant and without alternatives, a highly critical situation develops, because the system tends to go to extremes. We know, for example, that in a situation of extreme capitalism, companies aim to achieve a monopoly and avoid competition from other companies. What prevents this

are the rules introduced by democracy to guarantee fair competition. So going back to your question, I would say that perhaps an alternative hasn’t been invented because it already exists, and is a synthesis of capitalism and democracy, or, to put it another way, capitalism contaminated to a certain extent by forms of socialism. This is what we have today, and it enables capitalism to survive. Planning doesn’t exist at program level, but it very often exists in practice. When you talk about long-term programs, or plans for infrastructures and public works, this is a sort of planning, even though we usually refer to it as rationalization, given that the term planning has now fallen into disuse. So the alternative to capitalism is a better capitalism? Not exactly, the alternative to capitalism is to be serious about democracy and the need for democracy to ensure maximum

equality, because democracy is based on the law of equality. Today the fastest growing players are the emerging nations, where democracy is often a facade or, as in China, almost non-existent. Until recently, world growth was driven by the western democracies, the USA, Europe, Japan. How do you interpret this change in terms of the relationship between democracy and economic growth? The fact that the poor nations are growing faster than the rich countries is the result of an economic law that has nothing to do with political systems. When you start from a low point, it’s easy to double it. When you start from a standard of living that is a twentieth of the standard in Italy, as China has done, it’s easy to achieve growth of 10%. The problem comes later, and is that as a country grows richer, its potential growth decreases. So the fact that the emerging

countries are growing faster than the advanced nations is quite normal, almost a law of physics, and has nothing to do with political regimes. But what we know is that for the emerging nations, too, democracy is a better system for economic governance than an autocracy. This is clearly explained by Amartya Sen. For example, there are no cases of famine in a democracy, but in dictatorships cases of famine abound. For this reason too, democracy is a more favorable regime for growth. Democracy introduces information and political debate, and we know that famine is not a problem of an absolute availability of food, but a question of distribution of resources. So when you have a free press and information, a parliament that debates issues, informed public opinion, then action is taken on distribution and this prevents famine. In a word, there is no study proving that it is possible to achieve stronger growth in an autocratic regime.

* Jean-Paul Fitoussi is a Professor of Economics at the Institut d’Etudes Politiques in Paris and President of the Observatoire Français des Conjonctures Economiques. He is a consultant to the Economic and Monetary Affairs Commission of the European Parliament and he was Chairman of the Economic Council of the European Bank for Reconstruction and Development. He has received many awards and honors, including the Award of the Association Française de Sciences Economiques, and he is a Chevalier de l’Ordre National du Mérite and a Chevalier de la Legion d’Honneur. Professor Fitoussi is the Editor-in-chief of the Revue et Lettre de l’OFCE, a member of the Scientific Committee of the Revue Française d’Economie, and a leader writer for La Repubblica and Le Monde. His many publications include La nouvelle écologie politique: Economie et Développement humain (2008), and La Démocratie et le Marché (2004).


Democrazia e controlli Democracy And Control Intervista a Charles A. Kupchan* Interview with Charles A. Kupchan*

Benessere e sviluppo non equivalgono sempre a regimi più democratici. Per questo in futuro occorrerà vigilare e far rispettare le regole Prosperity and growth do not always equate to more democratic regimes. This is why in the future vigilance is needed to ensure rules are enforced

recente crisi finanziaria e della realtà di una Cina che riesce a trarre grossi benefici da una struttura capitalistica molto centralizzata, si stia andando verso maggiori limiti e controlli del sistema finanziario internazionale. Non penso che si arriverà a una nuova architettura finanziaria, che rimane un obiettivo alquanto sfuggente. Ma a livello di singoli paesi o gruppi di paesi si sta andando nella direzione di aumento delle regole e di controlli più rigidi per tenere sotto controllo gli eccessi del mercato.

Charles A. Kupchan

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opo la caduta del Muro di Berlino si è in molti sperato che la democrazia potesse diffondersi ovunque portando sempre più benessere e riducendo le cause di conflitto. Ci si è presto dovuti rendere conto che non sempre l’economia di mercato porta a sviluppi democratici, né determina automaticamente più benessere per tutti. Un grande esperto di affari internazionali, Charles A. Kupchan del Council of Foreign Relations, spiega perché, per assicurare uno sviluppo futuro nella democrazia e nella pace, occorra introdurre regole più severe, e farle rispettare. In tutto il mondo, tranne pochi paesi ancora legati al comunismo e paesi pre-moderni che sono spesso dittature o autocrazie, domina l’economia di mercato. Questo è un bene o un male, considerato che spesso in tale contesto i soggetti economici forzano i vincoli e le regole per agire con i minori controlli possibili, come si è visto nel periodo precedente la crisi del 2008-2009? Credo sia stato inevitabile che alla fine le economie di mercato abbiano prevalso, se non altro

perché, come le statistiche storiche hanno dimostrato, hanno avuto performance ben superiori a tutte le altre alternative. Ma non penso che ne daremmo una definizione accurata se affermassimo che esiste solo un tipo particolare di economia di mercato. Gli Usa, l’Europa continentale, il Giappone, la Cina, il Brasile o l’India hanno sviluppato forme specifiche di capitalismo con caratteri diversi di stato, società, relazioni di mercato e approccio legislativo. Viviamo in un mondo dove esistono diversi tipi di economia di mercato e credo che, proprio come conseguenza della

L’economia di mercato, come vediamo in Cina e in Russia, non si accompagna necessariamente alla democrazia. Inoltre, nel suo ambito è più facile che le disuguaglianze aumentino anziché diminuire: è successo un po’ ovunque negli anni passati, anche se spesso è tutta la gamma dei redditi a innalzarsi. Non c’è dunque identità tra forme di governo democratiche e sviluppo dell’economia di mercato? No, in effetti non si può stabilire una correlazione diretta e questo va un po’ contro l’opinione comune secondo la quale l’economia di mercato

porta prima o poi alla democrazia liberale. Logica, questa, che è stata in fondo anche dietro all’idea di avere sempre più intensi rapporti economici con la Cina per liberalizzarne l’economia, supponendo che questo avrebbe portato inevitabilmente alla liberalizzazione del sistema politico. Ciò che osserviamo è in realtà in contrasto con l’opinione comune. Il tipo di capitalismo autoritario praticato in Cina e Russia può potenzialmente avere la capacità di perpetuarsi. In parte perché un’economia emergente come la Cina sta ottenendo risultati assai migliori di un’altra economia emergente come l’India, e in parte perché la Cina non è una democrazia e può, perciò, avvantaggiarsi di una crescita trainata dallo stato e da colossali progetti infrastrutturali pubblici o semi-pubblici in una misura impossibile per l’India. E questo a causa della differenza tra i due sistemi politici. Dicendo questo non intendo criticare la democrazia indiana, che è un vero miracolo se si tiene conto della realtà incredibilmente diversificata che la caratterizza, ma per sottolineare che una forma di capitalismo fortemente soggetta a controllo ha i suoi vantaggi. Per di più, come suggerisce la domanda, sembra che andiamo verso un periodo in cui le economie liberali come gli Stati Uniti o l’Europa si muovano nella direzione di crescenti disuguaglianze, anziché verso un benessere maggiormente diffuso in tutte le classi sociali. E questo porta a società più difficili da governare e in cui la polarizzazione politica può rendere più arduo fare i conti con le sfide economiche attuali. Per esempio, oggi negli Usa la maggioranza sarebbe d’accordo sul fatto che il paese ha un bisogno disperato di una qualche combinazione tra tagli

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alla spesa pubblica e aumento delle entrate, ma far sì che il sistema politico attuale produca tale risultato è molto difficile. Può avere a che fare con la globalizzazione e il grado con cui questa avvantaggia chi manovra le leve dell’economia a spese dei lavoratori, e può anche avere qualcosa a che fare con il grado in cui le democrazie liberali sembrano perdere il controllo sui nostri destini, o può essere che paesi come la Cina risultano essere meglio attrezzati per rispondere alle sfide della globalizzazione proprio perché esercitano un maggiore controllo pubblico sul mercato. Proprio a questo proposito, a suo parere la crisi ha effettivamente portato a una maggiore intromissione dei governi dei paesi avanzati nell’economia, o si è trattato solo di un intervento di emergenza che rientrerà non appena non sarà più necessario? Si tratta un po’ di ambedue le cose. Ci saranno cambiamenti permanenti nell’area delle normative bancarie, del trattamento dei derivati, dei principi contabili e della trasparenza. Quando le turbolenze saranno finite, questi provvedimenti resteranno a lungo, senza però determinare cambiamenti di fondo nel sistema finanziario che abbiamo conosciuto prima della crisi. Ma quando gli storici in futuro si guarderanno indietro, non le considereranno trasformazioni di ampia portata del capitalismo americano o europeo. Oggi stiamo assistendo a una crescente frammentazione del quadro politico mondiale: da un equilibrio bipolare durato fino a fine anni Ottanta si è passati a un predominio unipolare Usa negli ultimi vent’anni, che

oggi sta cedendo il passo a una nuova realtà multipolare sempre meno controllabile. Cresce il potere di Cina e Russia mentre l’Europa e il Giappone restano fragili, gli stati canaglia non recedono e anzi si rischia una nuova proliferazione nucleare e il terrorismo è lungi dall’essere vinto e porta ulteriori squilibri. In un mondo multipolare i rischi per la democrazia, o la possibilità di estendere la democrazia, aumentano o diminuiscono? Credo che le conquiste democratiche che si sono avute dopo la caduta del Muro almeno per ora ne stiano soffrendo in qualche misura. Abbiamo visto la democrazia fare dei passi indietro in alcune parti dell’ex blocco sovietico, l’avanzamento verso regimi multipartitici in alcuni paesi dell’Africa cedere il passo a regimi più autoritari, il che mi fa dire che le linee di tendenza hanno preso una direzione in qualche modo più negativa. Però, se guardiamo avanti, le democrazie liberali che esistono oggi ne verranno fuori più forti e consolidate. I processi di democratizzazione possiedono una forza d’attrazione intrinseca sia di tipo pragmatico sia di tipo morale, che agirà nel senso di una maggiore diffusione della democrazia. Ma non sono un adepto della teoria della “fine della storia” di Fukuyama. Credo che il XXI secolo sarà popolato da regimi di tutti i generi e alcuni di quelli di maggiore successo potranno benissimo non essere delle democrazie. Se facciamo un salto di immaginazione da qui al 2050, potremmo vedere che ci sarà un forte blocco di paesi democratici, ma anche diversi stati, alcuni dei quali anche molto potenti, che non lo saranno. Penso anche che il mondo occidentale debba essere piuttosto attento a non

sopravvalutare la caratura democratica di certi regimi. Per esempio, nel corso della recente visita di Obama in India c’è stata una assunzione implicita che Stati Uniti e India debbano essere partner affidabili per il XXI secolo in parte perché sono ambedue delle democrazie. Io avanzerei l’ipotesi che le scelte di politica estera dell’India siano più una funzione della sua situazione geopolitica che non delle sue istituzioni interne. Se andiamo a grattare sotto la superficie, vediamo che su Afghanistan e Pakistan, sull’Iran, sul cambiamento climatico, sul commercio internazionale ci sono differenze sostanziali tra India e Usa. In sostanza, non credo che le democrazie di questo mondo saranno un blocco coeso, piuttosto vedremo una sorta di proliferazione di alleanze e partnership che taglieranno trasversalmente regimi di tipi diversi.

* Charles A. Kupchan è professore di Affari Internazionali presso la Georgetown University ed è Senior Fellow al Council on Foreign Relations. È stato direttore per gli Affari Europei del National Security Council durante la prima amministrazione Clinton e in precedenza aveva lavorato al Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato. Ha pubblicato numerosi libri tra cui: How Enemies Become Friends: The Sources of Stable Peace (2010), The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century (2002), e numerosi articoli di strategia e politica internazionale. Negli ultimi anni ha insegnato presso la Harvard University, la Columbia University, l’International Institute for Strategic Studies di Londra, il Centre d’Etudes et de Recherches Internationales di Parigi e l’Institute for International Policy Studies di Tokyo.


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fter the fall of the Berlin Wall many people hoped that democracy would spread everywhere, bringing ever greater prosperity and reducing causes of conflict. It soon became clear that the market economy does not always stimulate democratic growth, nor does it automatically generate greater well-being for everyone. A leading expert in international affairs, Charles A. Kupchan of the Foreign Relations Council, explains why we need stricter rules, and better enforcement, to ensure future growth in democracy and peace. All over the world, except for a small number of countries still under communist rule and pre-modern countries that are often dictatorships or autocracies, the market economy prevails. Is this a good or a bad thing,

given that economic players in these systems often break constraints and bend rules to operate with as few regulations as possible, as in the period prior to the 2008-2009 crisis? I think it was inevitable the market economies would prevail, if only because, as historical statistics show, they have performed so much better than all the alternatives. But I don’t think it would be accurate to say there is only one particular type of market economy. The USA, continental Europe, Japan, China, Brazil or India have each developed a specific form of capitalism with different types of state, society, market relations and legislation. We live in a world with different kinds of market economy and in my opinion, given the recent financial crisis and the huge benefits China draws from a highly centralized capitalist structure, we are moving toward greater limitations and control over the international financial system. I don’t think we’ll see a new financial architecture, which continues to be an elusive goal. But at the level of individual countries or groups of countries, we are moving toward greater regulation and stricter checks to keep market excesses under control. As China and Russia show, the market economy does not necessarily go hand in hand with democracy. And within this type of economy, inequalities are more likely to increase rather than decrease: this has happened everywhere to some extent in the past, although frequently the entire income range rises. So is there no correspondence between forms of democratic government and

development of a market economy? No, there is no direct correlation and this is contrary to the general view that a market economy eventually leads to a liberal democracy. A view that was basically behind the idea of building closer economic ties with China in order to deregulate its economy, in the belief this would inevitably lead to liberalization of the country’s political system. The facts do not bear this out. The authoritarian capitalism practiced in China and Russia may potentially be able to perpetuate itself. Partly because China’s emerging economy is achieving very much better results than another emerging economy, India, and partly because China is not a democracy and so can take advantage of state-driven growth and enormous public or semi-public infrastructure projects to a degree not possible in India. The reason for this lies in the difference between the two political systems. This is not intended as a criticism of Indian democracy, which is truly miraculous given India’s incredible diversification; I simply want to point out that a form of tightly controlled capitalism has its advantages. Moreover, as your question suggests, we seem to be moving into a period where the liberal economies like the USA or Europe are heading toward growing inequalities rather than toward wider prosperity in all social classes. The societies this creates are more difficult to govern; political polarization can make it tougher to respond to current economic challenges. For example, most people in the USA today would agree the country desperately needs some combination of public spending cuts and higher revenues, but producing this result with

the current political system is very difficult. This may have something to do with globalization and the fact that globalization benefits those who control the levers of the economy, to the detriment of workers, and it may also have to do with the way liberal democracies seem to lose control over our destinies, or it may be that countries like China are better equipped to meet the challenges of globalization, precisely because the state has greater control over the market. On this point, in your opinion has the crisis led to greater state intervention in the economy in the advanced nations, or is this simply a temporary move in response to an emergency? A bit of both. There will be permanent changes in banking regulations, treatment of derivatives, accounting standards and transparency. Once things settle down, these measures will be with us for a long time, but they won’t bring fundamental changes in the financial system we knew before the crisis. But in the future, when historians look back, they won’t regard them as sweeping changes in US or European capitalism. We are witnessing growing fragmentation on the world political scene: we have moved from the bipolar equilibrium that lasted to the end of the 1980s to twenty years of US unipolar domination, which is now giving way to a new, increasingly uncontrollable multipolar scenario. China and Russia are becoming more powerful, Europe and Japan remain fragile, the rogue states are standing their ground, indeed there is a new risk of nuclear proliferation, and terrorism

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is still a long way from being defeated, introducing further imbalances. In a multipolar world, do the risks for democracy, or the possibility to extend democracy, increase or decrease? I think the democratic victories achieved since the fall of the Wall are experiencing some degree of difficulty, for the time being at least. Democracy has weakened in some areas of the former soviet bloc, the moves toward multiparty regimes in some African countries have given way to more authoritarian regimes, which leads me to say the general trend has taken a somewhat more negative slant. Looking ahead, however, today’s liberal democracies will emerge stronger and more robust. Democratization processes have an intrinsic pragmatic and moral force of attraction, which will foster the spread of democracy. But I’m not an advocate of Fukuyama’s “end of history” theory. I think the XXI century will have regimes of all types and some of the more successful may well not be democracies. If we try and imagine 2050, we may well have a strong block of democratic countries, but also a number of states, some of them very powerful, that will not be democracies. I also think the West should be careful not to overestimate the democratic tenor of some regimes. For example, during Obama’s recent visit to India, the implicit assumption was that the USA and India must be reliable partners for the XXI century partly because they are both democracies. I would suggest that India’s foreign policy decisions are more to do with its geopolitical situation than with its internal institutions. If you look below the surface, you will find substantial differences between India and the USA on

Afghanistan and Pakistan, on Iran, on climate change, on international trade. In other words, I don’t think the world’s democracies will be a cohesive block, instead we shall see a sort of proliferation of alliances and partnerships cutting across different types of regimes.

* Charles A. Kupchan is an Associate Professor of International Relations at Georgetown University and a Senior Fellow at the Council on Foreign Relations. He was Director for European Affairs on the National Security Council during the first Clinton administration and previously was a member of the Policy Planning Staff at the US State Department. Kupchan has published many books including How Enemies Become Friends: The Sources of Stable Peace (2010), The End of the American Era: U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century (2002), and numerous articles on international strategy and politics. In the last few years he has lectured at Harvard University, Columbia University, the International Institute for Strategic Studies in London, the Centre d’Etudes et de Recherches Internationales in Paris and the Institute for International Policy Studies in Tokyo.


Alba africana African Dawn di Massimo Di Nola e Riccardo Barlaam* by Massimo Di Nola and Riccardo Barlaam*

Il continente finalmente si muove e nei prossimi dieci anni la crescita sarà ancora più forte. Rimangono gli squilibri e la minaccia di una nuova colonizzazione economica. Cina in testa At last the continent is moving and its growth will be even stronger in the next ten years. Imbalances remain, as well as the threat of new economic colonization. With China leading the way

Riccardo Barlaam

Massimo Di Nola

opo l’incredibile balzo economico delle Tigri asiatiche, è giunto il momento di prestare attenzione al forte ruggito che proviene dall’Africa? Guardando alle cifre, la conclusione appare inevitabile. Il continente, con una popolazione paragonabile a quella della Cina e un immenso patrimonio naturale e di materie prime non ancora sfruttate, esce da un periodo di crescita economica sostenuta: negli ultimi dieci anni l’aumento medio del Pil dei diversi stati africani è stato del 4,9%. L’inflazione media è rimasta sotto il 10% e l’indebitamento statale sotto il 60% del Pil. È stato – si dice comunemente – uno sviluppo resource-based, cioè fondato principalmente sulla crescita della produzione e dei prezzi delle materie prime. Ma questa è solo una parte della verità. McKinsey, in un recente rapporto, ha cercato di fare un po’ di conti e dai dati emerge che il comparto materie prime ha inciso sulla crescita mediamente solo per un terzo. Il resto è venuto dagli altri settori e attività economiche. Senza contare il fatto che molti paesi africani l’aumento lo hanno subìto, in quanto sostanzialmente privi di materie prime. Ne è un esempio la

Tunisia, ma anche il Mali o il Rwanda. Eppure anche in questi paesi si è verificata una forte crescita economica. È più esatto, quindi, dire che l’accelerazione dello sfruttamento delle materie prime africane ha innescato in alcuni paesi un processo di crescita a catena, consentendo di aumentare gli investimenti: in particolare la spesa per infrastrutture, ma anche i servizi

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e in conseguenza i redditi e quindi i consumi. I più avveduti sono anche riusciti ad allungare la catena del valore: non solo pozzi di petrolio quindi, ma anche raffinerie e utilizzo del metano associato per produrre energia. Ma un impatto molto più importante e duraturo proviene dalla graduale stabilizzazione politica del continente. La cronaca di tutti i giorni ci ricorda come l’Africa sia ancora terra di conflitti, ad esempio in Sudan e in Somalia. Ma si dimentica di farci rilevare come, nella maggior parte degli altri paesi, le cose stiano cambiando. Nella regione dei Grandi Laghi dove dodici anni fa aveva inizio quella che è stata definita la “Guerra Mondiale Africana”, in cui furono coinvolti otto stati e almeno venticinque diversi gruppi armati, la situazione appare in buona parte stabilizzata. Oggi in Rwanda il ciclo della scuola dell’obbligo, che dura nove anni, viene rispettato; e anche in Uganda i ragazzi non sono più costretti

ad arruolarsi nei movimenti di guerriglia, sempre più screditati, che cercano di sopravvivere a se stessi. L’anello più debole della regione resta il Congo, dove la presa del governo sulle differenti aree del paese appare ancora fragile. Ma è comunque avviato il rilancio su grande scala di un’industria mineraria che la disintegrazione politica aveva retrocesso allo stadio artigianale e di sfruttamento semi-schiavistico. La posta in gioco sono alcuni tra i più vasti giacimenti mondiali di rame, minerali di ferro, diamanti, coltan e uranio. E i nuovi attori stranieri hanno tutti un forte interesse a rafforzare le istituzioni politiche di Kinshasa. Un ruolo di primo piano nella stabilizzazione del continente è svolto, inoltre, dalle organizzazioni economiche e politiche interafricane: l’Unione Africana, ma anche le Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas), Sudorientale (Comesa), Centrale (Cemac) e Australe (Sadc). Gli stati aderenti a questi

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organismi e i loro leader sono spinti da un interesse comune. Guerriglie, colpi di stato che avvengono nei paesi vicini rischiano sistematicamente di varcare i confini. Vanno quindi fermati, prima che esondino, e in genere le mediazioni avviate con questo scopo hanno successo. È accaduto, ad esempio, nel 2009 con i colpi di stato (rientrati) dell’ex presidente Mahamoud Tandjia in Niger e del capitano Moussa Dadis Camara in Guinea-Conakry. Sul piano sociale il nuovo (e pervasivo) motore dello sviluppo è l’urbanizzazione. Già oggi si contano 52 città africane con più di un milione di abitanti. Senza contare le megalopoli come il Cairo, con oltre 14 milioni, e altre come Lagos, Kinshasa, Khartoum o Johannesburg, tutte superiori ai 5 milioni di abitanti. Slum e baraccopoli sono una faccia della medaglia di questo fenomeno. Ma l’altra è rappresentata da una trasformazione economica in cui assumono maggiore rilievo i servizi come commercio e trasporti, le attività informali di tipo artigianale, le piccole imprese e l’edilizia. La dimensione di questo crescente attivismo economico è riassunta dall’aumento dei depositi e dei prestiti, ma anche dalla rivoluzione in atto nelle telecomunicazioni. Nei 5 anni precedenti la crisi finanziaria mondiale, l’intermediazione bancaria è cresciuta del 25% e in meno di 10 anni il numero di telefoni cellulari attivati è salito di 316 milioni. Con usi e applicazioni del tutto autoctone come i sistemi di “mobile money” utilizzati in Kenya e Uganda e quelli di “mobile commerce” diffusi in Ghana, Mali, Senegal, Burkina Faso. Le città però, vanno anche nutrite, e questa è l’altra grande scommessa del continente.

