Argo XVI / ID La Materia che amava chiamarsi umana

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Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA



Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA


ARGO N. 16 / ID. LAMATERIA CHE AMAVA CHIAMARSI UMANA Rivista di esplorazione fondata nel 2000

registrata al Tribunale di Bologna N.7393 del 22/12/2003 con il Patrocinio dell'Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia

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(in particolare Michele Barbolini); Les bricoleurs d'avenir di Parigi; Associazione Culturale "Bubamara"; Ca' Magre (in particolare Alessandro Tanassi); Caleido; Massimo Canalini; Dibres Cantini; Carlo Cardarelli; Festival Cibo per la mente; Comune di Senigallia – Assessorato Cultura (in particolare Stefano Schiavoni); Antonino Contiliano; Festival del CopyLeft; Isabella D'Amico; Tano D'Amico; Piera De Conti; FIxO - Ufficio Coordinamento Tirocini e Stage (Bologna); Luca Gabrielli; Mauro Gallegati; Gianfranco e Vanessa nei trulli; la rivista «Il primo amore» (in particolare Carla Benedetti e Antonio Moresco); i lettori; Libreria Agave; Libreria Coop.bologna; Libreria Il Portico (Bologna); Libreria Metro; Melting Pot Europa; Migreurop; Associazione Nadir Pro (in particolare Gianni Palcich, Michele Sipala); Davide Nota e la rivista «La Gru»; Edizioni Pendragon (in particolare Antonio Bagnoli e Gianmichele Lisai); Laura Piccinini; Radio Città Fujiko (in particolare Alfredo Pasqualli e Alessandro Canella); Radio Fragola (in particolare Agnese Ermacora); Gino Ruozzi; Vanni Santoni; Fabio M. 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diario di bordo * 宇宙戦艦ヤマト Lungo le piste che abbiamo esplorato e lasciato aperte apparentemente non è cambiato nulla, non è successo nulla. Anzi tutto sembra sfaldarsi e sgretolarsi ancora. L’Italia, ancora la “povera patria”, è stata il punto focale della nostra ricerca, nel romanzo collettivo d'inchiesta Oscenità. Il tempo è trascorso. Ora la guardiamo allontanarsi e replicarsi senza decenza, oscenamente sull’orlo della catastrofe, equilibrista spudorata, ci sentiamo muovere in profondità in risonanza magnetica e genetica. E, attraversando il fuoco, rimanendo per un attimo il punto – in una dimensione – sostituiamo l'obiettivo, giochiamo sul diaframma avanti e indietro a trovare il giusto tempo per la giusta esposizione. Zoomiamo indietro, prima su di noi, sulla nostra città, sulle sue strade, sui vicoli. Sulla signora che sull’autobus tiene comizi xenofobi e si lamenta dell’euro. Sull’immigrato che bestemmia e chiama suo figlio Silvio, perché gli ha fatto avere i documenti. Sul ragazzotto che guida il bolide al telefonino, sul pensionato che guarda mentre mi pestano per fottermi la borsa, sul panettiere la fioraia il pescivendolo del centro commerciale come fossero in un acquario, dove cercando mezz’ora parcheggio l’intera famiglia può passare la domenica a mangiare hamburger e bere Coca-Cola e passeggiare su un tappeto musicale dell’Ikea. Sul vestito in giacca e cravatta sullo scooter, sulla madre di famiglia che ha bisogno del Suv per portare a scuola il suo figlio unico dell’ex marito. Su me stesso, su noi davanti allo specchio, adesso, davanti alla tv, con un telecomando del desiderio, a far zapping un tasto al secondo, un metronomo morale, amici, nemici, amore, odio, vacanze, fatica, buoni, cattivi, giusto sbagliato, bianco nero, vestito nudo. Di qui, d’altrove. Zoomiamo ancora, passando per i cavi della tv per i satelliti le onde elettromagnetiche il wireless ci imbattiamo in questo Paese tutto insieme (e fa strano rivederlo ora da qui) e nei suoi rappresentanti legittimi e non. Ascol*Uchū Senkan Yamato

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tiamo Ministri leghisti blaterale di origini padane, neo-post fascisti, post post comunisti, risocialisti, monarcoidi, anarcostituzionalisti, democratici immobili letargici, onanisti, ex manganellatori megafoni istituzionali. I mafiosi pentiti che si smentiscono come se giocassero a cavallina. Giudici in stato confusionale, giustizialisti solitari, giornalisti corrotti, di regime o semplicemente storditi. Berlusconi che si sfrega le zampe, la sua tessera P2, Licio Gelli che in un'intervista evoca i campi di concentramento contro i clandestini per separare le vacche nere immigrate dalle bianche locali, niente miscugli. Gerarchi e cuochi, un parlamento vuoto, un bivacco di manipoli, un cadavere che è insieme la memoria di tutte le vittime di questo paese adolescente immaturo e di genitori ignoti (guerra, guerra civile, stragi tutte e tutti i vicini di casa che danno di matto e sparano sulla suocera sul passante sul creditore). E l’aborto della democrazia che se ci pensate bene non ha mai abitato qui. Riprendi fiato. Sei uscito dalla tua stanza da casa scendi le scale esci dal palazzo sei in scala 1:10, io sono colui che è, io sono quello che suono, io sono l'ago trovato col piede in un mucchio di paglia, scendi (sali?) ancora di scala, sei una linea tra due città, un’autostrada, una regione un’altra, il Po la Padania l’Emilia-Romagna il Nord Italia sei un puntino che indica un luogo immenso su una mappa, sei una zecca in uno stivale. Sposta lo sguardo a nord-ovest, trovi il Ministero dell’Identità nazionale in Francia, neonazionalismi rispuntare in tutta Europa come funghi, siamo cittadini europei tutti uguali finché fuori c’è qualcun altro più diverso, più lontano, popolazioni come macchie, come formiche microscopiche ammucchiate barbaramente selvaggiamente dove è caduta una briciola di pane, grattacieli fabbriche case con accanto macchie azzurre (la piscina), altre che si muovono in fila indiana attraversando tratteggiate linee di confine, lungo fili prima tesi come linee rette, attraverso il mare. Se metti un bastoncino lo scavalcano o lo aggirano, vanno verso la briciola anche loro. Zoomando ancora vedi le frontiere d’Italia dell’Europa: Lampedusa come un torrione fortificato in mezzo al mare, le Canarie Ceuta Melilla. La Libia desertica. La Grecia che fuma come una Turca, il muro che Israele costruisce nel Sinai come la muraglia cinese dalla luna, il mondo colorato per continenti. Ora a qualche chilometro di altezza sfumano i continenti che si mischiano alle nuvole, agli oceani, su uno sfondo nero distinguiamo una palla azzurrognola. Una unica palla. Quanto tempo è passato? Qualche milione d’anni o una frazione di secondo? La Storia? Reazioni a catena, esseri atomici, esplosioni nucleari, polvere di stelle, orbite ellittiche, molecole, pesci, anfibi, uccelli, animali a quattro a due zampe. Di nuovo in viaggio. Siamo primati, mammiferi piuttosto primitivi rispetto ai molto più specializzati cetacei, che II


hanno preso le sembianze di pesci e sono andati a popolare, da mammiferi, le acque del mare, o ai pipistrelli, che, maldestramente camuffati da uccelli, svolazzano per i cieli come fossero topi volanti. Cacciamo nelle foreste, notturni mammiferi insettivori, dalla vista acuta e stereoscopica, che, divenuta a colori, ci consente di cambiare dieta e trasformarci in diurni degustatori di frutta, colorata per sua natura. Ora prendi l’autobus attraversa la città, diventi il tragitto del numero 41. Sull'autobus, con una mano tieni la banana che mangi contro i crampi della gravidanza e con l'altra, alzata, compi lo stesso gesto della brachiazione comune ai tuoi cugini gibboni. Guardi la banana e la mano che la tiene: ha cinque dita e il pollice opponibile, come quella degli altri primati, anche se alcuni il pollice non lo hanno affatto. Il vicino ti tocca il culo, ma tu non puoi mollargli un ceffone, allora lo guardi storto, inarcando le sopracciglia, grazie a tuoi sviluppati muscoli mimici. Non è possibile che apparteniate alla stessa specie! Eppure anche lui è bipede, il suo cervello non peserà un chilo e mezzo come il tuo, ma neanche 50 grammi, come dovrebbe pesare secondo l'abituale proporzione corpo-massa degli altri animali; ha il volto piccolo e piatto e per quanto sia peloso, la sua peluria è miniaturizzata, a differenza degli altri primati. Suda abbondantemente e si sente. Il suo pene di maschio umano è più grande di quello di altre scimmie, i testicoli meno voluminosi e, se vi accoppiaste tra voi, produrreste una progenie vitale. Non ci vuoi nemmeno pensare! Vorresti che qui ci fosse un chirurgo per tagliarti questo seno pendente, appiattirti questo sedere più arrotondato e carnoso del suo, diventare lui e farti schifo per aver toccato il culo di un uomo. Invece sei imprigionata in questo corpo da pupa, oggetto del desiderio, de sideribus, oggetto caduto dalle stelle. E senti la gravità che ti schiaccia a terra, la terra che gira e ti gira la testa. La tua mano è la mano di una scimmia, lui è un gorilla. Devi sederti: se fossero di legno, questi seggiolini sarebbero residui di bosco, ma sono di fòrmica, surrogati del petrolio, il sangue marcio della terra, l'oro nero di questo pezzo spento di stella, che fa muovere gli eserciti, fa uccidere i capitani d'industria non asserviti, fa asservire i popoli. Precipitati su noi stessi, su dove viviamo, sullo spazio che abitiamo, abbiamo ripreso il viaggio attraverso noi stessi, attraverso l’essere umano che siamo, individuale e collettivo, l’identico e l’altro, attraverso l’umanità che conosciamo e che aspettiamo di conoscere. Ci chiediamo ancora chi siamo. Id: la materia che amava chiamarsi umana. Di nuovo in cammino, comunità nomade, tolta allo stato ferino dall'eredità dei libri, tramandata da comunità di pensiero, unite dall'amore per i testi e orientate verso l'umanizzazione dell'homo inhumanus. La fine di un percorso è un nuovo inizio. III


itinerario Diario di bordo Simone Pieranni Il motore di ricerca umano: tra hacking e nuovi dazebao in Cina Fabio Orecchini Rew. Voci migranti 2 Luigi Nacci strauSS / strauSS Marco Benedettelli e Gilberto Mastromatteo La muraglia e il limbo. Come l’Europa del 2000 ha elaborato la sua strategia difensiva contro i flussi migratori Giuseppe Colomasi 1866 Andrea Inglese Il "fascismo estetico" Alessandro Ansuini I dadi / VHS against human comfort Luca Manucci Tele-visioni Lorenzo Franceschini House of no more David Bowie / Intervallo musicale di Samuel Manzoni Alessandro Busi Colloquio di lavoro Locusta C Trasformazione in atto Jacko allo specchio. Lato A: White Idol / Intervallo musicale di Samuel Manzoni Jacko allo specchio. Lato B: Black Idol / Intervallo musicale di Devon Richard Ugo Cornia Chirurgia trans-specifica Silvia Albanese & Nicoletta Bucciarelli Rivendicare il proprio transito. Dialogo con Porpora Marcasciano Filippo Brunamonti Le favole non dette. L'odore autentico di Vladimir Luxuria Daniela Shalom Vagata Il corpo in primo piano. Luce e dignità per il fotografo Eikoh Hosoe Lorenzo Franceschini Fare le immagini. Luce e verità per il fotografo Tano D'Amico Joshua Adams Point of view / Choral / Letter to the Corinthians Franco Buffoni Di che sessualità sei? Massimiliano Chiamenti Il parcheggio di notte Andrea Marcellino Amore Barbara Laconi Del come, del quando, del perché Maria Grazia Maiorino Sirene IV

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itinerario Una parentesi rosa, fra mercato e pop music: Lady Gaga / Intervallo musicale di Samuel Manzoni Igor Tchehoff Svezia allo specchio Dario Aquaro Twitter, notizie e propaganda. La rivoluzione iraniana e l'affanno dei media Filippo Furri Umano troppo urbano Rossella Renzi La sola misura. Pier Paolo Pasolini da Poesie a Casarsa a Le ceneri di Gramsci Manuel Cohen Sopra un verso di Pier Paolo Pasolini Ivan Tagliaferri Tex in parlamento Andrea Tarabbia Il paese delle Tribù Marcus L. Fisketorget Franz Quondam La tana del Bianconiglio Giovanni Nadiani Zent Augusto Illuminati Eremiti Rocco Brindisi Il bambino dislessico lo hanno rapato a zero Daniela Shalom Vagata Essere-otaku Ugo Coppari Non ci siamo accorti di nulla Silvia Albanese Lo spazio della quiete. Dialogo con Mariangela Gualtieri Marina Pizzi dalla raccolta “Il sonno della ruggine” Giuseppe Merico La lista Andrea Marcellino L'uomo-sedia Alessandra Sartori L'orso Manuel Caprari Vuoto di memoria # 3 / Fuori stagione Wu Ming 2 Genius loci Daniela Shalom Vagata Until April. Contatti Giacomo Sandron Cossa vustu che te diga / Sarei scivolato lento Simone Colombo Identità mutanti Francesca Alfano Miglietti (FAM) Trasfigurazione. Corpo e arte contemporanea Gabriele Tinti Ma non hanno mutato noi. Dialogo con FrankoB Mattia Santini Ogra / La pesanteur et la grâce Mappe

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Scriveva a Ellie, una sua amica lontana. Un commento demenziale sull’oscenità della corruzione italiana. Mentre ticchettava sulla tastiera gli danzavano sul volto invisibili forme scalene. Erano schegge colorate, impiantate sulla retina, ma per decifrare il loro lucore sarebbero occorse cellule fotoelettriche che l’occhio umano non aveva ancora sviluppato. Sicché, allo stato attuale, tutto era impercettibile alla materia umana. Quella luce poliedrica si irradiava dai grafi dell’alfabeto, che pulsanti sul computer s’aggrumavano in gomitoli elettrici. L’irraggiamento delle particelle mordeva lo spazio battendo le ali. Sbocciavano satelliti dentro i suoi occhi, feti in cui si marsupiava, s’incubava. Il crepitio dei suoi neuroni lo avvertì che stava navigando nel cosmo. La mutazione aveva gli occhi di Ellie, animale enigmatico contenitore di ogni distinzione.

il motore di ricerca umano: tra hacking e nuovi dazebao in Cina di Simone Pieranni


Lʼinizio di tutto Tutto ebbe inizio con una infermiera. In un video messo on line un piccolo gatto veniva ucciso in modo sadico. Un orrore davvero. Lei, lʼinfermiera, non era visibile, non si riusciva a scorgere il volto né tanto meno un elemento che potesse renderla riconoscibile. Sul web cinese il video divenne un fenomeno cult e partì la caccia. Perché il video suscitò rabbia e ogni netizen cinese aveva un solo desiderio recondito: scovare lʼinfermiera. I frame vennero analizzati in modo minuzioso, si riempirono pagine internet di informazioni al riguardo. Dallʼon line si passò allʼoff line, nel luogo in cui si riteneva si fosse consumata lʼuccisione del gatto. E infine lʼinfermiera fu scovata. Grazie a un fenomeno di cui si è dovuto inventare anche il nome. Qualcosa di estremamente cinese: il motore di ricerca umano. Ora, bisogna precisarlo, la faccenda ormai è sdoganata: ne parlano le agenzie di stampa governative, le riviste, i tribunali, con sentenze, qualcuno ha provato perfino a spiegarlo con un lungometraggio. Sezionare il motore di ricerca umano significa tuffarsi nei meandri più interni della Cina contemporanea, significa volteggiare tra identità che mutano, sciacallaggio via blog, chat, forum, ma anche attivismo, opinione pubblica, taz di sfogo sociale anti potere (le T.A.Z., Temporary Autonomous Zone, sono Zone Temporanee Autonome dal Potere, ideate da Hakim Bey, pseudonimo dello scrittore, saggista e poeta statunitense anarchico Peter Lamborn Wilson). Perché si tratta di un fenomeno unico, solo cinese. E per raccogliere tutte le sue dinamiche strambe e sbilenche in un termine solo, si è inventata anche una nuova parola: Renrou Sousuo Yinqing, la cui traduzione in inglese è Manpower Search Engine. Più comunemente però i cinesi usano solo una parte della definizione, Renrou, ovvero carne umana. Da qui il nome ufficiale in inglese: human flesh search. In generale si può descrivere in questo modo: di fronte a un comportamento considerato immorale, ingiusto, i cittadini cinesi reagiscono rendendolo pubblico sul web, portando avanti investigazioni private che possono anche avere il proprio epilogo con il linciaggio di una persona normale o con la scoperta di una nefandezza dei potenti. «Si tratta di un gruppo di persone che usa internet per cercare e condividere informazioni su una persona: questa è la definizione», mi dice sicura Fauna, una delle fondatrici di chinasmack.com, sito che raccoglie «le storie più piccanti della rete cinese». Il fenomeno è controverso, contraddittorio e dai mille volti. «Qualcuno pensa che sia qualcosa di simile a Google per via del nome, ma non lo è. Chiariamoci: è un fenomeno sociale, una forma di azione collettiva». Guobin Yang, professore universitario e autore di libri su internet e comunicazione, prova a farci capire cosa sia il motore di ricerca umano. Il motore infatti è vivo, si nutre di carne umana: la passa sotto il setaccio di altra carne, ne esce modificata e termina in un punto interrogativo su quanto di nuovo, nel caso, si è creato. Il mo2


tore di ricerca umano si nutre di carne, riscatto, vendetta. «Per alcuni – sostiene il professor Guobin – la partecipazione a un motore di ricerca umano è una forma di onore, di giustizia. Non è raro che in molti casi vengano anche hackerate mail o altro per ottenere informazioni da sfoggiare al resto della comunità, come eroi dʼaltri tempi». Secondo lui il Renrou è una forma di attivismo contemporaneo. La Cina, lʼex malato dʼAsia, torna a risplendere economicamente, portando nel giro di pochi anni milioni di persone al di sopra della soglia di povertà. Lo fa a prezzi altissimi, creando un modello sociale profondamente ineguale in cui il collettivismo socialista è sostituito da una forma di individualismo completamente declinato al consumo. Lʼuomo cinese diventa tronfio, non mangia il riso, perché è cibo dei poveri, si affanna a sfoggiare la nuova ricchezza. Gli è consentito farlo. Il Partito controlla i gangli fondamentali del potere – economia, giustizia, esercito – e lascia liberi i cinesi di fare solo una cosa: comprare. In queste condizioni i cinesi mutano ancora, restando sempre molto attenti alle proprie tradizioni. Quelle di chi concepisce il tirannicidio come normalità, di chi insorge se il figlio del cielo non adempie al suo mandato. Servire il Popolo, non è solo uno slogan maoista, è un cardine dellʼidentità cinese. Liberalizzazione, mercato e internet, come terzo incomodo, a complicare lʼidentità mutante cinese, mischiandola al mondo intero, allʼetica hacking, ai gold farmers, quelli che scovano soldi virtuali da vendere in cambio di soldi reali. I bloggers, quelli che postano su Twitter, quelli che organizzano assalti ai posti di polizia via cellulare. Adattarsi, mutare al mutare dellʼambiente circostante. Altri cardini profondamente cinesi. E se il governo si piglia tutto, internet diventa uno strumento di modifica dei rapporti sociali. Su internet il cinese atomizzato, solo nel centro commerciale di fronte a ogni bene, trova gli altri cinesi. Li scova, li invita a collaborare, a costituirsi in rete, a creare tante taz virtuali. Contro lʼarroganza del potere, contro gli squilibri del sistema sociale, ma anche per accanirsi, per sfogare la frustrazione di vita in una società in cui non esiste mobilità. A meno di non avere guanxi, i ganci, il network relazionale, pietra angolare della società e socialità cinese. Nuova identità Uno degli ultimi clamorosi casi di Renrou riguarda un politico. Si tratta di Zhou Jiugeng, un alto dirigente statale di Nanchino. Analizzando le foto apparse sul web di una conferenza cui Zhou partecipava, molti citizens hanno notato alcuni particolari, come il pacchetto di sigarette costose (circa 100 euro, una cifra esorbitante considerando che le sigarette costano mediamente meno di 1 euro) e lʼorologio prezioso. Due beni che un funzionario di Partito non dovrebbe avere, per rispetto del Popolo. Parte la ricerca, sul sito finiscono altre informazioni e conferme. Le agenzie cinesi parlano di cigarette gate. Il 3


tipo finisce nel mezzo di un bel disastro politico e si dimette. O ancora: a Wengan, nella regione del Guizhou nel sud est cinese, Li Shufen, sedici anni, viene trovata morta in un fiume. La polizia appare intenzionata a chiudere il caso velocemente, archiviandolo come suicidio. Su internet però non tutti la pensano allo stesso modo: parte una ricerca umana, perché qualcuno pensa si sia trattato di omicidio. Si scovano informazioni della vita reale della ragazza che vengono messe a disposizione di tutti in rete. Parte unʼinvestigazione alternativa, perché on line finiscono anche perizie, documenti riservati. A partecipare sono in tanti, perché di mezzo cʼè il figlio di un noto e potente politico locale. Sarebbe stato il ragazzo, amico della vittima, a uccidere la giovane, come dimostrerebbero le testimonianze, tante, e come farebbe supporre anche la contraddittoria e rapida procedura dei poliziotti locali. Qualcuno, tra i potenti, ha paura. La notizia si diffonde su internet e il motore di ricerca umano diventa ingestibile, perché la rete non basta più: cinquecento studenti vanno a protestare davanti allʼufficio di polizia. La polizia carica e disperde a suon di botte la piccola folla. Si sparge la notizia che ci sia un morto. La reazione è strepitante: secondo le agenzie circa 30mila persone imbestialite si riversano per strada. La chiamata alla rivolta si propaga da Twitter e da altri social network: lo scontro con la polizia è lungo, circa sette ore, le conseguenze varie, un centinaio le persone ferite, oltre cento edifici e quaranta macchine date alle fiamme. Al termine di quelle giornate di tensioni, la polizia riapre il caso della giovane ragazza. Identità e Confucio Se la Cina si sta comprando il mondo, partendo dallʼAfrica, fino alle pensioni degli americani, per arrivare a compagnie di telecomunicazioni e banche europee, il nuovo uomo cinese che tipo di umanità propone al mondo? Il Renrou costituisce una sorta di pozzo in cui finiscono i sentimenti più nascosti della socialità cinese, un fondo in cui la vita nel presente dei cinesi (senza memoria, a furia di guerre contro i “vecchiumi”) si mischia e viene fuori nel suo duplice aspetto di vittima e carnefice. Per alcuni è una forma di hacking moderno, contemporaneo, un attivismo contro gli abusi di potere, una nuova forma organizzativa che dallʼon line passa allʼoff line, alla ricerca di una via liberatoria. Per altri è il sintomo antico dei cinesi, spinto più in là dalla rivoluzione culturale: la delazione, le spie, le parole sussurrate, la mancanza di privacy, i dazebao di pubblica condanna. Liberalizzazione, individualismo, internet: nasce da qui la nuova identità cinese. E chissà se sarà solo cinese, da qui a qualche anno. I sinologi hanno una loro spiegazione: a essere condannati sono comportamenti che non sono considerati morali: non si uccide un gatto, non si tradisce la moglie, non si sfoggia ricchezza quando si 4


dovrebbe servire umilmente il Popolo, non si nasconde la colpevolezza di un potente. Il Confucianesimo, nonostante il Maoismo, è sempre resistito nellʼanima dei cinesi. E il Confucianesimo si basa sulla condotta morale dell’individuo, perché con essa si raggiunge la gestione armonica della società. L’uomo di animo nobile quindi agisce in modo morale ed etico per una naturale inclinazione che lo porta a essere giusto. «Di solito con il Renrou si cerca giustizia – spiega ancora Fauna – ma il più delle volte credo sia rivolto contro gli abusi del potere. Poi chiaramente ci finiscono in mezzo persone che non cʼentrano niente, ma tutto è mosso da un senso di giustizia». L’inclinazione al senso di giustizia è un imperativo categorico tanto che tutta la tradizione confuciana classica si basa sul Ren, il cui carattere è composto dal radicale di uomo accanto al numero due: lʼuomo realizza se stesso nella corretta empatia con lʼaltro. E i cinesi queste cose le hanno nel sangue. Ma non c’è solo Confucio. Per i cinesi anche il Renrou, in fondo, è normale. E allora vengono in mente le punizioni pubbliche e le delazioni della Rivoluzione culturale e quella tendenza, palpabile anche oggi, della totale mancanza di privacy. Fauna ha una risposta anche su questo: «Per noi cinesi è una cosa non certo sconvolgente. Da sempre abbiamo un afflato più collettivo di altre civiltà, per svariate ragioni. Lʼuno si confronta con la moltitudine, sempre. Forse agli stranieri il fenomeno interessa di più perché hanno più fiducia nelle autorità e nella polizia.

Parigi, Maggio 2010. Lungo il canale Saint Martin non c’è Amelie Poulin che lancia sassi all’amore. Qualche parigino pranza in terrazza, sotto il sole. Lungo il canale scivolano gruppi di ragazzini con sguardi da uomo, testa bassa, occhi attenti. Lasciano passare il tempo fumando e scambiandosi qualche parola in dari. Sono afghani, tra i 14 e i 20 anni. Arenati qui da settimane o mesi, perché non riescono a proseguire il loro viaggio verso nord, Inghilterra, Svezia, Norvegia: «Abbiamo amici là, mio fratello è là che mi aspetta». Non riusciranno ad arrivare a Calais dove la jungle è stata smantellata, non possono proseguire, ma indietro non si torna. Senza documenti, senza soldi, senza parole, soli con il racconto del loro viaggio. Mesi di viaggio attraverso la Turchia, poi ammassati nel campo di Patrasso o nei boschi intorno a Igoumenitsa, il tir dove nascondersi, il viaggio in nave, l’Italia, una stazione, un treno. Per chi non si ferma prima. Questa sera accenderanno fuochi sotto i ponti del canale, aspetteranno la distribuzione del cibo della ronda della carità. Chi avrà diritto a un posto letto ne approfitterà, gli altri passeranno la notte sotto qualche tenda o ripari di fortuna. Nomadi urbani e orgogliosi, chiedono da fumare e scivolano via.

rew voci migranti di Fabio Orecchini


O perché le società occidentali sono più individualiste. O perché Renrou è un nome cinese». Scherzando, si tocca un punto non da poco, verrebbe quasi da parlare di linciaggio on line con caratteristiche cinesi. Altri invece la mettono su un piano più intrigante: il Renrou altro non è che una nuova e moderna forma di attivismo. È il caso del professor Guobin Yang che sulla questione ha scritto un libro, The Power of the Internet in China: Citizen Activism Online (Columbia University Press, 2009). «Due sono i fattori – sostiene Yang – che permettono lʼesistenza del fenomeno: in primo luogo una dilagante e interessante vita on line, compresa quella di community molto vaste che sono i network principali del Renrou. In secondo luogo, ci sono le condizioni sociali in cui prevale lʼingiustizia, la corruzione, un senso di mancanza di controllo nei confronti delle autorità. In questo senso è una forma di azione collettiva e una dimostrazione dei risentimenti e delle frustrazioni dellʼodierna società cinese». Viene da chiedersi come questo possa accadere sullʼinternet cinese così controllato e censurato: «La verità è che i navigatori cinesi non sono tonti – prosegue il professore – e ogni volta si inventano qualcosa per evitare la censura o abbassarne gli effetti. E questo è un altro elemento che chiarisce come le motivazioni del Renrou siano spesso rivolte contro il potere».

Comincio a stare male anchʼio. La notte non dormo ascolto le voci dei nastri quei maledetti nastri Rew e li riascolto Rew e li riascolto e la mia voce scompare il mio io scompare mi sembra di parlare con la voce delle persone che ascolto e registro ogni giorno, voci che risuonano nella mia stanza di rimbalzo sulle pareti nella mia mente di continuo spingono per entrare penetrare il mio corpo. «Il primo lavoro lʼho fatto in un ristorante. Facevo il lavapiatti. Ho mangiato per nove mesi in piedi. Questo nel mio paese non esiste, ti siedi e mangi. Così è cominciata la mia vita in Italia. [....] Prima io stavo bene, adesso è diverso, mi sento stanco, non ho la forza, il mio viso non è più come prima, sono dimagrito e non so il perché. Io mangio bene, forse è il lavoro notturno e il fatto che dormo poco. Mi sento vivo ma è come essere morto. Non sento niente quando mi sveglio al mattino, è come se fossi malato e non ho il coraggio, la forza di andare». Ho ucciso. Ho visto corpi senza testa crepitare come code di lucertola le Tigri Tamil squartare ventri gravidi come di cagne rabbiose sbranare il collo le cosce


i polpacci le mani di amici e compagni morire ho visto i suoi occhi infossati infossarsi. Scuri dentro scuri fuori. Gli faccio un cenno con gli occhi, si volta, una bella ragazza ci sta passando accanto. Ravi sorride, ho visto le cicatrici sul suo volto scarno dilatarsi dalla guancia fin dentro gli zigomi. Si accorge di qualcosa, di una smorfia sul mio volto e torna serio al suo sguardo di sempre gli occhi tesi e neri che vibrano quegli occhi scuri – mi guardano dentro. «Nella mia famiglia siamo tutti militari. Tutti i miei fratelli combattono nella milizia. Difendono la mia famiglia. Io sono dovuto scappare, le sentivo avvicinare sempre più, le Tigri, ho avuto paura di morire e sono scappato. Ma la mia famiglia è ancora lì. Non ho più notizie di loro da mesi. La televisione dice che la guerra si è fatta ancora più dura e violenta. Mi sento un debole e mi vergogno perché non posso più difendere la mia famiglia. [...] Da quando sono arrivato a Roma abito in una casa con alcuni parenti sulla via Cassia, in un piccolo appartamento in Largo Sperlonga. Sai come lo chiamiamo noi?». «Come ?», chiedo. «Palomar», risponde e sorride. «Le case sono tutte vicinissime, abitate da stranieri di ogni paese, ecuadoriani, filippini, brasiliani, capoverdiani, e anche tanti italiani, già prima ci abitavano anche famiglie di italiani, ora non più... Lì non è come al mio villaggio dove conoscevo tutti, la mia qui non è una casa, non posso dire di avere una mia stanza, una mia camera. Non sapevo dove mi trovavo». E lo stesso poteva dirsi di me. Essere altro da me. Diventare altro. Devo entrare, nelle parole, il nastro riparte. «La stanza dove vivo è piccola e buia. Quella dove lavoro è grande e bella, ma quellʼodore, sempre quellʼodore. Lʼho sentito già una volta, tanti anni fa, ero una bambina. Ero ancora nel mio paese. È lʼodore della morte... Poi quel silenzio continuo, silenzio sempre silenzio. Mi sento schiacciata qui sul petto. Sento un peso che spinge forte e mi soffoca. E poi quella stanza è buia, devo aprire la finestra e respirare forte, ho bisogno di aria di far entrare la luce di gridare. Da qualche tempo poi mi sgrida sempre, in continuazione, mi dice che non capisco mai quando mi parla, che devo imparare lʼitaliano meglio sennò mi manda via. Sto sempre lì, tutto il giorno e tutta la notte. Non conosco nessuno ancora. Il giorno di riposo non so nemmeno dove andare». Poi una crisi di pianto improvvisa, ascolto le lacrime filtrate dal registratore, metalliche come schegge penetrano le mie carni. Ansia e panico. Crisi improvvise di pianto. Tremori. E questa insopportabile


sensazione di schiacciamento, di soffocamento continua. I sintomi di una dissoluzione. E non è tutto. «Non riesco più a parlare, non riesco a parlare con nessuno. Mi dimentico anche quello che dico. Quello che mi dicono. Delle volte alcuni mi telefonano e mi dicono: ma perché non sei venuta, ti ricordi, avevamo un appuntamento. E io proprio non lo ricordo. È successo anche con Consuelo, la ragazza della vostra organizzazione». Sento la morte che si avvicina sento sempre il suo odore mischiarsi allʼodore di piscio sulle lenzuola, di medicine scadute. Non posso lasciarlo morire se lui muore dove andrò a finire. E così lo continuo a curare e lui che grida e mi sgrida e io mi siedo di fianco a lui anche la notte tutte le notti e aspetto. Che ci prenda insieme, la morte, se proprio deve. I brividi mi attraversano il corpo. E il mio corpo incassa e reagisce, sono tremori quelli che sento. La cura. Devo trovare una cura. Ma una cura per cosa? Come si può curare, estirpare tutto questo male. Riaccendo il registratore. Fuori sta per albeggiare. La luce è contratta e soffusa. Come la voce che ronza nellʼaria. Che poi arriva, penetra come la luce. Un giorno come un altro sta per iniziare. «Vado a scuola qui vicino, ma non è facile. Io sono filippina, i miei sono venuti a Roma quattro anni fa. Io avevo 11 anni. I miei genitori non vogliono che esco con le mie amiche di scuola, le ragazze italiane, papà mi dice sempre “ma hai visto come si vestono, tu non puoi andare in giro con loro”. Ma io non voglio essere come loro. Ma nemmeno come mamma e papà. E poi devi stare qui in casa, devi dare una mano in casa, devi pulire, non vedi, la mamma non torna prima di domani. E io sto a casa a pulire e a fare da mangiare. Mi dice “ma cosʼhai sulla faccia? Colpa di quelle schifezze che ti danno da mangiare”. Se il prurito mi viene mi nascondo in bagno così non può vedere. Ma a scuola non posso, tutti conoscono la mia malattia. Non riesco a fermarmi, capisce. Sento il prurito qui, negli occhi e sulla bocca. Vorrei potermi grattare gli occhi, ma non riesco, devo grattare tuttʼintorno. E la bocca mi prude, mi prude la bocca. Dottore non riesco a fermarmi, cosa devo fare». La bocca rotta. Le labbra scarnificate. Le palpebre languide. Rossi filamenti di sangue. Lunghi tagli sulla fronte e intorno agli occhi. I segni del gioco delle


unghie, del male nelle mani. Ancora una maschera. Questa volta da strappare. Lacerare. Il volto scompare, di Maria non resta che un grumo olivastro infilato tra le unghie e i polpastrelli. Le unghie che non smettono di rosicchiare la pelle, un rumore animale sgretolare come un topo le mura sottili di casa la pelle così anchʼio inizio a grattare graffiare la pelle bocca occhi sento le unghie scarnificare il volto il mio io dissipare quello che sono quello che fino ad oggi ho sempre creduto di. Essere. Annullarsi rimane lʼunico modo per comprendere. Comprendersi. E il nastro riparte.

Luigi Nacci

strauSS Piovono i grigi e le case si chiudono a chiave Dentro le stanze i livelli di polvere aumentano Nelle poltrone sprofondano insonni le protesi Alle finestre affacciati pasteggiano gli acari Esci a comprare la roba che manca Dice la sagoma sul pavimento Con una voce che arranca e che striscia Come una serpe svogliata in attesa di muta Come scirocco malsano carente di spinta Come un’idea malandata che a rivoli inonda le tempie Sempre le cose ammassandosi acquistano spazi imprevisti Tirano su accampamenti negli angoli meno battuti Cosa su cosa prolifera un senso di soffocamento Cresce nel petto una morsa che pressa il miocardio Torchia i tessuti e le valvole ventricolari Strozza le arterie incrostate di placche e lipidi Come uno straccio strizzato che cade stecchito per terra Come una merce invenduta che scade imballata in scansia Come qualcosa che viene a mancare Come una stella che spenta si addensa e risucchia la luce Un buco nero in cui stare sospesi in penombra 9


Non riesco a fermare le mani, non riesco e continuo a raschiarmi la faccia la bocca continuo a frantumare quello che sono ma la pelle non viene non la riesco a strappare la mia maschera è vera è reale è molto più vera e reale di quello che credo è molto di più. La mia carne è la stessa carne del mondo. Non dirò “noi” / perché vorrei vomitare / ma non ho più uno stomaco / non ho più un corpo / sono un sacco / un sacco di iuta pieno di terra / sono un campo in cima a una scogliera / sono un campo di pietre dove dormono i serpenti / ho freddo nelle membra separate / che sia questo l'inferno / di aver freddo in un corpo fantasma? / Chi parla dal fondo di questa fossa? // Io? / Io non sono più. Tahar Ben Jalloun, La remontée des cendres

Essere attratti con forza da un centro di massa infinita Perdere spazio poi perdere tempo poi perdersi Senza lasciare una traccia un’impronta un segnale di sé Come una voce che in gola esaurisce il suo fiato Come una merce che scade fin quando si disfa Come una stella che implode invisibile e sola

strauSS2 Convalescente ti aggiri in vestaglia col passo fantasma del reduce Le telecamere vigili agli angoli squadrano poi riferiscono Pedinamenti sospetti inferriate alle uscite pastiglie che sedano Clinicamente testati sorridono sterili i guanti di lattice Dai cornicioni vacillano appesi i referti trasmessi dai laboratori I buttafuori massicci fumando impettiti piantonano argini e soglie Autopattuglie di ronde in borghese presidiano siti e obiettivi sensibili Inarrestabili i mali riemergono a galla i disturbi diventano cronici In quarantena si parla agli insetti si sbatte la testa sul muro Ci si confessa prostrati coi ratti che assolvono colpe e rimorsi L’isolamento protratto tonifica gli impeti di ribellione Nel padiglione blindato i pazienti guardinghi si scambiano complici occhiate Poche retate improvvise e i più deboli cedono cadono svuotano subito il sacco Al contrattacco ti metti a sbraitare raduni i soggetti devianti li unisci [Disubbidisci fai finta di essere matto dichiari il rompete le righe] 10


«Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbia e tenebre la nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K. si fermò a lungo sul ponte di legno che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente». (Franz Kafka, Il Castello)

la muraglia e il limbo come l’Europa del 2000 ha elaborato la sua strategia difensiva contro i flussi migratori di Marco Benedettelli e Gilberto Mastromatteo


Nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla con la Costituzione Antoniana estendeva la Cittadinanza Romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero Romano in base allo ius solis. Negli anni Zero, invece, chi ha la pelle nera o gli occhi a mandorla non è gradito in Europa, almeno dalla maggioranza della popolazione. I governi, democraticamente eletti, sono tornati a chiudersi a testuggine. L’illusione di un mondo aperto e multietnico è durata il lampo di un decennio, quello degli anni ’90. Poi, dopo l’11 settembre, fortezze, torri di guardia, eserciti di confine, sistemi repressivi interni hanno trovato nuove postazioni. Sono state stipulate nuove alleanze nello scacchiere geopolitico con i “satrapi” dei paesi confinanti e con i “governi sudditi” dell’ex-impero coloniale per rafforzare le frontiere dell’Unione. E intorno alla piccola Europa, a ridosso delle sue mura, sono tornate le tendopoli, le baraccopoli e i campi popolati di apolidi, i centri di identificazione ed espulsione, dove i migranti che sono riusciti ad entrare in Europa vengono immobilizzati per anni dalla burocrazia. Congelati in un limbo, imbottigliati in una zona cuscinetto. La muraglia e il limbo. Dalla seconda metà degli anni Zero è stato perfezionato un sistema difensivo stratificato che mescola queste due strategie. La muraglia - eserciti, ingegneria militare e accordi geopolitici Iniziamo a mostrare, per brevi cenni, com’è fatta questa nuova muraglia. Quali forze militari la presidiano, com’è stata concepita materialmente e di quali accordi geopolitici si avvale. Poniamo i suoi due punti estremi: a ovest, nell’arcipelago spagnolo della Canarie; a est, nell’isola di Cipro, l’attuale ultimo bastione europeo ad oriente. Due punti arbitrari. Perché la muraglia è liquida ed è sempre pronta a rimodellarsi a seconda delle nuove rotte migratorie. Le quali, come le acque dei fiumi che defluiscono verso il mare, se incontrano un ostacolo disegnano un nuovo canale di scorrimento. La muraglia fino ad oggi ha visto in campo principalmente tre stati che, giocoforza per la loro posizione geografica, si sono trovati ad essere i difensori delle frontiere. La Spagna, l’Italia, la Grecia. Accanto a questi, altri due “micro stati” dell’Unione sono finiti al centro delle direttrici migratorie: parliamo di Malta e di Cipro. Attualmente è il paese ellenico il più pressato dalle nuove rotte, dato che, come vedremo, Spagna e Italia sono riuscite a prendere le loro contromisure e a stoppare, in larga misura, il flusso. Partiamo dall’esercito. All’inizio l’opera di presidio delle frontiere era gestita dalle forze militari locali. Ma nel 2004, l’Unione Europea ha dato vita al Frontex, una task force, con sede a Varsavia, specializzata nel pattugliamento dei corridoi migratori, sia marini che terrestri. Dotata di motovedette, elicotteri e aeroplani, gradualmente si è affiancata alle marine militari europee 12


nelle azioni di border security (citiamo solo le operazioni Nautilus, Poseidon, Hera, Indalo, Minerva). Nel 2008 la sua presenza nei mari è diventata permanente e i suoi bilanci sono triplicati (70 milioni di euro nel 2008). A inizio giugno 2010 il Frontex ha aperto il suo nuovo quartier generale nel porto del Pireo, in Grecia, il fronte più incandescente della migrazione. Oltre agli eserciti, si sono perfezionate nuove opere di ingegneria militare. Come le torri di guardia del Sive, il Sistema Integrato di Vigilanza Esterna. Si tratta di un complesso di radar iper tecnologici, capaci di segnalare la presenza di una piccola imbarcazione fino a 30 miglia dalla costa. Radar piazzati sulle isole Canarie, sullo stretto di Gibilterra e sulle coste andaluse. Poi ci sono i bastioni difensivi veri e propri: muraglioni e reticolati d’acciaio. Come la valla di Ceuta e di Melilla. Una doppia rete metallica dotata di filo spinato, presidiata da militari, da sensori per il rilevamento del passaggio umano e da telecamere a infrarossi. Per otto chilometri a Ceuta e dieci a Melilla, la valla si snoda fra boschi e montagne marocchine difendendo le due enclave spagnole dalle pressioni migratorie che arrivano da tutta l’Africa. A Cipro, isola spaccata in due da una guerra che, nell’estate del 1974, ne decretò l’occupazione del nord da parte dell’esercito turco, esiste tutt’oggi una green line, che separa la repubblica greco-cipriota da quella turcocipriota, l’Europa dall’Asia. Qui la buffer zone, sotto il controllo dei caschi blu dell’Onu, è delimitata da bidoni sormontati da filo spinato e sorvegliati da torrette militari. Nicosia è una città tagliata a metà da un muro, come lo è stata Berlino fino a venti anni fa. Ma questa linea è diventata anche il punto di approdo verso l’Europa per migliaia di profughi curdi e palestinesi. Si calcola che la oltrepassino circa 5 mila persone ogni anno e che a Cipro, abitata da 800 mila persone, i migranti siano 170 mila. Oltre a questi che sono gli esempi più sfacciati di bastioni medioevali, l’Europa ha visto nascere negli ultimi anni anche muri più microscopici, ma altrettanto simbolici. Come la rete piazzata nel porto di Ancona dal 2007 che di fatto, anche se eretta in base a una legge in materia di anti-terrorismo, serve a pattugliare meglio il porto dorico, punto di arrivo, come vedremo, dei migranti sudorientali. Eserciti e opere ingegneristiche non basterebbero, i governi lo sanno. E quindi ecco tutto un proliferare di accordi con gli stati extraeuropei siglati negli ultimi anni. Il Marocco con la Spagna, nel 2005 per volere di Zapatero. L’Italia con la Libia, prima nel 2003 con Berlusconi, poi nel 2007 con Prodi e ancora nel 2009 con Berlusconi. In cambio di agevolazioni commerciali e mezzi militari, Gheddafi e Mohamed VI si sono impegnati a inasprire i controlli. In Marocco un africano sub-sahariano che viaggia illegalmente verso l’Europa, se intercettato dalla polizia, viene prima malmenato e poi trasportato con violenza nel deserto fra la città di Oujda e il confine algerino. Nelle acque del 13


canale di Sicilia sappiamo bene ciò che avviene: ponendo in essere e potenziando una legge pensata dal governo di centro sinistra, l’attuale governo della Repubblica Italiana ha messo a disposizione dell’esercito libico mezzi e militari per pattugliare il tratto di mare a sud di Lampedusa e ricacciare sulle coste libiche i migranti che giungono dal mare. Migranti che spesso arrivano dalla Somalia, dall’Eritrea e da altri paesi coinvolti in sanguinosi conflitti. E quindi persone candidate ad essere accolte come rifugiati politici. Respinte in Libia, vengono invece rinchiuse nelle prigioni dell’alleato Gheddafi, costruite anche con i finanziamenti italiani approvati con l’accordo Berlusconi del 2003. Carceri dove stupri, violenze e torture sono all’ordine del giorno. Troviamo un procedimento analogo sul versante orientale, che coinvolge il vettore migratorio Turchia-Grecia-Italia. La Grecia non ha ancora trovato un punto di accordo con la Turchia per il controllo delle frontiere – come hanno fatto la Spagna col Marocco e l’Italia con la Libia – e quindi è a tutt’oggi il lato più vulnerabile della fortezza europea, da dove i migranti continuano ad entrare. Per il momento l’Europa si è equipaggiata con una difesa interna della frontiera Grecia - Italia. Che si basa sulla pratica della “riammissione”, un procedimento retto da un accordo sancito fra Atene e Roma nel 1999. Accade così che decine di profughi afghani, iraqueni, iraniani, palestinesi e curdi, che tutti i giorni sbarcano nascosti nei tir a Venezia, Ancona, Bari e Brindisi, vengono ricacciati nei porti ellenici dopo accertamenti sommari, senza verificare debitamente se il migrante intercettato venga da un contesto di guerra o di pericolo personale. Ad Ancona nel 2009, su 1.497 migranti intercettati da Polmare e Guardia di Finanza, solo in 65 sono stati accolti in base a delle richieste di protezione. Ma il lavoro delle diplomazie è infaticabile. Citiamo velocemente, gli accordi degli stati europei con Senegal, Nigeria, Algeria, Guinea Bissau, Guinea e con Mauritania, Gambia, Capo Verde, Mali e altri, sempre secondo un consolidato baratto: inasprimento dei controlli in cambio di infrastrutture e agevolazioni commerciali. Il limbo - storie di uomini congelati nella no man’s land Queste le strategie difensive più o meno consuete, classiche. Storicamente già collaudate e rimodulate a seconda del milieu politico. A cui se ne aggiunge però una nuova. Che è quella della creazione di un limbo, di una zona cuscinetto dove i migranti irregolari, arrivati negli ultimi anni oltre i confini europei, vengono ammassati e immobilizzati. Tutta la frontiera europea ne è costellata e le forme e le modalità secondo cui le varie isole-limbo si sviluppano variano di Stato in Stato. Il filo conduttore che unisce le no man’s land 14


europee è sempre lo stesso. Il migrante che riesce a eludere i controlli sulla muraglia e ad entrare irregolarmente, viene poi immobilizzato in apposite strutture dove può trascorrere anni nella completa immobilità. Senza poter andare né di qua, né di là, né avanti né indietro. Come in un limbo. Facciamo degli esempi. Siamo a Malta. Qui vivono circa 5 mila migranti. Tutti bloccati nella piccola isola dal regolamento di Dublino II. Una legge sancita nel 2003 dalla Ue che regola i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo. Dublino II stabilisce che il migrante “in orbita” deve rimanere nel primo Stato membro in cui ha messo piede. Perché è questo il responsabile delle sue pratiche legali. Chi lo abbandona, vi è riportato con la forza. Quindi a Malta ci sono 5 mila migranti immobilizzati. Vivono in tendopoli, in hangar, in strutture fatiscenti. Uomini e donne. Come Ale, uno dei tanti, un ingegnere chimico arrivato dalla Somalia cinque anni fa per scappare dalla guerra. È stato in Olanda, è stato in Svizzera, ma poi è dovuto sempre ritornare a Malta perché è lo Stato che segue le sue pratiche di richiesta d’asilo. Ha 47 anni, la sua famiglia è divisa. «Qui ci sono tantissimi problemi, la gente è stanca, c’è chi parla da solo, chi si è completamente isolato dagli altri, chi si attacca al bere», ci ha spiegato. Ora andiamo a Ceuta. Enclave spagnola dove i migrati che sono riusciti a superare la valla sopra descritta finiscono al Ceti, il Centro de Estancia Temporal de Immigrantes, una struttura capace di ospitare 512 persone che passano tutte le giornate senza fare niente. Il centro è aperto, si può entrare e uscire. Ma Ceuta è una piccola prigione, circondata dal mare e dalla valla. Qualcuno tenta ogni tanto di scappare e arrivare in Spagna, però è troppo pericoloso. Indietro non si può tornare, o si finirebbe nelle mani della polizia marocchina. Allora l’unica cosa da fare è aspettare. Tutto il giorno, senza fare niente. Senza poter telefonare a casa, o avere un lavoro che non sia in nero. Campi così, dove i migranti vengono congelati, sono ovunque in Europa. Per esempio la Sovereign Base Area di Dhekelia, a Cipro, dove vive una comunità di curdi che attende da dodici anni di sapere cosa il governo inglese farà di loro (il campo militare è sotto la legislazione britannica). Oppure il Centro di Accoglienza sulle montagne di Arcevia (Ancona). Qui, estenuati dalla burocrazia, vivono decine di afghani e di iraniani senza prospettiva per il futuro. O nei Cie delle Canarie, o nei Detention Centre in Grecia. Citiamo solo i luoghi che abbiamo visitato, ma l’elenco potrebbe essere lunghissimo. L’attesa diventa drammatica. A Nicosia, capitale di Cipro, una mattina siamo stati noi stessi a bloccare con la forza un trentaseienne palestinese di nome Nasser che si era cosparso di benzina, e minacciava di darsi fuoco dentro gli uffici della Kisa, una NGO che aiuta i richiedenti asilo. Nasser era 15


devastato dall’amarezza. Il suo tentato suicidio arrivava dopo che il governo cipriota gli aveva negato, due giorni prima, lo status di rifugiato. È da 17 anni che Nasser vive nel limbo di Cipro. Bloccato da Dublino II. I suoi genitori sono morti durante i bombardamenti israeliani, quando aveva pochi anni. È cresciuto in un campo profughi poi è sbarcato a Cipro. E ora il suo limbo lo sta stritolando. Perché è diventato a tutti gli effetti un apolide. Non può tornare in Libano dato che il governo di Beirut non accoglie più palestinesi rimpatriati. E non può restare nemmeno a Cipro dopo che gli è stato negato lo status di rifugiato. «Cosa posso fare, se non uccidermi?», continuava a ripetere. Limbo dalle mille forme. Perché anche chi si accalca al di qua del muro, e aspetta di entrare di nascosto, vive bloccato in risacche dove il tempo non esiste più. Intorno a Ceuta, dentro i boschi sulle montagne a ridosso della valla, si accampano centinaia di migranti sub-sahariani che di notte tentano di entrare nell’enclave spagnola via mare. Al porto di Tangeri, moltitudini di bambini dormono fra i cespugli, nell’attesa di salire sul camion giusto che li porti in Spagna. In Grecia, intorno a Patrasso e Igoumenitsa vivono alla macchia, in condizioni disumane, afghani, iraniani, africani, che aspettano di imbarcarsi clandestinamente per i porti dell’Adriatico. Persone in ostaggio della polizia. Che, se non vengono intercettate e respinte prima di entrare in Europa, una volta valicata la muraglia del vecchio continente finiranno tutte immobilizzate nei vari centri temporanei per loro predisposti. Per essere un po’ occultate, un po’ dimenticate. Come è stato dimenticato per undici mesi in una cella frigorifera un giovane afghano di nome Amir Rohol. Era arrivato il 23 giugno del 2009 nel porto di Ancona, ed è morto poche ore dopo, travolto dallo stesso tir a cui era aggrappato nel suo viaggio verso il nord Europa. Il corpo di Amir straziato dall’incidente è rimasto ibernato per quasi un anno nell’obitorio dell’ospedale regionale di Torrette, prima che la burocrazia italiana si decidesse a dargli degna sepoltura, come è avvenuto l’8 maggio del 2010. Una vicenda lugubre, metafora dolorosa di quella terra di nessuno, fra la vita e la morte, dove l’Europa confina i suoi migranti.

