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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Periodico semestrale anno V n° 9 I semestre 2003 - Spedizione in abbonamento postale - 70% - Bergamo

Global Terzo millennio: uomo “senza limiti” o uomo “fuori dai limiti”? Third millennium: man "without limits" or "beyond limits"? Projects Superare il limite: una sfida alle convenzioni Going beyond limits: challenging conventions News A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 Italcementi wins the 2002 Award for Financial Report Con Perrault per “Morceaux Choisis” With Perrault for “Morceaux Choisis” “Dives in Misericordia”: le annotazioni di Meier “Dives in Misericordia”: Meier’s notes Sviluppo Sostenibile a Cementos Rezola Sustainable Development at Cementos Rezola Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana Gold Medal for Italian Architecture

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www.italcementigroup.com

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Rivista semestrale pubblicata da Six Monthly Magazine published by Italcementi Group via Camozzi 124, Bergamo, Italia Direttore responsabile Editor Sergio Crippa Coordinamento editoriale Editorial Coordinator Ofelia Palma Realizzazione editoriale Publishing House l’Arca Edizioni spa Redazione Editorial Staff Elena Cardani, Carlo Paganelli, Elena Tomei Autorizzazione del Tribunale di Bergamo n° 35 del 2 settembre 1997 Court Order n° 35 of 2nd September 1997, Bergamo Law Court

Limits and what lies beyond

Il limite e ciò che c’è oltre

■ Global ■

■ L’uomo e il futuro Projects Man and the Future ■

■ News ■

André-Yves Portnoff

Uomo fine, o fine dell’uomo?

Man as an End or the End of Man?

Diego Marconi

Nella mente del computer

In a Computer’s Mind

Edoardo Boncinelli

Più futuro, ma saremo più felici?

Further into the Future, but Will We be Happier?

aV

La potenza dell’avventura umana

The Power of Human Adventure

Intervista a Salvatore Veca

Interview with Salvatore Veca

aV

Un robot dal cervello “bestiale”

A Robot with a “Beastly” Brain

Maurizio Vitta

Fra etica e tecnica

Between Ethics and Technology

Testi a cura di Texts by Carlo Paganelli

La “fabbrica” dei diritti

The “Factory”of Rights

Progetto di Richard Rogers Partnership

Project by Richard Rogers Partnership

Transingegneria

Trans-Engineering

Progetto di Santiago Calatrava Valls

Project by Santiago Calatrava Valls

L’immaginazione è un limite?

Is Imagination a Limit?

Progetto di Kisho Kurokawa

Project by Kisho Kurokawa

Il suono della rinascita

The Sound of Rebirth

Progetto di Renzo Piano Building Workshop

Project by Renzo Piano Building Workshop

Nel segno di Flatlandia

In the Name of Flatland

Progetto di Dominique Perrault

Project by Dominique Perrault

Abbattere il luogo comune

Getting Rid of Clichés

Progetto di Frank O. Gehry Associates

Project by Frank O. Gehry Associates

Copertina, il Municipio di Innsbruck

www.italcementigroup.com

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Modernità dell’effimero

The Modernity of Transience

Progetto di von Gerkan, Marg & Partners

Project by von Gerkan, Marg & Partners

4 10 13 16 23 ■

26 28 38 46 54 66 74 80 ■

A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 per le società quotate

Italcementi wins the 2002 “Oscar di Bilancio” for Listed Companies

Con Dominique Perrault per “Morceaux Choisis”

With Dominique Perrault for “Morceaux Choisis”

“Dives in Misericordia”: le annotazioni di Richard Meier

“Dives in Misericordia”: Richard Meier’s Notes

Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo

Sustainable Development in the 21st Century

Triennale di Milano: Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana

Milan Triennial: Gold Medal for Italian Architecture

Italcementi Group: utile consolidato 2002 a 357 milioni di euro (+26%)

Italcementi Group: 2002 consolidated net income at 357 million euro (+26%)

Cover, Innsbruck Town Hall

88 89 91 93 95 96

Chiuso in tipografia il 30 giugno 2003 Printed June 30, 2003


Il limite e ciò che c’è oltre Limits and what lies beyond

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L’

idea di questo nuovo numero di arcVision nasce da una chiacchierata con il futurologo francese André-Yves Portnoff. Dal dibattito sulla clonazione umana e le manipolazioni genetiche sorge spontaneo un interrogativo. L’uomo del terzo millennio è un “uomo senza limiti” in grado di ricreare se stesso oppure è un uomo “fuori dai limiti”? La tecnologia è frutto e causa di uno smarrimento epocale? È una forma alternativa o estranea alla saggezza? O è invece forma della saggezza umana stessa, purché consapevole della sua natura più profonda e insieme dei suoi limiti? Se è vero che la Sars deriva da una modificazione genetica nata dalla manipolazione di un virus in laboratorio, ebbene questi interrogativi si rivelano di inquietante attualità. La risposta di Portnoff è tuttavia di sconcertante semplicità, ma ci pone dinnanzi a riflessioni drammatiche: più cresce la capacità dell’uomo di soggiogare la natura alla scienza, ancor più deve crescere la capacità di auto-governare e di auto-regolare le nuove scoperte. Se la scienza è una forma dell’ambizione umana e l’etica è una forma di regolamentazione dell’ambizione, allora la coscienza morale ha titolo per indicare alla scienza dei criteri di comportamento in forza dei diritti dell’ambizione umana stesso. Ma saremo in grado di percorrere un crinale così difficile e a quota (di rischio) sempre più elevata? Con l’intervento di André-Yves Portnoff l’uomo viene collocato al centro della società, quale artefice e protagonista dello sviluppo economico e sociale. Non più massa ma individuo con una propria libertà e personalità. Ed è solo la sua coscienza che può salvare la comunità dal suicidio in una realtà dove la tecnologia e il progresso rischiano, se non disciplinati, di sopraffarlo. I computer avanzano oggi senza tregua, detenendo un potere ieri impensabile. Da qui le osservazioni di Diego Marconi in merito all’intelligenza artificiale e ai suoi limiti. Limiti che, analizzando i progressi degli ultimi decenni, sono oggi indimostrabili. Progresso, sviluppo, tecnologia, scienza sono queste le parole d’ordine che governano questo primo squarcio di terzo millennio. A questo punto viene spontaneo porsi una semplice ma fondamentale domanda: in futuro saremo più felici? Questo quesito viene sottolineato da Edoardo Boncinelli il quale sostiene che sicuramente i progressi in campo medico e scientifico contribuiranno a migliorare la qualità di vita e ad allungarne il corso, ma per la formula della felicità non esistono ancora ricette. E sempre in tema di limiti: che cos’è il limite in architettura? Questa è la domanda che si pone Maurizio Vitta per introdurre la sezione del Projects dedicata alla presentazione di sette progetti firmati da importanti nomi dell’architettura contemporanea: Rogers, Calatrava, Kurokawa, Piano, Perrault, Gehry e von Gerkan. La risposta più immediata è di ordine fisico, ovvero spaziale. Ma, approfondendo il discorso, ecco che si parla di limite culturale, naturale, verticale, tecnologico, etico. Da questi esempi risultano evidenti la mobilità, l’instabilità e il dinamismo del concetto di limite in architettura.

T

he idea for this new issue of arcVision came from a chat with the French futurologist André-Yves Portnoff. Debate over human cloning and genetic manipulations inevitably raises a question. In the third millennium, are we talking about “man without limits” capable even of recreating himself or is he just “beyond limits”? Is technology the result or cause of this époque-making loss of direction? Is it an alternative or different form of wisdom or is it actually a form of human wisdom itself, aware of its own deepest nature and limits? If it is indeed true that SARS was caused by genetic manipulation deriving from playing around with a virus in a laboratory, then these questions are disturbingly topical and up-to-date. Portnoff’s answer is startling for its simplicity, but it means we have to face up to some dramatic thoughts: as man’s ability to subjugate nature to science increases, then there must be an ever greater capacity to self-govern and self-control these new discoveries. If science is a form of human ambition and ethics is a way of controlling ambition, then our moral conscience is entitled to show science how it must act in relation to the rights of human ambition itself. But will we be able to walk along such a high (risk) and precarious ridge? André-Yves Portnoff’s views place man at the focus of society as the artificer and leading player in socio-economic growth. The masses are replaced with individuals with their own freedom and personality. And it is only our conscience that will save society from committing suicide at a time when technology and progress are threatening, unless kept under careful control, to overwhelm it. Progress in computer technology is in full swing, making it capable of what was previously quite unthinkable. This takes us to Diego Marconi’s remarks on artificial intelligence and its limits. Limits which, analyzing the progress made over recent decades, are unknown. Progress, growth, technology and science are the touch stones of the start of this new millennium. At this point we cannot help raising a very simple but fundamental question: will we be happier in the future? This question is emphasized by Edoardo Boncinelli, who claims that progress in medicine and science will certainly help improve the quality of life and even lengthen it, but there is no easy recipe for happiness. Then there is the question of the limits of architecture. This is the issue Maurizio Vitta addresses in introducing the Projects section devoted to seven designs by leading contemporary architects: Rogers, Calatrava, Kurokawa, Piano, Perrault, Gehry and von Gerkan. The first answer to come to mind is of a physical or rather spatial nature. But, widening the base of this discussion, we can talk about cultural, natural, vertical, technological or even ethical limits. These examples highlight the shifting, unstable and dynamic nature of the concept of limits in architecture.

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Il limite e ciò che c’è oltre Limits and what lies beyond

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idea di questo nuovo numero di arcVision nasce da una chiacchierata con il futurologo francese André-Yves Portnoff. Dal dibattito sulla clonazione umana e le manipolazioni genetiche sorge spontaneo un interrogativo. L’uomo del terzo millennio è un “uomo senza limiti” in grado di ricreare se stesso oppure è un uomo “fuori dai limiti”? La tecnologia è frutto e causa di uno smarrimento epocale? È una forma alternativa o estranea alla saggezza? O è invece forma della saggezza umana stessa, purché consapevole della sua natura più profonda e insieme dei suoi limiti? Se è vero che la Sars deriva da una modificazione genetica nata dalla manipolazione di un virus in laboratorio, ebbene questi interrogativi si rivelano di inquietante attualità. La risposta di Portnoff è tuttavia di sconcertante semplicità, ma ci pone dinnanzi a riflessioni drammatiche: più cresce la capacità dell’uomo di soggiogare la natura alla scienza, ancor più deve crescere la capacità di auto-governare e di auto-regolare le nuove scoperte. Se la scienza è una forma dell’ambizione umana e l’etica è una forma di regolamentazione dell’ambizione, allora la coscienza morale ha titolo per indicare alla scienza dei criteri di comportamento in forza dei diritti dell’ambizione umana stesso. Ma saremo in grado di percorrere un crinale così difficile e a quota (di rischio) sempre più elevata? Con l’intervento di André-Yves Portnoff l’uomo viene collocato al centro della società, quale artefice e protagonista dello sviluppo economico e sociale. Non più massa ma individuo con una propria libertà e personalità. Ed è solo la sua coscienza che può salvare la comunità dal suicidio in una realtà dove la tecnologia e il progresso rischiano, se non disciplinati, di sopraffarlo. I computer avanzano oggi senza tregua, detenendo un potere ieri impensabile. Da qui le osservazioni di Diego Marconi in merito all’intelligenza artificiale e ai suoi limiti. Limiti che, analizzando i progressi degli ultimi decenni, sono oggi indimostrabili. Progresso, sviluppo, tecnologia, scienza sono queste le parole d’ordine che governano questo primo squarcio di terzo millennio. A questo punto viene spontaneo porsi una semplice ma fondamentale domanda: in futuro saremo più felici? Questo quesito viene sottolineato da Edoardo Boncinelli il quale sostiene che sicuramente i progressi in campo medico e scientifico contribuiranno a migliorare la qualità di vita e ad allungarne il corso, ma per la formula della felicità non esistono ancora ricette. E sempre in tema di limiti: che cos’è il limite in architettura? Questa è la domanda che si pone Maurizio Vitta per introdurre la sezione del Projects dedicata alla presentazione di sette progetti firmati da importanti nomi dell’architettura contemporanea: Rogers, Calatrava, Kurokawa, Piano, Perrault, Gehry e von Gerkan. La risposta più immediata è di ordine fisico, ovvero spaziale. Ma, approfondendo il discorso, ecco che si parla di limite culturale, naturale, verticale, tecnologico, etico. Da questi esempi risultano evidenti la mobilità, l’instabilità e il dinamismo del concetto di limite in architettura.

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he idea for this new issue of arcVision came from a chat with the French futurologist André-Yves Portnoff. Debate over human cloning and genetic manipulations inevitably raises a question. In the third millennium, are we talking about “man without limits” capable even of recreating himself or is he just “beyond limits”? Is technology the result or cause of this époque-making loss of direction? Is it an alternative or different form of wisdom or is it actually a form of human wisdom itself, aware of its own deepest nature and limits? If it is indeed true that SARS was caused by genetic manipulation deriving from playing around with a virus in a laboratory, then these questions are disturbingly topical and up-to-date. Portnoff’s answer is startling for its simplicity, but it means we have to face up to some dramatic thoughts: as man’s ability to subjugate nature to science increases, then there must be an ever greater capacity to self-govern and self-control these new discoveries. If science is a form of human ambition and ethics is a way of controlling ambition, then our moral conscience is entitled to show science how it must act in relation to the rights of human ambition itself. But will we be able to walk along such a high (risk) and precarious ridge? André-Yves Portnoff’s views place man at the focus of society as the artificer and leading player in socio-economic growth. The masses are replaced with individuals with their own freedom and personality. And it is only our conscience that will save society from committing suicide at a time when technology and progress are threatening, unless kept under careful control, to overwhelm it. Progress in computer technology is in full swing, making it capable of what was previously quite unthinkable. This takes us to Diego Marconi’s remarks on artificial intelligence and its limits. Limits which, analyzing the progress made over recent decades, are unknown. Progress, growth, technology and science are the touch stones of the start of this new millennium. At this point we cannot help raising a very simple but fundamental question: will we be happier in the future? This question is emphasized by Edoardo Boncinelli, who claims that progress in medicine and science will certainly help improve the quality of life and even lengthen it, but there is no easy recipe for happiness. Then there is the question of the limits of architecture. This is the issue Maurizio Vitta addresses in introducing the Projects section devoted to seven designs by leading contemporary architects: Rogers, Calatrava, Kurokawa, Piano, Perrault, Gehry and von Gerkan. The first answer to come to mind is of a physical or rather spatial nature. But, widening the base of this discussion, we can talk about cultural, natural, vertical, technological or even ethical limits. These examples highlight the shifting, unstable and dynamic nature of the concept of limits in architecture.

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Global

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Nell’epoca in cui viviamo due sono le tendenze che si contrappongono. Da un lato il desiderio di superare ogni limite attraverso uno sviluppo continuo della conoscenza e dall’altra l’esigenza di porre un limite e mantenerne il controllo. There are two contrasting trends in the world in which we live. On one hand, there is a desire to exceed all limits by constantly expanding our knowledge and on the other there is the need to set a limit and keep it under control.

Uomo fine, o fine dell’uomo? Man as an End or the End of Man? di André-Yves Portnoff* by André-Yves Portnoff*

Sostituire l’uomo al centro della società e dell’economia non è più un simpatico slogan, ma la condizione per continuare il processo di crescita e anche per assicurare la sopravvivenza Replacing man at the center of society and the economy is not longer just a nice slogan but the key to continuing the process of growth and guaranteeing our very survival

André-Yves Portnoff

U

na bancarotta fraudolenta in più, una nuova ondata di licenziamenti, una supposta clonazione umana, una catastrofe ecologica o sanitaria, una minaccia di guerra o di attentati. Che confusione di fatti! Ci sono giorni in cui leggere o sentire notizie di questo genere ci tocca in modo più acuto, spingendoci verso uno stato di cupezza, di angoscia. Un’impressione ci assale e si delinea chiara: stiamo sopravvivendo in un mondo ostile, sfuggente, che giorno dopo giorno ci è sempre più estraneo, dove la nostra presenza è solo tollerata, niente di più che tollerata. Quando veniamo assaliti da siffatti pensieri, ci lasciamo catapultare indietro nel tempo e andiamo a scavare nella memoria del passato. Torniamo a sessant’anni fa, al 1943. Pensiamo alla guerra, alle sofferenze di centinaia di milioni di persone, milioni delle quali trattate peggio delle bestie, alla negazione dell’identità di essere umano. Il campo di concentramento era caricatura estrema di un sistema economico che voleva

confinare la maggioranza degli individui ad automi intercambiabili. Ma d’altronde, è stata un’ipotesi di base dell’economia classica. Il premio Nobel Gary Becker, “inventore” del “capitale umano” (dal titolo di un suo saggio), non pretende forse di poter analizzare tutto ignorando gli intenti degli attori e gli apporti delle scienze umane1? Ci si è quindi sforzati di programmare l’individuo, nelle sue posizioni di lavoratore e consumatore, affinché fosse compatibile con le macchine standardizzate di una economia votata alla produzione e al consumo di massa. Negli stabilimenti tayloriani e stacanovisti, il modello fordiano pianificava i gesti dei dipendenti affinché facessero esattamente quanto era stato deciso da una qualche percentuale di popolazione reputata in grado di “fare da mente” in materia di lavoro e organizzazioni. Nel lavoro a catena, proibita qualunque iniziativa personale, l’uomo era tenuto a dimenticare qualunque elemento distintivo di sé per calarsi nel “conio”

dell’impiegato medio ideale. Tutti fatti con lo stampino. Non mancavano gli imprevisti, ma non mancavano naturalmente neppure le trasgressioni alle regole, solo grazie alle quali l’insieme funzionava sempre e comunque. Per effetto della produzione in serie, l’economia era basata su una manodopera a basso costo. Era dunque necessario convincere il cittadino ad acquistare un prodotto monotono, standardizzato. Il mercato, falsamente sovrano, era alterato da una offerta possente contro un consumatore che non aveva scelta. Poche offerte alternative a causa di una concorrenza ancora limitata e scarsissima informazione al consumatore. Una chiara dimostrazione ci viene dagli studi2 sull’influenza della asimmetria dell’informazione, che assicura il dominio dell’offerta sulla domanda. L’iniziativa dell’industria americana del tabacco di allargare l’immenso mercato del tabacco alle donne3, incaricando della campagna “di convincimento” il genio della pubblicità Barnays, ci fornisce un esempio simbolico di questo tipo di dominio. Una campagna molto ben “pensata”, che venne lanciata il giorno consacrato all’indipendenza l’Independence Day -, in cui si proponeva alle femministe di obbligare i maschi a condividere il privilegio del tabagismo. Fu così che le sigarette divennero fiaccole della libertà, “freedom torches” e che il cancro al polmone poté finalmente superare quello al seno come causa di mortalità nel sesso femminile, uccidendo milioni di donne.

Nell’individuo i fattori di produzione Il Fordismo, che molti continuano a tentare di perpetrare, è diventato però controproduttivo e pericoloso ed è causa delle crisi a ripetizione che viviamo. Il vecchio sistema non funziona più, anzitutto perché gli uomini lo rigettano avendo sempre più mezzi per farlo. Sempre meno i cittadini accettano un’offerta standardizzata, concepita per un consumatore medio che non esiste. Il livello di vita, la concorrenza mondiale indotta dallo sviluppo delle tecniche dei trasporti e delle comunicazioni, consentono a un consumatore maggiormente educato e informato di scegliere e di criticare governi, istituzioni e imprese. Questa nuova possibilità va incontro all’individualismo e alla volontà di libero arbitrio che si affermano in tutti i Paesi sviluppati e in molti altri4. Il mercato esige più qualità e personalizzazione. La gente vuole scegliere il proprio stile di vita in funzione delle proprie differenze, culture e valori. Questo, insieme all’informatizzazione della produzione, rende possibile il prodotto “a misura di massa”. In un contesto di concorrenza generalizzata, per soddisfare queste aspettative bisogna concepire, produrre e distribuire non bene, ma costantemente meglio. Innovazione è la parola d’ordine. La creatività diventa una risorsa fondamentale del progresso economico. Non vi sono mai state tante conoscenze da mettere a disposizione dell’innovazione. Partendo da una risorsa inesauribile - la creatività umana - si possono così creare nuovi mercati per un tempo illimitato. Una situazione

caratterizzata da grandi spinte, a condizione di essere capaci di mobilitare molta creatività. Ed è proprio là che si colloca la rottura storica: lo sforzo fisico può essere un’esigenza intrinseca della violenza, ma non della creatività. Questa si nutre dell’intera esperienza vissuta, dell’immaginario, della personalità. Costituisce una dote interiore, che non è possibile scindere dall’individuo e che può essere distrutta solo quando la si vuole violare imponendole dei vincoli. In una società in costante mutamento, la libertà e il rispetto della dignità delle persone sono elementi necessari per l’efficienza, obbligando alla continua rimessa in discussione e reinvenzione per adattarsi al nuovo contesto. Ma la libertà di chi? Di qualche “manipolatore di simboli” come dice Robert Reich5?

No, è una questione del tutto personale. In una organizzazione si devono gestire situazioni così complesse e impreviste che, se ognuno non è costantemente pronto a far fronte a eventuali disfunzioni o a cogliere opportunità di progresso, in men che non si dica l’organizzazione viene sopraffatta dalla concorrenza. Diversi studi condotti di recente nell’America Settentrionale, in Europa e in Asia confermano che la qualità della gestione del personale ha un impatto determinante sulle prestazioni economiche, costituendo altresì un indicatore attendibile dei risultati finanziari a due anni. La sfida che le aziende devono raccogliere è quindi di passare da una logica di violenza a una logica di persuasione e partnership, coi clienti così come con il personale.

Questo vale anche tra persone, équipe, organizzazioni, Paesi. Non abbiamo mai disposto di tanta conoscenza, ma i problemi da risolvere, le strutture da gestire sono così complesse che le persone non possono più avere l’arroganza di pretendere di fare tutto da soli. È necessario convincere a collaborare con noi coloro che hanno requisiti complementari ai nostri. Così adesso, il lavoro che produce ricchezza non è più essenzialmente fisico e si riduce a due componenti, uno piuttosto intellettuale, l’altro soprattutto affettivo: la creazione di soluzioni e la costruzione di relazioni umane. Relazioni basate sulla fiducia tra impresa e fornitori, clienti, concittadini e altri. La nostra società dunque, non è basata sulla conoscenza come troppo spesso si è detto, ma sull’identità umana.

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Nell’epoca in cui viviamo due sono le tendenze che si contrappongono. Da un lato il desiderio di superare ogni limite attraverso uno sviluppo continuo della conoscenza e dall’altra l’esigenza di porre un limite e mantenerne il controllo. There are two contrasting trends in the world in which we live. On one hand, there is a desire to exceed all limits by constantly expanding our knowledge and on the other there is the need to set a limit and keep it under control.

Uomo fine, o fine dell’uomo? Man as an End or the End of Man? di André-Yves Portnoff* by André-Yves Portnoff*

Sostituire l’uomo al centro della società e dell’economia non è più un simpatico slogan, ma la condizione per continuare il processo di crescita e anche per assicurare la sopravvivenza Replacing man at the center of society and the economy is not longer just a nice slogan but the key to continuing the process of growth and guaranteeing our very survival

André-Yves Portnoff

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na bancarotta fraudolenta in più, una nuova ondata di licenziamenti, una supposta clonazione umana, una catastrofe ecologica o sanitaria, una minaccia di guerra o di attentati. Che confusione di fatti! Ci sono giorni in cui leggere o sentire notizie di questo genere ci tocca in modo più acuto, spingendoci verso uno stato di cupezza, di angoscia. Un’impressione ci assale e si delinea chiara: stiamo sopravvivendo in un mondo ostile, sfuggente, che giorno dopo giorno ci è sempre più estraneo, dove la nostra presenza è solo tollerata, niente di più che tollerata. Quando veniamo assaliti da siffatti pensieri, ci lasciamo catapultare indietro nel tempo e andiamo a scavare nella memoria del passato. Torniamo a sessant’anni fa, al 1943. Pensiamo alla guerra, alle sofferenze di centinaia di milioni di persone, milioni delle quali trattate peggio delle bestie, alla negazione dell’identità di essere umano. Il campo di concentramento era caricatura estrema di un sistema economico che voleva

confinare la maggioranza degli individui ad automi intercambiabili. Ma d’altronde, è stata un’ipotesi di base dell’economia classica. Il premio Nobel Gary Becker, “inventore” del “capitale umano” (dal titolo di un suo saggio), non pretende forse di poter analizzare tutto ignorando gli intenti degli attori e gli apporti delle scienze umane1? Ci si è quindi sforzati di programmare l’individuo, nelle sue posizioni di lavoratore e consumatore, affinché fosse compatibile con le macchine standardizzate di una economia votata alla produzione e al consumo di massa. Negli stabilimenti tayloriani e stacanovisti, il modello fordiano pianificava i gesti dei dipendenti affinché facessero esattamente quanto era stato deciso da una qualche percentuale di popolazione reputata in grado di “fare da mente” in materia di lavoro e organizzazioni. Nel lavoro a catena, proibita qualunque iniziativa personale, l’uomo era tenuto a dimenticare qualunque elemento distintivo di sé per calarsi nel “conio”

dell’impiegato medio ideale. Tutti fatti con lo stampino. Non mancavano gli imprevisti, ma non mancavano naturalmente neppure le trasgressioni alle regole, solo grazie alle quali l’insieme funzionava sempre e comunque. Per effetto della produzione in serie, l’economia era basata su una manodopera a basso costo. Era dunque necessario convincere il cittadino ad acquistare un prodotto monotono, standardizzato. Il mercato, falsamente sovrano, era alterato da una offerta possente contro un consumatore che non aveva scelta. Poche offerte alternative a causa di una concorrenza ancora limitata e scarsissima informazione al consumatore. Una chiara dimostrazione ci viene dagli studi2 sull’influenza della asimmetria dell’informazione, che assicura il dominio dell’offerta sulla domanda. L’iniziativa dell’industria americana del tabacco di allargare l’immenso mercato del tabacco alle donne3, incaricando della campagna “di convincimento” il genio della pubblicità Barnays, ci fornisce un esempio simbolico di questo tipo di dominio. Una campagna molto ben “pensata”, che venne lanciata il giorno consacrato all’indipendenza l’Independence Day -, in cui si proponeva alle femministe di obbligare i maschi a condividere il privilegio del tabagismo. Fu così che le sigarette divennero fiaccole della libertà, “freedom torches” e che il cancro al polmone poté finalmente superare quello al seno come causa di mortalità nel sesso femminile, uccidendo milioni di donne.

Nell’individuo i fattori di produzione Il Fordismo, che molti continuano a tentare di perpetrare, è diventato però controproduttivo e pericoloso ed è causa delle crisi a ripetizione che viviamo. Il vecchio sistema non funziona più, anzitutto perché gli uomini lo rigettano avendo sempre più mezzi per farlo. Sempre meno i cittadini accettano un’offerta standardizzata, concepita per un consumatore medio che non esiste. Il livello di vita, la concorrenza mondiale indotta dallo sviluppo delle tecniche dei trasporti e delle comunicazioni, consentono a un consumatore maggiormente educato e informato di scegliere e di criticare governi, istituzioni e imprese. Questa nuova possibilità va incontro all’individualismo e alla volontà di libero arbitrio che si affermano in tutti i Paesi sviluppati e in molti altri4. Il mercato esige più qualità e personalizzazione. La gente vuole scegliere il proprio stile di vita in funzione delle proprie differenze, culture e valori. Questo, insieme all’informatizzazione della produzione, rende possibile il prodotto “a misura di massa”. In un contesto di concorrenza generalizzata, per soddisfare queste aspettative bisogna concepire, produrre e distribuire non bene, ma costantemente meglio. Innovazione è la parola d’ordine. La creatività diventa una risorsa fondamentale del progresso economico. Non vi sono mai state tante conoscenze da mettere a disposizione dell’innovazione. Partendo da una risorsa inesauribile - la creatività umana - si possono così creare nuovi mercati per un tempo illimitato. Una situazione

caratterizzata da grandi spinte, a condizione di essere capaci di mobilitare molta creatività. Ed è proprio là che si colloca la rottura storica: lo sforzo fisico può essere un’esigenza intrinseca della violenza, ma non della creatività. Questa si nutre dell’intera esperienza vissuta, dell’immaginario, della personalità. Costituisce una dote interiore, che non è possibile scindere dall’individuo e che può essere distrutta solo quando la si vuole violare imponendole dei vincoli. In una società in costante mutamento, la libertà e il rispetto della dignità delle persone sono elementi necessari per l’efficienza, obbligando alla continua rimessa in discussione e reinvenzione per adattarsi al nuovo contesto. Ma la libertà di chi? Di qualche “manipolatore di simboli” come dice Robert Reich5?

No, è una questione del tutto personale. In una organizzazione si devono gestire situazioni così complesse e impreviste che, se ognuno non è costantemente pronto a far fronte a eventuali disfunzioni o a cogliere opportunità di progresso, in men che non si dica l’organizzazione viene sopraffatta dalla concorrenza. Diversi studi condotti di recente nell’America Settentrionale, in Europa e in Asia confermano che la qualità della gestione del personale ha un impatto determinante sulle prestazioni economiche, costituendo altresì un indicatore attendibile dei risultati finanziari a due anni. La sfida che le aziende devono raccogliere è quindi di passare da una logica di violenza a una logica di persuasione e partnership, coi clienti così come con il personale.

Questo vale anche tra persone, équipe, organizzazioni, Paesi. Non abbiamo mai disposto di tanta conoscenza, ma i problemi da risolvere, le strutture da gestire sono così complesse che le persone non possono più avere l’arroganza di pretendere di fare tutto da soli. È necessario convincere a collaborare con noi coloro che hanno requisiti complementari ai nostri. Così adesso, il lavoro che produce ricchezza non è più essenzialmente fisico e si riduce a due componenti, uno piuttosto intellettuale, l’altro soprattutto affettivo: la creazione di soluzioni e la costruzione di relazioni umane. Relazioni basate sulla fiducia tra impresa e fornitori, clienti, concittadini e altri. La nostra società dunque, non è basata sulla conoscenza come troppo spesso si è detto, ma sull’identità umana.

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Solo l’uomo ha in sé le due abilità, creative, predisposte alle relazioni umane, critiche nella produzione di valore. Tutto ciò ricolloca l’individuo libero al centro, nel cuore della società. L’uomo diviene la finalità, il motore del nostro sistema. Arriva poi la rivoluzione numerica che, anche se lascia qualche ingannevole spiraglio aperto ai nostalgici della violenza, rafforza ulteriormente questa evoluzione. I computer avanzano senza tregua a passi da giganti, prendono in mano il potere, mettendo a disposizione di chiunque singola persona, associazione, piccola impresa - una capacità di trattamento dell’informazione che fino al giorno prima era privilegio dei colossi. La diffusione di Internet agevola l’informazione, le collaborazioni e le coalizioni. Emerge un nuovo potere del consumerismo. Traggono i vantaggi le imprese che hanno instaurato partnership con i fornitori, Wal-Mart e Dell lo dimostrano6. Le organizzazioni civili come Amnesty International trovano in ciò un formidabile mezzo per esercitare della pressione. Là, dove la televisione, mezzo di propaganda centralizzata, diventa proprietà e gestione dello Stato o del potere economico, grazie a Internet i cittadini si coordinano. Illusioni suicide Allora è tutto perfetto, tutto è per il meglio? No di certo. Disponiamo di tanto potenziale e ciò che determina l’avvenire è la nostra capacità di metterlo in pratica con discernimento, di

preservarci da egoismi, etiche perverse e concetti ingannevoli. Anche il crimine organizzato, le potenze economiche o politiche possono approfittare dei nuovi mezzi numerici per tentare di controllare ancor più la società a tutti i livelli, ciò che costituisce un naturale modus operandi per esempio delle organizzazioni mafiose. Per le potenze economiche e gli Stati si tratterà di cedere a una illusione drammatica: si risponderebbe di conseguenza alla complessità della situazione rendendo più rigido, in nome dell’ordine, il controllo del potere centrale. È un controsenso smentito dall’esperienza, come lo proclama Amartya Sen a proposito delle carestie e del controllo delle nascite in Cina7. Tentativi di questo tipo, attualmente in corso, porteranno a costosi insuccessi. Ma più grave ancora: il potenziale che la tecnica mette a nostra disposizione è talmente vasto, che il mondo si ritrova ad essere in possesso di vari mezzi per giungere dritto al suicidio. Il mondo è disseminato di basi nucleari, si evolve nel mancato rispetto dell’ambiente, conduce iniziative sconsiderate a livello biologico, andando a intaccare la nostra identità umana. L’unica difesa è la libertà d’espressione. Laddove non si consente a punti di vista critici, spesso marginali, di esprimersi, presto o tardi finiamo con l’assistere a una Chernobyl. È evidente in Cina, dove l’Aids si diffonde talmente velocemente, che coloro che provano a diramare uno stato di allarme sul dramma

e sulla corruzione, all’origine del fatto, si ritrovano dietro le sbarre. Abbiamo infine un altro pericolo, di natura concettuale. Nel corso di tre secoli, la scienza e la tecnica hanno fatto progressi spettacolari basandosi su un ragionamento di tipo cartesiano binario e relegando l’uomo, la natura e il mondo a belle macchine. Adesso siamo arrivati a uno stadio dove i problemi da risolvere sono così complessi, che il pensiero binario diventa troppo riduttivo e pericoloso. Anche il programma di decodificazione del genoma umano è sfociato in un mezzo insuccesso, perché non siamo dei computer il cui disco fisso costituirebbe i geni che programmerebbero le nostre virtù, difetti e malattie. Correnti di pensiero scientiste ma non scientifiche, abbagliate dalla cosiddetta intelligenza artificiale, trovano che l’uomo costituisca un ostacolo al progresso: affinché un mondo perfetto di macchine intelligenti possa funzionare in modo ideale, sarebbe bene “perfezionarci” a forza di protesi o mutamenti. Si tratta naturalmente di una illusione meccanicista, il riaffiorare di eresie eugeniste che hanno preceduto il nazismo nelle nostre democrazie. È ignorare ciò che è l’uomo8. La macchina può risolvere problemi che ci sovrastano, ma non può porli al nostro posto. Ciò che ci caratterizza è la coscienza. La coscienza è ciò che emerge dall’interazione di tutte le molecole che ci compongono e che non può ridursi ad alcun organo del nostro corpo. Solo la coscienza

della nostra umanità e la volontà di costruire un nuovo umanismo, per gli uomini e da parte degli uomini, è in grado di risparmiarci una catastrofe ancora più grande, possibile ma assolutamente ineluttabile.

* André-Yves Portnoff, direttore dell’Osservatorio della Rivoluzione dell’Intelligenza a Futuribles, Parigi. Da vent’anni, le sue ricerche sono consacrate all’analisi dei fattori immateriali, alla gestione del cambiamento e alla valutazione del capitale globale delle organizzazioni. Note 1. “Pousser le raisonnement économique jusqu’au bout” (Spingere il ragionamento economico fino a raggiungere l’obiettivo), discussione con Gary Becker, professore presso l’Università di Chicago. Antologia di proposte raccolte da Philippe Simonnot. Le Monde, 7 giugno 2002. 2. Il premio Nobel per l’economia 2001 è stato attribuito a George A. Akerlof, Michael A. Spence et Joseph E. Stiglitz “pour leur travaux sur les marchés avec asymétrie d’information” (per le ricerche attinenti i mercati con asimmetria dell’informazione). 3. André Gorz, L’immatériel, p. 65, Galilée, Parigi, 2003. 4. I risultati europei dell’European Values Survey, sondaggio condotto nel 1981, 1990 e 1999, sono stati pubblicati in due edizioni speciali di Futuribles, n. 200, luglio-agosto 2000 e n. 277, luglio-agosto 2002. 5. Robert Reich, The work of nations, Alfred A. Knopf, Inc. 1991. L’économie mondialisée, p. 104, Dunod, Parigi 1997. 6. André-Yves Portnoff, “Innovation conceptuelle”, Futuribles, n. 282, gennaio 2003. 7. Amartya Sen, Development as freedom, Alfred A. Knopf, Inc., New York, 1999. Lo sviluppo è liberta. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000. Cfr. anche arcVision n. 8, 2002. 8. Jean-Claude Guillebaud, Le principe d’humanité, Seuil, 2001.

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et another fraudulent bankruptcy, a new wave of lay-offs, an alleged case of actual human cloning, an environmental or health disaster, the threat of war or bomb attacks. What a hectic state of affairs! There are days when reading or hearing news like this has a more poignant effect on us, making us feel rather gloomy and concerned. A certain feeling comes over us and then it suddenly becomes clear: we are surviving in a hostile, unfathomable world that seems to be getting stranger as each day passes by and that seems more than anything to put up with us and nothing more. When thoughts like this come over us, we let us ourselves be projected back in time and delve back into the past. We go back sixty years to 1943. We think about the war and how much suffering it caused hundreds of millions of people, millions of whom were treated worse than animals, denied even their status as human beings. The concentration camp was a caricature pushed to the extreme of an economic system that wanted to reduce most people to mere interchangeable automata. But after all this was in fact a fundamental premise of classical economics. Is not the Noble Prize winner Gary Becker, the “inventor” of “human capital” (as the title of his book says), trying to analyze everything whilst ignoring the intentions of the people involved and the contributions of the human sciences?1 Efforts were made to program individuals in their roles as workers and consumers to

make them compatible with the standardized machinery of an economy based on mass production and consumption. Taylor or Stakhanov-style factories run along the old Ford guidelines planned workers’ movements so that they did exactly what had been decided by some small percentage of the population reputedly capable of “acting as the brains behind” work and organizations. In the assembly-line labor with all personal initiative outlawed, men were compelled to forget any distinctive features in themselves to fall into the “role” of the ideal average worker. All cut from the same ilk. There was no lack of surprises and, of course, no lack of rule-breaking, thanks to which the whole thing kept on going in the very same way. Mass production meant the economy was based on low-cost labor. People had to be persuaded to buy boring mass-produced goods. The market (wrongly treated as sovereign) was altered by the effects of supply that dictated demand (consumers had no choice). Limited choices due to a lack of competition and very little consumer information. Clear proof comes from the studies2 on the influence of information asymmetries ensuring that supply controls demand. The American tobacco industry’s plans to extend the huge tobacco market to include women3 by commissioning the advertising geniuses Barnays to devise a “persuasion” campaign provides a symbolic example of this kind of control. A carefully “thought out”

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Solo l’uomo ha in sé le due abilità, creative, predisposte alle relazioni umane, critiche nella produzione di valore. Tutto ciò ricolloca l’individuo libero al centro, nel cuore della società. L’uomo diviene la finalità, il motore del nostro sistema. Arriva poi la rivoluzione numerica che, anche se lascia qualche ingannevole spiraglio aperto ai nostalgici della violenza, rafforza ulteriormente questa evoluzione. I computer avanzano senza tregua a passi da giganti, prendono in mano il potere, mettendo a disposizione di chiunque singola persona, associazione, piccola impresa - una capacità di trattamento dell’informazione che fino al giorno prima era privilegio dei colossi. La diffusione di Internet agevola l’informazione, le collaborazioni e le coalizioni. Emerge un nuovo potere del consumerismo. Traggono i vantaggi le imprese che hanno instaurato partnership con i fornitori, Wal-Mart e Dell lo dimostrano6. Le organizzazioni civili come Amnesty International trovano in ciò un formidabile mezzo per esercitare della pressione. Là, dove la televisione, mezzo di propaganda centralizzata, diventa proprietà e gestione dello Stato o del potere economico, grazie a Internet i cittadini si coordinano. Illusioni suicide Allora è tutto perfetto, tutto è per il meglio? No di certo. Disponiamo di tanto potenziale e ciò che determina l’avvenire è la nostra capacità di metterlo in pratica con discernimento, di

preservarci da egoismi, etiche perverse e concetti ingannevoli. Anche il crimine organizzato, le potenze economiche o politiche possono approfittare dei nuovi mezzi numerici per tentare di controllare ancor più la società a tutti i livelli, ciò che costituisce un naturale modus operandi per esempio delle organizzazioni mafiose. Per le potenze economiche e gli Stati si tratterà di cedere a una illusione drammatica: si risponderebbe di conseguenza alla complessità della situazione rendendo più rigido, in nome dell’ordine, il controllo del potere centrale. È un controsenso smentito dall’esperienza, come lo proclama Amartya Sen a proposito delle carestie e del controllo delle nascite in Cina7. Tentativi di questo tipo, attualmente in corso, porteranno a costosi insuccessi. Ma più grave ancora: il potenziale che la tecnica mette a nostra disposizione è talmente vasto, che il mondo si ritrova ad essere in possesso di vari mezzi per giungere dritto al suicidio. Il mondo è disseminato di basi nucleari, si evolve nel mancato rispetto dell’ambiente, conduce iniziative sconsiderate a livello biologico, andando a intaccare la nostra identità umana. L’unica difesa è la libertà d’espressione. Laddove non si consente a punti di vista critici, spesso marginali, di esprimersi, presto o tardi finiamo con l’assistere a una Chernobyl. È evidente in Cina, dove l’Aids si diffonde talmente velocemente, che coloro che provano a diramare uno stato di allarme sul dramma

e sulla corruzione, all’origine del fatto, si ritrovano dietro le sbarre. Abbiamo infine un altro pericolo, di natura concettuale. Nel corso di tre secoli, la scienza e la tecnica hanno fatto progressi spettacolari basandosi su un ragionamento di tipo cartesiano binario e relegando l’uomo, la natura e il mondo a belle macchine. Adesso siamo arrivati a uno stadio dove i problemi da risolvere sono così complessi, che il pensiero binario diventa troppo riduttivo e pericoloso. Anche il programma di decodificazione del genoma umano è sfociato in un mezzo insuccesso, perché non siamo dei computer il cui disco fisso costituirebbe i geni che programmerebbero le nostre virtù, difetti e malattie. Correnti di pensiero scientiste ma non scientifiche, abbagliate dalla cosiddetta intelligenza artificiale, trovano che l’uomo costituisca un ostacolo al progresso: affinché un mondo perfetto di macchine intelligenti possa funzionare in modo ideale, sarebbe bene “perfezionarci” a forza di protesi o mutamenti. Si tratta naturalmente di una illusione meccanicista, il riaffiorare di eresie eugeniste che hanno preceduto il nazismo nelle nostre democrazie. È ignorare ciò che è l’uomo8. La macchina può risolvere problemi che ci sovrastano, ma non può porli al nostro posto. Ciò che ci caratterizza è la coscienza. La coscienza è ciò che emerge dall’interazione di tutte le molecole che ci compongono e che non può ridursi ad alcun organo del nostro corpo. Solo la coscienza

della nostra umanità e la volontà di costruire un nuovo umanismo, per gli uomini e da parte degli uomini, è in grado di risparmiarci una catastrofe ancora più grande, possibile ma assolutamente ineluttabile.

* André-Yves Portnoff, direttore dell’Osservatorio della Rivoluzione dell’Intelligenza a Futuribles, Parigi. Da vent’anni, le sue ricerche sono consacrate all’analisi dei fattori immateriali, alla gestione del cambiamento e alla valutazione del capitale globale delle organizzazioni. Note 1. “Pousser le raisonnement économique jusqu’au bout” (Spingere il ragionamento economico fino a raggiungere l’obiettivo), discussione con Gary Becker, professore presso l’Università di Chicago. Antologia di proposte raccolte da Philippe Simonnot. Le Monde, 7 giugno 2002. 2. Il premio Nobel per l’economia 2001 è stato attribuito a George A. Akerlof, Michael A. Spence et Joseph E. Stiglitz “pour leur travaux sur les marchés avec asymétrie d’information” (per le ricerche attinenti i mercati con asimmetria dell’informazione). 3. André Gorz, L’immatériel, p. 65, Galilée, Parigi, 2003. 4. I risultati europei dell’European Values Survey, sondaggio condotto nel 1981, 1990 e 1999, sono stati pubblicati in due edizioni speciali di Futuribles, n. 200, luglio-agosto 2000 e n. 277, luglio-agosto 2002. 5. Robert Reich, The work of nations, Alfred A. Knopf, Inc. 1991. L’économie mondialisée, p. 104, Dunod, Parigi 1997. 6. André-Yves Portnoff, “Innovation conceptuelle”, Futuribles, n. 282, gennaio 2003. 7. Amartya Sen, Development as freedom, Alfred A. Knopf, Inc., New York, 1999. Lo sviluppo è liberta. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000. Cfr. anche arcVision n. 8, 2002. 8. Jean-Claude Guillebaud, Le principe d’humanité, Seuil, 2001.

