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Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA
Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA
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per Enrico Landi
ARGO N. 18 / H2O Rivista di esplorazione fondata nel 2000 registrata al Tribunale di Bologna N.7393 del 22/12/2003 con il Patrocinio dell'Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia Equipaggio Direttore Responsabile: Marco Benedettelli [marco.benedettelli@argonline.it] Caporedattori: Filippo Furri [filippo.furri@argonline.it], Tommaso Gragnato [tommaso.gragnato@argonline.it] Curatore Collana Editoriale Argo: Valerio Cuccaroni [valerio.cuccaroni@argonline.it] Redazione: Silvia Albanese [silvia.albanese@argonline.it], Simone Colombo [simonecolombo23@gmail.com], Giulia Ferrandi [ferrandi.giulia@gmail.com], Filippo Furri [filippo.furri@argonline.it], Eleonora Di Erasmo, Alessandro Giammei [alessandrogiammei@gmail.com], Paolo Marasca, Giuseppe Merico [www.scrivoeleggo.splinder.com], Samuel Manzoni [samuel.manzoni@argonline.it], Andrea Marcellino [andrea.marcellino@argonline.it], Paolo Tarsi [paultarsi@hotmail.it] Redazione Poesia Caporedattore: Rossella Renzi [rossella.renzi@argonline.it] Redattori: Manuel Cohen [manco_roma@yahoo.it], Lorenzo Franceschini [france.lorenzo@argonline.it], Gianni Montieri [g.montieri@gmail.com], Christian Sinicco [sinicco@gmail.com] Redazione di Kyoto Caporedattore: Daniela Shalom Vagata [shalomdan@hotmail.com] Collaboratori: Oliver Rahman, Tsutomu Yosihida “Tutti” Collaboratori: Franco Arminio, Nicola Barilli, Rita Levoni Bemposti, Luigi Bernardi, Francesca Bertolani, Lorenzo Biagini, Anna Lamberti Bocconi, Giacomo Bottà, Giulia Brecciaroli, Filippo Brunamonti, Nicoletta Bucciarelli, Arturo Cinaschi, Elena Cirioni, Manuel Cohen, Geraldina Colotti, Claudio Emme, Oscar Fuà, Marco Giovenale, Elena Latini, Pascal Leclercq, Marcus L [www.myspace.com/occhiovolante], Gilberto Mastromatteo, Giuseppe Merico, Michela Murgia, Fabio Orecchini, Natalia Paci, Michele Pedrazzi, Massimiliano Santarossa, Ivan Tagliaferri, Gabriele Tinti, Wu Ming 2 [www.wumingfoundation.com] * Curatori n.18: Filippo Furri, Tommaso Gragnato Progetto artistico: Daniela Shalom Vagata, Eleonora Di Erasmo Copertina: Mattia Santini Tirocinante: Ilaria Gubinelli Hanno collaborato a questo numero: Ivan Arillotta, Alberto Avrese, Gherardo Bortolotti, Roberto Buvalelli, Evita Ciri, Ugo Coppari, Camilla Corsellini, Silvia Cosimini, Erri De Luca, Eleonora Di Erasmo, Gabriela Fantato, Giovanni Fierro, Carmen Gallo, Francesca Genti, Moncef Ghachem, Biagio Guerrera, Nadja Krupp, Franca Mancinelli, Luca Manucci, Samuel Manzoni, Paolo Marasca, Francesca Maschiella, Susanna Mati, Ugo Mattei, Luciano Mazziotta, Alessandra Minio, Tobias Mohn, Gabriella Montanari, Renata Morresi, Giuseppe Munforte, Gabriella Mussetti, Michele Ortore, Marianita Palumbo, Gianguido Palumbo Pagi, Angelica Paolorossi, Mario Panzieri, Chiara Pedrini, Isabel Peres Martins, Andrea Pomella, Nicola Rainò, Christian Sinicco, Carlos Solito, Anna Maria Tamburini, tojo perron, Tsutomu Yoshida “Tutti”, Marco Villari, Livia Vitenti Un grazie particolare a Beth Bevan e Giulia Ferrandi La foto di copertina è di Oskar Landi © Grazie a: gli abbonati; Ale, Giovanni, Aura, Francesco e l’appartamento di via Azzo Gardino; Lisa Accordi; Teresa Albanese; Maria Teresa Amodeo; Anna Rosa Angelone; Arci Ancona (in particolare Barbara Laconi, Chiara Malerba, Federico Pesciarelli); Associazione Gli Ammutinati; Patrizia Baggio di La Corte Ospitale; Barassociazione Culturale Malacarne; B.I.R.R.A. (in particolare Michele Barbolini); Philip Blackburn; Gianluca Busilacchi; Massimo Canalini; Elisa de Carli di Teatro Valdoca; Valeria Cevolani; Sara Chiappetti; Teresa Ciancio, Elena Ciappesoni, Mauro Cicarè, Claudio Comandini; Antonino Contiliano; Gabriella Esposito; Stefan Giftthaler; Valentina Giuliodori; Andrea Inglese; Innocarne; Innova Recordings (http://www.innova.mu); Yael Leibel; Franco Limardi; Alessandro Longo; Libreria Coop Bologna; Libreria Modo Infoshop; Libreria Il Portico; Libreria Metro; Manzanilla MusicaDischi; Sauro Marini; Ann Millikan; Luce Montesi; Giuseppe Nava; Osteria Nosetta; Natalia Paci; Niryis Pouscoulous; Flavio Raccichini; Radio Città Fujiko (in particolare Alessandro Canella e Alfredo Pasquali); Massimo Raffaeli; Mosè Risaliti; Gino Ruozzi; Silvia Sacco Stevanella; Roberto Saporito; Federico Solmi; Spazio Indue; Adriana Stecconi Biagiarelli; Marina Sozzi; Suoni Quotidiani; Uaar Ancona; Unorsominore; Leonardo Venturi di Teatro Everest; Vladimiro il violinista; Nieuwe Kunst Ensemble (Diego Donati, Enrico Landi, Elisa Lazzarini, Giulia Lazzarini, Gabriella Gaudino, Susy Riminucci, Paolo Tarsi); tutti gli autori non citati di materiale non pubblicato; tutti coloro che ci hanno scritto. Editore: Cattedrale, corso Garibaldi 96, 60100 Ancona Proprietà e Corrispondenza: Associazione NIE WIEM, C.P. 138, 60127 Ancona Centro [www.niewiem.org] Sede della redazione di Kyoto: c/o Daniela Shalom Vagata, University of Kyoto, Faculty of Letters, Department of Italian Language and Literature, 606-8501 Yoshida Honmachi, Sakyo-ku, Kyoto-shi, Japan Questo numero è stato realizzato in crowdfunding attraverso produzionidalbasso.com con il sostegno di: Armandi Anke, Baldi Martino, Bob Meanza, Buratta Andrea, Cuccaroni Giacomo, Matteo Danieli, Dellai Andrea, Di Erasmo Paolo, Domenichini Stefano, Furri Niccolò, Gatti Arrigoni Francesca, Gianmarchi Cinzia, Gilebbi Matteo, Granata Eleonora, Graziani Graziano, Guadagno Viviana, Lepretti Andrea, Manzo Maurizio, Mensitieri Giulia, Micucci Orlando, Montanari Gabriella, Ponsini Andrea, Paci Barbara, Paci Massimo, Pancaldi Irene, Piatanesi Alessio, Ratti Beppe, Rossi Elena Giulia, Ruzza Ilaria, Sacco Stevanella Silvia, Salvini Anna, Severo Marta, Socci Luigi, Straha Leona, Tonelli Giancarlo, Tosatti Ada, Tralli Eugenio, Trapani Sergio, Vinay Paola, Zordan Barbara, et alii. Sito: www.argonline.it e-mail: argo@argonline.it Argo aderisce alla rete Tribù d’Italia: www.tribuditalia.it Argo si può trovare un po’ ovunque, ma se non volete impazzire a cercarla ve la spediamo a casa. Ogni numero costa 10 euro, spese postali incluse. Per ordinare la rivista o sottoscrive un abbonamento, contattate marco.benedettelli@argonline.it. Chi acquista Argo aderisce alla nostra campagna di sostegno. Maggiori informazioni su: www.argonline.it. Per facilitarvi la ricerca andremo in giro per l’Italia a presentare questo numero con spettacoli e incontri. Per l’Argotour 2013 consultate il nostro sito e la pagina facebook Argo Ogra.
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diario di bordo Spesso immagino di togliere il suono alla gente seduta in metropolitana. È così che sente un pesce? Senza sonoro tutto avviene a rallentatore. Imparo a leggere le labbra, a guardare i gesti e le espressioni, i movimenti delle braccia. I passeggeri ondeggiano muti verso i vagoni, saldi ai sostegni, sobbalzano all’unisono come alghe sbattute dalle correnti. Si lasciano sfilare particelle dal moto ondoso mentre esercitano le branchie nelle apnee tra le stazioni, con il cicalio delle aperture e gli svuotamenti dalle serrate idrauliche. La vita è piena di suoni e mi è chiaro, anche l’acqua ha il suo. Ne sento l’eco risalire gorgheggiante dal fondo del treno, oltre il tunnel. Il suo peso mi ovatta i timpani e la gente intorno mi appare più grande, col viso sproporzionato e sorridente. Sembra che oltre la pelle che corazza i volti delle donne e degli uomini intorno a me, emergano dei sorrisi come bolle. L’acqua mi parla, mentre un’arsura cocciuta mi impasta la bocca e la gola. Ho sete, ho bisogno di bere, bere a lunghe sorsate, ingollando acqua gelida giù giù attraverso l’esofago, dentro lo stomaco che si gonfia, si rifornisce e distribuisce il liquido, mi rabbocca come una panciuta bottiglia. Esco dal treno. Sono su un prato, le montagne intorno mandano riverberi di luce minerale fino al cielo dove galleggia un nebuloso oceano capovolto. Di fronte a me c’è un lago, antico milioni di anni, più vecchio delle rocce su cui giace. È grande come un occhio, un’iride di memoria preistorica incastonata tra le vette. L’acqua immobile riflette il paesaggio e riflette il mio viso; se una brezza leggera l’increspa e spiega le vele, o un’elica la scuote lo specchio si rompe senza suono e l’immagine restituita è spezzata, scomposta, deformata. L’acqua frantuma il suo doppio, l’altro da sé che ti guarda con occhi che conosci. La vita scorre, mentre l’acqua immobile – quando accade – è di una bellezza lucente. Immagino di partire, staccarmi dalla riva e abbandonare questo corpo che come un sacco di sangue mi porto a spasso tutto il giorno in uno sbilenco equilibrio. Lasciare alla terra le mie spoglie secche, immergermi nell’acqua, fin sotto l’acqua, e nuotarvi dentro, in silenzio. Il lago antichissimo, fra le cime delle montagne, si dilata amplificato dalle mie bracciate. La sua dimensione orizzontale non lascia scampo, riempie la mente di allucinazione, richiama dagli abissi mostri marini dalle squame aguzze e policrome come cocci di vetro a graffiarmi i piedi se mi fermo a galleggiare. La sua massa oleosa e VII
turchina, profonda come il cielo, mi chiama verso terre sconosciute, verso coste inimmaginabili, popolate di città trasparenti e labirintiche. Preso dal mare affondo, ma è solo per gioco. È come un lasciarsi cadere, divenire angelo leggero, che ad ali divaricate s’inabissa nel vuoto. Come nella vasca da bagno, quando da bambino tappavo il naso e immergevo la testa, fino a trasformarmi in un palombaro dei fondali di maiolica. I rumori sono ottusi, ampi e ridotti all’eco di loro stessi, le distanze tradiscono l’occhio e la mano che si sporge dal corpo. Immergersi significa accettare un altro peso del corpo, un’altra gravità, significa sposare un’altra logica, un’altra grammatica della vita. Significa immaginarsi orchestra e suonare sul ponte mentre il transatlantico affonda – come nel Titanic di Brayars. E immergersi è sempre purificarsi. Mi sporgo sull’abisso, come un gatto ci infilo dentro le zampe con un misto di desiderio e paura. Voglio pescare le creature misteriose che popolano l’oscurità in branchi argentati, in vortici di colore tropicale scintillante. Ma non sono mai semplici le risposte degli abissi, né con la pressione crescente si può parlare alle sirene. È difficile comprenderle e mentre si tenta di decifrarne il suono, il tempo si dilata in un sogno blu continuo. Ora che sono partito l’acqua è come una guaina calda, è un passaggio di cui ho cristallina coscienza. La riconosco, esisteva prima di me, è nata con me, ci sarà dopo. Scorro dentro il fiume della vita. Nel viaggio mi volto e fisso la scia schiumosa che si richiude dietro di me. L’acqua nutre l’animale e la terra, lo disseta e la imbeve, preziosa più di ogni altro elemento genera e protegge la vita e la alimenta attraversandola, in cicli di trasformazione biologici e ambientali. L’acqua culla la vita, la contiene e la nasconde. L’acqua non si tiene in pugno, gocciola via, scompare: lei è il tempo, alla sua spinta essenziale non ci si oppone, è una clessidra liquida. In lei è il confine tra le cose conosciute e il mare aperto, tra il ruscello e la cascata che spacca la terra, tra lo stagno e l’abisso; è abitata da esseri magici, emissari delle divinità acquatiche, terribili mostri dalle fattezze seducenti e da elementi naturali che racchiudono il segreto del passaggio. La goccia che permea si infila, si insinua, si lascia accogliere da membrane e porosità, scivola sull’impermeabile lo circonda. Tutto scorre, l’acqua metafora della vita, l’acqua di Talete che viene prima di tutto, l’acqua che è un bene di tutti. La memoria dell’acqua, la sua voce, la sua regola. Qui sta. Sotto l’affresco di Chagal all’Opera Garnier di Parigi, va in scena Sérénade di Tchaikovski con la coreografia di Balanchine: lo sfondo blu notturno accoglie figure e movimenti classici, corpi – blu sinuosi che si incontrano e si accompagnano. Fino a un passo a tre, lungo e aggrovigliato, dove i tre danzatori, un uomo e due donne, diventano gocce d’acqua, poi una molecola unica H-O-H. Il legame idrogeno, il nucleo della vita, les Liasons Hydrogènes.
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Talete di Enrico Baj da Idraulica, Skira 2002 per gentile concessione eredi Baj. IX
itinerario numero blu diario di bordo VII
I - anima mundi Susanna Mati divagazione su linfatismo e ninfolessia Gabriela Fantato dieci passi nell’acqua IV / V Roberto Buvalelli tornada Franca Mancinelli un letto di sassi / un bicchiere d’acqua frammenti - segui # argo art projects Francesca Maschiella la terapia amniotica Giovanni Fierro piccola verità / dove stare / sabotino Mario Panzieri h2o fugit Nicola Rainò, Chiara Pedrini (a cura di) kalevala runo I Alessandra Minio tutto in due atomi di idrogeno e uno di ossigeno Marco Villari renversements epistemologici dalla transverberzione di Teresa d’Avila al racconto mitico di Zeus e Metis Nadja Krupp barchessa Gabriella Mussetti haiku Rossella Renzi quando l’acqua rompe l’argine del tempo Carmen Gallo ophelia - magdalene Gianguido Palumbo Pagi il pozzo è donna l’impegno di AMREF dal Kenia a Roma Samuel Manzoni partitura d’un osservatore di onde Gabriela Fantato isola di Karpatos IV / V / XII Andrea Pomella come vincere la paura dell’acqua progetto water resistant Paolo Tarsi (a cura di) water jukebox album
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II - panta rei Marco Benedettelli Pacifico Filippo Furri l’orizzonte mediterraneo Marianita Palumbo, Tobias Mohn frammenti odeporici a due ruote tra Marocco, Mauritania, Guinea Gabriela Fantato isola di Karpatos VI / IX Gabriela Fantato dieci passi nell’acqua I Eleonora Di Erasmo Zineb Sedira nel mare del non ritorno Giovanni Fierro Filippo / fare il tempo Valerio Cuccaroni la rivoluzione liquida intervista a Ugo Mattei Erri De Luca la formula della vita Michele Ortore sei il mio abisso Gianni Montieri una questione di Salute Christian Sinicco sulle sponde che bruciano la frontiera intervista a Moncef Ghachem e Biagio Guerrera Michele Ortore amare i paraventi Nadja Krupp io della barca Giovanni Fierro in alto mare come a terra… l’acqua dolce sta finendo appunti su Marinai, profeti e balene Evita Ciri Pa-ra-da: making of liquido Tobias Mohn water conflict Livia Vitenti le Premiérs Nation e lo sviluppo idroelettrico in Québec Isabel Peres Martins la guerra del agua di Cochabamba Anna Maria Tamburini piedimonte Gabriella Montanari monsone Filippo Furri il passaggio a Nord Ovest un’autostrada del mare lungo i confini del mondo Luca Manucci lo specchio è sabbia salata Tsutomu Yoshida “Tutti” l’acqua in Giappone ovvero della fluidità delle cose Paolo Tarsi la frammentazione del silenzio progetto architecture of waterscape Paolo Tarsi (a cura di) contemporary (&classical) playlist
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III - geoacquario Paolo Marasca la diga Andrea Marcellino tanto vince la natura Giovanni Fierro principio tojo perron cronache sullo stato liquido dell’acqua Francesca Genti pesciolini non ti penso mai / mareggiata Camilla Corsellini pesci d’acqua alta Carlos Solito la geografia del buio Silvia Albanese il mio corpo acquatico Ugo Coppari le briglie del mondo, l’Alzheimer e il valore di un Kinder Bueno Renata Morresi (3 piogge) Giuseppe Munforte Bormida e altre acque Ivan Arillotta dopo la pioggia l’amore Giovanni Fierro la pastura Alberto Avrese tra respiro e respiro Silvia Cosimini cielo terra e mare Luciano Mazziotta problema invernale Marco Benedettelli dormire abbracciati a un tubo Gherardo Bortolotti dentro l’acquario di internet l’ipertesto, la rete e il flusso Filippo Furri il buco nell’ampolla Angelica Paolorossi incontri Paolo Tarsi trasfigurazione musicale di un’alba marina Daniela Shalom Vagata io sono carpa Oliver Rahman crazy bus lady Paolo Tarsi (a cura di) water jukebox songs
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ani ma mun di
Quando si risvegliò stava ancora lì, immersa nel buio di una grotta. Con le mani a terra sgranava dei sassi, tastava il pavimento liscio di roccia erosa, scavata dai millenni. Si mise eretta nel denso nero spesso, a tentoni, intorno annusava aderente le pietrose pareti. Scelse una direzione e decise di fare dei passi. Dormiva da secoli, addormentata e abbandonata, da chi? Ora echi di un risolino cristallino increspavano l’aria, risuonavano nella cavità e in lei con non umane frequenze con anomali ritorni di onde. Come una stella caduta in un nero specchio di pozza, una luce riflessa segnava l’uscita. Si ritrovò nella pozzanghera e subito umida attratta dalla puntiforme sorgente di luce che bucava la volta, evaporò.
divagazione su linfatismo e ninfolessia L’indicibile trivialità di un’effimera forma di pseudofilosofia contemporanea, che denomina se stessa “nuovo realismo”, non si stanca di ribadirci tautologicamente che l’acqua è H2O; cosa che, peraltro, non verrebbe messa in dubbio neppure dal più sfrenato degli ermeneutici. È un esempio, quello dell’acqua, che non viene scelto a caso. Eliminando nevroticamente ogni forma di dimensione simbolica dell’elemento acquatico, ridotto al rozzo materialismo di un’innegabile formula chimica, si esorcizza così la problematicità di un intero immaginario sensibile: in questa visione brutale e volgare, che fine potrebbero fare, ad esempio, le ninfe? Eppure sono proprio queste delicatissime presenze immaginative a costituire non solo il senso dell’acqua, ma la sua stessa anima1. Inebriati dall’acqua, che è come dire affetti dalla purezza, intrappolati dalla trasparenza, catturati dalla più fluida semplicità: così si ritrovano i “presi dalle ninfe”, i nympholeptoi, coloro che formano la lunga catena storica dei ninfolettici, a partire dal filosofo Socrate nel Fedro platonico, fino ad arrivare al professor Humbert Humbert di Lolita di Nabokov. Tutti costoro sono ben consapevoli di aver smarrito il giusto metro del logos a causa del surrealismo ninfale. La ninfa si fa specchio delle parti più incognite dell’anima. La ninfa, si sa, è la divinità infusa nelle pozzanghere, nei rigagnoli lungo i marciapiedi, nelle fonti primigenie e nei vasi da fiori; il suo scopo, mostrandosi, è quello, del tutto illogico e inconcludente, di far perdere la ragione. Magnetizzando gli uomini, li inabissa. Li fa riflettere, specchiare, conoscere se stessi: la limpidezza costituisce la potenza del mesmerismo ninfale. La ninfa è una mise en abîme. La mania è la ragione della ninfa, psyche dell’acqua. Lympha-nympha, linfa/ninfa, l’eau: il suo senso è condurre i mortali al linfatismo, a infilare la testa nell’acquario. Il suo senso è stare in ascolto dell’anima misteriosa della cosa in sé, penetrare al di là della visione immediata delle parvenze, sconquassare il principio di non contraddizione. La ninfa dà filo da torcere alla logica della filosofia, 1 Questo testo, formatosi per associazione d’idee, costituisce una breve variazione al tema del mio libro Ninfa in labirinto, premessa di S. Givone, Moretti & Vitali 2007 (2ª ed.), a cui si rimanda per una (forse) più razionale storia della ninfa e dei relativi riferimenti iconografici, filosofici, letterari.
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ingarbugliando la matassa del discorso. La ninfa gorgoglia nei tubi del riscaldamento delle vecchie case del centro storico; gocciola ossessiva dal rubinetto della vasca da bagno e non ti fa dormire; costituisce all’incirca il 90% del corpo; incuba la vita fin dall’era primaria del mondo. La goccia scava la roccia. E la ninfa, perniciosa, contagiosa, strepitosa, stilla in ogni apparizione del quotidiano: ninfa è perdersi in un bicchier d’acqua; è la fata del fiume e della tazza di tè; è il ruscello in picchiata verso l’ignoto; è la più precipitosa delle decadute. La ninfa è una vena dolente. A volte poggia la testa sul cuscino e prega di non risvegliarsi più. E se la mattina si sveglia, è solo perché il suo termine non è ancora giunto a scadenza. La ninfa è creatura a tutti incomprensibile, e nemmeno si ama tanto da sé; è costantemente oberata da angosce minime e massime. La ninfa tormenta tutto il suo circondario per un nonnulla, e nessuno sopporta questa povera afflitta. La ninfa è una creatura buona, ma nonostante ciò distruttiva. La ninfa si mette sempre in una posizione tale da dover combattere col destino, la più tremenda delle potenze. Per questo è disperata: imbocca esclusivamente strade senza uscita. Pare una fonte quasi eterna, ma in realtà si dissecca di giorno in giorno. La ninfa non vuol passare tutta la vita come Arianna a Nasso, attendendo il dio, o l’onda, che oramai le sono uguali. Dentro il dio ci sarà l’onda, dentro l’onda il dio. La ninfa non crede più alle sue illusioni di purezza, anche se in lei vive una rappresentazione di speranza. Ma la ninfa lo sa, che sarà per sempre sola. L’acquaticità della ninfa è quella di una singola lacrima. La ninfa, paradosso della purezza liquida, non si aspetta nulla dai casi della vita. Vitam regit fortuna, non sapientia, e la Fortuna è una ninfa male-detta. La ninfa cerca di svolgere al meglio la sua particina nell’ordine cosmico; ma ella è e rimarrà sempre solo un trascurabilissimo dettaglio di pathos. La ninfa è una nipotina di Mnemosyne, la grande divinità della memoria, e una figliola della Musa, dea dell’attività spirituale; è una farfalla trafitta da uno spillo e un ritaglio di pubblicità appeso al muro. La ninfa contemporanea si trova esibita nella New York di Sex and the City, o celata in dimensioni privatissime e inappariscenti. Felicità della ninfa non sta nel fare; sta nel non-fare; ovvero nell’essere. Scopo della ninfa è farsi impressionare. La ninfa, divinità di ultima fila, è contenta, in fin dei conti, di quello che è. La ninfa è colei che sorride da sé, e non vuole nulla da nessuno. Felicità della ninfa sta nell’acqua, o in qualche analogo non-luogo. In verità, e come ultima parola, la ninfa può apparire sotto qualunque specie, ma non è nient’altro che una creatura pura, luminosa, limpidissima, che richiede occhi chiari che la guardino e la riconoscano. Qui ha origine il suo gorgo. La ninfa ha in sé la sorgente. Per questo canta anche da sola.
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dieci passi nell’acqua IV Dal fondo il blu chiama, fa eco al nero, lo inventa, invita il tuo corpo all’incontro, all’abbraccio che apre desideri e paure. Sotto le ciglia, la tua vita bambina rimasta dentro la gola. Lascia che sia - accetta il ritorno.
V Ai bordi foglie di acacia selvatica come l’infanzia dove giocano le ombre. Chi raccoglie le voci? Verrà il tempo stretto sotto la corteccia cerebrale dove sei muschio, acqua - solo acqua e un mormorio di cellule senza nome.
(da La materia della voce)
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tornada Il sole sbatte sugli scogli grigi e neri come sciabordasse insieme all’acqua. Alzi gli occhi, e ti ferisce il cielo, lindo, accecante, stirato senza una piega a benedire ogni cosa senza scampo. Anche il mare è pulito e azzurro e quasi trasparente, che è ancora mattina, e le voci lontane s’appoggiano al parlottare delle onde tra le pietre e la posidonia e le alghe brune ondeggiano come i capelli lunghi di chi fa il bagno al pomeriggio. Papà ha ammucchiato un poco di ricci neri sullo scoglio, lucidi come l’ebano, si muovono piano piano, ho imparato che devi guardarli fissi per riuscire a vedere gli aculei spostarsi lentamente come zampette di un condannato a morte. Io so prenderli in mano senza pungermi, i ricci, basta non stringere troppo, e una volta lo dissi a zio quando mi stringeva le spalle e rideva, zio mi fai male, trattami come un riccio, mi fai male così. Zio ha un coltello con la lama grigia dentellata di quando faceva il sommozzatore, e lo usa per spaccare i ricci a metà; poi ci si mette un po’ di acqua di mare e si mangiano le uova arancioni che sanno di salato. C’è un anfratto tra gli scogli dove ogni tanto passano i ghiozzi. Le pinne di gomma nera diventano roventi quando le lasci lì, s’incrostano di sale come lo scoglio e sono ruvide allo stesso modo se per sbaglio ci metti il piede sopra. Però quando poi t’immergi, scivoli nel mare, l’acqua è freschissima e buona. Quello è il momento che amo tantissimo, quando scivolo nel mare e di colpo il mondo sparisce e c’è solo il blu e il silenzio del mio respiro. Tutto ha una luce irreale, l’acqua è fresca e buona. A me piace stare senza respirare, non ho paura di scendere giù, giù, sul fondo, ho anche imparato a non farmi dolere le orecchie, e poi guardare in alto, e vedere la superficie del mare che è diventata una specie di cielo di vetro luminescente e brillante che si muove piano, e non penso a niente ed è bella, tanto bella. Mi aggrappo alle rocce sul fondo per stare a guardarla, è così bello. Non ho voglia di respirare. Sto bene. Allora mi viene da pensare a quando zia dice a zio tu sei nato per stare sott’acqua, passi tutto il tuo tempo lì, e capisco perché. Intanto papà raccoglie i ricci e io ogni tanto gli girello intorno, però gli do fastidio. Di pomeriggio l’acqua è diversa. Diventa lattiginosa come quando si cuociono le cozze. Non so perché, non riesci più a vedere il fondo e dove metti i piedi, devi andare a tatto, a tentoni, per evitare i sassi, e quando ti tuffi senti un silenzio denso. Viene voglia di dormirci dentro, quando il sole si abbassa dietro le colline e tutto diventa arancione e caldo e salato come le uova dei ricci. È l’ora bella per passeggiare, quella, sulla spiaggia, e ci si incontra tutti quelli che amano stare da soli, e si pensa tanto, si guarda il mare e si pensa e si guardano le orme di chi è già passato e si fa attenzione a non ricalcarle. Ogni tanto trovi una conchiglia diversa dalle altre, un ramoscello, un pezzo di corda, che sembrano messi lì apposta da qualcuno per dare qualcosa da pensare a chi passeggia. Sono pensieri buoni, a quest’ora. Non come quando zio mi stringe le spalle. Nessuno ride. Quella volta che avevo sei, o forse sette anni, portavo a mia nonna erbacce raccol5
te al margine dell’asfalto e dicevo nonna ho portato la verdura come nonno, e lei sussiegosa ringraziava, bravo, lasciala qui ora la prepariamo per il pranzo, senza fare una piega. Doveva costarle molto, fingere in quel modo, fingere di non vedere quando parlavano forte e qualcuno ogni tanto mi additava se mangiavo la minestra con la testa china e se dicevo qualcosa o se tacevo. Provavo a sedermi sempre in punti diversi della tavola, magari, pensavo, non additano me. C’erano tante cose da additare su quella tavola, in qualunque angolo mi sedessi. La luce era arancione e salata e le tende bianche leggere della porta del balcone non si muovevano. Il balcone era enorme e lungo da farci le gare di corsa, con le piante e l’inferriata dipinta di bianco e marrone grasso laccato che sembrava crema. I muri si scrostavano di giallo e biancastro. Il nonno però non rideva. Parlava forte anche lui con la voce che sembrava di tela grezza tesa, tirata come quando facevamo le tettoie al mare, verde, legata coi canapi e ogni volta che facevo un nodo lui lo scioglieva e lo rifaceva. Io lo sapevo, lo aspettavo, non poteva essere che così. Come quando si fa una domanda conoscendo già bene la risposta, ma bisogna farla lo stesso, come disse lo scorpione alla rana. Però se ora il nonno fosse qui, a passeggiare sulla spiaggia con me, parlerebbe a voce bassa, lo so. Lui sa parlare a voce bassa, anzi sa parlare senza dire nulla, e quando non dice nulla io so sempre tutto quello che vuole dire. Non si è mai messo a ridere. Ora lo porterei sugli scogli, che lui non sa camminarci e dovrei insegnarglielo passo a passo guidando quelle sue gambe secche scortecciate come i vecchi fichi, un passo alla volta nonno, non ti sbilanciare, guarda me. Guardami, lasciati guidare, che sono trent’anni che tu aspetti di lasciarti guidare da me. Guardami, arriviamo in fondo alla scogliera, feriamoci i piedi sulle pietre aguzze, assaggiamo l’acqua fresca salata, e poi aiutami a calarmi giù, fino ai capelli ricci, nel fresco e nel silenzio, aiutami a cercare ancora i ricci, anche se sono tutti morti, anche se li avete mangiati tutti ormai. Non voglio tornare.
È inutile che ti nascondi negli angoli della casa. Anche così sottile, attaccata alla parete, o mimetizzata al pavimento, ti stanerei. Vedi che ti ho trovata. Ecco dove sei. Non posso schiacciarti. Non temere, non ne sono capace. Ti avvicino le mani perché, disorientata, nei tuoi movimenti minimi, tu possa lentamente salire su un mio dito ed essere trasportata fuori. Non c’è più posto qui. Ti ho detto quale legge governa la mia vita: fuggire la pressione. I miei progetti, gli altri, tutto questo mondo che mi lega al collo e mi trascina come un cane zoppo. E io che voglio soltanto restare in casa, nel silenzio che. Liberare le immagini intrappolate negli occhi, unire finalmente le sillabe come vorrei. Te l’ho detto piangendo e poi addormentandomi sul morbido che portano le tue ginocchia. Ma forse ti eri protetta le orecchie restando a lungo sottacqua ieri, vicino agli scogli. Non avevi ancora capito che la legge comprende anche te: non ci sono eccezioni o attenuanti. È la purezza del vuoto che cerco. La pressione esercitata da un corpo, anche dal tuo, mi toglie il respiro. # 6
MARIA ANTONIETTA, ANNI 91
Firenze, Maggio 1941
Guardavo avanti sognando il futuro, mentre il fiume della mia vita scorreva impetuoso. Ora che sono giunta al mare, come vorrei tornare a quel piccolo ruscello che mi ha visto nascere.
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argo art projects Voce al silenzio Dare voce al silenzio. Rimanere in ascolto delle molteplici voci che lo animano. Susan Sontag nel suo saggio The Aesthetics of Silence scriveva: «One must acknowledge a surrounding environment of sound or language in order to recognize silence».1 Attraverso il progetto grafico pensato per Argo XVIII-H2O abbiamo voluto dare voce alla gente comune, a quelle molteplici voci che spesso non vengono interpellate o ascoltate, o che il più delle volte sono escluse dal processo creativo. Abbiamo quindi scelto persone differenti per età e sensibilità, e abbiamo chiesto loro di collaborare alla realizzazione del progetto attraverso l’invio di un’immagine e di un pensiero dedicati all’elemento “acqua”. Come ogni silenzio si apre a una varietà di possibili interpretazioni, allo stesso modo ogni partecipante ha dato forma e voce al proprio concetto di acqua. L’acqua è diventata così il mezzo attraverso il quale raccontare la propria storia, rivivere l’emozione di un viaggio, lasciarsi trasportare dal flusso della memoria: un ritorno al passato per una donna anziana, l’espressione di un desiderio per un bambino che si affaccia al futuro. È forse nei momenti di crisi e d’incertezza che bisogna dare spazio alla creatività e trovare nuovi modi di comunicare, per fermarsi di nuovo a pensare e ripensare se stessi. Watershape C’è una sorta di affinità tra il percorso dell’acqua e la vita che nel tempo si scolpisce: essa si fissa nelle immagini di corse mai finite, di carote estratte dai ghiacci dell’Alaska, di onde che si accavallano o che giocano a stirarsi come sciabole. Spume che biancheggiano. Secondi di respiri trattenuti. Nella goccia evaporata puoi leggere la fiducia dell’essere vivente di tornare alla sostanza; nei filari delle nubi il disegno della vita che trascorre. Forme, trasformazioni, vita. Watershape è un inserto multimediale composto di video, fotografie e immagini sonore realizzati da artisti diversi per sensibilità, mezzi espressivi e paesi di provenienza. C’è una forte presenza del Giappone: forse perché i flussi della casualità ci hanno trasportato qui, agli estremi della terra, o forse perché oltre queste isole c’è solo oceano. Il tema di Watershape verte sulla caratteristica dell’acqua di sapersi riflettere nella vita umana: la mancanza di una forma definita, la sua inafferrabilità, sacralità, inarrestabilità. Al motivo proteiforme dell’acqua alludono alcune opere. Ci si incammina per i tre stati, liquido solido e gassoso, e presto ci si perde nelle nebbie di un mistero: 1 Susan Sontag, The Aesthetics of Silence, in Styles of Radical Will, Penguin Books, Londra 2009 (ed. originale 1966), p. 11, di seguito la traduzione: «Per riconoscere il silenzio bisogna percepire un ambiente circostante di suono o di linguaggio».
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da dove veniamo? Dove andiamo? Come potrò, nel momento di dire addio, ripensare la vita come un fiume, se aperte le mie vene se ne perdono le tracce nella terra… se anche la neve nel buio scompare… I gorghi e gli zampilli somigliano a flussi di luci e di colori da dove si sviluppano nuove forme, suggerisce un video. L’acqua figura anche il grande archetipo della vita, ricordano infatti altre opere: acqua materna di riti, nutrice di terra, a volte bistrattata da un’umanità immemore. L’acqua, dove galleggia l’inizio della vita umana, si accorda alle cellule del corpo perché in entrambe il movimento è inarrestabile: allora perché non danzarci sopra? Fissa sopra un cavalletto piantato su uno scoglio, la macchina foro stenopeico spalanca l’occhio alla luce del mattino. Ho visto il mare. # Il progetto Voce al silenzio si distribuisce tra la versione cartacea e quella online del numero. Collegandosi al sito www.argonline.it è possibile visualizzarne una versione arricchita di immagini e interamente a colori. Il progetto Watershape è invece disponibile sotto forma di inserto multimediale esclusivamente online. Molte persone hanno contribuito alla realizzazione di entrambi i progetti. Un ringraziamento particolare ai partecipanti al progetto Voce al silenzio che attraverso la loro disponibilità e il loro entusiasmo hanno contribuito a dargli vita: Stefano Bandini, Valentina Carini, Maria Antonietta Gentili, Shinta Inoue, Carla Mantovani e Sebastiano, Sara Mariani, Gianluca Paolucci, Nella Passerini, Paolo Poli e Laura Arcioni, Sara Proietti, E. Brady Robinson, Caterina Tazza, Daniela Trincia ed Eva, Aldo Vagata, Giovanna Karen Vagata. La nostra più profonda gratitudine va a tutti gli artisti che attraverso la loro collaborazione hanno reso possibile la realizzazione del progetto Watershape: Andrea Buratta aka Novembertraum, Sebastiano Luciano, Tagaki Masakatsu, Chie Matsui, Andrés Méndez, Yoichi Nagano, Kosei Sakamoto e i Monochrome Circus, Yasu Suzuka, Chris Rudz, Shiro e Yoko Takatani, Toru Yamanaka. Desideriamo ringraziare inoltre per il prezioso aiuto: Beth Bevan, Paolo Di Erasmo e Maria Clori Tazza, Hiroshi Katayama, Mayumi Kinoshita, Kosuke Kunishi, Traci Matlock, Hiromi Nakagawa, Mizue Nakamura e FOIL GALLERY, Nobuhiro Tsujiuchi, Yumiko Saito. Eleonora Di Erasmo - Daniela Shalom Vagata 9
la terapia amniotica Grazie alla terapia amniotica, è possibile regredire per “tornare nel grembo”, dove sono conservate le nostre potenzialità, un grembo condiviso, dove poter “rinascere insieme”! Sto parlando di una psicoterapia, praticata in gruppo, in un particolare setting di tipo pre-verbale: i n u n a v a s c a d i a c q u a c a l d a ( a 34,5 °C ) , l a c u i a l t e z z a n o n s u p e r a i 60 c m , i n c u i o g n i p a r t e c i pa n t e è accolto da un operatore “amniotico” (psicoterapeuta o operatore sociale con formazione specifica). S i s v o l g e a l l’ a p e r t o , in posizione panoramica, tra il verde, a n c h e d’ i n v e r n o , a n c h e s e s t a n e v i c a n d o , sia di giorno che di notte, con la luce della luna, sotto un manto stellato. La singolarità del suo setting permette di sperimentare u n a d i m e n s i o ne a s s o l u t a m e n t e u n i c a d e l l’ “ e s s e r e c o n ” l’ A l t r o e c o n g l i A l t r i e di percepire un nuovo stato di coscienza di sé nel mondo. Ed è diventata “una cura”! grazie al coraggio, in primis, del suo geniale ideatore, lo psicanalista Maurizio Peciccia, e al suo primo alleato, esperto in psicoterapie espressive non verbali, Simone Donnari. 10
Questo coraggio è stato poi condiviso da un numero sempre maggiore di colleghi “illuminati”: da M.Gabriella Garis...alla sottoscritta!... Tutto è nato dal bisogno di far “sentire accolto” chi non ha interirizzato, già nel grembo materno o nei primi anni di vita, l’ a b b r a c c i o f i s i c o e m e n t a l e c h e fa “sentire di esistere” perché f a “ s e n t i r e a m a t i ”, permettendo di imparare ad amarsi e ad amare. È dunque una terapia nata per “accogliere” tutti coloro che hanno un principio del piacere c a r e n t e o a s s e n t e , n e l c o s c i o o n e l l’ i n c o n s c i o : chi ha un Io troppo fragile, chi ha paura degli Altri e del mondo, non riuscendo a vivere nella giusta distanza i l r a p p o r t o c o n l’ A l t r o , ora troppo vicino, ora troppo lontano, con difficoltà ad affrontare i conflitti e chi non è mai riuscito o non riesce più ad esprimersi e a comunicare “con le parole”. I m m e r s i n e l l’ a c q u a , entriamo in contatto con emozioni ancestrali, legate non solo alla vita embrionale, ma anche ad antichissime memorie filogenetiche, di un tempo originario i n c u i l a v i t a è n a t a e s i s v o l g e v a n e l l’ a c q u a . Il nostro corpo è costituito da un insieme di organi, tessuti e cellule, immersi in acqua salata e calda. La stessa cellula, il cui nucleo contiene le informazioni genetiche 11
che regolano il nostro funzionamento psico-organico e i l n o s t r o r a p p o r t o c o n l’ a m b i e n t e , è costituita per la maggior parte da acqua. Siamo per due terzi di acqua, m a n t e n u t a a 37 °C , e , durante stati d’animo intensi, il nostro corpo produce “acqua”: l a c r i m e , s u d o r e , s e c r e z i o n i m u c o s e , “ s p e r m a ” ... “ N e l l’ a c q u a ” p r o d o t t a d u r a n t e l’ o r g a s m o , gli spermatozoi nuotano, come pesci, p e r a n d a r e a f e c o n d a r e l’ u o v o . “ N e l l’ a c q u a ” n a s c e l a v i t a u m a n a , che si sviluppa nel liquido amniotico, d o v e l’ e m b r i o n e f l u t t u a fino a diventare un bambino completo. Le n o s t r e p i ù a n t i c h e m e m o r i e s o n o r a d i c a t e n e l l’ a c q u a d i u n c a l d o g r e m b o che ci ha dolcemente cullati e morbidamente ondeggiati e massaggiati. E la seduta di Terapia Amniotica inizia nell’acqua. I p a r t e c i p a n t i f o r m a n o u n c e r c h i o, tenendosi per mano, in silenzio. Un silenzio delle parole che dà voce al cuore e che verrà mantenuto per tutta la durata dell’incontro. Quando il conduttore dà il segnale per iniziare, ogni operatore accoglie un paziente, con tatto e rispetto dei tempi personali,... lo prende in braccio o lo distende su di sé, per poi cullarlo dolcemente, con movimenti leggeri, gli accarezza i capelli e il volto, talvolta le articolazioni, le mani e la schiena,... Durante la terapia, il conduttore interagisce con le coppie e con i singoli partecipanti, sostenendo o lasciandosi sostenere e stimolando, gradualmente, 12
movimenti di avvicinamento o di separazione,... C o n l’ e v o l v e r s i d e l l’ e s p e r i e n z a t e r a p e u t i c a , dal rapporto duale si sviluppa un avvicinamento progressivo alle altre coppie , fino al formarsi di una vera e propria rete corporea, simile ad un grande “grembo vivente”, dove ognuno è parte del tutto. Q u a n d o i l c o n d u t t o r e d à i l s e g n a l e d i f i n e i n c o n t r o, ogni operatore amniotico, gradualmente e dolcemente, si separa dal suo paziente, riportandolo in posizione seduta e a contatto con il bordo della vasca, per poi incoraggiarlo a ricostituire, con gli altri, il cerchio iniziale. Il conduttore interrompe poi il silenzio, invitando il gruppo ad esprimere liberamente, “anche con una sola parola”, associazioni, emozioni, vissuti, immagini, pensieri, l e g a t i a l l’ e s p e r i e n z a a p p e n a v i s s u t a . A coppie si esce dalla vasca e si fa la doccia, in un ulterire rituale condiviso, che, nel momento della separazione, comunque frustrante, dal gruppo e dal setting della psicoterapia, ha la funzione di ponte e accompagna il ritorno al principio di realtà. Durante la seduta, con il consenso dei partecipanti, i momenti più significativi possono essere videoregistrati e, a l l’ i n c o n t r o i n a c q u a , può far seguito 13
una seduta di Disegno. Una tecnica di Video Integrazione integra i suddetti momenti con immagini, altrettanto significative, dei disegni e i fotogrammi sono poi mostrati ai partecipanti, per favorirne la memorizzazione e l’ i n t e r i o r i z z a z i o n e . L’ u t i l i z z o d e l l e t r e t e c n i c h e c o m b i n a t e , Terapia Amniotica, Disegno e Video–Integrazione, ha dimostrato di accelerare il processo di ristrutturazione psichica. La Terapia Amniotica evoca innanzitutto “ m e m o r i e c o r p o r e e ” d e l l a f a s e i n t r a u t e r i n a d e l l a v i t a: ogni millimetro di pelle è piacevolmente stimolato dal calore e, proprio come il liquido amniotico, l’acqua avvolge il corpo e lo delimita. Noi percepiamo come peso corporeo la forza di gravità che ci comprime verso terra e, per un inestricabile intreccio corpo-psiche, lo stesso senso di fatica dell’esistenza, schiacciata da inevitabili difficoltà e conflitti, si traduce spesso in una percezione “fisica” di peso interno, gravoso, e perfino opprimente. I l n o s t r o c o r p o, i n a c q u a , grazie al venir meno della forza di gravità, è alleggerito di circa cinque-sei volte, pur rimanendo adulto, torna al peso infantile. Il galleggiamento allenta le tensioni psico-fisiche e favorisce, soprattutto in acqua calda, un rilassamento profondo c h e d i m i n u i s c e a n c h e l e r e si s t e n z e a l l a p s i c o t e r a p i a .
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L’ a c q u a h a i l p o t e r e non solo di farci sentire leggeri, ma anche di sostenerci e cullarci. E s e, al sostegno naturale dell’acqua, si aggiunge quello di un altro essere umano, viene stimolata, in chi è sostenuto, l’ a s s o c i a z i o n e t r a i d u e s o s t e g n i a t t u a l i , d e l l’ a c q u a e d i c h i l o t i e n e t r a l e b r a c c i a , c o n q u e l l o d e l l e c u r e r i c e v u t e n e l l’ i n f a n z i a . D’ a l t r a p a r t e , la leggerezza di chi è sostenuto, a t t i v a, in chi sostiene, la percezione di tenere in braccio un bambino, che si traduce in un vissuto di grande tenerezza, che trascende e sublima la pulsione sessuale e lo pone in contatto con il proprio bambino interno, p r o i e t t a t o n e l l a p e r s o n a t e n u t a t r a le b r a c c i a . Pertanto, nel soddisfare i bisogni del paziente, la proiezione su di lui del proprio bambino interno, permette al terapeuta di soddisfare, contemporaneamente, il proprio bisogno di sentirsi accolto e sostenuto. Il caldo contatto dell’acqua con tutto il corpo e la vicinanza affettiva del terapeuta svolgono una funzione di contatto e contenimento, analoga a quella del grembo materno. L’ a m b i e n t e d e l l a T e r a p i a A m n i o t i c a r i c o r d a la condizione del narcisismo primario che Freud (1916-17) considerò il primo stadio anoggettuale della vita, a n t e c e d e n t e a l l a c o s t i t u z i o n e d e l l’ I o .
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N e l l’ a c q u a g l i o c c h i t e n d o n o a c h i u d e r s i , entriamo in uno stato sospeso tra il sonno e la veglia, il setting è caratterizzato dal silenzio e, c o m e n e l l a v i t a i n t r a u t e r i n a, i l c o n d o t t o u d i t i v o è p i e n o d i l i q u i d o p e r c u i l ’ u d i t o è c o m u n q u e r i d o t t o. Questa condizione, da una parte protegge e rinforza il Sé individuale, d a l l’ a l t r a , p e r m e t t e , g r a d u a l m e n t e , d i c o n c e n t r a r s i sul codice affettivo che si crea nel contatto c o n l’ a c q u a c a l d a , c o n l’ A l t r o e c o n i l g r u p p o . I l (c o n) t a t t o s i t r o v a q u i n d i a s v o l g e r e u n a f u n z i o n e fondamentale nel favorire il riconoscimento e l’ e s p r e s s i o n e d i u n l i n g u a g g i o c o r p o r e o , di tipo emozionale, che dimostra di poter essere, gradualmente, e sempre più, tollerato, sviluppato e utilizzato, per comunicare. Ogni partecipante è stimolato ad associare, gradualmente, il proprio corpo disteso e rilassato con il piacere del contatto dell’acqua calda e del contatto con il terapeuta. Questo processo e queste associazioni stimolano s i a l’ i n v e s t i m e n t o ( l i b i d i c o ) d e l l ’ I o , r i n f o r z a n d o l’ i m m a g i n e d e l S é i n d i v i d u a l e , s i a l’ i n v e s t i m e n t o a f f e t t i v o p e r i l t e r a p e u t a . Il galleggiamento facilita movimenti, anche minimi, sia di unione che di separazione, tra operatore e paziente: o r a l’ o p e r a t o r e a v v i c i n a i l p a z i e n t e , avvolgendolo in una relazione simbiotica, ora si allontana da lui, ma anche tra la coppia e gli altri partecipanti, ora più vicini ora più lontani.
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Nella fase di vicinanza simbiotica l’acqua calda, c i r c o n d a n d o l’ i n t e r a s u p e r f i c i e c o r p o r e a , continua però a delimitare un’immagine separata del Sé, fungendo da “seconda pelle” protettiva, i n t e r p o s t a t r a i l p r o p r i o c o r p o e q u e l l o d e l l’ A l t r o e continuando a delimitare i confini dell’Io, e, nella fase di separazione, la stessa acqua continua ad avvolgere il corpo, permettendo di mantenere la traccia mnesica di un caldo sostegno e contenimento. Il paziente passa pertanto, r i p e t u t a m e n t e e c o n t e m p o r a n e a m e n t e, da uno stato di unione ad uno stato di separazione, ma, le unioni e le separazioni sono vissute in maniera non catastrofica, anzi con un senso di sicurezza, piacevolezza e positività. Spostamenti, unioni, separazioni e nuove unioni sono carichi di affetto, di piacere, di calore e il paziente impara ad entrare, con sempre minori resistenze, in rapporto con la realtà sociale del gruppo che gli offre la possibilità di esperire e interiorizzare un principio del piacere sano. Questa progressione favorisce sia la capacità di integrare ed equilibrare la tendenza a l l a v i c i n a n z a e a l l a s e p a r a z i o n e r i s p e t t o a l l’ A l t r o che l’investimento (libidico) degli Altri e del mondo esterno. La Terapia Amniotica si è dimostrata u n’ e s p e r i e n z a p s i c o d i n a m i c a m e n t e p o s i t i v a c h e a i u t a a r i n u n c i a r e a l l’ i s o l a m e n t o , in cui spesso tendiamo a rifugiarci nel tentativo di proteggerci e, d’ a l t r a p a r t e , solo quando il principio del piacere s i è b e n r a d i c a t o e s t r u t t u r a t o n e l l’ i n c o n s c i o , è possibile accettare il principio di realtà! 17
EVA, ANNI 4
Perché l’acqua è nel mare…
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SEBASTIANO, ANNI 4
Quando vedo i pompieri con la sirena accesa so che stanno andando a salvare qualcuno da un incendio. I pompieri sono degli eroi che non hanno paura del fuoco perché portano l’acqua sempre con loro. L’acqua è fortissima e sa spegnere il fuoco, quasi come per magia… Anche io da grande vorrei diventare un pompiere e fare delle imprese magiche per salvare le persone…
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piccola verità C’è un’acqua dietro al cuore che non si può asciugare si nasconde ad ogni possibile sole è lì concava e convessa dove sente il battito buia promette la profondità.
dove stare Sì, la nostra natura è crudele se penso che le mie lacrime sono salate è solo perché e lo ho capito poco a poco o tutto in una volta che a volte c’è da piangere un mare.
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sabotino Sono arrivato fin qui per camminare e perchÊ volevo scrivere qualcosa sull’acqua e invece mi trovo a scrivere una poesia che parla di dio ma come mi domando ma poi capisco dio e acqua sono uguali quando si manifestano nell’assenza ogni volta per aspettare lui ogni volta per attendere lei devo alzare il mio sguardo al cielo.
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Fu una vertiginosa voluta verticale, come uno spin elicoidale in cui tutto perdeva legamento e precipitava dentro, e il nesso interno diveniva convettivo, oscillava quantico, e quella che era ed è lì si ritrovò diffusa, scissa, mescolata. Multiforme in ogni dove, sospinta-cresceva in accenti, si rimpolpava, faceva nembo e cumulo di sé - che in qualità potresti dire d’esserelo pure tu, perché io t’imbevo, sono la tua, l’elemento. Sono la bevanda. Impalpabile veicolo di shampoo, gassosa al vapore o fredda e dura e tagliente a secco senza attrito guadagno la struttura del diamante, il reticolo del cotone e come nuvola ghiacciata cristallizzata ridiscendo in pioggia e fiume e mare mi sciolgo nella terra e scivolo giù.
h2o fugit Accadde verso il tramonto del vecchio millennio. Ma è come se fosse oggi. La prima notte non si scorda mai. Fuori il gelo corrodeva il cemento dei palazzi in costruzione della Capitale, alti scheletri si stagliavano sinistri tra le luci dei cantieri. Gli immigrati uscivano dalle baracche per iniziare il turno balbettando tra loro assonnati saluti. Tutt’intorno fondamenta smisurate, con centinaia di gru a torreggiare un’oscura e irreale fortezza in divenire che, di lì a qualche anno, avrebbe gettato una lunga ombra sul futuro dell’Europa. Mi incamminai lungo i margini di quella landa desolata con crescente inquietudine, fin quando raggiunsi quello che pareva essere un edificio dismesso, stranamente animato da un via vai di persone troppo arzille per le ore piccole del giorno infrasettimanale in cui mi ritrovavo a vagare (cosa del tutto legittima per uno studente svogliato e perdigiorno come all’epoca era il sottoscritto). Raggiunsi l’ingresso di quel rudere, con malcelato timore ne varcai la soglia: mi accolse l’oscurità dell’ex caveau di una banca apocalitticamente dimenticata tra l’Est e l’Ovest del Mondo, un bunker presidiato da soldati dell’oblio a guardia di qualche misteriosa utopia. Stavo entrando in un’altra terra di nessuno, anarchica e senza coordinate. Nel buio ero guidato solamente dal riecheggiare di un tonfo sonico dalla cadenza schizofrenica: un radar nella notte, un’eco demoniaca che mi rapì subito, come lo sciabordio di impetuose onde oceaniche che si infrangevano punitive su un inerme villaggio di pescatori. Nella sala nera invasa dal fumo distinguevo gruppi di persone che, all’unisono, venivano scossi dal battito: i corpi, sinuosi come splendidi serpenti elettronici ma così estranei alla mia provincialissima Weltanschauung, erano un invito al viaggio, una mano tesa che, dopo qualche momento di incertezza, mi strinse nelle sue spire euforizzanti. Ricordo il momento del distacco, quando iniziai a sprofondare giù per abissi di luce, un’apnea infinita alla scoperta di un ignoto meraviglioso. Era come nuotare nella notte con grandi occhi da pesce che vedevano l’invisibile e decifravano l’incomprensibile, come immergersi in uno strano liquido amniotico in cui sapevo di poter regredire fino alla completa perdita dei sensi. Un naufragio aurorale tra poesie e sussurri e schizzi dorati tutt’intorno, con le gambe molli come molle, la pompa della musica che faceva ribollire il sangue nel cervello per un Big Bang neuronale che mi avrebbe cambiato in meglio e per sempre. 22
Passarono le ore, e il sole sorse da est. Passarono le ore, e il sole tramontò a ovest. La vita nel bunker scivolava ignara dell’incedere ingegneristico dei cantieri soprastanti. A un certo punto, quasi per caso, mi accorsi di alcuni particolari più terreni, banalmente materiali: la mascella, che continuava incessantemente a contrarsi; i denti, che tremavano azzerandomi la salivazione e prosciugandomi le fauci; lo sguardo, che si faceva vitreo e scalfito con le pupille che bruciavano a ogni colpo di strobo, vere e proprie rasoiate al laser sulle cornee; i vestiti, madidi di sudore che mi si afflosciavano addosso sgualciti e informi. Avevo un bisogno disperato di acqua. Per prima cosa iniziai a cercare nei cocktail abbandonati sul bancone: facevo scorrere i cubetti di ghiaccio sulla fronte, lungo il collo, dentro la camicia, come in una grottesca e asessuata imitazione di un gioco erotico. Non bastava: corsi ai rubinetti dei bagni, dove l’acqua sgorgava rigeneratrice a tamponare il sudore sulla pelle. La temperatura corporea che ritornava alla normalità scatenò in me un flashback alla realtà, un attimo di agghiacciante lucidità che si concretizzò quando il mio sguardo incrociò le lancette dell’orologio che avevo al polso. Ero nel bunker ormai da più di dodici ore, dodici ore in cui mi pareva di aver vissuto più intensamente rispetto al resto della mia precedente esistenza. La cosa più dolorosa era tuttavia constatare, ancora una volta, come il Tempo avesse imposto beffardamente le proprie misure: quel Bastardo che sa bene schiavizzarci tutti, ma che qui sotto ero sicuro di aver eluso. Col senno di poi mi resi conto della fortuna da principiante di quella prima volta: quanti amici nei decenni a venire si sono arenati esamini al sorgere dell’alba tra la merda e l’immondizia di effimere baie tossiche, come capodogli condotti alla deriva dai loro sonar impazziti, fino all’inevitabile e fatale e beffardo spiaggiamento. Quanti amici si erano creduti capaci di fermare il Tempo durante quelle notti, dimenticandosi che fermare il Tempo significa solo morire.1 Dall’acqua ce ne siamo sbucati fuori strisciando nella notte; ci siamo evoluti, ed evolveremo; ma all’alba di un giorno qualsiasi, senza più fluidi che scorrono dentro di noi, ci dissolveremo, tornando ad essere quella polvere vecchia come il mondo, che il Caos – a cui ogni giorno cerchiamo disperatamente di dare un ordine – si divertirà a spazzare per i confini di questo oscuro ed estraneo universo. per G. 1 Sono documentati casi di disidratazione dovuti alla non percezione della stanchezza e al continuo movimento che hanno causato l’ospedalizzazione o il decesso del soggetto, solitamente quando l’MDMA è assunta insieme ad alcol. (fonte Wikipedia)
Un bicchiere sul tavolo. Un bicchiere per nessuno, senza nessuno. Rimasto per caso quasi colmo dopo la cena, non vuotato. Eravamo limpidi e soli, con qualcosa che bruciava dentro. Un colore prima di un altro, e poi diversi, insieme, come in una rete che si muove, luminosa. Tante volte l’abbiamo inseguita. L’azzurro saliva dalle caviglie, fino a dove potevamo ancora parlare, lanciare un richiamo. Poi ci ha toccato. Si è immerso nell’acqua e immediatamente tutto ha avuto il suo oscuro richiamo che scende. #
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kalevala runo I La vergine dell’aria discende sul mare, viene fecondata dal vento e dalle onde e diventa madre dell’acqua; un'anatra fa il nido sopra il suo ginocchio. - Sette uova cadono dal nido in acqua, si rompono, dai frammenti nascono la terra, il cielo, il sole, la luna e le nuvole. - La madre dell’acqua crea i promontori, le insenature e le coste, gli abissi e gli scogli del mare. – Väinämöinen nasce dalla vergine dell’acqua, vaga a lungo spinto dalle onde finché raggiunge la terraferma. (I: 111-344)
Vergin dell’aria, natural creatura, visse Ilmatar lunghe ere illibata, serbandosi immacolata per i campi sconfinati della volta celeste. Ma annoiata dei suoi giorni, della vita insofferente, del restare vergin casta tutta sola, eternamente, per i campi sconfinati della volta deserta, venne giù dall’alte sfere, e discese fino al mare, sulla coltre luminosa spaventosa delle onde. Venne allora un uragano da oriente furibondo, ed il mar fece schiumare, sferzando quei marosi.
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E la vergine cullando l’acqua allor la trasportava sul suo dorso celestrino, sui suoi flutti spumeggianti: e fu vento nel suo ventre, ed il mare la ingrossò. Portò allora il duro sacco, il gonfiore doloroso, 24
lo portò settecent’anni, per ben nove età dell’uomo; ma quel feto dal suo grembo vita ancor non generò. S’aggirò madre dell’acque da levante ad occidente, e dal nord al meridione, fino ai limiti del cielo, con quel carico cocente, quelle fitte lancinanti. Ma quel feto dal suo grembo vita ancor non generò. Prese allora a lacrimare, e parlò, così lei disse: «Me meschina, o mia ventura, dove vai, triste viandante! Ecco a questo sono giunta: sotto il cielo eternamente perché il vento mi cullasse, e sui flutti altalenante sulle acque senza fine, sull'onde sterminate! Quanto meglio allor sarebbe viver vergine dell’aria, e non come adesso accade madre d’acque alla deriva; Ah se è dura qui la vita per il freddo e per gli stenti, tra i marosi dimorare, nell'acque diguazzare. Ukko, Ukko, dio supremo, tu che reggi intero il cielo, vieni qua dov’è il bisogno, scendi qui dove ti invoco! La fanciulla dalle doglie, dal tormento a liberarla, presto, accorri, qui soccorso a me non lesinare!» 25
Fu questione di un secondo, ancor meno di un istante. Venne dritta un’anatrella, e per l’aria volteggiando un soggiorno ricercava dove nidificare. Volò ad est, ad occidente, a maestrale e mezzogiorno. Non trovava nessun posto, e nemmeno dei peggiori, dove un nido edificare, fissare il suo soggiorno. Volteggiando, svolazzando, meditava, pensierosa: “Mia dimora sarà il vento, mio rifugio tra i marosi? Mi rovescian le tormente, mi colpiranno l’onde”. Ma la madre delle acque, ancor vergine dell’aria, sopra il mare alzò un ginocchio, una scapola sull’onde, per il nido un fondamento, terra ove posare. L’anatrella volò dritto, si librava volteggiando, finché scorse quel ginocchio sulla piana luccicante, e pensò fosse uno scoglio, atollo verdeggiante. Si librò, quindi planando, calò sopra l’isolotto. Poi il suo nido edificato vi depose le uova d’oro. E sei uova sono d’oro, il settimo di ferro.