In Africa le risorse agricole non mancano. Nel continente è localizzato il 60% delle terre coltivabili e non ancora utilizzate del pianeta. Sono milioni e milioni di ettari in Sudan, Congo, Nigeria, Angola, Mozambico, Tanzania e altri paesi. Mettendo a coltivazioni nuove aree, migliorando le rese con l’uso di macchinari, fertilizzanti, tecniche più adatte e introducendo nuove culture più redditizie l’Africa potrebbe, nei prossimi 20 anni triplicare il valore della sua produzione agricola, dagli attuali 280 a 880 miliardi di dollari. Non è un caso che sulle terre africane si stia posando l’occhio di un numero crescente di grandi acquirenti provenienti da tutto il mondo: sono gli sceicchi del Golfo, la Libia, i fondi di investimento stranieri, nuovi tycoon e società cinesi che in alcuni casi sono riusciti a farsi assegnare territori che si estendono su centinaia di migliaia di ettari. I governi africani stanno svendendo i loro paesi? È un allarme diffuso non solo da molte organizzazioni non governative ma anche da grandi istituzioni come la Fao. Per tacitare i timori, i governi del continente devono quindi prepararsi a una sfida di vasta portata: coinvolgere le popolazioni rurali in un processo sostenibile di modernizzazione dell’agricoltura e di rafforzamento del rapporto coi mercati. E questo attraverso la diffusione del contractual farming, la promozione di cooperative di produttori, l’investimento in centri di lavorazione/conservazione dei prodotti, la diversificazione delle culture. L’Africa, insomma, deve evitare di farsi colonizzare una seconda volta. L’esempio che viene generalmente proposto, per illustrare il pericolo è quello dello sbarco in Africa della Cina, accusata di saccheggiare le

risorse del continente senza guardare in faccia nessuno: corrompendo, sfruttando i lavoratori, devastando il territorio, armando le dittature, soffocando imprenditoria e artigianato locali con un’invasione di prodotti “Made in China” a prezzi stracciati. In realtà questa è una visione, molto parziale e in buona parte fuorviante, di un fenomeno che invece ha svolto una funzione determinante nel rilancio delle economie africane. Bastano due dati: nel 2009 gli investimenti cinesi in Africa hanno superato i 20 miliardi di dollari e le importazioni cinesi dall’Africa i 56 miliardi. Il modello di riferimento di

questo intervento è stato chiamato, non a caso, Angola Mode. In questo paese, Pechino è intervenuta agli inizi del decennio, subito dopo la fine della guerra civile, acquistando il petrolio estratto dalle grandi compagnie multinazionali e di pertinenza della compagnia di stato (Sonangol) con una serie di contratti a lungo termine che hanno consentito di…creare moneta. Contestualmente, i leader cinesi hanno proposto alle loro controparti locali anche il modo di usarla. Costruendo, cioè, infrastrutture, ferrovie, strade, dighe, quartieri residenziali e reti idriche. In sostanza, con una mano Pechino paga le materie prime


Un continente in marcia Africa nel 2020 - Pil aggregato: 2.600 miliardi di dollari - Consumi aggregati: 1.400 miliardi di dollari - Quota di famiglie con redditi superiori a 5 mila dollari anno: 52%

Africa oggi - Pil aggregato: 1.600 miliardi di dollari - Consumi aggregati: 860 miliardi di dollari - Quota di famiglie con redditi superiori a 5 mila dollari anno: 43% Fonte: McKinsey

Le ricchezze minerarie dell’Africa Area

Risorse

% del totale mondiale

Nord Africa

Fosfati

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Africa occidentale

Bauxite Uranio Minerali di ferro

40 5 4

Africa centro-meridionale

Platino Cromo Diamanti Cobalto Oro Uranio Rame

88 84 60 49 40 13 6

L’esplosione della telefonia mobile in Africa (milioni di abbonamenti)

2003

2004

2005

2006

2007

2008

52

81

134

196

278

374

453

6%

9%

14%

21%

28%

37%

44%

Abbonamenti Penetrazione del cellulare

2009

* Massimo di Nola è giornalista professionista e gestisce il servizio Farnesina dell’agenzia Radiocor. Ha lavorato in passato a Libération ed è stato responsabile dei dossier sui paesi esteri del Sole 24 Ore. * Riccardo Barlaam cura la parte internazionale del sito web del Sole 24 Ore, collabora regolarmente con Nigrizia, mensile edito dalle Missioni Comboniane, e insieme a una rete di colleghi africani ha creato Africa Times News, sito di news in tempo reale in francese e inglese. Di Nola e Barlaam sono co-autori del libro Il miracolo africano (Edizioni Il Sole 24 Ore, 2010).

Duecento milioni di nuovi consumatori (Popolazione africana per fasce di reddito, in %)

100% =

792 milioni

di investimenti e assistenza da parte di paesi esterni più attenti ad aspetti etici o di sviluppo sostenibile. Ma, occorre che questa offerta esista e sia consistente. E sotto questo aspetto è inutile sottolineare come l’Europa sia in forte ritardo. E l’Italia ancora di più.

964 milioni

I I I I I I

A

e con l’altra si riprende le somme versate facendo lavorare le sue aziende di costruzione e impiantistica, fornendo prodotti e tecnologie, aprendo nuovi mercati e creando occupazione per centinaia di migliaia di emigranti cinesi che vanno a lavorare in Africa, sperando di poter poi tornare un po’ meno poveri nel loro paese. Il meccanismo ha dimostrato di funzionare in modo efficace e la presenza di Pechino si sta estendendo a un vasto numero di stati africani con criteri analoghi: in Zambia la Cina costruisce e investe ripagandosi anche con la produzione di rame; in Uganda sta iniziando a fare lo stesso con il petrolio;

in Mozambico e Gabon con il legname e l’energia. “La Cina – ha dichiarato al World Economic Forum di Davos il presidente del Rwanda, Paul Kagame – ci porta quello di cui abbiamo bisogno: investimenti e non aiuti costellati di condizioni politiche”. Lo sviluppo, in sostanza, ci sarà. Quello che non si può dare per scontato è la qualità di questa crescita. I rischi di un gioco al ribasso su fenomeni come corruzione, autoritarismo, distruzione dell’ambiente non sono fittizi. E non sarà certo la Cina a raddrizzare il timone. Chi allora? È evidente che soltanto l’Africa può farlo. I politici africani

godono da noi di pessima stampa, ma si tratta di una generalizzazione indebita. Nel continente, infatti, si stanno affermando paesi come il Ghana che oggi è considerato in tutto il mondo come un esempio di democrazia modello. Dovunque stanno emergendo contrappesi importanti: un’opinione pubblica alimentata da un crescente ceto medio e dalla popolazione più giovane del mondo, l’influenza di diverse istanze internazionali, l’operato di molti leader talora un po’ autoritari ma anche pragmatici ed efficaci. In questo contesto, gli obiettivi africani di Pechino possono essere messi in concorrenza con l’offerta

fter the Asian Tigers’ startling economic leap forward, should we now turn our attention to the roars coming from Africa? Looking at the figures, the answer is obvious. The African continent, with a population on a par with China’s, and immense natural wealth and raw materials still to be exploited, has completed a period of sustained economic growth: in the past ten years the average GDP increase among the African states was 4.9%. Average inflation was below 10% and public debt was less than 60% of GDP. Common wisdom holds that this growth was resource-based, fuelled, in other words, largely by the rise in the production and prices of raw materials. This is only part of the story, however. According to a recent McKinsey report, raw materials accounted on average for only

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about one third of growth. The rest arose in other business sectors. Without counting the fact that many African countries would have been passive spectators, since they have no significant raw materials. Tunisia is an example, as are Mali and Rwanda. Yet these countries too reported strong economic growth. So it would be more accurate to say that the rising exploitation of African raw materials has triggered a chain process of growth in some countries, fuelling an increase in investments: in infrastructure, in particular, but also in services, and consequently an increase in incomes and consumer spending. The more far-sighted nations have also managed to extend the value chain: not just oil wells, but refineries and use of methane to produce energy. But a far more important and lasting impact is being generated by the gradual political stabilization of the African continent. Every day, we read reports reminding us that Africa is still a land of conflict, for example in Sudan and Somalia. What we are not told is that in the majority of other countries, things are changing. In the Great Lakes region, where what was known as the “African World War” began twelve years ago, involving eight states and at least twenty-five different armed groups, the situation seems largely to have stabilized. Today in Rwanda the nine-year compulsory schooling requirement is respected and in Uganda, too, children are no longer forced to enroll in the increasingly discredited guerilla movements, which are trying to overcome their reputations. The weakest link in the Great Lakes region is the Congo, where the government has yet to achieve a firm grip on the different areas of the country.

Even so, a large-scale effort has begun to bring the mining industry back from a cottage industry exploited on a basis of semi-slavery to which it was reduced by the Congo’s political disintegration. At stake are some of the world’s largest deposits of copper, iron ores, diamonds, coltan and uranium. And the new international players all have a great interest in strengthening the political establishment in Kinshasa. A key role in African stabilization is also taken by the inter-African economic and political organizations: the African Union, as well as the Economic Community of African States (ECOWAS), the Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), the Economic and Monetary Union of Central Africa (CEMAC) and the South African Development Community (SADC). These bodies’ member states and their leaders share a common interest. Outbreaks of guerilla warfare and coups in neighboring countries systematically threaten to spill over national borders. So they need to be stopped before this can happen; generally speaking, mediation for this purpose has been successful. Examples in 2009 were the attempted coups by former president Mahamoud Tandjia in Niger and captain Moussa Dadis Camara in Guinea-Conakry.

In the social sphere the new (and pervasive) growth driver is urbanization. Today, 52 African cities already have more than one million inhabitants. Not to mention mega agglomerations like Cairo, with a population of more than 14 million, or Lagos, Kinshasa, Khartoum and Johannesburg, which all have over 5 million inhabitants. Slums are one facet of this phenomenon. Another is an economic transformation where increasingly significant roles are being taken by services like trade and transport, informal artisan activities, small businesses and building construction. The scale of this growing economic activity is reflected in the rise in loans and deposits, and also in the revolution in telecommunications. In the five years before the world financial crisis bank intermediation rose by 25%, and the number of cellphone activations has increased by 316 million in less than 10 years. This has been accompanied by the development of autochthonous systems and applications like the “mobile money” systems in Kenya and Uganda, and the widespread “mobile commerce” systems in Ghana, Mali, Senegal, Burkina Faso. Cities need to be fed, however, and this is the other great challenge for Africa. There is no shortage of agricultural resources. The African continent

is home to 60% of the planet’s cultivatable and as yet unused land. Millions and millions of acres in Sudan, Congo, Nigeria, Angola, Mozambique, Tanzania and elsewhere. By cultivating new areas, improving crop yields through use of machinery, fertilizers and better techniques, and introducing more profitable new crops, in the next 20 years Africa could triple its agricultural production to 880 billion dollars, from today’s 280 billion dollars. It is no coincidence that African land is attracting interest from growing numbers of major investors from all over the world: the Gulf sheiks, Libya, international investment funds, new tycoons and corporations in China, some of whom have successfully gained control of hundreds of thousands of acres of African land. Are African governments putting their countries up for sale at marked down prices? This is a growing concern among non-government organizations and major bodies like the FAO. To calm their fears, the continent’s governments need to prepare for a challenge of huge proportions: involving their rural populations in a sustainable process to modernize agriculture and strengthen market relations. This can be achieved through contractual farming, promotion of producer cooperatives, investment in food processing/preserving centers, crop diversification. In a word, Africa has to avoid being colonized a second time. The example usually presented to illustrate the danger is the Chinese invasion of Africa: China is accused of laying waste to African resources without regard for anyone, bribing officials, exploiting workers, destroying land, arming dictators, stifling free enterprise and local crafts with a flood


A continent on the move Africa in 2020 - Aggregate GDP: 2,600 billion dollars - Aggregate consumer spending: 1,400 billion dollars - Proportion of households with annual income in excess of 5,000 dollars: 52%

Africa today - Aggregate GDP: 1,600 billion dollars - Aggregate consumer spending: 860 billion dollars - Proportion of households with annual income in excess of 5,000 dollars: 43% Source: McKinsey

Mineral wealth in Africa Area

Resources

% of world total

North Africa

Phosphates

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Western Africa

Bauxite Uranium Iron ores

40 5 4

Central Southern Africa

Platinum Chromium Diamonds Cobalt Gold Uranium Copper

88 84 60 49 40 13 6

The mobile phone explosion in Africa (millions of subscribers)

Subscribers Mobile penetration

2003

2004

2005

2006

2007

2008

52

81

134

196

278

374

2009 453

6%

9%

14%

21%

28%

37%

44%

Two hundred million new consumers (African population by income brackets, in %)

100% =

792 million

of dirt-cheap products made in China. The truth is, this is a limited and largely misleading representation of a phenomenon that has in fact played a vital role in the revitalization of Africa’s economies. Two figures prove the point: in 2009 Chinese investments in Africa topped 20 billion dollars and Chinese imports from Africa were worth 56 billion dollars. The reference model for China’s activities has been called, appropriately enough, the Angola Mode. Beijing first intervened in Angola at the beginning of the decade, immediately after the end of the civil war, buying the oil

964 million

extracted by the large multinationals for the Angolan State Company (Sonangol) with a series of long-term contracts that enabled the nation to raise cash. At the same time, the Chinese leaders helped the Angolans spend their new money. By building railways, roads, dams, housing, water distribution networks. In other words, with one hand, Beijing pays for the raw materials, with the other it recoups its outlay by creating work for its plant and construction firms, supplying products and technologies, opening up new markets and creating jobs in Africa for hundreds of thousands of Chinese

emigrants, who hope to go back to their homeland richer than when they left. The mechanism has proved effective, and Beijing is extending a similar approach to many other African states: in Zambia, China builds and invests in the production of copper; in Uganda it is beginning to move in similar fashion with oil; in Mozambique and Gabon with timber and energy. “China brings in what we need: investments, not aid subject to countless political conditions,” Rwanda President Paul Kagame told the World Economic Forum in Davos. So there will be growth. What cannot be guaranteed is

the quality of that growth. The danger of a downward spiral fuelled by phenomena like corruption, authoritarianism, destruction of the environment is real. And China certainly won’t be the one calling for a clean-up. So who can? Clearly, only Africa can do this. Here in Europe, African politicians have a very poor profile, but this is an unwarranted generalization. African countries like Ghana are coming to be regarded as exemplary democratic models all over the world. Important counterbalances are emerging everywhere: public opinion fuelled by a growing middle class and by the world’s youngest population, the influence of international pressure, the work of many leaders who, if sometimes authoritarian, are also pragmatic and effective. In this context, Beijing’s African objectives can be matched up against offers of investments and assistance by countries who pay greater attention to ethical questions or sustainable growth. But such offers have to exist and they have to be substantial. Europe, needless to say, lags well behind, Italy even more so.

* Massimo di Nola is a professional journalist and runs Radiocor press agency’s “Farnesina News” in collaboration with the Italian Ministry of Foreign Affairs. In the past, he worked at Libération and was in charge on the international country dossiers of Il Sole 24 Ore. * Riccardo Barlaam edits the international section of the Il Sole 24 Ore website, is a regular contributor to Nigriza, the Comboni Mission magazine, and together with a network of African colleagues created Africa Times News, a French and English real-time news site. Di Nola and Barlaam are co-authors of the book Il miracolo africano (Edizioni Il Sole 24 Ore, 2010).

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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Le utopie urbane e il mito della città ideale hanno percorso l’intera storia dell’umanità, fin dall’antichità: la città di Babele della Bibbia, il mito di Atlantide e ancora l’Umanesimo con la sistemazione planimetrica dei borghi italiani progettati secondo esigenze di funzionalità e ordine razionale. Fino ad arrivare all’Arcologia di Soleri, al Metabolismo giapponese o alle esperienze visionarie dell’architettura moderna prodotte dall’applicazione delle tecnologie digitali. Nel segno di un sistema-città in grado di riflettere nella propria complessità strutturale la complessità della vita che vi è contenuta. Urban utopias and the myth of the ideal city have been ever present throughout the entire history of mankind right back from antiquity: the city of Babel in the Bible, the myth of Atlantis and also Humanism with its layouts of Italian towns and villages designed along the lines of functionality and rational order. Right through to Soleri’s Arcology, Japanese Metabolism and the visionary experiments of modern architecture resulting from the application of digital technology. In the name of a city-system, whose own structural complexity actually reflects the complexity of the life contained in it.

La Fabbrica di Utopie The Factory Of Utopias

Maurizio Vogliazzo*

L

a costruzione degli edifici, anche nei rari casi più fortunati, non è certo cosa rapida. Le committenze troppo spesso tetragone, il peso degli interessi immobiliari, i vincoli amministrativi, la scarsa elasticità e la poca preveggenza delle normative urbanistiche, le tecnologie non facilmente disponibili, la complessità (e talvolta la farraginosità) dei cantieri, e così via, impongono generalmente procedure intricate e di conseguenza tempi piuttosto lunghi. A questo si aggiunge che, una volta costruiti, gli edifici durano nel tempo e si caricano di significati e valori non soltanto fisici come nessun altro prodotto dell’ingegno umano, a loro volta contribuendo in maniera sostanziale a segnare interi cicli del gusto, delle altre arti, della cultura e della scienza. Data l’ineluttabilità di queste sue caratteristiche, quale terreno si potrebbe immaginare più adatto dell’architettura per lo sviluppo del pensiero utopico, e per la conseguente produzione di utopie, di prospezioni non di rado folgoranti di nuovi assetti del nostro mondo? Perfino quando nelle innumerevoli serie di prefigurazioni che nella storia continuano a susseguirsi l’attenzione prevalente è rivolta a nuove e diverse forme di organizzazione sociale, non si è potuto mai prescindere dagli aspetti architettonici: perché necessariamente ne stanno alla base, quando addirittura non ne costituiscono una sorta di conditio sine qua non. Gli architetti veramente tali sono sempre stati e sempre saranno instancabili produttori di utopie, qualunque sia la scala con la quale volta a volta vengono espresse, pur confrontandosi tuttavia quotidianamente con la durezza e le difficoltà del fare e con tutte le sue asperità. Una condizione difficile, da affrontarsi a viso aperto. Le Corbusier scriveva nel 1923 Vers une Architecture, incitando a “vedere”, e non più soltanto a “guardare”, i bastimenti, gli aerei, le automobili, per trarne lezioni indispensabili di complessiva intelligenza costruttiva; e qualche anno più tardi costruiva la straordinaria Villa Savoye à Poissy non potendo far altro che ricorrere ai mattoni, al cemento trasportato con le carriole, ai ponteggi rudimentali fatti con pali e tavole di legno. Senza per questo tirarsi indietro. E Frank Lloyd Wright progettava un grattacielo alto un miglio quando l’edificio allora più alto del mondo, l’Empire State Building, restava, antenne comprese, piuttosto lontano dai quattrocento metri (e oggi si sono d’altra parte toccati soltanto gli ottocento). Ma sono soltanto due esempi per restare fra quelli più

noti. Molti anni dopo Archigram hanno disegnato città mobili e varie “Instant Cities”, più tardi soltanto approssimate molto parzialmente dal parigino Centre Beaubourg, e tuttora assai lontane da un qualche tipo di realizzazione. Gli studi e le sperimentazioni di Richard Buckminster Fuller non possono, al momento e verosimilmente neanche a breve scadenza, trovare che echi molto parziali in Foster, per esempio; oppure, ed è l’aspetto forse più interessante, più trasversale, in episodi cheap di autocostruzione da parte di milieu comunitari. In questo sfondo comune ovviamente le strade sono molto diverse. John MacLane Johansen – membro fondatore del glorioso gruppo Harvard Five a New Canaan nel Connecticut, negli anni quaranta, con Marcel Breuer, Landis Gores, Philip Johnson, Eliot Noyes, raccogliendo, sviluppando e trasformando elementi salienti importati dall’Europa e diffusi negli Stati Uniti prima del secondo conflitto mondiale – traghetta inizialmente echi di gropiusiana memoria in prospezioni megastrutturali che altrove troveranno larga fortuna, non potendole sperimentare che alla scala di cellule abitative. Impegnato senza tregua in approfondite indagini di confine, si confronta poi con uno Zeitgeist informale, sempre indagandone i possibili risvolti nel campo dell’architettura. Senza dubbio, come si può facilmente immaginare, una prospezione utopica, destinata però a riemergere per alcuni aspetti nei nostri giorni telematici; come per altro le successive incursioni sul momento classificate come brutaliste (si veda per esempio l’Oklahoma Theater Center, alias Stage Center) anticipano questioni tutt’altro che concluse, a seguito delle quali l’arte del costruire continua a confrontarsi con i difficili influssi dell’epistemologia francese. Sempre in sincronia con le punte più avanzate anche della ricerca scientifica, senza indietreggiare, ora Johansen sta da qualche tempo scandagliando i mondi impervi della genetica, in continua, rapidissima evoluzione. Ne deriva tracce logiche affascinanti per ipotizzare possibili (o inevitabili?) destini consapevolmente piuttosto remoti per l’architettura, tentando di scandagliarli e comunicarli sempre sotto forma di veri e propri progetti. Non trascurando gli indispensabili supporti tecnologici: recentemente ha dato alle stampe per i tipi della Princeton Architectural Press il volume Nanoarchitecture. A New Species of Architecture. Insomma: l’utopia come destino e dover essere dell’architettura.

