Argo XVII / Vixi

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VIXI Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA



Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA


ARGO N. 17 / VIXI

Rivista di esplorazione fondata nel 2000 registrata al Tribunale di Bologna N.7393 del 22/12/2003 con il Patrocinio dell'Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia Equipaggio

Direttore responsabile: Marco Benedettelli [marco.benedettelli@argonline.it] Vice-direttore: Tommaso Gragnato [tommaso.gragnato@argonline.it] Direttore artistico: Mattia Santini [tia.san@argonline.it] Curatore collana editoriale Argo: Valerio Cuccaroni [valerio.cuccaroni@argonline.it] Redazione: Silvia Albanese [silvia.albanese@argonline.it], Nicoletta Bucciarelli [NicolettaBucciarelli@libero.it], Simone Colombo [simone.colombo@ argonline.it], Giulia Ferrandi [www.neros.it], Filippo Furri [filippo.furri@argonline.it], Alessandro Giammei [alessandrogiammei@gmail.com], Giuseppe Merico [www.scrivoeleggo.splinder.com], Samuel Manzoni [samuel.manzoni@argonline.it], Andrea Marcellino [andrea.marcellino@argonline.it], Paolo Tarsi [paultarsi@hotmail.it] Redazione Poesia: Caporedattore: Rossella Renzi [rossella.renzi@argonline.it] Redattori: Lorenzo Franceschini [france.lorenzo@argonline.it], Gianni Montieri [g.montieri@gmail.com], Giovanni Tuzet [tuzetg@hotmail.com] Redazione di Kyoto: Caporedattore: Daniela Shalom Vagata [shalomdan@hotmail.com] Collaboratori: Stefano Bandini, Midori Mochida, Oliver Rahman, Jessy Sibly Progetto grafico: Simone Colombo Ricerca fotografica e copertina: Mattia Santini Editing: Tommaso Gragnato Collaboratori: Lorenzo Biagini, Giacomo Bottà, Giulia Brecciaroli, Filippo Brunamonti, Elena Cirioni, Massimiliano Chiamenti, Manuel Cohen, Geraldina Colotti, Ugo Coppari, Claudio Emme, Oscar Fuà, Locusta C, Luca Manucci, Paolo Marasca, Marcus L [www.myspace.com/occhiovolante], Gilberto Mastromatteo, Michela Murgia, Fabio Orecchini, Natalia Paci, Christian Sinicco, Ivan Tagliaferri, Gabriele Tinti, Wu Ming 2 [www.wumingfoundation.com] Hanno inoltre collaborato a questo numero: Viola Amarelli, Sara Andreolli, Franco Arminio, Nicola Barilli, Luigi Bernardi, Marco Boccaccini, Vito. M. Bonito, César Brie, Mauro Cicarè, Arturo Cinaschi, Manuel Cohen, Salvatore Della Capa, Eleonora di Erasmo, Paolo Fichera, Marco Giovenale, Alessandro Ippolito, Toshio Kawai, Anna Lamberti Bocconi, Elena Latini, Pascal Leclercq, Franca Mancinelli, Emiliano Merlin, Giuliana Musso, Massimiliano Santarossa, Leonora Sartori, Luigi Toni, Giorgio Vasta, Laura Viezzoli, Mina Welby Grazie a: gli abbonati; Ale, Giovanni, Aura, Francesco e l’appartamento di via Azzo Gardino; Maria Teresa Amodeo; Anna Rosa Angelone; Arci Ancona (in particolare Barbara Laconi, Chiara Malerba, Federico Pesciarelli); Associazione Gli Ammutinati; Patrizia Baggio di La Corte Ospitale; Barassociazione Culturale; B.I.R.R.A. (in particolare Michele Barbolini); Philip Blackburn; Gherardo Bortolotti; Bubu de La Madeleine; Gianluca Busilacchi; Massimo Canalini; Elisa de Carli di Teatro Valdoca; Valeria Cevolani; Elena Ciappesoni, Claudio Comandini; Antonino Contiliano; Gabriella Esposito; Peter Golightly; Andrea Inglese; Innocarne; Innova Recordings (http://www.innova.mu); Franco Limardi; Alessandro Longo; Libreria Coop Bologna; Libreria Modo Infoshop; Libreria Il Portico; Libreria Metro; Malacarne; Manzanilla MusicaDischi; Sauro Marini; Ann Millikan; Gabriella Musetti; Giuseppe Nava; Radio Città Fujiko (in particolare Alessandro Canella e Alfredo Pasquali); Massimo Raffaeli; Mosè Risaliti; Gino Ruozzi; Roberto Saporito; Federico Solmi; Spazio Indue; Adriana Stecconi Biagiarelli; Marina Sozzi; Suoni Quotidiani; Yoko Takatani; Tadasu Takamine; Uaar Ancona; Unorsominore; Leonardo Venturi di Teatro Everest; Vladimiro il violinista; Toru Yamanaka; Paolo Zanotti; tutti gli autori non citati di materiale non pubblicato; tutti coloro che ci hanno scritto. Per aver contribuito all’elaborazione del Plot di VIXI un ringraziamento speciale va a Annarosa Angelone, Danilo Battaglia, Sara Chiappetti, Francesca Magni, Michele Montanari. Editore: Cattedrale, corso Garibaldi 96, 60100 Ancona Proprietà e Corrispondenza: Associazione NIE WIEM, C.P. 138, 60127 Ancona Centro [www.niewiem.org] Sede della redazione di Kyoto: c/o Daniela Shalom Vagata, University of Kyoto, Faculty of Letters, Department of Italian Language and Literature, 606-8501 Yoshida Honmachi, Sakyo-ku, Kyoto-shi, Japan Questo numero è stato realizzato con il contributo della Regione Marche. Argo aderisce alla rete Tribù d'Italia: www.tribuditalia.it Sito: www.argonline.it e-mail: argo@argonline.it «Argo» si può trovare un po’ ovunque, ma soprattutto qui: www.argonline.it/dove_trovare_argo.html. Se non la trovate, chiedete al vostro libraio di fiducia di ordinarla, ricordando che l’editore è Cattedrale e il distributore PDE. 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a Massi



VIXI Cattedrale * 96 GARIBALDI ANCONA



diario di bordo Da tempo ci faceva visita un freddo alito. Sedeva alle nostre tavole, soffiava sulle nostre strade, si legava ai nostri discorsi impastandoli di cenere. Bussava alle tempie per ricordarci che tutto era nelle sue mani. Sussurrava: «Tu non vivi, tu hai già vissuto». Disperata, squarciata, stramaledetta e misteriosa, la morte ci irradiava gelida, vomitava megafoni e cupe trombe, informava ogni pixel del creato della sua ronzante ineluttabilità. Carpivamo le notizie di morte introdotte dalle canoniche formule: “hanno perso la vita”, “sono stati uccisi”, “sono morti”, “ci hanno lasciato”. Attraverso la rete, le rotative e le parabole il flusso si replicava in milioni di piattaforme omologhe vorticando immagini di guerra, malattia, omicidio, strage, terrore disperazione, catastrofe. La morte impregnava coi suoi codici le nostre percezioni e ci lasciava separati dall'esperienza del trauma reale, riservandoci il ruolo di spettatori, di pubblico corteo che sfila in costa alla voragine. L'oracolo catodico arricchiva l'offerta scavando fino all'osso i nuovi cadaveri della giornata, rivisitando i vecchi in seconda serata e scovandone sempre di nuovi, anche marginali. Si preannunciava una valanga di morte. Morti più o meno notevoli ma sufficientemente degni di fama. Impallidivamo al pensiero di un notiziario speciale dedicato ai deceduti del giorno. Cancella la figurina di un nuovo personaggio passato a miglior vita: Sanguineti Taricone Monicelli Mike Bongiorno Cossiga Osama Bin Laden Amy Winehouse Steve Jobs Zanzotto Gheddafi ecc ecc ecc. Il museo delle statue di cera è in fiamme e quel che cola sul pavimento rende bulimici e ingrassa, tappa e crea stenosi ai ballerini di una macabra danza. Circo, finzione, messa in scena: l’eterno banchetto sublimava il sangue in etere mentre gli osti nascosti in cucina preparavano retrospettive, coccodrilli, anniversari. Vite perdurate all'infinito, morti appaiate, replicate in serie, dove la più grave notizia tra le notizie di perdita ci lasciava vuoti i sensi. I


Fu la puzza che si respirava nello scendere i gradini del regno oscuro a trafiggerci, a costringerci ad aprire gli occhi. Guardavamo indietro e scoprivamo che occorre vedere il morto. Vederlo dal vivo, sentire quali odori lascia al mondo, quali rumori lo circondano. Occorre vedere il corpo tra i cespugli, a terra, scovarlo come un imprevisto nella natura e bruciare di dolore. Sentire la mancanza di vita come una devastante violenza dell’infinito, che inghiotte via dalle strade e dagli incontri occhi e anime e parole, e non li restituisce più. Annerivamo. Restavamo muti di fronte al corpo muto. Lo osservavamo e attendevamo che da un momento all’altro si scomponesse, perdesse quella sua tremenda fissità, la staticità fragile di un mucchio di neve. Eravamo noi quel morto, l'immagine immobile e senza respiro pronta a chiamarci nella sua decomposizione. Il freddo saliva e scendeva e si raggrumava al cuore mentre in coro sillabavamo la parola “MORTE”. Eravamo guerrieri battuti. La spada lontana a terra e il nostro elmo stava a ciascuno come suo calco funebre. Una poltiglia di fiori appassiti e petali marci preparava un tappeto per la processione che si snodava per le vie della città. I muri erano tappezzati da una moltitudine di annunci mortuari inframezzati a cartelloni per nuove elezioni politiche. In lontananza un suono disarticolato si mescolava a fumate nere e dense. Dalle finestre di un edificio rugose teste di vecchi affacciavano occhi stropicciati alla via. Scrutavano la bara scoperta e il manipolo di zombi che apriva la lunga processione putrescente. Le loro morti imperfette si moltiplicavano e tracimavano ai lati fino a perdersi tra quinte di marmo, in vie laterali, dentro scalinate che scendevano nel sottosuolo. Due ali di spiriti condensati in corpi, schiacciati sulle mura dei viali, chi sgranando rosari chi esponendo immaginette e ritratti, indicavano la via per il camposanto. L’orizzonte si sagomava su scheletri post industriali, impianti e capannoni sventrati e cumuli di macerie. Dal vecchio mattatoio fuoriusciva una musica dai ritmi meccanici mentre, dondolati dal passo trascinato della processione, sprofondavamo nell'oscura immagine della nostra sepoltura. Ad occhi chiusi, concentrati in un buio perfetto, avanzavamo sospesi come martiri arabi su una folla silenziosa. Ci avvicinavamo al portale d'ingresso del cimitero e mentre la bara oltrepassava la sottile linea che apre allo spazio dei morti, al terrore si sostituiva un nuovo sentimento che ci faceva abbandonare sereni al sacrificio della vita. Da dietro le mura di cinta, oltre le guglie dell’ossario, tuonavano echi martellanti di bassi in un crescendo chimico d'urla scatenate. Increduli seguivamo il corteo attraverso il cimitero. Sotto un porticato lastricato di loculi ci imbattemmo in una tavola imbandita. Donne e uomini succhiavano calici rossi di vino e cantavano sinceri facendo scintillare sotto le labbra le vampiresche zanne. In circolo, alcuni giocavano a carte, altri impilavano cartoline II


compilate per i vivi mentre gruppi di cani circospetti disegnavano muso a terra il perimetro della zona dei forni dove il pane appena cotto veniva spezzato in briciole e portato al tavolo da una manica di clown. Le sedie dei tavoli erano formate da lapidi anonime con scolpita sul retro la scritta ILAROTRAGICA SAS. Fu qui che il corteo iniziò a sparigliarsi. Qualcuno sedeva ai tavoli a gozzovigliare, altri si univano agli allegri capannelli di zombi, e a tutti i nostri sguardi incrostati di lacrime suscitavano incontenibili risate che sovrastavano anche il possente vociare. L’eco della morte ormai rotolava in fondo alla scarpata. Il caos si era ribaltato in magia. Lasciati liberi di esplorare visitavamo la zona dei balli, dove una folla schiumava ai ritmi della ballata delle ossa sdoppiandosi nelle lunari coreografie del macabro. Fuori dal camposanto, si muovevano sulle macerie altre danze e risuonavano di lontano pianti e condoglianze di altri cortei che percorrevano la brulla piana. Risuonavano formule arcaiche, scandite da una voce d'oltretomba e ripetute in litania da una moltitudine di spiriti. Inneggiavano all'avvenuto contatto con i corpi e ci invitavano a raggiungerli segnalandoci il percorso con origami di voci, suoni di carta, musiche trascendenti. Ci univamo alla preghiera dello sciamano che inghiottiva le nostre storie una a una mentre una massa di spiriti recitava un mantra che uccideva le ore i minuti i secondi proiettandoci fuori dal tempo. Come seme ci invitava a conficcarci nella terra tra i vortici di polvere e luce abbagliante che salivano come geyser. Le nostre carni si disfacevano staccandosi dallo scheletro mentre la folla respirava i nostri resti in un processo che ci regalava l'eternitĂ togliendoci la memoria del corpo. Diventavamo puro segnale, senza interferenze, fulgidi messaggi di un nuovo linguaggio che aveva ucciso la morte. Rimanevamo pura memoria, vergine, a indagare gli svelati segreti del mondo fisico, comicamente morti osservavamo la scena compiuta, definitiva, che ci parlava di noi e delle regole della materia.

III


itinerario numero bianco

Diario di bordo

I

Marco Boccaccini la nevicata del 1985 Silva Albanese Caino e la scoperta della parola “morte” Oscar Fuà muore giovane chi è caro agli dei i Greci e il sentimento di caducità della vita umana Marco Giovenale dolciastro un dentro / è il calco funebre, è i movimenti Samuel Manzoni il mattino ha l’oro in bocca Eleonora Di Erasmo alchimia, vulnerabilità e bellezza l’arte del trapasso in Anya Gallaccio Alessandro Ippolito agonia urbana Filippo Furri il cadavere esposto l’Antigone di Jean Anouilh come denuncia tanatopolitica Sara Andreoli compagno dolore un modo per esistere nelle case di cura Luigi Bernardi a morte scoperta Filippo Brunamonti veloci, mangiarsi a vicenda gli zombi per Anthony P. Timpone

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Nicoletta Bucciarelli l’Eva Peròn di Copi la trasfigurazione di un’icona Ugo Coppari memento mori Gianni Montieri gli spararono in faccia / la mattina di un primo gennaio / appeso all’ultimo lembo Paolo Marasca l’Evento Mauro Cicarè metropoli Giacomo Bottà gli hipster e la morte. la merce e la resurrezione Fabio Orecchini 1953.Montesi di ciò che stava per accadere / 1975. 3P / 2011.Nicolai Samuel Manzoni dal romanzo di Bram Stoker ai sobborghi dell’East Midlands: Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus Valerio Cuccaroni Radio Mattatoio guida all’ascolto di Carta laniena (Franco Scataglini, 1982) Paolo Tarsi il sentimento è morto memoria e coscienza della musica del XX secolo Elena Latini se non credi a questa morte bella / si potrebbe credere a una oscurità breve, un intervallo tra due / cadere in un sonno profondo e dimenticare la vita / parlano la morte / quando verrai, sarai i tuoi occhi Gilberto Mastromatteo la Tunisia ha gli occhi di Mohamed Bouazizi Paolo Tarsi «Io non ho alzato la bandiera bianca» raccogliere l’eredità musicale di Luigi Nono Emiliano Merlin escatologia cosmica il destino dell'universo secondo la scienza contemporanea Massimiliano Santarossa rave party Daniela Shalom Vagata mancano le parole Vito. M. Bonito prima colazione Filippo Brunamonti Vamp. il tuo primo bacio potrebbe essere l’ultimo Franca Mancinelli bisogno di scavare / lasci la pelle sul lenzuolo / vivevi rattrappita / un colpo di fucile Arturo Cinaschi briscola in Alabama Nicola Barilli in morte di un professore incompreso Pascal Leclercq - [trad. Luigi Toni] Il y a là un chêne (Il brano prosegue in altre sei pagine. Segui l’asterisco *, ndr) Giulia Brecciaroli qui giace Ennio Flaiano le memorie di un giorno non durano di più Silvia Albanese la nera signora si veste da clown intervista a Giuliana Musso Samuel Manzoni viaggio nell’oscura poetica di Nick Cave: Murder Ballads V

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Leonora Sartori Michael Jackson Jr. Filippo Furri la fine è (sempre) vicina. censimento sommario delle fini del mondo passate presenti e future Viola Amarelli (vestito rosso) / (necessità) Giuseppe Merico le chiangimuerti Oliver Rahman uno sciamano in Giappone Paolo Tarsi l’essere è il suono con cui vibra la Terra Salvatore Della Capa c’è un momento più lungo / se la sera rientro Tommaso Gragnato non se n’è mai andato nessuno Franco Arminio nuove cartoline dai morti Nicoletta Bucciarelli inghiottitori di storie. le narrazioni come antidoto alla morte nella letteratura postcoloniale Silvia Albanese il teatro è una soglia da dove i morti tornano a visitarci. intervista a César Brie Paolo Fichera <frame morte> / <frame prima della morte> / <frame nella morte> Simone Colombo la morte come traccia e come processo Andres Serrano, Izima Kaoru, Francesco Gennari, Henrik Håkansson Daniela Shalom Vagata love Alessandro Giammei si salva chi può ma non può... ricordare Amelia Rosselli senza averla mai conosciuta Marco Benedettelli l’inferno è rinunciare all’invenzione di senso intervista a Giorgio Vasta Andrea Marcellino conosci te steso. quando si muore si è tutte le cose Anna Lamberti Bocconi morte mia madre / ti saluto anche dal mare / chi sente il flusso dei morti, la fiaccola / canto di morte di un contadinello dei Balcani / la splendida mannaia ruvida Laura Viezzoli - Mina Welby Welby l’astronauta Massimiliano Chiamenti alle tette alle canne alle scale Indice dei nomi

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Il tanfo morde le mucose, arriccia le cervella, attanaglia esofago e budella e non c’è nulla da pensare distintamente davanti a una nube di mosche impazzite che roteano nell’aria in arabeschi fittissimi e sbattono sulle mura bianche e graffiano l’aria col loro ronzio nero. Ma è la puzza, la puzza di merda, a imperversare nella stanza bianca. Un odore rappreso, una presenza viscida che fermenta. Nel mezzo del caos e del fetore di escrementi c’è il suo corpo contratto e gettato in un angolo. Le mani congestionate nello spasmo afferrano qualcosa di scomparso e sgusciato via. Una gamba è dritta, l’altra è piegata col ginocchio d’infuori, sembra un ragno con tante zampe lunghe e spezzate che penzolano fragili. I suoi pantaloni sono pieni di escrementi, il tessuto che fodera le cosce fredde e indurite è imbrattato di liquido organico. La campagna fuori brucia per il sole e le cicale scoppiano nel canto. Nell’ultimo squasso le sue budella si sono tutte rilasciate. Come un fiotto marrone la vita gli è uscita dal deretano e ora impregna l’aria col suo tanfo. Il suo volto è violaceo, le labbra sono rapprese. Ha la smorfia d’uno stitico che si sforza di defecare. Le mosche volavano impazzite nella stanza.

la nevicata del 1985 Uno Era il 1985, la grande nevicata aveva fatto morire il salice piangente nel giardino di nonna. Tutto quel freddo aveva reso ogni cosa simile a un ultimo respiro. Nonno provò a morire in quello stesso anno. Mia nonna, non vedendolo in giro per casa, si spaventò e cerca cerca lo trovarono accasciato nel gabinetto. Un ictus che però non era riuscito a ucciderlo. Al nonno piaceva quando c’era la neve, camminarci su, lasciandoci le impronte e ascoltare lo scricchiolio quasi legnoso che provocava sul tappeto bianco. Quella volta si salvò. Morì nel lettone con nonna nel settembre del 1995, dieci anni più tardi della nevicata del secolo, come la chiamano qui. Io nel 1985 ho nove anni, mi aspetto che il mondo finisca da un momento all’altro, e intanto ci vado su e giù con la mia bicicletta rossa senza luci. Due Papà girava per casa con le espadrillas, rallentava i movimenti quando attraversava la cucina per non scivolare troppo velocemente verso il frigidaire giallo in fondo alla sala. Il divano mostrava tutti i sintomi dell’avere una sarta in casa; fili di cotone e spilli disseminati ovunque che ti avvertivano che non potevi sdraiarti dove e come ti pareva. Segnali. Mamma per affar suo lasciava distrattamente pezzi laceri di stanchezza anche sui fornelli. Per una settimana intera papà non poté andare al lavoro a causa di quell’evento eccezionale. 2


Tre Per una settimana intera fummo veramente una famiglia felice. La neve fuori dalle finestre sembrava aver congelato un momento nella memoria. Indelebile come un tatuaggio. Quattro Il salice piangente nel giardino di nonna era ora costellato di milioni di lacrime ghiacciate. Formavano una ragnatela che lo isolava dalle cose intorno. Le altre piante giacevano immobili senza mormorare alcunché su tale disgrazia. Il regno vegetale non sembrava voler continuare piangere a lungo. Il giardino dopo quella morte assomigliava a piazza Tienanmen, vasta e disadorna di libertà. L’altalena che riempiva i nostri pomeriggi assolati nello spazio in movimento era schiava di un lieve rollio causato dal vento. La gravità la schiacciava a terra dandole per la prima volta un aspetto sinistro. Ero stato il primo dei cugini a imbrattare le assicelle del seggiolino, quando lo zio Gianni mi spinse talmente in alto che avevo pensato per un attimo che non sarei più sceso. Ricordo ancora le risa dei miei cugini nel vedere i miei calzoncini imbrattati di quella lieve tragedia. Cinque La piccola Cinquecento color pastello del babbo dormiva sepolta da una montagna di neve. Spuntava solo lo specchietto come un piccolo braccio rattrappito che chiedeva aiuto. L’acqua dei canali era diventata un manto spesso di ghiaccio, un gioco nuovo per i bambini che come me abitavano in primavera quei canali come tanti topolini in cerca di formaggio. La Cinquecento color pastello galleggiava come sciroppo dentro a tutto quel ghiaccio che sembrava di starsene tutti quanti nel freezer, cercando il sole che dormiva dietro alle nuvole. Sei I colori e le forme regredivano nei cerchi opachi della mia bicicletta rossa, che andavo a trovare due volte al giorno nel garage. La neve impediva movimenti a due ruote e contribuiva a rendere parecchio difficili persino quelli a due gambe. Sintomi pre-influenzali. Era una Graziella rossa che avevo chiamato Jenni, come la bambina sordomuta di cui ero innamorato alle elementari. L’avevo vinta in una gara ai rigori contro mio cugino Gabriele, che 3


però aveva preteso anche un’aggiunta di dieci mila lire. Diciamo che divenne un investimento per il futuro. Fu anche la bicicletta con la quale mio fratello imparò, e grazie alla quale parecchi anni dopo sarebbe diventato campione nella categoria dilettanti per la gioia di mio padre. Ricordo attaccata alle parete della camera da letto dei miei genitori la fotografia di Eddy Merckx al Tour de France. Non essendo riuscito lui a diventare come il suo eroe sulla due ruote, provò con tutte le sue forze a trasformare mio fratello nei suoi sogni infranti. Si sa che le delusioni come le sconfitte viaggiano sempre in coppia. Sette Lo spazio tempo si stava rivelando. La neve si tingeva di fango e dai tetti scivolava giù in rivoli di acqua dolce. Le piante e gli esseri umani rivendicavano tutti in coro la loro vita banale, il loro lavoro, il traffico e tutto il resto. Otto Nel 1985 ho nove anni. Nonno passa le giornate a dipingere paesaggi bianchi con cavalletto di fronte al camino. Corrado Mantoni scandisce ogni giorno la celebrazione di un nuovo pranzo con la pappa al pomodoro. Lo spazio tempo per loro è già tutto lì dove si trova. Gli oggetti possiedono precise simmetrie nella loro vita che la neve non riesce a levigare. Nove Jenni la incontro mentre vado a prendere il pane per mamma. I suoi occhi traducono silenziosamente tutta la bellezza che sono capace di vedere in questo mondo. Non so ancora cosa sia l’amore e neanche i peli della barba sul viso, ma Jenni da sola basta a insegnarmi che cosa sia il desiderio. Tutto nasce lì in quei nostri occhietti timidi che si illuminano di candore. Dieci È il 27 gennaio del 1985. Fra un mese e quattro giorni esatti compirò dieci anni. Il bianco rumore della neve ha ormai abbandonato questa terra desolata, iniziando a colorare le foglie di sole, ci aspetta una primavera di tumori ma nessuno ancora lo sa. Mia madre se ne ritrova uno dritto dritto nel cervello. In casa si mangiano solo uova al tegamino, che è l’unica cosa che mio padre sa preparare. Io e mio fratello andiamo a prendere gli spaghetti al pomodoro dalla nonna. Mio padre quando torna dall’ospedale guarda la televisione e 4


prega Padre Pio. Quando mamma torna a casa ha i capelli rasati a zero e sembra quasi più bella con gli occhioni verdi che le esplodono in mezzo al viso dimagrito. Qualcuno intanto scrive sui muri W GLADIO. Del pupazzo di neve in giardino è rimasto solo il naso. Una carota che galleggia nell’erba.

Scoprì di essere malato verso la fine dell’inverno. Nei primi tempi, quando ancora ne prendeva lentamente coscienza, se le giornate erano buone insieme a un suo amico andava a fare lunghe passeggiate nei campi intorno casa. Imboccavano una strada ghiaiata che saliva su dolcemente fino in cima alla collina sopra il quartiere. Poi un giorno iniziarono a parlare di morte scandagliando tutte le cose che bisogna sistemare prima di andarsene. La casa, i conti in banca, la pensione. Poi arrivò la primavera, fu lunga, e alla fine entrò l’estate. Il sole scottava e appiccicava i vestiti di sudore. Ormai lui usciva solo per andare all’ospedale a fare la chemioterapia. All’inizio di ottobre il suo corpo non riusciva più ad assorbire ossigeno. Non lo assimilava, non lo filtrava. Cellule asfissiate e sformate gli circolavano ormai dentro gli organi. Il suo amico smise di passarlo a trovare perché ormai lui stava troppo male. La casa, la pensione, il conto in banca, avevano già predisposto tutto. Poi la malattia iniziò a mangiarlo da dentro, fino a ridurlo a una pianta che urla di dolore nella notte. Il suo corpo, negli ultimi giorni, sembrava trasformarsi nel guscio di un insetto.

Caino e la scoperta della parola“morte” Forse è talmente d’amore la sostanza di cui siamo fatti che se non siamo amati diventiamo deformi. Mariangela Gualtieri

Dopo due anni di lavoro, il 13 gennaio 2011 il Teatro Valdoca ha debuttato alle le Fonderie Limone di Moncalieri (Torino) con una nuova produzione: il Caino, per la regia di Cesare Ronconi su testo di Mariangela Gualtieri, dramaturg poetico della compagnia, la cui scrittura è nata durante le prove per l’allestimento scenico. I protagonisti della scena sono Caino, interpretato da Danio Manfredini, L’Alato, un fragile angelo che ha le movenze della danzatrice Raffaella Giordano e la voce di Mariangela Gualtieri e L’Illusionista, impalpabile figura demoniaca alla quale dà corpo Leonardo Delogu; insieme con loro si muove un coro di danzatori/attori (tra i quali incontriamo la figura muta e inerme di 5


Abele, interpretato da Giacomo Garaffoni) che elabora una complessa tessitura ritmica sulle percussioni di Enrico Malatesta e sulla musica elettronica di Alice Berni e Luca Fusconi. Benché la prassi creativa della Gualtieri sia profondamente legata al farsi della scena, il testo Caino ha anche una sua autonomia: pubblicato da Einaudi Collezione Teatro, si compone di diverse parti; in questa sede non mi interessa raccontarvi delle atmosfere visionarie evocate e ricreate da Ronconi, né degli endecasillabi spezzati, veri singhiozzi, della Gualtieri. Mi interessa piuttosto mettere a fuoco il momento in cui Caino, percorrendo la trama antinarrativa tessuta per lui dall’autrice, scopre la parola “MORTE”. Come la poetessa dichiara nella prefazione, Caino somiglia a tutti noi: «quasi mi è parso che prima di noi fosse impossibile comprenderlo per intero. Noi siamo soli quanto lui, distruggiamo la vita fuori e dentro di noi, siamo ormai senza un’idea di prossimo, e siamo anche attivi quanto lui, lontani da qualunque tema celeste, tutti votati alla terrestreità». Nella lettura della Gualtieri, è la fame di amore che spinge Caino all’omicidio e all’incontro con qualcosa di sconosciuto che si chiama morte. CAINO: Perché lo guardo e mi fa orrore? Cosa è cresciuto fra lui e me? Chi ci separa? Come si chiama? CORO: Si chiama MORTE. CAINO: E che cos’è?1 Nella tradizione biblica Caino è l’inquietante e affascinante primo nato del mondo che uccide, edifica la prima città e dà inizio alla parabola tecnologica che arriva fin qui; Caino è il primo uomo a scoprire la parola “morte” attraverso un’azione propria: l’assassinio di un consanguineo, azione che nel nostro mondo scatenerebbe il generarsi di una profusione di discorsi, un’invasione di parole da cui nessun media resterebbe escluso. Caino è la figura biblica che incarna la nascita della tecnologia e la scoperta della morte, della finitudine e della condanna a un’eterna aspirazione all’infinito; metonimia dell’Uomo, quello della tradizione giudaico-cristiana, Caino è l’individuo (mitico) che sta per la specie e che si colloca nella più grande narrazione ontogenetica della nostra cultura (la Genesi, appunto). Louis-Vincent Thomas nella sua Antropologia della morte2 contrappose le civiltà macchiniche occidentali alle civiltà senza macchinismo: dopo aver 1 Mariangela Gualtieri, Caino, Einaudi, Torino 2011, p. 40, corsivo mio 2 Louis-Vincent Thomas, Antropologia della morte, Garzanti, Milano 1976

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osservato che in queste ultime la paura della morte è molto meno marcata rispetto alle prime, egli sostiene che questo dipenda dal fatto che tali civiltà non attribuiscono un ruolo tanto importante all’individualizzazione della persona, ma avendo una mentalità partecipativa, non intendono la morte come separazione. Thomas nota anche che le società arcaiche o primitive non vivono la morte come assenza e insostituibilità perché prevedono meccanismi di compensazione e sostituzione, come il levirato, la reincarnazione, il matrimonio fantasma e così via. Ma torniamo a noi e fate attenzione: uccidendo Abele, Caino (e con lui l’Uomo), non scopre la MORTE intesa come fenomeno, bensì la parola “morte”, nella quale è lui il primo a leggere alcuni significati piuttosto che altri. L’Uomo ha conosciuto la morte ben prima del sanguinoso fratricidio: senza andare troppo lontani dal nostro testo, l’ha conosciuta attraverso i sacrifici a Dio, ovvero nella forma degli agnelli sgozzati da Abele in omaggio al creatore; tuttavia non ha mai avuto la necessità di nominare questo fenomeno prima dell’omicidio di un altro della stessa specie. Gli agnelli non muoiono, si “guastano”, ma non è niente di grave: l’unica a provare dolore è la pecora che, dolente o meno, continuerà a sfornare nuovi agnellini da sacrificare. CAINO: Che ci vuole a guastare un agnello. Ci vuol niente ci vuole. A guastare. Un agnello. Poi la pecora te lo rifà nuovo. Ma fai crescere il grano […] Quello sì che è fatica. E la testa ci vuole. Esperienza. E l’intelligen za. […] E la pecora piange. Bela tutta la notte. Per tre notti la pecora piange.3 In questo sfogo Caino afferma tutta la sua frustrazione: dedicandosi all’agricoltura, ritiene di svolgere un lavoro ben più complesso rispetto a quello del fratello, eppure il pastore è molto più apprezzato e amato da Dio di quanto lo sia lui, perché a Dio i sacrifici di carne sono molto più graditi. In che modo Caino scopre la parola “morte”? Abele, l’unico animale capace di ridere, non ride più. E neppure parla. Caino vede il sangue sgorgare dal corpo del fratello. Gli sembra che Abele sia spezzato. Caino sente dentro di sé «una specie di urlare» che riconosce e riesce a nominare: è la paura. Da disperato si fa aggressivo e più aumenta la paura più ordina al fratello di ridere, di aprire gli occhi, di guardarlo mentre trema. Abele è freddo. Pare un agnello, un «capro macellato». Non somiglia al bell’Abele ed è immobile, senza ridere. Caino vede il sangue di Abele uscire dal corpo immobile. Lo vede impalli3 Mariangela Gualtieri, Caino, Einaudi, Torino 2011, p. 27

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dire. E vede che il suo sguardo va via «E dove va?», si domanda. «Dove sei?», chiede al fratello, incapace di conciliare la contraddizione che cade sotto il proprio sguardo: Abele c’è e allo stesso tempo non c’è, manca. «E perché manchi con un mancare che fa dolore?», chiede. La scoperta della morte appare allora come il realizzarsi, sotto lo sguardo del soggetto, di una sintesi disgiuntiva tra l’esserci e il non esserci; e, immediatamente, come una mancanza che si traduce in paura e dolore. È una mancanza di qualità diversa da quanto esperito dall’uomo fino a quel momento. Il coro, crudele, incalza Caino chiedendogli a più riprese: «Dov’è Abele? Dov’è tuo fratello?». Stremato, Caino risponde che non lo sa, non sa dove sia, sa solo che in parte c’è e in parte manca: scopre che a mancare è la luce nel suo sguardo, che a mancare è il respiro, e il cuore pare fermo: «E Abele pare si sia diffuso tutto all’intorno, che sia più grande, che sia di più, e però manca». Caino scopre l’orrore nel guardarlo, si domanda cosa sia cresciuto tra lui e il fratello, chi li separi. È la morte, dice il coro. «E che cos’è?» chiede ancora lui. Adesso Caino scopre la solitudine. Scopre che una voce e una risata possono esserci un attimo prima e scomparire l’istante successivo, mentre il mondo resta indifferente a questa tragedia dell’individuo; tale e quale a prima, niente è cambiato: «Sole, cielo, piante, pozzo». Eppure c’è dell’altro adesso, una nuova presenza: qualcosa di invisibile che «…ha tolto colore/ alla scena…»; qualcosa di inconsistente, eppure che pesa, che «non ha neanche l’ombra/ eppure smorza la luce». Tanto quanto il sonno della ragione, anche la mancanza di amore genera mostri.

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La mia mamma aveva i seni grandi, non tutte le donne li hanno così belli e grandi. Solo che ora alla mamma è rimasto un solo capezzolo. L’altro se lo sono portato via i medici con un colpo di bisturi. E ora il seno della mamma è monco, è orbo. Sembra un ciclope, perché ha un occhio solo, come quelle creature fiabesche. Una mammella è normale, l’altra è sbercia. È strozzata. Come se di notte qualche animale avesse morso la mamma, un animale invisibile strisciato fuori dall’armadio, e oltre a portarsi via il suo capezzolo l’ha infettata di cellule cattive. È per questo che la mattina la mamma si toccava il petto allo specchio, se lo palpeggiava cupa in volto. Dopo vari trambusti la mamma è finita in ospedale per qualche giorno. E dopo, quando è tornata, era come monca, le mancava qualcosa. Una mattina, mentre si lavava sotto le ascelle, le ho visto il seno ciclopico riflesso allo specchio, tutto cicatrizzato, senza armonia, orbo di un capezzolo. C’è da dire che la mamma non è più stata la stessa da quando è rimasta sbercia di un capezzolo. Ora si spoglia e si veste sempre di nascosto. Quel morso nella notte è come se le avesse portato via anche un occhio e ora che è un po’ cieca si guarda sempre intorno come chi ha paura di scomparire inghiottita cadendo in un burrone.

muore giovane chi è caro agli dei i Greci e il sentimento di caducità della vita umana Nessuna civiltà, come la greca di età arcaica e classica, ha rivolto tanta attenzione alla natura mortale dell’uomo. «In un certo senso, la morte – è stato detto – fu la grande scoperta dei greci, così come l’immortalità fu scoperta dal cristianesimo primitivo»1. La morte viene continuamente esplorata, diventa parte integrante della vita, cosicché l’idea stessa di mortalità è posta in stretto rapporto con tutto ciò che l’uomo compie e pensa. Tale tendenza è connaturata nell’uomo greco, in quanto l’aldilà riveste un ruolo quasi nullo nelle sue credenze; la vita cui egli guarda è racchiusa entro i termini terreni, in essa è assente la speranza di immortalità. Questo convincimento spinge l’eroe, specie quello omerico, a desiderare la “bella morte”, l’uscita gloriosa dalla vita nel fiore degli anni, la cui fama arrivi sino ai posteri2; ideale per il guerriero è la morte conquistata sul campo perché «ad un giovane tutto sta bene, / quand’è caduto in battaglia, trafitto dal bronzo affilato, / anche restare sul campo; tutto è bello, quanto si vede, anche se è morto» (Hom. Il. 22, 7173). L’idealizzazione della morte eroica in giovane età rivela grande distanza da come essa è avvertita oggi dall’emotività umana3; d’altronde, la disponi1 Ch. R. Beye, La tragedia greca. Guida storica e critica, tr. it., Roma-Bari 1984, pp. XVI-XVII 2 Così Ettore in Hom. Il. 22, 304 sg.: «Che almeno non abbia a morire senza battermi e senza gloria, / ma compiendo qualcosa di grande, che si sappia anche in futuro!» (tr.: G. Cerri). Il motivo della “bella morte” non è solo dell’epica, ma si ritrova, entro l’ambito lirico, nell’elegia dello spartano Tirteo (cfr. frr. 6-7 Gentili-Prato), funzionale alla retorica bellicista lacedemone del VII sec. a. C. 3 A parziale correzione di quanto affermato, aggiungiamo che anche ai nostri tempi, o meglio nel post ’68, una morte precoce sia, in fondo, desiderabile: agli occhi di tanti un James Dean o un Bob Marley sono stati,

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bilità a sacrificare anzitempo la vita in battaglia significa sopravvivere nella memoria della polis. Proprio la ricerca di gloria presso i contemporanei e di fama imperitura tra i discendenti è primaria in una società che non dà significato alla vita ultraterrena; il mondo greco arcaico riflette i valori di una società di vergogna, dove l’esistenza dell’uomo è sempre sotto lo sguardo degli altri, ed è nell’occhio di chi sta di fronte che si costruisce l’immagine di sé4; solo dopo, in età classica e, ancor più, nel mondo giudaico-cristiano, prevarranno i contenuti di una società di colpa, dove l’uomo risponde dei suoi comportamenti solo alla coscienza5. L’impresa eroica trova il suo fine nel desiderio di sfuggire alla vecchiaia e alla morte, superandole entrambe; vivi o morti, si viene onorati e glorificati per aver vissuto una vita dal valore esemplare. La nullità della condizione ultraterrena è evidenziata da Achille, l’eroe mai disposto a cedere il primato, che, quando Ulisse, nell’evocazione dei morti, si complimenta con lui per il predominio sui morti, arriva a dire: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. / Vorrei esser bifolco, servire un padrone, / un diseredato, che non avesse ricchezze, / piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte» (Hom. Od. 11, 488-491; tr.: R. Calzecchi Onesti). Le parole, che antepongono la condizione di umile schiavo sulla terra ad una di signoria negli Inferi, assumono valenza forte sulla bocca dell’eroe omerico per eccellenza. La regalità di Achille non si esercita tra i morti; è dovuta, invece, all’onore ricevuto in vita e quindi dai posteri, dopo che il canto poetico lo ha inserito, inalterabilmente vivo, nella memoria collettiva. In tal senso l’epica, oltre che genere letterario, è «una delle istituzioni elaborate dai Greci per dare una risposta al problema della morte, per acculturarla e integrarla nel pensiero e nella vita sociale»6. Suggerisce ancora riflessioni un altro personaggio epico, Ulisse polytropos [dalle molte astuzie, multiforme, versatile], che, ben più di Achille, ha avuto risonanza nell’immaginario delle età future, in quanto le numerose identità e la versatilità di questo eroe hanno fatto attraversare alla sua “ombra” secoli e culture diverse, vero paradigma per l’Occidente7. Ebbene, se l’uomo greco nei momenti entusiastici della vita si sente pari agli dèi8, che invidia solo per l’immortalità, Ulisse potrebbe non morire e passare l’eternità e sono ancora, personaggi di culto. 4 Lo statuto del “vedere” è privilegiato nel mondo greco: il vedere, idein, va ad identificarsi con il sapere, eidenai, come testimonia l’impiego dello stesso verbo in due forme diverse. Inoltre, vedere e vivere è tutt’uno, mentre abbandonare la vista e, insieme, la visibilità equivale a morire, privati della propria immagine e del proprio sguardo: cfr. J.- P. Vernant, L’uomo greco, tr. it., Roma-Bari 1999, pp. 13 sgg. 5 Delinea con chiarezza le caratteristiche delle due civiltà, di vergogna e di colpa, E. R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, tr. it., Firenze 1978, pp. 29 sgg. 6 J.- P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, tr. it., Milano 2000, p. 88 7 Smisurata è la bibliografia su Ulisse e la sua fortuna: basti ricordare P. Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna 1992 e il volume Ulisse nel tempo. La metafora infinita, a c. di S. Nicosia, Venezia 2003, che raccoglie le relazioni del convegno Odisseo 2000. Ulisse nella cultura contemporanea, svoltosi nel 2000 a Palermo. Senza dubbio minore è la fortuna incontrata da Achille, personaggio monolitico, sempre guidato da principi irremovibili: la sua “ombra” nelle letterature successive sarà molto più sfumata. 8 Pindaro illumina la felicità esaltata che può giungere improvvisa all’uomo, anche solo per un soffio di tempo: «La vita dell’uomo dura un giorno. Che cosa è, / e cosa non è l’uomo? È solo un’ombra / in un sogno, ma quando Dio diffonde il suo splendore, / la terra è inondata dalla sua luce / e la vita diventa dolce come il miele» (Pyth. 8, 95 sgg.).

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con Calipso; la ninfa promette non solo di evitargli le prove e le disgrazie nel ritorno ad Itaca, ma anche di renderlo eterno, senza conoscere vecchiaia e morte. Ma un’immortalità anonima non procurerebbe ad Ulisse presenza duratura nella memoria dei posteri quale eroe scaltro e capace di pazientare a lungo per superare avversari e pericoli: dunque, vivo sì per sempre, ma preda dell’oblio, uno dei tanti uomini inghiottiti dal silenzio più buio. La scelta dell’eroe va in altra direzione: alla tentazione d’immortalità egli preferisce una vita disseminata di insidie che, abbracciando tutti gli aspetti della condizione mortale, costituisca metafora tra gli uomini di ogni tempo. Motivo centrale nell’epica è dunque la gloria che il guerriero si procura grazie al coraggio e suggella, prima del tempo, con una morte eroica; qualcosa di analogo presenta l’universo della lirica, dove il poeta stesso consegue eternità onorando il culto delle Muse. Al riguardo citiamo Saffo, che fa di tale culto una bandiera di nobiltà, in grado, solo essa, di garantirle autentica immortalità: «Tu morta giacerai né mai ricordo di te / ci sarà nemmeno in futuro. Tu non partecipi delle rose / della Pieria. Ma ignota anche nella casa di Ade, / volata via, vagherai qua e là tra gli oscuri morti» (fr. 55 Voigt). Il dono della poesia eviterà alla poetessa il buio e l’assenza di memoria che, viceversa, saranno compagni alla donna rozza e ignorante con cui ella è in conflitto; le rose della Pieria, ovvero il favore delle Muse, hanno la meglio sulle ricchezze sordide e retrive, per cui ben altro paesaggio fiorito attende Saffo nell’aldilà: «Mi vince il desiderio di morire e di vedere le rive rugiadose di Acheronte fiorite di loto» (fr. 95, 11-13 Voigt). Da altra prospettiva, parole suggestive sulla caducità della vita e le afflizioni arrecate dalla vecchiaia si leggono in Mimnermo, poeta elegiaco vissuto in Ionia nel VII-VI sec. e testimone di una nuova concezione della vita non più aristocratica, ma coincidente con l’affermarsi della borghesia mercantile sulle coste dell’Asia minore; non c’è più nei suoi versi la parenesi guerriera di Tirteo, che invoca la “bella morte” ammantata di eroismo (cfr. nota 2), sostituita da quella erotica, secondo cui, svanita l’età giovanile con le sue gioie, la morte è da preferire alla vita. La prospettiva della morte o, ancor più, della vecchiaia che toglie serenità anche alla giovinezza, investe buona parte dell’opera, a noi pervenuta, del poeta che nel mondo antico ha cantato più febbrilmente la brevità e l’inarrestabile fugacità della vita. Paradigmatico al riguardo è il fr. 8 Gentili-Prato, che contiene il celebre paragone – già omerico (Il. 6, 146 sgg.) – tra gli uomini e le foglie: «Noi, quali foglie che genera il tempo fiorito / di primavera, quando d’un tratto crescono ai raggi del sole, / come loro, per lo spazio di un cubito, dei fiori di giovinezza / godiamo, dagli dei non sapendo il male / e il bene: ma le Chere9 ci stanno a lato scu9 Chere e Gorgo sono figure femminili della morte, per lo più mostruose e rappresentate come forze ma-

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re, / l’una che regge il termine di vecchiaia dolente, / l’altra di morte. Per un attimo esiste di giovinezza / il frutto, quanto sulla terra si spande il sole. / Ma poi, quando sia trascorso questo termine di tempo, / subito l’esser morto è meglio che la vita: / ché molti mali vengono nell’animo: talora la casa / va in rovina, ed ecco di povertà i travagli penosi, / un altro poi sente la mancanza di figli, e con questo / estremo desiderio se ne va sotto terra all’Ade, / un altro soffre straziante malattia: nessuno v’è / tra gli uomini, cui Zeus mali molti non dia» (tr.: G. D’Ippolito). Eroi e poeti, due figure indissolubilmente legate tra loro, che ricordiamo con ammirazione a dispetto dei millenni trascorsi: di certo il loro “dardo” non ha mancato il bersaglio! lefiche, che si accaniscono contro gli esseri umani per sprofondarli nel mondo dell’oscurità e della notte; Thanatos, figura maschile, fratello di Hypnos, il Sonno, non ha niente di spaventoso o mostruoso, ma è più vicino alla “bella morte”, quale ideale di un’esistenza eroica e garante di sopravvivenza immortale (chi voglia approfondire questi differenti aspetti della morte nell’antica Grecia può leggere il già citato J.- P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, tr. it., Milano 2000, pp. 111 sgg.).

V Dolciastro un dentro un iter nel pruno. Il dito mostra le escavazioni e il nero la masticazione dalla ruggine dei vermi, la gomma brillante, i canali, una lacca, minimo fiume interno fluminis acedia sottocorticale poi più niente fra vita e morte – una fascia di frazioni di hertz, quasi zero. (Meno).

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VI È il calco funebre, è i movimenti – complicatissimo. Lo scheletro dell’insetto non piccolo, capíto scostato, letto no, né dato araldo di minio alcuno, dalle minime repliche di vento basso, prose per dune. Ma il cane non pensa che a oscillare distorto surtout inclinazione il lungofiume o mare in giro. Non è in vena di nomi. È importante solo (ma di niente) l’eco chiave quadra del distare Poesie tratte da Ossidiane

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Era crollato a terra, un giorno, si era inginocchiato in mezzo al bar e aveva iniziato a piangere. Piangeva lentamente. Rauco, gemeva straziato, faceva uno strano verso come se non riuscisse a respirare. Era caduto all’indietro, così, da un momento all’altro. Prima sfogliava il giornale, in piedi, con la tazza di cappuccino appoggiata sul tavolo. Poi era rimasto immobile, senza muovere un grammo di pelle e cogli occhi che gli si andavano spegnendo mentre fissava il vuoto. Come se d’improvviso tutto il nero gli fosse uscito da una botola in fondo al cuore e lo avesse annegato. Allora si era accasciato a terra, trascinando con sé il giornale dal tavolo. La tazza del cappuccino si era infranta cadendo e a quel punto tutti si erano girati mentre il latte marrone di caffè si allargava in una macchia sul pavimento. Così, in ginocchio, l’uomo che leggeva il giornale aveva iniziato a balbettare. Piangeva, fra le pareti della stanza, con la testa bassa e gli occhi persi fra le gambe di chi gli si era avvicinato intorno. La ragazza del bar cercò di sollevarlo, di prenderlo per un braccio e portarlo fuori. Ma lui era più pesante del piombo, aveva il cemento nei polmoni e si appallottolava il giornale fra le mani, con tutte le notizie della sua città scritte, dense dense, in caratteri neri, così vuote e inutili, così rinsecchite, come i suoi giorni. Di umido e vivo gli erano rimaste solo le lacrime e il catarro su e giù per l’esofago. Poi avvenne tutto come per automatismo. Scattò in piedi e afferrò un coltellino di quelli per tagliare il limone che era lì, appoggiato sul bancone, e se lo infilo nel ventre, tre, quattro, cinque volte, la gente prima non capì poi cercava di fermarlo e gli fu sopra e gli bloccava le braccia. Ma lui, con una smorfia in volto, non la voleva smettere. Voleva solo tagliuzzarsi tutte le budella, ridurle a una poltiglia.