Y

et another fraudulent bankruptcy, a new wave of lay-offs, an alleged case of actual human cloning, an environmental or health disaster, the threat of war or bomb attacks. What a hectic state of affairs! There are days when reading or hearing news like this has a more poignant effect on us, making us feel rather gloomy and concerned. A certain feeling comes over us and then it suddenly becomes clear: we are surviving in a hostile, unfathomable world that seems to be getting stranger as each day passes by and that seems more than anything to put up with us and nothing more. When thoughts like this come over us, we let us ourselves be projected back in time and delve back into the past. We go back sixty years to 1943. We think about the war and how much suffering it caused hundreds of millions of people, millions of whom were treated worse than animals, denied even their status as human beings. The concentration camp was a caricature pushed to the extreme of an economic system that wanted to reduce most people to mere interchangeable automata. But after all this was in fact a fundamental premise of classical economics. Is not the Noble Prize winner Gary Becker, the “inventor” of “human capital” (as the title of his book says), trying to analyze everything whilst ignoring the intentions of the people involved and the contributions of the human sciences?1 Efforts were made to program individuals in their roles as workers and consumers to

make them compatible with the standardized machinery of an economy based on mass production and consumption. Taylor or Stakhanov-style factories run along the old Ford guidelines planned workers’ movements so that they did exactly what had been decided by some small percentage of the population reputedly capable of “acting as the brains behind” work and organizations. In the assembly-line labor with all personal initiative outlawed, men were compelled to forget any distinctive features in themselves to fall into the “role” of the ideal average worker. All cut from the same ilk. There was no lack of surprises and, of course, no lack of rule-breaking, thanks to which the whole thing kept on going in the very same way. Mass production meant the economy was based on low-cost labor. People had to be persuaded to buy boring mass-produced goods. The market (wrongly treated as sovereign) was altered by the effects of supply that dictated demand (consumers had no choice). Limited choices due to a lack of competition and very little consumer information. Clear proof comes from the studies2 on the influence of information asymmetries ensuring that supply controls demand. The American tobacco industry’s plans to extend the huge tobacco market to include women3 by commissioning the advertising geniuses Barnays to devise a “persuasion” campaign provides a symbolic example of this kind of control. A carefully “thought out”

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campaign launched on Independence Day, suggesting that feminists ought to force men to share the privilege of smoking tobacco. So cigarettes were turned into “freedom torches” and lung cancer finally overtook breast cancer as the main cause of female death, killing millions of women. Individual-oriented production The Ford model, that many people still try to promote, has turned out to be counterproductive and dangerous, causing all the repeated crisis periods we keep on experiencing. The old system no longer works, mainly because people reject it and increasingly have the means to do so. They are no longer interested in standardized goods designed for the average consumer, who does not really exist. The general standard of living, worldwide competition due to the development of transport and communication techniques allow better educated and informed consumers to choose and criticize governments, institutions and businesses. This favors the kind of individualism and desire for free will that characterize all developed countries and plenty of others4. The market needs more quality and personalization. People want to choose their life style in relation to their own peculiar qualities, cultures and values. Thanks partly to the computerization of production, goods “for the masses” are now possible. In a scenario of widespread competition, meeting these needs means that design, production and distribution

must be carried out better, not just well. Innovation is the magic word. Creativity is now a fundamental resource for economic progress. People have never had so much information to put at disposal of innovation. Starting with a resource that never runs out - human creativity new markets are created for an unlimited length of time. A situation in which there is certainly no lack of drive, provided the right kind of creativity is brought into play. And this is where there is a sort of historical rupture: physical effort might be an intrinsic part of violence but not of creativity, which feeds off the whole of human experience, imagination and personality. It is a gift that comes from deep inside and cannot be detached from the individual and can only be destroyed when it is violated by restrictions and constraints. In a society that is constantly changing, freedom and respect for human dignity are essential for efficiency, forcing everything to be called into question and reinvented to adapt to this new context. But whose freedom are we talking about? Some “symbol manipulator” as Robert Reich puts it5? Non, it is an entirely personal matter. The situations that need handling in an organization are so complicated and unexpected that, unless everybody is constantly ready to deal with any dysfunctions there might be or grasp progress opportunities as they arise, then in no time the organization will be overwhelmed by competition. Various studies carried out recently in North America, Europe and Asia confirm that

the quality of personnel management has a decisive impact on economic performance, providing a reliable indicator of financial results over a two-year period. The challenge facing firms is to succeed in moving on from an aggressive line of thinking to a more persuasive approach based on partnership with customers and staff. This applies to people, teams, organizations and countries. We have never had so much information at our disposal, but the problems to solve, the structures to run are so complex that people must not presume to be able to do everything alone. We need to persuade people with complementary competences to co-operate with us. Nowadays, the kind of work that creates wealth is not fundamentally physical and is confined to two basic components, one intellectual and the other emotional: the devising of solutions and the construction of human relations. Relations based on trust between a company and its suppliers, customers, the local community etc. This means, contrary to popular belief, our society is not based on knowledge but rather human identity. Only human beings have these two talents, creative, disposed to human relations and critical in the generation of value. All this places free human beings at the center or heart of society. People become an end; the engine driving our system. Then there is the numerical revolution which, while leaving the odd deceptive window of opportunity open to those who miss the violence, merely helps along this trend. Compute technology

is proceeding in leaps and bounds, empowering people and providing anybody individuals, associations and small businesses - with the chance to handle the kind of information that was previously only available to the privileged few. The spread of Internet has made it easier to obtain information, co-operate and work together. A new form of consumer power has emerged. Firms like Wal-Mart and Dell, which have set up business relations with suppliers, are eloquent proof6. Civil organizations like Amnesty International have found a wonderful means of exerting pressure. Whereas television, a centralized means of propaganda, is owned and run by the State or economic power, the Internet lets ordinary people work together. Suicidal Illusions So does this mean everything is perfect, the best it could ever be? Of course not. We have plenty of potential at our disposal and our future depends on how we make discerning use of it, making sure we are not too selfish, ethically perverse or taken in by misleading ideas. Organized crime and economic/political powers could take advantage of the latest technology to gain even greater control over society at all levels. Of course, this is the most natural way of operating for Mafia organizations. Economic powers and governments will have to give in to a dramatic illusion: the complexity of the situation could be dealt with by imposing even tighter state control in the name of law and order. This contradictory state of affairs is actually refuted by experience, as

Amartya Sen pointed out in relation to famines and birth control in China7. Initiatives like some of those already under way are bound to lead to expensive failures. But worse still: the potential we now have thanks to new technology is so vast that the world finds itself with various means of suicide at its disposal. The world is full of nuclear bases and is evolving without paying due heed to the environment; it is involved in reckless undertakings on a biological level and is even threatening our very own human identity. The only defense is freedom of speech. Where critical viewpoints, however marginal, are silenced, sooner or later we will end up with another

Chernobyl. This can be seen in China, where AIDS is spreading so fast that anyone daring to set the alarm bells ringing or pointing to the corruption at the roots of this dramatic state of affairs soon finds themselves behind bars. Finally, there is another danger of a conceptual nature. Over three centuries, science and technology have made spectacular progress based on binary-style Cartesian reasoning, reducing people, nature and the world in general to the status of fancy machines. We have now reached the point where the problems to be solved are so complicated that binary thinking is too reductive and dangerous. Even the program

for decoding the human genome has turned out to be a half-failure, because we are not computers whose hard disks are genes programming our virtues, faults and illnesses. These are scientological not scientific lines of thought, blinded by so-called artificial intelligence that treats man like an obstacle to progress: if a perfect world of intelligent machines is to work in an ideal way, it would be advisable to “perfect ourselves” through prostheses and mutations. Needless to say, this is a mechanistic fallacy, a re-emerging of the kind of eugenics-style heresies that eventually led to Nazism in our democracies. It means ignoring what people are8. Machines can solve some

of the problems afflicting us, but they cannot pose them in our stead. Consciousness is our distinctive feature. Consciousness is what emerges from the interaction of all our constituent molecules and cannot be reduced to any one organ in our bodies. Only an awareness of our humanity and a desire to construct a new form of humanism, for people and by people, will save us from an even greater potential catastrophe.

* André-Yves Portnoff is director of the Watchtower on the Revolution of Intelligence at Futuribles, Paris. For the last twenty years he has been researching into immaterial factors, the management of change and assessment of the global capital of organizations. Notes 1. “Pousser le raisonnement économique jusqu’au bout” (Pushing economic reasoning to its extreme), discussion with Gary Becker, a professor of the Chicago University. An Anthology of proposals drawn up by Philippe Simonnot. Le Monde, 7th June 2002. 2. The 2001 Nobel Prize for Economics was awarded to George A. Akerlof, Michael A. Spence and Joseph E. Stiglitz “pour leur travaux sur les marchés avec asymétrie d’information” (for research into markets with information asymmetries). 3. André Gorz, L’immatériel, pg. 65, Galilée, Paris, 2003. 4. The European results of the European Values Survey, a survey carried out in 1981, 1990 and 1999, were published in two special editions of Futuribles, n. 200, July-August 2000 and n. 277, JulyAugust 2002. 5. Robert Reich, The work of nations, Alfred A. Knopf, Inc. 1991. L’économie mondialisée, pg. 104, Dunod, Paris 1997. 6. André-Yves Portnoff, “Innovation conceptuelle”, Futuribles, n. 282, January 2003. 7. Amartya Sen, Development as freedom, Alfred A. Knopf, Inc. New York, 1999. Lo sviluppo è liberta. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milan, 2000. Cf. also arcVision n. 8, 2002. 8. Jean-Claude Guillebaud, Le principe d’humanité, Seuil, 2001.

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campaign launched on Independence Day, suggesting that feminists ought to force men to share the privilege of smoking tobacco. So cigarettes were turned into “freedom torches” and lung cancer finally overtook breast cancer as the main cause of female death, killing millions of women. Individual-oriented production The Ford model, that many people still try to promote, has turned out to be counterproductive and dangerous, causing all the repeated crisis periods we keep on experiencing. The old system no longer works, mainly because people reject it and increasingly have the means to do so. They are no longer interested in standardized goods designed for the average consumer, who does not really exist. The general standard of living, worldwide competition due to the development of transport and communication techniques allow better educated and informed consumers to choose and criticize governments, institutions and businesses. This favors the kind of individualism and desire for free will that characterize all developed countries and plenty of others4. The market needs more quality and personalization. People want to choose their life style in relation to their own peculiar qualities, cultures and values. Thanks partly to the computerization of production, goods “for the masses” are now possible. In a scenario of widespread competition, meeting these needs means that design, production and distribution

must be carried out better, not just well. Innovation is the magic word. Creativity is now a fundamental resource for economic progress. People have never had so much information to put at disposal of innovation. Starting with a resource that never runs out - human creativity new markets are created for an unlimited length of time. A situation in which there is certainly no lack of drive, provided the right kind of creativity is brought into play. And this is where there is a sort of historical rupture: physical effort might be an intrinsic part of violence but not of creativity, which feeds off the whole of human experience, imagination and personality. It is a gift that comes from deep inside and cannot be detached from the individual and can only be destroyed when it is violated by restrictions and constraints. In a society that is constantly changing, freedom and respect for human dignity are essential for efficiency, forcing everything to be called into question and reinvented to adapt to this new context. But whose freedom are we talking about? Some “symbol manipulator” as Robert Reich puts it5? Non, it is an entirely personal matter. The situations that need handling in an organization are so complicated and unexpected that, unless everybody is constantly ready to deal with any dysfunctions there might be or grasp progress opportunities as they arise, then in no time the organization will be overwhelmed by competition. Various studies carried out recently in North America, Europe and Asia confirm that

the quality of personnel management has a decisive impact on economic performance, providing a reliable indicator of financial results over a two-year period. The challenge facing firms is to succeed in moving on from an aggressive line of thinking to a more persuasive approach based on partnership with customers and staff. This applies to people, teams, organizations and countries. We have never had so much information at our disposal, but the problems to solve, the structures to run are so complex that people must not presume to be able to do everything alone. We need to persuade people with complementary competences to co-operate with us. Nowadays, the kind of work that creates wealth is not fundamentally physical and is confined to two basic components, one intellectual and the other emotional: the devising of solutions and the construction of human relations. Relations based on trust between a company and its suppliers, customers, the local community etc. This means, contrary to popular belief, our society is not based on knowledge but rather human identity. Only human beings have these two talents, creative, disposed to human relations and critical in the generation of value. All this places free human beings at the center or heart of society. People become an end; the engine driving our system. Then there is the numerical revolution which, while leaving the odd deceptive window of opportunity open to those who miss the violence, merely helps along this trend. Compute technology

is proceeding in leaps and bounds, empowering people and providing anybody individuals, associations and small businesses - with the chance to handle the kind of information that was previously only available to the privileged few. The spread of Internet has made it easier to obtain information, co-operate and work together. A new form of consumer power has emerged. Firms like Wal-Mart and Dell, which have set up business relations with suppliers, are eloquent proof6. Civil organizations like Amnesty International have found a wonderful means of exerting pressure. Whereas television, a centralized means of propaganda, is owned and run by the State or economic power, the Internet lets ordinary people work together. Suicidal Illusions So does this mean everything is perfect, the best it could ever be? Of course not. We have plenty of potential at our disposal and our future depends on how we make discerning use of it, making sure we are not too selfish, ethically perverse or taken in by misleading ideas. Organized crime and economic/political powers could take advantage of the latest technology to gain even greater control over society at all levels. Of course, this is the most natural way of operating for Mafia organizations. Economic powers and governments will have to give in to a dramatic illusion: the complexity of the situation could be dealt with by imposing even tighter state control in the name of law and order. This contradictory state of affairs is actually refuted by experience, as

Amartya Sen pointed out in relation to famines and birth control in China7. Initiatives like some of those already under way are bound to lead to expensive failures. But worse still: the potential we now have thanks to new technology is so vast that the world finds itself with various means of suicide at its disposal. The world is full of nuclear bases and is evolving without paying due heed to the environment; it is involved in reckless undertakings on a biological level and is even threatening our very own human identity. The only defense is freedom of speech. Where critical viewpoints, however marginal, are silenced, sooner or later we will end up with another

Chernobyl. This can be seen in China, where AIDS is spreading so fast that anyone daring to set the alarm bells ringing or pointing to the corruption at the roots of this dramatic state of affairs soon finds themselves behind bars. Finally, there is another danger of a conceptual nature. Over three centuries, science and technology have made spectacular progress based on binary-style Cartesian reasoning, reducing people, nature and the world in general to the status of fancy machines. We have now reached the point where the problems to be solved are so complicated that binary thinking is too reductive and dangerous. Even the program

for decoding the human genome has turned out to be a half-failure, because we are not computers whose hard disks are genes programming our virtues, faults and illnesses. These are scientological not scientific lines of thought, blinded by so-called artificial intelligence that treats man like an obstacle to progress: if a perfect world of intelligent machines is to work in an ideal way, it would be advisable to “perfect ourselves” through prostheses and mutations. Needless to say, this is a mechanistic fallacy, a re-emerging of the kind of eugenics-style heresies that eventually led to Nazism in our democracies. It means ignoring what people are8. Machines can solve some

of the problems afflicting us, but they cannot pose them in our stead. Consciousness is our distinctive feature. Consciousness is what emerges from the interaction of all our constituent molecules and cannot be reduced to any one organ in our bodies. Only an awareness of our humanity and a desire to construct a new form of humanism, for people and by people, will save us from an even greater potential catastrophe.

* André-Yves Portnoff is director of the Watchtower on the Revolution of Intelligence at Futuribles, Paris. For the last twenty years he has been researching into immaterial factors, the management of change and assessment of the global capital of organizations. Notes 1. “Pousser le raisonnement économique jusqu’au bout” (Pushing economic reasoning to its extreme), discussion with Gary Becker, a professor of the Chicago University. An Anthology of proposals drawn up by Philippe Simonnot. Le Monde, 7th June 2002. 2. The 2001 Nobel Prize for Economics was awarded to George A. Akerlof, Michael A. Spence and Joseph E. Stiglitz “pour leur travaux sur les marchés avec asymétrie d’information” (for research into markets with information asymmetries). 3. André Gorz, L’immatériel, pg. 65, Galilée, Paris, 2003. 4. The European results of the European Values Survey, a survey carried out in 1981, 1990 and 1999, were published in two special editions of Futuribles, n. 200, July-August 2000 and n. 277, JulyAugust 2002. 5. Robert Reich, The work of nations, Alfred A. Knopf, Inc. 1991. L’économie mondialisée, pg. 104, Dunod, Paris 1997. 6. André-Yves Portnoff, “Innovation conceptuelle”, Futuribles, n. 282, January 2003. 7. Amartya Sen, Development as freedom, Alfred A. Knopf, Inc. New York, 1999. Lo sviluppo è liberta. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milan, 2000. Cf. also arcVision n. 8, 2002. 8. Jean-Claude Guillebaud, Le principe d’humanité, Seuil, 2001.

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Nella mente del computer In a Computer’s Mind di Diego Marconi* by Diego Marconi*

Ancora oggi nessuno può dire di sapere quali siano i veri limiti invalicabili dell’intelligenza artificiale Even today nobody can claim to know whether artificial intelligence has insuperable limits

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Diego Marconi

L’

intelligenza artificiale è il programma di ricerca tecnologica che si propone di realizzare programmi di computer capaci di prestazioni paragonabili a quelle della mente umana, cioè di emulare i processi cognitivi umani. Certo, i computer sono da tempo capaci di processi cognitivi come il calcolo aritmetico, il ragionamento logico o il gioco degli scacchi: tutte cose in cui, anzi, sono molto più bravi e più veloci di noi. Ma qui si parla di attività più complesse, dalla comprensione del linguaggio alla traduzione da una lingua a un’altra, dalla diagnosi medica al riconoscimento di oggetti. Attività che, da un lato, assomigliano poco a un calcolo, almeno a prima vista; e, dall’altro, sembrano caratteristicamente e irriducibilmente umane, nel senso che, se una macchina ne fosse davvero capace, saremmo inclini a trattarla come una di noi. All’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso, l’intelligenza artificiale aveva colto alcuni indubbi successi: erano stati progettati sistemi esperti che

sembravano capaci di buone prestazioni in campi come la prospezione mineraria, l’analisi chimica e la diagnosi medica; altri sistemi sembravano comprendere abbastanza bene l’inglese, sia pure entro limiti piuttosto ristretti (conoscevano relativamente poche parole, capivano poche frasi). Ma alcuni filosofi erano scettici. Hubert Dreyfus, ad esempio, pensava che l’intelligenza artificiale non faceva che riprodurre il vecchio sogno razionalista di ridurre il funzionamento della mente all’elaborazione di rappresentazioni secondo regole, e sarebbe fallita - come era fallito il razionalismo - perché la mente non funziona così. John Searle rincarava la dose, sostenendo che anche le prestazioni di cui i computer erano capaci non erano davvero intelligenti, perché le macchine, al contrario di noi, non sapevano quel che facevano: i simboli che elaboravano non avevano, per i computer, alcun significato (ne avevano, invece, per i programmatori umani che “dicevano” alle macchine

che cosa fare). Di fatto, all’inizio degli anni ‘80 l’intelligenza artificiale entrò in quella che venne percepita come una fase di stallo. I progressi sembravano lenti e poco significativi; ci si rese conto che, per realizzare programmi intelligenti, si sarebbe dovuto saperne molto di più sulla nostra intelligenza, e forse anche sulla sua base materiale, la neurofisiologia del cervello. Nell’attesa, le ambizioni si ridimensionarono, e con loro anche i finanziamenti. Non si parlò (quasi) più di mente artificiale; ci si accontentò, nel più dei casi, di applicare le tecniche dell’intelligenza artificiale accanto ad altre - alla risoluzione di certi problemi limitati e pratici, come per esempio il reperimento di informazioni su Internet, o di sviluppare, a un alto livello di astrazione, algoritmi e architetture che avrebbero potuto rivelarsi utili nella progettazione di sistemi più “intelligenti”. La “rivoluzione connessionista” della fine del secolo non cambiò qualitativamente la situazione: le reti neurali facevano alcune cose meglio dei sistemi tradizionali, altre peggio, altre per niente affatto, ma comunque non fornivano, almeno immediatamente, la soluzione delle difficoltà di fondo dell’intelligenza artificiale. Su un piano di principio, tuttavia, nulla era deciso. A tutt’oggi, non possiamo veramente dire di sapere quali sono i limiti invalicabili dell’intelligenza artificiale (se ci sono). Nessuno ha dimostrato che un computer non potrà mai, ad esempio, riconoscere un volto o mettere ordine in una stanza.

I limiti accertati, indiscutibili, dei computer sono altri, e riguardano, più che le macchine, i calcoli che esse elaborano: e dunque riguardano anche noi, perché quel che le macchine proprio non sanno fare, non lo sappiamo fare nemmeno noi. Questi “veri” limiti sono descritti con grande competenza ed efficacia nel recente Computer a responsabilità limitata di David Harel (Einaudi 2002). Prendete il sogno di ogni programmatore: un programma che prende in input altri programmi (o meglio, le loro descrizioni) e risponde “Sì” se il programma in input fornisce una soluzione corretta per tutti gli input ammissibili, e “No” se per qualche input o non termina, o fornisce una soluzione scorretta. Orbene, il sogno è irrealizzabile: è dimostrato che il problema del controllo dei programmi è indecidibile, cioè che non esiste un algoritmo - un procedimento meccanico che lo risolve. I problemi indecidibili sono molti. Alcuni di essi sono equivalenti tra loro: se sapessimo risolverne uno (se avessimo un oracolo che lo risolve) sapremmo risolvere anche gli altri. Altri invece sono così indecidibili che non sapremmo risolverli nemmeno se disponessimo di una gerarchia infinita di oracoli. Considerate ora il problema apparentemente banale - di fare l’orario di una scuola, cioè di distribuire professori e studenti nelle aule disponibili, dati certi vincoli. Questo problema è decidibile. Ma gli algoritmi che lo risolvono sono lenti, perché, al crescere della complessità dell’input,

il tempo di esecuzione cresce in maniera esponenziale (cioè se N è la lunghezza dell’input, il tempo di esecuzione è mN). Dunque “lenti” vuol dire molto lenti: certi algoritmi esponenziali, dato un input di 100 caratteri, forniscono la risposta dopo un numero di secoli di 185 cifre. Per farsi un’idea di quanto tempo è, si pensi che il numero di secoli da cui esiste l’Universo è di 9 cifre. Di certo il Preside non potrebbe permettersi di aspettare così a lungo che l’orario sia pronto. I problemi che sono decidibili soltanto da algoritmi di questo genere si chiamano “intrattabili”. In realtà, noi non sappiamo veramente se, ad esempio, il problema dell’orario scolastico sia intrattabile; quello che sappiamo è che il problema è decidibile, e che però tutti gli algoritmi di risoluzione a noi noti sono inaccettabilmente lenti. E sappiamo anche che, se ci fosse un algoritmo “ragionevole” che risolve questo particolare problema, ci sarebbero algoritmi ragionevoli per tutti gli altri problemi analoghi. Ma non sappiamo se questi algoritmi ci siano (anche se la maggior parte dei matematici pensa di no). Questo problema è una delle più affascinanti questioni aperte della matematica attuale. La nostra cultura è abituata a pensare che, se un problema è sensato, debba essere risolubile. Ma i problemi di cui abbiamo parlato non hanno, almeno a prima vista, nulla di insensato: non implicano contraddizioni né mettono in gioco capacità infinite. Eppure, alcuni di essi sono assolutamente insolubili, mentre altri sono

(probabilmente) insolubili nell’ambito del nostro Universo, quindi da noi e da tutti gli esseri vagamente affini a noi. Forse, dunque, dobbiamo riesaminare alcuni aspetti centrali del nostro modo di pensare.

* Diego Marconi insegna logica e filosofia del linguaggio all’Università degli Studi del Piemonte Orientale e si occupa, in particolare, del pensiero di Wittgenstein, di teoria semantica e di filosofia della scienza cognitiva. Tra le pubblicazioni recenti più importanti: Lexical Competence (MIT Press 1997), Wittgenstein (Laterza 1997), La philosophie du langage au XXème siècle (L’éclat 1997), Filosofia e scienza cognitiva (Laterza 2001).

A

rtificial intelligence is a technological research program aimed at creating computer programs capable of performing in comparable ways to the human mind or, in other words, of emulating human cognitive processes. Of course for some time now computers have been able to perform cognitive processes like arithmetic computation, logical reasoning or playing chess: all things at which they perform better and faster than us. But here we are talking about more complicated matters, such as understanding language, translating from one language to another, carrying out

medical diagnoses and recognizing objects. Activities which, on one hand, do not at least initially seem like computations; on the contrary, they actually appear to be irreducibly human characteristics in the sense that, if a machine were really capable of doing them, we would tend to treat it like one of us. In the early 1970s, artificial intelligence certainly achieved some notable successes: expert systems were designed that seemed to be capable of performing well in fields like mineral prospecting, chemical analysis and medical diagnosis; other systems seemed to understand English fairly well, although within rather confined limits (they only knew a few words and understood a few sentences). But a number of philosophers were skeptical. Hubert Dreyfus, for instance, believed that artificial intelligence was merely the old rationalist dream of reducing the workings of the human mind to just elaborating representations based on rules and was therefore destined to fail - just as rationalism had failed - because that is not how the mind works. John Searle went even further and claimed that computers were not even carrying out intelligent actions, because machines, unlike us, do not know what they are doing: the symbols they manipulate are meaningless (whereas they are meaningful to the human programmers “telling” the machines what to do). In contrast, artificial intelligence seemed to grind to a halt in the early 1980s. Progress seemed slow and rather insignificant; it was

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Nella mente del computer In a Computer’s Mind di Diego Marconi* by Diego Marconi*

Ancora oggi nessuno può dire di sapere quali siano i veri limiti invalicabili dell’intelligenza artificiale Even today nobody can claim to know whether artificial intelligence has insuperable limits

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Diego Marconi

L’

intelligenza artificiale è il programma di ricerca tecnologica che si propone di realizzare programmi di computer capaci di prestazioni paragonabili a quelle della mente umana, cioè di emulare i processi cognitivi umani. Certo, i computer sono da tempo capaci di processi cognitivi come il calcolo aritmetico, il ragionamento logico o il gioco degli scacchi: tutte cose in cui, anzi, sono molto più bravi e più veloci di noi. Ma qui si parla di attività più complesse, dalla comprensione del linguaggio alla traduzione da una lingua a un’altra, dalla diagnosi medica al riconoscimento di oggetti. Attività che, da un lato, assomigliano poco a un calcolo, almeno a prima vista; e, dall’altro, sembrano caratteristicamente e irriducibilmente umane, nel senso che, se una macchina ne fosse davvero capace, saremmo inclini a trattarla come una di noi. All’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso, l’intelligenza artificiale aveva colto alcuni indubbi successi: erano stati progettati sistemi esperti che

sembravano capaci di buone prestazioni in campi come la prospezione mineraria, l’analisi chimica e la diagnosi medica; altri sistemi sembravano comprendere abbastanza bene l’inglese, sia pure entro limiti piuttosto ristretti (conoscevano relativamente poche parole, capivano poche frasi). Ma alcuni filosofi erano scettici. Hubert Dreyfus, ad esempio, pensava che l’intelligenza artificiale non faceva che riprodurre il vecchio sogno razionalista di ridurre il funzionamento della mente all’elaborazione di rappresentazioni secondo regole, e sarebbe fallita - come era fallito il razionalismo - perché la mente non funziona così. John Searle rincarava la dose, sostenendo che anche le prestazioni di cui i computer erano capaci non erano davvero intelligenti, perché le macchine, al contrario di noi, non sapevano quel che facevano: i simboli che elaboravano non avevano, per i computer, alcun significato (ne avevano, invece, per i programmatori umani che “dicevano” alle macchine

che cosa fare). Di fatto, all’inizio degli anni ‘80 l’intelligenza artificiale entrò in quella che venne percepita come una fase di stallo. I progressi sembravano lenti e poco significativi; ci si rese conto che, per realizzare programmi intelligenti, si sarebbe dovuto saperne molto di più sulla nostra intelligenza, e forse anche sulla sua base materiale, la neurofisiologia del cervello. Nell’attesa, le ambizioni si ridimensionarono, e con loro anche i finanziamenti. Non si parlò (quasi) più di mente artificiale; ci si accontentò, nel più dei casi, di applicare le tecniche dell’intelligenza artificiale accanto ad altre - alla risoluzione di certi problemi limitati e pratici, come per esempio il reperimento di informazioni su Internet, o di sviluppare, a un alto livello di astrazione, algoritmi e architetture che avrebbero potuto rivelarsi utili nella progettazione di sistemi più “intelligenti”. La “rivoluzione connessionista” della fine del secolo non cambiò qualitativamente la situazione: le reti neurali facevano alcune cose meglio dei sistemi tradizionali, altre peggio, altre per niente affatto, ma comunque non fornivano, almeno immediatamente, la soluzione delle difficoltà di fondo dell’intelligenza artificiale. Su un piano di principio, tuttavia, nulla era deciso. A tutt’oggi, non possiamo veramente dire di sapere quali sono i limiti invalicabili dell’intelligenza artificiale (se ci sono). Nessuno ha dimostrato che un computer non potrà mai, ad esempio, riconoscere un volto o mettere ordine in una stanza.

I limiti accertati, indiscutibili, dei computer sono altri, e riguardano, più che le macchine, i calcoli che esse elaborano: e dunque riguardano anche noi, perché quel che le macchine proprio non sanno fare, non lo sappiamo fare nemmeno noi. Questi “veri” limiti sono descritti con grande competenza ed efficacia nel recente Computer a responsabilità limitata di David Harel (Einaudi 2002). Prendete il sogno di ogni programmatore: un programma che prende in input altri programmi (o meglio, le loro descrizioni) e risponde “Sì” se il programma in input fornisce una soluzione corretta per tutti gli input ammissibili, e “No” se per qualche input o non termina, o fornisce una soluzione scorretta. Orbene, il sogno è irrealizzabile: è dimostrato che il problema del controllo dei programmi è indecidibile, cioè che non esiste un algoritmo - un procedimento meccanico che lo risolve. I problemi indecidibili sono molti. Alcuni di essi sono equivalenti tra loro: se sapessimo risolverne uno (se avessimo un oracolo che lo risolve) sapremmo risolvere anche gli altri. Altri invece sono così indecidibili che non sapremmo risolverli nemmeno se disponessimo di una gerarchia infinita di oracoli. Considerate ora il problema apparentemente banale - di fare l’orario di una scuola, cioè di distribuire professori e studenti nelle aule disponibili, dati certi vincoli. Questo problema è decidibile. Ma gli algoritmi che lo risolvono sono lenti, perché, al crescere della complessità dell’input,

il tempo di esecuzione cresce in maniera esponenziale (cioè se N è la lunghezza dell’input, il tempo di esecuzione è mN). Dunque “lenti” vuol dire molto lenti: certi algoritmi esponenziali, dato un input di 100 caratteri, forniscono la risposta dopo un numero di secoli di 185 cifre. Per farsi un’idea di quanto tempo è, si pensi che il numero di secoli da cui esiste l’Universo è di 9 cifre. Di certo il Preside non potrebbe permettersi di aspettare così a lungo che l’orario sia pronto. I problemi che sono decidibili soltanto da algoritmi di questo genere si chiamano “intrattabili”. In realtà, noi non sappiamo veramente se, ad esempio, il problema dell’orario scolastico sia intrattabile; quello che sappiamo è che il problema è decidibile, e che però tutti gli algoritmi di risoluzione a noi noti sono inaccettabilmente lenti. E sappiamo anche che, se ci fosse un algoritmo “ragionevole” che risolve questo particolare problema, ci sarebbero algoritmi ragionevoli per tutti gli altri problemi analoghi. Ma non sappiamo se questi algoritmi ci siano (anche se la maggior parte dei matematici pensa di no). Questo problema è una delle più affascinanti questioni aperte della matematica attuale. La nostra cultura è abituata a pensare che, se un problema è sensato, debba essere risolubile. Ma i problemi di cui abbiamo parlato non hanno, almeno a prima vista, nulla di insensato: non implicano contraddizioni né mettono in gioco capacità infinite. Eppure, alcuni di essi sono assolutamente insolubili, mentre altri sono

(probabilmente) insolubili nell’ambito del nostro Universo, quindi da noi e da tutti gli esseri vagamente affini a noi. Forse, dunque, dobbiamo riesaminare alcuni aspetti centrali del nostro modo di pensare.

* Diego Marconi insegna logica e filosofia del linguaggio all’Università degli Studi del Piemonte Orientale e si occupa, in particolare, del pensiero di Wittgenstein, di teoria semantica e di filosofia della scienza cognitiva. Tra le pubblicazioni recenti più importanti: Lexical Competence (MIT Press 1997), Wittgenstein (Laterza 1997), La philosophie du langage au XXème siècle (L’éclat 1997), Filosofia e scienza cognitiva (Laterza 2001).

A

rtificial intelligence is a technological research program aimed at creating computer programs capable of performing in comparable ways to the human mind or, in other words, of emulating human cognitive processes. Of course for some time now computers have been able to perform cognitive processes like arithmetic computation, logical reasoning or playing chess: all things at which they perform better and faster than us. But here we are talking about more complicated matters, such as understanding language, translating from one language to another, carrying out

medical diagnoses and recognizing objects. Activities which, on one hand, do not at least initially seem like computations; on the contrary, they actually appear to be irreducibly human characteristics in the sense that, if a machine were really capable of doing them, we would tend to treat it like one of us. In the early 1970s, artificial intelligence certainly achieved some notable successes: expert systems were designed that seemed to be capable of performing well in fields like mineral prospecting, chemical analysis and medical diagnosis; other systems seemed to understand English fairly well, although within rather confined limits (they only knew a few words and understood a few sentences). But a number of philosophers were skeptical. Hubert Dreyfus, for instance, believed that artificial intelligence was merely the old rationalist dream of reducing the workings of the human mind to just elaborating representations based on rules and was therefore destined to fail - just as rationalism had failed - because that is not how the mind works. John Searle went even further and claimed that computers were not even carrying out intelligent actions, because machines, unlike us, do not know what they are doing: the symbols they manipulate are meaningless (whereas they are meaningful to the human programmers “telling” the machines what to do). In contrast, artificial intelligence seemed to grind to a halt in the early 1980s. Progress seemed slow and rather insignificant; it was

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Più futuro, ma saremo più felici? Further into the Future, but Will We be Happier? di Edoardo Boncinelli* by Edoardo Boncinelli*

Genetica e bioingegneria potranno farci vivere di più e meglio. Ne saremo contenti? Genetics and bioengineering will help us live longer and better. But will that makes us any happier?

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realized that we needed to know a lot more about our own intelligence if we were to design intelligent programs, and perhaps also about its material basis, the neurophysiology of the brain. In the meantime, everything was scaled down, including financial backing. There was (almost) no more talk of artificial minds; more often than not, methods of artificial intelligence - along with others - were applied to solve certain restricted, practical problems, such as, for instance, finding information on the Internet or developing algorithms or works of architecture on an abstract level, that might turn out to be useful in designing more “intelligent” systems. The “connectionist revolution” at the end of the 20th century made no qualitative difference to the situation: neural networks did some things better than traditional systems, others worse, while yet others were completely beyond its capabilities, but in any case they did not provide an immediate solution to the fundamental problems of artificial intelligence.

Nevertheless, in principle, nothing had really been proven. Even today, we cannot really claim to know where the ultimate limits of artificial intelligence lie (if there are any). Nobody has managed to show that computers will never be able, for instance, to recognize a face or tidy a room. The real, ascertained limits of computers lie elsewhere and are less related to the machines themselves than to the computations they carry out: which means they also apply to us because what these machines cannot do, we cannot do either. These “genuine” limits are described with great skill and know-how by David Harel in his recent book entitled “Computers Ltd.: What They Really Can’t Do”(Oxford University Press, 2000). Take every programmer’s dream: a program that takes other programs (or rather descriptions of them) as its input and replies “Yes” if the program being entered provides the right answer for all the input allowed and “No” if it does not end or gives a wrong answer for some input

or other. Well this is actually a pipe dream: it has been proved that the problem of controlling programs is undecidable, i.e. there is no algorithm - mechanical procedure - for answering it. There are plenty of undecidable problems. Some of them are mutually equivalent: if we knew how to answer one (if there was an oracle to provide the answer), we would be able to answer all the rest. Others, in contrast, are so undecidable that we could not answer them even if we had an infinite hierarchy of oracles. Now take an - apparently simple - problem like arranging a school timetable, viz. distributing the teachers and pupils through the available classrooms, given certain constraints. This is a decidable problem. But the algorithms for solving it are slow, because, as the input gets more complicated, the time for carrying them out increases exponentially (i.e. if N is the length of the input, mN is the computation time). So “slow” means very slow: certain exponential algorithms with an input of 100 characters give the answer after a 185 figure number of centuries. To get an idea of how long that is, bear in mind that the Universe has existed for a 9 figure number of centuries. The headmaster certainly could not wait that long for his timetable to be ready. Problems that can only be decidable using algorithms like this are called “intractable.” In actual fact we do not really know whether, for example, the timetable problem is intractable; what we do know is that it is a

decidable problem and that the algorithms we have for solving it are unacceptably slow. And we also know that, if there were a “reasonable” algorithm for handling this particular problem, there would be reasonable algorithms for dealing with all other similar problems. But we do not know whether these algorithms actually exist (although most mathematicians believe they do not). This is one of the most intriguing open issues in modern-day mathematics. Our culture assumes that if a problem makes sense, it must be solvable. But the problems we have looked at certainly are not meaningless, at least at first sight: they do not involve any contradictions or call for infinite capabilities. Yet some of them are absolutely unsolvable, while other are (most likely) unsolvable in our Universe, i.e. by us or other beings like us. Perhaps this means we ought to take a closer look at certain key aspects of our way of thinking.

* Diego Marconi teaches logic and philosophy of language at Piemonte Orientale University and is an expert on Wittgenstein, semantic theory and philosophy of cognitive science. His most important publications include: Lexical Competence (MIT Press 1997), Wittgenstein (Laterza 1997), La philosophie du langage au XXème siècle (L’éclat 1997), Filosofia e scienza cognitiva (Laterza 2001).

Edoardo Boncinelli

L’

uomo è un animale molto particolare, con alle spalle una storia biologica di qualche milione di anni e una storia culturale di qualche migliaio. Dal punto di vista biologico può certamente evolvere, ma molto lentamente; basti pensare che nel suo DNA è successo ben poco negli ultimi 200 mila anni. La sua costituzione gli permette, però, di comunicare con i suoi simili, anche a distanza, e ciò ha dato inizio a un processo assolutamente nuovo nel regno animale, se non nell’intero universo: un’evoluzione culturale. Così anche se a livello individuale ben poco è cambiato, lo sforzo collettivo sottostante a questo tipo di evoluzione ha permesso l’enorme avanzamento culturale e tecnologico del quale siamo tutti testimoni. Non è probabilmente un futile esercizio quello di cercare di immaginarci che cosa potremo e che cosa non potremo fare nel prossimo futuro, per esempio per il nostro corpo. Questi risultati saranno a loro volta raggiungibili per via

puramente biologica o attraverso la massiccia utilizzazione di microtecnologie elettroniche. Sono convinto che dall’impianto di microcircuiti e chip verranno incredibili avanzamenti che saranno complementari rispetto a quelli raggiungibili per via puramente biologica. La mia convinzione è basata sulla constatazione dell’incredibile accelerazione che hanno subito e stanno subendo gli studi di bioingegneria e protesi elettroniche, ma soprattutto dalla considerazione, di sapore vagamente vichiano, che le macchine possono essere molto meglio conosciute del nostro corpo in quanto quelle le facciamo noi, mentre il corpo ce lo siamo trovato fatto. Ma veniamo alle opportunità offerte dalla biologia avanzata e dalla biomedicina. Conosciamo la causa di un numero altissimo di malattie ereditarie monofattoriali, cioè causate dalla disfunzione di un singolo gene. Questa conoscenza, che risale a non più di venti anni, ci permette una diagnosi sicura e

differenziale, nelle fasi precoci della vita o anche in utero. Non altrettanto avanzati sono il trattamento e la terapia di tali disturbi, ma non c’è dubbio che la maggior parte dei portatori di questi difetti conducono oggi una vita incomparabilmente migliore di quella degli individui della generazione precedente. Stiamo appena cominciando ad indagare le cause delle malattie, ereditarie e non, aventi una base multifattoriale, dipendenti cioè dalla incerta funzione o dall’aperta disfunzione di molti o moltissimi geni. Questo sarà il traguardo più importante del prossimo futuro, poiché in questo capitolo si vengono a trovare patologie diffusissime come il diabete, l’ipertensione, il ritardo mentale, una grande varietà di disturbi psichici e soprattutto i tumori. Con l’allungamento progressivo della vita e la scomparsa di altre entità patologiche, i tumori e il complesso delle malattie degenerative tipiche

dell’età avanzata saranno i principali nemici biologici della nostra esistenza. Connesso con questo tipo di patologie abbiamo il capitolo fondamentale delle predisposizioni. Per esempio, essere predisposti, all’ipertensione o al tumore dell’ovaio non significa essere condannati a sviluppare queste patologie. Chi era predisposto può non averle sviluppate, mentre chi non lo era sì, ma sui grandi numeri la predisposizione ha una certa rilevanza e sapere di essere predisposti è un utile avvertimento. Non c’è nessuno che non sia predisposto a qualche cosa e saperlo è meglio di non saperlo. Parallelamente alla diagnosi e alla prevenzione, le moderne tecniche ci offriranno la possibilità di usufruire di tessuti, parti di organo e organi di ricambio per poter effettuare impianti e trapianti per le evenienze più diverse e farmaci sempre più efficienti e mirati, capaci cioè di suscitare un numero

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Più futuro, ma saremo più felici? Further into the Future, but Will We be Happier? di Edoardo Boncinelli* by Edoardo Boncinelli*

Genetica e bioingegneria potranno farci vivere di più e meglio. Ne saremo contenti? Genetics and bioengineering will help us live longer and better. But will that makes us any happier?

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realized that we needed to know a lot more about our own intelligence if we were to design intelligent programs, and perhaps also about its material basis, the neurophysiology of the brain. In the meantime, everything was scaled down, including financial backing. There was (almost) no more talk of artificial minds; more often than not, methods of artificial intelligence - along with others - were applied to solve certain restricted, practical problems, such as, for instance, finding information on the Internet or developing algorithms or works of architecture on an abstract level, that might turn out to be useful in designing more “intelligent” systems. The “connectionist revolution” at the end of the 20th century made no qualitative difference to the situation: neural networks did some things better than traditional systems, others worse, while yet others were completely beyond its capabilities, but in any case they did not provide an immediate solution to the fundamental problems of artificial intelligence.