E

ven in the most fortunate of cases, it takes time to construct buildings. Clients can all too often be excessively steadfast in their ways, real-estate interests can be burdensome, then there are administrative constraints and the lack of flexibility and foresight in town-planning regulations, technology is not always easily available, building site work can be extremely complex (and, at times, muddled) and so on and so forth. All this generally calls for elaborate and hence extremely time-consuming procedures. To which it might be added that, once built, the buildings endure through time and take on more than just physical meanings and values like no other product of the human mind, contributing in their own substantial way to characterizing entire periods of taste, even in the other arts, culture and science. Given the inevitability of these characteristics and traits, what other field of endeavor could be more effective than architecture in developing utopian thinking and the consequent creation of utopias, not infrequently quite staggering ways of prospecting for new scenarios for our world? Even when, amidst all the different kinds of prefiguration which keep on appearing down through history, attention is mainly focused on new and different forms of social organization, it has never been possible to do without architecture: because architectural factors necessarily underpin all this, not to mention that they are also a sort of conditio sine qua non. Real architects have always been, and always will be, tireless generators of utopias, regardless of the scale on which they happen to be produced and despite having to come to terms on a daily basis with the difficulties and hardships associated with action and all the trials and tribulations it entails. A very tricky task to tackle head-on. Le Corbusier wrote Vers une Architecture in 1923 to try and encourage people to “see” and not just to “look” at ships, planes and cars, in order to learn some vital lessons in terms of overall building intelligence; and a few years later he built the extraordinary Villa Savoye in Poissy, forced to resort to bricks, concrete carried in barrows, rudimentary scaffolding made of wooden posts and planks. But that certainly did not hold him back. And Frank Lloyd Wright designed a mile-high skyscraper when the tallest building in the world, the Empire State Building, was not even four-hundred meters high, including its aerials (and even now the record stands at 800 m). But these are just two of the best-known examples. Many

years later, the Archigram team designed moving cities and various “Instant Cities”, only very approximately embodied later on in the Beaubourg Center in Paris and still a long way from being actually constructed. Richard Buckminster Fuller’s studies and experiments can only (at least at the moment and probably in the foreseeable future) be partially echoed in the work of Foster, for example; and also, and this is perhaps the most interesting and far-reaching consideration, in cheap cases of selfconstruction carried out by communities. Against this common backdrop, some very different paths have been taken. John MacLane Johansen—a founding member of the glorious Harvard Five group based in New Canaan, Connecticut, in the 1940s, also comprising Marcel Breuer, Landis Gores, Philip Johnson and Eliot Noyes, who all collected, developed and transformed key elements imported from Europe and spread right across the United States just before the Second World War— initially conveyed Gropius-style ideas into megastructures destined to achieve great success elsewhere, since he himself could not experiment with them except on the scale of cells for inhabiting. Constantly working on in-depth studies on the very borderline, he then got to grips with an informal Zeitgeist, constantly investigating its possible implications in architecture. As it is easy to imagine, this was certainly a utopian endeavor but it was destined to re-emerge in certain respects in our telematic age; just as his subsequent forays, at the time classed as brutalist (see, for example, the Oklahoma Theater Center, alias Stage Center), already envisaged issues which are still anything but resolved, in the wake of which the art of building keeps on confronting tricky input coming from French epistemology. Always in tune with the very cutting-edge of scientific research, without ever hesitating, for some time now Johansen has been investigating the inaccessible worlds of genetics, as they constantly evolve a great speed. This has resulted in fascinating logical tracks and traces for envisaging possible (or inevitable?) scenarios of the future, knowingly still very distant from architecture, attempting to set them out and communicate them in the form of proper projects. Without overlooking those necessary technological props: he has recently published a book entitled Nanoarchitecture. A New Species of Architecture for the Princeton Architectural Press. In a nutshell: utopia as the duty and destiny of architecture.

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* Maurizio Vogliazzo, architetto, è professore ordinario di Architettura del Paesaggio e delle Infrastrutture Territoriali presso il Politecnico di Milano, dove presiede il Corso di Laurea Magistrale in Architettura. È titolare di Storia e Teoria del Design Italiano presso lo University College di Londra (UCL) e insegna Architettura del Paesaggio presso lo IULM di Milano. Visiting professor a Barcellona, Lisbona, Matosinhos, Parigi, Brisbane, è direttore di ricerca per CNR, MPI, MIUR, UE e altri enti pubblici e privati. Coordinatore ICP Erasmus dal 1987, dirige ALAD Laboratories (Architecture& LandAmbientDesign), area di ricerca del Politecnico di Milano che ha vinto come migliore scuola di architettura del paesaggio la V Biennale europea di Barcellona. Premiato in concorsi nazionali e internazionali, è autore di opere realizzate e pubblicate. Espone a New York, Berlino, Parigi, Milano, Venezia e altrove. È membro di giurie nazionali e internazionali ed è autore di articoli, saggi e libri, apparsi in Italia e all’estero. È attualmente vicedirettore de l’Arca. * The architect Maurizio Vogliazzo is a Full Professor of Landscape Architecture and Territorial Infrastructures at Milan Polytechnic, where he is also Head of the Postgraduate Course in Architecture. He teaches History and Theory of Italian Design at University College in London (UCL) and Landscape Architecture at the IULM in Milan. He is a Visiting Professor in Barcelona, Lisbon, Matosinhos, Paris and Brisbane, and Head of Research for the CNR, MPI, MIUR, EU and other public and private associations. He has been the ICP Erasmus Coordinator since 1987 and runs the ALAD Laboratories (Architecture&Land AmbientDesign), a research department at Milan Polytechnic, which won the 5th European Biennial in Barcelona as the best school of Landscape Architecture. He has won both national and international competitions and has built and written numerous works. His work has been exhibited in New York, Berlin, Paris, Milan, Venice and elsewhere. He is a member of national and international panels of judges and the author of articles, essays and books published in Italy and abroad. He is currently the Assistant Editor of l’Arca.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Le utopie urbane e il mito della città ideale hanno percorso l’intera storia dell’umanità, fin dall’antichità: la città di Babele della Bibbia, il mito di Atlantide e ancora l’Umanesimo con la sistemazione planimetrica dei borghi italiani progettati secondo esigenze di funzionalità e ordine razionale. Fino ad arrivare all’Arcologia di Soleri, al Metabolismo giapponese o alle esperienze visionarie dell’architettura moderna prodotte dall’applicazione delle tecnologie digitali. Nel segno di un sistema-città in grado di riflettere nella propria complessità strutturale la complessità della vita che vi è contenuta. Urban utopias and the myth of the ideal city have been ever present throughout the entire history of mankind right back from antiquity: the city of Babel in the Bible, the myth of Atlantis and also Humanism with its layouts of Italian towns and villages designed along the lines of functionality and rational order. Right through to Soleri’s Arcology, Japanese Metabolism and the visionary experiments of modern architecture resulting from the application of digital technology. In the name of a city-system, whose own structural complexity actually reflects the complexity of the life contained in it.

La Fabbrica di Utopie The Factory Of Utopias

Maurizio Vogliazzo*

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a costruzione degli edifici, anche nei rari casi più fortunati, non è certo cosa rapida. Le committenze troppo spesso tetragone, il peso degli interessi immobiliari, i vincoli amministrativi, la scarsa elasticità e la poca preveggenza delle normative urbanistiche, le tecnologie non facilmente disponibili, la complessità (e talvolta la farraginosità) dei cantieri, e così via, impongono generalmente procedure intricate e di conseguenza tempi piuttosto lunghi. A questo si aggiunge che, una volta costruiti, gli edifici durano nel tempo e si caricano di significati e valori non soltanto fisici come nessun altro prodotto dell’ingegno umano, a loro volta contribuendo in maniera sostanziale a segnare interi cicli del gusto, delle altre arti, della cultura e della scienza. Data l’ineluttabilità di queste sue caratteristiche, quale terreno si potrebbe immaginare più adatto dell’architettura per lo sviluppo del pensiero utopico, e per la conseguente produzione di utopie, di prospezioni non di rado folgoranti di nuovi assetti del nostro mondo? Perfino quando nelle innumerevoli serie di prefigurazioni che nella storia continuano a susseguirsi l’attenzione prevalente è rivolta a nuove e diverse forme di organizzazione sociale, non si è potuto mai prescindere dagli aspetti architettonici: perché necessariamente ne stanno alla base, quando addirittura non ne costituiscono una sorta di conditio sine qua non. Gli architetti veramente tali sono sempre stati e sempre saranno instancabili produttori di utopie, qualunque sia la scala con la quale volta a volta vengono espresse, pur confrontandosi tuttavia quotidianamente con la durezza e le difficoltà del fare e con tutte le sue asperità. Una condizione difficile, da affrontarsi a viso aperto. Le Corbusier scriveva nel 1923 Vers une Architecture, incitando a “vedere”, e non più soltanto a “guardare”, i bastimenti, gli aerei, le automobili, per trarne lezioni indispensabili di complessiva intelligenza costruttiva; e qualche anno più tardi costruiva la straordinaria Villa Savoye à Poissy non potendo far altro che ricorrere ai mattoni, al cemento trasportato con le carriole, ai ponteggi rudimentali fatti con pali e tavole di legno. Senza per questo tirarsi indietro. E Frank Lloyd Wright progettava un grattacielo alto un miglio quando l’edificio allora più alto del mondo, l’Empire State Building, restava, antenne comprese, piuttosto lontano dai quattrocento metri (e oggi si sono d’altra parte toccati soltanto gli ottocento). Ma sono soltanto due esempi per restare fra quelli più

noti. Molti anni dopo Archigram hanno disegnato città mobili e varie “Instant Cities”, più tardi soltanto approssimate molto parzialmente dal parigino Centre Beaubourg, e tuttora assai lontane da un qualche tipo di realizzazione. Gli studi e le sperimentazioni di Richard Buckminster Fuller non possono, al momento e verosimilmente neanche a breve scadenza, trovare che echi molto parziali in Foster, per esempio; oppure, ed è l’aspetto forse più interessante, più trasversale, in episodi cheap di autocostruzione da parte di milieu comunitari. In questo sfondo comune ovviamente le strade sono molto diverse. John MacLane Johansen – membro fondatore del glorioso gruppo Harvard Five a New Canaan nel Connecticut, negli anni quaranta, con Marcel Breuer, Landis Gores, Philip Johnson, Eliot Noyes, raccogliendo, sviluppando e trasformando elementi salienti importati dall’Europa e diffusi negli Stati Uniti prima del secondo conflitto mondiale – traghetta inizialmente echi di gropiusiana memoria in prospezioni megastrutturali che altrove troveranno larga fortuna, non potendole sperimentare che alla scala di cellule abitative. Impegnato senza tregua in approfondite indagini di confine, si confronta poi con uno Zeitgeist informale, sempre indagandone i possibili risvolti nel campo dell’architettura. Senza dubbio, come si può facilmente immaginare, una prospezione utopica, destinata però a riemergere per alcuni aspetti nei nostri giorni telematici; come per altro le successive incursioni sul momento classificate come brutaliste (si veda per esempio l’Oklahoma Theater Center, alias Stage Center) anticipano questioni tutt’altro che concluse, a seguito delle quali l’arte del costruire continua a confrontarsi con i difficili influssi dell’epistemologia francese. Sempre in sincronia con le punte più avanzate anche della ricerca scientifica, senza indietreggiare, ora Johansen sta da qualche tempo scandagliando i mondi impervi della genetica, in continua, rapidissima evoluzione. Ne deriva tracce logiche affascinanti per ipotizzare possibili (o inevitabili?) destini consapevolmente piuttosto remoti per l’architettura, tentando di scandagliarli e comunicarli sempre sotto forma di veri e propri progetti. Non trascurando gli indispensabili supporti tecnologici: recentemente ha dato alle stampe per i tipi della Princeton Architectural Press il volume Nanoarchitecture. A New Species of Architecture. Insomma: l’utopia come destino e dover essere dell’architettura.

E

ven in the most fortunate of cases, it takes time to construct buildings. Clients can all too often be excessively steadfast in their ways, real-estate interests can be burdensome, then there are administrative constraints and the lack of flexibility and foresight in town-planning regulations, technology is not always easily available, building site work can be extremely complex (and, at times, muddled) and so on and so forth. All this generally calls for elaborate and hence extremely time-consuming procedures. To which it might be added that, once built, the buildings endure through time and take on more than just physical meanings and values like no other product of the human mind, contributing in their own substantial way to characterizing entire periods of taste, even in the other arts, culture and science. Given the inevitability of these characteristics and traits, what other field of endeavor could be more effective than architecture in developing utopian thinking and the consequent creation of utopias, not infrequently quite staggering ways of prospecting for new scenarios for our world? Even when, amidst all the different kinds of prefiguration which keep on appearing down through history, attention is mainly focused on new and different forms of social organization, it has never been possible to do without architecture: because architectural factors necessarily underpin all this, not to mention that they are also a sort of conditio sine qua non. Real architects have always been, and always will be, tireless generators of utopias, regardless of the scale on which they happen to be produced and despite having to come to terms on a daily basis with the difficulties and hardships associated with action and all the trials and tribulations it entails. A very tricky task to tackle head-on. Le Corbusier wrote Vers une Architecture in 1923 to try and encourage people to “see” and not just to “look” at ships, planes and cars, in order to learn some vital lessons in terms of overall building intelligence; and a few years later he built the extraordinary Villa Savoye in Poissy, forced to resort to bricks, concrete carried in barrows, rudimentary scaffolding made of wooden posts and planks. But that certainly did not hold him back. And Frank Lloyd Wright designed a mile-high skyscraper when the tallest building in the world, the Empire State Building, was not even four-hundred meters high, including its aerials (and even now the record stands at 800 m). But these are just two of the best-known examples. Many

years later, the Archigram team designed moving cities and various “Instant Cities”, only very approximately embodied later on in the Beaubourg Center in Paris and still a long way from being actually constructed. Richard Buckminster Fuller’s studies and experiments can only (at least at the moment and probably in the foreseeable future) be partially echoed in the work of Foster, for example; and also, and this is perhaps the most interesting and far-reaching consideration, in cheap cases of selfconstruction carried out by communities. Against this common backdrop, some very different paths have been taken. John MacLane Johansen—a founding member of the glorious Harvard Five group based in New Canaan, Connecticut, in the 1940s, also comprising Marcel Breuer, Landis Gores, Philip Johnson and Eliot Noyes, who all collected, developed and transformed key elements imported from Europe and spread right across the United States just before the Second World War— initially conveyed Gropius-style ideas into megastructures destined to achieve great success elsewhere, since he himself could not experiment with them except on the scale of cells for inhabiting. Constantly working on in-depth studies on the very borderline, he then got to grips with an informal Zeitgeist, constantly investigating its possible implications in architecture. As it is easy to imagine, this was certainly a utopian endeavor but it was destined to re-emerge in certain respects in our telematic age; just as his subsequent forays, at the time classed as brutalist (see, for example, the Oklahoma Theater Center, alias Stage Center), already envisaged issues which are still anything but resolved, in the wake of which the art of building keeps on confronting tricky input coming from French epistemology. Always in tune with the very cutting-edge of scientific research, without ever hesitating, for some time now Johansen has been investigating the inaccessible worlds of genetics, as they constantly evolve a great speed. This has resulted in fascinating logical tracks and traces for envisaging possible (or inevitable?) scenarios of the future, knowingly still very distant from architecture, attempting to set them out and communicate them in the form of proper projects. Without overlooking those necessary technological props: he has recently published a book entitled Nanoarchitecture. A New Species of Architecture for the Princeton Architectural Press. In a nutshell: utopia as the duty and destiny of architecture.

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* Maurizio Vogliazzo, architetto, è professore ordinario di Architettura del Paesaggio e delle Infrastrutture Territoriali presso il Politecnico di Milano, dove presiede il Corso di Laurea Magistrale in Architettura. È titolare di Storia e Teoria del Design Italiano presso lo University College di Londra (UCL) e insegna Architettura del Paesaggio presso lo IULM di Milano. Visiting professor a Barcellona, Lisbona, Matosinhos, Parigi, Brisbane, è direttore di ricerca per CNR, MPI, MIUR, UE e altri enti pubblici e privati. Coordinatore ICP Erasmus dal 1987, dirige ALAD Laboratories (Architecture& LandAmbientDesign), area di ricerca del Politecnico di Milano che ha vinto come migliore scuola di architettura del paesaggio la V Biennale europea di Barcellona. Premiato in concorsi nazionali e internazionali, è autore di opere realizzate e pubblicate. Espone a New York, Berlino, Parigi, Milano, Venezia e altrove. È membro di giurie nazionali e internazionali ed è autore di articoli, saggi e libri, apparsi in Italia e all’estero. È attualmente vicedirettore de l’Arca. * The architect Maurizio Vogliazzo is a Full Professor of Landscape Architecture and Territorial Infrastructures at Milan Polytechnic, where he is also Head of the Postgraduate Course in Architecture. He teaches History and Theory of Italian Design at University College in London (UCL) and Landscape Architecture at the IULM in Milan. He is a Visiting Professor in Barcelona, Lisbon, Matosinhos, Paris and Brisbane, and Head of Research for the CNR, MPI, MIUR, EU and other public and private associations. He has been the ICP Erasmus Coordinator since 1987 and runs the ALAD Laboratories (Architecture&Land AmbientDesign), a research department at Milan Polytechnic, which won the 5th European Biennial in Barcelona as the best school of Landscape Architecture. He has won both national and international competitions and has built and written numerous works. His work has been exhibited in New York, Berlin, Paris, Milan, Venice and elsewhere. He is a member of national and international panels of judges and the author of articles, essays and books published in Italy and abroad. He is currently the Assistant Editor of l’Arca.


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Fasi di crescita della Comunità Codificata progettata da John M. Johansen e Patrick Ford. Questo progetto di comunità del futuro prevede nuove tipologie edilizie e nuove infrastrutture, sistemi di levitazione

con monorotaia elettromagnetica e capsule per gli spostamenti, intrattenimento con realtà virtuale, torri con appartamenti casa/ufficio, grandi piazze e luoghi di preghiera.

Growth stages in the Coded Community designed by John M. Johansen and Patrick Ford. This project for a community of the future involves new types of building and new infrastructures, levitating

electromagnetic monorail systems and capsules serving transport purposes, virtual reality entertainment, tower blocks with apartments/office facilities, spacious squares and places of worship.

Schema di organizzazione della comunità, basato su un modulo esagonale. Ogni centro di crescita è dotato di un proprio codice genetico che informa tipi edilizi diversi. In basso, la Cappella del Sole che sovrasta con la sua struttura a forma di gigantesco fiore l’intera Comunità.

Organizational diagram of the community based on a hexagonal module. Each center of growth is equipped with its own genetic code informing different types of building. Bottom, the Sunshine Chapel, designed in the shape of a giant flower, overlooks the entire Community.

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Fasi di crescita della Comunità Codificata progettata da John M. Johansen e Patrick Ford. Questo progetto di comunità del futuro prevede nuove tipologie edilizie e nuove infrastrutture, sistemi di levitazione

con monorotaia elettromagnetica e capsule per gli spostamenti, intrattenimento con realtà virtuale, torri con appartamenti casa/ufficio, grandi piazze e luoghi di preghiera.

Growth stages in the Coded Community designed by John M. Johansen and Patrick Ford. This project for a community of the future involves new types of building and new infrastructures, levitating

electromagnetic monorail systems and capsules serving transport purposes, virtual reality entertainment, tower blocks with apartments/office facilities, spacious squares and places of worship.

Schema di organizzazione della comunità, basato su un modulo esagonale. Ogni centro di crescita è dotato di un proprio codice genetico che informa tipi edilizi diversi. In basso, la Cappella del Sole che sovrasta con la sua struttura a forma di gigantesco fiore l’intera Comunità.

Organizational diagram of the community based on a hexagonal module. Each center of growth is equipped with its own genetic code informing different types of building. Bottom, the Sunshine Chapel, designed in the shape of a giant flower, overlooks the entire Community.

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Disegno della Comunità Codificata e la dinamica di apertura della Cappella del Sole. Dei sistemi di levitatori monorotaia permettono ai fedeli di salire lungo lo stelo del fiore fino al calice trasparente e

poi fino all’altare. I petali morfabili si aprono all’alba verso il sole per poi richiudersi lentamente la sera. L’altare, dotato di batterie solari può mantenere accesa la luce per tutta la notte.

Drawing of the Coded Community and dynamic layout of the Sunshine Chapel. Systems of monorail lifts allow worshippers to climb up the stem of the flower right up to the transparent

goblet and altar. The morphable petals open up to the sun at dawn and then slowly close in the evening. The altar, equipped with solar batteries, can keep the lights on all night.


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Disegno della Comunità Codificata e la dinamica di apertura della Cappella del Sole. Dei sistemi di levitatori monorotaia permettono ai fedeli di salire lungo lo stelo del fiore fino al calice trasparente e

poi fino all’altare. I petali morfabili si aprono all’alba verso il sole per poi richiudersi lentamente la sera. L’altare, dotato di batterie solari può mantenere accesa la luce per tutta la notte.

Drawing of the Coded Community and dynamic layout of the Sunshine Chapel. Systems of monorail lifts allow worshippers to climb up the stem of the flower right up to the transparent

goblet and altar. The morphable petals open up to the sun at dawn and then slowly close in the evening. The altar, equipped with solar batteries, can keep the lights on all night.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Gli opposti? Attratti Opposites? Attract

L’interno del Fire Emperor è pensato come un nuovo coacervo di spazi commerciali diversificati.

The inside of the Fire Emperor is designed like a brand-new combination of multifarious commercial spaces.

Rotterdam, Liverpool, Blackpool, contaminazioni urbane Rotterdam, Liverpool, Blackpool, urban contaminations Progetto di NIO architecten Project by NIO architecten

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Planimetria generale dell’area attorno “het Steiger” a Rotterdam dove è stato ipoteticamente collocato il Fire Emperor, un grande mercato coperto. Overall layout of the area around “het Steiger” in Rotterdam, where the Fire Emperor (a large covered market) has hypothetically being located.