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il mattino ha l’oro in bocca L’inverno è alle porte. Il tiepido sole di fine autunno s’affaccia un’ultima volta prima di lasciare la scena, mentre tutt’intorno regna, sovrano, il silenzio. All’improvviso, l'inquadratura che prima vagava assopita sembra scuotersi a un rintocco ossessivo. La cinepresa scruta l’incontaminata natura che la circonda, sino a fissarsi su di una sinuosa strada che serpeggia tra i boschi; ecco che compare tra gli alberi, a singhiozzo, la nervosa arrampicata di un giallo Maggiolino. La musica incalza, sempre più lugubre, per approdare e quindi “morire” dolcemente sull'immagine statica d’un complesso alberghiero: l’Overlook Hotel. L’incipit musicale che muove questa prima sequenza è la rivisitazione sonora del V Movimento Songe d'une Nuit de Sabbat (il Dies Irae1) della Symphonie Fantastique di Berlioz, abilmente riadattata dal compositore Wendy Carlos (già al lavoro con Kubrick per la soundtrack di Arancia Meccanica). L’azione introduttiva esercitata da quest’apertura ha il compito d’orientare lo spettatore su un piano psicologico e di fargli presagire il “negativo” che dominerà la fabula filmica. Ora, per usare un termine del gergo operistico, questa prima parte assumerà la valenza di un'ouverture strumentale. Nella secolare tradizione del teatro d’opera, tale apertura “istruisce” l’ascoltatore identificando in musica le peculiarità dei personaggi principali e il profilo della storia a cui assisteranno. Partendo da questa prima interpretazione, le tre successive didascalie – The interview, Closing day, A month later – esplicitano le scene del nostro primo atto, dove si compie una parabola narratologico-musicale che culmina con la crescente follia del protagonista. Subito s’identifica la figura di Danny, figlio dei coniugi Torrance, contraddistinto – come si dice in gergo operistico per rivelare un personaggio alla sua apparizione – dal brano Lontano scritto dal compositore ungherese György Ligeti. La musica conduce l’azione e identifica il soggetto, in un primo momento, mentre questo osserva le due bambine nella sala ludica dell’Overlook e poi durante il telepatico discorso con il cuoco Hollorann. Proprio sul finire di quest’ultima parte, come fosse un leitmotiv, la musica di Ligeti ritorna incorniciando uno dei dialoghi più emblematici del film: quello tra Hollorann e Danny. Infatti essa caratterizza la natura dei due personaggi, contraddistinti dalla “luccicanza” (o shining). Osservato da un punto di vista operistico, il brano conduce lo spettatore/ascoltatore verso una negativa premonizione 1 Il Dies Irae all’interno del V movimento della Symphonie Fantastique di Berlioz, ha una struttura musicale suddivisa in tre ideali sezioni e/o blocchi; nella prima, i bassi, l’oficleide e il rintocco delle campane evocano il richiamo delle streghe, nella seconda invece subentrano i corni e i tromboni – ossia il corpo strumentale ricreato da Carlos Wendy per il film – che ricordano una lugubre e nefasta marcia, e infine nella terza, contraddistinta da viole, violini, oboe, flauti e clarinetti culmina il demoniaco rituale del sabba.

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di quello che sarà l’evento futuro. Il dialogo, “tessuto” all’interno della scena, assume una dinamica molto vicina al recitativo, dal momento che soddisfa la diegesi narrativa. L’ultima scena – A month later – presenta un altro aspetto interessante. Il conduttore sonoro è il III movimento di Music for Strings, Percussion and Celesta di Béla Bartók. Minimale, inquietante nonché spaventosa, quest’opera, costruita su un sapiente dialogo tra archi, pianoforte, celesta2, arpa, timpani, xilofono e percussioni, giunge in un momento topico dell’evolversi strutturale del film. Sancisce infatti l’ipotetica fine del primo atto. Il protagonista, Nicholson, osserva impassibile il plastico del labirinto di siepi dell’Overlook sino a vederne, all’interno, la moglie e il figlio intenti a passeggiarvi. Qualcosa sta cambiando, si percepisce la prima eco di un mutamento psicologico nel protagonista; la rappresentazione sonora è affidata all’incalzante discorso sostenuto dagli ossessivi violini che s’intervallano con il germogliante arpeggio di una timida arpa, segnando l’inesorabile fine del primo atto. Il secondo atto è strutturato, come nel caso precedente, da quattro scene ognuna delle quali porta il nome di un giorno della settimana: Tuesday, Saturday, Monday e Wednesday che inanellano le fasi del raggiungimento della follia di Nicholson. Si tratta di un'ampia sezione incentrata sulla negatività degli eventi, una sorta di parabola discendente che confluirà nell’ultima scena. Anche in questo caso la musica caratterizza il personaggio, qui Nicholson. La composizione di Bartók si erge nuovamente a far da cornice al dialogo tra Jack e il figlio Danny, ed è interessante osservare come il colloquio venga costruito su un abile, seppur sinistro, contrappunto tra musica e sceneggiatura. Di fatto, Music for Strings, Percussion and Celesta, determina i due punti nevralgici – il labirinto e il dialogo – che accompagneranno il protagonista sino alla completa perdita della ragione. All’interno di queste scene emerge intervallata, la verve creativa di un altro compositore: il postserialista polacco Krzysztof Penderecki. Il film è intriso di molte sezioni musicali desunte da alcune sue opere; in particolare, De Natura Sonoris n. 1 - n. 2, Polymorphia, Utrenja – Ewangelia e Kanon Paschy, The Dream of Jacob e Kanon for String, Orchestra and Tape. Si tratta di una serie di composizioni caratterizzate da stridii, da una particolare ricerca materica negli archi, dall’uso di cluster3 e glissati nonché da elaborazioni elettroniche su nastro; elementi capaci di far accrescere il clima di tensione nelle fasi 2 La celesta è uno strumento idiofono a percussione simile a un piccolo pianoforte. Produce il suono grazie a un processo in cui dei martelletti, azionati da una tastiera e un pedale, toccano delle piccole lamelle di metallo producendo un suono che ricorda quello del carillon. 3 Con il termine cluster s’intende un agglomerato timbrico di suoni contigui che si satura su di un ampio intervallo; questa tecnica è nata nel 1912 grazie alla composizione The Tides of Manaunaun del compositore californiano Henry Cowell, il quale l’ideò. Negli anni successivi, molti compositori contemporanei come Stockhausen e Ligeti, ne hanno fatto un uso sistematico nelle loro composizioni.

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salienti della pellicola. Basti pensare all’uso di The Dream of Jacob per le due visite alla camera 237 – prima quella di Danny e poi di Jack – ai ritmi percussivi di Utrenja – Ewangelia per l’omicidio di Hollorann, all’inquietante scritta redrum sino a Kanon for String, Orchestra and Tape che determina tutta la musicalità del finale. Queste composizioni, inoltre, determinano il pieno raggiungimento della follia. L’ultima sezione del film – 4 pm – assume la fisionomia d’un vero e proprio epilogo operistico ed è edificata ancora una volta sulla creatività di Penderecki. Osservato da questa prospettiva, Shining risulta ancor più incredibile perché riesce a far dialogare immagini e musica all’interno d’un più grande discorso: il film. Affermare che questo capolavoro sia un’opera teatrale risulterebbe erroneo, di sicuro esso attua una struttura dialogico-narrativa all’interno del suo plot in cui la musica sfugge dal mero compito d’accompagnare l’immagine per interagire costantemente di scena in scena; un aspetto che per molti versi ricorda i meccanismi attuati nell’opera lirica. Al lettore la possibilità di analizzare la pellicola partendo proprio da questa prospettiva.

C’era un gatto dentro un cespuglio, immobile, che non respirava né faceva roteare le orecchie. Era un fagotto di pelo con la bocca semiaperta e gli occhi vitrei, sbarrati. Sembrava dormisse su un fianco, con tutte e quattro le zampe stese in avanti. Manuel era un bambino, di cinque, sei anni forse, e dopo averlo osservato un po’, iniziò a tormentarlo con un rametto. Il corpo del gatto era duro come una pietra. Lui lo sollevò, con le sue piccole mani di bambino lo tirò su per le zampe posteriori, gli scoprì il fianco e sotto vide un nugolo di vermi bianchi abbarbicati per tutto il ventre del gatto, fra i peli e le pieghe degli arti. Piccoli vermi che si attorcigliavano su se stessi, arrivati lì chissà da dove, sbocciati dalla carne dura. La visione di quegli esseri senz’occhi che lentamente si mangiavano il gatto e lo tormentavano, lo bucherellavano viscidi e molli, gli fece mollare la presa e ritrarre la mano di scatto, come se lo avesse punto qualcosa. L’animale, duro, con un tonfo ricadde a terra, col collo peloso e rigido nella morte, la fissità degli occhi disarcionata da ogni realtà. Il ricordo di tutti quei vermi bianchi che silenziosi tormentavano il ventre del gatto si conservò in Manuel lucidamente fino all’adolescenza.

alchimia,vulnerabilità e bellezza l’arte del trapasso in Anya Gallaccio «L’uomo è misura delle cose, perché il suo essere è il mutamento, perché egli è colui che sta tra la notte e il giorno, tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte. Perché, in una parola, l’uomo è una soglia: l’uomo è la 18


frontiera lungo la quale transita il perituro e l’imperituro»1. Quando osserviamo un’opera d’arte ci poniamo ai piedi di un’invisibile linea di confine che separa il nostro spazio da quello contenuto al suo interno, un non-luogo nel quale ogni regola può essere sovvertita. In questo particolare stato di sradicamento dalla realtà, l’opera vive e prende forma attraverso i nostri occhi, per poi tornare a morire nello stesso momento in cui distogliamo lo sguardo. In quell’assenza di luogo veniamo a contatto per un istante con la nostra precaria natura di esseri di passaggio. Ai piedi di quella soglia vivono e muoiono le opere dell’artista scozzese Anya Gallaccio2. Le osserviamo disposte orizzontalmente sul pavimento, che si tratti di una tonnellata di arance (tense, 1990), di 10.000 rose rosse adagiate su di un letto di rovi (red on green, 1992) o di zolle di terra poste ad intervalli regolari l’una dall’altra (Days that cannot bring you near, 2005). Data la fragilità dei materiali di cui sono composti i suoi lavori - fiori, vegetali, frutta, ghiaccio, sale, grafite, gesso, sangue, candele - essi ci invitano a fermarci, delimitando un’area di rispetto, un fuori e un dentro. La percezione si fa improvvisamente più attenta, siamo costretti ad abbassarci per osservarli da un punto di vista inusitato o ad avvicinarci per sentirne l’odore e coglierne, in un rapporto più intimo, il continuo processo di trasformazione e decomposizione causato dalla loro stessa natura organica. Al termine della mostra, ciò che rimane della forma originaria è una geometria ormai scomposta, ma è proprio in quelle tracce di mutamento che riusciamo a cogliere la contraddizione insita nella nostra esistenza, fatta di luce e di buio, di vita e di morte ad uno solo tempo. Anya Gallaccio non opera direttamente sui materiali per conferirgli una forma come farebbe uno scultore, non li altera, né li estetizza, ma piuttosto lavora attraverso la natura assistendone i fenomeni. Le sue opere diventano vere e proprie azioni performative nelle quali i materiali utilizzati diventano i reali performer. In preserve ‘beauty’ (1991) l’artista comprime 800 gerbere rosse tra due lastre di vetro. Il paradosso che si viene a creare nel titolo dell’opera (che letteralmente significa “conservare la bellezza”), trova conferma nel processo di degenerazione a cui sono lasciate le gerbere durante l’intero periodo espositivo. Nella bellezza e nella forza vitale di quei fiori rossi sono già presenti i semi del loro contrario: «la vulnerabilità delle cose preziose» scrive Simone Weil «è bella perché è un marchio di esistenza. Fiori di alberi che porteranno frutto»3 e pertanto in ogni cosa bella arriviamo a scoprire qualco1 Franco Rella, L’enigma della bellezza, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2007, p. 19 2 Per maggiori informazioni sulle opere di Anya Gallaccio: www.lehmannmaupin.com e www.blumandpoe.com 3 Simone Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950, p. 16

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sa del nostro destino. Così, quel vetro che sembra ergersi a protezione delle gerbere, allo stesso tempo le distrugge, accelerandone la decomposizione. In un’intervista del 1996 sulla rivista inglese Art Monthly, la Gallaccio ricorda la genesi dell’opera Waterloo (1988), un grande rettangolo di piombo fuso distribuito sul pavimento di un magazzino dei Surrey Docks a Londra e presentato in occasione della mostra collettiva Freeze, organizzata dall’artista Damien Hirst: «Waterloo was a transitional work. Before that stage, at college, I’d made objects using real materials - shells, clothes - not really changing them, just compressing them in blocks. Waterloo included an object, a child’s cardigan, cast in bronze in the lost wax technique. I liked the idea that I was destroying the very object that I was trying to preserve»4. La trasformazione alchemica della materia diventa un processo inevitabile, l’energia che da esso si sprigiona dà improvvisamente vita ad una nuova forma, la distruzione lascia il posto ad una rinascita. Così avviene nell’opera intensities and surfaces (1996) che l’artista considera la naturale estensione del suo utilizzo del vetro. Il lavoro, realizzato presso la Wapping Pumping Station di Londra, consisteva in un cubo composto di 32 tonnellate di blocchi di ghiaccio. Come in molti altri lavori di Anya Gallaccio, il luogo ha un forte carattere di interrelazione con l’opera. In questo caso l’artista sceglie quello che originariamente doveva essere il locale caldaie, il luogo più caldo all’interno dell’edificio. All’interno di esso, l’enorme pezzo di ghiaccio inizia lentamente a sciogliersi, come se tutto ad un tratto quella parte della costruzione fosse tornata a vivere. Al fine di favorire il dissolvimento della materia, l’artista pone all’interno del cubo un masso di salgemma, come lei stessa lo definisce «a time bomb…, something totally unpredictable»5. Il sale nell’arco di tre mesi sarebbe arrivato a corrodere e a modellare l’intera struttura in forme imprevedibili e continuamente differenti. Quel masso di salgemma visibile in trasparenza attraverso il ghiaccio in scioglimento viene paragonato dall’artista ad una forma organica, simile a un cancro o a un cuore: l’uno conduce alla distruzione, l’altro mantiene in vita. I lavori della Gallaccio ci invitano all’attesa e ad una profonda concentrazione, soltanto sapendo aspettare possiamo avvicinarci alla fragilità delle cose e scoprirne la bellezza. 4 Patricia Bickers, “Meltdown”, in Art Monthly, April 1996, p. 4, di seguito la traduzione : «Waterloo è stato un lavoro di transizione. Prima di giungere a quello stadio, al college, avevo realizzato oggetti utilizzando materiali veri - conchiglie, vestiti - in realtà non cambiandoli, ma soltanto comprimendoli in blocchi. Waterloo includeva un oggetto, il cardigan di un bambino fuso in bronzo con la tecnica a cera persa. Mi piaceva l’idea che stavo distruggendo il solo oggetto che stavo cercando di preservare». Come Anya Gallaccio prosegue nell’intervista, in Waterloo il piccolo oggetto in bronzo doveva essere messo in relazione al rettangolo in piombo fuso. L’opera infatti era costituita dal rettangolo in piombo distribuito sul pavimento e dal piccolo cardigan fuso in bronzo, che venne ugualmente esposto in mostra dall’artista, nonostante i suggerimenti del curatore. Come spiega la Gallaccio, con questo gesto di indipendenza artistica desiderava che lo spettatore evitasse di accostare il suo lavoro a quello di un «sofisticato scultore minimale». Al contrario ciò che più la attraeva era il reale processo di realizzazione dell’opera, un processo dinamico e rumoroso, quasi terrificante, come lei stessa ricorda, dal quale tuttavia emerse «un’opera piena di pace, elegante, bella e poetica». 5 Ivi, p. 7: «una bomba ad orologeria…, qualcosa di totalmente imprevedibile».

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Del 1998 è l’opera Chasing Rainbows (letteralmente “A caccia di arcobaleni”). Sul pavimento della galleria dei Delfina Studios a Londra l’artista stende della sabbia, composta di particolari perline di vetro industriali utilizzate per la pulizia di superfici delicate. Lasciando nella semioscurità lo spazio della galleria, Anya Gallaccio fa in modo che soltanto due luci siano puntate a terra, in modo tale che lo spettatore, camminando ai margini dell’opera, possa percepire, attraverso un gioco di riflessi, l’immagine di un arcobaleno che appare e scompare. In quell’istante il visitatore riesce a comprendere la realtà nella sua tensione di opposti. Astraendosi dal normale scorrere del tempo e sovvertendo le immagini che ha abitualmente del reale, egli dà pazientemente forma all’opera, la crea attraverso i propri occhi e la dissolve attraverso i propri movimenti. Come nel caso di Chasing Rainbows, la Gallaccio è reticente a fotografare le sue opere, nonostante il sistema dell’arte le imponga di documentare per immagini i suoi lavori, che l’artista usa archiviare emblematicamente secondo due date, quella di creazione e quella di distruzione a conclusione della mostra. Le sue opere vanno vissute nell’istante. Sono opere effimere, poiché destinate a svanire come noi essere umani. Di esse non rimangono che immagini stampate nell’incerto terreno della memoria. Tracce di un passaggio, fotogrammi che si succedono nella mente a ricordarci che la morte non è mai definitiva. E così l’artista nel 1999 in occasione di un progetto ad Amden, in Svizzera, rimasta particolarmente colpita dalla bellezza del paesaggio alpino, sceglie per la sua opera blessed un melo morto. Su di esso appende duecento chili di mele legate insieme le quali iniziano lentamente a marcire e a cadere al suolo. Quella morte soltanto apparente è già madre di una rigenerazione. Da alcuni di quei semi rinasceranno nuovi alberi. Ellis siede all’aeroporto e nella noia dell’attesa le torna in mente la morte di lui. Ellis ricorda che era curvo, alto, con pochi capelli in testa. Per un attimo riesce anche a rivedersi davanti i suoi occhi che scintillano liquidi oltre le lenti degli occhiali. E il suo gozzo molliccio. Lui era morto da un anno, Ellis lo conosceva poco, era arrivato da poco lavoravano nella stessa grande azienda ma in uffici diversi, e non ne ricorda nemmeno bene il nome. Forse Giorgio, o forse Gianni. L’aeroporto è pieno di tubi bianchi e di negozi. Alle sue spalle, oltre a un’immensa vetrata, si apre la pista e gli aeroplani fermi, con le ali d’acciaio, sembrano dinosauri addormentati. Ellis immagina l’incidente e la morte di Giorgio (o Gianni?), le ultime curve prima della fine. Immagina il suo corpo ridotto a un cilindro carbonizzato fra le lamiere, vede per un istante la sua bocca sformata e nera affiorare dalle croste catramose del volto, il cranio di lui che si fracassa contro il parabrezza, la vita che esplode come una bolla. Ellis si tocca la pancia, se la strofina. Agguanta una ciambella di grasso che le straripa sopra la cinghia dei pantaloni. Un ragazzo, indiano, seduto davanti a lei, con una maglietta bianca della Ralph Lauren, la fissa un istante succhiandosi le guance con le palpebre sbarrate.

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agonia urbana Osservo l’orologio nel silenzio della casa vuota e mi pare che le lancette parlino un linguaggio che non comprendo. Mi sforzo e resto ad osservare quello strano essere che è cresciuto sul mio muro e che pretende di parlarmi con fonemi tutti suoi. È diventato tutt’uno con la parete che respira al ritmo del suo battito. Sono nelle viscere di uno storico animale del centro, il soffitto è ruvido e bagnato, i rigonfiamenti tumidi e le crepe che affiorano sono le irregolarità di un tessuto vivente. Le venature filamentose dell’intonaco convergono al centro della parete dove, orribilmente, sta il cuore. E pulsa. Incessantemente divide e ordina la mia giornata, la spezza e la frantuma a suon di ticchettii fendenti. Avverto qualcosa di virale nel suo linguaggio, di putrido e mortifero. Decido di uscire, il suo fare assolutorio indica che ho del tempo libero, chiudo la porta e sono in strada. Attraverso l’agglomerato nucleare in direzione centrifuga, verso il diradarsi delle cellule urbane, con i piedi divorati dalle scarpe e le scarpe divorate dall’asfalto bollente. Nelle suole logore ci sono piaghe che non si rimarginano, ulcere dalle labbra irregolari che assorbono la materia calpestata e mi trasmettono l’infezione palpitante. Cammino e percorro le strutture scarnificate dei portici, seguendo il lento concatenarsi delle costole, sovrastato dal soffitto vertebrale, fino a uscire da ciò che resta del serpente che si insinua sotto le abitazioni. Sono al limite esterno del centro, dove, in un passato unicellulare, si apriva lo spazio interstiziale, e dove ora sorge un viale immenso, l’arteria che circonda il globulo, lo nutre e coltiva quotidianamente la sua dipendenza. Fermo al semaforo osservo arroganti automobili che rilasciano intestini trasbordanti in preda al piacere corporale del prolasso. Un tripudio di putrefazione che eccita i conducenti surrenali, intenti alla stimolazione clitoridea dell’acceleratore. Un amplesso vigoroso e convulso che ricerca con insistenza l’orgasmo e non lo raggiunge, nonostante la stimolazione sia corretta, confermata dai gemiti dei motori e il collasso dell’atmosfera circostante. È un’infinita penetrazione, lungo viali orgiastici, che si autoalimenta. Si stuprano con accanimento i gangli sensibili della trasmissione, si consuma il pasto idrocarburico, e i pistoni pompano schizzando olio lubrificante sugli attriti di coscienza. Mi volto e riprendo a camminare, lasciandomi alle spalle il cordone ombelicale che insuffla i germi di un sistema più ampio. Sopra la mia testa filamenti elettrici, connessioni sinaptiche di un organismo che coinvolge cellule urbane, organi statali, apparati economici e mediatici, e avverto in tutto ciò che mi circonda la presenza batterica che progetta il disgregarsi delle unità minime dell’organismo, plagiando la loro consapevolezza, cercando la loro assuefa22


zione, per esercitare un’autorità indiscussa. Mi ritrovo nella piazza centrale e osservo uno squarcio nel suo tessuto, mi avvicino e intravedo nella cavità corporale il sistema linfatico sotterraneo e mezzi uomini ben vestiti immersi in liquidi marcescenti fino al ventre, che si affannano per riparare la falla in un’agonia capillare. Mi guardo attorno e vedo i passanti, persone atomizzate, atomi impersonali, indifferenti, che camminano a passo svelto, controllando gli orologi da polso, pallidi e con adorazione, sovrastati dall’orologio della piazza, montato su una struttura immensa. Osservo il totem di Crono, figlio di Urano e Gea, a loro volta generati da Caos e mi abbandono al movimento incessante della materia. La intravedo formare legami, aggregarsi e trasformarsi generando ogni cosa. La scorgo acquisire consapevolezza della sua natura creativa e farsi umana, inventare distinzioni, concetti e forme, plasmando la sostanza malleabile e dando vita all’organismo che trascende il suo consumarsi. Scopro la materia umana, in preda al terrore che tutto si disgreghi dissolvendo ogni traccia del suo esistere, avvertire la necessità di controllare il movimento, di ordinarlo e scandirlo in istanti intelligibili, per sottrarlo al caos ormai mortifero e incomprensibile. Guardo ancora il torrione dell’orologio e questa volta riconosco la massa tumorale fuori controllo che costantemente divide e paralizza, la paura della morte che si è fatta carne putrida, che ammorba l’organismo e tiene sotto scacco la sostanza umana costretta a rinunciare al movimento. Torno verso casa, scosso dalla consapevolezza della malattia. Incontro poche facce incolori, linfociti isolati e ormai sconfitti. Mi rinfilo nelle viscere condominiali. Sulla parete in contrazione l’orologio abbatte il tempo. Mi avvicino al tavolo e scorgo l’essere bivalve, il mollusco con schermo vitreo e gelatinoso nella valva superiore e nell’altra squame regolari e mobili incastonate nel corpo argenteo. Lo afferro per la coda, lunga e filiforme, che la bestia è in grado di introdurre nel sistema nervoso dell’organismo, e lo costringo ad infilarsi nella parete retrostante. Mi siedo di fronte alle sue valve aperte, tocco il fulcro del suo corpo e inizio a comprimere le sue squame, una ad una, assecondando moti ondosi e peristaltici che originano dalla materia che mi compone e che si trasferiscono all’intera stanza liquida. Scrivo e divento gli atomi del mio corpo, mi disciolgo nell’organismo, mi unisco a molecole resistenti, legate da forze eclettiche, insieme alimentiamo il caos, consapevoli della sua potenza generativa, decisi a non temere il disgregarsi della materia. Nella creatività dell’informe cerchiamo antidoti rigeneranti in grado di dare nuovi significati alla materia, rivitalizzando il senso, per liberare l’organismo dalle incrostazioni calcaree della paura, mortali della malattia. Un moto incessante e vitale che incorpora e alimenta quello essenziale della materia finché, svincolata dalle limitazioni biologiche dei corpi e dalle costrizioni storiche del tempo, tornerà libera creatività per divenire altro. 23


Torino me la lasciai alle spalle, e già nel ricordo mio puzzava come la Marrogna, cioè quel fiumiciattolo denso e opaco di acque oleose e avvelenate che scorreva sotto casa mia, quand’ero un ragazzetto, che a ripensarci ci vedevo dentro galleggiare a pelo d’acqua embrioni, tutti arricciati e aborti d’ogni tipo. Torino, turrita, piena di diavoloni senza corna e angeli dalle ali mozze, una massa infinita che sorride da dietro le colonne dei portici. Torino che già, io seduto in macchina, mi sbatteva in petto come un pesce che muore sotto il sole, come un coniglio che scalcia in una gabbia prima di essere spellato. Io con le mani attaccate al volante nello sfrecciare dell’autostrada notturna con tutte quelle luci che mi schizzano a destra e a sinistra sopra e sotto pari pari a stelle proiettate verso il disfacimento e Torino con gli occhi rossi e le orecchie bianche dentro di me. E poi nella notte tutt’intorno i capannoni e le case e i camion e c’è chi affonda nella sabbia e chi casca dentro uno squarcio e poi i pappagalli elettrici che garriscono e le palme impiombate sulle ciglia di cemento finché non attraversai tutte le viscere della terra nel gocciare dell’acqua che mi rimbombava piena d’embrioni dentro, giù giù verso Napoli ed era l’alba quando arrivai. Un’alba viola e tumefatta alla fine della notte calcarea.

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il cadavere esposto l’Antigone di Jean Anouilh come denuncia tanatopolitica La tanatopolitica è stata definita come il rovesciamento e in un certo modo lʼestremizzazione della nozione di biopolitica analizzata da Foucault e anticipata tra gli altri già da Bataille e da Hannah Arendt nel suo celebre Le origini del totalitarismo. La biopolitica, ovvero la politica del controllo e della gestione della vita, del vivente e delle sue manifestazioni, è stata descritta come la politica del «far vivere e lasciar morire» in opposizione al diritto classico di «far morire e lasciar vivere» intorno a cui si è costituita la nozione di sovranità: il controllo politico sul vivente si estende e si approfondisce ad ogni livello, mantenendo come limite non più (o sempre meno) la possibilità decretare legittimamente la morte di un soggetto, quanto piuttosto attraverso un controllo progressivo delle risorse biologiche, quella di imporne la permanenza in vita. Lʼorizzonte del potere non è più quello di un controllo passivo del vivente e di un intervento attivo ai suoi limiti, ma si rovescia in una gestione passiva del «morente» (inteso come categoria di chi abita o oltrepassa la frontiera di sopravvivenza) e di unʼingerenza violenta sul vivente. Il rovesciamento paradossale di un potere che si legittima imponendo la vita a determinate condizioni e secondo precise logiche e lasciando persistere o incrementando la persistenza di un orizzonte di morte che investe lʼesistenza umana e che contribuisce ad alimentare la strategia della paura che articola la società contemporanea. La tanatopolitica – la forma politica propria del regime nazista (Agamben, Esposito) – rappresenta il ricongiungimento di biopolitica e sovranità, ovvero la persistenza dei due orizzonti, lasciar vivere e far morire e far vivere e lasciar morire, a sancire una frattura sostanziale nel genere umano, a distinguere tra esistenze sacrificabili ed altre da proteggere anche oltre la loro stessa volontà. Se la genealogia di bio e tanatopolitica è stata tracciata a ritroso nella storia del pensiero politico occidentale in particolare per individuare la loro affermazione come prassi governamentale esplicita che si radica nellʼesperienza socio-politica dellʼumano, è evidente tuttavia che la gestione di vita e morte sono implicite ancestralmente nel nucleo fondante dellʼidea stessa di potere. E il potere come forma di controllo degli uomini sugli uomini si struttura di fatto necessariamente attorno alla possibilità da parte dellʼautorità di decidere della vita e della morte di soggetti/sudditi, che non è più appannaggio 26


– pur essendo spesso vincolata ad essa – di un sovranità teologica o metafisica, dunque disumana, ma che al contrario diventa legge umana, legittimità mondana da riconoscere e a cui sottomettersi. Un potere di vita e di morte che arriva a trasformare la morte in fattore politico, in strumento di controllo: la morte crea eroi o annienta nemici, la condanna a morte diventa deterrente per ogni altro potenziale colpevole, ovvero oppositore, lʼesibizione del cadavere una dimostrazione estrema di forza che infierisce sullʼavversario e incrementa lʼautorità del carnefice. Per il suo contenuto lʼAntigone di Sofocle (441), segna drasticamente, nel confronto chiave tra Antigone e il re Creonte, lo strappo tra un tempo eroico, mitico e magico, governato da leggi divine, dal destino e dalla sua “distribuzione”, e un tempo storico, pragmatico, della ragione di stato, del nomos democratico. Tra un tempo in cui la morte è inscritta in un disegno intellegibile e disumano e un altro in cui la morte diventa fattore politico, strumento di potere. Nella riscrittura di Jean Anouiulh (1944, dunque allʼapice della parabola tanatopolitica dei regimi nazifascisti), questa tensione appare estremizzata, e la morte, il sacrificio, il martirio diventano atti di ribellione, di resistenza, di opposizione al potere calcolatore, strategico, giustamente crudele e non più crudelmente giusto. Lo scontro generazionale, il confronto tra un maschile “politico” e un femminile “etico” si sovrappongono e si intrecciano ad un conflitto più profondo, che evoca la martrice violentemente umana del potere inteso come gestione del vivente. Antigone si apre con la non-sepoltura di Polinice, a condannare il suo tradimento contro Tebe, e gli onori funebri per il fratello Eteocle che da legittimo sovrano lʼha difesa; si chiude con la morte dei due amanti, Antigone ed Emone, figlio di Creonte, che si rassegna a sacrificare la promessa sposa del figlio colpevole di non aver rispettato e di aver sfidato la legge della polis in nome di una legge divina – che in Sofocle ha la voce dellʼindovino Tiresia – e dellʼamore fraterno. Il reciproco fratricidio di Polinice ed Eteocle, che rimanda al parricidio e allʼincesto edipici, gesto estremo, eroico, finale come quello paterno, sono tradotti da Creonte nel linguaggio e nella logica della ragione di stato, della gestione fredda del potere: la sfida per il dominio della città di Tebe deve avere una vittima e un colpevole, dunque la non-sepoltura di Polinice e le esequie rituali per Eteocle sanciscono la vittoria della fazione legittima contro lʼaltra, traditrice. La reazione inevitabile di Antigone è il suo rifiuto della strumentalizzazione, il lutto e la volontà di riportare la morte del fratello in un orizzonte umano che coincide con il rispetto di leggi superiori, divine e inconciliabili con la “tanatopolitica” di Creonte. Per opposizione, poi, la tragedia si conclude con il sacrificio di Antigone e di Emone, e il suicidio della regina Euridice, che sembrano essere giustificati come pas27


sionali, sempre da un potere (Creonte) che non è in grado di confrontarsi con la violenza sovversiva di questi atti, con la loro inutilità nellʼorizzonte della ragione di stato, che diventa invece lʼestrema affermazione di leggi umane che la trascendono. Un incrocio enigmatico e drammatico che lascia intuire lo scarto tra il senso e la rappresentazione della morte nellʼorizzonte mitico-tragico e la sua successiva ricollocazione culturale e politica: Sofocle sottolinea questo scarto ad Atene negli anni dellʼaffermazione del progetto democratico di Pericle e dellʼinstaurazione di un equilibrio fondato sulla divisione interna della polis, Anouhil estremizza questa tensione quando, nella Parigi occupata del 1944, rifiuta la morte come strumento politico e la difende come culmine dellʼesperienza umana1. La non-sepoltura di Polinice rimane un odore di putrefazione, una decomposizione fuori campo, e la tragedia (lʼumanità) protegge, cela allo sguardo quello che la ragione di stato espone alla polis come monito e come legge, mentre le esequie funebri solenni di Eteocle si rivelano essere a loro volta una messa in scena di pragmatismo e cinismo politico. Lʼatto di sfida di Antigone, la sepoltura secondo i riti e le leggi divine, si rivela umano, pudico, e insieme temerario ed estremo proprio perché rifiuta lʼuso politico della morte e del cadavere. Sarà la stessa ragione di stato a punirla, rinchiudendola, viva, in una grotta, perché il suo sangue non macchi il suolo della città, perché non possa essere “recuperata” ed eletta a vittima sacrificale compromettendo la logica dellʼesibizione strategica della morte e del supplizio. La sua morte sarebbe dovuta essere invisibile, sottratta allo sguardo e al giudizio del popolo, neutralizzata e ridotta a questione privata, o a fredda esecuzione della legge sovrana. Ma il manifesto, lʼesplicito, lʼaffermativo, non resiste alla pressione e alla forza irruenta della passione che Antigone incarna e assume, in nome di un destino segnato, e della scelta di non sottrarsi ad esso. Il legame dʼamore risucchia Emone nella tomba di Antigone, Emone si trascina dietro il re, al buio, fuori dalla scena: perché veda, senza che il pubblico veda – ancora pudica la tragedia –, lʼinganno impotente del potere, e la forza sovversiva della morte che si sottrae alla legge dello stato per riconsegnarsi ad una legge umana/ divina. Per il dramma, per il cinismo politico, ogni morte è negoziabile, strumentale e strumentalizzabile, ogni atto umano è riconducibile o inscrivibile nelle dinamiche di gestione del potere; nella tragedia, nella vita, ogni morte è assoluta, inevitabile, scritta e libera o quantomeno liberata dallʼuso politico e dalla sua sussunzione nellʼuniverso dei vivi, per inscriversi in una dimensione umana e sacra. Il dramma occulto e freddo del politico di fronte alla ineluttabilità della vita. 1 La morte come strumento (e non solo come effetto) di guerra ci ricorda il gioco di strategia militare concepito dagli allievi di Foucault: Djambi, lʼéchiquier de Machiavel (vedi ARGO – Play) dove i cadaveri fungono da ostacolo al nemico.

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Ora sono a Napoli e guardo in alto, alla ricerca del sole. Il sole che tramuta tutto in sangue, sangue e merda, merda e sangue. Dentro a un vicolo ci sono un uomo e una donna, siedono su cassette di plastica ribaltate. Lui c’ha un porro sul naso, grosso come un cece da cui si irraggiano minuscoli peli. Lei ha le gambe gonfie come un’elefantessa e il gonfiore violaceo è strangolato dentro ciabatte di plastica che quasi esplodono. Alle loro spalle, contro un muro scorticato dall’umidità, ci sta un frigorifero bianco. Lei lo apre, dentro c’è una pila di piatti e poi forchette e bicchieri alla rinfusa. La donna con le gambe d’elefante prende un piatto cupo, ci versa dentro pasta e patate e me lo offre. «Sai che cosa ferma la decomposizione?», mi fa l’uomo. Io non rispondo. «Il freddo, il freddo del frigorifero», continua lui. Mi ritornano alla mente i pomodori di mia nonna, custoditi nel freezer in cantina, mi mandava a prenderli ed erano duri come sassi, quasi grigi. «La notte ci copre di brina. Noi ci raggomitoliamo sulle nostre ginocchia. Ma lei viene a baciarci gli occhi e ci pietrifica», dice la donna mentre ci dà giù col suo braccione per mescolare pasta e patate nel pentolino. Io guardo il sole, in cielo, il caldo inonda i vicoli. Il caldo che intorpidisce il sangue, che scongela i morti chiusi nelle celle frigorifere e li restituisce alla putrefazione.

compagno dolore un modo per esistere nelle case di cura Possiamo vivere in pace e morire in pace soltanto quando siamo diventati coscienti del nostro ruolo, fosse pure il più insignificante e inespresso. È soltanto questo che ci rende felici. Antoine de Saint-Exupery, Terra degli uomini

Un’indagine timida, la mia, che non mira a svelare verità assolute. Ho condotto una ricerca su luoghi e tempi della cura del dolore in ospedali e hospice (strutture per la cura dei malati oncologici a uno stadio avanzato); un viaggio che mi ha condotto a sentire, vedere e toccare una materia difficile da circoscrivere in una definizione. Il dolore: come ci si occupa del dolore di un altro essere umano? Secondo quali criteri? Dove? E soprattutto, di quale dolore o dolori ci si prende cura? Sembra esserci un forte legame che unisce il senso della sofferenza a quello della vita e della morte. Forse è questo che ci spinge ad avvicinarci al dolore e ad accostarlo con interesse quasi scientifico prima che esso ci raggiunga senza chiedere permesso. Tutti affermano che preferirebbero arrivare alla morte in fretta, senza soffrire, senza sentirsela avvicinare, solo finendo di vivere. È evidente che in un tale proposito il dolore non è che d’intralcio. Eppure c’è dell’altro. Un senso del dolore diverso, vissuto, non previsto, ma che si impone prepotentemente come segno di vita. A volte ricercato. E che non è martirio. 29


Ho conosciuto il signor Q una mattina di giugno, rientrava all’hospice dopo un periodo passato a casa per un improvviso peggioramento e un aumento del dolore dovuto al cancro. Era arrabbiato. Gli avevano assegnato una camera che dava sul giardino. Lo vedevo sempre sulla sedia a rotelle, accompagnato dalla moglie, aggirarsi per la struttura. Continuamente. Il signor Q voleva che sua moglie lo portasse costantemente in giro, non sopportava di restare fermo in camera, inoltre non dormiva mai. Venne più volte sedato, ma il sonno non arrivava mai; al massimo il signor Q cadeva in un dormiveglia che non dava riposo né a lui né alla moglie. Persino il personale faticava a spiegarsi la capacità di veglia del paziente e soprattutto la sua resistenza al calmante. In un briefing, parlando del signor Q, un’infermiera disse che il sonnifero era per lui come acqua fresca. «Eccoci qua, come andiamo, signor Q?», gli chiese un giorno la dottoressa. «Eh… come vuole che andiamo…». «Ma… col dolore come andiamo?». «Con quello là… bene, ho un po’ di male alla cervicale, però». «Ah, allora prendiamo qualcosa di leggero, al bisogno, così non le fa più male». «No, no, per favore! Almeno il mio dolorino alla cervicale, lasciatemelo!». «Mah, se vuole, guardi che…». «No, no, al massimo se potete cambiarmi il materasso… non voglio altro, quel dolorino lasciatemelo!». «Certo, certo». Era come se il paziente non volesse smettere di “esserci”. In un costante presente. Il suo dolore veniva investito di un valore del tutto particolare, poiché diventava per lui la prova dell’esistenza. Essere continuamente in movimento, non dormire e non essere privato del proprio “dolorino” erano segni della ricerca, da parte del signor Q, di una durata. Pensai che la maggior parte di noi vive il tempo come qualcosa che tende a terminare (consegniamo il lavoro entro il sei, prenotiamo le ferie entro la fine del mese, controlliamo sempre la data di scadenza), un “tempo entro” che tende a un fine, ma anche a una fine: finalizziamo il tempo, appunto. Il signor Q no. Il suo scopo era opposto: creare una costante durata era il suo modo di non vedere la fine. Così il signor Q aveva eletto il dolore a marca e compagno della propria esistenza. In corso. Sapere che il compagno dolore c’era equivaleva a sapere di essere vivo. Ho ripensato spesso al signor Q. Soprattutto ho ripensato al suo modo personalissimo di opporre al non sentire della morte, un altro flebile sentire. Apro la credenza della mia farmacia: zeppa di Aulin, Brexin, Efferalgan, Oki… e altri antidolorifici magnifici. Scelgo di non sentire. Ancora per un po’. 30


Il mio viaggio finisce a Palermo. Ero a casa di un mio amico di infanzia, uno di quelli che avevano deciso di non partire. Ora le parole mi rimangono dure come sassi in bocca, hanno perso la loro leggerezza, non riesco più a sputarle. Mi restano dentro come fossero sassi piatti e bianchi sul fondo del fiume. Il mio amico abita in un seminterrato. L’ingresso è al pian terreno, poi si scendono le scale e si arriva in tinello e lui, ora, è proprio in tinello che guarda la tv. Fuori dalla finestra c’è una decomposizione artefatta. Le serrande sono chiuse e bucherellate. I poster della passata campagna elettorale tutti strappati coprono le mura dei palazzi semiabbandonati. Poi qualcuno suona alla porta. Io apro, ecco che davanti a me c’è un uomo con la pelle grigia, le guance perdono pezzi, ha gli occhi fiammeggianti. L’uomo entra dentro, senza dirmi niente, io mi scanso e basta. Piange, mugugna qualcosa, non capisco. È disperato, ed è come se barcollasse, se fosse fuori di sé. Io ho paura, qualcosa mi scoppia dentro. Poi l’uomo si dirige verso le scale che portano al piano di sotto e le imbocca. Dal fondo delle scale arriva il riverbero della luce catodica che illumina le pareti a destra e a sinistra dei gradini. L’uomo scende con passo pesante, scompare davanti ai miei occhi e forse non è ancora arrivato in fondo che dal tinello si alzano delle urla, urla nere, urla che mi fanno impazzire dal terrore.

a morte scoperta Poco più di un anno fa avevo studiato i tempi della decomposizione dei cadaveri, mi serviva saperli per un romanzo. Adesso non li ricordo più, e non posso immaginare in che stato sei, oltre la lapide, dentro la bara, chiuso nel bozzolo di zinco saldato con il piombo e lo stagno. Non posso immaginarlo e neppure lo voglio. Guardo la tua faccia sempre giovane, con quei colori improbabili rinforzati da qualche trucco fotografico, la sovrappongo a quella che ho in memoria dei tuoi ultimi anni. Niente combacia, non il disegno del volto, che ricordo troppo smagrito per rassomigliare a quello che ostenti sulla foto. Per non parlare dell’espressione: vincente in un caso, umiliata nell’altro. Fotografo la lapide, pochi scatti, più che altro per provare la videocamera del mio nuovo cellulare, di cui dicono meraviglie. C’è una piantina che non trovava spazio da nessuna parte, qualcuno l’ha messa nel loculo destinato a ospitare tua moglie, quando morirà. Li ho comprati entrambi, i loculi, mi sono costati una cifra che ho subito creduto opportuno dimenticare. A modo mio sono stato fortunato a trovarne due liberi, adiacenti, e in una posizione che i parenti hanno ritenuto la migliore possibile. Superare il giudizio dei parenti, in occasioni del genere, è una questione vitale. Non avrei sopportato nessuno dei loro lamenti, così come la ripresa di una catena di ostilità taciute che niente come un funerale è capace di rimettere in azione. Sul vasetto, che contiene una rosa e qualche fiore di questo inizio di stagione autunnale, c’è una scritta a pennarello, una calligrafia femminile che assicura: Elena ti ricorda. Non so chi sia questa Elena, non ne ho proprio idea, magari è 31


uno dei tanti segreti che ti sei portato nella tomba, uno di quelli di cui non hai avuto il coraggio di parlarmi. E pensare che di cose me ne hai dette. Alcune soltanto farfugliate, nella concitazione amara degli ultimi giorni. La notte scorsa sei venuto a trovarmi in sogno, a guastarmelo, così come hai rovinato molte giornate della mia vita. Eri già anziano, ma ancora forte, appuntito in quel tuo senso di comando che non saprei replicare. Stavamo in una casa grande, poco illuminata, forse la somma delle cinque case che insieme abbiamo abitato. C’eravamo solo noi due. Ti contestavo di avere affittato una stanza a uno scrittore milanese, uno con il quale non sono mai stato in rapporti di confidenza, anche se per qualche mese ho corteggiato la sua ragazza, strappandole dei baci e promesse vaghe almeno quanto le mie nei suoi riguardi. Ci tenevi a quell’ultima operazione immobiliare della tua vita, mi ribadivi che se questo scrittore, che di sicuro doveva essere amico mio – non siete tutti amici voi scrittori? –, pagava l’affitto avevamo fatto un buon affare. Proprio in quel momento, dall’ingresso principale, sgattaiolava in casa questo mio fantomatico amico scrittore, c’era un altro insieme a lui, lo aiutava a portare i bagagli. Loro non hanno salutato noi, noi non abbiamo salutato loro. Mi chiedevo il senso di un’operazione che ci portava in tasca pochi euro di cui non avevamo bisogno, e in cambio ci scombinava la vita. Stavo per ribadirtelo, non te ne saresti stupito perché la testardaggine me l’hai insegnata tu. Tu invece ti rabbuiavi, quasi presagissi i giorni che stavano per arrivare, quelli delle malattie, dell’allettamento, della morte: maestro di scena fino all’ultimo. Ti sei alzato e sei andato a dormire, mentre io sono stato costretto a rimanere in quella penombra ad aspettare che l’accompagnatore del milanese se ne andasse. Ti ho odiato, in quei frammenti di sogno, ti ho odiato perché per l’ennesima volta mi impedivi di godermi il tempo mio, tu che non hai mai concesso valore al tempo degli altri. Nel sogno scoprivo una busta grande appoggiata sul tavolo, gialla e spiegazzata agli angoli, come tante ne ho trovate quando ho cominciato a rovistare nei tuoi cassetti, per capirci qualcosa di quello che facevi e di quello che avrei dovuto fare io, tu ormai murato dietro una passata di calce che nascondeva una fila compatta di mattoni forati. Non ricordavo di averla vista prima, la busta gialla: forse l’avevi dimenticata prima di andare a dormire. Forse avevi fatto apposta a dimenticarla. Nella busta c’era una fotografia di Amedeo Nazzari. La guardavo con curiosità e scoprivo che l’uomo ritratto nell’immagine eri invece tu, tu che ti atteggiavi ad Amedeo Nazzari. Ti eri anche fatto crescere i baffetti, come in un’altra fotografia che avevo trovato, quella volta frugando fra le tue cose e non vagando nei miei sogni. C’eri tu, il tuo fratello minore e la tua sorella maggiore. Firenze dominava 32


sullo sfondo. Tu eri lì per fare la guerra, loro erano venuti a trovarti. Mi aveva messo tenerezza l’idea che si potesse rendere visita a un combattente. In quell’occasione avevo cercato invano la paura nei vostri volti: non ce n’era. Io ne avrei senz’altro avuta. Ti guardavo con una curiosità che assumeva mano a mano una punta morbosa, ai limiti dell’ossessione: sembravi proprio Amedeo Nazzari. Mi veniva da sorridere. Avevi l’aria del donnaiolo che avresti voluto essere. Certo, qualcuna te la facevi, ma per quello che mi pareva di capire erano scarti, mogli che nessuno voleva, neppure i mariti legittimi. Donne che ti incrociavano, alle quali forse concedevi un piccolo favore. Piccolo però, niente che intaccasse l’economia solida che trascrivevi ogni mese sulle pagine di un quadernetto che chissà quante volte hai sfogliato. La tua roba, quella che nessuno poteva portarti via. Insieme alla fotografia c’era un pacchetto di fogli protocollo, in parte scritti a macchina, in parte a mano. L’autore del testo, lo si capiva dalle prime parole, era Alberto Sordi. Stavo sognando di te: che Sordi fosse uno dei tuoi attori preferiti di sicuro aveva la sua influenza. Ti piaceva, forse perché aveva il tuo stesso modo di fare. Avevate sempre l’aria ingenua anche quando innocenti non lo eravate, stordivate gli altri di chiacchiere senza costrutto, di ragionamenti attorcigliati, di ipotesi lunari, e con quelli mandavate al diavolo ogni remora etica e qualsiasi possibilità di rivalsa. I vostri interlocutori rimanevano inebetiti, convinti di avere incontrato una persona perbene. Quando se ne fossero ricreduti, sarebbe stato ormai troppo tardi. In quella che solo sommariamente si sarebbe potuta definire una lettera, Alberto Sordi assicurava, chissà perché un po’ a macchina e un po’ a penna, che ti ammirava molto e che avrebbe voluto fare di te un attore. Che coincidenza incredibile, se si fosse trattata di realtà e non di sogno. Anche di me avrebbero voluto fare un attore, sia pure soltanto di un piccolo film. Ho rifiutato perché c’erano diverse scene erotiche che mi disturbavano. Avrei dovuto vestire i panni di un ebreo avanti nell’età, un usuraio potente che s’invaghisce di una ragazzina dalla quale si compra tutti i piaceri che può desiderare. I desideri che si possono comprare diventano atti meccanici, e io non avevo voglia di compiere atti meccanici davanti a una telecamera e poi a un pubblico. La regista c’era rimasta male, per consolarla le avevo detto che un giorno, durante una conferenza, un importante cineasta francese aveva elogiato il mio profilo d’attore. Io, quasi terrorizzato dall’idea, non gli avevo nascosto il mio diniego, irragionevole e di sicuro meritevole di una causa meno insulsa. Più che consolarla, la mia confessione narcisista aveva ancora di più rattristato la regista. Chissà se poi il film l’ha fatto. Alberto Sordi scriveva che ti aveva chiamato a Roma per farti fare dei provini. 33