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“L’ombrello” Fermo in un punto del palco, immagino un ombrello e la pioggia battente. Aspetto. Non posso muovermi che sotto l’ombrello e non posso uscire da quello spazio. Cosa faccio? Mi sento in gabbia. Leon, 37 anni, CNDC (Centre national de danse contemporaine), Angers

1866 di Giuseppe Colomasi


La rivolta del settembre 1866 coinvolse gran parte delle masse proletarie della Sicilia occidentale disilluse dal tradimento delle promesse fatte dal nuovo Regno dʼItalia, in special modo per la mancata riforma agraria. Lʼinasprirsi del conflitto con lʼAustria-Ungheria (meglio conosciuto come Terza Guerra dʼIndipendenza) rese inoltre necessario lo schieramento di più uomini sul fronte nord-orientale. Il Regno dʼItalia pertanto impose la leva obbligatoria anche in Sicilia. Le famiglie che vivevano di decime sul raccolto, si videro togliere persino quelle poche braccia utili al lavoro nei campi e la situazione presto degenerò in una sollevazione popolare che stupì molti, contemporanei e non, per la velocità impressionante con cui si era propagata. «Carmelo! Dove cazzo sei Carmelo?». La voce del capoturno lo prese a sberle, facendogli ricordare che oltre al sonno cʼaveva pure un bruttissimo mal di testa che era meglio scordarsi. Subito si mise il moschetto a tracolla e corse verso la guardiola dove già il capitano bestemmiava sputacchiando una melma bruna per terra. «Comandi capitano!». Sparate fuori dalla sua bocca le parole furono accompagnate da una specie di rantolo per lʼeccessiva stanchezza che lo vessava nelle ultime ore. Mentre le pronunciava una smorfia di dolore gli spuntò in faccia come se stesse sollevando un peso. «Carmelo, la prossima volta che ti chiamo e non vieni subito, ti faccio appendere per i piedi accanto al Vicario. Lo vedi il Vicario come se la passa bene?». Indicò il centro della piazza dove era stata allestita la forca e un buon numero di funzionari italiani stava appeso per il collo con ancora indosso gli abiti da borghesi benestanti, privi però di ogni oggetto di valore o anche stoffa di un qualche pregio, strappata dalla folla in miseria per fare stracci o per il semplice gusto di deturpare un cadavere sabaudo. Carmelo abbassò gli occhi e chinò il capo sotto lo sguardo del capitano. «Allora Carmelo, sentimi bene: di fronte alla questura ci sono ancora i pezzetti del Questore per terra, che li abbiamo lasciati a fare il sanguinaccio assieme ai suoi compagni funzionari dellʼufficio, con questo caldo già fra qualche giorno la puzza farà morire le persone, perciò raccoglili e dagli fuoco. Ma non dentro la città, più lontano. Anzi lo sai che fai? Prendi il carretto e raccogli pure gli altri ammazzati nella piazza della questura, li porti fuori città e gli dai fuoco. U capisti? Prima che ci prende il colera a tutta Palermo!». Il capitano portava allacciato al collo un fazzoletto rosso che risaltava sgargiante sugli abiti laceri, testimonianza del suo passato di garibaldino tra le fila di coloro che avevano liberato il Sud dalla tirannia e assieme ad un esercito di straccioni sei anni prima erano stati accolti in Palermo come 18


liberatori, portatori di progresso e unità nazionale. Adesso, quegli stessi expatrioti erano coloro che capitanavano la rivolta popolare e razionalizzavano il massacro dei piemontesi che essi stessi avevano portato in città. Carmelo chinò nuovamente il capo, rispondendo con un monosillabo e si avviò verso la piazza della Questura. Il giorno stava arrivando, un velo rosso copriva lʼorizzonte strappando pezzetti di notte al cielo e alle stelle in fuga. I passi di Carmelo ticchettavano lungo la strada di ciottoli. Poche altre ombre si scorgevano in giro. Qualche gatto passeggiava sopra le case miagolando a una femmina con cui passare qualche minuto. Entrò nella piazza come un antico guerriero. Parvero scomparire baluginii di forme umane al suo apparire silenzioso, allontanarsi per le vie trasversali, o fu una sua impressione. Immediatamente silenzio. Alcuni colombi stavano a beccare per terra. Appena Carmelo si accostò ai corpi svolazzarono via. Una goccia di sangue precipitò dallʼala di uno di loro sul sopracciglio del giovane. Che si ripulì subito schifato. Il Questore era quello ridotto peggio. Le mani gli erano state tagliate assieme alla lingua e alle orecchie. Alcune pezze erano state poi poste sugli arti monchi per evitare il dissanguamento immediato e con una delle sue dita, irrigiditesi dopo alcune ore dallʼamputazione, gli era stato cavato un occhio. La disposizione dei corpi aveva una geometria curiosa: i funzionari di cui Palermo era piena zeppa, da quando Garibaldi lʼaveva fatta italiana, erano tutti sistemati al centro della piazza. Tuttʼintorno, ad anello, vi erano le guardie, i militari regi e pochi altri civili. La maggior parte dei cittadini caduti era comunque già stata seppellita da parenti e amici. Carmelo caricava membra più o meno intere su uno dei carretti abbandonati in mezzo alla piazza. A più riprese gli mancarono le forze di fare quello che doveva fare, a volte per la stanchezza, altre per il disgusto di quel maneggiare tanti cadaveri. Cercò di respirare il meno possibile. I corpi stavano tutti accatastati in un cumulo alto quasi due metri e largo il doppio: appiccò il fuoco alla base e dirigendosi verso il carretto cavò di tasca il tabacco e la carta per le sigarette che avevano distribuito i superiori. Improvviso come un fulmine, un proiettile gli sibilò vicinissimo. Carmelo scattò istintivamente dietro il carretto, ma un secondo sparo stavolta non sbagliò il colpo e il proiettile gli trapassò il polpaccio. Il dolore lo fece crollare al suolo, non capiva dove era stato colpito, tanto gli faceva male tutto il corpo. Cadde a terra gridando «Mi arrendo, mi arrendo!». Quattro uomini gli furono sopra, lo bendarono e lo posarono sul carretto. Si risvegliò dentro una cascina di campagna con attorno una gran puzza di merda di capra, una stalla pareva. Davanti a lui cʼerano un piatto con della minestra e un uomo. «Mangiati la minestra». 19


Carmelo iniziò a mangiare. «Lo sai perché ti ho dato la minestra?». Carmelo scosse il capo. «Perché fra poche ore ti dissanguerai e se non vuoi morire dissanguato bisogna che tu mangi e che io ti faccia uscire di qui per farti fasciare la gamba. Non credi?». Carmelo teneva gli occhi fissi sul piatto, fece cenno di sì col capo. «Allora se vuoi vivere mi devi dire due cose: quanti ribelli stanno dentro le mura e che artiglieria difende lʼingresso sud della città». Carmelo ci pensò su. Pensò al senso di quella rivolta nata dal nulla e che presto nel nulla sarebbe tornata. Lui in fin dei conti semplicemente non voleva più spaccarsi la schiena nei campi, per questo si era unito ai rivoltosi. Quando sua madre gli mostrò in lacrime la lettera di leva che il Regno dʼItalia gli aveva mandato a casa, non aveva avuto alcun dubbio e era fuggito verso le zone più calde della città, nelle quali gli altri giovani renitenti alla leva come lui stavano già appiccando i primi fuochi e ammazzando i primi piemontesi. Sì, in fin dei conti a lui non gliene fregava proprio niente. Come potevano non accorgersi della polveriera su cui erano seduti? I funzionari, i magistrati italiani, da sempre avevano governato la Sicilia come una colonia, come una conquista in unʼera di conquiste da acchiappare in fretta, per vedere fin dove si poteva arrivare. Sei anni prima era passato Garibaldi dicendo che avrebbe reso la terra al popolo e che avrebbe “Fatto lʼItalia”. Carmelo aveva visto i dragoni del Regno del Sud arretrare senza neanche combattere. Aveva saputo di fregate inglesi che appoggiavano i mille garibaldini e li avevano coperti mentre sbarcavano sulla rada di Marsala. Adesso vedeva quella stessa fame che aveva rovesciato il governo, feroce come e più di allora e inascoltata, risorgere furiosa e senza speranza. In sei anni i cambiamenti più importanti erano stati lʼamnistia per tutti i criminali incarcerati prima della proclamazione del Regno dʼItalia e la leva obbligatoria. Alla fine, che cambiava a crepare per un colpo sparato da un austriaco o da un piemontese? Tanto si crepava lo stesso. «Circa ventimila rivoltosi, la maggior parte contadini e pezzenti, pochi soldati, quasi tutti ex garibaldini, quasi tutti al comando di piccole squadre di disperati suddivise per la città. I più sono ragazzi che hanno da poco ricevuto la chiamata di leva. Le mura a sud sono presidiate dal Capitano Tiepolo. A difendere le mura ci tengono gli uomini con più esperienza. La maggior parte dei cannoni sopra i bastioni adesso sono in mano ai rivoltosi. Inoltre presidiano le mura con brocche incendiarie». Per un secondo alzò gli occhi, quasi di scatto, e guardando fisso il suo interlocutore disse: «Vossia era in carcere prima, nevvero? La fece uscire Garibaldi?». Il signore non disse nulla, rimase per qualche secondo in silenzio guar20


dandosi i piedi. Poi rispose: «Non ti interessa a te dove ero prima, ti interessa forse dove sono ora. Comunque hai fatto bene. Adesso verrà qualcuno a medicarti, ti conviene non uscire di qui per qualche giorno, fino a quando non sentirai finire i bombardamenti e poi anche qualche giorno di più. A casa tua non ci tornare». Si alzò e fece per andarsene. Carmelo lo bloccò. «Un attimo signore». Gli occhi gli erano diventanti rossi rossi, lacrimoni spuntavano improvvisi come quella rivolta e tutto quel dolore. Con la voce spezzata dal pianto cercò di parlare: «Signore, non credo che mia madre sia ancora viva, la nostra casa è ben nascosta, ma presto ci saranno i regolari in città e verranno a cercarmi, cercheranno la mia casa e anche lei. Voi siete padrone? Vi prego, non mi è rimasto più nulla e se arrivano i regolari dovrò partire soldato, potrei venire a lavorare per vossia? Anche per qualche tempo, per far fuggire mia madre da quella casa, se è ancora viva. Vi prego». Mentre parlava, per tutto il tempo, aveva guardato in faccia quellʼuomo. Appena finì chinò il capo esausto, prendendoselo tra le mani e continuando a piangere sempre più sottovoce. Il signore non si voltò. Guardando la porta parlò così: «Appena potrai camminare andrai con alcuni miei uomini a prendere tua madre per portarla qua. Dopo troveremo un modo per farla partire o per tro-

Quando ci sono i saldi bisogna andare la mattina presto, ore prima che il negozio apra. Bisogna fare la fila e stare attenti che nessuno ti freghi il posto. Mamma mia che freddo il 2 gennaio davanti a Gucci! Silvana, 42 anni, Monza

il "fascismo estetico" su Videocracy e altre visioni di Andrea Inglese


varle un alloggio. Tu adesso sei mio. Lavori per me, la tua vita mi appartiene e farai tutto quello che ti dico ogni volta che te lo dico. Giorno, notte, non esisteranno più per te, esisterò solo io e la mia volontà e tu dovrai seguirmi ovunque io andrò, per sempre. Se lavorerai per me non dovrai partire soldato. Se lavorerai per me la gente ti rispetterà, perché io posso insegnarti a diventare un uomo dʼonore e perché attorno a te ci saranno altri uomini dʼonore». Si voltò e lo guardò fisso: «Adesso mettiti la mano sul cuore e giura su Santa Rita». «Lo giuro». «Se tradirai il giuramento verrai ammazzato come un cane e buttato a mare». Senza il minimo turbamento in volto il signore voltò le spalle e uscì. Carmelo si sentiva la testa pesante pesante. Quando, dopo la battaglia di Lissa, la flotta italiana si spostò sulla Conca dʼOro, iniziò un bombardamento sulla città che sarebbe durato diversi giorni. Nel frattempo quarantamila regolari regi erano sbarcati in Sicilia diretti verso Palermo. Dopo i primi giorni di cannonate i rivoltosi avevano già chiesto la resa, che non venne concessa. La rivolta cessò nel sangue, come era iniziata, con rastrellamenti casa per casa e gente che moriva gridando «Pane! Pane! Pane!». Mai più la Sicilia sarebbe insorta. Nel 1875 veniva rappresentata lʼopera popolare I mafiusi di la Vicarìa di Palermo.

Essere spettatori di Videocracy è un’esperienza profondamente sgradevole. Durante la proiezione del documentario è percepibile un diffuso imbarazzo, che ogni tanto è rotto da qualche risata liberatoria. Ma quelle risate, appena risuonano, più che liberare incatenano maggiormente alla propria vergogna. Poi c’è lo schifo. Uno schifo da tagliare col coltello. E quindi la nausea di nervi, veri e propri crampi. E quando ti alzi e vedi gli altri spettatori come te, e sai già fin d’ora che se ne andranno come se niente fosse, come si esce ogni sera da un cinema, un po’ stralunati e un po’ eccitati, ti piomba di nuovo addosso la vergogna, quasi fossimo tutti quanti testimoni passivi e docili di un crimine detestabile, concluso il quale ognuno se ne va solitario, omertoso e impotente a casa propria. Strano effetto, davvero. Ma come? Non avevo io letto Anders, Debord, Baudrillard, Bauman? Non avevo letto Barbaceto, Travaglio, Perniola, la Benedetti, Luperini? Non conoscevo già tutta questa vicenda a memoria? Non avrei dovuto essere immune dallo shock? Non ho forse letto analisi e ascoltato dibattiti sul genocidio culturale, sulla rivoluzione mediatica degli anni Ottanta? Sul grande smottamento antropologico, cominciato con Drive in?


La prima risposta che trovo, non so quanto corretta, è questa: il mio sapere è stato a lungo scisso dal mio sentire. Il mio sistema morale deve aver trovato una strategia alquanto vigliacca di sopravvivenza, da un lato mandava avanti la mente libresca, la nutriva di dati e concetti, dall’altro ottundeva il sensorio, lo teneva al riparo dalla “malvagità del banale”, per utilizzare una formula letta da qualche parte e che rovescia assai ragionevolmente il titolo della Arendt. Non è forse stato il mio (il nostro) un ritiro sull’Aventino? Non già un ritiro parlamentare, una rinuncia politica, una protesta sterile e controproducente. No, un ritiro estetico, e non della classe politica, bensì di una certa società civile. Abbiamo fatto di tutto per non percepire, mentre intanto blandivamo la coscienza, nutrendola di letture e tavole rotonde sull’informazione. Quando dunque si parla di attacco ai diritti civili e si addita con scandalo, da la Repubblica a il manifesto, la costituzione bistrattata, si spara in parte fuori bersaglio. Non che ognuno di questi allarmi sia fasullo, ma essi ignorano l’isolamento estetico da cui vengono lanciati. Chi pensa alla costituzione ha una mente libresca, chi continua ad amare Berlusconi ha una mente televisiva. Questa banale affermazione ha conseguenze, storicamente, tragiche. Nel senso più tecnico e appropriato del termine. Le condizioni di vita, nel paese, possono peggiorare per un numero sempre più ampio di persone, senza che ciò alzi di un grado la cosiddetta conflittualità sociale. Questa è l’implacabile legge di quello che io chiamerei “fascismo estetico”. Che cos’è il “fascismo estetico”? Le sequenze iniziali e finali di Videocracy lo illustrano perfettamente. Il “fascismo estetico” è quella lotta per la salvezza sociale che impegna ogni componente dei ceti popolari, nella più assoluta solitudine, sul terreno della propria immagine. Nell’epoca della fine della mobilità sociale e del lento disfacimento della classe media, il nemico di classe non esiste più, come non esistono più alleati nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita. Vi è un’unica fede, quella della trasformazione individuale. Non una religiosa rivoluzione interiore, ma una laica e materialista metamorfosi della propria immagine. Nel film documentario il giovane operaio bresciano che è intollerante nei confronti del proprio lavoro, che si rifiuta ostinatamente a un destino di tornitore a vita, ha di fronte a sé un’unica via di salvezza che, tragicamente, è in realtà la sua maledizione. Egli vive da anni nella costruzione di un personaggio televisivo attraverso una dura disciplina fisica, che lo rende straordinariamente atletico e prestante. Ha ininterrottamente lavorato sulla propria immagine, ossia sul proprio corpo, sulla gestualità, sugli abiti. Ma per lui, probabilmente, non verrà alcuna salvezza. Ruoterà per sempre, come in un girone infernale, intorno alla ribalta televisiva, senza mai poter abbandonare il suo posto di spettatore e


accedervi. Per lui, il salto sociale non avverrà mai, anzi si cumuleranno, su un terreno nuovo e diverso da quello della fabbrica, delle umiliazioni ulteriori. Passerà di casting in casting, calcherà gli studi televisivi, solo per mettersi tra le sagome indifferenziate di coloro che ridono e applaudono. Non diventerà, nonostante le ore quotidiane di palestra, la dieta, i sacrifici di tempo e denaro, famoso, e quindi neppure ricco, e quindi neppure attraente da un punto di vista sociale. Resterà un qualsiasi operaio non qualificato, di quelli guardati con sufficienza dalle compagnie femminili di paese. Per le giovani e giovanissime donne, il fascismo estetico presenta un quadro, se possibile, più cinico e disperato. In un mondo del lavoro ancora sessista, la via della realizzazione professionale passa per la prostituzione spontanea. Nell’ultima sequenza di Videocracy, un gruppone di giovanissime aspiranti veline è ripreso mentre ancheggia a suon di musica, nel modo che ognuna immagina il più sensuale e provocante possibile. Quanti di questi corpi sono volontariamente sacrificati ai molteplici intermediari dell’industria dell’immagine? Sotto l’occhio complice della famiglia, del gruppo di amici, della comunità di paese, che preferisce ignorare il prezzo imposto dal raggiungimento di una tanto agognata apparizione televisiva? Anche qui non sfugge la condizione tragica che impone al mondo femminile di raggiungere la propria salvezza sociale – l’autonomia professionale – attraverso la dura prova del baratto sessuale, poiché l’unica merce di scambio che una donna può offrire, in quel mercato gestito dall’uomo, è il corpo. Molti di noi, nel trentennio di ascesa della videocrazia, si sono difesi proprio dall’esperienza estetica che il nuovo regime imponeva. Lo ammetto, ad un certo punto mi sono rifiutato di sottopormi compiutamente all’esperimento che Silvio Berlusconi stava realizzando sul pubblico televisivo italiano. È però vero che, ogniqualvolta mi è capitato in questi anni di vedere un programma d’intrattenimento, faticavo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Mi dicevo: «Ma come è possibile che le donne italiane accettino questo?». Ma le occasioni di spaesamento sono cresciute anche nella vita reale. L’avvento in città di automobili sempre più implausibili: le fuoristrada con la sbarra di metallo anti-bufalo, o quelle nere con i vetri oscurati da gangster. La moltiplicazione davanti a qualsiasi locale dalla luminaria un po’ esotica d’ingombranti e inutili buttafuori. Ma soprattutto l’enorme sforzo di essere belli, il rovello perenne, la disciplina marziale dell’apparire, a cui una gran quantità di giovani italiani è sottoposta. È affascinante constatare fino a che punto, in certi caffè o per certe vie, ci siano solo ragazze accuratamente truccate che indossano abiti vistosi e attraenti, e ragazzi con muscolature e tatuaggi opportuni. Tutte e tutti abbronzati. L’unica nota inquietante in tanta bellezza è lo spettro aleggiante della clonazione. Tutti questi belli e queste


belle, disinvolti e ridanciani, si assomigliano maledettamente. Hanno lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhiali, le stesse magliette, gli stessi tatuaggi. Non solo, ma il loro sforzo perenne, la loro aspra disciplina, li rende anche tremendamente aggressivi. Questa è una caratteristica del “fascismo estetico”: vi è un sovrano disprezzo per colui che non si piega alla stessa rigida regolamentazione. Costui non è visto semplicemente come un “brutto”, uno “sfigato”, perché privo di opportuna abbronzatura e tatuaggio, ma è considerato in qualche modo una minaccia, anzi uno sberleffo vivente di fronte allo zelo dei belli-a-tutti-i-costi. Vi è un grande risentimento in questi sacerdoti del corpo scolpito e dell’abito perfetto per colui che non appartiene alla loro

Alessandro Ansuini

i dadi Ed eccoci nella metà del pomeriggio eccoci fra i mari Mediamente mossi, ancora una volta le nostre due dorsali Principali saranno ammassate su qualche treno o in un altro Abitacolo, m’infilerò le saponette negli occhi e penetrerò I miei vicini impazzendo per un improvviso e pungente Odore di salviettina umidificata, e penserò a Proust, e Penserò ai miei sensi e immaginerò una figura reticolata, una sorta Di albero con rami come ragnatele e scuoterò la testa e la mia mano cercherà La tua e ti dirò che le parole mi fanno schifo e tu sorriderai perché Sai come disinnescarmi e l’esatta idea che ho di un prima e un dopo. Giallina e claudicante, te ne andrai di spalle dopo aver pianto Tutte le piogge d’occidente, quello che farai è trovare Un altro col quale incazzarti per le tue occhiaie e la parola amore Gonfierà le pance delle tende e mia madre e tua madre Che ci hanno lanciato come dadi non hanno ancora smesso e le loro mani Adesso Sono soltanto divenute le nostre.

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tribù e mostra di vivere, di divertirsi, di amare, senza intrupparsi nel loro corteo e senza condividere i loro riti impietosi. Non m’interessa più di tanto, in realtà, proporre una fenomenologia dell’italiano dedito all’ossessiva e conformista cura della propria immagine. Ognuno ha di fronte a sé una quantità di esempi sufficientemente eloquenti. Il punto è un altro. E riguarda la mia (e di altri) grande capacità di astrazione e di oblio di fronte a tutto ciò. Accettare fino in fondo quanto è accaduto, guardarlo in faccia senza schermi intellettuali, è un compito arduo. Lo è soprattutto per chi vive ancora tra due mondi, tra quello della lettera e quello dell’immagine, tra la cultura del libro e l’impero della televisione.

VHS against human comfort C’è sempre un momento in autunno in cui I poeti scrivono una poesia chiamata autunno Questi calchi nella nebbia lasciano impronte di vapore Le ombre si lavano le mani alla fine delle teste Coloro che non si sono ancora ambientati dovranno Inseguire il coniglio fino alla fine dei tropici mentre Il vhs si schiera apertamente contro il comfort umano; Rabbini di quale religione sullo scranno di Quanti troni perpetueranno questo corteggiamento dell’aria Una signora in opium cinque risulta molto più incisiva Di un poemetto surrealista e alla fine delle giornate Si sta come d’inverno dentro casa le televisioni Giusto via delle belle arti reagisce con un po’ di colore Ma se tu non ci pensi passa anche quello E il supermercato si apre gentile ad un nuovo schema cromatico Nel reparto dei libri scontati del 15. Saprebbero di foglia queste mani se ne concepissi l’attaccatura al terreno?

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Oltre l’immaginazione c’era una città rigogliosa. Tutti i suoi colori si riflettevano in infiniti specchi. Su ogni frammento c’era un volto che raccontava la sua storia. Lasciò la sua cosmonave in un angolo e dismise la parola. La lasciò fluttuare a mezz’aria sopra il marciapiede. Poi raccolse tutta la sua materia, la richiamò a sé e se la sentì pulsare sulle punte dei polpastrelli. Con le sue mani disarcionò un sasso. Corse verso una vetrina e vi scagliò contro la pietra aguzza con tutta la forza che sentiva di avere. La vetrina esplose in mille schegge fra lo stupore dei volti riflessi nei frammenti di vetro. Dentro il suo deflagrare furono risucchiati in un lampo tutti gli specchi della città. Dopo l’esplosione tutto cambiò. La città si era scrollata di dosso la sua patina riflettente e le persone intrappolate nelle superfici erano state liberate. Ora camminavano per strada. Disinvolte.

tele-visioni di Luca Manucci


La televisione non potrà reggere il mercato per più di sei mesi. La gente si stancherà subito di passare le serate a guardare dentro a una scatola di legno. Darryl F. Zanuck, Presidente della 20th Century Fox, 1946

Ho visto cose che voi umani… vedete ogni giorno, ma non è facile cogliere il vortice appiccicoso di pixel che vi sbriciola i neuroni. Sarebbe a dire? Sarebbe a dire che ho guardato la televisione per quarantotto ore. Otto canali nazionali più alcuni regionali, una gabbia di ferro per menti poco avvezze all’esercizio e all’elasticità. La trappola funziona grosso modo così: la televisione esclude porzioni di territorio narrativo: notizie, fatti e storie di importanza enorme vengono accantonati alla periferia e tocca a pochi coraggiosi tirarli al centro del dibattito. Istruzione, energia, sanità sono temi che si perdono nelle grida del giorno, nelle notizie calde sulla bocca di tutti, facendo sfumare il significato più ampio e complesso di quei termini. Trovano posto solo storie dai connotati emotivi, immediate, di forte impatto visivo. Sta per sorgere l’alba di lunedì, ora di tornare al lavoro. Ora di riacquistare un briciolo di lucidità. Mi bruciano gli occhi, il cervello è una pappa brodosa. Sono approdato all’ultimo stadio dell’homo videns: quello in cui realtà e finzione si rovesciano, si mischiano, si assomigliano troppo. Distinguerle perde importanza. Una tazza di latte fumante mi rimetterà in sesto. Ma facciamo un passo indietro. SABATO, 4 a.m. Non riesco a dormire. La tosse mi scuote i polmoni, gli sposini al piano di sotto urlano come scimmie eccitate. Accendo la televisione. Sono mezzo malato. Le immagini penetrano in me senza grande opposizione. Più mi rilasso e più calano le mie difese intellettuali: ho spalancato il ponte levatoio del mio cervello al cavallo di Troia delle visioni. Quello a Troia non è un riferimento casuale, trovo quasi solo porno anni ’80 e signore un po’ attempate che mostrano le loro (dis)grazie alle telecamere. Ogni tanto mi si chiudono gli occhi, e mi trovo costretto a sognare corpi nudi, tette cadenti, cellulite... Resto sveglio fino al mattino, aspettando qualche programma che non sia vietato ai minori. Arrivano cartoni animati e storie di famiglie divise da anni, mi sento sollevato. SABATO, 4 p.m.

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Dodici ore, e mi trovo ancora qui, incrostato sul divano. Mentre scongelo qualche porcheria e la mangio senza entusiasmo, accendo la tv della cucina. Poi ripiombo in postazione: le prove di Formula Uno. Non le ho mai viste prima, ma è tutta la mattina che sento annunciare "l’imperdibile evento": non me lo perdo. Mi chiamano al telefono. Vogliono che esca. È una bella giornata, dicono. Ho la tosse, magari domani. Sento che qualcosa non va. Oggi la testa gira su se stessa, come un cane che insegue la coda, senza capire che è la sua solita, vecchia coda. Bisognerebbe dare aria ai polmoni e al cervello. Qualcosa mi sfugge, non riesco ad afferrarlo. Immagini chiamano altre immagini, preferisco girare il mondo facendo lavorare il mio pollice sul telecomando. Incollo gli occhi al megaschermo. Che poi forse non è così grande, ma da qualche ora occupa tutta la stanza. DOMENICA, 4 a.m. Sono contento! Non riesco a staccarmi da tutto quel ben di dio: devo vedere! Le annunciatrici fanno pregustare il programma successivo. Seguo le indicazioni delle loro voci affidabili e non mi perdo un minuto; i miei occhi uncinano ogni immagine, la depositano da qualche parte. Non ho neanche cenato: due film, un telegiornale, tre telefilm e un programma di varietà sono stati la mia dieta. La barba si allunga, l’alito si fa pesante e io mi sento euforico: donne mezze nude, film adrenalinici, video di canzoni accattivanti e dibattiti infuocati mi gonfiano il petto di emozioni autentiche. Affondo compiaciuto nel divano. A un certo punto la mia coscienza si scuote: la tv, madre degenere, mi nutre di racconti frammentati; succhio stereotipi. Ho voglia di vomitare. E con inquietudine noto che nessuna storia viene raccontata nella sua complessità, vista nel lungo periodo, ma ogni cosa si frantuma in voci, titoli di giornali, notizie d’apertura, servizi di venti secondi, trans che popolano ogni tipo di programma. Non ci capisco niente, ma la frenesia crea emozioni che fanno passare i contenuti in secondo piano. Le emozioni sono una nebbia spessa, una patina gelatinosa attraverso la quale i contenuti si possono scorgere solo in controluce. Ecco: sono miope adesso. LUNEDÌ, 4 a.m. Non capisco se sono io a guardare la tv o se sono quelli della tv a guardare me. Mi sento osservato, quasi a disagio. Se mi chiedessero di raccontare 29


cosa ho visto in queste quarantotto ore scandite dalla tv non saprei cosa rispondere, me ne vergogno. Qualcosa lo ricordo, però. Lingue rosse che battono sul palato, denti bianchi a sgranare notizie, labbra scollate dal suono, ventriloqui che declamano le verità di qualche burattinaio, le loro parole hanno la stessa consistenza della mollica di pane: mi rimbalzano addosso. Barba lunga, alito che polverizza. Sono secco, sfibrato, gli occhi gonfi, mi sento un otre pieno di cibo marcio. La testa manda impulsi nevrotici che nessun arto è in grado di interpretare. Sento che tutte quelle immagini si sono accumulate in un angolo umido e lontano del mio cervello, se lo mangiano da dentro, sono come succo di limone su una ferita aperta. Universi paralleli cozzano col mio, senza fare rumore, finzione e realtà sono un impasto di voci. Nella scatola non c’è mai un momento per riflettere, capire, ragionare. Si perde il punto centrale, il contesto, la lungimiranza di progettare qualcosa che vada oltre le ventiquattro ore: lo impone la logica del vedere tutto e subito. Spengo la televisione. Il riverbero sgargiante sul mio corpo inerme svanisce. Sono libero! Forse. Mi viene da vomitare. Una tazza di latte fumante mi rimetterà in sesto.

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Il principe si è alzato a notte fonda. È entrato nel suo labirinto, in giardino. E non è più uscito. I sudditi all’alba si svegliano al suono del suo canto. La sua voce riecheggia fra le contrade e più passano le ore, più si fa asessuata, celestiale, divina, siderea. Trascorre la mattina, arriva il meriggio e poi il sole inizia a calare. I sudditi sono molto preoccupati, ma il re e la regina stanno giocando a scacchi nel castello. Solo quando arriva il buio il principe smette di cantare e il suo silenzio è più crudele perfino della bellezza del suo canto. Tutti i sudditi del regno s’inginocchiano davanti alla porta del labirinto e si congiungono in preghiera, terrorizzati. Il re e la regina intanto fanno l’amore sopra il loro trono dorato. Poi la porta del labirinto si spalanca. Esce il principe, ma nessuno può riconoscerlo. Ha corna di capra in testa e occhi gialli. Il suo volto è quello di un bambino. Divarica sulla schiena taurina le sue ali d’angelo. È una creatura aliena, la sua nuova armonia riempie un vuoto. Allora i sudditi interrompono la loro preghiera e si gettano nel labirinto e cantano tutti in coro fra i contorti percorsi. La musica che esce dalle loro bocche è la più bella che sia mai esistita, così bella che il re e la regina smettono di fare l’amore sopra il trono e si fermano ad ascoltarla.

house of no more di Lorenzo Franceschini


Sì ch'io fui sesto tra cotanto senno Dante, Commedia, Inf., IV, v. 102

Un giorno di novembre di qualche anno fa, io e il mio amico Carlo Michelstaedter decidemmo di andare a teatro assieme. Con la cortesia che lo contraddistingue, Carlo scelse per la nostra serata il teatro della mia città, Senigallia, seppure si trovasse a molti chilometri di distanza da Gorizia, dove viveva lui. Lo spettacolo era di una compagnia newyorkese, la Big Art Group, e s’intitolava House of No More. Non sapevamo altro, ma piuttosto che impegnarci nella lettura delle schede tecniche forniteci all’ingresso del teatro La Fenice, una volta in sala preferimmo parlare tra noi, sincerandoci del fatto che l’antico legame non era stato intaccato dalla lunga lontananza. Ad ogni modo, da quel poco che avevo capito, si trattava di una compagnia di teatro d’avanguardia, guidata da un regista di nome Caden Manson. Lo spettacolo era l’ultimo di una trilogia, Real Time Film, ma non avevo capito nulla di più; mi aspettavo qualcosa di strano, un misto di teatro, commedia, film horror, trash televisivo. E in effetti non mi sbagliavo. Il sipario era già alto, e gli attori percorrevano la scena, dominata da tre maxischermi intervallati da quattro telecamere fisse. (Già questo posso immaginare avesse stupito e un poco disorientato Carlo, decisamente non avvezzo a questo genere di cose, ma lui non lo diede a vedere). Che stava succedendo? Forse lo spettacolo era già iniziato, forse c’eravamo persi qualcosa? Ora, abbandonate le nostre chiacchiere, guardavamo il palco, dove, da che eravamo entrati, avevamo potuto notare un gran viavai di persone: sembrava di assistere a delle prove, ma non parlava nessuno. Dopo qualche minuto una voce angosciata ci rapì alle nostre congetture e ci fece piombare immediatamente nel dramma: Julia, la protagonista, aveva perduto la figlia e doveva ritrovarla. Non capimmo cosa stesse succedendo, c’era un gran baccano, immagini forti, le urla della madre. L’immagine di Julia veniva proiettata sugli schermi, sembrava di stare al cinema, ma la situazione era singolare: le telecamere poste sul palco riprendevano ognuna l’azione di un attore, che recitava isolato dagli altri, e la sua performance si univa a quella dei colleghi solo quando veniva proiettata sugli schermi cui erano collegate le telecamere. In queste condizioni era difficile capire se ci si trovasse di fronte a uno spettacolo teatrale o ad un film; era un film girato in diretta, i cui attori recitavano s’un palcoscenico teatrale. Carlo non fece una piega. L’intreccio nasce dalla sparizione della figlia di Julia e dal proposito di lei di ritrovarla, che dà inizio alla ricerca. Poco dopo, però, l’attenzione della madre viene attirata da ben altro: l’anelito a che la sua storia venga trasmessa in TV, in mondovisione. Questo desiderio diviene presto un’ossessione per 32


Julia, che si dimentica totalmente della figlia, la cui sparizione si mostra una mera scusa adottata dalla protagonista per avere qualcosa d’interessante da dire in TV, qualcosa che possa incuriosire, che faccia audience e che le permetta di essere ascoltata e mandata in onda. Lo sfondo sociale in cui si svolge l’azione è un mondo dove l’amore è «divertirsi senza sosta sotto il sole» (come dice uno dei protagonisti, Huge), dove niente è dato di meglio di una «bevanda senza calorie», dove i legami tra persone sono dettati dall’utilità, o dov’è la lussuria a creare questi legami («ho un vero legame con te» dice Huge a Julia, che si diverte ad eccitarlo); tutto questo rappresentato con dei tratti di sadomasochismo: Julia ad un certo punto ordina al suo spasimante «sono una cosa dolce, brutalizzala!», e confessa: «credo nell’odio, nelle bugie». L’ossessione di Julia per la trasmissione in mondovisione diventa centrale verso l’epilogo del dramma, e quasi scontata arriva la sua confessione: «io non ho nessuna figlia!». Julia, in macchina con Geri, gli chiede di riprenderla con una telecamera amatoriale durante il tragitto verso l’antenna televisiva, dalla quale la donna s’aspetta di ottenere potere, amplificazione. Sembra che lei non voglia sottrarre proprio nessun momento alle telecamere, quasi fossero l’unico mezzo per dare senso alla sua vita, per darle presenza. Solo se la sua vita è ripresa e trasmessa in mondovisione lei può convincersi di avere veramente vissuto, d’essere realmente esistita. Essere filmati per esistere, essere presenti sugli schermi e nei giornali è esistere. È questo il Dasein, per Julia. Ecco, qui Carlo, rompendo il suo consueto contegno, si avvicinò a me e mi sussurrò all’orecchio, per commentare lo spettacolo: «Non sentono più la voce delle cose che dice loro “tu sei”, e nell’oscurità non hanno il coraggio di permanere, ma cerca ognuno la mano del compagno e dice: “io sono, tu sei, noi siamo”, perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: “tu sei, io sono, noi siamo” […] Così si stordiscono l’un l’altro»1. Io restai molto colpito da questa considerazione, dalla quale capii con piacere che l’acume del mio lontano amico non s’era per nulla stemperato con gli anni, e stavo cercando qualcosa d’intelligente da rispondergli, quand’ecco che una signora, decisamente non più giovane, seduta dietro di noi, iniziò a mostrarsi oltremodo contrariata dalla nostra breve conversazione: tossì, infatti, con insistenza, mentre Carlo mi parlava, e alle sue ultime parole... «Insomma!», esclamò a bassa voce ma con enfasi e ci costrinse al silenzio. Ma ecco che, dalla destra di Carlo (che a sua volta sedeva alla mia destra), una voce sicura s’aggiunse repentina a commentare lo spettacolo, incurante delle proteste dell’anziana signora: «Chi non sa dominare sé stesso nell’intimo», affermò 1

Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, p. 99.

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imperiosa la voce, «vuol dominare a ogni costo la volontà del vicino, come il suo orgoglio gli detta»2. Io e Carlo, piacevolmente stupiti, ma ancora timorosi della possibile reazione della signora, ci volgemmo verso la voce, e, mirabile dictu, ci accorgemmo che a fianco a noi sedeva, lo sguardo fiero, i capelli arricciati a metà delle orecchie, niente di meno che Johann Wolfgang Goethe. La signora, che evidentemente non conosceva il poeta, lo apostrofò senza troppi riguardi. Non feci in tempo a riavermi dallo stupore, che un’altra voce s’alzò, ma stavolta proveniva dal posto alla mia sinistra: «Ella sa proprio di cuoio», iniziò il mio vicino voltandosi verso l’anziana signora, «quand’è in concia, o di can morto, o di nidio d’avvoltoio: e col puzzo ingrassa l’orto»3. Che classe sa sfoggiare quest’uomo anche nell’insultare un’anziana signora, o, meglio, nel vituperium vetulae, come direbbe lui, Agnolo Ambrogini, il Poliziano! L’interessata venne visibilmente sopraffatta dalla collera, ma, ancor prima ch’essa potesse protestare per le ingiurie ricevute, la voce di un’antica saggezza giunse alle nostre orecchie: «La lieta gioventù preferisce l’edera verde e il mirto scuro, e regala le foglie morte al vento che va con l’inverno»4. La signora, insensibile all’eleganza di quei versi, stava per stramazzare al suolo dalla rabbia; ma al suo fianco, altro colpo di scena (intanto, sulla scena, quella vera, Julia ha scalato l’antenna televisiva, ha raggiunto la sua pienezza, in un delirio di onnipotenza: «Gente di questo mondo desolato, sono una celebrità! Ascoltatemi», «io sono il veicolo, io sono l’informazione, io sono tutto il rumore, io sono l’arma, io sono la spiegazione!»)... al fianco della signora, dicevo, comparve Marco Tullio Cicerone che, alzatosi in piedi, così replicò ai miei vicini in difesa della donna: «Ogni età della vita è gravosa per quelli che non trovano in se stessi un aiuto che li faccia vivere felicemente»5. Io, che, un po’ defilato rispetto a questo alterco, avevo modo di riflettere e considerare la situazione da un punto di vista più filosofico, pensai che in effetti queste grandi menti del passato, nel parlare con la sventurata signora, si riferivano in realtà anche al tema a mio avviso principale dello spettacolo che stavamo guardando, cioè quello della necessità per l’uomo di essere sufficiente a se stesso, e della sua incapacità di giungere a tale condizione, della quale sono surrogati tutti quegli atteggiamenti di esaltazione del sé e di sopraffazione dell’altro di cui avevamo avuto esempi lampanti sia sulla scena che in platea. Questo aiuto che dovrebbe far vivere i mortali felicemente, di cui parla Cicerone, non è forse la loro capacità di bastare a se stessi? Non è forse quel coraggio che uno deve trovare dentro 2 3 4 5

Goethe, Faust, vv. 7015-7 (traduzione Casalegno 1999). Poliziano, Canzoni a ballo, CXIV, vv. 13-6. Orazio, Odi, I, 25, vv. 17-20 (trad. mia). Cicerone, La vecchiaia, II, 4 (trad. Fuà 2008).

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di sé di dire, «bene, sono mortale, e non sono il centro dell’universo: questo è terribile, ma non intendo ossessionare nessuno con la mia esistenza, non voglio sfogare la mia frustrazione su nessuno, ma voglio vedermela da solo?». Ecco, a questo mi faceva pensare la discussione tra i miei vicini di posto, e al fatto che nella nostra società, nella società così bene descritta dal Big Art Group, tale coraggio è sempre più raro. Ma presto i miei pensieri vennero interrotti. Dopo l’ultimo exploit, buona parte degli spettatori si ribellò alla nostra maleducazione e, tra invettive più o meno esplicite, ci costrinse ad uscire, tutti e sei. Vergognandoci, ma solo un po’, della figura barbina fatta in teatro, io e i miei nuovi amici camminammo lungamente tra l’allegro centro storico senigalliese e il languoroso lungomare, «parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ’l parlar colà dov’era»6. 6

Dante, Commedia, Inf., IV, vv. 104-5.

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David Bowie intervallo musicale di Samuel Manzoni

1947: nel multietnico quartiere londinese di Brixton nasce David Robert Jones, meglio conosciuto come David Bowie, musicista polistrumentista dalla camaleontica personalità. In quarant’anni di carriera egli è stato uno, nessuno e centomila, una “maschera” pirandelliana impegnata a camminare lungo sentieri artistici fino ad allora inesplorati. Un’identità mutante che ha fatto della popular music un’arte a trecentosessanta gradi, globale, nella quale sono confluiti elementi teatrali, del mimo, della danza, del cinema e persino delle arti visive. Tra verve e génie, Bowie ha lasciato un’eredità indispensabile per l’evoluzione di molti generi musicali, basti pensare al glam rock (in debito con le atmosfere kitsch di Hunky Dory e il trucco drag queen di Ziggy Stardust) o al synth pop e la new wave (forgiati entrambi nella trilogia berlinese Low, Heroes, Lodger: altrettanti album contraddistinti dall’elettronica e dallo sperimentalismo ambient). Bowie è un artista in costante evoluzione, capace di combinare i propri elementi in un matraccio di vetro, sino ad ottenere una nuova pozione ogni qual volta lo desideri; le sue sono formule vincenti, più o meno fortunate, ma sempre vincenti e soprattutto coraggiose. Come per la maggior parte degli artisti, anche Bowie ha conosciuto un periodo per molti aspetti controverso e non all’altezza delle ambizioni del suo pubblico. La svolta dance dei primi anni ottanta inaugura un lungo decennio “commerciale” – seppur metta in cantiere un pezzo come Cat People (Putting Out Fire) e collabori con i Queen in Under Pressure – dettato da un’insufficiente creatività. In ogni caso il London boy consoliderà la propria fama cinematografica con un cameo in Christiana F., noi i ragazzi dello zoo di Berlino (1981) e nella memorabile interpretazione di John in Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) al fianco di Catherine Deneuve e Susan Sarandon. A metà degli anni Novanta intraprende nuovi percorsi e sonorità che rievocano i fasti di un tempo – sarà accolto positivamente dalla critica 1.Outside – ben miscelate con l’elettronica del nuovo millennio oramai alle porte. Muta il look, oramai più sobrio (capello corto, singolo orecchino e pizzetto) ma contraddistinto dalla solita eleganza e si prepara per una nuova avventura: Earthling. Com’è nel suo dna Bowie va controcorrente: ora il sound è quello dei club underground tra i ritmi ossessivi e frenetici della jungle e della drum’n’bass. Ben confezionati anche i video promozionali, due dei quali (Little Wonder e Dead Man Walking) portano la firma della regista italiana Floria Sigismondi, già all’opera con il controverso Marilyn Manson. Di notevole interesse il duetto con Trent Reznot in I’m Afraid of Americans, brano modellato sulle tipiche sonorità industrial dei Nine Inch Nails. Gli ultimi album (Hours, Heathen e Reality) non passeranno di certo alla storia, a parte qualche ballata di notevole spessore come Thursday’s Child, ma, come scrivono Fred Frith e Howard Howe nel saggio Art Into Pop, l’androgino Bowie resterà «una tela nera sulla quale la gente scrive i propri sogni».


Sentì che le parole non bastavano più, nemmeno quelle più dolci, quelle più tenere, quelle bisbigliate e coraggiose. Qualcosa era mutato, era l’inizio dell’eterno ritorno. Eppure, oltre le parole, tutto quello che restava era un ricordo. Di una sera, loro due che si addormentano uno sull’altra, con la tv accesa. Il suo odore di latte, di bambina, di neve. Ora che tutto stava eternamente mutando ancora, sentiva che in quel ricordo sarebbe voluto entrare in ogni istante, come attraverso una porta. Mentre il mondo intorno a lui si aggrovigliava in pulsazioni isteriche. E raggiungerla nel sonno, varcata la soglia di quell’immagine che fluttuava come un satellite sempre da qualche parte nel suo cosmo, stringere il suo corpo tenero ed entrare nei suoi sogni.

colloquio di lavoro di Alessandro Busi


Michele allungò il braccio e spense la sveglia. Le lancette indicavano le otto meno un quarto. Dall’esterno si sentiva il picchiettare della pioggia. Devo alzarmi, pensò. La sola idea di uscire dalle coperte gli faceva venire i brividi. Dopo il terzo conto alla rovescia, le sollevò, poggiò i piedi per terra e si alzò. Con movimenti veloci e automatici si vestì e andò in bagno. Mentre aspettava che salisse il caffè, accese la radio e controllò l’ora. Il radiogiornale raccontava dell’ennesima barca di clandestini, così diceva la voce, che era stata respinta in Libia. Michele pensò che era assurdo tutto questo e che, anche a livello letterale, prendere delle persone e portarle in un paese che non è il loro, non si chiama respingere, ma deportare. Poi, però, pensò anche che alle otto e trenta sarebbe dovuto essere in via Garibaldi. Puntualità, si era raccomandato il suo datore di lavoro, il nostro è un lavoro che si basa sulla puntualità. Finì il caffè e lasciò la tazza sul tavolo. Si lavò i denti e, prima di uscire, prese una chiave con attaccato un biglietto su cui c’era scritta la data di quel giorno. Michele era seduto nella sala d’attesa. Con le mani si torturava, alternativamente, ricci e barba. Barba e ricci. L’orologio digitale sull’altra parete indicava le ore dieci e tredici minuti. Ormai sono quasi venti minuti che aspetto, pensò. Improvvisamente, la voce di una donna all’apparenza anziana, avvertì da un altoparlante che il signor Rossi poteva entrare nell’ufficio del direttore. Si alzò e si sistemò la camicia. Prese la busta contenente il suo curriculum, si specchiò, inspirò e si avvicinò alla porta. La cosa funzionava così: lui arrivava al garage e chiedeva al custode in che postazione fosse la sua auto, il custode controllava sul tabellone e glielo diceva. «Posto 8 fila H», gli disse, «dovrebbe essere una Bmw, se non ricordo male». «Grazie Antonio», gli rispose Michele. Il rumore dei suoi passi faceva l’eco nel garage silenzioso. Si confondeva solo con un lontano stridere di gomme proveniente dalla rampa. Arrivato alla macchina, entrò e si allacciò la cintura. Fece manovra e uscì dal parcheggio. Alla radio, il dj con la voce squillante raccontava di uno studio dell’università di Oxford, in cui i ricercatori avrebbero trovato che le donne, rispetto agli uomini, hanno risultati peggiori negli esami di matematica, perché manca 38


loro un certo enzima che aiuterebbe a svolgere calcoli ed equazioni. Michele scosse il capo e pensò che era una gran cazzata, ma che, probabilmente, anche questo dj lavorava per la Making Culture. Sarà uno di quelli del progetto radio, si disse. «Chiuda pure la porta», gli disse l’uomo in abito grigio, restando girato di spalle, «non le sembra splendido?». Entrato nella stanza, Michele si trovò davanti ad una immensa vetrata dalla quale si vedeva tutta la città. «Non le sembra che ci sia qualcosa di magico in tutto questo?», continuava l’altro, «una specie di perfezione che si realizza in un equilibrio tanto instabile quanto costante». Michele stava in piedi e ascoltava annuendo. Non sapeva cosa pensare, ne cosa fare, o dire. Dopo pochi secondi, l’uomo si girò e gli si presentò. «Luca Rubini, piacere», gli disse, «lei invece deve essere Michele Rossi, se non sbaglio». Michele gli strinse la mano e fece di sì con la testa. «Prego si accomodi», continuò l’altro, «posso darle del tu?». Luca, così aveva detto di chiamarlo, si era seduto su una poltrona di pelle nera, dietro una scrivania di mogano. Sulla parete bianca c’era una grande scritta rossa in corsivo elegante: La vita quotidiana è una rappresentazione. «Allora Michele, ti dirò, mi fa molto piacere che tu ci abbia contattato», mentre parlava si dondolava sulla poltrona, «soprattutto per la tua laurea in psicologia che, suppongo, ti permetterà di cogliere bene l’importanza del nostro lavoro». Michele lo ringraziò e sorrise. Anche Luca rispose al sorriso. «Adesso, tu, però vorrai sapere di cosa si occupa la nostra azienda, immagino», continuò il capo. Alle otto e ventinove esatte era in mezzo al traffico di via Garibaldi. Le due carreggiate di marcia erano diventate due corsie ciascuna. Dentro gli abitacoli, ognuno svolgeva le proprie piccole attività. Chi si truccava, chi fumava. Chi tamburellava sul volante, chi parlava al cellulare. Chi scuoteva il capo per il traffico, chi gridava al bambino, seduto dietro, di stare fermo e di non urlare. Sembravano tante piccole cellule di un unico organismo, legate assieme dalla grande lingua di asfalto che gli scorreva sotto le ruote. Michele si guardava attorno e, ogni tanto, buttava un occhio allo specchietto retrovisore. Sul marciapiedi, vedeva la fiumana di studenti che camminavano verso la scuola, mescolati con i pendolari ben vestiti, che corre39


vano invece verso la stazione dei treni. Si sentiva quasi cullato da questo uniforme disordine. Alle otto e trenta esatte, una Nissan Micra gialla mise la freccia dalla corsia a fianco e si infilò dietro di lui. Il suo cellulare fece uno squillo. Lui controllò chi fosse, poi rimise il telefono sul sedile del passeggero. Alzò gli occhi e guardò nello specchietto. Alla guida della macchina c’era una ragazza bionda, con un seno prosperoso, le labbra gonfie e le ciglia lunghe. Mentre guidava, si truccava e cantava a squarciagola, muovendo la testa a destra e a sinistra, in maniera sbarazzina, svampita quasi. Michele vide che la fila era nuovamente ferma. Frenò e poggiò la schiena contro il sedile. In pochi istanti l’auto gialla gli fu addosso. I due paraurti fecero un rumore sordo nell’impatto, quasi atonale. La ragazza spalancò gli occhi azzurri. Michele chiuse le palpebre, inspirò e si slacciò la cintura. Piove pure, pensò infastidito. Scesero entrambi dalle rispettive auto. La ragazza, che grazie ai tacchi svettava Michele di qualche centimetro, tentò di scusarsi, ma venne interrotta sul nascere. «Ma come cazzo guida!», iniziò a gridare Michele. «Cosa crede, che non l’ho vista che si stava truccando?!». Lei provava a spiegarsi, a dire che non aveva fatto caso e che le spiaceva, ma sembrava tutto inutile. «Mi spiace cosa?! Cosa le dispiace?!», continuava rabbioso, «le dispiace di non saper guidare, le dispiace!». Nel frattempo, le auto dietro avevano iniziato a suonare il clacson. Michele fece un paio di gesti con le braccia, come a dire sposto subito e ‘sta cretina m’è venuta nel culo. «Dai spostiamo che facciamo la constatazione amichevole», le disse lui prima di salire in macchina. Lei era talmente agitata, che l’auto le si spense due volte. Iniziò a piangere e singhiozzare, mentre, dagli specchietti, vedeva gli automobilisti dietro che si sbracciavano dal nervoso. Al terzo tentativo, riuscì ad accostare. «Bene, allora… quello di cui la Making Culture si occupa è, come dice il nostro stesso nome, di fare cultura», diceva il capo, gesticolando, «anzi, diciamo meglio. Noi, nello specifico, potremmo definirci un’azienda che si occupa di stabilizzazione della cultura». Luca fece una pausa per dare peso alle ultime sue parole: stabilizzazione 40


della cultura. «Eh, sì caro Michele, posso chiamarti Michele, vero?», riprese, «sai, noi persone comuni crediamo nella realtà con la R maiuscola, ma come ci insegnano gli autori cosiddetti postmoderni, la realtà è una costruzione culturale, quindi ci vuole sempre qualcuno che faccia sì che la cultura rimanga qualcosa di stabile, di apparentemente ontologico». Michele corrucciò la fronte. Non sapeva più cosa pensare. Non sapeva se si trovava davanti ad uno sbruffone che voleva pompare al massimo un lavoro di volantinaggio, oppure se era finito nell’ufficio di un qualche agente segreto della C.I.A. «Guarda, dato che ti vedo perplesso ti spiego dal principio», disse il capo, mentre prendeva un foglio e una penna. «Allora. Come tu saprai, ciò che distingue le teorie cosiddette moderne da quelle postmoderne, in psicologia, è che le prime vedono, per dirla in termini semplici, come centro dell’uomo la personalità, che viene definita come una proprietà stabile della persona, mentre le seconde hanno come costrutto centrale l’identità personale, la quale non è un qualcosa di dato, ma è una costruzione sociale, che si viene a comporre attraverso le interazioni di tutti i giorni. Proprio queste interazioni, però, sono influenzate dal sistema culturale di riferimento, il quale, a sua volta, viene modificato dalle interazioni stesse. È una sorta di circolo, no? È una sorta di circolo che, però, va mantenuto». Mentre parlava, Luca faceva segni sul foglio, come stesse tracciando un canovaccio simbolico. «E il nostro compito è proprio questo», continuò, «il nostro compito è quello di costruire delle situazioni per fare sì che la realtà rimanga con una sua stabilità, per fare sì che il nostro sistema culturale non subisca scossoni continui e che, quindi, ognuno costruisca la propria identità personale, in armonia con il sistema sociale che lo circonda». Michele aveva gli occhi sgranati e continuava a restare dubbioso. «Certo, dirai tu, il sistema culturale si evolve e si modifica in continuazione. Sì, è vero, però dentro certi binari che noi mettiamo e che sono quelli che permettono quello splendido spettacolo di equilibrio e di libertà che ammiravamo prima». Il capo indicò con un ampio gesto del braccio la grande vetrata. «Quindi, caro Michele, questo, diciamo così, è il fine del nostro lavoro, ma tu dirai, e i mezzi per raggiungerlo?… I mezzi per raggiungerlo, non devi pensare a roba alla James Bond e simili, nemmeno a censure di stampo staliniano o fascista, no, niente di tutto questo. Il nostro lavoro consiste nel fare piccole cose. Per esempio, ti faccio un esempio per farti capire. Sai 41


quando senti, alla fine dei telegiornali, quelle notizie tipo “anziani festeggiano il sessantesimo anno di matrimonio”, o robe simili, no? Ecco, quelle notizie, nel novanta per cento dei casi, le diamo noi. Sì, perché, sono notizie che passano quasi in silenzio, ma che, primo riportano alla gente l’importanza del matrimonio, secondo danno l’idea che certe cose, che so, la fedeltà, la vita semplice, ecc… sono gli ingredienti della vera felicità. Così le ragazzine continuano a sognare il principe azzurro, e vissero tutti felici e contenti». Entrambi sorrisero. Michele chiese, allora, di cosa si sarebbe dovuto occupare, se avesse accettato il lavoro. «Bene, questa tua domanda mi fa molto piacere», gli rispose il capo, «vedi, da qualche tempo, oltre al progetto radio, al progetto tv, al progetto carta stampata e, a quello più generale, che si chiama vita quotidiana, abbiamo deciso di attivare anche un progetto traffico e un progetto Facebook. Tu ci serviresti per il primo. Fondamentalmente il tuo lavoro sarebbe quello di subire tamponamenti o furti, sempre, però, nelle ore di punta. Che ne so. Una mattina ti tampona una ragazza bionda e prosperosa, ovviamente nostra dipendente. La mattina dopo, lasci la macchina parcheggiata, entri in un bar a prenderti un caffè e bam, ecco che un uomo dell’est te la ruba. Sai dipende un po’ dalle necessità del momento, dal percorso che bisogna tracciare, no?». Il capo smise di parlare e si poggiò allo schienale della poltrona. Michele lo guardava ancora spaesato. In lontananza si sentiva il rumore di un’ambulanza, mentre i condizionatori ronzavano un sibilo costante.