C

ome per effetto di visioni indotte dal peyote (carne degli dei), ecco alcuni frammenti di possibile domani: percezioni sensoriali amplificate, visioni geometriche e antropomorfe colorate, perdita della nozione del quando e del dove. Non è un sogno, non è un’allucinazione, non è poesia. È architettura. Ma dove siamo? Certamente né alla Six Gallery di San Francisco del 1955, né ospiti della City Lights Books di Lawrence Ferlinghetti. Eat This! Rotterdam. Così Maurice Nio descrive il suo Fire Emperor: “Nessuno potrà sfuggire al Fire Emperor, talmente vorace da fagocitare giorno e notte ogni oggetto o essere vivente gli si avvicini: turisti innocenti e golosi accaniti, patate dorate e coriandolo fresco, cacciagione e calamari vivi, attraenti bancarelle del mercato ed esclusivi ristoranti, musicisti trasandati e servizi erotici, odori sgradevoli e profumi accattivanti delle cameriere”. Eccoci catapultati nella nuova hall di mercato, attiva non-stop all’interno del Fire Emperor. Ciascuno può trovarvi qualcosa di interessante: “tutti e tutto sono pronti per sfidare il calore delle cucine in Via Emperor”. Questo è il luogo dove la città vive e fermenta. Il Fire Emperor non si presenta come una ariosa o spaziosa hall interna, ma al contrario come un’inimitabile macchina divoratrice, un edonistico intreccio di spazi ispirati agli intestini. Liverpool. Per trovare i tratti distintivi dell’architettura innovativa e poliedrica di Maurice Nio bisogna analizzare attentamente il suo percorso formativo, caratterizzato in ogni suo lavoro dalla volontà di cambiare ogni cosa. Nelle

sue architetture insegue la sfida di restituire nuova dignità ai luoghi attraverso il non convenzionale e la collezione di frammenti osservati da differenti punti di vista. C’è un termine che ricorre nel suo vocabolario: “infettare”. Egli ama la contaminazione tra le cose, e in particolare tra gli opposti, a cominciare dal rapporto soft-hard, reale-virtuale. Ecco nascere il Thread of Liverpool, il ristorante-ponte. Forme avvolgenti e fluide pervadono il contesto che lo ospita trasformandolo in qualcos’altro, regalandoci una realtà antagonista a ciò che già c’è. Questa trasformazione assume una forma zoomorfica o ammiccante a essa. Gli spazi “tecnici”, cioè autostrade, discariche, tunnel, parcheggi, luoghi di transito o abbandonati, divengono energia in movimento. Blackpool. Una serie di spazi ed elementi che si innestano lungo la passeggiata del lungomare, sei “stambugi” di luce in cui si susseguono eventi e attività ricreative: la Torre, il Central Pier, Manchester Square, St. Chad’s, Waterloo e il South Pier. A ognuna di queste è associata un’attività per l’intrattenimento – raccontare, esplorare, benessere, passeggiare, fluttuare – identificata da elementi architettonici mobili, modificabili, galleggianti (teatro, spazio per eventi all’aperto, case sospese tra mare e spiaggia, piscine con saune e idromassaggio, bar mobili, un Parco del Vento e del Mare). In questo modo il lungomare e la spiaggia di Blackpool diventano un’attrazione che invita i cittadini a passeggiare e a godere del proprio tempo libero, divenendo insieme spettatori e attori della vita urbana.

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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Gli opposti? Attratti Opposites? Attract

L’interno del Fire Emperor è pensato come un nuovo coacervo di spazi commerciali diversificati.

The inside of the Fire Emperor is designed like a brand-new combination of multifarious commercial spaces.

Rotterdam, Liverpool, Blackpool, contaminazioni urbane Rotterdam, Liverpool, Blackpool, urban contaminations Progetto di NIO architecten Project by NIO architecten

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Planimetria generale dell’area attorno “het Steiger” a Rotterdam dove è stato ipoteticamente collocato il Fire Emperor, un grande mercato coperto. Overall layout of the area around “het Steiger” in Rotterdam, where the Fire Emperor (a large covered market) has hypothetically being located.

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ome per effetto di visioni indotte dal peyote (carne degli dei), ecco alcuni frammenti di possibile domani: percezioni sensoriali amplificate, visioni geometriche e antropomorfe colorate, perdita della nozione del quando e del dove. Non è un sogno, non è un’allucinazione, non è poesia. È architettura. Ma dove siamo? Certamente né alla Six Gallery di San Francisco del 1955, né ospiti della City Lights Books di Lawrence Ferlinghetti. Eat This! Rotterdam. Così Maurice Nio descrive il suo Fire Emperor: “Nessuno potrà sfuggire al Fire Emperor, talmente vorace da fagocitare giorno e notte ogni oggetto o essere vivente gli si avvicini: turisti innocenti e golosi accaniti, patate dorate e coriandolo fresco, cacciagione e calamari vivi, attraenti bancarelle del mercato ed esclusivi ristoranti, musicisti trasandati e servizi erotici, odori sgradevoli e profumi accattivanti delle cameriere”. Eccoci catapultati nella nuova hall di mercato, attiva non-stop all’interno del Fire Emperor. Ciascuno può trovarvi qualcosa di interessante: “tutti e tutto sono pronti per sfidare il calore delle cucine in Via Emperor”. Questo è il luogo dove la città vive e fermenta. Il Fire Emperor non si presenta come una ariosa o spaziosa hall interna, ma al contrario come un’inimitabile macchina divoratrice, un edonistico intreccio di spazi ispirati agli intestini. Liverpool. Per trovare i tratti distintivi dell’architettura innovativa e poliedrica di Maurice Nio bisogna analizzare attentamente il suo percorso formativo, caratterizzato in ogni suo lavoro dalla volontà di cambiare ogni cosa. Nelle

sue architetture insegue la sfida di restituire nuova dignità ai luoghi attraverso il non convenzionale e la collezione di frammenti osservati da differenti punti di vista. C’è un termine che ricorre nel suo vocabolario: “infettare”. Egli ama la contaminazione tra le cose, e in particolare tra gli opposti, a cominciare dal rapporto soft-hard, reale-virtuale. Ecco nascere il Thread of Liverpool, il ristorante-ponte. Forme avvolgenti e fluide pervadono il contesto che lo ospita trasformandolo in qualcos’altro, regalandoci una realtà antagonista a ciò che già c’è. Questa trasformazione assume una forma zoomorfica o ammiccante a essa. Gli spazi “tecnici”, cioè autostrade, discariche, tunnel, parcheggi, luoghi di transito o abbandonati, divengono energia in movimento. Blackpool. Una serie di spazi ed elementi che si innestano lungo la passeggiata del lungomare, sei “stambugi” di luce in cui si susseguono eventi e attività ricreative: la Torre, il Central Pier, Manchester Square, St. Chad’s, Waterloo e il South Pier. A ognuna di queste è associata un’attività per l’intrattenimento – raccontare, esplorare, benessere, passeggiare, fluttuare – identificata da elementi architettonici mobili, modificabili, galleggianti (teatro, spazio per eventi all’aperto, case sospese tra mare e spiaggia, piscine con saune e idromassaggio, bar mobili, un Parco del Vento e del Mare). In questo modo il lungomare e la spiaggia di Blackpool diventano un’attrazione che invita i cittadini a passeggiare e a godere del proprio tempo libero, divenendo insieme spettatori e attori della vita urbana.

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Il Fire Emperor si innalza tra il mercato all’aperto esistente e quello galleggiante. The Fire Emperor rises up between the old outdoor market and floating market.

A

s if due to the effect of visions induced by peyote (the meat of the gods), here are some fragments of a possible tomorrow: amplified sensorial perceptions, colored anthropomorphic and geometric visions, loss of the notion of when and where. It is neither a dream nor a hallucination, it is not poetry either. It is architecture. So where are we? Certainly not at the Six Gallery in San Francisco in 1955, neither are we guests at City Lights Books designed by Lawrence Ferlinghetti. Eat This! Rotterdam. This is how Maurice Nio describes his Fire Emperor: “No-one can escape the Fire Emperor, this voracious building that day and night devours anything that comes near: innocent tourists and experienced gluttons, pale potatoes and fresh coriander, tame pigeons and live squid, raunchy market stalls and exclusive restaurants, worn-musicians and erotic services, unpleasant smells and the faded perfumes of the waitresses.” Here we are, thrown into the new market hall, operating on a non-stop basis inside the Fire Emperor. Everybody can find something interesting here: “everybody and everything is prepared to defy the heat of the kitchen in the Via Emperor.” This is the place where the city lives and boils. The Fire Emperor does not look like a bright and spacious interior hall but, on the contrary, like an inimitable devouring piece of machinery, a hedonistic weave of spaces inspired by intestines. Liverpool. In order to discover the distinctive traits of Maurice Nio’s innovative and multifaceted architecture we need to carefully study his background, characterized, at every moment, by a keen desire to change every-

thing. His works of architecture take up the challenge of restoring fresh dignity to places by means of the unconventional and a collection of fragments observed from various different viewpoints. There is a word which crops up all the time in his vocabulary: “infected”. He loves contamination between things and, in particular, between opposites, starting with the relationship between soft and hard, real and virtual. This has produced the bridge restaurant The Thread of Liverpool. Enveloping and fluid forms pervade the setting where it is located, transforming it into something else, presenting us with a state of affairs antagonistic to what is already there. This transformation takes on a zoomorphic form or something mimicking it. The “technical” spaces or, in other words, highways, dumps, tunnels, car parks and transit/abandoned places, turn into energy in motion. Blackpool. A series of spaces and elements which intersect along the seaside promenade, six “little places” of light where recreation activities and events take place: the Tower, Central Pier, Manchester Square, St Chad’s, Waterloo and South Pier. Each of these is associated with some form of entertainment: storytelling, exploring, wellbeing, walking, fluctuating—identified by moving, adjustable, floating architectural features (theater, space for hosting outdoor events, houses suspended between the sea and beach, swimming pools with saunas and hot tubs, moving bars, a Wind and Sea Park). This allows the Blackpool seafront and beach to turn into an attraction inviting the locals to walk around and enjoy their leisure time, becoming simultaneously spectators and actors in urban life.

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Il Fire Emperor si innalza tra il mercato all’aperto esistente e quello galleggiante. The Fire Emperor rises up between the old outdoor market and floating market.

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s if due to the effect of visions induced by peyote (the meat of the gods), here are some fragments of a possible tomorrow: amplified sensorial perceptions, colored anthropomorphic and geometric visions, loss of the notion of when and where. It is neither a dream nor a hallucination, it is not poetry either. It is architecture. So where are we? Certainly not at the Six Gallery in San Francisco in 1955, neither are we guests at City Lights Books designed by Lawrence Ferlinghetti. Eat This! Rotterdam. This is how Maurice Nio describes his Fire Emperor: “No-one can escape the Fire Emperor, this voracious building that day and night devours anything that comes near: innocent tourists and experienced gluttons, pale potatoes and fresh coriander, tame pigeons and live squid, raunchy market stalls and exclusive restaurants, worn-musicians and erotic services, unpleasant smells and the faded perfumes of the waitresses.” Here we are, thrown into the new market hall, operating on a non-stop basis inside the Fire Emperor. Everybody can find something interesting here: “everybody and everything is prepared to defy the heat of the kitchen in the Via Emperor.” This is the place where the city lives and boils. The Fire Emperor does not look like a bright and spacious interior hall but, on the contrary, like an inimitable devouring piece of machinery, a hedonistic weave of spaces inspired by intestines. Liverpool. In order to discover the distinctive traits of Maurice Nio’s innovative and multifaceted architecture we need to carefully study his background, characterized, at every moment, by a keen desire to change every-

thing. His works of architecture take up the challenge of restoring fresh dignity to places by means of the unconventional and a collection of fragments observed from various different viewpoints. There is a word which crops up all the time in his vocabulary: “infected”. He loves contamination between things and, in particular, between opposites, starting with the relationship between soft and hard, real and virtual. This has produced the bridge restaurant The Thread of Liverpool. Enveloping and fluid forms pervade the setting where it is located, transforming it into something else, presenting us with a state of affairs antagonistic to what is already there. This transformation takes on a zoomorphic form or something mimicking it. The “technical” spaces or, in other words, highways, dumps, tunnels, car parks and transit/abandoned places, turn into energy in motion. Blackpool. A series of spaces and elements which intersect along the seaside promenade, six “little places” of light where recreation activities and events take place: the Tower, Central Pier, Manchester Square, St Chad’s, Waterloo and South Pier. Each of these is associated with some form of entertainment: storytelling, exploring, wellbeing, walking, fluctuating—identified by moving, adjustable, floating architectural features (theater, space for hosting outdoor events, houses suspended between the sea and beach, swimming pools with saunas and hot tubs, moving bars, a Wind and Sea Park). This allows the Blackpool seafront and beach to turn into an attraction inviting the locals to walk around and enjoy their leisure time, becoming simultaneously spectators and actors in urban life.

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Planimetria generale e denominazioni proposte per i diversi elementi del Thread of Liverpool. Una fase di sviluppo del progetto e sezione trasversale del ponte coperto. Site plan and proposed names for the various parts of The Thread of Liverpool. A stage in the development of the project and cross section of the enclosed bridge.

Inserimento del progetto nel contesto urbano e simulazione del percorso pedonale. How the project is incorporated in the cityscape and simulation of the pedestrian way.

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Planimetria generale e denominazioni proposte per i diversi elementi del Thread of Liverpool. Una fase di sviluppo del progetto e sezione trasversale del ponte coperto. Site plan and proposed names for the various parts of The Thread of Liverpool. A stage in the development of the project and cross section of the enclosed bridge.

Inserimento del progetto nel contesto urbano e simulazione del percorso pedonale. How the project is incorporated in the cityscape and simulation of the pedestrian way.

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Viste del promontorio Waterloo a Blackpool, dedicato alla funzione del passeggiare e ritmato da nove bar/ristoranti collocati in strutture in legno mobili che possono spostarsi lungo la passeggiata alla stessa velocitĂ delle persone.

Views of Waterloo promenade in Blackpool, where people go to walk, showing nine bars/restaurants set in mobile wooden structures which can move along the promenade at the same speed as people.


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Viste del promontorio Waterloo a Blackpool, dedicato alla funzione del passeggiare e ritmato da nove bar/ristoranti collocati in strutture in legno mobili che possono spostarsi lungo la passeggiata alla stessa velocitĂ delle persone.

Views of Waterloo promenade in Blackpool, where people go to walk, showing nine bars/restaurants set in mobile wooden structures which can move along the promenade at the same speed as people.


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Un progetto d’Opera Project For An Opera House Emirati Arabi Uniti, Teatro dell’Opera di Dubai United Arab Emirates, Dubai Opera House Progetto di Ateliers Jean Nouvel Project by Ateliers Jean Nouvel

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I

l progetto presentato al concorso internazionale per il Teatro dell’Opera di Dubai (poi vinto dalla irachena Zaha Hadid) merita di essere commentato con le parole che Nouvel stesso usò per descriverlo. “Costruire memorie future… Dubai sta costruendo il suo teatro dell’opera. La città emblema dell’esplosione del XXI secolo deve costruirsi una nuova icona planetaria. Ma un’opera è un’opera: Un’allusione alla musica, al ritmo... un riferimento ai ritmi del passato… un invito alla scoperta… un mistero programmato. Siamo qui, sopra l’acqua, alla fine del Creek. Il visitatore incontra un ‘abitante’ che appartiene allo spirito del tempo, appartiene al tempo inscritto nel luogo. È un testimone, un guardiano, un protettore e, soprattutto, una visione attraverso la città e il suo futuro. La sua scala è tale che non lo si può confondere con un banale albergo o con un edificio per uffici: è orgoglioso, sicuro della sua aura che si diffonde attraverso il territorio. Non può essere decodificato in modo semplicistico o univoco. La sua immagine si modifica col modificarsi dell’angolo di visuale, con le luci, ma, allo stesso tempo, appartiene all’atmosfera, allo spessore dell’aria. Rivela la luce. Immerge la propria ombra nell’acqua. Evoca. I ritmi. Le intensità. Le profondità. Evoca. La musica, gli acuti e i bassi. Parla dei simboli del luogo: qui, dove è possibile incontrare l’uccello (il falcone simbolo degli Emirati, che vola e migra, cercando rifugio nella natura della zona circostante); l’acqua (dai cangianti riflessi legati agli specchi del Creek); o le onde del mare, così vicine; o la cascata, o la nebbia, o la nuvola. E incontriamo anche la vegetazione con le sue trame

perforate di luce, la successione casuale e la superimposizione di palme che si mescolano ad altre essenze via via che si procede ai diversi livelli; o la musica, in grado di evocare le curvature degli strumenti, le linee dello spartito, le chiavi del clarinetto o il primo ‘la’… I segni si sovrappongono, divengono confusi, si legano assieme per creare a loro volta altra musica, altri ritmi, impossibili da immaginare fuori da questi strati incrociati… È un po’ come per le nuvole: ciascuno può vederci ciò che più lo attrae, che più lo incuriosisce. L’architetto ha solo il ruolo del provocatore, proclama la propria innocenza. Poi, c’è la luce. Le luci dell’alba e del tramonto. Ci sono viste nella luce, riflessi, il gioco dei materiali che catturano e imprimono i colori del cielo sulla pelle dell’edificio. Tra echi scintillanti o evanescenti, le ore scivolano attraverso il verde degli alberi e i colori che si fanno a volte vividi negli interni e attraverso le luci della vita dell’opera, luci molteplici e variate, legate all’atmosfera di luoghi differenti, a differenti ore – distintamente brillanti appena cala la notte. Ecco cosa guida un architetto, la cui missione è quella di provocare l’impensabile. Ecco cosa si proverà, come uno spettacolo da scoprire, come una sensazione da far nascere. Poi, ciò che rimane non è meno importante: l’interno. Gli interni. Una sequenza di scoperte. I rimbalzi della luce e delle ombre attraverso le trame geometriche che sono l’essenza della grandiosa architettura araba. Vi è, vista dall’interno, la scoperta dello skyline di Dubai… delle Dubai. Vi è la memoria delle creazioni, in un luogo che accoglierà ospiti di prestigio i quali, qui, creeranno opere che faranno il giro della Terra. Vi sono incontri con la musica, con il teatro, con le arti e i loro principali attori… Tutto questo per legare l’immaginazione di Dubai alla cultura e ai suoi piaceri”. Jean Nouvel.

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Un progetto d’Opera Project For An Opera House Emirati Arabi Uniti, Teatro dell’Opera di Dubai United Arab Emirates, Dubai Opera House Progetto di Ateliers Jean Nouvel Project by Ateliers Jean Nouvel

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l progetto presentato al concorso internazionale per il Teatro dell’Opera di Dubai (poi vinto dalla irachena Zaha Hadid) merita di essere commentato con le parole che Nouvel stesso usò per descriverlo. “Costruire memorie future… Dubai sta costruendo il suo teatro dell’opera. La città emblema dell’esplosione del XXI secolo deve costruirsi una nuova icona planetaria. Ma un’opera è un’opera: Un’allusione alla musica, al ritmo... un riferimento ai ritmi del passato… un invito alla scoperta… un mistero programmato. Siamo qui, sopra l’acqua, alla fine del Creek. Il visitatore incontra un ‘abitante’ che appartiene allo spirito del tempo, appartiene al tempo inscritto nel luogo. È un testimone, un guardiano, un protettore e, soprattutto, una visione attraverso la città e il suo futuro. La sua scala è tale che non lo si può confondere con un banale albergo o con un edificio per uffici: è orgoglioso, sicuro della sua aura che si diffonde attraverso il territorio. Non può essere decodificato in modo semplicistico o univoco. La sua immagine si modifica col modificarsi dell’angolo di visuale, con le luci, ma, allo stesso tempo, appartiene all’atmosfera, allo spessore dell’aria. Rivela la luce. Immerge la propria ombra nell’acqua. Evoca. I ritmi. Le intensità. Le profondità. Evoca. La musica, gli acuti e i bassi. Parla dei simboli del luogo: qui, dove è possibile incontrare l’uccello (il falcone simbolo degli Emirati, che vola e migra, cercando rifugio nella natura della zona circostante); l’acqua (dai cangianti riflessi legati agli specchi del Creek); o le onde del mare, così vicine; o la cascata, o la nebbia, o la nuvola. E incontriamo anche la vegetazione con le sue trame

perforate di luce, la successione casuale e la superimposizione di palme che si mescolano ad altre essenze via via che si procede ai diversi livelli; o la musica, in grado di evocare le curvature degli strumenti, le linee dello spartito, le chiavi del clarinetto o il primo ‘la’… I segni si sovrappongono, divengono confusi, si legano assieme per creare a loro volta altra musica, altri ritmi, impossibili da immaginare fuori da questi strati incrociati… È un po’ come per le nuvole: ciascuno può vederci ciò che più lo attrae, che più lo incuriosisce. L’architetto ha solo il ruolo del provocatore, proclama la propria innocenza. Poi, c’è la luce. Le luci dell’alba e del tramonto. Ci sono viste nella luce, riflessi, il gioco dei materiali che catturano e imprimono i colori del cielo sulla pelle dell’edificio. Tra echi scintillanti o evanescenti, le ore scivolano attraverso il verde degli alberi e i colori che si fanno a volte vividi negli interni e attraverso le luci della vita dell’opera, luci molteplici e variate, legate all’atmosfera di luoghi differenti, a differenti ore – distintamente brillanti appena cala la notte. Ecco cosa guida un architetto, la cui missione è quella di provocare l’impensabile. Ecco cosa si proverà, come uno spettacolo da scoprire, come una sensazione da far nascere. Poi, ciò che rimane non è meno importante: l’interno. Gli interni. Una sequenza di scoperte. I rimbalzi della luce e delle ombre attraverso le trame geometriche che sono l’essenza della grandiosa architettura araba. Vi è, vista dall’interno, la scoperta dello skyline di Dubai… delle Dubai. Vi è la memoria delle creazioni, in un luogo che accoglierà ospiti di prestigio i quali, qui, creeranno opere che faranno il giro della Terra. Vi sono incontri con la musica, con il teatro, con le arti e i loro principali attori… Tutto questo per legare l’immaginazione di Dubai alla cultura e ai suoi piaceri”. Jean Nouvel.

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he project entered in the international competition to design the Dubai Opera House (eventually won by the Iraqi architect Zaha Hadid) deserves to be commented on by quoting what Nouvel himself had to say about it. “Building future memories... Dubai is building its opera. The emblematic city of the explosion of the 21st century must build itself a new planetary icon. But an opera is an opera: An allusion to music, to rhythm... a reference to the rhythms of the past... an invitation to discovery... a mystery programmed. We are here above the water, at the far end of the Creek. The visitor encounters an ‘inhabitant’ who belongs to the spirit of the time, belongs to the time inscribed in the place. It acts as a witness, a guardian, a protector and, above all else, a vision across the city and its future. Its scale is such that we can not confuse it with a vulgar hotel or an office building: it is proud, sure of its aura across the land. It can not be decoded in a simplistic or univocal manner. Its image changes with angles of view, with the lights, but it also belongs to the atmosphere, to the thickness of the air. It reveals the light. It impregnates its shadow in the water. It evokes. The rhythms. The intensities. The depths. It evokes. The music, the ascents and the descents. It speaks of the symbols of the place: here, we are as likely to encounter the bird (the falcon that is the emblem of the Emirates, that flies and migrates, searching for refuge in nature nearby); as the water (changing reflections linked to the mirrors of the Creek); as the waves of the sea so close; as the waterfall, the mist or the cloud.