Nevertheless, in principle, nothing had really been proven. Even today, we cannot really claim to know where the ultimate limits of artificial intelligence lie (if there are any). Nobody has managed to show that computers will never be able, for instance, to recognize a face or tidy a room. The real, ascertained limits of computers lie elsewhere and are less related to the machines themselves than to the computations they carry out: which means they also apply to us because what these machines cannot do, we cannot do either. These “genuine” limits are described with great skill and know-how by David Harel in his recent book entitled “Computers Ltd.: What They Really Can’t Do”(Oxford University Press, 2000). Take every programmer’s dream: a program that takes other programs (or rather descriptions of them) as its input and replies “Yes” if the program being entered provides the right answer for all the input allowed and “No” if it does not end or gives a wrong answer for some input

or other. Well this is actually a pipe dream: it has been proved that the problem of controlling programs is undecidable, i.e. there is no algorithm - mechanical procedure - for answering it. There are plenty of undecidable problems. Some of them are mutually equivalent: if we knew how to answer one (if there was an oracle to provide the answer), we would be able to answer all the rest. Others, in contrast, are so undecidable that we could not answer them even if we had an infinite hierarchy of oracles. Now take an - apparently simple - problem like arranging a school timetable, viz. distributing the teachers and pupils through the available classrooms, given certain constraints. This is a decidable problem. But the algorithms for solving it are slow, because, as the input gets more complicated, the time for carrying them out increases exponentially (i.e. if N is the length of the input, mN is the computation time). So “slow” means very slow: certain exponential algorithms with an input of 100 characters give the answer after a 185 figure number of centuries. To get an idea of how long that is, bear in mind that the Universe has existed for a 9 figure number of centuries. The headmaster certainly could not wait that long for his timetable to be ready. Problems that can only be decidable using algorithms like this are called “intractable.” In actual fact we do not really know whether, for example, the timetable problem is intractable; what we do know is that it is a

decidable problem and that the algorithms we have for solving it are unacceptably slow. And we also know that, if there were a “reasonable” algorithm for handling this particular problem, there would be reasonable algorithms for dealing with all other similar problems. But we do not know whether these algorithms actually exist (although most mathematicians believe they do not). This is one of the most intriguing open issues in modern-day mathematics. Our culture assumes that if a problem makes sense, it must be solvable. But the problems we have looked at certainly are not meaningless, at least at first sight: they do not involve any contradictions or call for infinite capabilities. Yet some of them are absolutely unsolvable, while other are (most likely) unsolvable in our Universe, i.e. by us or other beings like us. Perhaps this means we ought to take a closer look at certain key aspects of our way of thinking.

* Diego Marconi teaches logic and philosophy of language at Piemonte Orientale University and is an expert on Wittgenstein, semantic theory and philosophy of cognitive science. His most important publications include: Lexical Competence (MIT Press 1997), Wittgenstein (Laterza 1997), La philosophie du langage au XXème siècle (L’éclat 1997), Filosofia e scienza cognitiva (Laterza 2001).

Edoardo Boncinelli

L’

uomo è un animale molto particolare, con alle spalle una storia biologica di qualche milione di anni e una storia culturale di qualche migliaio. Dal punto di vista biologico può certamente evolvere, ma molto lentamente; basti pensare che nel suo DNA è successo ben poco negli ultimi 200 mila anni. La sua costituzione gli permette, però, di comunicare con i suoi simili, anche a distanza, e ciò ha dato inizio a un processo assolutamente nuovo nel regno animale, se non nell’intero universo: un’evoluzione culturale. Così anche se a livello individuale ben poco è cambiato, lo sforzo collettivo sottostante a questo tipo di evoluzione ha permesso l’enorme avanzamento culturale e tecnologico del quale siamo tutti testimoni. Non è probabilmente un futile esercizio quello di cercare di immaginarci che cosa potremo e che cosa non potremo fare nel prossimo futuro, per esempio per il nostro corpo. Questi risultati saranno a loro volta raggiungibili per via

puramente biologica o attraverso la massiccia utilizzazione di microtecnologie elettroniche. Sono convinto che dall’impianto di microcircuiti e chip verranno incredibili avanzamenti che saranno complementari rispetto a quelli raggiungibili per via puramente biologica. La mia convinzione è basata sulla constatazione dell’incredibile accelerazione che hanno subito e stanno subendo gli studi di bioingegneria e protesi elettroniche, ma soprattutto dalla considerazione, di sapore vagamente vichiano, che le macchine possono essere molto meglio conosciute del nostro corpo in quanto quelle le facciamo noi, mentre il corpo ce lo siamo trovato fatto. Ma veniamo alle opportunità offerte dalla biologia avanzata e dalla biomedicina. Conosciamo la causa di un numero altissimo di malattie ereditarie monofattoriali, cioè causate dalla disfunzione di un singolo gene. Questa conoscenza, che risale a non più di venti anni, ci permette una diagnosi sicura e

differenziale, nelle fasi precoci della vita o anche in utero. Non altrettanto avanzati sono il trattamento e la terapia di tali disturbi, ma non c’è dubbio che la maggior parte dei portatori di questi difetti conducono oggi una vita incomparabilmente migliore di quella degli individui della generazione precedente. Stiamo appena cominciando ad indagare le cause delle malattie, ereditarie e non, aventi una base multifattoriale, dipendenti cioè dalla incerta funzione o dall’aperta disfunzione di molti o moltissimi geni. Questo sarà il traguardo più importante del prossimo futuro, poiché in questo capitolo si vengono a trovare patologie diffusissime come il diabete, l’ipertensione, il ritardo mentale, una grande varietà di disturbi psichici e soprattutto i tumori. Con l’allungamento progressivo della vita e la scomparsa di altre entità patologiche, i tumori e il complesso delle malattie degenerative tipiche

dell’età avanzata saranno i principali nemici biologici della nostra esistenza. Connesso con questo tipo di patologie abbiamo il capitolo fondamentale delle predisposizioni. Per esempio, essere predisposti, all’ipertensione o al tumore dell’ovaio non significa essere condannati a sviluppare queste patologie. Chi era predisposto può non averle sviluppate, mentre chi non lo era sì, ma sui grandi numeri la predisposizione ha una certa rilevanza e sapere di essere predisposti è un utile avvertimento. Non c’è nessuno che non sia predisposto a qualche cosa e saperlo è meglio di non saperlo. Parallelamente alla diagnosi e alla prevenzione, le moderne tecniche ci offriranno la possibilità di usufruire di tessuti, parti di organo e organi di ricambio per poter effettuare impianti e trapianti per le evenienze più diverse e farmaci sempre più efficienti e mirati, capaci cioè di suscitare un numero

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sempre più ridotto di effetti secondari. Non è inoltre inconcepibile che la nostra vita si possa allungare ancora un po’, anche se non di molto. Una medicina più avanzata e una conoscenza più approfondita dei meccanismi dell’invecchiamento, potrebbero garantirci una vita più lunga, ma soprattutto un più lungo periodo di forma fisica, se non di vera e propria giovinezza. Prima o poi bisognerà però morire. L’immortalità è decisamente al di là della portata della scienza, certamente di quella di domani e di dopodomani. Saremo migliori? Personalmente, a differenza dei predicatori religiosi, pseudolaici e politici che non si stancano mai di parlare, non so che cosa voglia dire essere migliori; ma è concepibile che in un futuro non lontano si possa intervenire direttamente sul genoma di questo o

quell’individuo, allo scopo di dotarlo di qualche caratteristica biologica in più o in meno. Se lo si farà, occorrerà decidere chi ha il potere di decidere: i genitori, i parenti, gli amici o l’intera società? E quali doti privilegiare? L’intelligenza, la bellezza, la costanza, l’inventività, la mansuetudine, la socievolezza? La biologia ci insegna, fra le altre cose, che ogni gene controlla molti caratteri e che molti caratteri sono controllati da molti geni. Migliorare una caratteristica biologica può spesso voler dire peggiorarne un’altra e non è certamente pensabile di aver una società di persone intelligentissime che sono cronicamente depresse o malaticce. Ma anche questi problemi potranno, forse, essere risolti. Quello che non accadrà è che in virtù di tutto questo saremo più felici. La scienza non ha ricette per la felicità e dubito

che ne abbia una qualsiasi altra attività umana. L’uomo è un animale complessivamente mal riuscito: forse è ben riuscito per certi aspetti, ma è condannato al tedio e al disagio esistenziale, che cerca di tenere sotto controllo in vari modi. A noi la vita è male. Anche se soddisfatto e relativamente pacificato a livello collettivo, che non è poco, individualmente sarà di necessità infelice. Almeno fintanto che avrà il sistema nervoso che ha.

* Edoardo Boncinelli è il direttore della SISSA, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Fisico di formazione, si è occupato per più di trent’anni di genetica e biologia molecolare degli animali superiori e dell’uomo. Ha scoperto e caratterizzato un gruppo di geni che controllano lo sviluppo embrionale del corpo e del cervello. Si è più recentemente orientato verso le neuroscienze. Ha pubblicato vari libri sulla genetica e sulla mente e collabora stabilmente con Le Scienze e il Corriere della Sera.

an is a very special animal with a few million years of biological history behind him and a few thousand years of culture. Biologically speaking, he can certainly still evolve, but only very slowly; suffice it to say that not a lot has happened to his DNA over the last 200 thousand years. His constitution lets him communicate with his fellow men, even over long distances, and that has triggered off a total new process in the animal kingdom, if not the entire universe: cultural evolution. So even if very little has happened on an individual level, the communal effort underpinning this kind of evolution has resulted in the great cultural/technological progress there before our very eyes. It probably is not just futile trying to imagine what we can and cannot do in the near future, for instance with our own bodies. Such results can be achieved by purely biological means or by intensive use of electronic micro-technology. I am convinced that implants of micro-circuits and micro-chips will lead to incredible progress complementing the results achieved by purely biological means. My belief is based on noting the incredible speed with which bio-engineering studies and electronic prostheses have advanced and are still progressing, but mainly the vaguely Vico-style observation that we can know machines much better than our own bodies because we actually construct machines while our bodies come ready-made. But let’s take a look at the

opportunities being opened up by cutting-edge biology and bio-medicine. We know the causes of a large number of single-factor hereditary diseases, viz. caused by one single malfunctioning gene. This knowledge, dating back no more than twenty years, lets us diagnose illnesses safely during the very earliest stages of life or even in the womb. Unfortunately, we have not made the same kind of progress in treating and curing these illnesses, but there is no doubt that people suffering from these defects now lead much better lives than their fellow sufferers in the recent past. We are just beginning to investigate the causes of both hereditary and non-hereditary diseases with multi-factor causes depending on uncertain functioning or openly malfunctioning of many or very many genes. This is the most important goal of the near future, because these are the realms of such common diseases as diabetes, high blood pressure, retardation, a wide variety of mental ailments and, most significantly, tumors. As life expectancy increases and certain other pathologies are disappearing, tumors and all those degenerative diseases typically associated with the ageing process will be the main biological enemies of our life. The special category of predispositions is connected with pathologies like this. For instance, having a predisposition for high blood pressure or tumors to the ovaries does not mean you will necessary get these diseases. People with predispositions may not develop them and

vice-versa, but statistically speaking predisposition has its importance and knowing you are predisposed is a useful warning. Everybody is predisposed for something and knowing about it is better than being in the dark. Alongside diagnosis and prevention, modern techniques give us the chance to use tissues, parts of organs and donor organs to carry out implants and transplants for all sorts of reasons, as well as specially targeted and highly effective drugs with less and less side effects. And our life expectancy might increase even more, but not by much. More advanced medicine and deeper knowledge of how ageing takes place might guarantee us a longer life but, most importantly, although it might not give us eternal youth it will help us keep healthy longer. Although sooner or later everybody dies. Immortality is certainly beyond the realms of science, at least it is certainly beyond the science of the near and notso-near future. But will we be better people? Unlike political, pseudosecular and religious preachers that never stop talking about this, I do not know what being better people means; but it is reasonable to expect it to be possible in the future to act directly on a person’s genome in order to alter some biological trait or other. If this does happen, we will need to decide who can make this kind of decision: parents, relatives, friends or the whole of society? And what kind of traits shall we favor? Intelligence, beauty, dedication, creativity,

meekness, sociableness? Amongst other things, biology teaches us that every gene controls lots of traits and that lots of traits are controlled by several genes. Improving one biological trait might mean spoiling another and the idea of a society full of highly intelligent people who are chronically depressed or ill is quite unthinkable. But perhaps even these problems can be solved. One thing for sure is that all this will not make us any happier. Science does not have any recipes for happiness and I doubt that any other human activity does either. Overall speaking, human beings are rather unfortunate creatures: well-designed in certain respects, but also destined to be bored and

unhappy, despite their best attempts to control fate. Life will always be a burden. Even if society as a whole is relatively happy and contented, which is no mean thing, individually we are all destined to be unhappy, at least as long as we have this nervous system of ours.

* Edoardo Boncinelli is director of the SISSA, the International High School for Advanced Studies in Trieste, Italy. Trained as a physicist, he has been studying the molecular biology and genetics of higher animals and man for over thirty years. He discovered and analyzed a set of genes controlling the embryonic growth of the body and brain. He has recently moved over to neuroscience. He has published a number of books on genetics and the mind and writes regularly for the Italian publications Le Scienze and Corriere della Sera.

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sempre più ridotto di effetti secondari. Non è inoltre inconcepibile che la nostra vita si possa allungare ancora un po’, anche se non di molto. Una medicina più avanzata e una conoscenza più approfondita dei meccanismi dell’invecchiamento, potrebbero garantirci una vita più lunga, ma soprattutto un più lungo periodo di forma fisica, se non di vera e propria giovinezza. Prima o poi bisognerà però morire. L’immortalità è decisamente al di là della portata della scienza, certamente di quella di domani e di dopodomani. Saremo migliori? Personalmente, a differenza dei predicatori religiosi, pseudolaici e politici che non si stancano mai di parlare, non so che cosa voglia dire essere migliori; ma è concepibile che in un futuro non lontano si possa intervenire direttamente sul genoma di questo o

quell’individuo, allo scopo di dotarlo di qualche caratteristica biologica in più o in meno. Se lo si farà, occorrerà decidere chi ha il potere di decidere: i genitori, i parenti, gli amici o l’intera società? E quali doti privilegiare? L’intelligenza, la bellezza, la costanza, l’inventività, la mansuetudine, la socievolezza? La biologia ci insegna, fra le altre cose, che ogni gene controlla molti caratteri e che molti caratteri sono controllati da molti geni. Migliorare una caratteristica biologica può spesso voler dire peggiorarne un’altra e non è certamente pensabile di aver una società di persone intelligentissime che sono cronicamente depresse o malaticce. Ma anche questi problemi potranno, forse, essere risolti. Quello che non accadrà è che in virtù di tutto questo saremo più felici. La scienza non ha ricette per la felicità e dubito

che ne abbia una qualsiasi altra attività umana. L’uomo è un animale complessivamente mal riuscito: forse è ben riuscito per certi aspetti, ma è condannato al tedio e al disagio esistenziale, che cerca di tenere sotto controllo in vari modi. A noi la vita è male. Anche se soddisfatto e relativamente pacificato a livello collettivo, che non è poco, individualmente sarà di necessità infelice. Almeno fintanto che avrà il sistema nervoso che ha.

* Edoardo Boncinelli è il direttore della SISSA, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste. Fisico di formazione, si è occupato per più di trent’anni di genetica e biologia molecolare degli animali superiori e dell’uomo. Ha scoperto e caratterizzato un gruppo di geni che controllano lo sviluppo embrionale del corpo e del cervello. Si è più recentemente orientato verso le neuroscienze. Ha pubblicato vari libri sulla genetica e sulla mente e collabora stabilmente con Le Scienze e il Corriere della Sera.

an is a very special animal with a few million years of biological history behind him and a few thousand years of culture. Biologically speaking, he can certainly still evolve, but only very slowly; suffice it to say that not a lot has happened to his DNA over the last 200 thousand years. His constitution lets him communicate with his fellow men, even over long distances, and that has triggered off a total new process in the animal kingdom, if not the entire universe: cultural evolution. So even if very little has happened on an individual level, the communal effort underpinning this kind of evolution has resulted in the great cultural/technological progress there before our very eyes. It probably is not just futile trying to imagine what we can and cannot do in the near future, for instance with our own bodies. Such results can be achieved by purely biological means or by intensive use of electronic micro-technology. I am convinced that implants of micro-circuits and micro-chips will lead to incredible progress complementing the results achieved by purely biological means. My belief is based on noting the incredible speed with which bio-engineering studies and electronic prostheses have advanced and are still progressing, but mainly the vaguely Vico-style observation that we can know machines much better than our own bodies because we actually construct machines while our bodies come ready-made. But let’s take a look at the

opportunities being opened up by cutting-edge biology and bio-medicine. We know the causes of a large number of single-factor hereditary diseases, viz. caused by one single malfunctioning gene. This knowledge, dating back no more than twenty years, lets us diagnose illnesses safely during the very earliest stages of life or even in the womb. Unfortunately, we have not made the same kind of progress in treating and curing these illnesses, but there is no doubt that people suffering from these defects now lead much better lives than their fellow sufferers in the recent past. We are just beginning to investigate the causes of both hereditary and non-hereditary diseases with multi-factor causes depending on uncertain functioning or openly malfunctioning of many or very many genes. This is the most important goal of the near future, because these are the realms of such common diseases as diabetes, high blood pressure, retardation, a wide variety of mental ailments and, most significantly, tumors. As life expectancy increases and certain other pathologies are disappearing, tumors and all those degenerative diseases typically associated with the ageing process will be the main biological enemies of our life. The special category of predispositions is connected with pathologies like this. For instance, having a predisposition for high blood pressure or tumors to the ovaries does not mean you will necessary get these diseases. People with predispositions may not develop them and

vice-versa, but statistically speaking predisposition has its importance and knowing you are predisposed is a useful warning. Everybody is predisposed for something and knowing about it is better than being in the dark. Alongside diagnosis and prevention, modern techniques give us the chance to use tissues, parts of organs and donor organs to carry out implants and transplants for all sorts of reasons, as well as specially targeted and highly effective drugs with less and less side effects. And our life expectancy might increase even more, but not by much. More advanced medicine and deeper knowledge of how ageing takes place might guarantee us a longer life but, most importantly, although it might not give us eternal youth it will help us keep healthy longer. Although sooner or later everybody dies. Immortality is certainly beyond the realms of science, at least it is certainly beyond the science of the near and notso-near future. But will we be better people? Unlike political, pseudosecular and religious preachers that never stop talking about this, I do not know what being better people means; but it is reasonable to expect it to be possible in the future to act directly on a person’s genome in order to alter some biological trait or other. If this does happen, we will need to decide who can make this kind of decision: parents, relatives, friends or the whole of society? And what kind of traits shall we favor? Intelligence, beauty, dedication, creativity,

meekness, sociableness? Amongst other things, biology teaches us that every gene controls lots of traits and that lots of traits are controlled by several genes. Improving one biological trait might mean spoiling another and the idea of a society full of highly intelligent people who are chronically depressed or ill is quite unthinkable. But perhaps even these problems can be solved. One thing for sure is that all this will not make us any happier. Science does not have any recipes for happiness and I doubt that any other human activity does either. Overall speaking, human beings are rather unfortunate creatures: well-designed in certain respects, but also destined to be bored and

unhappy, despite their best attempts to control fate. Life will always be a burden. Even if society as a whole is relatively happy and contented, which is no mean thing, individually we are all destined to be unhappy, at least as long as we have this nervous system of ours.

* Edoardo Boncinelli is director of the SISSA, the International High School for Advanced Studies in Trieste, Italy. Trained as a physicist, he has been studying the molecular biology and genetics of higher animals and man for over thirty years. He discovered and analyzed a set of genes controlling the embryonic growth of the body and brain. He has recently moved over to neuroscience. He has published a number of books on genetics and the mind and writes regularly for the Italian publications Le Scienze and Corriere della Sera.

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La potenza dell’avventura umana The Power of Human Adventure Intervista a Salvatore Veca* Interview with Salvatore Veca*

Se bene utilizzati, i nuovi strumenti allargano i limiti della creatività If put to proper use, new tools will extend the bounds of creativity

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Salvatore Veca

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a tendenza a superare i limiti è tipicamente umana e porta, in linea di principio, a conquiste di benessere più che a creazione di ingiustizie e iniquità. Ma la lotta fra limite e non-limite è continua e necessaria per evitare che, nei diversi ambiti, la potenza dello strumento prevalga sulla capacità di controllo. Salvatore Veca, uno dei massimi filosofi italiani, ha affrontato con arcVision alcuni dei temi più controversi del momento, proponendo interpretazioni lucide e senza pregiudizi dell’evoluzione della realtà contemporanea. Il formidabile progresso delle società occidentali degli ultimi decenni, ma in realtà degli ultimi secoli, è stato determinato da una fiducia pressoché illimitata nella valenza comunque positiva di una estensione e di un approfondimento delle conoscenze. Oggi, però, di fronte ad alcuni effetti indesiderati di questa tumultuosa espansione, che pone nelle mani dell’uomo strumenti sempre più potenti, ci si comincia a chiedere se

l’uomo non debba porsi, almeno in alcuni contesti, un’idea di limite. Pensiamo, ad esempio, alla genetica, alla biotecnologia, all’intelligenza artificiale o al più generale rapporto uomo-natura. Ha senso porsi questo tema del limite, o si tratta di uno scrupolo infondato, se non altro perché difficilmente realizzabile? Ciò cui stiamo assistendo, nell’epoca in cui viviamo, è l’evolversi di una situazione in cui convivono due tendenze parzialmente divergenti. La prima contempla il superamento di ogni limite attraverso un’espansione continua della conoscenza, in particolare nell’ambito della scienza e della tecnologia. E questa è una strada che appare del tutto ragionevole e desiderabile a molte persone che, al contrario, tendono a considerare l’idea stessa di limite come un falso problema, un ostacolo burocratico, un inutile intralcio allo sviluppo pieno della nostra cultura. La seconda è almeno parzialmente in contraddizione con la prima e pone il problema del limite sia

in generale, sia in molti ambiti particolari, come appunto la genetica o l’intelligenza artificiale, e si fa carico di profonde preoccupazioni insite nella società, come si è visto negli ultimi decenni del XX secolo e in questi primi anni di quello nuovo. In fondo, queste due tendenze esprimono la tensione essenziale della nostra cultura, che è la cultura occidentale, che considera da un lato il “dovere” del superamento del limite ma pone, allo stesso tempo, la necessità di mantenerne il controllo. È una tensione fra scienza ed etica ed è questo un rapporto che caratterizza con continuità la storia tra limite e non-limite, sia nella nostra cultura collettiva sia in quella individuale. Tutti noi, nei fatti, assistiamo allo svolgersi di una sorta di corpo a corpo interiore che vede convivere la voglia dell’illimitato e il desiderio di mettere a freno la tendenza al superamento del limite. Un ambito nuovo, e forse inatteso, nel quale si è posto sempre più spesso negli ultimi anni (ma anche

molto di recente, nel conflitto con l’Iraq) il tema del limite, è quello dell’uso della forza in situazioni di conflitto aperto. L’opinione comune di molta parte, forse maggioritaria, della pubblica opinione pende di norma a favore della parte più debole del conflitto, per arrivare a sostenere che la parte forte debba limitare l’uso della propria preponderante capacità di offesa solo allo stretto necessario, imponendosi così un vincolo di cui nella storia passata troviamo pochi esempi. L’idea di limite può presentare in questi casi dei forti margini di ambiguità e incertezza, perché si tende spesso a fare coincidere la debolezza con la ragione e, dall’altro lato, la forza con il torto. L’ambito della guerra è certamente un contesto fortemente emblematico ed esemplare, connesso alle due idee di cui abbiamo parlato finora, ossia la tendenza a superare i limiti e i vincoli all’azione. La guerra con l’Iraq costituisce, poi, un fenomeno particolarmente pregnante, perché si assiste al primo vero

conflitto successivo alla fine della Guerra Fredda, uno scontro complesso nel quale, come osservatori, siamo posti di fronte al verificarsi di tutto e del contrario di tutto. Nella guerra del Golfo del 1991 prevalevano azioni massicce all’insegna della guerra aerea e della presenza, non sempre contestata, dei “danni collaterali”. In Bosnia e Kosovo abbiamo visto il verificarsi di episodi drammatici, connotati dal tentativo di estinguere intere etnie tramite violenze inimmaginabili, massacri e stupri di massa. In Afghanistan si è immaginato molto ma, effettivamente, si è visto poco. La guerra con l’Iraq ha presentato, invece, caratteri estremamente complessi e contraddittori, perché si sono verificati contemporaneamente più fenomeni: la guerra ipertecnologica, l’applicazione della potenza massima, ma anche la guerriglia e la guerra di posizione. Abbiamo osservato il confondersi di militari e civili, il confronto diretto tra militari, l’importanza di salvaguardare i civili e di evitare i danni collaterali. E poi gli assedi medievali, ma anche le battaglie di movimento dei tank. Tutto questo compone un quadro difficile da interpretare e pieno di contraddizioni e, per quanto possa suonare bizzarro, si vede bene in questo frangente fino a che punto la tendenza a superare il limite conviva costantemente con la cultura stessa del limite. L’America, è stato detto, ha condotto questo conflitto “con una mano legata dietro la schiena”, poiché non poteva assolutamente utilizzare il proprio potenziale in modo

incontrollato. Ed è stato giustamente rilevato che oggi al mondo esistono non una ma due superpotenze: gli Stati Uniti d’America e l’opinione pubblica, due grandi realtà che hanno la capacità di condizionarsi a vicenda. Così anche nella guerra ritroviamo i vincoli e i limiti di cui abbiamo discusso, anche se ovviamente in un contesto di severa tragicità. Il progresso tecnologico propone oggi un nuovissimo ambito nel quale ritroviamo la contraddizione fra limite e non-limite, tra libertà e abuso, tra democrazia e controllo. Ed è il nuovo universo di Internet che da un lato costituisce un esempio straordinario di possibilità di partecipazione ed accesso, ma dall’altro crea opportunità di abuso e crimine fuori da ogni reale possibilità di controllo. Basta pensare all’uso di Internet per attività efferate come il terrorismo o la pedofilia. Come risolvere queste contraddizioni? Che in questi casi vi sia un’esigenza di porre un limite è incontrovertibile. Ma questo non risolve l’ambiguità. Imporre un limite significa, infatti, ricorrere a cose come norme e regolamenti. Ma, come sempre, la questione di fondo consiste nel come si debbano generare tali norme. Noi pensiamo, in genere che, se vi sono delle norme, queste debbano essere state generate da una autorità. Ciò è evidente quando si devono affrontare problemi gravi come il bando alle armi o la lotta al terrorismo. Questo

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approccio fa parte di un’idea di società che promana da un contratto sociale liberamente sottoscritto fra persone, nel senso che liberamente scegliamo di vincolarci a un’autorità superiore che limiti le possibilità di scelta e garantisca a tutti il godimento dei diritti della democrazia. È un modello ben noto, che discende dalla tradizione di Hobbes, Locke, Rousseau e Kant e che conduce alla nascita delle costituzioni attraverso le quali scegliamo di legarci nel tempo. Ma vi è anche un altro modello, che pone la questione della cosiddetta “insorgenza delle norme”, nel filone di pensiero di filosofi

come Hume e Hayek. Il concetto fondamentale consiste nel fatto che le norme si fissano grazie a una sorta di convenzione che nasce e si consolida mediante un processo iterativo di trial and error. Questo modello implica che quando si vengono a determinare nuove situazioni di opportunità, ad esempio con le tecnologie di Internet, possa esistere una fase selvaggia e scarsamente dominabile nella quale queste opportunità irrompono con forza, modificando il preesistente paesaggio etico, che era stato modellato dalle forze precedentemente prevalenti. C’è uno stadio in cui le nuove opportunità


La potenza dell’avventura umana The Power of Human Adventure Intervista a Salvatore Veca* Interview with Salvatore Veca*

Se bene utilizzati, i nuovi strumenti allargano i limiti della creatività If put to proper use, new tools will extend the bounds of creativity

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Salvatore Veca

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a tendenza a superare i limiti è tipicamente umana e porta, in linea di principio, a conquiste di benessere più che a creazione di ingiustizie e iniquità. Ma la lotta fra limite e non-limite è continua e necessaria per evitare che, nei diversi ambiti, la potenza dello strumento prevalga sulla capacità di controllo. Salvatore Veca, uno dei massimi filosofi italiani, ha affrontato con arcVision alcuni dei temi più controversi del momento, proponendo interpretazioni lucide e senza pregiudizi dell’evoluzione della realtà contemporanea. Il formidabile progresso delle società occidentali degli ultimi decenni, ma in realtà degli ultimi secoli, è stato determinato da una fiducia pressoché illimitata nella valenza comunque positiva di una estensione e di un approfondimento delle conoscenze. Oggi, però, di fronte ad alcuni effetti indesiderati di questa tumultuosa espansione, che pone nelle mani dell’uomo strumenti sempre più potenti, ci si comincia a chiedere se

l’uomo non debba porsi, almeno in alcuni contesti, un’idea di limite. Pensiamo, ad esempio, alla genetica, alla biotecnologia, all’intelligenza artificiale o al più generale rapporto uomo-natura. Ha senso porsi questo tema del limite, o si tratta di uno scrupolo infondato, se non altro perché difficilmente realizzabile? Ciò cui stiamo assistendo, nell’epoca in cui viviamo, è l’evolversi di una situazione in cui convivono due tendenze parzialmente divergenti. La prima contempla il superamento di ogni limite attraverso un’espansione continua della conoscenza, in particolare nell’ambito della scienza e della tecnologia. E questa è una strada che appare del tutto ragionevole e desiderabile a molte persone che, al contrario, tendono a considerare l’idea stessa di limite come un falso problema, un ostacolo burocratico, un inutile intralcio allo sviluppo pieno della nostra cultura. La seconda è almeno parzialmente in contraddizione con la prima e pone il problema del limite sia

in generale, sia in molti ambiti particolari, come appunto la genetica o l’intelligenza artificiale, e si fa carico di profonde preoccupazioni insite nella società, come si è visto negli ultimi decenni del XX secolo e in questi primi anni di quello nuovo. In fondo, queste due tendenze esprimono la tensione essenziale della nostra cultura, che è la cultura occidentale, che considera da un lato il “dovere” del superamento del limite ma pone, allo stesso tempo, la necessità di mantenerne il controllo. È una tensione fra scienza ed etica ed è questo un rapporto che caratterizza con continuità la storia tra limite e non-limite, sia nella nostra cultura collettiva sia in quella individuale. Tutti noi, nei fatti, assistiamo allo svolgersi di una sorta di corpo a corpo interiore che vede convivere la voglia dell’illimitato e il desiderio di mettere a freno la tendenza al superamento del limite. Un ambito nuovo, e forse inatteso, nel quale si è posto sempre più spesso negli ultimi anni (ma anche

molto di recente, nel conflitto con l’Iraq) il tema del limite, è quello dell’uso della forza in situazioni di conflitto aperto. L’opinione comune di molta parte, forse maggioritaria, della pubblica opinione pende di norma a favore della parte più debole del conflitto, per arrivare a sostenere che la parte forte debba limitare l’uso della propria preponderante capacità di offesa solo allo stretto necessario, imponendosi così un vincolo di cui nella storia passata troviamo pochi esempi. L’idea di limite può presentare in questi casi dei forti margini di ambiguità e incertezza, perché si tende spesso a fare coincidere la debolezza con la ragione e, dall’altro lato, la forza con il torto. L’ambito della guerra è certamente un contesto fortemente emblematico ed esemplare, connesso alle due idee di cui abbiamo parlato finora, ossia la tendenza a superare i limiti e i vincoli all’azione. La guerra con l’Iraq costituisce, poi, un fenomeno particolarmente pregnante, perché si assiste al primo vero

conflitto successivo alla fine della Guerra Fredda, uno scontro complesso nel quale, come osservatori, siamo posti di fronte al verificarsi di tutto e del contrario di tutto. Nella guerra del Golfo del 1991 prevalevano azioni massicce all’insegna della guerra aerea e della presenza, non sempre contestata, dei “danni collaterali”. In Bosnia e Kosovo abbiamo visto il verificarsi di episodi drammatici, connotati dal tentativo di estinguere intere etnie tramite violenze inimmaginabili, massacri e stupri di massa. In Afghanistan si è immaginato molto ma, effettivamente, si è visto poco. La guerra con l’Iraq ha presentato, invece, caratteri estremamente complessi e contraddittori, perché si sono verificati contemporaneamente più fenomeni: la guerra ipertecnologica, l’applicazione della potenza massima, ma anche la guerriglia e la guerra di posizione. Abbiamo osservato il confondersi di militari e civili, il confronto diretto tra militari, l’importanza di salvaguardare i civili e di evitare i danni collaterali. E poi gli assedi medievali, ma anche le battaglie di movimento dei tank. Tutto questo compone un quadro difficile da interpretare e pieno di contraddizioni e, per quanto possa suonare bizzarro, si vede bene in questo frangente fino a che punto la tendenza a superare il limite conviva costantemente con la cultura stessa del limite. L’America, è stato detto, ha condotto questo conflitto “con una mano legata dietro la schiena”, poiché non poteva assolutamente utilizzare il proprio potenziale in modo

incontrollato. Ed è stato giustamente rilevato che oggi al mondo esistono non una ma due superpotenze: gli Stati Uniti d’America e l’opinione pubblica, due grandi realtà che hanno la capacità di condizionarsi a vicenda. Così anche nella guerra ritroviamo i vincoli e i limiti di cui abbiamo discusso, anche se ovviamente in un contesto di severa tragicità. Il progresso tecnologico propone oggi un nuovissimo ambito nel quale ritroviamo la contraddizione fra limite e non-limite, tra libertà e abuso, tra democrazia e controllo. Ed è il nuovo universo di Internet che da un lato costituisce un esempio straordinario di possibilità di partecipazione ed accesso, ma dall’altro crea opportunità di abuso e crimine fuori da ogni reale possibilità di controllo. Basta pensare all’uso di Internet per attività efferate come il terrorismo o la pedofilia. Come risolvere queste contraddizioni? Che in questi casi vi sia un’esigenza di porre un limite è incontrovertibile. Ma questo non risolve l’ambiguità. Imporre un limite significa, infatti, ricorrere a cose come norme e regolamenti. Ma, come sempre, la questione di fondo consiste nel come si debbano generare tali norme. Noi pensiamo, in genere che, se vi sono delle norme, queste debbano essere state generate da una autorità. Ciò è evidente quando si devono affrontare problemi gravi come il bando alle armi o la lotta al terrorismo. Questo

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approccio fa parte di un’idea di società che promana da un contratto sociale liberamente sottoscritto fra persone, nel senso che liberamente scegliamo di vincolarci a un’autorità superiore che limiti le possibilità di scelta e garantisca a tutti il godimento dei diritti della democrazia. È un modello ben noto, che discende dalla tradizione di Hobbes, Locke, Rousseau e Kant e che conduce alla nascita delle costituzioni attraverso le quali scegliamo di legarci nel tempo. Ma vi è anche un altro modello, che pone la questione della cosiddetta “insorgenza delle norme”, nel filone di pensiero di filosofi

come Hume e Hayek. Il concetto fondamentale consiste nel fatto che le norme si fissano grazie a una sorta di convenzione che nasce e si consolida mediante un processo iterativo di trial and error. Questo modello implica che quando si vengono a determinare nuove situazioni di opportunità, ad esempio con le tecnologie di Internet, possa esistere una fase selvaggia e scarsamente dominabile nella quale queste opportunità irrompono con forza, modificando il preesistente paesaggio etico, che era stato modellato dalle forze precedentemente prevalenti. C’è uno stadio in cui le nuove opportunità


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incontrano i vecchi limiti. Qui nasce lo scontro al quale assistiamo e vi è chi ritiene che si tratti di un conflitto almeno in parte inevitabile, perché l’uomo è una creatura d’abitudini che fronteggia prospettive incerte. E in questo contesto non vi è realmente una autorità in grado di normare, per il solo fatto che le norme non riescono subito a cogliere le peculiarità della nuova situazione, in quanto rappresentano inevitabilmente il capitale della saggezza del passato e non quella del presente e del futuro. Questo significa che siamo costretti a pagare i costi della transizione, con tutto ciò che questo implica in termini di imperfezioni e abusi? In sostanza sì. Significa che occorre individuare norme che disciplinino le nuove realtà senza soffocare le nuove idee e contrarre i limiti dello spazio delle possibilità innovative. Significa che nessun pasto è gratis e nessuna innovazione avviene senza costi. La virtù massima consiste nel massimizzare i benefici dell’innovazione, minimizzandone i costi. Ed è bene riconoscere che ciò non è molto facile. Ma l’innovazione non è sinonimo, di per sé, di giustizia. E pagare i costi della transizione ha senso solo se il traguardo cui si punta rientra nell’ambito di una situazione più giusta, non più ingiusta. Come distinguere la prima dalla seconda? I due percorsi di creazione delle norme che ho esposto, così come la massima della

minimizzazione dei costi, presuppongono uno sfondo “quasi giusto” (near just) che si ponga nell’intorno di convenzioni e pratiche socialmente accettabili. È solo in questo contesto che possiamo accettare i costi sociali connessi con il cambiamento. In caso contrario, se l’assunzione di partenza è che l’innovazione ha luogo in una situazione ingiusta e in un quadro di istituzioni ingiuste, allora è chiaro che le priorità cambiano profondamente. Il

problema non è più quello della dialettica fra limite e non-limite, ma diventa quello previo di combattere l’ingiustizia. Non è questo, però, e per fortuna, il nostro attuale sistema di riferimento. Torniamo allora all’idea del limite. Il nostro contesto di riferimento è connotato dalla crescente potenza degli strumenti a nostra disposizione, in senso positivo e in senso negativo. Se pensiamo alle nostre realtà individuali,

facciamo i conti con strumenti che sono in grado di esaltare la nostra personalità o, a seconda dei punti di vista, di deprimerla. Pensiamo al rapporto fra uno strumento come il personal computer e la creatività individuale. Come vede, da un punto di vista personale e collettivo, le implicazioni di questo rapporto? Da un punto di vista personale la mia storia è quella di un dramma a lieto fine. Io ho iniziato a lavorare con il computer molto più tardi di mia moglie e dei miei figli, perché godevo del lusso di due segretarie che riportavano fedelmente quello che io apponevo su carta. E dunque, la mia creatività dipendeva dall’interazione fra la mia stilografica e l’horror vacui della pagina bianca, dramma comune a tutti gli scrittori. Poi, quando le mie responsabilità istituzionali sono cresciute e il tempo a disposizione si è ristretto, ho dovuto accettare di apprendere l’uso del computer. E il primo effetto è stato di subire una mutilazione, una decurtazione della mia capacità creativa. Ma è stata la prima reazione, che poi si è abbastanza rapidamente trasformata in dipendenza e, quindi, in una nuova spinta di creatività. Oggi, senza computer non prendo nemmeno un appunto. Ora devo connettere questa mia piccola storia personale con una molteplicità di piccole storie analoghe, per capire in che modo si sia evoluto in termini collettivi il rapporto tra strumento e creatività, cosicché la descrizione della sorte casualmente condivisa da molte persone si trasformi

in teoria generalmente valida. E cosa ci dice questo passaggio mentale? Che non sta succedendo niente di terribilmente nuovo. Che in fondo, nell’intera storia passata, ciò che chiamiamo creatività è nient’altro che la vicenda di un corpo a corpo permanente tra il tentativo di elaborare sempre nuove versioni del mondo – morfologiche, iconiche, estetiche, erotiche, cognitive – e la “scatola degli attrezzi” di turno, ossia il vasto e mutevole repertorio dei mezzi disponibili in funzione dell’obiettivo che si desidera raggiungere. Dove nasce il problema? Dal fatto che il tool box favorisce il cambiamento e induce alla perdita del limite. La creatività è un’avventura di esplorazione di possibilità inedite che, ancora una volta, mettono in contrasto la disponibilità di nuovi mezzi illimitati con i vecchi strumenti e i vecchi limiti. Si elaborano così nuove versioni del mondo, partendo dalle vecchie formule e parafrasandole, mescolando gli strumenti e i linguaggi e modificando continuamente i limiti. Emerge la potenza dell’illimitato che ci impone, come ha detto Neurath, di riparare la nostra barca mentre continuiamo a navigare. Ma tutto questo è ben lungi dall’essere negativo, anzi. Il giudizio è per me sobriamente positivo e dobbiamo riconoscere che la tendenza a forzare il limite, con cui ci confrontiamo continuamente, amplia enormemente il nostro repertorio di possibilità. E questa è una faccenda tipicamente umana, in cui riconosciamo il familiare Streben di Goethe e, al tempo

stesso, la saggezza della massima terenziana a proposito del “nihil humanum alienum puto”. * Salvatore Veca è uno dei più importanti filosofi italiani contemporanei. La sua lunga carriera accademica, iniziata nel 1966, è stata caratterizzata da una intensa attività di insegnamento in diverse sedi (Università di Milano, Università della Calabria, Università di Bologna, Università di Firenze) e di ricerca (ha scritto decine di saggi e di volumi di grande successo). Dal 1990 è professore ordinario di Filosofia Politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia (di cui è preside dal 1999). Dal 2002 è pro-rettore per la Didattica dell’Università di Pavia.

A

tendency to go beyond the limits is a typically human trait and, in principle, tends to improve life rather than result in more injustice and inequality. But the battle between bounds and boundlessness is an ongoing struggle and necessary to ensure that the sheer power of the instruments in play in all these various realms does not jeopardize our ability to control. Salvatore Veca, a leading Italian philosopher, has tackled the most controversial issues of the day

in this issue of arcVision, suggesting clear-sighted and unbiased readings of modernday reality evolution. The staggering progress in Western society over the last few decades, or really centuries, is the result of almost boundless faith in the positive effects of extending and furthering knowledge. Nowadays, however, faced with certain undesirable effects of such starting expansion that is placing increasingly power tools in human hands, we are starting to wonder whether man ought, at least in certain contexts, to establish some sort of limits. Take, for instance, genetics, biotechnology, artificial intelligence or the more general way in which man relates to nature. Is there any point in looking at this question of limits or is it really unnecessary, particularly since limits are so hard to set? What we are now witnessing in the age in which in we live is an evolving situation in which two partly diverging tendencies co-exist. On one hand, there is a tendency to break all boundaries by constantly expanding our knowledge, notably in the fields of science and technology. This course of action seems quite reasonable and desirable to most people, who, on the contrary, tend to think the idea of setting limits is a false problem, a bureaucratic obstacle or useless hindrance to developing our culture to its fullest. On the other hand, there is an alternative, and at least partly contradictory,

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incontrano i vecchi limiti. Qui nasce lo scontro al quale assistiamo e vi è chi ritiene che si tratti di un conflitto almeno in parte inevitabile, perché l’uomo è una creatura d’abitudini che fronteggia prospettive incerte. E in questo contesto non vi è realmente una autorità in grado di normare, per il solo fatto che le norme non riescono subito a cogliere le peculiarità della nuova situazione, in quanto rappresentano inevitabilmente il capitale della saggezza del passato e non quella del presente e del futuro. Questo significa che siamo costretti a pagare i costi della transizione, con tutto ciò che questo implica in termini di imperfezioni e abusi? In sostanza sì. Significa che occorre individuare norme che disciplinino le nuove realtà senza soffocare le nuove idee e contrarre i limiti dello spazio delle possibilità innovative. Significa che nessun pasto è gratis e nessuna innovazione avviene senza costi. La virtù massima consiste nel massimizzare i benefici dell’innovazione, minimizzandone i costi. Ed è bene riconoscere che ciò non è molto facile. Ma l’innovazione non è sinonimo, di per sé, di giustizia. E pagare i costi della transizione ha senso solo se il traguardo cui si punta rientra nell’ambito di una situazione più giusta, non più ingiusta. Come distinguere la prima dalla seconda? I due percorsi di creazione delle norme che ho esposto, così come la massima della

minimizzazione dei costi, presuppongono uno sfondo “quasi giusto” (near just) che si ponga nell’intorno di convenzioni e pratiche socialmente accettabili. È solo in questo contesto che possiamo accettare i costi sociali connessi con il cambiamento. In caso contrario, se l’assunzione di partenza è che l’innovazione ha luogo in una situazione ingiusta e in un quadro di istituzioni ingiuste, allora è chiaro che le priorità cambiano profondamente. Il

problema non è più quello della dialettica fra limite e non-limite, ma diventa quello previo di combattere l’ingiustizia. Non è questo, però, e per fortuna, il nostro attuale sistema di riferimento. Torniamo allora all’idea del limite. Il nostro contesto di riferimento è connotato dalla crescente potenza degli strumenti a nostra disposizione, in senso positivo e in senso negativo. Se pensiamo alle nostre realtà individuali,

facciamo i conti con strumenti che sono in grado di esaltare la nostra personalità o, a seconda dei punti di vista, di deprimerla. Pensiamo al rapporto fra uno strumento come il personal computer e la creatività individuale. Come vede, da un punto di vista personale e collettivo, le implicazioni di questo rapporto? Da un punto di vista personale la mia storia è quella di un dramma a lieto fine. Io ho iniziato a lavorare con il computer molto più tardi di mia moglie e dei miei figli, perché godevo del lusso di due segretarie che riportavano fedelmente quello che io apponevo su carta. E dunque, la mia creatività dipendeva dall’interazione fra la mia stilografica e l’horror vacui della pagina bianca, dramma comune a tutti gli scrittori. Poi, quando le mie responsabilità istituzionali sono cresciute e il tempo a disposizione si è ristretto, ho dovuto accettare di apprendere l’uso del computer. E il primo effetto è stato di subire una mutilazione, una decurtazione della mia capacità creativa. Ma è stata la prima reazione, che poi si è abbastanza rapidamente trasformata in dipendenza e, quindi, in una nuova spinta di creatività. Oggi, senza computer non prendo nemmeno un appunto. Ora devo connettere questa mia piccola storia personale con una molteplicità di piccole storie analoghe, per capire in che modo si sia evoluto in termini collettivi il rapporto tra strumento e creatività, cosicché la descrizione della sorte casualmente condivisa da molte persone si trasformi

in teoria generalmente valida. E cosa ci dice questo passaggio mentale? Che non sta succedendo niente di terribilmente nuovo. Che in fondo, nell’intera storia passata, ciò che chiamiamo creatività è nient’altro che la vicenda di un corpo a corpo permanente tra il tentativo di elaborare sempre nuove versioni del mondo – morfologiche, iconiche, estetiche, erotiche, cognitive – e la “scatola degli attrezzi” di turno, ossia il vasto e mutevole repertorio dei mezzi disponibili in funzione dell’obiettivo che si desidera raggiungere. Dove nasce il problema? Dal fatto che il tool box favorisce il cambiamento e induce alla perdita del limite. La creatività è un’avventura di esplorazione di possibilità inedite che, ancora una volta, mettono in contrasto la disponibilità di nuovi mezzi illimitati con i vecchi strumenti e i vecchi limiti. Si elaborano così nuove versioni del mondo, partendo dalle vecchie formule e parafrasandole, mescolando gli strumenti e i linguaggi e modificando continuamente i limiti. Emerge la potenza dell’illimitato che ci impone, come ha detto Neurath, di riparare la nostra barca mentre continuiamo a navigare. Ma tutto questo è ben lungi dall’essere negativo, anzi. Il giudizio è per me sobriamente positivo e dobbiamo riconoscere che la tendenza a forzare il limite, con cui ci confrontiamo continuamente, amplia enormemente il nostro repertorio di possibilità. E questa è una faccenda tipicamente umana, in cui riconosciamo il familiare Streben di Goethe e, al tempo

stesso, la saggezza della massima terenziana a proposito del “nihil humanum alienum puto”. * Salvatore Veca è uno dei più importanti filosofi italiani contemporanei. La sua lunga carriera accademica, iniziata nel 1966, è stata caratterizzata da una intensa attività di insegnamento in diverse sedi (Università di Milano, Università della Calabria, Università di Bologna, Università di Firenze) e di ricerca (ha scritto decine di saggi e di volumi di grande successo). Dal 1990 è professore ordinario di Filosofia Politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia (di cui è preside dal 1999). Dal 2002 è pro-rettore per la Didattica dell’Università di Pavia.