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Alla cova si dispone, il ginocchio riscaldando. Cova un giorno, poi il secondo, cova ancora il terzo giorno. E la madre delle acque, quella vergine dell'aria, si sentì come attizzare, come un fuoco sulla pelle; il ginocchio avvampare, le vene liquefarsi. Una scossa dà al ginocchio, e le membra fa scattare: cadon l’uova tra i marosi, giù tra i liquidi elementi, in pezzetti a terminare, minuscoli frammenti. Non nel fango quei brandelli, né si sciolgono nell’acque. Prendon forma quelle schegge, e la forma è buona e bella: dalla parte sottostante si compon la madre terra, mentre il guscio superiore va a creare il firmamento; e là in alto, il tuorlo rosso, come sole splende in cielo, mentre il bianco soprastante ecco accender fa la luna; quelle parti variegate come astri stanno in cielo, tutto quanto è più brunito qual nembo è in ciel salito. Passan l’ere, così gli anni, scorron l’uno dopo l’altro, nuovo sole a riscaldarli, nuova luna ad irradiare. La madre dell’acque, vergine dell’aria, per l’acque placide prosegue il suo errare, 27
sui flutti brumosi, davanti avendo la fluida massa, e dietro il firmamento. Trascorsi ormai nove anni, giunta la decima estate, sollevò il capo dall’onde, la fronte levò sul mare. La sua opera creatrice dispiegò sopra il creato, sull’immensa superficie, gli abissi sconfinati. Dove la mano volgeva spuntavano promontori; e quando premeva il piede ecco anfratti per i pesci; esalando bolle d’aria abissi spalancava. Piegando il fianco a terra spianava spiagge fini, se il piede ci posava eran pozze per salmoni, il capo poi chinando schiudeva insenature. Nuotò puntando al largo, indugiò nel mare aperto: e lì sotto un velo d'acqua scogli andava seminando, che la nave si incagli, che non scampi il marinaio. Eran l’isole spiegate, e gli scogli già creati, erti i pilastri celesti, nominati suolo e terre, nella roccia incisi i segni, nelle rupi impressi i solchi. Ma non c’era Väinämöinen, non l’eterno cantore.
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Väinämöinen, vecchio e fiero, della madre si agitava nel suo seno trenta estati, ed inverni altri e tanti, sopra l’acque silenziose, sull'onde brumose. E pensava, meditando, che sarebbe la sua vita in quel buio nascondiglio, in quell’eremo forzato, dove mai raggio di luna vi splendé, nemmen di sole. Disse allor queste parole, questi motti pronunciò: «Luna, sol, sia liberato, e tu Orsa che mi insegni a varcare porte ignote, i cancelli sconosciuti, questo nido limitato, la dimora mia ristretta! Alla terra il viaggiatore, aria aperta al figliol d’uomo, a mirar la luna in cielo, e del sole i caldi raggi, a seguir l’orsa maggiore, le stelle contemplare!» Ma la luna non lo sciolse, non lo liberò il sole, ed allora in tedio ebbe i suoi giorni, s’annoiò: del fortin bussò alla porta con il dito innominato, ecco l’alluce mancino nel lucchetto è insinuato; con le unghie sulla soglia, fuor dell’atrio col ginocchio. Poi nell’acqua a capo fitto, con le mani tese all’onde; e del mare fu in balìa, da solo in mezzo ai flutti. 29
Là rimase per cinqu’anni, cinque anni, forse sei, o anche sette, se non otto. Arrivò poi finalmente a una punta senza nome, in terra desolata. Qui si drizza sui ginocchi, e fa forza sulle braccia. Si levò a mirar la luna, e del sole i caldi raggi, a seguir l’Orsa maggiore, e le stelle a contemplare. Così nacque Väinämöinen, il cantor dai fieri lombi, dal grembo di sua madre, la vergine dell’aria.
© traduzione di Nicola Rainò © illustrazioni di Chiara Pedrini
tutto in due atomi di idrogeno e uno di ossigeno Thomas Mann, a proposito dell’acqua, scrive: Per quanto concerne la mia persona ammetto che la contemplazione dell’acqua, in qualsiasi forma e figura, significa di gran lunga la più immediata e la più insistente specie di piacere naturale, anzi, la vera concentrazione, il vero oblio di se stessi, il giusto riscatto della propria esistenza limitata, nella generale, mi è concesso solo contemplando l’acqua. Può trasportarmi, per esempio, quella del mare calmo frangentesi rumoroso, in uno stato di tale profondo delirio organico, di tale assenza di me stesso, che ogni sensazione di tempo mi va perduta e la noia diventa un concetto futile, passando le ore in simile legame e compagnia, come minuti. Ma pure chinato sulla spalletta d’una passerella che porti su un rivo potrei restare quanto voleste, perduto nello spettacolo dello scorrere, del vorticare e del fluire, e senza che quell'altro scorrere in me e intorno a me, il passare frettoloso del tempo, riesca ad incutermi timore o impazienza.1 1 Thomas Mann, Cane e padrone, Garzanti, Milano 2010, p. 207.
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Dal latino àqua, contiene la radice indoeuropea ak-, col significato di “piegare”, presente anche nel sanscrito e in altre lingue. Composto chimico, costituente fondamentale degli organismi viventi, a scuola ci hanno insegnato che siamo fatti per la gran parte di acqua, un po’ come l’anguria. H2O era la risposta alla domanda. Solida liquida gassosa. Si facevano gli esperimenti. Inodore incolore insapore. E a questo punto fioccavano le obiezioni: non aveva forse un gusto precisissimo quella tracannata da bambini direttamente dal rubinetto ferroso della fontanella nel parco? Ma i maestri passavano subito a confonderti con la storia delle parole col “cqu”, le cosiddette capricciose, di cui l’acqua, con tutta la famiglia al seguito, era la capa indiscussa. Iperonimo di tanti iponimi, il termine “acqua” ne fa scendere a cascata almeno una trentina, tra composti e derivati: l’acquolina, l’acquedotto, l’acquazzone, l’acquerello. Ma anche più difficili, come l’acquadiere e l’acquaiolo. Il campo semantico che le compete è vastissimo e mobile, fluido per essere vagamente tautologici. Potabile minerale gassata distillata di colonia benedetta. Pura cristallina viva limpida e poi giù giù nera lurida di fogna. Sacra di pozzi e di sorgenti, simbolo di iniziazione poetica. E ancora umore, succo, liquido organico, amniotico, flegma. È origine del mondo, fertilità, ciclo, battesimo. Se l’hai presa, vuol dire che pioveva. Se vai a Venezia la puoi trovare alta. Nello zodiaco, Cancro, Scorpione e Pesci sono sotto il suo dominio indiscusso. Ma proviamo ad uscire dalle definizioni alla Bartezzaghi, dalla formula molecolare e dal legame covalente. A partire da Talete, gli antichi filosofi naturalisti impegnati nella ricerca dell’arché l’avevano individuata tra i quattro elementi fondamentali. Il motivo delle acque primigenie, del “brodo primordiale”, dal cui raggrumarsi si genera la terra, è presente in quasi tutti i miti cosmogonici, e ha resistito ai millenni e allo stratificarsi delle culture. Punto primo. Gli antichi avevano compreso che da essa dipende l’abitabilità planetaria (e oggi si va su Marte alla ricerca dell’acqua per trovare la vita), e come un mantra a scuola abbiamo tutti appreso l’importanza della presenza di risorse idriche per lo sviluppo delle civiltà (i vari Nilo, Tigri, Eufrate, Gange, Indo, Fiume Giallo e via dicendo); aggiungerei che non per niente il “rivale” è colui che ti fotte il rivus, il ruscello sulle cui sponde sei andato ad abitare e che ti serve per coltivare i tuoi campi. Se oggi l’homo medius è impegnato nella coda per l’iPod, fino in epoca recentissima a terrorizzarlo e ossessionarlo erano l’eccesso o la mancanza d’acqua (si legga, tanto per dire, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro). Decine di libri, articoli, saggi ricordano che la riflessione sull’acqua è massicciamente presente ad ogni livello di interpretazione o concezione culturale, da sempre; le occorrenze del lemma nei testi letterari si può dire siano infinite e coprano l’intero arco della produzione, dalle Chiare, fresche et dolci acque petrarchesche, fino a quella azzurra e chiara del Lucio nazionale. Ci si potrebbero passare le ore, e l’argomento 31
impegna tutti, dai filosofi ai linguisti, fino agli amanti dell’alchimia e delle faccende esoteriche. Amica nemica, dolce salata, feconda distruttiva, vita e morte in tutti i miti, tutte le tradizioni, tutte le letterature di tutto il mondo, la Nesti-Persefone della tradizione occidentale è forse, tra i quattro, l’elemento più presente nell’indagine simbolica e psicanalitica (né L’interpretazione dei sogni Freud lega chiaramente l’acqua alla nascita, alla permanenza intrauterina, così che un tuffo nel mare diventa un ritorno al grembo materno; anche il suicidio per annegamento, in stile più tipicamente femminile, rappresenterebbe una sorta di nascita al contrario: Ofelia che si annega sembra «una creatura che avesse avuto origine in quell’elemento e che quasi vi si sentisse adatta e disposta dalla natura»). È fertilità, anima mundi, principio cosmico femminile, a cui è attribuita una caratteristica di passività, in contrasto con il fuoco, elemento maschile e attivo. È il regno delle ninfe, la sensuale acqua del mare che incornicia l’Afrodite di Esiodo, la Calipso di Omero, le sirene, Nausicaa, o Miranda nella Tempesta di Shakespeare. L’acqua è dunque femmina, ed è ingannatrice (lo dice anche Caparezza: «acqua ingannatrice / il tuo suono non mi piace / anche se per qualcuno questa è musica che viaggia / per me rimane una dannata giornata di pioggia»). In essa si specchia Narciso innamorato, vi si rimirano compiaciute le tarantolate, dopo aver immerso la testa nel catino grondanti di sudore. Quel genio di Leonardo era ossessionato dalla volubilità e dall’inafferrabilità dell’acqua, che «non ha mai quiete». Essa scorre, non si può fermare, come l’esistenza stessa: «Ore perplesse, brividi / d’una vita che fugge / come acqua tra le dita», per il non proprio positivo ma straordinario Montale de L’agave su lo scoglio in Ossi di seppia. Ha una formula, abbiamo detto, ma non ha una forma: prende quella del recipiente che la contiene, insomma «piglia la forma che le viene data»2, dice Salvo Montalbano, proprio come l'omicidio in terra di mafia del quale è impegnato a venire a capo nel primo romanzo della serie. Come non correre poi col pensiero all’acqua di fiumi e mari, cantata in misura larghissima fin dalla letteratura italiana delle origini: nella seconda metà del Duecento, la troviamo nel sonetto A me adovene com’a lo zitello di Bonagiunta Orbicciani (quello da Lucca, tra i golosi nel Purgatorio dantesco) appunto come acqua di mare, posta immediatamente a fare da contrappunto all’elemento fuoco: è acqua chiara e salata, come le lacrime dell’amore. Serena e quieta sarà quella della spiaggetta del Purgatorio dantesco, dopo essere stata limacciosa e puzzolente nell’Inferno. Acqua dell’oblio dei peccati quella del Letè, del ricordo delle buone azioni quella dell’Eunoè, i due fiumi del Paradiso (nella Commedia il lemma acqua ricorre in tutto 66 volte); è acqua lo Stige su cui gli dèi fanno giuramento, che dona immortalità ma che può recare distruzione; lo sono i Fiumi e le Oceanine generati da Teti e Oceano; acque salate cui sovrintende la divinità Abzu, combinate con quelle dolci della sua sposa Tiāmat, nella mitologia mesopotamica. È il dio egizio Nun, l'abisso primordiale, da cui dipendono le piene del Nilo. Elemento religioso, dono divino, non a caso retaggio dei popoli che hanno attraver2 Andrea Camilleri, La forma dell’acqua, Sellerio, Palermo 1994.
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sato il deserto, che lo hanno abitato e che lo abitano ancora. È l’acqua del Diluvio nella Genesi, quella del mar Rosso che si apre al popolo eletto. Greci e romani piazzavano sapientemente i loro oracoli presso fonti d’acqua. Per san Francesco nel Cantico è una sorella ed è casta, simbolo di pulizia morale e spirituale, secondo un topos tipico di tutta la letteratura religiosa, certamente non solo cristiana. Si pensi alle immersioni nel mikvè, il lavacro destinato alle abluzioni rituali ebraiche, ancor oggi prescritte ai proseliti, e al fatto che il musulmano prega solo in uno stato di purezza, dopo essersi lavato; con questo significato, balzando in epoca più recente, la ritroveremo anche nei paesaggi di Montello cantati da Andrea Zanzotto, nella bellissima L'acqua di Dolle (in Dietro il paesaggio, 1940-48). Nella letteratura arcadica e pastorale è tutto un trionfo di fontane fontanelle zampilli fiumiciattoli sorgenti laghetti cinguettanti di uccellini; diventa turbine, gorgo, impeto nel periodo romantico, specialmente nell’arte figurativa. È «acqua in ogni dove, e non una goccia da bere» nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, che ispira nel 2006 Vinicio Capossela nella sua S.S. dei Naufragati. «Here lies One / Whose Name was writ in Water» (qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua) ammonisce la lapide del poeta John Keats – autore nel 1817 della poesia On the Sea – nel cimitero acattolico di Roma; acqua è instabilità (solo Gesù Cristo ci ha potuto camminare sopra). Instabilità al punto da diventare erranza in alto mare, pazzia, come scrive Michel Foucault, che definisce la «essenziale liquidità della follia» a partire dallo studio del fenomeno medievale per cui il malato mentale, l’emarginato, l’outsider che veniva espulso dalla città veniva caricato sulle navi, affidato alle acque, prigioniero in mezzo alla libertà più sconfinata, «affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto».3 (La stessa grande incertezza dei viaggi per mare dei migranti di oggi, la stessa espulsione simboleggiata dai tristemente noti respingimenti per i quali Strasburgo le ha suonate all’Italia). Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma non ha senso in questa sede scimmiottare studi ben più approfonditi, cui è meglio rimandare. Questo parzialissimo excursus sulla simbologia dell’acqua e questo pindarico volo sulla sua presenza in letteratura sono pertanto terminati. Sapendo di non aver esaurito l’argomento, e non avendone nemmeno la pretesa vogliono solamente servire da resocontazione, e si sa che le resocontazioni sono utili ad entrare nell’argomento e possono, forse, fungere da spunto; posto che abbiamo compreso che l’acqua è quella cosa che o ti salva o ti distrugge, qual è oggi, nella modernità liquida, lo stato dell’arte della riflessione sull’argomento? Raccolta firme sull’acqua pubblica, artisti per l’acqua, campagne di obbedienza civile, Golette Verdi di Legambiente e proposte di legge di CasaPound? UNCLOS, acque internazionali res communis omnium, acque territoriali, morti in mare in seguito a viaggi di sola andata? Cos’altro? A noi si pone la questione, come sul capo del naufrago l’onda s’avvolve e pesa. 3 Michel Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Plon, Paris 1961; trad. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1990, p. 24.
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renversements epistemologici dalla transverberazione di Teresa d’Avila al racconto mitico di Zeus e Metis Nel dicembre del 2007 una piccola tipografia di Cesena pubblicava per le Edizioni della Stoa Jets d’eau. L’analisi dell’acqua. Bernini, Bacon, Hitchcock.1 Si tratta di un breve saggio di una quarantina di pagine stampato su carta avorio, che all’epoca cominciammo a chiamare “opuscolo”, nel senso più antico di piccola opera a carattere storico. La copertina rossa in cartoncino ruvido è abbracciata in alto da un lungo rettangolo bianco, che il dorso della legatura separa in due: sul fronte il titolo, su due colonne appena sfalsate, con in basso l’immagine del panneggio del marmo berniniano rovesciato di novanta gradi verso ovest, e sul retro, una breve descrizione che tenta, con fare ekfrastico, di riprodurne i movimenti. Ricordo di essermi immerso, appena dopo le accurate ricerche storico-bibliografiche e la scrittura, nell’invenzione e nell’impaginazione di quell’oggetto, come se tutte quelle operazioni diverse non fossero che una sola, alla fine. Ci tenevo a che l’occhio e la mente, come in un disegno dal vero, non si staccassero mai dal soggetto. Come se il lettore leggendo Jets d’eau si trovasse costantemente nell’atto di contemplare le pieghe della Teresa in Santa Maria della Vittoria a Roma cambiare tonalità a seconda dello scivolare della luce del giorno attraverso quell’ingegnoso lucernario che Gian Lorenzo Bernini aveva progetto per la Cappella Cornaro2. Io, in realtà, scrivendolo non mi sono mai mosso di lì. Erano gli anni in cui frequentavo la Stoa, una scuola sul movimento ritmico e filosofico – un nome che è cambiato più volte in itinere per il perire proprio delle parole – che Claudia Castellucci, con la radicalità e l’acme intellettuale che la distinguono, aveva fondato al Teatro Comandini sin dal 2004. Non riesco ancora a separare quello scritto da quel bacino di gestazione continua di moti e pensieri che ho sperimentato alla Stoa.3 Forse è anche questo il senso per cui, ancora oggi, per comprarlo bisogna telefonare direttamente all’ufficio di quel teatro. Per me, è prezioso che questo saggio abbia creato la propria comunità di lettori scelti, perché imbattutisi nel luogo preciso dove la scuola si svolgeva o perché amici a cui era bello passarlo. È stato importante, senza clamori retorici, che Jets d’eau abbia in qualche modo inventato una propria collettività nascosta forse anche segreta, intima, del tutto fuori dalle logiche tracciate già da altri canali editoriali. Jets d’eau è infatti un’opera di scuola, perché nutrita da e in una comunità di invenzioni e rifles1 Casa editrice, di cui Jets d’eau è il primo edito, fondata da Claudia Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio, presso il Teatro Comandini di Cesena. 2 In verità, oggi, l’effetto luministico originario è quasi impossibile da immaginare. È stato introdotto,infatti, dai padri teresiani, un impianto d’illuminazione artificiale che s’attiva attraverso le offerte deivisitatori. Il tintinnio delle monete corrisponde all’accendersi di un fascio abbacinante che dall’alto diffonde la luce sul complesso scultoreo di Teresa e l’angelo, alterando il delicato modellato berniniano. 3 La scuola di Cesena era imperniata sulla concomitanza tra la creazione di un ballo collettivo, ideato da Claudia Castellucci, e il proliferare di opere, di carattere eterogeneo, messe a punto dagli scolari. Jets d’eau è una di queste.
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sioni collettive densamente dibattute e partecipate. È la ragione per cui, ha bisogno di ricreare con il lettore questo genere di condivisione, anche silenziosa. Sono felice di scrivere su Argo, appunto perché Filippo Furri e Roberta Busato rappresentano esattamente questa tipologia di lettore in movimento incappato nell’ “opuscolo cesenate”. Io stesso riavvistandolo a distanza di oramai cinque anni, oltre a percepirne il sapore aspro, ma avvolgente di quel caleidoscopio di intuizioni, l’agilità ardita tipica dell’adolescenza, non riesco a non innestarlo nelle traiettorie di pensiero che adesso mi riguardano. Da circa un anno ho avviato infatti il mio percorso dottorale all’École des Hautes Études en Science Sociales di Parigi. La mia ricerca rimonta alla teichoscopia, in greco antico “visione dell’alto delle fortificazioni”, di Omero e di Euripide, per spingersi sino al dispositivo architettonico della Torre del Mangia del Palazzo Pubblico di Siena. Insomma mi occupo di due culture visive distinte, quella greca arcaica e quella senese altomedievale. Della genesi e della trasmigrazione di uno sguardo aereo particolare, in cui le credenze mitico-religiose si fronteggiano con le conoscenze geografiche e cosmologiche e l’osservazione del cielo e della terra si proietta tanto sui disegni urbanistici e architettonici, che su dispositivi figurativi specifici di misurazione dello spazio e del tempo. Le mie letture più care di quest’anno di ricerche sono state le opere densissime di Jean-Pierre Vernant. Qui, mi piacerebbe restituire a mo’ d’un tratteggio tenero, – che mi fa pensare a quello con cui Andrea Mantegna tratta a penna e inchiostro bruno il panneggio della Vergine in quella minuscola pergamena con la Madonna e il Bambino contro un paesaggio dipinto di rovine antiche4 – la risonanza che i discorsi di Vernant hanno avuto sulla mia Teresa berniniana e viceversa. Si tratta del sodalizio amoroso che sotto l’egida dell’acqua si stringe tra sposo e sposa, tanto nella cultura greca arcaica che in quella cristiano-mistica controriformata, tenendo costantemente presente la diversità radicale delle due relazioni. Se quest’ultima è infatti declinata nell’afflato devozionale verso Dio, la prima è imbastita sull’astuzia mitica, come strumento di salvaguardia del potere. Queste riflessioni potrebbero riallacciarsi a quelle considerazioni sul movimento antitetico d’ingurgitare e vomitare che percorre interamente i pensieri, la scrittura e le immagini di Jets d’eau. Apprendo infatti da Vernant il mito di Zeus e Metis5. Il padre degli dei, a seguito della cruenta Titanomachia, escogita un piano per saldare il suo potere di primus inter pares. Deve assorbire nella sua persona la sua prima moglie, Metis, personificazione dell’astuzia. Il racconto di Vernant è appassionante. L’intreccio narrativo evoca precisamente quello della celebre favola popolare europea del Gatto con gli stivali, personaggio astuto per antonomasia. Infatti Zeus chiede a Metis, che come tutte le divinità marine ha il potere della metamorfosi, di trasformarsi in un feroce leone, esattamente come il gatto con l’orco nello scontro finale della fiaba. Ormai inorgoglita delle proprie capacità, Metis cade repentinamen4 Si tratta della Madonna della Tenerezza, di recente scoperta in una collezione privata e attribuita dallo storico dell’arte Lionello Puppi ad Andrea Mantegna. Oggi l’opera è esposta all’estremità del corridoio d’ingresso del Museo degli Eremitani di Padova. 5 Jean-Pierre Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, Torino, Einaudi, 2000 e 2001, “Le astuzie del potere”, pp. 32- 34.
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te nel tranello di farsi goccia d’acqua. E Zeus immediatamente l’ingoia. L’assimila nel suo ventre divino. Il mito non si arresta a questo punto, d’altronde il racconto mitico non conosce fine, ma continua. Metis è infatti gravida di Atena, che anziché nascere dal ventre della madre, viene partorita con dolore dalla testa del padre, sotto i colpi della doppia scure di Prometeo ed Efesto. Atena, nata armata di tutto punto, lancia un grido acuto, che ricorda per altre vie quello di Medusa dalla cui testa, sgozzata da Perseo, scaturiscono, Crisaore e Pegaso, il cavallo alato. Un suono, il klangé in greco antico, grido acuto di uccelli e guerrieri, per cui la stessa Atena inventa, a imitazione, il flauto, come strumento che riunisce tutti i suoni. Suono che atterrisce e deforma: Atena infatti è incapace di suonarlo e il suo volto, nell’atto di soffiare dentro alle canne dello strumento, prende, sul riflesso delle acque d’un ruscello, le sembianza di quello della Gorgone6. Di questi movimenti di deformazione forse porta la memoria, a suo modo, quell’Arcangelo Corelli che nel XVIII secolo si misurò col tema musicale della Follia per flauto solo, con cembalo o violoncello7. La fecondità del racconto mitico è inesauribile. Una sola è la traiettoria che riesco a trattenere da questo sguardo incrociato tra la Teresa del barocco berniniano e la cultura greca arcaica. L’inversione epistemologica tra sposo e sposa che avviene attraverso lo stato acquoso. L’acqua è infatti per Teresa l’elemento principe, non solo metafora, ma stato spirituale e insieme condizione fisica per accogliere integralmente Dio e compiere quel sodalizio d’amore tanto potente d’affogarla. Lei non diventa acqua per inzupparsi di Dio, ma in quest’acqua non c’è più distinzione tra il corpo dell’una e lo spirito dell’altro, tanto che la fisiologia del corpo pneumatico conduce, come scrivevo in Jets d’eau, alla geografia della terra di perfezione. Il complesso di Teresa e l’Angelo nel tabernacolo della Cappella Cornaro appare allora come una fontana silenziosa, memore di quella fonte d’acqua viva che al centro del Paradiso Terrestre determinava lo svolgersi dei quattro fiumi che annegheranno il mondo. Nel pensiero mitico, al contrario, Metis si fa acqua per essere assorbita nel ventre di Zeus. Bere la sposa in forma di acqua è per il padre degli dei il gesto che deve compiere per assorbire lei nel proprio ventre. Ma quest’acqua, è evidente la relazione tra ventre e testa, che evoca quei détournements anatomici tipici dei surrealisti di Documents – del resto anche Duchamp non elabora per anni, al rifugio da tutti, un ventre idraulico su cui arde una fiamma metallica da sbirciare attraverso l’orifizio ottico di una porticina di legno rustico?8; è l’acqua del liquido amniotico, tradotto in Zeus in dolore cerebrale, che partorisce al grido roboante della dea vergine, bellicosa e, in un certo senso, terrificante. Se Zeus, stavolta, è una fontana, nel suo ingurgitare Metis e partorire Atena, allora è fontana dell’astuzia, che nel mondo greco antico, ha prodotto, per la prossimità tra guerra e arte, un’interessante affinità tra gli eserciti e le immagini. 6 Jean-Pierre Vernant, La mort dans les yeux - Figures de l’Autre en Grèce ancienne, Artémis, Gorgô, Hachette, 1998, pp. 56-57. 7 La Follia è un tema musicale di origine portoghese tra i più antichi della musica europea, elaborato nei secoli XVI e XVII. L’origine portoghese è confermata dal trattato del XVI sec. De musica libri septem di Francisco de Salinas. 8 Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage o Étant donnés (242.6 x 177.8 x 124.5 cm) è l’ultima sorprendente invenzione di Marcel Duchamp, costruita con materiali vari tra il 1946 e il 1966 e conservata a Philadelphia presso il Philadelphia Museum of Art.
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Per concludere quindi, questo renversement di sposo e sposa sancito nell’una come nell’altro contesto culturale dall’acqua e nell’acqua, potrebbe chiarire quell’ulteriore reversement prodottosi tanto nella dicotomia corpo-spirito e corpo-anima, come nel concetto di procreazione della vita e invenzione tecnico-artistica elaborati sia dal pensiero greco arcaico che da quello mistico della Controriforma. Un discorso forse ancora da affrontare.
barchessa L’angoscia del battipali Rassomiglia al cerchio dei pensieri Che ha avvelenato il sonno a molte settimane Dure, come le spranghe della barchessa, Senza l’ombra dei portici o gli scuri Per riposare gli occhi. Rivivo in terre di pianura. Non atterriscono più le mulattiere Attorcigliate, ma le fronde fresche Dei salici e degli olmi. Manca soltanto il gemere di un rivo, Una laguna cieca, un fiumiciattolo Terroso, una pozza di salmastro A chiudere il confine.
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Sacra al Timavo la risorgiva vive pozza nascosta * Natura ambigua. Dall’acqua emerge a volte un cormorano * Pioggia battente. Di là dai vetri un fiato roco sospende * Materia liquida pullula vita inerte. Accade un fremito
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NELLA, ANNI 63
Montecampano, 1954
E la figlia chiese alla madre: - Chi era? - Tua nonna, mia madre. - Di cosa parlavate? Perché ti toccavi la testa e sorridevi? Era la tua prima foto? - Non ricordo. - Com’era la tua vocina? Quella di tua sorella? E quella di tuo fratello? Perché lei aveva il broncio? - Non ricordo… (la madre accenna a un sorriso) - E la voce di nonna da giovane? La voce cambia negli anni, anche la sua è cambiata? - La sua voce era dolce, qualche volta querula come un carillon, ma più spesso il gorgoglio di un ebollitore e lo scroscio di una cascata di zecchini, allegra, luminosa e pazzerella. Cantava… e ridendo diceva “sei la mia Gioiella!”... Ricordi? - Si, ma vorrei averla sentita da giovane, disse la figlia. - No, non puoi. Non si risale la corrente. Vivi felice la tua vita. La madre rispose alla figlia.
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quando l’acqua rompe l’argine del tempo appunti su Epoca immobile Procede per barlumi, tracce sparse della propria storia, la poesia di Giovanna Sicari, in particolare quella di Epoca immobile, l’ultima raccolta pubblicata dall’autrice nel 2003, prima della sua prematura morte. Il titolo rimanda in prima battuta a un’idea di fissità, ma nello stesso tempo conserva un senso ossimorico, poiché l’epoca, intesa come tempo, è di per sé qualcosa che scorre, si allontana, e dunque poco incline all’immobilità; ma soprattutto, grazie al potere immaginifico della parola, l’età lontana può ricongiungersi al presente: «vi vedo ora / immerse in un piccolo splendore mie compagne di scuola». A risvegliare immagini del passato, per lo più legate all’infanzia della scrittrice, interviene molto spesso l’acqua, che nelle sue diverse forme bagna numerosi testi della raccolta. Pioggia – moltissima – ma anche fiume, mare, onde… lei si insinua nelle ossa, scuote, risveglia il pensiero e il corpo apparentemente composti, intorpiditi come in uno strano sonno: nella ferita mortale (quella della malattia) si trema di dolore e di gioia, si avverte il bisogno di vita, qualcosa che nasce dall’acqua. Attraverso l’acqua, si compie in questo libro un viaggio a ritroso nel tempo, un autentico ritorno alle origini, dove «ogni viaggiatore rompe l’argine per sempre»: si incontrano i fantasmi del passato, che attendono sulla riva del mare, come relitti trasportati dalle onde. Giovanna approda così al piccolo mondo della sua infanzia. Grazie all’acqua riaffiorano sensazioni, immagini, dolori («Tutta la notte ha piovuto e / m’inquietava quel suono stillato / vecchia aria in un silenzio / nemico con l’antico sogno: / una casa una chiesa una scuola / un luogo di maledetta memoria»). Ritornano le persone care e i momenti intimamente a loro legati, ora nella scrittura vivi più che mai: «Lì ho visto mio padre per sempre: / villa Sciarra 1962, inverno segreto / sole velato o pioggia di maggio…». E ancora: «mamma del ricordo come fosse lei sola a guarire / le ferite mentre fuori tutto è fermo e pioviggina / ed è inverno, è inverno a Monteverde dietro i vetri». Nonostante la legge spietata della vita recida le epoche, allontanando per sempre le persone amate, la scrittura infrange ogni regola: «in questa zona / fuori legge ci si può salvare»; attraverso la poesia si compie quel viaggio faticoso nell’elemento liquido, «acqua che ricorda il 1960, Taranto – villa Peripato / acqua che ti ha fermato, Paolo, giovane medico di equilibri»; Giovanna aveva allora sette anni. Qui l’acqua è in strettissima relazione col tempo, anzi, oserei dire che è il tempo, evocato come ritorno al mondo bambino, al canto, alla poesia, in una dimensione carica di tenebra e magia: «Potrei chiedere alla sibilla / di una sera tenera e infantile / quando dolce bolle l’acqua / del pozzo ma la sibilla / sono io, allora dico tutto, / delle sevizie e degli abbandoni, / di lettere felici e infami…». La scrittura di Giovanna Sicari – che assai risente dell’eco di una grandissima voce 40
del Novecento, quella di Amelia Rosselli – passa spietatamente attraverso il corpo, «e quando piove, il corpo aperto sbatte alla porta / del tempo…». Il corpo – si diceva, apparentemente composto – spesso si trova assopito in quello stato di «sonno lieve e straniero», che a tratti viene scosso, risvegliato, sottratto alla sua pace illusoria («pioverà, tutti bagnati andremo come adesso / con questo odore di ferro e di acqua che entra nelle ossa / dappertutto preme l’onda in quello stato di trance»). Ma il corpo è soprattutto veicolo di comunicazione col mondo: una comunicazione “carnale” e insieme fluida, sanguinosa specialmente nell’ultima parte dell’opera, così impregnata di un alone di malattia e morte: «Amore del rifugio e dell’acqua / (…) / Vorrei baciarti il sangue / sentirti dentro l’aria, dentro il ventre, / fuori è leggero il vento / apre le vie. Muore l’infanzia». Ed ecco, il cerchio si chiude, si compie l’eterno ritorno tra l’infanzia e la morte, dove ogni concezione del tempo svanisce in quell’elemento così carico di significato: l’acqua. Come spiega molto bene Roberto Deidier, nella sua illuminante introduzione, in Epoca immobile infanzia e memoria tramano insieme per ricostruire una storia compiuta, circolare e coerente. (cfr. Introduzione di Roberto Deidier, in Giovanna Sicari, Poesie, 1984-2003, Roma, Empìria, 2006). Il soggetto si rivela a se stesso attraverso l’immagine del puer, in un percorso a ritroso che sfida ogni immobilità, e che si ritrova nel libro grazie alla figura del nuotatore. Si nuota – sottolinea ancora il critico – «nella liquidità della propria vicenda esistenziale», ma anche nel «lago della malattia», come in un lago del cuore, afflitti e assetati di vita come fanciulli. Perché i bambini non sanno, non vedono, ma hanno dentro l’energia divina, la «selvaggia preghiera in bocca, / i bimbi nuotano forte, i bimbi dentro la nostra pace».
ophelia Anima scontornata annegata a largo del nostro doppio filo spinato un volto innalza canti a pelo d’acqua, ma non ha dei tuoi occhi che il verde nelle mani e i cieli riflessi e dimenticati. Provo a occultare l’oro dell’anima Che ci cammina accanto, e a nascondere i suoi occhi sotto la lama delle tue palpebre. 41
magdalene Anche in assenza del verde degli occhi per gli anni a venire e a tornare che la terra c’insegni Il trucco, l’inganno di risorgere ancora dopo morte apparente (rendimi il buio se la luce si fa troppo vicina) di poca acqua di rami e di capelli è la corda lucida che tiene legati e distesi i tuoi piedi e la mia terra.
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L’atterragio è un tuffo al fondo di un pozzo. Mi ricompongo a terra trasparente e spessa il giusto, una fanciulla, un’ondina, a pelo d’acqua mi guardo intorno, mi sciolgo sul fondale. Quale nuova velocità di materiali e altra sorta di impastaggi calcestruzzi asfalti e suoli di sintesi mi spinge e non è pietra o legno o impasto di paglia e sterco che mi spugna e mi convoglia all’isola nel traffico. Non è più fluido ora il viaggio, quanti gli ostacoli, le chiusure dei boccaporti, gli stagni artificiali, giù per i tombini. Mi sposto sui legami, dall’umidità del cipresso alla radice e giù fino alla falda, scorro sotterranea protetta. Non più i mielosi accordi d’un tempo ma questo suono fesso che mi respinge, mi pozzanghera, mi ristagna. Quale delirante pietà mi muove ancora fino all’argilla e la falda. Giù sotto mi scovo coperta al riparo. Che accade? Quali tempi son questi?
il pozzo è donna l’impegno di AMREF dal Kenia a Roma L’acqua pulita è un bisogno primario e un diritto umano: l’acqua è fonte di vita; dove l’acqua manca è più alta la probabilità di ammalarsi e scarse sono le possibilità di sviluppo di un territorio. È questo il caso di tutti i paesi dell’Africa Subsahariana e del Kenya, dove il ritardo delle piogge stagionali influenza i raccolti e il benessere delle tante comunità rurali, strettamente legato all’acqua. Problemi ambientali, come la deforestazione, e problemi strutturali, come la mancanza di infrastrutture che purifichino l’acqua e la conservino, affliggono la vita delle persone in queste aree, così verdi e rigogliose durante la stagione delle piogge, quanto aride, desertiche e brulle dopo settimane di siccità. In questo contesto problematico le donne diventano soggetti di iniziativa, il vero e proprio motore della società africana. Donne con i loro bambini che percorrono chilometri ogni giorno per raggiungere la fonte d’acqua pulita più vicina al loro villaggio, e assicurare alle proprie famiglie la razione minima giornaliera di venti litri. Donne che lavorano i campi e seguono le colture, seminano, raccolgono. Donne che gestiscono la vita famigliare e comunitaria di questi villaggi, che si aiutano reciprocamente per risolvere i problemi. Nel corso di anni di lavoro per la realizzazione di progetti idrici e sanitari, ad AMREF1 è apparsa sempre più evidente la maggiore efficacia degli interventi quando le donne hanno un ruolo attivo nelle comunità.2 Mettere al centro le donne, coinvolgerle in pratiche manuali e tecniche di manutenzione degli interventi idrici (solitamente attribuiti agli uomini) è stata una scelta efficace: le loro capacità e conoscenze vengono valorizzate e riconosciute oltre i ruoli tradizionali attribuiti dalla comunità; la loro opinione è maggiormente rispettata all’interno della famiglia e in pubblico; possono 1 AMREF (African Medical and Research Foundation - www.amref.it ) è la principale organizzazione sanitaria no profit del Continente africano. Lavora in Africa da 55 anni, contribuendo allo sviluppo socio-sanitario del Paese, in particolare nelle aree più remote e marginalizzate. È stata fondata a Nairobi nel 1957 per iniziativa di tre chirurghi occidentali e in oltre mezzo secolo di attività, ha soccorso, curato e istruito milioni di persone. Oggi AMREF impiega in Africa circa 900 persone, per il 97% africani, e gestisce 140 progetti di sviluppo sanitario in Etiopia, Kenya, Sudafrica, Sud Sudan, Tanzania e Uganda, con il coinvolgimento attivo delle comunità, del personale e dei sistemi sanitari locali. Nei Paesi in cui opera, AMREF è presente con centri sanitari e unità mobili di chirurgia, prevenzione, vaccinazione e oculistica, in grado di fornire assistenza medica alle popolazioni nomadi e rurali. Inoltre attraverso il servizio dei Flying Doctors, i “dottori volanti”, AMREF porta regolare assistenza specialistica e chirurgica a 70 milioni d’abitanti dei villaggi più remoti, operando in 150 ospedali compresi in un raggio di 1,7 milioni di chilometri quadrati, un’area grande come l’Europa occidentale 2 L’autore dell’articolo, Gianguido Palumbo Pagi, è cooperatore internazionale, scrittore e presidente di MONDITA.it associazione interetnica italiana a Roma. (gianguidopagi@gmail.com)
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SARA, ANNI 35
What are the roots that clutch, what branches grow Out of this stony rubbish? Son of man, You cannot say, or guess, for you know only A heap of broken images, where the sun beats, And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief, And the dry stone no sound of water T.S. ELIOT, The Waste Land
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meglio negoziare i bisogni e spesso diventano leader, oltre a continuare un’azione educativa fondamentale per le pratiche igienico sanitarie. Le donne membro dei comitati di gestione dell’acqua hanno così portato un forte cambiamento negli stereotipi di genere: soprattutto nella leadership e in ruoli di manutenzione tecnica sono spesso considerate esperti migliori degli uomini. L’esperienza di AMREF in Kitui insegna che le donne possiedono un alto senso comunitario, rafforzato da una naturale capacità di trasmettere le lezioni apprese. E, quando direttamente coinvolte nei progetti idrici e sanitari, si impegnano a educare vicini e famigliari a evitare l’utilizzo di acqua non potabile, a conservare il suolo e a gestirlo, in modo da avere sempre accesso ad acqua pulita che non sia fonte di malattie per adulti e bambini. AMREF crede nella capacità delle donne di gestire un bene comune come l’acqua, ed è per questo che investe su di loro: perché possono migliorare le condizioni della loro comunità se invitate a decidere e a partecipare nella vita quotidiana dei villaggi, se chiamate a prendere parte a corsi di educazione ambientale e sanitaria, se vengono insegnate tecniche migliori di coltivazione, creando orti e vivai comunitari. Le donne di Kitui sono l’esempio di una componente femminile della società africana, forte e responsabile, che ha accettato la sfida di un progetto di sviluppo e si è fatta portatrice di una buona pratica. Per stimolare un’azione dal Nord a sostegno di un modello di intervento idrico e sanitario come quello di AMREF in Kitui, per tutelare il ruolo delle donne e capire l’importanza della risorsa acqua per il futuro dell’Africa, bisogna superare la logica dell’assistenzialismo e dare spazio a una solidarietà empatica. L’intervento di AMREF in Kenya (nello specifico nei distretti di Kajiado, Kitui, Makueni, Malindi e Magarini) si sviluppa partendo da un approccio a 360°, in grado di incidere sul problema dell’accesso alle risorse idriche fornendo parallelamente alle comunità le basi per un percorso di sviluppo realmente sostenibile, realizzato per e dagli africani. In questo senso, la progettualità di AMREF parte dalla costruzione dei pozzi (di superficie e di profondità), delle dighe e degli acquedotti, integrando queste azioni in un modello d’intervento più ampio capace di attivare un circolo virtuoso tra i diversi ambiti legati alla salute delle comunità: la creazione di orti comunitari e vivai per migliorare lo stato nutrizionale delle famiglie; la formazione dei Comitati Comunitari per la gestione dell’acqua che assumano la leadership nella gestione delle risorse idriche come bene comune; la formazione di Artigiani Locali per creare personale specializzato nella gestione e manutenzione dei pozzi; la Formazione di Facilitatori comunitari responsabili della prevenzione della malaria e delle patologie legate al consumo dell’acqua sporca. Si è aperta una vena d’acqua nella fronte. Esce dagli occhi. Lentamente. Devo masticare in quest’ora. Nutrirmi contro me stessa. Contro la faglia. E questa corrente che preme e rovina. Cercava sbocco. E finalmente ha trovato. Mangia questo cibo che dissolve in poltiglia. Porta ancora saliva. Versa lacrime e mangia. Spalanca la bocca: non ti contiene. Mostra l’impasto orribile che ci forma. # 45
partitura d’un osservatore di onde «Se fosse una storia sarebbe ambientata sul lungomare di una spiaggia lunghissima. Una spiaggia senza inizio e senza fine. La storia di un uomo che cammina lungo questa riva e forse non incontra mai nessuno. Il suo sguardo si sofferma ogni tanto ad osservare qualche oggetto o frammento portato dal mare, le impronte di un granchio, un gabbiano solitario. Il paesaggio è sempre la sabbia, il cielo, qualche nuvola il mare. Cambiano solo le onde, sempre uguali e sempre diverse, più piccole, più grandi, più corte, più lunghe». Solo un breve cartiglio dell’autore, posto all’interno del booklet che accompagna il disco, a descrivere l’intento creativo di quest’ambizioso lavoro. L’album Le onde (1996) è un viaggio danzante su bianchi e neri tasti di pianoforte, sinuoso, morbido ed elegante; un concept-album nel quale l’immensità del mare arriva a baciare labbra color ocra mentre l’occhio di uno spettatore curioso si posa silenzioso, tutt’intorno. Il primo passo sull’umida sabbia è affidato a Canzone popolare (1500 ca.), breve rivisitazione di un celebre brano d’epoca rinascimentale in Sol maggiore, melodico ed espressivo. Poi lo sguardo si posa ad osservar Le onde nel loro andirivieni, una celebre iterazione modellata su grappoli di poche note – che un paio d’anni più tardi faranno da cornice alla celebre pellicola di Nanni Moretti Aprile. Dopo alcuni passi, su suoni che provengono da Lontano, l’Ombra del nostro spettatore si allunga e La linea scura dell’orizzonte diventa sempre più intensa; laggiù, s’alternano le note intervallate da un triplice accordo su Tracce lasciate da un cormorano distratto che Questa notte porterà via con l’alzarsi della marea. Come nell’omonimo romanzo di Virginia Woolf, cui è ispirato il titolo di quest’album, si susseguono brani più introspettivi come Sotto vento, Dietro l’incanto e Onde corte che sembrano caratterizzare storie e personaggi d’un epoca remota mentre da La profondità del buio emergono i suoni scanditi dal ventre d’un cheto oceano. L’incalzante Passaggio d’una lontana imbarcazione porta alla mente queste celebri parole di Hemingway: «L’acqua era di un azzurro scuro, adesso, così scuro che pareva violetto […] la strana luce prodotta dal sole nell’acqua, ora che il sole era più alto, significava bel tempo, e così pure significava bel tempo la forma delle nuvole a terra. Ma la fregata ormai era quasi invisibile e nulla si mostrava sulla superficie dell’acqua tranne qualche chiazza gialla di sargassi sbiaditi al sole e la bolla violetta, stilizzata, iridescente, di una caravella1 che seguiva da vicino la barca»2. Di sicuro, non sarà L’ultima volta che andremo al largo per deliziare la nostra fantasia. Ludovico Einaudi, Le onde, BMG Ricordi (1996)
1 Animaletto del tipo dei celenterati al quale appartengono anche le meduse e il corallo. 2 Hemingway, Ernest, Il vecchio e il mare, in Romanzi, Mondadori 2006, p. 788.
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isola di Karpathos IV. Qui non c’è un gesto a fare la terra meno breve, solo l’acqua chiama altra acqua. Mi faccio onda di un’onda e non c’è nemmeno un’ombra per consolare.
V. Il mare è nero, un calamaio a picco nel passato, solo gli scogli lo fronteggiano, si sfiorano - muso a muso. Riconoscersi nella certezza del basalto. Ora so la tenerezza, l’abbraccio nel silenzio della specie.
XII. Slitto nel punto dove sono solo acqua di un’acqua, prima che sia alto l’urlo dentro il mondo. Sotto, là sotto c’è un perdersi e ancora ritornare.
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come vincere la paura dell’acqua La festa del santo iniziava il giorno del solstizio d’estate. La spianata dietro il campo di pallone, che per il resto dell’anno era un pascolo per i cani, si popolava di giostre: calci in culo, tagadà, autoscontro. Il palco dei concerti stava dietro il piazzale della chiesa, quell’anno l’attrazione principale erano le Camomilla, quattro ragazze in playback che cantavano musica disco e ballavano mezze nude, col pubblico maschile che guardava laconico e confuso. Oltre la consolare c’era la conca del fiume, che in quel punto era fatto di acque quasi ferme per via della diga un chilometro giù verso Roma. Era andato lì intorno alle dieci di sera, era rimasto seduto in macchina a contemplare le luci delle giostre in lontananza, che viste da laggiù assomigliavano ai fiochi bagliori di un albero di Natale. Aveva tenuto lo stereo acceso, dentro c’era una cassetta piena di hit, la prima canzone era Run to Me di Tracy Spencer. Si toccava la faccia nel buio. Loredana era arrivata dopo un po’, l’A112 aveva fatto un largo giro del piazzale, poi si era fermata e aveva alzato due volte gli abbaglianti. Era il segnale. Massimo aveva spento lo stereo ed era sceso dalla macchina e l’aveva raggiunta. «Luca ha portato le bambine alla festa, staranno un’ora, non di più», aveva detto lei guardando fisso nel buio. «Non abbiamo molto tempo». «Ce lo facciamo bastare». Si erano salutati in fretta. Lui le aveva indicato la strada, non era che un oscuro sentiero tra salici e canne palustri. Loredana aveva guidato col busto proteso in avanti, i muscoli della faccia tirati per l’emozione di quell’incontro, gli occhi stretti che cercavano di mettere a fuoco la via. «Non mi hai chiesto nemmeno come sto», aveva detto Massimo. «Sono contenta di rivederti». «Anch’io». Lunghi minuti nel nero, le gomme che sussultavano sulla nuda terra, il canto notturno dei grilli. E loro che si riabituavano lentamente al mistero di se stessi. «Ecco, laggiù. Destra». «Ok». «È qui». «Sei sicuro?». «Non mi sbaglio». Una volta arrivati avevano aperto gli sportelli, era entrata una bella zaffata di caldo umido. Il fiume gorgogliava nell’oscurità, il resto del silenzio sembrava invalicabile come il fianco increspato e immobile di un’enorme bestia preistorica. «Non me lo ricordavo così», aveva detto Loredana. «Fidati. Questo è il punto. Solo che noi di solito venivamo a piedi lungo la riva, passavamo per quelle baracche. I pioppi non erano ancora così alti». «Non lo so. Forse». «Qui papà piantava le canne da pesca. Spargeva la pastura per le carpe. E noi 48
correvamo lungo il sentiero. C’era il rudere, ti ricordi? Avevamo fatto la scommessa: dieci adesivi della Vespa di papà. Tu ricordavi che c’erano due stanze, io tre. Erano due. Hai vinto tu e ti sei presa gli adesivi». «La scommessa me la ricordo. Ma sei sicuro che fossero adesivi della Vespa?». «Sicuro». «Non erano biglie?». «No. Adesivi». «Com’è che ricordiamo tutto diverso?». «Bella domanda». «Cerca di rispondere per favore». «Penso che sia normale. Succede a tanti». «E di noi? Che ti ricordi?». Massimo aveva abbassato lo sguardo, era sprofondato con la testa nelle spalle. «A parte il numero delle stanze nel rudere?». «Due. Una col tetto, una senza. Noi andavamo in quella senza». «Facevamo finta che fosse casa nostra». «Facevamo finta di essere marito e moglie…». La notte era una grande cosa, immensa, da quelle parti. La diga luccicava dietro l’ansa del fiume, i fari delle auto scorrevano lenti sul viadotto lontano che tagliava la periferia. Si erano spostati un po’ verso la riva, sentivano la ghiaia scricchiolare sotto le scarpe. «Non ne abbiamo mai parlato per tutto questo tempo». La voce di Loredana era arrivata dolce alle sue orecchie. «Forse tu sei in pace. Per me è più difficile». «Ho sempre saputo come sono andate le cose Massimo». «L’hai immaginato. Immaginare, però, è una cosa diversa». «Allora perché non me lo dici tu come sono andate le cose, adesso che anche mamma è morta, così smetto di immaginarle?». Aveva tirato fuori le Merit, ne aveva preso una nel pacchetto direttamente con le labbra, si era messo a fumare. Dopo un po’ aveva fatto un paio di colpi di tosse, aveva sputato il catarro. «Eravamo d’accordo che ti avrei raccontato. Vero. Ma non sono più tanto sicuro che questa cosa sia poi così importante». «Per me lo è». «Bene o male siamo sopravvissuti lo stesso». «Se pensi questo, allora non abbiamo altro da dirci. Possiamo anche andarcene». «Aspetta, cazzo!». «Massimo». «Aspetta». Aveva soffiato via il fumo ed era rimasto un attimo a bocca aperta a guardare le stelle. «Lore, l’ho spinto io. Papà stava in ginocchio sulla riva a trafficare con la sacca porta canne». Si era toccato un punto del petto, premendo la mano come per sentire meglio le 49
vibrazioni della sua voce. «Era fuori dalla grazia di Dio. Ripeteva questa cosa dello schifo: “Mi fate schifo”, diceva. Voleva riempirci di botte, diceva che ne avrebbe parlato con mamma di quello che facevamo. Roba così». «E tu l’hai spinto». «Aveva il terrore dell’acqua. Ricordi? Non ho mai capito perché gli piacesse la pesca. Le volte che andavamo al mare se ne stava tutto il tempo seduto sulla sdraio, non metteva mai i piedi in acqua. Figurati se sapeva nuotare». «Papà era idrofobico». «Può darsi, fatto sta che andò giù come un sasso, senza un lamento. Era qua, da queste parti. Non so altro». «E poi…». «Poi sei arrivata tu. Non ti eri manco rivestita bene. Questo ricordo. Tu che uscivi dal rudere con la salopette tutta sbilenca, con una bretella slacciata, ti si vedeva ancora…». Lei gli aveva fatto cenno di non continuare, si era nascosta le mani nella faccia, aveva singhiozzato un po’, poi si era calmata di nuovo. Si era asciugata il naso con un fazzoletto e si era tirata i capelli dietro le orecchie. Erano stati zitti; minuti, qualcosa più qualcosa meno, un tempo che a loro era parso un’eternità. Per tutti e due era una situazione sospesa, qualcosa che in seguito avrebbero ricordato come una specie di sogno a occhi aperti, la notte che aveva messo fine al secondo lungo ciclo delle loro vite, quello dominato dalla paura dell’acqua. «Come stanno le bambine?», aveva tagliato corto lui. «Stanno bene. Adesso hanno undici e nove anni. La grande a settembre va in prima media». «Ti assomigliano?». «Nemmeno un po’», si era messa a ridere. Lui aveva riso di rimando. Aveva fatto ancora un tiro al buio, poi la sigaretta era volata via nel fiume immobile.
L’acqua del fiume è nera. Non ti ci puoi specchiare. Vedi, è accaduto così. Ci siamo trovati nel mirino, piccoli passi nello stesso piccolo cerchio. L’intera città fluttuava. Se ci avesse sfiorato porteremmo segni sul corpo, sottili e rossi lineamenti come dopo il passaggio di una medusa. Appostato sull’orlo di un tetto il cecchino aspettava. Sapeva ci saremmo incontrati in quel punto, dove si incrocia lo spazio nel tempo, dove si apre la sua pupilla. Quando ci ha visti passarci di mano lo stesso bicchiere ci ha sfilato dagli altri. E poiché eravamo barcollanti, ci ha guidato a ritrovare l’equilibrio, seguendo il fiume nero, così nero che avremmo potuto calpestarlo. Ogni cosa faceva restando invisibile, governandoci nel cerchio del mirino, con la forza della pupilla. Cercava per noi una parete, nascosta da cespugli, grigia, dove finirci lasciandoci calzare le scarpe. Accovacciati o goffamente retti sui piedi, in una intercapedine della notte. Quante volte premuti contro l’intonaco, sbattuti contro il pietrisco, per vedere cosa filtrava da noi, se avremmo ceduto di nuovo la vita. Una scossa ti ha attraversato senza creparti la fronte. L’hai detto in una lingua solo tua. Una lingua di nessuno # 50
water resistant
a Walt Whitman
Come attraversare il tempo e la memoria? i suoi desideri sono l’incontro e lo straniero. Come una nuova lingua il rito iniziatico / aneddotico costruisce e addensa le immagini di un tempo ridotto e abbreviato: lo dispone, lo divide, e lo disgrega. E l’acqua cancella lo sforzo come la storia rigenera-azioni in movimenti circolari: rapporti coscienti di un pensiero. Il pensiero come un suono, Le nuove scritture prendono forma. Sostenuta dalle sue pulsazioni. Resiste al suo tempo che si riduce e lo compatta. Nel labirinto, lo straniero è sulla strada. WATER RESISTANT1 dice l'acqua e il suo movimento, il suo rapporto col mondo. L’acqua che resiste come fondamento vitale (il legame idrogeno, la molecola che si aggrega) che si apre e accoglie, che si infiltra che spinge e rompe, che si trasforma per mantenersi feconda. E la materia che si connota a partire dal suo rapporto all’acqua, di resistenza o di accoglienza. Impermeabile, idrorepellente, idrofuga, è materia inerte, che rifiuta il principio fluido; solubile assorbente permeabile è materia vitale, che interagisce con l’acqua, la trattiene la incontra la rielabora, la vive. WATER RESISTANT scorre, tra musica e immagine, sul filo, sulla membrana-frontiera: individua le faglie, le pieghe dove l’acqua si infiltra e le segue, si lascia assorbire, penetra; oppure lambisce, contorna, evita e come l’acqua defluisce, trova strade diverse, inventa transiti ed erode, se vuole, se non può fare altrimenti. L’acqua cancella e riscrive con il lavoro incessante delle onde, persiste e pulsa, impone tempo e movimento all’immagine come alla vita, si ostina, crede, sfida, con una memoria propria, una energia propria. WATER RESISTANT è il punto di vista dell’acqua, è la sua forma di vita di fronte a chi l’accoglie e a chi la rifiuta, e diventa metafora dell’incotro-scontro con l’altro, vitale e aperto o sterile e inviolabile. L’acqua come elemento estraneo-straniero solo alla materia che rifiuta la vita che essa trasmette, veicola, scambia. Il progetto di video-arte Water Resistant è stato realizzato dal videomaker Sergio Trapani e dal polistrumentista Sacha Ricci (99Posse): 1 http://vimeo.com/25027146. Estratto del film: Water Resistant (05:01) [integr. 41:00]. Presentato alla Nuit Blanche di Parigi del 2005, è una delle numerose collaborazioni tra i due artisti, insieme ad un altro lungometraggio, Do You Remember Revolution (http://vimeo.com/25023438), vincitore nel 2004 del festival multimediale Norapolis di Metz.
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water jukebox album Erroll Garner, Concert by the Sea (1955) The Beach Boys, Surfin’ Safari (1962); Surfin’ USA (1962); Surfer Girl (1963) John Barry, Thunderball (James Bond soundtrack, 1965) Antonio Carlos Jobim, Wave (1967) Otis Redding, The Dock of the Bay (1968) The Beatles, Yellow Submarine (1969) Creedence Clearwater Revival, Green River (1969) King Crimson, In the Wake of Poseidon (1970) Simon & Garfunkel, Bridge over Troubled Water (1970) Delirium, Dolce acqua (1971) Jethro Tull, Aqualung (1972) Gentle Giant, Octopus (1972) Balletto di Bronzo, Ys (1972) The Trip, Atlantide (1972) Acqua Fragile, Acqua Fragile (1973) The Who, Quadrophenia (1973) Yes, Tales from Topographic Oceans (1973) Premiata Forneria Marconi, L’isola di niente (1974) Miles Davis, Water Babies (1976) Pat Metheny, Watercolors (1977) Emerson, Lake & Palmer, Love Beach (1978) Steve Winwood, Arc of a Diver (1980) Arti e Mestieri, Acquario (1983) Fabrizio De André, Crêuza de mä (1984) The Cure, Standing on a Beach - The Singles 1978-1985 (intitolato Staring at the Sea nel formato CD di alcuni paesi, 1986) Antonio Carlos Jobim, Echoes of Rio (1989)
Blur, The Great Escape (1995) Richard Wright, Broken China (1996) Le Orme, Il fiume (1996) Litfiba, Mondi sommersi (1997) Dream Theater, Falling into Infinity (1997) Ennio Morricone, La leggenda del pianista sull’oceano (colonna sonora, 1998) Liquid Tension Experiment, Liquid Tension Experiment 2 (1999) Stefano Bollani, L’orchestra del Titanic (1999); Stone in the Water (2009) Symphony X, The Odyssey (2002) Osvaldo Golijov, Oceana (2007) Alessandro Grego, Heliossea (2011) Vinicio Capossela, Marinai, profeti e balene (2011) Donald Fagen, Sunken Condos (2012)
Paolo Tarsi, Construction dans l’espace et le silence (2012)
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pan ta rei
Era facile stare così, seduto a tirare sassi all’acqua del porto. Li potevi guardare inabissarsi tra le alghe come traccianti minerali, perdersi come parabole mandate a fondo. Da secoli si marinavano a riva, freddi e caldi, bagnati dalle maree, dalle piogge, calpestati al limitare di quell’immenso mare che avevano forse un tempo conosciuto o da sempre bramato. Ho raccolto un piccolo sasso nella macchia vicino alla spiaggia. Ha un buco nel mezzo come una ciambella. L’ho legato con un tratto di lenza a un legno. Più che una barca pare una macchina teatrale. Sprofonda il bulbo di deriva e galleggia lo scafo a scandaglio. Resisti alle onde, fatti carezzare dai polpi e dai pesci. E se sarà naufragio non temere le creature dei fondali, vinci le paure dei mostri marini. Legno di cento anni di arsure perditi ora nell’orizzonte acqueo dove le storie sono tutte leggende e le notizie viaggiano disattese dai porti verso le carovane. Ho liberato al tuo fianco almeno un milione di spiagge. Poi mi giro e riparto verso il mio viaggio accarezzando la secca e friabile crosta terrestre.