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Il gioco di tagli di luce generato dalla pelle dell’edificio pensata come una trama di intarsi ispirati alla tradizione architettonica araba. Pagina di apertura, planimetria generale. Pagina a fianco, rendering della pelle esterna dell’edificio nella quale si intrecciano diverse essenze arboree. The interplay of gleams of light generated by the building’s skin, which is designed like a pattern of inlays inspired by traditional Arab architecture. Opening page, site plan. Opposite page, rendering of the building’s outside skin which is interwoven with various arboreal essences.

We also encounter vegetation with its perforated patterns of light, the random succession and superposition of palm trees entangled with other essences as the levels progress; as the music with its evocations of the curves of instruments, of the lines of the score, of the keys of the clarinet or of the tuning note... The signs superpose, become confused, link together to create other music, other rhythms impossible to imagine outside of these criss-crossed layers... It is a little like the clouds: each person can see what attracts them, what makes them question. The architect plays only the role of provocateur, claiming innocence. Then, there is the light. The lights of the dawn and the dusk. There are views into the light, reflections, the play of materials that capture, that imprint the colors of the sky on the skin of the building. Within the gleaming echoes or fading away, the hours slip across the green of the trees, the colors often made vivid by the interiors and the lights of the life contained by the opera, multiple and varied lights linked to the ambiance of different places, of different hours—glowing, evidently, as soon as the night arrives. Here is what guides an architect whose mission it is to provoke the unthinkable. Here is what will be felt, like a spectacle to be discovered, like sensations to be searched out. Afterwards, what remains is not the least: the interior. The interiors. The successive discoveries. The impacts of the light and the shadows through the geometry, which is the essence of grand Arab architecture. There is, seen from the interior, the discovery of the skylines of Dubai, the Dubais. There is the memory of creations in a place that will welcome prestigious guests who, here, will create works that will make a tour of the earth. There are encounters with music, with theater, with the arts and their principal actors... All this to link the imagination of Dubai to culture and its pleasures.” Jean Nouvel.

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he project entered in the international competition to design the Dubai Opera House (eventually won by the Iraqi architect Zaha Hadid) deserves to be commented on by quoting what Nouvel himself had to say about it. “Building future memories... Dubai is building its opera. The emblematic city of the explosion of the 21st century must build itself a new planetary icon. But an opera is an opera: An allusion to music, to rhythm... a reference to the rhythms of the past... an invitation to discovery... a mystery programmed. We are here above the water, at the far end of the Creek. The visitor encounters an ‘inhabitant’ who belongs to the spirit of the time, belongs to the time inscribed in the place. It acts as a witness, a guardian, a protector and, above all else, a vision across the city and its future. Its scale is such that we can not confuse it with a vulgar hotel or an office building: it is proud, sure of its aura across the land. It can not be decoded in a simplistic or univocal manner. Its image changes with angles of view, with the lights, but it also belongs to the atmosphere, to the thickness of the air. It reveals the light. It impregnates its shadow in the water. It evokes. The rhythms. The intensities. The depths. It evokes. The music, the ascents and the descents. It speaks of the symbols of the place: here, we are as likely to encounter the bird (the falcon that is the emblem of the Emirates, that flies and migrates, searching for refuge in nature nearby); as the water (changing reflections linked to the mirrors of the Creek); as the waves of the sea so close; as the waterfall, the mist or the cloud.

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Il gioco di tagli di luce generato dalla pelle dell’edificio pensata come una trama di intarsi ispirati alla tradizione architettonica araba. Pagina di apertura, planimetria generale. Pagina a fianco, rendering della pelle esterna dell’edificio nella quale si intrecciano diverse essenze arboree. The interplay of gleams of light generated by the building’s skin, which is designed like a pattern of inlays inspired by traditional Arab architecture. Opening page, site plan. Opposite page, rendering of the building’s outside skin which is interwoven with various arboreal essences.

We also encounter vegetation with its perforated patterns of light, the random succession and superposition of palm trees entangled with other essences as the levels progress; as the music with its evocations of the curves of instruments, of the lines of the score, of the keys of the clarinet or of the tuning note... The signs superpose, become confused, link together to create other music, other rhythms impossible to imagine outside of these criss-crossed layers... It is a little like the clouds: each person can see what attracts them, what makes them question. The architect plays only the role of provocateur, claiming innocence. Then, there is the light. The lights of the dawn and the dusk. There are views into the light, reflections, the play of materials that capture, that imprint the colors of the sky on the skin of the building. Within the gleaming echoes or fading away, the hours slip across the green of the trees, the colors often made vivid by the interiors and the lights of the life contained by the opera, multiple and varied lights linked to the ambiance of different places, of different hours—glowing, evidently, as soon as the night arrives. Here is what guides an architect whose mission it is to provoke the unthinkable. Here is what will be felt, like a spectacle to be discovered, like sensations to be searched out. Afterwards, what remains is not the least: the interior. The interiors. The successive discoveries. The impacts of the light and the shadows through the geometry, which is the essence of grand Arab architecture. There is, seen from the interior, the discovery of the skylines of Dubai, the Dubais. There is the memory of creations in a place that will welcome prestigious guests who, here, will create works that will make a tour of the earth. There are encounters with music, with theater, with the arts and their principal actors... All this to link the imagination of Dubai to culture and its pleasures.” Jean Nouvel.

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La sala principale di 2.500 posti e la sala minore da 750. Nella pagina a fianco, il suggestivo gioco di riflessi nelle acque del mare di notte.

The main hall with seating for 2,500 and smaller hall with room for 750. Opposite page, the striking interplay of reflections in the sea at night-time.


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La sala principale di 2.500 posti e la sala minore da 750. Nella pagina a fianco, il suggestivo gioco di riflessi nelle acque del mare di notte.

The main hall with seating for 2,500 and smaller hall with room for 750. Opposite page, the striking interplay of reflections in the sea at night-time.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Mondi verticali Vertical Worlds Chicago, progetto di rigenerazione urbana Chicago, urban regeneration project Progetto di WASX-Antonio Petrov Project by WASX-Antonio Petrov

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uove idee, cambiamenti di valore e significative invenzioni hanno cambiato il nostro modo di abitare senza tuttavia intaccare il desiderio di calpestare il cielo. Dalla Torre di Babele al sistema di torri dell’utopica città ideale di Sforzinda, progettata da Filarete durante il Rinascimento, il grattacielo ha rappresentato il tipo architettonico per eccellenza della modernità, nella sua valenza di ricerca ossessiva del nuovo. Il luogo in cui i concetti di pubblico e privato, collettivo e individuale si fondono insieme esplodendo in verticale. Paradossale prodotto della densità urbana, le origini del grattacielo sono generalmente ricondotte alla città di Chicago e all’anno 1885 dove la storia dell’architettura scolora nel folklore locale. Era il 12 agosto 1833 quando nacque Chicago. Aveva una popolazione di 350 abitanti e i suoi confini circoscritti dalle strade Kinzie, Desplaines, Madison e State, comprendevano un territorio di circa 1 km². Tra l’8 e il 10 ottobre 1871 la città fu quasi completamente distrutta da un grande incendio: una leggenda racconta che ad appiccare il fuoco sia stata una lanterna rovesciata dal calcio di una mucca appartenente alle sorelle O’Leary, la cui stalla si trovava al 137 di DeKoven Street. Spinte dai forti venti, le fiamme ridussero gran parte del centro in cenere, grazie anche al fatto che molte case erano ancora di legno. Nella ricostruzione che seguì la catastrofe, si decise di adottare un sistema strutturale a ossatura in acciaio che permetteva di aumentare l’altezza senza dover temere ingombri eccessivi nei piani bassi. Veniva così costruito in città il primo grattacielo della storia, l’Home Insurance Building: il progenitore dei Bodies di Antonio Petrov. Attento studioso dei diversi ruoli che l’architettura può assumere nel plasmare e dar forma alla società contemporanea, Petrov ha focalizzato la sua ricerca progettuale su come i grandi fenomeni culturali hanno influenzato lo svilupparsi di nuovi paradigmi spaziali e come le avanguardie postmoderne e le mega-costruzioni hanno prodotto soluzioni utopiche al di fuori e al di sopra dei comuni moduli costruttivi con l’obiettivo ultimo di produrre alternative ideali al concetto di città prevalente. Ma la strada che Petrov indica è fatta di linguaggi che rigettano gli approcci uni-disciplinari privilegiando metodologie e comunicazioni

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Lo skyline di Chicago con le nuove torri che individuano le comunità verticali dei Bodies. The Chicago skyline showing the new towers identifying the vertical communities of Bodies.

meta-dimensionali che integrano, citano e intrecciano ogni ambito disciplinare dalla politica alla cultura di massa, al sapere tecnologico. L’architettura di Petrov è fatta di intersezioni tra storia e futuro, stilemi e modelli compositivi del passato proiettati in una dimensione spaziale (im)materiale avveniristica. Godibili e affascinanti i Bodies progettati per Chicago sono 6 “corpi” verticali (Individuo, Folla, Comunicazione, Movimento, Sopravvivenza, Vuoto) che interagiscono e comunicano tra di loro definendo un nuovo spazio urbano dinamico. Veri laboratori funzionanti senza interruzione, dotati di sistemi audiovisivi ad alta risoluzione per la proiezione interattiva di immagini, riflettono e riunificano il tutto multiforme della realtà urbana in un simbolo verticale. Le condizioni urbane esistenti e gli squilibri sociali e culturali di Chicago vengono assorbiti e riequilibrati nei Bodies. Attore dello spazio è un flusso continuo (Movimento) di processi multiformi che riflettono la variegata vita della città: un tessuto di dati che si incontrano e scontrano in un perenne conflitto a livello orizzontale per confluire e incanalarsi in un corpo verticale che li libera integrandoli. In questo progetto meta-narrativo, l’Individuo, lo huwomenkind come lo definisce il progettista, è sperimentatore e al tempo stesso oggetto di sperimentazione. La disgregazione e l’alienazione (Vuoto) socio-fisica del tessuto della metropoli moderna costringe a ripensare le modalità dello “stare insieme” (Sopravvivenza): i Bodies, nella loro natura interattiva, svolgono un ruolo di connessione (Comunicazione) della città con se stessa e del cittadino con se stesso (Individuo) e con gli altri (Folla): le moltitudini di non-identità disseminate in un contesto urbano fatto di divisioni socio-economiche e disconnessioni fisiche dagli spazi d’acqua e verde vengono trasportate e fatte confluire nella dimensione aggregante dei Bodies dove possono giungere a sperimentare un’esperienza urbana di nuove relazioni dialettiche e solidarietà sociale.

N

ew ideas, changes in value and important inventions have changed our way of living without in any way detracting from our desire to reach up for the skies. From the Tower of Babel to the system of towers of the ideal utopian city of Sforzinda designed by Filarete during the Renaissance, skyscrapers have always been the most emblematic type of architecture for modernity in its obsessive quest for the new. The place where the concepts of public and private, communal and individual blend together and explode vertically. Paradoxically resulting from urban density, the origins of skyscrapers are generally traced back to the city of Chicago and the year 1885 when the history of architecture faded into local folklore. Chicago was born on 12th August 1833. It had a population of 350 and its city boundaries were marked by Kinzie, Desplaines, Madison and State streets, covering an area of approximately 1 km2. The city was almost completely destroyed by a huge fire which broke out from 8th-10th October 1871: according to legend, the fire was started by a lantern being kicked over by a cow belonging to the O’Leary sisters, whose stable was located at 137, DeKoven St. Driven along by strong winds, the flames reduced most of the city center to ashes, partly due to the fact that most of the houses were still made of wood. During the ensuing reconstruction process after this catastrophe, it was decided to opt for a steel-framed structural system, which made it possible to build higher without worrying about taking up too much space at lower levels. This resulted in the construction in the city of history’s first skyscraper, the Home Insurance Building: the most distant ancestor of Antonio Petrov’s Bodies. With a keen eye for the various roles which architecture can play in giving shape and form to modern-day society, Petrov has focused his design experimentation on how major cultural phenomena have influenced the development of new spatial paradigms and how post-modern avant-gardes and mega-constructions have resulted in utopian designs above and beyond ordinary construction modules, ultimately aimed at generating ideal alternatives to the prevailing view of the city. But the path which

Petrov points toward is paved in languages which reject uni-disciplinary approaches favoring meta-dimensional methods and communication policies, which integrate, cite and weave together such disparate realms as politics, mass culture and technological expertise. Petrov’s architecture is made of intersections between history and the future, stylistic features and compositional models of the past projected into a futuristic (im)material spatial dimension. Extremely enjoyable and fascinating, the Bodies designed for Chicago are six vertical “bodies” (Individuals, Crowd, Communication, Movement, Survival, Void), which interact and communicate with each other to create a new dynamic form of urban space. Authentic fully-functional and seamless laboratories equipped with high-resolution audiovisual systems for projecting images interactively, in order to reflect and reunite the multi-formed whole of urban reality into a vertical symbol. The existing inner-city conditions and socio-cultural imbalances of Chicago are absorbed and balanced out again through Bodies. Actor of the space is a continuous flux (Movement) of multiformal processes reflecting the extremely varied nature of city life: a fabric of data which come together and clash in a constant state of conflict on a horizontal level, ready to be channeled into a vertical body which frees them as it mixes them together. In this meta-narrative project, Individual, huwomenkind as the designer himself defines him, is an experimenter and, at the same time, the object of experimentation. The socio-physical disaggregation and alienation (Void) of the fabric of the modern metropolis forces us to rethink our ways of “being together” (Survival): due to their interactive nature, the Bodies serve the role of connecting (Communication) the city to itself and city-dwellers to themselves (Individual) and others (Crowd): the multitudes of non-identities spread throughout an urban setting composed of socio-economic divisions and physical disconnections between watery and landscape spaces are transported and forced to flow into the aggregating dimension of Bodies, where they can experiment with a new kind of urban experience composed of dialectical relations and social solidarity.

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Mondi verticali Vertical Worlds Chicago, progetto di rigenerazione urbana Chicago, urban regeneration project Progetto di WASX-Antonio Petrov Project by WASX-Antonio Petrov

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uove idee, cambiamenti di valore e significative invenzioni hanno cambiato il nostro modo di abitare senza tuttavia intaccare il desiderio di calpestare il cielo. Dalla Torre di Babele al sistema di torri dell’utopica città ideale di Sforzinda, progettata da Filarete durante il Rinascimento, il grattacielo ha rappresentato il tipo architettonico per eccellenza della modernità, nella sua valenza di ricerca ossessiva del nuovo. Il luogo in cui i concetti di pubblico e privato, collettivo e individuale si fondono insieme esplodendo in verticale. Paradossale prodotto della densità urbana, le origini del grattacielo sono generalmente ricondotte alla città di Chicago e all’anno 1885 dove la storia dell’architettura scolora nel folklore locale. Era il 12 agosto 1833 quando nacque Chicago. Aveva una popolazione di 350 abitanti e i suoi confini circoscritti dalle strade Kinzie, Desplaines, Madison e State, comprendevano un territorio di circa 1 km². Tra l’8 e il 10 ottobre 1871 la città fu quasi completamente distrutta da un grande incendio: una leggenda racconta che ad appiccare il fuoco sia stata una lanterna rovesciata dal calcio di una mucca appartenente alle sorelle O’Leary, la cui stalla si trovava al 137 di DeKoven Street. Spinte dai forti venti, le fiamme ridussero gran parte del centro in cenere, grazie anche al fatto che molte case erano ancora di legno. Nella ricostruzione che seguì la catastrofe, si decise di adottare un sistema strutturale a ossatura in acciaio che permetteva di aumentare l’altezza senza dover temere ingombri eccessivi nei piani bassi. Veniva così costruito in città il primo grattacielo della storia, l’Home Insurance Building: il progenitore dei Bodies di Antonio Petrov. Attento studioso dei diversi ruoli che l’architettura può assumere nel plasmare e dar forma alla società contemporanea, Petrov ha focalizzato la sua ricerca progettuale su come i grandi fenomeni culturali hanno influenzato lo svilupparsi di nuovi paradigmi spaziali e come le avanguardie postmoderne e le mega-costruzioni hanno prodotto soluzioni utopiche al di fuori e al di sopra dei comuni moduli costruttivi con l’obiettivo ultimo di produrre alternative ideali al concetto di città prevalente. Ma la strada che Petrov indica è fatta di linguaggi che rigettano gli approcci uni-disciplinari privilegiando metodologie e comunicazioni

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Lo skyline di Chicago con le nuove torri che individuano le comunità verticali dei Bodies. The Chicago skyline showing the new towers identifying the vertical communities of Bodies.

meta-dimensionali che integrano, citano e intrecciano ogni ambito disciplinare dalla politica alla cultura di massa, al sapere tecnologico. L’architettura di Petrov è fatta di intersezioni tra storia e futuro, stilemi e modelli compositivi del passato proiettati in una dimensione spaziale (im)materiale avveniristica. Godibili e affascinanti i Bodies progettati per Chicago sono 6 “corpi” verticali (Individuo, Folla, Comunicazione, Movimento, Sopravvivenza, Vuoto) che interagiscono e comunicano tra di loro definendo un nuovo spazio urbano dinamico. Veri laboratori funzionanti senza interruzione, dotati di sistemi audiovisivi ad alta risoluzione per la proiezione interattiva di immagini, riflettono e riunificano il tutto multiforme della realtà urbana in un simbolo verticale. Le condizioni urbane esistenti e gli squilibri sociali e culturali di Chicago vengono assorbiti e riequilibrati nei Bodies. Attore dello spazio è un flusso continuo (Movimento) di processi multiformi che riflettono la variegata vita della città: un tessuto di dati che si incontrano e scontrano in un perenne conflitto a livello orizzontale per confluire e incanalarsi in un corpo verticale che li libera integrandoli. In questo progetto meta-narrativo, l’Individuo, lo huwomenkind come lo definisce il progettista, è sperimentatore e al tempo stesso oggetto di sperimentazione. La disgregazione e l’alienazione (Vuoto) socio-fisica del tessuto della metropoli moderna costringe a ripensare le modalità dello “stare insieme” (Sopravvivenza): i Bodies, nella loro natura interattiva, svolgono un ruolo di connessione (Comunicazione) della città con se stessa e del cittadino con se stesso (Individuo) e con gli altri (Folla): le moltitudini di non-identità disseminate in un contesto urbano fatto di divisioni socio-economiche e disconnessioni fisiche dagli spazi d’acqua e verde vengono trasportate e fatte confluire nella dimensione aggregante dei Bodies dove possono giungere a sperimentare un’esperienza urbana di nuove relazioni dialettiche e solidarietà sociale.

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ew ideas, changes in value and important inventions have changed our way of living without in any way detracting from our desire to reach up for the skies. From the Tower of Babel to the system of towers of the ideal utopian city of Sforzinda designed by Filarete during the Renaissance, skyscrapers have always been the most emblematic type of architecture for modernity in its obsessive quest for the new. The place where the concepts of public and private, communal and individual blend together and explode vertically. Paradoxically resulting from urban density, the origins of skyscrapers are generally traced back to the city of Chicago and the year 1885 when the history of architecture faded into local folklore. Chicago was born on 12th August 1833. It had a population of 350 and its city boundaries were marked by Kinzie, Desplaines, Madison and State streets, covering an area of approximately 1 km2. The city was almost completely destroyed by a huge fire which broke out from 8th-10th October 1871: according to legend, the fire was started by a lantern being kicked over by a cow belonging to the O’Leary sisters, whose stable was located at 137, DeKoven St. Driven along by strong winds, the flames reduced most of the city center to ashes, partly due to the fact that most of the houses were still made of wood. During the ensuing reconstruction process after this catastrophe, it was decided to opt for a steel-framed structural system, which made it possible to build higher without worrying about taking up too much space at lower levels. This resulted in the construction in the city of history’s first skyscraper, the Home Insurance Building: the most distant ancestor of Antonio Petrov’s Bodies. With a keen eye for the various roles which architecture can play in giving shape and form to modern-day society, Petrov has focused his design experimentation on how major cultural phenomena have influenced the development of new spatial paradigms and how post-modern avant-gardes and mega-constructions have resulted in utopian designs above and beyond ordinary construction modules, ultimately aimed at generating ideal alternatives to the prevailing view of the city. But the path which

Petrov points toward is paved in languages which reject uni-disciplinary approaches favoring meta-dimensional methods and communication policies, which integrate, cite and weave together such disparate realms as politics, mass culture and technological expertise. Petrov’s architecture is made of intersections between history and the future, stylistic features and compositional models of the past projected into a futuristic (im)material spatial dimension. Extremely enjoyable and fascinating, the Bodies designed for Chicago are six vertical “bodies” (Individuals, Crowd, Communication, Movement, Survival, Void), which interact and communicate with each other to create a new dynamic form of urban space. Authentic fully-functional and seamless laboratories equipped with high-resolution audiovisual systems for projecting images interactively, in order to reflect and reunite the multi-formed whole of urban reality into a vertical symbol. The existing inner-city conditions and socio-cultural imbalances of Chicago are absorbed and balanced out again through Bodies. Actor of the space is a continuous flux (Movement) of multiformal processes reflecting the extremely varied nature of city life: a fabric of data which come together and clash in a constant state of conflict on a horizontal level, ready to be channeled into a vertical body which frees them as it mixes them together. In this meta-narrative project, Individual, huwomenkind as the designer himself defines him, is an experimenter and, at the same time, the object of experimentation. The socio-physical disaggregation and alienation (Void) of the fabric of the modern metropolis forces us to rethink our ways of “being together” (Survival): due to their interactive nature, the Bodies serve the role of connecting (Communication) the city to itself and city-dwellers to themselves (Individual) and others (Crowd): the multitudes of non-identities spread throughout an urban setting composed of socio-economic divisions and physical disconnections between watery and landscape spaces are transported and forced to flow into the aggregating dimension of Bodies, where they can experiment with a new kind of urban experience composed of dialectical relations and social solidarity.