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Per fare gli occhi rotondi all’occidentale è facile ed economico: ti occorrono soltanto una colla trasparente ipoallergica (la vendono al supermercato), l’asciugacapelli, il piegaciglia e un bastoncino di plastica a forma di forcella. Assicurati che l’occhio sia pulito. Stendi un velo di colla sulla palpebra a circa mezzo centimetro dall’attaccatura delle ciglia e asciugalo. Ripeti la stessa operazione tre volte. Poi piega la palpebra verso il suo interno aiutandoti con il bastoncino e attendi qualche secondo. Infine passa il mascara e curva le ciglia con il piegaciglia. Aya, 18 anni, Shibuya-ku, Tokyo

trasformazione in atto di Locusta C


Non mi togliere neppure una ruga. Le ho pagate tutte care Anna Magnani (al trucco)

Gentili truccatori occupano gli ingressi dei grandi magazzini. Cercano nel flusso di folla lʼintesa di uno sguardo da valorizzare. Esperti tatuatori popolano periodicamente i centri congresso di tutto il mondo con gigantesche convention; gli avventori sono un gregge allegro che guarda curioso e impara dai maestri e chi si prenota può andare sotto la macchinetta. Per partecipare a un botox party occorre invece qualche credenziale. Una conoscenza di prestigio nel settore della chirurgia estetica o qualche cliente del ritocco tra le proprie amicizie possono essere sufficienti per accomodarsi in un mondano salotto, magari in un attico di una metropoli del XXI secolo. In unʼatmosfera di marketing un poʼ brillo, dopo drink e sushi, la casa offre, si direbbe per piallare i solchi cutanei evidentemente fuoriluogo di alcuni ospiti, una puntura di neurotossina botulinica di tipo A. Tutto gratis, in cambio di un biglietto da visita del professionista. La tossina iniettata agisce sul rilascio di aceticolina bloccando la trasmissione degli impulsi nervosi ai muscoli che per quattro cinque mesi andranno in letargo, botox relax... Un poʼ perché i pionieri ci stanno lasciando (R.I.P.), un poʼ perché la neurotossina botulinica di tipo A rilassa la fronte, è locuzione comune definire la chirurgia estetica una frontiera. Ed è giusto chiamarla frontiera perché tale qualità le è propria; non tanto come una pratica che corre la linea di divisione tra due territori (il lecito lʼillecito, il morale - lʼamorale, il necessario - il superfluo), quanto piuttosto come concetto di orizzonte culturale in divenire, totalmente aperto. Ogni atto sul corpo è un atto importante, che caratterizza. Uno spolverio di terre, un tratto di matita, un violento ombretto, un rossetto viola. La cosmesi aiuta, ha radici profonde come lʼessere umano. Davanti allo specchio ci si dipinge, ci si camuffa, ci si maschera con infiniti significati, ma si può dire che, in sostanza, i due elementi che si misurano sono da una parte i corpi, dallʼaltra le identità, e la trasformazione in atto è di tipo teatrale, nellʼordine della rappresentazione. Il gioco diventa più serio quando ci si segna indelebilmente, ci si marchia con simboli tribali, disegni propri, scritte. E a ben vedere battere un tatuaggio altro non è che operare una controllata intrusione sottocutanea di un liquido e questa può stimolare analogie con la pratica delle iniezioni di botulino. Eppure il tatuaggio è ormai socialmente sdoganato. Accadrà anche per le pratiche di chirurgia estetica? Dallʼinchiostro alla protesi? Lʼargomento è estremamente delicato e lʼincapacità di esprimere un giudizio ci restituisce il calore di una indecisione tutta umana su questioni di valutazione e di pensiero che, se portate sul piano ontologico, fanno strabuzzare gli occhi. 44


Le derive del fenomeno "ritocchino", quella nuova libertà dellʼuomo di scegliere le proprie metamorfosi, ci appaiono oggi più pericolose che mai perché sempre più orientate verso un concetto di efficienza estetica e di bellezza catodica, giacché è la televisione a dettare il canone. Quel che possiamo dire per chiudere questo climax della trasformazione del sé attraverso interventi ad arte è che se nella pratica del tatuaggio si scrive la propria storia, chi si sottopone a interventi di chirurgia estetica mira piuttosto a riscrivere la propria storia1. Ci ritroviamo ancora davanti allo specchio dove si misurano i corpi e le identità ma con una nuova possibilità offerta dal progresso della chirurgia plastica, quella di piegare il corpo allʼidentità desiderata, pratica che, sulle suggestioni di un Dorian Gray, pare avere qualcosa di miracoloso e diabolico, tratti demoniaci in unʼopera di creazione artistica. Ogni atto sul corpo è un atto importante, che caratterizza, che identifica. Orlan, personaggio di primo piano dellʼarte post-organica, apre con le sue performance di carnal art il proprio corpo al processo metamorfico identitario, portandolo alle estreme conseguenze. Durante la settima performance del ciclo The Reincarnation of Saint Orlan, in cui lʼartista si sottopone a operazioni di chirurgia estetica con lo scopo di trasformarsi in un nuovo essere simile ai modelli classici come Venere, Diana, Europa, Psyche e Monna Lisa, avvenuta in New York, le due protesi che in origine avrebbero dovuto rialzarle gli zigomi sono state inserite per volontà dellʼartista sui lati della fronte. Lʼindagine sul corpo e sulla sua funzione allʼinterno della società, delle relazioni tra uomo e tecnologia, hanno portato Orlan a compiere una scelta non più di rappresentazione ma di incarnazione del biopotere portandola a trasfigurare il proprio essere forma umana in un essere mutante contemporaneo. Vale la pena di chiedersi se il chirurgo in questione possa vantare qualche titolo di merito, se sia da considerarsi un artista. Direi di sì visto che ha parte attiva nella performance, ma non è lʼunico! Infatti non sono pochi i chirurghi che attraverso il web avvicinano la loro professione medica a quella creativa, come se in ogni intervento uscito dalle loro mani si potesse riconoscere un marchio di fabbrica. «Eh sì, quelli sono proprio due seni del dottor xxx, inconfondibili». La chirurgia estetica si sta avvicinando alla gente comune e il desiderio di apparire migliori, più belli, più armonici di come madre natura ci ha fatto ha colpito in modo trasversale la civiltà di inizio millennio2. Ci piace la posizione di Adriana Cavarero nel considerare lʼidentità un elemento narrativo, non trascendente, né mutevole, né inerente la sfera psicologica, quanto piuttosto una storia di vita mai autobiografica. Cfr. Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, 2001. 2 Sullʼargomento interessante la lettura del testo di Cristina Silveri Tagliabue, Appena ho 18 anni mi rifaccio. Storie di figli, genitori e plastiche, Bompiani 2009, che indaga il fenomeno della chirurgia estetica nella fascia 1

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Ogni atto sul corpo è un atto importante, che caratterizza, che identifica, che incuriosisce. Se per la persona singola lʼoperazione ha come scopo quello di apparire bella, più bella, accettabile, canonica, a seconda dei casi specifici, nei rapporti allʼinterno della rete sociale, nelle dinamiche di riconoscimento allʼinterno del gruppo, eliminate le posizioni di condanna pregiudiziale della pratica sanitaria, si sviluppano principalmente una curiosità, che vorrei definire scimmiesca perché vi riconosco dei tratti evolutivi, e un profondo rispetto: una curiosità verso il corpo piena di considerazioni che indagano lʼefficacia dellʼintervento e gli effetti sulla personalità e sugli atteggiamenti della persona, ma anche un profondo rispetto per la persona, per la sua scelta, per la sua sofferenza e le energie spese, come fosse un tributo dovuto a questa ingannevole e giovinetta divinità dellʼapparenza, un lasciapassare per la mondanità, un argomento pesante, definitivo, di sicuro colpo sulla nuvola di discorsi che avvolge una comunità di persone. Ricordo un paio di servizi andati in onda nel programma Le Iene e firmati da Enrico Lucci: il primo girato durante il concorso di bellezza Bellezza Senza Età e al Congresso Nazione della Società Italiana di Chirurgia Plastica, Estetica e Ricostruttiva, lʼaltro durante il primo concorso di bellezza Miss Chirurgia Estetica 20093. Il filo che unisce i due servizi si può riassumere citando uno stralcio del pungente testo di Lucci: «La prima cosa che dici quando le guardi non è che bella ragazza ma quella si è rifatta. Perché tanto si vede!». Non interessa discutere se sia meglio un intervento che si veda o che non si veda; ogni cliente-corpo si sottopone ad un intervento di chirurgia estetica per mutare la propria immagine-corpo con buone o cattive motivazioni: tante ferite e sofferenze, fobie per una visione distorta del proprio corpo, la malattia di un sogno egocentrico. Eppure questa tendenza a riscrivere sul corpo, sul viso la propria rinnovata storia di vita, a ricevere dal gruppo attenzioni, a soddisfare un desiderio non ha però nulla di affascinante. Restituisce anzi unʼimmagine per molti versi agghiacciante. Forse non la restituisce in modo totalmente negativo nellʼistantanea intima davanti allo specchio, quando, ad esclusione di qualche movimento-smorfia, si definisce lʼimmagine di una bellezza ritrovata anche se forzatamente statica, pietrificata, inespressiva, quasi si ricercasse il riconoscimento di sé in un nuovo io-fotogramma, in un fermo immagine. Ed è infatti il movimento a smascherare il dramma, il brivido per la mancata perfezione dei tessuti vivi di ogni essere umano quando non rispondono alle naturali sollecitazioni delle emozioni, delle sensazioni, degli imprevisti sorrisi. di età più giovane, con in postilla unʼoracolare tesi pro-protesi di Enrico Ghezzi. 3 http://www.youtube.com/watch?v=b58P7fkEeKw http://video.google.com/videoplay?docid=-6806211911795107722#

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Jacko allo specchio Lato A: White Idol intervallo musicale di Samuel Manzoni È l’Ovidio dei nostri giorni. È l’artista delle metamorfosi, […] delle globalità dove ogni cosa passa in un’altra, si tramuta nel suo contrario Francesco Merlo, Fragile icona globale, la Repubblica, 27 giugno 2009

Mai parole furono più azzeccate di quelle usate da Francesco Merlo allʼindomani della morte di Michael Jackson per ritrarre l’indiscusso re della pop music: colui che è riuscito con un solo disco a infrangere ogni classifica e ogni record (stando alle ultime stime il disco Thriller ha venduto all’incirca centodieci milioni di copie, che aumentano di anno in anno), offrendo al contempo una veste nuova alla musica globale. Normalmente lʼuniverso musicale è settoriale, ogni genere è relegato stabilmente nel proprio contesto culturale; Jackson ha infranto questa barriera per abbracciare lʼintero mondo sonoro. Come tutti i più influenti artisti della cosiddetta pop(ular) music. Jacko coltiva la propria vocazione artistica sin da giovanissimo, con i Jackson Five, la band di famiglia. La consacrazione arriva con il primo disco solista: Off the Wall del 1979. Passano tre anni e il 30 novembre del 1982 esce Thriller. L’album è anticipato dal singolo The Girl is Mine a cui ne faranno seguito altri sei che mettono in evidenza tutto il potenziale del giovane artista. In questo disco c’è tutto: dalle illustri collaborazioni (Paul McCartney, i Toto, Eddie Van Halen) alla perfetta coesione di generi, alcuni dei quali in antitesi tra loro – basti pensare all’assolo hard rock di Van Halen in Beat It. La direzione del video è affidata al regista John Landis, già autore di film cult come The Blues Brothers e Animal House. Pochi anni dopo è la volta di Bad, col quale Jacko sforna un’altra incredibile serie di classici tra cui Man in the Mirror, Dirty Diana e Smooth Criminal; Michael Jackson ha raggiunto la vetta del successo, ed è proprio in questo periodo che iniziano le prime indiscrezioni relative alla sua vita privata. Di anno in anno la sua pelle appare sempre più chiara: pare trattarsi – stando anche al referto dell’autopsia – di una malattia chiamata vitiligine, che procura una perdita progressiva della pigmentazione della pelle riducendo l’epidermide a chiazze; i successivi interventi di chirurgia plastica e l’uso di fondotinta (vere e proprie maschere) sarebbero dovuti a un tentativo d’omogeneizzazione delle macchie da parte del cantante. Altri sostengono che “diventare bianco” sia stata una scelta volontaria, atta a rinnegare la propria razza seppure non vi siano mai state dichiarazioni a riguardo. A un certo punto arrivano anche le prime accuse di pedofilia. Ormai si parlerà sempre più della vita privata del cantante, anziché della sua musica. In ogni caso, negli anni Novanta Jacko pubblica l’ennesimo capolavoro, Dangerous, al quale seguiranno lavori non altrettanto validi, come HiStory (un greatest hits e un album d’inediti) e Blood on the Dance Floor (un album di remix con cinque inediti). Il resto è riservato alle critiche e ai processi. All’alba del ventunesimo secolo, Michael ci riprova con l’album Invincible, che è più


un tentativo per esorcizzare i demoni da cui è perseguitato, anziché un ritorno in grande stile da parte del moonwalker. Passano alcuni anni e proprio quando annuncia a tutto il mondo che farà una serie di concerti all’O2 Arena di Londra (e che questi saranno gli ultimi della sua carriera), poche settimane dopo muore a causa di un arresto cardiaco: è il 25 giungo del 2009. Si è parlato di Michael Jackson in tutte le salse e in tutti i colori. Sebbene sia sempre meglio distinguere l’artista dall’uomo, è certo che entrambi hanno vissuto allʼinsegna della metamorfosi.

Lato B: Black Idol di Devon Richard

Se usciamo dalla tradizione musicale afro-americana, relegata per lo più al canto, alla danza e all’eredità lasciata da Jackie Wilson, Chuck Berry e James Brown, troviamo in Michael Jackson il primo artista nero approdato su Mtv che non abbia rinnegato le proprie radici musicali. Egli ha integrato il pop e il rock ma non ha mai perso di vista il funk e il soul, sia da solista sia con i Jackson Five. Michael è sbocciato sotto la guida di Berry Gordy, l’abile hit-making della Motown Records, storica etichetta di Detroit. Gordy è stato capace di portare la musica nera all’interno del circuito mainstream americano, compiendo un passaggio dalle semplici star dell’R&B all’icona capace d’abbracciare il mondo intero: passaggio che raggiunse il suo apice proprio con il “re del pop” e il suo album Thriller, fonte d’orgoglio razziale e appello per i neri di tutto il mondo. Michael Jackson ha influenzato molti musicisti neri, come i rapper Usher e Chris Brown o il rocker Lenny Kravitz, solo per citarne alcuni. Come afferma Clifton Joseph della CBC: «Le conquiste e le accettazioni di un uomo nero proveniente da una famiglia della classe operaia nera di Gary nellʼIndiana sono maturate in tutti noi [neri]» (www.thestar.com). Tuttavia, la vita non è stata “un letto di rose” per l’icona Jacko, soprattutto per quanto riguarda la sua eredità black: fu decisamente difficile per il pubblico nero accettare il Michael Jackson dei prodigi della cosmesi, a causa dei quali i suoi lineamenti africani si resero meno evidenti; molti fumetti “neri” ironizzarono suggerendo che si stesse trasformando in una donna bianca, ma molti suoi devoti ne furono profondamente addolorati. Sembrava che questa trasformazione esterna lo stesse allontanando sempre più dalle proprie radici culturali. Taluni credevano, inoltre, che egli si fosse intenzionalmente “sbiancato” come atto d’accusa verso la propria appartenenza etnica, attuando così una forma di protesta contro il white power. Ma, pur essendo stato spesso oggetto di dissenso tra le fila della comunità nera, nella città di Augusta, in Georgia, durante i funerali del “padrino del soul” James Brown, Michael riuscì a mandare la folla in visibilio, ottenendo la riabilitazione da parte della comunità. Nonostante le controversie, Michael Jackson sarà per sempre ricordato come uno dei più grandi musicisti ad aver camminato su questo pianeta, e nessuno potrà dimenticare il suo immenso contributo nella promozione e diffusione della black music in tutto il mondo; Jacko ha aperto la porta a tutti gli artisti afro-americani, come a dire: d’ora in avanti potete fare la vostra musica, quella che volete, senza seguire i soli standard della musicalità nera.


«Eccoci con la coda, con una lurida coda da diavolo, anche se, naturalmente, tanti quanti siamo, diavoli minori, secondari, di terza classe, stupiti, avidi, fastidiosamente in lotta tra loro, proprio anche nel fare del male agli altri, comandati persino negli sberleffi, nei cachinni, e come tali salire magari un’astronave, ben attrezzata e ben pilotata, verso altre galassie; con una sola spinta, alla fine: quella di trovare la galassia dell’oro. Oro, in qualunque stato e condizione esso si trovi, come valuta, borsa, azioni, titoli ecc. ecc., nemmeno più con la bellezza che aveva nell’antichità del vello dorato di un animale, il vello d’oro». (Paolo Volponi, Natura e animale)

chirurgia trans-specifica di Ugo Cornia


Una domenica sera stavo vedendo una trasmissione che aveva per oggetto la chirurgia estetica, e tutti si chiedevano se era giusto o no stare a rifarsi, e la conduttrice riteneva che se uno vuole rifarsi è giusto che si rifaccia, se gli serve a star bene, e dopo c’era anche un’intervistata che raccontava che prima si era rifatta le tette, e diceva che era fin da quando aveva quattordici anni che voleva rifarsele, e la conduttrice poi le chiedeva anche: ma lei dov’è che li ha presi i soldi per l’operazione, allora l’intervistata le diceva che li aveva messi via anno dopo anno, perché era da tanto che aveva in testa questo progetto di rifarsi il seno, quindi ogni anno metteva via un po’ di soldi, così alla fine se l’era potuto rifare; dopo però ci aveva preso gusto a rifarsi, anche perché non si soffre per niente a fare queste operazioni di chirurgia estetica, quindi avendoci preso gusto aveva messo via un altro po’ di soldi e si era anche fatta rifare il naso, e in particolare del naso era contentissima perché nessuno se n’era accorto, così diceva lei, perché se ti rifai il naso e nessuno se ne accorge vuol dire che il rifacimento è fatto a regola d’arte, cosa che veniva confermata anche da un altro chirurgo estetico che era sempre lì in studio, e ancora dopo la conduttrice le chiedeva come si era sentita dopo queste operazioni, e lei diceva che adesso finalmente stava benissimo con se stessa, e così via; poi c’era uno che anche lui aveva fatto due o tre piccole operazioni, come autotrapianti di cuoio capelluto e eccetera; e invece poi la conduttrice aveva fatto delle domande a una giornalista bionda un po’ in carne che non si era rifatta niente ma era lì in trasmissione perché aveva fatto un’inchiesta sul problema delle ragazze giovanissime che ricorrono alla chirurgia estetica e a quindici anni vogliono già rifarsi il seno, e io, mentre guardavo, pensavo a tutte queste cose e pensavo: vent’anni fa nessuno se lo sarebbe mai immaginato neanche da lontano che miracoli avrebbe fatto la chirurgia estetica e pensavo a chissà che genere di miracoli che farà qualche altra chirurgia “nonsocosa” che inventeranno fra centocinquant’anni; se io ci fossi ancora stato fra centocinquant’anni, magari in quel momento esatto di fra centocinquant’anni, io mi trovavo di nuovo davanti alla televisione e stavo guardando una trasmissione che aveva lo scopo di informarci e farci familiarizzare con una nuova tecnologia biomedica, che c’era già da dieci o quindici anni e che era per esempio la chirurgia trans-specifica, una tecnica che ci metteva davanti a delle possibilità oggi assolutamente impensabili, e la giornalista bionda un po’ in carne era lì a sta trasmissione di fra centocinquant’anni a raccontarci la sua storia, e saltava fuori che si era fatta questa importante operazione di chirurgia trans-specifica e raccontava a tutti che prima era una mucca, solo che fare la mucca non le piaceva, allora era riuscita a fare questa operazione ed era diventata donna, e adesso era molto soddisfatta di tante cose perché fin da piccola pur essendo una mucca dentro lei si era 50


sempre sentita più donna che mucca, infatti fin da quando era vitella aveva fatto subito amicizia con la figlia del contadino e al pomeriggio, quando la figlia del contadino portava tutte le mucche al pascolo, lei preferiva stare a giocare con la figlia del contadino invece che con le altre mucche, cosa per cui le altre mucche l’avevano sempre guardata un po’ storta, come se volesse fare l’originale, e infatti era poi stata la figlia del contadino, che adesso era diventata commercialista e aveva uno studio ben avviato, dopo vent’anni che erano amiche, a darle i soldi per fare questa operazione di chirurgia transspecifica e diventare donna, compiendo il salto di specie, infatti adesso abitavano anche insieme a casa dell’amica commercialista, anche perché questo salto da specie a specie, nonostante sia una cosa che magari uno desidera fin da quando è piccolo, soprattutto nel primo periodo, è anche facile da capire, per vent’anni sei stata una mucca, poi a un certo punto grazie alla chirurgia trans-specifica diventi una donna, nei primi mesi è un salto difficile dove è meglio che ci sia qualcuno che ti aiuti, se sei da sola è molto più dura, e infatti in quel momento la conduttrice si spostava verso un altro signore, che voleva anche lui raccontarci la sua storia, e questo signore invece raccontava che prima di operarsi era un cane, un labrador, ma lui invece raccontava che essere cane gli era sempre piaciuto, e come cane era felice, a differenza della signora ex-mucca, ma aveva voluto operarsi per amore, perché quando era un cucciolo, a due mesi e mezzo, appena svezzato, era stato regalato dai padroni dei suoi genitori alla figlia dei loro vicini, che si chiamava Jessica, una ragazza di vent’anni, e nel corso di quattro o cinque anni loro due avevano capito che si amavano e che si amavano veramente, e non potevano fare a meno l’uno dell’altra, quindi lui aveva deciso di operarsi, e seduta di fianco a lui c’era la ragazza, Jessica, che diceva che lei aveva avuto due o tre fidanzati, ma non era mai riuscita a sentire quelle sensazioni così piene e felici che aveva quando portava Piero, l’ex-labrador si chiamava Piero, a spasso nei parchi, o quando dormivano insieme, lei diceva che di fianco a lui si era sempre sentita sicura, anche se lui, anche quando era un cane, non era per niente aggressivo, ma molto di buon carattere, e comunque per questo motivo, un anno e mezzo fa, avevano deciso per l’operazione, che era andata veramente bene, e dopo sei mesi, visto che tutto era andato bene, si erano anche sposati, infatti la conduttrice diceva: possiamo dirlo, possiamo dare la buona notizia, e Piero, l’ex-labrador, diceva: sì, sì, diamola la notizia, e la notizia era che Jessica era già incinta di sei mesi, e la gravidanza andava avanti in modo perfetto, perché con l’ingegneria transspecifica si facevano queste trasformazioni di DNA col salto di specie per cui prima, per esempio, se la ragazza e l’ex-labrador si amavano così, che lei era una donna e lui un cane, il loro amore comunque non gli avrebbe dato la 51


possibilità di avere un figlio mentre loro adesso avevano potuto avere il figlio che avevano sempre desiderato, e quindi la conduttrice poi loderebbe questa tecnologia che permette a esseri che prima non avrebbero potuto amarsi completamente, adesso gli permette di amarsi completamente e anche di avere un figlio che prima uno avrebbe anche fatto fatica a sognare senza provare un po’ di vergogna e tutto questo era bellissimo, anche se non va sempre così e c’è chi è più fortunato e chi è meno fortunato, diceva la conduttrice, delle volte restano comunque dei problemi, perché uno in un certo senso lascia un mondo per entrare in un altro mondo, e infatti il problema era quello della donna ex-mucca, che si chiamava Fiorella, perché lei, che fin da piccola per certe cose si era sentita più donna che mucca, e in realtà si era operata sei mesi prima, all’età di circa vent’anni, nella sua precedente vita di mucca si era sempre accompagnata con un toro, al quale aveva sempre spiegato il suo desiderio di diventare donna, ma il suo compagno, insomma il toro, le aveva spiegato che lui era un bovino, si sentiva bovino, e non aveva la minima idea di fare un’operazione per cambiare specie, non tanto per l’impegno comportato dall’essere operati, quanto proprio per il fatto di essere un bovino che si realizzava facendo il bovino, e quindi per lei questa operazione per un verso voleva dire diventare quello che aveva sempre sognato di essere, cioè una donna e non più una mucca, ma per l’altro verso significava perdere metà del suo universo di affetti, e infatti l’intervistatrice le aveva chiesto se non c’era qualche uomo all’orizzonte, un nuovo amico, un compagno, e la giornalista ex-mucca le aveva detto che per adesso c’era solo l’amicizia con la sua amica commercialista, e non aveva neanche desiderio per adesso di un uomo, anche perché lei in un certo senso si sentiva ancora innamorata del suo compagno, anche se vedersi non aveva più il senso di prima. E in verità, diceva la conduttrice, effettivamente, se uno si leggeva le statistiche disponibili attualmente sui casi di tutti quelli che si erano fatti operare diventava chiaramente evidente che nella mucca la motivazione dell’operazione spesso è l’amicizia tra donne, mentre nel caso del cane la motivazione è quasi sempre di natura erotica, non c’era nessun ex-cane tra gli ex-cani intervistati che avesse deciso di sopportare un’operazione di chirurgia trans-specifica se non era stato mosso da desiderio erotico, mentre tra le ex-mucche e gli ex-cavalli molto spesso le motivazioni erano più vicine all’amicizia, e anche questo doveva avere qualche significato profondo, diceva la conduttrice. E così poi, su questa domanda, si chiudeva la trasmissione e io pensavo che sfiga non poter morire tra duecentoventi anni, che magari avrei potuto sposarmi una ex-mucca, che le mucche mi sono sempre piaciute.

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Sono ormai dieci anni che non manco all’appuntamento della Maratona degli undici ponti. Mi alleno ogni mattina. Le giornate che mi piacciono di più sono quelle nebbiose, perché la nebbia attenua i contorni, rende soffusi i suoni, meno definiti i colori. Né bianco né nero. Nella nebbia mi piace iniziare il mio percorso. Enzo, 64 anni, Comacchio

rivendicare il proprio transito dialogo con Porpora Marcasciano di Silvia Albanese & Nicoletta Bucciarelli


Siamo tutti dei transessuali. Così come siamo tutti dei mutanti biologici potenziali, siamo dei potenziali transessuali. E non è una questione di biologia. Siamo tutti simbolicamente dei transessuali. J. Baudrillard1

Il MIT è la sede del Movimento Identità Transessuale, l’associazione più antica del movimento GLTQ italiano: la sua fondazione ufficiale risale all’estate del 1979, quando in una piscina milanese alcune trans si tolsero il reggiseno in segno di protesta, gridando: “La nostra identità non viene riconosciuta? E allora noi indossiamo il costume da uomo!”2. Incontriamo Porpora Marcasciano, sociologa, attivista del movimento e vicepresidente del MIT, alla quale chiediamo di parlarci dell’identità transessuale: “La questione è complessa, fermarsi allo stereotipo invece è molto semplice: il/la transessuale è la bionda coi tacchi a spillo e le calze a rete che di notte batte; questa è l’immagine più facile da trovare e da fotografare, da leggere, da scrivere, che fa gossip e stuzzica i pruriti... Dietro quell’immagine c’è un mondo che per me è difficile inscrivere dentro dei perimetri; per semplificare diciamo che è una persona transessuale o transgender. Io dico che ci sono sfumature determinate dal contesto sociale e culturale in cui uno vive. Finora si è sempre posta l’attenzione sull’individuo, ma è il contesto a fare la differenza: se un/una transessuale nasce in una famiglia povera o in una ricca, se nasce al sud o al nord, in un paese o in una grande città, in Italia, in Scandinavia o in Iran… Bisognerebbe prestare più attenzione ai contesti e non concentrarsi esclusivamente sul dramma interiore. Noi come trans siamo nati in clinica: i medici per primi hanno parlato di noi consegnandoci all’opinione pubblica, quindi siamo nati con quel marchio della patologia che ancora ci portiamo appresso, mentre credo che la patologia sia più sociale che interna all’individuo. La nostra società non riesce ad accogliere, chiude: tutto è bello o brutto, bianco o nero, maschio o femmina. E ci cadiamo tutti, le stesse persone trans: i/le transessuali hanno la necessità e il bisogno inculcato di stare dall’una o dall’altra parte, hanno bisogno di normalizzazione. Per quanto mi riguarda la strada maestra sarebbe rivendicare il proprio transito: il fatto di andare oltre, di non rispecchiare né l’uno né l’altro sesso ma entrambi, invece si mira quasi sempre o troppo spesso a diventare uomini o donne, annullando in questo modo un percorso prezioso fatto di sofferenza, problemi, non accettazione. Annullarlo e arrivare all’intervento fa sì che quello che c’era prima non esista più, e questo è dovuto a una mancanza di elaborazione: La trasparenza del male, tr. it. a cura di Francesco Marsciani, Sugarco Edizioni, Milano 1990. Si invita a consultare il sito www.mit-italia.it per maggiori informazioni sulle attività dell’associazione, tra le quali ricordiamo Divergenti, festival di cinema trans giunto alla sua terza edizione, che si tiene ogni anno a Bologna nel mese di maggio. 1 2

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in fondo questa esperienza esiste da poco; nonostante ci sia sempre stata, sono solo trent’anni che la si vive relativamente all’operazione, quindi manca ancora il percorso storico per poter approfondire ed elaborare questo: io sono trans. É un processo a cui si arriverà in tempi brevi, ammesso che tra un po’ se ne possa ancora parlare... e visto l’andazzo non è più tanto scontato!” Cosa fate qui al MIT? Il consultorio del MIT ha 650 utenti; ci lavorano tre psicoterapeute e un’endocrinologa in sinergia con il reparto di urologia e ostetricia del Sant’Orsola. In Italia, come nel resto del mondo, si può fare l’intervento gratuitamente, a condizione che la persona sia seguita e supportata da specialisti. Il centro specialistico prende in carico chi lo richiede seguendola/o per un lasso di tempo (almeno un anno e mezzo secondo gli standard internazionali) che scientificamente si chiama “real life test” o “test di vita reale”. Alla fine del percorso lo/a psicologo/a redige una perizia che attesta “l’essere pronto” della persona, il Tribunale la prende in considerazione e si procede; non sempre chi inizia il transito arriva all’intervento, le situazioni sono tante quanti i soggetti. Su questo percorso ci sono diverse posizioni: c’è chi dice di non aver bisogno di un attestato che dica se è pronta/o o meno, e chi come noi considera fondamentale supportare la persona: avendo trent’anni ci ricordiamo di quando non c’era nessuna struttura di riferimento e di quanti danni sono stati fatti su persone abbandonate a loro stesse. Tra le associazioni trans contrarie alla fase preparatoria c’è una rappresentanza di Gay LIB (che sarebbero Gay di destra) che ci accusa di speculare sulla salute delle persone, ma noi questo consultorio lo difendiamo coi denti, perché di attacchi ce ne sono, figurati! Ci si può anche rivolgere a strutture private: paghi e lì fai come ti pare, ma il Tribunale ha comunque bisogno della perizia, perciò si devono pagare anche un avvocato e uno psicologo. Ci sono molte persone che vogliono scavalcare le liste d’attesa e il periodo preparatorio, allora vanno dai privati. Ultimamente c’è la moda di Bangkok, dove i prezzi sono piuttosto accessibili, e Londra, dove i prezzi sono alti ma il risultato è buonissimo. Ciascuno può scegliere. L’importante è che si possa scegliere. Quali sono secondo lei i pro e i contro della Legge 164 del 19823? Innanzitutto va detto che per l’epoca l’Italia, con la Germania, era avanti rispetto al resto dell’Europa. Ma parliamo di altri tempi, altre culture, sembrano passate epoche! La 164 può dirsi una sanatoria, ma questo lo diciamo a mezza bocca perché per le trans dell’epoca fu una grande conquista. È chiaro che oggi andrebbe rivista Tale legge consente l’attribuzione di un sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, ma solamente a seguito di un intervento chirurgico che modifichi i suoi caratteri sessuali; per chi volesse consultare il testo si rimanda a: http://www.cgil.it/archivio/nuovidiritti/documenti/transex_00009.pdf; una proposta di revisione dell’articolo 3 è consultabile su http://www.azionetrans.it/pdl_dignita_trans.html. 3

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alla luce delle leggi che ci sono nel resto d’Europa, perché ora l’Italia è il fanalino di coda: da cinque anni a questa parte non si parla più di transessualismo e lesbiche. Da una parte ci sono i dettami vaticani che dicono “no”, e dall'altra la politica che li accoglie. Affanculo tutto il Risorgimento! Ce la siamo giocata l’indipendenza dell’Italia dalla Chiesa! Dunque, tanto per cominciare la legge dovrebbe prevedere la possibilità di cambiare nome senza per forza arrivare all'intervento: il nome è un ostacolo enorme per l’accesso al lavoro, alle strutture, agli ospedali, ai seggi elettorali; sapete quante trans non vanno a votare perché devono tirare fuori il documento e sappiamo poi l’italietta... il tipo che è allo sportello chiama il collega, il collega ne chiama altri e si fa la coda per guardare il fenomeno “altro”. Qui al MIT si vede bene quanto il rapporto tra nome e sembianze possa essere dissonante: incontri una ragazza, quella tira fuori i documenti e solo allora ti accorgi che è un uomo... perché poi con gli FtoM (cioè i trans che da donna diventano uomo) è molto più difficile capire: sono meno evidenti, forse più discreti, sobri, meno sotto i riflettori. Al contrario per una MtoF si nota di più. Ci sono più segni che lasciano trapelare il percorso. L’Italia dovrebbe accogliere le direttive europee del 2000 riguardo alla discriminazione, così forse perderebbe il suo attuale primato: il nostro Paese è al primo posto al mondo per omicidi di transessuali4. Questo dovrebbe farci riflettere. Invece in Italia la legge sulla discriminazione di gay, lesbiche e trans prima è stata ripulita dal transessualismo e poi è stata addirittura cancellata in Commissione, non è neanche passata5! Per dirvi qual è la cultura... Al MIT riceviamo decine di segnalazioni di aggressione al giorno; abbiamo raggiunto livelli così alti che non si può più stare in silenzio. In Italia ultimamente si è instaurato un processo involutivo: per anni ci siamo basati sul lavoro delle associazioni, del sindacato e sull’attenzione da parte della politica, poi all’improvviso si è imbarbarito tutto. La causa prima è l’invasione esplicita e violenta del Vaticano nella politica e nella vita dei cittadini. A parole, certo, ma le parole sono importanti, le parole sono bombe lanciate! Quando per esempio Ratzinger dice: “la natura ha creato l’uomo e la donna, tutto il resto è abominio”, queste parole assumono un grosso peso in un’opinione pubblica poco preparata (anche perché per quello ci ha pensato la televisione della peggior specie, che si limita a parlare di trans in maniera pruriginosa, soltanto per fare gossip quando viene messa in discussione la rappresentazione degli italiani). Trovo che ci sia poca predisposizione all’apertura ed è un peccato, perché la diversità è ricchezza, e non è retorica quella che faccio: l’apertura ti aggiunge, non ti toglie. La statistica viene stilata ogni anno il 20 Novembre, in occasione Transgender day of Remembrance in ricordo di tutte le vittime trans della violenza. La notte di venerdì 20 novembre 2009 Brenda, transessuale brasiliana coinvolta nella ben nota vicenda Marrazzo, è stata trovata morta per asfissia nella sua casa. 5 Il riferimento è al disegno di legge Norme contro le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale proposto da Franco Grillini durante la scorsa legislatura. 4

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Il transessualismo è sempre esistito nel corso della storia. Come viene concepito in culture diverse da quella occidentale? Ci sono molte culture, come quelle orientali, che prevedono e accettano questa via, ma ci sono stati anche i femminielli napoletani, e qualcuno ancora resiste nonostante le botte e le picconate della globalizzazione! Il fenomeno dei femminielli risale all’antica Grecia, a quando Napoli è nata. Erano uomini che si vestivano da donna, ed erano perfettamente integrati/e nel tessuto sociale del quartiere... il problema è che il quartiere napoletano sta saltando, e quindi sta saltando anche quel ruolo. Ai femminielli erano affidate la cura dei bambini e l’iniziazione sessuale degli adolescenti, inoltre tessevano i rapporti nel quartiere, tenevano i legami... Si trattava di figure magiche, mistiche e degne di rispetto perché portatrici di fortuna, alle quali è legato un affascinante complesso di ritualità: i femminielli si sposavano al tramonto sul sagrato di una chiesa sconsacrata e a partire da quel momento cominciava la figliata, ovvero la simulazione di un parto; dopo nove mesi il femminiello partoriva una pupata: un bambolotto di legno con un fallo enorme, un feticcio, un portafortuna, un alter ego in cui il femminiello si rispecchiava e che si portava dietro tutta la vita. Esistono diverse teorie sul transessualismo, potrebbe parlarcene? In Italia si è cominciato a parlare di transgender negli anni ’90, mentre nei paesi anglosassoni tale termine è stato sempre usato. Noi usiamo transessuale e loro transgender che è più corretto perché si riferisce al genere e non al sesso6. In Italia il termine è stato scoperto dopo che Helena Velena ha pubblicato Dal cybersex al transgender, così lo si è associato al suo libro e alle sue teorie, invece è qualcosa di neutro che sta a indicare l’esperienza basata più sulla percezione di sé che sul fatto di sesso. Rispetto ai gender studies si è molto sviluppata un’elaborazione culturale e politica in ambito prima femminista e poi lesbico. La teoria del queer in Italia ha poco spazio, è riservata alle élite, mentre all’estero i gender studies sono riconosciuti istituzionalmente. Il problema, secondo me, è che in Italia si è creata una grande divaricazione tra teoria e pratica, tra le élite che approfondiscono questi studi e la massa che non raccoglie. La nostra comunità si è svuotata del suo sapere, delle sue conoscenze, della sua cultura e questa è una delle cause della situazione in cui ci troviamo oggi: se invece di pensare solo a saune, discoteche e Dolce&Gabbana si fosse approfondito altro, la situazione sarebbe diversa. Penso che Pasolini e i grandi intellettuali gay si rivoltino nella tomba! Siamo di fronte a una massa di pecore, non ho problemi a dirlo, perché io non sono una cima, ma non ci vuole molto ad approfondire, a formarsi una coscienza critica, a cercare di essere semplicemente consapevoli 6

E il genere è l'organizzazione sociale delle differenze sessuali entro una data cultura.

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di chi siamo, cosa facciamo e dove andiamo... non c’è bisogno di leggere Marx e Marcuse! Qual è secondo lei la via giusta per non vedere solo stereotipi e cliché legati al transessualismo e quale potrebbe essere una speranza futura? La speranza è una questione di educazione e cultura. Per educazione intendo predisposizione a riconoscere gli altri, al rispetto, all’accoglienza e per cultura intendo riappropriarsi della coscienza critica che avevamo prima che trent’anni di televisione della peggior specie ce la togliesse! Credo che queste siano le strade utili per scardinare un pregiudizio antico di secoli. Non lo fai con il Grande Fratello, che colloca tutto nel mondo dello spettacolo e la gente non capisce più quando la questione è reale e quando non lo è. Si fa intendere alla gente che la trans è la prostituta che sta di notte sui marciapiedi, così poi quando la si incontra alla cassa del supermercato non la si riconosce, ma non perché non ci sono i segni: si pensa che lì la trans non ci possa stare. Questa schizofrenia dell’informazione e dell’immaginario in Italia è stata molto più devastante che in altri Paesi.

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Il testamento artistico ed etico di Fabrizio de André, Anime Salve (1996), si apre altrove e violento: si spalanca su una vita lontana e impercettibile, racconta di una Princesa, come una fiaba racconta un corpo che si trasfigura, che cambia soffrendo per trovarsi. Racconta l’atmosfera traslucida e sognante del desiderio che si risolve nel mondo. Ed è il mondo, continuerà il disco, a rivelarsi magnifico e orribile, impossibile da vivere e da accettare senza un riparo quando tutto diventa insopportabile, riparo aperto fatto di desiderio, di viaggio, mai protetto ma mai compromesso, mai irreale perché aggrappato alla vita. Questo catastrofico ottimismo può proteggerci e accompagnarci, mentre intorno il diverso precipita nel mostruoso irreparabile o schizza verso il fantastico spettacolare. La Disney che disegna mondi facili e prefabbricati di sogni accoglienti e morbidi (morbide, in francese, significa “morboso”), altri che alimentano incubi e spettri. Tutto per non essere costretti a essere presenti al mondo, a guardarci in faccia, allo specchio, per strada, dentro, attraverso. Rileggete bene Lewis Carroll, rileggete Il maestro e Margherita.

le favole non dette l'odore autentico di Vladimir Luxuria di Filippo Brunamonti


«La sua vera passione erano gli animali, gli animali in libertà». Basterebbe l’estratto da La Donna-Uomo per mettere tutti d’accordo che Le favole non dette (Bompiani, Milano, 2009) è il libro dell’emancipazione di Vladimir Luxuria. A lei, infatti, certe tv invase dai ding-dong e dal rincoglionimento, servono solo come mezzo di locomozione per trasformare le certezze italiane in zone infartiche; in realtà le favole che Vladimir racconta nel suo libro scavano dentro, e meglio di qualsiasi rimescolìo, portandoci per mano in un’immensità musicalmente biblica. Le favole non dette, così inattuali, sincere, liberano Wladimiro Guadagno, oggi la transgender più famosa d’Italia, dal pregiudizio molesto che il carrozzone massmediatico ha in qualche modo creato attorno all’ex parlamentare di Foggia, operando sull’operato, facendo sesso col sesso, recitando sull’attore, politicizzando la (sua) politica, onorando l’onorevole. E si potrebbe citare qualsiasi altra ventraglia adatta a produrre ipoglicemia culturale. Le favole di Vladimir invocano neppure tanti riguardi intellettuali poiché godono, naturalmente, di un loro stato educato; e si capisce che per Vladimir sia stato importante (s)vestirle al termine di un lungo viaggio. Quello d’attore e scrittore (è stata per anni la regina indiscussa del Muccassassina, storico locale gay di Roma), quello di politico (prima con le battaglie in favore dei diritti civili di tutte le minoranze, poi nel 2006 con l’elezione a deputata nelle fila di Rifondazione Comunista). «Sono l’unica trans nella storia parlamentare europea. C’è solo il caso di Georgina Beyer in Nuova Zelanda. In India invece i trans sono una casta riconosciuta, gli Hjira, che ha dato un sindaco a Gorakhpur. Le nostre figure in altre civiltà erano rispettate e magiche. È stato il colonialismo a condannarci». Ne Le favole non dette è come se una metà di chi scrive stesse lì a raccontare all’altra metà che ascolta: a Vladimir non importa amenizzare Non nobis Domine non nobis, perché una drag queen è capace di amare il prossimo suo come ha predicato Gesù, regalando alle coppie scisse dal cuore, ai bambini dei genitori perfetti, a chi vive in un grande silenzio, le parole soavi del groviglio XY, al di là dello stigma e della nullità, del deragliamento e della perdizione, bruciando la vita – che è già un inferno – di bestemmie, feti e nuvole, nuvole dove Dio scrive e pubblica per Bompiani da uomo libero. Immaginiamo di ascoltare Vladimir mentre narra con il suo tono di voce basso e la grazia umile storie universali o favole di vita. Immaginiamo un asilo di figli piccoli e grandi piantato sull’Isola dei famosi. Immaginiamo di poter toccare il fondo grazie a chi non ha pietà e si vergogna di noi. Immaginiamo l’energia buddista di chi resta per tanti anni “assetato di fede”. Immaginiamo, infine, un promontorio in cui Animus et Anima, Vladimir e Wladimiro, si sposano allegri, brilli, e a cerimonia conclusa non ricordano più neanche i 60


loro nomi, (ri)conoscono però la strada e la porzione di gloria per andare all’anagrafe e dire: «Manuelito è diventato Ofelia». Sanno chi sono e, Hans Christian Andersen alla mano, oltrepassano fottutamente felici la frontiera (se davvero c’è) dell’eventyr e dell’historier. L’opera vive di citazioni ed (ec)citazioni, biblico-disco-icono-filmografiche, come riporta l’indice del manoscritto (ed è già un buon pretesto per amare l’ironia e la raffinatezza dell’efebo mediterraneo che l’ha ideato). La DonnaUomo è la favola apripista ambientata in territorio nativo, a Panni (Foggia). Ci sono richiami e parvenze di Francesco De Gregori (La donna cannone), Vladimir Propp (Morfologia della fiaba; dal testo al metatesto), David Lynch (The Elephant Man). La Sirenetta nel Cemento è ambientata a Milano e a Robecco sul Naviglio (Milano), liberamente tratta da La Sirenetta di Andersen, così come La Preghiera del Cigno, ambientata sul lago Trasimeno (Perugia) e tratta da un altro capolavoro del poeta danese, Il brutto anatroccolo. Mentre Il Triste Cantore si svolge tra Anagni e Roma, Iddu è partorita tra Catania, Tremestieri e Taormina, e crea arie da litigio mischiando Luigi Pirandello (L’uomo dal fiore in bocca), Omero (Odissea, libro IX, vv. 498-502) e Paracelso (Scritti alchemici e magici). La commistione più bella è quella de Il burattinaio che mentiva, favola tra Fiesole e Firenze, ispirata a Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Ma ciò che davvero colpisce è che, stranamente, ci troviamo di fronte ad un’opera e non ad un’operazione (di marketing, di chirurgia professionale, di propaganda politica). Certo, i temi restano quelli cari a chi dal ’94 partecipa a tutti i Gay Pride, cantando a fine parata (Somewhere over the rainbow suonata da Vladimir, quest’anno, sembrava proprio una favola della buona vita). La “potenza della pace”, il valore della diversità, l’incubo clerico-fascista, la calda coperta del Circolo omosessuale Mario Mieli, lo scatolone di profilattici e cartine per le canne, il 27 ottobre 2006 e la sfuriata di Elisabetta Gardini che la trovò nel bagno delle donne a Montecitorio, sono in parte Vladimir. L’odore autentico di Vladimir lo si ama davvero solo quando si legge Le favole non dette, una consolazione per chi si sente solo, un piccolo affronto a chi scrive libri perché va di moda farlo (come il calendario post-Grande Fratello o la svolta intelligente di chi ha sguazzato nel puerile per mezzo secolo di beat). «Le donne strofinavano e insaponavano gli indumenti con l’acqua della vita», scrive Vladimir Luxuria, «avendo di fronte il piccolo cimitero del paese. Era altresì normale raccogliere le ciammaruche, ovvero le piccole lumache, 61


sulle lapidi dopo una giornata di pioggia per bollirle e condirle con olio d’oliva e aglio; mangiare per vivere raccogliendo il cibo in un luogo di morte». Un profetico shake di anoressia e di morte, cui chi non sta bene nel corpo – e chi ricerca disperato la propria identità di genere – incorre, ricorre, corre, scorre. Vladimir, in queste righe, lo dice bene. E continua: «Ma a Pannia tutti ci credevano agli avvistamenti della bambina perché Pan era la loro identità campanilistica». Salviamoci dal circo, prima di credere che la morte sia qui. Enfatico è il dialogo tra la bambina che sa guardare gli occhi degli animali e la donna-uomo in una gabbia circense: «Loro vogliono prendermi viva, non servo morta. Ma se tu non scappi io mi spaccherò la testa con questo masso!» «Cosa!?» «Scappa se vuoi che io resti prigioniera ma viva, resta se vuoi vedermi morire!». A noi, come a Barbara, torna in mente quel pappagallino verde liberato azzannato dal gatto... «Ricorda, al mondo c’è qualcuno che ti vuole bene, che non ti dimenticherà mai, che vorrà prendersi cura di te! Il mondo non è solo dei malvagi!». Il corpo secondo Vladimir, ne La Sirenetta nel Cemento, può essere un involucro insopportabile, una vergogna: «Manuelito non si compiaceva del suo corpo: quel torace piatto senza nessuna protuberanza di seno almeno accennato e quel piccolo pene che si nascondeva stringendo le gambe davanti allo specchio…». Una descrizione degna di McGrath, quando introduce Spider come un tipo cadente e fragile, «in realtà i vestiti hanno sempre avuto l’aria di sbattermi addosso come delle vele, come lenzuoli o sudari: mi capita di scorgerli con la coda dell’occhio o mentre vagabondo in queste strade deserte, e sembrano sempre vuoti, senza padrone, per il modo in cui la flanella ondeggia e si muove su di me, come se io non fossi nulla e gli abiti fossero appesi solo a un’idea di uomo e l’uomo stesso fosse altrove, nudo». Vladimir ha un’ipotesi diversa, più happy, per tutti noi. E scrive: «L’erba rispuntò coprendo le crepe della terra ferita». Sebbene qualche volta la realtà ci distragga, tornare a credere con l’immaginazione di Vladi è onestamente fertile.