Pacifico Pacifico chiude la porta dell’ufficio e scende giù per le buie scale del palazzo. Fuori, all’aperto, un auto e poi uno scooter passano rimbombando e ronzano fra le mura dei palazzi. La luce bassa di fine giornata imbrunisce d’un rossore caramellato l’intersecarsi delle vie che si irraggiano intorno. È una strada di uffici, non c’è nessuno a quell’ora prima di cena, se non un gruppo di studenti con magliette elasticizzate e pettorali palestrati che Pacifico incrocia scendendo lungo una via. Nella strada del mercato due signore parlano davanti a un cinema abbandonato da decenni che è tutto fasciato di impalcature rugginose e di teli bianchi di plastica. Il palazzo è senza tetto, le pareti interne sono sventrate e la struttura è una scatola vuota nel cuore della città, una testa imbalsamata e senza occhi. Poco distante tre bambini cinesi si passano un pallone di gomma e il pallone rimbalza per terra con uno schiocco asciutto. Anche loro stanno in silenzio e Pacifico vorrebbe sentirli urlare. Una donna li fissa sull’entrata del suo negozio stracolmo di paccottiglia e merce contraffatta. Sembra però guardare altrove, con il volto naufrago di chi alterna ricordi a riflessioni. Oltre la strada del mercato Pacifico si ritrova nel corso principale cittadino. Qui le cose variano. Stranamente, svoltato l’angolo, si passa dal silenzio a un tenue brulichio. In quel mese dell’anno, in quell’ora del giorno, le superfici delle cose sono indorate dal sole grazie a un tramonto miracoloso e ruffiano. C’è gente a passeggio, travolta dalla traiettoria rettilinea del corso tutto lastricato di bianco. In fondo si arriva al mare e al porto. Quando tira vento se ne sente l’odore salino ma la vista e dei suoi colori è preclusa, perché c’è un palazzo sgorbio in fondo alla strada che tappa tutto. Pacifico procede verso il mare, offuscato da una lieve e familiare stanchezza che a volte si impossessa di lui come una nebbia, sul fare della sera, a computer spenti. Gruppi di vecchietti appollaiati sulle panchine strizzano gli occhi come piccioni satolli. Ragazze dal corpo acerbo passeggiano in su e in giù coi loro sorrisi puntellati di acne e trasfigurate sotto il sole che le fa leggere. Quelli che lo disturbano sono gli uomini di mezza età, i signori e le signore che passeggiano. Esibiscono un’aria per bene che a Pacifico comunica un inesorabile senso di morte in vita. Poi arriva alla 55
piazza del teatro, e ancora, imbucata una via fra due palazzi che è quasi un vicolo per come è grommata e buia, da lì sbuca sulla darsena. Il mare all’orizzonte è calmo e oleoso. Ma a riva c’è una lunga barriera di metallo che taglia il porto in tutta la sua lunghezza e sbarra il cammino e impedisce di spingersi fino all’orlo delle banchine e di arrivare sul loro ciglio e costatare da lì che l’acqua è abbastanza profonda e scura da celare il suo fondale. La rete che intrappola Pacifico è alta due metri e mezzo, e siccome è piantata su dei pannelli di cemento, lo sbarramento sembra un muro, un Minotauro metà ferro e metà pietra, che si allunga a destra e a sinistra e blocca ogni cosa nel suo ondulato abbraccio. Oltre e sopra la rete metallica, l’affastellamento di container, scafi, riverberi di luce e silos ammassati sull’orizzonte si compattano in un grumo proteiforme e inestricabile e il colore del cielo è argentato e infiammato di rosso, nel tramonto melodrammatico che chiude la giornata. Pacifico ha una specie di appuntamento con Fausto, un suo amico. Il bar dove si sono dati ritrovo è sotto la loggia di un palazzo modernista a più piani che sorge di rimpetto al mare e ai moli e alle navi. Qui, davanti al bar, appoggiato a uno dei tavolinetti piazzati sul marciapiede sotto la loggia, Pacifico vede Fausto a un tavolino, che sfoglia un giornale e ha un calice di vino mezzo pieno appoggiato di fianco. I due si sono incontrati la prima volta, forse, a undici anni. Hanno frequentato le stesse scuole medie, poi le stesse superiori (anche se in classi differenti) e ora che sono divenuti adulti Pacifico sente un certo imbarazzo nei confronti di Fausto. Prima, in un passato prossimo ma ormai talmente inaccessibile da apparire proiettato su una parete magica, i due scherzavano come fossero adolescenti folli e ormonali. Ma ora Pacifico è bloccato da un’afasia che gli ingolfa i pensieri, li paralizza. Pacifico sente ancora verso il suo amico di gioventù una forma di affetto, ma sente pure che questo affetto è seppellito da una coltre di indefinibili rancori, che a forza di sedimentarsi nella sua coscienza si sono induriti fino a formare degli strati, rocciosi come quelli della crosta terrestre. «Ciao Pacifico». Fausto alza gli occhi dal giornale. «Penso proprio che smetterò di vivere giornate simili. Spegnerò la luce. Volerò via nel blu», esordisce Pacifico che spesso con Fausto ama fare il teatrale e anche un po’ l’ermetico e capisce, pronunciate quelle parole, di essere ancora attaccato a Fausto ed è un bagliore di coscienza che per un attimo lo porta altrove. «Ma cosa diavolo stai dicendo? Ogni volta che apri bocca lo fai per leccarti il culo da solo, come un cane», gli risponde Fausto. Il suo abbigliamento consiste in una camicia a scacchi sbottonata con sotto una maglietta blu. Nonostante ormai sia un adulto, Fausto cerca di non abbandonare i suoi modi da ragazzo e il suo corredo di gesti spavaldi ma modaioli, spera in cuor suo che la sua aria da giovane gli frutti ancora indulgenza da parte del mondo. A tradirlo però sono le incipienti calvizie che gli avanzano sulla fronte e sulle tempie e impreziosiscono di una sfumatura grottesca il suo sorriso smargiasso. Pacifico entra nel bar per prendere da bere. Dietro il bancone la parete è tappez56
zata di vecchie banconote. Ci sono le lire, le rupie, i dirham, le corone, i dollari, gli yen, le dracme, e altri fogli gualciti e opachi dai quattro angoli del mondo. I soldi, li attaccati, sembrano farfalle morte e trafitte. La loro funzione originaria è azzerata e i capi di Stato impressi sulla filigrana, sono ridotti a pura istanza fumettistica, a teste caricaturali e variopinte. Col suo bicchiere di vino in mano e la ciotola di patatine, Pacifico torna da Fausto e gli dice: «Prima di venire qui ho letto un articolo su una rivista missionaria. Parlava della Repubblica Centrafricana. È uno stato proprio al centro esatto dell’Africa, tutto verde smeraldo con foreste equatoriali ovunque». «Lì, nell’Afric noir. Sì certo», dice Fausto. «Sì è proprio il cuore del continente addormentato ed è un cuore marcio, forse infernale, e sai perché?». Pacifico parla con una foga improvvisa. «No, dimmelo tu. Che fanno, si scannano coi machete?», risponde Fausto. «Ci sono i Tongo Tongo, che in zande, la loro lingua, significa “quelli che non dormono mai”. Sono poche centinaia e vivono nascosti nella giungla, fra gli alberi e le piante e le foglie larghe come lenzuoli». «Ma va?». «Sì, ma va. I Tongo Tongo, quelli che non dormono mai, sono un’armata di ribelli. Terrorizzano la gente da vent’anni. Il loro nome, quello vero, è Esercito di Resistenza del Signore. Sono tutti ugandesi, piombano dentro i villaggi quando la gente è sprofondata nel sonno e rapiscono donne e bambini e quelli che non rapiscono li scannano col machete davanti a tutti. Non hanno nessuno scopo, nessun obbiettivo politico. Fanno questo solo per conservare la loro esistenza. L’articolo missionario diceva proprio così: per conservare la loro esistenza». «Ah ora ho capito, ne ho sentito parlare anch’io di questi dell’Esercito del Signore. Ma va là? Che non mi dirai che ora vuoi andare fino in fondo al cuore di tenebra dell’Africa Nera? Anche tu con questo sogno di scappare. Ma ancora non la pianti, ma non ti guardi intorno? Non vedi che siete tutti uguali? Ma non vedi che sei patetico? Non ti senti abbastanza banale?». Fausto fissa Pacifico con la bocca contratta in una smorfia. Il fastidio che gli pulsa dentro disegna una piega sgraziata sul suo labbro inferiore. Ha il collo irrigidito e i capillari sulle narici si sono fatti rubizzi per la vampata di nervoso. Pacifico continua indifferente il suo racconto. Si accende la prima sigaretta della giornata. «I Tongo Tongo hanno fatto fuggire dalle loro case quattrocentocinquantamila persone. Capisci? Quattrocentocinquanta mila. C’è un posto in mezzo alla foresta equatoriale della Repubblica Centro Africana che si chiama Obo e intorno si sono formati dieci campi profughi con migliaia di persone scappate. Le donne a Obo si prostituiscono coi soldati, coi funzionari, con la gente di passaggio. Li portano nelle loro baracche. Sono vestite di stracci, con una maglietta colorata e i piedi scalzi. Io me le immagino che si prostituiscono silenziose, senza fiatare. Non le riesci a immaginare? Non riesci a immaginare il giaciglio dove le donne aprono le gambe ad altri uomini per un pugno di banconote stracciate?». Fausto non dice nulla, tutta questa storia che il suo amico gli ha raccontato d’un fiato ha alle sue orecchie il sapore di un aneddoto autoreferenziale. 57
Con entrambe le mani si regge la testa, come se gli cascasse, e guarda Pacifico da sotto le palpebre pesanti. Da qualche parte in lui si è messo in moto un rancore verso quel suo vecchio compagno di adolescenza. Decide d’istinto di fare finta di nulla. Di esibire un’indifferenza ben calibrata, perché fare finta di nulla è il metodo migliore per tagliare corto e andare avanti senza perdersi in inutili chiacchiere che poi portano solo all’autocommiserazione generale. Ora il bar lentamente si sta riempiendo, tutti gli sgabelli sul marciapiede sono occupati. Dinnanzi a loro, oltre il muro metallico, c’è il disco rosso del sole che affonda dentro il mare e tinge l’orizzonte di una purpurea incandescenza bizantina. In quel momento entra in scena un uomo barcollante. Si è avvicinato a piccoli passi scomposti e asimmetrici, nessuno ci ha fatto caso, ma ora iniziano a guardarlo tutti. Muove il collo rigido a scatti e si appoggia alla balaustra di ferro del marciapiede e poi rimbalza sul muro opposto. Attaccata al bar c’è un’edicola e l’uomo barcollando fa crollare le sagome pubblicitarie di cartone. Ha i capelli grigi, una maglietta nera, le sue pupille sono come immerse in ampolle piene di siero giallo. L’uomo barcolla, ondeggia, arriva proprio davanti all’ingresso del bar. Ha degli aloni di sudore sotto le ascelle e dietro la schiena. Inizia a farfugliare qualcosa rivolgendosi a un auditorio immaginario. La lingua gonfia gli si arrotola in bocca e le parole gli cascano come pezzetti di pan cotto delle labbra. I suoi zigomi sporgono gonfi e abbronzati dal viso a punta. L’uomo si accascia goffamente a terra, ha le scarpe rotte e i calzini arrotolati alla caviglia. Cade come un sacco con la schiena contro la vetrina d’ingresso, si rigira, cerca di tirarsi su, fa forza sul braccio ma si accascia di nuovo. Alza lo sguardo un’ultima volta, preoccupato, come a cercare per un attimo qualcuno, e quindi inizia a vomitare, con un getto abbondante, molto largo, un fiotto rosso rubino scrosciante come una fontana e accompagnato dai latrati di sforzo dello stomaco. Immediatamente ha una pozzanghera di vomito fra le gambe e ancora fiotta, continua a rilasciare due o tre getti rossi e scroscianti. Qualcuno scandisce con voce baritonale e squillante “Tavernello!” ad indicare la marca di provenienza di quella pozza rubino. L’uomo resta seduto per terra con la schiena dritta e gli occhi moribondi e incrinati. Pacifico a quel punto distoglie lo sguardo e si gira dall’altra parte, verso il mare. L’orizzonte è tarpato dalla scheletrica presenza della grata di ferro eretta come un muro che strangola i movimenti e riverbera su Pacifico una sensazione di goffaggine e sonno. È come se tutt’intorno gli spigoli dei corpi e delle cose si mangiassero lo spazio col loro alito ghiacciato. Sulla banchina, oltre quella graticola azzurrognola, le navi ormeggiate stanno immobili come rettili in letargo. Un traghetto è proprio a poche decine di metri, così vicino da apparire una ridicola città galleggiante ripiena sotto il suo guscio d’acciaio di corridoi, interstizi profondi come budelli e stanze e rubinetti e maniglie. Dai fumaioli in alto esce una bava di biossido di carbonio che si arrotola su se stessa con un’indolenza nera e puzzolente, prima di rarefarsi nel cielo divenuto blu cobalto ora che il sole è tramontato. Tratto dal primo capitolo del romanzo Pacifico – in stesura. 58
SARA, ANNI 34
Da: Sara Proietti A: Daniela Shalom Vagata Oggetto: finis terrae Data: 01 ottobre 2012 17.07 Come promesso mando la foto per Argo. Le dimensioni non sono quelle richieste quindi non potrà essere pubblicata. La mando lo stesso così posso partecipare almeno moralmente all’iniziativa. Finis terrae o Finisterra è un paesino di pescatori della Galizia: lì arrivavano i pellegrini del cammino di Santiago di Compostela per raccogliere la conchiglia simbolo del cammino stesso. Il punto più occidentale è il faro che segna il chilometro zero del cammino. Di fronte al faro, proprio sull’oceano, c’è uno scoglio. Sopra lo scoglio c’é uno scarpone in bronzo, monumento ai pellegrini. A Finisterra ho visto l’oceano per la prima volta. Pensando all’acqua non potrei scegliere altra foto.
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l’orizzonte Mediterraneo mare chiuso, mare nostro mare privato, mare (an)negato
Alla fine degli anni Settanta lo storico francese Fernand Braudel dirige la pubblicazione di due volumi dedicati al mar Mediterraneo. Con La Méditerranée. L’espace et l’histoire (1977) e La Méditerranée: les hommes et l’heritage (1978), Braudel, autore di cinque saggi nei due tomi, si propone di articolare una visione complessiva e organica di ciò che già anni prima non aveva esitato a definire «un mondo».1 Un mondo caratterizzato da continuità morfologiche e geografiche, da un clima e da una biodiversità specifici, all’interno dei quali si sviluppano a loro volta microclimi ed ecosistemi regionali e locali. Un mondo che, in ragione del suo sviluppo intorno a uno specchio d’acqua che ne diviene il centro e il baricentro, si connota per le esplicite prossimità biologiche, culturali e linguistiche delle popolazioni che lo abitano, per infiniti processi di ibridazione e confronto, di scambio e di influenza, di assimilazione e contagio. Già nella fondamentale monografia del ‘49 Braudel, autore di riferimento della seconda generazione della scuola degli Annales d’histoire économique et sociale2, aveva attribuito al Mediterraneo, al “mare di mezzo”, il ruolo di protagonista e di centro nevralgico e propulsivo della storia della regione. Con il doppio volume del ‘77-’78 e con il postumo Les mémoires de la méditerranée (1998), il ruolo chiave del Mediterraneo si esplicita ancora di più: al di là di specifiche declinazioni sociali, politiche e culturali, dello sviluppo particolare di differenti tecniche agricole, architettoniche o ancora di navigazione o di pesca, l’evoluzione storica dell’area geografica del Mediterraneo appare contraddistinta da esigenze maggiori condivise, da uno sviluppo sincronizzato e organico, dialettico delle differenti popolazioni che hanno gravitato e gravitano attorno ad essa. Non si tratta di millantare una supposta “unità” intesa come vincolo identitario, ma di sottolineare come le dinamiche di movimento, di scambio e di interazione all’interno di un bacino morfologicamente definito come il Mediterraneo rappresentano l’essenza e la ragion d’essere di un orizzonte culturale condiviso, che si declina storicamente in realtà distinte e in tensione, ma che mantiene inevitabilmente un fondo comune, aperto e in costante evoluzione. Il Mediterraneo come paesaggio3, come orizzonte aperto, è stato solcato ed esplorato da imbarcazioni di ogni tipo, da pescatori e commercianti, da guerrieri ed eroi, mentre intorno ad esso brulicavano, commerciando e combattendo, popoli e armate. Se l’Iliade racconta gli albori e i prodromi della storia della terra intorno al mare, e della tensione secolare tra Levante e Ponente, tra Occidente e Oriente, quasi come un dualismo fondatore, l’Odissea racconta dell’addomesticamento del mare tra le terre, della sua trasformazione da spazio negato a via di comunicazione, in superfice che lega, connette, avvicina. 1 Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Armand Colin, 1949. 2 La rivista des Annales, fondata nel 1929 da Lucien Febre e Marc Bloch, promuove un nuovo approccio storiografico e una “nouvelle histoire” che si contraddistingue per l’attenzione esplicita verso il quotidiano e per una prospettiva di lunga durata, in opposizione a “l’histoire évenementielle” tradizionale. 3 Il riferimento va in particolare alla Biennale del Paesaggio Mediterraneo (Pescara, 2005).
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Il mare chiuso e sconosciuto diventa nostro, condiviso, e accoglie un reticolo infinito di rotte, da porto a porto, di traffici e di migrazioni, di scambi e di scontri. Nostro perché conosciuto, prima che dominato, con la miriade di isole che lo costellano a fungere da base d’appoggio, punto di sosta, rifugio e riparo. Ma le linee di connessione, da percorrere, si sono intersecate e sovrapposte a linee invalicabili, segni di confini immaginari tracciati nell’acqua, frontiere oscillanti tra due punti fermi. Le pulsazioni storiche delle potenze commerciali e militari che si sono affacciate sul Mediterraneo hanno disegnato sul mare una cartografia di influenze e dominio, che oscilla nel tempo, si gonfia e si ritrae, inghiottendo isole e seguendo i litorali. Un mare privato, ad uso esclusivo, investito e rivendicato, un mare sezionato e diviso, che si consoliderà e diventerà formalmente “acque territoriali” e “zone di influenza” nella grammatica dello stato nazione, secondo un processo di spartizione dello spazio geografico che riduce una superficie fluida di transito a un’estensione di territorio: senza negarne ma regolamentandone severamente e restrittivamente l’accesso, che rimane via di communicazione e vettore di scambi e commerci ma sotto il controllo e la gestione di entità sovrane, in misura di sancire chi e a quali condizioni abbia il diritto ad accedervi. La conseguenza naturale di questo processo di limitazione dell’accesso allo spazio marittimo vincolato al controllo degli stati sovrani, che si limitava preliminarmente solo alle acque costiere, è la sua progressiva estensione a tutto l’orizzonte marittimo, a tutto il Mediterraneo che diventa mare negato ad alcune tipologie di imbarcazioni, e soprattutto ad alcune categorie di persone. Secondo un processo inaugurato alla fine degli anni Ottanta dalle differenti potenze europee e concretizzatosi con l’avvento nel 2004 di Frontex, l’agenzia destinata al controllo e al monitoraggio delle frontiere esterne dell’Unione Europea, il Mediterraneo si è progressivamente militarizzato e trasformato in una piattaforma oscillante di controlli, pattugliamenti, intercettamenti e respingimenti. La regolamentazione del traffico marittimo, con la creazione di autostrade del mare (rotte preferenziali di transito) e l’installazione di sistemi di monitoraggio via radar di ogni imbarcazione in movimento, si è evoluta parallelamente alla necessità, da parte dei paesi europei, di controllare, gestire i nuovi flussi migratori che da sud e da oriente hanno iniziato a investire il Mediterraneo nell’ultimo ventennio, in direzione nord. Una nuova linea di confine spezza in due il “mare di mezzo” e la sua continuità geografica, separando radicalmente, rendendo praticamente impermeabile una frontiera liquida. Ma si tratta dell’ennesima finzione politica, forse la più drammatica considerato il numero enorme di vittime scomparse durante il tentativo di attraversare il mare sfuggendo ai controlli, che ha temporaneamente scisso un sistema, negando l’evidenza di un Mediterraneo comune. Per denunciare le violazioni, le violenze e i drammi generati dall’irrigidimento dei controlli della frontiera marittima mediterranea, e per rivendicare una prossimità e una solidarietà irrinunciabile tra le diverse sponde del Mediterraneo, nell’estate del 61
2012 un collettivo di associazioni per i diritti umani giudata dalla rete Migreurop (www.migreurop.org) ha organizzato un’azione provocatoria e critica nei confronti del dispositivo Frontex: Boats4People ha viaggiato, a bordo della goletta Oloferne, da Rosignano a Palermo, raggiungendo Pantelleria, Monastir, Ksibet el Mediouni per poi concludere il suo viaggio a Lampedusa: un movimento di solidarietà che ha tessuto legami tra le due rive del Mediterraneo. Ad ogni tappa, incontri con migranti, attivisti, giornalisti e con le autorità. Boats4People ha intrecciato la sua lotta con quella delle famiglie tunisine di migranti morti o dispersi in mare, che chiedono risposte alle loro domande e soprattutto giustizia, e con quella dei richiedenti asilo, i rifugiati e i “diniegati” del campo di Choucha in Tunisia che hanno bisogno di protezione, accesso alla re-installazione e migliori condizioni di vita. In occasione di ciascuno di questi incontri, gli attivisti di Boats4People hanno ribadito l’urgenza di consentire la libertà di circolazione, promuovendo uno spirito di solidarietà nel Mediterraneo.
frammenti odeporici a due ruote tra Marocco, Mauritania, Guinea il tè e la terra La luce intensa del sole sbatteva sulla distesa arida che ricominiava subito fuori città. La strada proseguiva ai piedi di bassi promontori sguarniti e paffuti. Proseguivamo in quella fascia indecisa che segnava l’inizio del Sahara, dove mare e montagne fanno indietreggiare il deserto verso l’interno del continente, attenuandone i tratti più tipici. Eravamo sull’orlo meridionale dell’Anti Atlante, sul suo dito mignolo e scendevamo piano su terre sempre più antiche. E se come a Erfoud tra le dune l’impressione era stata quella di addentrarsi a poco a poco in un mondo sconosciuto, era forse perché lì il Marocco smetteva d’essere un paese mediterraneo. Incrociammo poche persone, soprattutto pastori, figure sottili circondate da batuffoli bianchi. Improvvise chiazze di un colore più intenso circondavano rotonde strutture di cemento che a volte si scorgevano sulle parti pianeggianti del terreno: pozzi che dal fondo della terra assicuravano acqua ai pochi vegetali e animali della zona. Durante una sosta vedemmo una figura ingrandirsi progressivamente. Era un giovane pastore che, lasciato il suo gregge intorno ad un abbeveratoio, ci venne incontro. Doveva averci visto pedalare sulla strada da lontano. Era un ragazzo giovane dalla stretta di mano decisa e dal corpo esile, ma non fragile. Voleva mostrarci i suoi animali e il posto dove viveva a pochi chilometri dalla strada. Ma io non vedevo proprio nulla, solo bassi arbusti, polvere e rocce. Hassan, così si chiamava, offrì il suo mulo a Tobias e cercò di montare sulla sua bicicletta mentre ci dirigevamo verso un punto non ben definito in quella distesa di deserto. Ci fermammo in un campo di mais maturo che sembrava essere sorto dal nulla. Un appezzamento di terra d’improvviso verde in mezzo alle rocce. Come il sangue che si ritrae dalle vene periferiche in un corpo colpito e danneggiato, così lì 62
la vita sembrava essersi concentrata su questo pezzo di terra. Hassan quasi scomparve in mezzo alle piante altissime. Spezzò quattro pannocchie e se le mise nel cappuccio appuntito del suo jalabi marrone. Proseguimmo e dopo qualche centinaio di metri, dietro una lieve pendenza, raggiungemmo una tenda canadese arancione, di tela grossa, esattamente uguale a quella che, quando ero piccola, i miei genitori usavano per andare in campeggio. Hassan scoprì un giaciglio fatto di pietre e paglia davanti alla tenda: tre agnellini nati da poco, non ancora agili per fare tutta quella strada, aspettavano il resto del gregge. Hassan accese il fuoco per fare il tè e per cucinare le pannocchie. Durante la settimana abitava in città e andava a scuola ma i weekend e durante le vacanze scolastiche faceva il pastore per aiutare la famiglia. In pochi minuti le pannocchie erano pronte e l’acqua bolliva. Faceva caldissimo. Ci riparammo nella tenda. All’interno c’era una pesante coperta a fiori stesa per terra e ai lati degli utensili da cucina sparsi. Tutto era ricoperto di una luce arancione e c’era quell’odore particolare del tessuto di tela grossa riscaldata dal sole. Hassan versò il tè con la stessa manualità dell’uomo di Erfoud. Non aveva nemmeno vent’anni ma le sue mani lunghe e rugose e le sue braccia sottili ripetevano con destrezza quei gesti che sembravano movenze di un vecchio saggio. Poi da un pacco prese due cucchiai di farina, li diluì in una ciotola d’acqua fredda e ce la porse. Hassan lesse l’esitazione sul mio viso perché si precipitò a spiegarmi che l’acqua era buona, che l’aveva già fatta bollire. Ne sorseggiai un poco. Aveva un gusto dolce di mais. Sul cammino che riportava alla strada, Hassan si fermò davanti a una struttura di cemento armato al cui centro stavano una botola semichiusa e un secchio di plastica giallo. Aprì la botola e buttò il secchio. Ci vollero più di cinque secondi perché lo “splash” echeggiasse su per il tunnel e raggiungesse la superficie alla quale eravamo affacciati. Hassan e Tobias tirarono con forza la corda finché il secchio spuntò ricolmo di acqua. Il colore scuro al suo interno non era l’ombra dell’acqua nel contenitore ma proprio il marrone dell’acqua, piena di detriti e minerali. Hassan la travasò nelle sue taniche arancioni e ne bevve un po’ direttamente dal secchio. Poi riempì le nostre due bottiglie di plastica vuote. Per lui da sempre l’acqua era quel liquido marrone, sabbioso, torbido che si trovava in basso, sotto terra. Per noi l’acqua era da sempre trasparente e veniva dall’alto, dal cielo o dalle montagne. il mare di sabbia Più volte ci ritrovammo a spingere le bici sulla sabbia profonda almeno dieci centimetri. Tobias davanti, io e Yoshi più indietro. Chinata sulla bici, spingevo e spingevo, maledicendomi per i chili di troppo dei miei bagagli. Il mio corpo era teso in avanti, inclinato a quarantacinque gradi da terra. Con lo sguardo fisso sul terreno,stringevo i denti quando la sabbia era troppo spessa. A volte mi guardavo intorno e tutto mi sembrava assurdo. Non sapevo bene cosa stessi facendo; non capivo bene come fosse possibile trovarsi con una bicicletta di quaranta chili nel cuore della Mauritania in mezzo a un mare di sabbia. Tobias era già lontano, come un cane che annusa, perlustra, avanza per tracciare la strada, per verificare la direzione, seguendo una pista invisibile all’occhio umano ma che per lui è chiara e sicura. Comple63
tamente a suo agio nel niente senza fine apparente che ci circondava, senza meta per la sera, solo tragitto e sudore sulla pelle. Per me invece, a volte tutto rasentava l’assurdità. Non mi abituavo al non avere una direzione chiara, all’andare avanti senza pensare di raggiungere un punto predefinito prima che facesse buio, a sapere che una volta arrivata la sera avremmo montato le tende da qualche parte, poco importava dove. Due ore dopo era mezzogiorno. Avevamo fatto solo venticinque chilometri ed eravamo già senz’acqua. Sotto gli occhi infuriati di Tobi, io e Yoshi controllammo le nostre riserve d’acqua: no, non ne avevamo perse per strada o dimenticate. Le bottiglie erano semplicemente vuote. Faceva un caldo insostenibile, bevevamo come spugne, sudavamo come cavalli al galoppo. Intorno a noi un paesaggio di enormi pietre buttate qua e là in mezzo al nulla. Di tornare indietro non se ne parlava: per gli ultimi cinque chilometri non avevamo fatto altro che spingere le bici ed eravamo ancora molto lontani da qualsiasi centro abitato. D’improvviso due figure apparvero controluce dietro una duna. Un uomo e suo figlio avvolto in una giacca di feltro decisamente troppo grande per lui, trasportavano una tanica d’acqua mezza piena. «Acqua?» chiese Tobi. L’uomo alzò il braccio e indicò un punto tra due dune verso ovest. Parlava di un accampamento beduino. E mentre io cercavo di capire meglio Tobias si era già incamminato sotto i miei occhi increduli. Ma dove pensava di andare? Ma come poteva immaginare che lì, tra due dune, da qualche parte, ci fosse una tenda beduina con dell’acqua per noi? le chateau d’eau e il pozzo Dormimmo in una casetta di un villaggio piccolo piccolo e bellissimo. Fuochi alti, alberi da frutto, animali che camminavano intorno alle case. Una serie di tavole coraniche erano sparpagliate sotto l’albero più grande del villaggio e anche lì grandi zucche seccavano sui tetti delle case. Un progetto di sviluppo della cooperazione francese aveva costruito negli ultimi anni i pozzi dei villaggi in questa regione. «Prima», ci raccontò uno degli abitanti, «facevano profondi buchi nel terreno, per prendere l’acqua da sotto terra. Poi dopo poche settimane i buchi si riempivano di terra di nuovo e bisognava scavarne altri». Un lavoro assurdo lì, sulla montagna che era la riserva d’acqua per tutta la regione. «Non conoscevamo questo arnese noi» continuò a raccontarci il ragazzo, mostrandoci un pozzo di cemento con una pompa a mano «siete voi, gli uomini bianchi che ci hanno insegnato ad usarlo!». UOMO BIANCO, quelle due parole rimbombavano come sassi caduti da un precipizio nella mia testa da quando quel ragazzo le aveva pronunciate: «l’uomo bianco ci ha insegnato». Una frase così corta e così carica di tutta la storia moderna. Stralci tratti dal volume di Palumbo Mohn, Lentamente l’Africa. Racconti di un viaggio dalla Spagna al Mali giunto in redazione ancora inedito, ma ora dato alle stampe dalle Edizioni Ediesse.
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CATERINA, ANNI 67
Questa foto è un ricordo della “mia Africa”, dove ho trascorso un periodo della mia vita. Ricordo il lago Awasa, la luce del sole che bagnava ogni cosa, gli uomini seduti sulla riva del lago che, dopo aver pescato, vendevano il pesce, e gli uccelli che volavano tutt’intorno. In quel momento ho avuto la sensazione che l’uomo e la natura fossero una cosa sola.
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isola di Karpathos VI Il salato adesso è solo un taglio, dove si ficca la memoria mischiata allo zolfo. I pesci tengono il filo del discorso a occhi chiusi.
IX Dalla spiaggia ritorno sempre con un sasso, un ramo liscio o una conchiglia. Ho pezzi minuscoli di isole che non ricordo. Scaglie, ossa persino e frantumi di colonne. Stanno nella ciotola, vicini come bambini nel cortile.
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dieci passi nell’acqua I La città è crollata senza rumore. Nel centro di tutto si staglia l’acqua imprigionata, una geometria esatta – ombre e fondali. Resta una piscina che non dice , non sa il viaggio dell’acqua sin qui. Non sa, non ha prove di verità. Aspetta.
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Zineb Sedira nel mare del non ritorno Una piccola foto di una giovane donna. Riusciamo a scorgerla in parte, mentre galleggia immersa in un bicchiere pieno d’acqua. Tutt’intorno, filamenti d’inchiostro nero sembrano assecondarne i movimenti in una danza silente. Ad una ad una, nuove fotografie cadono nel recipiente: si tratta della stessa foto, della stessa donna. È solo allora che distinguiamo la frase scritta sul retro di ciascuna di esse “Don’t Do to Her What You Did to Me”. Con un gesto veloce e improvviso le fotografie iniziano ad essere mescolate vorticosamente, l’inchiostro si dissolve, le immagini sbiadiscono; ogni singola parola, travolta da quel movimento, sembra perdere peso, finché tutto si fonde in un solo liquido nero. Una mano afferra il bicchiere, ne beve il contenuto: ciò che appare di nuovo sullo schermo non è che un recipiente vuoto. Don’t Do to Her What You Did to Me (1998-2001) rappresenta per l’artista Zineb Sedira un’opera chiave: in essa, ai ricordi e agli elementi autobiografici, s’intrecciano la pluralità di identità culturali insite nell’artista. La Sedira nasce in Francia da genitori algerini, emigrati dopo la dichiarazione d’indipendenza dell’Algeria. L’atto di bere diventa quasi un rituale simbolico, una riappropriazione consapevole delle proprie origini. L’opera si ispira ad un talismano musulmano con il quale l’artista è cresciuta, e all’usanza nell’Islam popolare di immergere versetti del Corano in acqua, per poi bere, una volta disciolto l’inchiostro, il contenuto a scopo protettivo. Allo stesso tempo la lingua utilizzata dalla Sedira per il titolo del suo lavoro e sul retro delle fotografie è l’inglese. L’artista decide infatti di formarsi a Londra, città nella quale tuttora vive, piuttosto che a Parigi, sua città natale. Come lei stessa spiega in un’intervista a cura di Hans Ulrich Obrist, nel 1986 la Francia sembrava aver rimosso il suo passato coloniale in Algeria ed era dunque difficile per uno studente interessato a studi postcoloniali essere ammesso a un’accademia d’arte parigina. Quel distacco volontario diventerà fondamentale per la sua futura ricerca artistica: un allontanamento necessario per esplorare con maggiore consapevolezza la propria identità algerina in relazione alla Francia, un «dislocamento progressivo» usando le parole della scrittrice algerina Assia Djebar, «sradicamento lento e infinito, forse: come se occorresse allontanarsi senza posa. Allontanarsi ritrovandosi, ritrovarsi perché ci si è allontanati»1. L’artista sceglie di riprendere le foto della giovane donna attraverso l’acqua. La trasparenza dell’acqua e del recipiente che la contiene diventa un filtro attraverso cui osservare le fotografie, ponendo allo stesso tempo lo spettatore di fronte a un confine invalicabile. Zineb Sedira potrà fare ritorno in Algeria soltanto nel 2002 in seguito alla fine della guerra civile. Prima di allora l’immagine del paese natale dei suoi genitori è filtrata da una memoria sfocata: dai ricordi, alterati in età adulta, dei suoi viaggi d’infanzia in Algeria, alle storie narrate dalla sua famiglia. Da qui l’esigenza di scavare più profondamente nella memoria familiare, e di creare, come lei stessa la 1 Assia Djebar, Scrivere nella lingua dell’altro, in Queste voci che mi assediano, Milano, Il Saggiatore, 2004, p. 49.
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definisce, «una scatola mentale»2, affinché i ricordi non possano sfuggire. La macchina da presa e quella fotografica, strumenti privilegiati dalla Sedira per realizzare i propri lavori, si fanno prolungamento dell’occhio, come se quell’ulteriore distacco dotasse l’artista di una maggiore attenzione nel registrare ogni minimo particolare, e le permettesse di misurare il tempo necessario a recuperare i pezzi mancanti e, al tempo stesso, di ridisegnare la propria storia. «For me, going back to Algeria, was about experiencing it directly and exploring the landscape, as much as visiting my family»3. Il ritorno conduce l’artista a concentrare il proprio sguardo sul paesaggio algerino, sulle stratificazioni che la storia coloniale ha lasciato nel Paese, sulla vastità del mare, il Mediterraneo, che unisce e contemporaneamente separa le sponde dell’Algeria e della Francia. Il mare e il paesaggio circostante, protagonisti dei suoi più recenti lavori, diventano una metafora della famiglia, come lei stessa afferma. Le ricognizioni nella memoria familiare attraverso i racconti dei suoi genitori, della loro vita in Algeria e in Francia, da Retelling Histories: my mother told me… (2003) a Mother, father and I (2003), si intrecciano così con un lungo lavoro di preparazione e di documentazione. Un meccanismo quasi inconscio, dovuto all’urgenza forte di riconnettersi fisicamente ed emotivamente con il Paese, induce Zineb Sedira a raccogliere un ampio materiale fotografico, utilizzato per i suoi successivi lavori. L’occasione di poter realizzare un’opera interamente dedicata all’Algeria le arriva nel 2005 con la realizzazione del video Saphir (2006) che le viene commissionato dalla Photographer’s Gallery (Londra) e dalla Film and Video Umbrella (Londra) e che costituirà la prima parte di una trilogia, poi completata dai più recenti lavori, MiddleSea (2008) e Floating Coffins (2009). Su due schermi osserviamo scorrere contemporaneamente le immagini di un uomo e di una donna. Lei, una “pieds-noir”4, è ferma a guardare il mare che si staglia infinito al di fuori di una delle finestre dell’hotel Es Safir ad Algeri, edificio dell’architettura coloniale degli anni Trenta costruito a ridosso del porto. Al contrario lui, algerino, cammina lungo di esso, assorto a contemplare quello stesso mare solcato da navi in arrivo e in partenza. Il ritrarsi nella memoria nostalgica di un passato trascorso in Algeria da parte della donna, fa da controcanto alle speranze dell’uomo che forse immagina una nuova vita e sembra quasi figurarsi con lo sguardo l’altra costa, quella della Francia, al di là del mare. Entrambi sembrano essere in attesa di una rivelazione e di una rinascita agognata. Il mare diventa un luogo di transizione, un territorio incerto, sospeso tra le aspettative che precedono un ritorno e quelle che accompagnano una partenza: «un andirivieni tra Francia e Algeria e viceversa, senza sapere in definitiva dov’è l’andare, verso dove andare, verso quale lingua, verso quale sorgente, verso quali retrovie, e senza sapere neppure dove si situi il ritorno 2 Hans Ulrich Obrist, “Zineb Sedira in conversation”, in Zineb Sedira, Beneath the Surface, Parigi, Kamel Mennour, 2011, p. 18: «a “mental” box where memories were stored and could be accessed when needed». (trad. it. «una scatola “mentale” in cui i ricordi vengono immagazzinati e a cui si può avere accesso quando se ne ha bisogno». 3 Ivi, p. 20: «Per me, tornare in Algeria, ha significato avere un’esperienza diretta ed esplorare il paesaggio, così come fare visita alla mia famiglia». 4 Il termine indica i cittadini di nazionalità francese che vivevano in Algeria prima dell’indipendenza e del loro rimpatrio nel 1962.
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[…] un ritorno a venire, un ritorno-orizzonte che di nuovo ti espelle»5. In MiddleSea ritroviamo quello stesso uomo a contemplare il mare, ma questa volta a bordo di una nave che avanza. Non ci è dato sapere tuttavia verso quale luogo si stia dirigendo: forse verso Marsiglia? Forse verso Algeri? Nelle parole dell’artista, quello spazio di mezzo, il mare, potrebbe essere in realtà qualsiasi mare, così come potrebbe trattarsi di qualsiasi nave e di qualsiasi viaggio. Zineb Sedira definisce gli spazi ritratti nei suoi recenti video, «spazi non identificabili», come le identità che le appartengono e che concorrono a dare vita ad un’identità ibrida, simile ad un confine senza confine, dove ogni contaminazione è possibile, e dove una cultura e una lingua possono fondersi l’una con l’altra per creare un nuovo essere e un nuovo linguaggio. Uno spazio caotico e frammentario è quello ritratto in Floating Coffins. L’artista frammenta volutamente il video su quattordici schermi che proiettano contemporaneamente differenti scene e parti del paesaggio, facendo in modo che lo spettatore, abbracciato dalla pluralità di immagini e di suoni, non solo entri a far parte del lavoro stesso, ma sia spinto a spostarsi da uno schermo all’altro, intraprendendo una sorta di viaggio. La Sedira sceglie di ritrarre le spiagge intorno al porto di Nouadhibou in Mauritania. Si staglia davanti ai nostri occhi uno scenario post-apocalittico: un “cimitero” di navi abbandonate in mare e lungo la spiaggia da coloro che non vogliono sostenerne i costi di smantellamento e lasciate così a marcire per anni sulla costa. Laddove finisce un viaggio, ne inizia uno carico di illusioni, quello dei numerosi giovani immigrati che partono illegalmente dalle spiagge della Mauritania per fuggire in Europa verso una nuova vita. Al tempo stesso quelle navi, così abbandonate, diventano una speranza di guadagno per i giovani disoccupati del paese che salgono a bordo di esse per rimuoverne il metallo e rivenderlo in Europa. In quella parte di costa il mare si fa metafora della vita, in bilico tra un inizio e una fine, un arrivo e una partenza. Un luogo del passaggio, tra la speranza e la paura, per tutti quei migranti che non lo hanno mai visto prima e che nei giorni che precedono la partenza possono solo immaginarlo: «Da giorni prima di vederlo il mare era un odore, un sudore salato, ognuno immaginava di che forma. Sarà una mezza luna coricata, sarà come il tappeto di preghiera, sarà come i capelli di mia madre. Cos’era invece? Un orlo arrotolato sulla fine dell’Africa, gli occhi pizzicati da specchietti, lacrime di accoglienza. […]»6.
5 Djebar, La lingua nello spazio e lo spazio nella lingua, op. cit., p. 51. 6 Erri De Luca, Racconto di uno, in Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Milano, Feltrinelli Editore, 2005, p. 14.
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Filippo Mi vieni a dire esco poco di casa non sopporto nessuno e sto bevendo troppo ma intanto so che la tua mappa è fatta di acqua e mare che sai leggere il vento, le nuvole quando si spostano per arrivare o partire che sai cosa vuole dire l’incresparsi dell’onda e misuri a miglia la distanza che per me è ancora a raggio di chilometro e quando ti devi fermare è l’ancora il punto di sicurezza il freno a mano che non io so usare e che poi di acqua sono fatto anch’io, e di più non capisco questa mia lontananza da una superficie da navigare e ogni volta mi succede che mi dimentico sempre quando ti vedo di sapere di voler capire di chiederti se anche nel mare vale la stessa sapienza che si deve conoscere e usare a terra indovinare da chi farmi accompagnare. 71
fare il tempo Se l’incertezza è la frequenza d’onda su cui ci sintonizziamo per sentire le più belle canzoni se a questo non essere pronti ci poniamo in ascolto, per trovare almeno una melodia allora, di tutto il vivere di cui sono capace lascio che la sua superficie si increspi, e poi sempre più giù con il vento, il primo il dopo e ancora che sento arrivare e colpisce e macina così mi accorgo che in questo vasto infinito, di tempo e di orizzonte, sono una fibra acerba del pane un pezzo che si tiene assieme con l’acqua e il sale. Mi ricordo che del mare le onde alla riva si rompono, con un ritornello.
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la rivoluzione liquida intervista a Ugo Mattei «Io sono un rivoluzionario. Io credo nella rivoluzione e penso che la rivoluzione debba iniziare innanzitutto con una grande rivoluzione dei comportamenti. Non è una questione dell’Italia, non è una questione dell’Occidente, è questione di capire che oggi c’è una crisi gigantesca della cittadinanza, perché i cittadini sono stati progressivamente trasformati in consumatori, perché una serie di valori di tipo materialistico e consumistico ha inquinato le nostre coscienze, davvero come un cancro, e quindi noi dobbiamo fare oggi una grande rivoluzione culturale, dobbiamo togliere di mezzo una ipotesi unicamente fondata sulla proprietà privata e sullo Stato e mettere al centro una visione della società fondata sul dovere, sul dovere di partecipare, sul dovere di essere cittadini e non solo consumatori. È un processo complicato, ma gli italiani hanno dimostrato di essere capaci di fare questo cambio di passo, di fronte a dei temi importanti come quello dell’acqua, con il referendum scorso» A pronunciare queste parole rigeneranti è il giurista Ugo Mattei, che dei quesiti referendari per l’Acqua Bene Comune è stato co-redattore, assieme ai colleghi Alberto Lucarelli, Luca Nivarra e Gaetano Azzariti. Mattei è un intellettuale militante, che crede nella rivoluzione dei beni comuni, di cui ha elaborato un manifesto (Beni comuni, Laterza, 2011) e a cui ha deciso di consacrare un nuovo soggetto politico, ALBA (Alleanza Lavoro Beni comuni Ambiente, www.soggettopoliticonuovo.it). Per misurarsi con le difficoltà pratiche della gestione di un bene comune, Mattei è diventato inoltre presidente pro tempore1 di Acqua Bene Comune Napoli, la prima azienda idrica italiana ad aver abbandonato la gestione privatistica per adottarne una pubblica e partecipata2. Si tratta di un sentiero aperto, a livello internazionale, dai cittadini di Cochabamba, in Bolivia, che nel 1999 si sono opposti alla privatizzazione dell’azienda idrica comunale ad opera del consorzio Aguas del Tunari, guidato dalla società International Waters Ltd, controllata dalla statunitense Bechtel Corporation, ottenendo nel 2000 lo scioglimento del contratto con il consorzio. In Europa la prima grande città a invertire la rotta è stata Parigi, che nel 2010 ha rimunicipalizzato l’azienda idrica, dopo venticinque anni di gestione privata. Come per le grandi rivoluzioni di Sette-Ottocento è con Napoli che l’Italia si inserisce nelle rivoluzioni avviate dal cugini transalpini. Il controllo e la gestione dell’acqua rappresentano una delle maggiori poste in gioco nei conflitti del presente e del prossimo futuro. Ma l’Acqua Bene Comune, come testimoniato dalla straordinaria mobilitazione e partecipazione alla campagna referendaria del giugno 2011, è anche uno dei nodi centrali nella rete dei movimenti altermondialisti, riemergente come un fiume carsico. 1 La trasformazione di Arin s.p.a. in Acqua Bene Comune Napoli si renderà efficace dal momento della presentazione all’assemblea straordinaria del Piano industriale ed economico, che in una prima fase riguarderà i trasferimenti di alcuni degli impianti gestiti dal comune, la data prevista è fine ottobre. Poiché l’azienda speciale ABC nasce dalla trasformazione della Spa ARIN non vi sarà soluzione di continuità dal punto di vista operativo. Infine, affinché la nomina di Ugo Mattei a Presidente di ABC Napoli sia effettiva è necessario un decreto del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Da segnalare, infine, a proposito di Beni comuni e Comune di Napoli, la presenza nella Giunta di un altro estensore del referendum sull’acqua, Alberto Lucarelli, in qualità di Assessore ai beni comuni e alla partecipazione. 2 Passaggio siglato da apposito atto notarile il 31 luglio scorso, cfr. Salvatore Altiero, A Napoli l’acqua torna ad essere dell’azienda Bene Comune.
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Partiamo dal referendum, dunque. Un risultato eccezionale, se consideriamo la storia referendaria in Italia. Ma anche l’ennesima dimostrazione di come il sistema Stato-mercato, antitetico alla logica del bene comune, è sempre più slegato da quella che possiamo definire volontà popolare. Come in altre occasioni, di questa volontà sembra non si voglia tener conto, nonostante la vittoria. A che punto siamo con il processo di privatizzazione del sistema di gestione e fornitura idrica in Italia? Il referendum sull’acqua è stata una resistenza quasi disperata contro l’ennesimo tentativo del potere neoliberale di mercificare degli ambiti fondamentali della vita di tutti quanti. Si tratta di un processo complesso che occorre richiamare, a grandi linee. Da trent’anni in Occidente, e non solo, le liberalizzazioni andavano sostituendo spazi di pubblico, identificati con apparati dello Stato, con domini privati, soggetti al mercato. Dopo la rivolta di Cochabamba nel 1999-2000, quindi con il dibattito sull’introduzione della gestione partecipata del servizio idrico a Parigi, dal 2006 in Italia si è attivato un movimento per l’acqua in quanto bene comune attraverso un forum molto presente nei territori. Parallelamente, addirittura dall’anno prima, dal 2005, con la Commissione Rodotà, si è iniziato a lavorare su uno statuto giuridico dei beni comuni, uno statuto autonomo rispetto allo Stato, da una parte, e al mercato, dall’altra. Nel 2008 il lavoro della Commissione Rodotà ha dato luogo a una legge delega che dava la prima definizione di beni comuni come un’entità giuridica funzionale a soddisfare i diritti fondamentali della persona. Il decreto Ronchi del 2009 interviene proprio mentre i lavori della Commisione Rodotà erano diventati proposta di legge in Senato, facendo un’operazione di forza, volta a obbligare la privatizzazione non soltanto del servizio idrico integrato ma di tutta la rete di gestione pubblica dei servizi. A quel punto con alcuni giuristi della Commissione Rodotà, Lucarelli, Nivarra e Azzariti, redigemmo tre quesiti referendari, tra cui uno avrebbe reso obbligatoria la gestione partecipata dell’azienda speciale, ma non è passato, rendendo così monco il pacchetto. Tuttavia, votando in massa gli altri due nostri quesiti referendari, il 12 e 13 giugno del 2011, i cittadini italiani hanno sancito che non è obbligatorio privatizzare o liberalizzare i servizi pubblici, ma si deve applicare il diritto europeo, che prevede la gestione pubblica, privata e mista come tre possibilità autonome, dotate di pari dignità. Il secondo quesito aboliva i profitti dall’acqua, dicendo che la remunerazione da capitale non poteva essere inserita in bolletta. Poco dopo, con il decreto di ferragosto del governo Berlusconi, e successivamente con gli interventi della legge di stabilità, quindi a regime Monti già instaurato, il primo quesito referendario veniva completamente obliterato nella sua portata ampia, riproducendo esattamente i contenuti del decreto Ronchi e facendo salva soltanto l’acqua. L’obbligo di messa a gara tuttavia rendeva sostanzialmente in house una gestione impossibile di tutti i servizi, esclusa l’acqua. Sul fronte del secondo quesito la tesi che è stata fatta passare è che il 7% di remunerazione da capitale non poteva essere tolto immediatamente dalle bollette perché il quesito referendario non era immediatamente esecutivo ma era necessario un decreto attuativo da parte del Ministro dell’ambiente per fissare dei parametri - cosa 74
su cui stavano ancora lavorando fino a poco tempo fa. Quindi in entrambi i casi ci sono stati tentativi di svuotamento dell’esito dei quesiti referendari. La Corte Costituzionale ha fatto giustizia di tutto questo con la sentenza 199 del 20 luglio 2011: siamo sicuri di aver vinto non solo sul fatto che la messa a gara salti ma anche sul ripensamento della remunerazione da capitale, perché la Corte Costituzionale ha detto che l’esito del referendum è immediatamente esecutivo. Adesso siamo tornati al 14 giugno 2011, cioè abbiamo perso un anno abbonante: se quest’anno fosse stato utilizzato per studiare veramente a fondo e mettere in pratica un modo di gestione alternativa, a quest’ora saremmo in linea con la tabella di marcia e avremmo potuto sperimentare dei modelli di gestione che avrebbero potuto funzionare da molla anticiclica, mettendo in campo un grande sforzo pubblico, partecipato, per gestire il servizio idrico, rimodernare gli impianti, insomma fare quello che è necessario. Tutto ciò non è stato fatto, siamo in ritardo di un anno, ma la palla è di nuovo al centro, perché abbiamo segnato un goal importantissimo con la sentenza di luglio. Adesso la partita è tutta la giocare. Venendo alla tua domanda, in Italia l’80% dei servizi idrici è governato dal sistema pubblico, quindi il modello interamente pubblico è ancora dominante. Siamo dunque a buon punto, perché non essendoci più l’obbligo di privatizzazione, soltanto Comuni come quello di Torino e di Roma continueranno ad andare avanti nella strada neoliberista di svendita del patrimonio pubblico. Ora si tratta di trasformare il modello pubblicistico dominante in un modello di gestione partecipato. Qui il modello forte è quello di ABC Napoli, con una struttura di governo pubblica, partecipata, ottenuta dalla trasformazione di Arin Spa in agenzia speciale di diritto pubblico, coerente con la politica dei beni comuni, che non ha il profitto come scopo, ma soltanto l’economicità, ossia non perdere soldi. Questo tipo di azienda speciale non può agire al di fuori del core business (la gestione del servizio idrico) e deve agire secondo lo statuto, che prevede la partecipazione diretta degli utenti e dei lavoratori agli organismi di governance di questi soggetti che stiamo ripristinando. Il sindaco Luigi De Magistris ha fatto un ottimo lavoro: questo è il primo risultato realmente operativo del referendum. L'ha già illustrato in numerosi interventi pubblici, ma possiamo chiederle un’ennesima volta di introdurre il concetto, mobile e in divenire, di bene comune in relazione all’acqua? Perché l’acqua è un bene comune? Cosa significa? Molto semplicemente, l’acqua è un bene comune per una serie di ragioni: in primo luogo, essa corrisponde in modo forte e paradigmatico alla definizione che la Commissione Rodotà aveva dato dei beni comuni, in parte già richiamata sopra, ossia le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona e devono essere governate anche nell’interesse delle generazioni future. Quindi, l’acqua, da questo punto di vista, è perfettamente coerente con questa definizione, tanto più che nell’elenco dei beni comuni che la Commissione Rodotà aveva proposto era assolutamente al primo posto3. 3 «Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate», Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007), Proposta di articolato, art. 1, c. 3 c).
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L’acqua è un bene comune anche in un senso più ampio del termine, poiché, trattandosi di una vera e propria condizione biologica per la vita su questo pianeta, non può essere governata e gestita nell’interesse di pochi ma in quello di tutti. Bisogna assolutamente scongiurare che l’acqua diventi come il petrolio, perché anche i giacimenti sono doni di natura e sono in questo senso, tecnicamente, dei beni comuni, ma la loro gestione, la prevalenza di questa logica binaria, in questa tenaglia terribile di imperialismo statale e di prepotenza degli interessi multinazionali, la gestione del petrolio è stata quella che ha provocato le maggiori tragedie di questo secolo. Ecco, bisogna evitare che succeda ancora di più questo per l’acqua nei prossimi decenni e nei prossimi secoli. È molto grave che ci sia questo rischio: sono già in corso delle guerre sull’acqua. Una gestione dell’acqua come bene comune deve servirci per mantenere fermo il timone nella direzione di un modello di società, che sia un modello di società cooperativo, condiviso, rispettoso degli altri e non un modello di società fondato unicamente sull’arricchimento di breve periodo. La mobilitazione per il referendum ha mostrato la natura partecipativa del movimento, che tende a interpellare ciascuno come membro della comunità. Ma che ampiezza ha la comunità che si mobilita intorno al bene comune? E qual è la durata, l’intensità nella durata, di questa mobilitazione? I movimenti, per loro natura, tendono a essere dei movimenti monotematici e limitati nel tempo. Normalmente il movimento si scatena su un tema molto specifico, legato a un determinato contesto e rimane attivo per un periodo di tempo più o meno lungo, fino a quando o vince la battaglia o la perde. L’idea teorica dei beni comuni, così come io l’ho articolata nel manifesto di Laterza, ma anche come si è venuta elaborando collettivamente in questi ultimi due anni, ha una forza politica dirompente nel momento in cui collega i movimenti diversi e i movimenti monotematici diventano parte di un grande movimento per i beni comuni, quindi possono, in qualche misura, comunicare l’uno con l’altro, condividere le esperienze, gli itinerari e diventare forza politica. Il prossimo passaggio è quello di far diventare questa forza politica – una forza politica di per sé disorganizzata – una forza politica organizzata, ma orientata secondo dei criteri che rispettino l’idea del bene comune, che siano dei criteri diffusi. Una forza politica orizzontale e non verticale. Una forza politica che, come vuole la stessa definizione dei beni comuni, rigetta decisamente il verticismo e la gerarchia, a favore della rete, della condivisione, della partecipazione. Questa è la scommessa che in embrione abbiamo tentato con una serie di noi, con Rodotà, Lucarelli, Ginsborg, Gallino, Revelli e altri: tale “soggetto politico nuovo”, fondato il 28 aprile dello scorso anno a Firenze e denominato Alba (Alleanza Lavoro Benicomuni Ambiente, http://www.soggettopoliticonuovo.it/), è naturalmente un piccolissimo embrione, un modello di come dovrebbe essere organizzata la politica dei beni comuni. Pur criticando radicalmente la rappresentanza così come essa è oggi, tuttavia Alba capisce che la rappresentanza è importante e quindi cerca di veicolare le forze di movimento anche nell’ambito della rappresentanza politica.
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L’acqua come bene comune apre un’altra questione etica e politica. Se Stato e Mercato deresponsabilizzano il soggetto, il bene comune è un appello alla responsabilizzazione diretta del cittadino, del membro della comunità. Quanta fiducia ripone nella responsabilità civica per il bene comune, in un paese come l’Italia? Con il referendum scorso, di fronte a dei temi importanti come quello dell’acqua, gli italiani hanno dimostrato di essere capaci di partecipare, di essere cittadini. È chiaro che l’acqua ha un linguaggio simbolico molto facile, molto accessibile, oggi si tratta di elaborare delle ipotesi politiche alternative forti rispetto al modello neoliberale, ipotesi che siano capaci di mobilitare, di restituire ai cittadini la gioia di essere cittadini, di fare politica, di partecipare e di capire che c’è una dimensione dell’essere molto più soddisfacente rispetto alla dimensione dell’avere, del possedere, attorno alla quale i valori fondamentali dell’Occidente sono articolati. La comunità che si attiva per il bene comune ha una dimensione aperta, reticolare. Nella mobilitazione per il referendum si è visto. E mi riferisco anche al suo appello che chiedeva ad ogni firmatario di convincere gli altri intorno a sé. Ma una mobilitazione di lunga durata come può articolarsi, come può funzionare? Ho cercato di dirtelo: è un esperimento, nessuna di queste cose può essere descritta a tavolino, in astratto, non è il lavoro di un intellettuale o di dieci intellettuali che può determinare la trasformazione. I processi rivoluzionari sono dei processi di prassi. Una prassi consapevole del senso anche teorico di quello che si sta facendo: i movimenti per le occupazioni in questo momento, tanta parte dei movimenti per i territori, come in val di Susa o altrove, tutti quanti insieme ci consegnano dei modelli di prassi che noi dobbiamo cercare di canalizzare nelle istituzioni. E questa è la grande scommessa. Dobbiamo cercare di istituzionalizzare delle prassi di lotta, in modo tale da valorizzare tutti quei movimenti che devono restare tali e che sono forti proprio perché sono spontanei, perché sono localizzati, perché sono contestuali, facendoli diventare però espressione di una rappresentanza politica, poiché oggi la statualità ancora esiste ed è molto condizionata dai poteri economici locali. Questa è la partita che si apre e non può essere definita in astratto, ma si apre concretamente in varie prassi di lotta. La prima mobilitazione radicale e collettiva, il primo conflitto per l’acqua è stato quello di Cochabamba in Bolivia. Di fronte a una minaccia diretta e radicale la popolazione riesce a organizzarsi, a prendere la forma comune e a difendere il bene comune. Ma in una situazione di espropriazione del bene comune in un sistema che comunque garantisce una certa comodità, come l’Occidente in cui viviamo, quali sono gli argomenti che possono non solo sensibilizzare ma mobilitare sulla lunga durata, e non solo puntualmente, un cittadino viziato e deresponsabilizzato? In parte ti ho già risposto quando ti ho detto che è necessario un nuovo impegno dell’intellettuale: un intellettuale militante che riesca in qualche misura a tradurre 77
queste che sono delle esigenze di sopravvivenza reali in una pressione immediata all’azione. Mi spiego: oggi ci sono tutte le condizioni – politiche, economiche, ecologiche – che devono spingere alla mobilitazione, è soltanto questione di tempo. La crisi morde, il tentativo dei governi tecnici di risolvere la crisi facendo delle politiche che fanno gioco soltanto agli strozzini delle banche, sta portandoci al capolinea. Questa condizione di necessità che per l’acqua è stata evidente, presto diventerà evidente anche per le altre risorse. Per non essere provinciali, basta vedere cosa succede in paesi come la Grecia, ma anche in tutti i paesi del cosiddetto terzo mondo, per capire che noi abbiamo la possibilità e il dovere di muoverci in anticipo. E stiamo cercando di farlo. Molti di noi girano, davvero ossessivamente, il Paese, predicano come dei predicatori laici, cercano di far capire come oggi il paradigma dell’accumulo senza fine, il paradigma della crescita sia un approccio suicida e come invece sia possibile immaginare un mondo diverso, un mondo in cui si consuma meno, si lavora meno ma si lavora tutti, si consuma tutti il giusto, si producono le cose che effettivamente servono, si arriva al ripensamento di questa follia di produrre un’enorme quantità di cose che poi nessuno usa, vengono accumulate lì, inquinano soltanto l’ambiente e rendono la vita molto più miserabile. Quindi è nuovamente un fatto culturale: bisogna incominciare presto, incominciare dalle scuole, cominciare a lavorare sui ragazzini, ma io penso che si debbano fare anche delle azioni di forza, bisogna costringere le persone a capire che devono occuparsi delle cose, bisogna dire alle persone che non è vero che non occupandosi di politica non si sta facendo politica, anzi, chi non si occupa di politica in realtà fa politica, o, meglio, la politica si occupa di lui: il non essere politicamente impegnati significa accettare lo status quo in modo irresponsabile e far pagare alle generazioni future i costi della nostra pigrizia attuale. Sembra il destino del bene comune quello di manifestarsi come bene da difendere una volta che la sua funzione, la sua essenza, pare compromessa. Parlando dell’acqua, allora, non siamo già in ritardo? È una situazione recuperabile? Siamo in ritardo fino a un certo punto, nel senso che non bisogna neanche essere troppo catastrofisti. Noi abbiamo vinto il referendum e la Corte ha detto che il referendum va rispettato; adesso ci sono le condizioni perché si rivendichi un grande piano di governo dell’acqua pubblica, un piano razionale, un piano partecipato, un grande piano Marshall per la gestione degli acquedotti. Bisogna riprendere in mano il territorio, creare posti di lavori pubblici per gestire e governare l’acqua, insomma ci sono tutte le condizioni per andare nella direzione giusta. In Italia siamo molti fortunati, abbiamo molta acqua, dobbiamo smettere di sprecarla, dobbiamo cominciare ad apprezzare questa ricchezza straordinaria che abbiamo e fare dell’acqua un grande paradigma di azione politica, di ripensamento del modello di società e di sviluppo.