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Diagrammi della popolazione nelle aree metropolitane e centrali di Chicago. Diagrams of the population in the metropolitan and central areas of Chicago.

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Diagramma delle forze di attrazione ambientale esercitate dalla zona centrale di Chicago. Diagram of the forces of environmental attraction exercised by downtown Chicago.

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Diagrammi della popolazione nelle aree metropolitane e centrali di Chicago. Diagrams of the population in the metropolitan and central areas of Chicago.

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Schemi delle 6 strutture verticali che definiscono lo spazio dinamico della nuova Tholos World Plaza.

Diagrams of the 6 vertical structures marking the dynamic space of the new Tholos World Plaza.

Schemi di connessione verticale tra le principali risorse naturali di Chicago (lago e verde) e i nuovi sviluppi infrastrutturali.

Diagrams of the vertical connections between Chicago’s main natural resources (lake and greenery) and new infrastructural developments.


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Schemi delle 6 strutture verticali che definiscono lo spazio dinamico della nuova Tholos World Plaza.

Diagrams of the 6 vertical structures marking the dynamic space of the new Tholos World Plaza.

Schemi di connessione verticale tra le principali risorse naturali di Chicago (lago e verde) e i nuovi sviluppi infrastrutturali.

Diagrams of the vertical connections between Chicago’s main natural resources (lake and greenery) and new infrastructural developments.


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Schemi delle interazioni tra forze, movimenti e infrastrutture che generano piazze e nuovi spazi. In basso, skyline delle torri della Tholos World Plaza. Diagrams of the interactions between forces, movements and infrastructures generating plazas and new spaces. Below, skyline of the towers forming the Tholos World Plaza.

La nuova torre che si erge a simbolo della città e il sistema di interazioni orizzontali con l’esistente. The new tower symbolizing the city and its system of horizontal interactions with the existing layout.


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Schemi delle interazioni tra forze, movimenti e infrastrutture che generano piazze e nuovi spazi. In basso, skyline delle torri della Tholos World Plaza. Diagrams of the interactions between forces, movements and infrastructures generating plazas and new spaces. Below, skyline of the towers forming the Tholos World Plaza.

La nuova torre che si erge a simbolo della città e il sistema di interazioni orizzontali con l’esistente. The new tower symbolizing the city and its system of horizontal interactions with the existing layout.


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Rendering della nuova torreattrattore. Rendering of the new tower-attracter.

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Rendering della nuova torreattrattore. Rendering of the new tower-attracter.

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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Organismi urbani Urban Organisms Belgio/Messico/Islanda/Svizzera, progetti di abitazioni viventi Belgium/Mexico/Iceland/Switzerland, projects for living houses Progetti di Vincent Callebaut Projects by Vincent Callebaut

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Q

uando, tra qualche centinaio d’anni, ripenseremo a questa breve finestra del terzo millennio quali immagini ce la ricorderanno? Vincent Callebaut si candida proponendone quattro: un prototipo di ecoarchitettura che ibrida fonti di energia e abitazioni (Ecocoon), fibre ottiche e una nuova espressione grafica del territorio (Eco-Mic), un corpo alveolare organico (Neuronal Alien) e un processo di clonazione del territorio (Landscript). Le architetture del giovane progettista belga sono creature viventi che si alimentano di terra, sole, vento e acqua. Architetture auto-sostenibili in grado di funzionare con le energie pulite e produrre efficaci soluzioni contro l’inquinamento. Ecocoon è un eco-progetto di ibridazione tra centrale eolica e residenza urbana: una batteria autoricaricabile in cui l’energia eolica viene sfruttata per riciclare gli scarti dell’attività umana e rigenerare così i diversi elementi naturali come aria, acqua e terra. Eco-Mic (Centro Infografico Ecologico e Metropolitano) è una torre ecologica progettata per essere edificata direttamente nell’area del sito archeologico azteco di Tlatelolco a Città del Messico. Una sorta di interfaccia tra il passato rappresentato dalle vestigia della cultura messicana preispanica e coloniale e il futuro tracciato dalle nuove tecnologie di sostenibilità energetica (l’intero edificio si alimenta attraverso il fotovoltaico) e di comunicazione/informazione (i dati infografici sono esposti sulle facciate interne ed esterne dell’edificio attraverso un sistema di diffusione a fibre ottiche). Ideato per ridisegnare l’area dell’aeroporto di Vatnsmyri vicino a Reykjavik, Neuronal Alien ospiterà, integrandoli, poli di ricerca scientifico-tecnologici e spazi privati residenziali: un organismo futuristico in grado di crescere e svilupparsi assorbendo flora e fauna del territorio su cui sorge. In una zona periferica di Ginevra, attualmente destinata ad attività industriali, Landscript propone un progetto di densificazione urbana attraverso un processo di autoclonazione del territorio. Il paesaggio si autoriproduce: genera da se stesso i nuovi edifici che emergono dalla piana con la morfologia di secolari montagne alluvionali, ristabilendo così un equilibrio tra elementi antropici e biodiversità.

Non più scoperta, ma invenzione di nuovi paesaggi. Come dice lo stesso Callebaut, “Nell’attuale panorama artistico un architetto oggi è chiamato a seguire tattiche trasversali … In un mondo globale, il campionamento prospettico offre possibilità infinite di interferenze e apre nuovi piani di azione con le scienze, le arti, la letteratura. L’architetto diventa proprio come un disc-jockey delle informazioni planetarie costruendo lo spazio attraverso un mix e una riduzione delle diverse pratiche provenienti da campi estranei a quello dell’architettura … Le mie architetture abbandonano l’inerzia e sono ispirate dalla miracolosa perfezione del corpo umano e del suo funzionamento. Sono molto flessibili ed evolvono come veri organismi viventi, capaci di muoversi, modificarsi e svilupparsi in osmosi col proprio ambiente con una completa autonomia energetica. Questi progetti di trasformazione evolutiva dell’urbanità contemporanea si impregnano dell’ambiente per meglio adattarvisi grazie a nuove biotecnologie e a nuovi sistemi di telecomunicazione che offrono la massima flessibilità spaziale e temporale. L’architettura diviene un importante e complesso scambiatore di sensazioni variabili secondo le emozioni, i sentimenti, le atmosfere, gli usi, ma anche il clima, la geografia, le catene alimentari e tutti gli altri cicli della natura. Si tratta di creare luoghi di intermediazione sociale che penetrino nel territorio senza purificarlo e fare in modo che la gente diventi conscia dell’impatto che ha sullo sviluppo duraturo del pianeta. Le ambizioni strategiche di questa architettura ‘interattiva’ con il suo ambiente per uno sviluppo sostenibile sono l’auto-gestione, il riciclo di materiali organici, industriali e domestici, la configurazione in tempo reale, l’eco-morphing, la diversità biologica e genetica, e tutto ciò che conduce a geografie artificiali e a ecosistemi dinamici in grado di avviare nuovi cicli vitali. Per delineare una prima ricerca su questa architettura ‘vivente’, tutti i miei progetti recenti … utilizzano la ‘digitalizzazione’ non solo come un processo teorico di concezione che porti a un primo saggio di intelligenza artificiale in architettura, ma anche come uno strumento di costruzione utile a ritrascrivere le architetture virtuali nel mondo concreto e reale! … Anticipare. Esplorare. Toccare. Questa è la grande sfida di reinventare e migliorare giorno per giorno la vita dei cittadini del mondo!”.

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Ecocoon ingloba una centrale eolica e residenze urbane con l’obiettivo di ridurre il consumo di energia. I filamenti che si propagano dalla sua

superficie esterna sono dei catalizzatori di carbonio che generano acqua dal vapore e luce e calore dalle vibrazioni dell’aria.

Ecocoon encompasses a wind power station and urban residential facilities with a view to reducing energy consumption. The filaments

projecting out of its external surface are carbon catalysts generating water from vapor and light and heat from vibrations in the air.


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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Organismi urbani Urban Organisms Belgio/Messico/Islanda/Svizzera, progetti di abitazioni viventi Belgium/Mexico/Iceland/Switzerland, projects for living houses Progetti di Vincent Callebaut Projects by Vincent Callebaut

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uando, tra qualche centinaio d’anni, ripenseremo a questa breve finestra del terzo millennio quali immagini ce la ricorderanno? Vincent Callebaut si candida proponendone quattro: un prototipo di ecoarchitettura che ibrida fonti di energia e abitazioni (Ecocoon), fibre ottiche e una nuova espressione grafica del territorio (Eco-Mic), un corpo alveolare organico (Neuronal Alien) e un processo di clonazione del territorio (Landscript). Le architetture del giovane progettista belga sono creature viventi che si alimentano di terra, sole, vento e acqua. Architetture auto-sostenibili in grado di funzionare con le energie pulite e produrre efficaci soluzioni contro l’inquinamento. Ecocoon è un eco-progetto di ibridazione tra centrale eolica e residenza urbana: una batteria autoricaricabile in cui l’energia eolica viene sfruttata per riciclare gli scarti dell’attività umana e rigenerare così i diversi elementi naturali come aria, acqua e terra. Eco-Mic (Centro Infografico Ecologico e Metropolitano) è una torre ecologica progettata per essere edificata direttamente nell’area del sito archeologico azteco di Tlatelolco a Città del Messico. Una sorta di interfaccia tra il passato rappresentato dalle vestigia della cultura messicana preispanica e coloniale e il futuro tracciato dalle nuove tecnologie di sostenibilità energetica (l’intero edificio si alimenta attraverso il fotovoltaico) e di comunicazione/informazione (i dati infografici sono esposti sulle facciate interne ed esterne dell’edificio attraverso un sistema di diffusione a fibre ottiche). Ideato per ridisegnare l’area dell’aeroporto di Vatnsmyri vicino a Reykjavik, Neuronal Alien ospiterà, integrandoli, poli di ricerca scientifico-tecnologici e spazi privati residenziali: un organismo futuristico in grado di crescere e svilupparsi assorbendo flora e fauna del territorio su cui sorge. In una zona periferica di Ginevra, attualmente destinata ad attività industriali, Landscript propone un progetto di densificazione urbana attraverso un processo di autoclonazione del territorio. Il paesaggio si autoriproduce: genera da se stesso i nuovi edifici che emergono dalla piana con la morfologia di secolari montagne alluvionali, ristabilendo così un equilibrio tra elementi antropici e biodiversità.

Non più scoperta, ma invenzione di nuovi paesaggi. Come dice lo stesso Callebaut, “Nell’attuale panorama artistico un architetto oggi è chiamato a seguire tattiche trasversali … In un mondo globale, il campionamento prospettico offre possibilità infinite di interferenze e apre nuovi piani di azione con le scienze, le arti, la letteratura. L’architetto diventa proprio come un disc-jockey delle informazioni planetarie costruendo lo spazio attraverso un mix e una riduzione delle diverse pratiche provenienti da campi estranei a quello dell’architettura … Le mie architetture abbandonano l’inerzia e sono ispirate dalla miracolosa perfezione del corpo umano e del suo funzionamento. Sono molto flessibili ed evolvono come veri organismi viventi, capaci di muoversi, modificarsi e svilupparsi in osmosi col proprio ambiente con una completa autonomia energetica. Questi progetti di trasformazione evolutiva dell’urbanità contemporanea si impregnano dell’ambiente per meglio adattarvisi grazie a nuove biotecnologie e a nuovi sistemi di telecomunicazione che offrono la massima flessibilità spaziale e temporale. L’architettura diviene un importante e complesso scambiatore di sensazioni variabili secondo le emozioni, i sentimenti, le atmosfere, gli usi, ma anche il clima, la geografia, le catene alimentari e tutti gli altri cicli della natura. Si tratta di creare luoghi di intermediazione sociale che penetrino nel territorio senza purificarlo e fare in modo che la gente diventi conscia dell’impatto che ha sullo sviluppo duraturo del pianeta. Le ambizioni strategiche di questa architettura ‘interattiva’ con il suo ambiente per uno sviluppo sostenibile sono l’auto-gestione, il riciclo di materiali organici, industriali e domestici, la configurazione in tempo reale, l’eco-morphing, la diversità biologica e genetica, e tutto ciò che conduce a geografie artificiali e a ecosistemi dinamici in grado di avviare nuovi cicli vitali. Per delineare una prima ricerca su questa architettura ‘vivente’, tutti i miei progetti recenti … utilizzano la ‘digitalizzazione’ non solo come un processo teorico di concezione che porti a un primo saggio di intelligenza artificiale in architettura, ma anche come uno strumento di costruzione utile a ritrascrivere le architetture virtuali nel mondo concreto e reale! … Anticipare. Esplorare. Toccare. Questa è la grande sfida di reinventare e migliorare giorno per giorno la vita dei cittadini del mondo!”.

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Ecocoon ingloba una centrale eolica e residenze urbane con l’obiettivo di ridurre il consumo di energia. I filamenti che si propagano dalla sua

superficie esterna sono dei catalizzatori di carbonio che generano acqua dal vapore e luce e calore dalle vibrazioni dell’aria.

Ecocoon encompasses a wind power station and urban residential facilities with a view to reducing energy consumption. The filaments

projecting out of its external surface are carbon catalysts generating water from vapor and light and heat from vibrations in the air.


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Ecocoon può essere collocato in contesti fortemente inquinati per sensibilizzare le generazioni future al rispetto dell’ambiente. Ecocoon may be placed in highly polluted settings to make future generations aware about respecting the environment.

W

hen, in a few hundred years’ time, we think back to that short window of time known as the third millennium what images will we remember? Vincent Callebaut has suggested four of his own: a prototype of eco-architecture, which is a combination of energy sources and housing (Ecocoon), optic fibers and a new graphic expression of the land (Eco-Mic), an organic honeycomb-shaped body (Neuronal Alien) and a territorial cloning process (Landscript). The works of architecture created by this young Belgian designer are living creatures, which feed off the soil, sunshine, wind and water. Self-sustainable architecture capable of operating using clean energy and offering effective solutions against pollution. Ecocoon is an eco-project which is a hybrid between a wind-powered energy station and urban residence: a self-charging battery in which wind energy is used to recycle human waste and thereby regenerate various natural elements like air, water and soil. Eco-Mic (Ecological and Metropolitan Infographic Center) is an ecological tower designed to be built directly on the Tlatelolco Aztec archaeological site in Mexico. A sort of interface between the past repre-

sented by the relics of pre-Hispanic and colonial Mexican culture and the future traced by new technology for providing sustainable energy (the entire building is powered by photovoltaic energy) and communications/information (infographic data are displayed on the inside and outside facades of the building by means of an optic-fiber diffusion system). Designed to reconfigure the area around Vatnsmyri near Reykjavik, Neuronal Alien will hold a combination of scientific/technological research centers and private residential spaces: a futuristic organism capable of growing and developing as it absorbs the flora and fauna of the land where it stands. Located in the suburbs of Geneva, in a place currently used for industrial operations, Landscript is a project for urban densification based on a process for selfcloning the land. The land actually reproduces itself: generating new buildings from itself, which emerge from the ground in the morphological form of age-old alluvial mountains, thereby re-establishing the balance between anthropic features and biodiversity. This is the invention rather than the discovery of new landscapes. As Callebaut himself says, “As in the con-

temporary art universe, a young architect must nowadays follow transversal tactics … In a global world, the prospective sampling offers infinite possibilities of interferences and opens new action plans with Sciences, Arts and Literature. The architect becomes a true disc jockey of the planetary information building the space by mixing and reducing the practices coming from everywhere else outside the field of architecture … My architectures leave actually the inertia and are inspired by the miraculous perfection of the human body and its functioning. They are very flexible and evolve like real living organisms able to move, to change and to develop themselves in osmosis with their environment and in entire energetic autonomy. These projects of evolutionary transformation of contemporary urbanity become impregnated with the environment in order to better adapt themselves there thanks to new biotechnologies and new telecommunication systems which offer a maximal spacial and temporal flexibility. The architecture becomes an important and complex exchange of variable sensations according to emotions, feelings, atmospheres, uses, but also to climates, geographies, food chains and all other cycles

of the nature. When people are aware of the impact they have on the lasting development of their own planet, it deals with creating first intermediary places of sociability which grasp territories without purifying them. The strategic ambitions of this ‘interactive’ architecture, that means in total interaction with its environment for a sustainable development, are the self management, the recycling of organic, industrial and domestic material, the configuration in real time, the eco-morphing, the biological and genetical diversity, everything leading to artificial geographies and dynamical ecosystems beginning new life cycles. In order to outline the first research of this ‘living’ architecture, all the recent projects … use the ‘digitalization’ not only like a theoric process of conception leading to a first essay of artificial intelligence in architecture, but also like a useful tool of construction to retranscribe the virtual architectures in the real and concrete world! ... To anticipate. To prospect. To touch. This is the great challenge to reinvent and to implement day by day the life of the worldwide citizen!”

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Ecocoon può essere collocato in contesti fortemente inquinati per sensibilizzare le generazioni future al rispetto dell’ambiente. Ecocoon may be placed in highly polluted settings to make future generations aware about respecting the environment.

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hen, in a few hundred years’ time, we think back to that short window of time known as the third millennium what images will we remember? Vincent Callebaut has suggested four of his own: a prototype of eco-architecture, which is a combination of energy sources and housing (Ecocoon), optic fibers and a new graphic expression of the land (Eco-Mic), an organic honeycomb-shaped body (Neuronal Alien) and a territorial cloning process (Landscript). The works of architecture created by this young Belgian designer are living creatures, which feed off the soil, sunshine, wind and water. Self-sustainable architecture capable of operating using clean energy and offering effective solutions against pollution. Ecocoon is an eco-project which is a hybrid between a wind-powered energy station and urban residence: a self-charging battery in which wind energy is used to recycle human waste and thereby regenerate various natural elements like air, water and soil. Eco-Mic (Ecological and Metropolitan Infographic Center) is an ecological tower designed to be built directly on the Tlatelolco Aztec archaeological site in Mexico. A sort of interface between the past repre-

sented by the relics of pre-Hispanic and colonial Mexican culture and the future traced by new technology for providing sustainable energy (the entire building is powered by photovoltaic energy) and communications/information (infographic data are displayed on the inside and outside facades of the building by means of an optic-fiber diffusion system). Designed to reconfigure the area around Vatnsmyri near Reykjavik, Neuronal Alien will hold a combination of scientific/technological research centers and private residential spaces: a futuristic organism capable of growing and developing as it absorbs the flora and fauna of the land where it stands. Located in the suburbs of Geneva, in a place currently used for industrial operations, Landscript is a project for urban densification based on a process for selfcloning the land. The land actually reproduces itself: generating new buildings from itself, which emerge from the ground in the morphological form of age-old alluvial mountains, thereby re-establishing the balance between anthropic features and biodiversity. This is the invention rather than the discovery of new landscapes. As Callebaut himself says, “As in the con-

temporary art universe, a young architect must nowadays follow transversal tactics … In a global world, the prospective sampling offers infinite possibilities of interferences and opens new action plans with Sciences, Arts and Literature. The architect becomes a true disc jockey of the planetary information building the space by mixing and reducing the practices coming from everywhere else outside the field of architecture … My architectures leave actually the inertia and are inspired by the miraculous perfection of the human body and its functioning. They are very flexible and evolve like real living organisms able to move, to change and to develop themselves in osmosis with their environment and in entire energetic autonomy. These projects of evolutionary transformation of contemporary urbanity become impregnated with the environment in order to better adapt themselves there thanks to new biotechnologies and new telecommunication systems which offer a maximal spacial and temporal flexibility. The architecture becomes an important and complex exchange of variable sensations according to emotions, feelings, atmospheres, uses, but also to climates, geographies, food chains and all other cycles

of the nature. When people are aware of the impact they have on the lasting development of their own planet, it deals with creating first intermediary places of sociability which grasp territories without purifying them. The strategic ambitions of this ‘interactive’ architecture, that means in total interaction with its environment for a sustainable development, are the self management, the recycling of organic, industrial and domestic material, the configuration in real time, the eco-morphing, the biological and genetical diversity, everything leading to artificial geographies and dynamical ecosystems beginning new life cycles. In order to outline the first research of this ‘living’ architecture, all the recent projects … use the ‘digitalization’ not only like a theoric process of conception leading to a first essay of artificial intelligence in architecture, but also like a useful tool of construction to retranscribe the virtual architectures in the real and concrete world! ... To anticipate. To prospect. To touch. This is the great challenge to reinvent and to implement day by day the life of the worldwide citizen!”

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Eco-Mic, Centro Infografico Ecologico e Metropolitano progettato per il sito archeologico della Piazza delle Tre Culture in Messico, riunisce spazi di

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esposizione in un paesaggio verticale contemporaneo mantenendo la relazione con le testimonianze del passato.

Eco-Mic, Ecological and Metropolitan Infographic Center designed for the archaeological site in “The Place of Three Cultures� in Mexico, combines exhibition

spaces in a contemporary vertical landscape maintaining interaction with relics from the past.

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Eco-Mic, Centro Infografico Ecologico e Metropolitano progettato per il sito archeologico della Piazza delle Tre Culture in Messico, riunisce spazi di

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esposizione in un paesaggio verticale contemporaneo mantenendo la relazione con le testimonianze del passato.

Eco-Mic, Ecological and Metropolitan Infographic Center designed for the archaeological site in “The Place of Three Cultures� in Mexico, combines exhibition

spaces in a contemporary vertical landscape maintaining interaction with relics from the past.

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Neuronal Alien è un parco scientifico futuristico proposto per lo sviluppo dell’area di Vatnsmyri, vicino a Reykjavik. Attualmente questa zona è infatti occupata da un aeroporto che dovrebbe essere riposizionato nel 2024.

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Neuronal Alien is a futuristic science park proposed for developing the Vatnsmyri near Reykjavik area. This area is currently taken up by an airport which is planned to be repositioned in 2024.

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Neuronal Alien è un parco scientifico futuristico proposto per lo sviluppo dell’area di Vatnsmyri, vicino a Reykjavik. Attualmente questa zona è infatti occupata da un aeroporto che dovrebbe essere riposizionato nel 2024.

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Neuronal Alien is a futuristic science park proposed for developing the Vatnsmyri near Reykjavik area. This area is currently taken up by an airport which is planned to be repositioned in 2024.

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Neuronal Alien si sviluppa come un organismo metabolico e poroso abitabile che offre un mix di spazi pubblici e privati. Nelle sue principali arterie stradali tutte le funzioni del parco scientifico si confondono con la terra, il cielo e lo spazio.

Neuronal Alien looks like a porous, metabolic organism for inhabiting, which offers a mixture of public and private spaces. All the science park’s main functions are set along its main thoroughfares blend in with the land, sky and space.