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il corpo in primo piano

luce e dignità per il fotografo Eikoh Hosoe di Daniela Shalom Vagata

Prima c’era la donna e dalla donna Dio trasse una costola e formò l’uomo. Poi la donna disse: questa volta sì, l’uomo è ossa delle mie ossa, e carne della mia carne. Sarà chiamato dalla donna, perché fu tratto dalla donna. Nella successione delle fotografie di Otoko to onna (Man and Woman), l’album degli esordi di Eikoh Hosoe, prima compare la donna, poi l’uomo. In calce la traduzione letterale del versetto della Genesi, 2: 23. Hosoe mi ha chiesto perché nella Bibbia Eva sia stata creata da una costola di Adamo. Non ho saputo rispondergli. Otoko to onna è l’album che ha fatto conoscere Hosoe al grande pubblico, risale al 1961 e mette insieme una serie breve di fotografie in bianco e nero: contrasti forti e grani grandi. Tra il bianco e nero delle immagini, versi di Taro Yamamoto e pagine e spazi ritagliati in giallo e bordeaux. Otoko to onna è un libro di fotografie di corpi nudi o appena vestiti che giocano, si desiderano, si accostano e si separano. Corpi viventi che amano: corpi sensuali. Sono ballerini e ballerine, e attori di teatro. Le fotografie compongono un’immaginaria trama narrativa e intrecciano le differenze tra la donna e l’uomo, la fragilità e la forza, l’abbandono passivo e il gesto attivo, senza violenza, seppure il magnetismo degli scatti trasporti nell’immaginario di una violazione, l’erotismo. Embrace, invece, l’altro lavoro di Hosoe sul quale si concentra questa intervista, è il suo terzo libro fotografico. Ancora il contrasto tra la carne bianca e brillante della donna e quella nera e muscolosa dell’uomo, ma verso l’astrazione, ossia verso l’idea originaria della differenza tra i sessi. Profili che s’intrecciano e s’incontrano, linee che s’intersecano e creano immagini di pure forme fisiche. Le differenze tra l’uomo e la donna si traducono in spazi vuoti e pieni, concavi e convessi, nelle vene sporgenti di lui e nelle curve dolci di lei. Tutte le immagini sono attraversate da un forte desiderio e da una tensione, dal pathos scrive Mishima, ricordando nell’introduzione di Embrace che il corpo umano, sempre proteso agli altri, irrimediabilmente ne rimane separato. Seppure l’obbiettivo tagli il corpo in frammenti ed escluda il volto, l’uomo e la donna sono lì, sulla pagina bianca, a ricordarci la loro integrità fisica. Privi di volto, quei corpi appartengono a ognuno di noi, sono ognuno di noi. Otoko to onna e Embrace sono legati: più chiaramente degli altri album essi mo-


strano la continuità della ricerca di Hosoe sul corpo. Gli altri pezzi del puzzle sono The Cosmos of Gaudí e Rodin par Hosoe, ma anche Kaitamachi e The Butterfly Dream (i libri fotografici su Hijikata e Kazuo Ono, i due fondatori del butoh), Barakei (la serie su Yukio Mishima), le fotografie di Yotsuya Simon (lo stravagante attore di teatro ora costruttore di bambole), e Luna rossa. Sono tutte fotografie di corpi e sul corpo: Eikoh Hosoe il fotografo del corpo. Quando è iniziato precisamente il tuo interesse per le fotografie della danza? Non c’è stato un momento preciso. Eravamo un gruppo di amici e nel 1957 avevamo fondato l’agenzia fotografica VIVO. La sede e la camera oscura si trovavano dalle parti di Ginza. La sera frequentavamo gli stessi teatri d’avanguardia e locali fumosi di Shinjuku. Avevamo alcuni amici in comune, ballerini, attori di teatro e aspiranti artisti… Gli occhi delle ballerine sono cerchiati di cajal, scurissimi, evidentissimi come l’occhio spalancato del pesce tenuto in mano dalla donna della fotografia d’apertura. Perché il pesce? Perché questi occhi, questi contrasti? Ho vissuto durante la guerra. Ricordo chiaramente quando nel 1945 ero sfollato con la mia famiglia in campagna, lontano da Tokyo, e ho ancora in mente l’odore di carta bagnata delle lettere di mio padre lontano e quello acre del mio ritorno a Tokyo. Il Giappone era un paese da ricostruire sulle ceneri e sulla disperazione. L’occupazione americana durò fino al 1952, e agli inizi degli anni Sessanta gli Stati Uniti e il Giappone rinnovarono il "Trattato di mutua cooperazione e sicurezza". Noi studenti non eravamo d’accordo: ci siamo opposti, abbiamo protestato e occupato le università. Non potevo fare a meno di contrasti forti per esprimere la rabbia che provavo. O bianco o nero, senza scala di grigi. Così potrei spiegare gli occhi cerchiati di nero delle donne che ho fotografato, le maschere di una tragedia, ma anche – e prende in mano il libro aprendolo sulla prima pagina – volevo mettere in risalto il bianco del bulbo e il nero della pupilla. Occhi che guardano oltre, sgranati, grandi e neri come due buchi neri e come la puntina della pupilla del pesce. È una fotografia scattata dall’alto al basso. L’altro occhio, quello del fotografo, sovrasta la donna. Il pesce… la pelle liscia e cangiante… beh, hai mai pensato al pesce come a un simbolo sessuale maschile? Ma in questa fotografia voglio esprimere anche l’inerzia del pesce e il suo essere nelle mani della donna. Si abbandona, è passivo: la donna ne è in possesso e può farne ciò che vuole. In Giappone il pesce come simbolo erotico è piuttosto frequente. Guarda anche questa foto: pensa alla celebre ukiyo-e di Hokusai “Il sogno della moglie del pescatore”, dove un polipo e una donna si congiungono. Hosoe continua a sfogliare l’album fino ad arrivare a un braccio maschile teso e a delle dita che stringono una rosa di tentacoli. Dietro al braccio e al polipo, la fronte coperta da una frangia scura, gli occhi cerchiati di nero, la maschera immobile di


una donna. «Jesus! Goodbye Jesus! / You’ve cheated me. / I dance wriggly as a fish, / and you send me a woman / and make it much more fun». Recitano i versi di Tamaro Yamato all’interno del libro. Ancora Otoko to onna. Alcune fotografie esprimono la grazia e la delicatezza femminili, altre la forza del maschio, ma anche la sua dolcezza come la fotografia con cui si chiude il libro – le mani di un uomo che tengono sul petto muscoloso due pappagallini –, altre invece esprimono desiderio, altre ancora la differenza tra i sessi, l’incontro tra l’uomo e la donna… Si, direi di si… Concludo sempre i miei libri fotografici con uno scatto che trasmetta un messaggio di vita. La forza che contiene la fragilità, la dolcezza… Ascoltandolo rivedo la fotografia della donna e del pesce e la confronto con quella dell’uomo e i pappagallini. Capisco, riguardando la prima, come essa sia l’altra faccia della seconda. Non per niente le due fotografie aprono e chiudono il libro. Alcune fotografie mi ricordano lo slogan «Make love, not war». Gli indico l’immagine della donna che ironicamente sembra baciare il dito puntato a spararle contro dell’uomo. Anche un altro senso è evidente... Ma la fotografia dove l’uomo tiene sotto braccio la testa della donna, una testa che sembra staccata dal busto, un pallone da calcio, mi trasmette un’emozione completamente diversa: violenza… No, non direi. È passività. In giapponese il canji di shinrai, che di solito viene semplicemente tradotto con “fiducia”, è costituito da due ideogrammi, shin che vuol dire “credo, fede”, e rai che indica invece l’affidarsi totalmente a qualcuno. Non sono consequenziali passività e violenza. Forse ha ragione lui. Perché non chiudere gli occhi e abbandonarsi? Quando un ballerino si getta a terra sa che l’altro lo afferrerà prima che il suo corpo tocchi il suolo. L’amore permette a una persona di sentire di esistere e di essere reale, ma solo quando il corpo e l’anima sono insieme. Le tue fotografie parlano di sesso e di amore… Sì. Scorre altre pagine. Poi si alza dal divano e va a cercare le traduzioni delle poesie e dei commenti inseriti in Otoko to onna. Quando torna, mi dice sorridendo che considera una donna sempre una donna, anche quando ha novant’anni. Non è scontato in un paese dove a trent’anni la donna è considerata troppo vecchia da sposare. Apre su una pagina dove compare un breve commento di Ed van der Elsken, un fotografo olandese scomparso nel 90: «…nude photography has to do with sex, with desire, with lust», si legge tra le righe. Passando a Embrace, che cos’è? Come hai sviluppato l’idea di Embrace?


È una conseguenza dei tuoi lavori precedenti? Embrace? Embrace è il lavoro dove ho voluto esprimere la dignità del corpo umano nella sua forza e nella sua delicatezza. Embrace è una percezione, un riconoscimento, una scoperta. Ho creato Embrace dopo le esperienze di Kaitamachi e Barakei, ma l’idea di Embrace era già in nuce in Otoko to onna e mi accompagna sempre. L’introduzione è stata scritta da Yukio Mishima che era un mio carissimo amico. Mi lascia qualche minuto per leggere la traduzione in inglese dell’introduzione di Mishima e ripenso alle fotografie di Embrace: due corpi che sembrano prendere il sopravvento l’uno sull’altro, lottare per avvicinarsi e per poi percepire la distanza che li separa. Forse la qualità di «gloominess» di cui parla Mishima è lo stridore irreale tra il bianco sovraesposto della donna e l’oscurità dell’uomo, un contrasto che accentua la differenza e la complementarità tra i due. È una una tensione continua quella a comprendersi… In primo piano, nel salottino dove chiacchieriamo, Hosoe tiene esposta la copertina di Embrace: le cosce aperte della donna sostenute dalla mano dell’uomo. Il sesso di lei è nascosto dal braccio di lui; il braccio sembra un enorme fallo. È una fotografia forte, qualcuno ha pensato violenta, ma è embrace, un abbraccio inusuale, profondamente corporale, che trascende la carne: sacro. Nelle fotografie di Embrace mi sembra di assoluta rilevanza il problema dello spazio. In fondo la fotografia è basata sulla scelta di uno spazio. Gli stessi corpi sono spazi e la distanza o la vicinanza si possono considerare anche in termini spaziali. In The Cosmos of Gaudí dici che lo spazio dà dignità all’uomo: cosa vuol dire? Questa affermazione riguarda anche Embrace? Non esattamente… occorre che mi spieghi. Forse è difficile capire senza averlo sperimentato, ma per me lo spazio garantisce la dignità dell’uomo. Guarda questa foto… Prende un libro da sopra il tavolinetto davanti a noi e mi mostra la fotografia di casa Mila dal suo libro su Gaudí. Il soffitto di casa Mila è alto tre metri. L’altezza assicura la dignità della persona perché protegge e rassicura. Le stanze progettate da Gaudí sembrano qualcosa di molto particolare finché non ci si entra dentro e ci si sente come nel grembo materno. Lo spazio è un manto che ricopre il corpo, il corpo un manto che ricopre l’anima, e spazio, corpo e anima si contengono a vicenda, scrive Kazuo Ono. Per me anche le scrostature del soffitto e le strane macchie della vernice che cade a pezzi sono opera di Gaudí. Quando ho fotografato il soffitto ho pensato di aver ritrovato Embrace… Ave Maria è inscritto nel soffitto di casa Mila. Non si può leggere Ave Maria nello stesso istante, ma Gaudí ha concepito tutto l’edificio


come un intero Ave Maria e io vi ho visto Embrace. Si ferma a meditare per un attimo. Poi riprende… Non ho mai smesso di lavorare a Embrace. Embrace risale al 1969-1970, le fotografie su Gaudí al 1983-1984: per ventʼanni non ho fatto altro che cercare un corpo umano come quello di Embrace. E sono stato felicissimo di ritrovare Embrace nell’opera di Gaudí. La posizione e la forma delle finestre sono tutte diverse come tutte le facce degli uomini sono diverse: uniche. Queste – e mi indica le strane forme circolari sul tetto di Casa Mila – ricordano la testa del grandissimo Buddha di Nara, ma potrebbero essere anche le teste dei giganti dei Gulliver’s Travels. I comignoli sembrano invece gli uomini venuti dallo spazio: ecco, la danza degli extraterrestri sul tetto della casa Mila. Li vedi? Questa è la mia comprensione dell’opera di Gaudí. Il soffitto a botte di casa Mila è la piega della pancia di Buddha che a sua volta è la curva del fianco di una donna… È come un mandala: è embrace. Embrace… Embrace è una parola magica. Embrace è un portafortuna. Embrace è la formula di un mantra, il ritmo ossessivo di un tamburo, la parola di uno sciamano, una preghiera. Embrace è una forma, un concetto, un fondamento. Embrace, embrace, embrace. Embrace sono due corpi… È la danza di Kizahashi, il gradino inesistente che però riesce a unire l’uomo e la donna, perché costantemente loro lo ricreano, visibile soltanto a loro. Embrace è l’abbraccio tra un uomo e una donna. Per me le opere di Gaudí sono molto femminili: le forme rotonde, la sensazione che la pietra sia in movimento e possa danzare… Sono d’accordo. La maggior parte delle opere di Gaudí sono basate sul corpo umano. Ma attenta: per femminile io intendo la forma del corpo di una donna. Anche se osservi un’opera di Michelangelo, questa non è soltanto una scultura o un affresco di Michelangelo, ma è un corpo umano creato da Michelangelo. Io non fotografo una statua o un affresco di Michelangelo, ma il corpo umano creato da Michelangelo. Michelangelo è in assoluto il mio artista preferito. Gli dico che Michelangelo era anche un poeta. Non lo sapeva. Gli prometto di trovare una traduzione delle poesie e di spedirgliela. Anche per le statue di Rodin ho avuto la stessa impressione: non ho mai pensato che fossero soltanto oggetti scolpiti, ma corpi umani. Per questo motivo sono molto attratto dall’opera di Gaudí, di Michelangelo e di Rodin. Sono un fotografo del corpo umano. Tira fuori da una mensola a lato del divano un altro libricino. Me lo mostra. S’intitola Rodin par Hosoe. È un libro formato A5, alla giapponese, di quelli i cui i fogli aperti formano una fisarmonica, il recto bianco, il verso nero. Queste sculture sembrano vive. Queste mie fotografie non sono semplici fotografie di sculture, ma sono fotografie di un corpo umano. Le ho scattate al giardino del Musée Rodin a Parigi. Queste le ho chiamate “bianco Rodin” – e mi mostra il recto del libricino –, queste “nero Rodin” – il verso. Il bianco rappresenta la donna


e il nero l’uomo. Distende il libricino creando un cerchio. Così sei circondata dai corpi di Rodin… Ristamperò questo libro l’anno prossimo. Spero che tu possa apprezzare le immagini disposte in un libro di questo formato. Penso che questo tipo di formato sia più appropriato alla tridimensionalità delle sculture: i corpi di Rodin sembrano più drammatici in questo modo. Provo ad immaginarmi piccolissima circondata da quelle sculture, ne avrei paura… I corpi che mi sovrastano… È Rodin, non devi averne paura… sussurra. Si è fatto tardi. Mi sorride nuovamente e mi chiede di tornare a trovarlo. Tornerò domani, alla solita ora. Prima c’era l’uomo e dall’uomo Dio trasse una costola e formò la donna. Poi l’uomo disse: questa volta sì, la donna è ossa delle mie ossa, e carne della mia carne. Sarà chiamata dall’uomo, perché fu tratta dall’uomo…

fare le immagini luce e verità per il fotografo Tano D’Amico di Lorenzo Franceschini

Tano D’Amico è stato lo sguardo capace di catturare quelle immagini che hanno raccontato il dissenso in Italia negli ultimi trent’anni. Ha saputo osservare i disordini sociali, le manifestazioni dei lavoratori, non in quanto fenomeni di massa, ma in quanto espressioni di umanità. L’interesse della fotografia di Tano D’Amico non è mai stato per i numeri, né quello di mostrare le diecimila persone di una manifestazione, ma quello di far parlare i volti e i corpi che componevano queste masse con la loro individualità irripetibile. Cos’è per te l’immagine? Parlare d’immagine è difficile, perché nelle immagini c’è come una crosta che le rende impenetrabili. Sono come il calcio, ne parlano tutti ma non lo fa nessuno. Le immagini nascono dai sofferenti, da quelli per i quali la vita è insopportabile,


e le immagini stanno con i sofferenti. Questo sembra un dogma dimenticato. Le immagini nascono dagli insoddisfatti, perché quelli che sono soddisfatti del mondo così com’è non hanno motivo di guardare il mondo in un altro modo: a loro bastano i modi di vedere che già esistono. I nuovi modi di vedere invece nascono dagli insoddisfatti. E quando ciò accade la prima a cambiare è l’immagine. L’immagine, quella vera, nasce dall’insoddisfazione, nasce dalla partecipazione ai drammi umani, vissuti in prima persona o partecipati se vissuti da altre persone.

Penso che ogni comunità, ogni ceto, ogni partito che non abbia un suo modo di vedere scompaia in breve tempo dalla storia, venga inglobato dal più forte. Quando il Partito Comunista mi chiese di fare delle foto per un almanacco, io li osservai criticamente e dissi loro che presto sarebbero scomparsi, perché non avevano un proprio modo di vedere. Io ripetevo questo, e loro mi chiamavano “Savonarola”. Solo che io pensavo che sarebbero scomparsi in, per esempio, settecento anni, mentre loro sono scomparsi in soli nove anni. Questo per dire che un gruppo umano che non ha un suo modo di vedere scompare presto. Che differenza c’è tra il linguaggio della parola e il linguaggio dell’immagine?

Direi che la parola scritta serve per definire, per concludere, circoscrivere e racchiudere qualcosa che già c’è. La parola serve a racchiudere questo qualcosa, questo pensiero, per mostrarlo, renderlo visibile. L’immagine, quella vera, è il contrario. L’immagine è un punto di partenza. Se la parola scritta serve per concludere, per definire, l’immagine è, al contrario, il punto di partenza per i pensieri. Chi la fa lancia il suo sassolino nello stagno e poi, dove le onde arrivano, ognuno può interpretare queste onde, ma non lo obbliga nessuno. Ecco, le immagini sono il punto di partenza per qualcosa che ancora non c’è. Per questo esse vanno sempre d’accordo con il nuovo, con i movimenti. Io amo ripetere che l’immagine irrompe dagli strappi della storia. È il punto di partenza per qualcosa che non si ha ancora chiaro. Quando delle persone si mettono in marcia, non sanno ancora dove andranno. Da una parte abbiamo questo tipo d’immagini di cui mi hai parlato, ma dall’altra ci sono le immagini prodotte dal potere, quelle che hanno la forza di icone, ma di icone prive dell’evocatività delle immagini ieratiche bizantine, e forti, piuttosto, di un potere sulla persona puramente retorico.

Quella del rapporto tra potere e immagine è una storia lunga. Qualsiasi potere ha visto che l’immagine è una brutta bestia, difficile da dominare. E allora si sono sempre sforzati di mettere delle regole. Per esempio ai tempi degli Assiri e dei Babilonesi i vincitori dovevano essere rappresentati più grandi dei vinti. Nonostante questo, però, i più bei monumenti al deportato, per esempio, sono stati fatti a quel tempo. Perché gli uomini che lavoravano con le immagini si identificavano, più che nel vincitore, nelle persone che venivano


portate via in catene. Goebbels fu uno dei pochi, durante il nazismo, a comprendere il cuore del problema del rapporto tra immagini e potere. Perché gli Assiri erano fregati dalle immagini, come mai gli imperatori egiziani, o i potenti del Rinascimento venivano fregati dalle immagini? Goebbels era una persona molto intelligente, e capì come si fa a controllare le immagini. Goebbels decise che doveva essere abolita qualsiasi immagine che andasse al di là del suo significato letterale. Ogni immagine doveva corrispondere alla parola scritta, senza andarne al di là; e le parole scritte si possono dominare. Non c’è stato potere al mondo che non abbia avuto il controllo della parola scritta, ma nessun potere, fino a Goebbels, ha avuto il controllo dell’immagine. Bisogna dire che Goebbels è stato sconfitto, ma i vincitori fecero subito proprio il modo di controllare le immagini che Goebbels aveva spiegato al mondo. So che ami particolarmente Giordano Bruno. Vuoi dirmi cosa c’entra il Nolano con la tua fotografia?

Bruno lo cito sempre come autore molto famoso per poi far passare quello che penso io. I monaci che lo ebbero assistito nella sua ultima notte affermarono che si intrattennero col filosofo parlando di memoria, ricordi, tempo e luce. Bruno afferma che i ricordi sono fatti di tempo e di luce. Voi sapete che i fotografi vivono di tempo (un trentesimo, un centoventicinquesimo, un trecentesimo...) e di luce. Un’immagine, una fotografia, che è un ricordo, è fatta di tempo e di luce. E l’immagine ha a che fare con la memoria...

Io credo che esistano delle immagini capaci di fare memoria. Ora devo citare un pensiero di Leonardo Da Vinci – e questo è veramente suo! Lui è l’autore che spiega meglio le immagini. Di mestiere era pittore, ma poi inventava di tutto; e si era chiesto se fosse possibile costruire macchine per fare le immagini. Lui ci pensava. E l’incredibile è che non pensò a una camera oscura. Perché sapeva che era un’invenzione che avevano già fatto tutti... Ricordo che una volta andai a fare una lezione in carcere, e dovevo spiegare come funziona una camera oscura. Ma tutti mi guardavano come un pazzo, mentre mi affannavo a spiegarglielo, perché se c’era un principio che conoscevano tutti quei carcerati, era proprio quello della camera oscura. Infatti, essendo stati rinchiusi chissà quante volte al buio, vedevano attraverso il buco della chiave o attraverso il finestrino le ombre di quelli che passavano in corridoio proiettata al contrario sulla parete opposta. E da qui ho formulato il pensiero che da quando l’uomo è rinchiuso, è chiaro che, anche non volendo, conosce il principio della camera oscura. Ma Da Vinci allora non pensava a una camera oscura: voleva creare una macchina che scindesse la realtà in punti e che ad un comando rimettesse i pezzettini a posto. Sostanzialmente pensava ad uno scanner. Poi ci pensa per dei giorni e


infine dice: «E che senso ha? Bene che vada io avrò inventato uno specchio, e uno specchio non ha mai cambiato niente». E spiega, infine, quello che è per lui un’immagine. L’immagine non è figlia della realtà, ma è nipote della realtà. È l’uomo che fa le immagini, non la realtà. L’immagine è figlia dell’uomo. La fotografia non è l’immagine di un fatto di realtà, ma l’immagine di come un uomo ha visto quel fatto. Leonardo dice che l’immagine è sempre figlia dell’uomo. Quindi l’immagine è creata dall’uomo... In un’intervista che rilasciasti tempo fa dicesti che anche la verità è figlia dell’uomo. In che senso?

Ecco, questo mio pensiero mi ha portato molte inimicizie. Bene, io credo che, purtroppo per noi, esista una verità nell’universo, ma nessuno può captarla. Una verità deve essere cercata e deve essere fatta. Per esempio picchiare i bambini è orribile. Ma “fare la verità”, in questo caso, è far entrare questo principio in tutti gli uomini. E quella verità non esiste nell’universo, la si deve fare. Sarebbe troppo comodo se la verità esistesse già. La verità è frutto della fatica dell’uomo, di tutto il suo impegno. Non intendo dire che la verità si aggiusti, no! Bisogna per prima cosa cercarla, e già è difficile, e poi c’è un altro momento, che forse è più pesante ancora: prenderla, lavorarci, soffrirci sopra e depositarla con delicatezza dentro gli altri cuori. E questa è la verità più difficile. L’esperienza di Socrate, Cristo e dello stesso Giordano Bruno ci mostrano come sia difficile e rischioso dire la verità...

È vero, è difficile da dire, ma io credo che nel loro comportamento sia possibile vedere anche dell’arroganza, questo identificarsi con la verità... Se ho imparato qualcosa dalla vita è che la verità è così cara e delicata che uno non deve mai identificarla con la propria persona. È per questo che quando parlo di qualcosa in cui credo, spesso lo attribuisco ad altri, come ho fatto con Bruno. Altrimenti diventa “quello che ha detto Tano”, “la verità di Tano”, e sappiamo che Tano ha molti limiti, e magari è antipatico, mentre la verità non dev’essere antipatica. La verità dev’essere qualcosa da coccolare, da fare crescere, da alitarci sopra, ma mai da bollare con la propria sigla, col proprio marchio. In Socrate e Bruno c’era forse questa arroganza – invece, tornando a Leonardo, in lui mancava. L’immagine per Da Vinci è figlia dell’uomo e nipote della realtà come essa appare, e poi, infine, è parente di Dio – nel senso che esistono delle immagini che sono capaci di ricreare l’uomo, farlo riflettere, farlo rinascere.


Joshua Adams

point of view The gates of the botanical garden were chained but ajar. Two girls sunbathed beneath the cypress trees. Evening came on to us; we walked down the hill & into the college of doors. I signed a false name. She made some tea. After, we looked at each other. Standing shouldered on the balcony she spoke about the value of nothingness in the panorama. The prospect was hazy, the objects were vague. Still, we found what we were looking for.

Punto di vista | Le uscite del giardino botanico / erano incatenate ma socchiuse. Due ragazze / prendevano il sole sotto i cipressi. / La sera scese su di noi; camminavamo / giÚ per la collina & in una prigione di porte. / Firmai con un falso nome. Lei fece del tè. / Poi, ci guardammo. / Restando di spalle sul balcone / lei parlava del valore della nullità / nel panorama. La visuale /era nebbiosa, gli oggetti erano vaghi. / Eppure, trovammo cosa stavamo cercando. 72


choral At night on the feast of St. Bartholomew we go down to the ruined amphitheater and make love on the grassy proscenium. There, you whisper: "The disease you get in this book depends on your level of literacy." Some persimmons roll out of my bag. We sit against the stripped marble and eat in silence. A long way off, there's an apocryphal war, and some headless torsos made of glass: the posture of posture holds our interest. Murmured vows people the clover. I rise from the bed to find you have turned to ash.

Corale | Di notte il giorno della festa di San Bartolomeo / scendiamo allʼanfiteatro in rovina / e facciamo lʼamore sul proscenio erboso. / Lì sussurri: “Il problema che incontri in questo / libro dipende dal tuo livello di alfabetizzazione.” / Alcuni cachi rotolano fuori dalla mia borsa. Ci / appoggiamo al marmo spoglio e mangiamo in silenzio. / Molto lontano, cʼè una guerra apocrifa, / e alcuni busti senza testa fatti di vetro: / la posizione del loro portamento cattura la nostra attenzione. / Promesse mormorate animano il quadrifoglio. Mi /alzo dal letto e mi accorgo che sei tornata alle rovine. 73


letter to the Corinthians Walking alone in Chinatown I had a true epiphany of your ass: it was something I could trick with my tongue like a creed. That transparent skirt was the glass; those velvet curtains the dark. Light pooled at the foot of the bed. I tasted your body in parts. When I was a child I spoke as a child. When I was a man I spoke like a man: I called you up, told you to come and you came.

Lettera ai Corinzi | Mentre camminavo da solo a Chinatown / ho avuto una vera epifania / del tuo sedere: era qualcosa / che potevo circuire con la mia lingua come un credo. / Quella gonna trasparente era il vetro; / quelle tende di velluto lʼoscurità. / Della luce si accumulò ai piedi del letto. / Ho assaporato il tuo corpo in parti. / Quando ero un bambino parlavo come / un bambino. Quando ero un uomo / parlavo come un uomo: ti ho chiamata, / ti ho detto di venire e sei venuta. 74


Ora che la trasformazione era avvenuta, si guardavano l’un l’altro. Si sentivano così demenziali nei loro nuovi colli mercuriali che liquidi e argentei si piegavano di qua e di là ad ogni spiffero cosmico. Ma la sorpresa che a entrambi fece rizzare i legami fosfodiesterici del loro dna ormai mutato in un traliccio d’edera, fu quando aprirono bocca. Volevano commentare le reciproche nuove silhouette ma le parole che uscivano loro dalla bocca si trasmutavano in flussi anch’essi mercurici, che poi si avvitavano e si fondevano insieme, componendo grappoli di bolle. Decisero che la cosa migliore da farsi era scopare. Si abbracciarono con una rara passione, mai provata prima della mutazione. Ma non vi erano buchini di sorta per incastrare il loro desiderio e le loro prospettive erotiche. Allora il loro abbraccio diede vita a una cammella, anch’essa tutta di mercurio.

di che sessualità sei? di Franco Buffoni


Il termine “omosessuale” divenne d’uso corrente (pur se elitario) negli ultimi decenni dell’Ottocento in Francia, Nord Europa e Stati Uniti, paradossalmente precedendo la diffusione del termine eterosessuale. Proprio come avvenne per “romantico” nei confronti di “classico”: per definire la “cosa”, alias la “norma”, occorre che prima si affermi ciò che la contrasta, che la interrompe. Come la pace con la guerra. La parola fondante è guerra. Pace è solo il patto che la interrompe. Prima si definisce la deviazione, poi – inevitabilmente – quella che era considerata la norma diventa un’opzione e deve anch’essa – per contrasto – essere definita. Così, da allora, continuano a esserci i due generi maschile e femminile, ma all’interno di ciascuno si è proceduto a un’ulteriore seriazione. Genere maschile, specie omosessuale/eterosessuale; genere femminile, specie omosessuale/eterosessuale. Desiderare la donna non è una prerogativa solo del genere maschile, e desiderare l’uomo non è una prerogativa solo del genere femminile. Nel secolo che è seguito – pur con fatica – alcune menti lungimiranti hanno cercato di adattare a tale nuova distinzione anche i lessici medici, legali, letterari e psicologici. È quel processo che in parte viene registrato nella definizione di “politicamente corretto”. Definire e definirsi è una necessità essenziale. Se una persona si dichiara omofoba o antiomofoba compie una distinzione incentrata sulla sessualità, mentre se si dichiara femminista o antifemminista compie una distinzione incentrata sul genere. La conseguenza più drammatica della sovrapposizione del genere alla sessualità consiste nel dare per scontato la seconda in base al primo, dalla nascita. Questo è il fondamentale luogo comune da sfatare. Il sesso biologico si riconosce subito; per l’orientamento sessuale occorre attendere almeno che sia trascorso un decennio dalla nascita. Ed è proprio questa sovrapposizione, questo luogo comune, la causa di inenarrabili sofferenze, ambiguità, menzogne, isolamenti, crisi esistenziali e quant’altro. Quanti casi di pazzia e dunque di segregazione, di esclusione, di suicidio, in passato non furono che lo sbocco di sensibilità omosessuali oppresse, impossibilitate ad esprimersi? Foucault, al riguardo, ha scritto pagine importantissime. Un ambiente sociale che non ti prevede, già ti offende, figuriamoci se mai potrà difenderti. Proprio nell’antica assenza della necessità di definirsi da parte del maschio eterosessuale sta il nocciolo della questione dell’identità. L’eterosessualità si definisce in grande misura attraverso ciò che rifiuta. Così come una società si definisce attraverso ciò che esclude. Ogni volta che un omosessuale fa il coming out, obbliga l’eterosessuale a definirsi come tale. Paradossalmente è proprio attraverso un continuo processo di dis-iden76


tificazione che l’omosessuale giunge a costruirsi una propria identità omosessuale. Perché l’omosessualità maschile tradizionalmente si è manifestata, od occultata, secondo due stereotipi opposti: da un lato l’effeminatezza, dall’altro la virilità. Il modo di fare della “checca” era spesso l’unica valvola di sfogo per l’omosessuale sposato e con figli. Anzi, proprio grazie al matrimonio, al simulacro di famiglia eterosessuale che era riuscito a costruirsi, l’omosessuale si concedeva almeno modi e parlata liberi e sciolti. Dall’altra parte la maschera della virilità, introiettata a esorcizzare il terrore di essere “scoperti”, a fare da contrappeso a una vita sessuale tanto intensa quanto clandestina, nel più esplicito disprezzo dell’effeminatezza. Gli appartenenti a questa seconda categoria solitamente rifiutano qualunque manifestazione di cultura omosessuale, non vogliono nemmeno sentire parlare di una possibilità di appartenenza. Se ne sentono totalmente estranei e, odiando e disprezzando se stessi, odiano e disprezzano chi, in qualche modo, associandosi si manifesta. Fino ad oggi, in ogni istituzione, i figli, gli studenti, i soldati, gli scout, i ragazzi dell’oratorio... sono stati tutti cresciuti con l’unica opzione di divenire eterosessuali. E, nuovamente, è paradossale pensare a come l’orientamento omosessuale sia radicato, malgrado tutto. Eppure quello che menti malate – quelle sì davvero malate – vorrebbero è che i gay non ci fossero. Non è ridicolo? E smettiamola di chiederci se la causa dell’omosessualità sia genetica o culturale, o entrambe. Oppure cominciamo a chiedercelo anche per l’eterosessualità. Ricordo una felice sintesi di Giovanni Dall’Orto: «Omosessuali non si nasce né si diventa. Omosessuali si è». È la risposta lucida, pragmatica, fenomenologica da replicarsi alle posizioni essenzialistiche e idealistiche. Perché nel momento in cui ci si chiede se si “nasce” o si “diventa” omosessuali (o mancini) si sottintende che ci sia una “causa”: come per le patologie, per le malattie. Se si “è”, si smette di cercare “cause” e ci si limita, al più, alla descrizione dei fenomeni. Per esempio: come erano e come venivano vissute le sessualità nel secolo scorso e come sono e come vengono vissute oggi? Orientamenti sessuali La specifica natura della sessualità umana – come ormai dovrebbe essere noto a tutti – va ben oltre la pura e semplice necessità di procreare. In altri termini, “sessualità” per uomini e donne anche eterosessuali significa qualcosa che sta ben al di là della procreazione. Dunque, concettualmente, esiste un’enorme distanza tra una distinzione di 77


generi e una distinzione di sessualità. La distinzione di generi sarebbe fondamentale se scopo della sessualità fosse la procreazione. Poiché non è così, o almeno non è più così, allora è evidente che la distinzione tra i generi nel campo della sessualità è un assurdo anacronismo. Affettività, sessualità e procreazione vanno sempre più configurandosi anche in ambiti distinti e separati. Per esempio: si dice comunemente che qualcuno ha una relazione eterosessuale o omosessuale; mentre non si dice mai che qualcuno ha una relazione eterosociale o eterorazziale. In questo secondo caso, per esempio, un gay che va col suo “genere” ma non con la sua classe sociale né con la sua razza, è più “etero” del suo vicino di casa, che ha sposato una sua seconda cugina ed esce raramente la sera. In altri termini, oggi, oltre alle distinzioni di genere, razza, lingua, classe, nazionalità, occorre aggiungere l’orientamento sessuale. E se è vero che, senza il concetto di “genere” non si potrebbe distinguere tra omosessualità e eterosessualità, è anche vero che in molte altre essenziali distinzioni – per tutti: etero e omo – il genere è trasceso: quando badiamo all’età, al colore della pelle, alla cultura del potenziale partner. Qual è la causa dell’omo (o dell’etero) sessualità in un individuo? Questa è la domanda che almeno dal 1973 non dovremmo più porci. Fu proprio nel 1973, infatti, che l’Associazione Americana di Psichiatria derubricò l’omosessualità dall’elenco delle malattie. Da allora le cose cominciarono lentamente a cambiare per le nuove generazioni. Se è una malattia deve avere una causa. Se non lo è, smette di doverla avere. E se si ammette che un individuo su dieci è omosessuale o bisessuale, ad ogni nascita si dovrebbe sempre ritenere di avere 10 probabilità su 100 che il nuovo nato sia sessualmente orientato verso il proprio sesso. Parlare di scelta sessuale è ipocrita, vergognoso. Può essere valido solo in alcuni casi, di individui veramente bisessuali, che “scelgono”. L’omosessuale non sceglie proprio nulla. Dunque, smettiamola di chiederci che cosa sia l’omosessualità e cominciamo a porci solo domande conoscitive, culturali, descrittive: come si manifestava nei tempi bui l’omosessualità? Come si manifesta oggi? Rispetta il prossimo gay tuo come te stesso Persino peggiore dell’odio contro il gay – in quanto perturbante, fuori norma – da parte dei presunti etero, è tradizionalmente l’odio del gay per se stesso. Nasce dal non sentirsi previsto e tanto meno amato come omosessuale. Costui, condizionato dalla cultura eteropatriarcale in cui si è formato, ha introiettato talmente tanto odio verso se stesso negli anni della crescita da non rendersi nemmeno conto di essere il primo “odiatore” di se stesso. 78


Lasciandosi come unico spazio quello di pensare e di parlare di se stesso e dei suoi “amici” al femminile. E denotando in tal modo la propria sudditanza all’eteropatriarcato, che al più è disposto a concedergli il ruolo del “femminiello”, della tapette, del molly, del hijra. Del travestito. Deve “travestirsi” e/o “scheccare” per tranquillizzare l’eteropatriarcato. (Si pensi al riguardo a chi sono gli omosessuali solitamente invitati nelle culturalmente arretrate reti televisive generaliste italiane: Malgioglio, Platinette…). Valorizzare gli altri omosessuali è il primo sforzo che un gay moderno deve compiere per uscire dal senso di colpa e dal disprezzo verso se stesso: imparando a guardare gli altri omosessuali come persone con una storia alle spalle che merita considerazione, come la sua. L’autostima comincia dal rispetto che egli impara a nutrire per gli altri. Per questo occorre promuovere lo studio della cultura gay. Crescere soli e sdoppiati Non è poco – se ci si riflette – chiedere di poter crescere senza sentirsi dei mostri. Che è ciò che è sempre accaduto agli omosessuali semplicemente perché le loro famiglie non li aspettavano. Non li aspettavano “così”. E a questo punto vorrei brevemente soffermarmi su un’analogia spesso evocata. Quando si parla di discriminazioni, si citano abitualmente ebrei, neri, rom, omosessuali ecc. Pensate all’enorme differenza che passa tra un bambino che nasce ebreo tra ebrei, nero tra neri, rom tra rom, e un bambino gay che nasce in una famiglia eterosessuale. Il bimbo ebreo nero rom può subire insulti e discriminazioni nella vita sociale, a scuola tra i compagni, ma è fortemente corazzato e capace di difendersi, in quanto l’ambiente in cui è cresciuto e si è formato gli ha dato anche gli appropriati strumenti culturali per farlo. L’adolescente gay non ha nessuno; anzi, le persone che gli stanno più vicine sono i primi nemici da cui deve difendersi. Avete presenti certi padri…? Un bambino di orientamento “omo” non è mai atteso, non è mai nemmeno seriamente ipotizzato. È sempre poi solo una sgradita sorpresa. Fondamentale è che d’ora in poi l’aspettativa di un figlio non dia per scontato in anticipo il suo orientamento sessuale. Perché, se per i famigliari la sorpresa è sgradita, per il bambino oggetto dello “sgradimento” – mentre goffamente tenta di assomigliare al bambino e all’adolescente che i famigliari si attendevano – la sorpresa si trasforma nella consapevolezza di essere una creatura sbagliata, appunto mostruosa. Quella dell’omosessuale può dunque definirsi come una doppia costruzione dell’io. Mentre come tutti cresce e si forma, l’omosessuale impara a mentire e dunque, all’interno della costruzione dovuta alla crescita, è costretto a 79


porne in essere un’altra, intima, segreta: nemmeno alla madre, nemmeno ai fratelli, al prete, allo zio può svelarla. La sua infanzia e la sua adolescenza, segnate dall’autodisciplina alla menzogna, lo rendono anche estremamente accorto. Non può sbagliare: diverrebbe il bersaglio degli insulti e degli scherzi atroci del gruppo. Vede benissimo che cosa accade a quelli presi di mira: dicerie, pettegolezzi, insinuazioni, prese in giro esplicite, scherzi, scherzi atroci. L’autocontrollo dell’omosessuale a quindici-sedici anni di solito è già totale. Persino nel fingere di associarsi al gruppo dei persecutori, per non dare nell’occhio. L’omosessuale è solo fino a quando – se è fortunato e vive in un grande centro urbano – nell’adolescenza trova il gruppo di amici. La conseguenza del doppio linguaggio che l’omosessuale è costretto ad apprendere durante la prima adolescenza – l’educazione alla menzogna – solitamente lo porta ad aborrire i comportamenti espliciti degli omosessuali dichiarati, gli atteggiamenti effeminati, i modi da checca. Vi è un fondamentale odio per se stessi “così”, e dunque per tutti gli altri che si dimostrino “così” (magistrali al riguardo le reazioni di Garcia Lorca appena giunto a New York, quando entra in contatto con gli omosessuali locali sfacciati e disinibiti. E pietose sono le lettere a mamma e papà, in cui descrive quanto sono affascinanti le fanciulle di New York, per far loro piacere: volevano che “guarisse”). La reazione dominante è di rifiuto: io non sono e non voglio essere così. Dall’altro lato, e contemporaneamente, l’autocontrollo esercitato in modo così attento per tanti anni porta l’ex adolescente a sentirsi – e spesso proprio anche ad essere (se non soccombe) – intellettualmente e culturalmente superiore alla media dei coetanei. La trasmissione dell'identità culturale omosessuale Il coming out più arduo da compiere è quello coi famigliari. Poi, il coraggio – la presa di coscienza politica che questo comporta – a macchia d’olio si allarga all’intera società. Non farlo significa contribuire a perpetuare l’omertà, la dissimulazione, l’ipocrisia, le discriminazioni, gli “omocidi” consumati nella riservatezza. Torniamo a quel dato fondamentale: un cittadino su dieci è omosessuale; se non si parte ciascuno dai propri famigliari, gli altri, tutti gli altri, continueranno a supporre che tutti si sia parte del 90% cosiddetto etero o normale. Occorre che il costume cambi e che il dubbio esista sempre – anche in assenza di palesi dimostrazioni di effeminatezza o di lesbismo – che la nuova persona che incontriamo faccia parte di quel 10%. E dunque il linguaggio di tutti si deve adeguare, divenendo politicamente corretto. Il concetto che occorre diffondere è quello dell’esistenza di una cultura omosessuale. In paesi più avanzati del nostro, dove la procreazione as80


sistita e l’adozione da parte di single e di coppie omoparentali sono legali, si sono già verificati casi di giovani di sesso maschile con orientamento eterosessuale, figli di coppie omoparentali gay. I quali a scuola vengono a contatto con giovani omosessuali figli di “normali” coppie eterosessuali. Il paradosso in questi casi è la cultura gay che permea inevitabilmente i primi, e il desiderio gay che invece invade i secondi. Vissute con intelligenza queste situazioni possono solo arricchire entrambi i soggetti e le loro famiglie. Il focus critico della nostra riflessione ruota infatti attorno alla domanda: è possibile parlare della trasmissione di una identità culturale omosessuale? Solitamente si dice che la cultura, di qualsiasi tipo, si trasmette di padre in figlio. I gay, che per definizione sono sterili, sono stati tuttavia in grado di trasmettere, per filiazione culturale, una cultura e una identità gay. Ma chi si è effettivamente preso cura in passato del passaggio dei saperi da una generazione all’altra di omosessuali? Quanto spreco! Quanti sforzi compiuti in segreto, ciascuno credendo di essere solo al mondo... Come osserva Flandrin: «C’è qualcosa di illogico nello scrutare con tanta attenzione il passato individuale delle persone sottoposte alla cura psicoanalitica, e tanto poco il loro passato collettivo. O almeno ciò che di esso sopravvive nella nostra cultura». E poi non è vero che i gay siano sterili: in Italia, per esempio, ci sono milioni di individui figli e nipoti di persone (uomini e donne) omosessuali. Solo che si trattava di omosessuali velati, e dunque attentissimi a non trasmettere ai figli la cultura omosessuale che vivevano in clandestinità. È palese che soltanto quando, nel Novecento, vengono superate le fasi della “inversione”, della pederastia e della sodomia, e si comincia a parlare di omosessualità provvista di uno stile di vita – di una cultura omosessuale – nel Nord Europa e in Nord America si cominci a non fare più caso al ruolo (che può essere intercambiabile) svolto durante l’atto sessuale, ma conti il genere delle persone coinvolte nell’atto o nell’affaire amoroso. La storia non si eredita, si impara, si costruisce. E questo, per gli omosessuali, significa risalire nel tempo fino agli arrusi siciliani, ai ricchioni napoletani, alle checche milanesi. Indietro, indietro attraverso i versi barocchi, i quadri del Rinascimento, il Brunetto dantesco, indietro a Orazio e Catullo, al cinedo della Grecia classica immortalato nella produzione vascolare, agli affreschi etruschi, ai bassorilievi persiani… Franco Goretti e Tommaso Giartosio ne La città e l’isola hanno raccontato degli arrusi catanesi inviati al confino dalla polizia fascista. Ebbene, nella sperduta isola delle Tremiti, costoro riuscirono a formare un embrione di comunità omosessuale e anche ad avere rapporti tra loro, uscendo (almeno alcuni) dal cliché loro inculcato del sentirsi donna al quale ancora oggi molti 81


gay fanno riferimento. Purtroppo non si hanno le testimonianze degli operai gay, dei fattorini gay, ma solo degli scrittori gay: o almeno di quel poco che hanno lasciato. Gadda, per esempio, distrusse tutto ciò che riguardava la sua sfera privata; Palazzeschi, pure. Così si rimane senza le testimonianze del popolo perché non sa scrivere (a meno che non vada sotto processo, e allora sono visite mediche militari, referti da compulsare, verbali di polizia). E senza gran parte delle testimonianze degli scrittori, che decisero di “preservare” la propria immagine. È poi abbastanza paradossale che sia solo sulle testimonianze letterarie degli intellettuali che si basi la storia di una cultura omosessuale, di una identità gay. Quando si sa che l’intellettuale è inevitabilmente portato a una visione soggettiva e individualistica. Certo, gli scrittori sono gli unici che hanno scritto. Eppure, quanta “intelligenza” omosessuale c’è sempre stata nel popolo... e nulla o ben poco è stato registrato! Che spreco! Si pensi a quanto uso distorto del latino e del greco per decenni è stato fatto nei nostri licei… Ridurre a tormentanti sintassi due materie che avrebbero potuto essere il godimento per gli adolescenti gay e non solo! Il problema dei gay al 30% Ricordo una famosa conversazione degli anni Sessanta, riportata da John Osborne, con Noel Coward, allorché l’anziano commediografo chiese all’allora giovane Osborne: «Quanto sei gay?», e Osborne senza scomporsi rispose: «Al trenta per cento». Al che Coward replicò: «Io al novanta». Credo che oggi in Italia il problema non sia principalmente rappresentato dai gay al 90%, ma da quelli al trenta, che se ne guardano bene dal dichiararsi e dall’essere solidali con le sacrosante battaglie del Movimento LGBT1, ma che alla sera frequentano certi viali di periferia. Portiamo l’esempio dell’ex Presidente della Regione Lazio. Durante la sua vita pubblica non spese mai parola a favore di gay e trans, ignorò la battaglia per i Pacs e i Dico, se ne guardò bene dal combattere all’interno del suo partito le posizioni, per esempio, di Binetti. Sul suo sito si leggeva: «La famiglia è la mia vera grande passione. […] Sono cattolico, cresciuto, come molti ragazzi della mia generazione, frequentando l’oratorio e la parrocchia di Santa Chiara». Una volta “scoperto”, parlò di «debolezze» e di «vergogna». Mentre si può essere eletti presidente di regione – come Vendola in Puglia – senza assoluCirca la sigla LGBT, o GLBT, è necessario chiarire che vi sono due spinte contrapposte in Italia oggi. La prima tende ad aggiungere anche Q e I, che stanno per Queer e Inter, cioè “in transito”: da maschio a femmina e da femmina a maschio. La seconda invece vorrebbe che si parlasse, come nel mondo anglosassone, di gay community e basta, per indicare tutti coloro che si collocano al di fuori del sistema eteropatriarcale (inclusi molti dalle preferenze sessuali etero). 1

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tamente fare mistero sulle proprie predilezioni in campo sessuale. Per una storia comparata dell'omosessualità Quella che occorre promuovere è una storia dell’omosessualità che comparatisticamente sappia prendere in esame aspetti di ordine giuridico, politico, istituzionale, letterario, culturale, medico… in grado non solo di rendere coscienti gli omosessuali del loro passato e della loro cultura, ma anche di risvegliare i bisessuali, di stanarli. E di costringere finalmente gli eterosessuali a definirsi. Considerando che oggi, con la fecondazione assistita, chiunque può diventare padre o madre, prescindendo dal tipo di rapporto sessuale che privilegia, forse si può persino concordare, come avvio di una riflessione seria, sulla necessità del superamento della distinzione tra una eterosessualità più legata alla natura, e una omosessualità più legata alla cultura. Gli studi transculturali e postcoloniali, come quelli sull’economia globale o sulla diaspora, aiutano a leggere il mondo e la storia in modo diverso, per esempio attraverso lo sguardo di chi è sempre stato in posizione subordinata, di chi è stato colonizzato. Questo è un primo sforzo che si deve compiere a scuola per educare i giovani a rispettare e ad accogliere le diversità. Accogliendo veramente in sé gli immigrati, per esempio, la nostra società guadagnerebbe in comprensione di se stessa certamente più di quanto perderebbe in omogeneità… Moltiplicare i coming out contro l’omofobia dei politici italiani «I am out, therefore I am». L’ho visto scritto su una maglietta in giro per New York. Ho fatto il coming out, dunque sono. Una soggettività omosessuale profonda, convinta, dignitosa si costruisce solo attraverso molteplici intersezioni di identificazioni e differenze. Per esempio: non è affatto essenziale che vi sia la penetrazione perché un rapporto erotico-affettivo possa dirsi completo. E ancora: compiere atti omosessuali con una persona, o persino intrattenere con essa un rapporto omosessuale è una cosa; altra e ben diversa cosa è amarla, con conseguente condivisione dell’esistenza. Ma occorre il riconoscimento pubblico, giuridico, della coppia omosessuale e per ottenere questi sacrosanti diritti occorrono molti coraggiosi coming out. Mentre il Parlamento italiano, nell’ottobre 2009, non si è dimostrato disposto nemmeno a difendere i suoi cittadini fatti oggetto di violenza fisica. Con la bocciatura della proposta di legge di Paola Concia contro omofobia e transfobia, consumatasi intorno a una pregiudiziale di costituzionalità, è 83


stata scritta un’altra pagina tristissima della nostra democrazia. Un Parlamento, quello della XVI Legislatura, sempre più delegittimato e distante dai problemi dei cittadini; un Parlamento di nominati – che dimostra la sua efficienza solo nell’approvare norme liberticide o ad personam – ha deciso di tapparsi occhi e orecchie di fronte alla crescente violenza contro omosessuali e transessuali, riesumando il vergognoso paragone dell’omosessualità alla pedofilia, all’incesto e alla zoofilia. Non stupisce che un Parlamento sostanzialmente omofobo, nel discutere la proposta di legge Concia, abbia parlato di «privilegi» e di legge «contro la libertà di pensiero»: ovviamente di leghisti, fascisti e cattolici. In particolare dei loro preti, che potrebbero essere oggetto di sanzione per gli anatemi che pronunciano. Mi limito al riguardo a ricordare la direttiva approvata dal parlamento europeo il 26 aprile 2007 che, riprendendo l’art. 13 del Trattato di Amsterdam, disatteso dall’Italia, ribadisce l’invito agli stati membri «a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso», condanna «i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali» e ufficializza la “Giornata internazionale contro l’omofobia” il 17 maggio (che è il giorno del 1973 in cui l’omosessualità fu depennata dal manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association). Tornando alla bocciatura della proposta di legge Concia, quel che davvero risulta inaccettabile è l’utilizzo dello stratagemma della pregiudiziale di costituzionalità che spinge sempre più ai margini della cittadinanza il 10% dei cittadini. Il Parlamento in carica si è fatto così sostanzialmente istigatore di violenza e di odio e porterà il peso della responsabilità dell’evidente imbarbarimento culturale di cui gli omosessuali sono vittime. Violenza fisica e violenza morale sono strettamente connesse: non si può pensare di condannare l’una e giustificare allo stesso tempo l’altra. È importante anche fare chiarezza su un altro punto della legge respinta, concernente l’orientamento sessuale. Una legge che introduca aggravanti sulla base di questa motivazione non introdurrebbe elementi di discriminazione in base al soggetto che subisce violenza, ma in base al movente di chi commette il reato.
 È scandaloso che alcuni parlamentari e giornalisti (tra gli altri Buttiglione, Volontè, Storace, Renato Farina del Giornale) abbiano cercato di fare bieca speculazione su questo punto. Nessuna discriminazione verrebbe introdotta ma una norma di responsabilità che, come già accade da anni per violenze motivate da odio razziale o religioso (legge Mancino), riconosca la realtà della violenza motivata da odio omofobo e transofobo. Una norma di civiltà elementare presente ormai nella legislazione di tutti gli stati moderni, avanzati e civili.

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San Francisco, 1977. Una spider scura entra in un parcheggio anonimo, nei pressi di Castro Street. Un uomo sulla cinquantina, il cranio completamente calvo, in abito elegante e leggeri occhiali d’osso, scende dalla macchina, e con un marcato accento francese consegna le chiavi al guardiano. Entra velocemente e con fare disinvolto nell’hamam.

il parcheggio di notte di Massimiliano Chiamenti


Di giorno è un parcheggio come tanti altri lungo un viale vicino alla tangenziale. Ma di notte, tutti sanno che è il luogo per fare sesso. Sesso tra uomini. All’ingresso del parcheggio dell’ex Manifattura Tabacchi c’è un furgone di un marocchino che vende bibite e panini. Attorno ci sono sempre tanti marocchini, che però non consumano quasi mai niente. Stanno lì per adescare gli italiani, e vendere loro la cocaina. Però la cocaina che vendono è finta, è solo polverina bianca, forse detersivo, o intonaco di muro grattato. Se però poi uno torna da loro a protestare perché la loro merce era una truffa si incazzano, e si rischia di prendersi una coltellata. Perché loro girano impunemente con i coltelli, e si rischia anche di avere problemi con la polizia se si viene beccati a mercanteggiare con loro. Quindi, meglio decisamente evitarli anche se loro fanno sempre il giochetto di mettersi in mezzo alla strada nella strettoia davanti al furgone, così quando uno passa con la macchina deve scegliere tra investirli o frenare per non metterli sotto. C’è chi accelera, chi si ferma, chi rallenta, chi curva e cerca di dribblarli. Superato lo sbarramento dei marocchini che fa paura a molti (che infatti ora al parcheggio non ci vengono più perché “è un posto pericoloso”) inizia il divertimento. Il parcheggio è fatto come un 8, e si può fare avanti e indietro con la macchina come su una pista, oppure fermarsi con la macchina e tirare giù il finestrino e guardare chi passa, oppure scendere dalla macchina, passeggiare avanti e indietro per farsi vedere, o meglio lasciare lì la macchina parcheggiata e avventurarsi nei dintorni a piedi. È questo uno dei pochi posti a Bologna a contatto con la natura: infatti accanto al parcheggio c’è un prato con alberi, una zona di alberi più fitta e buia, un passaggio sotto la tangenziale che porta a un’altra area dismessa con altri alberi e anfratti, e poi vialetti, silenzio, cespugli, e sopra il grande cielo estivo pieno di stelle. E non ci sono mai donne. Solo uomini che cercano altri uomini per fare sesso. Ci sono giovani e vecchi, bianchi e neri, belli e brutti, ricchi e poveri. Tutti fanno sesso con tutti. È impossibile non divertirsi. E non c’è da pagare il biglietto di ingresso. E non c’è orario di apertura o di chiusura. Ma a volte dei gruppetti di marocchini invadono la zona dei froci nel boschetto per regolare i loro conti in disparte, e urlano e si spintonano… e allora i froci escono dai cespugli e scappano via come coniglietti stanati e impauriti. È lo stato puro di natura. Le donne non ci sono, i froci ci sono ma hanno paura, gli uomini forti dominano e sono temuti. Ma se uno sta al suo posto e impara come muoversi, poi va tutto bene. Ci sono sere in cui vedi qualcuno vestito solo di una tunica, o tutto nudo, o due che si spompinano e si inculano accanto a un albero, o un gruppo che si masturba allegramente nella zona degli alberi più buia. Certo, ci sono anche i locali targati gay con la musica, i drink, il biglietto di ingresso e la dark room tutta bella organizzata e i buttafuori e i buttadentro. Nei locali targati gay la promiscuità e la sessualità sono messe in regola, tutelate e rassicurate. Nel parcheggio di notte invece nessuno dà ordini, nessuno serve nessuno, e nessuno prende soldi. Ma ci sono i pericoli dello stato di natura, e le gioie vere e intense del86


lo stato di natura. È un po’ come essere tutti degli animali, fuori dalle regole della società, anche fuori dalle regole della società pseudo-alternativa e contro il sistema. Per i folli, per le bestie, per chi ha istinti non domabili e arginabili, il parcheggio di notte è il posto dove andare. È l’unica oasi non ancora invasa dal consumismo e dalle regole castranti di questa società di mamme, di mogli, di galline, di streghe, di cagnolini al guinzaglio a cui hanno tagliato le palle.