Tu eri andato e la sera precedente avevate cenato insieme, dei bucatini che non sapevi mangiare perché non eri abituato a quel sugo liquido che schizzava ovunque. Il ragù di casa nostra, l’unico che avevi mangiano fino ad allora, era denso, compatto, tutt’al più chiazzava di olio il mento e le commessure labiali. La mattina dei provini non ti eri presentato. Ti avevano trovato nell’Agro pontino (c’era scritto proprio così: Agro pontino, come in un manuale di geografia). Eri nudo, di sicuro ubriaco, forse drogato. Blateravi parole dalle quali si capiva che ti avevano prelevato contro la tua volontà per girare un film pornografico, dove venivi ripetutamente sodomizzato da nerboruti della suburra, anche se di tanto in tanto qualche bella campagnola romana ti permetteva di schizzare dentro la sua bocca, un contentino che chissà fino a che punto hai gradito. Alberto Sordi concludeva che con te ce l’aveva proprio messa tutta, ma che evidentemente non eri pronto a fare il grande salto nel mondo del cinema e quindi ti lasciava tornare a casa, in campagna. A zappare la terra e occuparti dello sterco delle bestie. Non è stato un bel sogno, questo lo capisci anche tu. Ne ho parlato con la mia psicoterapeuta. Ha detto che, nonostante la tua morte, peraltro preceduta da un’agonia lunga e impenetrabile, dobbiamo ancora lavorare molto sul rapporto mio con te, sui nodi ancora da sciogliere. Ha anche aggiunto che al sogno poteva non essere estraneo il test di Rorschach al quale mi aveva sottoposto appena due settimane prima. Del test deve ancora elaborare le risposte, perché ci sono molte varianti di cui tener conto. A ogni modo, nella macchia che avrebbe dovuto indagare il senso della famiglia, io avevo visto un pipistrello, morto, imbalsamato e inchiodato ad ali aperte a una parete, così, solo per esibizione vanitosa e muscolare. Sono venuto al cimitero. Non c’ero ancora stato dal giorno della sepoltura, e sono già passati quasi tre mesi. La lapide l’hanno messa. È una lapide pregiata, con dei bei caratteri e una grafica elegante che resisterà nel tempo. L’unica cosa che non mi piace è la fotografia, sei troppo giovane rispetto agli ottantasei anni che avevi quando sei morto. Non è colpa mia: l’immagine l’hai scelta tu, me l’hai data un paio di anni prima di morire, quando hai cominciato a consegnarmi tutti i tuoi valori, uno dopo l’altro, come in una pesca dagli esiti sempre un po’ magici. Adesso che ti guardo, penso che ho fatto male a ubbidirti. La farò cambiare, quella foto. Non potrò metterci quella in cui ti atteggi da Amedeo Nazzari, anche se sarebbe strepitosa: è rimasta in un sogno di cui mi aspetto altre repliche, nuove rivelazioni, magari altre lettere dai contenuti che solo il mondo onirico può generare. Di sicuro, da qualche parte, mi riuscirà di trovarne una in cui assomigli all’uomo che hai cominciato a essere troppo tardi, un uomo capace di non trattenere le emozioni. 34


C’è una strada che ci arriva, è tutta dritta e grigia e intorno non c’è niente. Oltre gli alberi, questa notte lungo i campi c’è solo un buio pulsante che viene voglia di correrci dentro. Vieni vieni vieni da Aiazzone quanti mobili troverai vieni vieni vieni da Aiazzone e non ti pentirai. E poi arriviamo lì da Aiazzone, che è ormai un capannone abbandonato con le pareti bianche e c’è ancora l’insegna sopra il tetto solo che non lampeggia più. Arrivati nel cortile si vedono tante figure nere che si agitano davanti ai cancelli, come una mandria di vacche nervose. Scendiamo dalla macchina, l’aria è quella della primavera, non c’è nebbia e non fa freddo. Davanti ai cancelli ci sono persone che non te lo aspetteresti mai, quelle con gli occhi mansueti che stanno sempre zitti. Siamo lì in centinaia, tutti ammassati, poi forziamo i cancelli, ed è come tornare bambini, infatti mentre corro nel buio mi viene in mente quella canzoncina, vieni vieni vieni da Aiazzone, e lui col pollice in alto, provare per credere. Vieni vieni vieni in torpedone o in bicicletta, vieni vieni vieni da Aiazzone. Poi entriamo, rubiamo tutto, le televisioni, i divani. Corriamo per il deposito, ci strappiamo gli scatoloni rabbiosi uno dalle braccia dell’altro e barcolliamo come zombi, qualcuno è come se ululasse di piacere. Provare per credere. Forse squittiamo come topi. La polizia in un primo momento ha pensato a un rave party. Ha visto duecento persone come un’orda di zombi assalire un mobilificio fallito. Questi sono tutti fatti, hanno pensato. No no, questi sono tutti morti. Tutti morti, dico io, Aiazzone è morto e noi siamo tutti morti.

veloci,mangiarsi a vicenda gli zombi per Anthony P.Timpone Mr. Timpone, in qualità di critico culturale e cinematografico, pensa che gli zombi siano metafore? Prendiamo ad esempio La notte dei morti viventi di George A. Romero, l’opera seminale sui morti viventi del 1968. Che cosa simboleggiano gli zombi, secondo lei? La paranoia della Guerra Fredda e la repressione omosessuale? La tensione globale sulla controcultura e l’ansia da guerra del Vietnam? Prima di tutto, i film sugli zombi nascono per intrattenere. Questo è il loro scopo principale. Romero sarà la prima persona ad ammettere che non ha mai deliberatamente associato un corollario sociale al suo film. Ma considerando i tempi tumultuosi in cui la pellicola è stata girata (gli anni Sessanta), qualcuno di questi aspetti sociali (l’inarrestabile guerra civile, il Vietnam) deve essersi introdotto piano piano, rendendo il film aperto ai più disparati commenti, se lo si guarda oggigiorno. I seguiti, L’Alba dei morti viventi e Il Giorno dei morti viventi, così come La Terra dei morti viventi e Il Diario dei morti viventi, sono stati comunque concepiti con una diretta rilevanza sociale, specialmente grazie alla feroce critica del regista sul consumismo, espressa ne L’Alba dei morti viventi. Il film 28 giorni dopo di Danny Boyle è sorto non a caso dopo gli eventi della SARS e della paura di beccarsi la 35


Sindrome Acuta Respiratoria Severa, legata agli agenti patogeni di mammiferi e uccelli. I film sui ritornanti sono, in definitiva, spaventosi proprio perché parlano di perdita del controllo (individuale e sociale), di morte (ovviamente) e di mostruosità che hanno la nostra stessa faccia. Ritiene che ci troviamo in una palpabile Era Obama-zombi? Sembra proprio che i film sugli zombi siano più popolari che mai, e che questo stia accadendo in un momento storico in cui Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Forse è per via del collasso economico globale e della fine dei giorni di paranoia? La gente diventerà talmente povera e affamata che finirà col mangiarsi a vicenda? Più verosimilmente, i film degli zombi, come i film dell’orrore in generale, sono una catarsi delle preoccupazioni, dell’agitazione e del disordine della vita reale. Quale film sugli zombi del passato e quale del presente rappresenta al meglio la società americana? I primi due film di morti viventi di Romero hanno una rilevanza assoluta nel modo di descriverci. Hanno un “cervello”. Gli altri, da Resident Evil a Zombieland, sono pura evasione. Divertimento. Il prossimo World War Z, se rimarrà fedele al libro di Max Brooks, potrebbe divenire il film sugli zombi che annienta tutti i precedenti film sugli zombi. Anche in tv, serial come The walking dead, seguono fortemente l’esempio di Romero in modo convincente e potente. Gli zombi di un tempo camminavano lenti e con movimenti sincopati, ma i moderni morti viventi sembrano più aerobici. Come mai? Il pubblico oggi ha poca attenzione e se non gli scorre tutto veloce davanti agli occhi, zombi inclusi, rischi che te lo perdi. Ad ogni modo, zombi che corrono sono anche più spaventosi, perché danno l’idea che la morte ti raggiunga più veloce. Gli zombi sono religiosi? Sono invischiati nella vita politica? Gesù non è stato forse il primo zombi della storia? È ritornato dall’oltretomba. Ha cercato di risollevare Lazzaro, prima di far risorgere se stesso. Gli zombi potrebbero essere metafora dei politici; se la loro corruzione finisse con l’essere incontrollata, ci mangerebbe vivi. Anthony P. Timpone è l’editor del leggendario magazine horror Fangoria e produttore.

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Perché lui pensava di non essere capito, e che tutti fossero cattivi e pronti a ferirlo. Per lui l’unico modo di non sentirsi risucchiato nel vuoto era primeggiare. Solo così si sentiva accettato. E lo lacerava vedere gli altri che lo respingevano e che non ne volevano sapere di soddisfare questa sua pulsione, e che anzi erano pronti a prendersi gioco di lui, ad isolarlo, a ribaltare il desiderio di dimostrare la sua superiorità in un opposto distorto e ridicolo. Li vedeva ridere di lui, prenderlo in giro. Fare le facce strane mentre parlava e lanciarsi occhiate. Che poi erano tre o quattro le persone che lo ossessionavano e intorno a cui i suoi pensieri restavano avvinghiati. Figure intercambiabili, che si rinnovavano da una sua stagione esistenziale all’altra. Gli sembravano iene, esseri grigi, anime putrefatte. Camminava e si mordeva il palmo della mano per sfogare la sua rabbia e si lasciava il segno dei denti sulla carne. Così era finito in un fosso, un inferno nero come il catrame che trasformava le sue giornate in una landa di sassi.

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l’Eva Peròn di Copi la trasfigurazione di un’icona «Mierda. ¿Donde està mi vestido presidencial?». Pronunciando queste parole fa la sua apparizione sul palco l’Eva Peròn di Copi, drammaturgo argentino – al secolo Raul Damonte Taborda –, esiliato in Francia durante il periodo peronista. Nel 1970, quando Eva Peròn è ormai morta da circa vent’anni, Copi mette in scena questo fulminante testo teatrale; in occasione della prima, a Parigi, un gruppetto fascista assaltò il teatro distruggendo tutto. Fin dall’inizio l’Eva di Copi, fantasma ancora prigioniero in questo mondo intento a prepararsi per una festa, combatte contro la morte. Eva Peròn non è più solo Evita, la benefattrice che parla dal balcone della Casa Rosada annunciando la sua prossima e prematura morte. Senza più freni inibitori istituzionali, si dimostra apertamente come l’isterica regina vanitosa già ampiamente ritratta da tanta letteratura antiperonista. Attraverso la drammaturgia, Copi enfatizza ancor di più le caratteristiche già entrate nell’immaginario popolare, dallo smalto al trucco: «Bueno, esta tarde va a poder bailar.[…] Para las uñas quiero el esmalte granate. ¿Queda?». Oramai malata terminale di cancro, Eva se ne va in giro per la Casa Rosada insultando la madre, l’infermiera e Peròn, dipinto come un povero pavido afflitto da emicrania. Il suo mondo è incubo, è già un’oscurità che le fa svelare senza nessun impedimento un linguaggio volgare e un’autorevolezza sul marito, pedina nelle sue mani smaltate. È un Copi irriverente, ironico, che esibisce il cancro della protagonista come un moderno martirio. La sua Eva si fa beffe dei personaggi, del pubblico e perfino della morte. «Escuchame, me muero. ¡Váyase, idiota!»1. 1 I passi teatrali sono presi dall’edizione tradotta in spagnolo. Eva Peròn, Copi, traduzione di Jorge Monteleòn, Adriana Hidalgo Editora.

La gioia è esplosa radiosa, fin sopra i grattacieli, oltre le stelle, quelle stelle della bandiera che ieri sono tornate a risplendere negli occhi delle migliaia di ragazzi scesi per le strade a festeggiare, magari col volto dipinto di rosso e di blu o col mantello di Superman sulle spalle o la maschera di Capitan America calzata sul volto con piglio scanzonato ma orgoglioso. Abbracci, cori, bottiglie alzate al cielo, lacrime, una pioggia di coriandoli multicolore lanciati dalle finestre. Tutti gli occhi brillavano per la felicità alla visione del sangue rappreso sul tappeto nella casa di Islamabad. Il loro presidente, bello e magnetico, sembrava appena sceso da un cavallo bianco quando si è presentato in tv per dare l’annuncio della vittoria e già per le strade sciami di ragazzi dinoccolati sfrecciavano sulle loro biciclette sognando di maciullare con le ruote dentate la faccia tumefatta di quel miliardario saudita che intanto le tv di tutto il mondo moltiplicavano sugli schermi. La festa per la morte di Bin Laden è stato l’evento più cool che New York ricordi negli ultimi tempi.

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memento mori Di questʼuomo sulla settantina sappiamo ben poco. Che ad esempio dopo il liceo artistico non ha saputo cosa farsene del suo diploma e allora ha deciso di fare il barbiere. Siccome di aggiungere altre cose nel mondo non ne aveva gran voglia, ha sentito lʼimpulso di sforbiciarlo. Sappiamo anche che durante i primi anni di apprendistato si è limitato a spazzare i capelli da terra. Grandi mucchi di capelli raggomitolati da infilare in un sacco nero, per poi gettarli nella spazzatura indifferenziata. Il locale dove lavorava come garzone è poi diventato suo. I clienti ereditati dalla vecchia gestione sono rimasti affezionati a quelle pareti e per diversi anni hanno continuato a garantire il pane al nostro uomo. Con questo pane il nostro uomo ha pensato di costruirsi un futuro, comprando una casa e condividendola con una moglie avvenente. Pochi anni dopo il matrimonio, i due decidono che la casa poteva essere rallegrata da un nuovo abitante: un figlio, che poi è diventato robusto e indisponente. Il nostro uomo ora ha quarant’anni e non ne vuole più sapere di parlare del più e del meno. Parla sempre meno e i suoi clienti se ne accorgono, anche se non riescono a intuirne la ragione. Come sua moglie, che approfitta di questa apparente assenza di spirito per ricostruirsi un passato. Si iscrive a una scuola di danza, per imparare a ballare la bachata. Il nostro uomo non se la sente né di ballare né di parlare coi suoi clienti: che parlano di tutto, dai politici sempre più corrotti, alle donne sempre più esigenti, dallʼeccesso di zelo da parte degli ausiliari del traffico ai danni letali causati dal fumo. Alle pareti non ci sono poster, tantomeno donne nude o calendari dellʼarma dei carabinieri. Soltanto una quantità esorbitante di specchi. Le dimensioni del locale sono molto ridotte, ma gli specchi lo fanno apparire molto più grande, quasi sconfinato. Col tempo i silenzi del nostro uomo e la vastità illusoria del locale spingono anche i clienti più abituali a dileguarsi. Al nostro uomo non rimane altra scelta che chiudere il locale, ché non gli garantisce più neanche il pane. Oramai il nostro uomo ha cinquantʼanni e anche se non se la sente di parlare con nessuno, sa che qualcosa in fondo al suo spirito vorrebbe uscir fuori e palesare le radici del suo silenzio. Per diversi mesi le sue giornate sono rallegrate da lunghe passeggiate lungo le sponde del fiume che attraversa la periferia della città. Chissà se al nostro uomo dicono nulla quei grilli rachitici che saltellano da un filo dʼerba allʼaltro, le lucertole che si confondono tra le foglie cadute dagli alberi, i moscerini che ronzano sulla superficie dellʼacqua. Al mattino col sole sorgono le speranze, e lʼuomo si abbandona 41


al proprio destino: il sole cala e spicca la placida luna. Un giorno di fine agosto la moglie del nostro uomo esce di casa all’alba, mentre suo marito è ancora a letto. Non lascia alcun bigliettino, nessun pretesto plausibile, nessuna traccia che possa far ipotizzare alcunché. Il nostro uomo si sveglia di soprassalto quando sente chiudere violentemente il portone di casa, che ora affonda nel silenzio. Passano le ore, e a metà mattinata arriva la posta: che porta con sé un carico di assurdità tale da congelare il nostro uomo nello stupore. Una raccomandata gli comunica lʼesito positivo di un concorso a cui aveva partecipato ventʼanni prima: si cercava un custode per un mulino che la comunità montana aveva deciso di restaurare e riportare in attività, per rievocarne e glorificarne il significato storico. Nei sotterranei di questo mulino erano stati scovati diversi partigiani sul finire del ʼ43, e un gerarca nazista aveva deciso di affogare tutti gli abitanti del mulino in cui avevano trovato rifugio i fuggiaschi combattenti. Dicono che in quel fiume si sentono ancora le grida dei bambini uccisi in quel massacro, ma forse sono solo suggestioni. Dopo ben ventʼanni il nostro uomo era stato convocato per dirigersi in quel luogo isolato, che distava circa cento chilometri da casa sua. Per tutta la giornata il nostro uomo rimarrà riverso nel letto, nel silenzio dello stupore. Passano le ore e arriva sera, e il nostro uomo attende che sua moglie ritorni a casa per comunicarle la grande notizia. Ma la moglie sembra aver perso la strada del ritorno. Verso mezzanotte il nostro uomo sembra voler dirsi qualcosa, ci pensa su, poi rinuncia. Si inumidisce le labbra con un buon bicchiere di latte, un gran bel bicchiere di latte fresco. Sono le 3 e la notte è grandiosa, stelle schizzano in cielo e il nostro uomo se le spulcia con gli occhi sgranati, disteso nel giardino davanti casa. In mutande i suoi occhi si perdono in fondo allʼuniverso, animula vagula blandula. Quandʼecco la moglie far ritorno, completamente ubriaca, in sella a una bici scalcagnata. Il nostro uomo le va incontro nel vano tentativo di sorreggerla. Cadono entrambi a terra e trascorrono la notte così, in attesa che arrivi il nuovo giorno. Un gufo mormora da cime irraggiungibili, lugubri olmi frusciano quatti quatti nel vento pre-autunnale. Lo stesso vento che sʼè portato via la stagione estiva del loro amore. Allʼalba il nostro uomo prepara lentamente la valigia in cui riporrà le poche cose da portar via: e poi se ne va, se ne andrà per sempre. La casa in cui viveva era intestata alla moglie, utenze incluse: nessun legame contrattuale né affettivo 42


che lo tenesse ancorato a quel luogo. E allora andiamo! Via verso il nostro mulino, che si trova in una valle scavata tra due montagne altissime e acuminate. Siccome in questa valle la luce del sole batte raramente, nessun uomo ha saputo insediarcisi. Quindi non ci sono case, non si sentono voci, in pratica non cʼè niente. Solo un fiume e un mulino, azionato dalla forza del fiume. Il nostro uomo entrerà nel mulino tutto sorridente, non conoscendone ancora la ragione. Sa solo che aver vinto un concorso dopo ventʼanni di paziente e silenziosa attesa possa essere un gran risultato di cui andar fieri. Ventʼanni senza dir niente a nessuno, un segreto grande come una casa, come un mulino. La casa è provvista di energia elettrica, ricavata dalla forza dellʼacqua che scorre. Dopo poche ore il nostro uomo ha una strana sensazione: si chiede quale compito debba assolvere, quale mansione gli sia stata richiesta. Tira fuori dal taschino della giacca il biglietto con su scritto lʼorario e il luogo esatto in cui si sarebbe dovuto dirigere. E sembra proprio che sia nel posto giusto, e al momento giusto. Lʼidea che qualcuno, prima o poi, sarebbe giunto a dargli spiegazioni lo rasserena. I giorni passano e nessuno verrà a far visita, tantomeno a dar ragguagli sul da farsi. E visto che le giornate son molto lunghe, il nostro uomo sʼindustrierà per riempirle in qualche modo. Tenterà di dissodare un terreno lì accanto, vangarlo e rianimarlo. Raccoglierà fiori e li lascerà appassire per comporre nature morte sottovetro. Ricaverà coltelli acuminati da elastici ramoscelli dʼulivo. Poi dʼun tratto si accascerà a terra e sentirà che nessuna di quelle occupazioni potrà tirar fuori quella voce che sussurra qualcosa in fondo al suo spirito. Di notte il nostro uomo trascorrerà le ore seduto in veranda, a cercar nel canto degli uccelli nascosti tra i rami una voce amica. Ma neanche gli uccelli sembrano voler dialogare con lui. Dopo due mesi di permanenza in quel luogo, il nostro uomo ha unʼidea meravigliosa: fare una passeggiata nei boschi che circondano la valle, senza fare altro. Si inoltra nel bosco fin quando non scopre una cava di marmo che sʼapre nel ventre della montagna. Per un anno intero il nostro uomo si recherà ogni mattina alle pendici di quel grande biancore marmoreo, in cerca di una voce. Passano le stagioni, e una notte di agosto il nostro uomo è talmente stanco e privo di pensieri che sʼaccascia alle pendici del monte e rimane fermo a guardare il cielo. Una stella cadente brucia e svanisce nellʼoscurità, una fiammata nella notte afona. Improvvisamente il nostro uomo ricorda, sovviene nella sua memoria il ricordo di una notte dʼestate trascorsa in compagnia dei genitori, quando ancora era bambino. Si addormenterà con quel ricordo, scolpito nella memoria. Al mattino il nostro uomo ha le idee chiare, qualcosa è stato scalfito nel suo 43


cuore. Si dirigerà nellʼofficina retrostante il mulino, e prenderà scalpello e martello per poi dirigersi alla cava. Picchia e martella, suda e bestemmia. Grandi lastre di marmo cadono dalla parete, sufficienti a tirar fuori simulacri di corpi umani. Il nostro uomo impiegherà più di un anno a riprodurre le fisionomie di sé stesso e dei suoi genitori intenti a guardare le stelle nel cielo, nellʼestate della sua pudica infanzia. Tre grandi e bianche figure splendono nella notte, le mani intrecciate dietro la testa, il mento rivolto allʼinsù, le gambe divaricate. Un lieve sorriso fuori dal tempo rimarrà impresso in quelle labbra di marmo, caduto dalla montagna. Una volta riportati in vita i propri genitori e il ricordo della sua infanzia, il nostro uomo trascorrerà altre notti a rimirar le stelle che brillano chissà dove laggiù in fondo. E altri ricordi tornano in superficie, il primo bacio, le prime pedalate in bicicletta, il primo tuffo da una scogliera altissima. E con perizia e dedizione riprodurrà le sagome di quei ricordi, tanti sé di marmo caduti dal cielo del tempo perduto. Il primo orgasmo, il primo gol, la prima grande delusione dʼamore. Piccoli glabri omiciattoli riversi nel grande spiazzo antistante la cava, o rannicchiati su una sporgenza della montagna in attesa di tuffarsi. Nel corso degli anni altri nuovi ricordi animeranno fisicamente quella valle, mentre la montagna si sgretolerà di pari passo. Pian piano il nostro uomo ricreerà anche i corpi delle persone che ha perso lungo la strada, i parenti deceduti, i vecchi amori, le persone conosciute in viaggio. In preda a unʼisteria della rappresentazione, il nostro uomo si circonderà del proprio spirito, pretendendo di solidificarlo nel marmo. Gli anni passano e le energie calano, finché il nostro uomo sente che qualcuno di lì a poco sarebbe giunto a fargli visita. È notte quando sullʼorlo della vita, in mutande e scalzo, si dirige in cucina per bere un buon bicchiere di latte. Dalla finestra scorge il popolo dei suoi ricordi illuminato dalla luna, statue baluginanti. Le sue memorie ritte sulle proprie gambe, algidi sorrisi a evocarne unʼillusoria animosità. E sente che è giunta lʼora di riprodurre il momento più importante della sua vita, la propria morte. Il giorno seguente si sveglia in preda allʼangoscia di non riuscire a riprodurre se stesso esanime. In prima battuta scolpirà se stesso disteso nel letto con le mani incrociate sul petto: senza alcun abito indosso. E se fosse morto durante una delle sue escursioni nel bosco o lungo il fiume? Sarà così costretto a immaginare le innumerevoli posture in cui la morte avrebbe potuto coglierlo di sorpresa: riverso nelle acque del fiume, spolpato a terra dopo un volo dalle alture della montagna, dissanguato e disossato dal becco di un corvo troppo irascibile, e così via. Senza tregua.

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I Gli spararono in faccia che tutti sapessero, che tutti ricordassero la sera stessa in piazza commenti da stupidi ventenni stabilivamo con una birra in mano il grado di importanza di una morte (chi lo conosceva, quanti colpi se c’era tanto sangue, quanta polizia) qualcuno stava zitto, qualcuno parlava pochi minuti per tornare all’ordinario: la biondina in jeans tagliati a chi la dava il centravanti squalificato, il motorino truccato.

II La mattina di un primo gennaio: una vecchia 500 sventrata da una cipolla o bomba Maradona qualcuno torna a casa ubriaco si dirada una nebbia artificiale la conta dei feriti su “Il Mattino” una conoscente morta a mezzanotte -una pallottola vagantemi appunto mentalmente il funerale “buon anno” a un passante che non risponde, prosegue lentamente.

III Appeso all’ultimo lembo guardo mani che sgranano rosari la cadenza regolare dei misteri recitati tutto quel che resta. (a O.)

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l’Evento Sono tornato al lavoro alle 15. Come sempre. Ho controllato Twitter, le pagine Facebook che gestisco per lavoro, Anobii. Al ristorante ho mangiato fritto misto e pomodori. Ho dovuto pagare il conto per intero perché il solito cameriere non c’era. Ti eri ammazzato il sabato, attaccandoti per il collo a una trave del soffitto. Nel tuo appartamento, solo. Da bere un bicchiere di vino bianco. Il nuovo cameriere chiede «Caffè?». «Caffè, grazie», dico io. Gestisco tre figure pubbliche e una privata su Facebook. Due e una su Twitter. Varie in Friendfeed, Anobii, Linkedin. È il mio lavoro, lo svolgo meticoloso e burocratico davanti a una finestra che affaccia dentro il porto. Ci sono lavori così, oggi, è un po’ la versione contemporanea del venditore porta a porta. Mentre fuori arrivano le navi. Spesso, devo organizzare eventi su Facebook. Invitare gente. Che faccio, ti invito? Hai due profili su Facebook, sei uno di quelli che ci si è tuffato: giochini, cuoricini, massime da baci Perugina. Immagini. Foto di te con i piatti da portata. Lo ammetto, a un certo punto ho ordinato al mio profilo di ignorarti, i tuoi post erano troppi. Intasavi la mia home. Tutte quelle frasi sul senso della vita estrapolate da un blog di citazioni. Ma dai! Ora, ti invito? Su Facebook hai due profili. Non hai cambiato le foto. In effetti, è impossibile che tu lo faccia. Le persone sono venute in processione sulla tua bacheca, lasciando decine di frasi come fiori sul ciglio di una strada. Mi chiedo se qualcuno abbia fatto lo stesso dalle parti del tuo appartamento, dove sei morto in carne e ossa. Il tuo primo profilo, quello storico, vanta più di mille amici. Facebook te lo ha sospeso per un equivoco, ne parlavi un giorno a pranzo dal bancone mentre spiluccavo seppioline. Poi la compagnia lo ha riattivato, ma nel frattempo ne avevi aperto un altro. Li hai numerati. C’è l’Uno. E c’è il Bis. Quando organizzo un evento e devo scegliere gli invitati, quindi, non solo non sei morto, ma sei doppio. Sei di più. 46


Stamattina creo questo evento: Supernova Island Of Sound. È un festival di musica elettronica. Ti sarebbe piaciuto, forse. Allora, magari ti invito. Fuori il mare. Ma quale dei profili invito? L’Uno? Il Bis? Nell’Uno sorridi. Sei abbracciato a una collega. Tra le informazioni si legge che "Vivi ad Ancona". Aggiorno la pagina, ma continua a dire "Vivi". Nel Bis hai scelto Popeye. Anche qui, "Vivi". Nell’Uno la bacheca è piena di applicazioni Facebook utilizzate dagli altri, 1000 persone delle quali chissà quante sanno che. Tizio ha risposto a una domanda su di te, scopri cosa ha detto. Caio ha risposto a una domanda su di te, rispondi a una domanda su Caio. Sempronio pensa che tu abbia gusto? Scopri se sì o no. L’ultima in ordine di tempo risale a ieri sera alle 21. Nel Bis, invece, ci sono pensieri dei tuoi amici come fiori. Cuoricini <3. L’annuncio del funerale è ancora visibile, sotto la risposta di un tuo amico alla domanda posta da un’applicazione: gli chiede se ti spierebbe mai, nudo. Mi immagino la scena. Aggiorno la pagina, sei "Vivo". Vedi che oggi nemmeno morire per davvero si può. È senza morte questa vita senza corpo. Non sfioriscono come i fiori sul ciglio della strada i messaggini sulla tua bacheca. Non si consuma la tua home al pari dell’asfalto su cui qualcuno si è schiantato. Non piove sopra un sangue che non c’è. Giravi con i piatti unti. Tagliolini al tonno intrisi d’olio che finivano in corpi stretti tra i tavoli e le sedie. C’era sugo rossastro dappertutto nel tuo ristorante, sulle labbra della gente, tra i baffi dei clienti, sui tovaglioli spessi come quelli d’una volta. Sui bicchieri. Eri un inserviente nel mondo dei corpi. Le persone si alzano lente, inciampano, rimettono le sedie al loro posto trattenendo un rutto, infilano nelle tasche mani che odorano di scampi, scoreggiano in silenzio allontanandosi poi in fretta. Respiro la tua assenza, che è incompleta. Questa volta non ti invito. La prossima, magari sì. Un peschereccio si è perso tra le navi gigantesche, va di banchina in banchina come se cercasse qualche cosa poi riparte, ha lasciato scie confuse sulla superficie. C’è aria di sale. Chiudo la finestra, mi distrae. 47









Ed ora che sono stata inghiottita dalle acque, che tutto l’oceano mi è entrato nei polmoni, e fluttuo in mezzo alle correnti nello scuro del mare dove non arriva la luce, penso che forse quel posto che sognavo non esiste. Quel posto di luce e di caldo, di cose da fare e di figli e di mattino e di facce da scoprire e roba da mangiare e da preparare. Ora c’è solo l’acqua nel mio stomaco, e mio figlio, che nuotava nella mia pancia, affonda con me. Tutta la mia pancia gravida è ormai ghiacciata. Povero cucciolo, ora ha smesso di muoversi e darmi teneri pugni. Ora assieme diventeremo ossa bianche coperte di alghe e di coralli sul fondale. Avevo paura quando sono partita, l’acqua era nera e luccicante, e tutti eravamo zitti e poi il mare si è fatto grosso con quelle onde grandi come colline e le stelle sono scomparse. Ci siamo rovesciati nella pioggia, fra le urla e le lacrime. Qui è tutto buio. Quel posto che ho sempre sognato, il mio paradiso terrestre, nato dentro i miei desideri, mi ha strangolato col suo abbraccio liquido e ha congelato mio figlio e ora assieme sprofondiamo sempre di più.

gli hipster e la morte la merce e la resurrezione Angela: «Il signor La Morte, gente. Beh, vuoi dargli qualcosa da bere, caro?». Geoffrey: «Certo». Angela: «È un mietitore il signor La Morte». Tristo Mietitore: «Il Tristo Mietitore». Monty Python's The Meaning of Life New York City è come un cimitero A tutti i cadaveri piace come suono la chitarra Devi essere carino se vuoi andare lontano New York City è come un cimitero The Moldy Peaches - New York City’s like a graveyard

Un hipster? Sì lo so cosa è un hipster, cioè se ne vedo uno so riconoscerlo. No, io non sono un hipster, poi a Williamsburg comunque la scena è già morta, adesso gli affitti costano troppo e il quartiere si è riempito di giovani turisti cinesi e scandinavi pieni di soldi che si fingono del posto. Insomma l’autenticità se n’è andata a farsi benedire. Cosa c’entrano gli hipster con la morte? Tanto per cominciare gli hipster sono morti, sepolti, finiti, kaputt; non ci sono più, ci sono solo tipi e tipe che fingono di essere hipster. Gli hipster autentici ormai fanno altro, magari quando si arrotolano la manica di una camicia, si scorgono porzioni multicolori di tatuaggi ironici e allora ti sorridono e confessano «sì, ero quello che tu chiameresti un “hipster” tempo fa, ma poi la scena è morta e sono passato ad altro». In secondo luogo, gli hipster sono una scena che ha flirtato fin 55


troppo con la morte. Basta ascoltare i Moldy Peaches per capirlo. Chi sono i Moldy Peaches? Sono un gruppo di hipster, o almeno, gli hipster ascoltavano i Moldy Peaches, prima di passare ad altro. Il discorso sulla morte di una scena è presente nella nascita della scena stessa. Appena una scena è riconosciuta tale da persone esterne ad essa, ecco che è dichiarata morta dai suoi partecipanti. Gli hipster sono morti nel momento in cui sono stati classificati come “hipster” – il problema è che questo è avvenuto quasi subito. Tanto per fare un altro esempio, il punk è nato nel 1975-76, tutti pensano che sia morto nel 1978, quando su un palco di San Francisco i Sex Pistols terminavano il loro ultimo concerto con le parole “ever got the feeling of being cheated?”. In realtà il punk è morto poco dopo, quando il gruppo The Exploited ha cominciato a utilizzare lo slogan “punk’s not dead” – uno slogan ridicolo. The Exploited rappresentano la morte del punk perché riproducono quello che la maggior parte dell’opinione pubblica era già in grado di codificare come punk: la cresta di capelli verde, i tre accordi veloci e distorti, le catene e le spille e per di più ti dicono che «Hey, il punk non è morto», per favore continuate a comprare i nostri dischi e le nostre magliette. Imbarazzante. I media hanno provato a spiegarci cosa sia un hipster. I giornali hanno proposto il solito manichino idealtipo (naturalmente maschio) con frecce o didascalie a indicare qualche caratteristica estetica. Per gli hipster le didascalie si soffermavano su baffi ironici o barbe incolte, occhiali da foto segnaletiche di pedofili nel 1975, iPhone, jeans stretti, biciclette a scatto fisso, tatuaggi, magliette col collo a V, poi ci sono social network, siti musicali, gruppi di riferimento e pratiche condivise. Tutto quello che è stato scritto sugli hipsters è quello che è sempre stato scritto sulla bohème in generale. È sempre facile, quanto inutile, spiegare la bohème a partire dai manichini, bisognerebbe invece sempre partire dai luoghi (e nel caso degli hipster da Williamsburg, Brooklyn) e dal loro valore immobiliare, ma questo è un tema che non affronterò perché annoia i lettori. Gli hipster sono una scena nutrita di una quantità spropositata di rimandi alla storia culturale dell’Europa e degli Stati Uniti dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi (partendo dal nome, che designava gli afro-americani stilosi negli anni Quaranta). Questa enormità di rimandi, conseguenza del fatto che in internet si trova di tutto, rende formalmente impossibile stabilire delle linee guida stilistiche ed estetiche, come invece era possibile fare per alcune subculture alla fine del secolo scorso. Ogni tentativo di stabilire cosa è un hipster in generale, si scontra con l’incontro di qualcuno che è percettibilmente un hipster, ma che non ha nemmeno una delle caratteristiche utilizzate per descrivere l’hipster in generale. Un hipster può essere benissimo qualcuno 56


nato a Brasilia, vestito come un operaio irlandese appena sbarcato a Liverpool per sfuggire alla grande carestia delle patate del 1847, che ascolta soltanto musica jazz prodotta in Persia durante la dittatura dello Shah ed ha una conoscenza spropositata del calcio polacco. Questo ha delle conseguenze importanti per il mercato: se vado in una catena di abbigliamento svedese, ad esempio quella che ha per nome due iniziali unite da una congiunzione, e vedo una “camicia da hipster”, nel momento in cui compro e indosso quella camicia, essa muore, smette di essere una camicia da hipster. Arrivato a casa, lo specchio restituisce l’immagine di un triste imitatore di un hipster. Ecco però che mentre tento di liberarmi della camicia da finto-hipster, improvvisamente e magicamente essa comincia a sprigionare una nuova luce simbolica e si trasforma in una “camicia da fintohipster indossata ironicamente come se fosse una camicia da hipster”. Tutto questo può essere spiegato facilmente in relazione a determinati contesti semiotici, rimandi culturali plurimi, costellazioni spaziali etc... secondo la disciplina universitaria che preferite (altrimenti aprite a caso un libro di Slavoj Žižek, il filosofo preferito dagli hipster, e voilà). Il ciclo vita / morte / resurrezione del valore simbolico di un prodotto sembra procedere sempre più velocemente e a caso, come una pallina in un flipper. Marx nel Capitale dice che nel capitalismo «tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria» (ok, l’ho letto in Marshall Berman, non nel Capitale stesso, che non ho mai letto per intero). A ciò va aggiunto che la trasformazione di tutto da solido in gassoso è il presupposto per il gassoso di essere ritrasformato in solido attraverso processi che sembrano essere sempre più imprevedibili e vorticosi anche se forse sono soltanto moderni. Continuando invece il discorso sui gruppi musicali hipster, anche qui ci troviamo di fronte a un sacco di problemi. Nel XX secolo era facilissimo associare una certa scena a un certo genere musicale: gli skinhead ascoltano ska, i punk ascoltano punk, gli skater ascoltano hardcore, i goa travellers ascoltano trance, i risorgimentali italiani ascoltano Verdi, i nazisti ascoltano Wagner. Semplice. Ma cosa ascoltano gli hipster? Qui il discorso è molto più difficile. Secondo i media all’inizio del XXI secolo gli hipster ascoltavano gli Strokes oppure i gruppi Anti-Folk come i già citati Moldy Peaches. Qualche anno dopo ascoltavano gli Animal Collective. Comunque gli hipster ascoltano principalmente musica che ottiene ottimi voti in recensione su Pitchfork. com, che è un sito musicale. Ma non è tutto qui, perché, come già sottolineato l’hipster sfugge a un sacco di definizioni da bohème classica. Un hipster potrebbe in teoria ascoltare solo country&western o avere una sconfinata collezione di vinili di A.O.R. (la adult oriented music, quel rock americano macho-romantico trasmesso dalle radio per camionisti negli anni ʼ70 -ʼ90) o 57


essere appassionato esclusivamente da Erkin Koray (il Jimi Hendrix turco). Anche in questo caso, l’hipster sembra giocare continuamente con la vita / morte / resurrezione della merce culturale nel vortice capitalistico. Una particolarità è rappresentata dal fatto che internet non sembra avere un ruolo preponderante in questo processo. L’hipster è street-wise, cioè saggio, lungimirante, intelligente a livello della strada (intesa come luogo pubblico e reale dove vedere, esser visti, comprare, essere comprati, cercare, essere cercati). Evitando internet (o fingendo di evitarlo), l’hipster riesce a ricostruire un’aura (nel pieno senso benjaminiano del termine) pre-digitale a ciò che da morto è riportato in vita. Questa operazione è assolutamente difficile da capire, realizzare o apprendere. È conseguenza di una sensibilità necrofilo-culturale che adora penetrare la morte: adora il puzzo di sudore stirato dei vestiti di seconda mano, la muffa sulle copertine di dischi, i giocattoli arrugginiti, i libri sbiaditi di cantine allagate, i materassi sfondati di camere ammobiliate e i filmini superotto delle vacanze di sconosciuti. Adora la rassicurante patina del passato che ricopre la realtà ordinata del già vissuto e adora ridarle vita gridando: «Hey guarda cosa ho trovato!».

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tremari 1953. Montesi di ciò che stava per accadere e poi se non torna se muore se ràncora il cielo la schiuma dei giorni le bave non sono stati poi tanti a tornare da rive di lumi le mine le cavi dai sonni arsi a vincere canasta al gioco delle carti fuliggini e petroli e poi le bombe ogni tanto quando occorre e se non torna sarà il brodo a pranzo il vino rosso narrare ritroso la mesa dei legni i bordi cui dedicarsi le croste i quando torni a sporgersi un dentro mari un luogo distante un luogo sui bordi binari leoni a liquefare alluminare a tratti le macchine in corsa tra le dune e poi verso il mare a dire ciò che siamo stati saremo un vuoto vengono giù dai ponti dai pontili le auto blu sono attratte dai bordi come sassi pronti al balzo le auto blu sono attratte dai bordi come sassi pronti al balzo le auto blu sono attratte dai bordi come sassi pronti al balzo

e un pediluvio

1975. 3P Alle 3 e 51 si sgolano i gabbiani in volo nei becchi il mare non è sempre uguale allʼodio lʼoidio dei campi truccati Fregene

a maggese e

i busti del duce 60


dalle 3

come nel ʼ43 atterrano

farfalle a fiumicino

così

vicino

a

lʼidroscalo

ti cascavano davanti

le ali scolorite di farfalle a nessuno piace più camminare sul lungomare dellʼimpasticcato

la riva

che si avvicina pier paolo "a sora gì

lo fai ancora il sugo di spigola

la ricciòla ?"

lʼacquapazza

le mani di dorina pelle e possa morire di rancore con quel televisore

sul tre

sempre acceso lʼamaro nessuno che ascolta

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2011. Nicolai arriva giovedì come nodo alle gambe chi strizza le cosce chi stira la gonna donnaccia non torna ti strappo le ossa le rughe dallʼocchi tentavi la fuga la resa non tiene mantiene la pena un figlio la voglio, se stasera non torna lui muore di crepacuore mi piscio nel letto mi puzzo di cazzo le mani il sesso appeso un peso le mani la pelle sgusciata il prepuzio un sparire nel vuoto che dietro che davanti allarmi!

fascisti prima di tutto e ora

che siamo stati amanti,

le unghie spezzate ben dipinte come se unghiare un cancellare niente se le mani non tiene distante

sesso appeso

il giorno libero

fosse un

"fammi salire" chiedevi Nicolai

non posso cʼè il vecchio che dorme che ascolta una sera di queste poi muore e te sali a predere il tè a fare f orte

ll ʼamore

co

l a

rt

i sui divani

dʼikea

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dal romanzo di Bram Stoker ai sobborghi dell’East Midlands:Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus Indiscusso capolavoro del genere goth rock, Bela Lugosi’s Dead irrompe sulle scene internazionali ricca di macabre sfumature e oscure sonorità; è l’estate del 1979 quando i Bauhaus, formatisi un anno prima a Northampton e capitanati dal carismatico vocalist Peter Murphy, danno alle stampe questo loro primo singolo. Originale, innovativa nonché sperimentale, l’ossessività del sound, nel quale la struttura ritmica che evoca i rintocchi di una campana dialoga con i vertiginosi giochi della chitarra, s’intreccia con la descrizione del cerimoniale che commemora la morte del vampiro Bela Lugosi: «The bats have been the bell tower, the victims have been bled, red velvet lines the black box, Bela Lugosi’s dead» [i pipistrelli hanno lasciato il campanile, le vittime sono state dissanguate, velluto rosso fodera la nera bara, Bela Lugosi è morto]. Il titolo, di fatto, s’ispira proprio alla star del cinema horror (18821956) che rivestì il ruolo di Dracula nelle pièces teatrali della Broadway anni Venti, ideate da Hamilton Deane e John Balderston, nonché nella successiva trasposizione cinematografica del 1931 (che furono, tra l’altro, le prime rivisitazioni in chiave moderna dell’omonimo romanzo di Bram Stoker). Questo brano si colloca in una dimensione alternativa rispetto al post punk britannico di fine anni ’70, proprio perché introduce sonorità più cupe e sinistre; seppur l’influenza di una band come i Joy Division non passi inosservata, la grande personalità dei Bauhaus risiede proprio in quell’inversione di rotta capace di combinare gli introspettivi slanci canori di Murphy alle sonorità dub del basso di David J. e della chitarra di Daniel Ash. Insieme a Siouxsie and the Banshees e The Cure, i Bauhaus completano il trittico delle più importanti band ri-sorte dalle ceneri del punk, destinate a raccoglierne l’eredità introducendo un nuovo linguaggio: l’oscura indagine dell’Io. Quando aprivamo la porta delle camere a gas erano tutti lì in piedi senza vita, pressati uno sull’altro, con le teste che penzolavano, le lingue gonfie, le braccia torte in spasmi ormai afflosciati. Stretti uno sull’altro, erano tutti nudi. Noi smontavamo quell’ammucchiata e li tiravamo fuori. Le gambe erano spesso intrecciate fra loro, e quando iniziavamo a sfilare i corpi ci rotolava davanti agli occhi una danza di organi genitali anneriti e penduli, di mammelle prosciugate e imploranti, di natiche bianche e rinsecchite e di ventri scavati. Smontavamo tutta quella massa e la caricavamo via. Poi toglievamo il disturbo perché altri dovevano arrivare. Li sentivamo urlare finché la stanza si riempiva di nuovo. E poi altri ancora. E poi altri. Quando aprivamo la porta della camere a gas erano tutti lì senza vita, in piedi pressati uno sull’altro, pressati uno sull’altro, con le teste che penzolavano.

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Radio Mattatoio guida all’ascolto di Carta laniena (Franco Scataglini,1982) Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali. Theodor W. Adorno

Mezzanotte è passata. Radio Mattatoio può cominciare. Occorre ripensare l’umanità come una delle tante specie animali non per salvare la terra, ma per salvare noi stessi, per non suicidarci, per non estinguerci. Gli animali, stipati negli allevamenti intensivi e trattati nella civiltà industriale come prodotti da spezzettare, impacchettare, moltiplicare, sono tra i maggiori produttori di gas serra. Avvelenano l’aria. Allevando intensivamente animali ci avveleniamo. E il consumo eccessivo di carne è tra le cause dell’obesità, l’obesità tra le cause dell’infarto. Sterminando animali, quindi, sterminiamo noi stessi. Se è così, fissando un mattatoio fissiamo la nostra morte. E bisogna pensare alla morte per conoscere, per conoscersi: conosci te steso nell’animale che hai steso. Il poeta Franco Scataglini (Ancona 1930 - Numana 1994), celebre per aver creato una lingua di confine (tra dialetto periferico, vernacolare, e italiano antico, letterario), è nato in un quartiere popolare di Ancona, Vallemiano, dove aveva sede il mattatoio comunale. In un poemetto che dà il titolo alla sua prima opera maggiore, Carta laniena (1980), Scataglini ci consegna un affresco allucinato di questo luogo di tortura, allegoria della condizione umana, seguendo le orme del suo amato Adorno. Il primo movimento del poemetto si apre così: No brolo per me fiolo fondo de la realtà ’ntra gialli de vaiolo muri, for de cità i bandoni col stema, cranio de bove a gesso, 64


segno fato patema a mentovà l’istesso. In due quartine di settenari, la sua misura prediletta, Scataglini evoca l’infanzia infelice (da bambino, fiolo, non potè godere delle delizie simboleggiate dal giardino, brolo), un’infanzia passata in un contesto buio, vertiginoso (fondo de la realtà), desolato (’ntra gialli de vaiolo / muri, tra muri bucati e giallastri), periferico (for de cità). E nelle due quartine seguenti altri emblemi di desolazione: Oemme in mezo ai schiopi de la carburazioʼ dietro le foie dei piopi scarince (pel stradoʼ frate in cima a le bande dʼimmacolati corni drento a ʼn fortore grande de piscio a lumi alborni). Saracinesche con lo stemma del macello, teste di bue fatte di gesso, segni della sofferenza immutabile, che annuncia il mattatoio; rumorosi scarichi (i schiopi / de la carburazioʼ) di vecchi camion (O.M. era una una fabbrica di autocarri), dietro le foglie ingiallite e tarlate (scarince) dei pioppi; uno stradone su cui sembra di vedere una processione di animali dalle bianche corna, in un’aria impregnata di urina, all’alba. Chiudono il primo movimento due quartine lapidarie: Passagio de stretoia pel marchio e per la pesa de soto ’na tetoia da carena in discesa, e tuto in compimento usuale de strage. El sangue sul cemento, fume suspeso in brage. È l’ingresso del mattatoio dove, sotto una tettoia fatta come la carena di un’imbarcazione, si pesano le bestie in vista del compimento della strage 65


usuale. Il sangue sul cemento è fumo sospeso sulla brace dopo che il fuoco ha divorato il legno. Poi giunge il secondo movimento. In mezo campo arato el nudo matatoio (come p’un desolato mare punta de scòio) da glossa de lunario arvisto ricorente in bordo a calendario, ciarma de le turmente. Il mattatoio appare pericoloso scoglio, una mortale Scilla, in mezzo a un mare-campagna, campagna in cui all’epoca era immerso il quartiere, oggi totalmente cementificato. La metafora marina dilaga quindi nella seconda quartina, caricandosi di significati in parte oscuri: il mattatoio si impone alla vista giorno dopo giorno come il segno di ricorrenti naufragi, un vero e proprio tatuaggio (ciarma de le turmente) posto ai lati di un calendario. Segue una sentenza: A lʼora de lo sbando per fato ocasionale dʼindove come e quando, el vitelo è virtuale. Come a dire che in quei momenti lì, quando il naufragio è fatalmente prossimo, a prescindere dal luogo e dallʼora precisa in cui accadrà, qualsiasi essere è pronto a essere scannato, può prendere il posto della bestia condotta al macello. Pei loghi de suplizio da le boteghe care andati (e in benefizio le poghe robe spare) abrevi streti in ghiomo de storia e alegoria - omo imbrancato, omo piombato in ferovia 66


fino a piazale breve eterno (stazioʼ finte, i merci su la neve spariti sbufi e spinte). Ecco lʼaccostamento esplicito tra il mattatoio e la mattanza degli ebrei condotta dai nazisti, in cui risuonano le parole del filosofo Adorno. In tre strofe il poeta è riuscito a condensare con limpidezza magistrale una delle vicende più sanguinose della storia dellʼumanità: una matassa compatta di ebrei (abrevi streti in ghiomo), in cui convergono evento storico (lʼolocausto) e allegoria di una vicenda sovrastorica (la meccanica del capro espiatorio), si srotola dai luoghi di lavoro (boteghe care) ai luoghi di tortura (loghi de suplizio), in un tragitto di uomini prigionieri (omo imbracato), stipati in carri merci (piombato in ferovia), fino alla fine dei binari. Si tratta di un tragitto ingannevole fatto di finte stazioni, concluso in mezzo a campi innevati, silenziosi, senza più gli sbuffi e gli strappi della locomotiva. Ritorna dunque lʼimmagine del luogo isolato in mezzo a un campo, dellʼindividuo (umano o animale) perso in mezzo al vortice che lo risucchia. Il poemetto si chiude con una soggettiva sullʼIo poetico, ombra di vecchio abbandonata dal destino, che alla fine del suo viaggio al termine della notte, e della morte, non è più in grado di ridire ciò che ha visto. Tuta tʼha traversata stanote, via de morte, vita, la bandonata de vechio ombra de sorte con el glu glu de gola da verso de picioni - aborti de parola ʼntra sordi cornicioni, e lʼaria trasmeteva lumi come cerase a la sua angoscia abreva ʼntʼun tramestaʼ de case (forme de lʼesistenza comune, dolce modo, 67


sgramate a la violenza come intonaco a chiodo). I versi del poeta sono i versi di un umile volatile, ancorato alla terra, comʼè il piccione. La morte ha penetrato anche il linguaggio, il poeta non ha che aborti di parola. Si muove in uno spazio sordo, che si sfalda (ʼntʼun tramestaʼ de case), in cui la sua angoscia si fonde con quella degli ebrei, forme comuni dellʼesistenza, offese dalla violenza, chiodo che penetra nel muro e lo sbreccia. La primordiale tara de vive: sortì al niente, pesci per la bogara sul fil de la corente, omini soto al giallo astro de lʼagonia spinti da dietro al vallo dei persi - in atonia. La sconsolata, universale, immagine finale, immagine del male, il fatale male di vivere, accomuna la materia umana e quella animale: la vita è unʼimperfezione originaria, perché si esce dal nulla, pesci trascinati dalla corrente fino alla rete da pesca che si pone alla foce dei fiumi (bogara), esseri umani posti sotto la stella di David cucita sui panni degli ebrei (giallo / astro de lʼagonia), spinti a valle, senza parole, muti come pesci.