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Neuronal Alien si sviluppa come un organismo metabolico e poroso abitabile che offre un mix di spazi pubblici e privati. Nelle sue principali arterie stradali tutte le funzioni del parco scientifico si confondono con la terra, il cielo e lo spazio.

Neuronal Alien looks like a porous, metabolic organism for inhabiting, which offers a mixture of public and private spaces. All the science park’s main functions are set along its main thoroughfares blend in with the land, sky and space.


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Landscript propone uno scenario evolutivo basato su un nuovo fenomeno di auto-clonazione del territorio. Il progetto è pensato per rigenerare un’area di 220 ettari vicino a Ginevra e finora occupata esclusivamente da

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attività industriali. Landscript si autocostruisce sulla città, i suoi edifici dalle sagome organiche si fondono col paesaggio naturale, sono autosufficienti dal punto di vista energetico, riciclano i propri rifiuti e le acque reflue.

Landscript proposes an evolution scenario based on the latest phenomenon of self cloning the land. The project is designed to regenerate a 220hectare plot of land near Geneva, until now taken up exclusively by

industrial operations. Landscript self-constructs around the city; its organic-shaped buildings blend into the natural landscape and are self-sufficient from an energy viewpoint, recycling its own waste and used water.

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Landscript propone uno scenario evolutivo basato su un nuovo fenomeno di auto-clonazione del territorio. Il progetto è pensato per rigenerare un’area di 220 ettari vicino a Ginevra e finora occupata esclusivamente da

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attività industriali. Landscript si autocostruisce sulla città, i suoi edifici dalle sagome organiche si fondono col paesaggio naturale, sono autosufficienti dal punto di vista energetico, riciclano i propri rifiuti e le acque reflue.

Landscript proposes an evolution scenario based on the latest phenomenon of self cloning the land. The project is designed to regenerate a 220hectare plot of land near Geneva, until now taken up exclusively by

industrial operations. Landscript self-constructs around the city; its organic-shaped buildings blend into the natural landscape and are self-sufficient from an energy viewpoint, recycling its own waste and used water.

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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Il collezionista di idee The Ideas Collector Parigi, concorso internazionale Pavillon Seroussi Paris, the international Seroussi Pavilion competition Progetti di autori vari Projects by various architects

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NUOVE UTOPIE NEW UTOPIAS

Il collezionista di idee The Ideas Collector Parigi, concorso internazionale Pavillon Seroussi Paris, the international Seroussi Pavilion competition Progetti di autori vari Projects by various architects

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Xefirotarch (Usa) sviluppa il tema dell’edonismo e della sensualità partendo da forme generate dal calcolo. Xefirotarch (USA) develops the theme of hedonism and sensuality based on forms generated through computation.

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a città e gli stili di vita si sono trasformati. È questo lo spirito di ricerca da cui è scaturito il concorso del Pavillon Seroussi per far emergere e alimentare un dibattito contro l’indifferenza. Tutto inizia con una collezionista parigina, Nathalie Seroussi, che decide di progettare un padiglione destinato a ospitare la sua collezione d’arte contemporanea e indice un concorso a inviti con la partecipazione degli studi Biothing, EZCT, Gramazio & Kohler, DORA, IJP, Xefirotarch, poi risultato in una mostra alla Maison Rouge – Fondation Antoine de Galbert nell’estate 2007. Pavillon Seroussi ha l’ambizione di ricentrare il dibattito architettonico sul tema degli strumenti a supporto della moderna professione di architetto. Più che uno stile, gli architetti invitati al concorso condividono un contesto operativo basato sugli stessi presupposti tecnici: l’ampio utilizzo delle logiche computeristiche (software avanzati e linguaggi di programmazione). Principale attore del nuovo sistema globale di produzione ne risulta dunque il calcolo informatico, quello stesso calcolo che Elias Guenoun, commissario del concorso, ritiene che organizzi la società a tutti i livelli e in tutte le sue dimensioni (spaziali e temporali), fornendo il modello di un pensiero aperto, capace di integrare in un’unica rappresentazione l’insieme delle modalità del sistema. “La complessità dei fenomeni – spiega Guenoun – è così ricondotta a una stessa espressione (i linguaggi di programmazione), articolata e poi differenziata attraverso un’amplissima varietà di forme. Inoltre, se da un lato l’argomento della riduzione dei fattori a un codice omogeneo e coerente era già stato oggetto di commenti attraverso l’idea di ‘generale traducibilità’, quello della indeterminazione delle proiezioni nella realtà fisica restava ancora da sviluppare. E proprio di ciò si è occupato il tema di progetto del concorso”. Le differenze profonde tra i sei progetti presentati hanno permesso di illustrare e sperimentare una eterogeneità di polimorfismi. Mentre il progetto dell’agenzia americana Xefirotarch ha portato avanti il discorso di una resa ipersensuale dello spazio architettonico, altri, come quello della francese EZCT, hanno sovrapposto l’immagine di una natura apparentemente libera all’immagine di una pratica rigorosa delle logiche computeristiche. IJP, invece, riprende dalla cultura architettonica del passato il concetto di periodicità. Se il grande mercato dell’architettura manifesta già i segni di un vivo interesse per queste nuove prassi operative, Elias Guenoun chiude con un monito: “La responsabilità delle grandi agenzie e delle grandi istituzioni a questo riguardo è immensa e deve essere giudicata in modo conseguente. Riconducendo l’intreccio di presupposti e la posta in gioco essenziale della nostra epoca a un formalismo compiacente, riproponendo le vecchie strategie del sistema accademico, queste ultime evitano e impediscono di comprendere la realtà che del resto oggi si impone con evidenza. A tutto questo è necessario opporre un pensiero del tutto differente. L’interesse verso ciò che alcuni hanno definito la ‘svolta computazionale’ è altrove: non va cercato in una fantasmagoria tecnologica, né in una qualunque strategia di potere, bensì in una prospettiva di comprensione del mondo così come si sta riformulando, con le sue forme nuove e le sue nuove regole e questo, senza idealismi e senza cinismo”.

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he city and lifestyles have changed. That is the spirit in which this competition to design the Seroussi Pavilion sets out to draw attention to and encourage debate against indifference. Everything began when a Parisian collector, Nathalie Seroussi, decided to design a pavilion for holding her collection of contemporary art and organized an invitational competition involving the Biothing, EZCT, Gramazio & Kohler, DORA, IJP and Xefirotarch firms, which eventually resulted in an exhibition which went on display at Maison Rouge – Foundation Antoine de Galbert in summer 2007. The Seroussi Pavilion sets out to refocus architectural debate on the issue of the various tools and means of supporting the modern-day profession of the architect. More than just a style, the architects invited to take part in the competition shared the same operating context working on the same technical assumptions: extensive use of computer logic (cutting-edge software and programming languages). Computer computation is the main player in this new global production system, the same kind of computation which Elias Guenoun, the competition administrator, believes runs through society at all levels and in every dimension (spatial and temporal), providing a model of open-ended thinking capable of integrating all the different aspects of the system into one single representation. “The complexity of the phenomena—so Guenoun explains—is thereby taken back to one single expression (programming languages), elaborated and then differentiated by means of an extremely wide range of forms. Moreover, while on one hand the question of reducing the various factors to one single, coherent code had already been broached through the idea of ‘general translatability’, the question of the indeterminacy of the projections in physical reality still needed to be developed. This is exactly what the competition project was all about.” The profound differences between the six projects entered made it possible to illustrate and experiment with a wide variety of polymorphisms. While the project entered by the American agency Xefirotarch expanded upon the idea of a hyper-sensual rendering of architectural space, others, such as the French firm EZCT, superimposed an image of an apparently free nature on the image of a rigorous rendering of computer logic. On the other hand, IJP draws on the notion of periodicity from the historical architectural culture. Although the extensive market for architecture is already showing signs of a lively interest in these new operating means, Elias Guenoun closes with a warning: “Large agencies and major institutions have an immense responsibility in this respect and must be judged accordingly. Reducing the weave of assumptions and basic wagers at stakes in our times to smug formalism and the merely re-proposal of the same old strategies associated with the academic system prevents us from understanding reality, which, moreover, is now imposing itself with great force. All this needs to be opposed by a totally different kind of thinking. The interesting side of what some people have described as the ‘computer turn’ lies elsewhere: it should not be looked for in some phantasmagoric type of technology or just any power strategy, but rather with a view to understanding the world as it is being reshaped with its new forms and new rules, and this needs to be done in a non-cynical and non-idealistic way.”

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Xefirotarch (Usa) sviluppa il tema dell’edonismo e della sensualità partendo da forme generate dal calcolo. Xefirotarch (USA) develops the theme of hedonism and sensuality based on forms generated through computation.

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a città e gli stili di vita si sono trasformati. È questo lo spirito di ricerca da cui è scaturito il concorso del Pavillon Seroussi per far emergere e alimentare un dibattito contro l’indifferenza. Tutto inizia con una collezionista parigina, Nathalie Seroussi, che decide di progettare un padiglione destinato a ospitare la sua collezione d’arte contemporanea e indice un concorso a inviti con la partecipazione degli studi Biothing, EZCT, Gramazio & Kohler, DORA, IJP, Xefirotarch, poi risultato in una mostra alla Maison Rouge – Fondation Antoine de Galbert nell’estate 2007. Pavillon Seroussi ha l’ambizione di ricentrare il dibattito architettonico sul tema degli strumenti a supporto della moderna professione di architetto. Più che uno stile, gli architetti invitati al concorso condividono un contesto operativo basato sugli stessi presupposti tecnici: l’ampio utilizzo delle logiche computeristiche (software avanzati e linguaggi di programmazione). Principale attore del nuovo sistema globale di produzione ne risulta dunque il calcolo informatico, quello stesso calcolo che Elias Guenoun, commissario del concorso, ritiene che organizzi la società a tutti i livelli e in tutte le sue dimensioni (spaziali e temporali), fornendo il modello di un pensiero aperto, capace di integrare in un’unica rappresentazione l’insieme delle modalità del sistema. “La complessità dei fenomeni – spiega Guenoun – è così ricondotta a una stessa espressione (i linguaggi di programmazione), articolata e poi differenziata attraverso un’amplissima varietà di forme. Inoltre, se da un lato l’argomento della riduzione dei fattori a un codice omogeneo e coerente era già stato oggetto di commenti attraverso l’idea di ‘generale traducibilità’, quello della indeterminazione delle proiezioni nella realtà fisica restava ancora da sviluppare. E proprio di ciò si è occupato il tema di progetto del concorso”. Le differenze profonde tra i sei progetti presentati hanno permesso di illustrare e sperimentare una eterogeneità di polimorfismi. Mentre il progetto dell’agenzia americana Xefirotarch ha portato avanti il discorso di una resa ipersensuale dello spazio architettonico, altri, come quello della francese EZCT, hanno sovrapposto l’immagine di una natura apparentemente libera all’immagine di una pratica rigorosa delle logiche computeristiche. IJP, invece, riprende dalla cultura architettonica del passato il concetto di periodicità. Se il grande mercato dell’architettura manifesta già i segni di un vivo interesse per queste nuove prassi operative, Elias Guenoun chiude con un monito: “La responsabilità delle grandi agenzie e delle grandi istituzioni a questo riguardo è immensa e deve essere giudicata in modo conseguente. Riconducendo l’intreccio di presupposti e la posta in gioco essenziale della nostra epoca a un formalismo compiacente, riproponendo le vecchie strategie del sistema accademico, queste ultime evitano e impediscono di comprendere la realtà che del resto oggi si impone con evidenza. A tutto questo è necessario opporre un pensiero del tutto differente. L’interesse verso ciò che alcuni hanno definito la ‘svolta computazionale’ è altrove: non va cercato in una fantasmagoria tecnologica, né in una qualunque strategia di potere, bensì in una prospettiva di comprensione del mondo così come si sta riformulando, con le sue forme nuove e le sue nuove regole e questo, senza idealismi e senza cinismo”.

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he city and lifestyles have changed. That is the spirit in which this competition to design the Seroussi Pavilion sets out to draw attention to and encourage debate against indifference. Everything began when a Parisian collector, Nathalie Seroussi, decided to design a pavilion for holding her collection of contemporary art and organized an invitational competition involving the Biothing, EZCT, Gramazio & Kohler, DORA, IJP and Xefirotarch firms, which eventually resulted in an exhibition which went on display at Maison Rouge – Foundation Antoine de Galbert in summer 2007. The Seroussi Pavilion sets out to refocus architectural debate on the issue of the various tools and means of supporting the modern-day profession of the architect. More than just a style, the architects invited to take part in the competition shared the same operating context working on the same technical assumptions: extensive use of computer logic (cutting-edge software and programming languages). Computer computation is the main player in this new global production system, the same kind of computation which Elias Guenoun, the competition administrator, believes runs through society at all levels and in every dimension (spatial and temporal), providing a model of open-ended thinking capable of integrating all the different aspects of the system into one single representation. “The complexity of the phenomena—so Guenoun explains—is thereby taken back to one single expression (programming languages), elaborated and then differentiated by means of an extremely wide range of forms. Moreover, while on one hand the question of reducing the various factors to one single, coherent code had already been broached through the idea of ‘general translatability’, the question of the indeterminacy of the projections in physical reality still needed to be developed. This is exactly what the competition project was all about.” The profound differences between the six projects entered made it possible to illustrate and experiment with a wide variety of polymorphisms. While the project entered by the American agency Xefirotarch expanded upon the idea of a hyper-sensual rendering of architectural space, others, such as the French firm EZCT, superimposed an image of an apparently free nature on the image of a rigorous rendering of computer logic. On the other hand, IJP draws on the notion of periodicity from the historical architectural culture. Although the extensive market for architecture is already showing signs of a lively interest in these new operating means, Elias Guenoun closes with a warning: “Large agencies and major institutions have an immense responsibility in this respect and must be judged accordingly. Reducing the weave of assumptions and basic wagers at stakes in our times to smug formalism and the merely re-proposal of the same old strategies associated with the academic system prevents us from understanding reality, which, moreover, is now imposing itself with great force. All this needs to be opposed by a totally different kind of thinking. The interesting side of what some people have described as the ‘computer turn’ lies elsewhere: it should not be looked for in some phantasmagoric type of technology or just any power strategy, but rather with a view to understanding the world as it is being reshaped with its new forms and new rules, and this needs to be done in a non-cynical and non-idealistic way.”

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Il progetto di IJP Corporation George L. Legendre (Francia, Gran Bretagna) prende avvio dalla nozione matematica di periodicitĂ per coordinare nello spazio architettonico una miriade di variazioni e declinazioni.

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The IJP Corporation George L. Legendre (France, Great Britain) project derives from the mathematical notion of periodicity to coordinate a myriad of variations and forms in space.

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Il progetto di IJP Corporation George L. Legendre (Francia, Gran Bretagna) prende avvio dalla nozione matematica di periodicitĂ per coordinare nello spazio architettonico una miriade di variazioni e declinazioni.

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The IJP Corporation George L. Legendre (France, Great Britain) project derives from the mathematical notion of periodicity to coordinate a myriad of variations and forms in space.

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Il progetto di EZCT (Francia) fa ricorso a procedure computazionali per controllare le simulazioni e le geometrie complesse della struttura e i fenomeni luminosi.

The EZCT (France) project resorts to computational procedures to control simulations and complex geometric patterns of structure and lighting phenomena.


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Il progetto di EZCT (Francia) fa ricorso a procedure computazionali per controllare le simulazioni e le geometrie complesse della struttura e i fenomeni luminosi.

The EZCT (France) project resorts to computational procedures to control simulations and complex geometric patterns of structure and lighting phenomena.


News

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Il Migliore The Natural Passi nel futuro Stepping into the future Crescere nel deserto Growing in the desert Telefoni bianchi White telephones A regola d’Arte The rule of Art

Il Migliore The Natural

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.lab, il nuovo Centro Ricerca & Innovazione Italcementi ha vinto l’European GreenBuilding Award 2010, come miglior nuovo edificio d’Italia per l’efficienza energetica nella categoria “Best New Building”. L’European GreenBuilding Award si inserisce nell’ambito del GreenBuilding Program, progetto avviato nel 2004 dalla Commissione europea con lo scopo di stimolare l’efficienza energetica e promuovere l’integrazione delle energie rinnovabili negli edifici non-residenziali. Il nuovo Centro Ricerca Italcementi, progettato dall’architetto americano Richard Meier, si sviluppa su uno

spazio di 11.000 mq, di cui 7.500 mq adibiti esclusivamente ai laboratori, e ha l’ambizione di rispondere ai requisiti, anche i più stringenti, in materia di risparmio energetico e di qualità innovativa della progettazione. Sono impiegate in modo significativo energie alternative e materiali sostenibili. I pannelli solari e quelli fotovoltaici – che produrranno oltre 54.560 kWh, per un risparmio complessivo di 12,7 tonnellate di combustibili fossili ogni anno – ridurranno il consumo delle energie tradizionali e quindi l’emissione di CO2 in atmosfera.


Un ulteriore contributo finalizzato a ridurre l’emissione di CO2, sarà dato dall’impianto geotermico che sfrutta il calore accumulato nel suolo e nel sottosuolo. “Il premio assegnato a i.lab riconosce le ottime prestazioni energetiche di questo edificio”, spiega Lorenzo Pagliano, direttore di eERG, il gruppo di ricerca presso il Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano che rappresenta il punto di riferimento del GreenBuilding Program in Italia. “Il Centro Ricerca Italcementi sarà in grado di ottenere un risparmio di energia fino al 60% rispetto

In queste pagine, immagini del cantiere i.lab che ha accolto delegazioni del mondo istituzionale e industriale italiano ed europeo. In basso da sinistra, il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, Antonio Tajani (vicepresidente della Commissione europea) con Emma Marcegaglia (presidente di Confindustria), Maurizio Sacconi (ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali), accompagnati in visita dal consigliere delegato Italcementi Carlo Pesenti.

These pages, pictures of the i.lab building site hosting government and business representatives from Italy and Europe. Bottom from left, the Italian Environment Minister Stefania Prestigiacomo, Antonio Tajani (Vice-President of the European Commission) with Emma Marcegaglia (President of Confindustria), Maurizio Sacconi (Italian Minister of Labor, Health and Social Policies), accompanied by Italcementi CEO Carlo Pesenti.

al riferimento della normativa in vigore, grazie sia alle modalità di costruzione e ai materiali dell’involucro, sia all’utilizzo di fonti rinnovabili. Un altro aspetto molto interessante di i.lab è quello di essere un edificio low-energy e allo stesso tempo artistico, con caratteristiche architettoniche di alta qualità”. Per il rivestimento di i.lab sarà impiegato TX Active®, il cemento “mangia-smog” di Italcementi Group utilizzato per la prima volta proprio da Meier in occasione della realizzazione della Chiesa del Giubileo a Roma e oggi applicato su nuovi edifici e su numerose realizzazioni urbane per le sue riconosciute proprietà disinquinanti e autopulenti. La struttura, che ospiterà oltre un centinaio di dipendenti e ricercatori del Gruppo impegnati quotidianamente nello sviluppo di materiali da costruzione innovativi, sarà operativa nel 2011.

of laboratories, and aims to comply with the most stringent energy-saving requirements and innovative design principles. The building makes ample use of alternative energy and eco-sustainable materials. The installation of solar and photovoltaic panels, capable of generating more than 54,560 kWh a year, for a total annual saving of 12.7 metric tons of fossil fuels, will cut consumption of conventional energy and reduce CO2 emissions. A further reduction in CO2 emissions will come from the geothermal plant, which exploits heat stored in the soil and subsoil. “The award given to i.lab recognizes the building’s excellent energy performance,” explained Lorenzo Pagliano, Director of the eERG research team at Milan Polytechnic’s Energy Department, the cornerstone of the GreenBuilding Program in Italy. “Italcementi’s Research Center will be in a position to cut its energy consumption levels by up to 60 per cent with respect to the current statutory requirement, thanks to the construction methods and materials used for the building and to the use of renewable energy sources. Another very interesting aspect is that i.lab is a low-energy and, equally, an artistic building featuring high-quality architectural elements.” i.lab will be coated with Italcementi Group’s TX Active® “smog-eating” cement, first used for the Jubilee Church in Rome, another Meier design, and today a material of choice for new buildings and countless urban projects on account of its proven depolluting and self-cleaning properties. The center will house more than a hundred Italcementi Group researchers and employees involved in the development of innovative construction materials. It will open in 2011.