Andrea Marcellino

amore Chiudere cerchi Chiudere cerchi Chiudere cerchi Chiudere i cerchi mi dà un gran piacere Più grande è il cerchio e più grande è la gioia Le giornate sono cerchietti e addormentarsi è bello Morire deve essere l'esperienza più bella di tutta la vita Sono libero Per chi vuole esistere, per chi ama la vita, giunga vicino questo canto di morte


Ammazzi bambini per farne uomini. Uomini per farsi donne. Donne che faranno bambini. Bambini che saranno uccisi dalla bellezza Dalla tua luce Tu che ora sei cenere o carbone Le tre Grazie: All'assassina che mi ha ucciso la seconda volta AmabilitĂ . Vino dolce, simpatia Alla bambina che mi ha ricordato il giocare GioconditĂ della vita campestre Alla ragazza con cui ho giocato Bellezza muliebre Alla donna che mi ha curato dalla musa che non sa giocare


L’identità che ognuno di noi ha non nasce da sola e contemporaneamente non si costruisce a tavolino. È un’anima che nasce e cresce con noi, con le esperienze che accumuliamo e la consapevolezza che alimentiamo. Barbara, anni non specificati, Ancona

del come, del quando, del perché di Barbara Laconi


A pensarci ora, comodamente seduta in casa mia e con una tazza di tè caldo in mano, la mia vita passata e il lungo viaggio verso l’affermazione di me stessa mi sembrano così tremendamente bohémien. È buffo: ripensiamo a noi stessi sempre con ironia, affetto e superficialità, sdrammatizzando i dolori con battute e riassumendo in due parole interi anni di intime tragedie. Il pensiero successivo – che tutte le vite sono travagliate ed esemplari a loro modo – trasforma fatti e personaggi in figure di contorno, togliendogli l’importanza che hanno avuto. Poi riaffiorano i sentimenti: le ansie provate, le frustrazioni, i dubbi, la rabbia e arriva l’ondata finale di dolore. A questo punto non sono più io, ora e qui con il tè, ma la ragazza di allora che agisce per non perdersi. A me fortunatamente è stato risparmiato lo strazio dell’accettazione del mio lesbismo. Tutta quella fase in cui da principio capisci che non te ne importa un fico secco del bello della classe, del quale tutte le tue amiche parlano, ma non vuoi pensarci, fai finta di nulla. Poi arrivano le prime emozioni per la migliore amica o la compagna di banco o la vicina di casa; un fuoco che divampa dentro quando la vedi e l’impaccio che non sai gestire. A questo punto, in genere, i segni sono troppo evidenti e devi fare i conti con te stessa. Più o meno ti dici «Sono lesbica: lo accetto e vado avanti o mi faccio troppo schifo, avrò una vita di merda, tutti mi odieranno e quindi ricaccio dentro di me questo sentimento e mi trovo un fidanzato e mi costruisco una relazione socialmente accettabile?». Prendiamo la via breve e diciamo che la risposta al quiz sia la prima: il gioco a premi non finisce mica qui. Seguiranno anni spesi a crearti un equilibrio, ad accettarti e farti accettare dal mondo che hai intorno (famiglia, amici, colleghi), il quale quasi certamente non reagirà sostenendoti e dandoti una pacca sulla spalla. Perché nessuno è preparato a questo, né gli/le omosessuali né gli altri. Nessuno mette mai in conto che il pargoletto appena nato potrebbe essere gay o transessuale; gli compriamo la tutina azzurra di rito e fantastichiamo sulla sua vita futura. Etero naturalmente. Qualsiasi altra possibilità non è considerata in partenza, praticamente non esiste. E questa impostazione continua nella scuola, tra gli amici, nello sport; le uniche volte in cui si fa riferimento a vite diverse è per denigrarle o per mettere alla berlina qualcuno (“sculetti come un frocio”). Molti giovani arrivano al suicidio per l’incapacità di accettarsi (la percentuale di suicidi negli adolescenti gay è doppia rispetto a quella dei loro omologhi etero); oppure si creano complicatissimi equilibri mentali grazie ai quali di giorno vivono con i propri detrattori e di notte si trascinano nei locali gay guardandosi le spalle e presentandosi con falso nome. Sono proprio quelli che poi si sposeranno, avranno un buon lavoro e dei figli, magari disprezzeranno pubblicamente i gay e passeranno tutta la vita a nascondersi di notte dietro ai cespugli per avere un po’ di quell’amore che li farà vomitare, ma di cui non potranno fare senza. Schizofrenia pura. Fu proprio per loro che quindici anni fa creai il circolo Arcigay di Ancona, 90


insieme con alcuni compagni pieni di entusiasmo e allegria. Ad ogni modo, stavo dicendo che questo dolore io non lo provai. Forse perché già da tempo avevo messo in discussione la mia sessualità e – da razionale quale sono – divoravo libri, saggi e film sul lesbismo. Ogni bacio che vedevo sullo schermo era un tuffo al cuore; ogni emozione che leggevo era la mia. E soprattutto non mi bastava mai! La mia ricerca teorica di fonti e di confronti non aveva mai fine… volevo sempre di più… come se avessi aperto una porta e questa si fosse spalancata e il vento mi facesse barcollare. Dopo la ricerca, è nato il desiderio di provare (inevitabilmente aggiungo ora). Insomma, avevo letto e visto, ma dentro avevo un mare di dubbi e desideri che non mi davano pace. La cosa buffa fu che nel momento esatto in cui dissi a me stessa «Barbara, sei lesbica!» non provai angoscia per il fatto in sé: era un dato di fatto e non potevo fare nulla per cambiarlo. In realtà non avrei voluto neanche cambiarlo; fa parte di me, come la testardaggine, il romanticismo, la timidezza. Insieme a questo e molto altro ancora, contribuisce a creare quel mix unico chiamato Barbara Laconi. La mia “benedetta” razionalità arrivò in aiuto e il pensiero successivo fu «Bene. E ora che faccio?». Avevo saltato a piè pari tutto il capitolo “accettazione” ed ero passata subito al capitolo “riorganizzazione della vita”. E fu qui che arrivò anche per me il momento dei conti. Avevo una relazione stabile con un ragazzo, per la quale avevo lottato e cambiato radicalmente i rapporti con la mia famiglia. Era un rapporto non sano per entrambi (lo dico col senno di poi), ma che aveva contribuito alla mia crescita umana ed emotiva. Un bel rapporto di amore-odio come tanti nello stupendo mondo eterosessuale, che ci vendono come ideale e ineluttabile. Insomma ci volevamo bene, ma ci facevamo anche male, in una continua lotta per la supremazia e il controllo. Era arrivato il momento per me di decidere: continuare a lavorare e investire in quel rapporto (o comunque nella mia impostazione eterosessuale, nel caso ci fossimo lasciati) o chiudere tutto e…? Chiudere tutto per cosa? Per dove? Per come? C’era il nulla davanti a me: non sapevo cosa avrei fatto, come sarebbe stata la mia vita e soprattutto con chi. Volevo davvero buttare tutto alle ortiche per qualcosa che non sapevo neanche se fosse reale? Ebbene sì. Nella vita bisogna prendersi delle responsabilità (lasciatemi passare questa frase epica). Sapevo che il desiderio non sarebbe sparito con la semplice imposizione delle mani, cioè negandolo; percepivo che sarebbe tornato fuori, che non me ne sarei liberata finché non lo avessi vissuto. Quindi dissi a me stessa «meglio una etero convinta domani che una lesbica frustrata e repressa oggi!». Se poi lui mi avesse voluto ancora sarebbe stato un altro problema, da affrontare a tempo debito… In fondo domani è un altro giorno, no? Se allora avessi deciso diversamente, probabilmente oggi sarei tra quelli che vivono in equilibrio tra mille psicosi “l’amore sacro” inteso come sacro vincolo del 91


matrimonio e “l’amor profano” inteso come libera espressione del proprio desiderio naturale. Ma come si può chiedere a una persona di negare se stessa, di vivere una vita nella menzogna (verso gli altri, ma anche verso se stessa) e di aspettarsi che sia felice perché "è per il suo bene"… perché "vive una vita sana". Pensiamo sul serio che questa pover’anima riesca ad apprezzarsi e a costruire una relazione alla pari con l’altro? Con quali strumenti, se gli abbiamo insegnato a odiarsi, a rinnegare la propria natura e ad abdicare agli altri la definizione del proprio bene? Vi assicuro che la mia vita è sana e felice nel beato lesbismo che la governa. Probabilmente lo è perché solo da una base di amore e di accettazione reciproca può nascere un rapporto sano con l’altro. Per certi versi direi che è anche schifosamente borghese e ordinaria, col tranquillo mènage di una coppia affiatata. Ora so che il difficile è venuto dopo. Dopo tutti i pianti per il cambiamento, tutte le discussioni con i miei genitori, le spiegazioni agli amici. L’identità che ognuno di noi ha non nasce da sola e contemporaneamente non si costruisce a tavolino. È un’anima che nasce e cresce con noi, con le esperienze che accumuliamo e la consapevolezza che alimentiamo. Non è stato difficile definirmi lesbica, ma esserlo veramente, in maniera consapevole e onesta con me stessa: accettare i confronti e sostenere le discussioni; manifestare in piazza e difendere la categoria anche in pizzeria, quando non ci pensi e vorresti goderti la serata con gli amici, anziché rispondere alle battute deprimenti del galletto del momento. In quel momento sento che non sto difendendo solo me, la mia dignità e i miei principi, ma anche altre persone, ombre che non conosco, che non hanno gli strumenti – politici e culturali – per affrancarsi. Magari il mio esempio li aiuterà, come per me è stato fondamentale quello di altri prima di me. In ogni caso, so che sto facendo la mia parte e questo mi basta.

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Nel mercato di Jianguo a Taipei qualche anno fa comprai un monile di giada scolpito a forma di cicala. Ricordo che ci feci mettere subito un cordoncino e lo indossai, lo tenni qualche ora al collo e poi lo misi in borsa, ma non facevo altro che prenderlo in mano e guardarlo. Provavo un senso riverente di timore. Ho poi scoperto che in Cina nell’antichità si usava mettere una cicala di giada sotto la lingua del cadavere. Quel giorno persi la mia giada. Elvira, 42 anni, Catania

sirene di Maria Grazia Maiorino


Il salotto ha ampie forme arrotondate, spalliere alte, braccioli sui quali si può stare tranquillamente appollaiati. Anche il colore diverso delle tappezzerie, rosa chiaro il divano e celeste polvere le poltrone, dà l’idea di un luogo vissuto, come il tappeto morbido, un po’ logoro, disteso sotto il tavolino centrale dove si possono appoggiare le gambe da qualsiasi punto del salotto, che forma una specie di cerchio. E loro compaiono lì, il gruppo di amici degli anni Sessanta: chi in vestaglia e chi in accappatoio o in jeans, chi si toglie le scarpe e chi si sdraia sul tappeto, via la compunzione obbligata del funerale, via anche quelli che non c’erano allora. Nel grande freddo del mondo esterno uno di loro si è ucciso, non sanno perché e vorrebbero saperlo, ma adesso hanno bisogno soltanto di quel cerchio dove restare uniti per riavviare insieme il meccanismo inceppato delle loro vite. Abito in una casa nuova, che tu non hai mai visto, my american sister; mobili, quadri, specchi sono gli stessi. L’unico lusso che mi sono concessa è un salotto color arancione formato da due divani disposti ad angolo. Ci si potrebbe stare comodamente in sette – Sarah, Harold, Meg, Sam, Michael, Nick, Karen1 – e anche di più, ma finora non è mai successo. Per la maggior parte del tempo ad abitare il mio salotto restano i fantasmi, perciò io posso spostarmi da un divano all’altro, sdraiarmi cambiando posto ai cuscini, scriverci, leggere allungandomi dalla parte della lampada, ascoltare musica, fantasticare e attendere che si accenda il presepe delle colline. Non ci scriviamo più. Due, forse tre anni. Così qualche giorno fa ci ho provato: ho digitato Rachel Burnell su Google, mi sembrava di cercare l’ago nel pagliaio e invece dopo qualche secondo sei comparsa tu! Il viso sorridente, in testa una corona di palloncini, un arcobaleno di palloncini lunghi piegati in due, come tante orecchie di coniglio. E vicino le fotografie più piccole dei tuoi amici con i loro nomi. La prima sensazione è stata la gelosia. Ti sei dimenticata di me: la tua rete su Facebook è formata da persone che non conosco, ma stai bene. Sei tu, ci sei, riconosco il tuo stile. Poi è venuta l’incertezza. Tu eri addirittura contraria al computer all’inizio, ricordi? Entrerò anch’io nella rete per amicizia o lascerò che questa lunga storia finisca come tante altre? Per ora riprendo come ai vecchi tempi. Eri tu quella che scriveva le lettere più lunghe, in una lingua che era il contrario dell’americano medio della California nelle battute di Woody Allen e mi costringeva alla fatica continua del vocabolario. Ti rispondevo in inglese Personaggi del film Il grande freddo (tit. or. The Big Chill) del 1983, diretto da Lawrence Kasdan. Il film è evocato nella scena iniziale del racconto. 1

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sentendomi una scolaretta che si intestardisce a dire cose più grandi di lei, e la corrispondenza è andata avanti per venticinque anni. Io nascondevo il mio corpo in una salopette rossa di Benetton, camicette scozzesi, golfini e tu, più giovane di dieci anni, indossavi bluse trasparenti con le maniche lunghe sotto le t-shirt, gonne a campana alla caviglia, collant neri. A mezzogiorno il clima di Berkeley ritornava estivo e ci si spogliava a strati, passeggiando tra i cancelli bianchi di Sproul Plaza, nei parchi, nelle aule del campus, dove tu, appena uscita dal college, tenevi un corso di inglese. Che cosa ero venuta a cercare nella mia prima America? In quaranta giorni non scrissi nemmeno una riga di diario. La tensione tra me e mio marito si notava anche durante le lezioni, ma lui si lasciava andare più di me, usciva la sera, andava a sentire musica in qualche pub, mentre io pensavo solo a studiare. Dopo il corso, il viaggio continuò secondo i programmi con la visita ai deserti dell’ovest. Tornata in Italia, me ne andai di casa e cominciammo a scriverci. La tua distanza mi rassicurava, diventando lo specchio della mia nuova vita e anche del passato che piano piano riuscivo a raccontarti, a lunghi passi, perché il mio rozzo inglese non permetteva molte sfumature. Quelle ce le mettevi tu. In questa relazione tu sei stata il mio giovane angelo che se ne volava da uno stato all’altro, da un’occupazione all’altra, in una vita molto più varia e movimentata della mia. Eppure tu trovavi in me qualità che ti interessavano: forse mi abbellivi con la tua immagine dell’Italia facendo un tutt’uno di questo paese da te tanto amato e dell’amica della natura, dei fiori, degli animali, delle donne, delle loro battaglie, delle loro storie. Dell’amica romantica come te, ingenua e saggia. Me lo hai scritto in una delle prime lettere e io sorrisi pensando che al tempo del femminismo mi chiamavano “la saggia” anche qui, e invece lo ero così poco. Non era saggezza relegare sentimenti, riflessioni, progetti, tutto nella testa, nella sfera razionale, senza un consapevole aggancio con le sensazioni. Lo stupore di dividermi quasi in due e di guardarmi vivere come dal di fuori. Da che cosa dovevo difendermi? Se ritorno adesso con il pensiero ai collettivi dei compagni prima, poi ai gruppi di autocoscienza delle donne, mi sembra… astratte, ecco come definirei le tante persone incontrate. Non sapevo niente del loro gusti, dei loro sentimenti, di come passavano il tempo fuori dalle stanze delle nostre riunioni. L’unica vera intimità era quella dell’amore, ma quel privato non diventò mai politico, almeno per me. Anch’io ero astratta. Nessuno scambio reale, nessuna utopia, nessuna emozione vera, distinta, ma una continua ansia di cambiare. Sembrava che bastasse stare insieme per scoprire chi si era e dove si voleva andare. Soltanto al ricordo dei cortei mi rivedo contenta di essere parte, anche 95


fisicamente, di una coralità che mi riempiva. Forse sto semplificando, per tanti andava bene così forse, ma non per me. Io avrei dovuto imboccare un’altra strada e soprattutto avrei dovuto trovare le parole, ricominciando da capo. Dall’infanzia, dagli strappi e dai limiti, sconosciuti alla ragione. Credo che tutto sia cominciato da una coincidenza: trovare una rosa invernale, proprio nel giorno in cui abbandonai un convegno di donne, che avrebbe dovuto riempirmi di entusiasmo. Fu una fuga, come più tardi quella dal matrimonio. La rosa mi chiamò e io le risposi scrivendo una poesia. Ritorno nella tua minuscola casa, a Oackland. Seconda America. La sera prima Leo e io ci eravamo fermati in un motel dove il portiere ci aveva dato la chiave passandola sotto il vetro della guardiola. Non ci sentivamo tranquilli nella scatola della nostra stanza, in una fila di altre scatole uguali affacciate su una notte sconosciuta. Il McDonald era a pochi passi, un hamburger frettoloso tra gente di colore che ci guardava con sospetto. Il quartiere dove abitavi tu era un’altra città: legno dipinto di rosa, portoncino socchiuso, il tuo nome sul campanello al pianterreno e un cartello appeso alla maniglia della porta che ci dava il benvenuto e le prime istruzioni. La chiave era sotto lo zerbino. La cena la ricordo ancora: piatto unico con lasagne, insalata e salmone. Mike andava a fare lavanderia dopo il dinner e tornava con la sacca dei panni asciutti. Il mattino trovavamo un foglio sul tavolo con l’itinerario del giorno. I fogli li conservo ancora come tutto quello che ho ricevuto da te. Il pezzo forte è la bacchetta magica di vetro, lune e stelline vaganti nella polvere azzurra. Nella mia seconda America riempii un quaderno con la spirale comprato a New York che mi seguì fino in fondo al Grand Canyon. Viaggiammo insieme per una settimana. Eravamo incredibilmente giovani e inconsapevoli delle battaglie future. Ti rivedo con dieci parrucche diverse nelle piccole foto assemblate su un allegro sfondo viola e coriandoli: All of my silly wings2. Per me alta tecnologia digitale e informatica. Non ho mai capito se ti eri fatta fotografare mentre le provavi o se le comprasti tutte dopo aver iniziato la chemioterapia. Nei due fogli che precedono ci sono le stanze del Highlands Ranch dove sei andata ad abitare con Neal, in Colorado: Our home with a big oil painting of the italian coast!3 E c’è il tuo viso sorridente, appena malinconico, i capelli biondi freschi di parrucchiere. Sotto c’è scritto semplicemente: Curls4. 2 3 4

[Tutte le mie stupide parrucche] [La nostra casa con un grande quadro a olio della costa italiana!] [Riccioli]

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Sono entrata nella casa dei tuoi sogni, stanza per stanza, nel giardino ti ho visto piantare i bulbi in autunno confidando nella loro fioritura e nella tua guarigione, celebrata sulla spiaggia di Cancun e siglata da una bellissima mermaid5. La sirenetta messicana della tua rinascita: una statuina di legno, con una coda fiorita a forma di sottomarino, una pinna arcobaleno, un chitarrino minuscolo tra le mani, la corona in testa e due fiori blu che spuntano dalle spalle come ali. Non ricordo esattamente da quando e perché abbiamo cominciato a giocare con quel nome: forse dalla fiaba che inventasti per le tue nipotine? Così ci siamo trasformate in sirene, ogni volta una diversa in un mare diverso, compresa quella impellicciata tra i ghiacci dell’Alaska. Ho tradotto pazientemente le tue short stories, gli articoli sulla creatività femminile e altri argomenti che affrontavi nei workshop e nelle lezioni all’università, i versi del libro di Marge Piercy, Living in the open, che mi regalasti all’inizio, ed era come entrare nella tua pelle, nella luce e nei profumi della tua California. Tu sei tutte le amiche che mi mancano, tutte le donne che ho amato e anche quelle che mi hanno lasciato. Metto dentro lo scrigno della nostra relazione il mio faticoso cammino. Compresa questa tappa estrema di solitudine che mi insegna, quasi mi costringe, ad ascoltare più attentamente ogni voce, oggetto, foglia, nuvola, ruga, sguardo, ombra, silenzio. Ogni voce ripete che non siamo soli finché riusciamo a sentire le vibrazioni del mondo che si muove intorno a noi. Carta d’identità Quante combinazioni i sentimenti hanno nel cuore (sempre gli stessi noi indossiamo fuori) nomade porti i tuoi angeli guerrieri in una tenda forse prenatale donna oggi sposa a un albero domani ebbra di un profumo troppo forte di gelsomino la fedeltà promessa a un animale la vecchia sorellanza mai rimossa la passione di giustizia origine che non è possibile smentire il richiamo della città natale sotterraneo come fiume carsico l’amore corrisposto nei vasti silenzi della luce e l’acqua l’acqua che tutto porta via sciogliendo le nostre anime-sirene sempre incerte fra mondi…6

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[Sirena] Poesia tratta da Maria Grazia Maiorino, Di marmo e d’aria, Lecce, Manni, 1995.

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una parentesi rosa, fra mercato e pop music: Lady Gaga intervallo musicale di Samuel Manzoni

C’è un po’ d’Italia nell’artista che si sta imponendo come la nuova regina della dance music. Stiamo parlando dell’italo-americana Stefani Joanne Angelina Germanotta, in arte “Lady Gaga”. In effetti, molti tabloid e riviste internazionali la considerano la nuova Madonna, o quanto meno colei che ne sta ereditando la corona. Approdata sulle scene appena ventiduenne con singoli ballabili e di facile ascolto, quali Just Dance e soprattutto Poker Face (vero e proprio tormentone del 2008), si presenta sotto i riflettori dello show business in modo intrigante, sensuale, sfacciato, futurista. Lady Gaga è una trasformista che non teme di citare superstar come Freddy Mercury e raffinati poeti quali il boemo Reiner Maria Rilke (ne porta tatuate sul braccio sinistro alcune parole tratte dalle Lettere a un giovane poeta). Il suo nome d’arte è una citazione della celeberrima song dei Queen (Radio Ga Ga). Ogni suo videoclip contiene caleidoscopiche mutazioni alla Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Perché segua e realizzi tutti i suoi più reconditi desideri di scena, la nuova dirty o bad girl – come viene alternativamente definita dai mass media – ha dato vita a uno staff tutto suo: Haus of Gaga. Strass, paillettes, abbigliamenti surreali conditi con capelli variopinti e acconciature all’ultima moda, trucchi hardcore, calzature con tacchi vertiginosi degne dei Kiss e una serie inesauribile di occhiali d’ogni forma e colore. Nel video Bad Romance mima persino i passi di Thriller mentre i bianchi costumi in lattice ricordano quelli usati dal cineasta francese Georges Méliès per gli alieni del suo Voyage dans la lune. In Paparazzi si trasforma in una killer Minnie in carne e ossa, mentre in Eh, eh (Nothing I Can Say) fa emergere tutta la sua italianità tra viaggi in vespa e insegne d’olio d’oliva, cappuccini e pizze. Un personaggio curioso, capace di sovrastare le dirette rivali. Christina Aguilera e Britney Spears? E chi se le ricorda più.


Lavoro come chef in un ristorante di Brooklyn. Per il pranzo di Thanksgiving consiglierei un menÚ che possa farci apprezzare la varietà della cucina regionale italiana: un mix di gusti decisi e diversi che coesistono amabilmente. Un antipasto di pomodorini secchi e formaggio caprino sardo a pasta molle, un tagliere di ciauscolo, finocchiona e prosciutto di San Daniele, riso Vialone Nano Veronese al radicchio, carciofi alla giudia e pastiera. Il tutto accompagnato da Cirò rosso e da passito di Pantelleria. Pasquale, 49 anni, Brooklyn, New York

Svezia allo specchio di Igor Tchehoff


Agli occhi di tanti svedesi gli altri paesi sembrano avere unʼidentità forte e, per così dire, “esotica”, mentre noi svedesi siamo semplicemente razionali, moderni e individualisti. Oggi questa identità svedese, che agli altri può risultare altrettanto esotica, si trova al centro dei dibattiti culturali, a causa di nuove sfide quali globalizzazione e immigrazione dai paesi non-europei. Probabilmente, il caso storico della modernizzazione svedese, che è stata abbracciata senza riserve dalla società intera, rimane la chiave alla comprensione dell’identità nazionale. Il punto di partenza è la grande omogeneità etnica e culturale rispetto ad altri paesi e la mancanza di forti identità regionali. Il progetto di modernizzazione sociale risale alle lezioni tratte dalla profonda crisi degli anni Trenta che, oltre a un’accentuata disparità sociale, portò a un vero crollo di natalità. Il programma riformistico, abbozzato da Alva e Gunnar Myrdal1 in La crisi nella questione demografica del 1934, proponeva che lo Stato assumesse un ruolo guida nella gestione di ciò che Foucault più tardi chiamò il biopotere, ovvero la responsabilità comprensiva della salute e del benessere dei cittadini. I punti concreti del programma riguardavano la costruzione delle abitazioni sovvenzionate e asili nido, assistenza sanitaria, diminuzione della diseguaglianza economica e sviluppo dei diritti delle donne. La vita privata dell’individuo che prima faceva parte della sfera familiare ed era governata dalla tradizione e dalle forze del mercato, diventò allora un oggetto della responsabilità dello Stato, i cui programmi erano affidati a scienziati ed esperti di sociologia, medicina e psicologia. In questa prospettiva, la politica si deve fondare su una base scientifica e razionale, e di conseguenza “non-ideologica”. In questo spirito pragmatico, caratterizzato dalla disponibilità al compromesso e uno scetticismo verso ideologie definite irrealistiche, possiamo riconoscere anche il concetto di Postpolitik attuale. La realizzazione delle proposte dei Myrdal fu facilitata dal fatto che il paese è stato governato dal partito socialdemocratico per più di quarantʼanni di seguito (dal 1932 al 1976). In questo periodo si manifestò anche il lato oscuro del progetto dell’ingegneria sociale, cioè lo scandalo della sterilizzazione forzata delle persone considerate non idonee, il cui numero ammonta a circa trentamila unità. Ciononostante, il modello sociale svedese, ovvero uno Stato del benessere finanziato con le più alte tasse del mondo, è stato in generale un gran successo fino alla metà degli anni Settanta e, dopo un periodo di crisi negli anni Novanta, rimane ancora oggi largamente condiviso, sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Accanto alla promozione del benessere economico, in gran parte ridistribuito dai sistemi sociali, possiamo identificare altre linee di tendenza: il rapporto tra l’individuo e le istituzioni dello Stato, caratterizzato da una reciproca fiducia, prende il posto della famiglia come garante della sicurezza e luogo di socializzazione, e a suo turno contribuisce a una forte omogeneità dei valori. La destra e la sinistra condividono una vasta base di 1

Coppia di intellettuali svedesi progressisti: Gunnar ricevette il Nobel per l’economia nel 1974 e Alva il Nobel per la pace nel 1982.

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valori culturali e si differiscono soltanto riguardo ad alcuni aspetti della politica economica come le tasse o i sussidi ai disoccupati. Di conseguenza, l’appartenenza politica non costituisce un fattore di rilievo nell’identità personale. Nello stesso tempo, ogni pensiero e modo di vivere alternativi, cioè che si trovano oltre il buon senso condiviso, sono banditi dall’arena pubblica (com’è il caso della religione od opinioni liberali sulla droga). Tuttavia, il matrimonio gay è stato approvato dalla stragrande maggioranza del Parlamento, e adesso può anche essere celebrato nelle chiese svedesi. Il rapporto complementare tra lo Stato e l’individuo aiuta a illuminare alcuni tratti dell’identità svedese riconosciuti e codificati all’estero. La cosiddetta libertà sessuale, di cui si parla dagli anni Cinquanta – e che dal punto di vista svedese è un fenomeno massmediatico creato dagli stranieri – è una conseguenza dell’educazione sessuale che fu introdotta nella scuola svedese già nel 1955. Così, alcuni film che negli anni Sessanta diffusero la fama del paese libertino, fra cui Taxi driver di Scorsese, avevano in realtà uno scopo educativo e terapeutico. Un altro lato di questo fenomeno riguarda il cambiamento dell’atteggiamento femminile: il comportamento delle donne si avvicina a quello dei maschi, “liberati” da sempre. L’evoluzione successiva dei costumi all’estero dimostra agli svedesi che loro sono all’avanguardia dello sviluppo e li spinge a considerare ogni differenza di mentalità come prova che gli altri popoli ancora

Su YouTube da quasi un anno gira un video: mentre scorrono sullo schermo immagini del “Movimento verde”, alcuni amici iraniani mi fanno ascoltare una versione, musicalmente non avvincente, di Bella Ciao, in italiano sottotitolata in farsi e in inglese. Cerco di spiegare che si tratta di una vecchia canzone italiana, e che non è stata composta per l’Iran. Non mi credono tutti… http://www.youtube.com/watch?v=SNocyz1NRjA

twitter, notizie e propaganda la rivoluzione iraniana e l’affanno dei media di Dario Aquaro


non sono abbastanza moderni. Nello stesso tempo questo atteggiamento non è considerato nazionalista o patriottico, visto che i nazionalisti sono coloro che sventolano le bandiere, mentre gli svedesi si vedono come individualisti e considerano il concetto della nazione o dell’identità nazionale superati. Il cammino verso la maggiore uguaglianza dei sessi prende a volte delle pieghe impreviste, come illustra il caso di una giovane coppia svedese, che ha deciso di non svelare il sesso del loro bambino, chiamato Pop, affinché lui (o lei) non fosse influenzato dai modelli stereotipati di gender. Secondo i genitori, si tratta di garantire al bambino una crescita non condizionata dai presupposti inconsci che ci fanno interagire con uomini e donne in modi diversi. In quest’ottica, ogni classificazione fissa è considerata opprimente perché limita la libertà dell’individuo di scegliere la sua identità secondo il proprio volere. Questo esperimento ha suscitato un certo clamore massmediatico sia in Svezia sia all’estero, ma dimostra al pubblico svedese illuminato ancora una volta che il resto del mondo è indietro e noi siamo un paese avanzato e per niente esotico. Paradossalmente, l’identità svedese sembra gravitare alla media statistica dell’intero paese, e l’appartenenza politica, regionale, religiosa o economica non definisce più l’identità personale dell’individualista moderno. Rimane da vedere se il bambino Pop riuscirà a eliminare l’ultima frontiera che finora ci divide in uomini e donne.

Twitter, 25 giugno 2009. «Vagheeiat è un agente governativo, bloccatelo», avverte Neda-lives-on. Vagheeiat è un sedicente membro della milizia iraniana che manda in rete messaggi contro Moussavi e le spie americane e sioniste che «non fermeranno l’Iran, l’Islam e il nostro amato Khamenei». Sono trascorse due settimane dalle elezioni presidenziali del 12 giugno 2009. Il tam tam dei microblogger dà voce alla protesta esplosa nelle strade contro la rielezione di Ahmadinejad, si fa sempre più battente, confuso e assordante: un mare di messaggi e nickname solcato da oppositori e sostenitori del regime. E agenti doppi. Con i corrispondenti stranieri messi alla porta, i siti di social networking restano però il canale principe per sapere quel che accade nelle città iraniane. Twitter, la rete tessuta sui micromessaggi (deformazione da “to tweet”, cinguettare), ha aperto la più grande finestra sul paese. Dove si affacciano sentinelle coraggiose della democrazia, mitomani e oscuri signori della disinformazione. Il fotogramma della morte di Neda Agha Soltan, ventenne uccisa nelle manifestazioni di Teheran, il volto irrorato di sangue, rimbalza su milioni di terminali di tutto il mondo e diventa l’immagine simbolo della rivolta. Lo stesso giorno – il 20 giugno – per ore circola sul web la lista delle ambasciate straniere pronte ad aprire le porte ai feriti: indirizzi fasulli, messi in rete per sviare e allontanare dai veri soccorsi. Testimonianza e manipolazione. E, mentre migliaia di ragazzi armati di cellulari trasmettono brevi messaggi, immagini della sommossa o della repressione,


gli sgherri del regime si infiltrano nei network per monitorare le comunicazioni. Il “cinguettio” degli utenti degenera in un fracasso che mescola notizie contraddittorie provenienti dalle vie e dalle piazze di Teheran, Teliz, Mashad, Isfahan, Alwaz. «Tutti gli utenti che cominciano per qqpr sono poliziotti iraniani. È una trappola!», è il messaggio che circola tra i sostenitori della protesta nelle settimane successive al voto. «Tanti basij e impostori aprono account su Twitter per diffondere menzogne e propaganda. Individuali e bloccali». «Attenzione», scrive safi4594, «lavora per Ahmadinejad!». Il suo bersaglio è american45, reo di aver postato una nota in cui accusa gli americani che «prima uccidono in Iraq e ora destabilizzano l’Iran». Chi è chi? Il flusso di notizie prodotte da questo citizen journalism scorre nel mezzo di una guerra fatta di filtri e controfiltri, che oppone blogger e censori. Il giornalismo si trova a vagliare fonti la cui affidabilità è tutta da dimostrare, perché, per evitare le retate della polizia elettronica, devono restare ignoti sia l’identità di chi fornisce la notizia sia il luogo dal quale parte il “twit”. L’attendibilità diventa un ponte tibetano. Così il Guardian – avvertito dalla Bbc – ritira dal sito un video pubblicato il 24 giugno, che si scopre invece girato parecchi giorni prima. La confusione cresce, mentre la twitter-rivoluzione ha generato il suo opposto. Una controrivoluzione che è silenziosa: non parla all’occidente – come fa ad esempio Vagheeiat scrivendo in inglese –, ma mobilita i propri sostenitori in lingua farsi e attraverso i siti locali. Colpisce lì dove la comunità virtuale è più debole. Alcune fonti di Twitter alle quali si affida il New York Times vengono accusate di essere spie israeliane. In un drammatico dialogo sul web, un sostenitore del governo comunica a tre importanti blogger dell’opposizione che stanno per essere arrestati. Le loro foto sono già pubblicate sul sito iraniano Gerdab [Vortice]. I continui cinguettii hanno messo in allarme i cacciatori, e pubblicare notizie che tentano di aggirare la censura del regime può rivelarsi un boomerang. Infiltrazioni e depistaggi sono la punta dell’iceberg della censura. L’Iran, che nei mo-

Poi, seduto sul suo sontuoso tappeto magico atterrò nella città vecchia. Le parole che intercettava per i vicoli sbilenchi della Medina erano mandorli arcaici alle sue orecchie. Così come sentiva suoi amici i gobbi e gli storpi che commerciavano nelle nicchie bianche, poco distante dalla casbah. O il vecchio dall’occhio sfregiato, che nascondeva in centinaia di ampolle ciuffi d’erba profumati. I drappi delle tende sbattevano, e una litania sofferente e orgogliosa arrivava dalle torri a punta. Era marketing anche quello? La sbadataggine e la bolsaggine dei passanti lo convinse del contrario. Si sentiva abbastanza incattivito e abbrutito da tutta la fuliggine stellare che gli era entrata nei polmoni da comprare uno scialle color del mare per Ellie. Contemporaneamente, migliaia di chilometri più in là, gli alberi e gli arbusti sventravano il cemento della città fantasma di Varosha, scheletrica come un’ossessione.

umano troppo urbano di Filippo Furri

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menti di maggior tensione arriva a disattivare la linea telefonica, dà una stretta alle comunicazioni sul web il giorno dopo le elezioni: la compagnia di stato che gestisce il traffico blocca tutti i service provider che connettono il paese al resto del mondo, installa i filtri di controllo delle connessioni e riapre gradualmente i rubinetti del traffico. Un lavoro assistito da una joint venture formata dalla tedesca Siemens e dalla finlandese Nokia. Con una tecnica a metà tra quella cinese e quella birmana: per tenere vivo il sistema delle relazioni e degli scambi economici, Teheran non può semplicemente tagliare i contatti con il resto del mondo, come il Myanmar nel 2008, e allo stesso tempo non ha le capacità tecniche per costruire un firewall imponente come quello di Pechino. Gli ayatollah hanno gran confidenza con il potenziale tecnologico. La rivoluzione contro lo shah si è estesa e radicata proprio grazie all’uso dei nuovi mezzi. La rivolta dell’Iran corre sui nastri delle minicassette, scrive Michel Foucault sulle pagine del Corriere della Sera. È il 19 novembre 1978. Inviato d’eccezione del quotidiano di via Solferino, il filosofo francese racconta che gli oratori vengono arrestati ma le loro registrazioni si possono trovare davanti alla maggior parte delle moschee di provincia: «Ci si può imbattere, anche nelle strade più frequentate, in bambini che camminano con un magnetofono in mano». I magnetofoni, come oggi i computer portatili e i telefoni cellulari – che però non servono solo a ricevere e sono pericolosi per il regime. Da lì passano la foto di Neda e le forbici della censura, l’informazione e il suo soffocamento. Il cofondatore di Twitter, Biz Stone, ha dichiarato che forse in futuro disporremo di un “algoritmo della credibilità”, basato su un esame grafico dell’attendibilità delle notizie fornite da una singola fonte in un dato arco di tempo. In futuro ci saranno certo anche altri mezzi, altre fonti e altri fatti da raccontare. Il giornalismo deve darsi nuove antenne per scegliere e tutelare le particolari fonti del blogging o microblogging, quei testimoni che consentono al fatto di legarsi alla narrazione. Perché la rivolta in Iran non ha creato il fenomeno, l’ha solo portato alla ribalta. Con le “notizie del diavolo” diffuse sul web da quelli stessi che mettono al bando i “versetti satanici”.

ma so che la città vuota mi sembrerà se non ci sei tu Mina, Città vuota

Quando, durante la lezione del 17 marzo 1976 del corso che prenderà poi il titolo di Bisogna difendere la società1, Michel Foucault evoca la nozione di biopolitica, che sarà al centro delle sue ricerche negli anni successivi, spiega come «dopo una prima presa di potere del corpo che si è effettuata secondo lʼindividualizzazione, abbiamo una seconda presa di potere che non è più individualizzante, ma procede nel senso della massificazione. Essa si realizza infatti non in direzione dellʼuomo-corpo, ma in direzione dellʼuomo1

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano, 1998.

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specie»2. Qualche pagina dopo, riflettendo sul controllo demografico della popolazione, aggiunge: «Verrà suscitato il problema dello stesso ambiente, ma non in quanto ambiente naturale, bensì come ambiente che in qualche modo ha degli effetti di ritorno sulla popolazione, come ambiente che è stato da essa creato. Si tratta, per lʼessenziale, di quello che diventerà il problema della città». Come osserva Andrea Cavalletti3, il principio di popolazione si afferma storicamente in concomitanza con lo sviluppo dellʼurbanistica, intesa come sistema di gestione e di organizzazione della popolazione nellʼorizzonte limitato dello spazio abitato e circoscritto (urbe), con la nascita della moderna polizia e della medicina politica, strumenti di un paradigma securitario generale finalizzato a ottimizzare il controllo della comunità umana4 che abita la città, ovvero lo spazio pubblico, politico, per antonomasia: controllo della natalità, della mortalità e della morbilità; infermità, vecchiaia, incidenti; anomalie, anormalità. La prevenzione delle malattie epidemiche, il controllo e la gestione di quelle endemiche. La popolazione urbana viene selezionata, organizzata secondo principi di attività e capacità, diventa un corpo economico che è necessario mantenere efficiente e lubrificato. La città stessa si urbanizza. Ora, la storia dellʼumanità si declina secondo un percorso che interessa, complementarmente allʼevoluzione biologica, quella culturale, sociale, ovvero quella della comunità, dellʼaggregazione e dellʼorganizzazione della vita collettiva5. Allora, se lʼanomalo, il deviante individuale è sempre rimasto marginale (a-sociale, molecolarmente estraneo), lʼanomalo collettivo, le comunità liminari deficitarie di tecniche, di pratiche e di organizzazione “attuale” sono sempre rimaste escluse dal discorso storico6. Escluse dal tempo e dallo spazio: perché il luogo della comunità storica per eccellenza (e dunque in un certo senso della storia, individuale e collettiva) è la città, la polis, lʼurbs, lʼaggregato di umanità che oltrepassa il grado zero del villaggio e che si concretizza nellʼoccupazione e nel controllo dellʼambiente, che costruisce il proprio spazio vitale e lo gestisce, lo sviluppa, lo modifica, lo igienizza7. Ciò che è inconciliabile con questa logica – o quello che può «Dopo lʼanatomo-politica del corpo umano instaurata nel corso del Settecento, alla fine del secolo si vede apparire qualcosa che non è più unʼanatomo-politica, ma qualcosa che chiamerei una “biopolitica” della specie umana». 3 Andrea Cavalletti, La città biopolitica, Bruno Mondadori, Milano, 2005. 4 Lʼautocontrollo della società su se stessa, del sovrano sui sudditi, dellʼélite sulla massa, della rappresentanza sugli elettori? Quis custodiet custodem? 5 Non entriamo nel merito della nozione di società, andate a sfogliare qualche pagina di Vita Activa di Hannah Arendt. 6 I popoli primitivi, nella tradizione antropologica, sono di fatto i popoli senza storia. Dalla fondazione della disciplina a Il pensiero selvaggio (1962) del finalmente compianto Levi-Strauss. 7 Franco Farinelli propone una definizione di città come «ogni sede in grado di produrre unʼimmagine materiale, pubblica e perciò condivisa, della forma e del funzionamento del mondo o di una sua parte», ovvero in grado di auto-rappresentarsi, di pensare se stessa (Geografia, Einaudi, Torino, 2003, pp152-155). 2

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comprometterla – rimane fuori (lo straniero “intraducibile”), rimane al limite, al confine (il bandito), viene espulso, isolato (gli appestati, i lebbrosi, i sediziosi), o in principio non viene integrato (il borghese abita il borgo, mentre il villano vive extra mœnia) anche rimanendo socialmente “riconoscibile” e parte di un orizzonte allargato8. E quando la morte stessa, in concomitanza con la svolta biopolitica, diventa un elemento estraneo allʼumano-urbano, insalubre, negativa, possibile fonte di epidemie, magari solo simbolicamente estranea al nuovo razionalismo sociale, allora anche i cimiteri finiscono fuori dalle mura (lʼEditto di Saint Cloud di Napoleone, 1804). La storia della città e la storia della popolazione urbana sono quindi la storia della relazione biunivoca, mediata dallʼistituzione-città, tra comunità umana e ambiente antropico, la tensione verso unʼevoluzione dello spazio che, modificando in numero e tipologia la sua popolazione, viene da esso inevitabilmente modificato e alterato, espanso o contratto. La città attrae gli uomini, i corpi, li stratifica, li sposta e li respinge secondo logiche che sono economiche, politiche, sociali, ambientali, dunque prima di tutto umane: perché intrico di luoghi e spazi, di vuoti e pieni, la città è fatta dai suoi abitanti, per i suoi abitanti, dai suoi esclusi e contro di essi, e tra le pieghe della linearità razionale e funzionale del progetto, la città tradisce se stessa come progetto, e si rivela come tensione tra uno sviluppo pianificato e trasformazioni impreviste, tra unʼevoluzione controllata e lʼemersione di forme collaterali, invisibili, impercettibili, non codificabili perché non normative, non convenzionali. La città pulsa, respira, cresce, nasce, muore. Si sposta, cambia, evolve... Pensata come organismo, come corpo sociale9, vive nutrendosi e lasciandosi indietro resti di spazio e di corpi. Nella pulsazione, nel movimento, la città produce un resto umano, come la comunità produce resti di spazio. Rimangono luoghi lasciati indietro, dismessi, abbandonati, rimangono disadattati, marginali, a-sociali. Mary King Close, nel XVII secolo, era un quartiere popolare nel centro di Edimburgo: pare che durante la peste del 1644, per limitare il contagio, gli appestati fossero murati vivi nelle case. Semi-abbandonato dopo lʼepidemia, il quartiere fu occupato nuovamente dalle popolazioni in fuga dallʼIrlanda e dalle Highlands durante la Grande Carestia (174041), e divenne una zona malfamata, insalubre e marginale al centro della città. Fino a quando si decise di costruire in quellʼarea, o meglio, Pensiamo agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, che, insieme allʼAllegoria del Buono e del Cattivo Governo, ne rappresentano gli effetti nella città e sul suo territorio. 9 Viene in mente il frontespizio del Leviatano di Hobbes, dove il corpo – o la corazza? – del Leviatano stesso, che sovrasta la città fortificata, è costituito dai corpi dei sudditi, dei cittadini. 8

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sopra quellʼarea, le City Chambers, un palazzo governativo. Le fondamenta del palazzo si appoggiano sopra i piani inferiori delle abitazioni, parzialmente demolite, del Mary King Close, mentre chi non ha voluto abbandonare quel che restava delle proprie case si riduce a vivere nel sottosuolo, come un ratto. Senza pensare agli umani mutanti che in Futurama abitano le fogne di New York, o ad ogni altra descrizione futuristica di metropoli degenerate, dissociate, disgregate (i quartieri proibiti, i nuovi ghetti, le riserve umane di The brave new world), dove vive lʼumanità in eccesso, consideriamo solo che Robert L. Stevenson, scrivendo nel 1886 The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, ambientato a Londra, aveva probabilmente in mente questo quartiere sommerso, sotterrano della sua Edimburgo. Una città doppia, dissociata, con un doppio sommerso e rimosso, per pensare il doppio umano, il genio e il mostro. Lʼinferno, che oggi è stato riaperto al pubblico ed è, lugubre e misterioso, una delle principali attrazioni della città. La delocalizzazione della produzione industriale che lascia scheletri di acciaio nelle metropoli è lʼimmagine di questa pulsazione, oggi (mentre lo spazio concreto ha già perso valore e senso, in relazione allo spazio virtuale). La metropoli, la città espansa, ha mangiato spazio, è proliferata in verticale e sotterraneamente, ha inghiottito la periferia. Lasciando dietro di sé buchi, crateri, cadaveri industriali, resti umani. Spazi desaffectés, dicono i francesi. Non si tratta dei non-luoghi di Augé, concepiti e organizzati per essere spazi di transito, anonimi, estranei, formalmente omologati e neutri. Si tratta piuttosto di spazi occupati e poi abbandonati dalla città e dalla sua popolazione, spazi affettivamente abitati, vissuti, e da cui poi lʼurbano-umano si è ritirato come una marea. Non si tratta di spazi riconvertiti, non ancora almeno, strappati a configurazioni urbane e popolazioni da rinnovare, secondo disegni strategici, funzionali, ecc (come nel caso del progetto huysmaniano degli Champs Elysées). Si tratta di spazi che restano ancora fuori dai piani regolatori, dalle rifondazioni. Non sono grandi aree edificabili su cui reinvestire, superfici neutre o in qualche modo illibate da conquistare, complessi architettonici da rivalorizzare. Si tratta di scarti, di terrains vagues, di linee e di crepe nel tessuto urbano, di bave lasciate indietro dalla città che si muove; si tratta di luoghi segnati, dove le tracce che persistono non hanno più che valore archeologico, poiché lʼumanità che li ha prodotti non cʼè più; si tratta di luoghi marchiati da proprietari scomparsi. È questione di spazio, perché questi frammenti si muovono anchʼessi lungo le pieghe dello spazio urbano; è questione di tempo, perché questi spazi – a meno che la città non rimanga irrimediabilmente lacerata, decomposta, e muoia – sono recupe107


rati, rifagocitati dallʼurbano, annullati, cancellati e rinnovati, o trasformati in reliquie di se stessi. Alla fine, è una questione di velocità dunque, stiamo pensando nellʼintervallo tra una contrazione e una distensione, unʼinspirazione e unʼespirazione. Nelle scienze sociali lʼevoluzione di discipline come la sociologia o lʼantropologia urbana ha portato con sé la proliferazione di definizioni della città, che cercano di tradurre in modelli la complessità urbana: Metropolis, Mesopolis, Megalopolis10; la città porosa, la città diffusa, la città globale, la post-città. Sempre nuove letture, nuove interpretazioni, che rendono conto dellʼevoluzione dello spazio urbano privilegiando tuttavia le tendenze maggioritarie, considerando i fattori di cambiamento macroscopici, legati spesso a parametri economici e di sviluppo e trascurando le dinamiche che lʼespansione urbana implica a livello di rarefazione del tessuto sociale, di spazio pubblico, di comunità. Questione di densità. Allora la città si definisce per la sua estensione geografica, per la sua centralità nelle reti di circolazioni di informazione elettronica, o per quel che rimane di importanze strategiche logistiche, per la sua valenza simbolica. Sempre meno per la sua popolazione11, che sembra sempre più una variabile dipendente dello spazio che abita, privata della sua capacità organica di strutturare il proprio ambiente, che pare ora evolvere da sé, economicamente, indipendentemente dallʼumano che lo occupa. La città, se si osservano le ultime tendenze architettoniche e si considera la gestione funzionale-estetica dello spazio, sembra disgiunta dalla cittadinanza, non pensata da e per essa. Ma la costruzione a tavolino dello spazio urbano, per la sua tendenza totalizzante, si sovrappone sempre meno allʼesistenza urbana, alla vita che inevitabilmente sfugge, per eccesso o per difetto, per traslazione o per sottrazione, o per semplice incompatibilità alla gestione normativa dello spazio, alla sua regolamentazione. La nostra intenzione qui è di considerare, oltre alla città che definisce se stessa, quello che esiste e persiste della multiforme e complessa e stratificata comunità umana che abita la città al di là della sua forma, che abita insieme la città “ufficiale” – e lʼunderground stesso, che è un altro vestito che la ville à la carte indossa – e il resto, lo spazio residuale, né pubblico né privato, comune. In Lo spettro della citta nuda12, lʼantropologo Michel Agier contrappone la Edward W. Soja, Postmetropolis: Critical Studies of Cities and Regions, Basil Blackwell, Oxford, 2000. Interessante e innovativo in questo senso il progetto Migropolis, inaugurato a Venezia da Wolfgan Scheppe e dalla cattedra di Politiche della rappresentazione dello IUAV. www.migropolis.com, Venice/Atlas of a Global situation. 12 Africa e Mediterraneo n. 1/99: «La città ideale è perciò una forma socio-spaziale complessa, il cui funzionamento presuppone un insieme di mediazioni sociali tra gli individui, e non lʼindividualismo». Il titolo di Agier, che fa riferimento esplicitamente alla nozione di “vita nuda” sviluppata da Giorgio Agamben, incrocia di nuovo dopo dieci anni, il lavoro del filosofo italiano che, in una raccolta di saggi intitolata Nudità (Nottetempo, Roma, 10 11

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città “generica”, la città delle definizioni, delle tendenze maggioritarie13, la città che potremmo chiamare “superficiale”, alla città “nuda”, che, situata alle estreme periferie urbane, e alla periferia del mondo occidentale, in cui si raccolgono, in enclavi, aree controllate, campi profughi che definisce «coagulazioni di situazioni personali e collettive»: in questi luoghi, contraddistinti per la mancanza di infrastrutture e di elementi che connotano lo spazio urbano, «appare un nuovo tipo di agglomerato di cittadini, senza essere per nulla una città». Tra queste due forme-di-città Agier inserisce la Ban-lieu: «Non uno spazio, ma una zona dʼindifferenza tra interno ed esterno, esclusione e inclusione, sono i luoghi del ban (una proclamazione legale in senso largo, oppure la proclamazione legale di uno specifico decadimento), dell’essere riconosciuto senza valore, forse decaduto dai diritti o anche allontanato, ma non anomico, non fuorilegge»14. Si tratta di un ambiente umano che sfugge allʼurbano, un ambiente liminare, dunque un bordo, una frontiera, un confine. Ma non solo perimetrale, non solo lineare, non deserto: ora, nella metropoli disarticolata, questo confine ha una consistenza spaziale, è abitato, ed ha la forma delle crepe nel cemento. Si tratta di un resto di spazio, sottratto al controllo, allʼordine, alla sicurezza, alla città stessa, che viene reinvestito, occupato temporaneamente, a volte difeso. Si tratta di spazio reinterpretato, reinventato, dove lʼumano che sfugge o resta liminare rispetto al paradigma della popolazione, si ricostruisce ricostruendo uno spazio, riconquistandolo, riabitandolo e reinvestendolo di affetti. Uno spazio che non è irrimediabilmente dissociato dalla città generica, ma che le è piuttosto complementare, abitato da corpi da storie da vite che esistono – in primo piano o sullo sfondo – della città, che la costeggiano, la circondano come ne sono circondati. Non si tratta di due universi realmente distinti, perché lʼuno appare nellʼaltro continuamente, come fantasma come spettro, come sogno come aldilà: si tratta di esistenze parallele che possono incrociarsi e sovrapporsi: in una la popolazione asseconda lo spazio urbano, lo giustifica, lo premia con esistenze movimenti percorsi logiche desideri prevedibili e previsti, inquadrati e organizzati; in unʼaltra il disurbano rifiuta o semplicemente non riesce ad abitare questi spazi, e brulica nelle interca2009), inserisce alcune pagine dedicate a Venezia città spettrale. 13 È interessante osservare come la città, asettica e planetaria, che si auto-definisce (e che quindi impone “maggioritariamente” la sua identità), si rivela a conti fatti, come afferma Agier, «unʼentità minoritaria e privilegiata, dove si pensano le dominazioni, economiche e politiche, sul resto del mondo». 14 «È un universo ambivalente, perché è là che vi si ritrova la “vera vita” ossia una forma dʼimmaginazione spontanea, priva dʼirregimentazione e di progetto istituzionale creato a priori, una vita più cittadina che urbana quindi; ma è anche là che vi è più paura e morte, un luogo dove la vita ha meno valore che altrove. […] Queste “soluzioni resistenti”, minuscole e invisibili, sono tanto più sollecitate quanto gli attori sono situati in un contesto intermediario, indeciso, e quindi suscettibile d’essere ulteriormente trasformato. Primo passo (o ultimo bastione) di un legame sociale di prossimità, di un “minimo sociale vitale”, il ban-lieu rende familiari alcuni percorsi della città, superando anche delle barriere materiali e sociali».