Ormai abbiamo superato il punto di non ritorno, me ne sono accorto stamattina, mentre mi guardavo allo specchio e spremevo l’ultima goccia di dentifricio. Poi non ne avrei ricomprato più, non perché i negozi ormai siano tutti chiusi e in giro il puzzo è così feroce da far venire le lacrime agli occhi. Non lo ricompro perché non mi servirà più. Sono rimasto anche senza denti, stamattina mi guardavo allo specchio e la mia bocca mi è apparsa come una ferita sformata, tutta molle. Mia moglie è morta una settimana fa. Ancora sul tavolo ci sono gli avanzi dell’ultimo boccone che le ho preparato, la minestra che cercavo di farle inghiottire lentamente, mentre lei era a letto, col corpo sformato dai bubboni e gli occhi opachi. Mi guardava senza riconoscermi, io la imboccavo e lei non deglutiva più. La mattina dopo era già morta. Sono venuti a prendersela e l’hanno portata via, erano tutti incappucciati di nero, avevano guanti e stivali, non hanno detto niente. Ho solo appeso un lenzuolo alla finestra e loro sono arrivati. Adesso la casa è sudicia, non c’è più nulla da fare. Appena me l’hanno portata via ho sentito una protuberanza dura sotto l’ascella e ho capito che presto anch’io sarei morto.

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il sentimento è morto memoria e coscienza della musica del XX secolo «Signore e signori, sono sicuro che converrete con me che se un giovane uomo dotato può scrivere una sinfonia come questa a ventitré anni, entro cinque sarà pronto a commettere un omicidio»1. Con queste parole la sera dell’11 gennaio 1925 il direttore d’orchestra Walter Damrosch si rivolse al pubblico presente in sala dopo aver diretto la sinfonia per organo e orchestra di Aaron Copland (1900-1990). Un modo scherzoso per rassicurare le signore conservatrici, assidue frequentatrici dei concerti pomeridiani della domenica, non avvezze alla musica moderna americana. La cosa fa piuttosto sorridere se pensiamo che Copland fu poi completamente ignorato dalle avanguardie a causa dei suoi tratti decisamente “populisti”. Del resto, si sa, nel Novecento la musica d’arte si è allontanata spesso irrimediabilmente dalle platee, tanto da essere dichiarata morta a più riprese per la sua (apparente) incapacità di comunicare, facendo rimpiangere ai suoi detrattori un passato destinato a non ritornare. Come dimenticare la voce di Demetrio Stratos (1945-1979) che nel 1976 apriva Maledetti (Maudits), il quinto album degli Area, fischiettando tra rumori di passi e rasoi elettrici a batterie Philips, urlando: «Abbiamo perso la memoria del XV secolo»2. Un anno dopo, nel 1977, il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen (1928-2007) iniziava la realizzazione, terminata nel 2003, del ciclo operistico Licht, la cui suddivisione è costruita intorno ai sette giorni della settimana e ai sette pianeti del sistema solare per un totale di sette opere teatrali. In Licht Stockhausen sviluppa un’idea del tempo vicina al ciclo della vita di cui ogni giorno si celebra un dramma musicale, legato sia al rito di una nuova nascita, sia al rinnovamento della coscienza attraverso la morte fisica. L'opera dura sette giorni e comprende oltre ventinove ore di musica. Il sabato, Samstag, giorno di Saturno (il pianeta della morte), vede un rituale ispirato al Libro dei morti – tibetano ed egiziano – (Kantikas Gesang; Luzifers Traum), in cui il morente, attraverso una serie di ventiquattro tappe (esercizi dell’anima), è accompagnato lungo il cammino che lo conduce alla liberazione. Il primo nucleo di Licht è rintracciabile in Der Jahreslauf (Il corso degli anni, 1977), versione orchestrale di Hikari (Luce, 1977), per ensemble di strumenti tradizionali giapponesi e mimi – i cui gesti si collocano in perfetta sincronia con i 1 Tratto dalle note di copertina del cd Ives/Brant, A Concord Symphony, Copland Organ Symphony, SFS media, 2011 2 «Abbiamo perso la memoria del XV° secolo / quindici, XV il, abbiamo secolo perso / perso il memorio, secolo abbiamo quindici / abbiamo perso la pappetta, pappina, pappona / abbiamo………XV secolo / Ladies and gentleman / abbiamo perso il XV secolo», da Evaporazione, Maledetti (Maudits), Cramps 1976

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suoni –, e in lavori come Inori (Preghiera, 1973-74), in cui gli spettri temporali sono strutturati in cicli annuali, stagionali, giornalieri e interiori. Già, l’Io interiore. Webern (1883-1945) sosteneva che non è possibile «nessun progresso se non si va verso l’interiore»3. Lo stesso pensiero portava più tardi Franco Donatoni (1927-2000) ad affermare che il sentimento è morto e che l’opera in quanto proiezione dell’autore è morta insieme alla soggettività del sentimento dichiarato. «Il muovere gli affetti in questo senso non ha più ragione d’essere, perché il rapporto non è né col senso, né col sentimento, né con gli affetti, ma è col materiale»4. Eppure quel sentimento evocato dagli espressionisti della Seconda Scuola di Vienna aveva degli strani effetti sugli ascoltatori e causava in loro delle reazioni interessanti da analizzare. Quando il pubblico viennese si trovò di fronte agli Altenberglieder di Alban Berg fu un vero terremoto, e lo stesso accadde con la Kammersymphonie di Schoenberg5: in entrambi i casi il pubblico si mise a litigare. Come nota il compositore tedesco Helmut Lachenmann (*1935): «Quegli ascoltatori diventavano così aggressivi probabilmente perché provavano qualcosa di simile alla paura e si sentivano minacciati»6. Interessanti le riflessioni di Lachenmann sull’arte come medium tra vita e aldilà: […] nell’arte, se è degna di questo nome, viene un momento in cui io sono indotto a procedere oltre il mio orizzonte tanto limitato e in quel momento riconosco me stesso come una creatura posta di fronte alla sua esistenza, cioè di fronte alla morte che si contrappone direttamente alla vita. Per questo ho intitolato il libro che raccoglie i miei saggi Musik als existentiaelle Erfahrung (Musica come esperienza esistenziale). […] Non dimenticherò mai un’esperienza che ho fatto trent’anni fa a Spiekeroog, un’isola del mare del Nord. Una mattina feci una lunga passeggiata sulla spiaggia e non mi accorsi che la marea stava salendo tutto all’intorno. All’improvviso mi ritrovai su una collina completamente circondato dall’acqua. In quella situazione desideravo solo sopravvivere e nient’altro. Non potevo gridare perché si era alzato un vento terribile; l’unica cosa che vedevo in lontananza era il campanile della chiesa di Spiekeroog che mi indicava la direzione da seguire. Se ci fosse stata la nebbia avrei perso l’orientamento e forse adesso non sarei qui. Non avevo scelta, dovetti gettarmi in acqua e nuotare. Ho 3 Franco Donatoni, Il sigaro di Armando. Scritti 1963-1982, a cura di P. Santi, Spirali Edizioni, Milano 1982 4Ivi 5 Si veda il provocatorio articolo di Pierre Boulez (*1925) Schönberg est mort! (1952), in Note d’apprendistato, Einaudi, Torino 1968 6 Helmut Lachenmann – Wolfgang Rihm, Conversazioni e scritti, a cura di E. Restagno, Ricordi, 2010

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combattuto contro la corrente per una mezz’ora, poi finalmente ho sentito nuovamente il terreno sotto i miei piedi. Così sono tornato in città tutto bagnato. In quei momenti non mi sono più sentito un cittadino ma solo una creatura.7 Decisamente altre le creature che popolano le opere di Krzysztof Penderecki (*1933), dai Diavoli di Loudun al Paradiso perduto8, dove la morte è annunciata dal suono dello xilofono, o i percorsi d’ombra della statunitense Ann Millikan, da Trilhas de sombra a Landing inside the inside of an animal, dove la morte assume i toni di un allegro cerimoniale al ritmo di un samba, passando per la drammaturgia di Sciarrino (*1947), - Morte di Borromini; Tu m’uccidi, o crudele; Assassini d’amore, Macbeth / tre atti senza nome -, l’incapacità di accettare la decomposizione dei corpi nel lungometraggio A Zed and Two Noughts (Lo zoo di Venere, 1985) di Peter Greenaway (*1942) con musiche di Michael Nyman (*1944) o la sessualità dell’orrore di The Death of a Composer: Rosa – A Horse Drama (1993-94) di Louis Andriessen (*1939) e Greenaway, fino alla controversa opera di John Adams (*1947) sul dirottamento dell’Achille Lauro, The Death of Klinghoffer (1991) o la grottesca parodia del Giudizio Universale di Ligeti (1923-2006) nel suo Le Grand Macabre (1974-77) dove solo la morte muore. Concludendo, mi piace pensare alla morte con le parole del compositorearchitetto greco-francese Iannis Xenakis (1922-2001): La disparizione totale, il ritorno agli elementi che costituiscono l’organismo. È un processo di rivoluzione formidabile: questo enorme sforzo, l’evoluzione della specie, di generazione in generazione, per giungere a un organismo più adatto, più potente, più intelligente, capace di creare un ambiente sempre più vasto. Lo si vede con le piante, gli animali, gli uomini. Con la morte dell’individuo questo organismo straordinario che è passato attraverso il travaglio dei semi, degli spermi, degli ovuli, ad ogni generazione scompare completamente. È come l’esplosione di una nova fredda e calma. La differenza tra un essere vivente e quello che avviene dopo la sua morte è fantasticamente enorme!9

7 Ivi 8 La prima è un’opera in tre atti composta nel 1969 su libretto dello stesso autore sulla base dell’omonimo romanzo di A. Huxley, mentre la seconda è tratta dal Paradise lost di Milton e risale al 1975-78 9 AA. VV., Xenakis, a cura di E. Restagno, EDT, 1988

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* Se non credi a questa morte bella non venire qui il giorno è intero. * Si potrebbe credere a una oscurità breve, un intervallo tra due corpi. Le luci ispessiscono con le albe. Si potrebbe credere a una densità, una nebbia fitta, una gabbia di gas mortale. La luce si addensa sui corpi sfatti. Si potrebbe credere a una notte più lunga, il sonno sospeso di un uomo. Si potrebbe vedere il mondo scurire e avere paura di trovarsi da soli. Eravamo gettati avanti, sempre avanti. * Cadere in un sonno profondo e dimenticare la vita. Una perfezione senza tempo e fatica. In un buio perfetto Sempre più in basso, in fondo. * Parlano la morte Gli occhi tuoi chiusi I tuoi occhi belli Gli occhi tuoi belli I tuoi occhi sono belli. * Quando verrai, sarai i tuoi occhi Voglio lasciare questo corpo Entrare nella perfezione del dolore Sono felice che verrai

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laTunisia ha gli occhi di Mohamed Bouazizi TUNISI – Manoubia non fa che fissare la foto di suo figlio, stretta tra le mani. Si chiamava Mohamed Bouazizi, aveva 26 anni e per sbarcare il lunario cercava di vendere ortaggi a Sidi Bouzid, nella depressa Tunisia centrale. Si è dato fuoco il 17 dicembre scorso, dopo l’ennesima confisca del suo carretto, innescando una tempesta rivoluzionaria che dalla Tunisia si è presto propagata all’intero mondo arabo e ancora non si placa. Quando è giunto, in fin di vita, all’ospedale di Sfax, era coperto di ustioni di terzo grado sull’80 per cento del corpo. La sua agonia è durata 18 giorni, fino al 4 gennaio 2011, quando è spirato. Oggi Bouazizi è considerato il proto-martire della “rivoluzione dei gelsomini”, culminata con la fuga del presidente Zine El-Abidine Ben Ali, lo scorso 14 gennaio. Ma nella vecchia e povera casa di Sidi Bouzid, Manoubia non vive più. Grazie all’aiuto di un diplomatico tunisino è riuscita ad affittare un appartamento a Tunisi, nel quartiere della Marsa. Quando la incontro è ancora nella capitale, assieme al suo attuale marito, zio di Mohamed, e ai suoi altri tre figli. Una dimora su cui non mancano i pettegolezzi. Si dice che sia un’elargizione dell’ex premier Mohamed Ghannouchi in persona. Si dice che la madre di Mohamed e i suoi figli siano diventati avidi e indisponenti. «Hanno detto di tutto sulla nostra famiglia – dice Manoubia – che chiediamo soldi ai giornalisti per farci intervistare. Ho sentito dire persino che avremmo ricevuto cifre da capogiro da facoltosi uomini d’affari sauditi, in cambio del carretto di Mohamed. Tutto falso. In questi mesi siamo stati dipinti come degli avvoltoi, pronti ad arricchirci sul sangue di mio figlio. La realtà è che a Sidi Bouzid non eravamo più tranquilli». La vecchia casa dove Mohamed è cresciuto, nel quartiere El Nour, oggi è meta di giornalisti e curiosi provenienti da tutto il mondo. Non fanno che chiedere interviste alla famiglia del proto-martire, rinfrescando ricordi dolorosi. «Mohamed mi aveva salutato, come tutte le mattine, dandomi un bacio – racconta Manoubia, con il piglio di chi quella dannata storia l’ha raccontata ormai troppe volte, senza riuscire a smorzarne il dolore – era poi andato via con quel carretto, che aveva ereditato da suo padre. La polizia glielo aveva confiscato alcuni anni fa. Dicevano che era irregolare, che doveva pagare più soldi. Gli chiedevano continuamente delle mazzette, com’era in uso durante il governo corrotto di Ben Ali. Quel giorno una poliziotta sarebbe arrivata ad aggredirlo in pubblico. Lui è andato davanti alla prefettura, si è versato addosso della vernice infiammabile e ha acceso un fiammifero». All’inizio gli altri figli di Manoubia hanno fatto il possibile per nasconderle la verità. Le dicevano che 74


Mohamed si era sentito male e che era stato trasferito all’ospedale di Sfax per degli accertamenti. La tragica verità l’ha saputa solo qualche settimana dopo, poco prima che Mohamed morisse, il 4 gennaio. Oggi la sua salma è seppellita nel cimitero di Graa Bennour, appena fuori da Sidi Bouzid. Sulla sua tomba sventola la bandiera rossa della Repubblica. «Potrà sembrare strano – continua Manoubia – ma Mohamed era un ragazzo che amava la vita. Voleva costruirsi una famiglia, voleva dei figli. Cercava di vivere onestamente, come tanti giovani a Sidi Bouzid». Era dovuto crescere senza suo padre. Il primo marito di Manoubia è morto quasi venti anni fa, lasciandolo orfano che era un bambino. Da ragazzo amava studiare, aveva frequentato le scuole superiori. Ma i Bouazizi sono una famiglia umile e per proseguire gli studi servivano troppi soldi. Per cui molto presto Mohamed aveva deciso di abbandonare la madrassa e di mettersi a lavorare. «Da allora è iniziato il suo calvario – osserva Manoubia – alla fine non è riuscito a sopportare la prepotenza e le umiliazioni che il vecchio regime gli aveva inflitto, giorno dopo giorno, per anni. Oggi non so darmi pace. Avrei dovuto capire prima quello che mio figlio soffriva». Il governo di transizione di Ghannouchi aveva fatto avere alla famiglia Bouazizi 20 mila dinari (circa 10 mila euro, ndr). Una donazione fatta a tutte le famiglie delle circa 300 vittime di questa rivoluzione. A chi è rimasto ferito, invece, sono stati assegnati 3 mila dinari (circa 1500 euro, ndr). «Ma non saranno questi soldi a restituirmi mio figlio e non è migliorando la situazione di poche famiglie che si risolvono i problemi della Tunisia. Bisogna abbattere la disoccupazione che ancora affligge troppi giovani. Mohamed avrebbe voluto così». Il dopo-Ben Ali sembra non soddisfare affatto i familiari delle vittime. Men che meno i giovani tunisini che la rivoluzione l’hanno fatta. E che restano in perenne attesa di un cambiamento che non è ancora arrivato. «Io non ho mai capito molto di politica, sono una donna povera di Sidi Bouzid. Però il mio auspicio è che i ragazzi possano riprendere a lavorare per ricostruire questo Paese nuovo, democratico, che appartiene ad ognuno di loro. Oggi, purtroppo, non è così. Qualche mese fa chi poteva, fuggiva alla volta di Lampedusa. Tuttora ci sono famiglie che piangono dei dispersi in mare. E poi ci sono ancora dei ragazzi che si suicidano o cadono sotto i colpi delle forze dell’ordine». A metà luglio 2010 era stato il quattordicenne Thabet Belkacem a perdere la vita sotto i colpi della polizia, a seguito dei nuovi scontri esplosi proprio a Sidi Bouzid. Qualche mese prima, il 22 marzo, era stato invece un disoccupato, Khaled Ezzafouri, a darsi fuoco, emulando l’esempio di Bouazizi. «Tutto questo mi addolora come madre – esclama Manoubia – io so cosa significhi perdere un figlio in quel modo. Voglio lanciare un appello a tutti i giovani tunisini: non buttate più via le vostre vite. È il momento 75


di smetterla. Abbiamo avuto troppi morti, causati dai criminali della polizia di Ben Ali, per i quali nutro solo odio. Adesso è il momento di scegliere la vita». Un auspicio di cui Manoubia ha reso partecipe anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, durante la sua visita a marzo. Lui ha voluto farle le condoglianze personalmente. «Mi ha detto che devo essere orgogliosa di Mohamed, perché il suo gesto ha aperto gli occhi di molte persone». Oggi il nome di quell’umile venditore ambulante e della sua dimenticata città, sono sulla bocca di tutto il mondo arabo. E c’è chi sostiene che senza quell’isolato gesto di ribellione, non ci sarebbero affatto tumulti in Egitto, Libia, Siria, Yemen. «Guardo la tv e apprendo che ci sono guerre, morti e feriti – dice Manoubia – a volte mi rifiuto di pensare che il tragico gesto di Mohamed possa aver provocato una spirale di dolore come questa. La sua era una disperata rivolta personale. Ma ha incendiato un’intera prateria dove l’erba era secca. Io preferisco pensare al suo volto sorridente, che ho visto per l’ultima volta quel 17 dicembre. E che oggi rivedo ogni giorno nello sguardo di tutti i tunisini che ha contribuito a rendere liberi».

Per prima cosa mi pitturo con l’eyeliner due code nero carbone spesse e malandrine sopra i miei occhi rotondi, più tondi di quelli di un cartoon. Poi il rossetto: tiro una riga rosso rubino intorno alle mie labbra carnose, che sono pura polpa di mela sugosa. Sarò la citazione di una Amy Winehouse all’ennesima potenza e vestita a festa celebrerò il martirio della post realtà. In mezzo a tutti questi specchi ora me ne vado sculettando con otto chili di esplosivo accoccolati in testa, dentro la mia parrucca, come uova covate nel nido. Io mascherato, io un uomo di trentadue anni tramutato in uno dei possibili prolungamenti pop di me stesso. Da questa acconciatura cotonata – ora i miei capelli sono un cesto di lana calda che avviluppa i desideri – io esploderò in mezzo alla folla. Strazierò ogni membra. Falcidierò chi è intorno a me. In un pulviscolo di brandelli volerò fino al cielo con tutta la mia cipria dorata sugli zigomi, oltre la tridimensionalità, oltre le stelle, in un cerchio di fuoco, in un boato che farà schizzare il sangue. Perché è in nome di una potenza oscura che faccio questo. È in nome di Cristo Gesù e della sua croce che io scelgo questo e del sangue impuro che imbratta il mondo. Perché non ditemi che nel volto della diva e nei suoi bronci, dietro quel velo bianco di pelle ribelle e affranta, e ancora oltre la sua cartilagine e i tendini, non avete visto affiorare in controluce il ghigno di sorella morte, che ci abbraccia ballando nel suo mantello più dolce della musica.

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«Io non ho alzato bandiera bianca» raccogliere l’eredità musicale di Luigi Nono La musica di Luigi Nono (Venezia 1924-1990) ha la rara capacità di superare i confini dell’esclusivamente musicale per il suo porsi in maniera critica con la realtà circostante e per l’importanza del suo impegno civile e politico accanto ai quali riveste un ruolo fondamentale la Resistenza antifascista. Ne sono un esempio alcune opere particolarmente significative degli anni Cinquanta come Il canto sospeso (1955-56) su testi di lettere di condannati a morte della Resistenza europea, dove la sovrapposizione di più scritti aveva portato a un nuovo testo più significativo delle singole lettere, o le immagini di morte dei campi di concentramento nazisti di Diario polacco: Composizione n. 2 (1958-59). Membro del PCI fin dal 1952, la passione politica di Nono segue con una maggiore presa di posizione nelle opere degli anni Sessanta e dei primi Settanta a cominciare dall’azione scenica Intolleranza 1960 fino alla denuncia contro gli sgherri del lager di Auschwitz in Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1965) o alla ribellione degli studenti in Musica-Manifesto n. 1 (1968-69), passando per la situazione dei lavoratori metallurgici ne La fabbrica illuminata,1 mentre nella composizione su nastro Contrappunto dialettico alla mente (1968) vengono elaborati “contrappuntisticamente”, attraverso varie tecniche vocali, frammenti di una poesia della poetessa americana Sonia Sánchez sull’assassinio di Malcolm X. Già nel 1958 Nono aveva dedicato a poeti e pittori morti suicidi – Majakovskij, Esenin, Gor’kij, Pollock – una silloge di momenti musicali, i Cori di Didone per coro e percussioni, tratti da La terra promessa di Ungaretti. Probabilmente Didone non è solo l’emblema della morte violenta mediante il suicidio. La sua tragica fine assume un doppio significato in quanto a lei erano legate le sorti della città di cui era regina, Cartagine. Pertanto è importante sottolineare, con le parole di Ungaretti, come «anche le civiltà nascono crescono declinano e muoiono». Nei Cori la distribuzione dei vari fonemi tra i diversi registri vocali, con il loro slittamento da una voce all’altra, sembrano ricondurre alla voce del poeta maestro dell’ermetismo che, come ricordava il compositore veneziano «aveva un modo particolare di usare le consonanti, le tirava in lungo, mentre le vocali erano delle scivolate».2 Grazie alla collaborazione con Maurizio Pollini e Claudio Abbado prende 1 Nel documentario La fabbrica (1971), di cui Nono cura la regia insieme a Lino De Seriis, Alberto Lauriello e Lucio Libertini, sono gli stessi operai della FIAT di Torino a denunciare lo stato di precarietà delle loro condizioni di lavoro, mentre il monopolio dell’industria cresceva smisuratamente fin dai tempi del regime fascista e nel dopoguerra con il successivo intreccio tra politica e classe dirigente. 2 AA. VV., Nono, a cura di E. Restagno, EDT, 1987, p. 32

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forma tra il 1971 e il 1972 Como una ola de fuerza y luz (Come un’onda di forza e luce), la prima opera di Nono che assegna al pianoforte un ruolo centrale. In seguito alla notizia, nel settembre del 1971, della morte accidentale di Lusiano Cruz, giovane dirigente del M.I.R. (Movimento di sinistra rivoluzionaria) conosciuto a Santiago del Cile pochi mesi prima, il progetto iniziale di Como una ola viene ampliato con l’inserimento di una parte vocale su alcuni versi del poeta argentino Julio Huasi. L’opera riporta la dedica di Nono al giovane rivoluzionario: «Lusiano Cruz para vivir» (a Lusiano Cruz, per vivere). Quando stanno morendo, Diario polacco n. 2 (1982) è dedicato invece «agli amici e compagni polacchi che nell’esilio, nella clandestinità, in prigione, sul lavoro, resistono – sperano anche se disperati, credono anche se increduli». «Ora ci viene morte, ma non sarà mai la Morte, finché queste voci parleranno – finché Miłosz darà ancora luogo nel suo linguaggio alla patria polacca – e in Ungheria si parla la lingua di Ady e in Russia quella di Pasternack. Io non ho alzato la bandiera bianca: anche Quando stanno morendo, gli uomini cantano.3 Diverso il caso di Epitaffio a García Lorca (1952-53) su poesie del poeta spagnolo e di Pablo Neruda. Qui le visioni a tratti surreali di Lorca e i ritmi gitani andalusi si legano allo studio di specifici ritmi di danza e a una tradizione tuttora viva. Ancora oggi infatti i gitani di Granada sono soliti incontrarsi per l’anniversario della morte di Lorca nel luogo dove il poeta è stato fucilato per danzare lì in suo onore. Tra il 1975 e il 1979 la produzione di Nono diminuisce, è un periodo di riflessione e di autocritica in cui affiorano le sue preoccupazioni verso una rilettura ideologica delle sue opere e delle sue idee. «Tutte le etichette che mi attribuiscono derivano dalla povertà di un pensiero schematico. Il mio linguaggio musicale non è stato quasi mai analizzato. La critica non si è impadronita che dei miei testi, o del loro titolo. A un modo manicheo, codificato, di vedere le cose, preferisco un’analisi non teleologica del pensiero. Per permettere di vivere, di sperimentare, di cercare, di rischiare… di non fare nulla che dia i suoi frutti in una produzione immediata, come ce l’ordina questo mondo schiavista e carcerario».4

3 Luigi Nono, Massimo Cacciari, Quando stanno morendo, in Diario polacco n. 2, in AA.VV., Nono, a cura di E. Restagno, EDT 1987 4 Dichiarazione del compositore del 1985 contenuta in Jean-Noël von der Weid, La musica del XX secolo, LIM-Ricordi, 2002

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Ellis sentiva freddo quella mattina. Guardava le travi appese ai soffitti e pensava che forse, un giorno, l’avrebbe fatta finita così, impiccandosi, magari con un fiore infilato nell’asola di un bottone, stretto al petto, per fare festa, per andare incontro al precipizio con un fiore in mano. Ellis non poteva fare di meglio che contaminare tutto ciò che vedeva con un manto di calcificazioni colate dalla sua fantasia. Quella mattina per prima cosa andò all’ospedale perché doveva fare le analisi del sangue, e vedeva i medici con facce da maiali, con occhi porcini e nasi grufolanti e camici bianchi. Nel bar o dentro i negozi poi c’erano solo scheletri, coi crani gialli e le orbite vuote e gli ossicini delle mani scricchiolanti che spuntavano fuori le maniche delle giacche. Di ritorno dall’ospedale Ellis attraversò anche un parco e sulle panchine vide dei giovani nudi e trafitti di frecce con gli occhi rivolti al cielo e il corpo colante di sangue, sembravano tutti dei San Sebastiano. Intorno a lei l’erbaccia cresceva a dismisura, in alcune strade era diventata alta più di due metri e si abbarbicava su per i palazzi. Ellis camminava e camminava e le erbacce crescevano ovunque e il silenzio intanto calava sulla città. Ormai si era fatto tardi e Ellis girava senza meta. Verso l’ora del tramonto iniziò a incontrare le prime statue di pietra. Uomini e donne impietriti in mezzo alla strada o in macchina mentre guidavano. Le statue di pietra erano sempre di più, spuntavano ovunque. Immobilizzate sui marciapiedi o affacciate alla finestra. Allora decise che era il momento di farlo. Di vivi non ne incontrava da ore, era buio ormai e si accesero i primi lampioni. Ellis se ne scelse uno un po’ basso, fece un cappio con la cinta dei suoi pantaloni e si impiccò al lampione. Proprio mentre pendeva scalciando nel vuoto e gli occhi gli si riempivano di lacrime e il nulla gli urlava nel cuore, Ellis fu svegliata dalla voce di suo padre che litigava nell’altra stanza.

escatologia cosmica il destino dell'universo secondo la scienza contemporanea Contrariamente alla maggior parte delle cosmologie antiche, delle quali lʼescatologia (la disciplina che indaga il destino ultimo dellʼuomo e dellʼuniverso) costituiva parte fondante, la cosmologia scientifica moderna concentra la maggior parte dei suoi sforzi nello studio del passato dell’Universo (cosmogonia). Il destino futuro del Cosmo è questione generalmente ritenuta meno testabile e quindi meno scientificamente interessante dello studio del suo passato remoto. Tuttavia, esistono gli strumenti matematici e alcuni dati osservativi per provare a formulare ipotesi su quale sia lo scenario più plausibile per l’evoluzione a venire del Cosmo. Per la scienza pre-novecentesca, l’Universo era da ritenersi statico e immutabile. La cosmologia fisica moderna è nata con gli studi di Albert Einstein sulla gravitazione e la geometria dello spazio-tempo, che sfociarono nella stesura delle equazioni di campo della Relatività Generale (RG, 1916). Queste equazioni implicano come plausibile l’ipotesi di un Cosmo in espansione, e quindi dotato di un futuro soggetto a continuo mutamento. Indi79


pendentemente l’uno dall’altro, negli anni Venti il belga Lemaitre e il russo Friedmann elaborarono le teorie più generali sulla geometria globale del Cosmo, utilizzando le equazioni di Einstein. Lemaitre sostenne con forza l’ipotesi di un Universo in espansione (e di conseguenza, a ritroso, dotato di una data di nascita – quella che l’inglese Hoyle, con intenti derisori, battezzò poi “Big Bang”). Questa ipotesi venne definitivamente accettata solo dopo la scoperta, ad opera dello statunitense Edwin Hubble, del moto di recessione cosmica delle galassie lontane (1929) o, meglio, del suo effetto misurabile: lo spostamento verso il rosso delle loro righe spettrali. Fu però Friedmann il primo a intuire la necessità di un inizio cosmico, in uno studio del 1924 in cui propose tre modelli alternativi di Universo, tutti con lo stesso punto di partenza (coincidente con il Big Bang di Hoyle e Lemaitre), ma con destini diversi, a seconda della curvatura globale dello spazio-tempo: Universo aperto e in espansione infinita per valori di curvatura negativa (visualizzabile, in due dimensioni anziché in quattro, immaginando una superficie piana incurvata a forma di sella); Universo aperto ma tendente alla stasi per curvatura nulla (un piano); o Universo chiuso e destinato a ricollassare su se stesso dopo una fase di espansione massima nel caso di curvatura positiva (come nel caso di una superficie sferica). La curvatura globale, a sua volta, è dipendente dalla quantità di materia contenuta nell’Universo: maggiore questa quantità, più forte l’attrazione gravitazionale, e più probabile un ricollasso finale (Big Crunch), fino a un punto di dimensione nulla, nel quale il tempo finisce e dal quale potrebbe rinascere un nuovo Universo, causalmente disconnesso dal nostro. Quale dei tre modelli sia quello “giusto” è ancora da decidere, anche se i dati in nostro possesso sembrano attualmente poterci fornire la risposta, che, in apparenza, è più complicata del previsto. Nel modello cosmologico attualmente considerato più attendibile (1998), il nostro Universo (inteso qui come la porzione del “tutto” che ha una qualche connessione causale con noi – vedi sotto) ha circa 13,7 miliardi di anni di età, ha geometria quadridimensionale piatta come nel secondo modello di Friedmann, ma è in espansione accelerata, come nel primo dei tre modelli, a causa della presenza permeante e dominante di una sconosciuta forma di energia oscura, avente effetto di repulsione antigravitazionale (è interessante notare che un’eventualità di questo tipo era stata considerata da Einstein nelle sue equazioni, sia pure come aggiunta “posticcia”, operata, fra l’altro, per mantenere statico lo spazio-tempo, contrariamente a quanto risultava dai suoi risultati originali). Stando davvero così le cose, il destino del Cosmo appare segnato: un progressivo e inesorabile mutuo allontanamento delle galassie, e il raffreddamento progressivo di materia e radiazione diffuse fino allo zero assoluto (asintotico). 80


Se l’energia oscura aumenterà la sua potenza nel corso del tempo, eventualità consistente con alcune teorie di fisica teorica, anche gli oggetti “compatti” (galassie, stelle, pianeti, esseri viventi) verranno via via sgretolati, a causa di un progressivo rimpicciolimento delle regioni causalmente connesse contestualmente all’allontanarsi sempre più rapido dei confini del Cosmo. Lo stato finale sarà in questo caso un brodo di particelle elementari sempre più tenue, e di radiazione gelida. Questo scenario viene detto Big Rip; dapprima le galassie si separeranno le une dalle altre fino a non poter più interagire; circa 60 milioni di anni prima della Fine, ogni galassia si frammenterà; tre mesi prima della Fine, i pianeti si allontaneranno dal Sole, e negli ultimi minuti si disintegreranno, fino alla distruzione di ogni atomo pochi istanti prima della Fine. Il discorso è differente se si ritiene che l’energia oscura non aumenti la sua potenza nel tempo, come in effetti i dati recenti sembrano suggerire. In questa ipotesi, la forza di gravità riuscirà, su scale sufficientemente ridotte, a vincere la forza repulsiva, costringendo sempre più materia a collassare in strutture virializzate, cioè non più sottoposte al moto di espansione cosmica e rilassate in condizioni di equilibrio dinamico (come stelle e pianeti su scala più piccola, e galassie su scala intermedia). Gruppi e ammassi di galassie sono i più grandi sistemi virializzati, o in fase di visualizzazione. Se nulla interverrà a turbare la loro evoluzione dinamica interna, le galassie finiranno con l’accorparsi via via l’una con l’altra all’interno di queste superstrutture – ad esempio, la nostra Via Lattea si fonderà entro qualche miliardo di anni con la vicina e simile Andromeda (M31). Anche al loro interno, tuttavia, le cose continueranno a evolversi secondo le leggi dell’astrofisica, rendendo la situazione più complessa. Fra circa un milione di miliardi di anni non si formeranno più stelle, e tutte quelle esistenti avranno esaurito il loro combustibile e si saranno spente. Fra dieci milioni di miliardi di anni le galassie cesseranno di esistere come unità compatte, a seguito della destabilizzazione delle orbite degli oggetti che le formano. In tempi molto maggiori, ogni disequilibrio termico verrà comunque livellato, in forza alla prima legge della termodinamica, portando alla morte termica del Sistema-Universo (laddove non esistono gradienti di energia, non è possibile scambiare informazioni, il che equivale tecnicamente alla morte del sistema). Infine, i protoni dovrebbero iniziare a decadere (se l’attuale modello particellare standard è corretto) e la materia come la conosciamo dovrebbe cessare di esistere, finché da ultimi anche i buchi neri – gli ultimi oggetti macroscopici esistenti – si estingueranno, a causa della cosiddetta “radiazione di Hawking” che porta alla loro evaporazione in un bagno di radiazione termica. A quel punto l’Universo sarà composto da un mare di fotoni a bassa energia, e resterà in questo stato per l’eternità, non essendo prevista, in questo scenario, una fine del tempo. 81


Da questa prospettiva, se il passato dell’Universo appare incredibilmente remoto per le scale temporali umane a cui siamo abituati, esso nondimeno non è che una briciola nei confronti del futuro. Apparentemente, siamo ancora in una fase molto primordiale della storia del Cosmo. Resta da considerare il fatto che il nostro Universo potrebbe non essere che una goccia in un mare di Universi paralleli, costituenti un Multiverso di mondi sovrapposti ma non interagenti. Alcuni modelli cosmologici (come quello detto di inflazione a bolle, proposto nel 1982 dal russo A. Linde), alcune interpretazioni controverse della Meccanica Quantistica (MQ), come quella “a molti mondi” proposta dallo statunitense H. Everett nel 1957, e anche la M-Theory, che unifica le cinque diverse formulazioni della Teoria delle Stringhe (ed è ad oggi il più consistente tentativo di unificazione di MQ e RG, i due pilastri della scienza moderna che però sono mutuamente esclusivi), predicono l’esistenza di un numero infinito di Universi, con diverse caratteristiche fisiche, diverse curvature, diversi destini. Il nostro particolare Cosmo sarebbe quindi solo uno di questi mondi, ciascuno dotato di una sua storia a sé stante. D’altra parte, da un punto di vista più antropocentrico, la fine del Cosmo è un evento talmente remoto da costituire una preoccupazione piuttosto minore, rispetto a eventi che si verificheranno in tempi relativamente molto minori e che causeranno senz’altro la fine della vita sul pianeta Terra e dunque dell’umanità – a meno che non si trovi in tempo il modo per trasportare la vita, in tutte le sue forme necessarie al sostentamento dell’uomo, su altri corpi celesti. Restando in una prospettiva astrofisica, la fine dell’abitabilità del pianeta Terra a causa dei mutamenti in corso nella stella Sole è evento che non tarderà più di un miliardo di anni. La fascia di abitabilità si sposterà gradualmente verso le regioni più lontane dal Sole, portando probabilmente a un periodo di abitabilità del pianeta Marte. Fra circa 5 miliardi di anni, il Sole attraverserà la fase di Gigante Rossa, espandendosi e inglobando nella sua atmosfera caldissima tutti i pianeti interni, Terra compresa; pochi milioni di anni dopo, morirà sotto forma di Nana Bianca, lasciando una tenue nebulosa planetaria ad espandersi nello spazio vicino. Ma il problema più vicino resta quello del cambiamento climatico causato in buona misura anche dallo stesso genere umano. Il pianeta Venere, morfologicamente il più simile al nostro e anche il più vicino, ha una temperatura superficiale costantemente al di sopra dei 400 C°, in conseguenza di un devastante effetto serra causato dallo spesso strato di nubi di anidride carbonica che avvolgono il pianeta. La continua immissione di gas serra nella nostra atmosfera porterà in tempi davvero brevi a un aumento irreversibile della temperatura, rendendo a serio rischio la sopravvivenza su questo pianeta.

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«Tu, che ogni volta ti innamori come un pazzo di donne che puntualmente ti respingono potresti scrivere un romanzo, sai». «Ah sì, e su che?». «Metti lì una ragazza che veste sempre di nero. Pallida, con gli occhi cerchiati e le iridi verdi. Un po’ castana, coi riflessi delle ciocche quasi dorati. E magra, molto magra, ai limiti dell’anoressia» «E quindi, che succede?» «Succede che tutte le persone che si innamorano di questa ragazza muoiono, muoiono tutte. C’è chi muore di overdose, chi si suicida buttandosi nel fiume. Quell’altro si spara in bocca. Qualcuno si ammala anche e muore giovanissimo di leucemia o d’infarto». «Perdio quanto sei decadente e retrò. Guarda che il vintage sta passando di moda». I due bevono una vodka dopo l’altra seduti al bancone di un go-go bar. L’aria odora di sudore e disinfettante, è tutto in penombra e in giro è pieno di grassoni sudati e dall’aspetto triste. Poi arriva una ballerina thailandese e inizia a fare il suo spettacolino in mezzo alla pista da ballo. Si struscia ripetutamente su un palo. Fuma un sigaro con la vagina, poi ci stappa anche una bottiglia di Coca-Cola e fa altre cose del genere. I due smettono di parlare e la guardano ognuno in silenzio. Lasciano perdere la ragazza magra e portatrice di morte, quasi anoressica, forse un po’ matta, di cui avevano iniziato a fantasticare.

rave party Non voglio fare serata. Stasera non posso fare serata. Dalla finestra entrano i rumori delle auto in corsa sotto nubi colme di pioggia, sui vetri i riflessi dei fari, all’istante prendono vita delle ombre sul muro marcio che ho davanti, qualche clacson in lontananza sale al cielo a urlare una maledizione meccanica. E io dal letto di questa stanza di questo appartamento di questo palazzo operaio sento il sabato sera che si forma, che inizia, che si organizza. Proprio non posso fare serata. Sono ridotto come un animale ferito. Devo leccarmi gli sbreghi dell’anima. Devo stare chiuso nella tana. In silenzio. Solo. A rimettere assieme i centomila pezzi in cui mi sono spaccato oggi. Mi tiro su e mi sistemo al centro del letto. Respiro a fondo. Dalla gola esce un colpo di tosse. Esplode un dolore in petto. A terra cade uno schizzo di sangue. Alzo gli occhi e comincio a fissare davanti a me il quadro del mare e la sua nave ferma. Di solito si muove, la nave. Stasera no. È ferma la nave come sono fermo io. Immobile. Come un animale ferito con l’anima rotta che attende solo di andarsene. Che non chiede altro che una liberazione. Fisso il quadro. La macchia di sangue viene risucchiata dal tappeto. Ora il mio sangue è perso per sempre laggiù, come una vita senza bene e senza male, senza dio e senza demonio, risucchiata nel nulla e basta. Metto le mani in faccia e attendo che torni qualcosa che sia luce. Respiro. 83


Respiro e non faccio altro. E mentre attendo stringo la testa. Schiaccio le unghie sulla pelle delle guance. Premo sul bianco degli occhi. Una volta erano vivi, questi occhi, adesso invece non vogliono fare uscire nulla. Mi stacco le mani dalla faccia, prendo con la destra il bicchiere d’acqua e con la sinistra le mie due pastiglie tonde. Che siano queste la luce? Metto le pastiglie in bocca. Avvicino il bicchiere alle labbra. L’acqua entra, avvolge e porta giù tutto. Poi schiaccio il bottone della lampada e vengo avvolto dal nero. Rimetto le mani in faccia e mi distendo a letto. Sono al centro dell’oscurità. Porto le gambe alla pancia. Mi abbraccio. Mi stringo. Sento il cuore che batte. E tutto attorno solo il rumore del mio fiato. Buio. Inciampo su uno scalino. Cado. Attorno a me il vuoto. Guardo giù. Volo nel nero senza fine. Cado. Cado di sotto. Sempre più veloce. Si accende una luce azzurra, lontana. Si avvicina. Tiro gli occhi, è la Terra. Cado ancora. Cado. Sono inarrestabile. Si avvicina sempre più, e io cado. Cado. Cado. Vedo le punte di una città. Palazzi. Case. Tetti. Antenne. Strade. Fabbriche. Mi schianto sopra un capannone grigio, di cemento. La città non fa alcun rumore. Adesso sento solo il mio cuore, ma forse è lui, il mio cuore, che batte tutti i battiti della città, un cuore come un mostro d’asfalto. No, non è così, perché mi tocco e mi sento ancora. Vivo. Vuoi tu prendere la qui presente Ecstasy come tua sposa? Sì, lo voglio! E vuoi tu Ecstasy prendere il qui presente come tuo sposo? Silenzio. Lei sorride senza voce. Allora, non osi l’uomo separare quello che Dio ha unito. La guardo. È nella mia mano. Piccola. Rotonda. La guardo. Sorride ancora come nell’istante della promessa eterna, come una madre piccola, come una madonna grande, sorride come solo una pastiglia può sorridere. Questo è amore. Amore cercato. Amore costruito. Io e lei. Lei e io. In questa notte che è la notte d’un matrimonio. Per sempre. Mi sorride tanto. Guardo attorno. C’è solo desolazione, e un vento freddo a muovere gli alberi spogli, e 84


gocce di ghiaccio a tagliare la pelle, e buio a coprire la terra. Qui, adesso, io, mi ritrovo al centro antigeografico di un mondo del dopo, del dopo qualcosa, del dopo vita. Abbasso lo sguardo. Mi perdo dentro una piccola pozzanghera. Ho i piedi nell’acqua colorata di luce gialla, verde, blu, rossa, arancione. Un riflesso da un altro mondo forse vivo. Alzo la faccia e vedo la luce uscire dal muro del capannone, come una visione religiosa, come una visione paradisiaca, come una visione sintetica, come solo una visione di luce, nel buio, può essere. Mi avvicino al portone e afferro la maniglia di ferro, tiro e si apre. Io e lei, io e Ecstasy al rave party colmo di luce. Adesso. Entriamo. C’è da fare serata. Qui. Prendila, prendila, prendila. Apro la mano, lei è sempre lì, bella come belle sono le stelle in cielo. Avvicino la mano alla bocca, la sfioro con la punta della lingua e quasi si sfarina nella mia saliva, quasi diviene acqua della mia acqua, sangue del mio sangue, carne della mia carne. La mangio come si mangia solo l’amore. Mangio la sua bellezza, mastico la sua potenza, in una magia di fede e speranza. Mando giù tutto. Riapro la mano per vedere il nulla. Ma lei è di nuovo lì. Per dopo. Per dopo. Non finirà mai. Lei ci sarà sempre, per te e solo per te. Alzo lo sguardo. C’è un volto di fronte a me, a fare da barriera a ciò che si muove dietro. Ha occhi bianchi su pelle bianca e capelli neri. Muove la bocca, la stringe, poi apre la mascella, vedo i suoi denti di ferro neri, la richiude, la riapre ancora e non ci sono più i denti. Ride. Si volta e scompare al centro del mare di corpi che ballano. Un’onda di corpi che si muovono avanti e indietro, tra buio e luce; tra luce e buio muovono le ossa e la carne, le vesti e le nudità, hanno tutti occhi banchi su facce bianche e capelli neri. Muovono le bocche e ridono. Tutti. Un battito di tamburi mi scuote, lo sento nella testa, lo sento nella bocca, lo sento nella pelle, lo sento nel cazzo, lo sento scavarmi le unghie. Un suono che mi incide le viscere e prende il tempo al mio cuore. Il battito finisce in me con me. Avanzo di qualche passo. Mi avvicino ai corpi. Un odore di carne avvolge tutto e mi trascina tra loro, con loro, in loro. Si muovono come serpi, si toccano, bocche vicino a bocche, mani su mani, capelli su capelli, occhi bianchi su occhi bianchi. Mi muovo seguendo il battito del cuore che ho dentro. Sale il calore, sento tanto calore, un calore che mi solleva da terra, un 85


calore che mi stacca dalla pelle e per un attimo mi vedo da fuori. Io non più in loro, non più in me, io quassù che guardo l’io rimasto laggiù. Torno in me. Prendila, prendila, prendila. Apro di nuovo la mano, un’altra lei è lì, questa volta più bella ancora. Ride sempre più. La porto alla bocca e la mangio. Non la lecco. È così bella che la mangio e basta. Sono curioso. Adesso voglio proprio vedere. Riapro la mano convinto che non ci sarà più. Invece lei è ancora lì. Da rimangiare. Per dopo. Per dopo. Non finirà mai. Lei ci sarà sempre, per te e solo per te. Avanzo in mezzo al buio. Salto. Corro un po’ e mi fermo. Salto sul posto. Mastico i denti. Ho il fuoco. Io porto il fuoco. Io sono il fuoco. Fuoco. Lo sento divampare dentro. Fiamme azzurre blu gialle. Si fanno spazio. Entrano le fiamme. Si allarga il fuoco. Fuoco su fuoco. Dalla bocca allo stomaco. Dallo stomaco al sangue. Dal sangue all’anima. Brucio. Il cuore batte. Batte forte. Batte cupo. Batte. Batte. Vuole uscire da me, il mio cuore. Inciampo di nuovo. Cado a terra. Riapro gli occhi. Vedo i corpi attorno. Tanti corpi attorno. Mi guardano. Sono in un mare di sudore. Mi guardano. Tremo da spaccarmi. Mi guardano. Non apro bocca. Mi guardano. Sento gli occhi pesanti. Mi guardano. Il cuore non lo sento più. Ora posso vedermi perché non sono più in loro perché non sono più in me. Mi guardo da fuori. Ecco ciò che resta di me, lì sotto disteso. Vedo avvicinarsi un corpo buono. Si inginocchia vicino alla mia carne come in una preghiera inascoltata. Il corpo buono è l’unico a guardarmi con occhi neri. Le sue mani afferrano ciò che resta della mia carne. Mi solleva. Mi trascina fuori. Mi carica in auto. Il corpo buono con gli occhi neri accende l’auto e parte. Seguo l’auto da quassù, la vedo percorrere strade, la vedo passare in 86


mezzo a case e palazzi, la vedo superare altre auto e mentre corre continua a sfidare questa pioggia di ghiaccio che non smette di cadere. Infine volta a sinistra e va verso l’ospedale. L’ospedale passa veloce a lato. L’auto non si ferma. Cosa fai, cosa fai? le urlo da quassù, ma l’urlo si perde nella pioggia. L’auto si ferma davanti a casa. Io mi fermo quassù immobile. Invisibile dentro un silenzio di pioggia nera. Il corpo buono apre la portiera, afferra la mia carne e mi butta davanti al cancello. Il corpo buono suona il campanello e corre via. Io rimango quassù. La mia carne rimane laggiù. Alzo gli occhi al cielo e vedo un nero infinito. Nemmeno una stella. Nulla. Riabbasso lo sguardo sul mio corpo rigido, freddo, bagnato, contorto. Sulla porta di casa appare una donna bianca coperta da una vestaglia bianca. Una donna. Una madonna. Una madre. Mia madre. Corre verso il corpo. Si getta sulla carne fredda. Pelle su pelle. Sento solo un urlo profondo. L’urlo giunge fin quassù. L’urlo si perde dentro questa pioggia che cade.