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.lab, Italcementi’s new Research & Innovation Center, has won the 2010 European GreenBuilding Award in the “Best New Building” category, as the most energy-efficient new building in Italy. The European GreenBuilding Award is part of the GreenBuilding Program, a project set up by the European Commission in 2004 to promote energy efficiency and implementation of renewable energy sources in non-residential buildings. Designed by American architect Richard Meier, the new Italcementi Research Center covers a surface area of 11,000 m2, including 7,500 m2

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Passi nel futuro Stepping into the future

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ltre 50 tra banche, istituti di ricerca, società di brokeraggio hanno preso parte all’Investor Event, tradizionale incontro di Italcementi Group con la comunità economico-finanziaria internazionale, tenutosi in Marocco l’autunno scorso. La due giorni di lavoro ha anche offerto la possibilità a Ciments du Maroc, filiale marocchina del Gruppo, di presentare la nuova cementeria di Ait Baha che rappresenterà una delle strutture industriali più efficienti e sostenibili nel settore cementiero. Nell’incantevole scenario di Agadir, il top management di Italcementi Group ha illustrato le linee guida dello sviluppo nel medio-lungo periodo, con particolare attenzione al ruolo sempre più importante dei prodotti innovativi. Nonostante le persistenti incertezze dell’attuale congiuntura economica, il Gruppo ha confermato il proprio impegno da un lato a rafforzare la presenza nelle aree di copertura dei mercati emergenti e dall’altro a incrementare l’efficienza del proprio sistema produttivo nei paesi industrializzati. In base a queste linee industriali, stimando per i prossimi cinque anni un flusso di investimenti di circa 3 miliardi di euro e sulla base di un mantenimento del cash flow operativo in linea con quello del passato quinquennio, il Gruppo Italcementi si pone l’obiettivo di riportare la propria profittabilità in linea con i significativi margini

segnati nel periodo precedente la difficile crisi economica mondiale, grazie a una struttura industriale rafforzata e a un portafoglio paesi più solido ed equilibrato. Tra i prossimi passi del Gruppo, l’avvio dei lavori per il revamping della cementeria di Devnya in Bulgaria, che grazie all’introduzione delle Best Available Technologies, garantirà le migliori performances industriali e ambientali e positivi riflessi sui margini economici. La nuova cementeria di Devnya incrementerà la capacità produttiva annua di cemento a circa 3 milioni di tonnellate, risultando così tra i più rilevanti impianti del Gruppo. A fianco di questa operazione è stato annunciato un accordo in Cina, nella provincia dello Shaanxi dove già opera la filiale Fuping Cement, per l’acquisto di una iniziale partecipazione di minoranza in Shifeng Cement, società che dispone di una moderna linea di produzione con una capacità di 2 milioni di tonnellate di cemento/anno. Nell’area dei paesi industrializzati, uno dei prossimi passi di intervento riguarderà l’Italia, dove sono in fase di definizione i processi autorizzativi riguardanti il revamping di impianti nel nord del paese. Nelle linee guida di sviluppo del Gruppo si conferma la forte attenzione alla gestione del cash flow e alle misure per il controllo del

fabbisogno di capitale circolante in modo da garantire una posizione finanziaria sostenibile e coerente con gli standard di “investment grade” rating. In questo contesto, nel corso dell’incontro con la comunità finanziaria, è stato annunciato che la controllata Italcementi Finance ha chiuso con un pool di 16 istituti bancari internazionali un accordo per la concessione di una linea di credito revolving di durata quinquennale per un totale di 920 milioni di euro. Questa operazione, che rifinanzia in anticipo linee disponibili in scadenza tra cui l’analoga linea sindacata di Ciments Français (700 milioni di euro al 2012), rappresenta un nuovo e importante passo nel progetto di rafforzamento organizzativo della gestione finanziaria del Gruppo, dove Italcementi Finance opera come strumento centralizzato di tesoreria. L’operazione ha permesso di allungare la vita media delle linee di backup non utilizzate dal sistema bancario da 2,5 a 4 anni, rafforzando quindi significativamente la solidità delle riserve di liquidità del Gruppo. Il “club deal” ha visto intervenire come bookrunners Bank of America Securities, BNP Paribas, Crédit Agricole CIB, Intesa Sanpaolo, Natixis, Société Générale CIB, The Royal Bank of Scotland e UniCredit Corporate Banking.

Il tavolo dei relatori Italcementi. Da sinistra: Carlo Bianchini, direttore amministrazione e controllo; Carlo Pesenti, consigliere delegato; Giovanni Ferrario, direttore generale; Giovanni Maggiora, direttore finanza. From left at Italcementi speakers’ table: Carlo Bianchini, Administration and Control Director; Carlo Pesenti, Chief Executive Officer; Giovanni Ferrario, Chief Operating Officer; Giovanni Maggiora, Chief Financial Officer.

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epresentatives from more than 50 banks, research institutes and brokerage firms attended the Italcementi Group Investor Event, the usual meeting with the international economic/financial community, held in Morocco last autumn. The two days of meetings were also an opportunity for Ciments du Maroc, the Group’s Moroccan subsidiary, to present its new Ait Baha cement plant. The facility will be one of the cement industry’s most efficient and eco-sustainable plants. In the beautiful setting of Agadir, Italcementi top management illustrated the Group’s medium/long-term growth guidelines, where innovative products will play an increasingly important role. Despite the continuing uncertainties of the economic climate, the Group confirmed its commitment to expanding its position in emerging countries and boosting the efficiency of its production system in industrialized nations. Given this industrial focus, with estimated investment flows of approximately 3 billion euro for the next five years and assuming operating cash flow in line with the past five years, the Italcementi Group intends to realign profitability with the significant margins reported in the period prior to the difficult world economic crisis, thanks to a stronger industrial organization and a more solid, better balanced country portfolio. The Group’s next steps will include the revamping of the Devnya cement plant in Bulgaria, where the introduction of Best Available Technologies will guarantee excellent industrial and environmental performance, with positive repercussions for economic margins. The new Devnya plant will raise its annual cement production capacity to approximately 3 million metric tons, becoming one of the Group’s most important facilities. Italcementi also announced an agreement in China’s Shaanxi province, where it already operates through the Fuping Cement subsidiary, to purchase an initial minority shareholding in the Shifeng Cement company, whose modern production line has an annual capacity of 2 million metric tons of cement. In the industrialized nations, one of the Group’s next moves will be in Italy, where authorization procedures for the revamping of the north Italian cement plants are underway. The growth guidelines confirm the Group’s close attention to cash flow management and measures to control the working capital requirement in order to guarantee a sustainable


financial position in line with the standards for an “investment grade” rating. In this connection, during the meeting with the financial community, Italcementi announced that the Italcementi Finance subsidiary had signed an agreement with a pool of 16 international banks granting a

five-year revolving credit facility for a total amount of 920 million euro. This transaction, which provides early refinancing of expiring credit lines including the Ciments Français syndicated line of credit (700 million euro to 2012), is an important new step in plans to tighten the

organization of Group financial management, with Italcementi Finance acting as a centralized treasury unit. The new financing agreement has lengthened the average term of the backup lines not used by the banking system from 2.5 years to 4 years, thereby considerably strengthening

the solidity of the Group’s liquidity reserves. The bookrunners in the club deal are Bank of America Securities, BNP Paribas, Crédit Agricole CIB, Intesa Sanpaolo, Natixis, Société Générale CIB, The Royal Bank of Scotland and UniCredit Corporate Banking.

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Crescere nel deserto Growing in the desert

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a nuova cementeria di Ait Baha in Marocco nasce con l’obiettivo di rispondere a una domanda in forte crescita: negli ultimi anni, il consumo di cemento della regione di Agadir ha registrato un aumento significativo a fronte di una robusta politica di edilizia sociale e di interventi infrastrutturali di base accompagnati anche da un rilancio degli investimenti nel settore turistico. Questa tendenza positiva dei consumi porterà così dal livello attuale di 350 Kg/abitante al livello medio della maggior parte dei paesi del bacino del Mediterraneo tra i 500 e i 600 Kg/abitante. La cementeria di Agadir, avviata nel 1952 e unico impianto nel sud del Marocco, ha raggiunto la saturazione della propria capacità produttiva e, tenuto conto della nuova vocazione turistica della zona, Ciments du Maroc (Italcementi Group) ha scelto di incrementare la produzione trasferendola su un nuovo impianto e procedendo alla chiusura dell’attuale. La messa in servizio della cementeria di Ait Baha, situata a 50 km da Agadir, è fissata per il 2011. Grazie ad un investimento di oltre 300 milioni di euro, la capacità produttiva annuale stimata sarà di 2,2 milioni di tonnellate di cemento con un sostanziale raddoppio rispetto a oggi. La dislocazione dell’impianto risulta vantaggiosa anche per la sua vicinanza alle riserve locali di materie prime – calcare e materiali silico-alluminosi – in grado di assicurare forniture per oltre un centinaio di anni. Per adattare la rete stradale al traffico generato dall’attività della cementeria, si interverrà significativamente sull’attuale sistema viario. I materiali estratti dalla cava raggiungeranno la cementeria su nastro trasportatore, riducendo notevolmente il traffico veicolare tra l’impianto e la cava. L’escavazione sarà pressoché invisibile

dalla strada e dalle aree circostanti. La profondità della formazione calcarea permetterà di minimizzare l’estensione delle superfici scoperte, che non dovrebbe superare i 150 ettari dopo 50 anni di sfruttamento. Il progetto pone grande attenzione alla progettazione architettonica e all’integrazione degli impianti nell’ambiente circostante. La sfida consiste nell’armonizzare il sito rispetto all’ambiente naturale e culturale considerando i parametri climatici e le risorse energetiche locali. È stato avviato un massiccio programma di piantumazione lungo i confini dell’impianto e la realizzazione di un’area verde di 310 ettari. Massima attenzione è stata posta inoltre per assicurare l’integrazione visiva della cementeria dai principali punti di osservazione a livello del terreno e aereo, tenuto anche conto della vicinanza dell’impianto all’aeroporto di Agadir Al Massira. Coerentemente con l’impegno di Italcementi Group a garantire un ridotto impatto ambientale, l’attuazione di un processo produttivo più sostenibile rappresenta un fattore chiave per il successo e l’efficienza del progetto Ait Baha. Nonostante la difficile situazione economica mondiale, la nuova cementeria di Ciments du Maroc costituisce per Italcementi Group un importante investimento in un mercato emergente, confermando nuovamente l’impegno della società nella sostenibilità e nel rispetto delle esigenze di produzione industriale. A questo proposito, l’elemento più innovativo di Ait Baha, oltre a quelli legati al ciclo produttivo, sarà il sistema di recupero del calore e di generazione dell’energia elettrica che permetterà di ridurre in maniera significativa il consumo di acqua per il raffreddamento dei gas e le emissioni indirette di CO2.

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he purpose of the new cement plant in Ait Baha, Morocco, is to meet rapidly growing demand: over the past few years, cement consumption in the Agadir region has risen sharply, stimulated by a robust social building policy and infrastructure projects, accompanied by a revival of investment in tourism. The growth in demand will raise consumption from the current level of 350 kg/inhabitant to between 500 and 600 kg/inhabitant, the average level in the majority of Med Rim countries. The Agadir plant, which began operations in 1952, was the only cement facility in southern Morocco, and had saturated its production capacity. In view of the growth of the new local tourist industry, Ciments du Maroc (Italcementi Group) decided to boost production by relocating to a new plant and closing Agadir. The cement plant in Ait Baha, 50 km from Agadir, is scheduled to start work in 2011. Thanks to investments totaling more than 300 million euro, estimated annual production capacity will be 2.2 million metric tons of cement, substantially doubling current capacity. The plant relocation also offers the advantage of proximity to local reserves of raw materials—limestone and aluminosilicates—with sufficient supplies for more than a hundred years. Important upgrades will be made to the local roads to support the traffic generated by the cement plant. The quarried materials will be transferred to the plant on conveyor belts, thereby cutting road traffic between the plant and the quarry. Quarrying work will be practically

invisible from the road and surrounding areas. The depth of the limestone formations will keep the breadth of land surface removal to a minimum, not more than 150 hectares after 50 years of work. The project places great attention on the architectural design and integration of the facility with the surrounding landscape. The challenge is to harmonize the site with the natural and cultural environment, compatibly with climatic conditions and local energy resources. A massive planting program has begun along the boundaries of the facility, together with creation of 310 hectares of parkland. Care has also been taken to ensure the visual integration of the cement plant from the main land and air observation points, given its proximity to the Agadir Al Massira airport. Consistently with the Italcementi Group commitment to lowering its environmental impact, a more sustainable production process will be a key factor in the success and efficiency of the Ait Baha project. Despite the difficult world economic situation, for the Italcementi Group the new Ciments du Maroc cement plant is a major investment in an emerging market and new confirmation of the Group focus on sustainability and compliance with industrial production requirements. In addition to issues relating to the production cycle, the most innovative element at Ait Baha will be the heat recovery and power generation system, which will ensure a significant reduction in the use of water for gas cooling and in indirect CO2 emissions.


Telefoni bianchi White telephones

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nnovazione progettuale, riqualificazione urbana di un’area industriale dismessa, ambienti di lavoro di qualità, materiali e tecnologie sostenibili. Questo il nuovo Vodafone Village, complesso eco-tecnologico in fase di realizzazione a Milano Lorenteggio destinato a ospitare i 3.000 dipendenti delle sedi Vodafone del nord Italia. Tre torri, alte 60, 55 e 42 metri, affiancate da un auditorium per una superficie totale di 67.000 mq: il complesso, avviato a giugno 2008, si concluderà a dicembre 2011 a opera degli architetti Rolando Gantes e Roberto Morisi dello studio P.R.P. per la parte strutturale. Il design degli interni sarà invece curato dallo studio Dante O. Benini & Partners Architects. Battezzato “Borgo Lorenteggio”, il complesso rispecchia le caratteristiche di una cittadina medievale con i suoi edifici raccolti intorno a una piazza sopraelevata, luogo di aggregazione e di crescita della vita sociale collettiva. Proprio la ricerca del concetto di “borgo nella modernità” ha ispirato gli architetti nel modellare le facciate secondo elementi curvilinei che avvolgono il complesso all’esterno come una chiocciola, mentre all’interno ritornano i fronti rettilinei trasparenti che si affacciano sullo spazio d’incontro della piazza. Elemento caratterizzante l’intervento è il ritmo cadenzato dei vuoti e dei pieni, dove i vuoti sono spettacolari facciate cielo-terra completamente vetrate, mentre i pieni rimandano alle mura dei borghi antichi: marcati e compatti, pure non smettono mai di dialogare con la luce, animati dal candore delle loro superfici. Fondamentale, in questo senso, si è

rivelato l’impiego di pannelli in cemento TX Active® bianco, il prodotto fotocatalitico brevettato da Italcementi che, grazie all’azione combinata del principio attivo in esso contenuto e della luce solare, si autopulisce, agevolando la rimozione dello smog dalla facciata e preservando la colorazione bianca. Non solo scelta ambientale, ma anche compositiva e formale, TX Active® unisce l’elevata qualità plastica del cemento all’eleganza cromatica del bianco, riprendendo ed esaltando il concetto formale di morbidezza e fluidità di questi edifici che si sviluppano secondo un andamento ellittico trasferito dalla pianta ai fronti. Facciate che si rincorrono e si toccano in un caleidoscopio di luci e ombre. La più grande realizzazione in TX fino a oggi, esempio di architettura virtuosa e di progettazione eco-compatibile, il Villaggio Vodafone potrà contare su un “giardino fotovoltaico” dove, integrando i pannelli con la tipologia architettonica del complesso, l’energia solare verrà utilizzata per la produzione di energia elettrica ausiliaria, mentre, grazie a 27.000 mq di superfici vetrate, sarà possibile illuminare gli uffici con la piena luce naturale e con specifiche caratteristiche di efficienza energetica pensate per limitare il fabbisogno di energia della climatizzazione estiva.

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nnovative design, urban redevelopment of an abandoned industrial area, quality workplaces, sustainable materials and technologies. This is the new Vodafone Village, an eco-technological complex being built in Milan’s Lorenteggio district to house the 3,000 employees who work in Vodafone offices in northern Italy. Three tower blocks, standing 60, 55 and 42 meters high, together with an auditorium for a surface area totaling 67,000 m2: work on the complex, whose structural design was handled by architects Rolando Gantes and Roberto Morisi from the P.R.P. firm, began in June 2008 and will be completed in December 2011. The interiors will be designed by the Dante O. Benini & Partners Architects firm. “Borgo Lorenteggio”, as it has been named, resembles a medieval village with the buildings gathered around

a super-elevated square, a meeting place for the social growth of the community. Research into the concept of a “modern borough” provided the inspiration for the architects as they modeled the facades with elements curving around the complex in a spiral structure, while the interior is dominated by the sheer transparent frontage on the communal square. A distinctive feature is the cadenced rhythm of solid and space, where the spaces are spectacular, fully glazed sky-to-earth facades, and the solids echo the walls of an ancient borgo: forceful and compact, they nevertheless maintain a dialogue with the light, animated by the whiteness of their surfaces. Here, an essential element is the use of panels in white TX Active® cement, Italcementi’s patented photocatalytic product, whose active principle reacts with sunlight to keep the cement clean, helping to eliminate smog from the surface and preserve its white color. An environmental as well as compositional and formal choice, TX Active® combines the high plastic quality of cement with the chromatic elegance of white, underpinning and enhancing the formal softness and fluidity of these buildings, which repeat the elliptical shape of their groundplan in the facades. Facades that interweave in a kaleidoscope of light and shadow. The most important TX construction to date, an example of virtuous architecture and eco-compatible design, the Vodafone Village will also feature a “photovoltaic garden”, where the panels will be an integral architectural element. Solar energy will be used to generate auxiliary power, while the 27,000 m2 of glazing will illuminate the offices with full natural light and provide the specific energy-efficiency features to cut the energy requirement for air-conditioning in the summer.


artVision

A regola d’Arte The rule of Art

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spitare Pier Luigi Nervi nella sezione di arcVision dedicata all’arte vuole essere un modo per rendere omaggio al genio di un grande italiano. Da una brillante mediazione tra arte e ingegneria nasce il suo modo di fare architettura come confronto e dialogo tra forme espressive, attenzione estetica ai dettagli e uso avveniristico delle tecnologie del suo tempo. Ne emerge la figura di una personalità completa e complessa: progettista strutturale, architetto, costruttore, imprenditore, consulente, scrittore, docente universitario. Ingegnere: “I suggerimenti statici interpretati e definiti con paziente opera di ricerca e di proporzionamento sono le più efficaci fonti di ispirazione architettonica. Per me questa regola è assoluta e senza eccezioni”. Architetto: “La forma è più importante della materia”. Costruttore: “Nella nostra epoca di trasformazioni rivoluzionarie e sconvolgenti è forse positivo cercare di vedere se esiste un rapporto fra la tecnica di costruzione e l’estetica architettonica e se è possibile definirlo”. Innovatore, come nel caso della copertura delle aviorimesse dell’Aeronautica militare dove sperimentò la prefabbricazione in cemento armato: “Il più bel materiale che l’umanità abbia mai inventato”. Docente: “L’invenzione strutturale – insegnava ai suoi studenti – non può che essere il frutto di un’armoniosa fusione di personale intuizione inventiva e di impersonale, realistica, inviolabile scienza statica”.

Pier Luigi Nervi era tutto questo, l’inventore del cemento armato, materiale innovativo resistente ed elastico da lui plasmato in strutture spettacolari e ardite grazie a una

Aula delle udienze pontificie (Città del Vaticano, 1963-1971).

profonda conoscenza scientifica delle tecniche costruttive. Italcementi collaborò con Nervi in molte delle sue realizzazioni, condividendone il coraggio della

sperimentazione, la serietà e l’onestà della ricerca e la rigorosità del metodo scientifico. Insieme al Centro Ricerche Italcementi a Bergamo, Nervi compì analisi approfondite sui materiali cementizi per superare le difficoltà di cantiere e sfruttare al meglio la naturale plasticità e duttilità del materiale cemento, individuando le miscele ottimali dal punto di vista delle prestazioni meccaniche e delle qualità estetiche. Un atto dovuto quindi quello di Italcementi di sostenere il progetto di ricerca Pier Luigi Nervi. L’Architettura come sfida, promosso dalla famiglia e inteso non solo a celebrare la vita e le opere di un grande maestro del costruire, ma anche a meglio definirne il carattere poliedrico e il complesso universo di cultura e relazioni. Inaugurato il 4 giugno 2010 presso il CIVA – Centre International pour la Ville l’Architecture et le Paysage di Bruxelles, il progetto espositivo fa tappa in Italia con la vasta rassegna in programma al MAXXI di Roma dal 15 dicembre 2010 al 20 marzo 2011, per poi continuare con Torino e altre capitali d’Europa e d’America. L’opera di Nervi, in molti anni di carriera, ha ruotato intorno ad almeno sei attività fondamentali: progettare, disegnare, calcolare, modellare, scrivere, insegnare. Lungo queste sei tracce, diverse eppur complementari, si snoda il percorso della mostra, punteggiato da 12 progetti principali, a illustrazione esemplare di un corpus architettonico ancora ricco di spunti e stimoli concettuali e progettuali.

Papal Audience Hall (Vatican City, 1963-1971).

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In questa pagina, dall’alto: Palazzetto dello Sport (Roma, 1956-1957). Palazzo di Torino Esposizioni (Torino, 1947-1954). FOTO

DI

MARIO CARRIERI.

This page, from top: Palazzetto dello Sport indoor arena (Rome, 1956-1957). Torino Esposizioni exhibition hall (Turin, 1947-1954). PHOTOGRAPHS

BY

MARIO CARRIERI.

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n devoting the art section of arcVision to Pier Luigi Nervi, our intention is to pay tribute to the genius of a great Italian. Nervi’s brilliant merging of art and engineering was the foundation for his approach to architecture as a comparison and dialogue among different forms of expression, an aesthetic attention to detail and a futuristic use of contemporary technology. The figure who emerges is a complete and complex personality: a structural engineer, an architect, a builder, an entrepreneur, a consultant, a writer, a university lecturer. Engineer: “Static suggestions interpreted and defined through painstaking research and proportioning are the most effective sources of architectural inspiration. For me, this is an absolute rule and admits no exceptions.” Architect: “Form is more important than substance.” Builder: “In this age of revolutionary and disturbing transformations, it may be worthwhile to try and see whether a relationship exists between the construction technique and the architectural aesthetic, and whether it is possible to define that relationship.” Innovator, for example for the roof of the Italian Air Force hangars where he tried out prefabrication with reinforced concrete: “The best material man has ever invented.” Teacher: “Structural invention,” he told his students, “can only be a harmonious combination of personal inventive intuition and impersonal, realistic, inviolable static science.” Pier Luigi Nervi was all this, the inventor of reinforced concrete, a resistant and elastic innovative material he modeled into spectacularly bold buildings by applying his thorough scientific knowledge of construction techniques. Italcementi worked with Nervi on many of his projects, sharing his courage in experimentation, the diligence and honesty of his research and the rigor of his scientific method. Together with the Italcementi Research Center in Bergamo, Nervi conducted extensive analyses of cements in order to resolve construction difficulties and exploit in full the natural plasticity and ductility of cement by identifying the formulations offering the best mechanical performance and aesthetic qualities. So it was entirely appropriate that Italcementi should support Pier Luigi Nervi. L’Architettura come sfida (Architecture As A Challenge), a research project promoted by the family to celebrate the life and works of a great master of construction and, also, to achieve a better understanding of this polymath

and his complex universe of culture and relationships. The project exhibition opened on June 4, 2010, at the CIVA—Centre International pour la Ville l’Architecture et le Paysage in Brussels, and can be seen in Italy in a huge collection at the

MAXXI Museum in Rome from December 15, 2010, to March 20, 2011, later moving to Turin and other capital cities in Europe and America. In his long career, Nervi was active in at least six fundamental areas: engineering, designing, calculating, modeling, writing, teaching.

The exhibition traces his work along each of these six different, yet complementary paths, examining 12 key projects as exemplary illustrations of an architectural corpus that is still a rich source of conceptual and design ideas and stimuli.



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Projects Utopie urbane e tecnologie digitali prefigurano straordinarie visioni di cittĂ future svelando nuovi territori Urban utopias and digital technology prefigure extraordinary visions of cities of the future, revealing new realms

News Innovazione e ricerca: dall’utopia le leve per entrare nel mondo di domani Innovation and research: leverage from utopia for entering the world of tomorrow


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