A

tendency to go beyond the limits is a typically human trait and, in principle, tends to improve life rather than result in more injustice and inequality. But the battle between bounds and boundlessness is an ongoing struggle and necessary to ensure that the sheer power of the instruments in play in all these various realms does not jeopardize our ability to control. Salvatore Veca, a leading Italian philosopher, has tackled the most controversial issues of the day

in this issue of arcVision, suggesting clear-sighted and unbiased readings of modernday reality evolution. The staggering progress in Western society over the last few decades, or really centuries, is the result of almost boundless faith in the positive effects of extending and furthering knowledge. Nowadays, however, faced with certain undesirable effects of such starting expansion that is placing increasingly power tools in human hands, we are starting to wonder whether man ought, at least in certain contexts, to establish some sort of limits. Take, for instance, genetics, biotechnology, artificial intelligence or the more general way in which man relates to nature. Is there any point in looking at this question of limits or is it really unnecessary, particularly since limits are so hard to set? What we are now witnessing in the age in which in we live is an evolving situation in which two partly diverging tendencies co-exist. On one hand, there is a tendency to break all boundaries by constantly expanding our knowledge, notably in the fields of science and technology. This course of action seems quite reasonable and desirable to most people, who, on the contrary, tend to think the idea of setting limits is a false problem, a bureaucratic obstacle or useless hindrance to developing our culture to its fullest. On the other hand, there is an alternative, and at least partly contradictory,

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tendency to pose the problem of limits both in general and in relation to specific fields like genetics or artificial intelligence, assuming responsibility for certain deeply felt worries circulating in society, as we have seen in the last few decades of the 20th century and the start of this new millennium. These two tendencies actually embody the fundamental essence of our culture here in the West, which considers breaking boundaries as a “duty” and, at the same time, realizes the need to keep control. This tension between science and ethics is a distinctive feature of the ongoing battle between limits and no limits, both individually and as a society. We also experience a sort of internal struggle in which there is a simultaneous desire for what is boundless and a need to harness the tendency to go beyond the limit. A new and perhaps unexpected realm in which the question of setting limits has been increasingly to the fore over recent years (and even very recently with the war in Iraq), concerns the use of force in open conflicts. The majority of people have, it would seem, sided with the underdogs in this conflict, even insisting that the stronger side must only use as much of its staggering strike force as is strictly necessary, thereby setting the kind of limits that are extremely rare in past history. In a case like this there is likely to be plenty of room for ambiguity and uncertainty, because there is a strong tendency on

hand to confuse weakness with being in the right and on the other to associate power with being in the wrong. War is certainly an exemplary and emblematic realm connected with the two ideas we have just mentioned, viz. exceeding limits and placing constraints on any action being taken. The war with Iraq is particularly appropriate because it is the first real conflict after the end of the Cold War, a complicated struggle in which we, as observers, are witnessing a bit of everything. The 1991 Gulf War was characterized by heavy air raids and bomb attacks and plenty of “collateral damage” that often went unnoticed. In Bosnia and Kosovo, we witnessed some dramatic events involving attempts to actually wipe out

entire ethnic groups by means of widespread violence of unimaginable cruelty and mass rape. In Afghanistan we imagined a lot but actually saw very little. As regards Iraq, the simultaneous presence of various phenomena meant the war with Iraq was in many ways extremely complicated and contradictory: hypertechnological warfare, the use of maximum power, but also guerrilla warfare and strategic combat. We watched soldiers and civilians mixed together, direct confrontation between opposing armies, the importance of protecting the civilian population and avoiding collateral damage. Not to mention Medieval-style sieges and tank battles on the move. The overall picture is hard to read and full of contradictions, and however strange this might seem, at

this stage it can clearly be seen how a tendency to exceed limits constantly coexists with a sense of needing to draw the line. It has been said that America has fought this war with “one arm tied behind its back,” because it could not make unbridled use of its own might. And it has also rightly been pointed out that the world now has not one but two superpowers: the United States of America and public opinion, two great players capable of influencing each other’s actions. This means that even war is subject to the limits and constraints we have talked about, although obviously in an extremely tragic context. Technological progress is now creating a brand new realm in which there is a real contradiction between limits and no limits, freedom and abuse, democracy and control. This is the new world of the Internet, which, on one hand, is an exemplary case of involvement and access, but on the other creates plenty of opportunities for criminal activities and abuse that are beyond any real control. Just take how the Internet can be used for such brutal crimes as terrorism or pedophilia. How can we resolve these contradictions? There can be no doubt that we need to draw the line somewhere on these issues. But that does not get rid of the ambiguity. Setting a limit actually means reverting to rules and regulations. But, as always, the underlying issue is where the regulations are supposed to come from. Generally speaking, we think

that, if there are norms of some sort, they must have been set by some authority or other. This is most obvious when dealing with serious problems like the arms trade and fighting terrorism. This approach belongs to an idea of society based on some sort of social contract freely adhered to by members of the community, in the sense that we freely choose to be governed by some higher authority that controls our actions and ensure everybody enjoys the rights associated with democracy. This is a wellknown model handed down to us from Hobbes, Locke, Rousseau and Kant and that leads to the birth of constitutions that we choose to conform to down the ages. But there is also another model broaching the question of the so-called “insurgence of regulations” in the philosophical line of thought of men like Hume and Hayek. The basic idea is that regulations are set by means of some sort of convention created and enforced by an iterative process of trial-anderror. This model implies that when new kinds of opportunities arise, for instance through Internet technology, there is often a wild phase that is hard to control with these new opportunities bursting onto the scene and altering the ethical background established by previously dominant forces. There is a moment when new opportunities run up against old limits. This is where the conflict we are witnessing comes from, and there are some people who believe that these clashes are at least partly inevitable, since human

beings are creatures of habit facing uncertain prospects. In this context there are really no authorities for enforcing the regulations due to the simple fact that these regulations cannot instantly come to terms with the distinctive features of the new situation, since they inevitably enshrine the wisdom of the past and not the present or future. Does this mean we are forced to pay the price of transition with all this entails in terms of errors and misdemeanors? Basically, yes. It means we need to identify regulations controlling newly emerging scenarios without stifling out new ideas or hampering new initiatives. It means there is no such thing as a free meal and there is inevitably a price to pay for anything new. Ideally, we need to maximize the benefits of innovation and minimize the costs. And we ought to realize that this is far from easy. But innovation does not necessarily imply justice. And it is only worth paying the price of this transition if its ultimate goals help spread justice and not injustice. How can we make a distinction between the two? The two ways of creating regulations I have outlined, as well as the idea of minimizing costs, presuppose a “near just” situation accompanied by socially acceptable conventions and practices. Only in this kind of setting we will be able to accept the social costs of change. On the contrary, if we start off by accepting that innovation takes place in an unjust

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tendency to pose the problem of limits both in general and in relation to specific fields like genetics or artificial intelligence, assuming responsibility for certain deeply felt worries circulating in society, as we have seen in the last few decades of the 20th century and the start of this new millennium. These two tendencies actually embody the fundamental essence of our culture here in the West, which considers breaking boundaries as a “duty” and, at the same time, realizes the need to keep control. This tension between science and ethics is a distinctive feature of the ongoing battle between limits and no limits, both individually and as a society. We also experience a sort of internal struggle in which there is a simultaneous desire for what is boundless and a need to harness the tendency to go beyond the limit. A new and perhaps unexpected realm in which the question of setting limits has been increasingly to the fore over recent years (and even very recently with the war in Iraq), concerns the use of force in open conflicts. The majority of people have, it would seem, sided with the underdogs in this conflict, even insisting that the stronger side must only use as much of its staggering strike force as is strictly necessary, thereby setting the kind of limits that are extremely rare in past history. In a case like this there is likely to be plenty of room for ambiguity and uncertainty, because there is a strong tendency on

hand to confuse weakness with being in the right and on the other to associate power with being in the wrong. War is certainly an exemplary and emblematic realm connected with the two ideas we have just mentioned, viz. exceeding limits and placing constraints on any action being taken. The war with Iraq is particularly appropriate because it is the first real conflict after the end of the Cold War, a complicated struggle in which we, as observers, are witnessing a bit of everything. The 1991 Gulf War was characterized by heavy air raids and bomb attacks and plenty of “collateral damage” that often went unnoticed. In Bosnia and Kosovo, we witnessed some dramatic events involving attempts to actually wipe out

entire ethnic groups by means of widespread violence of unimaginable cruelty and mass rape. In Afghanistan we imagined a lot but actually saw very little. As regards Iraq, the simultaneous presence of various phenomena meant the war with Iraq was in many ways extremely complicated and contradictory: hypertechnological warfare, the use of maximum power, but also guerrilla warfare and strategic combat. We watched soldiers and civilians mixed together, direct confrontation between opposing armies, the importance of protecting the civilian population and avoiding collateral damage. Not to mention Medieval-style sieges and tank battles on the move. The overall picture is hard to read and full of contradictions, and however strange this might seem, at

this stage it can clearly be seen how a tendency to exceed limits constantly coexists with a sense of needing to draw the line. It has been said that America has fought this war with “one arm tied behind its back,” because it could not make unbridled use of its own might. And it has also rightly been pointed out that the world now has not one but two superpowers: the United States of America and public opinion, two great players capable of influencing each other’s actions. This means that even war is subject to the limits and constraints we have talked about, although obviously in an extremely tragic context. Technological progress is now creating a brand new realm in which there is a real contradiction between limits and no limits, freedom and abuse, democracy and control. This is the new world of the Internet, which, on one hand, is an exemplary case of involvement and access, but on the other creates plenty of opportunities for criminal activities and abuse that are beyond any real control. Just take how the Internet can be used for such brutal crimes as terrorism or pedophilia. How can we resolve these contradictions? There can be no doubt that we need to draw the line somewhere on these issues. But that does not get rid of the ambiguity. Setting a limit actually means reverting to rules and regulations. But, as always, the underlying issue is where the regulations are supposed to come from. Generally speaking, we think

that, if there are norms of some sort, they must have been set by some authority or other. This is most obvious when dealing with serious problems like the arms trade and fighting terrorism. This approach belongs to an idea of society based on some sort of social contract freely adhered to by members of the community, in the sense that we freely choose to be governed by some higher authority that controls our actions and ensure everybody enjoys the rights associated with democracy. This is a wellknown model handed down to us from Hobbes, Locke, Rousseau and Kant and that leads to the birth of constitutions that we choose to conform to down the ages. But there is also another model broaching the question of the so-called “insurgence of regulations” in the philosophical line of thought of men like Hume and Hayek. The basic idea is that regulations are set by means of some sort of convention created and enforced by an iterative process of trial-anderror. This model implies that when new kinds of opportunities arise, for instance through Internet technology, there is often a wild phase that is hard to control with these new opportunities bursting onto the scene and altering the ethical background established by previously dominant forces. There is a moment when new opportunities run up against old limits. This is where the conflict we are witnessing comes from, and there are some people who believe that these clashes are at least partly inevitable, since human

beings are creatures of habit facing uncertain prospects. In this context there are really no authorities for enforcing the regulations due to the simple fact that these regulations cannot instantly come to terms with the distinctive features of the new situation, since they inevitably enshrine the wisdom of the past and not the present or future. Does this mean we are forced to pay the price of transition with all this entails in terms of errors and misdemeanors? Basically, yes. It means we need to identify regulations controlling newly emerging scenarios without stifling out new ideas or hampering new initiatives. It means there is no such thing as a free meal and there is inevitably a price to pay for anything new. Ideally, we need to maximize the benefits of innovation and minimize the costs. And we ought to realize that this is far from easy. But innovation does not necessarily imply justice. And it is only worth paying the price of this transition if its ultimate goals help spread justice and not injustice. How can we make a distinction between the two? The two ways of creating regulations I have outlined, as well as the idea of minimizing costs, presuppose a “near just” situation accompanied by socially acceptable conventions and practices. Only in this kind of setting we will be able to accept the social costs of change. On the contrary, if we start off by accepting that innovation takes place in an unjust

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Un robot dal cervello “bestiale” A Robot with a “Beastly” Brain intervista a Salvatore Veca* interview with Salvatore Veca*

Le nuove frontiere della bioingegneria in una sintesi inedita tra organico e meccanico: duemila cellule cerebrali di topo importate in una macchina The latest frontiers of bioengineering in a new synthesis of the organic and mechanical: two thousand brain cells from a mouse incorporated in a machine

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context and a framework of unjust institutions, then it is clear that our priorities undergo profound changes. It is no longer a question of a dialectic between limits and no limits, but the prior issue of fighting injustice. Fortunately, this is not the case with our current frame of reference. Let us go back to the idea of limits again. Our frame of reference is characterized by the growing power of the

instruments at our disposal, in both a positive and negative sense. If we think of our own individual situations, we come up against means of either enhancing or (according to our point of view) repressing our personalities. Take the way in which personal computers relate to individual creativity. In your view, what are the implications, both individually and collectively, of this relationship?

From my own personal point of view, it is a dramatic story with a happy ending. I started working with a computer well after my wife and children, because I was fortunate enough to have the help of two secretaries who typed out faithfully what I wrote down on paper. So my own creativity depended on how my biro related to the horror vacui of blank paper, something all writers are familiar with. As my duties became more pressing and I had less time at my disposal, I was forced to start using a computer. Initially this held back and hampered my creative skills. But that was just an initial reaction that soon turned into a sort of addiction and eventually a fresh source of creativity. Nowadays, I do not even write down notes without using my computer. Now I need to relate my own personal experience to everybody else’s to try and see how the interaction between tool and creativity has developed in general, so that the description of an experience that just happens to be shared with lots of other people can be turned into a widely applicable theory. So what can we learn from this mentalscape? That there is nothing terribly new under the sun. That right through history what we call creativity is just an ongoing struggle between an attempt to work out new versions of the world – morphological, iconic, aesthetic, erotic and cognitive – and the latest “tool box” or, in other words, a vast and constantly changing repertoire of means available for achieving our goals. So where does the problem come from?

From the fact that this tool box favors change and leads to our losing track of any limits. Creativity is an adventure into exploring new possibilities which, once again, bring out the contrast between new unlimited means and old tools and limits. New versions of the world are worked out from old formulas, paraphrasing them, mixing up tools and languages, and constantly setting new limits. The power of the unlimited gradually emerges forcing us, as Neurath pointed out, to repair our ship while out at sea. But all this is far from being a bad thing, quite the contrary. I have an austerely positive view of all this and we must acknowledge that a tendency to push our limits all the time considerably widens our range of possibilities. This is a typically human affair, in which we can recognize Goethe’s Streben and, at the same time, the wisdom of Terence’s old saying about “nihil humanum alienum puto.”

* Salvatore Veca is one of the leading contemporary Italian philosophers. His long academic career began in 1966. He has taught at several Italian universities (Milan University, Calabria University, Bologna University, Florence University) and carried out plenty of research (he has written dozens of highly popular books and essays). He has been teaching Political Philosophy in the Faculty of Political Science at Pavia University since 1990 (where he has been the dean since 1999). He has also been pro-rector for Didactics at Pavia University since 2002.

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998. Kevin Warwick, Professore di Cibernetica e Ricercatore nel campo dell’Intelligenza Artificiale all’Università di Reading, nel Regno Unito, affronta un’operazione che sconvolge la comunità scientifica internazionale. Si fa impiantare nell’avambraccio un microchip, attraverso il quale è in grado di comunicare con l’ufficio: apre le porte, accende le luci e attiva il proprio website che risponde con un messaggio preregistrato. Per Kevin Warwick è solo l’inizio di una serie di esperimenti, durante i quali collega progressivamente il proprio sistema nervoso a un computer. Il “Project Cyborg” del docente anglosassone è attualmente in pieno sviluppo. Steve Mann è invece uno scienziato e da oltre vent’anni si dedica ai cosiddetti WearComp, i computer portatili. Macchine che ci seguono ovunque e filtrano, indirizzano o intensificano le informazioni fornite dall’ambiente. Ricevono e trasmettono e-mail, percepiscono i segnali d’allarme, fanno funzionare gli elettrodomestici. Due esempi fra i più noti d’integrazione tra uomo e macchina, che evocano scenari fantascientifici, ma sono superati dalla più recente, e per certi versi inquietante, ibridazione. Non è una novità ipertecnologica che esiste solo nel contesto rarefatto dei laboratori degli Istituti Tecnologici, ma è addirittura un prodotto che può essere acquistato, alla modica cifra di 3.000 dollari. L’aspetto innocuo di una caffettiera nasconde

la frontiera più avanzata della bioingegneria, e traccia una direzione del tutto innovativa nella produzione dei robot. Si chiama Kephera, si muove alla poco rispettabile velocità di un metro al secondo e il suo inventore, il ricercatore americano Steve Potter, l’ha battezzato affettuosamente “Hybrot”. È il capostipite degli “hybrid robot”, una strana via di mezzo tra l’animale e la macchina. Detto anche “animat”, animale automatico, è il frutto di una sperimentazione che dura ormai da dieci anni, e porta alle estreme conseguenze l’ibridazione tra un essere vivente e le componenti robotiche. A muoverlo sono gli impulsi di duemila cellule cerebrali di un topo, tenute in vita per due anni in un incubatore e poi applicate a un microchip. I neuroni fanno “agire” il robot, mentre le cellule a raggi infrarossi e i minisensori elettronici trasmettono al cervello del topo le informazioni raccolte durante l’attività. Kephera acquisisce questi dati e modifica di conseguenza il proprio comportamento. Se riassumiamo in una sola parola la frase precedente, forse l’importanza dell’invenzione risulterà più evidente: il piccolo Hybrot impara. Superando di colpo i risultati di molti mastodontici computer dedicati all’Intelligenza Artificiale, il prodotto della svizzera K-Team ha attirato l’attenzione degli scienziati di tutto il mondo. Gli scenari che si aprono sono molteplici. Qualcuno già pensa a future generazioni

di computer che saranno capaci di adattarsi all’ambiente, di cambiare durante la loro esistenza, e addirittura di autoripararsi o, detto in altri termini, di “guarire”. Il finanziamento iniziale di 1,2 milioni di dollari concesso dal Ministero della Sanità Usa all’inventore di Kephera e al suo team è un chiaro segnale di interesse, e una

dimostrazione di fiducia in applicazioni utili per il genere umano. Gli ibridi delle nuove generazioni potranno assistere le vittime di malattie e di incidenti, sostituendone alcune funzioni nervose vitali. Organi artificiali e protesi potranno essere controllati in modo sempre più preciso e sofisticato, e si pensa già

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Un robot dal cervello “bestiale” A Robot with a “Beastly” Brain intervista a Salvatore Veca* interview with Salvatore Veca*

Le nuove frontiere della bioingegneria in una sintesi inedita tra organico e meccanico: duemila cellule cerebrali di topo importate in una macchina The latest frontiers of bioengineering in a new synthesis of the organic and mechanical: two thousand brain cells from a mouse incorporated in a machine

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context and a framework of unjust institutions, then it is clear that our priorities undergo profound changes. It is no longer a question of a dialectic between limits and no limits, but the prior issue of fighting injustice. Fortunately, this is not the case with our current frame of reference. Let us go back to the idea of limits again. Our frame of reference is characterized by the growing power of the

instruments at our disposal, in both a positive and negative sense. If we think of our own individual situations, we come up against means of either enhancing or (according to our point of view) repressing our personalities. Take the way in which personal computers relate to individual creativity. In your view, what are the implications, both individually and collectively, of this relationship?

From my own personal point of view, it is a dramatic story with a happy ending. I started working with a computer well after my wife and children, because I was fortunate enough to have the help of two secretaries who typed out faithfully what I wrote down on paper. So my own creativity depended on how my biro related to the horror vacui of blank paper, something all writers are familiar with. As my duties became more pressing and I had less time at my disposal, I was forced to start using a computer. Initially this held back and hampered my creative skills. But that was just an initial reaction that soon turned into a sort of addiction and eventually a fresh source of creativity. Nowadays, I do not even write down notes without using my computer. Now I need to relate my own personal experience to everybody else’s to try and see how the interaction between tool and creativity has developed in general, so that the description of an experience that just happens to be shared with lots of other people can be turned into a widely applicable theory. So what can we learn from this mentalscape? That there is nothing terribly new under the sun. That right through history what we call creativity is just an ongoing struggle between an attempt to work out new versions of the world – morphological, iconic, aesthetic, erotic and cognitive – and the latest “tool box” or, in other words, a vast and constantly changing repertoire of means available for achieving our goals. So where does the problem come from?

From the fact that this tool box favors change and leads to our losing track of any limits. Creativity is an adventure into exploring new possibilities which, once again, bring out the contrast between new unlimited means and old tools and limits. New versions of the world are worked out from old formulas, paraphrasing them, mixing up tools and languages, and constantly setting new limits. The power of the unlimited gradually emerges forcing us, as Neurath pointed out, to repair our ship while out at sea. But all this is far from being a bad thing, quite the contrary. I have an austerely positive view of all this and we must acknowledge that a tendency to push our limits all the time considerably widens our range of possibilities. This is a typically human affair, in which we can recognize Goethe’s Streben and, at the same time, the wisdom of Terence’s old saying about “nihil humanum alienum puto.”

* Salvatore Veca is one of the leading contemporary Italian philosophers. His long academic career began in 1966. He has taught at several Italian universities (Milan University, Calabria University, Bologna University, Florence University) and carried out plenty of research (he has written dozens of highly popular books and essays). He has been teaching Political Philosophy in the Faculty of Political Science at Pavia University since 1990 (where he has been the dean since 1999). He has also been pro-rector for Didactics at Pavia University since 2002.

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998. Kevin Warwick, Professore di Cibernetica e Ricercatore nel campo dell’Intelligenza Artificiale all’Università di Reading, nel Regno Unito, affronta un’operazione che sconvolge la comunità scientifica internazionale. Si fa impiantare nell’avambraccio un microchip, attraverso il quale è in grado di comunicare con l’ufficio: apre le porte, accende le luci e attiva il proprio website che risponde con un messaggio preregistrato. Per Kevin Warwick è solo l’inizio di una serie di esperimenti, durante i quali collega progressivamente il proprio sistema nervoso a un computer. Il “Project Cyborg” del docente anglosassone è attualmente in pieno sviluppo. Steve Mann è invece uno scienziato e da oltre vent’anni si dedica ai cosiddetti WearComp, i computer portatili. Macchine che ci seguono ovunque e filtrano, indirizzano o intensificano le informazioni fornite dall’ambiente. Ricevono e trasmettono e-mail, percepiscono i segnali d’allarme, fanno funzionare gli elettrodomestici. Due esempi fra i più noti d’integrazione tra uomo e macchina, che evocano scenari fantascientifici, ma sono superati dalla più recente, e per certi versi inquietante, ibridazione. Non è una novità ipertecnologica che esiste solo nel contesto rarefatto dei laboratori degli Istituti Tecnologici, ma è addirittura un prodotto che può essere acquistato, alla modica cifra di 3.000 dollari. L’aspetto innocuo di una caffettiera nasconde

la frontiera più avanzata della bioingegneria, e traccia una direzione del tutto innovativa nella produzione dei robot. Si chiama Kephera, si muove alla poco rispettabile velocità di un metro al secondo e il suo inventore, il ricercatore americano Steve Potter, l’ha battezzato affettuosamente “Hybrot”. È il capostipite degli “hybrid robot”, una strana via di mezzo tra l’animale e la macchina. Detto anche “animat”, animale automatico, è il frutto di una sperimentazione che dura ormai da dieci anni, e porta alle estreme conseguenze l’ibridazione tra un essere vivente e le componenti robotiche. A muoverlo sono gli impulsi di duemila cellule cerebrali di un topo, tenute in vita per due anni in un incubatore e poi applicate a un microchip. I neuroni fanno “agire” il robot, mentre le cellule a raggi infrarossi e i minisensori elettronici trasmettono al cervello del topo le informazioni raccolte durante l’attività. Kephera acquisisce questi dati e modifica di conseguenza il proprio comportamento. Se riassumiamo in una sola parola la frase precedente, forse l’importanza dell’invenzione risulterà più evidente: il piccolo Hybrot impara. Superando di colpo i risultati di molti mastodontici computer dedicati all’Intelligenza Artificiale, il prodotto della svizzera K-Team ha attirato l’attenzione degli scienziati di tutto il mondo. Gli scenari che si aprono sono molteplici. Qualcuno già pensa a future generazioni

di computer che saranno capaci di adattarsi all’ambiente, di cambiare durante la loro esistenza, e addirittura di autoripararsi o, detto in altri termini, di “guarire”. Il finanziamento iniziale di 1,2 milioni di dollari concesso dal Ministero della Sanità Usa all’inventore di Kephera e al suo team è un chiaro segnale di interesse, e una

dimostrazione di fiducia in applicazioni utili per il genere umano. Gli ibridi delle nuove generazioni potranno assistere le vittime di malattie e di incidenti, sostituendone alcune funzioni nervose vitali. Organi artificiali e protesi potranno essere controllati in modo sempre più preciso e sofisticato, e si pensa già

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ad applicazioni nel campo della prevenzione. Esiste un progetto per integrare nelle automobili del futuro un cervello di tipo biologico, in grado di pilotare la vettura in modo automatico. Al di là delle perplessità etiche o dell’incertezza per l’evoluzione di questo filone di ricerca, rimane un dato di fatto incontrovertibile. La bionica, la bioingegneria e la cibernetica chiudono un ciclo storico: dopo lo scienziato greco, attraverso l’artistaarchitetto-ingegnere del Rinascimento italiano, lo scienziato-ingegnere del Settecento francese e l’industriale-ingegnere dell’Ottocento americano, l’ingegneria ritorna con il bagaglio della tecnologia allo studio della vita umana. Attraverso la bioingegneria d’avanguardia l’ingegnere, inteso come colui che costruisce, entra nel settore del mondo vivente. A queste sperimentazioni non può rimanere insensibile nemmeno l’architettura: l’intuizione viene dal famoso massmediologo Marshall McLuhan. Gli edifici stessi diventano una sorta di complesso sistema nervoso, entità sensibili con le quali l’uomo interagisce. Oggetti che si adattano al nostro modo di vivere, “protesi”, estensioni del corpo. Lo spazio non è più un contenitore, ma un palcoscenico dove si recitano le interrelazioni tra l’uomo e l’ambiente. I muri si trasformano in membrane, si proiettano verso l’esterno con un complesso sistema di sensori, e ne assorbono luci, suoni, odori. Perdono peso, guadagnano leggerezza e acquistano una qualità. L’intelligenza.

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998. Kevin Warwick, Professor of Cybernetics and Researcher in the field of Artificial Intelligence at Reading University in the United Kingdom, carried out an experiment that stunned the international scientific community. He had a microchip implanted in his forearm to let him communicate with the office: he can open doors, switch on lights and operate his own web site that replies through a pre-recorded message. This is just the start of a series of experiments for Kevin Warwick as he gradually connects his own nervous system to a computer. The “Cyborg Project” set under way by this British professor is now in full swing. Steve Mann, on the other hand, is a scientist who has devoted over twenty years of his career to so-called WearComp, portable computers. Machines that follow us everywhere and filter, guide or intensify information coming from the environment. They receive and send e-mails, detect alarms and make home appliances work. Theses are two of the best known examples of man/machine integration evoking science fiction scenarios, but they have since been superseded by the latest and in some respects highly disturbing phenomenon of hybridization. This is not some hypertechnological novelty that only exists in the rarefied context of the laboratories of Technological Institutes, but rather a product that can be purchased at the modest price of 3,000 dollars. The innocuous appearance of

a coffee-maker actually conceals the cutting-edge frontier of bioengineering and sets a totally new direction in the manufacture of robots. It is called Kephera, moves at the sluggish rate of one meter-a-second and its inventor, the American researcher Steve Potter, has affectionately called it “Hybrot.” It is the latest “hybrid robot,” a strange blend of animal and machine. Also known as “animat,” automatic animal, it is the result of ten years’ experimentation and takes the hybridization between a living being and robot components to its extreme consequences. It is actually driven by impulses from two thousand brain cells from a mouse kept alive for two years in an incubator and then applied to a microchip. The neurons make the robot “act,” while cells with infrared rays and electronic minisensors transmit information collected during its activities to the mouse’s brain. Kephera gathers these data and makes appropriate adjustments to its behavior. Summing up what we have just said in one word might make the importance of this invention more obvious: the little Hybrot actually learns. Suddenly outsmarting lots of those huge computers devoted to Artificial Intelligence, the Swiss K-Team’s product has attracted the attention of scientists from all over the world. This opens up all kinds of prospects. Some people are already envisaging future generations of computers capable of adapting to the environment, changing during their own life time and even

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repairing themselves or, put another way, of “healing.” An initial grant of 1.2 million dollars that the US Ministry of Health gave the inventor of Kephera and his team is a clear sign of interest and a show of confidence in useful applications for mankind. The latest generations of hybrids will be able to help the victims of illnesses and accidents by taking over certain vital functions of the nervous system. Artificial organs and limbs will be controlled in a much more precise and sophisticated way, and there are already plans for applications for preventive purposes. There is a project to incorporate a biological-type brain in the cars of the future, so that they can be driven automatically. Apart from certain ethical

worries or a feeling of uncertainty about developments in this line of experimentation, all this is already a matter of fact. Bionics, bioengineering and cybernetics close a historical cycle: in the wake of Greek scientists, following the artistarchitect-engineer of the Italian Renaissance, the scientist-engineer of the eighteenth century in France and the industrialist-engineer in nineteenth century America, engineering is drawing on its technological resources to study human life. Thanks to cutting-edge bioengineering, the engineer (or person who constructs) enters the realm of the living. Architecture cannot afford to ignore these experiments: the famous scholar of mass media, Marshall McLuhan,

had an intuition about this. Buildings themselves might turn into a sort of complex nervous system, sensitive entities with which people interact. Objects adapting to our way of life, “prostheses,” extensions to the body. Space is no longer a container but a stage for acting out interrelations between people and the environment. Walls turn into membranes, projecting outwards through a complex system of sensors and absorbing lights, sounds and smells. They lose weight, get lighter and gain a certain quality. Intelligence.


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ad applicazioni nel campo della prevenzione. Esiste un progetto per integrare nelle automobili del futuro un cervello di tipo biologico, in grado di pilotare la vettura in modo automatico. Al di là delle perplessità etiche o dell’incertezza per l’evoluzione di questo filone di ricerca, rimane un dato di fatto incontrovertibile. La bionica, la bioingegneria e la cibernetica chiudono un ciclo storico: dopo lo scienziato greco, attraverso l’artistaarchitetto-ingegnere del Rinascimento italiano, lo scienziato-ingegnere del Settecento francese e l’industriale-ingegnere dell’Ottocento americano, l’ingegneria ritorna con il bagaglio della tecnologia allo studio della vita umana. Attraverso la bioingegneria d’avanguardia l’ingegnere, inteso come colui che costruisce, entra nel settore del mondo vivente. A queste sperimentazioni non può rimanere insensibile nemmeno l’architettura: l’intuizione viene dal famoso massmediologo Marshall McLuhan. Gli edifici stessi diventano una sorta di complesso sistema nervoso, entità sensibili con le quali l’uomo interagisce. Oggetti che si adattano al nostro modo di vivere, “protesi”, estensioni del corpo. Lo spazio non è più un contenitore, ma un palcoscenico dove si recitano le interrelazioni tra l’uomo e l’ambiente. I muri si trasformano in membrane, si proiettano verso l’esterno con un complesso sistema di sensori, e ne assorbono luci, suoni, odori. Perdono peso, guadagnano leggerezza e acquistano una qualità. L’intelligenza.

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998. Kevin Warwick, Professor of Cybernetics and Researcher in the field of Artificial Intelligence at Reading University in the United Kingdom, carried out an experiment that stunned the international scientific community. He had a microchip implanted in his forearm to let him communicate with the office: he can open doors, switch on lights and operate his own web site that replies through a pre-recorded message. This is just the start of a series of experiments for Kevin Warwick as he gradually connects his own nervous system to a computer. The “Cyborg Project” set under way by this British professor is now in full swing. Steve Mann, on the other hand, is a scientist who has devoted over twenty years of his career to so-called WearComp, portable computers. Machines that follow us everywhere and filter, guide or intensify information coming from the environment. They receive and send e-mails, detect alarms and make home appliances work. Theses are two of the best known examples of man/machine integration evoking science fiction scenarios, but they have since been superseded by the latest and in some respects highly disturbing phenomenon of hybridization. This is not some hypertechnological novelty that only exists in the rarefied context of the laboratories of Technological Institutes, but rather a product that can be purchased at the modest price of 3,000 dollars. The innocuous appearance of

a coffee-maker actually conceals the cutting-edge frontier of bioengineering and sets a totally new direction in the manufacture of robots. It is called Kephera, moves at the sluggish rate of one meter-a-second and its inventor, the American researcher Steve Potter, has affectionately called it “Hybrot.” It is the latest “hybrid robot,” a strange blend of animal and machine. Also known as “animat,” automatic animal, it is the result of ten years’ experimentation and takes the hybridization between a living being and robot components to its extreme consequences. It is actually driven by impulses from two thousand brain cells from a mouse kept alive for two years in an incubator and then applied to a microchip. The neurons make the robot “act,” while cells with infrared rays and electronic minisensors transmit information collected during its activities to the mouse’s brain. Kephera gathers these data and makes appropriate adjustments to its behavior. Summing up what we have just said in one word might make the importance of this invention more obvious: the little Hybrot actually learns. Suddenly outsmarting lots of those huge computers devoted to Artificial Intelligence, the Swiss K-Team’s product has attracted the attention of scientists from all over the world. This opens up all kinds of prospects. Some people are already envisaging future generations of computers capable of adapting to the environment, changing during their own life time and even

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repairing themselves or, put another way, of “healing.” An initial grant of 1.2 million dollars that the US Ministry of Health gave the inventor of Kephera and his team is a clear sign of interest and a show of confidence in useful applications for mankind. The latest generations of hybrids will be able to help the victims of illnesses and accidents by taking over certain vital functions of the nervous system. Artificial organs and limbs will be controlled in a much more precise and sophisticated way, and there are already plans for applications for preventive purposes. There is a project to incorporate a biological-type brain in the cars of the future, so that they can be driven automatically. Apart from certain ethical

worries or a feeling of uncertainty about developments in this line of experimentation, all this is already a matter of fact. Bionics, bioengineering and cybernetics close a historical cycle: in the wake of Greek scientists, following the artistarchitect-engineer of the Italian Renaissance, the scientist-engineer of the eighteenth century in France and the industrialist-engineer in nineteenth century America, engineering is drawing on its technological resources to study human life. Thanks to cutting-edge bioengineering, the engineer (or person who constructs) enters the realm of the living. Architecture cannot afford to ignore these experiments: the famous scholar of mass media, Marshall McLuhan,

had an intuition about this. Buildings themselves might turn into a sort of complex nervous system, sensitive entities with which people interact. Objects adapting to our way of life, “prostheses,” extensions to the body. Space is no longer a container but a stage for acting out interrelations between people and the environment. Walls turn into membranes, projecting outwards through a complex system of sensors and absorbing lights, sounds and smells. They lose weight, get lighter and gain a certain quality. Intelligence.


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Projects

L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

In architettura il limite non è solo un confine fisico ma anche percorso verso il cambiamento. La pluralità dei linguaggi prevarrà sul rigore etico? E l’Estetica saprà aiutarci a distinguere la bellezza, senza privarci di sogni e visioni? Fra i progetti di questo numero di arcVision, l’Auditorium di Renzo Piano e il Milwaukee Art Museum di Santiago Calatrava lanciano la sfida di una sapienza tecnica al suo limite estremo, esprimendo contenuti oltre la funzionalità dell’edificio. In architecture, a boundary is not just a physical border, it is also a process toward change. Will the multiplicity of idioms take precedence over ethical rigor? And will Aesthetics help us recognize beauty without depriving us of our own dreams and visions? In this issue of arcVision, Renzo Piano’s Auditorium and Santiago Calatrava’s Milwaukee Art Museum step up to the challenge of pushing technical expertise to its extreme: expressing themes that surpass mere functionality.

Fra etica e tecnica Between Ethics and Technology Senza limiti l’architettura vola Without limits, architecture takes off Maurizio Vitta*

I

l concetto di limite ha la singolare capacità – già intuita da Aristotele – di esprimere non solo se stesso, ma anche ciò che c’è oltre; e questo vale in particolare per l’architettura, nella quale esso presuppone in partenza l’idea dell’“oltrepassamento”. In effetti, l’intera vicenda dell’architettura si caratterizza per la sfida al limite che tutte le costruzioni significative hanno espresso: sfida radicale e temeraria, che destò fin dall’inizio il sospetto e l’ira degli dèi, ma che sta alla base del progresso e della modernità. Che cos’è il limite in architettura? La risposta più immediata è di ordine fisico: in architettura il “limite” è un dato spaziale, ossia una linea perimetrale che conferisce identità all’edificio e fa di tutto ciò che sta oltre un elemento estraneo, diverso. In questo senso, il concetto richiama quello di “soglia”, che si pone come interfaccia tra “interno” ed “esterno”, tra edificio e ambiente. Ma ciò rinvia subito a un altro limite, fisico e culturale insieme, che è quello sul quale l’architettura si affaccia sulla natura. Tutta la storia del progetto architettonico è percorsa dalla serrata dialettica tra l’artefatto che modella lo spazio e la natura che lo circonda, lo avviluppa, se ne discosta o vi penetra, segnando ogni volta una differenza che si oppone a ulteriori sviluppi o cede rivelando varchi inattesi. Di qui in poi, il concetto di limite architettonico si rivela dinamico e si dispiega in altre direzioni. La linea perimetrale è legata infatti alla orizzontalità bidimensionale della pianta. Ma l’architettura è per definizione tridimensionale, il che pone il problema della sua verticalità o, in altri termini, della sua altezza, dalla quale il limite emerge nuovamente, ma secondo modalità differenti. Il limite verticale degli edifici è infatti un elemento tecnico, pronto però a trasformarsi in dato antropologico e psicologico. All’architettura vengono però posti altri limiti, derivanti dalle sue qualità tecnologiche. Le antiche costruzioni in pietra facevano della gravità un vincolo insuperabile, che costringeva la struttura entro forme statiche e massicce. In seguito i nuovi materiali hanno oltrepassato questo confine, facendo della leggerezza un elemento strutturale, ma sollevando in pari tempo altri problemi. La trasparenza degli edifici, a lungo perseguita come liberazione degli ambienti da chiusure e opacità, deve ogni volta contrattare il suo sviluppo con le esigenze funzionali che la natura e i modi della visibilità impongono; l’informatizzazione degli ambienti pone imprescindibili questioni di controllo e di sicurezza; perfino la teoria della decostruzione ha trovato difficoltà a estendersi indefinitamente, a causa delle resistenze opposte dai modelli di fruizione. Da questi esempi risultano evidenti la mobilità, l’instabilità, il dinamismo del concetto di limite in architettura. Più che un confine invalicabile, esso sembra prefigurare piuttosto un traguardo da raggiungere e, quel che più conta, da superare ogni volta. Ciò è

particolarmente chiaro nelle ricerche e nelle riflessioni più avanzate. Di recente John Johansen, maestro dell’architettura del XX secolo – e forse, ancor più, del XXI – ha prefigurato un panorama nel quale le strutture saranno più leggere, economiche e funzionali, ma soprattutto tendenti a entrare in intima tangenza con le leggi di sviluppo della natura. Egli ha però anche richiamato l’attenzione sulla necessità di coniugare la potenza inventiva dei linguaggi formali con la coerenza strutturale che deve sempre garantire la validità della costruzione, indicando così un limite etico, non meno che estetico, all’architettura. L’etica si affaccia in effetti sull’orizzonte del progetto architettonico non tanto come limite quanto come impegno contrattuale che il modello spaziale assume nei confronti di quello sociale. L’Auditorium costruito a Roma da Renzo Piano o il Milwaukee Art Museum di Santiago Calatrava lanciano la sfida di una sapienza tecnica forzata fino al suo limite estremo per esprimere contenuti simbolici complessi e svolgere ruoli che travalicano la semplice funzionalità dell’edificio. È dunque in questo serrato confronto fra tecnologia avanzata e presenza attiva dell’architettura nella società che il limite si manifesta oggi, pienamente, nella sua duplice natura di linea di demarcazione e di sfida all’oltrepassamento. Questo è, com’è noto, un concetto di matrice illuminista, che si è posto a fondamento dell’idea stessa di progresso; e difatti il Palazzo dei Diritti dell’Uomo, realizzato a Strasburgo da Richard Rogers, richiama insistentemente, nell’articolazione dei suoi volumi, nell’ardita combinazione di alta tecnologia e valori formali, nella sua stessa qualità urbanistica, le tracce dell’alto magistero sul quale si fonda la civiltà moderna. Ma è per l’appunto in tale contesto che il continuo protendersi dell’architettura oltre il suo limite deve configurarsi, ora più che mai, non come mero impulso concorrenziale o banale tentativo di épater le bourgeois, bensì come tensione critica nei confronti sia della cultura progettuale, sia della società. Se questo è vero, il fecondo conflitto tra tecnica ed etica dovrà allora, senza alcun paradosso, trovare la sua legittimazione sul terreno dell’estetica, ovvero del valore percettivo e concettuale – o, in una parola, simbolico – che la struttura architettonica è chiamata a esprimere nella nostra esperienza quotidiana e nell’immediato divenire della nostra cultura. * Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e Architettura del Politecnico di Milano. È autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

T

he concept of a boundary has the singular ability – as Aristotle realized – of expressing not only itself, but also what lies beyond it; this is particularly true in the case of architecture, where the concept of boundary presupposes the notion of “going beyond”. Indeed, the central issue of architecture can be characterized as a challenge to boundaries, as expressed by all significant architectural works: a radical and daring challenge that from the beginnings of time aroused the suspicion and wrath of the gods, but that also lies at the very foundations of progress and modernity. What is a boundary in architecture? The most basic answer is of a physical nature: in architecture a “boundary” is a spatial reality, in other words, it is the borderline that marks the perimeter of a building, giving it its identity and making everything beyond it a foreign body. In this sense, the concept recalls the notion of a “threshold”, which acts as an interface between the “inside” and the “outside”, between a building and its environment. But this immediately invokes another boundary, both physical and cultural, i.e. architecture’s interaction with nature. The entire history of architectural design is characterized by the intricate dialectics between the artefact that shapes space and the natural environment that surrounds it, envelopes it, separates it, or penetrates it. In each case a tension is marked that opposes itself to further development or yields to reveal unexpected vistas. From here on in, the concept of architectural boundary becomes dynamic and extends in other directions. The peripheral borderline is linked to the horizontal two-dimensionality of the architect’s building plan. But architecture is by definition three-dimensional, which poses the problem of its vertical nature – its height – re-introducing in a different way the question of boundaries. The vertical boundary of a building is actually a technical element, but easily transformed into an anthropological and psychological element. However, architecture faces other limits imposed by its technological qualities. Old stone constructions faced the insuperable constraint of gravity, confining structures to massive, static forms. With time, new materials went beyond this boundary, making lightness a structural feature, but also raising other issues. The transparency of buildings, long considered the emancipation of internal environments by keeping them from being closed-in and opaque, must constantly adapt its development to the functional needs imposed by the very nature of visibility and its means. The computerization of internal environments raises fundamental questions of control and safety; even the theory of deconstruction has struggled to extend itself indefinitely in the face of resistance from the fruition models. These examples clearly show the mobility, instability and dynamism of the concept of boundary in archi-

tecture. Rather than a definitive obstacle, the boundary seems to be more of a goal to reach and, most importantly, to surpass every time. This is particularly clear at the cutting-edge of architectural thinking and experimentation. John Johansen, master of 20th century architecture (and perhaps even more a master of the 21st century) recently suggested a scenario in which structures will become lighter, more economical and functional and, above all, will tend to enter into ever closer relation with nature’s laws of development. However, he also refocused attention on the need to combine the inventive power of stylistic idioms with the structural solidity that must always guarantee a building’s validity, thereby giving an ethical and aesthetic boundary to architecture. In architectural design, ethics becomes not so much a boundary as much as a contractual obligation that spatial design assumes in relation to society. Renzo Piano’s Auditorium in Rome and Santiago Calatrava’s Milwaukee Art Museum take up the challenge by pushing technical expertise to its very limit in order to express intricate symbolic contents and perform roles that go beyond the plain functionality of the building. Therefore, it is in this close confrontation between advanced technology and architecture’s active presence in society that the concept of boundary, in its double nature of borderline and challenge to go beyond, manifests itself today. Clearly, this is an Enlightenment-inspired concept that lies at the very foundation of progress; and indeed the Human Rights Building designed by Richard Rogers in Strasbourg insistently recalls the great teachings on which modern civilization is founded: through its intricate structural engineering, the bold combination of technology and style, and in its very urbanistic qualities. But in this context, the constant movement of architecture beyond its boundaries must now, more than ever, become not just a competitive drive or vulgar attempt to “impress the bourgeoisie”, but rather it must include a critical approach to both design and society. In this case, then the fruitful conflict between technology and ethics will find its legitimacy (without the slightest paradox) in aesthetics or, in other words, in the perceptual and conceptual (i.e. symbolic) value that the architectural structure is called on to express in our daily experience and in the immediate future of our culture.