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L’acqua, l’oro blu, diventa progressivamente una questione geopolitica di portata internazionale, alimentando interessi e speculazioni. Fenomeno che obbliga a riflettere sulla questione idrica, e sulla questione dei beni comuni, in un’ottica ecologica e di consumo e gestione responsabile da contrapporre alla logica di sfruttamento e di privatizzazione. Sia su scala locale che comunitaria, la questione acqua bene comune implica quindi una mobilitazione su diversi fronti: dal consumo responsabile alla rivendicazione di un diritto inalienabile all’accesso alle risorse idriche, da progetti di sensibilizzazione e di educazione a mobilitazioni e forme di azione in grado di costituire soggettività politiche contro-egemoniche che possano contrapporsi in modo efficace e costante a un sistema che sembra contare sull’indifferenza di una popolazione inerte e non preoccupata dalle conseguenze a lungo termine che l’alienazione del bene comune può assumere. È possibile pensare a una mobilitazione che associ dimensione locale e globale, andando al di là del buonismo umanitario, dell’ecologismo neoliberale e di quel senso civico falsamente democratico fondato sulla delega della responsabilità civica e politica? Hai fatto una domanda retorica, nel senso che sono assolutamente d’accordo con la tua impostazione: io credo che si debbano superare tutte queste ipocrisie terribili che determinano i rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Il rapporto tra locale e globale nei movimenti è già una realtà: i movimenti sono ad un tempo locali e globali. Il problema vero dei movimenti è che siamo ancora molto pochi, c’è un livello di consapevolezza ancora piuttosto limitato, per cui bisogna lavorare tutti insieme e farlo crescere sempre di più. Noi stiamo lavorando su questa Carta europea dei beni comuni, insieme a tanti movimenti europei, per arrivare a una proposta di iniziativa legislativa europea sui beni comuni4. A livello globale siamo più indietro che in Italia, dove abbiamo avuto questa fortuna di mettere in campo i referendum per far diventare la questione dei beni comuni una vera e propria questione politica, che adesso le persone riconoscono, e, nonostante tutti i tentativi dei media dominanti di tenere la questione nascosta, la questione è sul tappeto. Bisogna ottenere lo stesso tipo di consapevolezza a livello globale, si deve passare dalle lotte di comunità alla determinazione degli assetti politici dei vari Stati fino a ottenere la dimensione transnazionale della tutela giurisdizionale dei beni comuni, che è alla nostra portata ma richiede ancora parecchio pensiero e parecchio lavoro. Passando dal singolo bene da tutelare – l’acqua – alla struttura che ne determina il governo - l’economia – pensa che il movimento di Christian Felber per un’Economia del Bene Comune5, implicando la partecipazione diretta dei cittadini non solo in quanto cittadini ma anche in quanto lavoratori e proprietari, debitori e creditori possa essere una via di uscita al collasso mortale 4 Un documento preparatorio per la Carta europea dei beni comuni è stato redatto durante il Seminario “The European Charter of the Commons” (International University College, Torino, 2-3 dicembre 2011, http://www.commonsens.it/ emend/european-charter-project-_italian/). I movimenti per i beni comuni sono riuniti nella rete European Alternatives (http://www.euroalter.com/IT). 5 Christian Felber, L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro (tit. or. Die Gemeinwohl-Ökonomie, 2010 e 2012), Tecniche nuove, Milano, 2012.
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del sistema capitalistico così come lo abbiamo conosciuto? Il capitale, i suoi organi di controllo e di propaganda sapranno neutralizzare e digerire anche questo fenomeno? La partita si è aperta adesso: siamo di fronte a un’ennesima trasformazione del capitalismo: il capitalismo cognitivo sta attuando una nuova, gigantesca recinzione dei beni comuni, per quanto riguarda la rete, internet, le comunicazioni. Oggi stiamo andando verso la privatizzazione di tutti gli apparati pubblici, dei simboli della statualità. Adesso si sta privatizzando anche la sovranità degli Stati: pensa alla questione delle prigioni, che diventano private; pensa alla questione delle forze di polizia, delle forze dell’ordine, che vengono privatizzate; pensa alla questione dei militari. Su questo noi vogliamo mettere in campo una grande visione alternativa: io sto lavorando come un matto perché questo sia portato alla coscienza politica in Italia, sin dalle prossime elezioni. Bisogna mettere in campo un’alternativa di sistema che dica “dalla crisi o si esce tutti insieme o non si esce”. Si deve uscire da un modello competitivo, in cui le persone sono una contro l’altra incattivite e cercano di sopravvivere in una logica del si salvi chi può. Bisogna sostituire questo modello con una grande logica collettiva, cioè far partire dei processi collettivi forti, in cui l’economia ricominci dalle necessità reali, dai beni e dai servizi che sono davvero necessari. Ed è ora che ci scrolliamo di dosso questo mostro della finanziarizzazione, questo senso di colpa del debito, che davvero deve essere contestato sin dalle sue radici, attraverso la richiesta di un audit generale sul debito pubblico, attraverso forme di resistenza rispetto allo stesso, attraverso un modo di pensare che sia alternativo, che non abbia paura del default, che non abbia più paura di quelle che sono le logiche finanziarie. Si ricominci a pensare all’economia reale, che è un’economia ancora estremamente forte, estremamente florida nel nostro paese e può davvero portarci a diventare un modello virtuoso per tutto il mondo. Io credo che se un grande Paese occidentale, come l’Italia, inverte la rotta, costruisce un orizzonte di senso legato ai beni comuni, fa della condizione ecologica e qualitativa del nostro esistere la sua bandiera, ecco penso che questo possa essere un esempio virtuoso che potrebbe portare a cambiare il mondo. Quanto al movimento di Felber, credo che in questo momento ci sia bisogno di tutta la creatività teorica e di tutte le prassi virtuose possibili. Non credo che ci sia una via, non credo che esista una strategia sola che funzioni, per farci uscire dai guai. Credo, invece, che di nuovo, in modo decentrato, diffuso e collegato, tutte le esperienze debbano essere messe a sistema per andare in una direzione alternativa. Si ringrazia Filippo Furri per la collaborazione alla redazione delle domande.
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la formula della vita Manca acqua nel mondo così come scarseggia la pace. C’è un rapporto: per sete, come per fame, si fanno guerre, rivoluzioni e mafie. In Sicilia la prima associazione a costringere, oltre che a delinquere, fu quella dei pozzi. Esiste anche un’altra relazione tra la pace e l’acqua. La racconta la sua formula chimica, la combinazione di ossigeno e di doppio idrogeno. L’idrogeno è elemento di maggioranza dell’universo, l’ossigeno è minoranza nella miscela dell’aria. Sono due gas scostanti, se avvicinati esplodono. L’acqua è il prodotto della loro alleanza. La vita sulla terra dipende dal loro trattato di pace. Ce n’è poca, dove non scorre sangue esala il gas dell’odio, prodotto anche artificiale, come quello rivolto all’immigrazione. Vedo il nostro paese girare grazie al movimento impresso da questa nuova e fresca forza di lavoro. Vedo il nostro futuro fecondato dalla percentuale, che deve e vuole crescere, del tredici percento di bambini di origine immigrata nelle scuole. Convivere con loro è aggiungere molecole di acqua alla fertilità del nostro antico suolo. Nella campagna che abito scarseggia, l’adoperiamo a goccette per le piante. Impariamo la poca dose per cuocere la pasta e per sgrassare pentole e stoviglie usiamo poco detersivo. Facciamo docce brevi. È una buona lezione di premura imparata per custodire la nostra fonte. Il nostro corpo è così pieno di acqua da poterci definire bottiglie che camminano. Mi è capitato di occuparmi della scarsità pure da bambino. A Ischia, sopra l’isola d’infanzia l’acqua era solo piovana, convogliata e custodita dentro cisterne scavate sottoterra. Da lì saliva col tiro dei secchi. Quando finiva, niente, non ce n’era più. Allora con lentezza efficiente arrivava nel porto una nave serbatoio e riforniva i camion autobotte. Per giorni la bacinella dove ci si sciacquava la faccia e le mani rimaneva vuota e io ero contento di tenermi il sale marino addosso. Molto dopo ho conosciuto un villaggio africano, raggiunto per montare pale a vento sopra dei pozzi. Lì ho visto il cuore aperto della terra, batteva sotto il sole a martello che sbriciolava zolle rosse. Quando saltò dal pozzo a forza di vento e di braccia di pale che giravano, venne alla luce l’acqua con il tuffo più bello. Non è quello dal trampolino, dallo scoglio e neanche dal vertice del ponte di Mostar. Il tuffo più bello è quello dell’acqua nuova, la sua corsa di serpente nella luce a schiudere al passaggio i semi addormentati nell’attesa. Dietro di lei la terra cambiava pelle e forma. Scarseggia l’acqua. Si dà licenza di accaparrare fonti. Si concede diritto di distribuzione, cioè di sfruttamento come se fosse una merce tra le tante. Non è merce. È la maggioranza del nostro corpo, è la formula della vita. Siedo nel costume verde davanti a lui. Raccoglie un odore d’alga. È mio. E non capisce. Cerca ancora. Annusa. Sembra non temere. Una rete si muove lentamente, a tratti, sopra di noi. Sagome cieche prendono qualcosa, rimettono qualcosa al suo posto. Forse concedono. Forse è permesso. E non è niente. Da ogni onda che torna, può uscire un piccolo pesce. E morire alla luce. # 81
sei il mio abisso La muraglia è legata alla sua ombra dai nodi anziani di un albero in fiore: una chiocciola compie il suo viaggio fra le sponde aguzze dei cocci di bottiglia. Sei il mio abisso, nella luce sei l’abisso: affida l’orizzonte alla galea, tramonta senza un pensiero che scivoli nel remo che separa il legno dall’oceano. Rammenta il percorso del glicine, così simile a quello d’una vita, non smettere di cercare l’anima, persino nella penna stilografica che dà respiro all’illusione di pochi versi, ma spezza linee d’avorio e ricama solide capriole nei solchi disegnati dal musicista sulle cinque linee di una radura assolata. Sei il mio abisso, nella luce sei l’abisso, ché nel caldo meridiano sai le forre dell’angoscia, e nello sconforto sai già l’odore che ha l’erba tagliata da poco.
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VALENTINA, ANNI 42
SMS dom 09 set 2012 09.30 Ieri ero alla Cascata delle Marmore per un concerto, e ho cominciato a domandarmi che cosa rappresentasse l’acqua per me. Ho scattato questa foto: giochi di luce tra polveri d’acqua.
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Spazzare mi piace. Puoi lasciarti cadere nei gesti e dimenticare tutto. Anche lavare i piatti mi piace. Avere le mani bagnate. Tu ora mi aiuti un po’, così facciamo prima. Hai capito che presto devi andare. Hai capito come? Guarda la polvere che si era accumulata, guarda queste macchie come spariscono. Poi mi fai un massaggio sul collo. Qui, dove i piccoli gatti vengono sollevati dalle madri. Hai visto come piegano la schiena e si consegnano con le zampe al vuoto. Un ponte che non poggia su niente, un arco trasportato. Il peso concentrato negli occhi, consapevoli, mentre tutto il corpo è leggero. È questo che devi imparare. Guardami bene. Qualcosa mi sta portando da un luogo a un altro. E tu non puoi esserci. #
una questione di Salute
ad Anna Toscano
È una bellissima notte di giugno dell’anno 2012, l’ora in cui si accendono tutti i lampioni è passata da un po’. A Venezia, nei pressi della Salute, un uomo e una donna passeggiano tenendosi a braccetto. La donna indossa dei pantaloni blu scuro e una maglia in cotone dello stesso colore. L’uomo, una camicia azzurra e pantaloni chiari. La donna è la scrittrice americana Susan Sontag, l’uomo è il poeta russo Iosif Brodskij. Entrambi sono morti da diversi anni. Morti, almeno, nella maniera più tradizionale del termine. Quella che segue è la fedele trascrizione della loro conversazione. Susan: Mio caro Iosif, l’avresti mai detto che ti saresti ritrovato in questa città, in piena estate? Iosif: No, naturalmente. Conosci la mia insofferenza al caldo e la mia avversione per i turisti che girano seminudi per le calli. Troppo mobili rispetto a tutto questo marmo. Anatomicamente inferiori alle statue. Susan: Ricordo, scrivesti di preferire la scelta al flusso e che la pietra è sempre una scelta. E l’acqua? Iosif: L’acqua, dici? L’acqua è tutto. L’acqua è l’unica cosa che vince sul tempo. O, forse, è il tempo stesso. L’acqua può tutto e, qui, tutto riflette. Così come, a una certa ora del giorno, ogni meraviglia sul Canal Grande è restituita al suo doppio; allo stesso modo, l’acqua non può scegliere (nemmeno qui) di riflettere ciò che vuole ma soltanto ciò che può: ogni cosa. Susan: Allora spiegami perché tornarci anche in questa stagione? Iosif: Non ci torno, ho scelto di rimanerci. Tu piuttosto perché ci vieni ancora? Susan (sorride): Dovresti saperlo, un anno intero a Parigi può essere noioso. E poi, ogni volta, torno a prendere una cartolina. Iosif: Qualcosa che l’occhio possa contenere? Susan: Qualcosa di più. Tutto ciò che l’occhio escluderebbe e che la laguna moltiplica per due. L’istante in cui un riflesso, o l’alzarsi e ritrarsi di marea, ti mostrano la meraviglia. Iosif: Meraviglia già esistente, non trovi? 84
Susan: Sì Iosif: Forse sarebbe meglio dire, piuttosto, che torni qui a riprenderti (o a registrare) un pezzetto di meraviglia. Susan: Potremmo dire così, mio puntiglioso poeta, ah ah ah. Iosif: Ah ah ah. Hai ragione certe volte sono insopportabile. Quasi sempre, in realtà. Susan: Non per me. (I due amici passeggiano tra le piccole calli che si confondono tra la chiesa della Salute e la Guggenheim) Susan: Hai visto in che calle siamo finiti? Ti viene in mente chi viveva qui? Iosif: Oh, mio dio, sì! La moglie di Pound. Mi ricordo quando mi chiedesti di accompagnarti a casa sua. Il pistolotto che Olga Rudge ci fece in difesa (non richiesta) di suo marito, di come non fosse nazista e nemmeno antisemita; ma mi pare che ci salvasti con una battuta splendida. Susan: Dici? Non ricordo bene. Ricordo, invece, come il suo tè non era un granché. Iosif: Americani… Susan: A chi lo dici… (Ridono) Iosif: Si sta bene stanotte, passiamo da Punta della Dogana? Susan: Volentieri, adoro passare da lì. Non so perché mi viene in mente una tua poesia, una della serie di Laguna. Dunque, era così, se non sbaglio: E, come un tintinnio di servizi da tè, si sente il suono delle chiese veneziane in una scatola di vite casuali. Il polipo di bronzo del lampadario nella specchiera fiorita d’erbe lacustri lecca il letto umido, rigonfio di lacrime, carezze, sogni sporchi La ricordi, Iosif? Iosif: Sì. Le poesie che hanno a che fare con Venezia sono quelle che ricordo meglio e più volentieri. Susan: Ho sempre trovato geniali questi versi. Il come tu sia riuscito nominando oggetti, descrivendo una stanza d’albergo, a far sentire, a riprodurre il suono dell’acqua. Come se l’acqua fosse in quella camera. Iosif: E c’era, Susan, eccome. L’unicità di questo posto, queste mura umide, i mattoni che amo più delle pietre, il dondolìo. Sentire che l’acqua era ovunque, sotto al letto mentre dormivo o sotto i tacchi mentre passeggiavo, mi ha mostrato con chiarezza la mia precarietà. Sensazione confortante. Siamo instabili come l’acqua. Sapere che in questo posto tutto dipende ed è dipeso dall’acqua ti si ficca dentro come un chiodo di ghiaccio. Qualunque cosa tu pensi o scriva, lo farai con l’acqua. 85
Susan: Una continua vibrazione, no? Ogni volta sei costretto a pensare che un niente basterebbe a portarti via. Anzi, venire qui è sempre stato portarsi via. Venire a Venezia è, contemporaneamente, scegliere la bellezza, raddoppiarne la visuale e poi farsi prendere alla gola, sgomenti, sapendo che ciò che amplifica lo stupore potrebbe sottrartelo in ogni istante. Dio mio, che luce che c’è su San Marco, da qui. Iosif: E San Giorgio? Non bastano molte vite per meritarsi questa vista. Questo posto è immune a tutto e a tutti, fuorché a se stesso. Fossi rimasto in vita avrei continuato a venirci, ogni inverno, fino alla fine. San Pietroburgo non mi è mai mancata veramente, Venezia sì. E a te cosa manca, ti manca Annie? Tuo figlio? (Mentre chiacchierano, superano Punta della Dogana e vanno verso le Zattere, passando davanti ai Magazzini del sale. Siamo a Fondamenta degli Incurabili.) Susan: Terribilmente, ma più di tutto mi manca poter scrivere. Perché ogni volta che ho scritto anche una sola parola ho scritto anche a loro. Iosif: Allora gli hai parlato per sempre. (La Sontag sorride e si volta verso il Canale della Giudecca.) Susan: Sei caro. Lo spero, lo spero. Guarda come è piatto stanotte, guarda la luna sopra il Redentore. Stasera si riflettono le stelle. Iosif: Una volta mi hai detto che Venezia ti fa piangere, pensavi a notti così? Susan: Scrissi quella frase sul taccuino, una mattina presto, dopo aver ascoltato la messa a San Marco. Credo sia stato il risultato reale della sensazione di tranquillità, del silenzio della basilica e della piazza. Con me solo la liturgia della bellezza. E la pace. Venezia mi metteva in pace. E se fosse il pianto l’unico inchiostro plausibile per raccontare, insieme, la pace e la bellezza? Iosif: La pace e la bellezza stanno in una lacrima sola. Torniamo all’acqua. Susan: Che è da dove veniamo. (Ridono entrambi. Ora lasciano le Zattere e svoltano a destra verso Sant’Agnese, vanno verso il Ponte dell’Accademia). Iosif: Esiste, secondo te, una fotografia – ideale – che possa raccontare Venezia? Susan: Può darsi. L’ideale, però, sarebbe soprattutto tutto ciò che è rimasto fuori dallo scatto. Tutto fermo da millenni eppure mutato prima della foto successiva. Iosif: Tutti i versi che ho scritto su Venezia (anche quelli dedicati a te) hanno tentato quello scatto. Susan: A te lo scatto è riuscito. Iosif: Qualche volta l’ho pensato. Più onestamente, mi sento di dire che il pensiero di riuscire in quello scatto mi abbia tenuto in vita più a lungo. L’ansia di mancarlo, d’altro canto, mi ha spinto a tornare qui, tutti gli inverni, per quasi vent’anni. Susan: C’è un’altra tua poesia che amo particolarmente, mi ci hai fatto pensare adesso: Scrivo questi versi, seduto all’aperto su una sedia bianca, 86
d’inverno, con la sola giacca addosso, dopo molti bicchieri, allargando gli zigomi con frasi in madrelingua. Nella tazza si raffredda il caffè. Sciaborda la laguna, punendo con cento minimi sprazzi la torbida pupilla per l’ansia di fissare nel ricordo questo paesaggio, capace di fare a meno di me. Iosif: Il punto è proprio questo. Venezia può fare a meno di chiunque, nemmeno l’assenza di chi l’avrà più amata potrà intaccarne la bellezza e l’essenza. Io, invece, ne avvertivo la mancanza ancor prima di venirci la prima volta. Susan: I tuoi inverni, starei ore ad ascoltarti mentre mi parli dell’acqua alta, della nebbia, dell’odore delle alghe ghiacciate. Vuoi farlo ancora una volta Iosif? Iosif: L’odore di alghe marine sotto zero, per me, è sinonimo di felicità. Ognuno si lega a un odore, quello è il mio. Odore che conoscevo prima di sentirlo, oltre i confini geografici, lo scrissi, al di là della struttura genetica. La nebbia è stata la prima cosa che ho imparato qui, fitta fino a inghiottirti. Ti costringe a stare in casa a scrivere, con la luce artificiale. Se non sei veneziano, una volta uscito, non sapresti far ritorno. L’acqua alta deborda sulla città come fuoriuscita da una vasca da bagno, ti prende fino alle ginocchia. Il suono dei tacchi lascia posto a un silenzio vivo, interrotto solo dal rumore che fanno gli stivali di gomma. Tutto è fermo, come se nulla esistesse più. Il niente davanti e, dietro di te, solo la breve scia che lasci. Susan: Grazie. Ora ci vorrebbe qualcosa da bere. Iosif: A patto che non si tratti di acqua. Susan: Promesso. Nota al testo: Susan Sontag (New york 16 gennaio 1933 - New York 28 dicembre 2004) è sepolta a Parigi nel cimitero di Montparnasse. Iosif Brodskij (Leningrado 24 maggio 1940 - New York 28 gennaio 1996) è sepolto a Venezia nel cimitero di San Michele. Il racconto è ispirato alla vita e all’opera dei due autori. In particolare, trae spunti dai seguenti testi: Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi 1991 (ultima edizione 2012) Iosif Brodskij, Poesie Italiane, Adelphi 1996 (ultima edizione 2004) – volume che contiene le due poesie citate nel racconto. Susan Sontag, I diari, II Vol., a cura di David Rieff – non ancora editi in Italia. (un’anticipazione è apparsa su la repubblica il 29/04/2012) Le battute dei dialoghi, le deduzioni, parte della visione di Venezia, sono da attribuire alla fantasia dell’autore.
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Non amavi l’acqua ma galleggiare su questo materassino di fiato (la tua anidride carbonica) ti piaceva. Eri sicura, te ne stavi lontana per ore, sola alla boa. Non mi spiego l’abbandono del tuo corpo alle acque, tu che eri capace di restare asciutta per ore in mezzo a quel mare e tornare a riva anche senza un solo tuffo. «Ma non ti accorgi che l’acqua è dentro ai muri», dicevi. Negli incubi vedevi i soffitti zuppi colare giù dalle pareti e aprirsi in fango freddo i piani delle case. Ti sei allontanata come in un’evasione, senza mai guardare indietro, volendo arrivare più lontano di sempre. Oltre la boa hai pensato al nuoto, se ce l’avresti fatta a tornare a riva in caso di foratura e sbracciando a dorso in mare aperto hai incocciato di nuca una cosa, la nuca di un uomo. Una collisione tra due fughe in volo. Se la sincronicità con un naufrago che non sa nuotare, appeso a un salvagente anulare, come una curva algebrica in mezzo al mare ti pare una metafora, la sua vita non è metafora. Il mare pensalo veleno, quest’acqua per lui è massa letale, un deserto salato di morte certa, il luogo freddo e ostile della deriva. Nello spavento ti sei lasciata disarcionare e senza reazione sei andata giù. L’aridità ci condanna all’abisso lentamente signora, il nostro volo sta atterrando sul fondo di questo braccio di mare.
sulle sponde che bruciano la frontiera intervista a Moncef Ghachem e Biagio Guerrera Due poeti che condividono parole, una musica che accomuni: Moncef Ghachem e Biagio Guerrera collaborano da anni, tra Mahdia e Catania. Le acque del Mediterraneo hanno trasportato la vostra urgenza di far conoscere la realtà. La recente uscita del cd Quelli che bruciano la frontiera con le musiche della Pocket Poetry Orchestra non è la traduzione proprio di questo mare, poesia, dramma, o miracolo, possibilità, che unisce Sicilia e Tunisia e le sue storie? MG - Io e Biagio ci siamo incontrati a Palermo dieci anni fa. Poi, i nostri scambi poetici hanno aperto i sentieri fertili di un’amicizia creativa e di una profonda sintonia. La nostra ultima produzione è il recital polifonico Quelli che bruciano la frontiera, dove si incrociano, trasportate dagli slanci e dai lampi della musica, le nostre voci reciproche di tunisini e siciliani che si esprimono bene anche in italiano, in francese, in siciliano così come in arabo dialettale tunisino. La stessa memoria poetica unisce e nutre i nostri due paesi. Così come, nell’XI secolo, Ibn Hamdis, poeta siciliano di lingua araba, canta in quella lingua la nostalgia per Noto, sua città natale. Allo stesso modo negli anni Trenta, il poeta Mario Scalesi, di padre siciliano e di madre maltese, scrive in francese, a Tunisi, i suoi Poèmes d’un maudit. Biagio ed io abbiamo accostato la voce di mia madre – che apre il recital con un canto marino incantatorio – a quella di Rosa Viola, sua nonna. Tra Mahdia e Catania, attraverso le vie miracolose della poesia, noi cantiamo la vita e la pace, la speranza e la libertà. BG - L’amicizia con Moncef mi ha dato la possibilità di scoprire un mondo ricchissimo di umanità e di cultura, un mondo diverso ma per molti aspetti simile al mio. È stato molto importante per me conoscere la Tunisia e confrontare la mia storia, le mie 88
origini con le sue. Il mondo del mare è molto importante nella mia famiglia e nella mia città. Mio nonno Melo era un uomo di mare capitano di mercantili, da bambino mi sono nutrito delle storie sue e di mia nonna Rosa. Parlando più in generale, come siciliano sento l’eredità e la ricchezza delle stratificazioni culturali della mia terra che si intrecciano con quelle della sponda tunisina, con la quale abbiamo in comune anche una forte impronta romana. Da tempo le migrazioni trasportano in fondo al mare uomini che cercano di migliorare la propria esistenza. Il destino nelle mani del mare bianco risveglia, dopo la rivoluzione contro Ben Alì e la guerra civile libica, l’urgenza di costruire l’unione politica del Mediterraneo. Quali i vostri pensieri a riguardo? MG - Cosa possono fare gli artisti, i poeti per diminuire la portata di queste migrazioni? Contro la morte e la perdita dei riferimenti identitari e culturali? Come ha detto Rimbaud, la poesia deve precedere l’azione. BG - Purtroppo l’Europa non guarda al Mediterraneo e le rivoluzioni arabe rischiano di essere una grande occasione mancata. Facevamo affari con i dittatori ma continuiamo a non comprendere quanto sia importante, anche in una prospettiva di sviluppo economico e commerciale, investire per sostenere la cultura e la democrazia in quei paesi. Invece abbiamo saputo solo promuovere leggi razziste e demagogiche, buone a favorire gli affari delle mafie e di chi gestisce le emergenze. Banalmente, in questo momento, l’unico giornale della comunità italiana a Tunisi ha visto azzerare il piccolo contributo del Ministero e l’Istituto Italiano di Cultura non ha risorse per le attività, le ha solo per gli stipendi davvero sontuosi (considerato il costo della vita a Tunisi) di funzionari che potranno solo girarsi i pollici. Dovremmo invece a mio avviso ripensare completamente il nostro ruolo nel Mediterraneo, favorire e regolare i flussi dei migranti bloccando il vergognoso massacro in corso da anni, trasferire conoscenze, favorire i nostri investimenti in quei paesi. C’è tanto da fare, ma l’Italia non ha una politica estera nella regione da troppi anni e l’Europa ha la testa e il cuore a nord. Gli harraga lasciano tutto e si imbarcano, attraverso l’orizzonte di un mare che spesso non fa più sentire. Come vivete questi momenti, qual è la vostra opinione? MG - I giovani della riva sud del Mediterraneo continuano, malgrado i naufragi, le morti e tutte le immagini di orrore diffuse dai media, a partire in bande disorganizzate verso un nord mitico, immaginato ricco e accogliente. Noi, con la nostra attività poetica, possiamo rendere omaggio ai versi di Seferis: «Noi che non abbiamo nulla, insegneremo loro la pace». Bisogna risvegliare in questi giovani senza lavoro una coscienza più patriottica della politica e dell’economia dei loro Paesi. BG - Soffro come cittadino italiano per le politiche ottuse e crudeli del mio Paese che favoriscono tante morti. Dalla Sicilia, come da tante altre regioni d’Italia, sono partiti in passato migliaia di emigranti. Anche oggi tanti giovani sono costretti a partire. Come facciamo a essere così sordi davanti al dramma dei migranti? In Sicilia i paesi dell’interno si svuotano, le campagne sono spesso abbandonate. Perché non 89
dare la terra e le case a chi è disposto a lavorarle? Penso al modello di accoglienza sviluppato a Riace, in Calabria, come ad un esempio da seguire. La Sicilia si erge dalle acque come un grande vulcano, e amalgama, stratifica silenziosa la storia dell’isola, ma la gente ha bisogno di un progetto e di una visione. Cosa accadrà, che prospettive hanno, i carusi che svicolano tra il mare e l’Etna? BG - La situazione oggi in Sicilia è davvero difficile e paradossale. L’isola continua a godere, nonostante gli abusi subiti dagli anni Cinquanta ad oggi, di risorse ambientali, artistiche e architettoniche straordinarie, per non parlare del potenziale legato all’agricoltura, alle energie rinnovabili e ad alcune eccellenze in campo tecnologico. Inoltre, è in una posizione geografica strategica che potrebbe favorire gli scambi commerciali. Ma nello stesso tempo è bloccata dalle mafie, da gravissime inefficienze amministrative, dalla corruzione, dal sistema clientelare, dall’ignoranza… do solo alcune cifre terribili e esemplificative: la Sicilia è prima in Italia per disoccupazione giovanile – si parla del 29,6% – mentre la Regione ad oggi non è riuscita a impegnare la cifra enorme di sei miliardi di euro di fondi europei per lo sviluppo dell’ultimo programma pluriennale di investimenti che scade l’anno prossimo! C’è poco da stare allegri. Anche le rivolte dei forconi, se esprimono un disagio reale, lo fanno però senza una vera coscienza, quando non attraverso personaggi quantomeno ambigui che vogliono rilanciare la propria carriera politica. Vorrei sbagliare ma a me sembra il ribellismo di chi ha avuto fino ad oggi dispensato l’obolo clientelare e non la rivolta della società civile, di quella parte sana della Sicilia che scese in piazza dopo le morti di Falcone e Borsellino, ma che ha visto tradite le sue istanze e le sue aspettative. Spero che la Sicilia si risvegli presto. In questa direzione i poeti, gli artisti, gli intellettuali possono cercare di stimolare nuove visioni ma anche proporre modelli differenti. Alcune esperienze in questo senso sono esemplari, penso a quella oramai storica di Antonio Presti a Tusa e a Librino; o alle recenti occupazioni del Teatro Coppola a Catania e del Teatro Garibaldi a Palermo. Leggo con passione Danilo Dolci che credo sia oggi di grande attualità. La Tunisia fa intravedere tutto il dramma della disoccupazione giovanile. Come sta intervenendo, nonostante la situazione difficilissima, il governo tunisino dopo la rivoluzione? Anni fa Ghachem ha definito l’Italia sensibile alla cultura della Tunisia. Si può dire lo stesso vicina ai suoi bisogni, nel senso di partner in sede europea nel momento di crisi? Oltre il regnare per l’acqua nera, per il gasolio, cosa sta facendo l’Unione Europea per la Tunisia? MG - Sono passati ventiquattro mesi dalla rivoluzione tunisina. Lode e gloria al popolo tunisino e soprattutto alla sua gioventù coraggiosa ed eroica per averla fatta finita con uno Stato dittatoriale, poliziesco, assassino e corrotto. Oggi però il caos sembra dominare le questioni politiche e ideologiche. Poche delle promesse fatte nei primi giorni della rivoluzione sono state mantenute. Così la marcia organizzata il 9 aprile 90
2012 per protestare contro l’abbandono degli impegni assunti è stata brutalmente repressa da quello stesso governo che aveva promesso. La Commissione Europea ha sbloccato nel 2011 una notevole quantità di fondi per sostenere l’economia tunisina che ne ha molto bisogno. Ma l’Unione Europea opera su un terreno molto fragile a causa della distruzione e della chiusura di tante aziende. Tuttavia, ben formati nelle scuole di specializzazione e nelle università più rinomate, i giovani tecnici e funzionari tunisini sarebbero in grado di proteggere i propri beni se avessero assistenza da parte di organizzazioni di solidarietà. Molti tunisini vivono a Mazara del Vallo, dove in un tratto di mare è stata ritrovata la statua in bronzo di un satiro danzante, che ci ricorda la bellezza della nostra cultura e la mescolanza tra i popoli del Mediterraneo. Poi in un quartiere di questa città le scritte sono in arabo e Mazara sembra un’autentica casbah. A Mahdia, una volta vivevano molti siciliani, anch’essi immigrati. Il poeta è errante, ma cosa conserva di questi viaggi, che oltre a essere vissuto personale sono anche vissuto familiare? MG - Sono cresciuto in Tunisia prima dell’indipendenza, in un paese povero all’estremo, dove i bambini andavano a scuola a piedi nudi e avevano solo il sole per scaldarsi in inverno, ma i pescatori della comunità della quale facevo parte già convivevano con piccoli armatori, capitani ed equipaggi di origine siciliana. Figli di due sponde, vivevamo già in fraternità e condividendo i nostri giochi. Il Mediterraneo, uno e indivisibile, era già lì ad unirci nell’amicizia e nella condivisione di giorni spesso duri.
amare i paraventi Forse, come in certi proverbi, l’anima è quel riflesso dalla luce smerigliata, di pomeriggi avvolti in mèsse e consegnati ai tiepidi granai del ritorno, della permanenza, dell’alba rossa fra le spighe. E a volte un proverbio, anche se drenato nei vetri delle ampolle e nelle pance dei filosofi, nelle carte fragili e nei canti dimenticabili, si dimostra vero: quando mi svegli dalla vita e guardi, sei la nuotatrice cieca che affresca nell’acqua i proverbi più veri, volti che restano costellazioni, coralli intensi oltre lo scoglio. 91
io della barca Io della barca so tutte le coste, Tutte le fibre, i tavolati, i chiodi. So léggere le scritte screpolate dai molluschi Sopra la chiglia, so sbrogliare La tela infittita delle cime So scrostare le prime Trine di sale a prua – so le teredini Benigne sul legno vecchio – So i nodi e i parrocchetti degli stralli E i calli degli scalmi, il cigolio Sonoro, l’urlo grasso del dritto Di prora incontro all’onda, l’amarezza Della brezza a chi timona. Tutta riporto chiusa nella mente La barca delle reti. Camperia profumata Nel marfaratico petroso.
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in alto mare come a terra… l’acqua dolce sta finendo appunti su Marinai, profeti e balene Aprire un libro, guardare il mare ed entrare in un circo. Questo è il cortocircuito emozionale che, canzone dopo canzone, canzone dentro canzone, Vinicio Capossela mette in scena nel suo più recente cd, Marinai, profeti e balene. Il lavoro è una mappa attenta e scrupolosa che invita al perdersi, allo smarrirsi nelle profondità delle correnti marine, nell’ampiezza dell’immaginario umano, nel caldo di passioni e memorie. Sempre con un occhio alla bussola – meglio se quello che ci vede meno – e il cuore aperto alla tempesta e al desiderio del porto sicuro. In queste diciannove composizioni si respira la salsedine, si rischia di annegare, si portano gli amori viscerali al largo, si rincorrono le balene di un’esistenza. Sempre più dannata, sempre più affascinante. Perché nell’oceano, oilalà, «La nuvola scappa / La schiuma si leva / Quando soffia l’arcoBalena» e c’è sempre da temere «La burrasca che gonfia nel fiocco». Di fronte a questo irriverente e guasto e pericoloso brutto tempo che in cielo monta e impaurisce, l’uomo che cosa può fare? Solo stringersi vicino ai suoi simili, imbarcati in un guscio di legno che promette quello che può promettere. Ed è questo il momento giusto per dire «Noi vogliam del rum». In questa storia che si dipana e si racconta tanti sono i protagonisti che ritagliano il proprio spazio, che meritano la partecipazione dell’ascoltatore, del lettore, del pubblico di sala. Una cartografia di acqua salata dove i nomi dei mari si mescolano con i nomi di pesci e uomini e donne, gli amori non rassicurano più, la seduzione ha voci lontane e pinne ai piedi, la terra promessa è sempre sommersa. Capossela è bravo nell’invitarci alla scoperta di ogni figura che anima questo coro di destini e spiagge. Perché come si fa a non rimanere incantati da Pryntyl «Prima stella del corpo di ballo / Del balletto delle onde / Un tutù di alghe nel blu... chiamami Nunù / Perché sono una sirena canto in sirenese». Intanto la profondità del mare si fa sempre più buia e pericolosa, una massa indistinta di paure e sfide, per la sopravvivenza e per la forza di aggiungere una nuova leggenda, alla carne stanca e sfiancata di ogni marinaio. Anche di quello che a terra, deve ancora imbarcarsi o ci è ritornato per miracolo. Quanto l’amore, versato in dolore e raccolto in emozione, che in questo disco si mostra e si nasconde, anche solo per pudore. Perché si è sempre, ognuno di noi, almeno una volta, un Polpo d’amor con «Troppe braccia per non abbracciarti / Tentacoli senza tentazioni» e come un lord Jim imbarcato per malaventura, si sa bene che «Nessuno è mai protetto / Dalla sua debolezza / Che se ne sta nascosta / Come una serpe dentro un rovo». E il mare sempre attorno, sempre sotto, a volte sopra quando la tempesta fa salta93
re le onde cattive e maligne al cielo e il rollio è sempre più forte, il cielo più funesto, ogni belva degli abissi è pronta al morso fatale, l’amata a casa si dimentica la fedeltà, la rotta è sbagliata, l’acqua dolce sta finendo. Così, proprio quando sembra tutto finito, tutto destinato all’acqua salata, a riempire i polmoni e soffocare la vita, la testa gira in una vertigine e lascia spazio e occasione all’incanto delle sirene, che «Non hanno coda né piume, cantano solo di te / L’uomo di ieri, l’uomo che eri, a due passi dal cielo» e ti predicono una condanna da cui non ti potrai svincolare, che già avevi in partenza: più forte di ogni preghiera, più inesorabile di ogni fiocina ben appuntita. L’immaginario di Moby Dick è la forza primordiale che anima queste canzoni, questi racconti. Il Big Bang che tutto fa ruotare e tutto fa navigare. Con una spinta che porta all’oggi, al nostro quotidiano dove «La madonna delle conchiglie / È arrivata restituita dal mare / Senza carte, senza la scorta / Senza permesso, senza passaporto / E di un fuggiasco così come era / Ne abbiamo fatto la madonna nera / Che è la madonna dei naviganti / Protegge gli ospiti come i naviganti». Marinai, profeti e balene è un gran disco, è un gran libro. È una possibilità di rotte e naufragi, tanto essenziali le prime quanto preziosi i secondi. Un movimento in più atti che si trova e si perde fra le maree e le notti, che invita al pericolo e non fa rinunciare alle paure. In alto mare come a terra.
Pa-ra-da: making off liquido Sono arrivata la prima volta a Bucarest sotto una pioggia torrenziale. Ricordo che non avevo assolutamente niente per proteggermi e cercavo di ficcare sotto la maglia la sceneggiatura che avevo appena finito di leggere in aereo. Parlava dei bambini che vivono in quelle che allora credevo fogne. Era soprattutto il mio primo film, ero stata scelta all’ultimo ed ero dovuta partire subito senza avere nemmeno la sceneggiatura tradotta. Mi sembrava un’avventura di quelle degne di essere raccontate ai nipoti. Il mio immaginario era tutto concentrato sul magico momento dell’Azione, altro non esisteva per me. Non mi sarei mai aspettata che l’esperienza umana sarebbe stata quasi più forte dell’impatto col set. Conoscevo la storia dei “bambini delle fogne” e del clown che li ha salvati, ma ne avevo una percezione superficiale. Non sapevo niente neppure della Romania. Non ero mai stata in un paese ex-sovietico. Appena scesa dall’aereo mi è sembrato di fare un salto indietro di anni. I colori, le macchine e le strade, perfino le tende alle finestre sembravano appartenere a un mondo parallelo, rimasto negli anni Ottanta. Lungo i viali militareschi che portano in centro città leggevo “Bulevardul” invece che “Boulevard”, scritto nei caratteri tipici della Ville Lumiére, ma senza luci e con l’asfalto sconnesso. Ho pensato a un’ironia di dubbio gusto. Poi ho scoperto che negli anni Trenta Bucarest era chiamata la Parigi dell’Est. Qualcuno dei nomi delle strade è rimasto in memoria. Ha tenuto duro nonostante tutto. 94
Ne ho viste tante di rivincite in quella città. Soprusi e rivincite continue. Il centro della mia Bucarest era piazza Unirii, con la sua inconfondibile lattina di Coca-Cola gigante, messa come un cappello sulla cima di uno dei grandi palazzi del regime grigi e quadrati. Lungo un lato si apre la strada che porta alla Casa Popurului, il Palazzo del Popolo voluto da Ceausescu secondo per grandezza solo al Pentagono. È un cubo grigio che schiaccia una collina spoglia. Sembra un incidente architettonico. Per costruirlo è stato raso al suolo un intero quartiere con 40.000 edifici, diciannove chiese cristiane ortodosse, sei sinagoghe e tre chiese protestanti. Assemblato con materiale rigorosamente nazionale – cristalli, acciaio e marmi della Transilvania – nel palazzo del potere tutto è fuori scala: porte alte almeno tre metri, corrimani che arrivano alla mia spalla. Pare sia talmente grande da garantire un microclima interno costante in ogni stagione. Prodigi della megalomania. Quando ho visitato l’unico piano aperto al pubblico – lungo un lato del chilometrico corridoio – c’era una donna che passava un aspirapolvere che sarebbe andato bene a malapena per il monolocale in cui vivo. Mi domandavo quanti giorni la sua rassegnazione ci avrebbe impiegato a pulirlo tutto. In un’ala posteriore del palazzo, da qualche anno c’è il Muzeul National de Arta Contemporana, con un piccolo caffè deserto che si affaccia sulla sterpaglia della collina. Un seme nuovo a protezione del quale avverti una certa cura. Quel giorno ero l’unica visitatrice di una mostra sulla dittatura e venni accolta con gioia. Una piccola rivincita. Dal lato opposto di piazza Unirii scorre invece la Dambovitza, il fiume della città deviato da Ceausescu nel 1986 e portato a gettarsi più lontano in un lago artificiale, il lacul Morii: operazione che ha comportato lo sventramento di un altro quartiere. Non ho visto quel lago, ricordo solo che il fiume a un certo punto scompare, fa posto a strade, a viali con fontane maestose ma ferme. Lo vedi e poi non lo vedi più. Ci sono esempi del genere in altre città, ma qui non so perché avverto il sopruso. È come se l’acqua, di fronte a tanto cemento avesse preferito farsi da parte. Le maestose fontane della piazza erano ferme, grandi pozze immobili e vischiose che guardavano in direzione della collina del potere. Dentro una di esse un mio amico in una notte gelida si è messo a zampettare ubriaco sotto i miei occhi inorriditi. Ma una volta ho visto una vecchia cantare una nenia per richiamare a sé una bambina che fingeva di nascondersi tra i bordi di quella fontana secca. «Unde este Nina?» Dov’è Nina? – cantava. E per un attimo erano da sole con il loro gioco antico, e il giardino e le fontane erano piene di vita, niente più traffico intorno, niente più città. La sua rivincita l’acqua se la prende nei parchi dove è davvero la regina. Il lago di Herastrau è l’orgoglio di Bucarest. È talmente grande che ci si può andare in barca. È il punto di ritrovo di tutti gli abitanti nelle rare giornate di sole. Poi ci sono i laghetti meno clamorosi di Cismigiu con i loro piccoli ponticelli. Qui vengono le coppie di innamorati a mangiarsi le fette di torta comprate nelle pasticcerie, quelli che amano leggere sulle panchine, e gli anziani che si fermano a ricordare. Ma il mio preferito era il parc Carol. D’autunno un sontuoso tappeto di foglie si stendeva lungo tutta la 95
spianata che porta al memoriale degli eroi sovietici. Un titano di pietra nera poggiato su un’altura spesso ventosa. Solo quando sali fino in cima ti rendi conto dell’altezza. La spianata taglia in due il lago. Si impone su quello che c’era prima come una riga diritta su un foglio. Ma il lago si prende la sua rivincita ricoprendola con le foglie d’oro dei suoi alberi. A Bucarest è come se l’acqua fosse un testimone malinconico. È una città di pioggia e di neve, che però non lavano. Quello che ti resta addosso delle strade è tanta polvere grigia che si deposita su tutto, s’impasta coi canti ortodossi che arrivano dalla collina del Patriarcato e con le nenie degli zingari, che passano con i loro carretti di legno tirati da cavalli con gli occhi cisposi. Sotto le strade l’acqua diventa vapore. Dai tombini con il freddo puoi veder uscire del fumo bianco come a New York. Ma qui è un vapore dolente. Non si tratta di fogne ma di canali abitati. Bucarest, come molte città ex-sovietiche ha un imponente sistema centralizzato di canali sotterranei dove passano le condutture per il riscaldamento. Quelle che quando ero in Italia anch’io chiamavo “fogne” di acqueo non hanno nulla se non un’umidità pregnante e tiepida dovuta alla profondità. Scendere in un canale è come entrare nel ventre buio di un animale. Queste gallerie offrono una protezione a chi non ha altro posto dove andare a vivere. I bambini che ci si nascondono dentro vengono chiamati “bosketari”. Bosket significa “cespuglio”. Dopo il crollo del regime la povertà che si è abbattuta sulla Romania nei primi anni Novanta ha avuto tra le tante conseguenze la chiusura degli orfanotrofi, ma anche una migrazione di famiglie intere dai villaggi verso la capitale. Andare a vivere per strada in città dava più garanzie di sopravvivere che nelle campagne. Molti bambini orfani o abbandonati dalle famiglie disperate per la fame hanno raggiunto Bucarest per questa ragione. La prima cosa che ti colpisce quando ti avvicini a un tombino è l’odore, un inconfondibile odore di umido e di umano che si mescolano e ti entrano nelle viscere con la stessa intensità con cui ti entra l’odore dell’Aurolac, la vernice che i bosketari sniffano in continuazione. La comprano dal ferramenta e se la fanno mettere dentro bustine bianche, che diventano delle seconde bocche dentro cui respirano come dei mantici. Bimbi medusa, che si muovono in branchi e quando sniffano diventano tutti rossi e con lo sguardo vuoto. L’Aurolac serve a non sentire la fame, il freddo e anche la paura – mi hanno spiegato. Quando sono sotto il suo effetto non appartengono più a nessun luogo, si muovono come animali in una gabbia immaginaria. Poi l’effetto finisce e tornano in questa dimensione a guardarti dritto negli occhi. Durante le riprese di Pa-ra-da alla Gara de l’Est, i bambini del film e i boskettari della stazione giocavano insieme. Tra un ciak e l’altro si lanciavano tutti in improvvisate e fulminee gare di corsa o partite di pallone, nelle quali il regista Marco Pontecorvo riusciva sempre a primeggiare. Ricordo che c’è stato qualche giorno di assestamento. All’inizio i bambini si divertivano a fare rumore di proposito, quando si girava e bisognava interrompere. Poi sono entrati anche loro nel gioco e hanno cominciato a stare attentissimi a tutto quello che succedeva. Qualcuno era entrato in confidenza con i tecnici e appena glielo permettevano dava una mano. Del resto 96
stavamo raccontando la loro storia. A volte non sopportavano quest’ingerenza. Un giorno una delle più grandi ha fatto perdere la pazienza a un mastino della security; continuava a prenderlo in giro e questo per farla stare zitta l’ha buttata a terra con una testata. Allora un ragazzino si è spogliato a torso nudo ha rotto una bottiglia e ha cominciato a minacciare che ci provassero a toccarlo. È finito tutto velocemente. Noi basiti a insultare quella montagna senza cervello che aveva dato una testata a una bambina, e loro tutti scomparsi chissà dove. Quando siamo andati via dalla stazione dopo tre settimane di riprese, uno di loro che fumava sempre insieme ai tecnici ci ha seguito sull’altro set. Ma era un ufficio piccolo e non c’era spazio per poter assistere né tempo per stare semplicemente con noi. Ha capito subito ed è andato via. Aveva chiesto un dizionario d’inglese a Gabi Rauta (che nel film interpreta Mihai) ma non è mai tornato a prenderselo. Lì si è rotto qualcosa. Ho sentito il limite. Noi costruivamo realtà ma lo facevamo da fuori, e per farlo attingevamo alla loro realtà da cui invece loro non potevano uscire. Florin si era innamorato di me. O meglio aveva scoperto il sesso femminile di cui io ero una rappresentante e a quattordici anni questo genere di cose sono travolgenti. Ogni volta che ci trovavamo sul set mi si scaraventava addosso per stringermi. Era molto forte da far quasi male e non c’era modo di sfuggirgli. Allora la mia tattica era dargli dei pizzicotti sulle guance finchè decideva di lasciarti un po’ di spazio intorno. Però a volte quando non ne potevo davvero più lo spingevo via con forza, ridiventavo bambina anche io. «Frumoasă», mi diceva in continuazione. “Bella”. Lui era un bambino salvato da Pa-ra-da che nel film interpretava Vlad. Non viveva più per strada ma insieme ad altri ragazzi negli appartamenti che l’associazione può mantenere grazie alle donazioni. Nonostante potesse disporre di un tetto e di una doccia ogni tanto Florin scompariva e tornava a dormire in strada dove era cresciuto, forse perché non ce la faceva a sentirsi delle mura intorno. Non lo saprò mai. L’ultima notte di riprese giravamo una scena dello spettacolo in strada. Era dicembre faceva freddo e a un certo punto cominciò a nevicare. I bambini si concentravano per fare la piramide umana e giocare con i birilli. Non vedevano l’ora di dar prova dei loro talenti, della temperatura non gli importava niente. Jalil Lespert (che nel film interpreta Miloud) doveva fare il numero di mangiafuoco, e con questa scusa si riscaldava mentre io per sopravvivere usavo ogni momento buono per giocare a calcio con i bambini o abbracciarmi stretta a Cristina (che interpreta Tea) e a Florin. Quella è stata l’unica volta che la città mi è sembrata accogliente. Forse era lo spettacolo, forse la neve che ha cominciato a cadere come una protezione. Quella è l’ultima forma che l’acqua ha preso a Bucarest per me. La più bella. È passato qualche anno, Florin non c’è più, Tea vive in Francia con un gruppo di ragazzi che hanno una fattoria e fanno teatro, qualcuno ha trovato lavoro e ha avuto un figlio. Ripensare a tutto questo adesso mi costa una certa fatica. Penso alle persone che ho conosciuto, alle loro storie dolenti che si specchiano nella città e viceversa, e agli attimi di grazia che mi hanno regalato entrambe. Forse non c’è sopruso che non possa portare con sé anche la sua rivincita.
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water conflict L’acqua è in assoluto la più necessaria tra tutte le risorse, ma anche la più difficile da maneggiare. È in costante movimento, senza alcun riguardo a confini politici ed è altamente vulnerabile all’influenza umana. Nel mondo ci sono più di 260 fiumi che attraversano frontiere internazionali, toccando più del 40% della popolazione mondiale. Tutti i consumatori d’acqua condividendo le stesse risorse sono, in un modo o nell’altro, interdipendenti. E mentre la popolazione mondiale, così come il consumo d’acqua, continua a crescere rapidamente, le risorse idriche diminuiscono a causa dell’inquinamento, del consumo eccessivo, delle inefficienze. Il 20% della popolazione mondiale è tutt’oggi privata di un sicuro accesso all’acqua potabile. In molte regioni del mondo la scarsità dell’acqua è un fattore limitante per lo sviluppo e la mancanza di risorse idriche è diventata un pericolo per l’ecosistema e la salute dell’uomo e allo stesso tempo fonte di tensioni politiche che hanno portato a conflitti armati. The first modern “water war”? Molto probabilmente il più importante esempio di conflitto in tema di approvvigionamento idrico si trova nel bacino del fiume Giordano, e vede come attori Israele da una parte e gli altri abitanti delle sponde del fiume in Palestina, Siria, Libano e Giordania dall’altra. La quantità giornaliera di acqua pro capite nella regione del bacino del fiume Giordano è la più bassa nel mondo e la maggiorparte delle nazioni che condividono le acque del bacino sono tra le più povere della regione. A metà del ventesimo secolo furono progettati svariati piani per la redistribuzione dell’acqua tra le nazioni sulle sponde e per definire un accordo. Ma quando nel 1953 Israele cominciò la costruzione del canale National Water Carrier (NWC) per convogliare acqua dalla valle del fiume Giordano verso Israele, la situazione si fece esplosiva.1 Con l’apertura del NWC nel 1964 «Israele ha rubato il Giordano», come disse Fred Pearce2. La deviazione del corso del fiume approdò all’Arab Sumit del 1964, dove fu ideato un piano per deviare le sorgenti del fiume Giordano verso la Siria e la Giordania. Dal 1965 al 1967 Israele si oppose a questi progetti di costruzione in Siria e, insieme ad altri fattori, questo scontro si trasformò poi nella Guerra di Sei Giorni del 1967. Quindi Israele distrusse completamente il progetto siriano di deviazione e prese il controllo delle alture del Golan, della Cisgiordania (West Bank) e della Striscia di Gaza. Questo dava a Israele il controllo delle sorgenti del Giordano e notevoli riserve di falde acquifere nel sottosuolo della Cisgiordania; questione che ancora oggi è al centro di un contenzioso tra Israele e i palestinesi. Seguendo Fred Pearce, questa potrebbe essere detta la prima guerra moderna 1Il National Water Carrier è la principale opera di ingegneria idraulica in Israele. Il suo scopo è trasferire acqua dal lago di Galilea e trasportarla da nord verso i centri più popolati e le aride regioni a sud. Il canale misura 130 km e funziona grazie a un sistema di condotte, canali a cielo aperto, tunnel, bacini idrici ed enormi stazioni di pompaggio. La portata è di 72mila metri cubi per ora, per un totale di 1.700mila metri cubi al giorno. [N.d.R.] 2 Fred Pearce è un autore inglese che si occupa da oltre vent’anni di ambiente e sviluppo. Giornalista di Londra ha seguito per i media questioni internazionali da oltre 64 paesi. Specializzato in questioni di sviluppo globale, risorse idriche e cambiamenti climatici è tradotto in Italia con vari titoli. [N.d.R.]
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CARLA, ANNI 34
Il destino è la strada su cui ogni giorno disegniamo le nostre impronte. Esse diventano la storia e l’immagine della nostra vita. Le impronte parlano di noi.
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combattuta per l’acqua. Ma benché Ariel Sharon, poi capo delle forze armate, avesse decretato che la ragione della guerra per Israele era l’acqua, il ruolo dell’acqua all’interno di questo conflitto è stato molto poco discusso. La guerra per l’acqua è un capitolo che continua a dominare nelle relazioni tra Israele e i suoi vicini. I modelli d’uso dell’acqua, casi di eccessivo consumo e questioni politico-territoriali hanno creato uno squilibrio nella distribuzione. Ci sono di fatto due distinti problemi nel bacino del Giordano che si influenzano l’un l’altro. Il primo è la Crisi dell’Acqua – poca acqua deve supplire a molta domanda; il secondo è l’attuale Guerra dell’Acqua – le tensioni politiche hanno causato la crisi d’acqua nel bacino che si è diffusa tra la popolazione delle sponde che hanno profonde e antiche rivalità. After oil comes water? Negli ultimi anni gli scritti che presentano scenari di guerra legati all’acqua come un futuro pericolo hanno suscitato un’attenzione sempre maggiore. La crescente percezione dell’importanza dell’ambiente nel nostro sistema politico-economico ha spinto molte persone a discutere del peso dei fattori ambientali nei conflitti armati. Alcuni giornalisti, così come alcuni leader politici, hanno raccolto l’argomento, tracciando drammatici scenari di una violenta escalation nei conflitti tra stati per il controllo delle risorse idriche. Anwar Sadat già Presidente egiziano disse nel 1979: «L’unico motivo che potrebbe riportare l’Egitto alla guerra è l’acqua». Nel 1991 Boutros Boutros-Ghali, poi Segretario Generale delle Nazioni Unite, suggerì che le future guerre in Medio Oriente sarebbero potute essere combattute attorno all’acqua, non per il petrolio; una simile dichiarazione fu ripetuta da Kofi Annan dieci anni dopo. Paragonare acqua e petrolio come cause di un conflitto deriva come ovvio dal ruolo essenziale che giocano queste due risorse per la sopravvivenza della società moderna. Ma ci sono alcuni aspetti dell’acqua che fanno cadere questa comparazione. L’acqua è altamente vulnerabile al contatto con l’attività umana e facilmente attaccabile dall’inquinamento. L’uso di risorse idriche non dipende solo dalla quantità ma anche dalla qualità. La conservazione delle acque sotterranee e di superficie è senza dubbio l’obietttivo principale delle popolazioni che condividono le comuni risorse d’acqua ed è chiaro che questa questione può difficilmente essere risolta con l’intervento armato. Necessita, invece, della consapevolezza dell’importanza della cooperazione e del condividere responsabilità e benefici. Dato che i corsi d’acqua spesso scorrono attraverso numerosi paesi, necessitano di una gestione collaborativa per essere sfruttati in modo efficace. L’acqua è certamente una risorsa transnazionale. Come visto sopra, può diventare motivo di tensioni politiche tra nazioni se gli stati non riescono a formare istituti e accordi per un uso equo delle comuni risorse idriche o se questi istituti non riescono a evolvere a fronte dei veloci cambiamenti. Le risorse idriche sono condannate a sottostare a fattori come il cambiamento climatico o alla diretta influenza dell’uomo, ma affinché siano di benefico a tutto il territorio le nazioni devono sempre tornare sul terreno della cooperazione. 101
Al contrario del petrolio, non c’è un mercato globale per l’acqua, né c’è un prezzo globale che possa legittimare la cattura delle risorse d’acqua per l’esportazione. Essa è scarsa in alcune regioni e onnipresente in altre. Non è trasportabile ed è richiesta in gran parte per uso industriale e agricolo. Considerando questi fattori, il motivo di intraprendere una costosissima guerra internazionale sull’accesso all’acqua sembra molto discutibile. Scarcity, between violence and cooperation Il grande interesse intorno al concetto di “guerra dell’acqua” è alimentato dal sempre più diffuso approccio malthusiano, dal nome di Thomas Malthus, un pastore anglicano ed economista del XVIII secolo. Dai suoi studi sulla crescita della popolazione e sulla povertà in Inghilterra nei primi anni dell’industrializzazione Malthus teorizzò che la crescita della popolazione e la contrazione delle risorse comportavano periodiche carestie e che l’effetto naturale della crescente carenza sarebbe stato il conflitto e l’aumento della violenza intorno alla distribuzione di queste scarse risorse. Questa visione ha acquistato importanza tra i consiglieri politici anche in altri campi, come la discussione sugli effetti del cambiamento climatico o la definizione di environmental refugee. Altri studiosi in tempi più recenti hanno concluso che non c’è un collegamento diretto tra la carestia e la violenza e che sono poche le evidenze che i conflitti possano essere combattuti per l’acqua. Secondo il Prof Aaron Wolf ci sono innumerevoli esempi di conflitti interni sulle risorse idriche ma c’è solamente una guerra internazionale registrata nell’intera storia dell’umanità che è stata combattuta per l’acqua e questa guerra avvenne 4500 anni fa tra le città stato di Lagash e Umma nel bacino del fiume Tigri. L’acqua ha sempre portato un alto potenziale di conflitto e continuerà ad essere così. Scontri attorno alla gestione delle risorse idriche esistono da quando gli uomini iniziarono ad usare l’acqua per l’irrigazione che significa dagli albori della civilizzazione umana. Non c’è dubbio che la questione dell’acqua possa portare tensione tra stati fino al pericolo del conflitto armato, soprattutto nelle regioni aride dove gran parte della popolazione dipende dalla coltivazione irrigata. È ovvio che in queste regioni l’accesso alle risorse idriche non è solo una materia di sopravvivenza economica, ma letteralmente una questione di vita o di morte. Una delle regioni note per i problemi legati all’acqua è il Medio Oriente che assieme al Nord Africa compone all’incirca il 10% delle terre emerse e circa il 5% della popolazione mondiale. Allo stesso tempo questo territorio contiene solo l’1% delle risorse di acqua dolce del pianeta. La maggiorparte dei paesi in queste regione dipende da un singolo corso d’acqua o su limitate risorse di falde acquifere. Tutti i bacini idrografici dell’arido Medio Oriente forniscono occasione per documentare tensioni e infatti, la scarsità della risorsa in ciascuna delle tre maggiori vie di approvigionamento – il Nilo, il Giordano e il Tigri Eufrate – è già stata al centro di molti scontri sanguinosi. Nel 1979 Siria e Iraq schierarono truppe lungo i loro confini. Gravi tensioni tra Etio102
pia ed Egitto a riguardo delle acque del Nilo hanno portato attenzione sul tema. Spostandoci nell’Estremo Oriente troviamo altri conflitti sulla distribuzione delle risorse idriche. Nel 1950 India e Pakistan mobilitarono le loro forze armate sulla questione. Ma invece che portare alla guerra, queste tensioni hanno per lo più spinto le parti rivali a cercare un accordo, per firmare trattati e creare strutture per governare la comune risorsa idrica. L’esperienza ha provato che l’acqua può essere una sorgente per stimolare la cooperazione nei territori e che spesso gli stati continuano a collaborare sulla gestione dell’acqua anche in caso di insorgenza di tensioni. I casi in cui l’acqua ha portato alla collaborazione oltrepassano per numero di gran lunga i casi in cui sono cresciute controversie. Nel caso India-Pakistan, l’accordo sulla condivisione delle risorse idriche del fiume Indo ha retto a due feroci guerre, e anche al culmine delle ostilità l’India non ha mai interrotto i pagamenti al Pakistan, assicurati dal trattato tra le due nazioni. Anche nel Vicino Oriente l’acqua non è stata solo motivo di conflitto. Dei cinque incontri di pace tra israeliani e arabi, che cominciarono nel 1992, l’unico che è sopravvissuto alle continue violenze fu quello che riguardava l’acqua. E anche durante la Seconda Intifada, le autorità israeliane e palestinesi non cessarono la loro collaborazione. Per tutta la regione ma specialmente in Cisgiordania, l’aumento della popolazione (sia attraverso la crescita naturale, sia per gli insediamenti israeliani) ha portato ad aspre contese nella gestione delle limitate risorse idriche. Quando parliamo di scarsità d’acqua dobbiamo distinguere due differenti tipi di scarsità. Physical water scarcity descrive la reale mancanza d’acqua mentre economic water scarcity significa che l’acqua è disponibile ma non accessibile per parte della popolazione. L’acqua potabile è costosa, specialmente nelle regioni aride che sono spesso schiacciate da povertà e problemi economici. Nel bacino del Giordano l’uso d’acqua pro capite varia fortemente attraverso le regioni. E mentre gli stati della regione hanno deciso di elaborare un accordo condiviso sull’uso delle scarse risorse idriche, sono ancora aperte le questioni sul controllo sulle falde acquifere in Cisgiordania da parte di Israele e dei colonizzatori, e l’esclusione dell’accesso dei palestinesi ai rifornimenti d’acqua. Water as an instrument of sociopolitical domination Come disse Ignacio Saiz del Center For Economic and Social Rights3: «Troppo spesso l’acqua è trattata come una merce, come uno strumento attraverso il quale una parte della popolazione può controllare un’altra». Paragonati ai coloni israeliani i palestinesi hanno sul prezzo dell’acqua che sgorga dal sottosuolo della Cisgiordania un costo caricato di tre volte. Non si tratta solo di una questione di mancanza di risorse idriche ma anche di un sottile meccanismo di repressione e controllo, da cui deriva la mancanza di prospettive per lo sviluppo dell’area e il fermento delle tensioni. Di nuovo, citando Saiz: «Relazioni di potere impari tra stati e conflitti tra gruppi et3 http://www.cesr.org/ [N.d.R.]
