Syria Rewind

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A story by

Amazing Grace & Uprooted Oaks giulia magnani

luca manucci

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Syria Rewind Semeiotica di una guerra civile


La Siria è un vetro rotto, un grembo vuoto, e qualcuno dovrà renderne conto. Eppure non basterà, perché tragedie simili generano un prima e un dopo.


I

dittatori incalzati dalle primavere arabe hanno lasciato caos e macerie. La lotta per riempire quel vuoto non finisce con la sconfitta del regime, ma prosegue fra tensioni laiche e religiose, fra visioni opposte del futuro. Linee di frattura che un nemico comune può nascondere a lungo, ma destinate a esplodere in una resa dei conti finale. Come si spiegano, dunque, i missili israeliani sul territorio siriano? Con l’appartenenza del presidente al-Assad a una minoranza sciita e il conseguente contributo al regime siriano proveniente dai libanesi di Hezbollah, così come dal regime iraniano di Ahmadinejad. Anche Cina e Russia fanno sentire il proprio appoggio, fornendo armi e ponendo all’Onu una serie di veti che bloccano ogni intervento. In questo gioco di incastri si inserisce il ruolo dell’esercito israeliano e i missili sganciati nei pressi di Damasco. L’opposizione sunnita, che trova la propria espressione armata nell' Esercito Siriano Libero, riceve invece l’appoggio esterno di Arabia Saudita, Qatar e formazioni islamiche radicali come Jabhath al-Nusra, affiliata di alQaeda che lotta per un califfato islamico in Siria. Nessuna fretta di celebrare gli eroi dunque, dato che la cernita dovrà essere puntigliosa e severa. Un secondo dopo la fine del conflitto, dissolto nell’aria il sibilo dell’ultima bomba, è probabile che inizi una nuova lotta per il potere. Trent’anni dopo la rivolta islamista che Hafiz al-Assad represse nel sangue, Hama è ancora l’epicentro della rivolta, insieme a Homs, Qusayr, Damasco e Aleppo. Bashar al-Assad, seguendo l’esempio del genitore, dimostra che le riforme concesse prima della guerra erano solo briciole date in pasto al popolo affamato. Che non si è fatto impressionare dalla riapertura dei social network nel febbraio 2011.

Il presidente sapeva che l’esito delle primavere arabe non era stato deciso da Facebook, YouTube o Twitter, ma dalla rabbia delle persone e dall’intervento dell’Occidente. Le rivoluzioni si fanno in piazza, non sulla rete. In Siria lo stato di emergenza è rimasto in vigore dal 1963 al 2011, facile capire come nel tempo l’emergenza si trasformi in normalità. La paura di essere spiati, sorvegliati, torturati, si fa largo fino a trovare un angolo dentro le persone, e rimane lì, fisso. Proprio dal 2011, alle porte della guerra, Assad ha ritirato il decennale provvedimento, in una fiammata di concessioni che il popolo siriano ha accolto come una manciata di sabbia negli occhi. Quando la misura è colma e si pregusta un rovesciamento totale, una leggera inclinazione non può essere sufficiente. Nel marzo 2011 la rivolta è partita da un murales nella città di Daraa, al confine con la Giordania. Un adolescente che scrive sul muro della scuola, un paese che prende fuoco. Gli slogan delle primavere arabe terrorizzano il regime. Da alcuni centri periferici i cerchi concentrici della rivolta si sono allargati, hanno raggiunto in qualche settimana le metropoli Damasco e Aleppo, le roccaforti Homs e Hama.

Manifestazioni nazionali, scontri, i primi morti. Poi il regime getta la maschera: schiera i carri armati, bombarda, assedia, riempie le carceri, tortura. Chi non prende parte agli scontri fugge, un milione e mezzo di persone hanno trovato rifugio oltre il confine in Turchia, Giordania, Libano, Iraq. Chi resta cerca di nascondersi o prende le armi. Novantamila il conto dei morti fino a questo punto, senza vedere la fine del massacro, ma intuendo che il crollo non si farà attendere ancora per molto.