* Maurizio Vitta, graduated in philosophy and is professor of Theories and History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture at the Politecnico University in Milan. He has written many articles, essays and books on contemporary art, literature, architecture and design. He also writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and is deputy editor of “l’Arca”. Among his recent books: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

In architettura il limite non è solo un confine fisico ma anche percorso verso il cambiamento. La pluralità dei linguaggi prevarrà sul rigore etico? E l’Estetica saprà aiutarci a distinguere la bellezza, senza privarci di sogni e visioni? Fra i progetti di questo numero di arcVision, l’Auditorium di Renzo Piano e il Milwaukee Art Museum di Santiago Calatrava lanciano la sfida di una sapienza tecnica al suo limite estremo, esprimendo contenuti oltre la funzionalità dell’edificio. In architecture, a boundary is not just a physical border, it is also a process toward change. Will the multiplicity of idioms take precedence over ethical rigor? And will Aesthetics help us recognize beauty without depriving us of our own dreams and visions? In this issue of arcVision, Renzo Piano’s Auditorium and Santiago Calatrava’s Milwaukee Art Museum step up to the challenge of pushing technical expertise to its extreme: expressing themes that surpass mere functionality.

Fra etica e tecnica Between Ethics and Technology Senza limiti l’architettura vola Without limits, architecture takes off Maurizio Vitta*

I

l concetto di limite ha la singolare capacità – già intuita da Aristotele – di esprimere non solo se stesso, ma anche ciò che c’è oltre; e questo vale in particolare per l’architettura, nella quale esso presuppone in partenza l’idea dell’“oltrepassamento”. In effetti, l’intera vicenda dell’architettura si caratterizza per la sfida al limite che tutte le costruzioni significative hanno espresso: sfida radicale e temeraria, che destò fin dall’inizio il sospetto e l’ira degli dèi, ma che sta alla base del progresso e della modernità. Che cos’è il limite in architettura? La risposta più immediata è di ordine fisico: in architettura il “limite” è un dato spaziale, ossia una linea perimetrale che conferisce identità all’edificio e fa di tutto ciò che sta oltre un elemento estraneo, diverso. In questo senso, il concetto richiama quello di “soglia”, che si pone come interfaccia tra “interno” ed “esterno”, tra edificio e ambiente. Ma ciò rinvia subito a un altro limite, fisico e culturale insieme, che è quello sul quale l’architettura si affaccia sulla natura. Tutta la storia del progetto architettonico è percorsa dalla serrata dialettica tra l’artefatto che modella lo spazio e la natura che lo circonda, lo avviluppa, se ne discosta o vi penetra, segnando ogni volta una differenza che si oppone a ulteriori sviluppi o cede rivelando varchi inattesi. Di qui in poi, il concetto di limite architettonico si rivela dinamico e si dispiega in altre direzioni. La linea perimetrale è legata infatti alla orizzontalità bidimensionale della pianta. Ma l’architettura è per definizione tridimensionale, il che pone il problema della sua verticalità o, in altri termini, della sua altezza, dalla quale il limite emerge nuovamente, ma secondo modalità differenti. Il limite verticale degli edifici è infatti un elemento tecnico, pronto però a trasformarsi in dato antropologico e psicologico. All’architettura vengono però posti altri limiti, derivanti dalle sue qualità tecnologiche. Le antiche costruzioni in pietra facevano della gravità un vincolo insuperabile, che costringeva la struttura entro forme statiche e massicce. In seguito i nuovi materiali hanno oltrepassato questo confine, facendo della leggerezza un elemento strutturale, ma sollevando in pari tempo altri problemi. La trasparenza degli edifici, a lungo perseguita come liberazione degli ambienti da chiusure e opacità, deve ogni volta contrattare il suo sviluppo con le esigenze funzionali che la natura e i modi della visibilità impongono; l’informatizzazione degli ambienti pone imprescindibili questioni di controllo e di sicurezza; perfino la teoria della decostruzione ha trovato difficoltà a estendersi indefinitamente, a causa delle resistenze opposte dai modelli di fruizione. Da questi esempi risultano evidenti la mobilità, l’instabilità, il dinamismo del concetto di limite in architettura. Più che un confine invalicabile, esso sembra prefigurare piuttosto un traguardo da raggiungere e, quel che più conta, da superare ogni volta. Ciò è

particolarmente chiaro nelle ricerche e nelle riflessioni più avanzate. Di recente John Johansen, maestro dell’architettura del XX secolo – e forse, ancor più, del XXI – ha prefigurato un panorama nel quale le strutture saranno più leggere, economiche e funzionali, ma soprattutto tendenti a entrare in intima tangenza con le leggi di sviluppo della natura. Egli ha però anche richiamato l’attenzione sulla necessità di coniugare la potenza inventiva dei linguaggi formali con la coerenza strutturale che deve sempre garantire la validità della costruzione, indicando così un limite etico, non meno che estetico, all’architettura. L’etica si affaccia in effetti sull’orizzonte del progetto architettonico non tanto come limite quanto come impegno contrattuale che il modello spaziale assume nei confronti di quello sociale. L’Auditorium costruito a Roma da Renzo Piano o il Milwaukee Art Museum di Santiago Calatrava lanciano la sfida di una sapienza tecnica forzata fino al suo limite estremo per esprimere contenuti simbolici complessi e svolgere ruoli che travalicano la semplice funzionalità dell’edificio. È dunque in questo serrato confronto fra tecnologia avanzata e presenza attiva dell’architettura nella società che il limite si manifesta oggi, pienamente, nella sua duplice natura di linea di demarcazione e di sfida all’oltrepassamento. Questo è, com’è noto, un concetto di matrice illuminista, che si è posto a fondamento dell’idea stessa di progresso; e difatti il Palazzo dei Diritti dell’Uomo, realizzato a Strasburgo da Richard Rogers, richiama insistentemente, nell’articolazione dei suoi volumi, nell’ardita combinazione di alta tecnologia e valori formali, nella sua stessa qualità urbanistica, le tracce dell’alto magistero sul quale si fonda la civiltà moderna. Ma è per l’appunto in tale contesto che il continuo protendersi dell’architettura oltre il suo limite deve configurarsi, ora più che mai, non come mero impulso concorrenziale o banale tentativo di épater le bourgeois, bensì come tensione critica nei confronti sia della cultura progettuale, sia della società. Se questo è vero, il fecondo conflitto tra tecnica ed etica dovrà allora, senza alcun paradosso, trovare la sua legittimazione sul terreno dell’estetica, ovvero del valore percettivo e concettuale – o, in una parola, simbolico – che la struttura architettonica è chiamata a esprimere nella nostra esperienza quotidiana e nell’immediato divenire della nostra cultura. * Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e Architettura del Politecnico di Milano. È autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale de “Il Sole 24 Ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

T

he concept of a boundary has the singular ability – as Aristotle realized – of expressing not only itself, but also what lies beyond it; this is particularly true in the case of architecture, where the concept of boundary presupposes the notion of “going beyond”. Indeed, the central issue of architecture can be characterized as a challenge to boundaries, as expressed by all significant architectural works: a radical and daring challenge that from the beginnings of time aroused the suspicion and wrath of the gods, but that also lies at the very foundations of progress and modernity. What is a boundary in architecture? The most basic answer is of a physical nature: in architecture a “boundary” is a spatial reality, in other words, it is the borderline that marks the perimeter of a building, giving it its identity and making everything beyond it a foreign body. In this sense, the concept recalls the notion of a “threshold”, which acts as an interface between the “inside” and the “outside”, between a building and its environment. But this immediately invokes another boundary, both physical and cultural, i.e. architecture’s interaction with nature. The entire history of architectural design is characterized by the intricate dialectics between the artefact that shapes space and the natural environment that surrounds it, envelopes it, separates it, or penetrates it. In each case a tension is marked that opposes itself to further development or yields to reveal unexpected vistas. From here on in, the concept of architectural boundary becomes dynamic and extends in other directions. The peripheral borderline is linked to the horizontal two-dimensionality of the architect’s building plan. But architecture is by definition three-dimensional, which poses the problem of its vertical nature – its height – re-introducing in a different way the question of boundaries. The vertical boundary of a building is actually a technical element, but easily transformed into an anthropological and psychological element. However, architecture faces other limits imposed by its technological qualities. Old stone constructions faced the insuperable constraint of gravity, confining structures to massive, static forms. With time, new materials went beyond this boundary, making lightness a structural feature, but also raising other issues. The transparency of buildings, long considered the emancipation of internal environments by keeping them from being closed-in and opaque, must constantly adapt its development to the functional needs imposed by the very nature of visibility and its means. The computerization of internal environments raises fundamental questions of control and safety; even the theory of deconstruction has struggled to extend itself indefinitely in the face of resistance from the fruition models. These examples clearly show the mobility, instability and dynamism of the concept of boundary in archi-

tecture. Rather than a definitive obstacle, the boundary seems to be more of a goal to reach and, most importantly, to surpass every time. This is particularly clear at the cutting-edge of architectural thinking and experimentation. John Johansen, master of 20th century architecture (and perhaps even more a master of the 21st century) recently suggested a scenario in which structures will become lighter, more economical and functional and, above all, will tend to enter into ever closer relation with nature’s laws of development. However, he also refocused attention on the need to combine the inventive power of stylistic idioms with the structural solidity that must always guarantee a building’s validity, thereby giving an ethical and aesthetic boundary to architecture. In architectural design, ethics becomes not so much a boundary as much as a contractual obligation that spatial design assumes in relation to society. Renzo Piano’s Auditorium in Rome and Santiago Calatrava’s Milwaukee Art Museum take up the challenge by pushing technical expertise to its very limit in order to express intricate symbolic contents and perform roles that go beyond the plain functionality of the building. Therefore, it is in this close confrontation between advanced technology and architecture’s active presence in society that the concept of boundary, in its double nature of borderline and challenge to go beyond, manifests itself today. Clearly, this is an Enlightenment-inspired concept that lies at the very foundation of progress; and indeed the Human Rights Building designed by Richard Rogers in Strasbourg insistently recalls the great teachings on which modern civilization is founded: through its intricate structural engineering, the bold combination of technology and style, and in its very urbanistic qualities. But in this context, the constant movement of architecture beyond its boundaries must now, more than ever, become not just a competitive drive or vulgar attempt to “impress the bourgeoisie”, but rather it must include a critical approach to both design and society. In this case, then the fruitful conflict between technology and ethics will find its legitimacy (without the slightest paradox) in aesthetics or, in other words, in the perceptual and conceptual (i.e. symbolic) value that the architectural structure is called on to express in our daily experience and in the immediate future of our culture.

* Maurizio Vitta, graduated in philosophy and is professor of Theories and History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture at the Politecnico University in Milan. He has written many articles, essays and books on contemporary art, literature, architecture and design. He also writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and is deputy editor of “l’Arca”. Among his recent books: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

La “fabbrica” dei diritti The “Factory” of Rights Strasburgo, Palazzo dei Diritti dell’Uomo Strasbourg, Human Rights Building Progetto di Richard Rogers Partnership Project by Richard Rogers Partnership

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he nesso c’è fra Rivoluzione industriale e diritti dell’uomo? Naturalmente le relazioni possono essere tantissime e variamente supportate da validi argomenti, ma in questo caso è utile concentrarsi su ciò che trasmette il progetto realizzato a Strasburgo. Per Rogers dal Beaubourg in poi la fabbrica, e tutto ciò che le sta intorno, è un referente ineludibile del costruire. Ma nel caso del Palazzo dei Diritti dell’Uomo c’è qualcosa di più. Qualcosa di ludico ma anche qualcosa che attiene alla sfera del simbolico. La configurazione planimetrica del Palazzo evoca chiaramente la sagoma umana, una sorta di androide – con un corpo quasi inesistente, lunghe gambe e una testa con enormi occhi – sdraiato su un’ansa del fiume. La destinazione funzionale dell’edificio è stata dunque interpretata secondo un codice simbolico che riporta al-

la pratica, antichissima, del simulacro quale elemento di grande forza evocatrice. Ciò rivela come nel Dna dell’architettura contemporanea permangano ancora significative tracce di un passato arcaico, di quando l’architettura si distingueva dal semplice rifugio attraverso le forme di una scultura concava, contenitore di funzioni ma anche struttura con un’energia simbolica in grado di trasmettere immediatamente contenuti di una certa complessità. La visione antropomorfica, ma anche riferimenti ad altre categorie sedimentate nell’immaginario collettivo, sembrano dunque riaffacciarsi come percorso progettuale possibile, in grado, attraverso un sistema di segni facilmente percepibili, di segnare con emergenze architettoniche un territorio sempre più caotico e indifferenziato. In tal senso potrebbe configurarsi una trama di re-

lazioni, composta di nodi non più solo spaziali ma anche culturali, che recupererebbe un linguaggio dismesso soprattutto durante gli anni d’oro del Razionalismo. L’immaginario industriale unito, per esempio, a forme simboliche, metaforiche, potrebbe dar vita a un linguaggio in grado di produrre, con la forza evocativa delle forme primigenie e l’energia della modernità, presenze di grande suggestione. Nella “fabbrica dei diritti” Rogers crea un ordine, una gerarchia di segni dove superfici e colore non cercano la mimesi con l’intorno, non cercano il dualismo Artificio e Natura ma bensì la dialettica degli opposti. Il raffinato sistema di assemblaggio delle pannellature, le connessioni strutturali enfatizzate da piastre e chiodature a vista, sono ricerca di un linguaggio diretto, senza mediazioni e infingimenti. Le strutture dipinte di un rosso fuoco ap-

paiono come un sistema di segni capace di evocare quell’ideale fil rouge che corre fra la storia dell’uomo e le sue conquiste sociali. Non a caso, infatti, il rosso cinge i due grandi cilindri, sedi rispettivamente del Tribunale e della Commissione. Nel paesaggio urbano di Strasburgo, composto di palazzi tutto vetro e acciaio, la scintillante “macchina” di metallo dei Diritti dell’Uomo è una vera e propria sciabolata di luce, un oggetto di rara preziosità industriale che riflette e illumina il suo intorno. Quando l’architettura non è solo contenitore di funzioni ma struttura di comunicazione, il paesaggio diviene narrazione non verbale, un linguaggio per immagini di grande efficacia. Del resto oggi l’architettura cerca proprio attraverso i segni forti della modernità di porsi come simbolo di progresso e di slancio verso il futuro.

Nella pagina a fianco, planimetria generale. In basso, la fronte est. Il complesso è diviso in due settori principali: la “testa” cilindrica, con gli spazi pubblici e le sale della Corte e delle Commissioni; il resto è destinato agli uffici. Opposite page, site plan. Bottom, the east front. The complex is divided into two main sectors: the cylindrical “head” with public spaces and the Court and Committee Rooms; the rest serves as offices.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

La “fabbrica” dei diritti The “Factory” of Rights Strasburgo, Palazzo dei Diritti dell’Uomo Strasbourg, Human Rights Building Progetto di Richard Rogers Partnership Project by Richard Rogers Partnership

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he nesso c’è fra Rivoluzione industriale e diritti dell’uomo? Naturalmente le relazioni possono essere tantissime e variamente supportate da validi argomenti, ma in questo caso è utile concentrarsi su ciò che trasmette il progetto realizzato a Strasburgo. Per Rogers dal Beaubourg in poi la fabbrica, e tutto ciò che le sta intorno, è un referente ineludibile del costruire. Ma nel caso del Palazzo dei Diritti dell’Uomo c’è qualcosa di più. Qualcosa di ludico ma anche qualcosa che attiene alla sfera del simbolico. La configurazione planimetrica del Palazzo evoca chiaramente la sagoma umana, una sorta di androide – con un corpo quasi inesistente, lunghe gambe e una testa con enormi occhi – sdraiato su un’ansa del fiume. La destinazione funzionale dell’edificio è stata dunque interpretata secondo un codice simbolico che riporta al-

la pratica, antichissima, del simulacro quale elemento di grande forza evocatrice. Ciò rivela come nel Dna dell’architettura contemporanea permangano ancora significative tracce di un passato arcaico, di quando l’architettura si distingueva dal semplice rifugio attraverso le forme di una scultura concava, contenitore di funzioni ma anche struttura con un’energia simbolica in grado di trasmettere immediatamente contenuti di una certa complessità. La visione antropomorfica, ma anche riferimenti ad altre categorie sedimentate nell’immaginario collettivo, sembrano dunque riaffacciarsi come percorso progettuale possibile, in grado, attraverso un sistema di segni facilmente percepibili, di segnare con emergenze architettoniche un territorio sempre più caotico e indifferenziato. In tal senso potrebbe configurarsi una trama di re-

lazioni, composta di nodi non più solo spaziali ma anche culturali, che recupererebbe un linguaggio dismesso soprattutto durante gli anni d’oro del Razionalismo. L’immaginario industriale unito, per esempio, a forme simboliche, metaforiche, potrebbe dar vita a un linguaggio in grado di produrre, con la forza evocativa delle forme primigenie e l’energia della modernità, presenze di grande suggestione. Nella “fabbrica dei diritti” Rogers crea un ordine, una gerarchia di segni dove superfici e colore non cercano la mimesi con l’intorno, non cercano il dualismo Artificio e Natura ma bensì la dialettica degli opposti. Il raffinato sistema di assemblaggio delle pannellature, le connessioni strutturali enfatizzate da piastre e chiodature a vista, sono ricerca di un linguaggio diretto, senza mediazioni e infingimenti. Le strutture dipinte di un rosso fuoco ap-

paiono come un sistema di segni capace di evocare quell’ideale fil rouge che corre fra la storia dell’uomo e le sue conquiste sociali. Non a caso, infatti, il rosso cinge i due grandi cilindri, sedi rispettivamente del Tribunale e della Commissione. Nel paesaggio urbano di Strasburgo, composto di palazzi tutto vetro e acciaio, la scintillante “macchina” di metallo dei Diritti dell’Uomo è una vera e propria sciabolata di luce, un oggetto di rara preziosità industriale che riflette e illumina il suo intorno. Quando l’architettura non è solo contenitore di funzioni ma struttura di comunicazione, il paesaggio diviene narrazione non verbale, un linguaggio per immagini di grande efficacia. Del resto oggi l’architettura cerca proprio attraverso i segni forti della modernità di porsi come simbolo di progresso e di slancio verso il futuro.

Nella pagina a fianco, planimetria generale. In basso, la fronte est. Il complesso è diviso in due settori principali: la “testa” cilindrica, con gli spazi pubblici e le sale della Corte e delle Commissioni; il resto è destinato agli uffici. Opposite page, site plan. Bottom, the east front. The complex is divided into two main sectors: the cylindrical “head” with public spaces and the Court and Committee Rooms; the rest serves as offices.

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Dal basso, pianta del secondo livello, con l’Aula della Corte e le sale delle Commissioni e pianta del livello del giardino, dove sono ubicati direzione della biblioteca, sala stampa, ristorante, archivi e servizi per gli uffici. Nella pagina a fianco, particolare della fronte ovest.

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From bottom, plan of the second level showing the Court Room and Committee Rooms and plan of the garden level, where the library administration, press room, restaurant, archives and office services are located. Opposite page, detail of the west front.

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Dal basso, pianta del secondo livello, con l’Aula della Corte e le sale delle Commissioni e pianta del livello del giardino, dove sono ubicati direzione della biblioteca, sala stampa, ristorante, archivi e servizi per gli uffici. Nella pagina a fianco, particolare della fronte ovest.

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From bottom, plan of the second level showing the Court Room and Committee Rooms and plan of the garden level, where the library administration, press room, restaurant, archives and office services are located. Opposite page, detail of the west front.

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hat is the connection between the Industrial Revolution and Human Rights? There are many possible connections that can be supported by valid arguments of course, but in this case it is worth focusing on what the Strasbourg project expresses. Since the Beaubourg project, the factory and everything surrounding it has become an inevitable element of construction for Rogers. But in the case of the Human Rights Building there is something more… Something playful, but also something with symbolic connotations. The building’s layout clearly evokes a human figure, an android of sorts – with almost no body, long legs and a head with enormous eyes – lying on the river bank. The building’s function has therefore been interpreted using the age-old practice of imitation to create a highly evocative element. This reveals how modern-day architecture’s DNA still contains significant traces of an archaic past, when architecture differentiated itself from a simple shelter through the shape of a concave sculpture serving as a container of functions as well as a structure with a symbolic energy capable of instantly expressing contents of a certain degree of complexity. This anthropomorphic vision, and the references to other categories deeply ingrained in our collective imagination seem to reappear as a possible design process capable of marking with architectural features and through a system of easily recognizable signs an increasingly chaotic and indistinguishable territory. In this sense, a pattern of relations seems to

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La scala elicoidale vetrata, vista dal basso, che conduce all’Aula della Corte. Nella pagina a fianco, l’atrio accessibile anche dal pubblico. The glass spiral staircase, seen from below, leading to the Court Room. Opposite page, the lobby which is also open to the public.

emerge, composed of nodes which are no longer just spatial but also cultural, and which might revive an idiom that was abandoned during the golden years of Rationalism. Industrial imagination combined with, for instance, symbolic and metaphorical shapes could generate a language capable of creating extremely striking features by associating the evocative force of primeval forms to the energy of modernity. In the “factory of human rights”, Rogers creates a sense of order, a hierarchy of signs in which surface and color do not seek to blend with the surroundings, nor do they seek the duality of Artifice and Nature, but rather the dialectic of opposites. The refined system of the panel assembly and the structural connections highlighted by exposed plates and rivets represent a quest for a direct idiom, without mediations or pretences. The structures painted in fiery red become a system of signs capable of evoking that ideal leit-motif running throughout human history and our social conquests. Indeed, it is no coincidence that red surrounds the two large cylinders that house the Supreme Court and High Commission. In Strasbourg’s glass and steel urban landscape, the scintillating metal “machine” that is the Human Rights Building is a real flash of light, an object of rare industrial beauty that reflects and illuminates its surroundings. When architecture is not just a functional container, but a communication structure, the surrounding setting turns into a nonverbal narrative, a very effective language of images. In fact, by using the powerful signs of modernity, architecture is trying to position itself as a symbol of progress and movement toward the future.

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hat is the connection between the Industrial Revolution and Human Rights? There are many possible connections that can be supported by valid arguments of course, but in this case it is worth focusing on what the Strasbourg project expresses. Since the Beaubourg project, the factory and everything surrounding it has become an inevitable element of construction for Rogers. But in the case of the Human Rights Building there is something more… Something playful, but also something with symbolic connotations. The building’s layout clearly evokes a human figure, an android of sorts – with almost no body, long legs and a head with enormous eyes – lying on the river bank. The building’s function has therefore been interpreted using the age-old practice of imitation to create a highly evocative element. This reveals how modern-day architecture’s DNA still contains significant traces of an archaic past, when architecture differentiated itself from a simple shelter through the shape of a concave sculpture serving as a container of functions as well as a structure with a symbolic energy capable of instantly expressing contents of a certain degree of complexity. This anthropomorphic vision, and the references to other categories deeply ingrained in our collective imagination seem to reappear as a possible design process capable of marking with architectural features and through a system of easily recognizable signs an increasingly chaotic and indistinguishable territory. In this sense, a pattern of relations seems to

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La scala elicoidale vetrata, vista dal basso, che conduce all’Aula della Corte. Nella pagina a fianco, l’atrio accessibile anche dal pubblico. The glass spiral staircase, seen from below, leading to the Court Room. Opposite page, the lobby which is also open to the public.

emerge, composed of nodes which are no longer just spatial but also cultural, and which might revive an idiom that was abandoned during the golden years of Rationalism. Industrial imagination combined with, for instance, symbolic and metaphorical shapes could generate a language capable of creating extremely striking features by associating the evocative force of primeval forms to the energy of modernity. In the “factory of human rights”, Rogers creates a sense of order, a hierarchy of signs in which surface and color do not seek to blend with the surroundings, nor do they seek the duality of Artifice and Nature, but rather the dialectic of opposites. The refined system of the panel assembly and the structural connections highlighted by exposed plates and rivets represent a quest for a direct idiom, without mediations or pretences. The structures painted in fiery red become a system of signs capable of evoking that ideal leit-motif running throughout human history and our social conquests. Indeed, it is no coincidence that red surrounds the two large cylinders that house the Supreme Court and High Commission. In Strasbourg’s glass and steel urban landscape, the scintillating metal “machine” that is the Human Rights Building is a real flash of light, an object of rare industrial beauty that reflects and illuminates its surroundings. When architecture is not just a functional container, but a communication structure, the surrounding setting turns into a nonverbal narrative, a very effective language of images. In fact, by using the powerful signs of modernity, architecture is trying to position itself as a symbol of progress and movement toward the future.

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In queste pagine, particolari dell’ingresso, caratterizzato dall’ampia superficie vetrata, metafora di trasparenza che deve essere alla base della giustizia e dei Diritti dell’Uomo.

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These pages, details of the entrance featuring a wide glass surface, a metaphor for the kind of transparency that must lie at the very foundations of justice and Human Rights.

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In queste pagine, particolari dell’ingresso, caratterizzato dall’ampia superficie vetrata, metafora di trasparenza che deve essere alla base della giustizia e dei Diritti dell’Uomo.

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These pages, details of the entrance featuring a wide glass surface, a metaphor for the kind of transparency that must lie at the very foundations of justice and Human Rights.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Transingegneria Trans-Engineering Milwaukee, Art Museum Milwaukee, Art Museum Progetto di Santiago Calatrava Valls Project by Santiago Calatrava Valls

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Transingegneria Trans-Engineering Milwaukee, Art Museum Milwaukee, Art Museum Progetto di Santiago Calatrava Valls Project by Santiago Calatrava Valls

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Il grande atrio, alto 30 m, realizzato in acciaio e vetro, con il brise soleil in posizione chiusa. Nella pagina a fianco, particolare del Remaine Bridge, percorso pedonale lungo circa 80 m. The large 30-meter-tall lobby made of steel and glass with the sunscreen in the closed position. Opposite page, detail of Remaine Bridge, a footbridge measuring about 80 m in length.

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L’

Art Museum di Milwaukee è un’addizione attuata su un vecchio insediamento museale sorto negli anni Cinquanta, realizzato su progetto di Eero Saarinen, di cui rispecchia, anche se in maniera indiretta, lo schema compositivo. Grande inventore di marchingegni tensostrutturali, Calatrava raccoglie dal grande serbatoio della memoria collettiva sfide ciclopiche, generando strutture mostruosamente (nel senso di stupefacente) complesse quanto affascinanti. La sua è davvero un’architettura disegnata da chi conosce i limiti della materia ma è anche in grado di trasformarli in iperboliche strutture tra il fantascientifico e il neorganico evoluto.

L’essersi ispirato allo scheletro del Physeter Macrocephalus, un particolare capodoglio dalla dentatura smisurata, dà il senso delle coordinate progettuali cui fa riferimento Calatrava nei suoi progetti che, per comodità e sintesi, si possono circoscrivere nel neorganico, non senza trascurare l’enorme differenza che l’organicismo di Calatrava rispetto ad altri progettisti è maggiormente consapevole della complessità scientifica sottesa a tali operazioni. Lo sguardo sul mondo naturale per trarne pattern inusuali o di complessa configurazione è da sempre una pratica ricorrente nel mondo del progetto, ma spesso i risultati sono poco significativi e relegabili nei progetti “fotocopia” riproducenti forme che richiamano il mondo vegetale nella sua forma più elementare e riconoscibile. Insomma, non basta conoscere l’alfabeto per sentirsi in competizione o in collaborazione con la Natura. Per non restare prigionieri di mode chiassose e contingenti occorre far proprio il senso globale dell’intervento con le infinite relazioni con l’intorno per ricreare una struttura compatibile con i diversi rapporti di scala e le particolari destinazioni funzionali. Dialogo fra struttura, forma e città. In varie interviste a proposito del progetto per Milwaukee, Santiago Calatrava ha sempre sostenuto che anche se si tratta di un ampliamento, il museo deve creare una sorta di nuovo genius loci attraverso la realizzazione di un piccolo brano di città. Il luogo dove sorge l’intervento è caratterizzato dalla presenza del lago Michigan. L’acqua, ma anche la configurazione corporea del capodoglio, hanno certamente suggerito l’idea di un ponte, di un passaggio scaturito quasi per clonazione naturale per unire il luogo culturale al resto della città. Un ponte lanciato fra arte e spazio urbano è un’ottima strategia di marketing culturale, un segno saturo di significati, cui difficilmente si può rimanere insensibili. Come non si può rimanere insensibili all’energia emanata dalla complessità del calcolo strutturale dell’opera dell’ingegnere, architetto e scultore di Valencia (ma da anni operativo a Zurigo), cui va riconosciuta l’assoluta originalità della sua ricerca. Come ogni altra realizzazione, anche il MAM esprime un percorso ideativo opposto a quello di altri ingegneri fortemente connotati da una verve compositiva di matrice architettonica. Mentre, per esempio, in Riccardo Morandi il climax espressivo dell’impianto strutturale era la meta del percorso matematico, per Calatrava calcolo e maestria tecnologica sono momento di approfondimento per verificare le sue istanze d’artista universale, di uomo di scienza alla ricerca della forma non come sublimazione del calcolo matematico ma quale referente estetico dell’uomo alla ricerca della modernità come realtà in continua mutazione.

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Il grande atrio, alto 30 m, realizzato in acciaio e vetro, con il brise soleil in posizione chiusa. Nella pagina a fianco, particolare del Remaine Bridge, percorso pedonale lungo circa 80 m. The large 30-meter-tall lobby made of steel and glass with the sunscreen in the closed position. Opposite page, detail of Remaine Bridge, a footbridge measuring about 80 m in length.

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Art Museum di Milwaukee è un’addizione attuata su un vecchio insediamento museale sorto negli anni Cinquanta, realizzato su progetto di Eero Saarinen, di cui rispecchia, anche se in maniera indiretta, lo schema compositivo. Grande inventore di marchingegni tensostrutturali, Calatrava raccoglie dal grande serbatoio della memoria collettiva sfide ciclopiche, generando strutture mostruosamente (nel senso di stupefacente) complesse quanto affascinanti. La sua è davvero un’architettura disegnata da chi conosce i limiti della materia ma è anche in grado di trasformarli in iperboliche strutture tra il fantascientifico e il neorganico evoluto.

L’essersi ispirato allo scheletro del Physeter Macrocephalus, un particolare capodoglio dalla dentatura smisurata, dà il senso delle coordinate progettuali cui fa riferimento Calatrava nei suoi progetti che, per comodità e sintesi, si possono circoscrivere nel neorganico, non senza trascurare l’enorme differenza che l’organicismo di Calatrava rispetto ad altri progettisti è maggiormente consapevole della complessità scientifica sottesa a tali operazioni. Lo sguardo sul mondo naturale per trarne pattern inusuali o di complessa configurazione è da sempre una pratica ricorrente nel mondo del progetto, ma spesso i risultati sono poco significativi e relegabili nei progetti “fotocopia” riproducenti forme che richiamano il mondo vegetale nella sua forma più elementare e riconoscibile. Insomma, non basta conoscere l’alfabeto per sentirsi in competizione o in collaborazione con la Natura. Per non restare prigionieri di mode chiassose e contingenti occorre far proprio il senso globale dell’intervento con le infinite relazioni con l’intorno per ricreare una struttura compatibile con i diversi rapporti di scala e le particolari destinazioni funzionali. Dialogo fra struttura, forma e città. In varie interviste a proposito del progetto per Milwaukee, Santiago Calatrava ha sempre sostenuto che anche se si tratta di un ampliamento, il museo deve creare una sorta di nuovo genius loci attraverso la realizzazione di un piccolo brano di città. Il luogo dove sorge l’intervento è caratterizzato dalla presenza del lago Michigan. L’acqua, ma anche la configurazione corporea del capodoglio, hanno certamente suggerito l’idea di un ponte, di un passaggio scaturito quasi per clonazione naturale per unire il luogo culturale al resto della città. Un ponte lanciato fra arte e spazio urbano è un’ottima strategia di marketing culturale, un segno saturo di significati, cui difficilmente si può rimanere insensibili. Come non si può rimanere insensibili all’energia emanata dalla complessità del calcolo strutturale dell’opera dell’ingegnere, architetto e scultore di Valencia (ma da anni operativo a Zurigo), cui va riconosciuta l’assoluta originalità della sua ricerca. Come ogni altra realizzazione, anche il MAM esprime un percorso ideativo opposto a quello di altri ingegneri fortemente connotati da una verve compositiva di matrice architettonica. Mentre, per esempio, in Riccardo Morandi il climax espressivo dell’impianto strutturale era la meta del percorso matematico, per Calatrava calcolo e maestria tecnologica sono momento di approfondimento per verificare le sue istanze d’artista universale, di uomo di scienza alla ricerca della forma non come sublimazione del calcolo matematico ma quale referente estetico dell’uomo alla ricerca della modernità come realtà in continua mutazione.

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he Milwaukee Art Museum is an addition to the old museum facility of the 1950s that respects, at least indirectly, the original design by Aero Saarinen. Great inventor of tensile structures of all shapes and sizes, Calatrava delves deep into the reservoir of our collective memory to take up Cyclopean challenges, and creates structures that are monstrously (in the startling sense) complex and intriguing. Calatrava’s is an architecture that is designed by somebody who truly knows the very boundaries of matter, but who is also capable of transforming those boundaries into hyperbolic structures that lie somewhere between science fiction and evolved neo-organic design. To begin understanding Calatrava’s design methods, it is it is worth remembering that he drew his inspiration from the skeleton of the Physeter Macrocephalus, a particular sperm whale with huge teeth. For the sake of convenience and in the interest of synthesis, his projects could be classified as belonging to the neo-organic school, even though that fails to take into account the fact that Calatrava’s organicism is much more aware of the scientific complexity underlying these operations than other architects’.

The use of nature as a source of inspiration for unusual patterns or complex configurations is a common practice in architectural design, but the results are often insignificant or merely consigned to the realm of “photocopy” projects reproducing shapes reminiscent of the vegetable world in its simplest and most recognizable form. In other words, it is not enough to know one’s alphabet to feel one can compete or co-operate with Nature. To free ourselves from loud fashions and passing trends, we must understand the overall dimension of the architectural element, and its countless interactions with its surroundings, in order to re-create a structure that is compatible with different relations of scale and specific functional purposes. The MAM is an interaction between structure, form and the city. In various interviews about the Milwaukee project, Santiago Calatrava insists that although it is an extension, the museum must create some kind of new genius loci by forming a small fragment of the city. The location for the structure is characterized by the presence of Lake Michigan. Water and the sperm whale’s body shape certainly inspired the idea of a bridge, a passageway that springs forth as if by natural cloning to connect the cultural location to the rest of the city. A bridge that is flung between art and urban space is an excellent cultural marketing strategy, a symbol full of meaning that is hard to ignore. In the same way, how can we possibly ignore the energy given off by the complexity of the work’s structural computation done by the engineer, architect and sculptor from Valencia (who has been working in Zurich for years now), and who deserves recognition for the absolute originality of his research. Like every other design, the MAM expresses a creative process that is in contradiction to that of other engineers, whose work is characterized by the compositional eloquence of a distinctly architectural matrix. Whereas, for instance, Riccardo Morandi’s stylistic climax in his structural construction is the goal of his mathematical reasoning, Calatrava uses mathematical and technological expertise as a means of verifying his authority as a universal artist — a man of science in search of form, not the sublimation of mathematical computation, but an aesthetic guideline for man in his quest for the constantly changing reality of modernity.

Planimetria generale e pianta del piano terra. Nella pagina a fianco, particolare del padiglione per le mostre, dotato di un sistema brise soleil mobile, in grado di aprirsi o chiudersi per controllare luce solare e temperatura all’interno degli spazi espositivi.

Site plan and plan of the ground floor. Opposite page, detail of the pavilion for hosting exhibitions fitted with a moving shutter system that opens and closes to control the sunlight and temperature inside the exhibition spaces.

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he Milwaukee Art Museum is an addition to the old museum facility of the 1950s that respects, at least indirectly, the original design by Aero Saarinen. Great inventor of tensile structures of all shapes and sizes, Calatrava delves deep into the reservoir of our collective memory to take up Cyclopean challenges, and creates structures that are monstrously (in the startling sense) complex and intriguing. Calatrava’s is an architecture that is designed by somebody who truly knows the very boundaries of matter, but who is also capable of transforming those boundaries into hyperbolic structures that lie somewhere between science fiction and evolved neo-organic design. To begin understanding Calatrava’s design methods, it is it is worth remembering that he drew his inspiration from the skeleton of the Physeter Macrocephalus, a particular sperm whale with huge teeth. For the sake of convenience and in the interest of synthesis, his projects could be classified as belonging to the neo-organic school, even though that fails to take into account the fact that Calatrava’s organicism is much more aware of the scientific complexity underlying these operations than other architects’.

The use of nature as a source of inspiration for unusual patterns or complex configurations is a common practice in architectural design, but the results are often insignificant or merely consigned to the realm of “photocopy” projects reproducing shapes reminiscent of the vegetable world in its simplest and most recognizable form. In other words, it is not enough to know one’s alphabet to feel one can compete or co-operate with Nature. To free ourselves from loud fashions and passing trends, we must understand the overall dimension of the architectural element, and its countless interactions with its surroundings, in order to re-create a structure that is compatible with different relations of scale and specific functional purposes. The MAM is an interaction between structure, form and the city. In various interviews about the Milwaukee project, Santiago Calatrava insists that although it is an extension, the museum must create some kind of new genius loci by forming a small fragment of the city. The location for the structure is characterized by the presence of Lake Michigan. Water and the sperm whale’s body shape certainly inspired the idea of a bridge, a passageway that springs forth as if by natural cloning to connect the cultural location to the rest of the city. A bridge that is flung between art and urban space is an excellent cultural marketing strategy, a symbol full of meaning that is hard to ignore. In the same way, how can we possibly ignore the energy given off by the complexity of the work’s structural computation done by the engineer, architect and sculptor from Valencia (who has been working in Zurich for years now), and who deserves recognition for the absolute originality of his research. Like every other design, the MAM expresses a creative process that is in contradiction to that of other engineers, whose work is characterized by the compositional eloquence of a distinctly architectural matrix. Whereas, for instance, Riccardo Morandi’s stylistic climax in his structural construction is the goal of his mathematical reasoning, Calatrava uses mathematical and technological expertise as a means of verifying his authority as a universal artist — a man of science in search of form, not the sublimation of mathematical computation, but an aesthetic guideline for man in his quest for the constantly changing reality of modernity.

Planimetria generale e pianta del piano terra. Nella pagina a fianco, particolare del padiglione per le mostre, dotato di un sistema brise soleil mobile, in grado di aprirsi o chiudersi per controllare luce solare e temperatura all’interno degli spazi espositivi.

Site plan and plan of the ground floor. Opposite page, detail of the pavilion for hosting exhibitions fitted with a moving shutter system that opens and closes to control the sunlight and temperature inside the exhibition spaces.

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In queste pagine, sezione del padiglione e immagini notturne col sistema brise soleil aperto. These pages, section of the pavilion and nighttime pictures showing the shutter system when it is open.