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nici e classi sociali saranno la più importante sorgente di tensione sociale dovuta alla miseria». I conflitti sull’acqua si scatenano generalmente contro chi ha il potere di controllo sulla risorsa, da cui deriva il controllo sull’economia e quindi sulla popolazione. E la gestione delle risorse idriche rappresenta ancora un forte strumento politico, che può essere usato per esercitare il potere in una regione e mettere pressione politica sopra quei vicini ma anche sulle popolazioni senza una nazione. Il bacino del Tarim nell’ovest della Cina può essere preso ad esempio. La Repubblica Popolare Cinese sta affrontando grandi sfide nel settore idrico. Il Paese deve nutrire il 22% della popolazione mondiale su un’area pari al 6,4% del globo terrestre, possedendo il 7,2% delle fattorie e il 5,8% delle risorse annuali mondiali d’acqua. La quota media di consumo d’acqua pro capite è un quarto di quella che è considerata il minimo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una delle regioni più aride della Cina è la provincia dello Xinjiang, la porta della Cina all’Asia Centrale. Qui per secoli le numerose oasi a nord e sud del deserto di Taklamakan, uno dei più grandi deserti del mondo, sono state ad appannaggio principalmente delle comunità Uiguri. Favoriti dai ruscelli che corrono giù dalle montagne circostanti, essi hanno nei secoli dato vita a una tappa centrale sull’antica Via della Seta. Con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, il governo cominciò a insediare milioni di coloni Han, cosa che è stata letta da molti come un vero e proprio atto di colonizzazione. Nel suo sforzo di “aprire all’ovest”, la Cina ha convertito milioni di ettari in fattorie facendo diventare quella provincia la più importante zona di coltivazione del cotone della regione. L’acqua fu distribuita in larga scala per sostentare le fattorie cinesi stanziate nella parte superiore del corso del fiume. Nel 1972, con la costruzione della bacino di Daxihaizi, rimasero a secco 300 km di sponde nelle regioni più in basso, causando un disastro ambientale e la perdita delle lavorazioni tradizionali di farming per tutto il corso del fiume. Queste politiche hanno causato un forte squilibrio nella popolazione con il numero dei cinesi Han presenti nella regione salito da 200mila nel 1949 a 9 milioni ad oggi. Se il numero di cinesi Han è pari a quello della popolazione Uiguri, che nel 1949 costituivano il 90% della popolazione,è lecito domandarsi se le politiche sull’acqua abbiano giocato un ruolo importante nella marginalizzazione delle comunità locali e nell’assimilazione della regione al cuore della Cina. Water conflict, glocal conflicts È chiaro che i conflitti sull’acqua saranno sempre più frequenti a livello locale piuttosto che fra stati e parlare di “guerra aperta” sull’acqua è come dire guerra tra consumatori perché i conflitti sulle risorse idriche sono indissolubilmente connessi con il consumo di ogni giorno. In relazione agli usi industriali e agricoli, i conflitti possono anche sorgere dall’abuso e la degradazione delle risorse idriche e nel caso in cui il quantitativo che viene lasciato per le comunità sia insufficiente. 104
Investitori internazionali hanno un crescente impegno nel settori relativi all’acqua, dove le antiche comunità locali hanno da sempre sviluppato forme sostenibili di sfruttamento. In Africa, Asia, e Sud America, l’agribusiness di larga scala, il settore minerario e quello dell’energia hanno preso il controllo di risorse a spese di altri consumatori. Queste contese non porteranno a forme di violenza nella maggior parte dei casi, ma se le autorità dell’acqua non si spenderano per assicurare una distribuzione equa, si trasformeranno in una crescente disparità sociale ed economica. I conflitti sull’acqua si trasformeranno in conflitti sociali, diffusi ovunque e coinvolgeranno in modo trasversale le antiche gerarchie e discriminazioni disegnando una geografia globale di scontri quotidiani. Dall’Asia al Medio Oriente, dal Sud America alla Sicilia, dove l’acqua potabile sembra essere invischiata nelle spire della corruzione e le famiglie si arrangiano per difendersi dall’eventualità di aprire i propri rubinetti e non avere acqua potabile corrente. «L’acqua c’è», mi ha detto ieri una donna di Trapani, «ma da noi non arriva. E poi il Comune fa circolare un’autotanica e ci dà l’acqua solo se paghiamo al litro». A causa del rischio scarsità, il tema dell’acqua nel mondo sta diventando più grave di una semplice questione. È molto in voga pensare e considerare questi conflitti come conflitti di politica internazionale. Ma mentre le nazioni saranno sempre spinte a cooperare sullo sfruttamento delle risorse idriche condivise, la linea del conflitto sull’acqua continuerà lungo le frontiere sociali piuttosto che sui confini nazionali. La mancanza di acqua potabile uccide ancora più persone di malaria, terremoti o tsunami. Invece di concentrarsi su scenari di guerra altamente speculativi, questi dati devono darci sufficienti ragioni per ripensare il futuro delle risorse idriche.
I capelli no, non voglio lavarli. Fuori dalla vasca, in piedi, nell’accappatoio, mi versi acqua sulla schiena. Inarcata sulle ginocchia piegate, le braccia tese, dondolando appena, in un precario equilibrio. Una tua mano ha il sapone che cancella gli odori e le tracce. L’altra regge l’acqua che torna a riavvolgermi. Tiepida, dentro le fasce che stringevano le madri. Trattenendo il tremore dei gesti, liberando soltanto i movimenti del collo. La testa che può voltarsi da un lato e dall’altro. Gli occhi che si possono aprire e richiudere. La bocca che ti può chiamare, che può gridare, piangere, e tornare a dormire. # 105
le Premières Nations e lo sviluppo idroelettrico in Québec Le Premières Nations sono l’insieme delle popolazioni indigene del Canada che non sono né Inuit né Metis “meticci” e che insieme a questi gruppi costituiscono le popolazioni autoctone del Paese (art. 35 della Legge Costituzionale del 1982). Il termine fu coniato per sostituire l’appellativo dispregiativo “bande indiane” e indica le popolazioni soggette all’Indian Act, promulgato nel 1867 e modificato in diverse occasioni fino alla versione attualmente in vigore dal 1951. Nelle righe seguenti cercheremo di mettere in luce la relazione tra i governi del Canada e del Québec da una parte, e le Premières Nations dall’altra, focalizzando l’attenzione sullo sfruttamento energetico messo in atto dalla società idroelettrica statale HydroQuébec. Sottolineiamo l’importanza di discutere i rapporti storici tra i governi in questione e le popolazioni autoctone, dal momento che la storia stessa della Costituzione dello Stato canadese è una storia contemporaneamente di repressione e di protezione, in relazione al contesto e alle necessità, ma anche in funzione degli interessi delle imprese che ambiscono a sfruttare le risorse naturali dei territori. Se oggi i popoli autoctoni del Canada beneficiano di un’autonomia relativa rispetto ai loro diritti e all’occupazione dei territori, è perché hanno vissuto un lungo periodo di lotte e di rivendicazioni, grazie alle quali sono passati da una posizione di vittime e di figli di fronte allo Stato a quella di cittadini e membri delle due società. Di conseguenza, analizzeremo i progetti di sviluppo legati allo sfruttamento delle risorse naturali, in particolare dell’acqua, ai fini della produzione energetica da parte della società statale Hydro-Québec, affrontando il problema delle relazioni tra i governi del Québec e del Canada, da una parte, e delle Premières Nations, dall’altra, dal punto di vista legale e diplomatico. In generale, gli sfruttamenti delle risorse naturali hanno un impatto significativo sulle popolazioni locali e sull’ambiente immediato – in particolare sulle popolazioni autoctone. Per questa ragione, l’obbligo e la necessità della partecipazione pubblica ai processi decisionali suscettibili di riguardarle presentano un interesse particolare nel dibattito in questione. Il Québec fa parte di un sistema governativo regolatore, di valutazione e di autorizzazione dei progetti di sviluppo: questo sistema è organizzato secondo una serie di decreti, leggi e di dispositivi costituzionali, concepiti per garantire che le «scelte per il progresso» siano benefiche, cioè che i fondi pubblici non vengano sprecati in progetti economici poco interessanti e che i limiti sugli impatti ambientali e sociali siano rispettati, includendo i popoli autoctoni. Tuttavia, le contraddizioni tra teoria e pratica, per quanto riguarda le decisioni sull’implemento dei progetti di sviluppo indica, in generale, che gli interessi dei popoli autoctoni sono ignorati. Per noi, è particolarmente importante che si discutano queste disparità per quanto riguarda la costruzione delle dighe da parte di Hydro-Québec, perché esse appaiono come una sfida per le tutele che i governi di Canada e Québec dovrebbero garantire ai popoli autoctoni 106
e ai loro territori. Nel 1944, il governo liberale di Adélard Godbout statalizza la Montreal Light, Heat and Power e crea la Commissione idroelettrica del Québec (Hydro-Québc). In questo modo, il 14 aprile 1944 Hydro-Québec diventa l’unica responsabile della produzione, del trasporto e della distribuzione dell’elettricità in Québec.1 Questa nuova società statale vede allargarsi il suo mandato nel 1962-’63, in seguito all’acquisizione delle compagnie private d’elettricità. Così Hydro-Québec arriva a detenere il quasimonopolio di tutta la filiera dell’energia elettrica del Québec. Savard aggiunge tuttavia che bisogna leggere la storia di Hydro-Québec come un elemento importante dello sviluppo di una società québécoise separata dal contesto nordamericano: «Nel contesto della Rivoluzione Tranquilla, soprattutto con la volontà apertamente espressa dell’emancipazione socioeconomica del popolo canadese francese, la nazionalizzazione del 1962 permette a Hydro-Québec di intervenire sull’insieme del territorio provinciale. La nuova azienda diventa il simbolo di una società francofona “padrona in casa propria” che sviluppa un’esperienza particolare nella costruzione dei complessi idroelettrici e nel trasporto dell’energia, come testimoniano le numerose imprese che ottengono un relativo consenso tra i cittadiniclienti».2 Tuttavia, questa immagine positiva di Hydro-Québec comincia ad essere ridimensionata negli anni Settanta, quando l’azienda inizia ad essere messa in discussione rispetto alle sue azioni sul piano della gestione, della protezione dell’ambiente e delle relazioni con le popolazioni autoctone. Per quanto riguarda queste ultime, se la creazione delle riserve segna l’inizio della tutela delle comunità autoctone da parte dello stato canadese, la Convenzione della Baia James (1975) rappresenta, l’inizio del controllo da parte di Hydro-Québec dei territori comuni, dei luoghi di produzione e di riproduzione sociale per gli autoctoni. Di fatto, la Convenzione della Baia James fa di Hydro-Québec il principale gestore di buona parte dei territori in cui sono stanziate numerose comunità autoctone. Sono trascorsi più di trent’anni dalla firma della Convenzione e da allora Hydro-Québec rimane uno dei principali responsabili per quanto riguarda l’espropriazione delle terre degli autoctoni. Riprendiamo la nozione di tutela, per cercare di comprendere la logica sottostante al sistema “tutelare” canadese: il potere “tutelare” è una forma di potere creata ed esercitata a partire dalla promulgazione dell’Indian Act del 1867. Si tratta di un potere statale, esercitato sulle popolazioni e i territori, che tende ad assicurare il monopolio delle procedure di definizione e di controllo. In questo modo, la formulazione di un codice giuridico per le popolazioni autoctone del Canada e lo sviluppo di un sistema amministrativo che costituisce una forma di governo degli autoctoni sono dei prodotti di questo potere tutelare. L’esercizio di un tale potere possiede delle caratteristiche specifiche che non devono essere confuse con altre forme di potere applicate a simili società. La Legge Costituzionale del 1982 (in particolare art. 35), riconosce e conferma i «diritti esistenti – ancestrali o sanciti da trattati – dei popoli autoctoni del Canada». Il 1 http://www.hydroquebec.com/comprendre/histoire/periode-1930-1944.html. Consultato il 4 Giugno 2012. 2 Stéphane Savard, Quand l’histoire donne sens aux représentations symboliques: l’Hydro-Québec, Manic-5 et la société québécoise, 2009.
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termine “esistenti” ha obbligato la Corte Suprema a definire quali sono questi diritti autoctoni: essa ha stabilito che prima del 1982 tali diritti esistevano in virtù del diritto consuetudinario, che poteva essere modificato attraverso una semplice legge; di fatto prima del 1982 il Parlamento federale avrebbe potuto eliminare dei diritti autoctoni, mentre i diritti esistenti nel 1982 dovevano essere mantenuti. Dunque la Costituzione del 1982 rompe la tradizione assimilazionista riconoscendo per la prima volta dei diritti agli autoctoni: questa Costituzione apre la possibilità della revisione dei sistemi politico e giuridico che si rapportano ai popoli autoctoni e propone la costruzione di un nuovo paradigma nella relazione tra lo Stato-Nazione canadese e queste società. Le modifiche del 1985 lasciano alle “bande” una maggiore libertà di autoregolazione per quanto riguarda l’alcool e i diritti di residenza nella riserva, molto lontana tuttavia dalle forme di autonomia reclamate dagli indiani. Altre modifiche alla legge (1988) lasciano maggiori poteri relativamente alla riscossione delle tasse fondiarie nelle loro riserve e permettono agli affittuari d’ipotecare le loro proprietà affittate.3 Malgrado i cambiamenti, dobbiamo constatare che i veri padroni del territorio del Québec non sono gli autoctoni bensì le società minerarie, forestali e Hydro-Québec, che controllano ogni giorno di più le ricchezze di questi territori. Tuttavia, questa dominazione non rimane inavvertita dai popoli autoctoni: al contrario, vediamo intensificarsi rivendicazioni in nome della sovranità e dell’autonomia sui loro territori. Secondo Savard in effetti, sia negli anni Settanta con il progetto della Baia di James, negli anni Ottanta e Novanta con il progetto Grande Balena, nel 1998 con la crisi del verglas (gelicidio) o ancora nel 2003-2004 con il progetto Suroît, Hydro-Québec si trasforma nel catalizzatore delle richieste e delle attitudini della società del Québec, rispetto agli autoctoni, all’ambiente e all’economia».4 Da qualche decennio si sta affermando un movimento delle organizzazioni autoctone che vogliono essere interpellate nelle decisioni di valorizzazione dei loro territori d’origine e vogliono veder rispettati i loro diritti specifici. I territori autoctoni rappresentano una sorta di ultima frontiera per lo sfruttamento delle risorse forestali, minerarie e idriche. I segmenti della società canadese e del Québec, come Hydro-Québec, che sono nelle condizioni di sfruttare queste ricchezze, vedono spesso i popoli autoctoni come semplici ostacoli da superare; per gli autoctoni, le rivendicazioni e la protezione dei loro territori significa garantirne l’esistenza. I progetti di Hydro-Québec possono essere intesi come strumenti della penetrazione forzata nei territori autoctoni, che cerca di superare le protezioni legali. L’impatto sui popoli autoctoni è uno degli aspetti più polemici nella costruzione delle dighe di Hydro-Québec: essi si trovano implicati in relazioni sociali sproporzionate con settori della società del Québec, canadese e globale. Di conseguenza diventa necessario dare voce agli autoctoni e denunciare gli abusi che in generale derivano da pressioni economiche e politiche di multinazionali che hanno il potere di influenzare le decisioni dei governi nazionali, in situazioni di contatto interetnico estremamente politicizzato. 3 Livia Vitenti,Couper le fil de la vie: suicide et rituel de mort chez les Atikamekw de Manawan, 2012, pp 153-154. 4 Stéphane Savard, Op. cit. p. 69.
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GIOVANNA KAREN, ANNI 34
Dice que sì, que no, que no, que no, que no. Dice que sì, en azul, en espuma, en galope. Dice que no, que no. No puede estarse quieto, me llamo mar, repite pegando en una piedra sin lograr convencerla... PABLO NERUDA, Oda al Mar 109
la guerra del agua di Cochabamba Bolivia, una nazione caratterizzata da una forte tradizione di mobilitazioni. Lungo la storia della Bolivia, dall’indipendenza fino agli inizi del XIX secolo, appare chiaramente l’immagine di uno Stato relativamente debole in comparazione a una società civile forte che resiste all’invasione dei valori “occidentali” quali la proprietà privata, l’individualismo e il lucro. Dalla Rivoluzione boliviana del 1952, lo spirito di mobilitazione, oppostosi a numerosi governi durante diversi anni, si mantenne vivo principalmente grazie all’esistenza di organizzazioni sociali create dagli stessi operai, per lo più minatori, dato che l’attività economica più importante era proprio l’estrazione dei minerali. Questi sindacati furono la principale fonte di opposizione organizzata contro il regime militare per la durata di circa vent’anni dopo il colpo di stato del 1964. Nel 1985 una profonda crisi economica colpì la Bolivia portando alla chiusura della maggior parte delle imprese minerarie nazionalizzate. Come conseguenza i movimenti sociali si frammentarono e il loro potere si debilitò, mentre per la politica elettorale si aprirono le porte. Tutto ciò lasciò il passo a un inusuale periodo di stabilità. Qui si instaurarono nuove dinamiche politiche generate dal modello neoliberale e si attuò una riorganizzazione generale tra società civile e Stato, in particolare delle relazioni lavorative. Tutti questi cambiamenti, insieme alla costante crescita dell’urbe e a un’educazione più diffusa, ebbero l’effetto di modificare le tradizioni di mobilitazione e di lotta, ma non quello di attenuarle. La chiusura delle miniere ebbe inoltre un altro effetto considerevole: provocò la dispersione dei lavoratori in tutto il Paese e quindi si diffusero anche le loro esperienze organizzative e le tradizioni di lotta. Parallelamente, cominciarono a nascere nuovi settori sociali che occuparono il posto lasciato dai sindacati dei minatori. La carenza di acqua in Cochabamba Il problema dell’acqua a Cochabamba esisteva già molto tempo prima che si parlasse di una privatizzazione del servizio. Cochabamba è una valle che si espande ai piedi delle Ande con piú di un milione di abitanti a 2600 metri di altezza sopra il livello del mare. Alle origini, che risalgono alla metà del secolo XVI, Cochabamba era circondata da numerosi piccoli laghi, situazione che rese il territorio una fonte inesauribile di frutta e di altri prodotti agricoli. A metà Novecento, la sua ricchezza liquida iniziò a diminuire a dismisura come conseguenza del continuo ed eccessivo aumento della popolazione. Diverse famiglie provenienti dalle altre zone della Bolivia, e tra queste anche quelle dei minatori dopo la chiusura delle miniere, migrarono verso il clima temperato e accogliente della valle. Il risultato nel tempo fu una grave carenza di acqua, peggiorata da reti di distribuzione insufficienti e precarie. Per procurarsi questa risorsa vitale, le persone cominciarono a scavare pozzi profondi. Quelli che non potevano avvalersi della disponibilità di pozzi, dovettero comprare a prezzi altissimi l’acqua somministrata da camion-cisterna che percorrevano i 110
nuovi quartieri marginali, mentre quelli che non potevano permettersi la spesa dell’acqua fornita dai camion, si ritrovarono a percorrere lunghi tragitti carichi di secchi per sopperire alle loro necessità. Per far arrivare l’acqua della quale Cochabamba aveva bisogno, si necessitavano e si necessitano tutt’ora enormi investimenti in infrastrutture di cui né i residenti, né il governo della città e nemmeno il governo centrale disponevano. Così le autorità iniziarono a cercare aiuti dall’estero. Nel 1967, il Municipio ottenne un prestito dalla Banca di sviluppo interamericano (Bid) di poco più di una decina di milioni di dollari per migliorare la fornitura della risorsa idrica, con la condizione che si creasse un’impresa pubblica di acqua. Nacque così il Servicio Municipal de Agua Potable y Alcantarillado (SEMAPA), rivolto al miglioramento del servizio di fornitura di acqua. Negli anni ’70-’90 la nuova impresa portò avanti l’opera di espansione dei servizi di fornitura idrica nella città, tuttavia non riuscì mai a mantenersi alla pari con l’inesorabile aumento della necessità d’acqua. L’espansione dei servizi idrici si concentrò principalmente nei quartieri più ricchi, mentre quelli più poveri, furono esclusi quasi completamente. Alla fine del secolo scorso, Cochabamba non solo si vedeva impossibilitata a risolvere la crisi di erogazione di acqua, bensì stava generando una certa discriminazione tra chi usufruiva o meno del servizio idrico. Di fronte all’insuccesso dell’impresa pubblica, i quartieri poveri si organizzarono di nuovo per risolvere essi stessi il problema dell’acqua. Dal 1990 in poi, si crearono più di un centinaio di comitati, attraverso i quali i cittadini si unirono per ottenere l’acqua e amministrarla collettivamente. Come successe per SEMAPA, i suddetti comitati non furono però in grado di fornire alla gente una soluzione di lungo periodo per questo gravoso problema. Le autorità cittadine decisero allora di realizzare grandi progetti con l’appoggio finanziario dei prestiti stranieri, tra cui quello del Bid appunto, che includevano gli scavi di pozzi di grandi profondità nelle zone rurali nei dintorni della periferia. Questo permise di provvedere per il rifornimento di circa la metà degli utenti di Cochabamba, tuttavia i contadini della zona videro il prelievo d’acqua dal sottosuolo delle loro terre come una minaccia per le loro attività di sussistenza e così optarono per la resistenza, scatenando una serie di scontri, spesso violenti. A sostegno di queste mobilitazioni contadine fu organizzata la Federaciòn Departamental de Chochabamba de Organizaciones de Regantes (FEDECOR), istituzione destinata a sostenere le proposte relative alla difesa e al rispetto delle fonti d’acqua superficiali e sotterranee delle aree rurali. Alla fine, la “guerra dei pozzi” si risolse mediante un compromesso che prevedeva degli indennizzi ai contadini e un accordo che permetteva di condividere l’acqua prelevata con la città di Cochabamba. Un’altra, tra le diverse alternative considerate per risolvere il problema della scarsità d’acqua potabile, era il progetto Misicuni. Questo progetto prevedeva lo scavo di un tunnel di quasi 20 Km per trasportare acqua della Cordigliera andina alla valle cochabambina, in aggiunta alla costruzione di una chiusa con lo scopo di raccogliere le risorse idriche degli affluenti del bacino e di alcuni fiumi, tra cui il fiume Misicuni. Tale 111
progetto cominciò a essere preso in considerazione negli anni Ottanta, ma purtroppo non ebbe mai successo. Da una parte si aveva bisogno di investimenti troppo onerosi e dall’altra era quasi impossibile conciliare le proposte di soluzione fatte dal governo con le aspettative del popolo cochabambino. Il governo di allora voleva includere il settore privato nell’amministrazione e distribuzione dell’acqua, cosa che scatenò l’opposizione delle istituzioni, le quali sostenevano che il Governo voleva favorire gli interessi dei privati nell’esecuzione di un progetto differente rispetto al Misicuni. Furono organizzati blocchi stradali e numerose manifestazioni di protesta contrarie al nuovo progetto. Il conflitto terminò con un compromesso, per il cui il governo si impegnava a rispettare la volontà della gente e a cercare soluzioni alternative. Sviluppo della Guerra dell’Acqua Durante gli anni ’80 e ’90 la Banca Mondiale, diede importanti fondi ai Paesi più poveri con la finalità di realizzare progetti di miglioramento delle loro infrastrutture. Tuttavia, per usufruire di suddetti prestiti era necessario rispettare alcune condizioni. Una delle zone di intervento della Banca Mondiale fu Cochabamba, al cui Municipio furono versati fondi per l’espansione dei servizi idrici. Tra le condizioni previste dalla Banca Mondiale vi era quella della privatizzazione, ciò implicava la consegna, da parte del Governo boliviano, delle imprese pubbliche di acqua e fognature a corporazioni private mediante contratti di concessione. Nel 1999, il Governo boliviano chiamò tutte le imprese private interessate a gestire il servizio idrico a Cochabamba a partecipare a un appalto pubblico. All’appalto si presentò un’unica impresa, Aguas del Tunari, consorzio composto principalmente dalla Bechtel Enterprices, che ottenne la concessione, anche se, in accordo con la legislazione boliviana, se si fossero presentate meno di tre imprese, l’appalto avrebbe dovuto essere dichiarato deserto. A settembre 1999, il governo boliviano firmò un contratto d’appalto con Aguas del Tunari mediante il quale si concedeva l’amministrazione del servizio per un periodo di quarant’anni, perpetrando così le scelte e i compromessi fatti dal governo precedente. Mentre si firmava il contratto, fuori si sentivano alcuni petardi, primi segni di disapprovazione da parte del popolo. Seguendo il proprio piano rivolto alla privatizzazione, il Governo boliviano approvò una nuova legge, la Ley 2029 che riconosceva legalmente la possibilità di concedere la gestione dei servizi di base ai privati, permetteva inoltre il monopolio nella gestione dell’acqua in una determinata area geografica e poneva detti canali sotto il suo controllo, per poterli poi consegnare alla Bechtel. Contemporaneamente la nuova impresa incrementò notevolmente le tariffe per l’utilizzo del servizio idrico, manovra che colpì maggiormente i settori più poveri. Queste circostanze furono la scintilla che fece in modo che operai, contadini, ambientalisti e altri si unissero, nel novembre del 1999, per affrontare a viso aperto la situazione e così nacque la Coordinadora por la Defensa del Agua y de la Vida che permise una migliore organizzazione e coordinazione tra le varie parti. La Coordinadora costituì la soluzione a una problematica molto più grande di quella della privatizzazione dell’acqua. Era la risposta che fino a quel momento il popolo non aveva 112
trovato nelle istituzioni locali. La Coordinadora formata da sindacati, comunità di contadini e abitanti dei quartieri più poveri della città di Cochabamba, rappresentava la società in una maniera nuova senza precedenti, era la sua voce dinnanzi alle autorità pubbliche. Ci vollero quattro mesi di resistenza e di costanti consulte popolari per decidere come agire. Alla fine del quarto mese, i primi giorni di aprile, dopo diverse richieste del popolo cochabambino di rescindere il contratto e abrogare la legge, il conflitto si intensificò e si estese a livello nazionale con il sostegno del resto del Paese. In cittá tutte le strade erano piene di barricate e le autostrade interdipartimentali bloccate. Da una parte vennero utilizzati proiettili di gomma e gas lacrimogeni dalla polizia e dall’altra, come risposta, pietre e bombe molotov dai manifestanti. La cittá di Cochabamba si era tramutata in un vero e proprio campo di battaglia, furono giornate violente paragonabili soltanto a quelle vissute nel periodo della dittatura. Cochabamba era sconvolta a tal punto, che la polizia disse che non poteva dare piú garanzie e allora i membri esecutivi di Aguas del Tunari dovettero scappare della cittá, perché non erano piú al sicuro. Le mobilitazioni continuarono con un ritmo cosí incessante che si temeva una rivolta nazionale contro il governo. Addirittura la polizia stessa minacciò d’ammutinarsi perché non voleva più lottare contro la propria gente per difendere gli interessi stranieri. Dopo un’intensa settimana, finalmente, il Governo capì che il popolo cochabambino era deciso a mandar via Aguas del Tunari ad ogni costo, se non l’avessero fatto prima loro. Così si arrese e decise di rescindere il contratto e abolire la legge 2029 sull’acqua potabile e sulle reti fognarie che aveva dato il via libera alle privatizzazioni. Al termine degli scontri i feriti risultarono piú di un centinaio, tra manifestanti e poliziotti, e un ragazzo di diciassette anni trovò la morte a causa di un proiettile proveniente dal fucile di un cecchino dell’esercito, che fu sorpreso, dalle telecamere dei giornalisti, mentre sparava sulla folla con l’intento di disperderla. La guerra dell’acqua a Cochabamba lasciò profonde impronte e le sue conseguenze arrivarono al di là delle frontiere boliviane. La protesta contro la privatizzazione suscitò interesse in tutto il pianeta e Cochabamba diventò un esempio che ispirò le successive lotte per la difesa dell’acqua in questo periodo di globalizzazione. Nel novembre del 2002, un anno e mezzo dopo il conflitto, la Bechtel, insieme ai suoi partner, inoltrò una domanda legale contro lo Stato boliviano chiedendo un risarcimento di vari milioni di dollari. La Coordinadora con i suoi alleati internazionali lanciò una campagna di pubblicizzazione della contesa tra Bechtel e il Governo boliviano che fece eco in tutto il mondo. Fu tale l’appoggio che si conseguì e la pressione che si creò che la transnazionale si vide costretta a ritirare la domanda di risarcimento. Fu la prima volta che una delle transnazionali più importanti al mondo si ritirò da una causa internazionale di risarcimento come risultato della pressione pubblica a livello mondiale. Il dopo Vinta la guerra, mentre gli abitanti festeggiavano ancora la vittoria, le persone ini113
ziarono a domandarsi: E adesso? La Coordinadora, i governanti della città e il sindacato dell’azienda erogatrice del servizio idrico si riunirono per mettersi d’accordo sull’amministrazione dell’impresa nuovamente denominata SEMAPA. Nei mesi che seguirono SEMAPA ebbe un rilevante appoggio dal settore pubblico. Furono ridotte le tariffe a livelli anteriori alla gestione della Bechtel e parallelamente gli utenti provvidero al pagamento degli arretrati. Cochabamba ricevette una grande quantità di offerte di assistenza tecnica da parte di vari enti del settore pubblico di altri paesi i cui servizi idrici erano pubblici, dato che si resero conto che l’esito o il fallimento di SEMAPA avrebbe avuto un impatto significativo nel dibattito globale sulla privatizzazione dell’acqua. Con il trascorrere del tempo, la gestione e le prestazioni dell’impresa dell’acqua tornarono le stesse del periodo precedente la privatizzazione; i rappresentanti del sindacato dei lavoratori di SEMAPA sembravano essere più interessati a ingaggiare i propri parenti e amici all’interno del personale dell’azienda, piuttosto che gestire l’impresa in maniera efficiente. Attualmente, trascorsi dodici anni dalla Guerra dell’Acqua, Cochabamba continua ad avere gli stessi problemi di sempre per la questione dell’acqua. La città continua a crescere con grande rapidità e finora non sono stati fatti abbastanza interventi per mettere a disposizione nuove fonti di approvvigionamento della risorsa tali da permettere l’espansione dei servizi. Nonostante tutto l’appogio internazionale ricevuto, l’impresa pubblica non riesce a costruire un piano di gestione economicamente sostenibile. Conclusioni Le mobilitazioni per l’acqua hanno attivato un processo sociale e politico che ha segnato profondamente il cammino degli ultimi dodici anni del Paese. Si può dire che la Guerra del Agua è stata l’inizio della fine del modello neoliberale imposto in Bolivia nel 1985. Dopo quindici anni di politiche neoliberali che lasciarono da parte (dimenticando) l’aspetto sociale, il malessere generale della società si fece sentire e la Guerra del Agua fu la prima espressione rappresentativa della lotta sociale conto il regime stabilito. L’anno 2003 fu quello della Guerra del Gas che si concluse con un cambio anticipato di governo. In questo modo, gli sconvogimenti sociali continuarono fino al 2005 quando si tennero le elezioni presidenziali nelle quali vinse Evo Morales con il 54% dei voti. Questa maggioranza assoluta, all’interno di un sistema elettorale proporzionale, è totalmente indicativa della volontà popolare per il semplice fatto che questo candidato rappresentava un’opzione politica diversa da quelle degli anni di democrazia; il sociocomunitarismo sembrava essere la scappatoia alle politiche liberali dettate dal Congresso di Washington all’inizio degli anni Novanta. Personalmente penso che la privatizzazione in se stessa non sia stato il vero problema. Come abbiamo visto la problematica dell’acqua a Cochabamba esisteva ancora prima dell’arrivo della transnazionale e persiste tutt’ora dopo dodici anni dalla risoluzione del contratto con la suddetta. L’errore più grave è stato trattare a livello politico un tema che era meramente tecnico e finanziario. 114
Dall’altra parte, la Bolivia è un paese con alti livelli di eterogeneità razziale, etnica e socioeconomica, e né i politici boliviani e nemmeno gli investitori stranieri hanno saputo dare il peso giusto a questo fattore fondamentale nella gestione di una situazione così delicata, come lo era la scarsità di acqua a Cochabamba. Le mobilitazioni e proteste del popolo cochabambino nell’aprile del 2000 acquistarono un contenuto che sfida il modello dominante della società e il modo di sviluppo imposto. Ora l’obbiettivo è far coincidere il sogno della Guerra dell’acqua con la realtà di un solido sistema pubblico che fornisca sostegno idrico a tutte le comunità.
piedimonte Nella penombra invernale che l’arredo ligneo antico investiva le pietre del muro il lavabo di pietra, l’acqua a filo, un’onda. Dalla bianca porta col buco del gatto – i frati sub montem Mosè l’avevan chiamato, in grembo a ognuno balzava vicino improvviso e occhi aveva di brace al camino – onde di volti avvicendarsi amici e nuovi, inquieti straniati persi, e nuove; sempre nuove, scambi di voci, di nuove di pace i saluti, quel poco essenziale che salva incontra la luce a filo, fior d’acqua, incontro alla luce, e saluta, un’onda.
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monsone
Le onde portatrici di morte cantano ai bambini cantilene senza senso Rabindranath Tagore
Agosto e il monsone sono agli sgoccioli quando Nuova Delhi ci accoglie sul prato brillante e molle dell’hotel Claridge. Le nuvole sono grasse e basse, piangono da oltre un mese. Gli indiani non si riparano da quella doccia sottile, mite eppur caparbia. Le sorridono, la bevono, l’assorbono. Solo noi sahib ce ne stiamo avvinghiati agli ombrelli per proteggere le uniformi coloniali dal cielo in lacrime. La aaya, la tata del Darjeeling, dice che a Delhi il monsone is good, non fa troppi danni. Ed è vero. Nella capitale la pioggia si limita a bagnare le notti e le prime ore del mattino con regolarità e clemenza e le giornate si affacciano ai balconi vagamente fresche. Le strade, per lo più asfaltate, resistono all’invasione del fango e s’impreziosiscono di specchi fluidi e argentei. Solo una volta uno scroscio improvviso si è portato via i tetti di lamiera e i cavi elettrici sono esplosi in scintille e fuochi d’artificio. Una scena, prima d’allora, vista solo in televisione, quando i telegiornali regionali mostrano il passaggio rabbioso e nefasto del monsone, comunicando un numero imprecisato di annegati, dispersi e sfollati nei villaggi e nelle città del sud del paese. Là il monsone è affare serio. È venerato e temuto come un dio capriccioso che fa, letteralmente, il bello e il cattivo tempo. Irriga o innonda, a suo piacimento. Nelle campagne i raccolti dipendono dalla stagione delle piogge. Nelle metropoli, in estate, lo smog e l’afa si fondono in miscele esplosive e i cittadini rivolgono gli occhi al cielo, avidi di manna che rinfreschi l’atmosfera. Ma ogni anno è una sorpresa, un’incognita. A immagine e somiglianza dell’avvenire, il monsone è imprevedibile, irregolare. C’è da dire che la pioggia torrentizia provoca negli indiani una strana eccitazione, come se lo spirito assopito dalla canicola si risvegliasse e si tingesse di rosa. Quando l’acquazzone esplode improvviso, quel brioso rovescio catartico porta con sé romanticismo, buonumore e liberazione. Regala una gioia effimera. Anche se per gli arabi mawsim era la stagione dei venti proprizi alla navigazione verso l’India, quello delle piogge è il periodo sconsigliato per visitare il subcontinente. Nel microclima dei mesi umidi proliferano insetti portatori delle più svariate malattie infettive. La malaria non è di casa a Delhi, in compenso l’incubo della febbre dengue avvelena il quotidiano. L’acqua in India porta in sé il germe della vita e il morbo della morte. È un problema tanto ecologico quanto economico. L’agricoltura ingorda e l’urbanizzazione cancerosa hanno reso le acque di superficie un ricettacolo di rifiuti domestici e industriali, fertilizzanti e pesticidi. I batteri vi prolificano e l’acqua malata entra subdolamente nelle case. Una minaccia, specie per i bambini. «Sciacquatevi i denti con l’acqua minerale», «Chiudete la bocca sotto la doccia», «Non bevete nella vasca da bagno», «Non versatevi l’acqua dal rubinetto». È questa la consueta litania che le previdenti madri occidentali ripetono ai figli. E il cibo, allora? Nessun alimento fresco entra nel frigo senza aver subito un rigo116
roso trattamento disinfettante, al termine del quale le uova hanno lo stesso sapore del pollo e i manghi quello delle melanzane. Al ristorante poi, anche nei cinque stelle, si evitano frutta e verdure crude così come i cubetti di ghiaccio nelle bevande e si chiede sempre al cameriere di aprire la bottiglia di minerale sotto i nostri occhi. In agguato ci sono tutte le sozzerie trasmesse dall’acqua contaminata: amebiasi, dissenteria, tifo. Nelle campagne le famiglie spesso non hanno accesso diretto a una fonte di acqua potabile e alle donne spetta la corvée di percorrere ogni giorno decine di chilometri con un secchio in testa per procurarsi il necessario per bere, cuocere il cibo e lavarsi. E anche in città l’acqua viene razionata, specie d’estate. Non ce n’è abbastanza e il trasporto costa. Chi se lo può permettere si fa installare sopra il tetto o in terrazza un paio di orribili cisterne di plastica nera dotate di pompa, manuale o automatica, a seconda del reddito familiare. Così l’approvvigionamento giornaliero è assicurato e ogni tanto ci si può concedere il lusso di un bagno anzichè la solita rapida doccia. L’India è la culla del “paradosso idrico”: l’acqua dei suoi sette fiumi sacri è forse quel che di più degradato e insalubre si possa trovare in natura, eppure per gli indù è pura al punto da poter lavare i peccati dell’anima. Il primato spetta al Gange. Gangâ è la dea del fiume sacro, creata dal sudore dei piedi di Vishnu e scesa sulla terra per purificare gli umani dalle loro colpe. Per questo il Gange è il fiume celeste che scorre giù dal paradiso degli dei e sulle sue sponde terrestri si sviluppa il microcosmo dell’universo. Gli indiani lo chiamano Mother Ganga, perché è come una madre amorevole che nutre i popoli con abbondanza di acqua e assicura la fertilità, al pari di una madre prodiga di latte. Il Gange offre la saggezza spirituale e il pellegrino che si bagna nelle sue acque sperimenta l’unione con la verità ultima. La dispersione delle ceneri nel fiume può apportare una vita futura migliore e consentire di raggiungere più velocemente la moksha, ossia la liberazione, l’uscita dal mondo fenomenale. Ho incontrato per la prima volta il Gange nei pressi di Rishikesh, ai piedi dell’Himalaya. L’ennesima città santa, vegetariana e patria dello yoga. Bandisce gli alcolici e accoglie i fricchettoni dello spirito. Il Gange vi scorre rumoroso. Di notte ancora brontola dietro il nostro chalet tra i monti. Nervoso, quasi furioso nelle sue rapide vorticose e spumeggianti. Acqua verde che tira all’azzurro. A tratti trasparente da scorgere il fondo. I locali vi pescano di frodo il mahseer, una specie di grossa carpa rinomata per le sue carni. Ho rivisto il fiume più a valle, là dove raggiunge l’apogeo della santità e dell’inquinamento. A Haridwar, una delle nove città sante dell’induismo, una gigantesca statua di Shiva si erge all’entrata della città, come un totem, un monito al rispetto e alla devozione. Il fiume si è calmato, sembra essersi riappacificato con gli uomini, quasi addomesticato, ingabbiato tra i ghâts di cemento che gli scendono dentro, lacerandogli i fianchi con i loro gradini invadenti. I devoti praticano abluzioni, meditano, accendono fuochi, fanno suonare le campane dei templi, diffondono mantra dagli altoparlanti. Sul fiume navigano minuscoli battelli di foglie di banano riempite di lumi intrisi nell’olio di canfora, petali di rosa e garofani d’India. Lucciole acquatiche che trasportano fino alle orecchie degli dei le preghiere dei fedeli. I sadhu, gli asceti, gli 117
uomini santi offrono benedizioni di ogni sorta, secondo le richieste e in base alle tariffe. Per chi desidera l’amore sono 200 rupie, 400 per la ricchezza e 500 per la salute. Per le tre si ha diritto a uno sconto. Al tramonto assisto alla cerimonia dell’Aarti sul ghât Har-ki-Pauri, non lontano dalla pietra su cui Vishnu lasciò l’impronta di un suo piede. Ci sono migliaia di persone, pellegrini, devoti, curiosi che assistono al rito quotidiano in onore della dea Ganga. Sotto le torce infuocate, la superficie del Gange si tinge di riflessi ramati e brilla di tante iridi gialle trasportate dalla corrente. Poi rotta verso Benares dove il fiume continua la sua corsa verso l’oceano. La sporcizia disseminata ovunque fa parte dell’atmosfera decadente di quella riva sospesa tra nirvana e naraka. In superficie galleggiano detriti e rifiuti di ogni sorta, inorganici ma soprattutto organici e sui bordi giovani donne dai sari sfolgoranti raccolgono ciò che con tutta probabilità diventerà la loro cena. Un incantatore di serpenti, bufali d’acqua e cani malandati ci seguono con la coda dell’occhio mentre contrattiamo la locazione di un’imbarcazione. Scegliamo quella dall’aspetto più solido. Il giovane Caronte ha un sorriso disarmante, così saliamo, pronti ad essere traghettati. Risaliamo il fiume in direzione di Manikarnika, il ghât più sacro dove hanno luogo le cremazioni. Gli scalini che s’immergono nell’acqua sono gremiti di uomini e bestie, pescatori e capre, bambini e vacche. Uomini seminudi s’insaponano e risciacquano, donne vestite lavano i panni. Quasi tutti fanno abluzioni, pregano, meditano. Uno sciame di ragazzini galleggia su copertoni da camion, spruzzando e fendendo l’acqua in schegge. Ben presto le narici sono assalite da un odore insolito, mai sentito prima. Odore dolciastro di combustione. Non si contano le pire umane sulla riva del fiume. La fabbrica della morte non chiude mai i battenti, i falò ardono ventiquattr’ore su ventiquattro. I roghi sono fatti di tronchi, legni più o meno preziosi e costosi, in funzione delle possibilità del defunto. Alcuni indiani risparmiano tutta la loro vita per potersi pagare la cremazione sul Gange. I corpi giacciono sopra i bracieri, avvolti in bianchi sudari che ne lasciano indovinare la sagoma. Quando le carni iniziano a bruciare, il cranio è franto a colpi di martello, per liberare l’anima dalla prigione del corpo. Per corredo funebre solo unguenti e petali di fiori. Le ceneri sono raccolte e disperse tra le onde. È un atto finale, una comunione, una riconciliazione inevitabile, tra la madre e i suoi figli. Mentre la barca avanza, un remo colpisce qualcosa che galleggia; non faccio in tempo a distrarre i bambini con una scusa o a coprire loro gli occhi, che il corpo mummificato e rannicchiato di un uomo ci passa accanto. È il cadavere di un sadhu, dice la nostra guida, un uomo santo. Loro non vengono bruciati ma gettati nel fiume che ne conserverà le spoglie. In India si ha l’impressione che l’acqua rifletta gli splendori e le miserie dell’uomo. La Yamuna, affluente del Gange, dopo aver attraversato Delhi giunge esangue ad Agra per languire ai piedi del Taj Mahal. Il marmo bianco del palazzo dell’amore eterno si specchia nelle sue acque immobili, mortifere più della peste e del colera. La devozione per una donna defunta sopravviverà ai secoli. Il rispetto dell’ambiente è da tempo agonizzante. 118
Ogni anno Mumbai celebra in pompa magna il compleanno di Ganesh, il paffuto dio elefante. I devoti si procurano statue della divinità e dopo averle decorate e venerate negli altari domestici per una decina di giorni, le portano in processione verso le spiagge per immergerle nel mare Arabico. Un tempo queste effigi erano plasmate nell’argilla e così la terra, attraverso l’acqua, se ne ritornava alla terra, rispettando il ciclo di creazione e dissoluzione nella natura. Oggi le statue sono di gesso, meno costoso ma difficilmente biodegradabile, e vengono dipinte con vernici tossiche al mercurio e al cadmio. Il giorno dopo le celebrazioni e le immersioni di massa, sulla riva e sulla superficie del mare si accalcano banchi di pesci morti. Ad Amritsar, nel cuore del Punjab, il Tempio d’Oro, sacro ai Sikh, si erge nel mezzo di un laghetto quadrato, il Bacino del Nettare, dell’Immortalità. Vi si accede attraverso quattro entrate, simbolo dell’apertura a tutti i popoli, a tutte le credenze. Purché il capo sia coperto, i piedi scalzi e lavati e non s’introduca alcol né carne né tabacco. Un luogo paradisiaco le cui acque dorate portano ancora il ricordo del sangue di oltre mille Sikh separatisti, massacrati nel 1984 dai carri armati dell’esercito indiano, per ordine d’Indira Gandhi. Quelle acque dissacrate covarono vendetta e quattro mesi dopo l’eccidio il primo ministro indiano trovava la morte per mano delle sue guardie del corpo, anch’esse sikh. La morale? La vita continua a fluire come un corso d’acqua, come il fa il Gange, succeda quel che succeda. Ancora troppi indiani vivono accecati da antiche tradizioni religiose, ingiuste e antidemocratiche. L’acqua, per portare la vita, non dovrebbe mai stagnare. Allo stesso modo le credenze, per accompagnare l’evoluzione e la crescita dell’uomo, non dovrebbero irrigidirsi in dogmi ancorati al passato, ma scorrere come le acque di un fiume.
il passaggio a Nord Ovest un’autostrada del mare lungo i confini del mondo Il passaggio a Nord Ovest, ancor più del suo corrispettivo di Nord Est, rappresenta una delle questioni chiave del panorama geopolitico internazionale contemporaneo ma non sono in molti ad occuparsene, perché siamo ai confini del mondo. Nel Grande Nord, tra lembi di terra sferzati dal vento e lingue di ghiaccio che pulsano con le stagioni, una sottile linea d’acqua disegna una nuova geografia e una nuova frontiera. Da alcuni anni il progressivo scioglimento delle calotte polari sta liberando due nuove vie di comunicazione1 che insinuandosi tra la distesa di ghiacchio del mare Artico, e il continente americano da una parte (passaggio di NO) e l’Asia dall’altra (passaggio di NE), sono destinate a diventare le rotte privilegiate del commercio 1 La prima apertura completa del passaggio di NO è stata registrata da rilevamenti satellitari nel 2007, la seconda nel 2011.
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marittimo internazionale; se è vero che il 90% delle merci viaggia attualmente via mare (dati IMO2), l’apertura e il consolidamento di queste due rotte rappresentano una svolta in termini di organizzazione e di costi: infatti, se il tragitto marittimo Rotterdam-Tokyo attraverso il canale di Suez è di 21100 km, e di 23300 km attraverso il canale di Panama, esso si riduce a 15900 km attraverso il passaggio di NO, e a 14100 attraverso quello di NE. Buscar el levante por el poniente, e contemporaneamente accorciare la traiettoria avvicinandosi il più possibile al Polo. Lo sfruttamento commerciale di queste nuove rotte, che fino ad alcuni decenni fa rimanevano apannaggio di esploratori e navigatori solitari, desiderosi di cimentarsi con un viaggio estremo ai confini del mondo, implica evidentemente una rivoluzione del traffico marittimo e l’emergenza di questioni economiche, ambientali, politiche finora sconosciute: il transito difficoltoso di enormi cargo attraverso queste regioni incontaminate rappresenta un rischio permanente per un ecosistema estremamente fragile. Le rivendicazioni territoriali, in particolare tra Canada e Stati Uniti per il passaggio a NO3, assumono carattere strategico-militare e sono legate alle condizioni di accesso e di sfruttamento delle ingenti risorse minerarie ed energetiche della regione. Controllare il Passaggio significherà di fatto, nei prossimi decenni, controllare una percentuale considerevole dei traffici marittimi e delle risorse energetiche del pianeta.4 La questione del passaggio a NO, ancora relativamente ignorata dai media e dal grande pubblico, è motivo di tensioni politiche e diplomatiche tra i due paesi, ed è oggetto di programmi e speculazioni di lungo periodo, fondate su previsioni climatologiche e su stime di risorse e di investimenti, da parte di governi e multinazionali. Il governo conservatore canadese guidato da Harper ha stanziato una spesa militare di 490 miliardi di dollari in vent’anni, volta in particolare a rafforzare un sistema difensivo e di sorveglianza dei territori oltre il 60 parallelo «dove saremo chiamati a intervenire più spesso negli anni a venire», come sostiene il brigadiere generale Richard Giguère, comandante del settore del Québec della Forza terrestre. Una progressiva occupazione militare, che procede di pari passo a un’occupazione economica e politica, con l’aumento del numero delle stazioni di trivellazione e dei pozzi di estrazione, la costruzione di insediamenti abitativi che sostituiscono gli accampamenti stagionali, di vie di comunicazione effimere, che scompaiono sotto la coltre di neve invernale, e di qualche pista di atterraggio per aerei ed elicotteri. Un paesaggio che diventa frontiera, e come tale si modifica. Il Grande Nord canadese, che comprende i Territori del Nord Ovest, lo Yukon e il Nunavut, occupa circa il 39% della superficie del Canada, ma è abitato da meno di 100.000 persone, ovvero solo lo 0,3% della popolazione complessiva. Una distesa di foreste e montagne, laghi e ghiacci con una densità umana praticamente irrilevante, dove la presenza delle forze dell’ordine si limitava, fino a qualche anno fa, a qual2 Organizzazione Marittima Internazionale. 3 Un contenzioso è aperto tra i due paesi, che rivendicano condizioni differenti di transito e di usufrutto del Passaggio: il Canada lo rivendica come parte delle sue acque territoriali, e dunque di sua esclusiva competenza mentre gli Stati Uniti, appellandosi alla convenzione Montego Bay (1982) rivendicano il libero accesso ai canali e agli stretti che lambiscono l’isola di Baffin e che costituiscono l’insieme del passaggio di Nord Ovest. 4 http://www.dailymotion.com/video/x1i3qq_usa-canada-passage-nord-ouest_news.
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che ranger, più simile ad un trapper o ad un esploratore solitario, destinato a pattugliare centinaia di chilometri quadrati di natura selvaggia. Una regione immensa, con temperature che in inverno toccano i -50° e che per sei mesi all’anno non superano lo zero, dove vivono, relativamente isolate, piccole comunità indigene; e che fino a pochi anni fa è rimasta “fuori dal mondo”. Fino a quando la scoperta delle ingenti risorse sotterranee e la prospettiva dell’apertura del passaggio a Nord Ovest l’ha trasformata in una delle ultime terre da conquistare. Perché la disputa geopolitica contiene in sé una questione più profonda, legata alla relazione dell’umano al pianeta, e ai suoi limiti: il passaggio a NO, ipotizzato per la prima volta nel 1490 dal navigatore Giovanni Caboto, e percorso nella sua intierezza solo tra il 1903 e il 1906 dall’esploratore norvegese Roald Amundsen5, è stato per secoli, e rimane ancora tutt’ora, una rotta “immaginaria” e insieme una delle ultime frontiere del pianeta, un limite che il pianeta impone al genere umano. Al di là di spartizioni ipotetiche del circolo polare artico – come dell’Antartide – e di qualche spedizione di carattere esplorativo, il mare di ghiaccio artico rimane un orizzonte teoricamente investibile ma concretamente ancora inaccessibile, inabitabile. Ma l’apertura del Passaggio e la necessità collaterale di controllare le terre che lo circondano, trasformano i confini del mondo in un oggetto di desiderio, alimentando l’immaginario del limite. Il passaggio a Nord Ovest diventa un corridoio di frontiera e il mare diventa ancora il confine del mondo, come nelle mappe orbis terrae medievali: l’idea di una Terra piatta, circondata dall’oceano, si rovescia in quella di una Terra sferica, dove il limite dell’umano è delineato da una rete di stretti e di canali che separa la terra dal ghiaccio, che cancella di bianco ogni tentativo di disegnarlo, dunque di abitarlo. Navigare lungo il Passaggio significa scivolare lungo i bordi del mondo inteso come orizzonte umano, che ha trasformato l’acqua – nel suo stato liquido – in vettore di comunicazione e di movimento, ma che rimane estromesso dal mondo dei ghiacci: mondo magico, effimero, indecifrabile, che si può lambire, attraversare, occupare astrattamente come in capsule lunari, ma che rimane estraneo all’umano, abitato da spiriti e creature immaginarie, come la profondità degli oceani e le vette disumane delle montagne sacre6. Il Passaggio come via di comunicazione, quindi, ma anche come linea di disgiunzione tra il mundus antropizzato e un altrove che lo rifiuta o lo inghiotte.
5 Il navigatore norvegese completò il viaggio in tre anni, a bordo di un peschereccio adattato a navigare tra i ghiacci. Tra gli esploratori che cercarono di percorrere il Passaggio, va ricordata la tragica sorte di sir John Franklin e dei 134 membri del suo equipaggio: partita con due navi ben fornite nel 1845, la spedizione rimase incagliata nel ghiacci per due anni, senza riuscire a proseguire né a rientrare. 6 O come il lago subglaciale Vostok, in Antartide, a una profondità di 3768 metri, raggiunto da una sonda russa il 5 febbraio 2012.
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GIANLUCA, ANNI 37
Traci Matlock, Ashley MacLean, 2008
The stars on horizon Five I see them and count They line up like a row of heads And I fall into their depths Of water water everywhere Oh let me fall into you Let me sleep long and quiet God watches all sparrows fall CURRENT 93, The cat is dead www.tracimatlock.com 122
STEFANO, ANNI 47
Mi incammino verso la costa di Fukushima. Voglio vedere il mare che ha devastato la costa, il mare nel quale sono finite le acque scaricate dal reattore impazzito. Sono le prime ore del pomeriggio. Il contrasto tra cielo e mare è forte. La suggestione mi fa pensare a uno strano effetto delle radiazioni.
www.stefanobandini.com 123
lo specchio è sabbia salata L’eau n’oublie pas son chemin
La scomparsa del lago d’Aral è uno dei segni più tangibili della follia umana. Il quarto lago al mondo, grande come Lombardia, Piemonte e Veneto messi insieme, oggi è una pozzanghera salata sperduta nel deserto tra Kazakistan e Uzbekistan. I cambiamenti climatici c’entrano pochissimo. Qui si parla di cotone, dighe, petrolio. L’ingegneria sovietica, in cerca di una steppa da usare come giardino, ha pensato di deviare i due affluenti, Amudarya e Syrdarya, riducendo del 90% il loro apporto al lago. Il resto dell’acqua che fine ha fatto? Usata per allagare milioni di ettari quadrati di deserto e farci crescere il cotone, per rivaleggiare con gli Stati Uniti sulla pelle di quegli zotici. “Spasiba bol’shoy”, avranno pensato gli zotici uzbechi. E si son messi a seminare e raccogliere minacciati dalla frusta. E i paesi attorno: possono forse rimanere senza acqua? Hanno sete anche loro. E dunque così sia: viene deviato il corso del fiume che segnò il confine settentrionale dell’Impero di Alessandro Magno, compaiono 32mila chilometri di canali distribuiti su Tajikistan, Kirghizistan e soprattutto Turkmenistan, dove è stato costruito dal 1954 al 1988 il più grande canale del mondo. Il Karakum, un serpente di cemento lungo come la distanza che separa Palermo da Monaco di Baviera, quasi tutto navigabile. E intanto il Lago d'Aral soffoca, evapora. Dove fino al 1960 si pescavano 60mila tonnellate di pesce ogni anno, oggi non è possibile rintracciare forme viventi. Dove si raccoglieva una comunità di 150mila persone che viveva di pesca, rimangono solo fantasmi spaventati, erbe secche che bruciano al sole, palazzi grigi, foto in bianco e nero. La scomparsa del lago ha cambiato il clima: le estati sono più calde e gli inverni più rigidi, si passa dai quasi 50 °C di agosto ai -40 °C di gennaio. Il vento, che non trova più ostacoli, spazza la terra e ogni anno solleva 75mila tonnellate di polvere, sale e pesticidi: causando malattie respiratorie, intossicazioni, tubercolosi. E danneggiando i raccolti. Tutto per avere cotone, sempre di più, sempre a minor costo. E non basta deviare i fiumi, distruggere i laghi, rendere sterili i terreni. No, bisogna costringere i contadini uzbeki a raccoglierlo gratis, il cotone. I contadini e i loro figli. Da settembre a dicembre. Ogni anno, fino a raggiungere la quota prefissata. E non parliamo solo del periodo sovietico, lo sfruttamento schiavistico va avanti ancora oggi – in questo 1432 secondo il calendario islamico – sotto il regno del presidente Islam Karimov. Figura su cui si potrebbero spendere fiumi di inchiostro, ma del quale basterà dire che secondo un rapporto Onu del 2003 ha fatto bollire vivi almeno due oppositori politici. Sì. Bolliti vivi. Messi a mollo nell’acqua come due aragoste. Figurarsi cosa gliene può fregare a Karimov delle risorse idriche. E sua figlia, Gulnara Karimova in arte “Googoosha”, è la più nota popstar del paese nonché celebrata stilista e responsabile del ministero uzbeko del turismo. 124
Ma dicevamo del lago. Dove si poteva ammirare uno specchio d’acqua limpida, oggi c’è il deserto di Aralkum, esteso su quattro milioni di chilometri quadrati, le cui sabbie intrise di sale vengono trasportate dal vento fino ai massicci del Pamir, dell’Hindukush e sui ghiacciai dell’Himalaya. E si tratta di sabbie zeppe di pesticidi e diserbanti usati per decenni nella coltura del cotone. L’Aral, un tempo profondo fino a 69 metri, oggi non supera i 24, mentre la salinità è passata da circa dieci milligrammi per litro ai centodieci attuali. Una follia, considerando che l’acqua di mare si attesta in media a trentacinque milligrammi. A Moynaq, desolata cittadina del Karakalpakstan, il disastro è tangibile. Ti schiaccia a terra, ti aspetta dietro ogni muro scrostato per mostrarti il suo volto: un volto deturpato, folle di disperazione. Moynaq era il principale porto uzbeko sul lago d’Aral. Oggi la riva più vicina dista 180 chilometri. Quindicimila persone trovavano lavoro nella fabbrica locale da cui partivano venti milioni di scatolette di pesce l’anno. Una flotta di cinquecento navi salpava ogni giorno e tornava con settanta tonnellate di pesce. L’ultima volta è stato nel 1979, poi più nulla. Quanto pesce avevano i pescatori nelle loro reti quell’ultimo giorno? Qual è stato l’ultimo esemplare a finire nelle scatolette? Domande stupide, inutilmente romantiche. Oggi rimangono le barche arrugginite, lasciate lì, in fila, come monito. Osservate dall’alto del promontorio, rosse per l’ossidazione del ferro, paiono il sorriso sdentato di un contadino o le gengive sanguinanti di un vecchio ubriacone. Rimandano un rumore distorto di onde, come un morto di sete nel deserto si ricorda dell’acqua mentre viene scosso dall’ultimo spasimo. Viste più da vicino diventano un'allucinazione, un miraggio lisergico. Su una di esse la scritta: “l’eau n’oublie pas son chemin”. L’acqua non dimentica il suo cammino. I pannelli installati nelle vicinanze danno una panoramica della tragedia. Il lago, nelle immagini del 1960, pare un cuore che pompa sangue, poi è come se durante una normale contrazione succedesse qualcosa: il muscolo si tende ma non torna più ampio e arioso come prima. Negli anni Novanta il cambiamento è radicale: il cuore si divide in due parti simmetriche, come due polmoni. Polmoni sempre più rinsecchiti. Oggi quello destro è quasi scomparso, il sinistro è una specie di budello striminzito. Eppure se il viaggiatore ha la pazienza di attraversare duecentocinquanta chilometri di deserto a bordo di una jeep, senza curarsi del fatto che non esistono strade ma solo piste bucherellate e polverose, la ricompensa è sublime. Il lago è ancora di una bellezza sconvolgente. Arroccato nella sua vallata pietrosa, turchese come un miraggio, pare una ferita che sgorga dalle viscere della terra. I colori sono dettati dall’inseguimento che il sole mette in scena con le nuvole, le prime nuvole nel giro di milioni di chilometri; segno dell’acqua che evapora e se ne va altrove, stanca di tornare in quel lago abbandonato da dio e dagli uomini. 125
I cespugli si diradano fino a scomparire e lasciare il posto a una striscia di sabbia bianca per le incrostazioni di sale. Da quello che fino a pochi mesi o settimane prima era il fondo del lago emergono ferraglie arrugginite, corde, bottiglie, scatolette. Poi iniziano le impronte. Piedi che sono affondati nella fanghiglia in punti dove oggi il viaggiatore trova un suolo ormai secco. Lui non affonda, almeno non ancora. Se avanza, il terreno si fa più molle, viscido. Trasuda petrolio. I suoi piedi, ormai neri, bramano l’acqua. Avanzano, affondati nella melma, fino a trovare il liquido caldo e salato. Ancora poche decine di metri in quella pozza e il fondo si stabilizza, facendosi sabbioso. Dopo aver attraversato il mondo, incrostato di sabbia e sudore, si lascia finalmente andare, rilassa i muscoli, galleggia. La salinità è così elevata che terrebbe su anche il Titanic. Il cervello è attraversato da ogni sorta di pensiero, il corpo diviene un’appendice senza peso né importanza, come nello spazio aperto. Quando la corrente spinge troppo al largo e il vento sferza il corpo inerme, si fa ora di tornare a riva, percorrere all’inverso quel sentiero fangoso per uscirne di nuovo sporco di petrolio e sabbia. In piedi, asciugandosi sul bordo di quel magnifico relitto, il viaggiatore aguzza la vista e cerca di avvistare il lembo di terra dalla parte opposta. Non perché ci sia qualcosa da vedere, ma perché sa che quella è Vozpojdienie. Rebirth Island. L’isola della rinascita. Il luogo in cui dal 1954 al 1992 gli scienziati sovietici hanno fatto esperimenti su armi batteriologiche e testato tecniche per diffondere antrace, peste, tularemia, vaiolo, brucellosi, cimurro e altre malattie resistenti agli antibiotici. Una piccola città con quindici caseggiati, depositi, abitazioni, laboratori, una scuola, per un totale di millecinquecento persone che vivevano lì, in quella base militare abbandonata in tutta fretta dopo il crollo dell’Urss. Un tempo era un’isola mentre oggi è collegata alla terra ferma e a Komsomolskij, dove venivano condotti gli esperimenti più pericolosi. Nel 1992 Kanatjan Alibekov, biologo e militare russo, rivelò agli americani la funzione dei laboratori presenti su Vozpojdienie. Emigrò negli Stati Uniti e scrisse un libro, Biohazard1, in cui descrive così uno degli esperimenti: «Decine di babbuini sono legati a dei paletti e molto al di sopra delle loro teste esplode una granata che diventa una nuvola marrone. Gli animali non sanno niente delle armi batteriologiche, ma, come se presentissero la morte, si coprono istintivamente il naso e la bocca con le zampe». Pare che vi siano centinaia di fusti di antrace ancora nascosti da qualche parte e sfuggiti alla bonifica operata da Stati Uniti, Uzbekistan e Kazakistan. L’area viene ritenuta sicura, ma è probabile che ciò derivi dal fatto che viene sfruttata in modo intensivo per l’estrazione di gas e petrolio da parte di compagnie locali e cinesi, coreane, giapponesi, malesi. Tutto il deserto che un tempo faceva da letto al lago oggi viene trivellato senza sosta, spremuto, esplorato, sondato, scandagliato alla ricerca dei preziosi combustibili. Il fatto che lì dovrebbe esserci dell’acqua pare non importare più a nessuno. 1 Ken Alibek (Kanatjan Alibekov), Biohazard. The chilling true story of the largest covert biological weapon program in the world told from inside by the man who ran it, Delta; Reprint edition 2000.