E poi arrivò l’eroina. Fu come un vulcano che erutta e cosparge di cenere tutti i corpi e i tetti delle case con un pulviscolo marroncino e amaro, ma così dolce quando ti buchi le prime vene sul braccio con tutta la violenza che ti scalcia dentro. Poi come zombi penzolavamo il capo in avanti seduti sui gradini vicino la chiesa a forma di fungo atomico. Passavamo interi pomeriggi a volteggiare in monotoni valzer, tra i palazzi angolari e le strade sbracciate nel buio invernale. Era come baciare un fiume dolcissimo che ci risucchiava nel centro dell’universo. O di mattina presto, bigiavamo la scuola e camminavamo nel vento ghiacciato con le nostre spade infilate nelle tasche delle giacche jeans come fossero ali metalliche. Andavamo incontro agli ultimi giorni dell’umanità. All’orizzonte scrutavamo i vulcani vomitare nubi nerastre e osservavamo un manto cinereo posarsi sopra le nostre guance. Ci guardavamo l’un l’altro, eravamo tutti romantici pagliacci sfatti, con la pelle sempre più dura come quella delle iguane. Poi finivamo distesi sui marciapiedi, sprofondavamo la testa sul cemento, le macchine che ci ronzavano intorno. Tornati in piedi arrivavamo a casa barcollando e picchiavamo i nostri genitori e li derubavamo dei loro soldi perché eravamo incantati dal dolce richiamo di quella creatura dai capelli lunghi e dai denti a sciabola capace di trasformarci in alghe galleggianti.

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mancano le parole Uno due tre, stella! Perché su quella tomba c’è una lattina di sake e una torta di riso? Perché in Giappone gli amici ti chiamano raramente? Uno due tre… Perché lui si gratta e non parla? Uno due… Perché quella famiglia è scomparsa? Da una chiacchierata con Toshio Kawai, docente di psicoanalisi dell’Università di Kyoto e presidente del Kokoro Research Center. Spiegare il motivo dell’alta percentuale di suicidi in Giappone, ma anche del fenomeno dei kamikaze e della morte volontaria dopo una vergogna pubblica significa dover prendere in considerazione alcune caratteristiche proprie della cultura giapponese e pensarle e rapportarle alla relatività che ogni luogo e ogni storia possiedono. Il Giappone è come le rocce della sua terra: rocce ignee che sono state riplasmate da pressioni e temperature altissime, poi erose dai venti e dall’acqua, per diventare, infine, qualcosa di unico. In psicologia si ritiene che la formazione della coscienza, in quanto consapevolezza di essere soggetto a se stante e separato dagli altri, porti con sé la paura della separazione. A tre o quattro anni, quando i bambini sviluppano la coscienza, formano anche il pensiero e la paura della morte come pensiero della distanza dai genitori. La paura della morte, infatti, è fondamentalmente paura della distanza. In Giappone, tuttavia, la paura della morte è molto meno sentita che in altre culture in quanto i morti sono percepiti come parte della comunità. I morti vivono vicino alle persone e sono venerati in quanto antenati, una sorta di lari e penati fondatori di una gens. La lingua giapponese esprime esattamente questo significato con il termine hokote il quale indica sia l’anima del defunto, sia l’anima illuminata e prossima a Buddha, in altre parole l’antenato. Ma c’è dell’altro. Nel pensiero giapponese, caratterizzato dalla mescolanza di buddismo e di shintoismo, si percepisce l’unità della dimensione fenomenica: tutto è dotato di spirito, la sedia dove ci si siede, la bambola con cui si gioca da bambini, la sabbia con cui un tempo sono state riempite le formine in spiaggia. Nella pratica psicoterapeutica, infatti, si usa la tecnica della sabbia perché per i giapponesi è più facile dare forma alla propria interiorità all’ester88


no, al mondo che a sua volta è dotato di anima. In Giappone, infatti, è difficile spiegare o dare informazioni teoriche, mentre si tende a fare esperienza diretta delle cose. In questa unione e sacralizzazione della vita fenomenica si avverte un senso di continuità tra l’umano e gli altri stati: risulta perciò naturale concepire anche la morte come un puro fenomeno. I defunti tornano durante gli equinozi di primavera e di autunno e durante l’obon, la festa dei morti che si celebra a metà agosto, quando le colline intorno a Kyoto si illuminano di fuochi per indicare il cammino alle anime dei morti che ritornano in cielo. In ogni casa è presente un butsudan, un piccolo altare di legno che ricorda il defunto e sul quale si brucia l’incenso, si depositano i fiori e si prega. Sulle tombe si lasciano lattine di sake, tortine di riso e sempre un po’ d’acqua per dissetare il defunto. In Giappone abbondano le credenze secondo le quali le anime di chi è morto infelice o di chi non è ricordato dai vivi possa causare disgrazie e problemi. Il folklore ne è testimonianza: storie di spose defunte che infestano la casa del marito, granchi con volti umani sul dorso che chiedono vendetta… tra tutte è celebre la storia di Mimi Nashi Hoichi, il suonatore di biwa a cui furono strappate le orecchie dai fantasmi dei guerrieri sconfitti dal clan rivale. Questo fatto da una parte ha un aspetto positivo perché la vicinanza con i morti dona sicurezza e aiuta ad affrontare la vita in maniera più naturale. I morti proteggono come gli angeli custodi in occidente: se non guardano dal cielo, abitano nelle case giapponesi in forma di spiriti. D’altra parte l’aspetto negativo di questa concezione della morte è la facilità con cui si commette il suicidio. Non esiste una chiara differenza tra la vita e la morte. Così è comune lo shinju, il suicidio di più persone, sia della coppia, alla Giulietta e Romeo, tanto famoso nella letteratura giapponese, sia, addirittura, di intere famiglie. Nel periodo Edo (1603-1868) non era infrequente il suicidio di tutti i membri di una famiglia a causa della povertà. Per motivi differenti la pratica dello shinju ancora persiste, non se ne parla perché sono semplicemente notizie che non fanno clamore. Infine, è probabile che i dati statistici sui suicidi siano purtroppo falsati. In Giappone la linea che separa la vita e la morte è sottile. Anche la linea che segna il profilo dell’individuo è sottile. Il Giappone è un paese che sta vivendo un forte squilibrio: la tecnologia altamente sviluppata lo porta ad essere una nazione moderna, ma molte persone vivono secondo una coscienza ancora pre-moderna, mentre molte altre post-moderna. Si deve considerare il Giappone nella sua specificità storica e geografica: 89


isole inospitali, prevalentemente montuose e circondate da mari tempestosi e pericolosi, le quali a causa del loro isolamento hanno sviluppato una cultura unica al mondo. Inoltre per circa trecento anni, tra il 1600 e il 1800, il Giappone è stato chiuso agli stranieri. L’economia giapponese fino a pochi decenni fa era basata sulla coltivazione del riso che poteva avvenire soltanto in alcuni periodi dell’anno e in maniera intensiva. Da qui la necessità della stretta collaborazione e dall’accordo con i vicini, e soprattutto la tendenza ad evitare una qualsiasi sorta di conflitto: nei paesi dove si vivono situazioni estreme, la gente tende a unirsi per affrontare il pericolo. La società giapponese nel corso della storia si è altamente gerarchizzata, ha fatto in modo che l’uomo tendesse a identificarsi con il gruppo e con il ruolo che ricopre all’interno di esso più che con l’individuo, e ha dato massima importanza all’armonia del gruppo. Durante l’era Meiji (1868-1912) il Giappone ha avviato un processo che lo ha condotto verso la modernità: si è unificato, ha abolito la classe dei samurai, ha aperto le porte agli stranieri, e dal canto suo ha spedito ambasciatori in giro per il mondo per copiare le tecnologie, gli stili di vita, e le strutture politiche. In questo veloce cambiamento, tuttavia, l’uomo giapponese non è riuscito a vivere la modernità intesa come individualità e sviluppo della propria interiorità. Si può pensare l’interiorità come un movimento: un andare avanti verso incontri e nuove esperienze e un tornare indietro, in un ritorno a se stessi che permette di inglobare quanto di nuovo si è acquisito, in un percorso di crescita psicologica che insegna a interpretare i propri sentimenti ed emozioni. La possibilità di attuare la propria individualità – di diventare soggetto – si fonda dunque su uno sviluppo della propria interiorità nelle relazioni con gli altri, nei rapporti d’amore o d’amicizia, nella facoltà di testimoniarsi e di esprimersi. Ma l’uomo giapponese non è abituato a considerare e a parlare della sua interiorità, gli mancano le parole. E se un tempo erano la gerarchia, l’obbedienza ai ruoli e al gruppo a ostacolare un’analisi della propria soggettività, ora, per alcune persone, dipende dall’educazione, sono il bombardamento di informazioni, il consumismo, la dipendenza dal virtuale a impedire quel movimento di ritorno a se stessi. Il problema rimane lo stesso. In un discorso che comunque si presenta generico e soprattutto sintetico, va accennato che i giapponesi hanno sviluppato anche un modo proprio di comunicare nel quale il conflitto e la discussione sono evitati. È interessante l’espressione molto di moda tra i giovani «leggere l’aria»: intuire i pensieri altrui senza chiedere o esprimerli, adeguandosi all’ambiente che li circonda. Ciò comporta la difficoltà a esprimersi e dunque ad affermare se stessi in un percorso di crescita fondato sul dialogo e sullo scambio con l’altro. La dialettica non è ospitata nella società giapponese: il dialogo fa paura. 90


Infine il diverso concetto di individualità investe anche le relazioni, ad esempio l’amicizia. In occidente l’amicizia è una relazione che si costruisce giorno per giorno, frequentandosi: si dà importanza all’altro. In Giappone si dice che l’amicizia inizi dall’aria, una sorta di atmosfera che si condivide, oppure da un hobby o da una passione che si ha in comune magari nei circoli universitari o a scuola. Con gli amici ci si incontra esclusivamente per un dato motivo o occasione. Si dà fiducia all’altro ma non si sente la necessità di una forte condivisione, di costruire o di conoscersi, e soprattutto non si prova il bisogno di scambi continui e profondi. È qualcosa di sicuro, che c’è, di dato, e che non si mette in discussione. In un certo senso, comparandola all’occidentale, l’amicizia è più sicura perché è basata su un concetto di fiducia assoluta, d’altro canto è più superficiale. In Giappone l’amicizia, come tanti altri concetti e valori è semplicemente diversa, ma se la si comprende, la diversità fa meno paura. Uno due tre stella! Quanto la cultura permea l’essere umano? Stella! Ma gli uomini sono tutti uguali?

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C’è pantano dappertutto, piove da giorni e giorni. Con gli scarponi si affonda nel fango fino al ginocchio. I vestiti sono zuppi d’acqua e i capelli appiccicati alle fronti. Camminano sotto la pioggia e seguono un bambino che li precede, scalzo, silenzioso. Il bambino è nero di pelle e ha i capelli corti e crespi. Si è presentato alla tenda dei generali di mattino presto e ha detto: «so dove hanno seppellito tutti i morti del villaggio fucilati durante la guerra». Ha parlato di una fossa comune scavata anni addietro, oltre la collina. Le sue informazioni sono sembrate credibili, così i generali hanno deciso di seguirlo e dopo una mattinata di marcia sotto il diluvio arrivano a un casolare abbandonato con le pareti coperte da macchie di muffa e di muschio e il tetto sfondato e gli sterpi dentro che escono dalle finestre sfondate. Il bambino a quel punto si ferma e dice: «scavate qui» e i militari iniziano a conficcare le vanghe. Dopo un po’ la lama di una pala sbatte su qualcosa di duro, il soldato crede si tratti di un osso e sterra tutt’intorno con attenzione, poi estrae un corpo oblungo, cilindrico, che la pioggia lava quasi subito via dal fango. Tutti rimangono stupiti, perché quel corpo oblungo è un bel salame grasso e fasciato da uno spesso budello color panna. Un altro militare poco più in là inizia intanto a tirare a sé quella che sembra una corda ma invece sono metri e metri di salsicce insaccate una dietro l’altra. E poi qualcuno disseppellisce un prosciutto, poi delle forme di parmigiano, caciotte, anche delle pagnotte magicamente intatte. La pioggia svanisce e le nuvole lasciano posto al sole che tinge di luce azzurra l’aria, qualcuno fra i soldati apparecchia un banchetto mentre dalla fossa continua a uscire di tutto, otri di vino, lonze, scatole di pesce affumicato. Arrivano le donne dai paesi intorno, uscite per andare a curare i loro campi, ma vedono la tavolata imbandita e anche loro si fermano a mangiare. Salami e prosciutti asciugati dal sole, sono tutti squisiti. Il pane è fragrante e caldo e il cacio dolce e salato. Mangiano, e continuano a mangiare per giorni e giorni, senza sosta. Il bambino che li aveva portati fin lì però non si trova più, è scomparso chissà dove. C’è chi dice di averlo visto camminare verso il bosco senza farsi notare appena usciti fuori i primi salami dalla fossa. Ma nessuno ha saputo più nulla di lui.

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prima colazione Scendono le bambine di neve scendono in luce perpetua lo sai nessuna manina ci tiene la tua lo sai c’è chi muore per noi e fiorisce sugli occhi la bua scendono cieche le bambine di neve la pelle a sonagli è un mantello di fame bambino dicono puoi sorridere fiori per te non abbiamo non è il tuo dolore il dolore di questo mondo cosa non è ardono i rami cadono stelle la nostra vita non conta più niente la nostra vita è un respiro olocausto bevi il sangue il sangue non mente il cielo è tutto per te

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Vamp. il tuo primo bacio potrebbe essere l’ultimo Arrampica il torace del malcapitato con la collera della passione, leccando la pelle atletica che si incurva appena sopra il muscolo in erezione, sotto il peso di quelle labbra maestose e tubanti allattate da un uragano. Una volta fuori della portata della sua grinta, inghiotte gli occhi nel brulichio del crepuscolo, dentro di sé. Spalanca la bocca avvitandola al collo della preda, i denti appassiscono indistintamente, cominciano a lottare con la fame e generano una spaccatura tra la gengiva e la lingua, schivando bava e polpa fibrosa, sino a poggiarsi in superficie dove, finalmente, affondano tutta la filigrana della mostruosità. La trasformazione in vampiro di Grace Jones, che nel film di Richard Wenk (Vamp, 1986) interpreta la conturbante spogliarellista Katrina, è una folgorazione. All’epoca rappresentava la notte dei giorni, la paura dell’AIDS, il sesso funereo. Non a caso la frase di lancio di Vamp recita: «Il tuo primo bacio potrebbe essere l’ultimo», mettendo i teenagers a torciglione sui pericoli della promiscuità. Che ne è stato oggi di quel messaggio, ce lo dice il principium individuationis degli studios e delle grandi case americane, liberali e senza pregiudizi verso i fremiti vamp, dal grand guignol al terrore, tra il buon grano della tv e l’irregolare tempo cinematografico, per il quale, ormai, i vampiri scalano la hit parade a puntate, vedi la saga di culto Twilight ma anche la serie True Blood in onda su Fox. Sangue sintetico, mostri leggendari, vegetariani contro carnivori, emarginazione e integrazione: l’America è il miglior esempio di quanto la morte per mano dei succhiasangue sia penetrata nei media e negli strati più popolari della modernità. Basti pensare che la scrittrice Charlaine Harris è membro autorevole della Mystery Writers of America e della American Crime Writers League. Il ciclo di Sookie Stackhouse ha aiutato i cultori acciambellati a rianimare vecchie glorie e tendenze, trasportandole su grande schermo e videogame in modo strepitoso. In un punto sconosciuto dell’impervio mercato home video, si è istallato l’ebete fantasy Ninjas Versus Vampires, diretto da Justin Timpane e Gary Ugarek, creatori dell’action-horror-commedia Ninjas Versus Zombies. Sexy, bizzarro, energico e costato solo 15.000 dollari, ha trovato nella Endlight Ent. e nella Breaking Glass Pictures il letto su cui stendersi vestito. Sdoganate, d’avviso, alte produzioni come quella di Vampire Hunter 3D (22 giugno 2012), dall’autore e sceneggiatore Seth Gravame-Smith, prodotto da Tim Burton, con Benjamin Walker nei panni di Abraham Lincoln cacciatore di vampiri. I tipi di Black and Blue Films hanno già assoldato Lucy Pinder come vampira-modella nel verticale Strippers Versus Werewolves, anticipando We 95


Are The Night (IFC Films) del tedesco Dennis Gansel: montaggio iperbolico, donne insaziabili, lesbismo, disco e drink di sangue ghiacciato. Quasi una rivisitazione ubriaca d’effetti del violento e ironico Ragazzi Perduti, portato sullo schermo da Joel Schumacher nell’87, tra mitologia, fumetto, The Doors e Lou Gramm. L’alternativa al drammatico The Vampire Diaries, approdato alla seconda stagione negli Stati Uniti, è il deserto roccioso del porno, dove portali come vampireporn.net, vamperotica.co.uk o xxxhorror.com rappezzano con suore vampire e pompieri stile Van Helsing il senso profano e misterioso della Generazione Vamp. Riccardo Freda, quando diresse I vampiri nel 1957, stava inaugurando un nuovo filone narrativo. Così potrebbe accadere per Bonny & Clyde Versus Dracula, senza contare l’accumulo di remake del calibro di Ammazzavampiri 3D con il supersexy Colin Farrell. Ma a ristabilire l’autorità dei vampiri, la prossima estate, sarà il prete guerriero Paul Bettany (Priest 3D), in lotta contro le tavole del Vaticano per salvare sua nipote rapita da un branco di vampiri rinnegati: “Les vampires” e la fanciulla, nel divertissement e nelle fantasticherie di un horror apocalittico tutto da succhiare.

* bisogno di scavare di nascondere le proprie ossa al cane padrone del giardino. Senza semi o promesse venire smarriti come un tesoro concesso alle prime radici, alle mai sazie carezze dei vermi.

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lasci la pelle sul lenzuolo come una biscia al cambio di stagione e un sacchetto di semi per il deserto che sta arrivando oltre le reti di foglie, le dighe colme senza rimedio. Dovrai seppellirti tornare una calda radice. * vivevi rattrappita in un sottoscala della sua mente. Ogni tanto tornava a guardare chiedendo se stavi bene nei contorni in cui ti aveva portato per il sonno e prima per l’amore, o invece se avrebbe dovuto stringerti di più fino alla posizione perfetta, all’incastro per l’ultimo trasloco femori sulle tempie prima di sfarinarti. * un colpo di fucile e torni a respirare. Muso a terra, senza sangue sparso. Cose guardate con la coda di un occhio che frana mentre l’altro è già sommerso; e tutto s’allontana. Gli alberi si piegano su un fianco perdono la voce in ogni foglia che impara dagli uccelli e per pochi istanti vola. 97


briscola in Alabama Sono morto per le scale un venerdì mattina. Poi, un sogno. Mi trovo in un bar, credo. Una folla mi sbarra il passo. La cicatrice sul palmo della mano destra non si è mossa. Compio un giro su me stesso, calcolato come una spogliarellista attorno al palo, e cerco un ordine nella disposizione dei tavoli. Non so come sia successo: sono e non sono qui, sono e non sono io, Arturo. Ma è tutto così familiare. E lontano. Sembra il party per una campagna politica: palco, bandiere e brillantina. Drink in calici triangolari sovrastati da sculture di frutta affogate nel ghiaccio, donne su tacchi a spillo strette in tubini luccicanti, antibagni affollati da cui escono uomini in smoking, il naso sporco e le dita ad aggiustarsi l’uccello. Tutti parlano, ma le voci suonano come l’eco chiuso in una scatola ovattata. «Psst...». Entro in un’altra stanza dove un vecchio se ne sta in mutande al bancone con la testa fra le mani. Ha davanti a sé un’ampolla di vetro. Accanto, un bambino tiene in mano un bicchiere da osteria con dentro un pesce rosso. Il piccolo bisbiglia qualcosa all’uomo senza accorgersi che questo sta dormendo. «Psst...». Viene da fuori. Esco ma fiuto solo dell’acqua: un fiume, una fontana, forse una pisciata. Proseguo lungo un sentiero di ciottoli mentre lenta cala la luce del sole. Sono in un bosco freddo e umido, e cammino ancora. Quando gli alberi finiscono, mi appare un catafalco in un campo di girasoli altissimi. Avverto prima dei singhiozzi vicini, poi cavalli, trombe e i passi pesanti di un esercito in ritirata. Vado avanti. Mi sento stanco, ogni passo sempre più. Infine un cancello apre il viottolo di un cimitero, in fondo una luce artificiale. «Psst...». «Chi va là?». Scruto impaurito la semioscurità. Tre sagome incerte testimoniano la presenza di esseri umani. Quei tre sono veri come uno sputo in piena fronte, ma possiedono l’ordinaria mediocrità delle cose eterne. Ho anche la sensazione che non possano coincidere con nulla di reale fuori da questa terra tombale. E nell’aldilà ci si aspetta San Pietro, alla più puttana Caronte con la sua bagnarola, oppure l’Arcangelo Gabriele chino su Giuseppe per mettere a posto le cose. Invece mi trovo davanti Abraham Lincoln, uno dei vecchi scolpiti sul Monte Rushmore, J.W. Booth, il suo teatrale omicida, e Lewis Powell. 98


«Psst...». Sono loro a chiamarmi. Più mi avvicino e più quei personaggi risultano effimeri, tre corpi quasi spettrali seduti attorno a un tavolo. Non capisco. L’acqua ora la sento scorrere in milioni di rigagnoli come se mi trovassi sotto terra. Poi di nuovo dei fastidiosi singhiozzi, lamenti sincopati. Quanto vorrei tacessero. Come vorrei trovare questi dolenti per farli smettere, e magari incontrare fra loro anche il mio amico Stevio, pace all’anima sua, e spiegargli che la benzina non è gazzosa. E mio padre? Ma sono impotente, un’alborella nella pesca al tonno. Mi ritrovo calamitato al tavolo, con il due di spade, il re e il sei di coppe. Comanda bastoni. Il mio compagno, Powell, non deve avere più di vent’anni tanto è pulita la sua faccia. Su un lato della fronte una ferita lo lacera. Quando getta la prima carta vedo i suoi polsi incarcerati e uniti tra loro da due corte sbarre di ferro. La partita per noi si mette subito male. Ragiono a ogni mano e cerco di cogliere più segnali possibili da lui. Un’alzata di spalle, un fottuto occhiolino. Nulla. A metà partita dorme come un bambino che sbrodola bolle di latte. Prendo tempo facendo cadere a terra dei fiammiferi. Il Presidente sembra non gradire. «Lei, mio caro, è uno che pensa troppo. Il gioco della briscola è bello perché veloce». «Veloce come una pugnalata alle spalle», incalza Booth. Giochi di parole che colgo solo in parte. Vado liscio. Lincoln carica beffardo. Per un attimo spero in Powell, basterebbe un due di bastoni. «Ehi sveglia, sta a noi». L’idiota apre un occhio e gioca la prima carta che si trova sulla destra, come del resto ha sempre fatto. Si tratta di un altro carico. La partita è maledettamente compromessa. «Ma lo fate spesso?». «Cosa? Intende giocare a briscola con i nuovi arrivati?». «No, intendo accoppiare i nuovi arrivati con quest’incompetente». La penultima mano ci vede già sconfitti dalla matematica. «Non posso darle torto. Questo fantoccio si è rubato tutta la fama che sarebbe dovuta essere mia. Come perché? A causa di quella dannata fotografia. Ma per diamine, è mai possibile? Io ho ucciso il Presidente. Ero io quello al Ford’s Theatre la sera del 14 aprile, giù dal palco con un balzo fin sul palcoscenico. E non fu certo la U.S. Treasury Guard, pivelli, a ferirmi, ma il loro turpe e infame vessillo». Lincoln ride come un orso bulimico e Powell si perde ancora nel vuoto dei suoi occhi. Poi d’improvviso l’attore, l’eterno relegato dalla Storia a ruolo di comparsa, accartoccia l’ultima carta e grida: «Syc Semper Tyrannis!». 99


A quelle parole cado dalla sedia. Mi trovo ricoperto di vermi simili a capelli, steso su un catafalco, circondato da una fanfara di soli ottoni. Soldati con in testa parrucche verdi corrono disorientati prima di schierarsi in formazione con le trombe alte. Il panico. Sento una corrente ipnagogica salirmi dai piedi. Una paralisi umida. Dall’alto cadono gocce salate. Che sia il pianto di Lincoln? O quello di mio padre? Non riesco a distinguere il volto. «Che mi farete? Dove mi manderete? Era una partita truccata, lo sapevate tutti. Che fine farò? Powell cazzo, mi avete messo voi in squadra con quell’idiota». «Arturo, che fai? Alzati. Devi scusare il signor Booth per aver urlato in quella maniera, ma è ancora convinto di essere stato lui a orchestrare tutto. Il palcoscenico, la cospirazione, la fuga, la morte, la fama. Balle. Su, forza, alzati». «Sei tu?». No, non può essere mio padre, che cazzo ne può sapere lui di fama e di palcoscenici. «Ehi Lincoln, che mi succederà ora?». Un uomo mi avvicina alle labbra un calice triangolare. Ingoio un liquido senza colori. Poi avverto carezze sulla fronte e lacrime bagnarmi le guance. Mi abbassano le palpebre. Mi piscio addosso mentre attendo il mio turno. «Non temere, siamo tutti già morti».

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in morte di un professore incompreso Io e Ada viviamo in periferia. L’appartamento a fianco del nostro piùcchebilocale è abitato da due donne. Una è vecchissima. L’altra, un po’ meno vecchia, accudisce e cura la prima. Proviene dall’est (Moldavia? Ucraina? Polonia?) e ogni mattina io e Ada veniamo svegliati dalla sua voce che dice: «Buongiorno nonna» e subito dopo aggiunge: «Apri bocca, apri bocca nonna», e lo dice alla Ivan Drago, in modo così squillante, così deciso e perentorio da far tremare i vetri e il muro che separa il nostro appartamento da quello della donna vecchissima. Ma la perentorietà e la forza non esauriscono tutte le sfumature del suo tono di voce. «Apri bocca, nonna, prendi vitamina, brava»: c’è anche la voce di una madre che parla qui, di una madre che non padroneggerà mai pienamente la lingua di quella vecchissima figlia che cura e accudisce a pagamento per mantenere altri figli e altre figlie più giovani di lei e usciti direttamente dal suo grembo e rimasti a casa, nell’est. Ogni mattina mi sveglio schiacciato dalla voce materna di un Ivan Drago in gonnella la cui capacità di donarsi mi fa vergognare di ciò che sono, e mi porta d’istinto a pensare che no, non voglio alzarmi, e comunque anche se volessi non ce la farei a inoltrarmi in un’altra di quelle giornate che trascorrono senza capo né coda tra biblioteche, dipartimenti e chiacchiere di corridoio con personaggi pallidi ed elusivi, palesemente inadatti a qualsiasi altra forma di esistenza che non sia quella ovattata e autoreclusa dell’accademia. Faccio un dottorato in letterature straniere, e il mio relatore o tutor (tiù-tor), è morto tre mesi fa. D’infarto, tra le gambe dell’ennesima studentessa perdutamente innamoratasi di lui, e come sempre da lui perdutamente ricambiata. Si chiamava Gerardo Làbano Malfatti, e se qualcuno ha mai incarnato alla perfezione una certa idea di intellettuale, beh, quello era lui: pochi e rivoltosi capelli in testa, naso aquilino, giacca di tweed con toppe di ordinanza sui gomiti, il tutto accompagnato da una certa flessuosità dell’andatura, da un’aura vagamente aristocratica (vantava lontane ascendenze nobiliari) che costituiva a conti fatti la cifra del suo fascino. Dieta giornaliera: due pacchetti di Merit, dai sei agli otto caffè, e oltre a brioches e cornetti raramente gli ho visto ingerire altri cibi solidi. Adorato dagli studenti, ignorato dai colleghi, totalmente privo della 102


minima capacità di mediazione, col tempo aveva sviluppato una sindrome persecutoria che lo portava a deprecare (nei sempre più frequenti momenti di abbattimento) o, all’inverso, a deridere (nei sempre più rari momenti di orgoglio) l’universo mondo. Aveva scritto libri importanti (e ignorati)1 ed era forse il solo che avrebbe potuto accettare il mio argomento di tesi di dottorato. Credevo di avere individuato un motivo costante nella cultura tedesca, un tema non ancora studiato che avrebbe portato un contributo significativo alla spiegazione dell’orrore degli orrori, lo sterminio pianificato degli ebrei da parte dei nazisti. Ecco, credevo di potere dimostrare che i tedeschi fossero da sempre segretamente ossessionati dai forni, e che la pratica di ficcarvi dentro ciò che di volta in volta consideravano il male da eliminare risalisse a secoli addietro. Una tesi insidiosa, certo, per cui occorrevano studi seri e approfonditi, senza dubbio; ma secondo me bastava partire da un dato di fatto inoppugnabile presente già nel folklore germanico, e cioè dall’uccisione della strega cattiva da parte di Hänsel e Gretel. Quello che segue è un veritiero resoconto del dialogo avvenuto tra me e il professore Gerardo Làbano Malfatti subito dopo l’esposizione della mia idea di tesi: «Allora, professor Malfatti, che ne dice?». «Innanzitutto dammi del tu e chiamami Gerri. Odio queste formalità accademiche». «D’accordo professor Malf – d’accordo, Gerri». «Quanto alla tua idea, non avrò peli sulla lingua: la trovo straordinaria. È un’intuizione geniale, e può avere conseguenze di portata epocale. Come ben saprai, anch’io mi sono occupato di nazismo. Finora ho pubblicato solo interventi sparsi, senza preoccuparmi di sistematizzare il tutto in un volume. Potremmo fare un libro a quattro mani, vedo già il titolo: Il concetto di forno nella cultura tedesca dalla fiaba di Hänsel e Gretel fino ad Auschwitz, di Andrea Montini e Gerardo Làbano Malfatti. Naturalmente è un tema estremamente delicato, e dovremo essere molto attenti nel motivare le nostre tesi. Ma non dubito che ci riusciremo. Che ne dici?». «Sarebbe fantastico, Gerri. Prima però devo vincere un dottorato». «Savasansdir. Lo vincerai, lo vincerai».

1 G. Labano Malfatti, Ritorno a Cartagine. Idee sull’origine dell’impero (e congetture sulla sua fine), Bologna 2001; Id., “Se non mi svesto non faccio testo”, ovvero mass-media e ossessione del corpo, Parma 1997; Id., Narrazione e terrestrità: dal mito di Anteo a quello di Pelè, Vigevano 2004

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Al funerale di Gerri c’erano, oltre me e Ada, una decina di studentesse attorno ai vent’anni, un impiegato dell’amministrazione universitaria con cui Gerri andava ogni tanto a giocare ai cavalli, e un rappresentante della famiglia Làbano Malfatti, un cugino di quarto o quinto grado spedito a Bologna per accertarsi dell’eventuale presenza di un’eredità (Gerri non era sposato, aveva tre figli da tre donne diverse e ancora troppo giovani per detestarlo o per amarlo con tutto il cuore, e non aveva un soldo: dilapidava tutto nei cavalli e nelle studentesse e, saltuariamente, nei figli). La giovane matricola di filosofia che aveva accolto gli ultimi respiri terreni di Gerri portava un vistosissimo lutto d’altri tempi, con tanto di veletta nera calata sul volto. Sembrava realmente disperata. Ada, a cui di Gerri avevo raccontato sempre il minimo indispensabile, era perplessa. «Come mai non ci sono altri professori?». «Dietro espressa richiesta di Gerardo. Teneva in così alta considerazione l’insegnamento e l’accademia in generale che ha lasciato scritto di non volere nessuno ai suoi funerali, per non distrarre i professori dai loro compiti, anche da quelli più ordinari». «Ma non hai detto che è morto all’improvviso?». «Sì, ma ha fatto in tempo ad annotare le sue ultime volontà». Essendo rimasto orfano, mi venne assegnato d’ufficio un altro relatore o “tiù-tor”, un esperto di lirica barocca portoghese. Quello che segue è un veritiero resoconto del conciso discorso tenutomi dal professore di lirica barocca portoghese subito dopo la scomparsa di Gerri. «E così Lei è un allievo del compianto Malfatti. Non credo che Lei si occupi di lirica portoghese, quindi non si scomodi a spiegarmi l’argomento della sua tesi. Le do soltanto un consiglio: si affretti a trovarsi un lavoro serio per quando finirà il dottorato – se mai lo finirà. Arrivederci». E così eccomi qua. Apri bocca, Andrea, prendi vitamina...

Il brano è tratto dal romanzo in fase di pubblicazione Italia in autunno.

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Il y a là un chêne, des mots gravés sur un tronc dont la texture me trotte encore dans la tête. Il y a là une place aux graviers rouges, flaques d’eau boueuses et bordeaux. Je traverse la rue et revois la maison de la pharmacie. Longue table de bois, chaises garnies de velours vert, horloge au timbre de basson, réserve aux produits inflammables où nous courrons entre les pots géants, volière et buffets grillagés de la cuisine. Le hall d’entrée est toujours aussi froid, on ne le chauffe pas, le pavé marbré porte un cœur d’hiver. Et si je ferme les yeux, m’apparaît petit à petit la chambre de l’aïeul, trois jours après la fin – la bouche, que ne retient plus close la colle d’embaumeur, s’ouvre grande et m’aspire à l’intérieur.

Qui c’è una quercia, parole incise su un tronco, la cui tessitura mi ronza ancora nella testa. Qui c’è un posto di ghiaia rossa, pozzanghere d’acqua melmose e rossastre. Attraverso la strada e rivedo la casa della farmacia. Un lungo tavolo di legno, sedie rivestite di velluto verde, un orologio col timbro da fagotto, una dispensa con dei prodotti infiammabili dove corriamo in mezzo a barattoli giganti, una voliera e le credenze con le ante a grata della cucina. L’atrio d’ingresso è sempre tanto freddo, non lo riscaldano, sul pavimento di marmo c’è un cuore d’inverno. E se chiudo gli occhi, a poco a poco mi appare la stanza dell’avo, tre giorni dopo la fine – la bocca, che la colla dell’imbalsamatore non tiene più chiusa, si spalanca e m'aspira al suo interno. *

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qui giace Ennio Flaiano le memorie di un giorno non durano di più In origine l’epigramma era una breve iscrizione di carattere per lo più funerario, una frase lapidaria – contenuta letteralmente nello spazio di una lapide – che commemorava e celebrava le virtù del defunto. Il genere acquista valenza poetica e letteraria con Marziale, che gli conferisce quella connotazione sarcastica con cui ancora oggi esso viene prevalentemente identificato. Un maestro della scrittura breve, della battuta caustica e paradossale, come Ennio Flaiano, non poteva non misurarsi anche con l’antica tradizione epigrammatica. Intellettuale irregolare, dedito al cinema e al giornalismo, e camaleontico sperimentatore delle forme letterarie con la dichiarata «vocazione di non essere identificato», Flaiano è stato a lungo guardato con diffidenza dalla critica. Egli soffriva i giudizi negativi sulla sua opera, specie se formulati da intellettuali a lui vicini, e reagiva chiudendosi nella solitudine del suo temperamento malinconico, isolandosi da Roma e da quella «società del caffè» insieme amata e odiata, che descrive nei Fogli di via Veneto. Ma oltre il suo presunto carattere spinoso, dietro il sarcasmo che egli non risparmiava nemmeno alla compagnia di intellettuali che abitualmente frequentava, c’era in realtà l’atmosfera scanzonata e goliardica di quella Roma degli anni Cinquanta, dei caffè letterari e delle trattorie, in cui per tutti era d’obbligo non prendersi sul serio. Mino Maccari, l’amico più caro di Flaiano, come lui scrittore di aforismi, oltre che pittore e ideatore accanto a Leo Longanesi di numerosi fogli satirici sin dal primo Novecento, spediva regolarmente a Flaiano cartoline da luoghi immaginari che affrancava poi con francobolli disegnati da lui stesso. Le loro conversazioni erano un gioco sottile e scoppiettante di ironia, freddure e bonarie prese in giro che i due amici si rimbalzavano l’un l’altro. Nelle metaforiche ed epigrammatiche Lapidi contenute nel volume Bompiani che raccoglie gli scritti postumi di Flaiano1, lo scrittore cita Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Alberto Arbasino e un anonimo «pittore impegnato», caricatura ironica di quell’intellettuale engagé che un agguerrito sostenitore dei valori dell’autonomia e della libertà, quale Flaiano si professava, non poteva che guardare con sospetto. Altri due epigrammi, più apertamente celebrativi, sono dedicati a Raffaele La Capria e al poeta argentino Wilcock. Tutti intellettuali che peraltro sopravviveranno all’autore, scomparso prematuramente il 20 novembre 1972. L’ironia di Flaiano è pungente, ma mai volgare; non vuole offendere o provocare deliberatamente. Egli piuttosto gioca con le possibilità retoriche offerte dall’epigramma, riattualizzando l’originaria funzione commemorativa, ma cam1 Maria Corti, Anna Longoni (a cura di), Ennio Flaiano. Opere. Scritti postumi, Bompiani, Milano 1988

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biandola di segno, nel solco della tradizione satirica del genere inaugurata da Marziale. In queste Lapidi, che sono esercizi di stile, canzonature velenose ma bonarie, Flaiano immagina di scrivere il necrologio di persone ancora in vita. La loro natura di facezie e la destinazione ristretta alla compagnia di intellettuali spiega probabilmente il motivo per cui lo scrittore decise di non pubblicarle. Esse, d’altra parte, rientrano nella più generale abitudine di Flaiano di irridere i propri amici, di inventare per loro versi giocosi, nomignoli e soprannomi, o di citarli nelle proprie opere, accentuandone le caratteristiche più caricaturali, come accade a Fellini e al gruppo di intellettuali del «Mondo» di Mario Pannunzio (con cui Flaiano collaborò per diversi anni) nel racconto Un marziano a Roma. In Don’t forget, appendice al Diario degli errori, quaderno privato di riflessioni e brevi annotazioni pubblicato postumo, Flaiano scrive: «Pier Paolo Pasolini, col suo Decamerone, è la scimmia che ha aperto la gabbia alla tigre. All’antica tigre italiana dei cessi, dei casini, dei corpi di guardia, dei goliardi e, tutto sommato, dei turpi porcaccioni»2. Un nemico dichiarato di qualsiasi ideologia come Flaiano, non può non deprecare soprattutto, di Pasolini, «comunista e cattolico», quello che ritiene essere il suo allineamento alle direttive del partito. L’anticomunismo di Flaiano è critico, non viscerale, ma fermo e deciso nel condannare le conseguenze nefaste di ogni indottrinamento e di ogni adesione acritica. In questa prigione di stato avida travagliata esistenza e umana invidia condussero Pier Paolo Pasolini comunista e cattolico e qui al partito sottraendola la sua bell’anima a Dio rendeva morendo in odore di pubblicità.3 Flaiano era un carattere solitario che mal digeriva i riti e le pose della società intellettuale. Ma ciononostante, forse anche per mestiere di vivere, egli frequentava abitualmente le serate mondane di piazza del Popolo e di via Veneto, al punto che in molti gli hanno rimproverato di aver disperso proprio nei caffè il suo talento di moralista e di fine inventore di motti di spirito. Pare che anche Moravia fosse tra i sostenitori di questa tesi, e che i giudizi velenosi che Flaiano dà di lui in alcune lettere, mostrino proprio come egli non avesse gradito il parere dell’amico scrittore. In un’intervista del 1972, tuttavia, Flaiano loda Gli indifferenti, ricono2 Ennio Flaiano, Diario degli errori, in Maria Corti, Anna Longoni (a cura di), Op. cit. p. 442 3 Ivi, p. 208 [La valigia delle Indie]

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scendo a Moravia il «gran merito» di aver «rotto i ponti col vecchio romanzo in Italia».4 In questa casa signorile con doppi servizi visse e operò tenacemente Alberto Moravia che a supremo fastigio dell’arte sua la Noia ponendo in novelle innumerevoli la profuse.5 Arbasino scrive «come una boutique»6, dice Flaiano in Don’t forget. Il futuro protagonista del Gruppo 63 dovette essere sin dai suoi esordi uno scrittore particolarmente prolifico, se Maccari, che tra ʼ58 e ʼ59 aveva coinvolto Flaiano nel progetto di una rivista intitolata "L’Antipatico", presenta all’amico il nuovo esperimento editoriale come «la sola pubblicazione che non contenga scritti di Alberto Arbasino». Precocemente rapito alle glorie letterarie e mondane qui soggiace Alberto Arbasino che ardire e curiosità spinsero ai confini dell’arte altrui invano.7 Flaiano, che non si sottraeva al gioco dell’ironia e all’autocritica anche feroce, dedica l’ultima lapide a se stesso. La sua opera, come pure il suo modo di intendere la vita, suggeriscono una visione “ilarotragica” delle cose. Tra le pieghe della scrittura satirica o al fondo delle serate romane di cui egli era animatore, restano l’amarezza e il pessimismo del moralista costretto in un’Italia provinciale e piccolo-borghese, sempre identica a se stessa, che egli dispera di potere in qualche modo cambiare. La triste profezia sul destino dei propri scritti, contenuta nell’epigramma conclusivo, si rivelerà errata, perché al recupero delle cartelle e dei fogli sparsi nei suoi cassetti, dall’anno della morte, sono stati dedicati numerosi sforzi e la sua opera ha ormai trovato una rigorosa sistemazione critica, segno di un’eredità artistica ancora viva nella cultura italiana. Ma a chi continua a considerarlo uno «scrittore minore satirico dell’Italia del Benessere», forse 4 Ivi, p. 1203 [Interviste] 5 Ivi, p. 208 [La valigia delle Indie] 6 Ivi, p. 428 [Diario degli errori] 7 Ivi, p. 209 [La valigia delle Indie]

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Flaiano, oggi come allora, lascerebbe a testamento della sua opera le stesse parole: Qui giace Ennio Flaiano tra il materiale raccolto del suo romanzo inedito Le memorie di un giorno non durano di più.8 8 Ibidem

L’immeuble a probablement été gris, pierre de taille et crépi d’apparat – aujourd’hui il est toujours debout, mais enrobé de suie, anonyme au milieu de la rue saturée de gaz à chaque fin d’aprèsmidi. Sous les fenêtres, les traverses ont perdu de leur rigueur initiale, comme frappées d’une multitude de pics. Le bois des châssis, vermoulu, semble avoir été arraché à une épave. La porte d’entrée est sortie de ses gonds, on entre par une minuscule ouverture, après de nombreuses contorsions. Au dessus du porche, la tête bouclée d’un enfant. Ses yeux s’enfoncent ou sortent des orbites, selon la position du soleil dans le ciel. Ses joues ont ce je-ne-sais-quoi de cave, qui rend inapte à respirer.

Probabilmente l’edificio è stato grigio, pietra da taglio e intonaco sfarzoso – oggi è ancora in piedi, però ricoperto di fuliggine, anonimo in mezzo alla strada satura di gas ad ogni fine pomeriggio. Sotto le finestre, le traverse hanno perduto un po’ del loro rigore iniziale, come fossero state colpite da una moltitudine di picconi. Il legno dei telai, ormai tarlato, sembra essere stato strappato da un relitto. La porta d’ingresso è fuoriuscita dai cardini, si entra da una minuscola apertura, dopo numerose contorsioni. Sopra l’androne, la testa riccioluta di un bambino. I suoi occhi sprofondano o escono dalle orbite, secondo la posizione del sole nel cielo. Le sue guance hanno un non so che di incavato, che rende inadatti a respirare. *

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la nera signora si veste da clown intervista a Giuliana Musso Abbiamo lasciato una valle di lacrime assediata dal pensiero nero dell’inferno per trasferirci nella valle della cosmesi collettiva dove “io valgo” se sono giovane e bello sempre, sempre forte e vincente. Nella terra dell’ottimismo noi non invecchiamo, non ci ammaliamo e non moriamo mai. Giuliana Musso

Sul palco c’è una cassa di legno e un’attrice che descrive un’esperienza di avvicinamento alla morte: «Fu come uscire dal guscio», dice. Presta il suo corpo alla testimonianza di Maria V., di Roma. Poi il buio. Quando torna la luce ci sono tre clown seduti sulla cassa. Mettono in scena le contraddizioni e i paradossi del nostro modo di vivere la morte, faranno ridere e piangere lo spettatore. Tra accanimenti terapeutici e cure palliative, con il camice e la cuffia, entreremo con loro nei reparti di terapia intensiva, laddove i medici «costruiscono ponti» verso una possibilità di ritorno alla vita e dove altri medici faticano a pronunciare la parola “morte”, perché anche se non c’è più vita può esserci «attività elettrica», e questa basta a tenere lontana quella parola. Sul palco invece la si chiama per nome, la Nera Signora, e lei arriva: ha il naso rosso come le scarpe, occhiali scuri, un cappello di pelo nero, un cappotto nero e pantaloni da uomo grigi. Non parla: si limita ad arrivare e a chiudere le persone nella cassa. Poi a un certo punto il palco si riempie di sveglie, ognuna puntata su un’ora diversa; i clown ne regalano alcune al pubblico. In fondo è solo questione di tempo: ciascuno ha la propria ora. Tanti saluti a tutti. Perché uno spettacolo che parla della morte? Come si inserisce nel tuo percorso artistico? Tanti saluti conclude un percorso cominciato nel 2001 con Nati in casa, uno spettacolo dedicato al tema della nascita, e proseguito con Sex Machine (2005), uno spettacolo sulla sessualità. Insieme, gli spettacoli formano una trilogia intorno a temi cogenti della nostra esperienza di esseri umani: sono I fondamentali. Inoltre ho vissuto un’esperienza nella mia vita privata che ha stimolato in me l’urgenza di affrontare questo tema, a conclusione della trilogia. L’interesse verso una ricerca artistica affonda sempre le sue radici in un percorso di vita; in senso etimologico l’interesse è proprio “uno stare in mezzo”, un essere in mezzo tra noi e la vita che ci circonda; parti sempre da te stesso per indagare intorno a te. La dimensione etica non può essere disgiunta dalla ricerca estetica, e io cerco di mantenere sempre una coerenza tra il mio modo di fare teatro e il mio modo di essere nel mondo. In che modo hai affrontato l’argomento? E con quali linguaggi? Per me il teatro d’indagine è una forma di studio e di perlustrazione del reale: mi piace che sul palco emergano le voci provenienti dalla realtà, per questo io cerco testimoni; 110


in questo caso li ho cercati prevalentemente tra i medici e gli infermieri degli hospice e degli ospedali. Ne consegue una scelta evidente: nello spettacolo non do voce diretta né ai morenti né ai congiunti ma a chi, pur essendo vicino alla morte, conserva una certa distanza nello sguardo. Ho cercato di restituire quello sguardo in modo da poter raccontare il sistema morte seguendo un doppio binario: da una parte ci sono i monologhi, racconti concreti che restituiscono una testimonianza del reale e dai quali emerge la complessità del morire oggi; dall’altra ci sono tre clown che affrontando situazioni ironiche e grottesche ce ne mostrano il corollario. Quali sono i rischi nell’approcciarsi a questo argomento? Il rischio più grande è generare uno stato d’animo di angoscia e paura verso la morte: sentimenti comprensibili dato che la nostra società ha vissuto un processo di progressivo allontanamento della morte dalla vita quotidiana. Perché e in che modo il “linguaggio clown” può aiutare a evitare il rischio della retorica? Il clown abbassa la soglia dell’angoscia e riporta al centro la soggettività: ha il coraggio di sbagliare e di mostrare le proprie infinite debolezze, la propria vulnerabile umanità. Tutto questo è liberatorio per chi vive in una società in cui ciò non è concesso: né il malato né l’infermiere possono permettersi di mostrare le proprie paure di fronte alla morte. Il clown propone un’immagine diversa della morte, intesa secondo una spiritualità laica. I tre clown, personaggi tenerissimi e vulnerabili, affrontano la loro fine: quando salutano il pubblico, ognuno si rivede in loro. Essi citano, stavolta in soggettiva, stralci già raccontati all’inizio dello spettacolo: si tratta di testimonianze raccolte dalla letteratura scientifica in merito alle Near Death Experiences, e che raccontano le visioni di persone rimaste per un certo tempo in uno stato di pre-morte. Senza entrare nel campo della fede (io sono atea) leggendo o ascoltando queste testimonianze percepisci che esiste qualcosa di sano e di autentico nel pensare la morte non come fine ma come passaggio; questo ci riporta a una visione della morte molto arcaica. La divinità femminile delle religioni pre-cristiane era la reggente della vita e della morte: la donna rappresentava il passaggio alla vita, per questo la vagina era rappresentata anche sui sepolcri. Questo momento dello spettacolo genera una profonda risonanza dentro le persone: è come riconoscere un suono che già esiste dentro di te; percepisci che la vita è in te e allo stesso tempo che tu sei parte della vita. Alcune persone che avevano avuto lutti gravi mi hanno detto che si sono sentite molto liberate dopo aver visto lo spettacolo. Dare nutrimento, spazio e valore a questa immagine della morte è sano per la società. L’uomo ha bisogno di questa dimensione spirituale che solitamente è affidata alla religione. Nella nostra società la religione cattolica non ha saputo riconciliarci con la morte, ma anzi ha contribuito a marcare una netta separazione tra la vita e la morte.