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In queste pagine, sezione del padiglione e immagini notturne col sistema brise soleil aperto. These pages, section of the pavilion and nighttime pictures showing the shutter system when it is open.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

L’immaginazione è un limite? Is Imagination a Limit? Shizuoka, Fujinomiya Golf Clubhouse Shizuoka, Fujinomiya Golf Clubhouse Progetto di Kisho Kurokawa Project by Kisho Kurokawa

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Nelle pagine seguenti, particolari della finestra di ventilazione e della connessione tra i due livelli dell’edificio. Following pages, details of the ventilation window and connection between the two building levels.

urokawa appartiene a quella scuola di pensiero che fa dell’altrove il focus di ogni intrapresa progettuale. Tra gli ideatori del Manifesto Metabolism 1960 – the Proposals for New Urbanism, Kurokawa ha sempre cercato il suo orizzonte progettuale oltre i limiti della disciplina. Nell’urbanistica metabolista l’altrove s’identifica, per esempio, nel superamento dei concetti di limite urbano e di limite nazionale, un assunto espresso in molti progetti teorici, di cui Metapolis è forse quello più articolato e ritenuto come un possibile archetipo dell’abitare del Terzo millennio. Un altro altrove preso in considerazione da Kurokawa è la geometria frattale (resa di più facile applicazione grazie alle tecnologie informatiche) che, attraverso l’irregolarità, le fratture, la discontinuità delle forme generate dall’esplorazione dei sistemi dinamici, suggerisce un nuovo linguaggio per un’architettura relazionata con il mondo dell’infinitamente piccolo, che però se ingrandito a scala umana può offrire interessanti applicazioni. La forma sinuosa della Clubhouse del Fujinomiya Golf Club di Shizuoka è un traslato delle teorie frattaliche applicate al progetto. Il genius loci non è riferito al luogo fisico quanto invece a un’energia generata dal caos. Il Frattalismo, nelle premesse della sua teoria fondativa, si pone, infatti, come un universo interiore: “Il Frattalismo è tutti i luoghi che la mente non riesce a percepire o immaginare, minuziosamente descritti in un ordinato caos senza tempo, senza luogo, senza inizio né fine” (dal Manifesto del Frattalismo). La Clubhouse è frutto dell’incontro fra due mondi paralleli. Da una parte la percezione diretta del luogo, riordinata dalla rimozione dell’immobilità della geometria euclidea per ottenere una totale integrazione dell’edificio nella complessa configurazione planimetrica della collina di Shizuoka, dall’altra l’attivazione di un luogo mentale, programmato su una piattaforma teorica in cui lo spazio viene preso in considerazione come flusso tridimensionale immerso nelle profondità dell’inconscio. In tal senso, il lavoro di Kurokawa va inquadrato tenendo conto di altre esperienze, anch’esse nate negli anni Cinquanta-Sessanta, come, per esempio, Fluxus, nome di un gruppo di artisti e intellettuali che aveva come obiettivo il superamento dell’arte intesa come universo a sé stante, conchiuso nella sua sfera storica. Fluxus era invece per un’arte fondata sulla processualità, sulla dina-

mica del percorso evolutivo come elemento significante. Nomadismo fra diversi codici come paradigma progettuale. Per Kurokawa, la risemantizzazione del linguaggio architettonico presuppone un passaggio obbligato attraverso il codice verbale, antitetico a quello sensoriale proprio dell’architettura ma pro-

prio per la sua diversità ricco di arborescenze concettuali. A proposito della realizzazione della Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1972, così scriveva Kurokawa in Metabolism in Architecture, Boulder, CO, USA, Westview Press, 1977: “Le parole (come le capsule) sono parti, parti separate. Ogni parola, comunque, muove l’uomo e può innescare varie idee e ipotesi.

Frammenti di pensiero, in singole parole, come un neutrone che colpisce un nucleo di uranio, crea nuove ipotesi e nuove idee come avviene in una reazione a catena. Nessun sistema di pensiero costruito in precedenza non potrà mai rimanere immobile. Esso si rompe e si divide in mille pezzi taglienti, le parole, ed esse si diffondono come nuovi semi”.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

L’immaginazione è un limite? Is Imagination a Limit? Shizuoka, Fujinomiya Golf Clubhouse Shizuoka, Fujinomiya Golf Clubhouse Progetto di Kisho Kurokawa Project by Kisho Kurokawa

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Nelle pagine seguenti, particolari della finestra di ventilazione e della connessione tra i due livelli dell’edificio. Following pages, details of the ventilation window and connection between the two building levels.

urokawa appartiene a quella scuola di pensiero che fa dell’altrove il focus di ogni intrapresa progettuale. Tra gli ideatori del Manifesto Metabolism 1960 – the Proposals for New Urbanism, Kurokawa ha sempre cercato il suo orizzonte progettuale oltre i limiti della disciplina. Nell’urbanistica metabolista l’altrove s’identifica, per esempio, nel superamento dei concetti di limite urbano e di limite nazionale, un assunto espresso in molti progetti teorici, di cui Metapolis è forse quello più articolato e ritenuto come un possibile archetipo dell’abitare del Terzo millennio. Un altro altrove preso in considerazione da Kurokawa è la geometria frattale (resa di più facile applicazione grazie alle tecnologie informatiche) che, attraverso l’irregolarità, le fratture, la discontinuità delle forme generate dall’esplorazione dei sistemi dinamici, suggerisce un nuovo linguaggio per un’architettura relazionata con il mondo dell’infinitamente piccolo, che però se ingrandito a scala umana può offrire interessanti applicazioni. La forma sinuosa della Clubhouse del Fujinomiya Golf Club di Shizuoka è un traslato delle teorie frattaliche applicate al progetto. Il genius loci non è riferito al luogo fisico quanto invece a un’energia generata dal caos. Il Frattalismo, nelle premesse della sua teoria fondativa, si pone, infatti, come un universo interiore: “Il Frattalismo è tutti i luoghi che la mente non riesce a percepire o immaginare, minuziosamente descritti in un ordinato caos senza tempo, senza luogo, senza inizio né fine” (dal Manifesto del Frattalismo). La Clubhouse è frutto dell’incontro fra due mondi paralleli. Da una parte la percezione diretta del luogo, riordinata dalla rimozione dell’immobilità della geometria euclidea per ottenere una totale integrazione dell’edificio nella complessa configurazione planimetrica della collina di Shizuoka, dall’altra l’attivazione di un luogo mentale, programmato su una piattaforma teorica in cui lo spazio viene preso in considerazione come flusso tridimensionale immerso nelle profondità dell’inconscio. In tal senso, il lavoro di Kurokawa va inquadrato tenendo conto di altre esperienze, anch’esse nate negli anni Cinquanta-Sessanta, come, per esempio, Fluxus, nome di un gruppo di artisti e intellettuali che aveva come obiettivo il superamento dell’arte intesa come universo a sé stante, conchiuso nella sua sfera storica. Fluxus era invece per un’arte fondata sulla processualità, sulla dina-

mica del percorso evolutivo come elemento significante. Nomadismo fra diversi codici come paradigma progettuale. Per Kurokawa, la risemantizzazione del linguaggio architettonico presuppone un passaggio obbligato attraverso il codice verbale, antitetico a quello sensoriale proprio dell’architettura ma pro-

prio per la sua diversità ricco di arborescenze concettuali. A proposito della realizzazione della Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1972, così scriveva Kurokawa in Metabolism in Architecture, Boulder, CO, USA, Westview Press, 1977: “Le parole (come le capsule) sono parti, parti separate. Ogni parola, comunque, muove l’uomo e può innescare varie idee e ipotesi.

Frammenti di pensiero, in singole parole, come un neutrone che colpisce un nucleo di uranio, crea nuove ipotesi e nuove idee come avviene in una reazione a catena. Nessun sistema di pensiero costruito in precedenza non potrà mai rimanere immobile. Esso si rompe e si divide in mille pezzi taglienti, le parole, ed esse si diffondono come nuovi semi”.

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Dal basso, pianta del piano terra e pianta del primo piano. Nella pagina a fianco, dall’alto, gli spogliatoi e un particolare della scala, con il corrimano disegnato secondo principi di geometria frattale. From bottom, plans of the ground floor and first floor. Opposite page, from top, the locker rooms and detail of the staircase showing the banister designed along the lines of fractal geometry.

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urokawa belongs to that school of thought that makes the elsewhere the focus of all its design. As one of the authors of the Manifesto Metabolism 1960 - Proposals for New Urbanism, Kurokawa has always worked beyond the bounds of architectural design. For instance, in metabolist urban design, the elsewhere implies going beyond the notion of urban or national boundaries, a basic assumption that finds its expression in many theoretical projects of which Metapolis is perhaps the most elaborate. It is for this reason that Metapolis is considered a possible archetype for living in the Third Millennium. Another potential elsewhere studied by Kurokawa is fractal geometry (which has become easier to apply with the advent of computers), whose irregularities, fractures and discontinuous forms, deriving from the exploration of dynamic systems, suggest a new idiom for an architecture that is related to the world of the infinitely small, and which offers interesting applications when expanded to the human scale. The sinuous shape of the Fujinomiya Golf Club Clubhouse in Shizuoka illustrates the application of fractal theory to the project. The genius loci is not so much the physical location itself, as it is the energy generated from chaos. In its basic assumptions, Fractalism positions itself as an internal universe: “Fractalism is all those places that the mind cannot perceive or imagine, minutely described in a timeless, ordered chaos, without a specific location, beginning or end” (from the Manifesto of Fractalism). The Clubhouse is the result of the meeting of two parallel worlds. In one world, direct perception of the place itself is re-ordered by removing Euclidean geometry to fully integrate the building in the complex design layout of Shizuoka hill. In creating a mental location we discover another world, based on a theoretical platform in which space becomes a three-dimensional flux buried in the depths of the subconscious. In this respect, Kurokawa’s work must be understood in relation to other experiences, like the 1950s and ‘60s when Fluxus, a group of artists and intellectuals, sought to transcend the idea of art as a universe unto itself confined in its own historical sphere. Fluxus was in favor of art based on process, on the dynamics of the evolutionary process itself as a source of meaning. Nomadism as an architectural design paradigm based on the exploration of various codes. For Kurokawa, re-creating a semantics of architecture necessarily implies a return to the verbal code, which is antithetical to the sensorial code of architecture, but which is also rich in conceptual links and connections. Kurokawa explained this when he wrote about the design of Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1972, in Metabolism in Architecture, Boulder, CO, USA, Westview Press, 1977: “Words (like capsules) are parts, separate parts. But every word moves man and can trigger new hypotheses and ideas. Thought fragments, expressed in separate words, create new hypotheses and new ideas in a chain reaction, like a neutron hitting a uranium nucleus. No existing system of thought can remain static. The words break up and divide themselves into a thousand sharp shards, which spread like new seeds.”

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Dal basso, pianta del piano terra e pianta del primo piano. Nella pagina a fianco, dall’alto, gli spogliatoi e un particolare della scala, con il corrimano disegnato secondo principi di geometria frattale. From bottom, plans of the ground floor and first floor. Opposite page, from top, the locker rooms and detail of the staircase showing the banister designed along the lines of fractal geometry.

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urokawa belongs to that school of thought that makes the elsewhere the focus of all its design. As one of the authors of the Manifesto Metabolism 1960 - Proposals for New Urbanism, Kurokawa has always worked beyond the bounds of architectural design. For instance, in metabolist urban design, the elsewhere implies going beyond the notion of urban or national boundaries, a basic assumption that finds its expression in many theoretical projects of which Metapolis is perhaps the most elaborate. It is for this reason that Metapolis is considered a possible archetype for living in the Third Millennium. Another potential elsewhere studied by Kurokawa is fractal geometry (which has become easier to apply with the advent of computers), whose irregularities, fractures and discontinuous forms, deriving from the exploration of dynamic systems, suggest a new idiom for an architecture that is related to the world of the infinitely small, and which offers interesting applications when expanded to the human scale. The sinuous shape of the Fujinomiya Golf Club Clubhouse in Shizuoka illustrates the application of fractal theory to the project. The genius loci is not so much the physical location itself, as it is the energy generated from chaos. In its basic assumptions, Fractalism positions itself as an internal universe: “Fractalism is all those places that the mind cannot perceive or imagine, minutely described in a timeless, ordered chaos, without a specific location, beginning or end” (from the Manifesto of Fractalism). The Clubhouse is the result of the meeting of two parallel worlds. In one world, direct perception of the place itself is re-ordered by removing Euclidean geometry to fully integrate the building in the complex design layout of Shizuoka hill. In creating a mental location we discover another world, based on a theoretical platform in which space becomes a three-dimensional flux buried in the depths of the subconscious. In this respect, Kurokawa’s work must be understood in relation to other experiences, like the 1950s and ‘60s when Fluxus, a group of artists and intellectuals, sought to transcend the idea of art as a universe unto itself confined in its own historical sphere. Fluxus was in favor of art based on process, on the dynamics of the evolutionary process itself as a source of meaning. Nomadism as an architectural design paradigm based on the exploration of various codes. For Kurokawa, re-creating a semantics of architecture necessarily implies a return to the verbal code, which is antithetical to the sensorial code of architecture, but which is also rich in conceptual links and connections. Kurokawa explained this when he wrote about the design of Nakagin Capsule Tower, Tokyo, 1972, in Metabolism in Architecture, Boulder, CO, USA, Westview Press, 1977: “Words (like capsules) are parts, separate parts. But every word moves man and can trigger new hypotheses and ideas. Thought fragments, expressed in separate words, create new hypotheses and new ideas in a chain reaction, like a neutron hitting a uranium nucleus. No existing system of thought can remain static. The words break up and divide themselves into a thousand sharp shards, which spread like new seeds.”

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In queste pagine, l’atrio con la grande vetrata inclinata senza infissi, per esaltarne la trasparenza. These pages, the lobby showing the sloping glass window with no frames to bring out the transparency.

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In queste pagine, l’atrio con la grande vetrata inclinata senza infissi, per esaltarne la trasparenza. These pages, the lobby showing the sloping glass window with no frames to bring out the transparency.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Il suono della rinascita The Sound of Rebirth Roma, il nuovo Auditorium Rome, the new Auditorium Progetto di Renzo Piano Building Workshop Project by Renzo Piano Building Workshop

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N

ato dopo un parto travagliatissimo e sofferto a causa di vicissitudini burocratiche, culturali ma anche politiche, il nuovo Auditorium di Roma rappresenta un’efficace opportunità per un rinnovo urbano lungamente procrastinato. Roma, come molte altre grandi città italiane, soffre da sempre la sindrome di chi non riesce a liberarsi da un passato importante quanto ingombrante. Istituzioni, politici e amministratori di turno sem-

brano non capire che la città è un organismo complesso e in quanto tale deve potersi rinnovare, per evitare devastanti necrosi. Prima ancora che con materiali edilizi, l’Auditorium è stato plasmato lavorando su uno strato di fondazione denso di feroci polemiche, dibattiti infiniti e quant’altro poteva condizionare, nel bene e nel male, un’opera lungamente attesa dai più e pervicacemente ostacolata da pochi potenti.

Per difendere la propria opera dalla colata di critiche versata sul progetto, Piano ha dovuto arrampicarsi sui vetri, spalmando qua e là spericolate metafore. Per esempio: quando convinse i più scettici, definendo le sale “casse armoniche”. O quando giustificò il rivestimento di piombo delle coperture come una scelta dettata dalla presenza delle tante cupole rinascimentali del paesaggio urbano romano. Come se il nuovo dovesse costantemente mi-

metizzarsi con l’esistente per non imporre la sua identità. Non tutto però è andato liscio e qualche ferito è rimasto sul campo. Piano, infatti, non ha potuto muoversi con la consueta leggerezza e ha concesso qua e là potenti dosi di romanità, disseminando ampie masse murarie e strisciate di travertino poste a tutela di uno storicismo duro a morire. Si è imposto invece come scelta oculata lo schema

La grande cavea, destinata ai concerti all’aperto ma anche a spazio pubblico. The large amphitheatre for holding outdoor concerts and also serving as a public space.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Il suono della rinascita The Sound of Rebirth Roma, il nuovo Auditorium Rome, the new Auditorium Progetto di Renzo Piano Building Workshop Project by Renzo Piano Building Workshop

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ato dopo un parto travagliatissimo e sofferto a causa di vicissitudini burocratiche, culturali ma anche politiche, il nuovo Auditorium di Roma rappresenta un’efficace opportunità per un rinnovo urbano lungamente procrastinato. Roma, come molte altre grandi città italiane, soffre da sempre la sindrome di chi non riesce a liberarsi da un passato importante quanto ingombrante. Istituzioni, politici e amministratori di turno sem-

brano non capire che la città è un organismo complesso e in quanto tale deve potersi rinnovare, per evitare devastanti necrosi. Prima ancora che con materiali edilizi, l’Auditorium è stato plasmato lavorando su uno strato di fondazione denso di feroci polemiche, dibattiti infiniti e quant’altro poteva condizionare, nel bene e nel male, un’opera lungamente attesa dai più e pervicacemente ostacolata da pochi potenti.

Per difendere la propria opera dalla colata di critiche versata sul progetto, Piano ha dovuto arrampicarsi sui vetri, spalmando qua e là spericolate metafore. Per esempio: quando convinse i più scettici, definendo le sale “casse armoniche”. O quando giustificò il rivestimento di piombo delle coperture come una scelta dettata dalla presenza delle tante cupole rinascimentali del paesaggio urbano romano. Come se il nuovo dovesse costantemente mi-

metizzarsi con l’esistente per non imporre la sua identità. Non tutto però è andato liscio e qualche ferito è rimasto sul campo. Piano, infatti, non ha potuto muoversi con la consueta leggerezza e ha concesso qua e là potenti dosi di romanità, disseminando ampie masse murarie e strisciate di travertino poste a tutela di uno storicismo duro a morire. Si è imposto invece come scelta oculata lo schema

La grande cavea, destinata ai concerti all’aperto ma anche a spazio pubblico. The large amphitheatre for holding outdoor concerts and also serving as a public space.

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In basso, sezioni del modello della sala da 2700 posti. Nella pagina a fianco, dall’alto, planimetria generale e pianta delle coperture. Bottom, sections of the model of the 2700-seat hall. Opposite page, from top, site plan and plan of the roofs.

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delle tre sale, realizzate non come parte integrante di un unico edificio ma di singole costruzioni. Ciò ha permesso di ottenere maggiore flessibilità nell’uso, evitando perdite di qualità acustica. Un’acustica supportata da soluzioni tecnologiche d’avanguardia. Le sale hanno una capacità di 2.700, 1.200 e 700 posti e differenti caratteristiche d’uso e funzioni musicali. La sala più piccola è concepita per offrire il massimo di flessibilità attraverso pavimento e soffitto mobili per ottenere varie modulazioni sonore grazie alla diversa configurazione dei rapporti volumetrici. Dalla suddivisione simmetrica dei vari edifici in cui sono allocate le sale è risultato un grande spazio vuoto, una sorta di “quarto” auditorium non previsto ma utile come vuoto in grado di esaltare gli ampi volumi delle sale, già definite fra l’affettuoso e l’ironico, “mouse giganti” di un ideale computer destinato a produrre musica a scala urbana. Il “quarto” auditorium è in realtà un anfiteatro che consente manifestazioni musicali per circa tremila persone. Il tutto immerso nel verde e con la presenza dei ruderi dell’antica villa romana, torna-

ta alla luce proprio attraverso gli scavi realizzati durante il cantiere dell’Auditorium. Definito “fabbrica della musica”, “architettura che suona”, il complesso si pone come polo urbano rivolto verso un’utenza allargata oltre i confini della città. Dunque un elemento di interesse culturale ma anche di ricucitura di un tessuto urbano interrotto da diverse intensità insediative e condizionato dalla cronica mancanza di qualità architettonica. L’Auditorium va dunque letto come un evento emblematico destinato a dare speranza per una rinascita radicale dell’architettura come sistema portante per una migliore qualità della vita. Uno strumento in grado non solo di produrre buona musica ma anche di creare un paesaggio urbano gradevole, fatto di emergenze, di polarità multiple capaci di integrare in soluzioni culturali sviluppo economico ed evoluzione sociale.

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In basso, sezioni del modello della sala da 2700 posti. Nella pagina a fianco, dall’alto, planimetria generale e pianta delle coperture. Bottom, sections of the model of the 2700-seat hall. Opposite page, from top, site plan and plan of the roofs.

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delle tre sale, realizzate non come parte integrante di un unico edificio ma di singole costruzioni. Ciò ha permesso di ottenere maggiore flessibilità nell’uso, evitando perdite di qualità acustica. Un’acustica supportata da soluzioni tecnologiche d’avanguardia. Le sale hanno una capacità di 2.700, 1.200 e 700 posti e differenti caratteristiche d’uso e funzioni musicali. La sala più piccola è concepita per offrire il massimo di flessibilità attraverso pavimento e soffitto mobili per ottenere varie modulazioni sonore grazie alla diversa configurazione dei rapporti volumetrici. Dalla suddivisione simmetrica dei vari edifici in cui sono allocate le sale è risultato un grande spazio vuoto, una sorta di “quarto” auditorium non previsto ma utile come vuoto in grado di esaltare gli ampi volumi delle sale, già definite fra l’affettuoso e l’ironico, “mouse giganti” di un ideale computer destinato a produrre musica a scala urbana. Il “quarto” auditorium è in realtà un anfiteatro che consente manifestazioni musicali per circa tremila persone. Il tutto immerso nel verde e con la presenza dei ruderi dell’antica villa romana, torna-

ta alla luce proprio attraverso gli scavi realizzati durante il cantiere dell’Auditorium. Definito “fabbrica della musica”, “architettura che suona”, il complesso si pone come polo urbano rivolto verso un’utenza allargata oltre i confini della città. Dunque un elemento di interesse culturale ma anche di ricucitura di un tessuto urbano interrotto da diverse intensità insediative e condizionato dalla cronica mancanza di qualità architettonica. L’Auditorium va dunque letto come un evento emblematico destinato a dare speranza per una rinascita radicale dell’architettura come sistema portante per una migliore qualità della vita. Uno strumento in grado non solo di produrre buona musica ma anche di creare un paesaggio urbano gradevole, fatto di emergenze, di polarità multiple capaci di integrare in soluzioni culturali sviluppo economico ed evoluzione sociale.

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Alcune fasi di cantiere, che evidenziano le strutture realizzate in legno lamellare. Stages in the building work highlighting the structures made of laminated wood.

orn after a long and painful labor due to bureaucratic, cultural and even political trials and tribulations, the new Rome Auditorium represents a great opportunity for a long overdue urban renewal. Like so many other Italian cities, Rome suffers from its inability to move beyond its own magnificent, yet cumbersome past. Institutions, politicians and administrators, do not seem to understand that a city is a complex organism and as such must renew itself to avoid devastating necroses. Even more than the building materials themselves, the Auditorium has been shaped by a foundation of ferocious controversy, endless debates and anything else that might affect, for better or worse, a structure long-awaited by most and doggedly opposed by a few powerful individuals. To defend his project from the flood of criticisms surrounding it, Piano had to bend over backwards and sometimes even resort to reckless metaphors to defend his ideas. For example, to convince the most skeptical, he called the halls “sound boxes”, and he justified the lead covering on the roofs as being dictated by all the Renaissance domes of the Rome cityscape — as if new architecture had to constantly camouflage itself to fit in with existing architecture to avoid imposing its identity too strongly. But not everything went as planned, and a few casualties were left on the battlefield. Indeed Piano was not free to act with his usual lightness and had to concede to some heavy Roman architectural characteristics in the form of ample walls and travertine strips, for the sake of an historicism that simply won’t go away. However, Piano adopted a thoughtful and deliberate layout for the three music halls, which he separated into three separate constructions, rather than as an integral part of a single building. The result is a construction that is more flexible in

its use, while maintaining a high level of acoustics, ensured by the cutting edge technological solutions employed. The three halls have seating capacities of 2,700, 1,200 and 700, each with its own musical characteristics in terms of use and function. The smallest hall is designed to offer the most flexibility thanks to its mobile floor and ceiling, allowing the creation of various sound modulations by adapting its volumetric configuration. The symmetrical division of the various buildings housing the three halls creates a large empty space. A sort of “fourth” unplanned auditorium that proves to be very useful as an open space capable of exalting the large dimensions of the halls, already affectionately and jokingly referred to as the “giant mouse” of an ideal computer designed to produce music on an urban scale. The “fourth” auditorium is actually an amphitheatre capable of hosting musical events that attract audiences three thousand strong. The whole is surrounded by green, and incorporates the relics of a Roman villa, discovered during the construction of the Auditorium. Called the “music factory” and “resounding architecture”, the complex is an urban center designed to attract audiences from well beyond the city limits. It is therefore a cultural landmark, but it also stitches back together an urban fabric that has been ripped apart by varying concentrations of housing developments and conditioned by a chronic lack of quality architecture. The Auditorium therefore becomes an emblematic event aimed at giving hope for a radical rebirth of architecture as a basis for a better quality of life. A means not just of producing good music, but also of creating a beautiful cityscape made of striking shapes and multiple polarities capable of integrating both economic development and social evolution in cultural solutions.

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Alcune fasi di cantiere, che evidenziano le strutture realizzate in legno lamellare. Stages in the building work highlighting the structures made of laminated wood.

orn after a long and painful labor due to bureaucratic, cultural and even political trials and tribulations, the new Rome Auditorium represents a great opportunity for a long overdue urban renewal. Like so many other Italian cities, Rome suffers from its inability to move beyond its own magnificent, yet cumbersome past. Institutions, politicians and administrators, do not seem to understand that a city is a complex organism and as such must renew itself to avoid devastating necroses. Even more than the building materials themselves, the Auditorium has been shaped by a foundation of ferocious controversy, endless debates and anything else that might affect, for better or worse, a structure long-awaited by most and doggedly opposed by a few powerful individuals. To defend his project from the flood of criticisms surrounding it, Piano had to bend over backwards and sometimes even resort to reckless metaphors to defend his ideas. For example, to convince the most skeptical, he called the halls “sound boxes”, and he justified the lead covering on the roofs as being dictated by all the Renaissance domes of the Rome cityscape — as if new architecture had to constantly camouflage itself to fit in with existing architecture to avoid imposing its identity too strongly. But not everything went as planned, and a few casualties were left on the battlefield. Indeed Piano was not free to act with his usual lightness and had to concede to some heavy Roman architectural characteristics in the form of ample walls and travertine strips, for the sake of an historicism that simply won’t go away. However, Piano adopted a thoughtful and deliberate layout for the three music halls, which he separated into three separate constructions, rather than as an integral part of a single building. The result is a construction that is more flexible in

its use, while maintaining a high level of acoustics, ensured by the cutting edge technological solutions employed. The three halls have seating capacities of 2,700, 1,200 and 700, each with its own musical characteristics in terms of use and function. The smallest hall is designed to offer the most flexibility thanks to its mobile floor and ceiling, allowing the creation of various sound modulations by adapting its volumetric configuration. The symmetrical division of the various buildings housing the three halls creates a large empty space. A sort of “fourth” unplanned auditorium that proves to be very useful as an open space capable of exalting the large dimensions of the halls, already affectionately and jokingly referred to as the “giant mouse” of an ideal computer designed to produce music on an urban scale. The “fourth” auditorium is actually an amphitheatre capable of hosting musical events that attract audiences three thousand strong. The whole is surrounded by green, and incorporates the relics of a Roman villa, discovered during the construction of the Auditorium. Called the “music factory” and “resounding architecture”, the complex is an urban center designed to attract audiences from well beyond the city limits. It is therefore a cultural landmark, but it also stitches back together an urban fabric that has been ripped apart by varying concentrations of housing developments and conditioned by a chronic lack of quality architecture. The Auditorium therefore becomes an emblematic event aimed at giving hope for a radical rebirth of architecture as a basis for a better quality of life. A means not just of producing good music, but also of creating a beautiful cityscape made of striking shapes and multiple polarities capable of integrating both economic development and social evolution in cultural solutions.

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In queste pagine, dettagli della cavea, delle sale da concerto, e sezione longitudinale della sala da 2700 posti. These pages, details of the amphitheatre, concert halls, and longitudinal section of the 2700-seat hall.

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In queste pagine, dettagli della cavea, delle sale da concerto, e sezione longitudinale della sala da 2700 posti. These pages, details of the amphitheatre, concert halls, and longitudinal section of the 2700-seat hall.

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La sala principale, riservata ai concerti sinfonici; la scena centrale ha una configurazione modulare per adattarsi alle diverse esigenze, sia dell’orchestra sia del coro. In basso, pianta livello platea della sala da 2700 posti. Nella pagina a fianco, la sala principale e, in basso, pianta dei controsoffitti. Nelle pagine seguenti, particolare del rivestimento in lastre di piombo che ricopre la sala principale, concepita per creare un’acustica alla maniera di una grande cassa armonica. The main hall used for holding symphony concerts; the center stage is modular shaped to adapt to the varying needs of the orchestra and choir. Bottom, plan of the audience level of the 2700-seat hall. Opposite page, the main hall and, bottom, plan of the double ceilings. Following pages, detail of the lead-paneled cladding covering the main hall designed to create the kind of acoustics associated with a loud speaker.


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La sala principale, riservata ai concerti sinfonici; la scena centrale ha una configurazione modulare per adattarsi alle diverse esigenze, sia dell’orchestra sia del coro. In basso, pianta livello platea della sala da 2700 posti. Nella pagina a fianco, la sala principale e, in basso, pianta dei controsoffitti. Nelle pagine seguenti, particolare del rivestimento in lastre di piombo che ricopre la sala principale, concepita per creare un’acustica alla maniera di una grande cassa armonica. The main hall used for holding symphony concerts; the center stage is modular shaped to adapt to the varying needs of the orchestra and choir. Bottom, plan of the audience level of the 2700-seat hall. Opposite page, the main hall and, bottom, plan of the double ceilings. Following pages, detail of the lead-paneled cladding covering the main hall designed to create the kind of acoustics associated with a loud speaker.


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MOVIMENTO MOVING

Nel segno di Flatlandia In the Name of Flatland Innsbruck, il Municipio Innsbruck, the Town Hall Progetto di Dominique Perrault Project by Dominique Perrault

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Particolari del passaggio coperto che collega municipio, hotel e spazi commerciali realizzati nel centro storico. Details of the covered passage way connecting the town hall, hotel and retail spaces in the old city center.

uperficie come segno, volume come senso. L’architettura di Perrault deve molto a Mies van der Rohe ma è anche vero il contrario. Il Municipio di Innsbruck può infatti essere letto come un percorso evolutivo della ricerca miesiana. Di Mies permane il rigore compositivo, cui Perrault ha aggiunto l’ironica trasgressione delle sottili allusioni, dell’ambiguità semantica: le facciate sono state pensate come paesaggi geometrici, illusioni ottiche dove il disegno delle chiusure dissimula il sistema strutturale. L’assenza di visibilità di un elemento fondamentale della sintassi costruttiva diviene una presenza-assenza su cui riflettere. La presenza spiazzante di segni contraddittori, poiché non contemplati dall’ortodossia disciplinare, predispone a nuovi percorsi percettivi. Il Municipio di Innsbruck si relaziona al suo intorno attraverso superfici destrutturate, quasi a negarne la natura architettonica e giocando sull’illusione di un trompe-l’oeil tecnologico in grado di aggregare attraverso riflessi, trasparenze e giochi di luce i diversi volumi. L’innovazione attraverso l’uso di materiali inconsueti trova nella configurazione delle facciate la

sua più forte valenza di comunicazione grazie all’impiego di schermi solari. Si tratta di pannelli in maglia metallica montati su telai posti a distanza variabile dalla superficie da proteggere. Oltre a fungere da schermo protettivo, la maglia metallica crea inediti effetti di brillantamento secondo l’angolo d’inclinazione dei raggi solari. Nelle ore notturne filtra invece la luce proveniente dall’interno, producendo fantasmagoriche specchiature moiré. Inevitabile in questo caso non vedere in questi materiali nuove tipologie di tendaggi da porre non più all’interno ma all’esterno dell’edificio, con la doppia funzione di protezione degli ambienti e di pelle tecnologica. L’edificio amministrativo fa parte di un complesso formato da un centro commerciale e da un albergo con funzione di struttura di ridefinizione di un lato di una piazza del centro storico. L’inserimento del nuovo complesso nel contesto storicizzato della cittadina austriaca gioca quindi un ruolo primario. La forte connotazione contemporanea dell’intervento anziché stridere con un intorno omogeneo ne accentua il carattere urbano. La città è il luogo della stratificazione dove l’architettura, grazie alle diverse epoche, dà il senso dello scorrere del tempo. L’interconnessione fra i diversi edifici è assicurata da un percorso pedonale coperto che mette in comunicazione diverse funzioni pubbliche, potenziando la vitalità del luogo urbano caratterizzato dalla molteplicità delle attività e dalla moltiplicazione delle occasioni di incontro. Anche in questa recente realizzazione, Perrault ha puntato sulla leggerezza, sull’assenza di gravità ma con il forte segnale evocativo di un’architettura che non c’è, sul privilegiare i vuoti piuttosto che i pieni, configurando un’architettura destinata a incorniciare lo spazio piuttosto che occuparlo. L’assunto miesiano “less is more” pare dunque orientarsi su nuovi percorsi, verso l’evoluzione di un linguaggio che, sottraendo materia e volume, esalta le potenzialità emozionali della superficie quale metafora di un infinito irraggiungibile ma che val la pena evocare quale simbolo di libertà creativa, di adesione a quell’universo fantastico prefigurato da Edwin A. Abbott nel suo Flatland: “Eppure continuo a esistere nella speranza che queste mie memorie giungano alla mente dell’umanità e facciano nascere una razza di ribelli che rifiuti di essere confinata in una dimensionalità limitata”.

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MOVIMENTO MOVING

Nel segno di Flatlandia In the Name of Flatland Innsbruck, il Municipio Innsbruck, the Town Hall Progetto di Dominique Perrault Project by Dominique Perrault

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Particolari del passaggio coperto che collega municipio, hotel e spazi commerciali realizzati nel centro storico. Details of the covered passage way connecting the town hall, hotel and retail spaces in the old city center.

uperficie come segno, volume come senso. L’architettura di Perrault deve molto a Mies van der Rohe ma è anche vero il contrario. Il Municipio di Innsbruck può infatti essere letto come un percorso evolutivo della ricerca miesiana. Di Mies permane il rigore compositivo, cui Perrault ha aggiunto l’ironica trasgressione delle sottili allusioni, dell’ambiguità semantica: le facciate sono state pensate come paesaggi geometrici, illusioni ottiche dove il disegno delle chiusure dissimula il sistema strutturale. L’assenza di visibilità di un elemento fondamentale della sintassi costruttiva diviene una presenza-assenza su cui riflettere. La presenza spiazzante di segni contraddittori, poiché non contemplati dall’ortodossia disciplinare, predispone a nuovi percorsi percettivi. Il Municipio di Innsbruck si relaziona al suo intorno attraverso superfici destrutturate, quasi a negarne la natura architettonica e giocando sull’illusione di un trompe-l’oeil tecnologico in grado di aggregare attraverso riflessi, trasparenze e giochi di luce i diversi volumi. L’innovazione attraverso l’uso di materiali inconsueti trova nella configurazione delle facciate la

sua più forte valenza di comunicazione grazie all’impiego di schermi solari. Si tratta di pannelli in maglia metallica montati su telai posti a distanza variabile dalla superficie da proteggere. Oltre a fungere da schermo protettivo, la maglia metallica crea inediti effetti di brillantamento secondo l’angolo d’inclinazione dei raggi solari. Nelle ore notturne filtra invece la luce proveniente dall’interno, producendo fantasmagoriche specchiature moiré. Inevitabile in questo caso non vedere in questi materiali nuove tipologie di tendaggi da porre non più all’interno ma all’esterno dell’edificio, con la doppia funzione di protezione degli ambienti e di pelle tecnologica. L’edificio amministrativo fa parte di un complesso formato da un centro commerciale e da un albergo con funzione di struttura di ridefinizione di un lato di una piazza del centro storico. L’inserimento del nuovo complesso nel contesto storicizzato della cittadina austriaca gioca quindi un ruolo primario. La forte connotazione contemporanea dell’intervento anziché stridere con un intorno omogeneo ne accentua il carattere urbano. La città è il luogo della stratificazione dove l’architettura, grazie alle diverse epoche, dà il senso dello scorrere del tempo. L’interconnessione fra i diversi edifici è assicurata da un percorso pedonale coperto che mette in comunicazione diverse funzioni pubbliche, potenziando la vitalità del luogo urbano caratterizzato dalla molteplicità delle attività e dalla moltiplicazione delle occasioni di incontro. Anche in questa recente realizzazione, Perrault ha puntato sulla leggerezza, sull’assenza di gravità ma con il forte segnale evocativo di un’architettura che non c’è, sul privilegiare i vuoti piuttosto che i pieni, configurando un’architettura destinata a incorniciare lo spazio piuttosto che occuparlo. L’assunto miesiano “less is more” pare dunque orientarsi su nuovi percorsi, verso l’evoluzione di un linguaggio che, sottraendo materia e volume, esalta le potenzialità emozionali della superficie quale metafora di un infinito irraggiungibile ma che val la pena evocare quale simbolo di libertà creativa, di adesione a quell’universo fantastico prefigurato da Edwin A. Abbott nel suo Flatland: “Eppure continuo a esistere nella speranza che queste mie memorie giungano alla mente dell’umanità e facciano nascere una razza di ribelli che rifiuti di essere confinata in una dimensionalità limitata”.

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urface as symbol, volume as sense, Perrault’s architecture owes a lot to Mies van der Rohe, but the contrary is also true. The Innsbruck Town Hall can in fact be seen as an evolution in Miesian experimentation. Mies’s stylistic precision is still apparent, to which Perrault has added a touch of ironic transgression with its subtle allusions and semantic ambiguity: the façades are designed like geometric landscapes, optical illusions in which the design of the locks dissimulates the structural system. The visual absence of such a fundamental element in the building syntax turns into a presence-absence that begs reflection. The disconcerting presence of contradictory symbols (because they are ignored by orthodox architecture) paves the way for a new perceptual approach. Innsbruck Town Hall relates to its surroundings through de-structured surfaces, which almost deny their own architectural nature, and play on the illusion of a technological trompe l’oeil that unites the various volumes through reflections, transparency and light. The most striking innovation in the use of uncommon materials is found in the façade design and its sunscreens. These sunscreens are panels of metal mesh fitted on frames placed at variable distance from the surfaces they protect. Beyond serving as a protective screen, the metal mesh creates unique glittering effects depending on the angle of the sun’s rays. And at night, they filter the light, which create myriad phantasmagorical shimmering reflections. In these new materials it is impossible not to see a new style of curtain to be placed not inside, but outside the building, fulfilling a double function by protecting the internal environment and serving as a technological skin. The administration building is part of a complex comprised of a shopping mall and hotel. This complex redefines one side of a square in the old city center. The insertion of the new complex in the historical context of the Austrian city therefore plays a primary role. Rather than clashing with its surroundings, the distinctly contemporary nature of the project emphasizes its urban characteristics. The city is a place in which the stratification of architecture from different periods illustrates the passing of time. The different buildings are interconnected by a covered pedestrian passageway that links the various public functions, revitalizing the urban setting which is characterized by the multiplicity of activities and the multiplication of reasons to meet. In this recent creation, Perrault once again focuses on lightness, absence of gravity and a powerful allusion to non-existent architecture, favoring empty spaces rather than solid matter, creating an architecture that is designed to frame rather than fill space. Mies’s famous saying that “less is more” seems to take a new turn towards the development of a an idiom which, by removing matter and volume, exalts the emotional potential of surface as a metaphor for unattainable infinity, but that is worth evoking as a symbol of creative freedom and of belonging to that imaginary world prefigured by Edwin A. Abbott in his book Flatland: “And yet I continue to exist in the hope that these memories of mine may reach the human mind and give birth to a race of rebels unwilling to let themselves be confined to a limited dimensionality.”

Le facciate dell’hotel, che definisce un lato della piazza rapportandosi con gli edifici esistenti.

The hotel facades marking one side of the square and interacting with the old buildings


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urface as symbol, volume as sense, Perrault’s architecture owes a lot to Mies van der Rohe, but the contrary is also true. The Innsbruck Town Hall can in fact be seen as an evolution in Miesian experimentation. Mies’s stylistic precision is still apparent, to which Perrault has added a touch of ironic transgression with its subtle allusions and semantic ambiguity: the façades are designed like geometric landscapes, optical illusions in which the design of the locks dissimulates the structural system. The visual absence of such a fundamental element in the building syntax turns into a presence-absence that begs reflection. The disconcerting presence of contradictory symbols (because they are ignored by orthodox architecture) paves the way for a new perceptual approach. Innsbruck Town Hall relates to its surroundings through de-structured surfaces, which almost deny their own architectural nature, and play on the illusion of a technological trompe l’oeil that unites the various volumes through reflections, transparency and light. The most striking innovation in the use of uncommon materials is found in the façade design and its sunscreens. These sunscreens are panels of metal mesh fitted on frames placed at variable distance from the surfaces they protect. Beyond serving as a protective screen, the metal mesh creates unique glittering effects depending on the angle of the sun’s rays. And at night, they filter the light, which create myriad phantasmagorical shimmering reflections. In these new materials it is impossible not to see a new style of curtain to be placed not inside, but outside the building, fulfilling a double function by protecting the internal environment and serving as a technological skin. The administration building is part of a complex comprised of a shopping mall and hotel. This complex redefines one side of a square in the old city center. The insertion of the new complex in the historical context of the Austrian city therefore plays a primary role. Rather than clashing with its surroundings, the distinctly contemporary nature of the project emphasizes its urban characteristics. The city is a place in which the stratification of architecture from different periods illustrates the passing of time. The different buildings are interconnected by a covered pedestrian passageway that links the various public functions, revitalizing the urban setting which is characterized by the multiplicity of activities and the multiplication of reasons to meet. In this recent creation, Perrault once again focuses on lightness, absence of gravity and a powerful allusion to non-existent architecture, favoring empty spaces rather than solid matter, creating an architecture that is designed to frame rather than fill space. Mies’s famous saying that “less is more” seems to take a new turn towards the development of a an idiom which, by removing matter and volume, exalts the emotional potential of surface as a metaphor for unattainable infinity, but that is worth evoking as a symbol of creative freedom and of belonging to that imaginary world prefigured by Edwin A. Abbott in his book Flatland: “And yet I continue to exist in the hope that these memories of mine may reach the human mind and give birth to a race of rebels unwilling to let themselves be confined to a limited dimensionality.”

Le facciate dell’hotel, che definisce un lato della piazza rapportandosi con gli edifici esistenti.

The hotel facades marking one side of the square and interacting with the old buildings


Qui a fianco, dal basso, pianta del piano terra, pianta del primo piano e planimetria generale. Opposite, from bottom, plan of the ground floor, plan of the first floor and site plan.

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Qui a fianco, dal basso, pianta del piano terra, pianta del primo piano e planimetria generale. Opposite, from bottom, plan of the ground floor, plan of the first floor and site plan.

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Alcuni particolari delle facciate con pannelli di maglia metallica. Nella pagina a fianco, dettaglio del sistema dei collegamenti verticali. Details of the facades with metal mesh panels. Opposite page, detail of the system of vertical links.