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In fondo tutto ciò che circonda questa storia assume i tratti di una follia collettiva, resta senza spiegazioni plausibili. Il viaggiatore non può che lasciarsi alle spalle il rantolo sommesso del lago che si incendia dei colori dell’alba, il sibilo di un animale moribondo accasciato nel deserto in attesa che gli avvoltoi si abbassino in volo fino a banchettare con i suoi resti. Nella mente rimbomba il silenzio nel quale l’ultima goccia del lago diventerà vapore. L’attimo che separa l’essere dal non essere, presente e passato, l’ultima lacrima assorbita dal deserto, o bevuta da solitarie formiche in perlustrazione. Una storia cupa, fatta di cotone, dighe e petrolio. La storia di un lago che c’era e fra poco non ci sarà più.
l’acqua in Giappone ovvero della fluidità delle cose In Giappone l’acqua è metafora della fluidità delle cose, e il concetto di fluidità ricorre quando i giapponesi osservano la realtà della vita sulla terra. Questo modo di vedere le cose si può intuire in alcune parole, ad esempio nella parola mizushobai, composta da mizu che significa “acqua” e shobai che significa “mestiere, commercio”. Mizushobai indica un mestiere insicuro, come quello che si svolge nei locali notturni. Anche gli attori, gli artisti e i giocatori sportivi appartengono a questa categoria: il loro successo dipende non solo dal talento, ma anche dalla fortuna. Dalla parola mizushobai si può perciò cominciare a cogliere il particolare significato che ha l’acqua in Giappone. In giapponese esiste anche un’altra parola piuttosto interessante: mizumono, composta da mono, che significa “cosa”, e da mizu, “acqua”. La parola mizumono indica tutte quelle cose che dipendono da condizioni instabili e imprevedibili. Rientrano in questo campo il gioco in borsa, le scommesse d’azzardo, le partite di calcio, di baseball o di sumo. Le parole mizushobai e mizumono non sono necessariamente negative, però all’orecchio di un giapponese risuonano di un’eco di imprevedibilità e di insicurezza. Per capire il concetto giapponese di mizu più in profondità, occorre riflettere su un’antica frase che gli studenti del liceo generalmente ricordano a memoria: «Yuku kawa no nagare wa, taezu site, sikamo moto no mizu ni arazu».1 Si dice che questa frase fu scritta nel XIII secolo dallo scrittore Kamo no Chomei2 nell’opera Hojoki3. Questa frase si riferisce al corso di un fiume: nel fiume la corrente non si ferma mai, ma mai vi scorre la stessa acqua. In quell’epoca accadevano tanti disastri, eppure se bruciavano le case, nuove ne venivano ricostruite. Venivano distrutte le città, nuove venivano fondate. Gli uomini morivano, nuovi vedevano la luce. Tutto come l’acqua all’interno del letto del fiume: l’acqua cambia, ma la corrente con1 «Scorre incessante il fiume e la sua acqua non è mai la stessa». 2 Kamo no Chomei è un poeta e scrittore giapponese vissuto durante la seconda metà del XII secolo. 3 Ovvero Ricordi della mia capanna (1212), edito in Italia con il titolo Ricordi di un eremo, Marsilio 2004.
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tinua ad andare avanti. Da parte mia, ritengo che sotteso alla frase di Kamo no Chomei si trovi una sorta di spirito di rassegnazione. Come alcune onde diventano grandi, tornano piccole, si rompono nella schiuma e mai è possibile dirigere o interrompere il loro corso, così non si può cambiare o fermare il corso della vita degli uomini. Questo concetto è piuttosto comune nella mentalità giapponese, ancora adesso. In Giappone numerosi fenomeni naturali sono causati dall’acqua. Seppure dubito che alla base dello spirito giapponese di rassegnazione ci siano i disastri naturali legati all’acqua, devo però convenire che spesso è l’acqua a decidere la sorte dell’intero Paese, anzi, sembra addirittura che sia la fortuna a dipendere dall’acqua... senza soffermarsi sugli tsunami, lo Tsuyu e i tifoni che influenzano profondamente la vita e la percezione dell’esistenza dei giapponesi. Prima dell’estate, verso maggio e giugno, il fronte dei monsoni si ferma sull’arcipelago giapponese per lungo tempo e porta tantissima pioggia. Questa pioggia molto intensa prende il nome di Tsuyu e nel passato causava grandissime inondazioni; i lavori di protezione erano dunque parte integrante della vita quotidiana e delle preoccupazioni dei giapponesi. Ora di inondazioni se ne vedono meno, e lo Tsuyu è considerato soltanto una stagione fastidiosa prima dell’estate: ogni giorno si deve portare l’ombrello, non si può stendere il bucato ad asciugare al sole, il clima è molto umido e caldo, il cielo è sempre grigio. La fine dello Tsuyu è solitamente salutata come la liberazione dai giorni della malinconia: il colore del cielo diventa azzurro e la temperatura sale ancora di più, arriva l’estate! Eppure la pioggia dello Tsuyu è necessaria. Nel 1994, quando la quantità della pioggia durante lo Tsuyu è stata inferiore alla media annuale, ci sono stati grandissimi problemi nell’agricoltura. In quel frangente i giapponesi hanno ricordato l’importanza dello Tsuyu. Così accade per i tifoni. I tifoni arrivano nell’arcipelago giapponese tra la fine dell’estate l’inizio dell’autunno e distruggono campi e frutteti nelle campagne. Nel passato i tifoni causavano grandi inondazioni, frane e smottamenti del terreno. Anche adesso, se una diga è distrutta, il villaggio è invaso dall’acqua, ma nelle grandi città l’influenza dei tifoni è ormai minima. Gli unici inconvenienti cui si può andare incontro sono i ritardi dei treni e i voli aerei cancellati. Durante il passaggio dei tifoni spesso gli uffici restano aperti quindi le persone devono andare a lavoro seppure in una condizione fastidiosa: l’ombrello si rompe e il completo si infradicia.4 Le scuole, invece, restano chiuse. Come per lo Tsuyu, i giapponesi non considerano i tifoni esclusivamente in modo negativo. Nel 1274 e nel 1281 i tifoni hanno scacciato gli attacchi dei Mongoli dall’isola di Kyūshū. I tifoni, in quei casi, hanno portato buona fortuna al paese! Inoltre quando arrivano i tifoni, le scuole chiudono, perciò i bambini li attendono segretamente con gioia. Per quelli che non hanno finito i compiti, il tifone è un vento fortunato, non fortunoso... Infine, che si tratti di disastro, o che si tratti di buona fortuna, questa è la sorte decisa dalla natura, e niente ci si può fare. Tornando al fiume di Kamo no Chomei, come la corrente del fiume soggiace al suo corso, i giapponesi obbediscono alla natura. Secondo me, si può trovare una relazione tra i fenomeni naturali legati all’acqua e la concezione tradizionale della vita: la 4 In Giapppone, di solito, i lavoratori nel terziario indossano durante lo svolgimento delle loro mansioni un completo scuro.
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forza della natura è così forte che non si può fare altro che rassegnarvisi. In questo senso, ritengo che sia possibile estendere la metafora del corso del fiume anche alle relazioni umane. I giapponesi hanno infatti coltivato il comportamento passivo anche nelle relazioni umane. Tra i giovani giapponesi, un’espressione molto popolare in questi ultimi anni è «leggere l’aria» e credo che questa sia la chiave per comprendere la mia società. In breve, «leggere l’aria» ha a che vedere con il cosiddetto peer pressure. I giapponesi generalmente pensano che le persone debbano accorgersi dei problemi e risolverli prima di provocare contrasti, e soprattutto senza parole. Non usare le parole è importante. L’ideale è che tutti agiscano per un proposito comune, senza alcuna frizione, in perfetta armonia. L’immagine del corso del fiume ci viene in soccorso. In questo caso, invece dell’acqua, l’aria rappresenta l’incostanza delle situazioni e le regole imprecise, e l’aria, come la corrente del fiume, va assecondata... Se agire dopo un ordine o un alterco contrasta con la virtù nipponica, comprendere la situazione e il proprio ruolo con pochissime parole corrisponde al massimo dei pregi. Quindi nella società giapponese insistere sulla propria opinione e opporsi all’opinione comune non è un comportamento accolto positivamente: l’armonia totale è la cosa più importante, negli affari, nella scuola, a casa, dappertutto... Occorre aggiungere, però, che ai nostri giorni, grazie alla conoscenza e all’influsso di altre culture, tanti giapponesi osano perseverare nella propria opinione e hanno iniziato a considerare “l’aria” come un rischio per la società. Può accadere, infatti, che per mantenere l’armonia la gente si dedichi e si sacrifichi completamente a una decisione del tutto errata, sapendo di sbagliare. Giungo dunque alla conclusione di questa riflessione sul concetto di fluidità delle cose con un auspicio. I giapponesi generalmente «leggono soltanto l’aria» del loro Paese. Credo, tuttavia, che questa situazione stia cambiando. In Giappone recentemente si usa molto spesso la parola “globale”, e si critica la chiusura della società. Secondo me, l’equilibrio all’interno di tante opinioni e comportamenti è importante: dopo il grande terremoto del 2011, l’armonia della società giapponese è stata oggetto di ammirazione. Credo però che «leggendo soltanto l’aria domestica» sia difficile progredire. Quando il Giappone si dedicherà seriamente a «leggere l’aria mondiale», la sua società migliorerà e potrà dare attraverso la particolarità della sua cultura un contributo vero e profondo alla vita degli uomini sulla terra.
la frammentazione del silenzio Come una clessidra sonora, la musica di Salvatore Sciarrino è una terra in cui il kronos degli orologi scandisce silenzi illusori. Labirinti di tempi che si sovrappongono e si intrecciano alternandosi in diverse dimensioni spazio-temporali all’interno di partiture calligrafiche che vedono, come antiche stampe giapponesi, l’alternarsi di stagioni artificiali al cui mutare Sciarrino assiste circondato soltanto dalla natura. 129
Proprio come un monaco Zen in un eremo buddista. Ma non si tratta di un film di Kim Ki-duk: il suo è un universo attraversato da un manierismo alchemico e – come scrive Laurent Feneyrou nelle note di copertina al cd – «da una violenza, da una sete di carneficina di cui già Ovidio scriveva di come essa animi la razza empia degli uomini», in cui ritroviamo protagonisti i vari Borromini, i Gesualdo, le Marie Maddalene de’ Pazzi fino a Macbeth. Come un antico samurai, Sciarrino difende le sue opere dalla disgregazione e dall’annientamento a cui egli stesso le sottopone. Una musica che non può essere analizzata per singole note, ma che necessita di una sintesi per ritrovare in un unico gesto tutte quelle variabili che solo interpreti ideali, dotati di una particolare predisposizione alla ricerca sul suono, sono in grado di restituire. «L’esecutore che esegue con precisione, con fedeltà è quello che più tradisce la vita della musica, che deve trasfigurarsi e cambiarsi negli anni», sostiene Sciarrino. Una caratteristica, quella di richiedere una specificità all’interprete, che lo accomuna a Nono e che del resto appartiene a tutti i musicisti di questo CD, impegnati nell’interpretazione di brani dislocati lungo un arco di tempo di circa vent’anni. A mostrarci come vengono prodotti gli incantesimi sono i solisti Marco Rogliano (violino), Ciro Longobardi (pianoforte), Daniel Gloger (contraltista), Mario Caroli, Matteo Cesari, Chrissy Dimitriou, Keiko Murakami (flauti), il Lost Cloud Quartet (Marco Bontempo, Marco Piazzi, Gianluca Pugnaloni e Leonardo Sbaffi ai sax), Jonathan Faralli (percussioni) e l’ensemble Algoritmo diretto (e fondato nel 2002) da Marco Angius. Dalle miniature di timbri che indagano le relazioni tra i diversi piani sonori e le figure ritmiche di Centauro marino (1984) per quintetto, fino al susseguirsi di ambienti acustici intermittenti in Le stagioni artificiali (2007)1 per violino e strumenti, passando attraverso Studi per l’intonazione del mare (2000) per voce, quattro flauti, quattro sax, percussione e due orchestre, ognuna di 100 flauti e 100 sassofoni (qui ridotti, per necessità di produzione, a un numero di poco inferiore). Musica, quest’ultima, scritta per la riapertura della Basilica Superiore di Assisi, ricostruita dopo i crolli del terremoto del 1997, e per la quale Sciarrino sceglie vari testi: alcuni estratti dal vangelo apocrifo Pistis Sophia, una poesia di Thomas Wolfe e un passaggio tratto dal settimo capitolo della Leggenda dei tre compagni (1246) sulla vita di san Francesco, frammentandone la declamazione in finissime gocce di pioggia. Sullo sfondo rimangono il temperamento saturnino di Sciarrino, i suoi timbri parziali – sono reazioni chimiche di un’arte capace di preconizzare la scienza (le sue intuizioni in passato hanno quasi anticipato la teorizzazione dei frattali di Mandelbrot) – e il riverbero del mare sul quale scintillano impercettibili, come molecole, tutte le declinazioni di una luce avorio e di suoni che pulsano come particelle finissime, quasi inudibili pulviscoli nello spazio. Ma non è un approdo al silenzio, alla consapevolezza rimbaudiana che non v’è più nulla da comunicare. Al contrario, il silenzio in Sciarrino diventa un elemento irrinunciabile della musica stessa, come l’oscurità è essenziale alla luce, come l’ombra è parte della figura, per mostrare che sullo sfondo essa, e soltanto essa, costituisce i caratteri di una figurazione. 1 New release 2011, Salvatore Sciarrino, Le stagioni artificiali, ensemble Algoritmo, Stradivarius.
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architecture of waterscape Imagination & Framing Bergerian is to believe that way of seeing things already contains a par of what we are about to see. This could mean that position of an architect is inevitably ambivalent, stretched between intention and idea of design projection. There is no doubt that this further complicates already complex relations between subject and object of architecture. But since architects are in no position (nor are obliged) to articulate these two matched sides, methodologically or technically, what appears as a result is an image with unquestionable capacity. This image is figurative assumption. Even if feeling of uncertainty or contingency emerges along the process of transition from an idea to proximate architectural future in form of its tangible realization, we could remain operative within defined framework. According to Jeremy Till we are facing a potential brought by uncertainty that stands for our doubt in boundaries of scenery covered by our influence. Our capability to imagine architectural scenery in defined thematic context could be easily transferred into structural lines that are constructing an image in front of us. Its frame remains in line with Bouriaud’s frame of reality that emerges independently. What we see is a result of conditions for appearance of architecture at the scale of its formal necessity and freedom. Genesis & Superposition Landscape of architectural design can easily outreach boundaries of design context. We are addressing relations within chosen thematic ambient with intention to develop conditions that will remain sustainable according to ideas weaved in or cast into it. Changing scale of architectural theme brings new understanding of nature of its form, especially the one that depicts nature. If we take the stand of researching nature by design, we can rest assure that our intentions are legitimate. By creating necessary illusion of naturalness we are ascending from banality of everyday life, simultaneously adding ecological value and technological sufficiency to architectural design. Philosophically this step could be seen as a transition from one position to another with an idea to enable some unforeseen changes in its form. This attitude is aligned with virtualization in general, but we have to remember that architectural projection and imagination could use virtual and real as categories of universal value. According to Mosco, there is mythological capacity in this that could be compared to relation of contemporary and eternal object. Architecture accepts this layering of time as a chance to adapt biological principle, leaving problem of beauty as something to be considered once optimal architectural balance is reached. Alteration & Persistence Reality of architecture, incomprehensible if not apparent as a part of our reality at any moment, could appear in the same manner as time, invisible if not a part of 132
any particular event or experience. Similar goes to program applied. No matter how valuable for architecture visible is, sometimes the importance of the invisible outreaches the outcomes of design. If subject of our interest is naturalness we aim to reach, by stretching a field of architecture towards landscape of working environment, we have to except that overall perception, despite its nature, will not always include all intended. Inconsistency that is integral part of life of architecture generates particular circumstances for questioning ones responsibility for a frame assign to it. Will to share responsibility with nature for what follows includes accepting its new manifestations in order not to (accidentally) skip its right for independence. In line with Bouriaud, unexpected within expected circumstances liberates architectural design of necessity to overcome ideas larger than the moment of its creation. This paves the way for materialization of landscape capable for embracing altered yet continuous trajectory in space and time of appearance and disappearance of an architecture.1 * Bibliography Gaston Bachelard, L’eau et les reves - Essai sur l’imagination de la matiere, Librairie Jose corti 1973 John Berger, Ways of Seeing, Penguin Books London 2008 Nicolas Bourriaud, Formes de vie - L’art moderne et l’invention de soi, Denoël France 2009 Henri Focillon, Vie des formes, PUF Paris 1943 Steven Holl, Juhani Pallasmaa et all., Questions of Perception – Phenomenology of Architecture, William Stout Publsihers san Francisco, A=U Japan 2006 Vincent Mosco, The Digital Sublime – Myth, Power and Cyberspace, The MIT Press Cambridge Massachusetts London England 2004 Jean-Marie Schaeffer, Pourquoi la fiction?, Seuil Paris 1999 Roger Scruton, The Aesthetics of Architecture, Princeton University Press USA 1979 Jeremy Till, Architecture Depends,The MIT Press Cambridge Massachusetts London England 2009 More info: http://allinclusive.arh.bg.ac.rs / www.ccserbie.com vimeo.com/36235216 / vimeo.com/36793372 Vladimir Milenkovic, PhD Arch www.arh.bg.ac.rs www.neoarhitekti.net
1 This paper was realized as a part of the project “Studying climate change and its influence on the environment: impacts, adaptation and mitigation” (43007) financed by the Ministry of Education and Science of the Republic of Serbia within the framework of integrated and interdisciplinary research for the period 2011-2014.
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contemporary (& classical) playlist George Frideric Händel (1685-1759): Water Music, per orchestra barocca (1717)
Iannis Xenakis (1922-2001): Pour les baleines, per orchestra d’archi (1982)
Fryderyk Franciszek Chopin (1810-1849): Preludio op. 28 n. 15, La goccia d’acqua, per pianoforte (1831-1838)
Pierre Boulez (*1925): Le soleil des eaux, per soprano, coro e orchestra (1948; rev. 1950; rev. 1958; rev. 1965)
Charles-Valentin Alkan (1813-1888): La chanson de la folle au bord de la mer, per pianoforte (1847)
Luciano Berio (1925-2003): Preludio a una festa marina, per orchestra d’archi (1944); El mar la mar, per due soprano e cinque strumenti (1950); riduzione per due soprano e pianoforte (1953); arrangiamento per soprano, mezzo-soprano e sette strumenti (1969).
Claude Debussy (1862-1918): La mer, trois esquisses symphoniques pour orchestre (1903-1905); La cathédrale engloutie, per pianoforte (dal primo libro dei Preludi, 1909-1910) Erik Satie (1866-1925): Le Water-chute, da Sports et divertissements, per pianoforte (1914)
Jacob Druckman (1928-1996): Reflections on the Nature of Water, per marimba (1986)
Maurice Ravel (1875-1937): Jeux d’eau, per pianoforte (1901)
Peter Sculthorpe (*1929): Songs of Sea & Sky, per sassofono soprano e pianoforte (2007)
Colin McPhee (1900-1964): H2O, colonna sonora (1931; perduta)
George Crumb (*1929): Vox Balaenae, per flauto elettrico, violoncello elettrico e pianoforte amplificato (1971)
Olivier Messiaen (1908-1992): Les deux murailles d’eau, per organo (da Le Livre du Saint-Sacrement, 1984)
Toru Takemitsu (1930-1996): Water Music, per nastro magnetico (1960); Garden Rain, per ensemble di ottoni (1974); Waves, per clarinetto, corno, due tromboni e grancassa (1976); Waterways, per clarinetto, violino, violoncello, piano, due arpe e due vibrafoni (1978); Toward the Sea, per flauto alto e chitarra (1981); Toward the Sea II, per flauto contralto, arpa e orchestra d’archi (versione di Toward the Sea per flauto contralto e chitarra, 1981); Rain Tree, per tre percussionisti (o tre tastieristi, 1981); Rain Dreaming, per clavicembalo (1986);
John Cage (1912-1992): Water Music, for pianist using various objects (1952); Water Walk, a work for a TV show for one performer with a variety of objects (1959); A Dip in the Lake: Ten Quicksteps, Sixty-two Waltzes, and Fifty-six Marches for Chicago and Vicinity, for performer(s) or listener(s) or record maker(s) (1978) Isang Yun (1917-1995): Chinesische Bilder (Der Besucher der Idylle / Der Eremit am Wasser / Der Affenspieler / Die Hirtenflöte), per flauto solo (1993)
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Toward the Sea III, per flauto e arpa (versione di Toward the Sea per flauto alto e chitarra, 1989); Rain Coming, per orchestra da camera (1982); Rain Spell, per flauto, clarinetto, arpa, pianoforte e vibrafono (1982); Rain Tree Sketch, per pianoforte (1982); Rain Tree Sketch II – In Memoriam Olivier Messiaen, per pianoforte (1992); The Sea is Still, “musica ambientale” per nastro magnetico (1986)
Studi per l’intonazione del mare, per voce, quattro flauti, quattro sax, percussione e due orchestre di 100 flauti e 100 sassofoni (2000); Graffito sul mare, per trio e orchestra (2003) Claudio Ambrosini (*1948): Frammenti d’acque, drammaturgia sonora in sette stazioni per fiati, arpa, strumenti in vetro, percussioni e suoni elettronici (commissionata in memoria dell’alluvione di Venezia e Firenze, 1966) Toshio Hosokawa (*1955): Circulating Ocean, per orchestra (2005)
Morton Subotnick (*1933): Liquid Strata, per pianoforte ed elettronica (1977)
Tan Dun (*1957): Eight Memories in Watercolor, per pianoforte (1978); Water Concerto for Water Percussion and Orchestra (1998); Water Passion After St. Matthew, per orchestra (2000); Water Music, per quattro percussioni (2010)
Philip Glass (*1937): Einstein on the Beach, opera in quattro atti (con Robert Wilson, 1975-1976); Songs from Liquid Days, per voci ed ensemble (testi di Paul Simon, Suzanne Vega, David Byrne e Laurie Anderson, 1986); Hydrogen Jukebox, per voce e ensemble (su libretto di Allen Ginsberg, 1990)
Osvaldo Golijov (*1960): Ainadamar, opera (2003/2005)
William Bolcom (*1938): Hydraulis, per organo (1971)
Fausto Romitelli (*1963): Seascape, per flauto Paetzold (1994)
Gavin Bryars (*1943): The Sinking of the Titanic (1969, prima rappresentazione: Queen Elizabeth Hall, Londra 1972)
Olga Neuwirth (*1968): Un posto nell’acqua, per ensemble (2009)
Michael Nyman (*1944): Water Dances, per ensemble (1984) Three Ways of Describing Rain (I. Sawan First Rain; II. Rang - Colour of Nature; III. Dhyan - Meditation; 2003)
Alessandro Grego (*1969): Un mar deserto, per flauto e archi (2000) Silvia Colasanti (*1975): To muddy death. Ophelia, per quintetto (2008)
John Adams (*1947): Light Over Water, sinfonia per ottoni e nastro (1983) Salvatore Sciarrino (*1947): Centauro marino, per clarinetto, violino, viola, violoncello e pianoforte (1984); La navigazione notturna, per quattro pianoforti (1985); Le ragioni delle conchiglie, per quintetto (1986); Tutti i miraggi delle acque, per coro (1987); Perduto in una città d’acque, per pianoforte (1991);
Paolo Tarsi, Elastic Bandages (2012), con Enrico Landi
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geo acq ua rio
la diga Suo padre ha la pelle bianca e sottile, carta velina che poggia su membra asciugatesi con la vecchiaia. Al mattino lo aiuta a fare la doccia e a vestirsi, lo sorregge poggiando sulla schiena nuda il palmo della mano mentre l’acqua si scalda lungo il tubo della doccia. È calda? Non ancora. Adesso è calda? Non ancora. Dai, non aver paura, vai sotto. Ma è fredda. Lo spinge piano, la sensazione è che cadendo si frantumerebbe. Quando il corpo secco inizia a bagnarsi in viso una smorfia da bambino. Vedi che è già calda? Mica tanto. La stessa scena tutte le mattine, esce dall’appartamento dei genitori dopo averlo messo a sedere al tavolo della cucina, il giornale spalancato davanti agli occhi, la brioche, il bastone, le pasticche e il bicchier d’acqua. Oggi è diverso perché vedrà Viola, è tornata finalmente e non vede l’ora di trascorrere con lei del tempo. Dovrà aspettare sera ma varrà la pena. Al bar Alessandra gli serve il caffè. Come va stamattina come sta tuo padre? Il solito, ora che è bel tempo riprenderà ad uscire. Bene. E tu? Al solito, un po’ stanca. Gli serve il caffè in una tazzina cilindrica, non proprio comoda per bere, accanto alla quale sistema un bicchiere pieno d’acqua in cui galleggia un cubetto di ghiaccio. Lo beve, la saluta, esce, fuma e getta la sigaretta nel tombino. La cicca non riesce ad attraversare il denso strato melmoso che si è formato a causa delle piogge dei giorni precedenti. Tracima melma dalle fessure arrugginite del chiusino. Quando possedeva un bar aveva anche lui una macchina del ghiaccio. Ce ne sono di diverso tipo. Le migliori sono quelle che producono cubetti senza buco o con appena una fessura, che impiegano più tempo a sciogliersi di quanto ne serva al cliente per finire il suo Negroni. L’ufficio lo aspetta. Viola stasera racconterà cose entusiasmanti. Peccato non essere andato con lei. La prossima volta. Magari. Si avvia. Il suo bar – chissà come ora si è messo a pensare ai tempi in cui possedeva un bar – era all’aperto e la macchina del ghiaccio stava incassata tra due frigoriferi a vetrina. Funzionava in maniera semplice e meccanica, ma il galleggiante era difettoso e certe volte si incastrava generando un flusso continuo dal tubo d’ingresso a quello di uscita: l’acqua entrava, scioglieva il ghiaccio, allagava la cassetta e fuoriusciva lasciando spazio ad altra acqua che da dietro la spingeva. Per fortuna era sul mare, il bar, infilarono il tubo di uscita tra i sassi della battigia e ne misero il becco a ridosso delle onde, così che il fiotto liquido e trasparente si mescolasse al mare senza che nessuno lo notasse. Questo perché nell’accordo con il Comune il pagamento delle bollette spettava all’amministrazione municipale, mentre la sostituzione del pezzo della macchina del ghiaccio sarebbe costata un patrimonio. Fuma ancora. Pensa: Viola! In ufficio saluta i colleghi, i colleghi lo salutano. Gianna accende la macchina del caffè in previsione della prima pausa. La macchina ribolle e borbotta poi si stabilizza. Sonia entra nel bagno, lo usa, esce. Poiché il bagno si trova dietro la sua postazione la sente sciacquarsi con cura le mani dentro il lavandino. Alle dieci Gianna chiederà se qualcuno vuole un caffè, sembra che attorno a questa richiesta graviti la sua giornata di lavoro. Tutti risponderanno sì. Per conto suo, prenderà anche un bicchiere e 137
lo riempirà dell’acqua naturale erogata da un rubinetto collegato alla grande boccia di plastica da trenta litri infilata a testa in giù su una colonnina alta mezzo metro. Dicono ci sia un filtro dentro che la purifica e per questo è così leggera. Lui non sa queste cose ma in effetti è buona. Magia nera, poi, la presenza di un rubinetto che la fa diventare gassata in un istante. Le giornate sono uguali. Fortuna che stasera incontrerà Viola, che gli racconterà del viaggio. La pausa pranzo la passa da Giorgio, una trattoria convenzionata con l’azienda. Ordina come sempre un primo e prende posto davanti alla cucina a vista, può così osservare l’enorme pentolone satinato su cui il coperchio salta al ritmo del bollire d’acqua attorno agli spaghetti. Niente vino a pranzo, sceglie un’acqua minerale naturale che viene, recita l’etichetta, dalle Dolomiti. Ne berrà due bicchieri solamente ma Giorgio, il titolare della trattoria, tiene solo quel formato di bottiglia. Il servizio è inappuntabile come sempre, il caffè anche oggi arriva assieme a un piccolo, delizioso tumbler trasparente pieno sino all’orlo di acqua Ferrarelle. Gli capita alla fine del pranzo di pensare al padre. Beve così poco, dimagrisce ogni minuto e la pelle si secca ma per fortuna è goloso di gelato e lo idratano così, a crema e cioccolato. Passi da noi dopo? Oggi no papà, devo vedere Viola, ti ricordi la mia amica Viola? Certo che mi ricordo, risponde, ma chissà se è vero. Ci sono punti delle braccia in cui si raggrinza come un foglio di carta appeso al sole ad asciugare. Viola è lontana ancora un pomeriggio di ufficio, di boccia d’acqua depurata, aria condizionata, bagno. Prima di sedersi al proprio posto lava i denti. Sputa nel mezzo del vortice alimentato nel vano convesso del lavello, osserva per un po’ saliva, sangue e acqua corrente miscelarsi e scomparire nel risucchio dentro i tubi. Viola avrebbe da ridire, fatti vedere le gengive. Al lavoro ora, ma prima riempie un bicchiere capiente d’acqua da tenere accanto allo schermo del pc, se non può fumare almeno un palliativo, un sorso ogni sigaretta che si accenderebbe. La bocca vuole sempre la sua parte. Quando era barista era semplice. Ogni tipo di bevanda si prelevava dalla spina. Le mani logorate dal continuo sciacquare le tazzine, passava le giornate in piedi dietro il bancone mentre ora i soli passi che cammina sono dalla scrivania all’erogatore, dall’erogatore al bagno, alla scrivania. Così si passa il giorno. A sorsi indifferenti, e sciacqui. A casa fa la doccia, il suo corpo somiglia a quello del padre e la cosa lo spaventa, ora che lo vede ogni mattina così incerto . Mentre l’acqua gli scivola addosso si dice che deve fare sport, attività, ginnastica, per non finire così fragile e incauto, anche trattamenti estetici, massaggi, manutenzioni preventive. Si seccherà lo stesso, certo, ma magari con più grazia e meno pena. C’è sterpo e sterpo. Chiude l’acqua spingendo il miscelatore verso la parete, a causa della guarnizione consumata continua a gocciolare per un po’. Prima o poi la cambierà. Fa caldo. Fuma. Beve. Si veste. Esce. Vive nel quartiere popolare di una città di provincia. Si conoscono tutti. Si salutano tutti. Glauco ora che il sole è sceso annaffia i fiori del cortile, Tecla allunga le braccia come un deltaplano per stendere sui fili i panni umidi di lavatrice. Gigi sulla sedia di plastica fuori dal bar Incontro, la sua birra in mano senza schiuma, Ruggero sempre 138
lì a lavare l’auto, la più lucida, di certo, di tutta la città. Saluta tutti, check-in quotidiano che ogni volta si ripete, minime le variazioni. Qualche volta un come stai. Ci beviamo qualche cosa? Lungo la strada i resti dell’acquazzone di ieri, in qualche insperato pezzo di marciapiede crescerà un arbusto verde. Spera che a suo padre qualcuno porti del gelato. Pensando a Viola incontra Jimmy con il cane. Li saluta entrambi, il cane lo lecca, ansima, Jimmy ride. Con questo caldo, dice, ogni volta che torniamo a casa si fa fuori un litro d’acqua. Passano oltre e lui si sfrega l’avambraccio insalivato. Sulla pelle i primi segni di un cedimento che ne ridurrà la pelle a un velo, l’atmosfera che ci circonda, pensa, è carta vetrata di grammatura differente a seconda della vita che si sceglie e noi si sparisce dal momento in cui si nasce. È quello che disse anche Viola quando decise di partire. Finché sono in grado, disse, finché lo posso fare. Si siede al bar ad aspettarla, ordina uno spritz con una bottiglietta d’acqua. Il barista per freddare il bicchiere lo riempie con sei cubetti di ghiaccio – fessura stretta – e lo fa volteggiare in aria, i cubetti iniziano a sciogliersi, il vetro si rinfresca, getta i cubetti che rotolano nel lavandino, finiranno di sciogliersi e scoleranno via nei tubi, ne mette quattro nuovi con sopra la fetta di arancio e una scorza di limone. Scogli su cui si abbatterà dolce un’onda di prosecco. Quando arriva il cocktail assieme alla bottiglia, Viola entra. Viola è bella, tanto grassa e bassa che gli è sembrata sempre una balena. Delle balene ha l’eleganza nel muoversi tra i flussi della vita, quando china il mento od ondeggia con le spalle e l’anca portentosa. E l’ospitalità, quella cosa che sembra che le balene, mangiandoti, ti custodiscano. Si baciano, si siedono, ordina da bere. Viola è partita a maggio per fare la volontaria in mezzo all’Africa, è agronoma ed è andata per studiare quali piante si potrebbero coltivare capaci di nutrire e dissetare i popoli di lì. Raccontami dai! fa lui entusiasta. Viola parla sempre come un fiume in piena, ha solo bisogno di essere accesa, alzare i portelli della diga. Poca gente nel locale, si sente il barista avviare la lavastoviglie, una vasca piena d’acqua e detersivo all’interno della quale ruota una giostra di bicchieri e tazzine da caffè. Il brillantante viene spruzzato da un foro posto al centro. L’acqua va cambiata ogni tre, quattro lavaggi. C’è un tappo di plastica che si toglie perché venga risucchiata verso il sistema fognario cittadino, assieme al dentifricio, al sangue delle sue gengive e ai cubetti che raffreddano i bicchieri. Viola sorride e stavolta non parla. Le labbra sono secche e strette di balena. Poi dice solo: «Che vuoi che ti dica? Riesci a immaginare un mondo senza acqua? Dove per quella – indica la bottiglietta semivuota – qualcuno ucciderebbe? Perché se non riesci, non posso raccontarti niente». Tacciono poi mentre tutto scorre attorno a loro, dentro e fuori il bar, tra i fiori, i cani e i panni stessi. Il solo mondo senza acqua che riesce a immaginare è il corpo di suo padre. Gli occhi vanno alla bottiglia. È piena a metà. Ha un contenuto microbiologicamente puro, proviene da sorgenti d’Appennino. Chissà se qualcuno a suo padre ha alla fine portato del gelato.
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tanto vince la natura Piove da giorni, domani sarà il 25 aprile 2011, 2012, scusa è che l’universo dei numeri tende a sfuggirmi. Sì, in effetti ieri non pioveva. Ok, comunque, di fatto, ora piove a cariole, qui nel centro di Bolzano. Lo vedo nel nero del tetto della casa di fronte, attraverso il vetro della finestra, macchiato da altre piogge, scagazzato da qualche uccello con la sciolta. Piove e il pezzo per il numero sull’acqua diventa squallido, triste e disperato. Sono mica un pesce, come quelli del motivo che ho usato per tappezzare la parte inferiore del vetro della finestra, per non farmi vedere dai dirimpettai: purtroppo qua nel centro storico gli edifici sono soggetti al vincolo storico artistico e quindi niente serrande né tapparelle, che, come ho scritto in passato, servono a dormire fino a tardi. Insomma, qui ci si sveglia presto, ora e quando il tempo non fa acqua da tutte le parti, come le navi fallate e gli ubriaconi si possono fare dei bei giri. Oggi, porca miseriaccia, mi pare di essere un Mauro Corona con la lattina di birra a scrivere nel pomeriggio plumbeo, con la neve a bassa quota, la gente dall’umore strano: oh, non è mica tanto bello rivedere la neve che siamo quasi a maggio... Insomma bis, con la birra in lattina che mi annacqua il cervello quasi dimentico l’essenziale: l’acqua. Beh, torniamo al suo derivato “luppeico”. Ho letto che per il, come si chiama, il congresso mondiale dei medici, ora mi sfugge la sigla esatta, insomma per il maggior ente mondiale che si occupa di definire cosa fa bene e cosa no, ecco, questo, ha piazzato l’alcol, assieme all’amianto, nella tabella dei cancerogeni, tra cui c’è anche il noto tabacco. Pare che l’alcol non sia un problema solo per gli ubriaconi, ché gli viene la cirrosi, cioè un tumore, un cancro del fegato, ma è proprio una proprietà dell’alcol quella di provocare il cancro e già un bicchierino aumenta le riproduzioni cellulari danneggiate. Capito? Che roba, eh! Come con le sigarette, qualche ricco signore marcia sulla povera gente, glielo mette al culo. Ti vende un prodotto sapendo che si tratta di veleno e te lo tiene nascosto come fu con le sigarette, in modo che nemmeno chi vuole può scegliere di essere più forte. Di diventare una montagna che cammina. L’acqua... l’acqua in città quasi non la noti. Non hai così spesso sete perché bevi prima di averla, poi quando la bevi non è nemmeno acqua. È una bevanda, è un prodotto imbottigliato pure se è acqua vera, oppure è una roba che pare sia un veleno, l’alcolico, che ci raccontano faccia bene alla circolazione, il nostro oceano interiore, con le sue maree... le grotte carsiche... i fiotti al cuore... L’acqua, per capire cos’è, non ti servirà leggerlo su due milioni di libri. Non lo so neanche io che li ho letti. Per capire cos’è l’acqua dovresti chiederlo a un cadavere rin140
secchito giù a Sud, oltre il Mediterraneo, nel deserto del Nord Africa. Lui lo sa cos’è l’acqua. Ci darebbe una definizione validissima, sempre che abbia letto due milioni di libri, perché se non li ha letti come diavolo fa a usare le parole? A trasmetterti la sua esperienza? Insomma tris: ci vogliono parole e ci vuole sete, e sono come l’uovo e la gallina, però è chiaro a tutti che se ti dico che c’ho una gallina che non è nata da un uovo ti sto pigliano per il culo... L’acqua mia è quella che era a raso terra, che ti dovevi sdraiare, quando eri pischello in cerca di esperienze vere e vagabondavi sulle montagne in cerca della natura, del pre-civile, dei nonni della civiltà, di chi, se gli raccontavi cosa combinavano in città, li avrebbe messi in riga. L’acqua mia ti dovevi inchinare per toccarla con le labbra, ti dovevi sdraiare facendo attenzione a non schiacciarla, ché ti bagnavi, non per altro; l’acqua mia usciva dalle rocce, dalla terra muschiosa, era trasparente e si vedevano i sassolini sotto. Era ghiacciata, quando ci appoggiavi la bocca e la succhiavi, te ne pentivi quasi, ma ti permetteva di ripetere le azioni, di svegliarti un’altra volta in un altro giorno. L’acqua mia la cercavo prima di tutto. Ora la spruzzano con dei cannoni per far funzionare l’industria del divertimento invernale. Mangia-vitelli d’allevamento intensivo che vengono caricati su carrucole da turismo di massa. In un gran vorticare di milioni di euro. Sciistico. Gioca sempre dalla parte di chi perde, questo è il mio consiglio, è il consiglio dell’equilibrio cosmico. Gioca sempre dalla parte di chi perde, per essere un vero vincente, capito?!
principio Che la sete la si costruisce goccia a goccia.
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PAOLO E LAURA, ANNI 62 e 61
Paolo e la cormorana Laura: «Paolo questa estate in Sardegna aveva stretto amicizia con un cormorano femmina: magia dell’acqua trasparente? Per me l’acqua è il mare infinito: mi attrae e contemporaneamente mi dá un senso di smarrimento. All’ora del tramonto l’acqua ti culla e ti porta dove vuoi tu...».
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cronache sullo stato liquido dell’acqua sono i più grandi bevito ri del mondo un pacifico oceano di plastica con u n consumo pro capite di 172 litri un'area enorme
varie sostanze in realtà la plastica è il lubrifi cante della globalizzazi one e persino svelare fo rme di vita finora scono
grande come un continent e ne abbiamo bevuta 10 m iliardi di litri in bott iglia è di 2,8 miliardi di euro sepolto da circa
sciute si riconosce dall e altre perché non reca la dizione le misure nec essarie a contenere i da nni una immensa zuppa di
25 milioni di anni sotto ha rotto l'ultima barrie ra arrivando fino alla s uperficie oggetto di una grande campagna pubblici
plastica che si distribu isce dalla superficie an che in ambienti non ragg iunti dalla luce solare hanno preso tutte le pre
taria ma quattro gruppi controllano il 73% del m ercato con i suoi 250 ch ilometri di lunghezza e 50 di larghezza molti di
cauzioni per non contami nare la minaccia vera vi ene da quel che è meno v isibile un'altra evidenz a della necessità di ric
questi pezzi di plastica non sono visibili oggi è ammessa la vendita in bo ttiglia anche molti di q uesti pezzi di plastica
onsiderare facendo atten zione a non contaminarla preservandola intatta co sì come è stata per mili oni di anni
poi entrano in simbiosi cominciarono a trivellar e per raggiungerlo già a lla fine contiene clorur o di vinile che rilascia
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pesciolini A Paola, mia madre
non ti penso mai perché? perché pensare a te è pensare a me. un pensiero-pesce striato un beato desiderio di simbiosi un cucciolo-pensiero non svezzato. è un pensiero che non posso fare: mi confonde. come distinguere il mare dalle onde?
mareggiata ogni nostra litigata è una mareggiata. il cielo si svuota, nel mare piove di tutto: insieme, si straripa di brutto.
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pesci d’acqua alta Dalla finestra vede la piscina alle prime luci dell’alba. Sull’acqua ferma di un blu intenso volano gli insetti. Sua madre rincasa senza scarpe, vestita solo di un caftano azzurro e si serve da bere. Tintinnando i bracciali, si lascia cadere sui divani di vimini vicino alla piscina. Resta così, a braccia aperte, le dita che sfiorano appena l’erba bagnata. La bambina esce in giardino e si mette a osservare le lumache sulla terra fresca e un formicaio che sembra un cratere di sabbia poi si avvicina con cautela alla piscina. Quell’acqua profonda e limpida la riempie di terrore come un presagio. La immagina abitata da creature invisibili dalla pelle trasparente e dai denti di ghiaccio: stanno sul fondo immobili in attesa di un suo movimento. Da due giorni ha iniziato il sabotaggio. Pugni di terra e sassi, cadaveri di insetti e fiori secchi: tutto finisce nella piscina come nel ventre di una portentosa balena. Sua madre si è addormentata sulla poltrona umida del giardino. La bambina le toglie dalle mani la bottiglia perché Said non la trovi così. Le riesce insopportabile vederlo prendere tra le braccia, lui così piccolo nella divisa troppo larga, quel magnifico uccello dalle ali azzurre. Suo padre viene a trovarle ogni tanto: ha un portasigarette d’argento. Non ha mai visto un uomo che abbia tanta paura. Scende dall’automobile, si stringe nel cappotto di cammello e accende una sigaretta: per un istante resta a guardare quel luogo desolato. Sogna il giorno in cui non dovrà più tornarci. Sogna che un incendio devasti la villa uccidendole entrambe. Quella salita tra gli alberi è la sua condanna. L’abitudine lo spinge a risalirla per vedere la figlia. Non ha nessun affetto per lei: lo fa pensare a un grosso felino chiuso in una gabbia. Le sorride perché non sa cos’altro fare. Gli esce una smorfia che la figlia guarda con diffidenza come un animale preso in una trappola. Sua moglie lo accoglie sempre recitando una seduzione appiccicosa. Lo abbraccia troppo forte e lo bacia sulle labbra. Lui le preme le mani sul petto per staccarsi. Le chiede di sedersi, ma lei infila una sigaretta tra le labbra. Piegandosi gli offre il corpo nudo e abbronzato sotto la stoffa. «Dovresti metterti addosso qualcosa», le dice. Il suo corpo ha qualcosa di selvatico che lo atterrisce. Ora guarda il viso di sua moglie: ha un livido scuro sotto lo zigomo e un filo di sangue rappreso sul labbro spaccato, il mascara sciolto le ha rigato la pelle abbronzata, i capelli umidi le si sono appiccicati alla fronte. Si è seduta e ha accavallato le gambe, l’unica sua bellezza, e intanto si stringe nel caftano come se avesse freddo. «Ha preso tutti i gioielli», lo ignora lei, buttando indietro la testa e soffiando via il fumo. Nel giradischi suona un lento di Pat Boone ormai passato di moda. Nella stanza l’odore di chiuso si mescola a un profumo estraneo di patchouli. Un cassetto giace rovesciato sul letto sfatto. 145
La bambina li osserva fuori dal vetro. Le pareti azzurre della stanza li fanno assomigliare a pesci in un acquario. La madre cammina e l’abito che le si muove intorno sembra la coda evanescente di un pesce angelo come lo ha visto in un documentario. Suo padre è seduto sul letto: il fumo gli esce dalla bocca in anelli leggeri come ossigeno. Quando si avvicina alla piscina, l’acqua ancora riflette la sua immagine schiarita come se un’altra lei la guardasse dal fondo, vivendo la sua vita capovolta. Immerge una mano nell’acqua e nulla accade. La sua pelle penetra nel fluido fresco e ne è avvolta. La spinge più fondo e allora lo sente. Qualcosa ha toccato le sue dita: un incavo caldo e appuntito come la bocca di un animale. Nella stanza suo padre ha aperto la finestra e guarda verso la piscina. «Poteva andare peggio», dice. Una di queste volte arriverò qui, pensa, e sarà troppo tardi. «Ti piacerebbe», gli sorride lei. «Chiama la polizia». Gli porge il telefono, ma lui resta immobile a guardarla. Immagina di risalire il viale, la porta della stanza spalancata e il corpo di lei sul letto, nel sangue, finalmente muto. «Dov’è tua figlia?», chiede. Capisce che sua moglie può vivere solo così, nel recinto della villa come in un acquario. È come quei pesci d’acqua alta che riescono a vivere solo a grandi profondità sotto la pressione di molti metri di mare. Se li porti in superficie, scoppiano liberando viscere e acqua salata. «Nostra figlia sa badare a se stessa». Ha otto anni, pensa lui e gli dispiace di non provare niente per lei. Immagina la gente che invade la casa come un fiume che perda gli argini. «Chiama la polizia, ho detto». Con un gesto fa scivolare il caftano. Il corpo di lei appare, lucido come la pelle nuova di un serpente. «Non darmi ordini». Immagina di chiudersi il cancello alle spalle per l’ultima volta. «Chi vuoi chiamare in quello stato?». Nel silenzio opaco del primo pomeriggio solo il ronzio degli insetti esiste. La bambina entra nella piscina ormai torbida di terra e di foglie corrotte. In assenza del fondo quell’acqua non le fa più paura: è viva, accogliente. La bambina prende un respiro e si spinge in basso. Presto la superficie si richiude su di lei e le foglie nascondono la luce e frammenti di cielo. Sul fondo qualcosa risplende. Sono i bracciali di sua madre, scintillanti e muti. Sono gli occhi spaventati di suo padre. Sono bottiglie vuote una sull’altra a centinaia. Di sopra Said si abbottona la divisa e osserva il riflesso dei lampioni spandersi sull’erba. Sua madre contempla la sua immagine stanca in uno specchio. I primi ospiti risalgono il viale in un vociare indistinto. Sul fondo gli esseri trasparenti le nuotano intorno leggeri come libellule poi sono su di lei. Hanno bellissime code di pesce angelo e affondano i denti nella sua carne. Mentre il suo respiro diventa acqua, i loro corpi le sono intorno come una famiglia. 146
la geografia del buio Un viaggio sotto la crosta terrestre, lungo la penisola italiana per scoprire un mondo inatteso, fatto di caverne, voragini cunicoli, meandri, gallerie e fiumi sotterranei: una primordiale fabbrica d’acqua. Il Supramonte è scritto con un alfabeto di calcare. Lettere di pietra coniate da un tempo antico milioni di anni. Interpretate dall’acqua. Recitate dai silenzi di mille e più bocche aperte che si spalancano in vuoti impensabili. Tra tutte Su Palu-Su Spiria è la regina tra i paretoni della Còdula di Luna: un elogio alla pietra dura e nuda; sembra veramente di stare in un canyon lunare. La squadra ha un numero giusto: cinque. Raggiungo l’ingresso. Il rito è sempre lo stesso: mi affaccio, guardo l’oblò sull’altro mondo. Gli occhi rimbalzano nel nulla. Non rubano niente e si disorientano in un cilindro verticale che scivola nel pozzo. Mi gusto la vestizione, con calma: sottotuta, traspirante, imbrago, longes, bloccanti, moschettoni. Inizio la mia nuotata nel calcare. Qualsiasi movimento di braccia e gambe, elegante o di poca grazia, pur di sguazzare nel buio, lasciarsi alle spalle quante più vasche di vuoto possibile e sparire nella pancia di questo mostro che lievita e lievita, sta diventando un Eldorado ipogeo con ambienti forieri di caverne, gallerie e meandri uno dopo l’altro. Vado. Più in basso scelgo la strettoia giusta, me la suggerisce un solletico d’aria. Un salto identico al primo ma meno dispettoso di passaggi stretti. Faccio in fretta stavolta. Entro in una sala dove gli altri mi aspettano. Spaghettata di candide e sottili stalattiti, discesa tra massi, meandro e cunicolo allagato dove ci spogliamo e strisciamo nell’acqua ghiacciata. Ci rivestiamo, passiamo il meandro Pisagà e Su Palu inizia a mostrarsi per quella che è: un colosso. La galleria Alta Loma non è solo alta e larga ma s’atteggia pure con colate a non finire e pavimenti concrezionati da vasche color smeraldo. Pure io nel sogno dei sogni. Pure io a Su Palu che assieme a Su Spiria fanno il complesso carsico della Còdula Ilune che cresce di chilometri ogni anno. L’acqua di un fiume è il nostro faro, ci indica la via da seguire e s’ingrossa nella forra del White Nile. Sto nella pancia di questa fiera, che è grossa grossa, e mi pare di vivere la favola di Pinocchio nella balena di calcare. Ci attacchiamo a un traverso e dopo un salto da venti metri siamo a mollo fino alle ginocchia dentro una forra che sfocia nel Blue Nile, dove un ruggito inquietante annuncia la cascata del lago Sifone, grande e buio da far paura. Perdo il mio sguardo verso il fondo e immagino come potrebbe essere oltre; il Ramo dei Francesi e la Sala dei Ciclopi e tutto il resto di quel caos di chilometri che si chiama grotta di Su Spiria, che è esattamente l’altra faccia della medaglia del complesso della Còdula Ilune. Seguiamo i segnavia, la grotta prende ad aggrovigliarsi con un labirinto di passaggi e poi le dune di sabbia bianca della galleria El Alamein. È su questo terreno soffice che sono stati piantati gran parte dei campi interni per le esplorazioni nelle regioni lontane ore e ore dall’ingresso. Risalgo una frana. Dopo l’ultimo pietrone sono io a impietrirmi. È Lilliput che comincia, è il 147
vuoto più grande della Sardegna che si spalanca davanti a noi con misure che credevo appartenessero solo al cielo: lunga circa un chilometro, larga fino a quaranta metri e alta fino a cento. Il carsismo qui ha compiuto un miracolo biblico, è stato Mosè al cospetto del mar Rosso: ha aperto il calcare come in poche altri parti del mondo. Scaliamo cumuli di massi come colline. Saliamo e scendiamo e qua e là il vuoto si allarga, si stringe e s’impenna in soffitti che non ci sono. Immagino chi qui c’è entrato per la prima volta e si è sbandato, ha sudato freddo e si è saziato di fremiti adolescenziali. Il bello e il brutto è che più andiamo avanti, più tutto s’incasina e iniziamo a non capirci niente perché a questo Lilliput seguono altre mostruose gallerie come Sand Creek, Il Pejote, Terre di Mordor, Zona H e gli infiniti ambienti della Grande Curva e Disneyland. Ci sediamo su un cuscino di argilla, galleggiamo nel buio, fissiamo il nulla. E penso ai recessi lontanissimi di questo complesso carsico che più a nord nella massa di calcare dei Supramontes si spande come un ginepraio verso il Ramo Sud della grotta del Bue Marino, anch’essa estesa e immensa. A completare l’unione di questo puzzle tridimensionale mancano alcuni tasselli, poche decine di metri, che uniscano questi due giganti sotterranei con gli inghiottitoi di Carcaragone e Su Molente. Se gli speleologi sardi continueranno così, dopo vent’anni di esplorazioni il complesso della Còdula Ilune supererà di gran lunga i settanta chilometri… ed è questione di pochissimo tempo. Di ambienti così straordinari all’uomo si parla poco o solo nei casi di spiacevoli incidenti. È inutile negarlo, intorno alla speleologia orbitano dei luoghi comuni, decisamente da sfatare. Quante volte nell’immaginario collettivo, quando si sente parlare di speleologi che s’inabissano per centinaia di metri, si associano istintivi quesiti del tipo: Ma si respira? C’è aria? Ci sono mostri o tesori millenari? Come fate a ritrovare l’uscita? E se una frana sbarra la via del ritorno? In ogni angolo del mondo e d’Italia occhieggiano le porte di un mondo nascosto, fatto di caverne, cunicoli, meandri, pozzi, baratri, gallerie e forre, esplorato dalla speleologia a partire dalla fine del Ottocento. Tra insoliti vuoti, con la fioca luce di un casco ad acetilene, lo speleologo ha topografato, fotografato e studiato in Italia circa 35.000 grotte.
Ci sono due luci che aprono la notte sul crinale. Percorrono la serie dei tornanti con velocità crescente. Mi sorprenderanno qui sull’asfalto, immobilizzato da un terrore anfibio che sento crescere dentro. Piove da ore e il bosco suda un vapore umido che sa di funghi e foglie. Quando piove il mio mondo si allaga. Da monte l’acqua precipita e si gonfia a terra e ciò che non si assimila straripa e scende in fiumi a ingoiare il secco. Ora la sento scorrere tra le zampe palmate, come fossero rivoli di un apparato venoso che mi comprende, fonde il mio corpo che trasuda nell’umidità dell’aria. Quando piove il mio mondo si allarga. La strada si è trasformata in un fiume nero e lucente. Io sto come uno scoglio immobile, quasi incollato, denso all’asfalto. Respiro ma ancora non riesco muovermi, gonfio la gola. Sta arrivando un veicolo. Sfiderò a muso fermo le luci e se mi colpirà almeno sarò subito disciolto nella pioggia, almeno unirò subito il mio sangue rospo alla fonte. Se dev’essere la fine che almeno un fiume mi porti subito a valle, mi faccia rotolare, disperda alla foce i miei umori, giù fino in mare.