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Come si può rappresentare la morte, e come lo hai fatto? La morte non si può rappresentare. Se ne possono rappresentare i contorni, le vicinanze. Un insegnante di scienze infermieristiche mi ha detto che per affrontare e gestire la morte degli altri, gli operatori sanitari devono necessariamente affrontare la loro morte, almeno sul piano emotivo e del pensiero. Alla morte io mi sono avvicinata cercando di non escludere me stessa. Non è possibile affrontare il pensiero della morte senza sentirne il riverbero all’interno delle corde più intime e profonde di sé; altrimenti è un bluff. È la delega a un pensiero astratto che non tiene conto della carne, che perciò resta parziale e non ci lascia intravedere alcuna verità. In un incontro all’Università di Torino hai detto che «il pubblico è sempre portatore di possibilità non previste dalla struttura»: puoi spiegarci in che senso? La mia formazione teatrale ha da sempre contemplato la relazione con il pubblico; questa interlocuzione avviene anche in fase di scrittura perché scrivo sempre per qualcuno e tenendone conto. Sul palco l’attore è sempre in comunicazione con il pubblico, con il quale si crea empatia: se ti ascolti mentre avviene senti che cambia qualcosa dentro di te. Nei miei spettacoli, perciò, lascio sempre un margine di improvvisazione che consente di tenere aperta la relazione tra me e il pubblico. Tanta parte del teatro non prevede questa possibilità, ma per me è indispensabile: fa parte di quell’approccio con il reale che voglio tenere su ogni piano del mio lavoro. Lo trovo più poetico di qualsiasi costruzione estetica. Il tuo spettacolo risponde alla necessità di ridere della morte come reazione al desiderio di allontanarla dal quotidianoLa morte è un limite per l’uomo, e come tale rappresenta un contenimento necessario al pensiero. Cosa ne pensi? È senz’altro un limite al pensiero perché non concepiamo un pensiero che nasca dal corpo, e in questo risiede la lacuna di ogni forma di pensiero astratto. Perché per esempio non si parla della nascita in filosofia? Forse perché la nascita è appannaggio femminile e il pensiero femminile comprende per sua stessa natura il corpo e l’emozione. Se il pensiero si affidasse al corpo e all’emozione, credo potrebbe comprendere anche il pensiero della morte.

Giuliana Musso è attrice e autrice di Tanti Saluti, un progetto di teatro civile clownesco, con Giuliana Musso, Beatrice Schiros, Gianluigi Meggiorin, regia di Massimo Somaglino, produzione La Corte Ospitale. Per realizzare questo spettacolo, Giuliana Musso è entrata nei “teatri della morte”: ospizi, ospedali, hospice e case, raccogliendo le testimonianze di medici, infermieri, assistenti sociali, operatori sanitari.Per maggiori informazioni: www.giulianamusso.it

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Derrière la fenêtre du premier étage, un visage, la prunelle floutée, relié à des mains à plat contre la vitre. Sur les paumes est écrit "J’arrive". Couvert de tissus noir, le reste du corps n’existe pas ou presque. Le ciel s’obscurcit soudain, la fenêtre s’ouvre et bat à la volée, dans un claquement de dents plus que de bois. Plus tard, quand revient la lumière, il n’y a plus personne qu’une chemise de tulle qui s’élance, s’envole et descend en planeur, avant de s’accrocher aux branches nues d’un arbre, qu’elle habille un moment de buée.

Dietro la finestra del primo piano, un viso, con la pupilla sfocata, collegato a delle mani poggiate di piatto sul vetro. Sui palmi c’è scritto "Vengo subito". Coperto da un tessuto nero, il resto del corpo non esiste o quasi. Il cielo si oscura d’improvviso, la finestra si apre e sbatte al volo, con uno schiocco di denti più che di legno. Più tardi, quando torna la luce, c’è solo una camicia di tulle che si lancia, prende il volo e scende planando, prima di appendersi ai rami spogli di un albero, e rivestirli per un attimo di vapore *.

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viaggio nell’oscura poetica di Nick Cave:Murder Ballads In lontananza sfumano, cupi e lineari, i rintocchi di una batteria, spezzati all’improvviso da una torva e roca voce che intona «abbiate misericordia di me, Signore, e consentitemi di disturbarvi». Emblematico quanto beffardo, l’inizio dell’album Murder Ballads di Nick Cave ripercorre quell’atavica tradizione folkloristico-popolare1 intrisa di recondite paure ed evocativa forza primordiale. Sempre in compagnia dei fidi Bad Seeds, Cave dà alle stampe un concept album nel quale emerge ancora una volta tutta l’abilità creativa della sua penna; nove inediti – di cui due rivisitazioni di testi tradizionali – più la cover di Death Is Not The End (Bob Dylan) quasi fosse un “esorcismo” e le illustri collaborazioni di PJ Harvey in Henry Lee e dell’insolita Kylie Minogue in quella Where The Wild Roses Grow che nell’autunno 1995 spopolò nei circuiti di MTV. Il disco si apre con Song of Joy, “legata con del filo elettrico […] accoltellata più volte e infilata in un sacco a pelo” nella quale il marito della vittima si confida con Dio, raccontando la storia del brutale assassinio consumatosi tra le mura domestiche e di un criminale che “scriveva versi di John Milton alle pareti con il sangue delle vittime”. Segue Stagger Lee, che narra le cruente e spietate gesta dell’omicida Lee Sheldon: il brano è desunto da una tradizionale folksong afro-americana molto in voga tra i carcerati2 di fine Ottocento. Dopo il duetto con la Harvey, in cui una giovane getta “in questo bel pozzo profondo più di cento piedi” tutto l’amore non corrisposto del baldo Henry, si passa agli ossessivi ritmi di Lovely Creature per giungere alla straordinaria Where The Wild Roses Grow: un diamante che brilla “dove crescono le rose selvatiche” e nel quale “l’ultima cosa che sentii fu una parola mormorata, mentre lui era inginocchiato sopra di me con una pietra nella mano”. Dall’innocenza degli archi in supporto alle delicate note di pianoforte, si passa all’irish folk sfrenato di The Curse of Millhaven in cui la serial killer Loretta narra i suoi crimini; ne sanno qualcosa Billy Blake trovato con “la testa spaccata e le tasche piene di pietre” o il professor O’Rye “inchiodato alla porta del suo pluripremiato Terrier”; stessa sorte accomuna anche la protagonista del brano The Kindness of Strangers, dove la povera Mary Bellows viene ritrovata “ammanettata al letto con un bavaglio in bocca e una pallottola in testa”. Ma c’è ancora tempo 1 Le “ballate omicide” – collocabili per lo più nella tradizione folk anglosassone – sono un sottogenere della forma ballata. Si tratta di componimenti lirici (e musicali) che descrivono omicidi efferati, i loro assassini, le loro vittime nonché i dettagli del crimine stesso, con una particolare perizia narrativa che si sviluppò al di fuori del circuito letterario colto. 2 Questi brani sono caratterizzati dal cosiddetto “toast-poem” ossia l’atto del cantare o parlare (generalmente in una melodica monotona e costante) sui ritmi e i battiti scanditi da un disco; sembra che questa tecnica abbia anticipato generi come rap, reggae e hip hop.

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per assaporare il retrogusto southern di Crow Jane e l’interminabile e violenta O’Malley’s Bar, in cui il sangue sgorga “per tutto il locale come un ruscello fumante e scarlatto” sulle sinistre note dell’Hammond. Il viaggio termina con la cover di Dylan. Insomma, Murder Ballads è una “finestra” che si apre, come nel dipinto noir di Jean Frédéric Schnyder (copertina del disco), su una fumante casetta immersa nella neve. Una lugubre prospettiva vista dagli occhi d’un oscuro assassino e diretta, con perizia, dall’abilità narrativa-compositiva di King Ink3 da sempre considerato tra le figure più autorevoli della canzone d’autore del ventesimo secolo. Buon ascolto. 3 Uno degli pseudonimi dell’autore.

Dans la chambre suivante, éclairage au néon qui rend la viande appétissante. J’ai dans la poche un numéro froissé. La fille m’attend sans attendre vraiment, ou peut-être sourit-elle aux draps mouillés. L’oreiller porte les cheveux d’une autre, ses prunelles reflètent le plafond incolore et indigent. Sa main entreprend de me réveiller – mon corps suspicieux ne veut rien entendre. Dans sa bouche, elle emmêle prépuce et langue ordurière, et elle mâche, mordille, ça mousse. Les mains s’affairent sous les couilles. Le ventre se promène sur le ventre. La gorge est asséchée et le sperme blanc beige. La maison ne fait pas crédit.

Nella stanza successiva, un’illuminazione al neon che rende appetitosa la carne. In tasca ho un numero spiegazzato. La ragazza mi aspetta senza aspettare davvero, o forse sorride alle lenzuola bagnate. Sul cuscino ci sono i capelli di un’altra, le sue pupille riflettono il soffitto povero e incolore. La sua mano tenta di svegliarmi – sospettoso, il mio corpo non vuole saperne. Nella bocca di lei, s’ingarbugliano prepuzio e linguaggio scurrile, mentre mastica, mordicchia, fa schiuma. Le mani si danno da fare sotto i coglioni. Il ventre passeggia sul ventre. La gola è secca e lo sperma di un beige biancastro. Qui non si fa credito. *

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Michael Jackson Jr. «Lascialo!». «No!». «Dobbiamo andarcene subito». «No!». «Perché?». «Non posso!». «Non possiamo farci trovare qui!». «Resto!». «Oh my God. Perché?». «Devo vegliare il cadavere». «Ma che vegliare! Era uno stronzo. Scappiamo». «Non ti permettere!». «Ma lʼhai detto tu cinque minuti fa! Dai! Vieni!». La prese per mano e la trascinò per qualche metro mentre lei si lasciava cadere a terra, urlando strilli da aquila del Gran Canyon, mentre le comparivano chiazze in viso, gli occhi si facevano a pescepalla e i muscoli del collo erano tirati come corde di chitarra sul punto di saltare. «Dio, sei pesantissima! Aiutami! Alzati, dobbiamo andarcene da qui». «Non voglio. Devo almeno vegliare un poʼ. Se no porta male. Una iella che mi seguirebbe per tutta la vita. Serve la veglia funebre». «Ma ormai è morto!». «Sì morto, ma lui mi ha aiutato tanto. Devo dare riconoscimento!». J. Jr lasciò la presa e Liuba stramazzò pesantemente a terra col busto e le gambe allʼaria. «Oh! Ma sei uno scemo tu? Non vedi? Non devo prendere colpi o fare cadute! Fa male al bambino!». J. Jr si allontanò di qualche passo, il viso più bianco del solito, le gambe a stecchino infilate nei jeans a tubo. «Oh my God, urlavi come una pazza...». Si mangiucchiò le nocche della mano. «Ti sei fatta male? Ti ho fatto male per colpa mia?». «No, non male. Ma sono donna incinta. Non devo avere scossoni». «Quanto tempo ti serve?». «Dammi dieci minuti». «Dieci minuti? Tutta questa scenata per passare dieci minuti con questo ubriacone? È questa la ricompensa che si merita? Ah, be', sei ge-ne-rosa!». 117


«Dieci minuti. Tu allontanati, però». «Cʼè una puzza di bruciato qui, ma cosa...». «È odore di sua carne! Allontanati!». J. Jr si incamminò sul terreno brullo di terra scalciando i sassi e sollevando nuvole di polvere marrone cacca. Girò lentamente la testa dietro di sé. Liuba era in ginocchio di fianco al corpo flaccido di Rocco, riconoscibile grazie alla testa coi riccioli che ancora splendevano di brillantina e i piedi avvolti nelle scarpe grigie da camionista, il resto del corpo restava unito con fili di carne strappati e al centro, dove qualche minuto prima cʼera la sua pancia a budino, non si vedeva altro che un foro di esplosione, tutto intorno, brandelli di viscere e qualsiasi altra cosa ci fosse dentro la pancia. Con un fazzoletto fantasia a fiori Liuba gli puliva la fronte dalle bruciature. Lʼodore si fece insopportabile. J. Jr si chiese come facesse Liuba a stargli vicino. Ora muoveva il busto avanti e indietro e bisbigliava qualcosa. «Ehi! Dieci minuti?». Lei non si mosse. Allargò le braccia come se davanti a sé avesse unʼenorme palla, che alzò in cielo. Poi chiuse le braccia di scatto. Mise il fazzoletto sul viso di Rocco. Si girò di lato e vomitò qualcosa di giallognolo. J. Jr rimase impietrito a guardarla senza sapere cosa fare. «Bisogno di aiuto?», gridò. Liuba si pulì la bocca con il dorso della mano. Si avvicinò al corpo, lo osservò un attimo, gli sferrò un calcio su quello che restava della tibia e si allontanò. «No, grazie!», urlò raggiungendolo. «Dio come sei pallido. Adesso sì che gli assomigli un casino. Quando stai male sei il suo sosia perfetto. A parte la voce ovvio». «Preferirei non tornare su questa storia ogni mezzʼora. Dimenticati di Michael Jackson per un attimo. E ora? Andiamo ora? Tutto a posto, finiti i convenevoli?». «Possiamo andare». «Allora dai, dai, via, prima che arrivi qualcuno, abbiamo avuto fin troppa fortuna». «Possiamo mangiare un panino?». «Ma che panino... adesso, con questa puzza che mi ristagna nel naso». «Cosa vuoi che ristagni in quel nasino...». Un ruggito da stegosauro brontolò alle loro spalle. Michael J. Jr si girò di scatto. Un camion avanzava sullo sterrato e si avvicinava pericolosamente al corpo. «Andiamo!», fece lui, dandole la mano. «Corri piano, però. Donna incinta non deve correre troppo». «Dai, dai!». 118


Il camion rallentò, si fermò e un uomo biondo col codino si sporse dal finestrino guardando per terra il corpo di Rocco. «Ehi voi?», gridò. «Corri!», fece J. Jr. «Ma che siete dei banditi assassini? Qui cʼè uno morto!». «Scappa. Adesso, via veloce. Dove abbiamo messo la macchina?». «Dietro al cespuglio, come nei film, no? Una mia idea. Aspetta». «No, corri!». «Forse ho sentito un calcio!». Je suis resté meurtri d’être toujours en vie, et je n’ai plus revu qu’en rêve le visage de l’aïeul, qui mettait sa main dans la mienne. Je connais la douleur d’être éveillé, et lorsque je me bats pour aller vers mon lit, il s’éloigne sans rien dire. Salariée en attente de sel, l’insomnie monte dans mon dos des machines à ulcères. Mon bras s’est infecté, rien ne le retient plus d’être le premier de mes bastions à tomber; il ne se battra pas. S’il faut renouer avec le néant, autant le faire en toute transparence, quitte à lui abandonner les membres les plus épais.

Essere ancora in vita mi ha lasciato contuso, e il viso dell’avo l’ho rivisto solo in sogno, che metteva la sua mano nella mia. Conosco il dolore di essere svegliato, e quando mi batto per andare verso il letto, lui si allontana senza dire nulla. Pagata col sale, l’insonnia mi monta sulla schiena delle macchine da ulcera. Il mio braccio si è infettato, più nulla lo trattiene dall’essere il primo dei miei bastioni a cadere; non si batterà. Se è necessario riconciliarsi col nulla, tanto vale farlo in totale trasparenza, a costo di abbandonare le membra più grosse.

la fine è (sempre) vicina censimento sommario delle fini del mondo passate presenti e future

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Mille e non più mille. Il primo appuntamento con la fine dei tempi non ha rispettato le aspettative e da allora le previsioni apocalittiche si susseguono senza finora compiersi. Il rassicurante paradigma scientifico individua la “morte” della Terra in un tempo disumano, tra qualche miliardo di anni, quando lʼevoluzione del Sole renderà impossibile la persistenza di qualsivoglia forma di vita sul pianeta e in generale il sistema solare esaurirà progressivamente e “fisiologicamente” la sua energia vitale. Occorre tuttavia puntualizzare che questo paradigma non preclude la possibile, anzi probabile, precedente estinzione del genere umano che, per autoconsunzione, per incapacità di adattamento alla variazione sostanziale delle condizioni ambientali del pianeta, o per una soluzione sfavorevole del confronto 119


cultura/natura – una catastrofe nucleare, lʼesaurimento delle risorse energetiche – pare destinato a cedere il passo ad organismi più resistenti o a creature adattate ed evolute per sopravvivere e proliferare in ecosistemi nuovi. Ma il calcolo oggettivo e lʼipotesi scientifica si intrecciano con lʼorizzonte escatologico, con le antropocentriche fini del mondo di matrice teologica o metafisica, che dallʼalba dei tempi rappresentano uno scenario limite dellʼumano come genere, in evidente correlazione con lʼesperienza di vita dellʼindividuo. La parabola ontogenetica nascita-vita-morte si assolutizza in quella filogenetica creazione-esistenza-fine. Fine del mondo inteso come spazio umano, antropico/ antropizzato che, come ogni forma dellʼumano, non può prescindere dal suo destino di caducità, ed è destinato ad esaurire il suo ciclo vitale, per proiettarsi in un aldilà del mondo corrispettivo dellʼaldilà del corpo. In relazione alle diverse cosmologie di riferimento e agli orizzonti morali e filosofici entro cui le fini del mondo sono concepite, immaginate e profetizzate, esse assumono il valore di necessario compimento di unʼera dellʼumano e di un passaggio a uno stadio ulteriore della sua evoluzione. Questo stadio può essere caratterizzato da un giudizio da parte di unʼentità superiore come nellʼorizzonte morale monoteistico – un giudizio universale del genere umano attraverso un giudizio singolo e individuale – o da un radicale rinnovamento naturale del mondo, come nella cosmologia maya che prescinde dallʼindividualità dei soggetti e insiste sulla trasformazione radicale dellʼambiente che accoglie lʼumano. In ogni caso, ogni fine del mondo è caratterizzata dalla proiezione della società umana che la concepisce in un “dopo” sostanzialmente modificato, sconosciuto e ipotizzabile, che tuttavia riflette, seppur trasfigurate, la struttura e le leggi – i postulati scientifici e gli assunti morali – costitutive dellʼorizzonte mondano che le genera. Lʼevento limite della fine del mondo si costruisce e si configura in stretto legame con la morte come “fatto sociale”, dunque con la relazione che una società instaura con tale evento, in termini culturali, morali, politici. Tuttavia le ripercussioni che la morte individuale ha sullʼambiente in cui essa si manifesta assumono, nel quadro estremo della fine del mondo, un valore assoluto. La morte individuale proietta il defunto in una dimensione “ultramondana” separata dallʼesistenza umana “esperienziale” e quindi condivisibile; mentre è tra i viventi che questo passaggio viene rielaborato culturalmente, attraverso la costruzione di rituali e pratiche funerarie e memoriali piuttosto che attraverso lʼelaborazione metafisica di un aldilà che possa giustificare e dare un senso alla separazione che lʼevento della morte segna tra viventi (che risultano quindi sempre dei sopravvissuti) e i defunti1. 1 Si rinvia alla consistente bibliografia relativa a studi archeologici, storici, sociologici e antropologici sulla morte e sulle pratiche umane che la circondano (vedi Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, Bollati Boringhieri); in ambito filosofico e teologico, interessante è la ricerca sviluppata da Giorgio Agamben su “il corpo dei risorti”, che interroga la forma umana nellʼaldilà cristiano.

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Lʼidea di fine del mondo assume dunque, paradossalmente, un valore catartico – risolutivo dellʼenigma della morte individuale – salvo poi essere reintegrato come fattore morale e politico nellʼorizzonte monoteistico e sancire, attraverso lo strumento di giudizio supremo fondato sulla vita mortale, una nuova distinzione radicale e definitiva che possa incidere, come spettro, sullʼesperienza dei viventi. Mentre in altri orizzonti culturali la fine del mondo può comportare una transizione naturale e a-morale, per il genere umano nel suo insieme nellʼorizzonte storico-culturale monoteistico la promessa di una vita eterna dopo la morte, di fronte alla minaccia di una “morte eterna”, diventa uno strumento di controllo politico e morale sul vivente. La separazione vitamorte risolta nella fine del mondo si riconfigura, estremizzata, nellʼaldilà, con la peculiarità di fondarsi su una valutazione autoritaria della vita mondana e di incidere in modo determinante sullʼevoluzione dello spazio sociale e politico. La forma escatologica della fine del mondo, le sue manifestazioni e gli agenti che la realizzano sono estremamente differenziati, culturalmente e storicamente, inscrivendosi, come abbiamo detto, entro lʼorizzonte culturale della società che li produce. I quattro cavalieri dellʼapocalisse della tradizione cristiana, come altre immagini classiche della fine dei tempi, hanno ceduto progressivamente il posto a una panoplia di ipotesi e predizioni che chiamano in causa fattori naturali, agenti extraterrestri o metafisici, adeguandosi e attualizzandosi rispetto al mondo che di volta in volta è chiamato ad esaurirsi. Teologie, metafisiche, scienze e protoscienze si incrociano, ipotizzando scenari finali che ibridano gli orizzonti culturali e gli immaginari collettivi. In una dimensione globale la fine del mondo diventa quindi un orizzonte culturale condiviso, universale nella forma al di là delle specificità di significato che tale evento limite assume nei diversi contesti. Osservando la correlazione tra le crisi storiche di determinati sistemi mondani e la proliferazione, in tali società, di fervori millenaristici, possiamo in effetti comprendere come in un panorama di crisi globale la portata delle proiezioni apocalittiche assuma uno spessore corrispondente e diventi ora planetaria, totale. Il legame indissociabile tra corpo e mondo, dunque tra morte e fine del mondo, e la sua evoluzione si esplicitano anche nella relazione tra tempo della predizione e tempo della fine ovvero nello scarto tra la cognizione della fine (tempo della crisi) e la sua realizzazione (tempo della fine). Alcune previsioni sono incombenti rispetto allʼesistenza di chi le elabora, altre sono proiettate in avanti, in un tempo estraneo alla parabola vitale del loro autore. Per alcuni, tra calcoli e interpretazioni, la fine del mondo riposa in un futuro più o meno remoto, molti la percepiscono imminente, perché dopo tutto sarebbe un peccato non esserci.

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Di seguito, in guisa di compendio, una lista non esaustiva delle fini del mondo presenti passate e future: L’eremita Bernardo di Turingia, prevede la fine dei tempi per il 992, mentre secondo la celebre locuzione “mille e non più mille” essa dovrebbe cadere il 31 dicembre 999, mille anni dopo la nascita di Cristo secondo i vangeli apocrifi: tale predizione e la sua portata sociale risultano strettamente connesse con la crisi economica e politica generalizzata che paralizza lʼEuropa per circa un secolo. L’astronomo Giovanni di Toledo calcola un fatidico allineamento planetario che potrebbe annunciare lʼapocalisse per il settembre 1186, ma si tratta di una predizione “minore”, in un orizzonte culturale che ha superato da quasi due secoli lʼimpasse millenarista. Quattro secoli dopo gli astronomi Johann Staffler e Jakob Pflaumen prevedono per il 1524 catastrofi e carestie culminanti con la fine del mondo (20 settembre). In corrispondenza di un radicale mutamento dellʼorizzonte umano, economico, geografico (scoperta dellʼAmerica) e politico-morale (movimenti ecclesiastici rivoluzionari e riformisti) anche la fine del mondo, come trasfigurazione simbolica o proiezione metafisica di una riconfigurazione dei paradigmi socio-culturali, ritorna attuale: è prevista nel 1532 dal vescovo viennese Friedrich Nausea, nel 1533 (3 ottobre, ore 8.00) dal matematico Stifelius. Sempre nel 1533, secondo l’anabattista Melchiorre Hoffmann un incendio avrebbe incenerito la Terra risparmiando solo la città di Strasburgo. L’astrologo Pierre Turrel la prevede per il 1537 (ma anche per il 1544, il 1801 e il 1814), lʼastrologo Cipriano Leowitz nel 1584, il saggio Regiomontanus (Johann Muller), nel 1588. Circa un secolo dopo il rabbino Sabbati Zevi di Smirne fissa come data il 1648, mentre il medico alsaziano Helisaeus Roeslin indica il 1654 e il quacchero Salomone Eccles il 1665. Il cardinale Nicholas de Cusa la prevede per il 1704, mentre il matematico Jaques Bernoulli la calcola per il 19 maggio 1719. Alcune interpretazioni degli scritti di Nostradamus indicano come data il 1732, mentre secondo il mistico svedese Emanuel Swedenborg l’anno buono dovrebbe essere il 1757. Secondo William Whiston (1667-1752) “lʼinizio della fine” è atteso per il 13 ottobre 1736 con lʼinondazione di Londra. In quei giorni centinaia di persone si accalcano sulle colline di Hampstead Heath e Islington Fields nel tentativo di evitare la prevista alluvione. Il fanatico William Bell prevede la fine del mondo per il 5 aprile 1761: non accade nulla e Bell viene rinchiuso in manicomio. Joanna Southcott, leader di una setta religiosa inglese annuncia che il 19 ottobre 1812 avrebbe dato alla luce Shiloh, il secondo Messia, e che, in quellʼattimo il mondo sarebbe finito. Muore dieci giorni dopo la mancata profezia e il profeta John Turner, nuovo leader della setta, sceglie come data il 1820. John Wesley 122


(1703-1791), il fondatore del metodismo, fissa la fine del mondo, sulla base di calcoli complessi fondati sull’apocalisse, per il 18 luglio 1836. Negli USA, William Miller prevede la fine del mondo per il 3 aprile 1843 poi per il 7 luglio 1843, e infine per il 22 ottobre 1844. Si è calcolato che un americano su 85 sia caduto preda dellʼisteria provocata dai suoi annunci2. Per alcuni studiosi delle misure geometriche delle piramidi la data è il 1881, corretta in seguito con 1936 e poi con 1953. Per C.T. Russell, fondatore dei Testimoni di Geova, la fine del mondo è nel 1914. Causa errata previsione, la data slitta al 1918 e poi al 1925 (Rutherford, secondo presidente della Watch Tower Society (TdG)). Nel frattempo il sismologo e meteorologo italiano Alberto Porta, residente a San Francisco, prevede che il 17 dicembre 1919 la congiunzione di sei pianeti provocherà una corrente magnetica tale da trafiggere il Sole, causando unʼimmane esplosione che avrebbe distrutto la Terra. Panico e suicidi in varie parti del mondo. I testimoni di Geova rilanciano per il 1941-42, mentre il reverendo Charles Long di Pasadena nel 1943 annuncia che il 21 settembre 1945 la Terra si sarebbe vaporizzata e lʼumanità si sarebbe trasformata in ectoplasma. I suoi seguaci smettono di mangiare, bere e dormire una settimana prima della presunta catastrofe. Secondo John Ballou Newbrough (1828-1891), “il più grande profeta d’America” l’Apocalisse è attesa per il 1947. Il 18 maggio del 1954 appaiono delle crepe sul Colosseo. Secondo un antico adagio, Roma e il mondo sarebbero stati al sicuro «finché il Colosseo fosse rimasto in piedi». Qualcuno predice la fine del mondo per il 24 maggio e migliaia di pellegrini si riversano in Piazza San Pietro per chiedere al Papa lʼassoluzione dai peccati3; il pediatra Elio Bianco afferma che il mondo sarà distrutto il 14 luglio 1960 da un’arma segreta americana, e con quarantacinque aiutanti costruisce sul Monte Bianco un’arca di quindici stanze4. Secondo il capo della Chiesa dell’Unificazione Sun Myung Moon (1920), la data prevista è il 1967, secondo i testimoni di Geova e Herbert W. Armstrong, capo della Chiesa Universale di Dio, la fine è per il 1975, mentre secondo John Wroe, successore di Turner alla guida della setta di Joanna Southcott, è per il 2 Miller, riferendosi al libro del profeta Daniele (8,14: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà rivendicato») e calcolando un periodo di 2.300 anni indica il 22 ottobre 1844 come il giorno della parusìa: per lui i calcoli iniziavano dal 457 a.C., anno in cui il re Artaserse I di Persia (464-424) autorizzò la ricostruzione di Gerusalemme, come riportato dal libro di Esdra 7,12-26. Dal calcolo di Miller si otteneva il 1843, passato il quale senza sconvolgimenti di sorta, il predicatore si accorse che il calendario gregoriano non aveva lʼanno zero, quindi corresse la sua previsione per il 1844, e accogliendo un suggerimento del suo seguace Samuel Snow (1806-1870), fissandola per la data del 22 ottobre. 3 Il faentino Raffale Bendandi (1893-1979), “l’uomo che prevedeva i terremoti”, ha previsto per tutta la sua vita, con margini minimi di errore, il verificarsi di terremoti in Italia: nel 1915 (Marsica), 1924 (Marche) fino al terremoto in Friuli del 1976. Attraverso il suo metodo, ha anche predetto una scossa di terremoto devastante per la città di Roma e aree limitrofe per il giorno 11 maggio 2011, e un altro sisma di dimensioni ancora più apocalittiche tra il 5-6 aprile 2012, quando parecchie scosse di terremoto colpiranno a macchia di leopardo tutta la terra. In questa ultima predizione, tra lʼaltro, molti vedono anche le catastrofiche profezie Maya per il 2012. 4 La previsione di Bianco fa pensare alle teorie che imputano il sisma/tzunami giapponese del marzo 2011 all’uso dell’arma HAARP: http://it.wikipedia.org/wiki/High_Frequency_Active_Auroral_Research_Program

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1977. Un antico presagio astrologico arabo indica il 1980; stessa data per Leland Jensen e Charles Gaines, leaders di una piccola setta religiosa, che fissano per il 29 aprile lo scoppio della terza guerra mondiale basandosi sul libro dell’Apocalisse e sulle dimensioni della Grande Piramide d’Egitto: gli adepti attendono fino al 7 maggio nel bunker dove si sono rifugiati. L’astrologa Jeane Dixon prevede la fine del mondo negli anni ʼ80 ad opera di una cometa. Il reverendo Le Jang Lim della Chiesa Missionaria di Tami (Corea del Sud), indica il 1992: Cristo avrebbe chiamato a raccolta 144.000 fedeli alla mezzanotte del 28 ottobre per salvarli da Armagheddon. Oltre 100.000 persone si lasciano coinvolgere dallʼisteria e si precipitano in circa duecento chiese fondamentaliste. In molti abbandonano lavoro e famiglie donando tutti i propri beni al reverendo Lim. Un mese prima della data prevista, Lim viene arrestato per aver investito i quattro milioni di dollari raccolti con le donazioni dei fedeli: ha acquistato fondi di investimento per 230.000 dollari da maturare nel 1995. David Berg, alias Mosè David, fondatore dei Bambini di Dio (Famiglia dellʼAmore) e la setta della Grande Fratellanza Bianca (Ucraina), propongono il 1993, mentre l’evangelizzatore radiofonico US Harold Camping parla del settembre 1994. Il taiwanese Hon-Ming Chen, fondatore della Chiesa della Salvezza di Cristo, denominata anche Fondazione Disco Volante Dio salva la Terra trasferisce i suoi fedeli a Garland (Texas), per l’assonanza con Godland, terra di dio. Da qui annuncia che Dio sta per incarnarsi nel suo corpo il 31 marzo 1998 per poi moltiplicarsi 100.000 volte, per poter stringere la mano a più persone possibile. Chen sostiene anche che il 25 marzo Dio avrebbe annunciato dal canale 18 il suo ritorno. Tutto questo perché nellʼagosto del 1999 sarebbe scoppiata una guerra nucleare tra Asia, Africa ed Europa. Solo un gruppo di prescelti sarebbe stato salvato da un disco volante inviato da Dio. Dio non compare in TV né si incarna in Chen. Il profeta si scusa pubblicamente e afferma candidamente: «Preferirei che dʼora in poi nessuno credesse più in quello che dirò». Secondo la revisione delle profezie di Nostradamus, qualcuno parla del luglio 1999, mentre a causa del Millenium BUG la notte del 31 dicembre 1999 una catastrofe tecnologica deve riportare il mondo agli inizi del ʼ900. Per quanto riguarda le fini del mondo venture, la più attesa è quella del 21 dicembre 2012 preconizzata dagli astrologi Maya in base al calcolo della successione delle ere del pianeta a cui corrisponderebbero drammatiche fasi di passaggio/cambiamento caratterizzate da enormi catastrofi ambientali. In seguito, o meglio se la fine del mondo non dovesse essere sopravvenuta nel frattempo, il 13 aprile 2036, il giorno di Pasqua, il pianeta dovrebbe essere colpito dall’asteroide 99942 Apophis. 124


Il 24 giugno 2038 potrebbero avverarsi finalmente le profezie di Nostradamus: «Quando Giorgio Dio crocifiggerà/ e Marco lo risusciterà/ e San Giovanni lo porterà...», perché il Venerdi Santo cadrà il 23 aprile (San Giorgio), la Pasqua il 25 aprile (San Marco) e il Corpus Domini il 24 giugno (San Giovanni). Sempre nel 2038, alle 03:14:07 di giovedì 19 gennaio, rischieremo di piombare, con conseguenze disastrose, alle 20:45:52 del venerdì 13 dicembre 1901 a causa di un Bug informatico più sconvolgente di quello previsto per il 2000. Altre date possibili sono il 2060, secondo alcuni studi di Isaac Newton, e il 2240, che corrisponde all’anno 6000 del calendario ebraico e all’inizio del settimo millennio che sarà un era di santità, tranquillità, vita spirituale, e pace universale; denominata dagli ebrei Olam Haba (Mondo Futuro), dove tutte le persone avranno una conoscenza diretta di Dio. Infine, ultima in ordine di tempo: 3797 ancora secondo Nostradamus. Chi vivrà vedrà. Per il momento, l’attenzione dell’umanità si concentra inevitabilmente sul prossimo 2012. Le cause sono svariate: dalla catastrofe ecologica al “ritorno” degli alieni, dall’impatto di un meteorite a una successione di carestie pestilenze e guerre, dalla catastrofe nucleare alle conseguenze imprevedibili dell’inversione dei poli magnetici del pianeta, all’ennesima punizione divina. Le conseguenze imprevedibili: l’estinzione del genere umano, una drastica riduzione della popolazione mondiale e la trasformazione/mutazione dei superstiti, l’innalzamento del livello dei mari e la conseguente sommersione di città e terre, il surriscaldamento del pianeta, gli stravolgimenti climatici e degli ecosistemi… Ma c’è anche il modo di cavarsela: ad esempio rifugiandosi in un piccolo villaggio montano della Francia sudorientale, Bugarach che, secondo alcuni, sarà risparmiato dall’apocalisse. La corrente “scientifica” sostiene che il picco Pech (1231 m), che sovrasta il villaggio, sprigiona un anomalo magnetismo che dovrebbe proteggere la zona. I sostenitori della teoria aliena individuano nel Pech una base extraterrestre che ospita da millenni degli ufo o dove comunque gli ufo potrebbero atterrare per trarre in salvo la popolazione della Terra. I mistici individuano nel Pech, nell’ordine, il sepolcro di Cristo, la tomba di Maria Maddalena, l’Arca dell’Alleanza o il tesoro dei Templari (che tuttavia gli abitanti della vicina Rennes-le-Chateau rivendicano con forza). Per altri ancora, da Bugarach si accederebbe alla terza dimensione. Il sindaco del villaggio, Jean-Pierre Delord, di fronte all’arrivo di turisti e millenaristi e all’esplosione dei prezzi dei terreni edificabili e delle case, si mostra preoccupato: «Per il dicembre del ʼ12 potrebbero arrivare diecimila persone. Ma qui ci sono in tutto trenta posti letto».

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(vestito rosso) Mettetemi il vestito rosso e poi alla terra morbida una fossa ch’io rinasca verme e insieme mosca magari campanula o cicoria e tutto questo senza tante storie che anche la morte, sai, serve la vita.

(necessità) Sarà polvere, e brezza, e cerchio in goccia o in ombra, e cenere, e fumo di spirali e afa pioggia e verde, e odore di muschio e gran silenzio, e fiamme e rombi e razzi cadenti di scie striate arcobaleni argenti, fissi, immoti tristi allegri sfingi sarà l’acqua e l’aria e il fuoco con la terra fino a una supernova pura materia e spirito iustum in perpetuum vivet, basta e avanza al cuore.

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le chiangimuerti Una casa talmente piccola che certi aspettano fuori. Settembre ha portato nuovi morti, uno di questi, una donna, la andiamo a prendere a casa perché i famigliari non hanno i soldi per pagare quelli delle onoranze funebri. A volte succede, soprattutto nelle vie strette, quelle più vecchie del paese che abito. Il catafalco sta al centro e tutte le donne gli sono attorno come se da esso attingessero forza o come se a esso la volessero in qualche modo donare, magari per far tornare in vita la defunta che è una signora non tanto anziana e dallʼespressione serena sul volto, in testa ha un velo nero come le donne che la circondano. Questa è una cosa antica, le donne cantano e piangono, questa è una cosa che non si fa più, cantano e piangono tutta la notte, sono le chiangimuerti, quelle che piangono i morti. Sono qui da ieri e rimarranno qui anche questa notte, dopo che avrò portato via la bara. Piangeranno e canteranno fino a domattina. Sono quattro in tutto e hanno tutte più o meno la stessa età della defunta, sono larghe, hanno le spalle grosse, tutte tranne una, magrissima e con la faccia ossuta, alza le braccia verso il soffitto, lancia un urlo poi attacca una nenia in un dialetto intraducibile, un dialetto greco, poi prende a strapparsi i capelli e fa finta di gettarsi sul catafalco, le altre la sorreggono con gesti teatrali fino a quando la donna vestita di nero, come le altre, non si getta in terra e tutte le sono attorno. I famigliari se ne stanno seduti ai lati della stanza, piangono, guardano lo “spettacolo” che sarà tanto più vero quanto più drammatico. Qui si mette in scena la morte, in questa vecchia casa si ritorna alle origini del Salento e quello che stanno facendo queste quattro donne, le prefiche, era già raccontato da Omero, così mi dice il prete che mi sta accanto e qualche libro in più di me lo ha letto. Conosce la famiglia, saluta tutti, povera gente, dice a bassa voce per non farsi sentire. Anche la defunta quando era in vita era stata una chiangimuerti, ed è per questo motivo che le amiche le rendono onore senza essere pagate, perché normalmente per le chiangimuerti questo è un lavoro che ormai è scomparso, se ne conserva il ricordo e se sei fortunato ne puoi incontrare ancora qualcuna comʼè successo a me oggi. Tutto intorno al catafalco ci sono corone di fiori, qualcuno di essi manda un odore sgradevole ed è quellʼodore che riempie lʼaria della stanza dove siamo, fuori dalla porta ci sono i bambini dei parenti che giocano, loro non conoscono la morte, non la vogliono vedere, non gli è ancora permesso incontrarla così che i parenti li fanno stare fuori, li accompagnano a comprarsi un gelato o un pacchetto di patatine, molti uomini vestiti con i loro indumenti migliori e di colore scuro aspettano coi bambini, parlano tra loro, fumano sigarette, tantissime sigarette. Le donne invece sono tutte dentro, sono loro che sanno 128


parlare a bassa voce, che sanno sussurrare parole silenziose, ma che fanno più rumore delle urla delle chiangimuerti, talmente sono importanti, parole che raccontano segreti, che dicono comʼè stata in vita la defunta, che mentono eppure sono vere, sono vere in quellʼistante e tutte annuiscono, come se bestemmiassero, qualora non vi credessero, e non si bestemmia in presenza dei morti. Le donne sanno mentire con verità. Parole ascoltate dal Cristo di legno che sta sopra la bara, un Cristo povero, un povero Cristo, il Dio più vero che io abbia visto. Mi rapisce il suo costato trafitto, i suoi occhi che guardano il morto. A un certo momento il prete mi fa cenno che è ora di andare, i parenti lo capiscono e anche le chiangimuerti, loro sanno bene come funziona. Nella stanza esplodono urla, pianti, preghiere, canti. Escono tutti, è il prete che li accompagna fuori, devo chiudere la bara. Tutti vogliono guardare la defunta per lʼultima volta, tutti vogliono che il loro sguardo non smetta mai di posarsi su quel corpo. Vogliono un eterno presente che nemmeno il Cristo sopra la bara può concedere loro e da quanto ne so, non concede a nessuno. «Amen», dice il prete, con una voce che scandisce le lettere una a una e nello stesso tempo le unisce, parola ripetuta infinite volte nella sua vita. «Amen», rispondono le donne e gli uomini. Parola esaudita. Il brano è tratto da un romanzo in fase di pubblicazione.

M’arracher la peau du visage, puis la chair, pour voir à quoi ma vie ressemblera quand je serai squelette. Les ongles n’y suffisent pas, la clarté d’une lame de couteau m’écœure, j’empoigne une râpe à muscade. Le travail est ardu mais le jeu en vaut la chandelle – j’avale des anesthésiants pour le mener à terme. Viens à bout d’une joue, d’un nez de toute façon gâché par l’acné. À présent je suis fier d’avancer sans menton, d’avoir mis à nu l’os du front, et je n’ai plus de cartilage sous l’oreille. Ma respiration a changé, mon teint a trouvé la blancheur dont je cherchais le rassurant sommeil.

Strapparmi la pelle dal viso, poi la carne, per vedere a cosa somiglierà la mia vita quando sarò scheletro. Non bastano le unghie, il brillare d’una lama di coltello mi scoraggia, impugno una piccola grattugia. Il lavoro è duro ma il gioco vale la candela – ingoio degli anestetici per portarlo a termine. Vengo a capo di una guancia, di un naso comunque sciupato dall’acne. Adesso sono fiero di procedere senza mento, di aver messo a nudo l’osso della fronte, e non ho più cartilagine sotto l’orecchio. Il mio respiro è cambiato, la mia carnagione ha trovato il biancore di cui cercavo il sonno rassicurante. *

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uno sciamano in Giappone Trovare uno sciamano in Giappone che voglia parlare di spiriti, di morte, di Yoda e magari anche di Dante è a dir poco un miracolo. Me l’ha spiegato tempo fa John Dougill, un esperto di Shinto e di sciamanesimo: «Lo sciamanesimo in Giappone è fossilizzato», mi ha detto. Ho pochissime occasioni di incontrare uno sciamano qui. Dire che sono rimasto deluso è un eufemismo. Un altro abitante di Kyoto ha provato a consolarmi, mi ha detto che secondo lui lo sciamanesimo non è fossilizzato: «Gli sciamani tradizionali possono essere sfuggevoli, ma permangono ancora molti echi delle tradizioni nello scintoismo moderno. Ne sono esempio le Miko, dette altrimenti Itako, sagge cieche shintoiste che, nelle vesti di oracoli, si mettevano in contatto con i Kami (gli dei scintoisti) entrando in uno stato di trance e danzando i kagura (le danze rituali). Le Miko erano considerate delle figure della comunità, una sorta di “responsabili della posta del cuore” per qualunque tipo di problema spirituale, ma non sono sciamane nel senso letterale del termine. Le Miko esistono ancora in tutto il Giappone, seppure si siano orientate verso un tipo di spiritualismo direi di intrattenimento. È possibile trovarle fuori dai tempi shintoisti a rifilare souvenir, a danzare o ad offrire chiaroveggenza a pagamento per turisti». Un cinico potrebbe osservare che nell’era di internet l’arcano e sciamanico fascino delle Miko è sopratutto un buon business. Sicuramente esisteranno da qualche parte sciamani più autentici… Dispiaciuto ma non scoraggiato, ho iniziato a navigare in rete e in modo fortuito ho scoperto che uno dei miei vicini di casa a Kyoto è sciamano e psicopompo (colui che assiste gli spiriti a trascendere il mondo di mezzo). Arrivo da Dish, un ristorante italiano di Kyoto, per discutere di spiriti, di morte e di qualsiasi cosa riguardi lo sciamanesimo. Come mi siedo, Kevin Turner mi sorride: con il suo taglio di capelli alla moda e un’espressione contemplativa sembra proprio uno di quegli uomini occidentali che ha imparato la sua buona parte di antichi segreti orientali. La sua biografia è lunga: è vissuto in Italia dove ha insegnato Remote viewing altrimenti detta “chiaroveggenza sotto un protocollo scientifico”. È stato in India, Nepal e Sud Est asiatico. Ora vive a Kyoto, dove insegna Sciamanesimo fondamentale alla Foundation For Shamanic Studies. Kevin lavora anche al Monroe Institute, un istituto di ricerca che offre svariati corsi che potrebbero essere maldestramente racchiusi nel titolo “educazione spirituale”. Non appena arriva la nostra pasta, gli domando cosa possano fare uno sciamano e uno psicopompo per aiutare le vittime di disastri naturali, pensando allo tsunami e al terremoto avvenuti da poco in Tohoku. 130