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Alcuni particolari delle facciate con pannelli di maglia metallica. Nella pagina a fianco, dettaglio del sistema dei collegamenti verticali. Details of the facades with metal mesh panels. Opposite page, detail of the system of vertical links.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Abbattere il luogo comune Getting Rid of Clichés Bad Oeynhausen, Azienda Energia Elettrica del Minden-Ravensberg Bad Oeynhausen, Minden-Ravensberg Electricity Board Progetto di Frank O. Gehry Associates Project by Frank O. Gehry Associates

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Da sinistra, pianta del secondo piano, pianta del primo piano e pianta del piano terra. Nella pagina a fianco, particolare della sala espositiva. From left, plan of the second floor, plan of the first floor and plan of the ground floor. Opposite page, detail of the exhibition room.

ai tempi della sua casa californiana, le architetture di Gehry sono un duro colpo ai luoghi comuni. Normalmente si tende dare a un edificio un aspetto che comunichi con evidenza la sua natura istituzionale. L’energia elettrica è un prodotto legato alla tecnologia, quindi la sede di un’azienda del settore dovrebbe indossare una maschera coerente che ne trasmetta immediatamente l’identità. In realtà, quando questa visione si cristallizza in una metodologia chiusa, ciò limita la creatività del progettista. La normalizzazione è quasi sempre nemica dell’invenzione che, invece, molto spesso nasce dall’incidente di percorso, dalla trasgressione. Con il suo aspetto di villaggio nordico miniaturizzato, la nuova sede dell’Azienda Energia Elettrica del Minden-Ravensberg ha l’aspetto di un set adatto a rappresentare storie fantastiche, magari con un sottofondo di musica celtica. Straniamento versus coinvolgimento. Lo straniamento è un meccanismo mediato dalla recitazione teatrale ma sovrapponibile anche al progetto per realizzare un’architettura libera da sovrastrutture e manierismi. Come nella recitazione brechtiana l’attore non si fa coinvolgere emotivamente dal personaggio per mantenere alto il suo livello critico, allo stesso modo l’architettura non dovrebbe indossare con troppa convinzione un “costume di scena” banalizzato in cliché triti e ritriti. Spesso l’architettura di Gehry è associata alla scultura per darle un’etichetta di comodo e giustificarne la complessità formale. In realtà la nozione di scultura non è esaustiva poiché qualsiasi definizione giocata sulla similarità è disorientante quanto incompleta. Gehry, infatti, non scolpisce poiché tale

procedura presuppone il togliere o l’aggiungere materiale a un corpo compatto, oppure l’ottenere lo stesso effetto attraverso tecniche più sofisticate come, per esempio, la fusione. L’architettura è invece un’aggregazione di ambienti concepiti per essere vissuti come esperienza spazio-temporale. Gehry però ha aggiunto qualcosa in più, riaprendo l’annosa questione del rapporto fra arte e architettura. E l’ha fatto con determinazione, spazzando via alcuni presupposti ritenuti inamovibili attraverso una diversa interpretazione dei rapporti di scala e la capacità di alcuni materiali a collaborare con l’insieme architettonico come apparati mobili, rendendoli sensibili all’ambiente naturale ma anche all’immaginazione. Un esempio per tutti: il rivestimento in lastre di titanio che, grazie alla flessibilità ottenuta attraverso minimi spessori, si deforma sotto la spinta del vento, dando alle superfici riflessi sempre diversi. Un rapporto di scala assolutamente fuori dagli schemi lo ritroviamo in quest’opera realizzata a Bad Oeynhausen. L’edificio non è un volume compatto ma la risultante di un’esplosione che l’ha trasformato in tante unità, in tanti frammenti di un ipotetico villaggio disseminato su un’area geometricamente limitata ma in grado di suscitare visioni ad alto tasso emotivo. Tutte le realizzazioni di Gehry sono architetture-evento, che forse negli anni invecchieranno prima di altre ma che vivono con grande intensità il presente. Si sedimenteranno invece con grande evidenza nell’immaginario collettivo come frammenti impazziti di una stagione in cui l’architettura perse l’innocenza eludendo i codici della nostalgia.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Abbattere il luogo comune Getting Rid of Clichés Bad Oeynhausen, Azienda Energia Elettrica del Minden-Ravensberg Bad Oeynhausen, Minden-Ravensberg Electricity Board Progetto di Frank O. Gehry Associates Project by Frank O. Gehry Associates

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Da sinistra, pianta del secondo piano, pianta del primo piano e pianta del piano terra. Nella pagina a fianco, particolare della sala espositiva. From left, plan of the second floor, plan of the first floor and plan of the ground floor. Opposite page, detail of the exhibition room.

ai tempi della sua casa californiana, le architetture di Gehry sono un duro colpo ai luoghi comuni. Normalmente si tende dare a un edificio un aspetto che comunichi con evidenza la sua natura istituzionale. L’energia elettrica è un prodotto legato alla tecnologia, quindi la sede di un’azienda del settore dovrebbe indossare una maschera coerente che ne trasmetta immediatamente l’identità. In realtà, quando questa visione si cristallizza in una metodologia chiusa, ciò limita la creatività del progettista. La normalizzazione è quasi sempre nemica dell’invenzione che, invece, molto spesso nasce dall’incidente di percorso, dalla trasgressione. Con il suo aspetto di villaggio nordico miniaturizzato, la nuova sede dell’Azienda Energia Elettrica del Minden-Ravensberg ha l’aspetto di un set adatto a rappresentare storie fantastiche, magari con un sottofondo di musica celtica. Straniamento versus coinvolgimento. Lo straniamento è un meccanismo mediato dalla recitazione teatrale ma sovrapponibile anche al progetto per realizzare un’architettura libera da sovrastrutture e manierismi. Come nella recitazione brechtiana l’attore non si fa coinvolgere emotivamente dal personaggio per mantenere alto il suo livello critico, allo stesso modo l’architettura non dovrebbe indossare con troppa convinzione un “costume di scena” banalizzato in cliché triti e ritriti. Spesso l’architettura di Gehry è associata alla scultura per darle un’etichetta di comodo e giustificarne la complessità formale. In realtà la nozione di scultura non è esaustiva poiché qualsiasi definizione giocata sulla similarità è disorientante quanto incompleta. Gehry, infatti, non scolpisce poiché tale

procedura presuppone il togliere o l’aggiungere materiale a un corpo compatto, oppure l’ottenere lo stesso effetto attraverso tecniche più sofisticate come, per esempio, la fusione. L’architettura è invece un’aggregazione di ambienti concepiti per essere vissuti come esperienza spazio-temporale. Gehry però ha aggiunto qualcosa in più, riaprendo l’annosa questione del rapporto fra arte e architettura. E l’ha fatto con determinazione, spazzando via alcuni presupposti ritenuti inamovibili attraverso una diversa interpretazione dei rapporti di scala e la capacità di alcuni materiali a collaborare con l’insieme architettonico come apparati mobili, rendendoli sensibili all’ambiente naturale ma anche all’immaginazione. Un esempio per tutti: il rivestimento in lastre di titanio che, grazie alla flessibilità ottenuta attraverso minimi spessori, si deforma sotto la spinta del vento, dando alle superfici riflessi sempre diversi. Un rapporto di scala assolutamente fuori dagli schemi lo ritroviamo in quest’opera realizzata a Bad Oeynhausen. L’edificio non è un volume compatto ma la risultante di un’esplosione che l’ha trasformato in tante unità, in tanti frammenti di un ipotetico villaggio disseminato su un’area geometricamente limitata ma in grado di suscitare visioni ad alto tasso emotivo. Tutte le realizzazioni di Gehry sono architetture-evento, che forse negli anni invecchieranno prima di altre ma che vivono con grande intensità il presente. Si sedimenteranno invece con grande evidenza nell’immaginario collettivo come frammenti impazziti di una stagione in cui l’architettura perse l’innocenza eludendo i codici della nostalgia.

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ver since his California house, Gehry’s architecture has always dealt a harsh blow to clichés. The tradition is to give buildings an appearance that clearly expresses their function. Electricity is a product of technology, so the seat of a company in this sector ought to wear a mask that consistently expresses its identity. However, when this vision crystallizes itself in a closed methodology, it limits the designer’s creativity. Standardization is almost always the enemy of invention, which itself is often the result of unexpected circumstances, and born of transgression. Reminiscent of a sort of miniature Nordic village, the new headquarters for the Minden-Ravensberg Electricity Board looks like a theatre set designed for a fairy tale, and set to Celtic music. Estrangement versus involvement. Estrangement is a device taken from the theatre world, which can also be applied to structural design to create architecture that is free from superstructures and mannerisms. In Brechtian theatre, for example, the actor must resist becoming emotionally involved with his character in order to maintain his critical judgment. In much the same way, architecture must avoid dressing up in the trite and commonplace “stage costumes” of overused and abused clichés. Gehry’s architecture is often compared with sculpture to give it a convenient label and to account for its stylistic complexity. The notion of sculpture, however, is not exhaustive since any definition based on similarity is inevitably disorienting and incomplete. In actual fact, Gehry does not sculpt because this process assumes the removal or the

addition of material into a compact body, or achieving the same end result using more sophisticated techniques like fusion, for instance. In contrast to sculpture, architecture is the bringing together of spaces designed to express a spatialtemporal experience. But Gehry throws in an additional element by re-opening the age-old question of the relation between art and architecture. And he does so with great determination: by sweeping aside certain formerly immutable assumptions. He offers a different interpretation of the relationship between scales and the way in which certain materials work with the architectural complex as a whole, like mobile devices that become sensitive to both the natural environment and the imagination. A clear example for everyone to see is the titanium strip surfacing used, which is so thin it becomes flexible and moves with the wind, making the facade glimmer with everchanging light. The totally unorthodox use of different scales can be found in the building in Bad Oeynhausen. The building is not a compact structure, but the result of an explosion that transformed it into the many units and fragments of a hypothetical village spread over a geographically limited area but conjuring up visions with a highly charged emotional content. All of Gehry’s works are architectural events, which may age more quickly than other structures, but which reflect the present with great intensity. They will sediment in our collective imagination as the fragments of a period gone mad, in which architecture lost its innocence without falling into nostalgia.

Planimetria generale. Qui a fianco, immagine complessiva e, in basso, la fronte sud, con gli uffici del centro di calcolo e la centrale termica. Site plan. Opposite, overall image and, bottom, south front showing the offices of the computer center and heat supply unit.

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ver since his California house, Gehry’s architecture has always dealt a harsh blow to clichés. The tradition is to give buildings an appearance that clearly expresses their function. Electricity is a product of technology, so the seat of a company in this sector ought to wear a mask that consistently expresses its identity. However, when this vision crystallizes itself in a closed methodology, it limits the designer’s creativity. Standardization is almost always the enemy of invention, which itself is often the result of unexpected circumstances, and born of transgression. Reminiscent of a sort of miniature Nordic village, the new headquarters for the Minden-Ravensberg Electricity Board looks like a theatre set designed for a fairy tale, and set to Celtic music. Estrangement versus involvement. Estrangement is a device taken from the theatre world, which can also be applied to structural design to create architecture that is free from superstructures and mannerisms. In Brechtian theatre, for example, the actor must resist becoming emotionally involved with his character in order to maintain his critical judgment. In much the same way, architecture must avoid dressing up in the trite and commonplace “stage costumes” of overused and abused clichés. Gehry’s architecture is often compared with sculpture to give it a convenient label and to account for its stylistic complexity. The notion of sculpture, however, is not exhaustive since any definition based on similarity is inevitably disorienting and incomplete. In actual fact, Gehry does not sculpt because this process assumes the removal or the

addition of material into a compact body, or achieving the same end result using more sophisticated techniques like fusion, for instance. In contrast to sculpture, architecture is the bringing together of spaces designed to express a spatialtemporal experience. But Gehry throws in an additional element by re-opening the age-old question of the relation between art and architecture. And he does so with great determination: by sweeping aside certain formerly immutable assumptions. He offers a different interpretation of the relationship between scales and the way in which certain materials work with the architectural complex as a whole, like mobile devices that become sensitive to both the natural environment and the imagination. A clear example for everyone to see is the titanium strip surfacing used, which is so thin it becomes flexible and moves with the wind, making the facade glimmer with everchanging light. The totally unorthodox use of different scales can be found in the building in Bad Oeynhausen. The building is not a compact structure, but the result of an explosion that transformed it into the many units and fragments of a hypothetical village spread over a geographically limited area but conjuring up visions with a highly charged emotional content. All of Gehry’s works are architectural events, which may age more quickly than other structures, but which reflect the present with great intensity. They will sediment in our collective imagination as the fragments of a period gone mad, in which architecture lost its innocence without falling into nostalgia.

Planimetria generale. Qui a fianco, immagine complessiva e, in basso, la fronte sud, con gli uffici del centro di calcolo e la centrale termica. Site plan. Opposite, overall image and, bottom, south front showing the offices of the computer center and heat supply unit.

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Particolare di una delle pareti vetrate inclinate, montate sull’auditorium, la centrale termica e le fronti sud e sud-ovest. In basso, particolare della parte alta dell’ingresso. La varietà formale è funzionale all’individuazione delle diverse destinazioni degli edifici e suggerisce inoltre possibili soluzioni tecnologiche per il risparmio energetico. Nella pagina a fianco, il percorso all’interno dell’area del complesso.

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Detail of one of the sloping glass walls in the auditorium, the heat supply unit and south and south-west fronts. Bottom, detail of the top part of the entrance. The stylistic variety serves to mark the various building uses and suggests possible technological means of energy saving. Opposite page, path through the complex.

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Particolare di una delle pareti vetrate inclinate, montate sull’auditorium, la centrale termica e le fronti sud e sud-ovest. In basso, particolare della parte alta dell’ingresso. La varietà formale è funzionale all’individuazione delle diverse destinazioni degli edifici e suggerisce inoltre possibili soluzioni tecnologiche per il risparmio energetico. Nella pagina a fianco, il percorso all’interno dell’area del complesso.

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Detail of one of the sloping glass walls in the auditorium, the heat supply unit and south and south-west fronts. Bottom, detail of the top part of the entrance. The stylistic variety serves to mark the various building uses and suggests possible technological means of energy saving. Opposite page, path through the complex.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Modernità dell’effimero The Modernity of Transience Rimini, il complesso della nuova Fiera Rimini, New Trade Fair Complex Progetto di von Gerkan, Marg & Partners Project by von Gerkan, Marg & Partners

P

resenze territoriali sempre più significative, i complessi fieristici configurano una realtà in profonda mutazione, ciò fa parte di una dinamica evolutiva orientata a invertire un processo iniziato con la rivoluzione industriale. Oggi alla concentrazione va sostituendosi la disseminazione, con la conseguente perdita di un ordine generale e di una non più chiara geografia delle gerarchie territoriali. Allontanati dai centri urbani per alleggerirne il traffico, i complessi fieristici si confrontano con aree periferiche senza una precisa identità. La periferia si espande in forma di agglomerati lineari spalmati fra una città e l’altra. I poli fieristici sono un’occasione per ridare ordine al magma ponendosi come vere e proprie porte metropolitane. Facile intuire come la loro configurazione architettonica sia un segnale anticipatore della qualità della città. Gli expo stessi rispecchiano nella loro conformazione planimetrica

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Planimetria generale e, nella pagina a fianco, l’ingresso principale. Site plan and, opposite page, main entrance.

un frammento di città, in cui va in scena lo scambio e la comunicazione. Puntando sulla simmetria e su una non troppo velata monumentalità, il complesso fieristico di Rimini ripropone uno schema collaudato e in sintonia con lo spirito di una città costantemente illuminata a giorno dalla presenza di un’icona rinascimentale come il Tempio Malatestiano di Leonbattista Alberti. La grande cupola, con un’altezza di ventiquattro metri e un diametro di cinquanta, oltre a segnare il centro geometrico, rappresenta il pezzo forte dell’intervento. Obelischi tecnologici e giochi d’acqua ricreano fastosità e atmosfere classicheggianti. Si è cercato di creare un luogo suggestivo e colto, dove il mito incontra la concretezza dello scambio commerciale trasformandolo in occasione culturale. Operazione non di poco conto, irta di difficoltà, cui si è ovviato giocando su un materiale nobile e duttile come il legno. La sua prorompente naturalità traspare sempre, e con rinnovato vigore, anche come materia naturale trasformata in prodotto industriale. Il sistema di copertura a graticcio è stato realizzato in legno lamellare. In corso d’opera si è deciso di non accostare completamente le assi, ottenendo in tal modo un gradevole effetto di leggerezza e semitrasparenza. Con le sue grandi coperture voltate, distribuite su un lungo percorso, il complesso ha il fascino di una microcittà ricca di scorci, di infilate prospettiche. Il luogo è gradevolmente spiazzante, poiché caratterizzato da un accostamento atipico: un materiale “povero” come il legno lamellare unito a forme classicheggianti, auliche. L’eternità della pietra e del marmo è rimpiazzata dalla temporalità del legno, che segna lo scorrere del tempo attraverso la mutazione lenta ma inesorabile provocata dall’invecchiamento delle fibre. Ciò è in sintonia con la destinazione funzionale dei complessi fieristici, contenitori di allestimenti in continuo divenire. La mutazione è permanente, riscontrabile anche nell’ambiente urbano contemporaneo, dove la scena metropolitana è continuamente riallestita attraverso il rumore dei messaggi della comunicazione commerciale. Ciò fa parte di una nuova modernità, definita debole e disseminata, che va sostituendosi a quella forte e concentrata del secolo scorso. Metafora di una nuova modernità che ha nel mondo della produzione un referente in continua evoluzione, lo spazio fieristico continua a essere uno degli ambiti progettuali di sperimentazione e riscontro dei nuovi linguaggi del costruire.

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L’UOMO E IL FUTURO MAN AND THE FUTURE

Modernità dell’effimero The Modernity of Transience Rimini, il complesso della nuova Fiera Rimini, New Trade Fair Complex Progetto di von Gerkan, Marg & Partners Project by von Gerkan, Marg & Partners

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resenze territoriali sempre più significative, i complessi fieristici configurano una realtà in profonda mutazione, ciò fa parte di una dinamica evolutiva orientata a invertire un processo iniziato con la rivoluzione industriale. Oggi alla concentrazione va sostituendosi la disseminazione, con la conseguente perdita di un ordine generale e di una non più chiara geografia delle gerarchie territoriali. Allontanati dai centri urbani per alleggerirne il traffico, i complessi fieristici si confrontano con aree periferiche senza una precisa identità. La periferia si espande in forma di agglomerati lineari spalmati fra una città e l’altra. I poli fieristici sono un’occasione per ridare ordine al magma ponendosi come vere e proprie porte metropolitane. Facile intuire come la loro configurazione architettonica sia un segnale anticipatore della qualità della città. Gli expo stessi rispecchiano nella loro conformazione planimetrica

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Planimetria generale e, nella pagina a fianco, l’ingresso principale. Site plan and, opposite page, main entrance.

un frammento di città, in cui va in scena lo scambio e la comunicazione. Puntando sulla simmetria e su una non troppo velata monumentalità, il complesso fieristico di Rimini ripropone uno schema collaudato e in sintonia con lo spirito di una città costantemente illuminata a giorno dalla presenza di un’icona rinascimentale come il Tempio Malatestiano di Leonbattista Alberti. La grande cupola, con un’altezza di ventiquattro metri e un diametro di cinquanta, oltre a segnare il centro geometrico, rappresenta il pezzo forte dell’intervento. Obelischi tecnologici e giochi d’acqua ricreano fastosità e atmosfere classicheggianti. Si è cercato di creare un luogo suggestivo e colto, dove il mito incontra la concretezza dello scambio commerciale trasformandolo in occasione culturale. Operazione non di poco conto, irta di difficoltà, cui si è ovviato giocando su un materiale nobile e duttile come il legno. La sua prorompente naturalità traspare sempre, e con rinnovato vigore, anche come materia naturale trasformata in prodotto industriale. Il sistema di copertura a graticcio è stato realizzato in legno lamellare. In corso d’opera si è deciso di non accostare completamente le assi, ottenendo in tal modo un gradevole effetto di leggerezza e semitrasparenza. Con le sue grandi coperture voltate, distribuite su un lungo percorso, il complesso ha il fascino di una microcittà ricca di scorci, di infilate prospettiche. Il luogo è gradevolmente spiazzante, poiché caratterizzato da un accostamento atipico: un materiale “povero” come il legno lamellare unito a forme classicheggianti, auliche. L’eternità della pietra e del marmo è rimpiazzata dalla temporalità del legno, che segna lo scorrere del tempo attraverso la mutazione lenta ma inesorabile provocata dall’invecchiamento delle fibre. Ciò è in sintonia con la destinazione funzionale dei complessi fieristici, contenitori di allestimenti in continuo divenire. La mutazione è permanente, riscontrabile anche nell’ambiente urbano contemporaneo, dove la scena metropolitana è continuamente riallestita attraverso il rumore dei messaggi della comunicazione commerciale. Ciò fa parte di una nuova modernità, definita debole e disseminata, che va sostituendosi a quella forte e concentrata del secolo scorso. Metafora di una nuova modernità che ha nel mondo della produzione un referente in continua evoluzione, lo spazio fieristico continua a essere uno degli ambiti progettuali di sperimentazione e riscontro dei nuovi linguaggi del costruire.

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In queste pagine, la Rotonda, luogo centrale d’aggregazione e smistamento dei flussi pedonali. These pages, the Rotunda, the central congregation and pedestrian flow area.

he increasing number of trade fair centers throughout the country is an indication of a profound change that is underway. These complexes are part of a dynamic evolution directed at reversing a process that began with the industrial revolution. Today, concentration is giving way to dispersal, resulting in a loss of general order and the blurring of the geography of territorial hierarchies. Having been moved out of city centers to ease traffic, trade fair centers are confronted with suburban neighborhoods that lack any real identity. The suburbs expand in a linear hodgepodge of buildings spreading between cities. Trade fair complexes provide the opportunity to set all this magma in order, acting as real gateways to the city. It is easy to imagine how their architectural layout could provide a foretaste of the city’s appeal. Through their very layout, the exhibitions themselves become a fragment of the city with exchange and communication taking center stage. Playing on symmetry and on a barely concealed monumentalism, the Rimini Trade Fair complex follows a proven layout that is in harmony with the spirit of a city forever illuminated by the presence of a Renaissance landmark like the Tempio Malatestiano designed by Leonbattista Alberti. Beyond marking its geometric center, the 24-meter high and 50-meter wide dome is the structure’s most distinctive feature. Technological obelisks and water games recreate an exuberant classical-style atmosphere. The goal was to create a suggestive and refined place to host the encounter between mythology and the concreteness of commerce, to transform it into a cultural event.

It was no mean feat, bristling with complications which were solved by playing on a noble and ductile material like wood. The natural vibrancy of wood always shines through with renewed vigor, even as a natural material turned into an industrial product. The wattle roofing is made out of lamellar wood. During construction it was decided not to juxtapose the planks directly next to each other in order to create a light and semi-transparent effect. With its large vaulted roofs, spread over a long pathway, the complex has the intriguing charm of a micro-city, rich in unexpected views and beautiful perspectives. The unusual association of a “poor” material like lamellar wood and lofty, classical-style shapes makes the complex pleasantly disconcerting. The eternal nature of stone and marble has been replaced by the temporality of wood, which marks the passage of time through the slow but relentless change of its ageing fibers. This is in harmony with the function of a trade fair complex, which is in fact a container for installations that are in a constant state of evolution. A permanent state of change also found in the contemporary urban environment in which the metropolitan scene is being constantly re-fitted by the noise of commercial advertising. It is all part of a new modernity, defined as weak and scattered, which is gradually replacing last century’s strong and concentrated notion of modernity. As a metaphor for a new modernity with a constantly evolving point of reference in the world of industrial production, trade fair centers continue to be one of architecture’s preferred realms of experimentation, and expression of new construction idioms.

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In queste pagine, la Rotonda, luogo centrale d’aggregazione e smistamento dei flussi pedonali. These pages, the Rotunda, the central congregation and pedestrian flow area.

he increasing number of trade fair centers throughout the country is an indication of a profound change that is underway. These complexes are part of a dynamic evolution directed at reversing a process that began with the industrial revolution. Today, concentration is giving way to dispersal, resulting in a loss of general order and the blurring of the geography of territorial hierarchies. Having been moved out of city centers to ease traffic, trade fair centers are confronted with suburban neighborhoods that lack any real identity. The suburbs expand in a linear hodgepodge of buildings spreading between cities. Trade fair complexes provide the opportunity to set all this magma in order, acting as real gateways to the city. It is easy to imagine how their architectural layout could provide a foretaste of the city’s appeal. Through their very layout, the exhibitions themselves become a fragment of the city with exchange and communication taking center stage. Playing on symmetry and on a barely concealed monumentalism, the Rimini Trade Fair complex follows a proven layout that is in harmony with the spirit of a city forever illuminated by the presence of a Renaissance landmark like the Tempio Malatestiano designed by Leonbattista Alberti. Beyond marking its geometric center, the 24-meter high and 50-meter wide dome is the structure’s most distinctive feature. Technological obelisks and water games recreate an exuberant classical-style atmosphere. The goal was to create a suggestive and refined place to host the encounter between mythology and the concreteness of commerce, to transform it into a cultural event.

It was no mean feat, bristling with complications which were solved by playing on a noble and ductile material like wood. The natural vibrancy of wood always shines through with renewed vigor, even as a natural material turned into an industrial product. The wattle roofing is made out of lamellar wood. During construction it was decided not to juxtapose the planks directly next to each other in order to create a light and semi-transparent effect. With its large vaulted roofs, spread over a long pathway, the complex has the intriguing charm of a micro-city, rich in unexpected views and beautiful perspectives. The unusual association of a “poor” material like lamellar wood and lofty, classical-style shapes makes the complex pleasantly disconcerting. The eternal nature of stone and marble has been replaced by the temporality of wood, which marks the passage of time through the slow but relentless change of its ageing fibers. This is in harmony with the function of a trade fair complex, which is in fact a container for installations that are in a constant state of evolution. A permanent state of change also found in the contemporary urban environment in which the metropolitan scene is being constantly re-fitted by the noise of commercial advertising. It is all part of a new modernity, defined as weak and scattered, which is gradually replacing last century’s strong and concentrated notion of modernity. As a metaphor for a new modernity with a constantly evolving point of reference in the world of industrial production, trade fair centers continue to be one of architecture’s preferred realms of experimentation, and expression of new construction idioms.

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Alcuni spazi espositivi e schema strutturale della cupola della Rotonda lignea. Nella pagina a fianco, particolare dell’intradosso della cupola.

Exhibition spaces and structural diagram of the dome of the wooden Rotunda. Opposite page, detail of the intrados of the dome.


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Alcuni spazi espositivi e schema strutturale della cupola della Rotonda lignea. Nella pagina a fianco, particolare dell’intradosso della cupola.

Exhibition spaces and structural diagram of the dome of the wooden Rotunda. Opposite page, detail of the intrados of the dome.


In queste pagine, particolari degli interni dei padiglioni. La distribuzione degli spazi è caratterizzata da uno schema assiale, con un modulo di base di circa 6.000 mq. These pages, details of the interiors of the pavilions. The layout of spaces features an axial scheme with a base section of about 6,000 square meters.

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In queste pagine, particolari degli interni dei padiglioni. La distribuzione degli spazi è caratterizzata da uno schema assiale, con un modulo di base di circa 6.000 mq. These pages, details of the interiors of the pavilions. The layout of spaces features an axial scheme with a base section of about 6,000 square meters.

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A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 per le società quotate Italcementi wins the 2002 “Oscar di Bilancio” for Listed Companies

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A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 per le società quotate Italcementi wins the 2002 “Oscar di Bilancio” for listed companies Con Dominique Perrault per “Morceaux Choisis” With Dominique Perrault for “Morceaux Choisis” “Dives in Misericordia”: le annotazioni di Richard Meier “Dives in Misericordia”: Richard Meier’s notes Sviluppo sostenibile nel XXI secolo. I progetti di César Pelli illustrati in un workshop di Cementos Rezola A Sustainable Development in the 21st Century. César Pelli’s latest projects set out at the workshop of Cementos Rezola

l 2002 è stato caratterizzato dall’esplosione di importanti scandali finanziari: i mercati sono stati raggirati, la finanza mondiale è stata messa a dura prova e la credibilità del sistema ne è uscita a pezzi. Alla luce di quanto accaduto, il bilancio rappresenta più che mai lo strumento principale per ciascuna organizzazione che intenda operare con piena responsabilità e trasparenza verso la società civile. Da strumento di comunicazione finanziaria il bilancio diviene espressione strategica dell’impresa concorrendo ad affermarne l’identità economica, sociale e culturale. L’”Oscar di Bilancio e della Comunicazione Finanziaria”, storica iniziativa istituita nella metà degli anni ‘50 e promossa dalla Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), per l’anno 2002 è stato

assegnato alle aziende italiane che si sono contraddistinte per chiarezza, trasparenza e veridicità della comunicazione di bilancio. La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso Dicembre 2002 presso la sede dell’Assolombarda a Milano. La Giuria dell’Oscar di Bilancio, dopo aver preso in esame i bilanci di oltre 500 imprese, ha premiato con l’Oscar di categoria Banca Sella per le imprese bancarie e finanziarie, Italcementi per le società quotate, Cartiere del Garda per le grandi imprese non quotate, Eptaconsors per le Pmi non quotate e Assicurazioni Generali per le assicurazioni. Premi speciali sono stati inoltre assegnati a: Banca Popolare Etica (Premio Speciale Bilancio della Sostenibilità Pmi), Merloni Elettrodomestici (Premio Speciale per la Comunicazione Finanziaria on line) e Banca

Monte Paschi di Siena (Premio Speciale Bilancio della Sostenibilità Grandi Organizzazioni). La Giuria dell’Oscar di Bilancio e della Comunicazione Finanziaria ha consegnato a Giampiero Pesenti, Consigliere Delegato di Italcementi, il prestigioso riconoscimento con la seguente motivazione: “Significativa trasparenza ed efficacia informativa sono gli elementi che caratterizzano il bilancio, alla base anche degli incontri apprezzati con la comunità finanziaria. In una veste grafica chiara ed essenziale, la presentazione di dati e grafici, in alcuni casi a livello quinquennale, consente un’ampia percezione degli andamenti economici e finanziari e dell’attività complessiva. Il bilancio contiene anche una sezione dedicata al recepimento di piani di stock options”.

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002 will be remembered for the important financial scandals that broke out: markets were taken in, world finance came under considerable pressure and the system’s credibility was left in shreds. In light of what has happened, a financial statements report is certainly still the best means at an organization’s disposal if it plans to act responsibly and transparently towards civil society. As a means of financial communication, the financial statements report provides a strategic way of helping project a company’s socioeconomic and cultural identity. The 2002 “Oscar di Bilancio

e della Comunicazione Finanziaria,” (the Italian Award for Financial Statements Report and Communication), an old award first set up in the mid-1950s and promoted by FERPI (Italian Federation of Public Relations), has been awarded to Italian companies that stood out for the clarity, transparency and effective information with which they communicated their financial statements. The award ceremony took place last December 2002, at the Assolombarda (Association of the Industrialists of Lombardy, Italy) headquarters in Milan. After examining the financial statements reports of over 500 companies, the “Oscar

di Bilancio” jury awarded the Oscar for banks and financial institutes to Banca Sella, the Oscar for listed companies to Italcementi, the Oscar for major non-listed companies to Cartiere del Garda, the Oscar for non-listed SMEs to Eptaconsors, and the Oscar for insurance companies to Assicurazioni Generali. Special prizes were awarded to: Banca Popolare Etica (Special Prize for SMEs Sustainability Report), Merloni Elettrodomestici (Special Prize for on-line Financial Communication) and Banca Monte Paschi di Siena (Special Prize for Major Organizations Sustainability Report). The “Oscar di Bilancio” jury

awarded this prestigious prize to Giampiero Pesenti, Chief Executive Officer of Italcementi, with the following motivation: “Real transparency and effective information giving are the elements that mark out the Financial Statements Report, and which also feature in the much appreciated meetings with the financial community. In a clear, bare graphical style, the presentation of data and tables, in some cases over a five year period, allows for a good understanding of the economic and financial trends and overall business. The Financial Statements Report also contains a section on the use of stock option plans.”

Con Dominique Perrault per “Morceaux Choisis” With Dominique Perrault for “Morceaux Choisis”

Triennale di Milano: Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana Milan Triennial: Gold Medal for Italian Architecture

I

Italcementi Group: utile consolidato 2002 a 357 milioni di euro Italcementi Group: 2002 consolidated net income at 357 million Euro Angelo Tantazzi (a destra), presidente di Borsa Italiana, premia Giampiero Pesenti, CEO di Italcementi Group. Angelo Tantazzi (on the right) chairman of the Italian Stock Exchange, awards the prize to Giampiero Pesenti, CEO of Italcementi Group.

talcementi pone da sempre grande attenzione al mondo dell’architettura e nell’ambito delle più recenti iniziative sostenute si inserisce anche la mostra di Dominique Perrault recentemente ospitata alla Triennale di Milano. L’esposizione “Morceaux Choisis”, dedicata a dieci tra i progetti più significativi dell’architetto francese, racconta il percorso eterogeneo dell’autore: dal design all’architettura, dalla pianificazione urbanistica allo

studio del paesaggio. Nato nel 1953, laurea in architettura nel 1978, vincitore di numerosi concorsi internazionali e insignito di onorificenze prestigiose, Perrault è noto soprattutto per la realizzazione della “Bibliothèque Nationale de France” a Parigi, che, con le sue quattro alte torri di vetro a forma di libro che si stagliano nel cielo, rappresenta una delle più significative espressioni del rinnovamento architettonico

vissuto nella capitale francese. Dominique Perrault ha elaborato una nuova concezione di architettura che si annulla a beneficio del paesaggio, “un’architettura che non c’è”. Non moderna, non post-moderna, non high-tech, l’architettura di Perrault privilegia un impatto ambientale minimo e interagisce armonicamente con gli elementi primari nei quali è inserita: terra e cielo. Le sue opere, come

installazioni concepite in scala gigantesca, tracciano sottili equilibri tra i pieni delle costruzioni e i vuoti degli spazi circostanti, quasi sempre destinati ad ampie aree verdi. Presenze leggere, segni nello spazio che trasformano e riqualificano periferie degradate e zone difficili, spesso realizzati con materiali specchianti che rimandano e moltiplicano all’infinito l’ambiente esterno annullandosi nel gioco dei riflessi.

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News

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A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 per le società quotate Italcementi wins the 2002 “Oscar di Bilancio” for Listed Companies

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A Italcementi l’Oscar di Bilancio 2002 per le società quotate Italcementi wins the 2002 “Oscar di Bilancio” for listed companies Con Dominique Perrault per “Morceaux Choisis” With Dominique Perrault for “Morceaux Choisis” “Dives in Misericordia”: le annotazioni di Richard Meier “Dives in Misericordia”: Richard Meier’s notes Sviluppo sostenibile nel XXI secolo. I progetti di César Pelli illustrati in un workshop di Cementos Rezola A Sustainable Development in the 21st Century. César Pelli’s latest projects set out at the workshop of Cementos Rezola

l 2002 è stato caratterizzato dall’esplosione di importanti scandali finanziari: i mercati sono stati raggirati, la finanza mondiale è stata messa a dura prova e la credibilità del sistema ne è uscita a pezzi. Alla luce di quanto accaduto, il bilancio rappresenta più che mai lo strumento principale per ciascuna organizzazione che intenda operare con piena responsabilità e trasparenza verso la società civile. Da strumento di comunicazione finanziaria il bilancio diviene espressione strategica dell’impresa concorrendo ad affermarne l’identità economica, sociale e culturale. L’”Oscar di Bilancio e della Comunicazione Finanziaria”, storica iniziativa istituita nella metà degli anni ‘50 e promossa dalla Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana), per l’anno 2002 è stato

assegnato alle aziende italiane che si sono contraddistinte per chiarezza, trasparenza e veridicità della comunicazione di bilancio. La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso Dicembre 2002 presso la sede dell’Assolombarda a Milano. La Giuria dell’Oscar di Bilancio, dopo aver preso in esame i bilanci di oltre 500 imprese, ha premiato con l’Oscar di categoria Banca Sella per le imprese bancarie e finanziarie, Italcementi per le società quotate, Cartiere del Garda per le grandi imprese non quotate, Eptaconsors per le Pmi non quotate e Assicurazioni Generali per le assicurazioni. Premi speciali sono stati inoltre assegnati a: Banca Popolare Etica (Premio Speciale Bilancio della Sostenibilità Pmi), Merloni Elettrodomestici (Premio Speciale per la Comunicazione Finanziaria on line) e Banca

Monte Paschi di Siena (Premio Speciale Bilancio della Sostenibilità Grandi Organizzazioni). La Giuria dell’Oscar di Bilancio e della Comunicazione Finanziaria ha consegnato a Giampiero Pesenti, Consigliere Delegato di Italcementi, il prestigioso riconoscimento con la seguente motivazione: “Significativa trasparenza ed efficacia informativa sono gli elementi che caratterizzano il bilancio, alla base anche degli incontri apprezzati con la comunità finanziaria. In una veste grafica chiara ed essenziale, la presentazione di dati e grafici, in alcuni casi a livello quinquennale, consente un’ampia percezione degli andamenti economici e finanziari e dell’attività complessiva. Il bilancio contiene anche una sezione dedicata al recepimento di piani di stock options”.

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002 will be remembered for the important financial scandals that broke out: markets were taken in, world finance came under considerable pressure and the system’s credibility was left in shreds. In light of what has happened, a financial statements report is certainly still the best means at an organization’s disposal if it plans to act responsibly and transparently towards civil society. As a means of financial communication, the financial statements report provides a strategic way of helping project a company’s socioeconomic and cultural identity. The 2002 “Oscar di Bilancio

e della Comunicazione Finanziaria,” (the Italian Award for Financial Statements Report and Communication), an old award first set up in the mid-1950s and promoted by FERPI (Italian Federation of Public Relations), has been awarded to Italian companies that stood out for the clarity, transparency and effective information with which they communicated their financial statements. The award ceremony took place last December 2002, at the Assolombarda (Association of the Industrialists of Lombardy, Italy) headquarters in Milan. After examining the financial statements reports of over 500 companies, the “Oscar

di Bilancio” jury awarded the Oscar for banks and financial institutes to Banca Sella, the Oscar for listed companies to Italcementi, the Oscar for major non-listed companies to Cartiere del Garda, the Oscar for non-listed SMEs to Eptaconsors, and the Oscar for insurance companies to Assicurazioni Generali. Special prizes were awarded to: Banca Popolare Etica (Special Prize for SMEs Sustainability Report), Merloni Elettrodomestici (Special Prize for on-line Financial Communication) and Banca Monte Paschi di Siena (Special Prize for Major Organizations Sustainability Report). The “Oscar di Bilancio” jury

awarded this prestigious prize to Giampiero Pesenti, Chief Executive Officer of Italcementi, with the following motivation: “Real transparency and effective information giving are the elements that mark out the Financial Statements Report, and which also feature in the much appreciated meetings with the financial community. In a clear, bare graphical style, the presentation of data and tables, in some cases over a five year period, allows for a good understanding of the economic and financial trends and overall business. The Financial Statements Report also contains a section on the use of stock option plans.”

Con Dominique Perrault per “Morceaux Choisis” With Dominique Perrault for “Morceaux Choisis”

Triennale di Milano: Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana Milan Triennial: Gold Medal for Italian Architecture

I

Italcementi Group: utile consolidato 2002 a 357 milioni di euro Italcementi Group: 2002 consolidated net income at 357 million Euro Angelo Tantazzi (a destra), presidente di Borsa Italiana, premia Giampiero Pesenti, CEO di Italcementi Group. Angelo Tantazzi (on the right) chairman of the Italian Stock Exchange, awards the prize to Giampiero Pesenti, CEO of Italcementi Group.

talcementi pone da sempre grande attenzione al mondo dell’architettura e nell’ambito delle più recenti iniziative sostenute si inserisce anche la mostra di Dominique Perrault recentemente ospitata alla Triennale di Milano. L’esposizione “Morceaux Choisis”, dedicata a dieci tra i progetti più significativi dell’architetto francese, racconta il percorso eterogeneo dell’autore: dal design all’architettura, dalla pianificazione urbanistica allo

studio del paesaggio. Nato nel 1953, laurea in architettura nel 1978, vincitore di numerosi concorsi internazionali e insignito di onorificenze prestigiose, Perrault è noto soprattutto per la realizzazione della “Bibliothèque Nationale de France” a Parigi, che, con le sue quattro alte torri di vetro a forma di libro che si stagliano nel cielo, rappresenta una delle più significative espressioni del rinnovamento architettonico

vissuto nella capitale francese. Dominique Perrault ha elaborato una nuova concezione di architettura che si annulla a beneficio del paesaggio, “un’architettura che non c’è”. Non moderna, non post-moderna, non high-tech, l’architettura di Perrault privilegia un impatto ambientale minimo e interagisce armonicamente con gli elementi primari nei quali è inserita: terra e cielo. Le sue opere, come

installazioni concepite in scala gigantesca, tracciano sottili equilibri tra i pieni delle costruzioni e i vuoti degli spazi circostanti, quasi sempre destinati ad ampie aree verdi. Presenze leggere, segni nello spazio che trasformano e riqualificano periferie degradate e zone difficili, spesso realizzati con materiali specchianti che rimandano e moltiplicano all’infinito l’ambiente esterno annullandosi nel gioco dei riflessi.

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“Dives in Misericordia”: le annotazioni di Richard Meier “Dives in Misericordia”: Richard Meier’s Notes

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La mostra “Morceaux Choisis”, itinerante per scelta, sarà esposta nei cinque continenti: oltre Milano, toccherà Rio de Janeiro, Città del Messico, Los Angeles e New Haven. Concepita per rispondere a dei criteri spaziali essenziali, la mostra si adatta alle diverse sistemazioni previste nelle varie città. Il mantenimento della sua identità, nonostante la varietà dei luoghi in cui è ospitata, l’adattamento alle differenti tipologie di spazio, la facilità nelle operazioni di installazione, e l’equipaggiamento tecnico minimo ne fanno uno strumento di comunicazione ideale, un manifesto dell’architettura di Perrault.

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I

talcementi has always been keenly interested in the world of architecture and, as part of its latest enterprises, it provided its backing for the Dominique Perrault exhibition recently held at the Milan Triennial. The exhibition entitled “Morceaux Choisis,” devoted to ten of this French architect’s most important projects, provides a picture of his wide variety of works ranging from design to architecture, town-planning and landscape studies. Born in 1953, Perrault graduated in architecture in 1978 and has won lots of international competitions and all kinds of prestigious awards. He is best known for designing the “Bibliothèque Nationale de France” in Paris, whose four tall glass towers shaped like a book stand out on the skyline making it one of the main landmarks

symbolizing Paris’s architectural renewal. Dominique Perrault has developed a new idea of architecture that fades away into the landscape, “architecture that does not exist.” Neither modern, nor post-modern, nor high-tech, Perrault’s architecture focuses on minimal environmental impact and blends smoothly into the primary elements surrounding it: the earth and sky. His works, like installations designed on a massive scale, trace subtle balances between solid construction structures and empty surrounding spaces, almost always being designed for large landscaped

areas. Gentle presences, signs in space, that transform and redevelop dilapidated suburbs and problematic areas, often designed out of reflective materials mirroring and multiplying the outside environment, canceling themselves out in an interplay of reflections. The “Morceaux Choisis” exhibition, deliberately designed on a traveling basis, will be on display in five continents: as well as Milan, it will be stopping off at Rio de Janeiro, Mexico City, Los Angeles and New Haven. Designed to meet fundamental spatial criteria, the exhibition adapts to the various layouts of the different cities.

The way it holds onto its identity, despite the variety of places in which it is being hosted, the adapting to different types of space, its ease of installation and its minimal technical equipment make it an ideal means of communicating, a real manifesto of Perrault’s architecture.

Una delle opere di Dominique Perrault esposte a “Morceaux Choisis”: Applix-Unità industriale manifatturiera (Nantes, Francia).

One of Dominique Perrault’s projects exhibited at “Morceaux Choisis”: Applix-Industrial Manufacturing Unit (Nantes, France).

el secondo volume dedicato alla chiesa “Dives in Misericordia” recentemente pubblicato, Richard Meier, accompagna le suggestive immagini in bianco e nero che documentano le fasi costruttive della chiesa con brevi annotazioni ispirate dalle immagini stesse, raccogliendo e unendo così anche dal punto di vista cronologico, emozioni e pensieri che hanno accompagnato lo stato d’animo dell’architetto durante le varie fasi dei lavori. Come citato da Giorgio Fonio nella prefazione del libro, la sovrapposizione alla percezione dell’opera concreta di ulteriori codici linguistici diversi, come in questo caso quello letterario e fotografico, produce sempre un arricchimento di significato, approfondimento di senso o conferma del mondo poetico dell’autore. Gli interventi grafici e verbali di Richard Meier sulle fotografie di “Dives in Misericordia” sono leggibili come ulteriori stimoli alla comprensione dell’opera, come puntualizzazione di senso che l’autore fa a se stesso e allo spettatore. Le annotazioni di Meier sono classificabili in tre tipologie di contenuto: tecniche, estetiche e semantiche. In particolare queste ultime hanno carattere descrittivo (descrivono le funzioni degli spazi architettonici) e filosofico (sono esplicative dei simboli e dei significati sociali ed ecclesiali). Meier sostituisce la plasticità concreta di questi tre maestosi muri concavi, già di per sé carica di emozioni, con l’immaterialità aerea di tre semplici parole: lame, vele, ali di gabbiano. La potenza

evocativa del linguaggio produce una addizione di significato, un ulteriore alleggerimento della materia che contribuisce ad accrescere l’emozione dello spettatore. Ma le vele non sono solo aeree e leggere, sono anche gonfie, potenti e maestose, e quando viene issata l’ultima delle tre “si affollano nella mente le note di una sinfonia di Beethoven” come annota Richard Meier. La comunicabilità degli spazi è insieme tratto stilistico e tratto strutturale dell’architettura di Meier, ed egli ne è consapevole quando in una nota scrive: “ Per chi vive lo spazio architettonico, la chiesa ha due funzioni. Una rivolta all’interno, lo sguardo interiore. L’altra rivolta alla realtà circostante, lo sguardo sul mondo. Ritengo che questo duplice significato, interno ed esterno, costituisca un tratto fondamentale, direi obbligatorio, per una chiesa immersa in questo contenuto urbano”. Da queste note scaturiscono inoltre ulteriori ed utili informazioni per la lettura della complessa struttura di “Dives in Misericordia”. Sono i ragguagli forniti da Meier in relazione a certi valori semantici impliciti e non direttamente percepibili come il fatto che: “Le forme geometriche del cerchio e del quadrato costituiscono l’elemento organizzatore dell’intero edificio. La planimetria della chiesa è generata da settori circolari. Il cerchio vuole simboleggiare la perfezione, la cupola del firmamento. Il quadrato rappresenta la terra, i quattro elementi e l’intelletto raziocinante”. Nelle tavole fotografiche annotate da Meier la scrittura

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“Dives in Misericordia”: le annotazioni di Richard Meier “Dives in Misericordia”: Richard Meier’s Notes

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La mostra “Morceaux Choisis”, itinerante per scelta, sarà esposta nei cinque continenti: oltre Milano, toccherà Rio de Janeiro, Città del Messico, Los Angeles e New Haven. Concepita per rispondere a dei criteri spaziali essenziali, la mostra si adatta alle diverse sistemazioni previste nelle varie città. Il mantenimento della sua identità, nonostante la varietà dei luoghi in cui è ospitata, l’adattamento alle differenti tipologie di spazio, la facilità nelle operazioni di installazione, e l’equipaggiamento tecnico minimo ne fanno uno strumento di comunicazione ideale, un manifesto dell’architettura di Perrault.