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il mio corpo acquatico
alla mia gazzella
Il mio corpo, come quello di tutti gli altri umani, è composto per il 65% d’acqua. Circa, credo. Non mi fido della precisione dei numeri, e comunque la percentuale d’acqua nel nostro corpo varia al variare di sesso, età e altre condizioni meno facilmente nominabili e ancor meno mappabili. La maggior parte dell’acqua nel nostro corpo si trova nel cervello, nel midollo osseo e nel sangue. L’acqua è la vita, c’è poco da discutere e da interrogarsi, le risposte non potranno arrivare. L’acqua è simbolo di vita, perché genera, e allo stesso tempo è simbolo di morte, perché inghiotte e fa scomparire. Si può trattare del mondo inconscio, del nostro sommerso emotivo. Il mondo delle acque. Io, quando penso all’acqua, penso che tutto scorre. A quell’uomo, un grande filosofo, seduto lungo il suo fiume preferito a osservare l’acqua che se ne va. Una bambina una volta mi ha chiesto perché il tempo va solo avanti e non indietro? Come l’acqua, che va in una direzione soltanto. Eravamo di fronte a un ruscelletto sporco nel mezzo della pianura padana, abbiamo guardato l’acqua: andava avanti ma creava piccole controcorrenti e anche dei cerchi. Ci sono i cartomanti e ci sono anche gli idromanti, coloro che interpretano le acque e le sue correnti. L’uomo legge tutto, anche l’acqua. L’alfabeto è lui stesso a costruirlo. Tracce di idromanzia si trovano in Italia, Grecia e Asia Minore. Spesso, per muovere l’acqua, gli idromanti vi introducevano dei piccoli oggetti, come pietre o monete. Gettare le monete nell’acqua è un gesto ancora molto praticato soprattutto di fronte a una certa fontana di Roma. Così gli antichi idromanti hanno lasciato traccia di sé e hanno diffuso la loro pratica tutto intorno. Sognare l’acqua chiara porta sfortuna, l’acqua scura porta fortuna (o viceversa, non me lo ricordo mai, eppure mia madre non fa che ricordarmelo. Mia madre, creatura connessa a tutte le acque dei sogni e anche a tutte le ieromanzie possibili nel XXI secolo). Se sognate l’acqua giocate il 39. Ho sognato il mio orto sommerso: era bellissimo, ricco di coralli accanto ad alberi da frutto, tutto sommerso da tanta mobile acqua azzurra, verde, acquosa, trasparentissima. Osservavo il mio orto sommerso dall’alto, mentre alcuni uomini del mio passato attraversavano il ballatoio e si aggiravano senza posa tra i corridoi e le stanze interne. Io, stupita, rimanevo ferma a fissare quel coloratissimo orto sommerso. Ho sognato una casetta sull’acqua. Era in equilibrio precario su una superficie d’acqua tanto torbida che non si vedeva il fondo, la fine. Preferivo restare nella casa-palafitta, anche se precaria. C’era una cameriera che serviva da mangiare e, come in un café diner americano, riempiva le tazze con bevande calde. Altri uomini e donne del mio passato o del mio presente ma lontani, sedevano agli altri tavoli, intenti alle loro chiacchiere e alle loro bevande calde. Le candele che illuminavano l’interno della palafitta con la loro luce rotonda, piccola e calda erano confortanti per me. Puntini luminosi. E se 149
guardavo fuori dalla finestra, solo torbide acque agitate. Pensavo alla morte. Sono andata a trovare Gaia. Il 27 gennaio scorso le hanno fatto un trapianto di midollo, perché il suo cancro al sangue non si calmava. Gaia deve bere almeno 2 litri di acqua al giorno e prendere cell cept rantitdina deltacortene aciclovir noxen… Gaia non ci vede bene, perché dopo il trapianto ha avuto un edema cerebrale. La giornata scorre preparando dosi di pastiglie per le ore a venire. Di blister in blister Di scatola in scatola Di ora in ora Gaia ha sognato anche lei la palafitta con l’acqua sotto. «Era il mio sogno ricorrente quando ero adolescente». Chissà cosa vorrà dire, ci si chiede ogni volta che si parla dei sogni. Forse aveva ragione Cidrolin, nei Fiori blu, a dire che parlare dei propri sogni è come parlare della propria cacca, per cui non sta bene, non si fa. Faceva bene, Cidrolin, a zittire Lalice quando provava a raccontare qualche sogno. La prossima volta che sogno l’acqua ci lancio un sasso dentro e vedo cosa succede. Dove è finita l’acqua che cercavo? Dove è finita l’acqua di Gaia? Quale acqua le appartiene adesso? Cosa si trasforma mentre si nutre di pastiglie e cerca di accettare il suo midollo nuovo e far sì che il suo midollo nuovo accetti lei? Basta un organo sano per riportare la salute in un organismo malato? No, questo lo sanno tutti. Però quello che curiamo è il solo organo malato, non l’organismo intero. Sostituiamo un organo malato con uno sano. Come si sostituiscono le ruote bucate o la frizione nelle nostre automobili. Ci cambiano i pezzi. Ma mica siamo fatti di pezzi noi. No, noi siamo interi. Perché l’uomo ha bisogno della divinazione? C’è tutto un universo di senso sommerso dentro, per il quale non si trovano parole, non esistono parole. Allora guardiamo fuori di noi, che tanto siamo immersi nel mondo, e l’acqua e il cielo e le piante parlano sempre di noi, comunque. Neanche dall’acqua, dal cielo, dalle piante e dal pozzo siamo separati. Non possiamo guardarci negli occhi se non attraverso l’altro. Per questo l’altro ci è necessario. Possiamo anche guardare la nostra immagine riflessa. In uno specchio, o ancora prima nell’acqua. E in questo caso il mito ci ammonisce: non vi innamorate di quell’immagine, non siete voi, quell’immagine è la morte. Pluff. Narciso cade e annega, non sa nuotare. Neanche io so nuotare, tutt’affatto, ma questo inverno ho preso lezioni. La prima sera ho sbagliato strada e sono rimasta a osservare tutte quelle persone tanto a loro agio nell’acqua, da fuori, senza entrare. In mezzo alla neve, con la neve che continuava a cadermi addosso. La piscina è una struttura interamente costruita con vetrate trasparenti. Mi sembrava di osservare un acquario, eppure il pesce nella bolla ero io, rannicchiata nel mio piumino bianco, lo zaino sulle spalle con il costume le cuffie gli occhialini nuovi, e una sigaretta perennemente spenta tra le dita fredde. 150
Il secondo giorno sono entrata in piscina, ho messo il costume la cuffia le ciabattine e gli occhialini, ma non sono entrata in acqua. Ero terrorizzata. Il segretario dell’associazione non si aspettava fossi un caso tanto disperato, e si è spaventato anche lui. Io ero tra il riso isterico e le lacrime, incapace e rigida. Eppure consapevole che si trattava della cosa più ragionevole del mondo. È naturale, tutti nuotano, tutti sanno nuotare. Ho trent’anni, e fino a pochi anni fa non lo confessavo a nessuno di non saper nuotare, perché se per caso veniva fuori, ero subito esclusa da tutta una serie di sane attività sociali, e le reazioni non erano mai neutre, ma sempre tra lo stupefatto il meravigliato e un qualcos’altro: mi sentivo guardata in modo diverso, come se mi si palesasse tutt’a un tratto la mia diversità. E non era una bella sensazione. Era un po’ come se avessi confessato: «Non so respirare». È una sorta di inibitore sociale; secondo me, uno che non sa nuotare lascia immaginare tante storie dietro questa sua incapacità; forse tutti cominciano a chiedersi “E allora dove passava le vacanze da piccola?”, e forse cominciano a inventariare inconsapevolmente tutti i loro ricordi acquatici, e non riescono a immaginare altri modi per riempire quelle giornate. Le vacanze al mare, le domeniche in piscina con gli amici… E quando uno non sa nuotare, cosa fa quando va al mare? Il segretario dell’associazione di sub si è messo la muta, si è tolto gli occhiali da vista e mi ha fatta entrare in acqua. Mi teneva, nella mia rigida paura, nella mia paralisi. Non era per niente a suo agio. Amo l’acqua. Starei ore a guardarla e a toccarla. Quando vado al mare mi sento una bambina di due anni. Mi eccita l’acqua. Ma non riesco a staccare i piedi dalla sabbia. Non riesco ad accettare che il mio corpo assuma posizioni diverse da quella verticale, non accetto di mollare il controllo, di farmi trasportare e sostenere da questo elemento liquido. La amo, ma perdo l’equilibrio, in acqua. Alla fine della lezione mi si avvicina un tipo sui 35 anni, con gli occhi azzurri e un ciondolo a forma di pinna. Mi prende entrambe le mani tra le sue. Stupisco, e sulle prime penso che forse vuole trascinarmi in acqua. No, vuole solo tenermi le mani. La settimana successiva scopro che lui, Andrea, ha deciso di seguirmi. Gli piacciono le sfide, mi dice. Sono felice e piena di gratitudine. Di solito le persone che hanno paura dell’acqua non sopportano di mettere la testa sott’acqua, non sopportano l’acqua nelle orecchie, non riescono a regolare il respiro e ad aprire gli occhi sott’acqua. Non è il mio caso. Quello che io non riesco a fare è staccarmi. Dalle mani di Andrea, dal bordo della piscina, dalla sabbia quando sono al mare. Staccarmi e basta, dovrei. E rilassarmi. Ogni tanto mi lascia a galleggiare da sola e io grido, o mi aggrappo alla sua muta. Poi, come sempre, rido istericamente. Ma faccio tutto quello che mi chiede, ogni esercizio, ogni piccolo passo. 151
E lo ascolto. Andrea mi ricorda che Dumbo ha imparato a volare quando il corvo gli ha dato la piuma magica. È tutto lì: devo solo trovare la mia pinna magica. Il corpo sa già nuotare, sono io che glielo impedisco. Andrea non mi lascia dire che non ce la faccio, che non ci riesco. O meglio, me lo lascia dire, ma solo per aggiungere «Non è vero. Perché lo dici? Vedi? Ce la stai facendo o no? E allora? Basta, staccati da queste stronzate, ti racconti delle bugie e poi ci credi». Aiutata da Andrea ho percorso pochi metri (forse sarebbe il caso di contarli in centimetri, che sembrerebbero pure di più), e sempre aiutata da un supporto esterno che mi sostenesse. I momenti peggiori erano sempre quelli in cui sentivo che il mio corpo si doveva adattare all’equilibrio acquatico. Rilassati, mi diceva Andrea, senti l’acqua. Sentila sul tuo corpo, toccala. Un’ora mi sembrava sempre troppo poco; dopo avevo ancora tanto bisogno di acqua, che facevo docce di mezz’ora. Uscivo piena di energia in una Torino periferica innevata, prendevo due autobus e alla fine ero a casa, ancora piena di energie, di voglia di fare, di creare. Poi un lunedì sera, circa un’ora prima della lezione, il segretario, quello che era sceso in acqua con me la prima volta, mi chiama con una voce da funerale. Mi dice che il consiglio ha deciso che io non posso andare più. Che Andrea si deve allenare per le gare di apnea, e poi deve aiutare i nuovi apneisti e stando con me perde tempo. Eh già mica sono i servizi sociali, è un’associazione che si chiama Agonismo Sub Torino1. Mea culpa. Il segretario, Marco, e Andrea, il mio maestro, hanno insistito tanto, ma non sono riusciti a convincere questa entità superiore, dotata di potere decisionale inappellabile e inalienabile, chiamata “il Consiglio”. La gente che non sa nuotare è decisamente antieconomica nei corsi di agonismo sub. Io ancora di più, perché Andrea e Marco non hanno voluto che pagassi niente per le lezioni che mi hanno dato. Ci avevo messo trent’anni a decidermi. Sto ancora elaborando il lutto e non ho ancora trovato un’altra piscina. Mancherebbe il maestro. Non so se tutti i maestri di nuoto si rendono conto di quanto sia difficile vivere in un corpo fatto d’acqua senza saperlo usare. Andrea ama talmente tanto l’acqua che ci sta male a sapere che ci sono persone che non riescono a godersi questa energia. Mi aveva anche trovato un compagno, Emilio, inetto acquatico over 40 che aveva deciso di battere la sua paura perché era appena diventato padre. E in quanto padre, non poteva permettersi di non saper nuotare. La confidenza con l’acqua la doveva a suo figlio. Chissà se Emilio ha trovato un altro corso di nuoto.
1 Per maggiori informazioni, se non siete degli inetti acquatici ma persone che intendono andare ancora più a fondo nella relazione con l’elemento liquido, vi invito a visitare il sito http://www.agonismo-sub-torino.it/.
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le briglie del mondo, l’Alzheimer e il valore di un Kinder Bueno Le persone anziane hanno i capelli bianchi e la bocca sempre aperta. Quando fa troppo caldo, spalancano la bocca per accogliere più aria nei polmoni. Quando vengono stupite da un evento improvviso, aprono la bocca in cerca delle parole che possano catturarne il senso. Le parole sono le briglie del mondo, ché altrimenti si esaurirebbe nell’esperienza. Così domenica scorsa ho deciso di esaurirmi, scrollandomi di dosso quella ragionevolezza che fino ad allora aveva sospinto ogni mia azione. Dopo una notte insonne ho deciso di andare in chiesa, per assistere alla celebrazione liturgica del mattino. Durante l’omelia me ne stavo rinchiuso nel confessionale a fumare sigarette, convinto che se Dio è etereo come il fumo, almeno avrei potuto aspirarne una nuvola dentro me. Quando esco dalla chiesa è mezzogiorno e il sole cade a picco sulle nostre teste pelate. Il parroco vaga tra i fedeli, ricordando di non mancare all’appuntamento infrasettimanale per la raccolta dei fondi a favore delle vittime dell’inondazione. Infatti, dopo un diluvio durato un’intera settimana, il fiume è straripato, trascinando via con sé le casupole assiepate a ridosso degli argini. I poveri disgraziati che abitavano a valle sono stati costretti a trovar rifugio nelle grotte scavate in cima alla collina, lungo il cui dorso si sviluppa il nostro piccolo paese, cinto e separato dal mondo esterno da una fitta e intricata boscaglia. Sciami di anziani mi ronzano attorno, come le metafore nella testa dei poeti. Ma siccome non sono un poeta, l’unico bisogno che avverto è di natura pruriginosa: ho bisogno di scopare, ho bisogno di espellere il mio seme. In fondo Dio s’è manifestato sulla Terra per mezzo di un seme, accolto nel ventre di Maria. Qui Maria è una ragazza che fino a poco tempo fa si prostituiva lungo le sponde del fiume, riparata da una tettoia di alluminio ondulato, sotto la quale aveva sistemato un materasso e un tavolino fatto di cartone, il cui piano d’appoggio consisteva in uno specchio opacizzato dal tempo: sosteneva che in quel modo i pasti potevano raddoppiarsi, ponendo così rimedio alla scarsità di risorse a cui era stata costretta negli ultimi dieci anni. Maria ora non aveva più una casa dove alloggiare, il fiume se l’era portata via. Oramai pesava poco più di trenta chili, e neanche i malati di poliomelite se la scopavano più. Addirittura un giorno l’hanno pagata con un Kinder Bueno, tanto era deprezzato il valore del suo corpo. Raggiunta la grotta in cui s’era rintanata Maria, le dissi: «Maria vorrei fare l’amore con te». «Tu vali più di un Kinder Bueno», aggiunsi. Mentre le sussurravo queste parole all’orecchio, lei era distratta dal borbottio del fiume. «Maria, tu vali più di un Kinder Bueno, mi hai capito?». Maria assume gli psicofarmaci per starsene tranquilla. Le ho chiesto se avesse voglia di raccontarmi la storia più cruenta che le fosse mai capitata, nella speranza che trovasse le parole giuste per giustificare i lividi che 153
le macchiavano il collo e le braccia. «Maria, dimmi qualcosa di te». «Tu sei un vecchio di merda, l’Alzheimer ti ha fottuto il cervello», dice Maria. Maria è molto dolce, ma a volte riesce a ferirti più delle punture d’insulina che faccio ogni mercoledì. Maria, quanti anni hai? Maria, perché non mi rispondi? Questo è quanto le ho detto prima di raccogliere il masso su cui ero seduto per poi scagliarglielo in testa. Maria tu valevi più di un Kinder Bueno. Una dozzina di mosche stava già succhiando il sangue che fuoriusciva dalla frattura del cervelletto, spaccato in due come una mela. Ad esempio alcuni s’illudono che le persone innamorate siano due metà di una stessa mela. Allora ho preso un ramoscello d’abete e l’ho appuntito strofinandolo su una pietra. Ho rivoltato il corpo esanime della donna e l’ho squarciato in due come una mela. Le ho tolto le parti molli, disossandone la cassa toracica. Le ho strappato il cuore che ancora pulsava, aveva il ritmo della primavera. Dopo aver sventrato quel corpo per intero, ho reciso le estremità delle dita e ho steso il corpo al sole, per farlo asciugare per bene. L’unica cosa che mi veniva in mente era che Maria valeva più di un Kinder Bueno. Così poco prima che calasse la sera ho raccolto quella pelle ormai rinsecchita e mi ci sono infilato dentro. Una volta indossato il suo corpo, ho provveduto a riallacciarne le due estremità che lo tenevano aperto dietro. Poi mentre ringraziavo Dio per avermi manifestato il suo significato attraverso l’esperienza della scelleratezza, mi sono chiuso a riccio e sono rotolato a valle. Ricordo soltanto di essere caduto nel fiume con le braccia e le gambe tutte indolenzite. Il fiume ora era calmo, qualcuno lo avevo sedato. Quando esco per ripararmi dalla corrente e rifugiarmi lungo la riva, tre vecchi con la bocca spalancata continuavano a fissare inebetiti il mio seno annerito dal rigonfiamento dell’acqua. Grazie a Maria, ora vivo due vite: una da Dio, l’altra da uomo.
(3 piogge) all’una e trentasette di notte di facce su via Ricci ce ne sono quattro tra cui io e Andrea al 36 dopo il TG regione lei di fianco detta “la vecchia” è inferma “quanto piove” davanti il ragazzo nudo alla vita schiacciato il torso alla finestra braccia in alto sopra la testa come 154
guardiamo guarda guarda s’arrende alla pioggia condensa a contatto col vetro “acqua in centro Italia” fa il meteo * G. la visualizza sotto forma di stanza sigillata – sostiene lo psicologo in reparto – adesso che l’unica membrana è il dormiveglia. cos’è l’aria che parla nelle tende. scende alle due di notte, luce gialla nebulizza dal lampione, la persiana battente quasi branchia necessaria. quasi lacerarle vuole. o la morfina o fuori ma non è stagione di luoghi. ripara, prepara un lento tè durante il temporale. * vicino al lunedì ce n’è uno vuoto di ore, tutto specie eccitate e contemporaneo niente, mancante minore lo sguardo fa da filtro all’estraneo delle cose per esempio fermo in fila di semaforo solo il “piove”
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Bormida e altre acque Il mondo in cui nasciamo lascia cadere in noi stelle che danno poi la posizione a tutto. Per quelli della mia generazione cresciuti a ridosso delle metropoli, nell’acqua illustrata dei libri di scuola, fiumi ghiacciai oceani baie, risuonava ancora quella potente delle rogge, sciabordante sulle chiuse, sotto il pelo dell’erba, misteriosa, opaca, con un rullio di trecce e festoni trasparenti, in superficie, spessi come una corteccia. Non è stata però solo questa, per noi, l’immagine originaria dell’acqua. I canali di irrigazione erano a un passo dal veleno e dall’incanto dei torrenti incendiati dagli scarichi delle fabbriche, che spostavano nella loro corsa un carnevale di colori, un arcobaleno che neanche la benzina nelle pozzanghere, neanche i fuochi accesi sopra materia sintetica… Ho scritto un romanzo prendendo spunto dalla vicenda di un’industria di coloranti che inquinava nel canavese. L’idea è nata da fotografie di una rivista che hanno fatto risuonare altre immagini che da sempre erano dentro di me. La descrizione delle acque di un fiume vicino alla fabbrica che si gonfiava di schiume turchesi o bluastre o rosse come sangue, a seconda delle lavorazioni, ha richiamato subito i torrentelli di vernice e benzene che correvano tra sponde senza erba verso Milano, verso il mare. Anche quel fiume che con il suo nome evoca ancora oggi la rovina della natura, la trasformazione dell’acqua in materia letale, tanto che i pesci ci mettevano meno tempo a morire in quell’acqua che buttati all’asciutto, quel fiume diavolo che arrivava a valle, verso Acqui, con la gente che da sotto lo guardava incombere come una belva ciclopica, scrutando le sue schiume e i suoi fumi, chiedendosi: di che colore sarà, oggi? – quel fiume il cui nome dice morte, pericolo, meraviglia della contronatura, ha risuonato dentro di me legandosi a quel rigagnolo che da bambini sfioravamo in bicicletta, il cui piccolo nome indicava la stessa cosa: non più fiumiciattolo, affluente di questo o quel fiume grande della cartina geografica appesa in classe. Diceva fucilata sparata via da qui, verso altri cieli, verso l’ignoto, verso quel mare che chissà come era in grado di assorbirlo senza morire. In quegli anni prati e fabbriche erano spesso sinonimi. La terra era ricoperta da una vegetazione mutante. Nonostante questo alcuni si ostinavano a coltivare orti abusivi o a mandare avanti aziende agricole che sembravano, nelle spianate, solitari guerrieri rintronati dalla sconfitta. Ricordo che un giorno, non molti anni fa, mi è capitata una cosa che, dopo un momento di sbalordimento e di scavo, mi ha riportato a quei tempi in cui natura e disastro si mescolavano attorno a Milano in modo spesso inscindibile. Andavo in bicicletta chissà dove e per far prima avevo preso per certi sterrati e straducole che fiancheggiavano la provinciale. Per strada non c’era nessuno, nemmeno tra i palazzi. Aveva piovuto da poco. L’asfalto mescolava il suo odore a quello della terra vicina, che aveva preso la prima vera acqua dopo un’estate terribile. Nei fossi allagati galleggiavano plotoncini di rottami. Il sole stava riprendendo a bruciare la strada, ne avevo un bel pezzo da fare. Era quasi sera ma la luce arrivava ancora 156
forte tra le tolle e gli stracci che costeggiavano la pista su cui stavo procedendo. Legni, rottami, avanzi di giornale, barattoli. La stanchezza mi aveva quasi completamente sgonfiato. Partito di buonumore, un po’ alla volta ero planato con il mio bimotore nel regno dell’immondizia, filavo anch’io rasoterra con i rottami, ogni tanto davo pedate alle lattine, alle bottiglie. Se mi avvicinavo troppo alla provinciale, il fracasso degli autotreni copriva ogni altro suono, sembrava di stare sopra un ordigno pronto a esplodere. Vrumm! Via la buccia. Squartamento. Scossi dal risucchio dei camion, si sentiva la possibilità dello squartamento battere sottopelle. Ormai andavo molto adagio, un po’ la fiacca, un po’ le buche e la strada accidentata. A un tratto ho visto, due passi verso il prato, uno straccio grigio che si muoveva. Lento, sbattuto dall’aria. Ha tirato su il muso e mi ha guardato. Mi sono fermato. Aveva perso pelo, qua e là affioravano macchie di carne biancastra. Gli occhi li ricordo ancora, erano profondi, non si volevano spegnere, mi guardavano fisso. Erano come quelli di certi vicini che incrociavo di sera sull’ascensore, appoggiato contro la parete li osservavo nello specchio mentre la gabbia saliva con una lentezza mortale. La loro giornata si racchiudeva in quello sguardo, come uno sbuffo di cenere assorbito dalle palpebre. Questo gatto ha la schiena spezzata, ho pensato. Forse era lui a guardare me, chissà, come un miracolo nell’abbandono di quel posto. «Bello, vieni qui, lasciati accarezzare, le cose stanno proprio così», ho detto avvicinandomi ma, quando sono stato a un passo, lui è rotolato dall’altra parte dell’immondizia ed è sparito nell’erba. Non riuscivo a andarmene. Ho detto ancora qualcosa ma il rumore del traffico copriva la mia voce. Ogni tanto passava un tir con il suo lento risucchio di astronave. Avevo visto poche cose così tremende. Eppure era come se non fosse la prima volta. Come se quel gatto ce l’avessi avuto tra i piedi in un’altra vita. Dopo un po’, persa la speranza di arrivare a qualcosa standomene lì a fissare il punto in cui i rifiuti l’avevano inghiottito, mi sono rimesso a pedalare. Qualche centinaio di metri più avanti, quando forse stavo già pensando a altro, mi sono ricordato tutto. Ecco cosa. Da bambino abitavo in una vecchia corte che era come un fortino. Di sera non era facile camminare sullo sterrato che faceva da cortile. La luce della lampada che sovrastava gli ingressi delle case bastava giusto a illuminare la porta, colando come l’albume di un uovo rotto. Il cortile era fatto di buche e sassi e pietre che uscivano dalla terra come uncini. Con il buio diventavano trappole che bisognava tastare attentamente con i piedi per procedere senza incespicare. Il buio arrivava subito, forse prima che dalle altre parti del quartiere, come se la luce delle strade asfaltate che circondavano la corte, che saliva con vampe buone oltre i suoi tetti, non facesse che rendere ancora più denso il nero che avvolgeva le nostre case. Era facile, tornando dal gabinetto, inciampare in una grande ruota di cemento sotto cui scorrevano le acque di un canale che lì diventava fogna. I gabinetti erano sul fianco di una cascina, una fila di gabbiotti di cemento con il 157
tetto spiovente e la porta di legno. Il nostro era pulito, mia madre lo teneva bene. Ne ho ancora un ricordo preciso e lontano nella preistoria della mia infanzia. La traversata del cortile, il buio, la solitudine. Dentro c’erano una lampadina, la turca, un lavandino e il secchio con detersivi e strofinaccio. Per ripetere l’avventura delle tenebre nel cortile e della latrina solitaria affondata nel silenzio della notte, con l’aria fredda che entrava da sotto la porta di legno, anche quando non ne avrei avuto più bisogno per un po’ ho continuato a andarci. Era diventato solo una specie di un rifugio dopo che gli uomini delle diverse famiglie avevano costruito bagni abusivi nelle case, con gli scarichi che arrivavano, a due a due, in un unico pozzo nero. Le latrine del cortile, tranne quelle dei vecchi, che continuarono a servirsene senza sentire il bisogno di cambiare qualcosa nelle loro case, vennero presto abbandonate. Sui loro tetti i bambini si arrampicavano e giocavano. Le acque del canale continuavano a scorrere sotto la grande ruota di cemento che era in fondo allo slargo centrale della corte e solo di rado veniva toccata dalle nostre partite di pallone. Nel silenzio della notte si poteva sentire il loro suono. Un giorno vidi una donna scoperchiare la botola al centro della ruota di cemento e gettarci, con naturalezza e pochi commenti, come se fossero vecchi stracci o carta o un fascio di erbaccia, i piccoli che erano venuti dalla figliata della sua gatta. Fermo a un passo da lei, ero rimasto meravigliato a guardarla. La donna mi sorrideva e allungava verso di me i gatti come per farmi vedere una cosa bellissima. Poi li ha lasciati cadere di sotto. Ricordo ancora bene che in quel momento mi sono chiesto se davvero là in fondo dovessero morire, cosa che lei dava per certa. Non mi sembrava possibile. Da quel giorno la botola divenne per me qualcosa di misterioso, come l’apertura verso un mondo parallelo. Nei lunghi pomeriggi oziosi dell’estate ogni tanto mi imbambolavo a guardarla e a fantasticare e a pensare al canale oscuro che filava sotto di noi, dove forse i gattini non erano morti perché l’acqua se li era presi con sé, come qualcosa di più grande prendeva in sé e salvava il torrente giallo e rosso e verde delle benzine. Quella corsa di acque che nel buio della botola avevo intravisto nere, veloci, quelle acque ora sembravano essere l’elemento primario, il più vasto, un flusso potente sopra cui il cortile e le case e le nostre vite erano adesso la cosa minima, una semplice crosta in equilibrio sulla vastità immensa della corrente, chissà come ferma, chissà come integra con lve sue leggi e i suoi sogni di permanenza.
I tuoi occhi neri. Oggi, hanno il colore del mare. Ti ho tagliato i capelli e la barba. Non ti assomiglia più la foto all’entrata di casa. Sto lasciando scorrere la tua voce tra gli alberi. La mattina siedo indolenzita alla finestra. La notte precipito in un torrente secco, in un letto di ciottoli e sassi. Chilometri senza una foce. Chilometri che spogliano di foglie e di rami, che scorticano. Fino alla chiara durezza che aspetti. # 158
dopo la pioggia, l’amore Piove su tutto, ormai da dieci mesi. Piove come la disperazione del mondo, piove come le lacrime conservate da quando è iniziato il tempo, e subito dopo una tristezza universale. Senza dubbio, questo pianeta è fatto per l’uomo, e l’uomo è fatto per lui. Adesso che tutto piange, si versano perfettamente l’uno nell’altro. «Dieci mesi e sette giorni, per la precisione» «Che fai, li conti?» «Tu no? C’è un’aria da fine del mondo» «Quella vaga brezzolina di nulla. E deve proprio finire piovendo? Dove sta scritto?» «Una fine vale l’altra» «Ho motivo di credere che i pesci se la caveranno» «Che importano i pesci, se il mondo finisce?» «Appunto, non finisce: sarà un mondo di pesci, senza pescatori» «Non se ne accorgeranno neppure» «Embè?» «Il mondo non finisce se qualcuno non se ne accorge. Serve la perdita, non so se mi spiego…» «Guarda che se proprio deve, sarà la fine del mondo, non di un amore. Non ti agitare. Le cose finiscono, e anche il contenitore delle cose può finire» «Io dico che se muoiono tutti gli uomini, il mondo finisce. Noi adesso sappiamo che c’è, temiamo che non ci sia, e a un certo punto moriremo uno a uno, e uno a uno inizieremo a capire che sta finendo» «Mettila come vuoi, vuol dire che quella sera non andremo al cinema» «Tu non vuoi mai andare al cinema. Non ci andiamo da tre anni, sei mesi e cinque giorni» «Certo, ma quella sera avrò un buon motivo. E non dovremo litigare. Cara, da quant’è che conti tutto?» «Da quando ti ho sposato. Mi è venuta una vera ossessione» «E perché mai, colpa mia?» «Hai fatto un’ora, quindici minuti e trentuno secondi di ritardo, al matrimonio» «Forse ti è venuta prima del matrimonio» «Forse. Cosa mangiamo stasera?» «Non lo so, prendo la canna da pesca e vediamo cosa passa sotto la finestra» «Attento a non prendere ratti» «Sì, cara» «E attento a non prendere la moglie del vicino» «Quante storie, gliel’abbiamo restituita tutta intera. Si è incazzato troppo, quello è pazzo» «Tu la stavi mettendo in pentola» «Mi sembrava un pesce nuovo» «Di che tipo?» 159
«Un Pesce Stronza. Prima che iniziasse a piovere, quando ancora uscivamo di casa, appena andavi via con le amiche lei si presentava alla porta. Mezza nuda» «Quanto mezza?» «Nuda al cinquanta per cento, lo sai che è una persona precisa» «E tu? Ne hai approfittato?» «No, non l’ho mai mangiata» «Altro?» «Altro cosa?» «Sesso» «Niente sesso, non mi accoppio con i pesci» «Ma era prima della pioggia» «Ma lei mi è sempre sembrata un pesce» «Quindi, con quante donne mi hai tradito?» «Non saltiamo alle conclusioni. C’è il finimondo e non abbiamo ancora mangiato, ne parliamo dopo» «Allora mi hai tradito» «No, non ti ho tradito. Ma voglio raccontartelo io» «Cosa c’è da raccontare, se non mi hai tradito?» «I dettagli del nostro amore. Tiriamo le somme, prima che l’acqua ci arrivi al naso» «Allora mi hai amato» «E che cazzo!» «Secondo te finirà mai?» «L’amore?» «La pioggia» «Certo, non so se finirà prima o dopo del mondo. Almeno il mondo di cui parli tu. Serve la perdita, hai parlato chiaro. Il mondo dei pesci si salverà, almeno per un po’» «Allora lascia perdere la canna da pesca» «Vuoi salvare la vicina?» «Voglio fare l’amore. Il tempo è prezioso. Il tempo fugge» «Di fronte a voi, anch’io me la darei a gambe» «Noi chi?» «Voi tutti tranne i pesci. Ma compresa la vicina» «Non sei felice che moriremo insieme? Uno accanto all’altra» «Beh… felice. Sempre di morte si tratta. Morte subacquea. Se ci penso, mi viene una crisi d’ansia. E poi tu russi. Io i morti li ho visti, sembra che dormano. E se dormono davvero per l’eternità? E se russassi per l’eternità?» «Pensiamoci dopo, l’acqua è ancora al secondo piano. Ho sentito i Rosenberg, qualche ora fa, dalla finestra» «E che facevano?» «Annegavano» «Dovremmo avvisare quelli del terzo piano di chiudere le persiane» «Non pensare sempre agli altri. Qui ci sono io, vieni a letto» «Il letto puzza di muffa» 160
«Ci dormi tutte le notti, senza problemi» «Sì, ma io devo dormire» «E, per caso… non devi fare l’amore? Prendilo come un dovere!» «Ci manca solo questa» «Tu non mi ami più» «Non è esatto» «Tu non mi ami più come prima» «Sei sempre così vaga, a che periodo ti riferisci?» «Sto per piangere. Adesso piango…» «Arriva il diluvio» «Sto piangendo, mi hai fatto piangere» «Scusami, sono stressato. Dev’essere la fine del mondo, l’ho presa male» «Chiudiamo tutto e facciamo l’amore» «Cos’altro vuoi chiudere? Siamo barricati in casa» «È tutto così romantico. Noi due soli, fino alla fine» «Beh, sì. Soli, soprattutto» «Potremmo fare un figlio, non l’hai mai voluto. I figli sono la salvezza» «Che grande idea! Magari nasce un pesce, e fuggiremo attaccati alle sue pinne. Ma non abbiamo nove mesi a disposizione. Qualche settimana, forse» «Se non c’è altro, dovremmo fare l’amore. Vuoi un caffè, prima?» «Sì. Caffè e sigaretta» «Senti» «Sento» «E se smettesse di piovere? Che facciamo, ci hai pensato?» «A me va bene così. C’è un’aria che è la fine del mondo» «Ma se smettesse?» «Torniamo a vivere» «Come prima?» «Tutto come prima» «E che differenza c’è?».
Arrivò in una casa abbandonata. Le mura esterne di colore rosso erano percorse da numerose crepe che facevano somigliare l’edificio a un cumulo di terra, un formicaio cubico arso dal sole. Il portone d’ingresso in legno era stato scardinato. Il piano terra era diviso in due stanze. In mezzo si trovava una scala che portava alle camere. Pensò che erano decenni che nessuno percorreva quelle scale. Al piano superiore una finestrella sul pianerottolo illuminava tre porte. Aprì le prime due che rivelarono le camere da letto. Quando arrivò davanti alla terza porta sentì filtrare un lamento dall’interno. La aprì e si ritrovò in una piccola stanza da bagno. Il lamento sembrava provenire dal soffitto. Aprì le imposte della finestra e la piccola stanza fu riammessa alla luce. Tutto era in stato di abbandono, enormi incrostazioni calcaree ricoprivano i rubinetti del lavabo, la piccola vasca con doccino. Si avvicinò alla parete dove muffa e calcinacci disegnavano quella che pareva una mappa del tempo dimenticato. Il lamento era una tenue vibrazione flautata che proveniva dalla vasca dello sciacquone. Da quando tempo sei qui?, disse e tirando la catenella la liberò dalla prigionia. 161
ALDO, ANNI 66
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E. BRADY ROBINSON, ANNI 42
E. Brady Robinson, Blue, 2007
My photographs evoke the split second of time during which one experiences fleeting frames of existence from the window seat of a car, train or airplane. Blue, 2007 evokes the feeling of water, but is in fact, taken from the window seat of a plane over the state of Virginia in the United States.
www.ebradyrobinson.com 163
Bisognerebbe assomigliare alle pozzanghere esistere solo in caso di profondità.
la pastura Che certo questa superficie su cui cammino è terra non ci sono dubbi però il mio è sempre un dubbio mi dico di certo ci sono gorghi e correnti e onde alte fino a togliermi il respiro ogni giorno ma qui ho imparato a nuotare. Di questo non ho paura ma mi succede solo di dove l’acqua è più calma serena quasi a lasciare che io mi permetta fame e sfizio da saziare, quasi per il gusto e il sapore con un mio boccone preso all’amo.
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tra respiro e respiro Ho sempre amato la circolarità del tuffo in apnea, percepita nel percorso tra respiro e respiro. Una intimità profonda e gigantesca, in cui mi perdo attraverso l’acqua. Sono appoggiato su una guglia di granito che si erge stretta e maestosa nel blu del fondale. Sopra di me ci sono trenta metri d’acqua che mi separano dal prossimo respiro. Nei primi secondi ho chiuso gli occhi, dopo la capovolta in superficie. Ancora prima, nei minuti di rilassamento in preparazione del tuffo ho fissato la roccia bianca informe nella profondità, avviluppata nel blu, ventilando lentamente e profondamente, cullato dalla leggera vertigine della respirazione e dal movimento del mare su cui galleggiavo. La dinamica mentale cerca il rilassamento profondo, sfrondando i pensieri e portando l’attenzione sul corpo e sulla distensione di ogni suo elemento. Il ritmo respiratorio, quello cardiaco, dettano la cadenza sino al momento in cui scompare ogni emozione e la concentrazione sul tuffo è totale. Chiudo gli occhi e apro diaframma polmoni e clavicole alla mia ultima inspirazione. Il cuore rallenta immediatamente e durante la caduta il mio pensiero è focalizzato sulle gambe, che a lente falcate mi spingono verso il fondo con le lunghe pinne in carbonio, per contrastare la positività rispetto all’acqua che a queste quote mi porterebbe a galleggiare. Mi concentro sull’afflato che attraverso la glottide aperta mette in pressione i seni, a contrastare il progressivo aumento del peso dell’acqua sulle mie orecchie. Il soffio è costante e dolce e accompagna la mia discesa. Il mio corpo nella caduta diviene liquido e perde la sua centralità. L’aria che ho nei polmoni viene sempre più compressa e ridotta di volume dalla pressione e il mio sangue è richiamato dagli arti per colmare questo vuoto, col processo di blood shift. La consapevolezza mi porta a godere di questa astrazione dai sensi legati alla fisicità corporea, che ora considero solo in termini di rilassamento profondo, sentendomi parte integrata del mare in cui mi sto inabissando. Apro gli occhi e mi trovo nel blu, attraversato dai raggi di sole che penetrano l’acqua per alcuni metri creando fasci stretti in movimento. Senza alcun movimento natatorio la caduta è un fluire immobile nell’acqua. La graduale negatività, creata dallo schiacciamento del neoprene della muta e dalla compressione dell’aria incamerata nei polmoni, dà un forte senso di progressione alla discesa, il cui abbrivio riesco a controllare, gestendo velocità e cambi di direzione o di asse. Gustandomi una diversa dimensione della mia gravità, ammorbidita e ovattata dalla sospensione della pienezza dell’acqua che mi sostiene e in cui mi fondo. L’aria che custodisco subisce l’effetto della variazione della pressione parziale dell’ossigeno e per questo è più ricca e meglio assorbita. Così ogni pensiero negativo sul consumo si allontana regalando sensazioni di estatica dilatazione temporale e profondo benessere. Plano verso la roccia bianca che si staglia dalle profondità e lentamente prende forma. Distinguo nello stato di immobilità del corpo la mano destra, stretta sul calciolo del lungo arbalète in legno steso davanti a me e le caviglie, che modificano le direttrici della mia planata cambiando l’inclinazione delle pinne e 165
frenano la caduta aprendosi a paracadute. Gradualmente il fondale marino si avvicina e ne distinguo la formazione e scelgo come approcciarmi, virando e avvitandomi su me stesso. La guglia si erge su di uno strapiombo verso il blu, tutt’intorno. Non ci sono vertigine, paura, perché l’acqua mi sostiene. Mi protegge. Mi dà benessere, trascendenza. Sfoltendo emozioni e pensieri, assorbiti come fossero colori. Filtrando e sfrondando tutto ciò che esuli dal mio tuffo e dalle mie sensazioni di quell’istante. Il fondale in cui entro è vivo. Pullula di vita. Trovo fermento di pesci, movimento di alghe e parazooanthus, ricci, sospensioni, bolle, correnti, termoclini. Lasciandomi cadere lentamente su un lato della guglia mi appoggio disteso sulla roccia e la vita che brulica intorno a quella risalita rocciosa percepisce la mia presenza e mi include. Centinaia di castagnole nere mi avvolgono, aprono il branco alla mia caduta e si richiudono sopra e intorno a me. Altri pesci più grandi si allontanano solitari verso i lati profondi della secca. Altri risalgono dal blu e si avvicinano per vedere cosa io sia e cosa stia succedendo nello spazio da me occupato. Il suono del mare è intenso. Un piccolo fragore amplificato dalla conduzione dell’acqua. Spaesante nella sua forza e allo stesso tempo nella fragilità del suo perfetto equilibrio. Ancora immobile, entro in quello che vedo e faccio parte dell’incanto per qualche decina di secondi. Mi sento mare. Parte integrata di questo fondale. Cacciatore all’aspetto di altri predatori, con due elastici che tendono l’arpione sopra il mio legno. Sento le prime contrazioni diaframmatiche, mi guardo ancora per un attimo ammaliato intorno. Consapevole del mio essere terrestre, ospite di questo ambiente per la sola durata del mio fiato. Della serenità interiore che mi permette di approcciarmi a queste quote. Dell’immenso training mentale, degli affascinanti luoghi della psicologia e dell’emotività. Dell’adattamento fisico alla profondità, così lungo e personale e spesso misterioso. Inarco la schiena e alzo la testa verso la luce e i trenta metri che mi separano dal mio prossimo respiro. Mi stacco dal fondo e risalgo dolcemente, affamato d’aria e bramoso di chiudere la circolarità del mio tuffo.
Filosofica dea liquida che ti apri all’inerzia delle vele è un bene il tuo canto di dolore, io lo ascolto preoccupato. È terminato lo stupore per la scoperta, sei tornata. Già condannata a un eterno schiavismo del pendio ti ritrovi maltrattata da un’umanità prigioniera del disimpegno. Quanta sofferenza nell’essere frullata dalle eliche diesel, microndizzata in 40'' pronta al bollore per accogliere la bustina di tè, depurata e poi insaponata e centrifugata via. In turbina verso il precipizio sullo strapiombo, lì cadi in tutte le tue parti. La gravità ti tiene, è vero ma ti si palesa un’altra gravità quella dell’elemento, una quotidiana reiterazione senza rimorso della violenza. Te ne sei accorta dal soffio ustorio del ferro da stiro, dal lamento delle trappole di PET, dalle tremende accelerazioni cui sei sottoposta nei passaggi di stato. Questo fa l’uomo: piccoli, controllati, sicuri disastri naturali che ti sfruttano protagonista. Da liquida e veicolata in percorsi idraulici, sei cubetto in poche ore nel caldo di agosto e raffreddante d’ogni colata in fonderia e solvente universale. Intrappolata ad esclusivo benefico del buio nei caloriferi, inquinata e percolata, bollita e compressa. Sei un elemento che medita vendetta, una divinità disonorata, irrisa, sfruttata. È il fuoco il tuo principe liberatore, il tuo eroe, è il calore il sole che ti libera da ogni luogo. Che non sia un grande calore a farti evaporare tutta per fuggire da questo pianeta che ti ha gestita, stabilizzata, depurata microfiltrata. 166
cielo, terra e mare Qualche anno prima della crisi che ha colpito l’Islanda nell’ottobre 2008, la capitale Reykjavík aveva deciso di regalarsi un profilo nuovo, un punto di riferimento urbano che la identificasse una volta per tutte, per riscattarsi dalle linee inquietanti e vagamente falliche della cattedrale Hallgrímskirkja: come Sidney ha la sua Opera House e Bilbao il suo Guggenheim, anche Reykjavík voleva un gioiello architettonico che finisse sulle pagine di qualche rivista patinata. Nel 2004 era stata indetta una gara d’appalto per la riqualifica dell’area del porto, una zona nel centro della città che è cresciuta in maniera disordinata e senza seguire alcun criterio estetico: vi fu quindi prevista la costruzione di una sala da concerti con centro congressi annesso, un’opera in grande scala, un blocco massiccio dalle linee imponenti in cristallo e cemento che doveva fregiarsi di una vetrata realizzata da Ólafur Elíasson, l’artista di grido del momento, ma anche garantire i più sofisticati requisiti ambientali e di sostenibilità e un’acustica d’eccezione. Il monolito di forte impatto visivo che doveva incorniciare il waterfront aveva anche lo scopo di fare da scudo contro i freddi venti da nord-est che imperano nelle giornate di sole, ma soprattutto avrebbe dovuto creare un nuovo spazio sociale, un luogo pubblico che sottolineasse il legame tra il centro cittadino e il porto, dove l’acqua interagisse con la terra e puntasse a una sorta di continuità, un doppio filo tra la linea costiera e il mare. Pochi mesi prima della crisi Sjón, uno dei maggiori autori islandesi contemporanei nonché paroliere di Björk, aveva pubblicato sulla rivista letteraria Stína un breve racconto onirico, una sorta di inno a quello che il porto sarebbe diventato.
Storia edilizia Una volta, quand’ero giovane e vivevo di notte, feci un incontro inatteso con una mia coetanea nel giardino delle sculture di Einar Jónsson. Era una ragazza dai capelli fulvi e indossava una giacca gialla, una gonna rossa, le calze viola e le scarpe stringate basse. Era una tipa sveglia, forse si era appena destata, e ho capito subito che tutti e due trovavamo particolarmente esaltante rimanere in piedi per ventiquattr’ore di fila. Era passata da poco la mezzanotte, in luglio, e la luce del giorno indugiava tra le nubi che si libravano sul monte, dall’altro versante della baia. Ci lasciammo condurre dai nostri passi, che ci portarono sulla collina di Þingholt, a nord e a ovest, finché infine non ci ritrovammo sul molo, vicino al mercato del pesce. Era bassa marea, e quando guardammo oltre il molo non ci apparve davanti la calma sciabordante dell’acqua bensì il fondo del mare con il suo giardino d’erbe intriso e seducente. Proprio lì accanto c’era una scala di corda che si poteva calare giù dal pontile. Ne verificammo la lunghezza, e vedendo che toccava la rena la seguimmo scendendo fino al fondo. Quanto tempo siamo rimasti in quel bosco fatato di pilastri e alghe brune che ci accolse, e ci avvolse fragrante e oscuro, non lo ricordo più. Ma ogni volta che i miei passi mi portano in quel punto del porto mi sento pervadere da una beatitudine surreale sapendo che è realtà, e non un sogno, che proprio lì, laggiù 167
nel profondo, passeggiai una volta di notte insieme a una fanciulla sconosciuta. Presto una sala da concerti occulterà quel punto. E non se ne può che dire bene, perché la cornice di vetro dell’edificio rifletterà quello che per sempre rimarrà lo scenario di un incontro notturno inaspettato tra un ragazzo e una fanciulla, a Reykjavík: il cielo, la terra, e il mare. 1
Tale progetto aveva innescato un effetto a cascata: l’area da riqualificare era stata estesa fino a comprendere la piazza antistante il tribunale, con un piano ambizioso che avrebbe dovuto contenere, oltre alla nuova sede della banca, un albergo di lusso da quattrocento stanze, negozi, appartamenti, ristoranti e un parcheggio sotterraneo da milleseicento posti auto; il tutto collegato da passaggi interni che potessero ospitare una fervida vita cittadina nelle stagioni inclementi ma anche garantire un impatto ambientale minimo. Più che un lifting, quindi, si trattava di un massiccio intervento di chirurgia estetica per costruire un volto completamente nuovo alla città. Poi, d’improvviso, il crollo. Con le quattro maggiori banche del paese statalizzate e il tasso di disoccupazione alle stelle, il progetto della banca fu, ovviamente, abortito e la costruzione della sala da concerti, che doveva concludersi entro il 2009, congelata. Alla fine del 2008 sembrava che l’edificio dovesse rimanere un’enorme voragine, un monumento cavo alla follia degli anni del boom. Ma il cemento grezzo esposto alle intemperie si sarebbe deteriorato in fretta, rendendo il cantiere inutilizzabile e trasformandolo in un ricettacolo per senzatetto, hippies e squatter; così lo stato e il comune di Reykjavík decisero di accollarsene gli oneri e di riprendere i lavori, prolungandone le tempistiche, per quanto in un fiorire di polemiche. In un momento di recessione, mentre lo stato effettuava tagli alle scuole e alla sanità pubblica, che senso avrebbe avuto erigere un’esclusiva sala da concerti da 27 miliardi di corone? E poi, con quattro sale da concerti dalla capienza ben superiore all’utenza locale, l’orchestra sinfonica avrebbe apprezzato di esibirsi davanti a una platea mezza vuota? E inoltre: come avrebbe risposto il cristallo, esposto ai venti salmastri che frustano Reykjavík per dodici mesi all’anno, e quali costi di manutenzione avrebbe richiesto? Con un ritardo di tre anni, la sala da concerti Harpa è stata inaugurata nel maggio dello scorso anno. È la sede dell’Orchestra Sinfonica e dell’Opera islandesi, vanta quattro sale da concerti, spaziose aree espositive, sale conferenze, attrezzature di ultima tecnologia, un’acustica senza eguali e una capienza complessiva di milleottocento posti. Con un fitto calendario di appuntamenti, il primo anno parla di un bilancio più che positivo. Per Rowan Moore, che ne ha pubblicato una recensione su The Observer, l’edificio è troppo «disco», ed è «chiaramente il frutto del passato islandese recente, degli anni del denaro facile, e non certo di una nuova austerità. […] Appare fuori posto, come una TV a 46” dentro a una roulotte. Ma ci sono periodi in cui uno schermo televisivo enorme è un buon investimento per tirarsi su, e lo stesso dicasi per gli straordinari cristalli di Elíasson» . Che senza dubbio, per quanto stroboscopici, hanno una loro 1 da Stína, 3: 1, aprile 2008, pag. 6. Traduzione di Silvia Cosimini. Si ricorda che in italiano Sjón ha pubblicato il romanzo La volpe azzurra. Skugga-Baldur, una leggenda islandese, Mondadori, Milano 2006.
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malía: filtrano la luce, la assorbono, la frammentano; è come se la luce abitasse la facciata, piuttosto che rimbalzarvi sopra, e le onde del mare sottostante vi si riflettono conferendo al blocco un senso di movimento inusuale. A lavori conclusi si sono anche spente le polemiche, e gli islandesi oggi hanno davvero un buon motivo per tirarsi su, qualcosa di cui andare finalmente fieri davanti al resto del mondo: alla sala da concerti è stato assegnato il premio per il miglior spazio pubblico nordico da parte del Nordic Architecture Awards di Goteborg, in Svezia.
problema invernale Si scelga una forma, un esagono. Lasciamo scivolare su di un lato un’altra forma, un altro esagono. Come impronte sul marmo ritoccate costruiamo agli angoli figure pavimenti moquette: così la vedo la neve caduta sul muschio: né acqua né ghiaccio stadio intermedio di freddezza che abbaglia: transito.
dormire abbracciati a un tubo Bucur ha delle striature sul collo e sugli avambracci nudi. Dentro ai suoi occhi, nella loro profondità nerissima, è come se nuotassero pesci preistorici. Le luce dei lampioni riverbera sulle striature lievi riflessi madreperlacei, simili a quelli di cui svariano le meduse. Sono segni traumatici, strisce epidermiche sfiancate e raggrumate. Bucur muove la testa a scatti, non sta mai fermo, le cicatrici gli attraversano il collo zigzaganti fino a lambirgli l’attaccatura delle orecchie, simili alle ramature di una pianta rampicante. «Quelle ustioni se l’è fatte una notte, lo scorso inverno. Dormiva nel sottosuolo, abbracciato a una conduttura. Ma la tubatura è esplosa e lui è rimasto ustionato dagli schizzi di acqua bollente e dagli sbuffi di vapore», racconta Ada che lavora per un’associazione per la lotta all’Aids di nome Aras. Ogni notte lei e i suoi colleghi distribuiscono profilattici e siringhe. I casi di Hiv si moltiplicano di settimane in settimana nella metropoli rumena. I funzionari di Aras arrivano con l’autoambulan169
za e i ragazzi e le ragazze si ammassano ai suoi portelloni, ci sbattono contro come fossero falene nella notte che vorticano intorno a una luce artificiale. Il contagio passa per il sangue e i liquidi genitali che ci si scambia accovacciati sul fondo delle strade. L’unità mobile di Aras fa il giro della città tre notti alla settimana e si ferma in piazze, o presso aiuole spartitraffico, intorno ai sottoscala o lungo le vie delle prostitute, seguendo un rotta variabile nell’arcipelago urbano che insegue gli spostamenti di chi vive accampato fra i blocchi di cemento. «Bucur una notte è venuto da noi. Farfugliava qualcosa, balbettava più del solito. Si è alzato la maglietta e, dio mio, ho visto che era pieno di piaghe e di ustioni», racconta Ada che poi aggiunge di aver sognato quella scena per notti. Bucur vive intorno alla stazione di Bucarest, la Gare de Nord. D’inverno scende nei sotterranei, si cala giù dentro un pozzetto d’ispezione e dorme insieme agli altri negli androni che servono per fare i lavori di manutenzione alle condutture e alle valvole del teleriscaldamento centralizzato. Si tratta di un sistema tentacolare di tubi che vena tutta la città, una eredità della pianificazione urbanistica di Ceausescu. Il sistema ormai è fatiscente ed è proprio uno di quei tubi ad essere esploso addosso a Bucur mentre lui lo abbracciava. D’estate, quando invece è caldo, Bucur dorme fra i cespugli di Parcul Goru, i giardini davanti la stazione. È impossibile parlargli, tentare una forma di contatto con lui. Respinge tutti coi suoi occhi infranti dal rancore poi cammina con passo asimmetrico, attorciglia e stende le dita in scomposti ventagli di falangi. Il suo cervello è lesionato dalla droga. È da quando ha sedici anni che vive accoccolato sul cemento, da quando è scappato o è stato respinto dalla sua famiglia. Oggi di anni ne avrà quasi trenta. Una volta a Bucarest si sniffava la colla, adesso i ragazzi di strada inalano alcune sostanze chimiche da due soldi utilizzate per comporre i sali da bagno. Il flash è potentissimo, si fluttua in una realtà riflessa e deformata. Bucur, in fila, riporta una siringa usata ai volontari di Aras. L’ago è ricurvo, la siringa è lercia. Vicino a lui c’è un ragazzo magrissimo con i lineamenti indiani dei rom. È in preda al flash perché parla da solo e il suo monologo scorre via in un eloquio rumeno dolcissimo che stride così tanto con la cappa cinerea tutt’intorno. Una ragazzina ha i capelli corvini, la pelle liscia e olivastra, gli short strappati e le gambe scoperte. È carina, coi lineamenti felini delle zingare. Avrà quindici anni. Mi urla qualcosa ridendo. «Che ha detto?», domando. Ada non vuole tradurmelo. Si tratta di una frase pornografica, una proposta sguaiatamente oscena, mi spiega. Secondo i rapporti dell’UNICEF, un ragazzo di strada su due che vive a Bucarest è di etnia rom. Il numero complessivo di chi vive come un naufrago metropolitano a Bucarest è di 1500 persone, forse 2000. Sono lì dagli anni Novanta. Ci sono anche dei bambini molto piccoli, persino in passeggino. Sono gli abitanti del sottosuolo di “seconda generazione”, i figli dei clochard ormai trentenni. Mentre l’unità mobile di Aras sta per partire, Bucur si siede su un marciapiede. Passerà il prossimo inverno abbracciato a un tubo dell’acqua bollente, sottoterra. Già una volta, mentre dormiva e chi sa che sogni faceva, un tubo gli è esploso addosso spellandolo vivo. Ma questa sera che è caldo e c’è l’afa Bucur si accovaccerà in un cespuglio.
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dentro l’acquario di internet l’ipertesto, la rete e il flusso Anni fa, nel momento in cui iniziò ad avere un certo respiro il dibattito sugli ipertesti digitali, la caratteristica sottolineata con più enfasi era senza dubbio la possibilità, per mezzo dell’architettura basata sui link, di produrre narrazioni non lineari, plurime e concorrenti. Sappiamo che la concezione di narrazioni non lineari è precedente a quel dibattito e non dipende dalla mera diffusione del digitale: nel corso del XX secolo, infatti, sono apparse a più riprese narrazioni riconducibili allo stesso modello (da Il gioco del mondo di Cortazar a La vita, istruzioni per l’uso di Perec, da Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges a Il castello dei destini incrociati di Calvino, e così via). Tuttavia, a fronte della linearità comunque imposta a quelle opere dal supporto cartaceo, è soprattutto con gli anni Novanta, a fronte della diffusione sempre più capillare delle nuove tecnologie digitali, che la possibilità effettiva di realizzare dei cosiddetti iper-romanzi sembra raggiunta. In questo senso, una data chiave è quella della pubblicazione, nel 1990, di Afternoon, a story di Michael Joyce, considerata la prima opera di fiction ipertestuale. Negli anni successivi, tuttavia, la vicenda degli ipertesti non è stata particolarmente fortunata e, dopo una rapida fioritura, è passata altrettanto rapidamente a una fase di stagnazione, forse scontrandosi con il fatto, non certo secondario, che per quanto il supporto digitale introduca la possibilità di una produzione multidimensionale, la fruizione che lo human device permette rimane comunque sequenziale. E così, per quanto fosse ricca di suggestioni estremamente interessanti, quella stagione ha visto un esaurimento talmente veloce che non ha permesso di portare avanti un discorso più ampio dell’iniziale riconoscimento della multidimensionalità (a cui si affianca la cosiddetta multimedialità). Non si è mai rilevato, per esempio, che il maggior elemento di novità (quello, per altro, che permette di produrre le narrazioni multiple a cui si tendeva) è l’introduzione, all’interno di un oggetto così complesso come il documento, di una separazione radicale tra il contenuto, che il documento mantiene, e l’interfaccia, che permette di accedervi. In altri termini, la vera novità che il testo digitale porta con sé consiste nel fatto che l’interfaccia che permette di fruirlo non è fissa né concreta, come nel caso del libro per esempio, ma è virtuale, simulata e viene generata in funzione della singola lettura. Al di là delle implementazioni specifiche, infatti, un documento digitale si basa fondamentalmente su un insieme di contenuti e su una serie di elementi e regole per la loro presentazione sullo schermo. Mentre un libro è tale anche prima di essere letto, un documento fruito via schermo viene generato nel momento esatto in cui viene richiamato per la lettura. La dimensione ipertestuale, per così dire, si riassume in questa simulazione, che è lo stesso documento che abbiamo di fronte, in grado di produrre una sintesi virtuale tra elementi separati e discontinui. 171
In prima battuta, questo tratto sembra un particolare di secondaria importanza, una mutazione di basso livello che non incide in modo significativo sulla realtà documentaria in quanto tale ma, piuttosto, sulle specifiche tecniche di produzione e archiviazione. Tuttavia, se lo si legge ora, a più di vent’anni di distanza, è chiaro che questa separazione è stata fondamentale per produrre l’oggetto culturale tipico della rete, ovvero il contenuto digitale, come anche per mettere in moto quella specie di idrosfera a base numerica che attraversa il pianeta. Per contenuto digitale si intende qualunque pezzo reperibile on line, dal video caricato su YouTube al post di un blog, dall’ennesimo lolcat archiviato su 4chan al messaggio di stato che mettiamo su Facebook. I contenuti digitali sono ubiqui e compongono la quasi totalità del contesto in cui ci muoviamo quando siamo in internet. Sono in grandissima parte generati dagli utenti e sono pensati per essere condivisi attraverso i traffici che percorrono la rete e che contemporaneamente la generano, secondo le geografie che le comunità di condivisione disegnano. Aver virtualizzato il documento ha ridotto i suoi contenuti a uno status immateriale. Li ha resi liquidi, secondo una metafora forse abusata ma calzante, e li ha liberati dalla cristallizzazione in volumi rilegati, in dischi di vinile, in videocassette. Li ha sciolti dalle costrizioni imposte dalla loro istanziazione concreta, ovvero dal modo in cui sono organizzati i dati in documenti specifici, relegati a circuiti strettamente regolati, lenti, costosi. Se i prodotti culturali per come li abbiamo conosciuti fino a pochi anni fa erano il frutto di un sistema di filtri e di meccanismi di rarefazione, legati anche alle specifiche filiere industriali che li producevano, oltre che alle tecniche della produzione e alle loro necessità logistiche ed economiche (con tutte le loro implicazioni in termini di legittimità e riconoscibilità del prodotto stesso e del suo autore), oggi l’immaterialità del prodotto implica a sua volta un sempre minor peso di quel sistema di filtri nel produrlo e distribuirlo oltre che nel legittimarlo. Considerando che questa fluidificazione del sistema di produzione culturale investe anche, e di conseguenza, la gerarchia di ruoli che vi è sottesa, è chiaro come, in altri termini, si sia ottenuto un potenziamento dell’accessibilità alla produzione culturale e documentaria in senso lato, che trova sfogo e raffigurazione, come si è visto soprattutto negli ultimi dieci anni, nell’aumento incontenibile della produzione on line, nei flussi molteplici, massivi e velocissimi dei contenuti che circolano sulla rete. La nozione di flusso, in questo senso, risulta forse ancora più efficace di quella di rete per dare conto di quel manufatto globale che è l’on line. Se l’immagine della rete coglie l’infrastruttura a nodi che lo innerva e la sua specifica geometria policentrica e orizzontale, solo la metafora del flusso permette di raffigurare internet non nei termini di una mera distribuzione di oggetti ma come un evento complesso e multiforme, generato dalla concomitanza delle connessioni. Ogni connessione genera localmente la rete, grazie al set di relazioni che attiva (per avere l’intuizione di questo aspetto, basta pensare all’insieme di relazioni che si attivano nel momento in cui si accede a Facebook, per esempio, o a Skype), e ognuna di queste relazioni è una relazione di scambio. Uno scambio di dati, ovvero, secondo il ragionamento che qui ci interessa, di contenuti: contenuti che vengono mes172
si on line e on line vengono fruiti, che vengono reperiti attraverso i motori di ricerca, che vengono ribloggati, linkati, ritwittati, condivisi e così via. Moltiplicando questo fenomeno locale per la quantità sterminata di connessioni concomitanti, ecco che riusciamo a immaginarci a che cosa accediamo quanto ci connettiamo alla rete: a una specie di insorgenza mediatica generale e globale. La natura liquida di quello spazio è rappresentata dai flussi di contenuti che l’attraversano, dalle grandi e piccole correnti di affinità, malintesi e serendipità che convogliano immagini, testi, video in un sistema di comunità maggiori o minori ma sempre costruite attorno agli scambi che le mantengono. Questo intrecciarsi di correnti, questa mareggiata polimorfa di contenuti che arrivano nella nostra bacheca su Facebook e poi rispuntano nell’home page di un blog che seguiamo, poi vengono citati da un quotidiano on line e infine spariscono per riaffiorare, dopo mesi, linkati su Twitter o postati su Tumblr, compongono un oceano in movimento incessante, un sistema di luoghi e di simultaneità concorrenti, che rimane per lo più insondato e insondabile. È nozione diffusa, infatti, quella di deep web, di web profondo, un’espressione che cerca di rappresentare quella porzione di contenuti che costituirebbe la stragrande maggioranza di ciò che è reperibile on line e che tuttavia non è tracciato dai motori di ricerca, perché sfugge ai loro meccanismi di harvesting, e risulta invisibile, situato ad una profondità troppo elevata per la nostra navigazione di superficie. In questo modo, ci ritroviamo in un certo senso al punto di partenza, ovvero all’implementazione, per mezzo delle nuove tecnologie, di un sistema documentario che supera le capacità di fruizione umana. Come l’ipertesto era troppo per il suo potenziale lettore; così la rete supera le sue stessa capacità di autoindicizzarsi e, certamente, la nostra di usufruirne in modo congruo. Rimane tuttavia una differenza: se l’ipertesto si poneva quasi nei termini di una monumentalità non solo disumana ma anche anerotica, la rete è una specie di euforia semiotica incontrollabile, una festa mobile cognitiva, uno di quei mari, certo, in cui è dolce naufragare, soprattutto perché la relazione con il senso, che si instaura in rete, è analoga a quella che si intrattiene con tutti i media elettrici: il godimento ipnotico dell’inorganico, dell’iconico, dell’acquatico.