«Da una prospettiva sciamanica, vorremmo aiutare chi si muove dal mondo di mezzo verso il mondo basso o quello alto. [Nello sciamanesimo bisogna considerare tre mondi: alto, di mezzo, e basso. Il nostro è quello di mezzo]. Alcune, per la verità, vogliono restare nel mondo di mezzo, magari per partecipare al proprio funerale o per cose di questo genere. Noi non li forziamo ad andarsene. Ma spesso la gente non si rende conto che è morta, così noi sciamani e psicopompi dobbiamo fare da intermediari, coadiuvando l’anima della persona morta a percepire gli spiriti che li vorrebbero aiutare… potrebbero esserci spiriti compassionevoli accanto a loro che dicono “tu sei morto, suvvia andiamo!”». Si ferma. Gli chiedo,tra un boccone di pasta e l'altro, se questo fenomeno sia comune. «Direi che certamente non accade a tutti, ma a un certo numero di persone sì…. Quelle che muoiono improvvisamente o in circostanze particolari. Prendiamo ad esempio una persona che sta dormendo in autobus. Improvvisamente c’è un gran fragore, e si ritrova a guardare un incendio dal fondo di un burrone. Non c’è nessuno sulla strada e si chiede cosa stia succedendo, se stia dormendo o se sia già sceso dall’autobus… si ritrova in una sorta di trance ipnotico, senza aver potuto capire esattamente cosa sia accaduto». Come ho accennato, la parola “spiriti” torna di frequente nella nostra conversazione, perciò decido di chiedergli di definire il termine. «Dunque, anche le persone che possiedono un corpo sono spiriti. Anche tu e io siamo spiriti. Ci sono almeno altri due spiriti insieme a noi al tavolo. Potrebbero essere di più alla fine della nostra conversazione. Tendenzialmente gli spiriti amano ascoltare questo tipo di discorsi». E si mette a ridere calorosamente… «Quali sono di solito i motivi personali che legano gli spiriti al nostro mondo? Stiamo parlando di amanti gelosi?», incalzo io. «Oh, si può restare attaccati alla terra per qualunque motivo… Non ho letto i libri di Harry Potter, ma come ho visto nei suoi film, anche il mondo di mezzo è magico. Può anche confinare con l’altro... e questo è ottimo se si vuole essere coinvolti nella magia del mondo di mezzo. Ma il problema sta nel rischio di trovarsi coinvolti in una situazione duale… ». Lascia cadere la frase in modo inquietante. «Kevin, mi sai dire qualcosa degli sfuggenti sciamani giapponesi?». «Be'… ci sono alcuni elementi propri dello sciamanesimo che ancora esistono. Sono più o meno nascosti, e per quello che so io sono pochi gli sciamani che viaggiano verso il mondo alto. Esistono poi alcuni esercizi per la guarigione: ci sono le Itako, le medium, che lavorano nel regno dei morti. L’Itako in giapponese è un medium fisico. Non le consideriamo sciamane perché non viaggiano tra un mondo e l’altro; comunicano con i morti ma non necessariamente aiutano o conducono i morti 131


nel regno che li spetta. Ci sono anche alcuni tipi di medium che permettono ai morti di impossessarsi del loro corpo, mettendo a disposizione le proprie corde vocali per parlare. In questa pratica ci sono alcuni rischi e gli sciamani di solito non lo fanno». Per convenienza gli chiedo di spiegarmi come si sia sviluppato il suo interesse verso gli sciamani e gli psicopompi. Ridacchia divertito. «Be', esco fuori dal mio corpo dagli anni dell’infanzia. Succede a tutti i bambini, che poi crescendo se ne dimenticano. Di notte può accadere di tutto… quando siamo bambini ci sganciamo dalla realtà ordinaria e viaggiamo verso una realtà altra. Credo veramente che la maggior parte di noi abbia fatto questa esperienza nella fanciullezza». «Come accade? Avviene in un momento specifico della fanciullezza?». «Beh… credo che sia solamente colpa di Morfeo… che manda un’e mail e dice “Neo, sei sveglio?”. Una volta che questo processo si attiva, puoi sia spegnere il computer e far finta che nulla sia accaduto, oppure puoi andare avanti». E ritorna a parlare dell’infanzia. «La gente smette di ricordarsi i sogni… esiste probabilmente un periodo, fino ai cinque anni, in cui il computer non si spegne completamente, ma rimane in uno stato di log out. Poi accade qualcosa simile alla costruzione di una barriera: la pubertà fa in modo che la persona inizi ad avere una più forte coscienza del proprio corpo. E improvvisamente il regno della realtà altra viene avvolto nelle nebbie». Ride. «Credo che sia difficile per un bambino capire la differenza tra sogno, un sogno ad occhi aperti, lo stato di veglia, il mondo della realtà ordinaria e il mondo della realtà altra: è tutto sbavato. Quando mio figlio era un bambino a volte fissava gli oggetti e iniziava a parlarci; a volte diceva “c’è qualcuno nel genkan (l’ingresso)”, ma non c’era nessuno… ». Gli chiedo se, ipoteticamente, sia in grado di comunicare con qualcosa che soltanto suo figlio è in grado di vedere. «Posso raccontarti una storia divertente… Era ora che mio figlio si svegliasse per prendere il latte. La tata e mia moglie cercavano di svegliarlo ma non c’era niente da fare, così mia moglie mi ha chiesto di controllare dove fosse andato. Le ho risposto che lo avrei fatto subito e la tata non capiva di cosa stessimo parlando. Sono andato nel mondo della realtà altra e l’ho riportato indietro. Naturalmente mia moglie e la tata non hanno potuto vedere cosa avessi fatto. Appena ho esclamato "eccolo di nuovo qui!", mio figlio si è messo a piangere. La tata è rimasta di sasso e non ha proferito parola. Non ne abbiamo più riparlato». Mi sorride gentilmente. «Sembra molto misterioso, ma è invece piuttosto facile. Una volta che riesci a viaggiare in un’altra realtà ti rendi conto che esistono molte dimensioni, e non solo se entri in uno stato psichedelico o fai meditazione. Esistono molte correnti di 132


percezione nascoste che ti si possono schiudere davanti e che puoi segnare con una punta di spillo, indicare, e inquadrare come target per ottenere ciò che vuoi e avere una determinata informazione… Ma bisogna disimparare ciò che si è in precedenza imparato, per citare Yoda». Annuisco come segno di apprezzamento per la citazione da Star Wars. «In altre parole devi de-programmare te stesso dal vecchio processo analitico che impone di categorizzare, revisionare, e ipotizzare sulle cose, e cercare di stare a un livello percettivo più possibilmente puro, livello del quale la maggior parte delle persone non si rende conto dell’esistenza. La gente è così assorbita dai cinque sensi fisici e dalla razionalità che non fa attenzione alle cose più delicate e sottili che magari stanno avvenendo in quel determinato momento». Spostiamo così la conversazione sulla razionalità e la superstizione, e gli domando se secondo lui siano state importanti in un certo momento della storia e per una determinata società. «Tempo fa i cinesi amavamo moltissimo l’astrologia, e alcuni di loro erano così ossessionati dall’astrologia che facevano l’oroscopo ogni mattina e basavano la loro giornata su quanto aveva detto l’oroscopo, fino al punto di evitare di fare determinate cose. Nel tempo, però, questa ossessione è diventata mera superstizione». «La moderna medicina e le pratiche sciamaniche possono coesistere in modo pacifico?». «In Nepal ho lavorato con gli sciamani che solitamente hanno una lunga fila di clienti. Quando la gente si rivolge a loro, gli sciamani possono anche dire al cliente di consultare un medico per farsi curare la ferita infetta. Se non è coinvolto l’ego del cliente, non c’è conflitto. Esistono tuttavia alcuni guaritori, religioni, culti spirituali in cui viene sconsigliato di andare dal medico e di prendere le medicine, e si suggerisce soltanto di pregare. Ma lo sciamanesimo non è così». Mi racconta anche del recupero delle parti dell’anima (un rito sciamanico che comporta il recupero di una parte dell’anima persa durante un trauma), spiegandomi che recentemente ha sperimentato in prima persona questa pratica con uno sciamano che non sapeva assolutamente nulla di lui. «Non le avevo raccontato nulla! Mi ha riportato la mia parte d’anima mancante e poi ha esclamato “ti ho visto sott'acqua, al buio, circondato da squali con la bocca aperta”. Le stavo per rispondere “è ridicolo”, quando mi sono ricordato degli occhi sgranati e delle pinne che si agitavano sempre di più. Ventitré anni fa sono andato a fare le immersioni in una grotta nelle Filippine. Ero andato con due ragazzi australiani che non avevano specificato cosa mi sarei dovuto aspettare. Ci stavamo immergendo sempre più profondamente nella grotta, ed era buio. Improvvisamente accendo la mia torcia elettrica e mi trovo circondato da tantissimi squali che mi fissano, tutti con la bocca aperta. Per una frazione di secondo ho pensato “ci siamo. Sono il loro pranzo. Sto andando a morire di una morte orribile, fatto a 133


brandelli”. Volevo tornare a galla, ma non potevo perché ci trovavamo in una grotta orizzontale, e l’unica via per uscire dalla grotta era tornare indietro, ma occorreva tempo. In quel momento è stato il terrore più totale. Me l’ero dimenticato e davanti a me c’era una donna che pur non sapendo nulla di me, me lo stava ricordando». Segue una pausa di riflessione, rotta soltanto dal rumore che faccio per trangugiare la pasta. Finalmente gli chiedo la domanda da un milione di dollari: «Cosa pensano gli sciamani della morte?». «Questa è una delle cose meravigliose che si imparano nel viaggio sciamanico. Anche una persona media, che non mira a diventare uno sciamano professionista, nell’apprendere il viaggio deve prima avere l’occasione di scoprire cosa c’è fuori dal mondo di mezzo, o almeno fuori dalla realtà ordinaria. Anche se muori continui a esistere, e se hai fatto pratica sciamanica nel momento della morte è molto più semplice navigare nell’aldilà, perché ci sei già stato coscientemente quando eri ancora in vita. Il significato di quanto ho appena detto non andrebbe sotto stimato». «Cioè?». «La morte non esiste. Naturalmente il corpo fisico va ai vermi, ma non c’è morte, semmai c’è un passaggio, un cambiamento. La tua coscienza, forse è meglio dire anima – è questo il termine che gli sciamani dovrebbero usare – continua ad esistere. La maggior parte degli sciamani indigeni non parla di reincarnazione. Alcuni invece sì, ma di solito non è un argomento rilevante». Gli chiedo della possessione e della morte, e mi spiega che spesso è un processo meno sinistro di quanto si possa immaginare. Dipinge lo scenario tipico in cui uno spirito possiede una persona: «Questi spiriti tentano disperatamente di ritornare al loro corpo ormai a pezzi… possono essere impauriti, disorientati, cercano di attaccarsi agli amici e ai familiari». Quasi che la paura della morte ci porti a calunniare questi spiriti, benché siano spaventati dalla morte come noi. Kevin riflette sull’atteggiamento di alcuni scettici verso lo sciamanesimo, in particolare sulle posizioni della Chiesa nel passato. «Il clero non riesce proprio a capire; è così particolare e diverso che la Chiesa lo considera cattivo. Un’altra ragione della disapprovazione della Chiesa è il fatto che lo sciamanesimo rivendica le stesse radici comuni del cristianesimo, poiché ciò che ha compiuto Gesù Cristo sono delle attività sciamaniche. Inoltre sembra che nei termini di antica saggezza, molti valori propri dello sciamanesimo siano tuttora importanti nel mondo di adesso, in particolare l’enfasi posta dagli sciamani sulla compassione e sull’altruismo». Lo tengo in mente quando Kevin propone di dividere il conto, anche se a dire il vero lui è l’ospite. Dopo aver pagato, usciamo fuori nella notte umida e buia, mi sorride nuovamente e pedala via. Improvvisamente mi sento per così dire “trascendente”. Sono sicuro che sia per colpa della pasta e del vino, ciononostante il mondo di mezzo mi sembra un po’ meno solido che un paio di ore fa. 134


Mort virulente, mort douce, mort marchandée en fin de marché, mort fichée dans le gras du ventre, inoculée à même le cordon ombilical, coincée dans la suture de la fontanelle, mort maquillée, maculée, marinée dans le miel, l’huile et le romarin, mort prématurée dès la première année du deuil, dès la première minute du rut, mort agrippée au dos du porc, aux côtes des corneilles, ramollie dans la moelle, mort qui frappe des mains – et tout le monde s’arrête, se retourne, applaudit. Mort qui se regarde mourir, mort qui s’écoute mourir, mort qui se sent mourir et ronge son pain noir, jouit jusqu’aux dernières miettes du dernier soupir, mort aux poings, mort par balle, mort éthylique, clinique, cynique, mort matée mille fois, qui mille fois l’emporte, mort repoussée, s’acharne, mort tardive et mort maladive, mort mécanique, mort motrice et matrice, massive et mort en masse, mutique et mutilée, multirécidiviste, mort dans l’âme, mort de faim, mort de peu, accidentelle ou programmée, mort méthodique, chronique, mort mortifère, omniprésente, mort minuscule, mort complice et complice de mort, mort sous morphine, mort feuilletée dans les magazines, mort des mains qui pensent, mort du corps qui façonne, écrit et signe son arrêt de mort.

Morte virulenta, morte dolce, morte mercanteggiata a buon mercato, morte ficcata nel grasso del ventre, inoculata direttamente sul cordone ombelicale, incastrata nella sutura della fontanella, morte imbellettata, maculata, marinata nel miele, nell’olio e nel rosmarino, morte prematura fin dal primo anno di lutto, fin dal primo minuto di fregola, morte aggrappata al dorso del maiale, alle costole delle cornacchie, smidollata, morte che batte le mani – mentre tutti si fermano, si voltano, applaudono. Morte che si guarda morire, morte che si ascolta morire, morte che si sente morire e rosicchia il pane nero, gode fino alle ultime briciole dell’ultimo sospiro, morte per percosse, morte per arma da fuoco, morte etilica, clinica, cinica, morte domata mille volte e che mille volte ha la meglio, morte respinta, s’accanisce, morte tardiva e morte morbosa, morte meccanica, morte motrice e matrice, massiva e morte in massa, muta e mutilata, plurirecidiva, morte nell’anima, morte per fame, morte da poco, accidentale o programmata, morte metodica, cronica, morte mortifera, onnipresente, morte minuscola, morte complice e complice di morte, morte sotto morfina, morte sfogliata nelle riviste, morte di mani che pensano, morte del corpo che dà forma, scrive e firma la propria sentenza di morte. *

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l’essere è il suono con cui vibra laTerra Secondo alcuni storici la civiltà cinese si sarebbe originata nel 6000 a.C., anche se la storia della Cina sembra assomigliare di più alla trama di un racconto epico che si perde nella notte dei tempi dove tiranni sanguinari e scaltri opportunisti si sono avvicendati alla guida di un paese enorme. I miti e le antiche leggende narrano che fu Pangu, il creatore del mondo, a separare il Cielo dalla Terra e di come, in seguito, furono creati gli esseri umani da tre divinità che affidarono loro l’allevamento degli animali, l’agricoltura e la conoscenza delle proprietà medicinali delle piante. La prima di queste divinità, Fuxi, formulò gli Otto Trigrammi dell’I-Ching (Yi-Jing), Il Libro delle Mutazioni, l’antico testo divinatorio tanto caro a John Cage (1912-1992). Tra gli altri esseri mitologici il più venerato era l’imperatore Giallo, il mitico sovrano ritenuto il fondatore del taoismo, la dottrina che ha profondamente influito sull’opera del compositore cinese Tan Dun (*1957). Una delle principali regole del taoismo è quella di seguire la natura diventandone parte integrante. Nella sua musica fatta di acqua e ricordi Tan Dun sviluppa un sistema di 'musica organica' che sfrutta i suoni della natura. Nella vita quotidiana del villaggio dove il compositore cinese è cresciuto l’acqua è un elemento molto presente: tutto viene lavato nel fiume. Durante la sua infanzia ascolta ogni giorno le donne intonare canti tradizionali mentre lavano i panni lungo le rive dei fiumi producendo splendidi ritmi tra scrosci e rumori dell’acqua che scorre e che si infrange. Fino alla fine della Rivoluzione Culturale (1966-1976) il compositore non ebbe mai la possibilità di ascoltare musica colta occidentale. Prima di allora le sue conoscenze musicali erano strettamente legate ai riti sciamanici, ai canti rituali e alle musiche delle cerimonie nuziali o dei riti funebri taoisti. Negli ultimi due anni della rivoluzione istigata da Mao (1975-76) Tan Dun è inviato a lavorare nei campi seguendo così la stessa sorte che il regime aveva riservato anni prima ai suoi genitori e che aveva costretto la sua famiglia a lasciare il luogo in cui viveva, un piccolo villaggio nei pressi di Changsha, nella provincia dello Hunan, nel sud della Cina. Fu così che assimilò il canto e le tradizioni dei contadini durante il lavoro nelle piantagioni e nelle risaie. A quel tempo una delle più grandi passioni di Tan Dun erano gli origami musicali. Attraverso la carta gli sciamani del villaggio producevano qualunque tipo di suono generando una musica per la resurrezione, l’incarnazione, la speranza, la prossima vita, suoni con cui celebrare la nascita o accompagnare la morte, fischiando, strappando e facendo scoppiare fogli di carta. La 136


carta si otteneva pressando in fogli sottili il bambù che dopo essere stato raccolto veniva spezzato e lavato, dopodiché lo si metteva ad asciugare al fuoco fino ad ottenere un foglio di carta. Oggi nei villaggi le persone non producono più musica con la carta o con l’acqua: le nuove generazioni hanno dimenticato questi riti. Tan Dun li tiene in vita attraverso le sue composizioni, lasciando che la tradizione diventi un fulcro di ispirazione. Paper Concerto for paper percussion and orchestra fa parte della trilogia dei concerti di musica organica, ovvero Water Concerto, Paper Concerto e Ceramic Concerto. Seguendo i ricordi della sua infanzia Tan Dun ha creato circa cinquanta tipi di suoni diversi prodotti con la carta, selezionati e abbinati ai colori orchestrali della tradizione europea, ricavando dall’unione delle due differenti culture un solo colore (1+1=1). Infatti alla base del flusso creativo del compositore cinese c’è l’idea di sintesi tra culture diverse, l’unione del pensiero orientale con quello occidentale. Come uno sciamano Tan Dun riproduce con la carta qualsiasi colore e qualsiasi parola, qualunque sussurro e qualunque strano modo di parlare, perfino ciò che non è possibile esprimere in alcuna lingua parlata. Water Concerto for water percussion and orchestra è dedicato alla memoria di Tōru Takemitsu (1930-1996), il compositore giapponese scomparso nel periodo in cui Tan Dun era impegnato a scrivere questo lavoro. Il Giappone e l’Oriente sono presenti anche nella musica del più noto compositore australiano, Peter Sculthorpe (*1929), che lungo le cinque sezioni del suo Piano Concerto (1983) fa riferimento all’antica musica di corte giapponese così come al gamelan balinese. Il compositore mantiene vive, attraverso le sue opere, le culture che per prime abitarono l’area del Pacifico riscoprendo tradizioni soffocate dalle colonizzazioni europee. È il caso di Earth Cry (1986) dedicata agli Aborigeni australiani, i quali per centinaia di anni hanno riversato il loro pianto sul suolo natio. Solo a partire dagli anni Novanta i loro diritti sono stati riconosciuti pienamente – anche se spesso solo formalmente – con un provvedimento della Corte Suprema Australiana (1992) e con la Wik Decision del 1996. Interessanti le considerazioni che scaturiscono da Memento Mori, una composizione per orchestra del 1993 in un solo movimento. Sembra che all’inizio del XVII secolo gli abitanti dell’Isola di Pasqua fossero portati a rendere spoglio il terreno in seguito a una esplosione demografica causando l’erosione del suolo e privando quindi se stessi anche dei materiali per la costruzione di barche e case. Ritirandosi nelle caverne i vari clan si combattevano gli uni contro gli altri dando luogo a forme di schiavitù e di cannibalismo. Al tempo dei primi arrivi degli europei, nel 1722, i sopravvissuti avevano dimenticato il significato delle grandi statue moai (ancora oggi pre137


senti sull’isola) che, secondo la credenza popolare, permetterebbero ai vivi di entrare in contatto con il mondo dei morti. In Memento Mori Sculthorpe esprime la sua apprensione non tanto per quello che successe agli abitanti dell’Isola di Pasqua, ma per quanto potrebbe accadere a noi tutti, al genere umano. L’Isola di Pasqua è un memento mori per l’intero pianeta e come tale la musica di Sculthorpe, che contiene in sé parti tratte dalla sequenza del Dies irae, attraversa le tonalità di sol e la bemolle, tonalità che l’astronomo Kepler riteneva essere il suono con cui vibra il pianeta Terra.

c’è un momento più lungo Cʼè un momento più lungo in cui si raccolgono i semi di ogni dente caduto. Il vibrare tuttʼuno delle carni i volti svogliati si somigliano. La comunione dei vivi e dei morti che accade

se la sera rientro Se la sera rientro un angolo buio mi accoglie. I muri conficcati nella carne le ginocchia segnate dal silenzio dei morti

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non se n’è mai andato nessuno La prima volta che ho visto i morti li abbiamo visti in due. Era dalle parti di Arezzo. Scendevo a Roma da Bologna in treno a causa di una disgrazia: Giuseppe si era schiantato in moto. Fissavo il paesaggio toscano scorrere dal finestrino e pensavo a quelle tre fotografie con Giuseppe scattate durante il master di editoria che abbiamo frequentato assieme e che porto impresse nell'album della mia memoria. Sovrapponevo quelle immagini al paesaggio, ritagliavo le figure e i primi piani da sovrapporre a nuovi fondali. Durante una sosta del treno in aperta campagna, li ho visti. Quando ho fatto notare alla silenziosa signora con cui dividevo lo scompartimento quella visione, anche lei li ha visti, ma non sembrava turbata. Ha confermato la mia impressione. Poi si è presentata e ha detto che lei di morti ne vede spesso, perché ce ne sono dappertutto. Li ho visti come in trasparenza, una macchia grigiolina del tutto simile a una centuria romana disposta in formazione, schierata a mezza collina. «Le colline di queste parti sono piene di soldati, di ogni secolo», ha detto. Il treno è ripartito e per il resto del viaggio ho parlato con la signora di questa storia dei morti e le ho fatto molte domande. Quello che mi ha risposto è che da questo pianeta non se n'è mai andato nessuno. «Non se ne è mai andato nessuno», ha detto con una mezzavoce. «Sono tutti ancora qui, tutti dal primo all'ultimo». Scosso dalla rivelazione, le ho chiesto di raccontarmi tutto quello che sapeva sui morti, qualsiasi cosa. Lei ha detto che anche se il corpo viene meno lo spirito rimane, resiste e rimane legato al posto dove si è spento il corpo. «Non tutti riescono a vederli», ha continuato, «i più non credono a se stessi e cancellano l'immagine dello spettro. Almeno altre cinque persone su questo treno hanno visto quei soldati romani. Tolti i bambini cui nessuno bada stia certo che per gli altri quell'immagine è già registrata come un errore e sepolta in un archivio in qualche sottoscala del cervello». Non so dire se ho creduto subito alla storia dei morti, ma quella teoria mi incuriosiva. Quella centuria romana non era stata un'apparizione. C'era stato il tempo per osservarla. Erano vapori, certo, ma la distanza era tale da riconoscere i contorni e la profondità del gruppo. L'unica cosa speciale che la signora aveva denunciato era stato vedere i morti in due, non le era mai capitato. Forse per questo motivo non ha risparmiato dettagli nel suo racconto. «Lei dovrebbe vedere cos'è lo spettacolo del mare quando si scorgono dal ponte, tra le onde, interi equipaggi. Mi è capitato una decina d'anni fa a qual139


che centinaia di metri dalla costa algerina; oppure attraversando le piane mitteleuropee coperte a vista d'occhio di schiere armate di ogni epoca, fogge antiche, cavalieri medievali, artiglieri, arceri, moderne fanterie. Un ammasso multiforme di spiriti, soldati mescolati alla gente comune, a contadini, mercanti, cittadini che lì hanno vissuto e lì sono morti». Le ho chiesto se parlava spesso della storia dei morti e lei mi ha detto che da anni non ne parlava più; che i suoi amici più cari tra i vivi sapevano tutto e provano simpatia per lei. Che lei, poi, si prendeva la rivincita quando li visitava da morti. Ne ha parlato con me solo perché io ho visto, quindi si sentiva protetta. Ascoltavo con attenzione e in una pausa le ho raccontato di Giuseppe, di quello che stavo pensando guardando fuori il rullo del paesaggio che scorreva; le ho svelato il gioco delle figure ritagliate che stavo facendo mentalmente e le ho chiesto se poteva essere quella una causa della visione. «Indubbiamente sì, le suggestioni sono importanti», ha risposto senza aggiungere altro. Mi ha raccontato le storie sui suoi morti, quello che aveva visto nei viaggi oltralpe, gli effetti dei bombardamenti nelle città e molte altre sue spaventevoli visioni: le celle carcerarie, i bordi di strade e autostrade, costellati di trasparenti autostoppisti. Snocciolava con leggerezza aneddoti e il mio pensiero andava a Giuseppe. Pensavo che forse è vero, forse la signora ha ragione, e Giuseppe adesso è lì, in via Taranto seduto sul marciapiede con il suo inutile casco ai piedi. È lì e sarà sempre lì, dove i vivi stanno ora lasciando cadere mazzi di fiori freschi. Gli faranno piacere. Gli sono sempre piaciuti i fiori. «È strano a dirsi», riprese la signora, «ma nei cimiteri municipali di morti non ce ne sono. Al massimo c'è qualche contadino di età passata, prima di Saint Cloud, che è diventato morto quando ancora lì era aperta campagna». Le dico che è paradossale andare a compiangere i morti nell'unico luogo in cui non ci sono, mentre ogni giorno anche se non li vediamo ne attraversiamo le ombre. «I morti sono lì, aspettano. Hanno anche delle complicatissime regole, in verità non molto chiare». A lei le ha spiegate, nel '98, un marinaio ucciso in una rissa in un bar del porto di Ancona nel 1745. Mi sarebbe piaciuto chiederle di raccontarmi quella serata, come aveva parlato con il marinaio, se aveva avuto conferme da qualcun'altro tra i vivi. «Ci vogliono delle condizioni di luce particolare e anche una sensibilità non comune dell'occhio. C'è poi anche una questione meccanica, una credenza – perché non si ha notizia che si sia realizzata – ma che vale come una religione per i morti: se 12.604 spiriti si sovrappongono il dodicimilaseicentocinquesimo sarà visibile a tutti. Non so se ti può interessare, ma l'unità di misura è la densità per metro quadro, il settore-metro. Questo, puoi capire, crea enormi problemi». 140


Le dico che mi interessa molto ma che al momento non posso capire quali siano i problemi di densità. Le ho chiesto invece se possono spostarsi e lei mi ha risposto di sì, che ci sono delle licenze che vengono rilasciate, ma ha aggiunto che il marinaio non le ha detto dove né da chi. Però mi ha detto che per molti l'esistenza post corpo trascorre nello sforzo di radunare abbastanza persone per farsi vedere, raggiungere la dodicimilaseicentocinquezza. Quindi ci sono interminabili burocrazie per questioni di spostamento attraverso i settori-metro per visitare i morti amici, i morti parenti e i parenti vivi, che è un vero inferno perché i morti non sono mai di parola, chi regola gli spostamenti tenta di limitarli per paura della dodicimilaseicentocinquezza e per combattere la credenza, e ognuno bada ai casi suoi e poi non si presenta all'appuntamento. Con la signora, che si chiama Emma, abbiamo parlato ancora a lungo della questione. Lei i morti li vede già dal '53 e sono molte le considerazioni che ha fatto nel tempo: quando cammini per le vie dei centri storici delle città italiane compenetri a ogni passo fino a mille spiriti, nelle stanze degli ospedali che occupano antichi palazzi la densità è impressionante, un muro trasparente di spiriti. Ci avviciniamo a Roma Termini e la nostra parlata fitta cede ai preparativi per scendere. Arriviamo tra le pensiline lentissimi e prima della frenata, prima di mescolarsi alla folla dei viaggiatori, Emma mi dice tre frasi. «Nel colosseo si sarebbero potuti vedere gli spiriti, se il ritmo dei morti si fosse mantenuto come all'epoca dell'impero». Poi: «Si dice che nell'anfiteatro ci siano dei settore-metro in cui mancano ancora solo alcune centinaia di spiriti per arrivare alla visibilità». E infine: «Ma in realtà mai nessuno riuscirà a contarli e chissà se è poi vera questa storia della dodicimilaseicentocinquezza. Per ora è meglio che i morti ci credano. Ma se dovesse accadere, se dovesse cadere questa barriera, finalmente si aprirà una porta tra il mondo dei morti e quello dei vivi, tra i due mondi che a intermittenza si pregano e si ignorano; si temono, eppure si compenetrano in ogni istante in quasi tutti i luoghi della terra. Perché puoi starne certo: da questo pianeta non se ne è mai andato nessuno». Dopo quella volta del treno i morti non li ho più visti. Ho anche smesso di andare al cimitero, che tanto do per certo che lì non c'è nessuno. Però, da quel viaggio a Roma, ogni volta che passo davanti all'ospedale, mi capita di pensare a mio nonno, alla sua dimissione dal reparto dopo dieci giorni di letto. Lo davano per morente, ma lui ha insistito per andarsene in convalescenza nel suo paese d'origine, tra le Alpi Giudicarie. È morto lì, sulla panchina del parco della Croce sotto l'ippocastano, in una nuvolosa mattinata due settimane dopo. Forse sapeva qualcosa anche lui, ma a me non l'aveva mai detto. 141


nuove cartoline dai morti A casa mia, dopo una sudata. Mio nipote è stato il primo che si è accorto che avevo cambiato colore. Adesso sono al buio dentro la bara, con l’aria che c’era quando l’hanno chiusa. * Io sono uno dei tanti che è morto schiacciato dal suo trattore. Il fatto è che stavo arando di notte e sono rimasto per molte ore con una gamba sotto la ruota. Ho gridato in continuazione e sto gridando ancora. * Sono caduto dalle scale. Quando mi sono alzato avevo solo una spalla che mi faceva male. Mi sono bevuto un bicchiere d’acqua per farmi passare lo spavento. Poi ho acceso la televisione. Sono morto alla fine del primo tempo. * Ogni volta che vedevo una lapide ai bordi della strada non immaginavo che un giorno ce ne sarebbe stata una anche per me. * Io mi sono fatto incenerire e poi mi hanno sparso per i campi vicini al mio paese. Adesso qualcuno senza saperlo mi sta mangiando, mi sta respirando. * Il mio tumore era sulla bocca di tutti. Eppure ero solo un maestro elementare e un consigliere comunale di opposizione.

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inghiottitori di storie le narrazioni come antidoto alla morte nella letteratura postcoloniale Esiste in letteratura una sindrome detta “di Sherazade”: un narratore in lotta costante con la morte continua a scrivere (o a raccontare) perché sa che in questo modo avrà salva la vita. Gli autori della letteratura postcoloniale ingaggiano una lotta contro il tempo in cui le storie sono l’unica possibilità di sopravvivenza. E, come accade al re de Le mille e una notte, neanche a loro basta una sola storia. La letteratura postcoloniale è affabulazione, è una storia che contiene altre storie che rimandano ad altre storie… non per niente questi autori si definiscono “inghiottitori di storie”. Le storie creano memoria, e la memoria è ciò che permette di non morire; per questo esse sono l’antidoto alla morte. «Se io ti racconto una storia t’infetto e tu ti ammali di quella storia, diventandone parte; pensaci bene dunque prima di ascoltare la mia storia, perché poi diventa tua e tu ne diventi definitivamente parte integrante». Così parla uno dei personaggi de Il cromosoma Calcutta di Amitav Ghosh, e questo è ciò che capita quando si entra nel vortice di storie della letteratura postcoloniale. Ne I figli della mezzanotte, Salman Rushdie fa dire a Salim: Ci sono tante storie da raccontare, troppe. […] Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi dovrete anche voi inghiottire tutto quanto. Salim parla d’ingurgitare storie, di una sorta di “antropofagia culturale”, di un atto fisico; cibarsi di storie diventa il segreto per non morire. Lo sapeva bene Sherazade, che continuava a raccontare storie per impedire che il marito la uccidesse. Le storie si trasformano in memorie, e la memoria è l’antidoto all’oblio, alla morte, non tanto di un individuo, quanto di una collettività, di una comunità: neanche il Salim di Rushdie parla per sé, ma piuttosto per l’India intera. Come il bambino protagonista de La mia vita nel bosco degli spiriti, dell’africano Amos Tutuola, che si ritrova al centro di una storia a stretto contatto con la morte: il bimbo si perde in un bosco dell’Africa Nera che ha i tratti dell’oltretomba e in cui resterà per vent’anni; vent’anni di storie ancora una volta collettive e corali, storie come fili che uniscono memoria e morte. 144


La morte è protagonista anche dell’ultimo lavoro di Rushdie, Luka e il fuoco della vita, il romanzo in forma di favola che l’autore dedica al suo secondogenito. In una meravigliosa notte stellata, nella città di Kahani, accade qualcosa di terribile e inimmaginabile: il famoso racconta-storie Rashid, trasposizione dell’autore stesso, sprofonda senza nessun avvertimento in un sonno talmente intenso che nessuno è più in grado di svegliarlo. Nella precedente favola pubblicata da Rushdie nel 1990 subito dopo la fatwa1, Haroun e il mare delle storie, Rashid era stato tratto in salvo dal figlioletto Haroun, che, riaprendo i rubinetti del mare delle storie, era riuscito a far recuperare al padre la fantasia perduta. In questa fiaba sarà invece il secondogenito Luka a cercare di salvare il padre dal pericolo di non svegliarsi mai più, intraprendendo un viaggio nel cuore del Mondo Magico per sottrarre quello che nessuno è stato mai in grado di prendere: il fuoco della vita. Per farlo potrà contare su tanti aiutanti "proppiani" provenienti dai mondi fantasiosi più disparati: miti orientali, saghe scandinave, eroi classici, personaggi de Il mago di Oz e perfino i protagonisti di Ritorno al futuro. Ma, come in tutte le favole, accanto agli amici ci sono temibili nemici, in particolare il perfido Nobodaddy, forse incarnazione della morte stessa. Tra le entusiasmanti onde narrative emergono temi fondamentali come il rapporto tra la vita e la morte, esplicito nell’intento di Luka di voler riportare in vita il papà, e quello tra realtà e immaginazione, attraverso le avventurose vicende che Luka dovrà affrontare per permettere al padre di svegliarsi dal sonno letargico in cui è caduto. E anche se il bambino «non voleva dare il nome a quella cosa terrificante»2, si ritroverà a doverla combattere usando la più potente arma degli autori postcoloniali: le storie, appunto. Luka riuscirà alla fine del romanzo nell’intento di ricondurre il padre addormentato nel mondo reale, dando in questo modo risposta al quesito lasciato in sospeso dal fratello Harun nella fiaba precedente, quesito centrale in tutta la letteratura postcoloniale: «A cosa servono le storie che non sono neanche vere?». Le storie annientano la fine, garantiscono l’immortalità.

1 Subito dopo la pubblicazione del 1988 del romanzo I versi satanici, l’Imam Khomeini decreta la condanna a morte dell’autore Salman Rushdie attraverso una fatwa che costringe il romanziere indiano a fuggire nel Regno Unito e vivere sotto protezione dei servizi segreti britannici. 2 Le citazioni sono prese dall’edizione italiana del libro di Rushdie, Luka e il fuoco della vita, Mondadori, Milano. Per il legame morte, memoria, storie negli autori postcoloniali mi sono ispirata all’articolo Postcoloniali tra fiaba e magia uscito su il manifesto il 12 Gennaio 2001, firmato da Silvia Albertazzi.

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Ora vi racconterò di quel giorno, quando camminavo in una piazza africana, a Bamako, nel Mali. Passeggiavo fra le merci ammonticchiate, fra le conversazioni divaganti intorno a me e i corpi esposti al sole, la nuvola di polveri e di odori, i bidoni di metallo arrugginito e le mosche confuse fra i colori. Improvvisamente mi venne incontro un uomo. Mi somigliava straordinariamente. Aveva il mio stesso naso, le stesse mie guance un po’ cadenti, una luce grigio perla negli occhi carica di speranza e di malinconia. Forse era appena un po’ più vecchio di me. Indossava una lunga zimarra azzurra ed era scalzo. L’uomo mi si piantò davanti muto come un animale e curvo sotto il corpo già sfibrato. Aprì la mano e mi porse un orologio a cipolla. Io lo presi, la cassa era ancora lucida, il coperchio era ben saldo e si apriva alla perfezione. Le lancette però non funzionavano più. Pendevano morte sul quadrante. Obbedivano, naufraghe, solo alla forza di gravità. Tornai a fissare l’uomo, ora i suoi occhi trasparivano come dal fondo di acque nitide e tranquille. La sua fronte, il suo naso arcuato, la sua bocca carnosa sembravano come tremolare di luce frantumata e riflessa da un fondale non troppo profondo. Corrugai la fronte per ficcare meglio il mio sguardo nel suo volto. Lui però passò oltre e tornò a camminare sul piazzale coperto di polvere rossa, in mezzo al chiasso indolente e multicolore di Bamako. Mi lasciò il suo orologio rotto. Solo ora che scrivo ho capito che quell’uomo ero io.

il teatro è una soglia da dove i morti tornano a visitarci intervista a César Brie Di chi era il corpo morto? Chi era il padre o la figlia o il fratello O lo zio o la sorella o la madre o il figlio Del corpo morto e abbandonato? Harold Pinter

Chi è César Brie? Nato a Buenos Aires nel 1956, la sua vita è stata segnata dal teatro, dai viaggi e dall’impegno politico. Nel 1974 lasciò l’Argentina della dittatura e raggiunse Renzo Casali della Comuna Baires a Milano; nel centro sociale occupato del quartiere Isola fondò il collettivo Tupac Amaru. Seguì Grotowski alla Biennale Teatro, e in Danimarca conobbe l’Odin di Barba e Iben Nagel Rasmussen, la sua maestra. Nel 1991 andò in Bolivia dove, con Naira Gonzales, trasformò una vecchia azienda agricola in una convivenza artistica: nasceva allora il Teatro de Los Andes. E poi? Nel 2008 girò un documentario molto scomodo, che gli è costato un nuovo esilio e un allontanamento dal suo gruppo. Il documentario racconta di una strage di campesinos avvenuta l’11 settembre 2008 a Porvenir durante una manifestazione scatenata dai tentativi di redistribuzione delle terre da parte del nuovo presidente, Evo Morales. 146


Undici morti accertati, centinaia di feriti e decine di desaparecidos. César Brie racconta questa strage e le conseguenze personali, restituendoci alcune testimonianze nello spettacolo Albero senza ombra (2010).1 Perché è importante parlare delle morti politiche in America Latina in un contesto diverso, come quello italiano? Porto in Italia le mie opere, che a volte parlano della morte, per ragioni politiche. La violenza politica per gli italiani è un ricordo rimosso, perché tutto si è concluso con un’amnistia generica e sbagliata, che invano scrittori come Fenoglio denunciarono. La rimozione e la retorica con cui si coprirono gli anni del fascismo in Italia furono il prodotto degli equilibri politici sorti dopo la Liberazione, che prevedeva l’Italia all'interno del blocco occidentale, e la scelta dei comunisti italiani di seguire la via democratica. Fenoglio parlava di guerra civile, ma venne ignorato. Oggi si paga anche il conto delle ipocrisie del tempo: l’Italia è governata dal peggiore ceto politico possibile, discendente diretto e decomposto di quella brutta alchimia fatta di impunità, affarismo e retorica. In America Latina il processo di rimozione è stato proporzionale alla sconfitta degli ideali che sostenevano quelle vittime. Le nostre democrazie sono sorte sui cadaveri degli sconfitti e sulla rimozione delle loro vicende, perciò è importante recuperare sia la verità storica dei fatti, sia sapere perché, e a causa di cosa sono morti. Recuperare oppure almeno conoscere il loro pensiero e le loro azioni. Le vicende dell’America Latina possono essere utili a capire che il vostro passato rimosso è sempre un presente in agguato, e quindi sapersi comportare per impedire alla belva di riuscire dalla tana. Culturalmente soprattutto. Quale effetto credi che abbiano spettacoli come Otra vez Marcelo (omaggio a Marcelo Quiroga Santa Cruz, intellettuale e militante boliviano ucciso dopo il colpo di stato del 1980) e Albero senza ombra sullo spettatore italiano? Che conosca qualcosa di più della Bolivia, che si commuova di fronte alle vicende raccontate, che si interessi di più a persone totalmente ignorate e che se fossero vissute in Italia sarebbero state studiate. E che rifletta su quanto si è vicini a queste storie così lontane. Ileana Dieguez2, tra gli altri, rileva la difficoltà di rappresentare morti e violenze attraverso l’arte, dal momento che si corre il rischio di cadere 1 Su César Brie cfr. Marchiori F. César Brie e il Teatro de Los Andes, Ubulibri, Milano 2003 e Marchiori F. L’Iliade del Teatro de Los Andes, Titivillus, Corazzano (PI) 2010 2 Dieguez I. Pràcticas artisticas en los scenarios de duelo suspendido, Arteàmerica No. 20, Revista electrònica de Artes Visuales, Casa de las Américas, La Habana, abril-junio 2009

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in un vuoto estetismo; secondo lei un ruolo importante è giocato dal contesto in cui l’opera viene presentata. Tu cosa ne pensi? Il contesto in cui un’opera viene rappresentata è importante, ma una vera opera d’arte dovrebbe dire qualcosa sempre in ogni contesto, anche se in alcuni sarà sicuramente più impattante. Otra vez Marcelo provocava in Bolivia una commozione collettiva. In Italia commuoveva, ma la reazione era differente, perché non parlava di voi italiani ma di vicende che i boliviani avevano vissuto sulla propria pelle. Per questo la ricezione era diversa. Il problema credo sia ancora a monte: nel ruolo dell’artista, nelle sue azioni, nel suo comportamento. Usare la violenza reale per fare splatter in scena mi sembra poco etico se l’opera non ci chiarisce qualcosa rispetto alla vicenda che usa come storia. Penso al Tarantino di Unglorious Bastards: il suo film giustifica la barbarie nazista coi metodi nazisti usati da un gruppo di simpaticoni americani contro gli stessi nazisti. La tesi finale è, si voglia o no: quei metodi sono leciti se li usiamo contro chi li applica. Aberrante. In realtà, Tarantino trova un pretesto in una vicenda storica (totalmente stravolta) per giustificare il suo bisogno di splatter e di violenza rappresentata. Sulla situazione politica boliviana e in merito alla strage dell’11 settembre 2008 hai condotto un’indagine di un anno e mezzo, realizzato un documentario, uno spettacolo, e stai scrivendo un libro; perché la necessità di usare tutti questi linguaggi? Il documentario Tahuamanu è stato il frutto di quell’indagine. Le esigenze di sintesi per poterlo distribuire mi hanno costretto, nel montaggio finale, a sopprimere alcune informazioni. Il libro dovrebbe chiarire ogni aspetto e ogni dettaglio. Sarà un libro di storia probabilmente. Lo spettacolo teatrale mi permette di fare poesia su quegli eventi. Recuperare i nomi e i volti delle vittime e dei vittimari e dare loro una vita esemplare: non esattamente la vita dei veri protagonisti, ma quella della poesia che le loro vicende hanno suscitato. Il libro mi permette di ricostruire la vicenda, il documentario di denunciare e il teatro di fare poesia: non mi sarei permesso di farlo se non avessi prima realizzato il documentario, ricostruito la verità, scoperto i soprusi, le complicità e le menzogne. Soltanto dopo ho potuto permettermi lo spazio etico che mi consentisse di considerare la vicenda come un viaggio nell'Ade e reinventare con pietà e poesia le vicende di quella storia. Il problema, quando si parla di fatti accaduti davvero, è quale spazio esiste per l’arte, quale per la denuncia, quale per la testimonianza e quale per l’invenzione. Nei tuoi spettacoli sei sceso molte volte nell’Ade; credi sia possibile 148


rappresentare la morte? Tu come lo hai fatto? Il teatro fa i conti con la morte, sempre, sempre. Il teatro è una soglia dalla quale s’indaga sulla morte, dalla quale i morti tornano a visitarci. Che problemi pongono la rappresentazione della morte e della violenza? Pongono problemi etici ed estetici. Bisogna opporsi alla retorica con la precisione. Bisogna usare crudeltà e derisione come risorse artistiche della nostra pietas. Non si può usare l’arte per giustificare l’approssimazione, come cronisti, altrimenti si diventa complici. Bisogna, al contrario, imparare a camminare sulla corda tesa che ci indica ad ogni passo cosa sia lecito e cosa no. Un processo difficile ma che permetterà che a scaturire sia soltanto l’essenziale del gesto poetico. Quando si può rappresentare qualcosa e quando solo raccontare? Quando il tempo ha lenito alcune ferite, allora si può rappresentare. Non è lecito rappresentare il dolore di chi lo sta soffrendo ancora senza rispettarne i dettagli. Le vittime chiedono sempre precisione: «Le cose sono andate in questo modo non come tu lo racconti», dicono. Per questo ci vuole il tempo. Bisogna anche chiedersi se si vuole testimoniare, o si usa un fatto per fare della poesia, per rendere universale qualcosa che si cela in quella vicenda. L’artista deve sapere dove si colloca: se nel regno dell’invenzione, della poesia, o della testimonianza. Oppure in entrambi. E scartare o usare procedimenti alla luce della sua scelta. Non bisogna dimenticare che l’artista prende gli applausi sempre e comunque, ma alle vittime resta il dolore. Non sono le nostre buone intenzioni a giustificarci, ma la validità delle nostre azioni etiche e artistiche. Per questo dico sempre che non faccio teatro politico, ma teatro e basta.

<frame morte> nel ritornare alla terra saranno più cupi i lamenti più docili gli uomini inghiotte ciò che scorre; il sangue nel sangue. il passo in nudità e poi morte; ogni morso una scorza che muore e disvela. il feticcio era divino, unica lingua e presenza 149


<la deriva si nutre di frammenti> <vivere o morire è un germe, un intatto confine> chiara luce che macchia senza il corpo in morte bianco, veste indossata, sfatta <l’anima si impiglia nella vita> sterpi di luce nella fame dei tramonti al caos rivestito di pelle s’ingenera uno splendore increato, un flusso umido

<frame prima della morte> <avvicino il seme alla terra, sono il seme e la terra: l’ultima umiliazione è la gioia della speranza, il passo tra lamento e ambizione. ogni preghiera, ogni mano, ogni passo: sono lo squarcio di un altare senza dio, perché ogni morte alimenta la luce, rischiara i passi di una stessa strada, come il buio cuce di spine il filamento scuro degli opposti in concise origini, in un flusso morbido che scorre e leviga ciò che è deposto> l’attimo si frantuma in eterno <la pioggia cade nella morte> l’innocenza del baratro, un compimento l’odore è quello della resa infinita della polvere infinita che affratella i percorsi e lascia i corpi fragili ai morsi dei ragni

<frame nella morte> un lenzuolo che sa di birra e urina, l’ultima festa prima del tramonto quel tramonto lo chiami sangue, o fierezza, non ricordi. un riflesso: io sono te, l’uomo che cammina tra gli alberi nel suo paesaggio <io sono l’uomo che stupra la voce nell’ora in cui sarai muto> <io sono te, ora, scritto nella voce> 150


la morte come traccia e come processo Andres Serrano, Izima Kaoru, Francesco Gennari, Henrik Håkansson Ogni cosa è già morta o sta morendo. Questa è l'ambiguità di fondo che caratterizza lo status di morte: indica allo stesso tempo una condizione, una situazione stabile, e un processo in atto. In campo artistico il tema della morte è antichissimo, in molti casi i due ambiti sono strettamente legati, basti pensare alle origini funerarie di molte pratiche “artistiche”. Nel Novecento il “motto” arte=vita, caratterizzante la produzione estetica contemporanea, ha saputo evocare per contrasto anche l'esatto opposto, desacralizzando il tema della morte, anzi, assorbendola entro i confini stessi della vita, rendendola parte integrante di essa, un aspetto da indagare a molteplici livelli. Non si intende qui ripercorrere tutte le tappe di questo rapporto, anzi, ci si propone di saltarle con molta agilità per andare dritti al sodo, all'ambiguità cui si accennava sopra, e proporre un piccolo campione, non certo esaustivo ma puramente esemplare, di artisti che in qualche modo, anche solo di passaggio, hanno “attraversato la morte” con le proprie opere, sia dal punto di vista tematico che da quello operativo. La morte come condizione è in omologia, identità di funzionamento, con la pratica fotografica, che registra una traccia stabile di ciò che “è stato”1, di un istante, rendendolo “eterno”: una “morte piatta” e “asimbolica”2. Nel momento in cui si scatta una fotografia viene prodotta la traccia di una porzione di mondo, che funziona come un sostituto della realtà3. Affrontare la morte tramite la fotografia vuol dire allora aderire ad essa, come a volerne ricavare un'impronta per conservare uno stato tanto inafferrabile. Andres Serrano (1950) nella serie The Morgue (1992) si relaziona in modo diretto con i cadaveri di un obitorio, luogo privilegiato della morte in senso fisico e laico, senza le valenze religiose e/o memoriali del cimitero. L'artista si pone davanti ai propri soggetti in modo crudo e diretto, decontestualizzando i corpi in sfondi scuri e indefiniti, astraendo (etimologicamente: tirando fuori) quanto possibile la morte in quanto tale dal mondo delle contingenze. Ma il tentativo sembra destinato al fallimento: ogni morte è un caso a sé, i titoli riferiscono le varie cause delle dipartite, eppure il cadavere non sembra bastare come testimonianza: l'artista astrae ancora di più, cattura frammenti di corpi, 1 R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003 (ed. originale 1980) p. 78 2 Ivi, p. 93 3 Cfr. C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento: una storia “senza combattimento”, Bruno Mondadori, Milano 1999

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quelli più significativi, restituendo costellazioni di particolari, visioni parziali che finalmente dimostrano un legame comune. Smettiamo di vedere i cadaveri, con tutto il loro bagaglio storico-umano, e scorgiamo la morte nella sua contingenza fenomenica, ovvero nelle traccie che lascia sul corpo e di cui è traccia il corpo stesso4, eliminando le componenti trascendenti del “grande mistero” per riportarlo ad una dimensione più immanente, in un “qui e ora” che grazie alla fotografia viene fissato e prolungato in un eterno presente. Tuttavia, mentre aderisce alla cruda realtà, Serrano tenta anche la strada della nobilitazione, della monumentalizzazione: vi è un riscatto formale che tende al pittorico, capace di mediare e di allontanarci dalla porzione di mondo così finemente catturata, confondendo le carte della realtà e dell'artificio, portando per reazione a ribaltare la presa diretta e immediata sul reale nel suo opposto. La morte, illusoriamente avvicinata per un attimo, sprofonda nuovamente in uno stato inafferrabile, al di là del filtro culturalizzante dell'artista. Izima Kaoru5 (1954), con la sua serie fotografica Landscape with a corpse (frutto di una decina di anni di lavoro, da metà anni Novanta), ci conduce in un mondo silenzioso, freddo e come privo d'aria, decisamente mortifero. Eppure qualcosa non torna: la classica simbologia della morte è stata completamente rimpiazzata da un'estetica da rotocalco di moda, glam, piena di colori e quanto mai sensuale. Le traccie della morte sono rarefatte, al massimo un asettico rivolo di sangue, che pare più un elemento decorativo che un fluido corporale. I corpi, bellissimi e algidi di modelle professioniste, giacciono immobili come manichini, in contesti vari ma disabitati. È evidente che ci si trova su un set, che le fotografie sono la traccia di un “è stato” fasullo ma ben orchestrato. È il regno dell'irreale, anzi, di una sorta di “realismo magico”. Ad ogni cadavere viene dedicata una serie di scatti, e ne scaturisce il filo di una possibile narrazione, che costruisce un mondo virtuale a cui, proprio per lo statuto della fotografia, siamo portati a credere, spiazzandoci. Le foto nascono dalla collaborazione dell'artista, anche fotografo di moda, con le sue modelle: come si immaginano la propria morte, e con che abito firmato? Ed ecco che un tema appesantito da secoli di paure, tabù e sacralità viene alleggerito e trasformato in un gioco molto chic, abbinato ad un uso della fotografia decisamente postmoderno, ovvero votato non alla presa diretta sul reale ma alla costruzione immaginativa, alla finzione, che trova buona credibilità proprio grazie alla sua traduzione in traccia fotografica. Ritroviamo la stessa perizia e cura di Serrano, ma tra i due approcci, alla fotografia come alla morte, corre una abisso di differenze: nell'artista giapponese le esigenze di credibilità e narrazione 4 F. Alfano Miglietti (FAM), Identità mutanti. Falla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa&Nolan, Ancona-Milano 1997 5 F. Fabbri, Lo zen e il manga: arte contemporanea giapponese, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 135136

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portano a contestualizzare, ad arricchire le scene di particolari superflui e seducenti, mentre per Serrano si trattava di astrarre e di avvicinarsi al soggetto, di “spogliarlo” il più possibile per andare oltre. Sono due approcci che si ritrovano su più vasta scala nel panorama contemporaneo: da un lato la morte-evento, la sua spettacolarizzazione, dall'altro la morte-oggetto, la sua analisi fredda, che hanno in un qualche modo colmato il vuoto lasciato dalla sua desacralizzazione, offrendole un altro posto nell'orizzonte culturale. La morte, oltre ad una condizione, è anche un processo, ed è in questo senso omologa a tutte quelle pratiche artistiche (anzi, extra-artistiche) discendenti in qualche modo dalla Process Art di fine anni Sessanta e Settanta, e in particolare dall’approccio al mondo fenomenico “basso” dell’Arte Povera. Sono anni in cui si fa strada il concetto di opera d'arte effimera, destinata a consumarsi, o in cui si parla di “morte dell’arte”, intesa come rinuncia ai mezzi artistici tradizionali in favore di una multimedialità aperta e spesso schizofrenica la quale si pone come obiettivo quello di un generale allargamento dell’esperienza, tramite la sollecitazione di tutti i sensi. Erede sui generis di questi approcci estetici, Francesco Gennari6 (1973) è un artista capace di coniugare gli opposti: concettualismo e materialità, minimalismo formale e processualità, trascendenza e immanenza, serietà e ironia. Alle sue opere ci si approccia spesso con voli mentali rarefatti, ma non bisogna dimenticarsi del sostrato materico, in bilico tra materie povere e ricche, cui l'artista appiglia i suoi discorsi cosmogonici: l'opera fisica si pone quasi sempre come una sorta di trampolino di lancio verso l'iperuranio. Quando si avvicina al tema della morte, Gennari sfrutta entrambe le facce della medaglia: la morte come processo tra un prima fisico e un dopo ideale. Un’estetica chiusa e rigida caratterizza una serie di opere - cubi di mattonelle colorate, dove della terra affiora dalla fessure o dai vuoti dell’involucro - che portano come titolo le percentuali di sopravvivenza attribuite ai ragni ed ai semi che l’autore ha inserito in esse. La cromia non è meramente decorativa, anzi, è proporzionale alla vita stessa: l'opera intitolata 0% (2003), sigillata, è infatti completamente bianca. Sono ecosistemi in miniatura, microcosmi razionalizzati dall'intervento umano, capaci di evocare una situazione ben più vasta, quella macrocosmica. L'opera vive come processo fisico, ciò che realmente accade, e come processo mentale, ciò che immaginiamo stia accadendo: doppio registro che ritroviamo nel nostro rapporto con la morte. Come se (2001) è forse l'opera più emblematica della produzione di Gennari intorno al tema della vita/morte: un cipresso è stato privato della sua linfa vitale, sostituita con del liquido stabilizzante che lo ha come mummificato. Di fatto quello che ci viene presentato è un processo/non processo, 6 L. Hegyi, G. Verzotti, D. Schwarz, Francesco Gennari, Hopefulmonster, Torino 2008

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una sorta di paradosso: l'albero è un non-morto, o un non-vivo, sospeso in una condizione stabile ma in bilico. Gennari ci mette di fronte alla necessità, per mantenere un'apparenza di vita oltre la morte, di manipolare la vita stessa, innescando un cortocircuito sul quale interrogarsi, anche nell'orizzonte tecno-ecologico contemporaneo: la possibilità di arrestare l’entropia. Henrik Håkansson (1968) lavora su due registri complementari: in molte delle sue installazioni opta per la smaterializzazione, sfruttando le immagini elettroniche generate da telecamere di sorveglianza puntate sul mondo naturale, connettendosi con l’imprevedibilità di micro-ecosistemi; d’altra parte non può fare a meno di materializzare, di prelevare direttamente brandelli di mondo naturale da presentare, opportunamente straniati, all’osservatore: si avranno allora piccole foreste a testa in giù da attraversare come After forever (ever all) (1998), o rarefatti brani vegetali sospesi nello spazio: Broken forest (2006). Gli insetti e le piante di Håkansson vivono e muoiono in diretta, secondo i propri ritmi, o quasi. Forse l’opera più forte da questo punto di vista è Wall of Voodoo (Orephoetes peruana)7 del 1996: si tratta di un ecosistema peruviano interamente ricostruito nello spazio espositivo, sulla base di un muro di terra. L’artista integra il naturale e l’artificiale, sostenendo l’ecosistema con apparecchiature tecnologiche progettate per mantenerlo in vita: lampade, irrigatori, umidificatori ecc… è il trionfo della vita, ma non per molto. Scendono in campo i fruitori, cui l’artista permette libero accesso alle strumentazioni di controllo, permettendo loro di modificare i parametri ambientali, ed ecco che il sistema collassa, insetti e piante muoiono, riproducendo in piccolo il dramma in atto sulla più vasta scala dell’intero pianeta: la morte in quest’opera viene indagata come fenomeno catastrofico, consegnata interamente nelle nostre mani, chiamandoci alle nostre responsabilità, ponendo anche qui un interrogativo tecno-ecologico. Traccia e processo si generano l’uno con l’altro incessantemente, utili come strumenti di indagine di una ricerca artistica capace di tramutare l’ambiguità da cui si è partiti in una chiave d’accesso ad un mistero ormai sfrondato da ogni retaggio mistico o mitico, per collocarsi in un contesto assai più laico e pragmatico, da un lato ponendo in modo nuovo l’atavica domanda sull’Uomo in quanto tale, desacralizzato e carnalizzato ma comunque percepito come estraneo all’ambiente in cui vive, un alieno compromesso da leggi sue proprie, dall’altro allargando lo sguardo all’intera realtà fenomenica, in una prospettiva di evoluzione-estinzione, un modo di esperire l’entropia, processo universale di cui la morte è una manifestazione.