Sullo sfondo di una guerra già sanguinosa si agita lo spettro del gas nervino, dell’iprite, delle bombe al cloro e di altre armi chimiche: linea rossa invalicabile, casus belli da giocare al momento opportuno, tragica reazione collaterale di una guerra civile che non avrà vincitori. Il patrimonio simbolico, culturale ed economico del paese è in rovina. Giungono le notizie dei bombardamenti del regime ad Aleppo e il crollo del minareto della moschea Omayyade, millenario e finora scampato a incendi e terremoti. Scorrono le immagini dell’esplosione del ponte sospeso sull'Eufrate nella città orientale di Deir Ezzor, costruito nel 1927 durante il protettorato francese. Prima che tutto iniziasse, nell’agosto 2010, ci aveva accolto un paese paralizzato. La calma apparente era fragile come un foglio di carta. Facce serie, per le strade, con la paura di imbattersi in una spia in borghese del governo, dire una parola di troppo sul presidente. Ma forse nessuno poteva già immaginare - fino in fondo - la propria vita trasformata da un conflitto durissimo. Assedi, bombardamenti, profughi, l’arrivo dei mujahidin salafiti di al-Qaeda, l’intervento di corpi scelti di Hezbollah. Nella moschea di Aleppo, bianca di marmo e rossa di drappi, si respirava un’aria di frenetica contemplazione. La testa di Zaccaria, profeta musulmano e santo cristiano in quanto padre di Giovanni Battista, attirava come sempre un gran numero di pellegrini devoti. A Damasco, la moschea degli Omayyadi risplendeva nei suoi pavimenti e mosaici, la luce colava a picco su corpi distesi, molli, nel riposo della preghiera o nel sonno del pomeriggio.

Fuori, nei bazar e nelle vie, il dato più opprimente era la presenza-assenza del regime. Bashar al-Assad raffigurato da solo, o con il padre, o con il padre e il fratello, a formare un’oscena trinità del potere. Ovunque: sui muri, nelle stanze, nei cartelloni, nei bar, sulle bandiere. Il volto del dittatore doveva essere visibile da chiunque in ogni momento. Con nessuno, nemmeno una volta, siamo riusciti a parlare del presidente, del regime, della situazione politica. Sguardi obliqui, sopracciglia storte, scrollate di spalle, sorrisi, mezze parole, nient’altro. Argomento offlimits, da evitare con cura. Eppure esistevano nicchie di calma, mercati trafficati, bar alla moda, piscine dove si serviva vino fresco, internet point e negozietti tranquilli, bar con pipe ad acqua, fontane gorgoglianti, giardini, tè alla menta serviti con tanto zucchero. Difficile crederci oggi. Difficile, allora, prevedere la catastrofe. La Siria scompare fra il crepitio dei proiettili, nelle voragini delle bombe. Chi ricorderà più la Siria di prima: il bazar di Aleppo, la moschea di Damasco, i minareti, e giù fino all'ultimo centimetro di marciapiede slabbrato nell'ultima delle periferie? Gli ideali richiedono spesso un tributo di fedeltà immenso, come il più capriccioso degli amori o il più letale degli istinti. Fino alla morte. Per liberare il paese dal tiranno. Riprendere, un centimetro alla volta, il diritto di esistere. Respirare un secondo più del nemico. Perché tutte le lotte, possono e devono essere la stessa lotta. Per la Libertà.












Gli ideali richiedono spesso un tributo di fedeltĂ immenso, come il piĂš capriccioso degli amori o il piĂš letale degli istinti. Fino alla morte.

Per liberare il paese dal tiranno. Riprendere, un centimetro alla volta, il diritto di esistere. Respirare un secondo piĂš del nemico.


Giulia Magnani 路 giuly.mag@libero.it 路 giuliamagnani.com Luca Manucci 路 man.sil@libero.it 路 laviadelpetrolio.tumblr.com


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