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pedini, filtra nelle fessure, a volte spinge a volte si sottrae, e trova inventa o riscopre forme di vita individuali e collettive “non classificabili”. Non si tratta di essere buttati fuori dallo spazio urbano, perché lʼidea stessa di fuori, in una città, ora è liquefatta e dispersa, dove, se il fuori e il dentro non sono nettamente delimitati, il ban può scorrere dovunque. Si tratta di esserci anche invisibilmente, impercettibilmente, non per desiderio di annichilirsi e di scomparire, ma perché la città non riesce a vederti, la popolazione non ti vede, sembra solo sentirti, come odore, come presenza. Non sei urbanamente classificabile se non per difetto. Ricordi il liquido sinoviale, che lascia muovere le articolazioni, lʼacqua che riempie il corpo e lo attraversa. Ricordi la materia oscura, inventata per far esistere come unità lʼuniverso percepibile, visibile. Pensare e pianificare lʼevoluzione dellʼuomo-specie, del soggetto, del cittadino (di chi abita la città come la nazione...) come quella dellʼambiente urbano, e dello spazio umano in generale15, denota una volontà di autodeterminazione, di gestione razionale della vita e dellʼumanità che inquieta non tanto – e non solo – per la sua natura biopolitica, economica, eugenetica, di selezione artificiale, di presunzione e di manie di onnipotenza, ma soprattutto per lʼincapacità o la volontà di non vedere che qualcosa sfugge sempre, che la vita si insinua nelle pieghe del suo simulacro spettacolare, razionalizzato, ordinato, che viene incasellato, ben disposto, stoccato, distribuito, veicolato, previsto, gestito, andare camminare lavorare. Lo spazio che lʼuomo abita sarà sempre qualcosa di più (o di meno) che umano, la città sarà sempre anche un ambiente ibrido, dove la vita reclamerà costantemente spazio, tempo, aria – lʼaria della città rende ancora liberi? –, un ambiente abitato da umani non urbanizzati, come da ratti da scarafaggi da una natura bestiale che saprà sopravvivere a unʼecatombe ecologica/nucleare – fine del mondo umano. R-esisterà sempre un essere umano che si sottrarrà a unʼevoluzione omologata e fintamente controllata in tutti i suoi minimi dettagli, ridotta imbelle sterile igienica – lʼapocalisse pasoliniana come riduzione dellʼumano a corpo-massa edonistico-consumista –, r-esisterà un ambiente naturalmente estraneo allʼuomo, inadattabile ad esso? R-esisterà una città di uomini qualsiasi e non solo fatta da e per lʼuomo che si crede di essere? Lʼuomo futuro, il postumano, non sarà prodotto a tavolino o immaginato, non completamente almeno: sarà il compromesso tra lʼidea che lʼuomo ha della natura e quella che la natura ha dellʼuomo. 15

Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago, 1958 (Vita activa, Bompiani, Milano, 1964).

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«Cacciatori, raccoglitori, beoni e spacciatori, contadini dissidenti, ballerini e pensatori, puttane felici e giocatori. La memoria, che non è quello che ricordi della storia passata, è qualcosa di più profondo, che ha a che fare con la memoria del mondo, che può farti capire qualcosa del processo che possiamo fermare: l’origine dell’alienazione della specie. Hai mai sentito parlare di uno zombie che canta? Hai mai sentito parlare uno zombie che cammina? Quando sembrava finita lei si tirò su. Aveva sette vite almeno e questa sua era la terza. Gli occhi verdi di scimmia infelice ripresero a brillare. Di amore non si muore anche se assomiglia molto alla fame. Oggi ho fame di te mi disse. Oggi ho fame di te e cominciò dai miei piedi. Cominciò che quasi rido. E come la primavera per capire che siamo ancora belli e che non sarà l’azione dell’uomo a renderci infelici». (I tre allegri ragazzi morti, Primitivi del futuro)

la sola misura Pier Paolo Pasolini da Poesie a Casarsa a Le ceneri di Gramsci di Rossella Renzi


È soprattutto nella poesia dialettale, quella della produzione giovanile raccolta nell’opera La meglio gioventù1, che Pasolini ricostruisce la propria identità attraverso i numerosi ricordi immersi nella vita umile e semplice del mondo contadino friulano. Scavando nella memoria, nella tradizione e nelle sue origini si compone, verso dopo verso, una vera e propria mitologia del passato, con una percezione viva e dolorosa del tempo. Egli sente propria la storia che appartiene inesorabilmente a quella terra, in particolare all’area situata lungo la riva destra del Tagliamento, dove si colloca Casarsa, paese natale della madre Susanna e meta delle vacanze di famiglia. In quei luoghi il giovane avverte pulsare un’esistenza primordiale e meravigliosa: ne rimane incantato e quasi ferito, come fosse coinvolto in un sogno, o nel mistero che segna il suo ingresso «in una adulta fanciullezza». Per le strade del paese i volti dei giovani e degli anziani, come fantasmi, animano un mondo fantastico a tratti idillico, a tratti spaventoso, in cui l’umanità autentica vibra nella luce dei corpi che hanno le sfumature proprie di quel paesaggio: «A lusin ta li ombris/ dal zovinút pleàt/ li lus di un timp svualàt/ cu’l svuàl da li colombis» («Rilucono sulle ombre del giovinetto chinato le luci di un tempo volato via col volo delle colombe»). La storia affiora nei nomi, nelle usanze, nei riti della vita contadina; ma anche nei gesti della madre fanciulla e negli occhi del Pasolini bambino: «Ciasarsa ta chel luzòr di esatàt/ ch’a no muòr mai,/ blanc e sec coma la cialsina,/ i la jot cà vissina/ e jo frut,/ cu li barghessis e li majs/ ta la ciar ch’a mi trima» («Casarsa in quel chiarore d’estate che non muore mai, bianco e secco come la calce, la vedo qui vicina, e io bambino, coi calzoni e le maglie sulla carne che mi trema»2). Un bambino che si cerca nello specchio, dove ritrova una doppia immagine di sé: quella di mostro, che avverte il nero, lo scuro, il freddo nella carne; e quella di farfalla, innamorata della propria fragile bellezza. Mentre Pasolini scrive, il sole fuori scalda come cinquant’anni prima, quando c’era solo Casarsa in tutto il mondo: il Friuli è la sua gioventù, al di là del tempo, in un tempo – dice – «rovesciato dal vento». In quella fase della vita, la felicità del poeta «coincideva con l’incantevole paesaggio casarsese, con una vita rustica, resa epica da una carica accorante di nostalgia. Conoscere equivaleva a esprimere. Ed ecco la rottura linguistica, il ritorno a una lingua più vicina al mondo»3. Dai ricordi ascoltati nel dialetto friulano – che non aveva certo una tradizione scritta – nasce questa prima produzione in versi, La meglio gioventù (1941-53) pubblicata nel 1954, comprende diverse raccolte scritte in varietà friulane e venete: Poesie a Casarsa (1941-43), Suite furlana (1944-49), El Testament Coràn (1947-52), Romancero (1953), in più un’Appendice (1950-53) e una Nota (1954). A trent’anni di distanza l’autore riscrive due sezioni (Poesie a Casarsa e Suite furlana), dando vita a Seconda forma de «La meglio gioventù» (1974). Prima e seconda forma vengono pubblicate da Einaudi nel 1975, con il titolo La nuova gioventù. Da questa pubblicazione sono state tratte le citazioni di questo articolo. 2 Un grappolo d’uva, da Appendice, (1950-53), ne La nuova gioventù, op. cit., p.87. 3 Passione e ideologia, Garzanti, Milano, 1960, p.133. 1

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portatrice di una completa fusione tra verbo e terra: una scrittura profonda e viscerale, necessaria a un poeta che per tutta la vita cerca un’adesione assoluta e disperata con la realtà: «la ciera tai fis a è fres-cia/ coma s’al fos nòuf il timp antic/ dai vecius: ligris, cu un vistít/ di vura, un di vistít di fiesta» («la terra nei figli è fresca come se fosse nuovo il tempo antico dei vecchi: allegri, con un vestito di lavoro e un vestito di festa»4). La meglio gioventù, con i temi ricorrenti della giovinezza, della madre e della morte, chiude un cerchio intorno a quel mondo naturale e incontaminato, assoluto e primigenio. E lo fa attraverso una lingua impastata di natura, carne e ferocia; una lingua sanguinaria e notturna, ma anche delicata e luminosa, che ha l’altissimo pregio di tendere alle origini. È «il linguaggio dell’autenticità più viscerale» – come lo definisce il critico Pier Vincenzo Mengaldo – attraverso il quale si assiste alla prima manifestazione del mito pasoliniano: «il mito di una civiltà pre-capitalistica e intrisa di religiosità primitiva, la quale si sottrarrebbe alla devastante ruspa della storia opponendole la sua autenticità incontaminata», spiega sempre Mengaldo. Durante la sua incontenibile attività artistica, Pasolini dimostra un profondo rispetto nei confronti della tradizione e del mondo povero contadino, quello che appartiene all’età del pane. La vita dei campi, d’altra parte, lo attrae da sempre: «bastava contemplarlo con lo sguardo o sentirne i profumi, per innamorarsi del mondo contadino, che allora aveva una sua perfezione di mondo concluso»5. La forte attrazione dell’artista nei confronti della vita popolare si concretizzerà nelle opere successive, in particolare nella raccolta Le ceneri di Gramsci (1957), in cui quel mondo viene evocato con passione e intensità, e dove forte è il rimpianto per un tempo definito “umano”: E ci trascina indietro, al fresco, all’arso tempo, al tempo vano, assordato dalle vane feste dell’umile gente, al tempo umano, al tempo allegramente terrestre, al tempo che vive il suo incanto6 e ancora: nei colori in cui fiammeggia la presenza di un Friuli espresso in speranze e dolori d’uomini interi, se pur fatti da orale 4 5 6

Verso Pordenone e il mondo, da El Testamen Coràn (1947-1952), ne La nuova gioventù, op. cit., p.87. Un paese di temporali e di primule, a cura di N.Naldini, Guanda, Parma, 2001, p.17. Le ceneri di Gramsci, Garzanti, 1957, p. 55.

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rozza esperienza uomini, se pur con cuori duri come le mani, e spinti a non parlare altra lingua che il troppo vivo dialetto…7 Per Pasolini il passato ha un valore assoluto e perfetto, perché contiene le radici di un’esistenza puramente umana e le energie che la rinnovano e la custodiscono, come avviene in natura. Nella tradizione e nella natura, dunque, si trovano le basi per una più matura e alta civiltà: «all’ombra del nostro focolare, sotto le foglie dei nostri orti, tra i gesti, che da secoli non mutano, degli uomini ingenui»8. Per questo è necessario credere nel mondo «senza altra misura che l’umana storia».

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Ibidem, p. 65. Un paese di temporali e di primule, op. cit., p. 39.

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Manuel Cohen

sopra un verso di Pier Paolo Pasolini non è di maggio questa impura aria se al nostro passare rapida incupa se è del millennio la morsa incendiaria e al gas nervino la mente dirupa mentre avara vive la terra all’aria chi per niente spera per niente lotta se per rinuncia s’adusa al guadagno o se per alibi ricusa il compagno * ancora una sera, un altro secolo che entra, avanza con un oltraggio d’aria l’assalto di vento tra i pini, il volo a stento a stento… o poi, fendendo l’aria è un’ora che cala, quando lo stuolo di rondini s’invola… oppure è l’aria fredda, quella fonda fitta o precisa “la nostra ora, quando entra, non avvisa” *

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la nostra ora al limitare del folto quando il giorno scende a mare nel porto d’oscurità o di lampare – e il molto o poco avuto a che fare col torto col giusto – chi può dirlo? – col tumulto del qui e del sempre – con l’ombra del morto che parla fa novanta un’altra guerra e furia monta e fame giù per terra * “il nostro cielo comune”, Roberto è un’ora che non scorgi una ragione tra le cose, un tempo atro che per certo una sfiducia ha per sua stazione; “il nostro cielo in comune”, Roberto è una mozione a dire la prigione la volontà di uscire allo scoperto rompere la gabbia, stare all’aperto

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A.L.I.E.E.N. (2004). Aiuta questo ripugnante e abietto piccolo mostro ad andare in giro senza morire. Lewis Trondheim, mentre si trova in vacanza con la famiglia nelle Cevennes, trova in un prato una rivista di fumetti, e lo confida alla casa editrice Breal. Si tratta del primo libro spaziale per bambini mai visto sulla Terra.

Tex in parlamento di Ivan Tagliaferri


Nei primi anni Settanta, le forze dell’ordine rinvennero il comunicato di un gruppo terroristico in seguito ad un attentato; per quanto triste, la notizia non rappresentò una novità per quei tempi. Tuttavia quel comunicato riuscì a destare particolare interesse, non tanto per i contenuti ma per il modo in cui fu scritto, molto meno aulico e scientifico dei soliti documenti politici del tempo. La polizia attribuì la sua realizzazione a un gruppo di ragazzi autonomi, attratti ma non aderenti alle Brigate Rosse. La cosa che più sconcertò fu la frase di chiusura: «Giù la testa coglioni!». La stessa frase era usata da James Coburn nel film di Sergio Leone Giù la testa, uscito nelle sale cinematografiche poco tempo prima. Negli anni Settanta furono in tanti a subire il fascino della violenza e della militanza politica attraverso la cultura popolare: sullo sfondo di dure contrapposizioni sociali, una generazione violenta fu alimentata più dalle visioni di film western, che da trattati sulla rivoluzione, e fumetti come Zagor e Tex riempirono gli immaginari di vendetta più delle letture di Marcuse e Lukács. Ma qual è l’identità politica di personaggi dei fumetti che tanto influenzarono quei ragazzi? Prendiamo ad esempio Tex, il fumetto più longevo e maggiormente letto. Da che parte sta? Tex Willer nasce fuorilegge ma saprà redimersi per poi assumere il ruolo di ranger, difensore della legge e della giustizia. È quindi un servitore dello Stato, uno Stato che servirà a modo suo. I suoi maggiori nemici sono: grandi proprietari terrieri che vogliono togliere piccoli appezzamenti a umili contadini (visione sindacale), chiunque (banchieri, giornalisti, politici) voglia far scoppiare una nuova guerra indiana per trarne profitto (visione anarchica), proprietari di locali, saloon, bische e hotel che vogliono speculare sui poveri cittadini infischiandosene della legge (visione civica), capi di sette segrete che vogliono conquistare l’America (visione patriottica). La confusione regna sotto il sole del Texas. Inoltre il nostro ranger applicherà una legge tutta sua, fatta di violenza e omicidi, andando persino contro le legittime sentenze dei giudici. Un personaggio difficile da inquadrare, desideroso di portare ordine e disciplina in una frontiera costituita da furfanti e assassini. Per quanto appaia sensibile alla causa dei poveri e degli indiani, Tex è troppo socialdemocratico per i più focosi rivoluzionari post-sessantottini. Zagor, invece, rompe ogni rapporto con lo Stato malfattore che affama e sottomette le popolazioni indiane. Vive in clandestinità nella foresta di Darkwood, in compagnia di un messicano non proprio audace (ma che fa tanto Pancho Villa). Corre in soccorso di chiunque richieda il suo aiuto, si immola a difensore del popolo e non disdegna affatto la violenza. In lui i terroristi del tempo vedono il loro alter ego. Zagor rispecchia alla perfezione l’immagine del ribelle che Ernst Jünger ne dà nel suo noto trattato. Vive nel bosco, 118


estraneo alla società e al suo governo, rifugge la tecnologia e si oppone all’operaio, colui che sottostà senza indugi al dominio della tecnica come ingranaggio del sistema. È l’immagine di tutti coloro che non si sentono rappresentati nella società dello spettacolo e dei consumi, siano essi estremisti di destra, di sinistra o anarchici. Ma se gli ortodossi del partito e della fermezza si sentono rappresentati da Tex Willer, i fautori della rivoluzione armata da Zagor, il personaggio che più rappresenta la fascia degli indecisi (né con lo Stato né con le B.R.) è sicuramente Ken Parker. La sua prima apparizione lo vede coinvolto nella drammatica morte del fratello; ragazzo spaesato, decide di crescere e affrontare la vita mutando la sua coscienza storia dopo storia. Non disdegna la violenza anche se preferisce non farne uso, è corroso dai dubbi ma è innegabilmente di sinistra. Senza mai assumere venature populiste, difenderà omosessuali e donne maltrattate, indiani ingannati e lavoratori sfruttati. Nell’albo Sciopero! lo vediamo addirittura intento nella lettura del Capitale di Karl Marx e fomentatore dello sciopero in una fabbrica tessile. Trova entusiasti lettori sia tra gli iscritti alla Cgil che tra la sinistra socialista, tra i radicali e tra gli indiani metropolitani. E i democristiani cosa leggono? I cristiani sociali (alla Aldo Moro), convinti che sia giusto aiutare le persone più in difficoltà ma strettamente legati al con-

Te ricordi Lu’? Te ricordi il campo estivo a Guardiagrele? C’avevamo quattordicianni. Te ricordi quando sei rotolato sull’erba e sei finito su una merda? Che ride’… e te ricordi quando ha piovuto dentro la tenda e s’è bagnato il sacco a pelo del Puma? Gli ho prestato il mio. La sera seduti intorno allo stesso fuoco cantavamo tutti insieme. Dodo suonava la chitarra. Era bello... Ci credo ancora. Gigi, 30 anni, Reparto Roma 60

il paese delle Tribù di Andrea Tarabbia


cetto di proprietà, hanno il loro campione in Zorro. Il noto proprietario terriero (probabilmente latifondista) Don Diego della Vega, servito e riverito ogni giorno nella sua bella casa, la sera si traveste in maniera ridicola per portare giustizia ai poveri peones. Religiosissimo, non ha alcuna intenzione di avviare una riforma agraria ma se la prende con gli sprechi dell'amministrazione pubblica che invece di occuparsi della povera gente sperpera soldi nell’esercito. Per quanto riguarda i più conservatori, il loro eroe non può che essere Superman, super uomo di dannunziana memoria, sottomesso ai voleri della maggioranza silenziosa e in perfetta sintonia con gli apparati statali. Difende senza indugi la nazione da nazisti e marziani, terroristi e capelloni, spacciatori e comunisti. Cresciuto nella profonda provincia contadina, di sani e buoni principi cristiani, aiuta i più bisognosi senza il bisogno di sovvertire le regole e il sistema. Chissà se i monarchici videro in Robin Hood un loro paladino. In fondo si trattava di un nobile decaduto che organizzava clandestinamente il popolo per riportare sul trono re Riccardo. E quella storia del rubare ai ricchi per dare ai poveri ricorda molto le strategie populiste di Achille Lauro, il quale regalava la scarpa destra prima delle elezioni minacciando tutti che avrebbe fornito la sinistra solo se avesse vinto. E Craxi cosa leggeva? Troppi Diabolik, probabilmente.

Werner Waas, attore tedesco con un passato di lotte politiche e spettacoli nel nostro paese, nel 2005 era tornato in Germania convinto che, ormai, lʼItalia fosse un paese sfibrato, fermo e privo di futuro; è ritornato quando ha intravisto la possibilità, a Lecce, di dare vita alle Manifatture Knos, 4000 metri quadri di spazio in una ex scuola per metalmeccanici dove oggi, nonostante le difficoltà economiche e politiche, ci sono una radio, un bar, un teatro, e si fanno una rivista per bambini (Unduetrestella), azioni di poesia per le strade e una serie di eventi culturali e sociali che contribuiscono a mantenere viva una realtà altrimenti stanca e lasciata a se stessa. Sergio Bonriposi, responsabile del progetto milanese della Cascina Cuccagna, sta ristrutturando una cascina del Settecento chiusa tra i palazzoni di Porta Romana per portarvi la cultura del vivere lento e bene, per ospitarvi iniziative, un ristorante stagionale e in generale per provare a ridare a Milano una “piazza”, un luogo di ritrovo dove le persone possano andare e riconoscersi. Antonio Catena e Serena Gaudino del Centro Hurtado di Napoli combattono contro la cultura dellʼillegalità nei quartieri poveri del capoluogo campano, dove vige la legge dello spaccio, non ci sono spazi comuni e spesso lʼunica


via di sopravvivenza è affiliarsi alla camorra: ai ragazzi delle Vele di Scampia insegnano il bello della lettura, la cultura del lavoro e dello stare insieme allontanandosi dalle logiche malavitose imperanti; quando entrano alle Vele, per qualche ora, il mercato della droga rallenta, perché molti ragazzi vanno a seguire le loro attività. Il gruppo teatrale Laminarie di Bologna conta 14 operatori di strada, organizza laboratori volti alla conoscenza dei mestieri del teatro e ha fatto del teatro sociale in Bosnia durante lʼultima guerra. Lo scrittore Franco Arminio e la sua Comunità Provvisoria vagano per le terre semiabbandonate dellʼIrpinia e danno attenzione agli ultimi esseri umani rimasti, stanno con loro, leggono e provano a diffondere la bellezza. Il progetto Suq, a Genova, da alcuni anni porta le culture del mondo nella città vecchia, mescolando le razze e gli stili e creando finalmente, a ridosso del porto, un luogo di incontro e di scambio tra le persone. Il Gruppo Volontario Accoglienza Immigrati di Lucca, invece, ha creato strutture di accoglienza e centri di ascolto per oltre 2000 persone seguendo il proprio credo: «Aiutare i cittadini stranieri a diventare cittadini inseriti. Aiutarli a trovare lavoro»; fanno prestiti a interessi zero proponendosi come garanti per i proprietari: in questo modo, in pochi anni, hanno aiutato un migliaio di persone a trovar casa e impiego nel lucchese. E così via. Sono circa quaranta i gruppi, le associazioni, i teatri (per un totale di oltre cento persone) che nel fine settimana del 17-18 ottobre 2009 si sono ritrovati al castello Pasquini di Castiglioncello (LI), per dar vita al progetto “Tribù dʼItalia”, con il patrocinio di Armunia festival e della rivista Il primo amore: due giorni per conoscersi, per capirsi e provare a immaginare unʼItalia diversa da quella che siamo abituati a vedere: esiste infatti un paese sommerso (ma reale!) che è fatto di comunità attive, piene di voglia e capacità di fare in tutti i rami dellʼagire umano, e che a Castiglioncello si è «seduto intorno allo stesso fuoco» per dar vita a una due giorni di discussione aperta e multidisciplinare, in cui si sono scambiate esperienze, condivise difficoltà e messe le basi, soprattutto, per un agire comune contro lʼemergenza sociale, politica e di specie in cui siamo immersi. Coordinata dal fotografo ed editore Giovanni Giovannetti e dallo scrittore Antonio Moresco, con la partecipazione, fra gli altri, della giornalista Lea Melandri, la poetessa Mariangela Gualtieri e lʼattore Marco Baliani, “Tribù dʼItalia” ha messo in evidenza quali sono i problemi e i bisogni di chi, oggi come oggi, propone una visione del mondo e uno stile di vita lontani da quelli imperanti, e improntati sullʼattenzione per lʼaltro e sulla proliferazione della cultura in ognuna delle sue forme: il denaro, ovviamente, giacché quasi nessuna delle comunità in questione riceve aiuti pubblici e può aspirare a farlo; i luoghi, che spesso vanno letteralmente inventati e costituiscono uno


dei nodi più indistricabili (si pensi ai numerosi teatri di produzione espropriati a Roma negli ultimi anni, o anche ai ragazzi dellʼOnda di Bologna, che nel loro spazio occupato – e più volte sgomberato – Bartleby stanno tentando di allestire degli atelier artistici, ma anche di lanciare una campagna sul reddito garantito); e la solitudine, perché spesso chi fa questo tipo di attività lo fa a fari spenti e in luoghi dove, quotidianamente, è costretto a confrontarsi con una realtà diffidente. Denominatore comune di tutte queste esperienze, si diceva, è una politica del fare, dello scendere in piazza “nonostante tutto”: animati da una forte passione civile, i partecipanti a “Tribù dʼItalia” rappresentano per molti versi la vera eccellenza del nostro paese, e si sono riuniti per connettersi, farsi conoscere, darsi man forte e dirsi chiaramente che, comunque vadano le cose, loro andranno avanti. Cosa può nascere da un coacervo di tante esperienze così diverse e così lontane geograficamente tra loro? Lʼidea è quella di trovarsi periodicamente – almeno una volta all’anno: per il 2010 si parla della Cascina Cuccagna a Milano o delle Manifatture Knos a Lecce –, di allargarsi e di intervenire concretamente nella vita del paese, portando il proprio “fuoco” dove ci sarà la possibilità di farlo. Per il momento, sono già state poste le basi per creare una rete, una comunità aperta che è confluita nel sito www.tribuditalia.it: un luogo per lo scambio di pensieri, posizioni ma anche di azioni, un organismo pluricellulare italiano in grado di intervenire sul territorio sulla base di un sentire comune: quello che lʼItalia è e può ancora essere, un paese civile.


Fisketorget di Marcus L.











È il primo Maggio, la Festa dei lavoratori. Una bella giornata, ideale per gite in campagna. Così andiamo alla Tana del Bianconiglio. Ad accoglierci c’é Franz Quondam. Franz ha costituito una micro-cellula di resistenza agreste. Vive in campagna, con una comunità di amici. Le porte di casa sua sono sempre aperte. Si raccolgono le olive dagli alberi e quando è tempo si squarta il maiale all’alba. C’è sempre qualcosa da fare in questo fazzoletto di terra che racchiude il mondo. L’autosostentamento è lo strappo dall’inferno del capitale. Ellie conosce bene le mostruose metastasi del capitale. È per questo che si è tramutata in coniglio e ora saltella sulle zolle intrise di vermi. Qui la sua tenerezza è salva. Qui le mosche sono attratte dalla merda vera, quella umana. Che viene conservata per concimare i campi. Nella redenzione degli espletamenti corporali il Bianconiglio-Ellie celebra la formula alchemica che permette all’utopia dell’autosufficienza bucolica di navigare nel cosmo.

la tana del Bianconiglio di Franz Quondam


Noi siamo in cinque, più dei volontari. Quella è Letizia, che fa parte della comunità, e quello è Arnaldo, che ha un podere come il nostro a San Benedetto. Sono stakanovisti, lavorano anche il primo maggio. Io non lo farei mai. Lʼasilo dei pomodori Il recinto adesso è fatto così, con le vecchie potature: ci abbiamo trapiantato in mezzo arbusti vari, verrà una siepe. Allʼinterno ci andranno delle anatre. Questo è un pozzo: il tubo cʼera già, lo usavano i vecchi contadini. Un mulino a vento che costruiremo pomperà lʼacqua verso la cisterna, che è accanto al forno. Parlo di una pompa eolica: quando cʼè vento, riempie, e, quando non cʼè vento, sta lì. Lʼorto è fatto in tre o quattro modi diversi, così, per divertirci. Cʼè un poʼ di tutto: spinaci che stanno andando a seme, molte cose le lasciamo propagare selvatiche, poi le raccogliamo, o le lasciamo rinselvatichire, per esempio certe insalitine – ce le abbiamo infestanti: quella è la valeriana, si mangia dʼinverno. Invece di coltivarle dʼestate, di seminarle ogni volta noi, sostituiamo le infestanti normali dellʼorto con piante piccole, che crescono a tappeto. Il fatto che sia tutto mischiato rende inutili i pesticidi: se un insetto va su una pianta, poi magari va su unʼaltra che non gli piace allo stesso modo, quindi ne colpisce una sola, invece di arrivare su una fila; questo fiore potrebbe attirare un altro insetto che se lo mangia – insomma, una pianta potrebbe essere mangiata da un insetto, ma le altre ottanta dello stesso tipo, sparpagliate nellʼorto, non se ne accorgono neanche, mentre se ne hai una fila, si mangia tutta la fila. Queste sono biete da corte che stanno andando a fiore: queste ce le mangiamo noi. Queste sono fave: purtroppo è stato freddo e non sono pronte. Parte di ciò che coltiviamo va per lʼautoconsumo, il surplus lo vendiamo: cʼè il GAS (Gruppo di Acquisto Solidale) di Cupramontana, ci sono privati di Ancona. Le bottiglie con il collo allʼinsù Le bottiglie con il collo allʼinsù servono a tenere lontani i topi: il vento che soffia dentro la bottiglia produce una frequenza che dà fastidio ai topi. Qui ci sono topi di campagna, che hanno la passione per le radici, soprattutto delle crucifere, delle piante come i cavoli. Se fanno la tana sotto unʼaiuola di cavoli, non li raccogli più. Il recinto mobile

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Questo palo è il recinto dei polli. Noi abbiamo due polli da riproduzione che teniamo dentro a un recinto mobile, e lo spostiamo ogni volta che ci serve. Vedi che ha la stessa forma di quellʼaiuola lì? I polli mangiano le erbe, becchettano tutti gli insettini e raspano, quindi ti lasciano il terreno pronto per essere seminato. E tu ci semini. Dai un colpetto leggero con la vanga e, invece di farti venire mal di schiena a zappare e tutto, fai lavorare i polli. Adesso abbiamo una ventina di galline: questo recinto è fatto per tenerne un centinaio. La quarta estate In che anno siamo? Ho preso questa casa a Cupramontana nel 2005, 2006. Quella che sta per arrivare è la quarta estate. Ho fatto un mutuo come piccolo, giovane agricoltore. Volevo partecipare ai bandi europei, perché per fare quello che vorrei fare ci vorrebbero 10.000 euro, ma le regole sono troppo vincolanti. Se qui ci faccio un centro benessere con piscina con acqua di mare e pista di atterraggio per elicotteri, me lo finanziano. Lʼuomo è semplicemente un animale Noi lavoriamo da operai, viviamo in una proprietà che non è già stata pagata, non siamo miliardari per cui non abbiamo margini di azione illimitati e siamo costretti a lavorare un poʼ più degli altri: essere in comunità aiuta. La competizione con la natura non è propria di tutti gli uomini, non è un tratto comune dellʼumanità. Appartiene a una data cultura, quella di cui noi siamo imbevuti, quella dellʼuomo bianco, chiamiamolo così. Non è un discorso razziale: con questo termine indico un uomo che vive scollegato dalla natura. Cʼè un libro, il Libro, in cui si dice che lʼuomo è nato per soggiogare la terra: da lì inizia la confusione. Lʼuomo è semplicemente un animale, un organismo, che ha la possibilità, diversamente dagli altri animali, di interagire con la natura provocando cambiamenti permanenti: la può distruggere con certe sue operazioni. La può “distruggere” nel senso che la può rendere invivibile anche per se stesso: non distruggi la vita. Chi osserverà gli strati fossili di questa epoca, si domanderà quale asteroide abbia provocato questa estinzione di massa: il numero di specie che ha sterminato lʼuomo è pari a quello estintosi al momento della scomparsa dei dinosauri. La presunzione fa credere allʼuomo di essere superiore al resto delle altre specie, ma la bomba atomica, massima espressione del potenziale distruttivo umano, agli scarafaggi li pettina: distrugge lʼuomo e rende 135


invivibile lʼambiente per lui, ma non distrugge la vita. Questo sentimento di superiorità è una paranoia che è nata nel pensiero occidentale non so esattamente quando, altri popoli non la hanno. Noi abbiamo paura della morte, i popoli nativi la vedono come un evento naturale normalissimo: nasci, muori, goditi quello che cʼè in mezzo e non aver paura. Molti dei nostri principi sono simili a quelli dei nativi americani, soprattutto nellʼapproccio alla natura: sei parte di un tutto, non sei in competizione. Secondo me lʼuomo bianco ha questo impulso perché a un certo punto della nostra evoluzione, filosofica e tecnologica, è nato questo bisogno di sentirsi qualcosa di distaccato dalla natura, qualcosa di superiore, creato a immagine e somiglianza di qualche essere superiore, scollegato dalla natura. Altre culture che ci insegnano il rispetto profondissimo della vita, della natura non hanno questa visione. Queste culture sono perdenti solo nella nostra ottica di violenza. Quelli che lʼuomo chiama bestiali, del resto, sono comportamenti solo umani: la bestialità dei campi di sterminio in natura non esiste; la bestialità di una dittatura in natura non esiste. La bestialità è il lato negativo dellʼuomo, in quelle che chiamiamo bestie non vedrai la bestialità. La natura è nazista per altre cose, perché se non sei perfetto sei riciclato: se non sei adattissimo, con le tue forze e le tue capacità, a vivere in un certo ambiente, tu diventi cibo per qualcun altro. A chi non cʼè abituato può sembrare una cosa molto crudele e la società umana cerca di scappare da questa realtà, ma semplicemente delocalizza, perché lʼinquinamento, che ci ha fatto stare male in Europa, lo abbiamo vietato e delocalizzato nei paesi del terzo mondo, che si fanno carico dei nostri rifiuti tossici. Quindi anche noi, come la natura, ricicliamo a scapito dei più deboli. Il suolo è vivo Noi siamo vicini alla logica della decrescita economica. Guarda la qualità della mia vita: ho cominciato da poco, tecnicamente sono poverissimo, stando alla dichiarazione dei redditi non dovrei essere in grado di esistere, ma produco lʼ80% del mio cibo, quasi il 50% dellʼenergia, quindi, tirando le somme, mi trovo abbastanza bene. Non so se sia possibile applicare il nostro modello di vita a livello di massa. In Italia vivere di autosussistenza non è ancora un problema, perché siamo in pochi a farlo, ma potrebbe diventarlo. Sono comunque aperto allʼintroduzione di qualsiasi tecnologia che lo renda possibile. La tecnologia ha creato cose straordinarie, dalla musica che ascoltiamo allʼapparecchio che stai utilizzando per registrare la mia voce. Basta chiedersi come un oggetto venga prodotto, cosa implica: con 136


le competenze che abbiamo qui, avendo i materiali e gli strumenti adatti potremmo costruire unʼautomobile. Non siamo più il contadino dellʼOttocento, analfabeta, che era costretto a delegare qualcuno che avesse esperienza del mondo esteriore. Io sono biologo: da quando ho iniziato lʼuniversità ho avuto sempre molto interesse per lʼecologia profonda, lʼipotesi Gaia, le moderne teorie di ecologia applicata, che considerano la terra come un organismo vivente, che vanno oltre il meccanicismo classico. In agricoltura tu non consideri più il suolo un substrato minerale inerte da cui trarre il nutrimento attraverso processi

Giovanni Nadiani

zent …int l’unditê dop-timpurêl dla nöt cun la pël tirata e mora d’un burdël i cavèl nigar licé d’gèl coma un zuvnot da i su sânt’én Mauro Ferrara star [regionale in playback e’ cânta “La mia gente”, la su hit de’ Stânta, a la Fèsta dla Batdura d’Baréda e dnenz a la su chincaja l’indiâna la sbadaia incion ch’e’ da st’ora e gvérda [la su röba u l’à capida la famèja d’cinis ch’j impines za i scatlon dla Chiquita cun chi [strez fèt a ca su pae cvatar french… Al machin da batar d’una vólta agl’à finì da un pez e’ su lavór e a e’ pöst de’ grân acvè e’ cres di kiwi a sucê l’ultma acva dl’istê da la tëra mo cs’a i n’fregal a lô cvì dla gardëla ch’la n’smet mai d’frezar dla zuzeza e sot’ e’ tlon de’ stand j urcion i vóla ins i piet gionf nench pr i rumeni ch’i va a stugês l’ultum mudël dla Mercedes in esposizione tra al banger: a forza d’pulì di cul prèst i la cumprarà par fêr i sburon turnend a e’ su paes senza savê cvel ch’u s’vó dì e sóta la gvaza d’mezanöt inzurlì dal cas [dl’urchèstra ch’ziga invurnì da i rug e i mutal dla nöstra zent drì a biasê e a balê – e’ pê ch’i s’guda cun e’ mond fura d’acvè – nô du a s’gvarden int j oc senza dis gnînt a s’dasen incóra un bês parchè l’è un pez ch’a n’saven piò [indó’ ch’a sen…


chimici, ma lo consideri un organismo vivente: batteri, funghi, virus, organismi di ogni tipo che vivono in ogni millimetro di terra umida fanno la differenza; se io misurassi le compenenti fisico-chimiche di quel suolo e creassi un miscuglio di sabbia, argilla, materia organica di varia origine non avrei un suolo, ma un miscuglio. Il suolo è vivo: il suolo lo fa anche il lombrico, lo fa la radice del pomodoro che ho piantato. È un sistema molto più complesso: il tutto è più della somma delle parti, i singoli elementi acquistano valore quando sono in relazione; una persona da sola non è in grado di fare nulla, in comunità può costruire una piramide, organizzandosi e condividendo.

Gente | …nell’umidità post-temporale della notte tirata e abbronzata di un ragazzo / i capelli neri leccati di gel come un giovanotto / dai suoi sessant’anni Mauro Ferrara / star regionale / in playback canta “La mia Gente”, la sua hit dei Settanta con Casadei, alla festa della Mietitura di Albereto / e davanti alla sua chincaglieria l’indiana sbadiglia / nessuno che a quest’ora osservi la sua mercanzia / l’ha capita la famiglia dei cinesi che riempiono già gli scatoloni Chiquita con quegli stracci prodotti a casa loro per quattro spiccioli… // Le macchine da battere il grano di una volta hanno terminato da tempo il proprio lavoro / e al posto del grano qui crescono i kiwi a succhiare l’ultima goccia d’acqua dalla terra / ma cosa frega a loro, a quelli della graticola che non smette mai di rosolare sfrigolando salsiccia / e sotto il telone dello stand i ravioli volano su piatti gonfi anche per i rumeni / che vanno a studiarsi l’ultimo modello di Mercedes in esposizione tra le bandiere: / a forza di pulire dei culi presto la compreranno per fare gli sboroni tornando al loro paese / senza sapere ciò che questo significhi, e sotto la rugiada di mezzanotte, rintronati dagli amplificatori dell’orchestra / che stride, intontiti dalle grida e dai versi scomposti della nostra gente intenta a masticare e a ballare – / sembra che si divertano, il mondo lontano fuori di qui – noi due ci guardiamo negli occhi / senza dirci nulla, ci diamo ancora un bacio perché è da tempo che non sappiamo più dove siamo…


«Il crollo degli orizzonti temporali e l’interesse per l’istantaneità sono nati in parte dall’enfasi posta dalla produzione culturale contemporanea sugli eventi, gli spettacoli, gli happenings e le immagini dei media. I produttori di cultura hanno imparato a esplorare e usare le nuove tecnologie, i media e, recentemente, le possibilità multimediali. L’effetto, tuttavia, è stata una ulteriore sottolineatura delle qualità fuggevoli della vita moderna e persino una celebrazione di tali qualità. Ma tutto ciò ha permesso un avvicinamento, malgrado gli interventi di Barthes, fra cultura popolare e ciò che un tempo era isolata in quanto “cultura alta”. Un tale avvicinamento era stato perseguito in precedenza, anche se quasi sempre in modo rivoluzionario, e movimenti come il dadaismo e il primo surrealismo, il costruttivismo e l’espressionismo, cercarono di portare la loro arte al popolo quale parte integrante di un progetto modernista di trasformazione sociale. Quei movimenti avanguardistici avevano una grande fede nei loro obiettivi e un’immensa fede nelle nuove tecnologie. Il superamento del divario fra cultura popolare e la produzione culturale nel periodo contemporaneo, pur dipendente in misura notevole dalle nuove tecnologie di comunicazione, sembra mancare di impulsi avanguardistici o rivoluzionari, e molti accusano il postmodernismo di arrendersi semplicemente e incondizionatamente alla mercificazione, alla commercializzazione e al mercato». (David Harvey, La crisi della modernità)

eremiti di Augusto Illuminati


Certo lʼeremita è un caso limite, anzi è il limite dello zôon politikón, lʼanimale aristotelico dotato di linguaggio e che vive fra i suoi simili, di preferenza in una città democratica. Dimostra anzi che proprio e soltanto nella vita sociale ci si può isolare per singolare decisione e differenza, come hanno spesso osservato Rousseau e Marx. Nella sua rarità, nellʼestrema rarefazione del vincolo pubblico che testimonia, la relazione splende con la luce e la durezza del diamante. Lʼessenzialità della relazione è determinata dal fatto che può essere temporaneamente soppressa o meglio ridotta a un fantasma interno, che trae valore (e splendore) per scarto dalla banalizzazione dei rapporti esteriori e privilegiamento da un altro rapporto (con Dio, con la propria anima, con qualche ideale trascendente). Sʼintende che tale estrema rarefazione del commercio corporeo e intellettuale fra lʼeremita e gli altri corpi e menti è fenomeno raro e non generalizzabile (solo poche sette mettono in conto lʼestinzione del genere umano o lʼannullamento dellʼumana socievolezza), anzi nella versione cristiana svolge un ruolo di salvezza collettiva, non è solo attesa anticipativa della fine del mondo. Allo stesso modo la liturgia della preghiera dellʼeremita per vocazione religiosa, adottando una rudimentale glossolalia, quando non il lessico enigmatico di una lingua morta, svela lʼessenziale dellʼatto linguistico, della sua pratica-limite quando in un momento di crisi si risale alle strutture più elementari della comunicazione. Si retrocede per riprendere con più forza il cammino. Lʼeremita è tale in quanto presuppone un legame sociale che rinnega per allontanamento ma allo stesso tempo garantisce di fronte a Dio (infatti non condanna le città alla sorte di Sodoma e Gomorra) mediante un sacrificio che fonda la comunione con il Dio-tutto. Lʼestremismo della sua condizione lo espone alla tentazione della vanità (una santità incontrollabilmente autoreferenziale), al rovesciamento istantaneo (lʼimmortale passaggio da stilita appollaiato alla dissipazione mondana che Buñuel ha descritto nel finale del suo film Simone del deserto, quando il santo, dopo aver resistito alle tentazioni, decide di scendere e con un salto temporale lo ritroviamo a Parigi di notte), alla seduzione sensuale del SantʼAntonio abate in cui Flaubert ha proiettato le sue perversioni ben esercitate nei viaggi mediorientali e accuratamente registrate in lettere e diari. Gli eremiti moderni si flagellano e issano su colonne per predicare la riforma della società e la redenzione dellʼuomo. Rousseau sa benissimo come ci si isoli solo allʼinterno delle città popolose e le vuole ripulire e destrutturare con nuove associazioni; Nietzsche invita a fuggire dalle grandi città ma proprio nella loro Nervenleben (quella “vita nervosa”, dei nervi a fior di pelle per la varietà e intensità degli stimoli propri dellʼesperienza metropolitana) recluta i propri seguaci. Eremiti che si proclamano messi al bando, perseguitati, 140


capri espiatori dellʼoppressione e della mediocrità del mondo – anchʼessi pericolosamente tentati dalla santità. Malgrado la loro dissociazione interiore e la vena nichilista essi rischiano lʼidentitarismo. Per quanto il misticismo fusionale dei monaci ne dissolva la personalità, il modello che offrono, le comunità che ne scaturiscono contraddittoriamente, hanno un forte statuto identitario. Il solitario di Avempace, filosofo e statista nella Spagna musulmana (al-Andalus) fra XI e XII secolo, suggerisce un regime ideale contrapposto alla società corrotta, insomma una variazione in esilio della compatta comunità utopica di ascendenza neoplatonica (largamente presente nelle varianti sciite, ismailite e sufiche della cultura araba dei primi secoli), una repubblica delle “erbacce” quando il male si è imposto. Rousseau áncora alla solitudine del profeta e del legislatore incorrotto la trasparenza e oppressiva fusionalità di una volontà generale che non tollera divergenze e opacità – residui del vecchio ma anche preannunci del nuovo, corporazioni feudali e sindacati operai... Perfino il superuomo nietzschiano può essere declinato (lo fu dai nazisti) come un qualunque uomo nuovo razzialmente e culturalmente stabilizzato e normalizzato, intorno a cui pullula unʼetica tribale. Lʼidentità si definisce circoscrivendo i nemici e tenendoli fuori dal limes (oggi anche facendoli lavorare dentro, sottocosto). Lʼappello allʼidentità soccorre i deboli in tempo di crisi, anche quando esalta retoricamente i forti. Tutto si presenta capovolto rispetto alla realtà. Il vigore dellʼibrido è esorcizzato come malattia e corruzione da chi non ha salute. Il prete (in tonaca nera o camicia verde) organizza identitariamente la sofferenza dei malati senza neppure sgualcirla. Già lʼesempio degli eremiti della Tebaide egiziana veniva strumentalizzato per il fanatismo clericale amministrato ad Alessandria: ebrei e Ipazia lo sperimentarono con il santo patriarca Cirillo. Figuriamoci i profeti moderni, inclini al conflitto epocale e alle crociate – a partire già nellʼXI secolo da Pietro lʼEremita, appunto... Diffidiamo di un attivismo politico identitario, cui troppo spesso (forse non sempre) lo stato eremitico induce. Lasciamoci sedurre dal mondo, senza assecondarlo. Difficile, vero?

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Rocco Brindisi

il bambino dislessico lo hanno rapato a zero Il bambino dislessico lo hanno rapato a zero la cosa gli piace, si capisce da come ride, aspettando lo schiaffetto rituale [dietro la nuca. Non è più un bambino, ha quattordici anni, la madre è orgogliosa che il figlio stia imparando a conoscere i cavalli uno zio gli ha trovato un piccolo lavoro al maneggio, e lui, a volte, è felice alla madre fa male il sonno per questo figlio, gli insegnanti evitano di fissarlo negli occhi, le parole dei libri si nascondono come topi, così gli atlanti, la [grammatica vivono al terzo piano di un caseggiato popolare, il padre operaio si fa raccontare dal figlio i saltimbanchi che disegna sui muri, quest’uomo ha gettato l’anima pur di vedere il figlio spogliarsi, rivestirsi senza tristezza i carabinieri hanno trovato il bambino (scappava da scuola) vicino a una [discarica dove cercava un freno nuovo per la sua bicicletta, un’altra volta giocava a palla sotto la navata di una chiesa, una mattina mangiava semi di melone nel rudere di una stazioncina di [campagna affogata nei rovi, (là attorno c’era un convito di uccelli) - I medici dicono che soffre di una depressione… quando la madre pronuncia l’aggettivo scientifico le compare una luce [negli occhi come a tutte le donne povere quando ricordano gli strani nomi delle [malattie strane l’ho visto che andava a cavallo ed era un principe, gli stanno ricrescendo i capelli, non gli dà malinconia il pensiero di non riuscire a cavalcare su una fune

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Forse mi sarei riconosciuta nelle parole di Murakami in Norvegian Wood: ÂŤEra come se fossi avvolto in una membrana che aderiva perfettamente al mio corpo, impedendomi di comunicare con il mondo esterno e impedendo agli altri di toccarmiÂť. Emily, 56 anni, Amherst Massachussets

essere-otaku ma allora sono otaku anch’io? di Daniela Shalom Vagata


Per parlare di otaku bisogna appropriarsi di un intero vocabolario, accedere a internet – se si è interessati agli otaku sicuramente computer e connessione non mancano – e dare una rapida occhiata a akibanana.com. La parola “akibanana” deriva dalla fusione di Akihabara, il quartiere elettrico di Tokyo, la mecca degli otaku, e banana… Un altro mondo! altri fiumi, altri laghi, altre campagne… altre pianure, altre valli, altre montagne… ma quelli in 2D, ossia, e qui comincia il pasticcio, quelli delle pupattole strabordanti e dei bambolotti timidi e allampanati, tutti rigorosamente di carta e matita. Prima di addentrarci facciamo una premessa. La parola “otaku” non si declina. Non si dice «otaka, otaki, otake», ma «otakissimi, otakissime» sì, perché, presumo, se moe, la pupattola che piace all’otaku1, da sostantivo diventa aggettivo, e poi superlativo – sei proprio moessima, il complimento che aspettavo da anni –, allora pure otaku può trasformarsi in aggettivo e superlativo. Tu, mio caro, sei otakissimo! Ma insomma questo otaku cos’è? Teruyuki, un ragazzo gentilissimo e un po’ timido della Zoukei Daigaku, l’università di arte di Kyoto, una delle migliori del Giappone, non si definisce otaku, ma quando ho chiesto in giro informazioni sugli otaku, Mario, un suo compagno di corso, mi ha indicato lui. Per Teruyuki l’identità dell’otaku si definisce attraverso tre caratteristiche primarie: è un individuo, prevalentemente di sesso maschile, che ha terminato le superiori e che ama da morire i manga, gli anime, e gli hentai games. Nei primi due oggetti di desiderio si riconosce più o meno tutto il Giappone, e forse buona parte dell’occidente, per gli hentai no. Cosa sono gli hentai? Teruyuki, durante i lunghi pomeriggi di discussione sugli otaku, si è guardato bene dal farmelo capire. Sarà perché il Giappone, contrariamente all’Italia, tende a tacere gli aspetti più problematici della società, tuttora intorno agli hentai c’è confusione. Secondo Teruyuki gli hentai games sono i videogiochi di avventure (adventures games) che si dividono nei giochini erotici, detti anche ero games o h games2, e nei cosiddetti girls games (o anche renai), dove l’eroe molto romanticamente deve conquistare la tipa. Niente di male, fin qui… ma quando l’ho detto al ristorante, Mayumi si è guardata intorno, mi ha pregato di parlare sottovoce e ha abbassato la testa… Alle mie proteste Mario si è mostrato stupito. «Che? Non lo avevi capito? Sono i giochini erotici rifatti sul cliché di quelli d’avventure…». Che pasticcio… Per fortuna esiste akibanana! Qui ho capito il perché dell’imbarazzo di Mayumi. Gli hentai games sono dei videogiochi erotici che prevedono situazioni pervasivamente anormali3: accoppiamenti con mostri tentacolari, donne triquadri-penta-tettute, sado-masochismo estremo a base di pupazzetti, ma 1 2 3

Si faccia attenzione: all’otaku piace la moe, ma non il contrario. “H”, che si legge «ecci», vuol dire “sesso”. La parola “hentai” significa “anormale”.