C’è una sagoma scura, una figura nera senza ombra sulla banchisa di Triple Point. La osservo da qualche minuto mentre prepara degli strumenti. Sta facendo dei carotaggi nella neve compressa, pare voglia impiantare dei bulbi nel cuore gelido del mondo. Ora scarica quattro cinque blocchi di neve in una pentola e li mette a sciogliere sul fuoco. Dal bruciatore soffia una fiamma blu, un coperchio fa da tappo. Da come strofina le mani credo abbia intenzione di farsi un tè. Il tempo dell’artico non è il tempo della parola, ma quello del paesaggio, riparte solo quando sul bianco appare qualcosa. Qui non accade più nulla e allora mi avvicino. L’acqua del pentolino sbuffa vapore da sotto il coperchio. Non so cosa stia aspettando quest’uomo, forse si è addormentato, così. Ora si sveglia, si muove, solleva il coperchio e il vapore gli ghiaccia le lenti, gli si condensa ai baffi. Ancora non mi può vedere. Tira un vento secco che alza la neve in vortici che torcono la fiamma e imbizzarriscono il vapore. Una folata più forte spegne il bruciatore e in pochi minuti il vapore cessa, le bolle ritornano quiete e l’acqua nel pentolino si ghiaccia mentre lui è ritornato a dormire sotto il cielo limpido di Triple Point. 173
il buco nell’ampolla dammi una mano / dammi una mano / ad inondare il piano padano
Nella sua accurata etnografia della Lega Nord dal titolo provocatorio L’idiota in politica1, l’antropologa francese (di origine piemontese) Lynda De Matteo ripercorre la fondazione e lo sviluppo del partito «secessionista» del Senatùr Bossi, analizzandone storia e organizzazione, mitopoiesi e rituali: uno fra tutti, il rito dell’ampolla che ha inaugurato la «tre giorni della secessione» culminata il 15 settembre 1996 con la Dichiarazione d’Indipendenza della Padania e che si è ripetuto (quasi) identico a se stesso per quindici anni, per poi essere eliminato dalla liturgia leghista dal nuovo segretario, Roberto Maroni, nel 2012.2 Il rituale si articola in due tempi e in due luoghi diversi, definendo i limiti spaziali e territoriali del progetto leghista. Alle sorgenti del fiume Po sulle pendici del Monviso, tra Pian del Re e Pian della Regina, il Senatùr arrivato in elicottero e accolto da una folla di militanti raccoglie in un’ampolla, costruita appositamente in una vetreria di Murano, l’acqua del fiume «sacro»: accompagnato da un guerriero padano armato di lancia e scudo con impresso il Sole delle Alpi, se ne asperge il capo e si improvvisa battista versandone alcune gocce sulla testa del suo Stato Maggiore. Dopo una breve conferenza stampa nello chalet della polenta, Bossi intraprende poi il viaggio lungo il fiume, diretto a Venezia: qui, su un palco galleggiante sulla riva dei Sette Martiri, completa il rituale versando, dopo un comizio torrenziale, il contenuto dell’ampolla nelle acque della laguna.3 Nelle parole di Bossi, riprese da De Matteo, ritroviamo gli elementi che permettono di interpretare il rituale come un atto di fondazione, attraverso una delimitazione geografica della Padania intorno all’alveo del fiume Po, e insieme di purificazione: «Se noi siamo venuti qui per prendere lo slancio che ci porterà fino a Venezia, davanti a quello che avverrà domenica, non è per caso… è perché su questa montagna si trova la sorgente del grande fiume, il Po, il fiume che ha solcato la grande Padania. I nostri antenati avevano ragione a pensare che il fiume era un dio. L’acqua del Po contiene tutto e questo tutto è la Padania. Qui l’acqua è chiara, limpida e trasparente, quanto il gesto che compiamo oggi, perché non poteva più essere rinviato. La nascita della repubblica padana. Questa acqua chiara la porteremo a Venezia in un’ampolla che verseremo nella laguna disperdendola ai quattro punti cardinali». (De Matteo, p. 107) Una marcia simbolica e virtuale lungo il Po (alcune feste lungo il fiume marcano il passaggio dell’ampolla e fanno le veci della catena umana che la leadership leghista aveva immaginato) che assume il valore fondativo di una comunità immaginata che tuttavia, in ragione di critiche severe e sberleffi, non riesce ad affermare una sua legittimità storica, nonostante imbarazzanti tentativi di teorizzare una omogeneità cul1 L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, Feltrinelli 2011; L’Idiotie en politique. Subversion et néo-populisme en Italie, Cnrs éditions-Editions de la maison des sciences de l’homme, Paris 2007. 2 Il rituale dell’ampolla era stato solo «sospeso» nel 2004 a causa della malattia del celebrante ufficiale, Umberto Bossi. 3 Interessante osservare come il rituale rimandi indirettamente alla Festa della Sensa e allo sposalizio della città di Venezia con la laguna, rituale della Serenissima al termine del quale il doge gettava in acqua un anello a sancire il legame rinnovato ogni anno.
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turale, linguistica e addirittura etnica.4 L’assessore leghista alle Politiche Agricole del Veneto, Franco Manzato, opta per una spiegazione meno radicale: «Il rito dell’ampolla del Po è una forma di riconoscimento di un’area geografica e dà una forte identità per legare i popoli che su questa terra si affacciano. Non va cercata una radice storica». Una prospettiva regionale, geografica appunto, che rinuncia alla mistificazione assoluta e che diventa indizio dell’atteggiamento relativista di alcune correnti del partito, che mettono da parte l’allucinazione secessionista autodeterminista e ripiegano su una negoziazione politica. Ma il discorso convenzionale e di facciata, adottato da tutti i rappresentanti leghisti, sgrezzati per far figura decente in Parlamento, in questi anni ha convissuto con una verbosità aggressiva, xenofoba e maschilista che satura comizi e riunioni di militanti: il “celodurismo” di Bossi e dei leghisti della prima ora ha ammaliato gli elettori, e per anni l’idea di una Lega come nemesi della politica, come novità locale, genuina e purificatrice dello spazio pubblico nazionale, ha tenuto banco tra simpatizzanti ed elettori: «Ho voluto fare un atto simbolico per indicare un’azione trasparente – dirà ancora Bossi – e la trasparenza è libertà. I simboli contano, gli atti simbolici contano moltissimo nel cuore della gente. Infinitamente più delle parole, della retorica dei politicanti. Noi abbiamo preso una cosa pura, l’acqua della sorgente, l’abbiamo fatta viaggiare attraverso tutta la Padania e l’abbiamo portata nel grande mare. Sì, una goccia pulita nel grande mare inquinato. Ma la nostra lotta, il nostro ideale, non è forse la goccia pulita gettata nella poltica che è diventata uno stagno? Noi popoli della Padania, puliremo la politica dall’inquinamento e dai veleni». La contestazione politica si mescola alla rivendicazione identitaria, come sottolinea De Matteo, traducendo «la confusione operata tra ethos e appartenenza territoriale». Lo spazio della fondazione geografica cerca di articolarsi al tempo della “purificazione”. E il povero fiume, preso in ostaggio da quest’orda, diventa la spina dorsale involontaria di una protonazione etnica, fluviale. Unica nota positiva, l’aver percepito il valore aggregante dei corsi d’acqua della pianura, che emerge dal racconto di Paolo Rumiz su la repubblica nel suo reportage In viaggio sul Po5: ma la deviazione leghista verso la laguna veneziana piuttosto che verso il delta, tradisce una sete di potere e di istituzionalità che non corrisponde al processo creativo e di sedimentazione geologica che ha originato la pianura, come regione di incontri e scambi. Del resto, il rito dell’ampolla si sarebbe dovuto ripetere fino all’indipendenza padana, come sosteneva Bossi, o in alternativa fino alla “purificazione” della politica: la sua scomparsa traduce il fallimento del progetto leghista, sconfitto prima che dalla sua incongruenza storica, dalla palude, dall’acqua ferma della laguna politica nella quale il movimento si è invischiato, per colpa, anche, di una trota cont(r)ocorrente... Qua una volta era tutto mare. La pianura padana, emersa dalle acque, tornerà ad essere mare in un’apocalisse dolce dolce. Santa marea Elettrica sommergerà le masse, le bestie e tutte le Gyga Coop. Solo i gatti si salveranno.6 4 Argomenti questi tutt’ora da comizio, benché falsificati e criticati da specialisti di ogni sorta. 5 Il risveglio del fiume segreto - In viaggio sul Po (2012) diventa un film di Alessandro Scillitani, che ha accompagnato Rumiz nella sua esplorazione del fiume, progetto che rimanda allo splendido Danubio di Claudio Magris. 6 Massimo Zamboni, Emilia Parabolica, Fandango 2002.
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incontri Certi politicanti pseudo-intellettuali mi fanno sorridere, sono più presi a curare la forma che la sostanza dei loro discorsi. E però ci riescono, alle volte, a dissimulare la loro mancanza di ingegno; l’arte oratoria la padroneggiano a tal punto che riuscirebbero addirittura a passare per geni se puta caso incontrassero qualcuno abbastanza annoiato da fare sì con la testa. Arrivano qui con le loro trasognate arie del cazzo, tutti presi a disquisire di argomenti che io non potrei mai comprendere, a giudicare dal modo in cui mi ignorano. Li guardo, col blocchetto delle ordinazioni in mano, senza spazientirmi neanche troppo mentre mi fanno perdere del tempo senza calcolarmi, ma quando arrivano al punto «mancanza di senso delle vite degli operai», quasi presa dallo stesso imbarazzo che coglie chi si imbatte in qualcuno che lo depreca non essendosi accorto della sua presenza, butto là un modestissimo «Scusate» per manifestarmi. Al che facciadacazzonumerouno mi grazia di uno scocciato «Salve» mentre facciadacazzonumerodue, dopo avermi rivolto una brevissima occhiata di sufficienza, ritorna a mirare il suo commensale per concludere il suo importantissimo discorso. Finisce che neanche gli piace la figa a questi due, perché è una cosa troppo popolare, anzi, magari volgare – direbbero. E però alla fine un po’ sorridono, di quei sorrisi forzati che gli tocca fare agli snob per sentirsi filantropi. Mi verrebbe di mandarli a fare in culo da un’altra parte certe volte, sul serio, se fossi la titolare di questo posto li manderei a fare in culo da un’altra parte – che cazzo ci venite a fare in un ristorante se non vi si può neanche prendere le ordinazioni? Andate a fare in culo da un’altra parte – gli direi. «Va bene il menù del giorno o preferite ordinare a parte?». «Va bene il menù no? Tu che dizi?». «Sì sì per me va bene, mangio tutto, a te va bene?». «Szì szì perfetto, dizci dizci. Che primi avete?». «Oggi come primi abbiamo tagliatelle al cinghiale, penne all’arrabbiata e farfalle alle verdure». «Tu che prendi?». «Dezidi tu per me va bene tutto». «Anche per me va bene tutto, scegli tu». «No dai, scegli tu». «Ok, allora cosa hai detto che c’è?». «Tagliatelle al cinghiale, penne all’arrabbiata e farfalle alle verdure». «Ma le tagliatelle sono in bianco o col pomodoro?». «Col pomodoro». «Ah capisco. Ma il pomodoro com’è?». Resto a rifletterci un istante ma poi mi tocca chiederglielo. «In che senso?». «Beh il sugo è fatto con la vellutata o col pomodoro a pezzetti?». «Non lo so». 176
«Fai una cosa: vai a chiedere». Faccio una cosa: vado a chiedere. Voi intanto fatene un’altra: andate a fare in culo da un’altra parte – vorrei aggiungere. Che a turbarmi non è tanto l’andare a scocciare il cuoco che puntandomi contro il coltello con stizza si metterà a urlare che non c’è tempo per queste stronzate, quanto il dover tornare a catturare l’attenzione di questi luminari, come se farmi notare da loro fosse l’unica missione della mia esistenza altrimenti vana. E infatti quando torno con le informazioni mi tocca di nuovo far quella che interrompe perché quelli ciarlano fitto, ai livelli di due amichette molto in stile Sex and the city davanti a un negozio di vibratori in sconto del ventitré per cento, tipo – tu vuoi quello rosa? No no io voglio quello giallo. «Echm echm! Ci sono i pelati». «Ah ok, i pelati. Ok ok. Ma a te va il sugo rosso?». «No a me no, a te?». «No beh, neanche a me… quali sono le altre cose che hai detto?». «In bianco abbiamo le farfalle alle verdure». «Che verdure sono?». «Zucchine e melanzane». «Senti ma le melanzane come sono?». «…?». «Ovali o rotonde?». «Ovali, credo». «Ma credi o sei sicura?». Affanculo da un’altra parte – ho capito. «Un attimo che vaco a vedé». Gli dico proprio così «un attimo che vaco a vedé», perché quando sono in imbarazzo, che non è questo il caso, e quando mi sto incazzando, che è proprio questo il caso, il dialetto mi soccorre tranquillizzandomi. Non so perché, sarà un fatto inconscio, una di quelle cose legate all’infanzia, il dialetto come lingua madre, come genitore che m’accoglie spalancando le braccia. Potrebbero dirmelo ‘sti due che sembrano saperne tante, saprebbero anche spiegarmelo bene magari, ma è molto più probabile che dalla loro analisi emergerebbe nient’altro che la mia ignoranza e mi infilerebbero uno di quei bizzarri copricapi con le orecchie d’asino dicendo: «Due, vada a posto». E in effetti è così che mi guardano mentre torno: con un due dentro gli occhi. Vorrei poter riportare con esattezza le espressioni del cuoco ma malauguratamente pare il nostro non sia un paese abbastanza laico da poterlo sopportare. «Rotonde. Sono rotonde». «Sì ma io le verdure non le mangio». «Senti ma la pizza la fate?». «No». «E allora non so, te che prendi?». «Non so, a me va bene tutto, te che prendi?». «Se gradite vi faccio preparare checcosaddro». «Szi guarda fazzi fare due spaghetti aglio olio e peperonzino, è possibile?». 177
«Sì». «A te van bene?». «Sì però a me senz’aglio». «Ah perché? Non lo mangi?». «No sai, in effetti mi gonfia...». «Ok allora fazzi fare due spaghetti aglio olio e peperonzino, ma per lui senz’aglio e per me senza peperonzino». «E da bere?». «Acqua minerale naturale a temperatura ambiente», dice facciadacazzonumerouno. «Ok». «Non gasata e non fredda», precisa facciadacazzonumerodue. Mi sono venuti incontro spiegandomi cos’è l’acqua minerale naturale a temperatura ambiente: si tratta di acqua non gasata e non fredda. Ci tenessi anch’io a sentirmi filantropa condividerei con loro quel che so io. Ed io so che le persone sono tutte uguali, che nel mio piccolo, l’ho capito dai piedi. Per intenderci quando fuori piove e tutti entrano con le scarpe bagnate, non è che ad esempio i politici sporchino meno, sporcano tutti nello stesso identico modo. Solo l’atteggiamento è diverso. L’esperienza insegna che le persone sono tutte uguali ma hanno atteggiamenti diversi. C’è chi potrebbe allegramente pisciarti sul pavimento con noncuranza e, si tratta in genere di gente a cui nella vita è toccato sempre di stare a palle all’aria a prendere il sole, o chi quasi si scusa di camminarci sopra immedesimandosi in te che dovrai pulire, e si tratta spesso di gente a cui nella vita è toccato sempre di lavorare per quelli che stanno a palle all’aria a prendere il sole. Questo condividerei con loro, ci tenessi anch’io a sentirmi filantropa. Poso l’acqua sul tavolo mentre non mi cagano: non gasata e non fredda. Che siamo tutti uguali, penso, ma abbiamo atteggiamenti diversi. Lo so ogni volta che arriva qualcuno non troppo pieno di sé da non aver più margine per l’incontro con gli altri. C’è chi ha spazio per accogliere. C’è un muratore duramente rannicchiato in un incupirsi di spalle che sempre cammina radente al muro, quasi a voler dissimulare la sua presenza con le pareti, il cappello tra le mani impolverate, lo sguardo basso spostato di lato a cercare l’angolo più appartato del ristorante. Emidio, si chiama. Conosco i suoi gusti e gli lascio un mezzo di rosso al suo tavolo non appena lo vedo arrivare. Solo vino, niente acqua. Me lo ricordo, lo so. Lui scosta un poco la sedia dal muro, ci posa sopra il cappello e va in bagno a sciacquarsi il viso e le mani. «Sennò paro uno scanzacà, nevvero signorì?», m’ha chiesto un giorno. Che ha i piedi più interessanti che siano mai capitati qui dentro, ho risposto, e che si capisce un sacco di cose dai piedi, ho aggiunto indicando con gli occhi l’assessore al tavolo 3 che si stava pulendo i mocassini coi bordi della tovaglia. Lui m’ha sorriso e da quel giorno mi sorride sempre. Mi sorride anche quando il cielo si scioglie sul suo lavorare all’aperto e nei giorni di freddo in cui i più si lagnano litigandosi i posti vicino alla stufa maledicendo l’inverno. Lui mi sorride e non si lamenta. Gli porto da bere senza che me lo chieda e lui sorride; un mezzo di rosso e un sorriso sono il nostro modo di salutarci e sapere che a volte si può essere amici coi gesti. Il lunedì soprattutto lo aspetto per iniziare bene la settimana. «Allora?», mi fa. Vuol sapere se ho conosciuto qualche ragazzo nel 178
weekend. «Niente Emidio!», lo informo. «Ah se c’avio trent’anni de meno!», ironizza. Gli chiedo del suo lavoro quando posso fermarmi un momento e lui volentieri mi racconta perché sa che lo ascolto e che se uno è abbastanza bravo nel dire, all’altro basta aprire le orecchie per capire. E lui è bravo a spiegare, sa di che parla, ha dalla sua l’esperienza e sa catturare la mia attenzione ridisegnando i concetti con secchi gesti di mani decise. Tra noi c’è uno scambio. Lui lo sa e io lo so. Entrambi lo sappiamo, che mentre a qualche tavolino più in là si discute della nostra ignoranza e del senso che dovremmo dare alle nostre inferiori esistenze, noi non ci perdiamo l’incontro a parlare male degli altri.
trasfigurazione musicale di un’alba marina «La musica e le stelle sono sempre state associate, si è sempre parlato della “musica delle sfere”. Oggi, in realtà, sappiamo che le stelle emettono dei rumori, che il sole emette un fruscio continuo, il vento solare, a cui si sovrappongono dei rumori che indicano lo stato di attività del sole. E in quest’opera, Heliossea, si è voluto associare la musica allo stato del cielo: si è voluto accompagnare con la musica il sorgere del sole, dai primi albori, il primo chiarore del cielo, su su fino a che la luce del sole irrompe sull’orizzonte. Heliossea è un’opera in cui abbiamo associate l’astronomia, la matematica e la musica». Così l’astrofisica Margherita Hack presenta l’opera intermediale per flauti e live electronics del compositore triestino Alessandro Grego. Il titolo del brano deriva dall’unione del termine greco helios “sole” e della parola inglese sea “mare”, quasi un riferimento al carro del dio greco Elio che ogni mattina sorgeva dall’oceano per trainare, da est ad ovest, il sole nel cielo attraverso i suoi due palazzi. Un riferimento consolidato dalla prima esecuzione di questo lavoro avvenuta a Trieste durante il solstizio d’estate del 2003 proprio a cavallo del sorgere del sole in un luogo molto suggestivo come piazza Unità d’Italia, a sua volta bagnata dal mare, dove la musica è stata diffusa secondo un sistema Surround. Per evidenziare il passaggio dall’oscurità alla luce, invece, è stata spenta l’illuminazione pubblica. La partitura musicale, eseguita da Roberto Fabbriciani, è basata su calcoli matematici realizzati dal prof. Massimo Ramella dell’Osservatorio Astronomico di Trieste che trasfigurano musicalmente l’evento della nascita del sole, e vede l’utilizzo di sette tipi di flauti, dal più grave, l’iperbasso (strumento progettato dallo stesso Fabbriciani), al più acuto, l’ottavino. «Il flauto è lo strumento più adatto a questa transizione che dal buio fa nascere la luce, e i sette flauti, insieme, divengono un “megaflauto” che abbraccia tutta l’estensione del suono», commenta Fabbriciani a cui è dedicata l’opera nata in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica. Il progetto, che si avvale anche della ricerca sulla spazializzazione del suono svolta da Grego presso l’ICST di Zurigo, ha in seguito coinvolto musicisti come Markus Stockhausen e Tara 179
Bouman, e ricorda le sonorità dell’organo marino progettato dall’architetto Nikola Bašić nella città di Zara dove, grazie al moto ondoso dell’acqua marina, le canne di questo strumento producono suoni in continua trasformazione. «Con Heliossea vanno rimesse in gioco non solo l’idea del comporre, ma il concetto stesso dell’essere compositore», sostiene Grego. «Ci furono due fonti principali di stimolo, di sollecito in questa direzione, una di queste deriva dalla riflessione epistemologica sulla scienza fisica e quindi la rivoluzione che nel Novecento accade con la teoria della relatività, con il principio di indeterminazione di Heisenberg mentre, quasi contemporaneamente, nella letteratura si rimettono in gioco certi modi di procedere nella narrazione. Pirandello riflette anche su quelli che possono essere i limiti etici dell’autorialità e quindi se l’autore è creatore piuttosto che demiurgo, mentre altri autori rimettono completamente in gioco la forma, che è comunque il risultato di un processo mentale creativo radicalmente mutato». Ecco perché nel corso dell’opera il compositore lascia ampi spazi alla materia per autorganizzarsi. Come spiega l’autore: «Partendo da dei modelli matematici desunti dall’analisi del fenomeno fisico del mutamento della luce all’aurora, modelli che portano in sé una presenza di indagine statistica non deterministica importante, ritenevo che il modo migliore per articolare questi modelli matematici e renderli concreti attraverso la materia sonora fosse appunto quello di poi procedere nella composizione musicale secondo un percorso di tipo stocastico». Forse ad alcuni potrà apparire un percorso algido, ma il lavoro di Grego è da prendere così come l'autore ce lo propone, un progetto dove l’opera musicale si fa architettura sonora viva e in cui la dimensione principale si sposta dal tempo allo spazio. Ecco quindi la necessità di un suono che fosse il più spaziale possibile e che avvolgesse interamente lo spettatore. La scrittura su carta, invece, più che lo sviluppo di un’idea musicale tradizionale, indaga un elenco e una successione di articolazioni del suono flautistico e di tutta una serie di possibilità timbriche dello strumento all’interno di sezioni circolari di una certa ampiezza che si ripetono ad intervalli quasi regolari. «È la prima volta che si realizza un DVD musicale» – spiega Igor Fiorini (VDM Records) – «per una produzione che rimane essenzialmente una produzione discografica nella quale si aggiunge l’esperienza visuale all’esperienza acustica: si tratta di un prodotto destinato all’ascolto con l’apporto del video. Questo lavoro mette insieme due mondi generalmente lasciati separati, o che convivono procedendo parallelamente senza incontrarsi. Invece nel lavoro di Alessandro Grego c’è un’osmosi totale dei due aspetti, visivo e acustico, che stimolano percezioni sensoriali tali da entrare l’una dentro l’altra». Alessandro Grego, Heliossea (Opera intermediale per flauti e live electronics) – 2011, VDM Records (www.vdmrecords.com); © RaiTrade
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SHINTA, ANNI 45
MuDA, Kyoto Seika University, 2012.
L’acqua e il riso Il riso non è soltanto cibo per i giapponesi, ma qualcosa di speciale legato alla vita quotidiana, alle cerimonie e alle tradizioni che si celebrano in casa o nei campi. L’acqua è indispensabile al riso. Nei tempi antichi la gente aspettava la pioggia, ballava per la pioggia e pregava per un raccolto abbondante. Ringraziare per ogni giorno di riso è essenziale nella vita quotidiana giapponese. www.muda-japan.com 181
io sono carpa ho rifatto il verso al gatto! Watashiwa neko desu. Dameee!1 Watashiwa sakana desu.2 Io sono un pesce. Ancora un nome non ce l’ho. Non sono katsuo, thai, maguro, salmon... kyngio3, ovvero il più prosaico pesce rosso... di diventare fettine prelibate di sashimi, in un ristorante del quartiere di Tsukiji4 forse non rischierò... neppure l’acquario, se è per questo. Non sono un pesce esotico. Ma l’ho scoperto poi. Dove sono nato? Non ne ho la più vaga idea. Ricordo soltanto che agitavo le mie pinne, al tempo molto piccole, in una busta trasparente, calda e luminosa, che oscillava tenuta in mano da qualcuno che correva. Da lì ho intravisto per la prima volta un umano. Una di quelle creature che non hanno branchie, che traggono l’ossigeno dall’aria, che gesticolano e muovono le labbra. Loro respirano col naso, e non è neppure bello. Due fori neri, piccoli e pelosi alla base di quella che è meglio definire una protuberanza variabile per dimensioni e tipologie: molto spesso una gobba, a volte una gobbetta, un becco, un uncino, in misure diverse una patata, raramente una minuscola e graziosa prominenza volta verso il cielo... Pare che a ogni tipologia di protuberanza si possa ascrivere un carattere. Questo lo so perché mi è stato raccontato che gli umani guardano l’Almanacco di Barbanera quando arriva un nuovo nato. Secondo Barbanera (ma chi sarà mai costui? mi sembra straniero!) è possibile predire il futuro dei neonati dalla forma del naso. Che anche la fortuna di uno scrittore si possa decidere dal suo naso? Ho sentito dire addirittura che qualcuno ha scritto un racconto sulla fuga di un naso dalla faccia: ve la figurate una faccia priva di naso? somiglierebbe alla mia! E c’è anche chi sostiene che la sorte di Cleopatra sia dipesa dalla lunghezza del suo naso... Se avesse avuto un naso più corto avrebbe amato Ottaviano invece di Antonio? Ne posso quindi arguire che il naso sia costato fiumi d’inchiostro, e anche questo è prova dell’ottusità degli umani. Volete mettere un bel pesce come me? Io il naso non ce l’ho, e neppure mi dispiace… Dicono che gli umani abbiano un senso in più rispetto a noi abitanti delle immensità oceaniche e dei cristalli delle acque lacustri. Anche riguardo a questo concetto sono ancora un po’ confuso. Gli umani hanno anche le orecchie che, seppure più lavorate del naso, sono fatte della stessa materia e forate: due ricamini. Le orecchie... Parlare e ascoltare... Io non parlo, non tengo discorsi, non urlo e non sproloquio. Comunico attraverso esatti spostamenti di pinna in una danza fluttuante 1 «Io sono un gatto! No, non è proprio vero!». Io sono un gatto è la traduzione italiana del titolo del celebre romanzo scritto da Natsume Soseki nel 1905. In giapponese il titolo è tuttavia Wagahai wa neko de aru, dove il pronome soggetto “wagahai”, invece del più comune e piano “watashi”, indica orgoglio e nobiltà da parte di chi sta parlando, mentre il suffisso “de aru”, al posto del normale “desu”, è proprio della lingua scientifica e dei trattati. Il titolo giapponese scelto da Soseki indica quindi la consapevolezza del protagonista della sua nobiltà gattesca. Che dunque il titolo qui riportato appartenga invece a una prima stesura del romanzo? Che il racconto della carpa sia stato un guizzo dello scrittore prima di dedicarsi alla rappresentazione romanzesca del gatto? Che il pesce sia finito in pasto al gatto e che in mancanza di pesci Soseki si sia dedicato ai gatti? Questi sono soltanto alcuni dei tanti problemi filologici che si presentano allo studioso di Soseki. 2 «Io sono un pesce!». 3 «Un tonnetto, un’orata, un tonno, un salmone, un pesce rosso». 4 Un quartiere di Tokyo dove si trova l’omonimo mercato del pesce, uno dei mercati ittici più grandi del mondo. Sono molto rinomati i ristoranti di sushi e di sashimi che lo circondano.
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di ventagli, come un nativo poeta di Edo5 li ha paragonati. Vario i miei spostamenti con leggerezza ed eleganza, lentamente. Potrebbe sembrare indolenza, ma la mia lentezza è contemplazione metafisica delle cose. Mi si potrebbe obbiettare che nel mio stato di pescità non possa conoscere la musica. Beh, quegli esseri bipedi e senza pinne, dalla loro supponenza credono che le vibrazioni siano soltanto sonore, e che si possano propagare soltanto nell’aria. Lì si sbagliano. Gli spostamenti d’acqua nelle profondità marine sono paragonabili a una sonata di Bach o a una sinfonia di Beethoven. Chi meglio di un pesce degli oceani indiani potrebbe capire la saggezza delle grandi sinfonie acquatiche di Debussy o di Haendel. Moti ondulatori che si propagano avvolgendoti e travolgendoti nelle correnti, trasportandoti nel flusso vitale dell’universo. Questa è la libertà! Seguire la corrente, fluire, scivolare sopra i fondali sabbiosi... è il mio istinto. Ah, la libertà! Chi meglio di un pesce o di un uccello la può sperimentare. Gli umani, invece, sono della razza di chi rimane a terra. Loro non conoscono libertà se non a brevi sprazzi. Tuttavia dei grandi movimenti delle masse acquatiche degli oceani ne ho soltanto sentito parlare. Io sono un pesce d’acqua dolce. Le onde minime che ho sperimentato sono la propagazione delle volute concentriche delle gocce di pioggia che si espandono sopra la superficie dello stagno. Tic tac tic tac tic tac ticta6… questo è il mio ritmo, che varia con l’intensità della pioggia. Quei cerchi a me piace molto guardarli dal basso dei fondali fangosi. Talvolta i cerchi si espandono sulle foglie verdi d’alga. È un divertimento osservarli mentre si dilatano come aureole, tutù di ballerine sulle punte. A volte sembrano addirittura macchine per un viaggio al futuro. Ma il mio stagno è piccolo, e questo fenomeno avviene soltanto qualche volta, nonostante qui piova spesso, soprattutto all’inizio dell’estate. Tornando alla mia storia, quel giorno dalla busta calda e luminosa ho intravisto molti colori. Le forme apparivano deformate, allargate e rotondeggianti. Mi ci è voluto un grosso sforzo di immaginazione per capire cosa mi stesse succedendo. Quel giorno, poi, l’acqua sembrava un mare in burrasca e ho pensato seriamente che mi venisse il mal di mare. Arrivati in non so quale luogo, il moto ondoso si è placato, poi un grandissimo sottosopra e un salto. Un salto nello spazio – credo di aver fatto il giro della morte –, lo scontro con la durezza della piattaforma equorea, e poi giù verso profonde oscurità verdognole. Ho perso i sensi per pochi secondi, e quando ho riaperto gli occhi ero in uno stagno. Nello stagno ho imparato chi sono. Io sono una carpa. La carpa dello stagno del giardino del professor Kushami.
5 Edo è l’antico nome di Tokyo.
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crazy bus lady FAKE WHAT YOU LACK says the logo on the back of the man’s shirt as he scram-
bles out of the rain into the bus. I hop on and sit next to him, dripping unhappily. I have my pretentious thought of the day: If deities are among us, are they traveling incognito in the body of some nerdy white metal fan, avoiding eye contact and nodding along to songs about virgin sacrifice? If they are, then they don’t lack a sense of irony. Man alive that music is loud, I think, and turn on my own machine, returning fire with The Doors. The bus creeps along while Manchester does what it does best: pisses it down like cats and dogs, storm conditions by the standards of any other ordinary city. The rain beats a symphony that makes the brave cyclists shiver and drip and the windows inside the bus steam up with human fog. As Jim Morrison begins to croon the first verse of Riders on the Storm, she climbs onto the bus. Manchester residents call her “Crazy Bus Lady”; a nickname that she has earned through her years of pounding the pavements distributing leaflets that are renowned for scaling new heights of bat-shit craziness, even amongst Manchester’s mentally unbalanced community. Her real name is rumored to be Jagkanchana Singh, although people also call her The Bag Lady and That Insufferably Loud Paranoid Bitch. She can be found 24/7 on the public transport network screeching about the litany of injustices bestowed upon her by an ex husband, the council, and a vengeful God. And we mustn’t forget the ex Home Secretary, her favorite whipping boy. She’s a sad character, but loses points for constantly abusing passengers and bus drivers. She stumbles on with her suitcase and carrier bags and sits in the aisle seat across from me. The makeup is thick enough today to have been applied with kitchen utensils, either a spatula or an aristocratic fish-knife, lending her the look of a voodoo queen on a bad day. I wonder idly if she sleeps rough. – Into this world we’re thrown... like a dog without a bone... – She has a gleam in her eyes, which can only mean one thing. Oh yes Ladies and Gentlemen, today her new leaflet hits the newstands: UK JUSTICE SYSTEM PERSCUTES FOREIGN BRIDE. POLICE COMPLICIT IN CONSPIRACY! Read all about it! Grab your copy before we’re fresh out! She proffers a mangled sheet, and I accept and stuff it unenthusiastically into my pocket before she can start accusing me of being in league with the police (who are apparently leading the conspiracy against her). Before it’s out of sight, I see the words “PERJUReY IS GIVING OF WILFULe, FALSE OR MISLEADING OR INCOMPLETE TESTIMONeY UNDER OATH”, THIS CASE MIRRORe THE STATEMENT OF HOME SECRETARY OF 1997”.
«No noticeable shift in editorial tone this week, I see». She smiles at me sweetly. I shift in my seat and turn up the music, trying to avoid her gaze. Metal Fan is examining one of her leaflets with an expression of disbelief. I can see the roofs of the terraced housing along upper Lloyd street breaking through the fog and sleet. 184
Reading the “Crazy Bus Lady Bugle” is a disappointing experience. In terms of current affairs it’s very hard to follow, and can hardly be described as adhering to any principles of sane journalism. It contains no news, culture, foreign affairs, or features section. Most of the misspelt print requires a magnifying glass to read, and the handwritten sections make no sense unless you have qualifications in graphology or deciphering ancient runes. And you may as well forget London Olympics coverage: fleeing spouses, professional paranoia, and psychotic scribbling appear to be the closest the crazy bus lady bugle gets to a sports section. The best you can say for the old girl is that she’s definitely leading the pack when it comes to citizen journalism. The bus shudders along through the heavy rush hour traffic and People are Strange comes on in my headphones. I think back to when I first saw her. Shortly after I moved to Manchester, I passed her during a rainstorm as she knelt writing in a bus stop. There was something impressive about the scene- paper howling around her wiry form, face taut with concentration as she prepared the next edition. The rain had caused the ink to run, and for a moment her eyes had looked as if they might have been full of tears. For a brief instant, she was much more than a distributor of nonsensical leaflets. Her features were calm beneath her dark hair, her frame almost ethereal as her shawls and scarves danced about her, and I had realized that she was once pretty. Maybe even beautiful. – When you’re strange, no-one remembers your name... – I glance across the aisle surreptitiously. She’s waving her leaflet at an old man, who is doing a good job at pretending to be blind, deaf and dumb. She gives up after the next stop and begins to drag her suitcase towards the front of the bus, as fellow passengers continue to cast curious glances in her direction. We’re approaching Picadilly, which means it’s my stop too. She staggers out of the bus. I follow. «Do you need a hand?», I shout over my music. – When you’re strange... faces come out of the rain... – I realize as I say the words that I have never spoken to her before. Her suitcase is snagging on the pavement. I lift it up and she freezes, unsure. Then, after an awkward pause she smiles and allows me to lift her suitcase over the kerb. It’s still raining, but not as heavily as before. She presses the button at the pedestrian crossing and smiles at me awkwardly. I smile back and notice that her makeup has run. The mascara and eyeliner have left spidery trails down her cheeks, but her lips look bright and fresh; her eyes dark green, and for once her crazy barnet lies flat. The resentful woman fades and a beautiful young girl reappears, washed to the surface. Maybe she wasn’t always this strange. She was a wife, a mum, a newcomer to this city, full of excitement and love for her young family. I see her as she was before, perhaps. Then the pedestrian light flashes green and she crouches over again, back in Crazy Bus Lady form, and scuttles off into the drizzle, her suitcase spilling out into the wet pavement with leaflets that nobody will ever read. 185
water jukebox songs Herbie Hancock, Watermelon Man (da Takin’ Off, 1962) Antonio Carlos Jobim, Água de Beber (da The Composer of Desafinado, Plays, 1963); Águas de Março (da O Tom de Antonio Carlos Jobim e o Tal de João Bosco, EP, 1972) The Beatles, Rain (lato B del singolo Paperback Writer, 1966) The Beach Boys, Sloop John B (da Pet Sounds, 1966) The Mothers of Invention, Let’s Make the Water Turn Black (da We’re Only in It for the Money, 1968) Deep Purple, One More Rainy Day (da Shades of Deep Purple, 1968); River Deep, Mountain High (da The Book of Taliesyn, 1968); Smoke on the Water (da Machine Head, 1972) Creedence Clearwater Revival, Have You Ever Seen the Rain? (da Pendulum, 1970) King Crimson, Lady of the Dancing Water (da Lizard, 1970) The Doors, Riders on the Storm (da L.A. Woman, 1971) The Who, Water (da 5.15, lato B, 1973) The Doobie Brothers, Black Water; Daughters of the Sea (da What Were Once Vices Are Now Habits, 1974) Peter Criss (Kiss), I Can’t Stop the Rain (da Peter Criss, 1978) Dire Straits, Down to the Waterline; Water of Love (da Dire Straits, 1978); Ride Across the River (da Brothers in Arms, 1985) Richard Wright, Waves (da Wet Dream, 1978) Talking Heads, Take me to the River (da More Songs About Buildings and Food, 1978); Once in a Lifetime (da Remain in Light, 1980).
Robert Fripp, Water Music (da Exposure, 1979) Nick Mason, Hot River (da Nick Mason’s Fictitious Sports, 1981) Franco Battiato, Summer on a Solitary Beach (da La voce del padrone, 1981); L’Oceano di Silenzio (da Fisiognomica, 1988); Atlantide (da Caffè de la Paix, 1993) Pink Floyd, Southampton Dock (da The Final Cut, 1983) Litfiba, Approdo sulle coste della Libia (da Eneide di Krypton, 1983); Pioggia di luce (da Desaparecido, 1985) AA.VV., Water From The Moon/Earth Run (da GRP Super Live in Concert, 1988) The Cure, The Same Deep Water as You (da Disintegration, 1989) Pearl Jam, Oceans (da Ten, 1991) R.E.M., Nightswimming (da Automatic for the People, 1992) Aerosmith, Walk on Water (da Big Ones, 1994) Oasis, [the Swampsong] (da (What's the Story) Morning Glory?, 1995) Fabrizio De André, Dolcenera (da Anime salve, 1996) Kiss, Rain (da Carnival of Souls: The Final Sessions, 1997) Morcheeba, The Sea (da Big Calm, 1998) Massive Attack, Teardrop (da Mezzanine, 1998) Blur, Swamp Song (da 13, 1999) Tom Waits, Cold Water (da Mule Variations, 1999) David Bowie, Looking for Water (da Reality, 2003) Björk, Oceania (da Medúlla, 2004) The Rolling Stones, Rain Fall Down (da A Bigger Bang, 2005) Bob Dylan, Spirit on the Water (da Modern Times, 2006) 186
argocrociere Prenota un posto: ABBONATI! *quattro numeri euro 30, anziché euro 40 *due abbonamenti (uno per te e uno da regalare) euro 50, anziché euro 60 Versamento tramite bollettino postale: conto corrente n. 51946051 intestato a: ASSOCIAZIONE NIE WIEM – Casella Postale n. 138 – 60123 Ancona Versamento tramite bonifico bancario: IBAN: IT05B0760102600000051946051 Poste Italiane Spa, intestato a: ASSOCIAZIONE NIE WIEM – Casella Postale n. 138 – 60123 Ancona. Indicare come causale “ARGO Sostegno attività 2013”. Una volta effettuato il versamento, invia la ricevuta di pagamento, indicando l’indirizzo al quale si vuole ricevere la/e copia/e di Argo, via e-mail: argo@argonline.it
topografie
© Sconosciuto p. 7 • © Daniela Trincia p. 18 • © Carla Mantovani p. 19, p. 99 • © Sconosciuto p. 39 • © Sconosciuto p. 44 • © Sara Proietti p. 59 • © Caterina Tazza p. 65 • © Valentina Carini p. 83• © Giovanna Karen Vagata p. 109 • © Traci Matlock p. 122 • © Stefano Bandini p. 123 • © Laura Arcioni p. 142 • © Sconosciuti p. 162 • © 2012 E. Brady Robinson p. 163 • © Shinta Inoue p. 181 187
A cura di/Edited by
Eleonora Di Erasmo Daniela Shalom Vagata Progetto grafico/Graphic design
Fumio Inoue
Foto di copertina e di interno di copertina/Cover and inside cover photos
Stefano Bandini
Impaginazione/Layout
Beth Bevan
Traduzioni/Translations
Beth Bevan Mayumi Kinoshita Maria Clori Tazza Yumiko Saito Ringraziamenti/Aknowledgments
Vorremmo esprimere la nostra pi첫 profonda gratitudine a tutti gli artisti che hanno partecipato al progetto e alle seguenti persone per il loro generoso aiuto:/ We would like to express our deepest gratitude to all partecipating artists and to the following individuals for their generous help: Hiroshi Katayama, Kosuke Kunishi, Hiromi Nakagawa, Mizue Nakamura and FOIL GALLERY, Nobuhiro Tsujiuchi.
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WATERSHAPE INDEX Sebastiano Luciano 7 Chris Rudz 10 Sebastiano Luciano and Andrea Buratta aka Novembertraum 21 Masakatsu Takagi 25 Yoichi Nagano 29 Monochrome Circus 37
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Andrés Méndez 41 Toru Yamanaka 49 Chris Rudz 53 Masakatsu Takagi 57 Shiro Takatani 67 Yasu Suzuka 73 Chie Matsui 81
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Sebastiano Luciano 54th International Art Exhibiton - La Biennale di Venezia. Greek Pavilion, Diohandi, Beyond Reform, 2011 6
WATERSHAPE C’è una sorta di affinità tra il percorso dell’acqua e la vita che nel tempo si scolpisce: essa si fissa nelle immagini di corse mai finite, di carote estratte dai ghiacci dell’Alaska, di onde che si accavallano o che giocano a stirarsi come sciabole. Spume che biancheggiano. Secondi di respiri trattenuti. Nella goccia evaporata puoi leggere la fiducia dell’essere vivente di tornare alla sostanza; nei filari delle nubi il disegno della vita che trascorre. Forme, trasformazioni, vita. Watershape è un inserto multimediale composto di video, fotografie e immagini sonore realizzati da artisti diversi per sensibilità, mezzi espressivi e paesi di provenienza. C’è una forte presenza del Giappone: forse perché i flussi della casualità ci hanno trasportato qui, agli estremi della terra, o forse perché oltre queste isole c’è solo oceano. Il tema di Watershape verte sulla caratteristica dell’acqua di sapersi riflettere nella vita umana: la mancanza di una forma definita, la sua inafferrabilità, sacralità, inarrestabilità. Al motivo proteiforme dell’acqua alludono alcune opere. Ci si incammina per i tre stati, liquido solido e gassoso, e presto ci si perde nelle nebbie di un mistero: da dove veniamo? Dove andiamo? Come potrò, nel momento di dire addio, ripensare la vita come un fiume, se aperte le mie vene se ne perdono le tracce nella terra… se anche la neve nel buio scompare… I gorghi e gli zampilli somigliano a flussi di luci e di colori da dove si sviluppano nuove forme, suggerisce un video.L’acqua figura anche il grande archetipo della vita, ricordano infatti altre opere: acqua materna di riti, nutrice di terra, a volte bistrattata da un’umanità immemore. L’acqua si accorda alle cellule del corpo perché in entrambe il movimento è inarrestabile: allora perché non danzarci sopra? Fissa sopra un cavalletto piantato su uno scoglio, la macchina foro stenopeico spalanca l’occhio alla luce del mattino. Ho visto il mare.
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WATERSHAPE There is a certain affinity between the course of water and that of life carved over time: images of never-ended streams, ice cores drilled in Alaska, waves surging forward or stretching out like sabres. Foams turning white. Seconds of breath held. In the evaporated drop of water you can read the confidence of living beings to return to substance; in the rows of clouds the design of life passing. Shapes, changes, life. Watershape is a multimedia supplement composed of videos, photos and sound images made by artists with different sensitivities, techniques and nationality. Many are Japanese artists perhaps because chance has led us there, to the extremes of the earth, or maybe because beyond these isles there is only the ocean. The theme of Watershape is about the capacity of water to be reflected in human life: the lack of a definite shape, its elusiveness, sacredness, unstoppability. Some works hint at the protean theme of water. We are headed for the three states: solid, liquid and gaseous and soon we lose ourselves in the fogs of a mystery: where do we come from? Where are we going? When it comes to saying goodbye, how can I think of life as a river, if my veins were opened, its traces would be lost into the earth...if even snow vanishes in the dark.... One of the videos suggests whirlpools and spurts as streams of lights and colours from which new shapes develop. Water also represents the great archetype of life, as shown in other works: water mother of rituals, nourisher of the earth, sometimes ill-treated by a forgetful mankind. Water matches the cells of the body because in both the movement is unstoppable: so why not dance on it? The pinhole camera on a tripod driven into a reef, opens its eye wide to the daylight. I have seen the sea.
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CHRIS RUDZ A LOST YOU IN A DAY AND NIGHT 2011
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Fog is a fascinating natural phenomena for me. It covers all views and reveals them only as you get closer to the subject. It makes the action of watching more physical. The title of the series of these photos is rather personal. It refers to a person who is important to me but that person also represents a place I visited. Which is now an important part of me. In a heavy fog everything is anonymous. So pictures lose the identity of a place. The place in the pictures can be everywhere.
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SEBASTIANO LUCIANO ARIA #1 2011 Music: ANDREA BURATTA AKA NOVEMBERTRAUM
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“Becoming is the endless change of all things from a state to another one. The whole universe changes continuously, nothing remains still. Life itself changes continuously from a condition to another one. Panta Rhei, everything flows and everything goes, incessantly and it is this endless change that is the sense itself of the universe, its basic principle, its last meaning�. from Heraclitus
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http://youtu.be/nSjHILjZHTA
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MASAKATSU TAGAKI LIGHT POOL 2004 Music: MASAKATSU TAGAKI
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“Light Pool” was originally recorded in a pool of a hotel in L.A. When I create video works, I always start from the shooting, without imagining what kind of video work I want to create. For this video, I just shot girls in a pool, because the movement of girls and water were fantastic and the sun beautifully reflected on the pool. After coming back to my studio (my house), I tried to make something really energetic. How can I say.... gigantic power from inside the human body or lava from the volcano. On the first scene of “Light Pool”, you can see the girls floating and linking to each other. This image, the living things connected to each other by the light, is somehow the unforgettable vision in my mind.... I saw this kind of vision in my meditation with shaman living near my house. I and the shaman were sitting and closing eyes. Yes, we closed eyes, but we saw the same image at the same time. I can’t describe this experience well. Those experiences, the visions, are helping me a lot, especially for making my video works.
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http://youtu.be/ckgbMiFt4qU
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YOICHI NAGANO UNTITLED from the series BREATHLESS 2009-2010
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The photographer, Yoichi Nagano, is fascinated by landscapes and people of small islands throughout Japan and has been photographing them over the last decade. The new series consists of pieces made by setting up certain situations purposely to capture subjects, unlike his former style to shoot things accidentally. These new pieces, showing the local island people dressed in their everyday clothes floating in water, seem to depict the dignity of existence with the atmosphere of life and death whilst also revealing the feeling of despair in Japan today.
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MONOCHROME CIRCUS Video excerpt from 水の家 / WATER HOUSE Coreography: KOSEI SAKAMOTO Dancers: YUKO MORI, HIROKAZU MORIKAWA Premiere: ATELIER GEKKEN, KYOTO, 2005
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A limited duet on a table sized 1m. x 1m. The only sound is the sound of rain. A man and woman, who escaped from the flood or tsunami disaster, are on the table. The question is what kind of movement is inspired by limited spaces. And what kind of expression results from the limited situation of being surrounded by floodwater?
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http://youtu.be/qA_hSmygGD8
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ANDRÉS MÉNDEZ THIS HUMAN ZOO 2012 THE FISH KNOWS 2011 A FOREST 2012
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This Human Zoo To fling my arms wide In the face of the sun, Dance! Whirl! Whirl! Till the quick day is done. Rest at pale evening . . . A tall, slim tree . . . Night coming tenderly Black like me. Langston Hughes
Istanbul, 2011 43
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The Fish Knows The man thinks The horse thinks The sheep thinks The cow thinks The dog thinks The fish doesn’t think The fish is mute, expressionless The fish doesn’t think because… The fish knows everything. Arizona Dream OST
Strobl, Austria, 2009 45
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A Forest Forests are apocalypses; and the beating of wings of a little soul makes an agonizing sound under the monstrous vault. Victor Hugo, Les Miserables
Riga, Latvia, 2010
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TORU YAMANAKA SNOW (Remake 2013) 10:19 min.
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“Snow” was initially composed in 2004 for the performance “Chinoiserie” by the director Ong Keng Sen from Singapore. The music came as an image of snow depincted on a lady kimono. However the drawing of snow is not common for a kimono. “Snow” became part of the album “Sextant” in 2012. “Snow” (Remake 2013) has been made expressly for “Argo Art Projects. Watershape”.
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Sciogli il nodo. L’obi è lungo. Ti racconterò la stagione delle piogge, la stagione degli amori. Quando il sudore si attacca ai corpi, e gli umori si mescolano ai vapori. Il battito del tamburo si nasconde in quello della pioggia. Non c’è flauto a imitare l’usignolo. Ti racconterò la stagione dolce e afosa, l’antagonista a tutte, quando amare è lieve e morire è inaspettato privilegio. Le cappelle fiorite delle ajisai accordano i colori e fanno capolino sulle strade. La testa pesa, stanca, staccata dal corpo. Le gambe non sorreggono. Ti racconterò la pazienza. La pioggia dei momiji, dei pruni e dei ciliegi. Le stagioni sono cinque. Si svolge su un pezzo di stoffa, nelle anse e nei meandri, lo sciogliersi delle stagioni. Teresa Degli Angeli
https://soundcloud.com/watershape/toru-yamanaka-snow-remake-2013
Untie the knot. The obi is long. I will tell you about the rainy season, the season of love. When sweat clings to bodies, and liquids are mixed with vapors. The beat of the drum is hidden by that of the rain. There is no flute that imitates the nightingale. I will tell you about the sensual and sultry season, the season antagonist to all of the others, when love is delicate and to die is an unexpected privilege. The blossomed heads of the ajisai harmonize the colors and end on the streets. The head is heavy, tired, separate from the body. Legs don’t sustain. I will tell you about patience. The rain of momiji, prunes and sakura. The seasons are five. On a piece of fabric, inside bends and meanders, the seasons unfold. Teresa Degli Angeli
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CHRIS RUDZ TENCHIKAIBYAKU 2012 Dancers: YUKI GODA, TAKAHIKO QUICK Music/SFX: DIEGO SOIFER Additional music and sound: STEPHANE LIENHART, JULIEN DEBAY
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At the beginning the universe was immersed in a beaten and shapeless kind of matter, sunk in silence. Later sound appeared, indicating the movement of particles. With this movement, the light and the lightest particles rose. The lightest particles formed first the clouds and then Heaven, which was to be called Takamagahara (高天原, “High Plain of Heaven”). The rest of the particles that had not risen formed a huge mass, dense and dark, to be called Earth and my words, well? I tried to tell the story, in a modern way for a modern audience. The important story of the creation of life, and everything we know, in an experimental new (at least for me) way. A way that will allow the audience to contemplate for themselves. I use dance as a universal platform of storytelling. Movement is universal to everyone.
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http://youtu.be/7r3wnLa1OTo
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MASAKATSU TAKAGI EARTH’S CREATION
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海や山や高原の空が美しいのは、 美しさを讃えてくれる詩人がいるから、 ほめられればほめられるほど空は美しさを増します。 吉行理恵「綱渡り」より
The reason why plateau, mountains, the sea and sky are beautiful is that poets praise their beauty, that is enough to increase the beauty of sky, more you praise better it gets. Rie Yoshiyuki (1939-2006)
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われは手のうへに土を盛り、 土のうへに種をまく、 いま白きぢようろもて土に水をそそぎしに、 水はせんせんとふりそそぎ、 土のつめたさはたなごころの上にぞしむ。 ああ、とほく五月の窓をおしひらきて、 われは手を日光のほとりにさしのべしが、 さわやかなる風景の中にしあれば、 皮膚はかぐわしくぬくもりきたり、 手のうへの種はいとほしげにも呼吸づけり。 萩原朔太郎「掌上の種」より
I piled soil on my hand, sow a seed in that soil. Now, I use a white watering can to pour water into soil. Water pours, coldness of the soil bleed into the hand. Oh, I managed to open the window of May, reaching out my hand in the sunlight, that is a refreshing site in the landscape. Skin glows elegantly with warmth, the seed breathes generously, lovlingly on the hand. Sakutaro Hagiwara (1886-1942)
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SHIRO TAKATANI ICE CORE 2005
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The photographs are part of a 2503m ice-core drilled in 2005 at Dome Fuji in Antarctica. Commissioned by the Natural History Museum of Latvia in Riga, for the exhibition “Conversations with Snow and Ice – observation/imagination” his installation was presented in 2005/2006, as part of a retrospective of the works of the snow and ice scientist Ukichiro Nakaya (1900-1962). With the cooperation of Institute of Low Temperature Science, Hokkaido University, National Institute of Polar Research in Japan, Takeo Hondo, Atsushi Miyamoto, Gorow Wakahama, and Fujiko Nakaya.
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YASU SUZUKA ピンホール作品-風曼荼羅 / PINHOLE WORKS - WIND MANDALA
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#0003/Niigata, Kashiwazaki, 1988 日本海の快晴の夏の朝 (引き潮) Japanese sea. Fine weather, summer, in the morning (low tide)
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#0516/Hokkaido-Monbetsu, 1992 北海道紋別のオホーツク海の夏(ピンホールカメラには波のカタチではなく、一直線の サーベル/刀のような波の景色)
Hokkaido-Monbetsu, Ohotsuku sea. Summer (Pinhole camera. Landscape with sea waves: not wavy shapes, but straight lines like a sabre or a sword)
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#0529/Hokkaido-Enbetsu, 1992 北海道 遠別の冬の海(マイナス20度の寒さの中、嵐のような強風だった)
Hokkaido-Enbetsu. Winter sea (-20 degrees centigrade. The wind is as strong as the one during a storm)
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#0707/Indonesia-Lombok, 1993 インドネシアのロンボク島から見えたバリ島の夕陽
Indonesia - Lombok Island from where you can see the outline of Bali
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#2619/Italy-Sardegna, 2006 イタリア・サルジニア島の夕陽 Italy - Sardinia Island. Sunset
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#2812/Hokkaido-Monbetsu, 2008 北海道紋別のオホーツク海の朝日(真冬、流氷の景色)
Hokkaido-Monbetsu. Ohotsuku sea. Twilight. (The coldest winter days: landscape with frozen sea)
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CHIE MATSUI Video excerpt from HEIDI 45 2005
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Untitled 三日月を過ぎて、もっとも薄い頃から、再び満ちる月。 一匙すくった池の水に映る、月の影。 太陽の光の中で、戯れることのない深い淵の水面から、 現れるのは、鳴かない鳥。 ああ、 いい、 うう、 ええ、 おお、 少しは話すことができるのだろうか 池の水を一匙。 蟲の声がささやく。 あの子に歌を教えてあげよう。 鳥の歌ではなく、蟲の歌を。 鳥は蟲の歌を、覚え水面から羽ばたく。 月が沈み、太陽との間の時に 鳥は、一匙の水に映る自分の姿を見る。 少し起きる時間が早すぎた。 鳥は、あくびをした。 なんという! さえずりが! 静まり返った水面に響く。 暁に鳥は羽を広げ、蟲達をついばむ。 鳥は歌う。 一匙の池の水がこぼれ落ちる。 2012年11月20日 松井智惠
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Untitled Since the waxing moon, since its crescent was thinner, the moon is growing. A spoon of water of the pond reflects the shadow of the moon. In the sunlight, from the surface of the deep pond that never moves a bird that does not sing emerges. aa ii uu ee oo Could the bird speak a little bit? A spoonful of water of the pond. The voices of the insects whisper: shall we teach that bird how to sing? It is the insects’ song, not the bird’s ones. The bird has learned the insects’ song and it has flown away from the surface of the water. Since the moon is on the wane before the sun rises: the bird reflects itself in a spoonful of water. He has got up a little too early. The bird has yawned. Of course not! It chirps! Echoes on the peaceful surface of the water. At dawn the bird spreads its wings and eats the insects. The bird sings. A spoonful of water of the pond slips away. 20th November 2012 Chie Matsui
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The setting for this work was the warehouses at Yamashita Wharf, the site of Yokohama Triennale 2005, and the surrounding area. In a sense, the thoroughly site-specific work functioned as a kind of summary of the event. Like the previous work, “Heidi 44”, the site was again a portside warehouse. Unlike the quiet space of the former, the new work was filmed in a warehouse where mountains of tires, veneer panels and crates were being moved in and out each day. The dangerous and unfamiliar sense of bustle, the vastness of the space and most of all, the close proximity of the sea created a scene that was somewhat similar but not at all the same. To capture the space properly, it was necessary to shoot with higher resolution video cameras than had been used in the past. To exhibit the work, a special, extremely thin fabric was stretched across an assemblage of rectangular boxes to create a vast, 150-inch, rear-projection monitor. When the video was projected on it, the surface of the thin fabric became a lustrous panel, defining the meaning of the moving images as things that “weren’t really there, but clearly visible”.
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http://youtu.be/eLGhCeLMZSQ
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Andrea Buratta aka Novembertraum https://soundcloud.com/novembertraum Sebastiano Luciano http://www.sebastianoluciano.com/ Chie Matsui http://mem-inc.jp/artists_e/matsui_e/ AndrĂŠs MĂŠndez http://policromatico.freehostia.com/photo/ Monochrome Circus http://www.monochromecircus.com/ Yoichi Nagano http://yoichinagano.com/en/ Nagano,Yoichi. Breathless. FOIL, 2012 http://www.foiltokyo.com/ Chris Rudz http://vimeo.com/chrisrudz http://www.behance.net/chrisrudz Yasu Suzuka http://yasusuzuka.com/ Masakatsu Tagaki http://www.takagimasakatsu.com/ Toru Yamanaka http://www.shrine.jp http://www.theatreworks.org.sg Shiro Takatani http://shiro.dumbtype.com/
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Cover and inside cover photos, p.51 © Stefano Bandini, Courtesy the artist • 54th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia. Greek Pavilion. Diohandi, Beyond Reform, 2011 / Aria #1, 2011 © Sebastiano Luciano, Courtesy the artist • Between the Sky and the Water, 2013 © Andrea Buratta aka Novembertraum, Courtesy the artist • A lost you in a day and night, 2011 / Tenchikaibyaku, 2012 © Chris Rudz, Courtesy the artist • Light Pool, 2004 / Earth’s Creation © Masakatsu Tagaki, Courtesy the artist • Untitled from the series Breathless 2009-2010 © Yoichi Nagano, Courtesy the artist and FOIL GALLERY • Video excerpt from Water House, 2005 © Kosei Sakamoto, Courtesy Kosei Sakamoto and Monochrome Circus • This human zoo, 2012 /The fish knows, 2011/ A Forest, 2010 © Andrés Méndez, Courtesy the artist • Snow (Remake 2013) © Toru Yamanaka, Courtesy the artist • p.51 © Teresa Degli Angeli • Ice Core, 2005 © Shiro Takatani, Courtesy the artist • Pinhole works – Wind Mandala © Yasu Suzuka, Courtesy the artist • Untitled, 2012 / Video excerpt from HEIDI 45, 2005 © Chie Matsui, Courtesy the artist 87
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Argo Art Projects si compone di due progetti, Voce al silenzio e Watershape, pensati appositamente per le versioni cartacea ed online di Argo XVIII-H2O, numero dedicato al tema dell’acqua. Watershape, concepito sottoforma di e-book e inserto multimediale, accompagna il lettore in un viaggio tra le differenti forme e i diversi significati dell’elemento “acqua” attraverso i lavori di 11 artisti differenti per sensibilità, mezzi espressivi e paesi di provenienza. Argo Art Projects is composed of two projects, Voce al silenzio and Watershape, specifically designed for paper and online versions of Argo XVIII-H2O, issue devoted to the theme of water. Watershape is an e-book and multimedia supplement, thought as a journey among different shapes and meanings of water through the works of 11 artists different for sensitivity, media and countries of origin.
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Formula bruta o molecolare Massa molecolare (u) Aspetto Numero CAS PubChem ΔfH0 (kJ·mol−1) ΔfG0 (kJ·mol−1) S0m(J·K−1mol−1) C0p,m(J·K−1mol−1)
H2O 18,0153 g/mol liquido incolore[2] [7732-18-5] 962 -285,8 -237,1 70,0 75,3
999,972 a 277,15 K (4 °C) Densità (g/l, in c.s.) 1,3330 Indice di rifrazione 0,00 °C (273,15 K) Temperatura di fusione 6 (a 0,00 °C)[3] ΔfusH0 (kJ·mol−1) 21,9 (a 0,00 °C)[3] ΔfusS0 (J·K−1mol−1) Temperatura di ebollizione 100,00 °C (373,15 K) 40,7[4] ΔebH0 (kJ·mol−1) 273,16 K (0,01 °C) Punto triplo 611,73 Pa 647 K (374 °C) Punto critico 2,2064 × 107 Pa 2338,54 Tensione di vapore (Pa) a 293,15 K esagonale Sistema cristallino 1 Viscosità dinamica (mPa.s a 20 °C)
€ 10