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I

talcementi has always been keenly interested in the world of architecture and, as part of its latest enterprises, it provided its backing for the Dominique Perrault exhibition recently held at the Milan Triennial. The exhibition entitled “Morceaux Choisis,” devoted to ten of this French architect’s most important projects, provides a picture of his wide variety of works ranging from design to architecture, town-planning and landscape studies. Born in 1953, Perrault graduated in architecture in 1978 and has won lots of international competitions and all kinds of prestigious awards. He is best known for designing the “Bibliothèque Nationale de France” in Paris, whose four tall glass towers shaped like a book stand out on the skyline making it one of the main landmarks

symbolizing Paris’s architectural renewal. Dominique Perrault has developed a new idea of architecture that fades away into the landscape, “architecture that does not exist.” Neither modern, nor post-modern, nor high-tech, Perrault’s architecture focuses on minimal environmental impact and blends smoothly into the primary elements surrounding it: the earth and sky. His works, like installations designed on a massive scale, trace subtle balances between solid construction structures and empty surrounding spaces, almost always being designed for large landscaped

areas. Gentle presences, signs in space, that transform and redevelop dilapidated suburbs and problematic areas, often designed out of reflective materials mirroring and multiplying the outside environment, canceling themselves out in an interplay of reflections. The “Morceaux Choisis” exhibition, deliberately designed on a traveling basis, will be on display in five continents: as well as Milan, it will be stopping off at Rio de Janeiro, Mexico City, Los Angeles and New Haven. Designed to meet fundamental spatial criteria, the exhibition adapts to the various layouts of the different cities.

The way it holds onto its identity, despite the variety of places in which it is being hosted, the adapting to different types of space, its ease of installation and its minimal technical equipment make it an ideal means of communicating, a real manifesto of Perrault’s architecture.

Una delle opere di Dominique Perrault esposte a “Morceaux Choisis”: Applix-Unità industriale manifatturiera (Nantes, Francia).

One of Dominique Perrault’s projects exhibited at “Morceaux Choisis”: Applix-Industrial Manufacturing Unit (Nantes, France).

el secondo volume dedicato alla chiesa “Dives in Misericordia” recentemente pubblicato, Richard Meier, accompagna le suggestive immagini in bianco e nero che documentano le fasi costruttive della chiesa con brevi annotazioni ispirate dalle immagini stesse, raccogliendo e unendo così anche dal punto di vista cronologico, emozioni e pensieri che hanno accompagnato lo stato d’animo dell’architetto durante le varie fasi dei lavori. Come citato da Giorgio Fonio nella prefazione del libro, la sovrapposizione alla percezione dell’opera concreta di ulteriori codici linguistici diversi, come in questo caso quello letterario e fotografico, produce sempre un arricchimento di significato, approfondimento di senso o conferma del mondo poetico dell’autore. Gli interventi grafici e verbali di Richard Meier sulle fotografie di “Dives in Misericordia” sono leggibili come ulteriori stimoli alla comprensione dell’opera, come puntualizzazione di senso che l’autore fa a se stesso e allo spettatore. Le annotazioni di Meier sono classificabili in tre tipologie di contenuto: tecniche, estetiche e semantiche. In particolare queste ultime hanno carattere descrittivo (descrivono le funzioni degli spazi architettonici) e filosofico (sono esplicative dei simboli e dei significati sociali ed ecclesiali). Meier sostituisce la plasticità concreta di questi tre maestosi muri concavi, già di per sé carica di emozioni, con l’immaterialità aerea di tre semplici parole: lame, vele, ali di gabbiano. La potenza

evocativa del linguaggio produce una addizione di significato, un ulteriore alleggerimento della materia che contribuisce ad accrescere l’emozione dello spettatore. Ma le vele non sono solo aeree e leggere, sono anche gonfie, potenti e maestose, e quando viene issata l’ultima delle tre “si affollano nella mente le note di una sinfonia di Beethoven” come annota Richard Meier. La comunicabilità degli spazi è insieme tratto stilistico e tratto strutturale dell’architettura di Meier, ed egli ne è consapevole quando in una nota scrive: “ Per chi vive lo spazio architettonico, la chiesa ha due funzioni. Una rivolta all’interno, lo sguardo interiore. L’altra rivolta alla realtà circostante, lo sguardo sul mondo. Ritengo che questo duplice significato, interno ed esterno, costituisca un tratto fondamentale, direi obbligatorio, per una chiesa immersa in questo contenuto urbano”. Da queste note scaturiscono inoltre ulteriori ed utili informazioni per la lettura della complessa struttura di “Dives in Misericordia”. Sono i ragguagli forniti da Meier in relazione a certi valori semantici impliciti e non direttamente percepibili come il fatto che: “Le forme geometriche del cerchio e del quadrato costituiscono l’elemento organizzatore dell’intero edificio. La planimetria della chiesa è generata da settori circolari. Il cerchio vuole simboleggiare la perfezione, la cupola del firmamento. Il quadrato rappresenta la terra, i quattro elementi e l’intelletto raziocinante”. Nelle tavole fotografiche annotate da Meier la scrittura

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Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo Sustainable Development in the 21st Century I progetti di César Pelli illustrati in un workshop di Cementos Rezola César Pelli’s latest projects set out at the workshop of Cementos Rezola

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è diligente, ordinata, compita. Le note sono contenute in griglie di linee parallele e formano dei blocchi grafici sapientemente distribuiti nello spazio della pagina, in modo da creare una composizione ben equilibrata. È un gioco distributivo di forme geometriche proprio come avviene nelle sue architetture. Grazie a questo volume, e alla dedizione e la cura con cui Meier ha apportato note esplicative e descrizioni emotive, l’opera svela tutti i suoi segreti. ■ ■ ■ ■ ■ ■

I

n the second book recently published about “Dives in Misericordia” church, Richard Meier has written some brief notes to accompany the striking black and white pictures outlining the various stages in the construction of the church. These notes are like a chronological account of the thoughts and feelings running through the architect’s mind during the various phases of his work. As Giorgio Fonio wrote in his preface to the book, adding further different linguistic codes (in this case literary and photographic) to the general perception of the actual construction inevitably adds deeper sense and meaning or at least confirms the architect’s own stylistic poetics. Richard Meier’s written and graphic notes on the photographs of “Dives in Misericordia” can be read as further clues to understanding the work of architecture, explanatory notes for both the designer and other observers.

Meier’s notes can be divided into three different groups: technical, aesthetic and semantic. The latter in particular are both descriptive (describing the functions of the architectural space) and philosophical (explanatory of social-ecclesiastical symbols and meanings). Meier replaces the sculptural materiality of the three magnificent concave walls, full of feelings in themselves, with the airy immateriality of three simple words: blades, sails and seagull wings. The evocative power of language injects further meaning, a lightening up of matter that adds to the onlooker’s emotional experience. But the sails are not just airy and light, they are also swollen, forceful and majestic, and when the last of the three sails is raised “the notes of Beethoven’s music flood into the mind” as Richard Meier himself puts it. The communicative nature of space is both a stylistic and structural feature of Meier’s architecture, something of which he is well aware when he writes in a note that: “The church has two functions for those experiencing its architectural space. One directed inwards, an inner glance. The other directed out at surrounding reality, a glance at the world. I think this double meaning, inner and outer, is a key, I would even say obligatory, feature for a church set in this kind of urban context.” These notes provide further useful information for reading the intricate structure of “Dives in Misericordia.” Meier’s own hints about certain semantic values implicit and not directly

D

perceptible such as the fact that: “The geometric forms of the circle and square are what organize the entire building. The church plan derives from circular sectors. The circle is supposed to symbolize perfection, the heavenly firmament. The square represents the earth, the four elements and the reasoning intellect.” Meier’s accompanying notes to the photographs are written in meticulous, orderly fashion. The notes are placed in grids of parallel lines and form graphic blocks cleverly spread across the page to create a carefully balanced composition. A distribution of geometric forms actually reminiscent of his architecture. Thanks to this book and the

dedication and care with which Meier has added his explanatory notes and emotional descriptions, the work reveals all its secrets.

ue anni dopo la I Sessione, che chiuse il programma di eventi organizzati per celebrare il proprio 150° anniversario, Cementos Rezola ha nuovamente riunito a Bilbao (Spagna) i maggiori esperti per la II Sessione “Infrastrutture e Costruzione per uno Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo”. Obiettivo di questo incontro era di indagare ulteriormente e analizzare in profondità concetti già presi in considerazione nella I Sessione quali: Architettura e Sviluppo Urbano; Tecnologia e Nuovi Materiali; Etica e Sociologia; Ambiente. La II Sessione dal tema “Infrastrutture e Costruzione per uno Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo”, tenutasi presso il Centro dei Congressi e della Musica del Palacio Euskalduna di Bilbao il 20 febbraio 2003, ha offerto l’opportunità per uno scambio di idee e un dibattito mirato e specifico, e ha permesso a Cementos Rezola di rinnovare il proprio impegno per uno Sviluppo Sostenibile. Tra gli oratori invitati a questa Sessione spicca il nome dell’architetto argentino César Pelli, che ha spiegato gli aspetti chiave dei suoi progetti più recenti: grandi complessi urbani progettati per migliorare la qualità di vita degli abitanti. Secondo Pelli, “lo scopo del progetto, della gestione e della manutenzione di questi edifici intelligenti è di salvaguardare la salute pubblica, incoraggiare i contatti, l’interazione e la comunicazione, migliorare la sicurezza ed essere più rispettosi verso l’ambiente”. César Pelli, responsabile

di uno dei più ambiziosi progetti di organizzazione e sviluppo urbano a Bilbao, ha illustrato una serie di edifici, pubblici e privati, progettati dal suo studio, in cui materiali e accorgimenti progettuali specifici sono stati utilizzati al fine di ridurre il consumo di energia, acqua o riscaldamento e di ottimizzare lo sfruttamento delle risorse naturali quali la luce, l’acqua o l’energia solare. Tra questi progetti, figura la Torre per il Consiglio Regionale di Bizkaia che, con i suoi i 160 metri d’altezza, diverrà il più alto edificio della Spagna. César Pelli ha fatto anche riferimento allo sviluppo del complesso per uffici a Toledo (Stati Uniti), completato tre anni fa e progettato per essere il “luogo di lavoro del futuro”. Il complesso originale è costituito da tre piani connessi da scale che hanno l’obiettivo di facilitare i contatti tra gli impiegati. L’architetto argentino, stabilitosi negli Stati Uniti,

ha progettato inoltre un edificio, attualmente in costruzione nella zona settentrionale di New York, che è stato dichiarato altamente sostenibile. Esso include cellule foto-voltaiche e un dispositivo per il riutilizzo delle acque di scarico, per esempio per innaffiare i giardini. L’evento, introdotto e presieduto dal giornalista radiofonico Iñaki Gabilondo, ha avuto tra i partecipanti anche Rafael Fernández Sánchez, direttore di Oficemen – Associazione Spagnola dei Produttori di Cemento –, il filosofo e scrittore Eugenio Trias, e Domingo Jiménez Beltrán, membro della Commissione Europea per l’Ambiente. Nel suo intervento, Rafael Fernández Sánchez ha sottolineato il crescente interesse sociale riguardo ai cambiamenti climatici, all’inquinamento atmosferico e al consumo di risorse naturali. Il rappresentante

di Oficemen ha affermato che il settore del cemento spagnolo si sta movendo in direzione di uno sviluppo sostenibile, in quanto l’uso del cemento è uno degli esempi più pertinenti di sostenibilità grazie alla sua durabilità, resistenza al fuoco e futura adattabilità. Rafael Fernández Sánchez ha utilizzato il proprio turno della Sessione organizzata da Cementos Rezola per annunciare la firma di un accordo tra l’industria del cemento spagnola e il Ministero dell’Ambiente per la ricerca, tra i molti aspetti, di un uso razionale dell’energia, l’uso di carburanti alternativi e la rigenerazione delle cave. Da parte sua, Domingo Jiménez Beltrán ha considerato come lo sviluppo sostenibile sia un concetto promettente, strettamente legato alla qualità di vita di tutti, sia ora che nel futuro. Secondo lui, “il futuro necessiterà di meno costruzioni e più ricostruzioni”.

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Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo Sustainable Development in the 21st Century I progetti di César Pelli illustrati in un workshop di Cementos Rezola César Pelli’s latest projects set out at the workshop of Cementos Rezola

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è diligente, ordinata, compita. Le note sono contenute in griglie di linee parallele e formano dei blocchi grafici sapientemente distribuiti nello spazio della pagina, in modo da creare una composizione ben equilibrata. È un gioco distributivo di forme geometriche proprio come avviene nelle sue architetture. Grazie a questo volume, e alla dedizione e la cura con cui Meier ha apportato note esplicative e descrizioni emotive, l’opera svela tutti i suoi segreti. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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n the second book recently published about “Dives in Misericordia” church, Richard Meier has written some brief notes to accompany the striking black and white pictures outlining the various stages in the construction of the church. These notes are like a chronological account of the thoughts and feelings running through the architect’s mind during the various phases of his work. As Giorgio Fonio wrote in his preface to the book, adding further different linguistic codes (in this case literary and photographic) to the general perception of the actual construction inevitably adds deeper sense and meaning or at least confirms the architect’s own stylistic poetics. Richard Meier’s written and graphic notes on the photographs of “Dives in Misericordia” can be read as further clues to understanding the work of architecture, explanatory notes for both the designer and other observers.

Meier’s notes can be divided into three different groups: technical, aesthetic and semantic. The latter in particular are both descriptive (describing the functions of the architectural space) and philosophical (explanatory of social-ecclesiastical symbols and meanings). Meier replaces the sculptural materiality of the three magnificent concave walls, full of feelings in themselves, with the airy immateriality of three simple words: blades, sails and seagull wings. The evocative power of language injects further meaning, a lightening up of matter that adds to the onlooker’s emotional experience. But the sails are not just airy and light, they are also swollen, forceful and majestic, and when the last of the three sails is raised “the notes of Beethoven’s music flood into the mind” as Richard Meier himself puts it. The communicative nature of space is both a stylistic and structural feature of Meier’s architecture, something of which he is well aware when he writes in a note that: “The church has two functions for those experiencing its architectural space. One directed inwards, an inner glance. The other directed out at surrounding reality, a glance at the world. I think this double meaning, inner and outer, is a key, I would even say obligatory, feature for a church set in this kind of urban context.” These notes provide further useful information for reading the intricate structure of “Dives in Misericordia.” Meier’s own hints about certain semantic values implicit and not directly

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perceptible such as the fact that: “The geometric forms of the circle and square are what organize the entire building. The church plan derives from circular sectors. The circle is supposed to symbolize perfection, the heavenly firmament. The square represents the earth, the four elements and the reasoning intellect.” Meier’s accompanying notes to the photographs are written in meticulous, orderly fashion. The notes are placed in grids of parallel lines and form graphic blocks cleverly spread across the page to create a carefully balanced composition. A distribution of geometric forms actually reminiscent of his architecture. Thanks to this book and the

dedication and care with which Meier has added his explanatory notes and emotional descriptions, the work reveals all its secrets.

ue anni dopo la I Sessione, che chiuse il programma di eventi organizzati per celebrare il proprio 150° anniversario, Cementos Rezola ha nuovamente riunito a Bilbao (Spagna) i maggiori esperti per la II Sessione “Infrastrutture e Costruzione per uno Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo”. Obiettivo di questo incontro era di indagare ulteriormente e analizzare in profondità concetti già presi in considerazione nella I Sessione quali: Architettura e Sviluppo Urbano; Tecnologia e Nuovi Materiali; Etica e Sociologia; Ambiente. La II Sessione dal tema “Infrastrutture e Costruzione per uno Sviluppo Sostenibile nel XXI secolo”, tenutasi presso il Centro dei Congressi e della Musica del Palacio Euskalduna di Bilbao il 20 febbraio 2003, ha offerto l’opportunità per uno scambio di idee e un dibattito mirato e specifico, e ha permesso a Cementos Rezola di rinnovare il proprio impegno per uno Sviluppo Sostenibile. Tra gli oratori invitati a questa Sessione spicca il nome dell’architetto argentino César Pelli, che ha spiegato gli aspetti chiave dei suoi progetti più recenti: grandi complessi urbani progettati per migliorare la qualità di vita degli abitanti. Secondo Pelli, “lo scopo del progetto, della gestione e della manutenzione di questi edifici intelligenti è di salvaguardare la salute pubblica, incoraggiare i contatti, l’interazione e la comunicazione, migliorare la sicurezza ed essere più rispettosi verso l’ambiente”. César Pelli, responsabile

di uno dei più ambiziosi progetti di organizzazione e sviluppo urbano a Bilbao, ha illustrato una serie di edifici, pubblici e privati, progettati dal suo studio, in cui materiali e accorgimenti progettuali specifici sono stati utilizzati al fine di ridurre il consumo di energia, acqua o riscaldamento e di ottimizzare lo sfruttamento delle risorse naturali quali la luce, l’acqua o l’energia solare. Tra questi progetti, figura la Torre per il Consiglio Regionale di Bizkaia che, con i suoi i 160 metri d’altezza, diverrà il più alto edificio della Spagna. César Pelli ha fatto anche riferimento allo sviluppo del complesso per uffici a Toledo (Stati Uniti), completato tre anni fa e progettato per essere il “luogo di lavoro del futuro”. Il complesso originale è costituito da tre piani connessi da scale che hanno l’obiettivo di facilitare i contatti tra gli impiegati. L’architetto argentino, stabilitosi negli Stati Uniti,

ha progettato inoltre un edificio, attualmente in costruzione nella zona settentrionale di New York, che è stato dichiarato altamente sostenibile. Esso include cellule foto-voltaiche e un dispositivo per il riutilizzo delle acque di scarico, per esempio per innaffiare i giardini. L’evento, introdotto e presieduto dal giornalista radiofonico Iñaki Gabilondo, ha avuto tra i partecipanti anche Rafael Fernández Sánchez, direttore di Oficemen – Associazione Spagnola dei Produttori di Cemento –, il filosofo e scrittore Eugenio Trias, e Domingo Jiménez Beltrán, membro della Commissione Europea per l’Ambiente. Nel suo intervento, Rafael Fernández Sánchez ha sottolineato il crescente interesse sociale riguardo ai cambiamenti climatici, all’inquinamento atmosferico e al consumo di risorse naturali. Il rappresentante

di Oficemen ha affermato che il settore del cemento spagnolo si sta movendo in direzione di uno sviluppo sostenibile, in quanto l’uso del cemento è uno degli esempi più pertinenti di sostenibilità grazie alla sua durabilità, resistenza al fuoco e futura adattabilità. Rafael Fernández Sánchez ha utilizzato il proprio turno della Sessione organizzata da Cementos Rezola per annunciare la firma di un accordo tra l’industria del cemento spagnola e il Ministero dell’Ambiente per la ricerca, tra i molti aspetti, di un uso razionale dell’energia, l’uso di carburanti alternativi e la rigenerazione delle cave. Da parte sua, Domingo Jiménez Beltrán ha considerato come lo sviluppo sostenibile sia un concetto promettente, strettamente legato alla qualità di vita di tutti, sia ora che nel futuro. Secondo lui, “il futuro necessiterà di meno costruzioni e più ricostruzioni”.

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Da sinistra a destra: Alvaro Amann (Ministro regionale dei Trasporti e dei Lavori Pubblici del Governo Basco), Domingo Jiménez Beltrán (membro della Commissione Europea per l’Ambiente), Eugenio Trias (filosofo e scrittore), César Pelli (architetto argentino), Rafael

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Fernández Sánchez (Direttore di Oficemen Associazione Spagnola dei Produttori di Cemento), Jose Maria Echarri (Presidente Onorario di Financiera y Minera), Hervé de Saint Pierre (Presidente di Financiera y Minera).

From left to right: Alvaro Amann (Regional Minister of Public Works and Transport of the Bask Government), Domingo Jiménez Beltrán (member of the European Commission for the Environment), Eugenio Trias (philosopher and writer), César Pelli (Argentine architect), Rafael Fernández

Sánchez (Managing Director of Oficemen – Spanish Association of Cement Manufacturers), Jose María Echarri (Financiera y Minera’s Honor Chairman), Hervé de Saint Pierre (Financiera y Minera’s Chairman).

Triennale di Milano: Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana Milan Triennial: Gold Medal for Italian Architecture

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wo years after it held the I Session, which closed the program of events commemorating its 150th Anniversary, Cementos Rezola has once again gathered, in Bilbao (Spain), leading experts for its II Session on “Infrastructures and Construction for a Sustainable Development in the 21st Century.” The aim of this encounter was to further the review and in-depth analysis of concepts that were already at the forefront in the I Session, such as Architecture and Urban Development; Technology and New Materials; Ethics and Sociology, and the Environment. The II Session “Infrastructures and Construction for a Sustainable Development in the 21st Century,” which was held at the Palacio Euskalduna Music and Conference Center in Bilbao on 20 February 2003, provided an opportunity for the exchange of ideas and a measured and professional debate, as well for Cementos Rezola to renew its commitment to Sustainable Development. Noteworthy amongst those speakers invited to this Session was the presence of the Argentine architect César Pelli, who set out the key aspects of his latest projects; large urban complexes designed to improve the quality of life of their inhabitants. According to Pelli, “the aim of the design, the management and the maintenance of these intelligent buildings is to safeguard public health, encourage contact, interaction and communication, improve security and be more respectful to the environment.” César Pelli, responsible for one

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of Bilbao’s most ambitious projects so far in urban development and organization, outlined a series of public and private buildings designed by his team, in which specific materials and designs are used in order to reduce the consumption of energy, water or heating and to make maximum use of existing natural resources such as water, natural light or solar energy. Amongst these projects is the Tower for the Regional Council of Bizkaia, which rising to a height of 160 meters will become one of the tallest buildings in Spain. César Pelli also referred to the development of an office block in Toledo (United States), which was completed three years ago, and designed to be the “workplace of the future.” The original complex consists of three floors connected by stairs with the aim of facilitating contact between the employees. This Argentine architect, now

settled in the United States, has also designed a building in the northern part of New York, and now under construction, which has been declared highly sustainable. It includes photovoltaic cells and it treats its own wastewaters so that they may be used, for example, for watering the gardens. The event, which was introduced and chaired by the radio journalist Iñaki Gabilondo, was also attended by Rafael Fernández Sánchez, managing director of Oficemen – Spanish Association of Cement Manufacturers –, the philosopher and writer Eugenio Trias and Domingo Jiménez Beltrán, member of the European Commission for the Environment. In his speech, Rafael Fernández Sánchez highlighted the growing social concern regarding climate change, atmospheric pollution, as well as the depletion of natural

resources. The representative of Oficemen affirmed that the Spanish cement sector is moving towards sustainable development, with the use of concrete being one of the more pertinent examples, given its durability, resistance to fire and future adaptability. Rafael Fernández Sánchez used his turn in the Session organized by Cementos Rezola to announce the signing of an agreement between the Spanish cement industry and the Ministry of the Environment to seek the rational use of energy, the use of alternative fuels and the regeneration of quarries, amongst other aspects. For his part, Domingo Jiménez Beltrán considered that sustainable development is a promising concept, which is closely linked to the quality of life for everyone, both now and in the future. In his opinion, “the future will require less building and more rebuilding.”

n occasione della XX Esposizione Internazionale “La memoria e il futuro” la Triennale di Milano ha bandito la prima Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana, evento con cadenza triennale che intende promuovere le più interessanti opere architettoniche realizzate in Italia e i protagonisti che le rendono possibili. L’istituzione di questo premio punta alla promozione pubblica dell’architettura contemporanea come costruttrice di qualità ambientale e civile, ed insieme guarda all’architettura come prodotto di un dialogo vitale tra progettista, committenza e imprese. I sei vincitori, scelti dalla giuria composta da Giancarlo De Carlo, Pio Baldi, Gillo Dorfles, Kurt Forster, Henk Hartzema, Vittorio Magnago Lampugnani, Luca Molinari, Alexander Tzonis, sono stati selezionati tra 425 opere realizzate tra il 1995 e il 2003 – proposte tramite autocandidatura o attraverso le segnalazioni degli advicers. La giuria ha suddiviso l’assegnazione dei premi in cinque diverse sezioni: Medaglia d’Oro all’opera, Medaglia d’Oro all’opera prima, Medaglia d’Oro alla committenza pubblica, Medaglia d’Oro alla committenza privata, Medaglia d’Oro alla critica. Ad Umberto Riva è stata assegnata la Medaglia d’Oro all’opera per il progetto del nuovo edificio industriale della Fincantieri a Pozzuoli, che ha affrontato il problema dell’inserimento nel Golfo di Castellammare di Stabia di una nuova officina per la costruzione di navi. Il progetto cerca di attuare una doppia relazione: da una parte

si rapporta all’orizzonte del Golfo e al profilo della montagna che si affaccia sul mare, dall’altra cerca di intervenire nella compromessa situazione ambientale. Con questo riconoscimento viene sottolineata la qualità civile e la sensibile costanza nella ricerca progettuale portata avanti da Umberto Riva in questi ultimi decenni e il contributo dato alla cultura architettonica italiana. È stata inoltre valutata positivamente l’attenzione data a un tema raramente affidato alla progettazione architettonica qualificata e la capacità dell’edificio di essere nuovo segno territoriale e insieme un corpo di fabbrica capace di relazionarsi con il paesaggio naturale e artificiale circostante. La mostra di questa prima edizione della Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana – sponsorizzata da Italcementi – presenta i progetti dei vincitori e finalisti attraverso opere, modelli, fotografie, in un insieme dinamico e vivace, ed è pensata come mostra itinerante che sarà in tournèe in Italia e all’estero. L’obiettivo è quello di presentare l’architettura contemporanea realizzata in Italia non solo agli addetti ai lavori ma anche al grande pubblico. L’istituzione di tale Premio rappresenta il primo importante passo per continuare in un lavoro di costante monitoraggio e promozione di quanto si costruisce e progetta in Italia. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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he Milan Triennial launched the first Gold Medal for Italian Architecture at the 20th International Exhibition entitled

“La memoria e il futuro” (Memory and the Future), a three-yearly event designed to promote the most interesting works of architecture built in Italy and the people who make them possible. This prize was set up to publicly promote modern-day architecture as a means of enhancing the environment and society in general. It treats architecture as a product of vital interaction between designer, client and contractors. The six winners chosen by the jury composed of Giancarlo De Carlo, Pio Baldi, Gillo Dorfles, Kurt Forster, Henk Hartzema, Vittorio Magnago Lampugnani, Luca Molinari and Alexander Tzonis were selected from 425 works built between 1995 and 2003 – either put forward by the architects themselves or proposed by special advisors. The jury divided the prizes into five different sections: Gold Medal for the best work, Gold Medal for the first work, Gold Medal to public customers, Gold Medal to private customers, and Gold Medal to critics. Umberto Riva won the Gold Medal for the best work for his architectural design of the new industrial building for Fincantieri in Pozzuoli, that tackled the problem of incorporating a new shipbuilding yard in the Gulf of Castellammare di Stabia. The project attempts to set up two sorts of relations: on one hand it interacts with the Gulf’s horizon and mountainscape overlooking the sea, and on the other it tries to salvage something from the general state of environmental decay. This award underlines the civil quality and notable constancy in the design experimentation

Umberto Riva has carried out over the last few decades and his contribution to Italian architecture in general. Appreciation was also expressed for his attention to a theme rarely tackled by highquality architectural design, as well as the building’s role as a new landmark and factory building capable of relating to its natural and artificial surroundings. The exhibition of this first Gold Medal for Italian Architecture – sponsored by Italcementi – displays the winning and finalist projects featuring works, models and photographs in a bright and dynamic composition designed to be a traveling exhibition in Italy and abroad. The idea is to present modernday architecture built in Italy to both operators in the sector and also the general public at large. The setting up of this Prize is the first important step towards constantly monitoring and publicizing everything being designed and built in Italy. Umberto Riva alla Triennale di Milano, in occasione della premiazione per la Medaglia d’Oro all’opera.

Umberto Riva at Milan Triennial, on the occasion of the award ceremony for the Gold Medal for the best work.

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Da sinistra a destra: Alvaro Amann (Ministro regionale dei Trasporti e dei Lavori Pubblici del Governo Basco), Domingo Jiménez Beltrán (membro della Commissione Europea per l’Ambiente), Eugenio Trias (filosofo e scrittore), César Pelli (architetto argentino), Rafael

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Fernández Sánchez (Direttore di Oficemen Associazione Spagnola dei Produttori di Cemento), Jose Maria Echarri (Presidente Onorario di Financiera y Minera), Hervé de Saint Pierre (Presidente di Financiera y Minera).

From left to right: Alvaro Amann (Regional Minister of Public Works and Transport of the Bask Government), Domingo Jiménez Beltrán (member of the European Commission for the Environment), Eugenio Trias (philosopher and writer), César Pelli (Argentine architect), Rafael Fernández

Sánchez (Managing Director of Oficemen – Spanish Association of Cement Manufacturers), Jose María Echarri (Financiera y Minera’s Honor Chairman), Hervé de Saint Pierre (Financiera y Minera’s Chairman).

Triennale di Milano: Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana Milan Triennial: Gold Medal for Italian Architecture

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wo years after it held the I Session, which closed the program of events commemorating its 150th Anniversary, Cementos Rezola has once again gathered, in Bilbao (Spain), leading experts for its II Session on “Infrastructures and Construction for a Sustainable Development in the 21st Century.” The aim of this encounter was to further the review and in-depth analysis of concepts that were already at the forefront in the I Session, such as Architecture and Urban Development; Technology and New Materials; Ethics and Sociology, and the Environment. The II Session “Infrastructures and Construction for a Sustainable Development in the 21st Century,” which was held at the Palacio Euskalduna Music and Conference Center in Bilbao on 20 February 2003, provided an opportunity for the exchange of ideas and a measured and professional debate, as well for Cementos Rezola to renew its commitment to Sustainable Development. Noteworthy amongst those speakers invited to this Session was the presence of the Argentine architect César Pelli, who set out the key aspects of his latest projects; large urban complexes designed to improve the quality of life of their inhabitants. According to Pelli, “the aim of the design, the management and the maintenance of these intelligent buildings is to safeguard public health, encourage contact, interaction and communication, improve security and be more respectful to the environment.” César Pelli, responsible for one

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of Bilbao’s most ambitious projects so far in urban development and organization, outlined a series of public and private buildings designed by his team, in which specific materials and designs are used in order to reduce the consumption of energy, water or heating and to make maximum use of existing natural resources such as water, natural light or solar energy. Amongst these projects is the Tower for the Regional Council of Bizkaia, which rising to a height of 160 meters will become one of the tallest buildings in Spain. César Pelli also referred to the development of an office block in Toledo (United States), which was completed three years ago, and designed to be the “workplace of the future.” The original complex consists of three floors connected by stairs with the aim of facilitating contact between the employees. This Argentine architect, now

settled in the United States, has also designed a building in the northern part of New York, and now under construction, which has been declared highly sustainable. It includes photovoltaic cells and it treats its own wastewaters so that they may be used, for example, for watering the gardens. The event, which was introduced and chaired by the radio journalist Iñaki Gabilondo, was also attended by Rafael Fernández Sánchez, managing director of Oficemen – Spanish Association of Cement Manufacturers –, the philosopher and writer Eugenio Trias and Domingo Jiménez Beltrán, member of the European Commission for the Environment. In his speech, Rafael Fernández Sánchez highlighted the growing social concern regarding climate change, atmospheric pollution, as well as the depletion of natural

resources. The representative of Oficemen affirmed that the Spanish cement sector is moving towards sustainable development, with the use of concrete being one of the more pertinent examples, given its durability, resistance to fire and future adaptability. Rafael Fernández Sánchez used his turn in the Session organized by Cementos Rezola to announce the signing of an agreement between the Spanish cement industry and the Ministry of the Environment to seek the rational use of energy, the use of alternative fuels and the regeneration of quarries, amongst other aspects. For his part, Domingo Jiménez Beltrán considered that sustainable development is a promising concept, which is closely linked to the quality of life for everyone, both now and in the future. In his opinion, “the future will require less building and more rebuilding.”

n occasione della XX Esposizione Internazionale “La memoria e il futuro” la Triennale di Milano ha bandito la prima Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana, evento con cadenza triennale che intende promuovere le più interessanti opere architettoniche realizzate in Italia e i protagonisti che le rendono possibili. L’istituzione di questo premio punta alla promozione pubblica dell’architettura contemporanea come costruttrice di qualità ambientale e civile, ed insieme guarda all’architettura come prodotto di un dialogo vitale tra progettista, committenza e imprese. I sei vincitori, scelti dalla giuria composta da Giancarlo De Carlo, Pio Baldi, Gillo Dorfles, Kurt Forster, Henk Hartzema, Vittorio Magnago Lampugnani, Luca Molinari, Alexander Tzonis, sono stati selezionati tra 425 opere realizzate tra il 1995 e il 2003 – proposte tramite autocandidatura o attraverso le segnalazioni degli advicers. La giuria ha suddiviso l’assegnazione dei premi in cinque diverse sezioni: Medaglia d’Oro all’opera, Medaglia d’Oro all’opera prima, Medaglia d’Oro alla committenza pubblica, Medaglia d’Oro alla committenza privata, Medaglia d’Oro alla critica. Ad Umberto Riva è stata assegnata la Medaglia d’Oro all’opera per il progetto del nuovo edificio industriale della Fincantieri a Pozzuoli, che ha affrontato il problema dell’inserimento nel Golfo di Castellammare di Stabia di una nuova officina per la costruzione di navi. Il progetto cerca di attuare una doppia relazione: da una parte

si rapporta all’orizzonte del Golfo e al profilo della montagna che si affaccia sul mare, dall’altra cerca di intervenire nella compromessa situazione ambientale. Con questo riconoscimento viene sottolineata la qualità civile e la sensibile costanza nella ricerca progettuale portata avanti da Umberto Riva in questi ultimi decenni e il contributo dato alla cultura architettonica italiana. È stata inoltre valutata positivamente l’attenzione data a un tema raramente affidato alla progettazione architettonica qualificata e la capacità dell’edificio di essere nuovo segno territoriale e insieme un corpo di fabbrica capace di relazionarsi con il paesaggio naturale e artificiale circostante. La mostra di questa prima edizione della Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana – sponsorizzata da Italcementi – presenta i progetti dei vincitori e finalisti attraverso opere, modelli, fotografie, in un insieme dinamico e vivace, ed è pensata come mostra itinerante che sarà in tournèe in Italia e all’estero. L’obiettivo è quello di presentare l’architettura contemporanea realizzata in Italia non solo agli addetti ai lavori ma anche al grande pubblico. L’istituzione di tale Premio rappresenta il primo importante passo per continuare in un lavoro di costante monitoraggio e promozione di quanto si costruisce e progetta in Italia. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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he Milan Triennial launched the first Gold Medal for Italian Architecture at the 20th International Exhibition entitled

“La memoria e il futuro” (Memory and the Future), a three-yearly event designed to promote the most interesting works of architecture built in Italy and the people who make them possible. This prize was set up to publicly promote modern-day architecture as a means of enhancing the environment and society in general. It treats architecture as a product of vital interaction between designer, client and contractors. The six winners chosen by the jury composed of Giancarlo De Carlo, Pio Baldi, Gillo Dorfles, Kurt Forster, Henk Hartzema, Vittorio Magnago Lampugnani, Luca Molinari and Alexander Tzonis were selected from 425 works built between 1995 and 2003 – either put forward by the architects themselves or proposed by special advisors. The jury divided the prizes into five different sections: Gold Medal for the best work, Gold Medal for the first work, Gold Medal to public customers, Gold Medal to private customers, and Gold Medal to critics. Umberto Riva won the Gold Medal for the best work for his architectural design of the new industrial building for Fincantieri in Pozzuoli, that tackled the problem of incorporating a new shipbuilding yard in the Gulf of Castellammare di Stabia. The project attempts to set up two sorts of relations: on one hand it interacts with the Gulf’s horizon and mountainscape overlooking the sea, and on the other it tries to salvage something from the general state of environmental decay. This award underlines the civil quality and notable constancy in the design experimentation

Umberto Riva has carried out over the last few decades and his contribution to Italian architecture in general. Appreciation was also expressed for his attention to a theme rarely tackled by highquality architectural design, as well as the building’s role as a new landmark and factory building capable of relating to its natural and artificial surroundings. The exhibition of this first Gold Medal for Italian Architecture – sponsored by Italcementi – displays the winning and finalist projects featuring works, models and photographs in a bright and dynamic composition designed to be a traveling exhibition in Italy and abroad. The idea is to present modernday architecture built in Italy to both operators in the sector and also the general public at large. The setting up of this Prize is the first important step towards constantly monitoring and publicizing everything being designed and built in Italy. Umberto Riva alla Triennale di Milano, in occasione della premiazione per la Medaglia d’Oro all’opera.

Umberto Riva at Milan Triennial, on the occasion of the award ceremony for the Gold Medal for the best work.

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Italcementi Group: utile consolidato 2002 a 357 milioni di euro (+26%) Italcementi Group: 2002 consolidated net income at 357 million euro (+26%)

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esercizio 2002 ha evidenziato a livello consolidato un incremento del fatturato da 4.063 milioni di euro a 4.262 milioni di euro (+4,9%) e un margine operativo lordo di 1.109 milioni di euro (+7,8%). Il risultato operativo di 711 milioni di euro è aumentato dell’8,7% rispetto al 2001 (16,7% dei ricavi). L’utile totale consolidato è stato di 357 milioni di euro (+ 26,2%), mentre l’utile di pertinenza del Gruppo è salito a 274 milioni di euro (+36,1%). Per il sesto anno consecutivo il Gruppo Italcementi ha realizzato una netta crescita dei risultati. Il miglioramento della gestione operativa è stato sostenuto da un livello globalmente buono dell’attività e dal conseguimento degli obiettivi di riduzione dei costi operativi pianificati per il biennio trascorso. Il maggior apporto al miglioramento dei risultati di gestione è venuto dall’Unione Europea, in particolare da Italia, Spagna e Grecia. Un contributo significativo è stato anche fornito da Marocco e Bulgaria. A parità di perimetro e tassi di cambio, il Nord America ha evidenziato una sostanziale tenuta, mentre la redditività in India e Thailandia è stata fortemente condizionata dall’andamento negativo dei prezzi di vendita. Nel corso dell’esercizio 2002 è proseguita la strategia di espansione del Gruppo nei paesi emergenti ad alto potenziale di crescita e sono stati realizzati importanti investimenti connessi ad operazioni finanziarie e di riorganizzazione societaria. In India il Gruppo ha rafforzato la propria presenza con l’acquisizione, tramite Zuari Cement, di una partecipazione del 96,2% nella società cementiera Sri Vishnu Cement nello stato dell’Andhra Pradesh. In Turchia il Gruppo ha acquistato la società Marmara Cimento, che dispone di un terminale con impianto di macinazione di clinker dalla

capacità annua di circa 700 mila tonnellate, contiguo all’unità di Ambarli (Istanbul). In Egitto la subholding per le attività internazionali Ciments Français ha acquistato un ulteriore 2,8% del capitale sociale di Suez Cement Company, elevando la sua partecipazione a oltre il 34%. In Thailandia in aprile si è conclusa l’offerta pubblica d’acquisto lanciata da Asia Cement Public Company (ACC) sulle azioni di Jalaprathan Cement Public Company (JCC). ACC ha effettuato successivi acquisti di azioni e ha lanciato una seconda offerta prima del delisting di JCC dalla Borsa di Bangkok, avvenuto lo scorso 3 dicembre. Negli Stati Uniti è stato formalizzato l’acquisto da parte di Essroc dell’intero capitale sociale di Riverton Investment Corporation. In Marocco Ciments du Maroc ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto sulle proprie azioni conclusasi alla fine di giugno con l’adesione di circa il 9,5% del capitale sociale. A seguito di tale operazione, il Gruppo controlla il 61,8% di Ciments du Maroc (56,1% al 31 dicembre 2001). Ciments Français ha lanciato un’offerta pubblica d’acquisto su azioni ordinarie della controllata greca Halyps Building Materials e si è impegnata ad acquistare sul mercato 339.821 azioni preferenziali (1,58% del capitale sociale). L’offerta si è conclusa nel settembre 2002 ed è stata successivamente avviata la procedura di delisting di Halyps Building Materials dalla Borsa di Atene conclusasi in dicembre. Ciments Français ha raggiunto il 99,64% delle azioni ordinarie e il 99,49% delle azioni preferenziali. Nel corso dell’esercizio la capogruppo Italcementi ha incrementato la propria partecipazione in Ciments Français di complessive 1.396.652 azioni. Al 31 dicembre 2002 la partecipazione complessiva detenuta in Ciments Français era

pari al 71,8%. Successivamente alla chiusura dell’esercizio Italcementi ha incrementato la propria partecipazione indiretta portandola, al 28 febbraio 2003, al 73,7. ■ ■ ■ ■ ■ ■

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onsolidated results for financial 2002, showed an increase in net sales from 4,063 million euro to 4,262 million euro (+4.9%) and gross operating profit of 1,109 million euro (+7.8%). Operating income of 711 million euro increased by 8.7% compared to 2001 (16.7% on net sales). Total consolidated net income was 357 million euro (+26.2%), while Group net income rose to 274 million euro (+36.1%). For the sixth year running, Italcementi Group reported a sharp increase in results. The improvement in operations was supported by globally good business levels and success in meeting operational cost reduction targets over the last two years. The strongest contribution to the improvement in operating results came from the European Union, specifically from Italy, Spain and Greece. Significant contributions also came from Morocco and Bulgaria. At constant size and exchange rates, performance in North America was stable, while profitability in India and Thailand was heavily affected by the negative trend in sales prices. During 2002, the Group continued its strategic expansion in high growth potential emerging countries and implemented relevant investments related to financial operations and corporate re-structuring. In India it strengthened its position with the acquisition, through Zuari Cement, of a 96.2% stake in Sri Vishnu Cement, a cement company located in the state of Andhra Pradesh. In Turkey, the

Group acquired the Marmara Cimento company, which has a terminal with a clinker grinding plant next to the Ambarli unit (Istanbul) with an annual capacity of approximately 700,000 metric tons. In Egypt, Ciments Français, the sub-holding for the Group’s international operations, increased its stake in Suez Cement Company by 2.8% to more than 34%. In Thailand, April saw the close of the public tender offer launched by Asia Cement Public Company (ACC) for the shares of Jalaprathan Cement Public Company (JCC). ACC acquired further shares and launched a second tender offer before JCC’s delisting from the Bangkok Stock Exchange on 3 December. In the USA, Essroc finalized its acquisition of the entire share capital of Riverton Investment Corporation. In Morocco, Ciments du Maroc launched a public tender offer on its own shares, which closed at the end of June with an uptake of approximately 9.5% of share capital. As a result of this operation, the Group now holds 61.8% of Ciments du Maroc (56.1% at 31 December 2001). Ciments Français launched a public tender offer on the ordinary shares of the Greek subsidiary Halyps Building Materials and undertook to purchase 339,821 preferred shares (1.58% of share capital). The tender offer closed in September 2002 and was followed by the delisting, completed in December, of Halyps Building Materials from the Athens Stock Exchange. Ciments Français now controls 99.64% of ordinary shares and 99.49% of preferred shares. During the year, the parent company Italcementi increased its stake in Ciments Français by a total of 1,396,652 shares. At 31 December 2002, Italcementi held 71.8% of Ciments Français. Since 2002 year-end, Italcementi has again raised its stake to 73.7% of equity as at 28 February 2003.




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