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anche stupri, violenze di gruppo e sesso con pupattole-ragazzine...4 tutto estremamente legale e giustificato da ampia parte dei Giapponesi con la rassicurante divisione tra la realtà e la finzione del gioco. Sarà… Kosuke e Midori concordano con Teruyuki: per loro gli hentai games comprendono un’ampia varietà di videogiochi, ma sta di fatto che non ci hanno mai giocato, o almeno non lo dicono… Ma continuiamo per la “via degli otaku”. Secondo Teruyuki, che si è preso la briga di intervistare una ventina di suoi ex-compagni di classe delle superiori, sono gli altri a definire una persona otaku, non è mai l’otaku a dichiararsi tale. L’otaku va fiero della sua identità, ma non la mette in mostra; è solitamente un individuo timido, riservato, e soprattutto intensamente concentrato nei suoi interessi. Eppure l’otaku è un fenomeno particolare: frutto della solitudine e della mancanza di comunicazione, gli otaku hanno un prepotente bisogno d’appartenenza identitaria. Così, molto spesso gli otaku si riuniscono a ballare l’otagei, la danza di riverenza alle idol, giovanissime cantanti o attrici in gonnellina fru fru sul modello dell’Incantevole Creamy5, o s’incontrano nei comiket, i mercati di fumetti che due volte all’anno a Tokyo attraggono centinaia di migliaia di amanti e disegnatori di manga. Altro elemento importante: l’otaku è un collezionista. Oltre al solito trio di manga, anime e hentai, l’otaku accumula figurine (cards)6, bamboline e modellini dei suoi eroi preferiti7. Sempre secondo Teruyuki una delle differenze che intercorre tra un otaku e un non-otaku è la modalità di fruizione di manga, anime e hentai. Il punto di vista dell’otaku è esclusivamente concentrato sul comportamento dell’eroe e su come riesce a conquistare il favore (traduci i favori) della pupattola. L’eroe è il modello, il conquistatore, forse il ragazzo che non si ha il coraggio di essere, quello che si dichiara e che sa prendere la situazione in mano, così come le pupattole sono le donne ideali. Il sogno degli otaku prende vita nei Maid-Caffé: un tipo di caffè dove si è serviti da cameriere addobbate in stile vittoriano, tutte pizzi e crinoline, e si è accolti da «Okaerinasaimase, goshujinsama!» [Bentornato a casa, onorato padrone!]. Perché, con una buona dose di fantasia e di adattamento, s’immagina che il cliente sia ritornato alla propria magione dove l’aspetta E ci si domanda quale sia il confine tra la pedofilia e i disegni di giovanissime pupattole. A questo proposito va detto che il Giappone, più che l’Europa o gli Stati Uniti, sembra ossessionato dalla giovinezza femminile. Uno dei motivi dell’attrazione giapponese verso ragazze giovanissime, apparentemente pudiche, timide e innocenti, può essere rintracciato nel fatto che fino alla seconda guerra mondiale le prostitute erano fanciulle provenienti dalla campagna e vendute giovanissime ai bordelli. 5 Maho no tenshi Kurimi Mami [L’angelo della magia Creamy Mami] è un noto cartone animato giapponese trasmesso in Italia per la prima volta da Italia Uno nel 1984. 6 Spesso nel retro dei negozi di gadgets per otaku esistono delle salette dove i collezionisti si ritrovano a giocare o a scambiare le figurine dei loro eroi preferiti. Va ricordato, però, che il collezionista di figurine non è necessariamente un otaku. 7 Fashion-dolls, Dollfie e Actions figures: per capirci la versione nipponica e strettamente correlata ai personaggi delle anime e dei manga delle Barbie, delle bambole gotiche e dei modellini quali Big Jim, G. I. Joe o i robots di Gundam. Molte di queste bamboline possiedono un guardaroba sofisticato e una grande varietà di accessori, tutti in vendita, e pure – provare per credere – mutadine e reggiseni. 4

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trepidante la servetta. Al Maid – si pronuncia “meido” in giapponese – la cameriera recita la parte della fanciulla ingenua, dolce, innocente, immacolata, obbediente, vestita della solita striminzita gonnellina fru fru (perché l’erotismo, ricordiamolo, varia a seconda della civiltà), innocua: una moe8. Un altro mondo! Un mondo esplicitamente ed evidentemente fantastico, a due dimensioni, un mondo super-flat prendendo in prestito il concetto dell’artista Takashi Murakami il quale intende con esso l’accatastarsi di immagini prive di simbolismo e profondità9. Un mondo dove, però, a ben guardare, le relazioni sono prevedibili. Forse un rifugio dove non si è inibiti dalle forti pressioni sociali e dove gli istinti possono finalmente liberarsi. Una breve riflessione. Kimio Ito, un sociologo dell’università di Kyoto, spiega il fenomeno otaku e quello del Lolicon – Lolita complex, l’attrazione per le giovanissime – con la difficoltà di comunicazione diretta tra uomini e donne, e con la trasposizione delle relazioni di coppia nel mondo dell’immaginazione, nel quale non si teme un rifiuto o una figuraccia, e l’altro è controllabile come si desidera. Secondo Ito questa sarebbe una delle conseguenze della maggiore emancipazione della donna10. Per quanto ne so io, nell’approccio con l’altro sesso, il ragazzo giapponese di solito è estremamente passivo, come testimoniano anche le leggende e i racconti popolari raccolti da Kunio Yanaghita, il padre del folklore giapponese, e successivamente discussi dallo psicoanalista junghiano Hayao Kawai11. La donna non si aspetta il principe azzurro, semmai è l’uomo a veder apparire per un breve istante la donna. Inoltre va tenuto conto delle restrizioni del Confucianesimo di cui la società giapponese in parte ancora risente, come testimonia la permanenza di una sorta di segregazione tra i sessi. Se fosse così, allora, le sue radici giapponesi spiegherebbero il fenomeno otaku. Chissà… Non resta che concludere con un breve accenno alla storia del fenomeno otaku. Questa volta sono Midori e Kosuke a prendere la parola. Il termine otaku in giapponese è un titolo onorifico di seconda persona singolare maschile. Alla fine degli anni Ottanta si notò che veniva usato da soggetti estremamente isolati, in grado di intrattenere soltanto rapporti molto formali. Con il prezioso aiuto del mio amico Yuichi ho anche fatto l’esperienza del Maid-Caffé. Ci ha accolti una cameriera dal nome Kanon la quale ci ha spiegato che la cameriera ha sempre diciassette anni e non raggiunge mai la maturità. Kanon, in grembiulino di pizzo e pesantemente truccata, ci ha mostrato il menù: un catalogo di cameriere che lavorano nel caffè, corredato di fotografie e informazioni su hobby e cantanti preferiti. Il cliente può scegliere chi vuole. La fauna del locale sembrava per lo più costituita da uomini trentaquarantenni, estremamente timidi, riservati e quasi impacciati, ma ben disposti a pagare un sovrapprezzo per ottenere una fotografia con la maid di turno. Tutto il locale era tempestato da pupazzetti e cuoricini, quasi a voler rassicurare il cliente il cui sguardo immancabilmente si allungava sulla gonnina corta e sui calzerotti lunghi sopra il ginocchio. Usciti dal Maid-Caffè Yuichi ed io ci siamo sentiti tristi. 9 Cfr, Interview with Murakami Takashi, «Art it. Japan’s First Bilingual Art Quarterly», Fall / Winter 2007, pp. 42-49, e Takashi Murakami, translated from the Japanese by Mako Wakasa and Naomi Ginoza, «Journal of Contemporary Art», February 2000, www.jca-online.com/murakami.html. 10 Cfr. Kimio Ito, Cultural Change and Gender Identity Trends in the 1970s and 1980s, «International Journal of Japanese Sociology», n. 1, 1992, pp. 79-98. Tenendo conto delle diverse radici storiche e sociali, il tema dell’emancipazione della donna giapponese richiederebbe un approfondimento. 11 Hayao Kawai, La casa dell’usignolo. Il femminile psicologico tra oriente e occidente, a cura di Antonietta Donfrancesco, traduzione di Marco Montanari, Moretti & Vitali Editori, Bergamo, 2007. 8

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La parola “otaku” tuttavia divenne tristemente famosa e con una forte valenza negativa quando fu arrestato Tsutomu Miyazaki, un serial killer che aveva ucciso quattro ragazzine, e che si scoprì possedere migliaia di anime, manga e hentai… il killer otaku. Ma alla stigmatizzazione e alla condanna di chi si rifugia nella realtà virtuale è lentamente succeduta una diversa percezione dell’otaku. Un salto in questa direzione è stato compiuto grazie a Densha otoko [Il ragazzo del treno], un delizioso romanzo, poi diventato serie televisiva, manga e film, che racconta la storia di un ragazzo timidissimo, impacciatissimo, e un po’ otaku, che salva una ragazza dalle molestie di un ubriacone: in seguito, lentamente e con molto imbarazzo, riuscirà ad uscire con lei, chiedendo consigli agli amici di un internet forum. La storia del brutto anatroccolo – dolcissimo – che si apre al mondo. Che sia una storia realmente accaduta o meno, è sicuramente un prodotto fragrante del

Con la coscienza politica di un barattolo di colore rosso galleggiavo nell’acquario del liceo. Ricordo d’aver pianto sull’autobus quando è morto Kurt Cobain. Avrei potuto piangere per la fondazione di Forza Italia, per quello che iniziava a succedere in Ruanda, per l’elezione di Mandela, per l’entrata in vigore del NAFTA, per l’insurrezione in Chiapas, per un calcio di rigore sulla traversa, per gli accordi di Washington. Avrei pianto per Debord? Per Berlino? Ho pianto per l’intervento della Nato in ex Jugoslavia?

non ci siamo accorti di nulla di Ugo Coppari


fenomeno otaku, visto che la vicenda è ricostruita su cinquantasette giorni di post scambiati su 2channel, il più celebre internet forum giapponese12. Ultimamente essere otaku è diventato quasi una moda, e designa qualunque persona che possiede una passione smodata, una mania esclusiva e un po’ folle, parossistica, per qualcosa. Così c’è chi perde il senno dietro ai treni, chi nella fotografia, chi nella letteratura e chi nella magia, e chi in altro ancora. Assorbiti da interessi esclusivi, chiusi in casa a mandare e-mail, scrivere post, e leggere blog, forse in futuro assisteremo a un incremento del fenomeno otaku. Chissà… Seduta comodamente sul divano a rileggere l’Ariosto mi domando: non sono un po’ otaku anch’io? 12

Per una veloce occhiata, ma in lingua giapponese: http://2ch.net

C’è Luca. Luca sente che la sua vita sta per giungere al termine, se lo ripete da molti anni. Infatti da molti anni spera di invecchiare, ma la sua pelle rimane sempre giovane. I suoi occhi invece si spengono, piano piano lasciano che le palpebre cadano sul mondo. Luca è nato così, con la stessa fisionomia con cui si adagerà sul terreno umidiccio in cui altri scaveranno la sua fossa. Luca ha smesso di parlare molti anni fa, quando ha cominciato a vedere negli altri l’immagine di se stesso. Sosteneva di non veder altro che se stesso riflesso negli altri. E avendo perso fiducia in se stesso, decise di non ascoltar più neanche gli altri. Luca si ritrova seduto sulla sporgenza di uno scoglio piantato in mezzo al mare, all’interno di una grotta. Luca ha deciso di vivere dentro a una grotta perché così sarebbe stato sicuro di non vedere più altre persone e quindi neanche se stesso. Neanche lo specchio dell’acqua avrebbe potuto garantirgli di riflettersi in una superficie esterna al suo sguardo. La cavità della grotta era infatti immersa nella totale oscurità. Un giorno un granchio emerge dall’acqua e avanzando a fatica verso Luca, comincia a dimenarsi per attirare la sua attenzione. Luca non si accorge del granchio, e neanche è disposto ad accorgersene. I granchi non parlano, quindi non esistono. Luca continua a contemplare le idee che prendono forma dal buio. Queste idee sono vaghe, non rappresentano nulla. Ad un certo punto il granchio allunga le sue chele e afferra Luca per un orecchio. Luca non si accorge di nulla, continua a pensare al buio. Il granchio cerca con tutte le forze di trascinare Luca in acqua, in modo tale da alleggerirne al più presto il peso. Una volta caduto in acqua il granchio co-


mincia a sbracciare forte, mentre Luca si lascia portare come un morto a galla. Luca chiude gli occhi, il sole abbaglia la sua mente. Poi viene la notte, mentre i due continuano ad attraversare il grande mare. Il granchio è instancabile, se ne frega delle stelle e non ha mai sete. Luca decide di riaprire gli occhi. Per un lungo tratto non succede assolutamente nulla, Luca se ne sta a galla e il granchio continua a sbracciare. Ci sono stelle cadenti, ma Luca non se ne accorge. Luca non si ricorda nulla, il buio ha cancellato il primo giorno di scuola, il primo bacio, il primo giorno di lavoro, la sala-giochi, le serate in discoteca, il primo stipendio, gli anziani seduti fuori dai bar, la piazza la domenica mattina, il primo viaggio in autostrada, il primo bucato, il primo voto, i primi passi. Il buio si è portato via tutto. A Luca sembra che starsene a galla sia di per sé qualcosa di eccezionale. Il granchio vede terra all’orizzonte, continua a sbracciare. Luca continua a pensare che gli altri non abbiano alcun senso, nel senso che gli altri siano lui. E che quindi non ha senso parlarsi addosso. Il granchio tira dritto, finché le sue chele non toccano la prima finissima sabbia che copre la riva. Luca è zuppo, il suo corpo si è appesantito a dismisura. Ma al granchio questo non interessa. Insieme percorrono una lunga strada sterrata che dalla riva giunge fino al centro di una città. Il cielo di questa città è intriso di polvere, non si vede più niente e a fatica si riesce a respirare. Si sente soltanto una serie interminabile di spari. Le persone si riconoscono soltanto attraverso il suono degli spari. Ognuno infatti ha imparato a fabbricarsi la propria arma personale, e anche il tipo di pallottole preferite. Ma al granchio non importa degli spari, e neanche a Luca. Ad un certo punto Luca si ritrova in cima ad un’altura piena di fango. Il granchio lo ha lasciato lì e se ne è andato, non se ne sa più niente. Luca rimane fermo con gli occhi chiusi per ore. Ritiene che gli altri non esistano o che non abbiano alcun senso. Soltanto il suono degli spari lo fa sobbalzare. Ma il suo cuore è ancora chiuso come le cozze che se ne stanno appiccicate agli scogli sotto la caverna. Luca sta a galla anche nel fango, non vuole saperne del perché o di cosa facciano gli altri o da dove provengano gli spari. Passano le ore, i giorni e Luca comincia a sentire la fame. I primi crampi allo stomaco, i primi conati di vomito, le prime allucinazioni. Ma decide che per il momento lo stomaco può aspettare. Sente un gran dolore all’orecchio, ma non si ricorda da cosa sia stato provocato. Sente ancora spari, assordanti. Poi riapre gli occhi. Sopra di sé vede tante stelle. Piano piano comincia a intravedere nelle diverse costellazioni la forma di un tozzo di pane o di una salsiccia di maiale. Così decide di alzarsi e cercare qualcosa da mangiare. A fatica muove prima le gambe poi il busto e poi tutto il resto. È l’alba e sotto di sé non vede nulla al di fuori di un gran mare di polvere che circonda l’altura.


Comincia a urlare alcune parole al vento per attirare l’attenzione di qualcuno là in fondo che possa aiutarlo. Ma gli spari coprono la sua voce. Urla ancora, fino a sgolarsi. Ma nessuno lo sente: ancora spari, soltanto spari. Così decide di prendere coraggio e scendere a valle, per vedere cosa ci sia oltre quella distesa di polvere. Ma non appena muove i primi passi sente degli spari indirizzarsi verso di lui. Ha paura, non sa come comportarsi. Non appena tenta un altro passo, un proiettile lo colpisce. Gli si conficca tra l’alluce e l’indice del piede destro. Le sue grida e i suoi lamenti si perdono nel frastuono generale delle armi. Nessuno può sentirlo. Così comincia a gridare che ha fame e che non vuole far male a nessuno. Dice che non ha cattive intenzioni, vuole solo un po’ di cibo. Spera che qualcuno lo ascolti, ma nessuno sembra preoccuparsi di lui. Gli altri stanno sparando, non si sa tra o contro chi. Sta per calare la notte e Luca si accascia a terra esausto. La fame allontana il sonno, e pur chiudendo gli occhi Luca ascolta la propria coscienza chiedersi il perché di quella situazione. Si chiede perché ce l’abbiano con lui, perché debbano sparagli contro. Nel corso della notte continua a pensare alla parole che il giorno venturo avrebbe potuto gridare per giustificare la propria presenza su quell’altura. Poi si addormenta. Il giorno dopo viene svegliato da altri spari. Si alza in piedi, si scrolla il fango di dosso e si prepara per gridare quel discorso immaginato nel corso della notte. Si schiarisce la voce, ma non sa da dove cominciare. Comincia a pensare a come sia finito lassù, o a chi ce l’abbia portato. Ma non gli viene in mente niente. Così decide di parlare del proprio passato, per farsi conoscere. Ma ancora non gli viene in mente niente, né il nome di una persona cara né una storia da raccontare. Luca sta morendo di fame, non ce la fa proprio più. In ginocchio, con un piede sanguinante, continua ad immaginare chi possa nascondersi dietro quella immensa nuvola di polvere. Gli spari riempiono l’aria, mentre Luca non riesce a trovare nemmeno una parola.


Ora iniziava a capire. C’erano le Colonne d’Ercole al suo fianco. Popolate di scimmie urlanti e di uomini nascosti oltre la luce del giorno. In quel breve tratto di mare schiumante percepì in qualche profondo gorgo grigio del suo cervello tutto il mondo disintegrarsi in uno sciame di particelle. Mentre varcava Gibilterra insieme a un altro centinaio di uomini rinchiusi in quel traghetto osservò che nel profondo delle acque tutti i corpi si trasformavano, le città si coagulavano in gocce, e i ricordi si tramutavano in cristalli. Nella nebbia scorse le geometrie mutate che i desideri disegnavano inseguendo le loro nuove alleanze, e intravide le persone camminare e spostarsi su quel precipizio, come funamboli, verso ciò che verrà. Guardava la materia umana da tutto il cosmo di prospettive che aveva attraversato lungo il suo viaggio stellare e ripensava alla sua identità, fino ad accelerarne lui stesso la sostanza verso il futuro.

lo spazio della quiete dialogo con Mariangela Gualtieri di Silvia Albanese


Per me la parola scritta arriva in teatro come un cadavere. Io chiedo al teatro di resuscitarlo. E in nome di questa operazione magica, che è la resurrezione della parola, sono disposta a qualunque macellazione, amputazione, deformazione. La parola è cadaverica perché purtroppo siamo abituati a leggerla, invece vuole la saliva, il fiato, vuole questo passaggio dal corpo, vuole essere detta e ascoltata. Il teatro per me è questo grande rito in cui si pronuncia e si ascolta, in cui le parole sono scagliate come frecce, le si accoglie dall’orecchio e fanno le loro ferite. Mariangela Gualtieri1

Il 2010 si è aperto ai Teatri di Vita di Bologna con un nuovo vecchio spettacolo: Lo spazio della quiete del Teatro Valdoca; si tratta dello spettacolo che nel 1983 segnò l’esordio sulle scene europee di un gruppo nato a Cesena, nella Romagna felix del teatro italiano contemporaneo, dalle menti e dai corpi del regista Cesare Ronconi e della drammaturga Mariangela Gualtieri2. La recente riscrittura ha trasformato la versione originale. «Ad una prima parte che quasi fedelmente richiama la versione originale, se ne aggiunge una seconda, creaturale, panica, ed una terza, di poesia pensante, riflessiva, misteriosa e savia. Due figure femminili abitano una scena in cui fisica e metafisica smarginano una nell’altra. Le due donne misurano, sondano, percorrono con cautela lo spazio che la loro presenza alleggerisce e dilata. Come vestali a venire, conducono in scena un corpo, dormiente, forse, o dissepolto e lo interrogano. Il corpo risponde e ammaestra»3. Questo spettacolo nasce dal silenzio, emergendo da uno sfondo di silenzio e buio. Così come l’alba del Teatro Valdoca sorse dalla fine di un’esperienza precedente che portava con sé un senso di morte, di finitudine, di nulla. Era necessario, allora, un atto contemplativo, al fine di ritrovarsi e ritrovare, per continuare a cercare. Ne abbiamo parlato con Mariangela Gualtieri, drammaturga, poeta, amante della Parola e, a nostro avviso, sua savia evocatrice. «Tornare alle proprie radici è a volte un atto necessario, di ordine interiore, di sacra spoliazione». Con queste parole lei motiva la ripresa de Lo spazio della quiete, a ventisei anni di distanza dalla sua genesi. Dall’intervista di Gilberto Santini pubblicata in Lo spettatore appassionato, ETS, Pisa, 2004, pp. 37-41. La prima versione de Lo spazio della quiete è stata ideata da Ronconi, Gualtieri e Paola Trombin e prodotta dal Teatro Valdoca e dal Centro Teatrale S. Geminiano di Modena. La nuova versione, del 2009, è una riscrittura ad opera di Ronconi prodotta da Teatro Valdoca con la collaborazione del Teatro Bonci di Cesena e il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia-Romagna, Provincia di Forlì-Cesena, Comune di Cesena. 3 Dal sito www.teatrovaldoca.org. Le due figure femminili sono con delicata forza interpretate da Susanna Dimitri e Mila Vanzini, il dissepolto corpo maschile è incarnato da Leonardo Delogu. Per una recensione poetica dello spettacolo rinviamo al nostro blog: http://argoblog.wordpress.com/2009/05/22/recensione-a-lospazio-della-quiete-del-teatro-valdoca 1 2

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Tale necessità si connette a un’esigenza di riflessione sull’identità del Teatro Valdoca? No, non è una questione riflessiva, quanto piuttosto energetica o vorrei usare la parola sorgiva. In questa nostra avventura teatrale abbiamo attraversato varie morti e rinascite e dopo Paesaggio4 eravamo in una fase di svuotamento, di prosciugamento. Perciò a un certo punto abbiamo sentito il bisogno di tornare in quel luogo di nascita che è stato per noi allora Lo spazio della quiete: nelle origini, in quella schiettezza e nudità di un esordio, c’è spesso una profonda connessione col proprio fuoco centrale, quasi un punto dentro di sé in cui si va a bere, a raccogliere nuove forze. In che modo il ricongiungimento con il proprio passato può fornire nuova linfa alla propria identità, anche nell’ottica di una trasformazione? È strano come al mio orecchio suoni impropria, in questa circostanza, la parola passato. Capisco in che senso lei mi fa la domanda, ma diciamo che è ad un presente assoluto che ci si riconnette, e non è mai storica la questione. E anche direi che la parola identità è qui impropria. L’identità non è stata mai un problema per noi: se vai alla radice, in una tua verità, la questione identitaria si risolve da sé. Non è l’identità che si perde o che si va cercando, ma una sorta di urgenza, senza la quale noi non potremmo fare teatro. Una urgenza legata alla tua massima vitalità, e anche al nostro essere qui ora, fra questi vivi. Qual è stato il percorso di trasformazione poetica del Teatro Valdoca? C’è indubbiamente una trasformazione poetica, come lei la chiama. Già il fatto che ad un certo punto sia arrivata “la parola” e che sia stata resa con tanta forza in scena… già questo segna un grande cambiamento. Ma credo anche che l’avventura di Valdoca sia vicina al Mito, lì dove non c’è trasformazione, lì dove l’eroe non ha uno sviluppo psicologico ma è sempre quello che è, fissato nei suoi colori dominanti, nel suo riverbero, nella sua patologia salvifica. Mi pare che siamo rimasti fedeli ad una dettatura che è sempre quella. Ciò che è cambiato riguarda una sapienza del fare che si acquisisce con l’esperienza, ma nella sostanza noi trattiamo di ciò che non muta e questo rende anche noi poco trasformati. Come nascono i vostri spettacoli? Al centro c’è l’energia della regia che da principio elegge quelle che potremmo chiamare le lettere dell’alfabeto e con esse dà forma alla scrittura teaIl riferimento è a Paesaggio con fratello rotto, un’opera in tre parti, compiuta nel 2005: una trilogia di affreschi contemporanei, rappresentata anche come unico, grande evento teatrale in tre atti, con dieci interpreti coinvolti e musica dal vivo. 4

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trale. Fra queste lettere la parola scritta e i corpi degli attori costituiscono il sapore dominante. Compito della regia è creare la condizione in cui ognuno arrivi al pieno dono di sé, all’interno di un certo recinto tematico, e ciò può avvenire solo nella massima libertà espressiva. Che nulla ha a che vedere con lo spontaneismo. La libertà, in scena, è una meta molto alta e credo la si possa raggiungere solo entro certe condizioni energetiche che la regia, con la sua concertazione, crea. A questo va aggiunto molto lavoro individuale. Il vostro è stato spesso definito un “teatro poetico”: si nutre di un’ibridazione tra teatro e poesia che non è giustapposizione, bensì creazione in cui il tutto risulta più della somma delle parti. Che rapporto c’è tra le due forme espressive nel lavoro del Valdoca, e che nome darebbe ad esso? Ciò che viene definito come poetico è spesso il luogo più lontano dalla poesia, o quello in cui le forze arcaiche vengono inchinate in una confezione che della poesia ha solo la vuota impronta. L’insieme di teatro e poesia che oggi pare tanto insolito è – mi sembra – alla radice del teatro, ed anche alla radice della poesia. Voglio dire che i due, poesia e teatro, sono ben saldi insieme dalle origini: si pensi ai tragici greci o a Shakespeare, cioè ad alcune delle forme più alte che il teatro ha conosciuto. Lei mi chiede un nome: il nome che darei è proprio “Teatro Valdoca”, ora più che mai. La cultura indù dice:«L’oca mangia perle o piuttosto muore di fame»; un motto che mi piace molto e che mi pare si addica al nostro agire. Il percorso sonoro (e non solo) dello spettacolo conduce alla genesi della parola, la Grande Sovrana, che si incarna nel corpo dell’uomo; se condivide, vuole spiegarci il processo di tale genesi? Il verso è strettamente legato al silenzio. Potremmo dire che il verso è anche il silenzio che lo precede. Trovo dunque armonico il fatto che dopo tanto silenzio nasca una parola e che questa parola parli di se stessa, rifletta su se stessa. Era bello che lo facesse un corpo denudato, arcaico, che ricordasse sottilmente gli antichi profeti, eremiti, anacoreti. Non poteva che essere un corpo maschile, perché l’archetipo comune in questo caso è decisamente maschile. Mi pare non vi siano figure femminili arcaiche dotate di una parola sapienziale: è da molto poco che alle donne è permesso di parlare in pubblico, di essere pubblicamente savie, sapienti. Mi ha molto colpito questo scambio verbale che arriva da fuori sulla scena: «Il pensiero è un posto piccolo, ti pare? Sì, è un posto piccolo, ma dentro c’è la chiave»; qual è la chiave che si nasconde nel pensiero? È la chiave che fa uscire dal pensiero, tentare la manovra che permette che 154


ci guardiamo pensare. Ci si chiede, con la Lispector, «che cosa in me sta fuori persino dal pensare?». Qual è la connessione, nell’uso che lei fa della parola per questo spettacolo, tra potenza evocativa e valore sociale? Le parole che scrivo appartengono a questo tempo, a questo oggi, e in questo credo stia il loro valore sociale; ma in esse, se sono poesia, c’è un potere che perdurerà e le manterrà fresche nella cavalcata attraverso il tempo. In questo senso, il valore sociale è ciò che della parola si brucia tutto nell’oggi. La nostra avventura artistica tende piuttosto all’infinito, come una retta, non per velleità di durata, quanto piuttosto per una forza magnetica che ci trasciMarina Pizzi

dalla raccolta “Il sonno della ruggine” 4. resta un nugolo di spaesamenti il segno, più, croce infissa dentro l’iride più colorita. il tempo ruota la ruota dell’infelice lince cieca. la nuca fa già da cella alla bellezza dell’esule. le scarpe sono in palio all’atleta più veloce. non c’è accetta che possa svergognare la luce. qui ti sopporti perché sei un anello in via di ruggini e cipressi. pensa a piangere di te la norma dell’addio. la resina votiva che non ti darà niente e nessuno. sorridi pazzo e forse sarai salvo dalle liane della giungla velenose. 20. in un muso d’aria credo di vivere la mia agonia di agosto. l’icona sul computer ha i capelli bianchi. l’ospizio del vetro della finestra è nero. niente pulisce questo cimitero altèro sul tavolo anatomico.


na sempre verso i grandi temi dell’umano, temi che trapassano il sociale e l’attualità, verso anche ciò che è nascosto, misterioso, fuori da ogni tempo e da ogni spazio. A ottobre 2009 ha partecipato al convegno Tribù d’Italia: perché ha sentito l’urgenza di aderire al progetto? Cosa potrebbe nascere secondo lei dall’unione delle tribù? Avevo letto un numero della rivista Il primo amore e mi ero entusiasmata per le parole di Carla de Benedetti e di Antonio Moresco. Da tempo non leggevo parole così esortative, lucide ed entusiasmanti. E dunque ho subito risposto al loro appello, al loro bisogno di tentare qualcosa. Cosa potrà nascere non so. anche le piante grasse muoiono e non di sete. le giovani avarie del divieto qui sul polso che non si rassegna. la frottola del cerchio diffama lo steccato del giardino. in mano all’aureola non so salvarmi. mi spingo in un festino di note cavalleresche. i crumiri del rantolo non la scampano. tu riordini le carte degli avi per la gioia della polvere. verrà l’America e non potrai toccarla che sotto i trabiccoli dell’ansia. 22. una struttura anagrafica di niente questa burocratica rottura della voce qua dove ammisi di credere la rotta e persi invece la bussola per sempre. in mare la barcaccia chiama s.o.s. e la marea non s’inchina alla paura anzi la stempia con apice di venti. dove sarà l’ipocrita salvezza lo sa l’alunno che non crede al tema pure scrivendolo col nome e il cognome. ora le celle del panico di eclissi sono gestite dallo stipite del sogno quando la gente dorme per dolore.


«Il pianto rituale rappresenta nel mondo antico non soltanto un importante momento dei rituali funerari, ma proprio il tema centrale di quel particolare saper piangere davanti alla morte che fu proprio delle civiltà religiose mediterranee. La crisi decisiva di questo istituto culturale fu inaugurata col Cristianesimo: il quale su tutta l’area della sua diffusione si scontrò col lamento funebre e aspramente lo combatté, respingendolo non già nei suoi eccessi parossistici o per ragioni suntuarie – come era già avvenuto nel mondo antico –, ma proprio sul terreno religioso e in quanto costume pagano antitetico all’ideologia cristiana della morte. Si ingaggiò così, anche per tale ambito circoscritto, una lotta fra Cristianesimo ed eredità del mondo antico, una lotta storica, avvenuta una sola volta, ed esattamente individuabile in senso storiografico, col risultato che il lamento cessò, per entro la civiltà cristiana, di far parte organica del rapporto fra morti e sopravvissuti». (Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico)

la lista di Giuseppe Merico


Un bimbo di 6 anni è stato ucciso da un camion che faceva retromarcia all'interno del parcheggio di un supermercato. Una scarpa è rimasta sull'asfalto, l'altra ce l'ha ancora il bimbo al piede. La ruota posteriore del mezzo ha premuto sul cranio del bimbo. La sua testa adesso è integra fuori, ma rotta dentro. Se premi col dito a livello dell'osso parietale, questo affonda. Una signora di 86 anni è morta nel sonno. La signora ha i capelli bianchi che aderiscono alla fronte per via del sudore; se ne deduce che la signora deve aver sudato molto prima di morire. La parte del volto che poggia sul cuscino ha preso una piega tale che il volto pare accartocciato, l'effetto è reso più suggestivo dalle numerose rughe che ricoprono il volto dell'anziana donna. Un uomo di 56 anni dalla corporatura robusta è morto di cirrosi epatica allo stadio terminale. Quando i famigliari gli girano la testa da un lato, abbondante liquido biliare sgorga dalla bocca e sporca il cuscino. Un signore alto e magro, è morto all'età di 57 anni mentre si recava a pagare l'assicurazione dell'automobile della moglie. Un infarto gli ha rotto il cuore. Un signore che pesa 126 chili è morto dopo aver passato 8 anni in coma. La morte è sopraggiunta per soffocamento da espettorato. Il signore è morto alle 2 e 15 del mattino, aveva 68 anni. Un ragazzo di 16 anni è morto alla periferia di Bologna nei pressi di un giardino pubblico. L'hanno trovato col sangue che gli usciva dal naso. Hanno subito capito che era morto per una overdose da cocaina. Una signora di 34 anni ha perso la testa in un incidente stradale, un pezzo di metallo staccatosi dal volante gliel'ha tranciata di netto. I famigliari si sono chiesti se prima di metterla nella bara, la testa sarà ricucita al corpo o soltanto poggiata lì vicino. Un uomo di 36 anni si è appeso per il collo ai tubi dell'acqua calda che corrono orizzontali al soffitto nel suo garage. L'uomo ha utilizzato una robusta corda bianca e rossa pagata 8 euro e 50 al Despar. Una bambina di 10 anni è morta dopo 56 giorni di febbre. Nei 56 giorni la febbre non è mai scesa al di sotto dei 37,8 gradi e non ha mai superato i 41,5 gradi. Un medico ha detto che la grafica della temperatura della bambina assomiglia a una foto della Cordigliera delle Ande. Un uomo di 42 anni, grasso, è stato soffocato dalle mani di un uomo di 31 anni. L'uomo di 42 anni, prima di morire, ha avuto un erezione e si è chiesto come mai la sua morte stesse sopraggiungendo da mani più giovani delle sue. Un signore alto e anziano è morto all'età di 103 anni, ma non voleva morire. Un bimbo di 2 ore è morto. Pesava 1000 grammi. Una donna di 48 anni, prima di essere investita da un taxi bianco, si è ricordata di non aver spento la luce in cucina. Un signore dal doppio mento è morto a causa della rottura di un aneurisma dell'aorta discendente, la morte è avvenuta 2 minuti dopo che il signore si era svegliato dopo un sonno di 8 ore filate. Il signore soffriva di insonnia ed è morto con un inquietante sorriso sul volto. 12000 persone di età compresa tra i 2 e gli 85 anni sono morte dopo aver visto una gran luce nel cielo, poi il calore è stato insopportabile e li ha sciolti tutti. Molti si aspettavano uno scoppio più forte. All'1 e 35 del mattino un uomo alto e ingobbito ha iniziato a morire di solitudine dopo essersi reso conto di essere l'ultimo uomo sulla faccia della Terra. 158


«L’elettroshock, signor Latremoliere, mi riduce alla disperazione, porta via la mia memoria, annichilisce la mia mente e il mio cuore, mi trasforma in qualcuno che è assente e che conosce di essere assente, e si vede per settimane a inseguire il suo essere, come un uomo morto a fianco di uno vivo che non è più se stesso, ma che insiste che l’uomo morto sia presente anche se non può più rientrare in esso. Dopo l’ultima serie rimasi attraverso i mesi di agosto e settembre assolutamente incapace di lavorare e pensare, percependo di essere vivo». (Antonin Artaud)

l'uomo-sedia di Andrea Marcellino


Aspetta un attimo, soffermati su queste parole se riesci a decifrarle. Fai scorrere gli occhi ancora un poʼ più avanti se passa qualcosa, se senti il mio pensiero che si articola in te. Elettricità neurale, è questo che siamo, quasi identici mentre leggi il mio pensiero. - Vai a capo -. Ricordo, ricordo come i neoplatonici, come i platonici, come Platone, come Socrate; ricordo che avevo visto che sapevo già tutto, che dovevo solo tenerlo a mente. Siamo un ricordo. Sono il tuo ricordo, ora. Sono il mio ricordo, il ricordo di me stesso. - A capo -. Abbiamo percorso un poco la via in giù, in dentro, mi hai seguito in fondo al cervello, ci riesci o non ti ho fornito abbastanza scalini? - Ti scuso -. Riproviamo. Allora, stiamo parlando dellʼidentità che siamo, cosʼè? Una comunicazione tra me e te attraverso parole elettriche nel loro attivare neuroni. Neuroni che combinandosi tra loro formano ricordi che più o meno sono ciò che diciamo di essere, te e io, se sei umano. - Se leggo -. Platone diceva con Socrate: ricorda, te lo dico anchʼio, ri-cor-da. Ritrova la corda per scendere in te, calati in te stesso come uno scalatore soddisfatto, dopo aver fabbricato il castello per aria della tua vita, della mia vita, ricorda, trova la corda, ritorna in te, cosa cʼè? - Con la corda non mi ci vorrei impiccare, comunque non vola una mosca -. Una volta ho visto una sedia, abbiamo visto una sedia, ricordo. Ho un ricordo di una stanza dove è passato sicuramente anche Eraclito. - Eravamo in tanti in quella stanza quando vivevi da solo -. Siamo un ricordare ciò che siamo stati prima di cominciare a ricordare. Questo voglio essere. Ora. Del tempo in cui eravamo, nella scala evolutiva, “diversamente animati” siamo parte anche adesso, facci caso, sei la materia che ha impiegato miliardi di anni solo per potersi chiamare umana. - Una buona regola quando si impara a contare è tenere le unità già contate da parte, magari sulle dita, giusto per non dimenticare a quanto siamo arrivati. Tre -. Due. Sono di fronte a una sedia, è fatta di legno, di alberi, della foresta, di questo pianeta. Non mi stancherò mai di dirlo, di ripeterlo, con un amico-fratello abbiamo scoperto il mantra della materia che amava chiamarsi umana. - Da quel giorno lʼidea che ho sulla mia identità ha trovato una scorciatoia -. Siamo materia, siamo sassi, siamo molecole, siamo elettricità sfrigolante. - Siamo sedie... -. ...e quando ricapitoliamo la storia dellʼuniverso ce ne impossessiamo, universalizzandoci. - Tuttavia rimani una versione dellʼuniverso molto particolare. (A parole ti amo.) Uno. 160


«Il totemismo partecipa della conoscenza; le esigenze alle quali risponde, il modo stesso in cui cerca di soddisfarle, sono in primo luogo d’ordine intellettuale. In questo senso non ha nulla d’arcaico e di lontano». (Claude Lévi-Strauss). E invece L’animale di Franco Battiato ce l’hai presente? Totem... e tabù.

l'orso di Alessandra Sartori


Un mese fa sono andata dal dottor Limo. Mi piace perché ha sempre qualche afflizione nuova e un dottore malato lo trovo interessante, è come un santo che non crede ai propri miracoli e questo lo rende talmente imperfetto che lo avverto più simile a me e allora mi fido e ci parlo. Di solito riduco i problemi perché è propenso ad assimilarne i sintomi e così una mia cefalea può causarne in lui un’altra dall’identico profilo. Quel giorno però non finsi. La diagnosi del dottor Limo fu semplice e lineare: dentro il mio corpo si era annidato un orso bruno, di età adulta, maschio e con un carattere particolarmente ostile. La scienza non ha sempre una spiegazione, ma si può supporre che il mio corpo fosse diventato un ambiente favorevole ai plantigradi: zone tranquille, clima mite, ricco di alimenti. L’orso si arrampicava tra i polmoni, dormiva appoggiando la testa al muscolo cardiaco, cacciava. Trovavo tregua quando giungeva al letargo, ma il mio corpo non ha stagioni sincrone e allora il suo riposo non corrispondeva mai a quello dei suoi simili. Dormiva qualche giorno e poi si svegliava affamato. La realtà di un orso è la sua tana; per lui la terra non è rotonda, ma cava. Era quindi impossibile poter portare avanti quella convivenza. Il dottor Limo non sapeva trovare una cura che fosse valida, mi chiese allora in che modo occupassi le giornate. «Converto il piombo monetario in oro poetico», dissi digrignando i denti. Infilò la sua grossa lacrima in una lucida provetta di vetro. Non poteva curarmi, disse. Strinsi i braccioli della sedia, le giunture delle mani sbiancarono. L’orso correva, strappava grappoli di vene. «Quindi non invecchierò», dissi. Il dottor Limo mi guardò con dolcezza. «Nessuno invecchia più. Si vive un’eternità per ogni nuova collezione di prêtà-porter. I morti sono giovani come noi», e con una carezza mi congedò. A casa mi sistemai in poltrona. L’orso si svegliò e con un balzo si attaccò direttamente alla colonna vertebrale facendo trasalire, ad ogni zampata, un flusso di midollo spinale. Stremata dal dolore, mi addormentai. Una voce di bambina parlava spedita. «Quanti momenti decisivi ci sono stati nella tua vita?» Mi ero persa nel bosco. Avevo litigato con mia madre e, cercando rifugio oltre la porta, mi ero diretta verso la montagna. Nel buio non riconobbi gli alberi, i sassi, iniziai a singhiozzare finché il fiato mi si spezzò in gola. Due cuccioli d’orso si rincorrevano in capriole sulla dorsale. Due ricci di castagna rotolavano a valle, poi comparve la madre. L’occhio nero spalan162


cato nell’oscurità, la bava che colava e il collo proteso fin quasi a strozzarsi. Per un attimo la purezza di quell’avvertimento mi incantò in una calda tentazione di morte. La madre non odiava per se stessa, odiava per i figli. Mi svegliai sudata e in cerca di aria spalancai la finestra. Con lo sguardo incrociai il bosco. Una scossa del ventre mi fece trasalire. Le mani stringevano il davanzale. Il respiro mi si bloccò e in uno spasmo avvertii una palla enorme risalirmi Manuel Caprari

vuoto di memoria # 3 Con passo lento si avvicina E apre la dispensa in cerca di pretesti È una fatica E non di questi giorni Dipendere da annunci telegrammi piante grasse Infatti uscire E come niente forse A sgranocchiare orgasmi E per un soffio Nessuno che ti insegni a rammendare


l’esofago. Di colpo il muso di un orso mi uscì dalla bocca facendo scricchiolare la mandibola. Spingeva. Mugolava come un neonato. Le zampe passarono raschiandomi il palato e, in una spinta, uscì e si lanciò su per il bosco. Recise qualche testa di fiore e sparì sprofondando nella vegetazione. Quel pomeriggio mi raccolsi le gambe in un abbraccio e rividi nello specchio la fosforescenza del mio corpo. La luce che solo gli amori corrisposti irradiano in un mondo sfasato dove niente trova il suo posto.

fuori stagione A mezzanotte in chiesa le vecchiette orapronobis Al mio paese lo cantilenavano d’un fiato Col tono scaramantico di un quasi abracadabra Illuminate fioche da pesanti candelabri Io stavo solo in casa ad ascoltare i guns n’ roses Perché dell’heavy metal non m’è mai fregato niente E tantomeno del postrock del grunge e del crossover Ed ero ancora là dallo scoprir gli anni settanta Rintorpiditi da televisori e da sproloqui Parenti basculanti in acquavite su banchine Indiscrezionalmente transitabili costeggiano Natali capodanni e ancora pasque e poi natali E scorre lento il traffico slittando sulla neve Come se si potesse veramente andare altrove Davanti al caminetto acceso stappo un’altra birra Incerto poi se bere o se lasciarla lì a scialire Ricordi l’anno in cui s’era incastrato un pipistrello E vi è toccato prenderlo e buttare via il cadavere Incerti se nel multimateriale o nell’organico Finché non si è deciso di interrarlo nel giardino E poi quasi ad esorcizzare un velo di stanchezza Avete cominciato a far volare via vestiti Con la golosità che a volte scatta tra due estranei O come vecchi amici che non hanno più segreti A casa tua aspettavano che uscisse il diciannove Storditi da un silenzio che rivanga e seppellisce E quel tuo zio un po’ strano all’improvviso dà di matto E inizia a tirar ceci senza prendere la mira


ÂŤIn questo progresso scorsoio, non so se sono ingoiato o se ingoioÂť (Andrea Zanzotto)

genius loci di Wu Ming 2


Dicono che fosse una bella giornata, e alla fine anch’io la racconto così, ma non sono sicuro di ricordarmelo davvero. Faceva ancora buio quando mi hanno svegliato e sono sceso in cucina per la prima colazione. Sulla tavola c’erano le gallette col miele, che a casa nostra si mangiavano soltanto in una circostanza: le gare del babbo. Ne ho addentata una e subito mi è venuto in mente che giorno fosse. Domenica 3 aprile 1938. Il giorno delle Mille Miglia e della scommessa con il barone Frasca di Monte San Savino. All’edizione precedente, la numero undici, mi ero guadagnato il diritto di assistere alla corsa. Avevo compiuto sette anni, che secondo mia madre era l’età minima per partecipare a un evento così pericoloso. S’era lasciata convincere dai cartelli sui muri: «Mamme! Attente ai vostri bambini» e non contava dirle che tanti miei compagni ci andavano già da più piccoli, e che il maestro ci esortava sempre a rimirarla, quella potente espressione dell’Italia fascista, collaudo di motori e disciplina per un’intera nazione. Il babbo mi aveva portato sul rettifilo di Villa Cafaggiolo, dove i piloti si lanciavano fino ai duecento all’ora, per poi subito scalare in vista della curva. Noi ci eravamo sistemati proprio lì, sul ciglio, di fronte alla costola di balena, e in attesa delle prime automobili ascoltavo la storia di quell’osso, saltato fuori dal fango e messo in bella vista sulla facciata del casale, a riprova che il Mugello, in tempi antichi, era stato un grande lago salato. Stavo per ribattere che le balene sono animali da oceano, quando un signore coi mustacchi mi interruppe, lodando mio padre perché finalmente portava il figlio «a riverire gli assi del motore». Botta e risposta, batti e ribatti, i due si misero a litigare e io non ci capii nulla. Solo anni dopo gli argomenti di quella baruffa entrarono nella mitologia familiare. Mio padre, Silverio Nencini, aveva uno studio da fotografo e nel tempo libero si dedicava alla corsa. Anche l’uomo coi baffi, Alessandro Frasca di Monte San Savino, amava molto le corse, solo che il mio babbo andava a piedi e il barone in automobile. Uno aveva scoperto la maratona negli Avanguardisti, ai tempi del ginnasio, l’altro aveva pilotato la sua Alfa su vari circuiti stradali, comprese le ultime edizioni al Mugello. Il barone si alzava sempre di buon mattino per andare a Firenze a curare i suoi affari. Mio padre, prima di aprire bottega, si allenava per un paio d’ore sulle strade di campagna. Spesso capitava che i due s’incontrassero, perché la villa dei Frasca era un paio di chilometri sopra casa nostra, sulla via che sale a Barberino. Il barone strombazzava in segno di saluto, ma secondo il babbo faceva 166


anche di tutto per stringerlo verso il fosso, alzargli polvere in testa e schizzi di fango. Quel sospetto nasceva da certi discorsi che il Frasca teneva sempre in pubblico, dopo la messa oppure dal barbiere, dicendo che il correre a piedi era un cimento da nulla, se paragonato a quello del pilota, dove servivano nervi a posto, resistenza fisica, occhio esperto e padronanza del mezzo. «Il podismo è una scienza esatta», ribatteva mio padre, «non si tratta di andare veloci, come san fare anche il cane e la lepre. Si tratta di trovare l’andatura giusta. Per correre una maratona bisogna sapersi comandare, per correre con l’auto basta comandare una macchina». Allora Frasca citava le gare di regolarità per automobili, come lo stesso Circuito del Mugello, dove si dovevano fare quattro giri da sessantasette chilometri in un’ora e mezzo, e chi ci metteva di più o di meno veniva penalizzato. Il babbo ribatteva che, guarda caso, lì al Mugello non si correva più, e tutte le gare più importanti erano basate sulla velocità delle macchine, mentre il podismo era pura filosofia: conosci te stesso e l’uomo misura di tutte le cose. Era una vecchia diatriba che andava avanti dal tempo del liceo, quando il giovane barone si fermava davanti al caffè, con la Fiat 1500 del padre, e senza spegnere il motore interrogava i presenti sul genere del nome “automobile”. «Sapete perché si dice gli aeromobili e non si dice invece gli automobili? Perché questa è una macchina obbediente, elegante, superba come una bella donna». Poi schiacciava l’acceleratore, ingranava la marcia e salutava tutti con la mano guantata. «Una di quelle donne che voi non avrete». La lite di quel 1937, però, fu diversa dalle altre, più aspra, forse perché la mia presenza spingeva il babbo a un maggior puntiglio. Fatto sta che il giorno successivo Frasca si presentò a casa nostra per proporre una sfida. «Il prossimo anno», disse con tono solenne, «intendo partecipare alle Mille Miglia. Come sapete, il percorso parte da Brescia, va per Bologna e la Futa fino a Roma e quindi torna indietro, per la costa adriatica e la via Emilia, passando da Bologna una seconda volta. Mi dicono che il tratto da qui a Roma, e poi a Bologna, è assai duro, e che difficilmente un’auto come la mia impiega meno di dieci ore per completarlo. Mi dicono altresì che da qui a Bologna ci sono circa cento chilometri e che farli di corsa in meno di dieci ore è un’impresa altrettanto difficile. Propongo quindi di partire insieme, al mio passaggio da Villa Cafaggiolo, io verso sud, voi verso nord, e di vedere chi dei due arriverà a Bologna per primo». Mio padre chiese qualche giorno per pensarci. Studiò le mappe, fece i suoi calcoli e alla fine decise che la proposta del Frasca era equilibrata, una sfida bella e terribile, e non restò che accordarsi sulla posta. Il barone mise in palio la sua automobile, un’Alfa Romeo 2300 sei cilindri, di colore amaranto, uguale uguale a quella del Duce. Il babbo rispose che 167


non poteva accettare: una macchina del genere costava come sei anni del suo lavoro. Ma il barone insistette, disse che i soldi non erano un problema, e che il valore simbolico della posta, quello solo contava. Ognuno doveva giocarsi il mezzo che gli sarebbe servito per compiere l’impresa. «Volete che vi offra il cuore e le gambe?», domandò mio padre. «So che me li invidiate, ma non vedo come si possa fare». «Allora mi darete le scarpe e l’abbigliamento da corsa», rispose l’altro. «E pazienza se non valgono un sedile della mia Alfa Romeo. Si sa che la vostra è una disciplina per poveracci». Il babbo decise di non fare l’orgoglioso. Accettò la posta e cominciò gli allenamenti. Nel frattempo, anche il barone metteva alla prova le sue doti da pilota, cercando di imitare Varzi e Nuvolari. Quando il RACI di Brescia comunicò il tracciato della XII edizione, fece una prova generale sulle strade prescelte. E quindi Firenze, Pisa, Livorno, Grosseto, Roma, Terni, Fano, Bologna. Subito si diffuse la notizia che quel suo test era andato male, molto male. Una giornata intera per fare tutto il giro, mentre mio padre, nella maratona che s’era corsa a Lucca, aveva fatto segnare un tempo sotto le tre ore e si era piazzato al dodicesimo posto. Fu allora che il barone cominciò a giocare sporco. Mise in giro la voce che per mio padre la sfida tra di loro aveva un significato molto più che agonistico. La sua, disse, era una battaglia politica e di opposizione. Le simpatie di mio nonno per il socialismo, d’altra parte, erano ben note anche alla polizia. Non era quel correre contro un’automobile il simbolo dell’Italia arretrata e proletaria che vuole riportare indietro il Paese fascista? Non l’aveva detto bello chiaro, il Duce, che l’automobile è un disinfettante sociale contro l’infezione bolscevica? E non era la sua Alfa 6C 2300B Gran Turismo una macchina pressoché identica a quella di Mussolini? La maggior parte della gente, in paese, disse che al Frasca gli s’era guastato il cervello, ma lui nulla, continuò a ripetere le sue accuse, finché il 10 febbraio non partì da Brescia un altro podista, Costantino Seggioli, che voleva fare tutto il percorso delle Mille Miglia e arrivare al traguardo, il 3 aprile, un’ora prima dei primi concorrenti. «Visto?» commentò mio padre. «La politica non c’entra. Se andare a piedi contro le macchine fosse tanto rivoluzionario, non l’avrebbero mica fatto partire, questo qui». Il barone non si diede per inteso, rincarò la dose, fece stampare un migliaio 168


di volantini con un’intervista del Duce, uscita sullo Sport Fascista, dove Mussolini diceva che l’automobile è una garanzia per l’ordine sociale e che chiunque ne compri una diventa «immediatamente antirivoluzionario», perché non vuole saperne di quel comunismo che potrebbe portargli via la sua vettura. E così, in un crescendo di tensioni e frecciate, giunse il giorno della partenza, di nuovo sul rettifilo di Cafaggiolo, giusto un poco più avanti dell’osso di balena, dove cominciava uno sterrato per andare a Barberino senza fare la statale. Arrivai alle sei del mattino, col babbo e la mamma, mentre ancora passavano le categorie inferiori: le Topolino, le settecinquanta, le mille senza compressore. La classe del barone, partita da Brescia intorno alle cinque, non sarebbe arrivata prima delle sette e mezzo, mentre per i più veloci, gli eroi del volante fatti di carne e pistoni, c’era da aspettare almeno fino alle otto. Io mi lasciai ipnotizzare per una mezz’ora dalla sfilata di auto, poi presi a giocare per terra con la macchina da corsa che mi aveva regalato zia Nilde, un fuso di legno con quattro ruote e il pilota scolpito nell’abitacolo, tutt’uno col bolide. Alle sette mi tirai su e puntai di nuovo gli occhi sulla strada. Il babbo faceva su e giù per lo sterrato, per scaldare le gambe e sciogliere i nervi: io dovevo fissare le auto e avvisarlo all’arrivo del barone. Era un compito di fiducia e mi seccava doverlo condividere con gli altri paesani, che s’erano fatti attorno e aspettavano sul ciglio, pronti a seguire mio padre almeno per un tratto, chi a piedi e chi in bicicletta, chi per incitarlo e chi per controllare che non prendesse aiuti da nessuno. Passò almeno un’altra ora, poi il richiamo dei motori si fece più assordante, trattenni il fiato, e vidi passare Biondetti, Pintacuda e Dusio, con le loro Alfa 2900 da otto cilindri, e i fratelli Wild, detti “Ventuno” e “Ventidue”, chissà poi perché. E dietro i francesi e gli altri stranieri, con le Talbot, le Bmw e le Delahaye, che rispetto all’Alfa Romeo erano mezze lumache, senza alcuna speranza di vincere la gara. Qualcuno calcolò che il Frasca, già superato dai più forti, non stava tenendo l’andatura. Molti scommisero che avrebbe recuperato dopo il tratto appenninico, sull’autostrada Firenze-Mare e sull’Aurelia. Dopo un paio di falsi allarmi, finalmente lo riconobbi a metà del rettifilo, col suo giardiniere di fianco e l’Alfa amaranto coperta di polvere, che in confronto alle prime sembrava andasse lenta. Mia madre aiutò il babbo a infilarsi lo zaino, con dentro la borraccia d’emergenza, il miele in tubetto e la macchina fotografica. Io provai ad andargli dietro, anzi di fianco, perché mi aveva spiegato che un maratoneta deve seguire il suo ritmo, e avere davanti qualcuno che va troppo forte può 169


confonderlo e farlo sbagliare. Ma c’erano lo stesso un sacco di grulli che non la sapevano, questa regola, e che per incitarlo gli stavano innanzi con la bici e gli dicevano: «Dai, dai, di questo passo arrivi domani». Gente che ragionava da pilota e non capiva che il podismo è una scienza esatta, e pure una filosofia. Restai di fianco al babbo fino alla casa degli Innocenti, con la mia macchina di legno in una mano e il berretto nell’altra, poi mi mancò il fiato e dovetti fermarmi, per guardarlo allontanarsi e salutare gridando. La giornata scivolò via tra la messa, il pranzo coi nonni, i compiti di aritmetica e un bagno caldo. Ero ancora a mollo nella vasca, quando la campana della pieve suonò per il vespro. Mio padre e il barone erano scomparsi, uno verso nord, l’altro verso sud, da oltre dieci ore. Uscii dall’acqua e ascoltai la radio snocciolare l’ordine di arrivo a Brescia. Pintacuda, il mio preferito, non ce l’aveva fatta per due secondi. Speravo che un fiorentino riscattasse al volante il pessimo campionato dei Viola, e invece aveva vinto il sardo, Clemente Biondetti, alla media di centotrentacinque chilometri all’ora, un tempo da pazzi. Purtroppo, disse il cronista, la magnifica gara era stata segnata da un grave incidente. Al secondo passaggio per Bologna, una Lancia era uscita di strada e aveva ucciso dieci spettatori. Chiusi gli occhi e mi apparve un presagio: il babbo era arrivato a Bologna, anche lui con un tempo da primato, e subito s’era unito alla folla, sul marciapiede, per fare marameo al barone Frasca, ma mentre si sporgeva per guardare, un mostro di lamiera aveva perso il controllo e gli era finito addosso. Cercai di scacciare l’immagine dal cervello, ma più mi affannavo e più quella ritornava, con i contorni nitidi e precisi di una fotografia. Verso le otto venne a casa un domestico e ci avvisò che il Frasca si era dovuto ritirare, per via di un brutto incidente poco prima di Fano. Mia madre lo pregò di avvisare la polizia, dal telefono della villa, che di Silverio Nencini non si avevano ancora notizie e di sicuro gli era accaduto qualcosa sulla strada per Bologna. Mamma si sforzava di apparire tranquilla e di sparecchiare la cena come tutte le sere. Io andai a spogliarmi e mi infilai nel letto. Dissi una preghiera e mi convinsi che non avrei chiuso occhio. Invece, senza avvisare, il sonno mi prese e mi portò lontano. Due poliziotti bussarono alla porta due ore più tardi, ma si trattennero poco, e io non li sentii. Mia madre preferì lasciarmi dormire. Il mattino dopo, quando venne a svegliarmi, aprì la finestra e fuori c’era il sole. Io mi preoccupai, perché per andare a scuola mi alzavo sempre col buio, e la luce che entrava in camera significava festa, malattia, o “motivi 170


di famiglia”, come quando era morto il nonno Lamberto. E siccome la domenica era appena passata e non avevo né febbre né raffreddore, doveva esserci per forza un motivo familiare. «Tuo padre ha vinto», mi disse la mamma con un bacio. «Andiamo a prenderlo al treno». Dieci minuti dopo ero già sulla porta e il calesse era pronto sull’aia. Spronammo la cavalla e in poco più di mezz’ora arrivammo in paese. Sul binario c’era parecchia gente, si vede che la notizia aveva già fatto in tempo a girare. Il barone Frasca ci venne incontro coi suoi mustacchi e quando si tolse il cappello per salutare mia madre, vidi che aveva la testa tutta fasciata. Mi fece una carezza in capo e disse che il mio babbo era un eroe e dovevo andarne fiero. Si vede che la botta gli aveva messo il cervello di nuovo in funzione. Io mi ricordai quel che diceva sempre mio padre, che nello sport non esistono eroi, tutt’al più campioni, e gli risposi che il babbo era uno di loro. Poi il treno arrivò, si aprirono le porte, il babbo scese giù e io corsi ad abbracciarlo, mentre gli altri paesani urlavano e spingevano per portarlo in trionfo. Quella sera, dopo i festeggiamenti, mi raccontò che un boscaiolo di Loiano gli aveva indicato una scorciatoia per evitare i tornanti della statale. Lui l’aveva imboccata, non c’erano divieti in proposito, ma i due che lo seguivano in bicicletta – un amico suo e un amico del barone – non erano riusciti ad andargli dietro, per via del fondo roccioso e di un ruscello che tagliava il sentiero. Allora s’erano dati appuntamento più in basso e il babbo aveva guadato l’acqua, proseguendo da solo, finché non s’era sentito male ed era crollato per terra in mezzo al bosco. «Quando ho riaperto gli occhi», mi disse, «la luce del sole era già molto bassa e una bella signora, simile alla tua mamma, mi versava acqua sulla faccia con un bicchiere d’argilla. Appena mi sono mosso si è chinata un attimo sull’erba ed è indietreggiata fino a una fontana scolpita in un ceppo. Io ho drizzato la schiena e ho visto per terra il bicchiere con l’acqua dentro. L’ho preso e ho bevuto lunghi sorsi, sentendo che i muscoli tornavano in forze, piano piano, e che il bicchiere non si vuotava mai. Stavo per ringraziare, quando ho visto una cosa che mi ha tolto le parole. La signora indossava una veste lunga fino alle caviglie, ma quelli che spuntavano oltre l’orlo della stoffa non erano piedi. Erano zoccoli di cerva. Allora, tremando, ho sfilato la Leica dallo zaino e l’ho inquadrata, e mentre scattavo la bella signora mi ha sorriso e ha chiesto se non mi bastavano tutte le foto che le avevo già fatto». «E tu, babbo?», chiesi impaziente a mio padre. «Io le ho chiesto scusa, poi ho ringraziato, insomma ero abbastanza confuso. Ho raccolto le mie cose e ho ripreso la corsa, mentre in cielo spuntava 171


la prima stella. Ero convinto di aver perso, ma volevo lo stesso arrivare in fondo. E alla fine, eccomi qua». Tirò fuori dallo zaino il bicchiere d’argilla, me lo mise in mano, e disse che appena erano pronte mi avrebbe mostrato anche le fotografie. Io guardavo mia madre, cercando di scorgere nella sua espressione quel mezzo sorriso che scappa agli adulti quando fanno finta di credere a una bugia per bambini. Ma mia madre era seria e io da quel giorno fui certo che il babbo aveva detto la verità, anche se la nostra acqua, nel bicchiere d’argilla, finiva sempre dopo cinque sorsate. L’indomani arrivò a casa un trattore tirandosi dietro l’Alfa Romeo del barone. Era tutta ammaccata da una parte, le mancava il parabrezza e una delle ruote era piegata in modo strano, all’infuori, come la pinna di un grosso pesce tirato su con la lenza. Mia madre avrebbe voluto rivenderla subito. Disse che la riparazione doveva essere molto cara e anche una volta rimessa a nuovo, una macchina come quella costava soldi a palate, tra benzina, bollo di circolazione e altre piccole cose. Il babbo le rispose che aveva ragione, ma quanto a venderla, non c’era nemmeno da pensarci. «Con il barone siamo rimasti d’accordo per una posta simbolica. Sarebbe offensivo ricavarci dei soldi». Quello stesso giorno mi mostrò la fotografia che aveva scattato alla signora del bosco. Mi parve molto bella e piena di magia, ma c’erano soltanto felci, tronchi d’albero e foglie. «Si vede che le fate non impressionano la pellicola», mi disse in tono convinto e io pensai che doveva essere vero, altrimenti perché il babbo avrebbe fotografato il nulla? Aveva fatto molti altri scatti durante la gara – borghi di montagna, panorami, volti di vecchi boscaioli – e quello era l’unico senza nulla da vedere. Per qualche tempo mi accontentai di quella risposta, poi la favola della fata non mi bastò più. Chiesi a mio padre di raccontarmi la verità, ma la sua storia non cambiò di una virgola, ferma e immobile, come l’Alfa Romeo del barone, mezza scassata in un angolo del cortile. Cominciai ad aggirarmi per il paese a caccia di versioni alternative. Agli amici e ai parenti più stretti, Silverio Nencini aveva raccontato di essere svenuto e di avere ripreso la gara due ore dopo, appena se l’era sentita. I due ciclisti che erano con lui confermavano di averlo aspettato sulla strada per molto tempo, di aver provato a cercarlo nel bosco, poi di aver rinunciato inforcando le biciclette, in discesa, per andare a chiedere aiuto nella caserma più vicina. Poco prima di Pianoro, avevano ritrovato il babbo che correva lungo la strada a grandi falcate, come se la gara fosse appena cominciata. 172


Era più o meno il racconto che aveva fatto anche a me, con l’unica differenza della bella signora, dell’acqua e del bicchiere di terracotta. Forse agli altri non aveva voluto parlarne per paura che lo squalificassero per l’aiuto ricevuto. Ma con me, quando per metterlo alla prova gli domandavo di ripetere tutta la storia, non s’imbrogliava mai e aggiungeva sempre gli stessi particolari. Dopo la guerra facemmo riparare la macchina e mio padre ci andò a Firenze un paio di volte. Disse che consumava troppa benzina e iniziò a mettere da parte i soldi per comprare la Seicento, che fu la nostra prima, vera automobile di famiglia. L’Alfa Romeo l’abbiamo usata un’altra volta soltanto, per il mio matrimonio. Poi, il giorno del suo ottantesimo compleanno, quarantacinque primavere dopo la XII edizione delle Mille Miglia, mio padre volle raccontarmi la vera storia della gara contro il barone Frasca. «Fino alla Futa è andato tutto bene», mi spiegò, «erano posti che conoscevo, visti mille volte, e non c’era nulla che potesse distrarmi dalla corsa. Con un occhio all’orologio e l’altro alle pietre miliari, sono andato su al ritmo di sei minuti al chilometro, il tempo che m’ero proposto di fare per metà della gara». Come ho già detto era una bella giornata e mio padre non faceva il fotografo solo per mestiere. Era la sua passione, insieme alla corsa, e spesso cercava di conciliarle in una sola occasione. «Al Passo della Raticosa mi sono apparse le Alpi, nitide e precise nonostante la distanza, quasi fossero incollate sul cielo in fondo alla pianura. Non le avevo mai viste così perfette e ho pensato che forse non lo sarebbero più state». Incapace di resistere, il babbo s’era fermato e aveva impugnato la Leica. Qualche secondo per calmare il cuore e reggere la macchina con mano ferma, poi le due dita sull’anello del fuoco, il tempo e il diaframma calcolati senza esposimetro, due scatti rapidi in sequenza e giù di corsa verso Monghidoro, con le Alpi sempre in faccia e gli occhi che guardavano il mondo come un mosaico di inquadrature, scatti possibili, immagini da non perdere e fissare su pellicola. Così il babbo aveva cominciato a fermarsi sempre più spesso e a fare tutte le foto che gli garbavano davvero. «Mi sono detto che il maratoneta poteva battere il pilota, ma la macchina fotografica doveva sconfiggere l’automobile: l’Alfa correva incontro al paesaggio, cercava di afferrarlo, ma quello sempre le sfuggiva, di lato e oltre il vetro posteriore. La Leica, invece, poteva copiare uomini e montagne, e portarli con sé fino alla camera oscura. Tra una foto e l’altra, però, ho dovuto aumentare il ritmo, per stare nella media che avevo stabilito, e quando il boscaiolo di Loiano mi ha indicato la scorciatoia, ho deciso di prenderla, nonostante i sassi e il ruscello, per provare a recuperare il tempo perduto». Arrivato in una radura nel bosco, il babbo sente le budella premere in gola, 173


si piega a metà e vomita sul muschio. Non è una cosa strana, gli è capitato altre volte nello sforzo della corsa. Beve dalla borraccia per sciacquarsi la bocca e si sdraia per terra, solo un attimo, per ritrovare la concentrazione e la voglia di soffrire. Solo che l’erba è morbida, la luce pure e il profumo di resina conforta il respiro. Il babbo chiude le palpebre e si addormenta. Nessun collasso, nessuno svenimento. «Può succedere. È capitato anche al grande Shizo Kanakuri, alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912. Sono stato nel mondo dei sogni due ore, forse più, finché non ho sentito l’acqua fredda che mi colava lungo le guance e quella bella signora con le zampe da cerva che me la versava in faccia col bicchiere». Allora lo guardai e scoppiai a ridere, convinto che stesse ancora scherzando. Invece lui era serissimo e senza farmi caso terminò il racconto. «Il resto lo sai: mi sono tirato su, ho puntato la Leica e la bella signora mi ha chiesto se non mi bastavano tutte le foto che le avevo già fatto. Io non le ho risposto, ma ho scattato lo stesso e mi sono rimesso a correre. Sono arrivato a Bologna per le dieci di sera, quando anche le ultime auto erano sfilate davanti a Porta San Donato e la Lancia Aprilia di Mignanego aveva ucciso sette bambini, due giovani e un cieco, che era sceso in strada per sentire il rumore delle marmitte e le grida della folla». Alla fine il babbo mi fece promettere che non avrei raccontato la sua storia prima di compiere anch’io gli ottant’anni, vai a capire perché. Adesso li ho compiuti e ve l’ho potuta raccontare. Le foto di quel giorno sono finite in una mostra e poi dentro un libro. Il volto dell’Appennino, si chiama, e in effetti, se le guardate bene, sembrano tanti particolari di una stessa faccia, come se avessero tutte qualcosa in comune. L’Alfa Romeo sei cilindri la useremo un’ultima volta, per il matrimonio di mio nipote, e poi, visto che il barone Frasca non può più offendersi, la venderemo a un collezionista. Ci ha offerto centocinquantamila euro e tutto sommato mi sembra un buon affare.

Questo racconto è stato scritto espressamente per Argo nel dicembre 2009 e poi inserito con il titolo Notturno 4 in Wu Ming 2, Il sentiero degli dei, Ediciclo Editore, 2010, una guida narrativa alla Via degli Dei, che in cinque giorni di cammino porta da Piazza Maggiore (Bologna) a Piazza della Signoria (Firenze). Nel maggio 2010 Genius Loci è diventato anche un audioracconto, ovvero una lettura musicata, con il titolo Notturno 4 Le Mille Miglia. La si può ascoltare e scaricare all’indirizzo http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=405

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Code 46 (2003) di Micheal Winterbottom: in un prossimo futuro, un detective che indaga su un traffico di documenti falsi si innamora di una donna che le leggi genetiche vigenti gli impediscono di avvicinare. Esco dal cinema. Sette anni dopo, a Parigi, mi vengono a dire che un amico caro e perduto – ho una foto di lui con un’aureola – non avrà figli. «È triste morire senza figli» (Nanni Moretti)

until April. Contatti di Daniela Shalom Vagata


Chiamatemi wakaranai perché wakaranai vuol dire “non so” e io non so. Ho immaginato un glass box. I’m in a glass box, I’m in a glass box. Da lì potevo vedere tutti e tutti potevano vedermi, ma nessuno mi sentiva e le mie parole scivolavano come corpi informi. Dal mio glass box sono identificabile, chiara e netta come un numero; ma dal mio glass box i miei inner needs si perdono inascoltati. Più si va avanti col vivere in Giappone, più ci si avvicina con grandi sforzi alla lingua, meno si capisce. Lo scoglio, il nocciolo duro, lo scalino è la differenza di mentalità. Qui le mie parole non bastano: sono troppo indefinite e troppo generiche per esprimermi. Oppure, dove tutto è ancora nuovo, l’umanità delle parole diventa dissidio e centimetri di terra che distanziano. È da qui che è iniziata la mia ricerca? Vale la pena raccontarla? Cosa volesse dire comunicare, esprimermi con le parole e con il corpo, o comunicare solo con il corpo per domandare in un circolo vizioso a cosa servano le parole l’ho scoperto così. Ho cominciato a cercarmi, intuendo che quelle parole mancate potessero essere sostituite da qualcos’altro e che il glass box potesse incrinarsi con l’appropriazione di uno spazio fisico più che verbale. Ho cercato una comunicazione più profonda, meno mediata da quelli che ancora sento come segni indecifrabili, tremendamente contingenti perché messi alla prova da un’esperienza breve dove il passato è nullo: i superstiti di un mondo avvicinabile ma intraducibile. I gesti del corpo sono potenti, profondi, significanti, così forti ed elementari da surclassare ogni parola, ma anche difficili perché diventano vaghi se non si è abituati a decifrarli. E si torna al bisogno di parlare. Ma il corpo racconta una storia diversa da quella narrata a parole. Il corpo è la mappa del passato e della vita presente, di quello che non si è detto e non si visto, o più semplicemente di cui non si è stati del tutto consapevoli. Il corpo sfugge al controllo razionale ed è a più diretto contatto con le emozioni. Cosa sono le emozioni mi sono chiesta allora: movimenti, processi chimici, cellule che nascono, vivono e muoiono, indipendenti dalla mia volontà. Una guancia che arrossisce, un’iride che illanguidisce, le spalle che s’incurvano. Io sono il mio corpo. Il corpo è il grande incognito: l’oscurità, la notte nel Minamidera di Tadao Ando, l’inconscio. Io sono il corpo dove trascorrono emozioni, gesti, parole, balbettamenti. Io sono il corpo che mi è sconosciuto: non posso vederne alcune parti e non posso vedere il mio viso. A volte sono senza nome. Ma l’altro può vedermi e chiamarmi. Io sono il mio corpo, e vorrei che le dita si allungassero e contemporaneamente toccassero le pareti opposte della mia stanza. Io sono il mio corpo, e vorrei comunicare. Okayama, Giappone, città nell’Honshu centrale. Le due di un pomeriggio 176


assolato in un tempio improvvisato teatro, mentre risuona Un bel dì vedremo da Madame Butterfly. Yuki trasforma il silenzio in parole. Yuki sta sotto il tavolo, Kyoko è sopra. Kizahashi è il titolo dello spettacolo. Letteralmente kizahashi significa gradino e indica le scalette che conducono al palcoscenico nei drammi di Noh. Lui non può salire, lei non può scendere: mancano le scale. Le note di Madame Butterfly si trasformano nel ronzio di zanzare e mosconi e nel gracidare delle rane. Lui soffre, scaccia gli insetti, si gratta; lei protesta, batte i piedi, fa cadere le lame affilate di centocinquanta coltelli. Lui alza un braccio, lei abbassa un piede: non si toccano. In tutta la scena sono illuminati soltanto i pochi centimetri quadrati del tavolo dove i due ballerini si muovono e si cercano, senza poter uscire dal loro spazio-gabbia. Ma Yuki e Kyoko si sentono senza gridare, si riflettono senza vedersi. L’invisibile e l’intangibile sono evidenti e il senso scorre da sopra a sotto il tavolo: le scale ci sono. Quando si danno spazi ristretti in cui muoversi, si devono cercare tutte le possibilità da realizzare, in modo che lo spazio occupato dal corpo e il corpo stesso diventino espressivi e proiettino significati multipli. Forse si arriverà a tendere l’arco, ma si riconoscerà anche il limite, lo si comprenderà e magari lo si accetterà. Ciascun uomo è abile e disabile a suo modo, e non esistono movimenti giusti o sbagliati, perché il corpo nella sua singolarità comunica emozioni esclusive e irripetibili. Perché no, allora? I muscoli delle spalle contratti, il collo teso, il ventre sbilanciato in avanti e le ginocchia piegate come un ballerino di butoh, ma che invece di ballare vive; o come un gatto paralizzato del terrore. Perché no, allora? I gesti al posto delle parole, quando non ci sono parole per raccontare. Nella fantasmagoria degli specchi e delle luci ho rivisto un’immagine di me sconosciuta e dimenticata. A danza sono una studentessa timida che pensava di non esserlo. A lezione Lui mi guarda ridere per timidezza e fermarmi per sfiducia. Faccia a faccia con il sogno di un movimento perfetto, l’immagine nei suoi occhi nudi ne restituisce uno goffo. Ma lentamente, nelle vertigini dell’emozione, lui mi ha vista danzare. Abbiamo visto la libertà. Spesso i suoi gesti che rifanno i miei restituiscono le verità più nascoste. Il mio corpo ha paura di capriole, ruote e salti a terra. Il mio corpo ha paura. Lui l’aveva capito prima di me; io non lo sapevo. Così ho ricominciato a chiedermi a cosa servano le parole e i gesti, quali tra i due siano più veri. Perché parlare se è il corpo a esprimere l’inesprimibile? Ma anche le parole sono parte del corpo… Lo guardo: a volte la balbuzie se lo mangia. Quando danza è un angelo, ma a volte lui non sente e non parla. Voglio parlare con lui. 177


Giacomo Sandron

cossa vustu che te diga Cossa vustu che te diga, Portogruaro tera marsa, mi te amo che vol dir che te me fa morir che a forsa de dai e dai sul liston me son frugà i pie, ‘l cuor e ‘l sarvel a spetar che vignisse su ‘na robuta quaunque da ti tera marsa, desmentagada che no la serve se no par pianser. Te mancarà e man de me nona i so grosi dei come gropi e duri che te li ficava drento in senocioni su la cuiera, col soriso tai oci, te mancarà i so fondi de cafè e le scorse dei ovi che te mis-ciava tuto ‘l pastrocio che a faseva par farte pì grassa e pì bea.

Cosa posso dirti | Cosa posso dirti, Portogruaro / povera terra, io ti amo / che vuol dire che mi fai star male / che a forza di / attraversarti la piazza / mi si son consumati i piedi, il cuore e il cervello / aspettando che germogliasse / una piccola cosa qualunque da te / povera terra dimenticata / che non servi a nulla se non a disperarti. / Ti mancheranno le mani di mia nonna / le sue dita dure, grosse come nodi / che ti affondava dentro in ginocchio / nell'orto, col sorriso negli occhi, / ti mancheranno tutti i fondi di caffè / e i gusci di uovo con cui ti impastava / il pastrocchio che combinava / per farti più bella e feconda. 178


sarei scivolato lento sarei scivolato lento tra le gambe di mia madre stare mezzo dentro mezzo fuori con le mani intrecciate sulla nuca e ricordarmi per sempre imprimermi tutto addosso l'umore caldo delle sue budella attraversate fino a lì. sarei rimasto ancora un poco a lasciarlo passare il mondo un minuto, non di più, giusto il tempo di capire come fare a sbadigliare imparare a respirare senza scottarmi i polmoni. sarei stato fermo come indugiando sull’uscio di casa a pensare cos’è che ho dimenticato anche stavolta, che da quando fuori o dentro che mi trovo troppo spesso non sono stato più quella quiete che sapevo perché sono nato che ancora dormivo. * Forse avrà ragione Giovanna dice che in autunno bisogna vestirsi come le foglie e sprofondare nella terra verdi e marroni e disfarsi. Sono così precario che le scarpe mi andavano bene 179


ieri oggi mi battono sul dito e stringono e avanti così di questo passo si sfalderanno tutte tra le pozzanghere di fronte agli stucchi della sede della RAS in via Mazzini che c’è una luce alle sei della sera, in via Mazzini, una luce come non ne fanno più. I piedi non chiedevano sosta ma soltanto di rallentarlo, il passo, per appoggiarsi meglio, fare le prove per la strada con i lacci tenuti laschi le cuciture cedano alla pianta larga, al collo che fracca, far un do respiri prima de darghe fogo a 'l spagnoleto che se proprio ga da brusarse sti polmoni almeno che i lo fassa pian pianeto con il ritmo se non altro che ci lega a sto grumo de spudazzo che 'l va in tondo par poder vardarse da lontan fra sento ani e poter dire di sentire che si stava come dopo una lunga malattia tanto tempo fa. *Allora non sarebbe male non sarebbe male lasciare tutto con il sole che filtra dai rami e lecca la ghiaia, no davvero, non sarebbe male non sarebbe male smollarmi in questa quiete d’ossa e mormorio ramingo rappreso attorno all’ultimo rosso barlume sfrangiato sul dorso d’un passo.

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identità mutanti umano transumano postumano di Simone Colombo

Un affascinante viaggio attorno al corpo, sul corpo, dentro al corpo, alla ricerca dellʼidentità, senza mai trovarne una definitiva. Si presenta così, volutamente senza un vero punto di partenza e soprattutto senza un punto di arrivo, lo studio di Francesca Alfano Miglietti (FAM) Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee [1997], Bruno Mondadori, Milano, 2008. Lʼautrice indaga i rapporti tra corpo e linguaggio: il corpo come linguaggio e il linguaggio del corpo, normalmente pensati come generatori di identità, rivelano invece la loro peculiarità nellʼimpossibilità di una definizione. Uno scenario culturale, sociale e artistico che si interroga sullʼidentità concependola ormai come una scelta multipla in continua mutazione-contaminazione.

La definizione, meta di ogni saggio critico, è rifiutata da FAM. È contraddetta dai risultati dellʼindagare i frammenti, le ambiguità, le contaminazioni, le reinvenzioni e le crisi del corpo. Recuperato negli anni Sessanta, sottratto al controllo definitorio delle istituzioni, esso si pone come privo di forma: un corpo che non è ma che diviene. Descrizione in luogo di definizione, dunque, come unica via percorribile per lʼautrice. Le fonti sono disparate, dal cinema di Cronenberg alla letteratura di Ballard, passando per la filosofia di Deleuze (ma la lista è molto più lunga), incrociate, anzi contaminate con le esperienze artistiche più estreme. FAM descrive uno scenario di relazioni reciproche in cui lʼidentità non è, come di solito si pensa, il luogo di incontro delle esperienze formative, un punto fermo che ci definisce; al contrario, lʼidentità è qualcosa di imprendibile, frutto sì delle esperienze, ma in costante mutazione con loro. Lʼautrice individua tre passi fondamentali, intesi come tappe evolutive: lʼumano, in cui lʼidentità (le identità) è il frutto dellʼindagine, spesso violenta, sul proprio corpo, avviata dalla tabula rasa del clima degli anni Sessanta. Le esperienze della prima Body Art degli anni Sessanta e Settanta, il cui scopo era appunto la riattivazione e riappropriazione del corpo, insistono su di esso come oggetto estraneo eppur familiare, da risvegliare, ri-sensorializzare. Lʼintento è uno, i modi sono molti: Gina Pane ferisce il proprio corpo in maniera, se così si può dire, fredda, con la lucidità e la precisione di una sacerdotessa, mentre gli Azionisti Viennesi sconvolgono per la loro violenza e la furia con cui infierisco su se stessi. Urs Luthi esplora i confini dellʼidentità


sessuale, in costante e ambiguo equilibrio, ammiccando allo spettatore tramite fotografie seducenti, risvegliandone lati nascosti. Lʼidentità schizoide è invece indagata da Cindy Sherman, in costante mutazione nel vestire i panni degli stereotipi femminili estrapolati dal cinema americano, e non solo, degli anni Cinquanta e Sessanta nella serie Untitled Film Still. Più di recente Shirin Neshat, statunitense iraniana, ha scavato nellʼidentità del suo popolo dʼorigine, nel ruolo femminile: le sue foto restituiscono con lucidità di presa visiva il rapporto tra il corpo negato, velato, e la tradizione, incarnata nella scrittura sulla pelle in un idioma che, per lo più sconosciuto al target dellʼopera, acuisce il gap tra le culture, problematizzandolo. Passo successivo è il transumano, fase in cui lʼuomo è ormai consapevole di non coincidere con il proprio corpo e tenta unʼevasione sia da esso che dalle convenzioni che cercano di definirlo e immobilizzarlo. Il corpo è leggero, volatile pronto ad estendersi, a mutare: non a caso il capitolo si chiude con le mutazioni chirurgiche di Orlan, con il netto rifiuto del concetto freudiano dellʼanatomia come destino. Lʼartista francese postula infatti lʼuso della chirurgia estetica nel processo che porta alla progressiva coincidenza tra corpo e identità. Nan Goldin documenta, anzi, annota fotograficamente il suo mondo, la sua cerchia di amici, la sua Family, stabilendo qui un primo livello identitario; il successivo consiste nella tipologia degli amici: omosessuali, trans, prostitute, malati di Aids, corpi della trasgressione, dello scambio, del transito, in cui la sessualità è il comune denominatore. Siamo infine al postumano, vero e proprio passo evolutivo in cui la possibilità di essere altro da sé diviene una necessità, quella di adattarsi al nuovo habitat tecnologico, fonte di nuove identità nella contaminazione tra uomo e tecnologia. Dalle visioni della letteratura cyberpunk si passa alla sperimentazione teatrale della Fura dels Baus, dove macchine, attori e spettatori si contaminano a vicenda. La tecnomutazione è saggiata da Stelarc con la sua Third Hand cybernetica, e da Marcel.lì Antunez Roca, passivo sperimentatore di macchinari azionati dal pubblico sul suo corpo. Qui si sente il bisogno di riflettere: la prima edizione del libro di FAM è del 1997 e risponde perfettamente al clima avveniristico di quegli anni quando lo scenario tecnologico prometteva balzi in realtà fantascientifiche. Uno sguardo allʼoggi scopre una scena ben diversa, più leggera, in cui la tecnologia tende al software, e le nostra tecnomutazione è la simbiosi con la rete in senso lato: non è la carne ad essere mutata, ma la nostra configurazione mentale e il principio stesso dellʼidentità: nick names, chat, social networks, dove ognuno è solo un nodo nella rete e può essere ciò che vuole con pochi click, tanto per fare un esempio. Il postumano muta con le proprie protesi tecnologiche, che sono sempre più leggere e spesso solo simboliche.


Tramutava le sue peggiori ossessioni in bellissimi fiori. Quel bambino obeso e colante di muco che ogni sera lo aspettava sotto l’androne delle scale per ricordargli quanto facesse orrore la sua interiorità era diventato, grazie alle sue capacità metamorfiche, un animale piumato. Stessa sorte per la sua giovanile e perversa pulsazione sadica di brutalizzare con la violenza chi gli appariva più debole e fragile di lui. Giorno dopo giorno l’aveva scolpita nel marmo bianco in un grido dentro cui tutti potevano specchiarsi e ridere della propria deformità. Come un’icona di cartone ritagliata dal gran consiglio del nulla, si portava sulla schiena il nanismo mentale della sua razza per farne un disco volante con cui – attenzione – non desiderava librarsi, ma solo fare bella figura alla festa di compleanno con tutti i suoi amichetti.

trasfigurazione corpo e arte contemporanea di Francesca Alfano Miglietti (FAM)


Più che nei tratti del viso o nelle impronte digitali, l’unicità di ogni essere umano è scritta nel sangue. Jacques-Louis Binet

Il soggetto della ricerca è un corpo teorico in cui vengono indagate alcune delle connessioni dell’arte contemporanea con un corpo da sempre manipolato, dal suo rapporto con le istituzioni culturali, religiose, politiche, culturali, sino alle soglie di un’automutazione. Un corpo speciale. In una dimensione temporale che sceglie le tensioni, che diviene una cartografia delle più significative iconografie del corpo speciale che da sempre abita l’arte. Dunque una riflessione critica sull’uso del corpo nell’arte contemporanea è una riflessione su un corpo soggetto e oggetto di una moltitudine di eventi che suggeriscono continui riferimenti all’iconografia classica; si evidenziano, infatti, numerose analogie e affinità tra le esperienze degli artisti contemporanei che hanno incentrato la loro ricerca sul “corpo” e l’iconografia più tradizionale. Si evidenziano, in questa trattazione, una serie di rimandi ai miti e ai simboli, ma nello stesso tempo a tutti quei linguaggi del contemporaneo che hanno introdotto il Nuovo Millennio. Il termine classico nella tarda latinità designava ciò che è eccellente nella sua classe e nel Romanticismo si definisce come forma sensibile che è stata trasfigurata per raggiungere la dimensione di uno spirito autocosciente, il classico come luogo in cui l’idea infinita ha trovato la forma ideale in cui esprimersi: la figura umana. Ed è la figura umana protagonista di una delle ricerche del contemporaneo, un corpo direttamente prelevato dalla tradizione iconografica occidentale, un corpo che ha attraversato secoli e secoli d’arte, il corpo dell’arte indagato, svelato, mostrato, quel corpo ferito, martorizzato, anatomizzato, sezionato, torturato, suppliziato, crocifisso, quel corpo rappresentato e presentato come una tensione al limite. Corpi scelti, corpi speciali, corpi classici. Profondi conoscitori delle più sofisticate tecniche mediali di produzione e riproduzione, capaci di prelevare e trasformare i codici più diversi, dal linguaggio genetico a quello cinematografico, da quello musicale a quello teatrale, gli artisti contemporanei producono un classico capace di evocare nella sua essenza lo spirito di questo tempo. È quindi caratteristica di questi artisti la contaminazione tra linguaggi, e proprio questa contaminazione ha permesso nuove forme d’arte non limitate dalla tradizione e dalle convenzioni, e possibili solo in questo momento. Gli anni Novanta, in particolare, hanno visto emergere e proliferare nuove e significative pratiche di trasformazione del corpo che hanno dato la possibilità di pensare al proprio corpo come ad una materia prima modificabile e plasmabile, una sorta di identità transitoria. Questo nuovo tipo di umanità ha generato un nuovo tipo di opere 184


che continuano a sfidare il concetto di natura e il ruolo dell’arte contemporanea, mettendo in discussione i modi usuali di leggere il mondo. Direttamente legato ai più profondi interrogativi dell’umanità, il corpo occupa un posto fondamentale nelle mitologie, nelle fedi religiose, nei comandamenti e nei tabù, nei culti e nei riti. Nel corpo si esprime una complessa simbologia fatta di potere e di sesso, di eredità e di vitalità, di scambio e di patto, di malattia e di contagio. Di corpo del rito, del mito, della leggenda, sono intrisi i corpi della storia dell’arte, e il corpo riprende il suo posto nel processo di relazione degli esseri umani tra loro e col mondo, un corpo che diviene il terreno sul quale si giocano le complesse partite del sapere e del potere: il terreno sul quale i confini tra reale e immaginario, tra sogno e realtà si fanno sempre più labili. Non una tendenza “capricciosa” e eccessiva, non l’attitudine perversa di una dimensione “estrema”, ma una sensibilità planetaria che muta e interviene direttamente sul corpo sociale. Una visione sofisticata e feroce, un particolarissimo senso dello spirito del tempo, la presentazione di macrocosmi che includono modi, tendenze, ribellioni, mutazioni, immagini di una umanità in trasformazione. Corpo come piega di una rivoluzione bio-tecnologica, corpo come sangue, pelle, arti, sensi, ma anche corpo come paura, panico, angoscia, depressione, tensione... Un corpo alterato e modificato dalle mutazioni contemporanee, mutazioni sensoriali, cognitive, genetiche, sessuali, tecnologiche. Un corpo rimodellato sulle proprie paure e sui propri desideri, un corpo che incarna il corpo sociale, che assomma i conflitti etnici, politici, bellici, un corpo che ha assorbito le radiazioni e le accelerazioni, un corpo che è divenuto una superficie da significare: tatuaggi, piercing, scarificazioni, operazioni, menomazioni, marchi di un’identità voluta, scelta, assorbita dalle nuove tecnologie della comunicazione e da un immaginario catodico e filmico che apre a nuove modificazioni e a nuovi territori corporali. È assolutamente classica la crocifissione e la deposizione incarnata da Ron Athey, che, appartenendo ad una famiglia che professava un forte legame con la religione pentecostale, si è formato, nei pressi di Los Angeles, in una tensione religiosa piena di fanatismo, di profezie apocalittiche e di rituali estatici. Performer, scrittore e critico, sostiene: «Il mio lavoro è difficile da descrivere, io sono un performance-artist da coltello... Io lavoro sul dolore, sulla sofferenza». È il corpo il protagonista assoluto per Ron Athey, corpo-oggetto espropriato, martoriato, offeso, luogo di malattia e di morte, ma contemporaneamente strumento di riappropriazione di una identità scelta e non più subita. Si dichiara omosessuale e sieropositivo, e con il suo gruppo realizza spettacoli apocalittici e scioccanti, in cui automutilazioni, tagli, incisioni, e perdita di sangue, tracciano i contorni di una alterità dinamica 185


del corpo e della fisicità. «Con la tecnica ho ricreato una sorta di stigmata chirurgica usando venticinque aghi in una corona e allo stesso modo rimesso in scena il Martirio di San Sebastiano. [...] Tutto è strutturato più o meno come per un programma televisivo, o per un musical: le cose hanno un inizio e una fine, e non sempre ciò che ci sta dentro è comprensibile. Questo perché il nostro background è dato in massima parte da una serie di eventi spettacolari che vengono proposti in gran parte dalla televisione: talk show e cerimonie liturgiche convivono sugli schermi americani quotidianamente e perfettamente integrati tra di loro. È l’insieme di molteplici culture, è il sogno americano che collassa. Contrappongo tra loro la merda e i lustrini, l’ateismo e il misticismo, tutto fa parte di un piano nel quale si può agire e divenire altro. I ruoli subiscono dei passaggi di stato, legati agli elementi della terra, alla carne, al sangue, al pentimento, alla mistificazione». Classici e canonici i corpi di Aziz+Cucher (Anthony Aziz, americano del Massachusetts, e Sammy Cucher, sudamericano di Lima), che lavorano insieme, prima a San Francisco ora a New York, dal 1990, creando immagini digitali manipolate al computer che preannunciano una trasformazione corporale. Rispondendo alle nuove religioni del corpo, bodybuilding, aerobica, jogging, nella mitologia di un fisico incorruttibile, capace di annullare l’idea stessa della morte le opere di Aziz+Cucher presentano immagini di corpi modificati, corpi che perdono gli “organi” della comunicazione e dell’espressione, corpi sigillati ermeticamente, che contengono emozioni e sensazioni che non possono più uscire. Corpi perfetti, auto-realizzati nel rispetto dei canoni mediali di bellezza, snelli, muscolosi, alti, asciutti, ma privati di occhi, bocche, sesso, privati della sfera emozionale, sensoriale e riproduttiva, una “serie” di perfezione sterile e sterilizzata. Nelle opere di Aziz+Cucher la carne è sparita portandosi via liquidi, odori, orifizi, e tutte le possibilità di interscambio e di contatto, corpi chiusi, sigillati, dove tutto è ermeticamente chiuso dentro, il corpo elegante, perfetto e sterile dell’angoscia. L’arte come inconscio della scienza, Aziz+Cucher creano gli interrogativi politici della manipolazione del corpo costruito dai canoni dello “spettacolo”, il fine dell’ipermercato dell’appiattimento sui modelli morfologici contemporanei. È classico il corpo e le “posizioni” di Franko B. Nato in Italia, ma inglese di adozione, Franko B è uno dei più sconvolgenti e interessanti artisti del contemporaneo. Il suo lavoro è incentrato su una serie di ossessioni che evidenziano come il corpo sociale sia inscritto nel corpo fisico, è l’evidenza del marchio direttamente impresso sul corpo dalle istituzioni sociali affinché il loro controllo possa segnare irreversibilmente sia la sfera corporale che quella psichica. Le azioni di Franko B provocano un’intensità viscerale e una risposta emotiva, taglia la sua pelle, scrive sul suo corpo incidendo le parole 186


nella carne e nel sangue. Cuori e croci i suoi simboli, oggetti intagliati come fa sul suo corpo, in un accumulo di reperti che divengono ex-voto di una società di rifiuti, di scarti, di sopravvissuti, di umani piegati come lamiere. Le azioni e gli oggetti di Franko B sono realizzate con le immagini delle sue scoperte sul suo corpo, provocando domande intorno all’appartenenza, l’individualità, l’identità e alle restrizioni che obbligano a resistere, sopportare, vergognarsi: «Molte delle mie ossessioni hanno creato immagini meravigliose. Quello che sto facendo è rendere sopportabile l’insopportabile... Faccio un’icona delle cose che obiettivamente vengono sbrigativamente “bollate” come insopportabili. Io vedo le mie nevrosi, le mie paure, i miei “viaggi”, le mie esperienze negative, con una valenza creativa, cerco di non contaminarle, cerco di esprimerle in una direzione che sia pura, come nella mia testa. È un processo di libertà, la mia è una ricerca sulla libertà individuale. [...] Il mio sangue è il mio corpo. Quando lo sento, mi dà un senso di libertà, specialmente il fatto che sia il mio sangue...». E sono classiche le opere e le installazioni di Louise Bourgeois, che attraversa i territori dell’alienazione, ansia, sesso, paura, morte, ma è il corpo, in realtà, la sua ossessione, “pezzi” di corpi isolati e concentrati. Nelle opere di Louise Bourgeois c’è una costante dualità tra interiore ed esteriore (tra il corpo pensante ed il corpo esibito, erotico, compiaciuto di sé), tra piacere e dolore: alcuni lavori sembrano indicare il potere della mente e delle emozioni sul corpo: i mondi da lei rappresentati appartengono solo ai luoghi della sua memoria: «Ho bisogno delle mie memorie, esse sono i miei documenti», e viene attivata una sorta di “memoria organica”: il corpo come estensione della mente, come rappresentazione di uno stato mentale legato a un ricordo. Louise Bourgeois ricostruisce ambienti in cui compaiono monconi di corpo, mani giunte, orecchie in attesa, occhi con spilli, un cuore che penzola, elementi di un ambiente fortemente claustrofobico in cui il corpo appare per frammenti, per pezzi, per parti mancanti. Arch of Histeria, contemporanea deposizione, senza nessuna madre che sorregga, corpo luminoso ma appeso, sospeso, decapitato... Non c’è nessun corpo se non quello di uno smembramento che non riesce a trovare unità. Un linguaggio fortemente esplicito: lacrime, liquido seminale, sudore, urina, saliva, vomito. «[I liquidi organici] sono la rappresentazione delle emozioni, del meccanismo dell’instabilità. Quando un muscolo si rilassa e la tensione scende, un liquido viene secreto. Le emozioni interne diventano fisicamente dei liquidi, secrezioni di una sostanza preziosa». Classici gli equilibri e le alterazioni iconografiche di Cesare Fullone, una serie di “schermi” in cui si crea una dimensione corrosiva che agisce da metafora della mutazione come una specie di virus che attacca e corrode l’immagine. Cesare Fullone preleva le sue immagini dall’immenso flus187


so della produzione multimediale: immagini di moda, pubblicità, mitologie contemporanee, eroi, sportivi, opere d’arte, etnie, guerre... un melting pot dell’immagine in cui gli acidi agiscono come differenza, come se proprio la corrosione sottraesse le immagini al loro destino di brainframes nell’onnipotenza dei media, è la creazione di un sistema simile a quello della metastasi, che nasce dall’impazzimento dei circuiti e del loro funzionamento. Una riproduzione che come un virus si riproduce per contagio o per contatto, che si moltiplica all’infinito fino al nascere di una nuova immagine che modifica e altera i meccanismi di quella che l’ha preceduta e da cui è nata. Cesare Fullone crea una sorta di mutazione morfologica dell’immagine che si fonde con i corpi ibridi, una mutazione che segue nuovi percorsi, un ulteriore trasferimento di identità, dal corpo umano al corpo dell’immagine, corpi estrapolati dai media, corrosi e poi alterati al computer. Direttamente dai territori più classici l’opera di Thomas Grunfeld che crea animali mutanti che sembrano giungere da pianeti irriducibilmente alieni. Un cigno con il corpo di un coniglio e le zampe di un emù, una mescolanza di elementi incongrui ma ricostruiti a regola d’arte, rispettando, pur nella totale incongruità, le proporzioni. Thomas Grunfeld dal 1989 produce bizzarri ibridi utilizzando parti di animali imbalsamati. Il suo lavoro confonde le categorie, visive (pelo di volpe e piume di pavone) e concettuali (selvaggio e addomesticato, commestibile e non), fa riferimento a quegli scherzi di natura esposti nei Gabinetti delle Curiosità, e soprattutto suscita inquietanti interrogativi sulle possibili manipolazioni dell’ingegneria genetica. Una delle dimensioni del contemporaneo per Grunfeld è la combinazione tra tradizione e presente, un intreccio tra la memoria collettiva e le tensioni del contemporaneo. Ancora uno scorcio di contaminazione tra mitologia classica, leggende, scienza e paura, per la creazione di un territorio contemporaneamente scientifico e umanistico. Già dagli anni Sessanta il lavoro di Orlan, incentrando la sua ricerca sulla smitizzazione del corpo e cominciando a lavorare sul concetto di identità, sposta radicalmente le problematiche legate al corpo dei performer suoi contemporanei, che avevano scelto il corpo in quanto “originale assoluto” da contrapporre alla banalizzazione e al conformismo della società. Ma il passo più radicale nella sua esplorazione artistica del concetto di identità inizia negli anni Novanta, quando, dal travestimento degli anni Ottanta come Santa Orlan, inizia a lavorare al ciclo della “reincarnazione di Santa Orlan”, inaugurando quella da lei stessa definita carnal art (arte carnale), proprio per sottolineare come la sua ricerca sia «l’incarnazione di un pensiero direttamente nel corpo». Ed il corpo su cui interviene è il suo, nella cui superficie vengono incisi i segni di un pensiero estremamente radicale e dissacratorio che discute ed affronta alcuni dei temi fondamentali dell’attuale condizione 188


umana: dalla metamorfosi fisica a quella identitaria, dalla riflessione sullo statuto del corpo al desiderio di costituire il proprio corpo come luogo di riflessione. Le soglie di una autodeterminazione. Il bisturi diventa il mezzo attraverso cui Orlan realizza la decostruzione di un’unica, opprimente, identità, e la sala operatoria si trasforma nel suo laboratorio di mutazione in cui si evidenzia la mancanza di corrispondenza tra corpo e identità, la falsificazione della pelle del rivestimento, di quella superficie su cui adesso è possibile incidere la propria identità. «Per me l’identità immutabile riguarda solo la legalità, la sorveglianza, il passaporto. [...] Un’identità troppo forte significa automaticamente conflitti, razzismo, confronti del tipo ricchi/poveri, brutti/belli, forti/deboli... e questa è la fine! Lotto contro un’identità unica e unilaterale. Amo le identità multiple, le identità nomadi. In Europa siamo tutti sul punto di avere una doppia identità: europea e italiana, francese, tedesca. Quello che ricerco nella vita, è la possibilità di andare a vedere altrove, altro e altrimenti: di che cosa siamo o saremo capaci?». Ed è una teoria mobile quella che si esprime nella metafora del corpo dell’arte contemporanea, il nuovo secolo si è inaugurato con la dimensione in cui le tecnologie acquistano organicità, in cui nuove realtà corporali prendono vita in un’era post-tecnologica, in cui dati rivestiti di DNA vengono inseriti diretta-

ma non hanno mutato noi dialogo con Franko B di Gabriele Tinti

Partiamo dalla tua monografia Blinded by love. Non si può non notare come questa sia impostata nel senso di una autobiografia, di un libro che è una dichiarazione di come la tua esperienza, la tua “formazione”, la tua vita costituisca l’opera… Quando ho pensato a questo libro l’ho pensato come un oggetto d’arte, come una “Bibbia”. Questo è un libro che è stato per me molto importante. L’ho voluto così, che comprendesse assieme al mio lavoro tutti i luoghi e tutti coloro che mi hanno ispirato o che mi ispirano e che comunque sono entrati nella mia vita lasciandoci un segno. Ecco per te è fondamentale la relazione con l’altro, con il corpo d’una emo-


mente nella carne “specializzata”, quello presentato è il corpo che ha scelto di divenire il campo di battaglia in cui hanno luogo i conflitti politici ed etici: un campo mobile di contestazione estetica che ha ridisegnato le estensioni di una condizione iper-umana. Le tecnologie della miniaturizzazione lavorano sulla creazione di meccanismi molecolari per riparare i danni biologici, organici e temporali del corpo e per dare vita ad una specie di sistema immunitario di tipo industriale, tecnologie elettriche iniziano ad essere già incorporate, e vive già un ribollente neurocervello interfacciato al sistema Internet. Questo è il mio corpo: un corpo ipertestualizzato e un sistema nervoso cablato impresso nella carne, il corpo senza fili di Internet, la ribellione biologica di un corpo ipertestualizzato come possibilità d’entrata nelle soggettività critiche del ventunesimo secolo. In un mondo sempre più inebetito in cui ogni riferimento al dolore è rigorosamente vietato, in una universale Disneyland patinata e noiosa, in una vita quotidiana sempre più simile ad una snervante e piatta telenovela, gli artisti si riappropriano e agiscono le ferite al costato, le piaghe sanguinanti, la corona di spine, un corpo anarchico, utopico, ribelle, il corpo classico che mostra il suo interno come cursore di un nuovo mondo di politica multimediale, di economia frattalizzata, di rapporti interfacciati direttamente sul corpo. Una serie di penetrazioni nel corpo della socializzazione, realtà che prendono vita in una trasformazione radicale dell’ordine sociale.

zione e di una comunicazione vera. Ogni cosa ha il corpo. Il corpo che rappresenta il pensiero, una persona, lo puoi trovare in molti luoghi. Anche nel paesaggio può esserci corpo, in qualsiasi cosa può esserci. La tua performance I miss you credo abbia raggiunto una enorme emozionalità e al contempo una notevole qualità estetica. La mia filosofia è sempre stata quella che concepisce il lavoro nell’ottica del “bello”. Io devo trovarlo “beautiful” se non è beautiful vuol dire che è qualcosa d’altro e non va più bene. Molti simboli – riserve di visioni – ricorrono nel tuo lavoro, sono i tuoi attivanti fabbrili. Uno su tutti – presente anche nei tuoi Black Paintings e nei tuoi recenti oggetti-sculture – è la croce. Che cosa significa per te? La croce per me è un simbolo di protezione. Non ha nessun senso cristiano. A me non me ne frega un cazzo di quell’aspetto lì. E poi io non credo in Dio. A me non interessa. Il mio slogan è: «Il tuo Dio è morto il mio non esiste». Il tuo Dio è morto perché per te lui c’era anche se io non lo vedevo. Però io non ci credo. Il problema è che tutti dobbiamo credere in qualcuno o qualcosa per andare avanti ma secondo me bisogna


credere in se stessi e poi credere nell’uomo, nell’umanità che c’è, esiste. Altro simbolo è il sangue... Il sangue rappresenta la vita. Si fanno le guerre per il sangue, la gente muore per il sangue, la gente ha paura del sangue. Il contesto delle mie prime performance (anni Novanta) era quello dell’Aids, della paranoia, dell’omofobia, del razzismo. È stato naturale – necessario – che io lo utilizzassi. Nel tuo lavoro c’è un grande afflato romantico, l’esibizione dei sentimenti semplici che proprio per questo sono universali, che riguardano chiunque si accosti alla tua opera. Tutta la gente che si ritiene intelligente si oppone al romanticismo perché il romanticismo è facile, è per i poveri – dicono. A me invece interessa l’onestà di una comunicazione in cui ognuno si senta libero di esprimersi, la semplicità di un amore e di una emozione. E tutto questo è il Romanticismo. A muovere l’artista è l’amore. Senza non esisterebbe. Parlaci dell’ultimo lavoro I’m thinking of you. I’m thinking of you si riferisce alla persona che è nello stesso spazio con me e che mi vuole conoscere. Apparentemente potrebbe sembrare una conoscenza superficiale, banale anche se per me non lo è. È un lavoro dove io dichiaro di stare pensando a te. D’altronde nel momento in cui io ti guardo sto davvero pensando a te. Nel momento in cui lo fai tu si presuppone che anche tu stia pensando a me. La performance ha luogo in spazi il cui pubblico mi è sconosciuto e incontrando lo sguardo di questi sconosciuti a me passano un’infinità di cose nella mente. Attraverso i nostri sguardi che si incrociano accade molto. A proposito di “identità mutanti”. Le varie tecnologie hanno cambiato i nostri modi di vivere... Sì, però non hanno cambiato noi. Hanno accelerato le nostre possibilità ma non hanno mutato noi. L’invenzione della ruota per i Sumeri ha significato essere in grado di estendere la loro efficacia in guerra e nel lavoro. Ma i bisogni, le pulsioni dell’uomo non sono differenti. Non sono cambiati. Un libro molto importante per me in questo senso è stato Se questo è un uomo di Primo Levi. Un libro capace di segnare una esperienza e di far riflettere. Il punto sul tuo lavoro. I tuoi inizi erano duri, scioccanti, eccessivi. In quest’ultima fase a me pare tu abbia trovato una dimensione estetica più seducente e matura. Sono arrivato al punto in cui faccio ciò che è necessario. Il contesto dei miei inizi non c’è più e quindi è naturale che il mio lavoro sia cambiato pur rimanendo lo stesso. Per me è essenziale partire mai fermarsi. Non è detto che nei “luoghi” dove in passato sono stato, che ho attraversato, che sono stati fondamentali per me non mi capiti di tornare. Ma ciò che è essenziale è che da quei luoghi si possa ripartire.



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