7 Cfr. Henrik Håkansson: through the woods to find the forest, catalogo autoedito della mostra tenuta a Parigi nel 2006, Palais de Tokyo site de creation contemporaine, Parigi 2006

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Quando il nonno morì ebbe un’erezione colossale. La nonna una mattina si svegliò al suo fianco e lo trovò col “coso” dritto come un campanile sotto le lenzuola. La nonna scosse il nonno per svegliarlo, un po’ divertita da quella sua protuberanza mattutina che tendeva in una piramide i lenzuoli bianchi verso l’alto. Però il nonno continuava a rimanere immobile, coi suoi baffoni da tricheco bianchi e la bocca appena aperta. La nonna si accorse presto che il nonno non respirava più, allora scoppiò a piangere e il suo pianto svegliò tutti. Quella mattina per casa ci fu un gran trambusto. Anche la mamma piangeva come una fontana, mi ricordo ancora il sapore salato delle sue lacrime che io cercavo di asciugare con qualche bacio. C’era anche il babbo, poi arrivò il prete e il medico. Era un via vai continuo. Ma il “coso” del nonno, in tutto questo trambusto, restava sempre lì, eretto verso il cielo! Vedevo il babbo scambiarsi occhiate un po’ imbarazzate con gli zii e quando si presentarono quelli delle pompe funebri la cosa iniziò a farsi un po’ problematica perché per colpa di quel coso dritto era difficile vestire il nonno e poi sistemarlo nella bara e chiuderla. Tutti armeggiavano, tutti discutevano, «Ci vuole una puntura». «Aspettiamo un po’», «mai vista una cosa del genere», e via così. Ma quel coso non voleva proprio abbassarsi. Finché dopo un po’ si fece avanti la nonna. Aveva gli occhi rossi di pianto ma vedevo che la sua pelle s’era riaccesa di colore. Disse a noi presenti che voleva rimanere sola col suo povero marito e ci invitò a uscire dalla stanza da letto, poi chiuse la porta alle nostre spalle e ci lasciò lì impalati sul corridoio. Dopo un po’ la nonna riaprì la porta e ci fece rientrare. Con nostra sorpresa, affacciandoci nella stanza, noi tutti vedemmo che il “coso” del nonno era andato giù e non era più dritto come una bandiera! Il nonno fu così finalmente vestito e poi steso nella bara. Il giorno del funerale la nonna si fece bella. Si acconciò i capelli e si mise gli orecchini con le perle e mi tenne per mano sorridendo durante tutta la messa.

love Anche il Monaco del tempio dove sei sepolto ti conosce, e mi ha saputo indicare senza esitazione la lastra che ti ricorda. Io non ti ho conosciuto, loro sì. Chi ti ha conosciuto continua a parlare di te, e mi racconta spesso di come eri, di cosa facevi, di quanto eri dolce nel quotidiano e aggressivo quando ti concentravi a creare. A volte eri difficile. La tua arte: Ph, Lovers, S/N… Chi ti ha conosciuto ti ha amato. Per me sei un ricordo di terzo grado: sei le voci che ti descrivono, e che ti chiamano presente. Chi ti ha conosciuto mi ha raccontato che quando sei morto è stato come perdere una parte del corpo. Ho poi pensato a quell’effetto chiamato arto fantasma secondo il quale la parte del corpo persa continua a esistere nella mente della persona, come se ci fosse ancora. È riduttivo? Forse no. Sei dunque con loro adesso, e forse anche con me. Mi è capitato di vederti in fotografia: tra i tanti non ti avrei riconosciuto se non ti aves155


sero indicato, e ho osservato attentamente il tuo portamento da hostess di aereo di linea, e il modo in cui ti eri scolpito con la gonna, il rossetto e le ciglia. Barbarella, Barbra Streisand, Julie Andrews. Tu che che eri vissuto tra i kimono di tua nonna dama di una geisha, sempre circondato da donne. In un’intervista pochi mesi prima della morte racconti che la tua parte goliardica, irriverente, divertente, illusionistica, si manifestava in parrucca bionda nelle notti drag; in fondo si debbono a te e ricordano te le serate Diamonds are Forever a Kyoto. Quando fingevi di cantare eri perfettamente sincronizzato, controllatissimo. I tuoi amici Lypsinka, John Kelly, Ethyl Eicholberger al Pyramid di New York. Chi ti ha conosciuto ha amato quei giorni. Una voce squillante e carezzevole, quella stessa voce che nel tuo ultimo pezzo S/N si definisce «straniera, omosessuale, nera», mi ha raccontato che l’impatto della tua morte in Giappone è stato fortissimo. In quel periodo, nei primi anni Novanta, in Giappone non si parlava di aids e il tuo coming out prima, la tua morte dopo, sono stati shoccanti. (Ma se pensi, tuttora, a quindici anni dalla tua morte, i medici non parlano chiaramente delle malattie a trasmissione sessuale, e non curano i partner). Tu stesso in un’intervista dichiari che percepivi la gente interessata alla tua malattia, forse curiosa, ma che nessuno si faceva avanti a chiederti qualcosa. Un muro di silenzio. Chi ti ha conosciuto lo ha infranto e continua a farlo. In quel periodo si credeva che l’aids fosse portato in Giappone dagli stranieri, ma la sieropositività, lo racconti tu stesso, l’hai presa dal tuo primo ragazzo, il tuo primo amore, un giapponese. Cosa significa morire di aids: morire d’amore? S/N è stato il tuo ultimo spettacolo. S/N sei tu, c’è dentro la tua vita, per quello che consente l’arte. C’è voluto un clic dopo averlo rivisto una decina di volte per entrarci in sintonia. S/N va visto attraverso i tuoi occhi; io ho scelto di vederlo come chi è in un acquario e al di là del vetro vede svolgersi la vita degli umani. Chiama, ma la voce non è sentita. Mi spoglio nuda per dire che sono uguale agli altri. Faccio a pezzi il mio passaporto. Sogno che la mia nazionalità, il mio valore, la mia razza, il mio sangue scompaiano. Un uomo nudo e imbavagliato agita una bandiera senza insegna. Una donna estrae dalla vagina le bandiere dei paesi del mondo. Ho preso in prestito le tue immagini e le ho fatte mie. Non più confini, non più boundaries. All’uscita di S/N hai dichiarato che volevi proporre una forma visiva dell’aids diversa da quella data da artisti precedenti a te (Blue di Derek Jarman menzionavi in proposito), e soprattutto priva di stereotipi: priva del chiacchiericcio molesto delle convenzioni della scienza. Incurabilità, Peste del Ventesimo secolo, Punizione, 156


Tragedia, Vittima, pesavano come mattoni, ma quelle parole le hai rifiutate. Volevi fornirci un ritratto di te: tu, solo, in quella zona grigia tra la morte e la vita. Così è nato S/N. “S/N” è un acronimo. “S” sta per signal, “N” sta per noise. Ma “S” può stare anche per South e “N” anche per North: il gioco si potrebbe continuare. Nella realtà “S/N” indica il rapporto tra il messaggio effettivo che arriva al destinatario e i rumori che lo corrompono: più questa misura aumenta più è facile distinguere il messaggio. Il tuo, allora, è stato uno sforzo di farti capire, e il tuo “S/N” ha un valore molto alto. Chi ti ha conosciuto si è contraddetto più volte sul valore da dare alle parole. Ormai so che inizialmente non credevi alle parole (perché erano bugiarde?), e poi tu e tutti gli altri membri di Dumb Type avete cambiato idea e le parole hanno smesso di essere un virus infetto. S/N è infatti pieno di slogan: si proiettano nello spazio bidimensionale del palco come esplosioni; velocemente e ininterrottamente si ripetono. Le parole sono metafore al di là della loro evidenza semantica: verità sostenute oltre il rumore di un microfono troppo alto e rumori. Anche gli attori, il sound designer dietro il palco, i ballerini – chi ti ha amato – hanno il valore di figure retoriche: loro sono sinestesie, a volte meccanismi di un orologio rotto come “N”, a volte un abbraccio come “S”. Può l’amore essere cambiato in informazione? Sì. Allora S/N è il tuo racconto d’amore, a love song dici tu, un atto d’amore. Ma S/N è anche il tuo particolare addio. Ora capisco che è immensamente triste guardarti con i capelli alla Marylin Monroe, e le gambe nude e dritte che spuntano dal bordo di un gommone trascinato sul palco, mentre saluti il pubblico sincronizzato sulla dolcissima Amapola. Alla fine ho pianto anch’io, e ho iniziato ad amarti. Sulla porta di legno azzurro dell’ufficio dove vi incontravate è rimasta soltanto l’insegna DUMB TYPE. In caratteri romani, con punte aguzze, ricorda una scritta secessionista. La sede è stata spostata a sud di Kyoto. Dall’altra parte della strada ora c’è uno di quei negozietti aperti ventiquattro ore su ventiquattro: la strada è cambiata, Kyoto si è ingrandita e forse è diventata più brutta, le serate drag queen hanno raggiunto il trecentesimo compleanno e chi ti ha amato è maturato e ha trovato la sua strada, ma tutto questo tu già lo sai. Con amore… In memoria di Teiji Furuhashi Con il contributo di Toru Yamanaka, Bubu de la Madeleine, Tadasu Takamine, Yoko Takatani, Peter Golithly. 157


Ho sognato di fare tre passi oltre la morte. Dentro lo specchio. Oltre la collina. Sul ciglio del cratere. Il fumo del vulcano lassù squaglia la pelle. Sudavo e sentivo la bocca inondata di sale. Nel cratere però, dentro, in fondo, c’era uno specchio d’acqua, e io ci volavo sopra. Era il mare, azzurro e umido, per un briciolo di secondo infinito, prima che mi svegliassi di colpo. Poi come ogni mattina mi sono tirato fuori dal letto che ancora fuori era buio. In bagno allo specchio ho immaginato di vedermi riflesso in varie forme. Tutte immagini della mia negatività trasformata nel suo doppio. Mi vedevo teschio che batte i denti. Poi organo sessuale peloso come una pianta carnivora. Poi soldatino di latta con la divisa in disordine e un po’ accartocciato. Poi mi sono spalmato la schiuma da barba sulle guance, e allora ecco che la mia negatività ha preso le sembianze di un clown dalla barba bianca e schiumosa. Lei, di là in camera, dormiva ancora. Poco dopo, mentre armeggiavo nell’armadio, ha messo la testa fuori dalle lenzuola. Con le guance rosate come una aurora, (succede perché di notte la pelle le si sfrega sul cuscino) e gli occhi appiccicati dal sonno, mi ha detto che sotto il piumone si stava scomodi, ché il materasso era puntuto e che mi invidiava perché ero già sveglio e in piedi e avevo finito di tribolare. Abbiamo riso insieme.

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si salva chi può ma non può... ricordare Amelia Rosselli senza averla mai conosciuta She is used to this sort of thing. / Her blacks crackle and drag. Nessuno può dire con certezza che Sylvia Plath non si aspettasse di rivedere la luce mentre, sigillate le finestre e messo in salvo il latte caldo dei bambini, i suoi occhi si chiudevano sulla parete metallica del forno a gas. Pare che aspettasse la baby-sitter per le nove di mattina, che il vicino fosse solito aprirle quando gli Hughes non rispondevano, che ci fosse addirittura un appunto sul tavolo col numero di telefono del medico da chiamare1. Sfacciatamente in anticipo sul decennio promesso dal puntuale avvicendarsi delle sue stagioni (One year in every ten/ I manage it...) magari Lady Lazarus era già annoiata, prima ancora di addormentarsi, dallʼidea di una quarta sveglia accanto ai soliti tulipani. Era una donna abituata, forse in confidenza con la morte come lo si è con lʼemicrania o con la bottiglia, e certo non poteva immaginare che il gas si sarebbe fatto strada anche nellʼappartamento di sopra, che nessuno lʼavrebbe trovata prima delle undici, che la sfortuna avrebbe avuto quartiere nel coreografato ingaggio che stava disinvoltamente intrattenendo con lʼestinzione. Dying / is an art, like everything else, / I do it exceptionally well. Esattamente trentatré anni dopo – e per “esattamente” bisogna intendere “nello stesso giorno” – Amelia Rosselli, orfana di padre come la Plath di cui era traduttrice, si affacciava sul cornicione del suo palazzo in via del Corallo senza alcuna plausibile pretesa di resurrezione dallo schianto a venire. La sua «cara vita», dʼaltronde, le era già «andata perduta» da anni, e la nevrosi – intuita da un alfiere come Bobi Bazlen in tempi non sospetti2 – non doveva contemplare sconti alla sterminata solitudine di chi ha di che difendersi «dal vostro aldilà che non / è su codesta terra». Leggendo il Corriere del giorno dopo pare che il vicinato conoscesse le sue intenzioni, e che nellʼenoteca dellʼOrologio, dove spesso Amelia prendeva il tè alle cinque, un ragazzo ricordasse discorsi sul suicidio, «ma ogni volta per fortuna non accadeva». Il modo in cui, alla fine, è accaduto – il lancio nel vuoto – non chiede aiuto, né lascia scampo ai dubbi e alle ipotesi. Forse, nemmeno ai sensi di colpa. Sono passati altri quindici anni, e probabilmente non è rimasto un solo italiani1 Apprendo tutto ciò da Al Alvarez, The Savage God, Weidenfeld&Nicolson, London 1971 2 In unʼintervista apparsa sul Messaggero del 2 febbraio 1984 si legge: «Bobi Bazlen, che era mio amico, mi disse: “Devi prima risolvere i tuoi problemi personali, poi scrivere”. Era vero: c’erano tante cose che non avrebbero interessato nessuno. Con un padre assassinato, per me sarebbe stato facile farne un tema, un’ossessione. Ma la nevrosi non si può farla dilagare in forma di libro da far comprare. È inutile esprimerla come sostanza della poesia».

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sta, mediamente informato ancora reticente, a collocare lʼesperienza di Rosselli tra gli esiti maggiori del Novecento poetico italiano ed europeo. Agli estimatori, che hanno accompagnato il suo cammino in vita tra le righe delle lettere nazionali (è lʼunica donna canonizzata dalla celebre antologia di Mengaldo, Poesia italiana del Novecento, il suo primo libro si apre con la prefazione di Pasolini e lʼultimo con quella di Giovanni Giudici), si sono aggiunti, dal 1996, una schiera di critici entusiasti. Da Baldacci a Casadei, a Cortellessa, Fusco, Venturini, La Penna; negli anni zero sono uscite una decina di monografie, gli atti di almeno tre convegni, una puntuale ricorrenza di articoli e saggi3, e Riccardo Castellana ha introdotto la nuova edizione commentata di Satura, invitando gli amanti di Montale ad «accettare forse il fatto che i libri di poesia più significativi e più belli apparsi in Italia nel corso degli anni Sessanta e Settanta sono altri», citando di seguito Serie ospedaliera della Rosselli, tra Zanzotto e Sereni. Non esiste, però, direi, una riscoperta “tardiva” di Rosselli, che oggi ancora ci scruta per nulla fantasmatica dalla finestra di youtube, seduta sotto un pino o intenta a stimolare un theremin invisibile mentre le gravi onde della sua voce vivissima e terrena scandiscono la metrica; e che già piaceva, già entusiasmava tutto un ecosistema letterario (romano e non) fin dal suo esordio. È piuttosto lʼeco inestinguibile di quella presenza ad essere più consistente che mai, tanto da fare di lei una figura familiare a chiunque legga poesia, pur senza averla mai conosciuta – pur senza averla mai letta, a volte. Lei. Amelia, mai nominata in Per un nuovo inverno da Antonella Anedda, eppure destinataria dei suoi auguri: «Felice notte a te / per sempre priva di abisso». Chi ha memoria non ha voce «per chi resta», «ma una lingua intrecciata di paglia», con cui sperare di potersi dire in un luogo, giungere a una destinazione, intravedere la stessa Gerusalemme che visitò Paul Celan prima di gettarsi nel vuoto anche lui. Amelia, «lʼultima vittima di un secolo divoratore dei suoi poeti» come ha detto Biancamaria Frabotta davanti alla sua bara – e leggere oggi quellʼestremo addio in Elogio del fuoco accende lʼinvidia di chi è nato troppo tardi per vederla scendere al braccio di Dario Bellezza nella libreria del Ferro di cavallo. «In tanti avremmo voluto imitarla, la sua poesia, anche solo per un omaggio, un affannoso tributo dʼamore. Ma era come voler ricalcare il percorso nellʼaria delle lingue di fuoco.[...] Si può solo contemplarle». Forse sarebbe il caso, per chi è nato dopo, di stanare tutti i testi in memoria di Amelia per leggerli di fila e avere il polso degli inesausti funerali che continuano a celebrarsi per lei. 3 Desumo questi dati dalla bibliografia su Amelia Rosselli a cura di Carmelo Princiotta conservata nellʼArchivio della poesia italiana contemporanea presso il Dipartimento di studi greco-latini, italiani, scenico-musicali de La Sapienza di Roma. Nellʼorganizzazione dei materiali il nome della poetessa non è stato ascritto a nessun decennio, campeggiando tra i Maestri del secondo Novecento in compagnia del solo Pagliarani.

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Era un pomeriggio e Ellis e Valerio erano entrambi disoccupati. Giravano in macchina in strade piene di distributori di benzina, parcheggi, negozi illuminati, gente sfatta che camminava sui marciapiedi. Passarono davanti a un lungo cancello verde e Ellis disse: «Hai mai visto i giardini del vecchio manicomio? Dai, andiamo, è proprio qui davanti, ti devo far vedere una cosa». Valerio parcheggiò e dopo cinque minuti camminavano lungo i porticati del vecchio ospedale e i suoi cortili silenziosi colmi di erbacce. Ellis scrutava le pareti e ripeteva a Valerio «ci sono stato qualche anno fa, non ricordo bene, ma è qua intorno». Il sole era già tramontato e il vecchio manicomio era una struttura molto vasta, con porticati rettilinei che si irraggiavano fin dentro l’oscurità, piena di porte chiuse e di finestre sbarrate e di pochi altri relitti abbandonati fra le erbacce. Bottiglie di vetro, cocci, giornali appallottolati e consumati dalle intemperie, qualche pezzo di ferro contorto. Poi Ellis disse: «Eccola là» e col dito puntò verso un muro. Valerio si girò e vide un grandissimo disegno a carbone. Era un intricato magma di esseri intrappolati in una attorcigliata fissità. C’erano uccelli piumati, creature con nasi lunghi come flauti, unicorni, serpenti, mani tese, ali e occhi, colli, squame flessuose e morbide, bocche, aperture alari che cercavano il cielo. «Eccoli. Sono i disegni dei matti che passeggiavano qui nel cortile. Te li immagini nei loro pomeriggi sgrammaticati, a riempire il muro con un pezzo di carbone in mano? » disse Ellis. «Il muro era un baluardo, da dove affacciarsi e guardarsi dentro», disse Valerio. Rimasero ancora un po’ a osservare quel brulicare di segni cristallizzati. Quella voglia dei matti di misurarsi con un significato finora indecifrabile.

l’inferno è rinunciare all’invenzione di senso intervista a GiorgioVasta Nei tuoi racconti, specialmente nel tuo romanzo (Il tempo materiale, Minimum fax 2008), affiorano continui riferimenti all’organicità, infezione, cellule, corporalità. Nel tuo tessuto narrativo ti misuri continuamente con la vita e la sua metamorfosi sottocutanea. In che misura la morte ritorna nella tua immaginazione di scrittore? Credo ritorni come struttura delle cose, come fenomeno endogeno e ininterrotto. Vale a dire che la morte non è soltanto o soprattutto l’evento terminale delle nostre vite: è la continua vitale catastrofe che dà loro forma e consistenza. Prendo come esempio l’apoptosi, ovvero la morte cellulare programmata, dunque il processo tramite il quale si mantiene un determinato numero di cellule all’interno di un sistema. Ancora una volta la biologia è, nella sua naturale asciuttezza, emblematica: la morte sta nella vita come sua condizione imprescindibile, come ricapitolazione e rivolgimento, origine e meta, termine dinamico di una dialettica incessante.

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Nella realtà che ti circonda c’è più accidia, inerzia, ibernazione dei sogni e dei sentimenti; oppure ferocia, sadismo, repressione? E nel mondo restituito dagli scrittori a te più congeniali, prevale l’indifferenza o la rabbia torturatrice? La mia impressione è che la cosiddetta realtà sia serenamente destrutturata, extralinguistica, priva di una grammatica, fisiologicamente desaturata. Soltanto che sopportare la sua costitutiva indifferenza è per ognuno di noi inconcepibile e dunque diventa necessario e salvifico lavorare di continuo – dalla chiacchiera comune alla letteratura – a un’invenzione di forma e di senso. Di saturazione. In sostanza, le sirene tacciono, non parlano con noi, ma Ulisse fa di tutto per sentirne la voce, ha il bisogno viscerale di inventarla. Credo che buona parte della nostra esperienza si dia nella frizione tra questa naturale assenza di direzione e di intenzionalità delle cose e il nostro impulso a contrastarla. Questa risposta mi fa pensare a Gottfried Benn, e all’ultima fase della sua poetica. Per Benn la poesia, la parola, il canto, l’arte, diventano una forma di rappresaglia materica che noi umani ci sforziamo di erigere per rimanere a galla sul nonsenso. Come esseri creatori di parole, per Benn, fabbrichiamo smalto sul nulla. Puoi dirmi, qual è, secondo la tua visione, la causa remota che genera questo nulla, questo “silenzio delle sirene”? Provo a ripartire da quanto detto poco fa. Credo ci sia una specie di conflitto permanente tra due forme della materia. C’è il nulla al quale fa riferimento Benn, ovvero, dal mio punto di vista, la materia nella sua neutralità, nella sua serena indifferenza, e c’è la materia linguistica, lo smalto, meraviglioso nella sua impotenza, il nostro tentativo di dare forma alla materia polarizzandola, usando le parole per contrastare la consapevolezza traumatica della neutralità delle cose. Alla fine di Verso la foce Gianni Celati sintetizza questo legame in modo splendido: «Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo». Quello che facciamo raccontando credo sia proprio questo: verificare la serenità di ogni fenomeno e pretendere di scuoterlo convocandolo attraverso le parole. Restando a Benn penso a quanto sia commovente l’ostinazione con la quale la sua lingua insegue, come una muta di cani con la preda, la percezione di ogni fenomeno. In un libro come Cervelli, per esempio, questa disperazione si trasforma in felicità disperata: il mondo è in fuga e le parole lo inseguono (in realtà il mondo non è in fuga, il mondo corre senza fuggire, è una preda mobile ma sostanzialmente indifferente, solo che la logica delle parole è talmente pervasiva da indurci a immaginare – ed è un’immaginazione buona – che sia in atto una fuga: così, inseguendo, esistiamo).

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E l’inferno, da scrittore ed evocatore di simboli, come lo immagineresti? Penso che la mia immaginazione di una cosa come l’inferno sia profondamente condizionata dalla tradizione cattolica nella quale sono cresciuto, fra l’altro malamente metabolizzata; sopravvivono incrostazioni sparse, muffe del pensiero. Nel momento in cui cerco di prescinderne penso all’inferno come a ciò che accadrebbe se dovessimo rinunciare – e con questo mi ricollego a quanto dicevo prima – ai nostri tentativi di invenzione di senso. Veder scomparire l’oggetto sullo sfondo, e dunque rendersi conto di poter subire la stessa sorte, da un lato è una tentazione potentissima, dall’altro penso conduca a uno stato d’animo insostenibile. In Il tempo materiale i tre bambini Nimbo, Raggio e Volo bandiscono l’ironia dal loro mondo e fondano una cellula che si ispira alle BR (il NOI Nucleo Osceno Italiano). Protraggono fino alle estreme conseguenze la coerenza logica che sottende al loro linguaggio, retto su una precisione assoluta. Fino a decidere di sequestrare e uccidere, come Aldo Moro, il loro compagno di classe Morana, il più vulnerabile. Perché lo fanno? Perché hanno il bisogno di dimostrare e dimostrarsi che il linguaggio è un’azione efficace, in grado di generare conseguenze, anche (e forse soprattutto) conseguenze estreme. È come se nel romanzo Morana venisse ucciso da una pratica linguistica ostinatamente compatta e disperatamente refrattaria, un linguaggiomassa che vuole esistere come strumento autistico, qualcosa che non riuscendo a farsi esperienza umana sceglie di coincidere con il disumano più spietato. Dunque sono vittime dell’estetismo? Dello smalto sul nulla, per tornare a quanto si diceva prima... O almeno del prendere troppo sul serio la necessità di coerenza logico-linguistica dell’ideologia... Sono esse stesse vittime del linguaggio? Sono sicuramente vittime dell’idea di linguaggio che hanno trasformato in ideologia. La loro pretesa di assumere l’esperienza linguistica non come problema infinito ma come soluzione definitiva non può che condannarli a un fallimento sistematico. Come in ogni destino fondato su un tentativo paradossale (come in Sisifo, in sostanza), in loro c’è qualcosa che intenerisce e ripugna. Qual è il lato più comico della morte che ti viene in mente? La messinscena della morte è in sé un oggetto incandescente, un tentativo al limite dell’impraticabile. Lo aveva compreso Jacques Rivette quando in un suo articolo per i Cahiers du Cinéma analizzò ed esecrò la scelta formale compiuta da Gillo Pontecorvo in Kapò. Per Rivette mettere in scena la morte ricorrendo a un carrello e facendo assumere al personaggio che muore una postura plastica 164


è “abietto”. Al di là del caso specifico Rivette rivendicava la necessità, in ambito narrativo, di una prospettiva etica che non doveva mai subordinarsi a un eventuale impulso estetizzante. Forse anche a partire da questo scrupolo – a volte avvertito e affrontato, molte altre ignorato – nel corso del tempo la morte è stata “trattata” in modi diversi. Per tanto tempo è coincisa con il momento culminante di una vita e dunque allestita di conseguenza. Nel momento in cui il principe Andrej è ferito a morte, Tolstoj, scrivendo a partire da una determinata idea di mondo che nel 1865 ha valore e fondatezza, dà forma solenne ed eroica alla sua sofferenza, e lo fa attraverso un correlativo potentissimo: «Sopra di lui non c’era già più nulla se non il cielo: un cielo alto, non sereno ma pure infinitamente alto, con grigie nuvole che vi strisciavano sopra dolcemente». Quando nel 1975 Woody Allen in Amore e guerra riattraversa la letteratura russa alludendo esplicitamente in una scena alla morte del principe Andrej, lo fa iniettando ironia, ovvero sgretolando piedistallo e cornice tramite la lente ustoria della demistificazione dei toni più impostati. Nella sua prospettiva il “serio” si è logorato ed è diventato “serioso”. Passa ancora del tempo e nella scena finale del loro primo film, Blood Simple, i fratelli Coen riprendono la logica del correlativo (non so se consapevolmente o no), dunque dell’ultima immagine percepita in punto di morte, e fanno morire un loro personaggio sotto un lavandino, lo sguardo vitreo conficcato nel reticolo dei tubi, una goccia di umidità che si ingrossa e pencola a piombo sull’agonia. L’effetto è meravigliosamente feroce. Insomma, credo che il senso del comico, in tutto ciò che riguarda la morte, abbia a che fare con la distorsione continua della relazione tra la morte e la sua cornice. Alla fine de Il tempo materiale, si ha l’impressione che il protagonista Nimbo riesca a uscire dal buco dove è caduto attraverso il sogno dell’amore per la bambina creola. Rompe l’assedio del linguaggio-massa, il suo cerchio mitopoietico. Il castello dell’alfamuto, che celebra l’autismo del linguaggio-massa. Nimbo con la bambina creola torna all’origine del sogno umano e arriva a pensare, attraverso lei, all’eternità. Fa pace con la memoria, con la percezione che ha di se stesso. Chi è la bambina creola? La bambina creola è proprio questo: una pausa che sporadicamente (ma non casualmente, anzi sempre necessariamente) appare lungo il percorso linguistico di Nimbo. È una zona di esitazione, la possibilità di immaginare un’alternativa, di pensare che il linguaggio non serva a nulla se non accoglie al proprio interno – non come guasto ma come naturale condizione di esistenza – ciò che non può dire, dunque il proprio fallimento. La bambina creola è dove la presunzione di onnipotenza linguistica di Nimbo si sgretola. E come ogni tiranno, Nimbo ha timore e bisogno di fallire. 165


«Che dici, finirà la nottata?» «Certo che finirà. Non può mica essere sempre notte.» «E dopo la notte, il giorno come sarà fatto?» «Proviamo a immaginarlo, no?» «Come dopo un terremoto, o un’inondazione, tutto apparirà manchevole, deformato, pieno di fratture» «Finalmente, direi. Le cose si mostreranno come sono davvero. E noi, cosa faremo quel giorno?» «Ma sì, dai, noi staremo lì a ridere. A sbudellarci dalle risate, cazzo. Hai presente quando ti manca l’aria?» «Sì, faremo cose senza senso. Lasceremo mazzi di fiori sulle nostre tombe vuote per esempio» «E i morti? Intendo quelli che resteranno sottoterra durante il terremoto, che, appunto, moriranno…» «Morti e vivi, saremo tutti dentro il cerchio magico dell’esistenza, no?» «Sì, hai ragione, anche per i morti è impossibile uscire dal cerchio magico dell’esistenza» «Infatti sono tutti qui con noi. Non li senti ridere?»

conosci te steso quando si muore si è tutte le cose Seguendo il flusso del tempo, percorso dallʼuomo in punta di pene, attraversammo le ere. Giunti nella pagina di fronte a te ci imbattemmo, noi per primi, nelle impressioni lasciate su supporti magnetici e cartacei dal passaggio della vita. Dicevano più o meno: Ma nellʼintima immensità della soffitta qualcosa era accaduto e questo qualcosa, pur non negando la successiva alterazione accaduta in lei, la rendeva trascurabile. Leigh-Cheri era stata sensibilizzata alla verità dellʼoggetto. Grazie al pacchetto Camel, non le era più possibile disprezzare un oggetto. Grazie al pacchetto Camel si era liberata dallo sciovinismo dellʼanimato. Tom Robbins, Natura morta con picchio Sono la materia parlante e ti racconto come ho fatto a prendere coscienza di me. «... è morto prima che potessi conoscerlo o, se preferisci, proprio ora che non cʼè, voglio sapere chi era. Finita la birra me ne vado a casa a frugare il disco». Così disse Max riferendosi alla recente morte del padre. 166


«Non lʼhai ancora guardato?! Quando sei arrivato?», disse Thomas rivolgendosi allʼamico rientrato in città. «Appena oggi. Ero uscito solo per comprare la cena poi ci siamo beccati...». «...ora però scappo», aggiunse Max, seccando la birra. «Hai idea di quello che potresti trovare?». Così dicendo Thomas sollecitò lievemente lʼaspettativa di Max che se ne andava. «Sarà pieno di porno!», schivò Max pagando al barista. «Appunto», disse con gli occhi Thomas benevolo. A questo punto i due amici si sorrisero anche con le braccia: una pacca tonfante dove la manica del cappotto è cucita alla spalla e lo sgabello di Max mostrò velocemente il legno lucido e concavo. Max era tornato da Napoli dove aveva frugato lʼimmensa bidonville alla ricerca del disco fisso del padre. «Sarà autentico? Lʼavranno sostituito? Certo non mi è costato tantissimo. Però sarebbe una fregatura. Ma succede a tutti, è troppo un luogo comune», pensava strusciando le scarpe sullo zerbino. Entrò in casa. Max setacciò ogni file del disco, anche quelli già cancellati dal padre. Alle prime luci dellʼalba aveva gli occhi secchi. Però si vedeva che era come se avesse fatto un passo avanti, come se fosse più chiaro a se stesso. Infatti nella ricerca delle sue origini, nello slum napoletano, tra fumi e puzze e facce seccate, aveva recuperato la memoria del padre morto, con lʼaiuto degli sciamani elettronici. Max trovò lʼinconscio familiare nel recuperare quello che fu lʼhard disc del padre. In altri casi i ragazzi venivano derubati, a volte infilati in pile di copertoni cui veniva appiccato il fuoco. Furono i frammenti più esistenzialisti scritti dal padre che gli rimasero tra i neuroni, peggio del grasso del prosciutto crudo tra i denti. «La materia si anima quando cʼè eccitazione, bisogna leccare le mattonelle per farsi svelare i segreti del mondo fisico, altro che acceleratori di particelle», o ancora: «La materia ha più esperienza dellʼuomo, e noi, dei principianti, difficilmente riusciamo ad ascoltare il suo canto, a cogliere il suo essere, la sua natura, la quale appare da principio di fronte a noi, poi in noi. Mano a mano che ci oggettiviamo a partire dalle unghie, i capelli. Dalla guerra». «Nella stanza sghemba ci facemmo amiche anche le sedie. Ascoltammo i loro racconti, le storie di boschi lontani, ci spiegarono che il loro sentire è spalmato su tempi più lunghi perché più statica è la loro fisicità». Poi la visone: «Una notte la materia ci apparve animata, frequenze pulsanti, elettriche onde tuttʼuno con tutto. Era il Tutto che si manifestava, un unico 167


abbraccio, e proprio quando il Tutto si anima, i soggetti sono dimentichi di sé». Cadde un lampo. Max sentì le scintille tra i suoi neuroni simpatizzare con i lampi nellʼatmosfera. Max pensò che il nostro modo di far vibrare lʼaria è parente del tuono. Continuò a leggere: «Anche una sedia può indicarti la via dellʼimmortalità, lʼoggetto che sei a te stesso, ciò che sarai nella morte». Poco prima dellʼalba, con gli occhi come rosse rape, Max scrisse sul suo disco: «Quando cerca di conoscersi, nel momento massimo in cui vede dispiegarsi dietro di sé tutta, dico tutta la sua esistenza, nel suo senso più esteso e completo: è morto. Il conosci te stesso permette di scoprire che il senso cʼè solo quando non è più importante per te. Ovvero il racconto è completo e i conti tornano, solo quando non ci sono più pezzi sulla scacchiera. Quando non ti muovi più! Lì, la tua vita è leggibile agli altri, mentre a te, il senso della vita, ti ha lasciato senza fiato». La vita è un infrangersi, uno sfracellarsi, un essere in tutti e per tutto esposti alle ingiurie del tempo. Dai nonni ai marmocchi passando per zii e conigli domestici. Quando ami una persona vuoi salvarla, non vuoi che muoia; vuoi farla stare sempre meglio, vuoi farla godere tantissimo, vuoi beatificarla. Che succede? Che ne riuscirai a salvare solo parte del DNA, in un altro organismo frignante e maleducato. Non perché dice le parolacce, ma nel senso che considerando la demolizione sistematica dellʼistruzione, non è detto che la prole tua imparerà mai a leggere, ad attingere ai nostri bei millenni di spremuta di meningi. A divenire umana, materia che ama chiamarsi umana. Non è detto che il tuo infante sarà più umano di te. No-no. Lʼevoluzione te la devi guadagnare ogni giorno! Fu inutile perché non servì.

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morte mia madre Le movenze e il sembiante sono i gesti e il viso tuoi, con levità d’esilio lasciati tra gli amici nelle sere festive, lunghe, le domeniche che morivano infilate nell’estate, le tue mosse e il tuo volto sono seta e perle colorate. Ma io vado, vado anch’io come il sole e come te, inchiodo le visioni in mezzo al seno, quando il veleno mi ricorda l’erba lo bevo e mi dilata l’universo dell’abbandono, e poi mi serba la bocca dolce chiusa sul futuro.

ti saluto anche dal mare O sangue o sale, la caravella lascia la baia, si diparte così verso le Indie il rimorchiatore draga il fondo la riva passa il triangolo bianco di una vela tu che non sei più viva ma sei mia madre sine die la tua purezza ha creato la mia vita il mio cuore si è rotto insieme al tuo ora che tutto si sfascia io ti proteggo, ti porto al porto, e tu portami fino alla morte, non mi abbandonare mai.

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chi sente il flusso dei morti, la fiaccola Chi sente il flusso dei morti, la fiaccola, il volo dello zucchero filato, la lana, i soffioni, i ciuffi bianchi, librati a poca altezza dal suo cuore a roteare in cerchi ripetuti sopra le scaturigini del mare, quelle abissali fenditure fredde da dove sgorga il sale senza fine; chi ha l’aureola dei morti sopra il mare irradia come febbre in nervature di foglie, porta in sé l’ultravioletto, i gesti dell’arare e seminare astratti in invisibili scritture Chi sia: si allunga verso l’orizzonte con un tributo teso, individuale, dove tracolla il necessario amore.

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canto di morte di un contadinello dei balcani Il giogo proveniente dalla sera che tiene uniti i buoi pellegrinanti su e giÚ dal campo bruno, alla maniera di una chiavarda, di un lucchetto enorme sopra l’osso del collo: si vedeva che proiettava delle oscure forme di serratura sopra l’erba, a fianco del coltivato, con il legno a schermo dei raggi lunghi di quel sole stanco filtrato in mezzo al ferro e alle colonne vertebrali, coperte in carne e pelo e corna e vita di quegli animali. Poveri buoi, tiravano le cinghie dell’aratro pesante, sulla testa gli scendeva la sera. Mi moriva tutto anche a me che li vedevo appena, mi cadeva del sangue dalle unghie, avevo quindici anni sulle mine, le bestie mi sembravano sorelle.

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la splendida mannaia ruvida La splendida mannaia ruvida calata sui miei pascoli, sui miei passi campo dopo campo, sul pozzo, il luminoso pendolo errante che manda tutto in metamorfosi: a volte li intuisco e non mi va di restare li prendo come bagliori in un castello in rovina come semplici umori, il sangue il flegma e le due bili; io che ho visto tutti i film di Bergman li scarto al modo di fotogrammi inutili. Ma proprio allora mi sorridono le attrici nordiche, un giro di purosangue attorno a una fonte, sento violini usignoli e pressione bassa e dunque cedo e cado come a dire Entrate: a quel punto la Morte batte i tacchi e se ne va.

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Welby l’astronauta Io questa volontà antropoclastica negli ospedali non l’ho mai vista. Durante il mese e mezzo che ho trascorso in rianimazione ho assistito ai preliminari per spiantare una ragazza di diciannove anni colpita da aneurisma celebrale: un viavai di medici che ripetevano l’EEG e le infermiere che piangevano. Un paziente con ictus, con lesioni gravissime al cervello, andò in arresto cardiaco, e l’infermiera che mi stava medicando la trachea mollò tutto e per dieci minuti gli praticò il massaggio cardiaco fin quando l’allarme del monitor cessò. Ripeto: la strage degli innocenti, nel caso venisse approvata una legge sull’eutanasia, è una macabra leggenda metropolitana. Forse nasce perché non abbiamo le idee molto chiare su cosa sia, questa cosa che ci fa tanta paura. E allora chiariamoci le idee! Piergiorgio Welby, Lasciatemi morire, Rizzoli, Milano, 2006

Oggi mi rendo sempre più conto di come insieme a Piergiorgio ci eravamo preparati al nostro comune passo finale. La sua vita è stata prolungata di ben nove anni e cinque mesi con l’utilizzo di tecnologia medicale di ventilazione artificiale. Tecnologie che vengono usate in modo molto simile anche da astronauti. La costrizione del corpo in certi limiti per una persona che non ha scelto questo tipo di vita è dolorosa e la mente trova sfogo nella ribellione, nella rabbia, nella rivolta contro se stesso e contro chi vi ha operato. Alla fine la rassegnazione di Welby: si vede uomo bionico, il ventilatore automatico diventa «la mamma che respira per lui». «Sono diventato pigro, anche per respirare, ed è tanto comodo se c’è qualcosa che lo fa al posto mio». Era un suo modo non solo per sopportare la sofferenza, ma anche per alleggerire la vita a chi gli viveva accanto. È il mio Eroe. Mina Welby La Natura delle Cose Sono un ricatto vivente, uno scomodo memento mori, sono la cattiva coscienza che agita i sonni, sono un ammonimento inquietante per un’umanità convinta di aver conquistato l’immortalità. Piergiorgio Welby (2002)

Guardare in faccia la realtà per smettere di averne paura, osservando la pelle candida del bambino, il seno gonfio tra le mani di un uomo, i solchi del sole e della pelle, il camminare, il correre, il cadere. Non la vita e la morte, ma il nascere e il morire, come percorsi naturali. La Natura delle Cose è un film che trae dall’antico libro di Lucrezio, il De Rerum Natura, il punto di vista da cui osservare l’avventura della vita, con il coraggio di accettarne il suo essere finita e per questo preziosa. Il film è un percorso di liberazione dalla paura immobilizzante della morte, in un 173


racconto visionario che intreccia l’evoluzione di due protagonisti: Piergiorgio Welby, poeta ed eroe civile che lotta per riavere la sua morte, in una vita per lui ormai troppo artificiale, fatta di troppi tubi e macchinari, e la Natura, nel suo trascorrere graduale e incantevole delle stagioni e delle età, nel suo incessante e rispettoso ascolto degli inizi e delle fini. La voce off di Piergiorgio, tratta dai suoi più commoventi e lucidi racconti dedicati all’amore per la vita, è montata su immagini di materiale d'archivio astronautico. Pensieri che spaziano dai sogni e dalle passioni giovanili alla crudele e progressiva perdita dell'uso corpo a causa della distrofia. Passo dopo passo, emergono le trasformazioni interiori di un uomo fisicamente immobile, ma spiritualmente leggero e ribelle, perché libero dall’angoscia del morire. Lo sfondo astronauta fa da paesaggio e contro-canto ai racconti di Piergiorgio. L’intento è quello di far dialogare in modo lirico le contraddizioni del progresso, facendo toccare e stridere la malattia che paralizza con la dolcezza del corpo in assenza di gravità, la morte dell’eroe Welby con il ritorno a Terra dell’eroe Astronauta. Missioni estreme, parallele e speculari. Si tratta in entrambi i casi di persone e corpi, la cui vita è resa possibile esclusivamente dalla tecnologia. Se da una parte però questa spinge a superare se stessi, a volare, a realizzare un sogno, dall’altra, per Welby, è diventata gabbia da cui scappare. Preparazione, Volo, Missione e Ritorno, le tappe fondamentali “dell’astronauta Welby” si intrecciano con i quattro momenti del ciclo naturale, Primavera, Estate, Autunno e Inverno, in un percorso che va dal nascere al morire, dove il suono delle stagioni è un tutt’uno con il respiro del corpo che cambia, dal pianto al silenzio. La Natura, l’altra grande protagonista, entra ed esce dal film attraversi quadri visivi e sonori dove l’incanto, la bellezza e l’incedere delle stagioni, cambiano accanto alle trasformazioni dell’essere umano: lo sbocciare primaverile insieme ai gemiti del parto, il calore temporalesco insieme alla passionalità di un ballo popolare, la dolcezza della pioggia autunnale insieme alla condivisione di un rito funebre, e infine il silenzio della neve insieme a vecchi volti vissuti dal tempo, la cui vita si dispiega tra i disegni delle rughe. Quadri di sospensione, dove ammirare la naturalità di un percorso più grande del singolo individuo, e dove il singolo individuo può ritrovare contatto con se stesso perché parte di una poesia più alta, fatta di paesaggi, gesti, suoni e volti. La Natura delle Cose è un Film Poesia, dove l’avventura di Welby si compie insieme all’avventura naturale delle stagioni e delle età, restituendo bellezza al miracolo del vivere grazie al mistero e alla preziosità della fine. Il brano La Natura delle Cose è un'anteprima del soggetto per il film documentario omonimo1 tratto dalla vita e dal pensiero di Piergiorgio Welby, realizzato da Laura Viezzoli e Mina Welby, prodotto da Lorenzo Cioffi e Francesca Mattioli per LADOC. 1 Il film è in fase di sviluppo e ricerca fondi. Per informazioni e sostegno: Francesca Mattioli frmatteoli@ hotmail.com, Lorenzo Cioffi lorecff@gmail.com

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alle tette alle canne alle scale ah quando eravamo giovani... ma giovani davvero e il mondo sembrava più sincero e il mondo sembrava più vero quando sembrava che da ogni nostra singola scelta o tesi o proposta o temerarietà potesse dipendere tutto un futuro diverso per noi e per il mondo quel mondo invisionato così limpido e coeso così sincero e vero ora sì certo ci sono le gioie e le noie e momenti belli e brutti ma ci vogliono orrori pseudomiracoli eventi straordinari congiure psicodrammi sospetti e svelamenti brillii o criografie oltretombali a ravvivare tra l'una e l'altra astanteria tragitti untuosi e metropolitani dove gli unici saluti son'i sberleffi dei passanti [ah ma i ragazzi numinosi al trentasei...] e nella notte di terrore e di trambusti squallidi e kitsch a muoversi sono ora solo i riflessi mostruosi sul mappamondo non più sincero e vero ma ora vano vacuo vanesio delirio d'onnipotenza inutile e vuoto ora e poi io non ho cose o casi o case da dare laonde per cui mi devo cabotare allo scopaggio di vecchie carni 175


o giovinette mercenarie morbidezze o ankora una panthera nera me l'appoggia per dileggio o contentino e non resta che passare nottata in attesa che buriana passi e girare come un pazzo in contromano sotto la pioggia intra le nebbie con la macchina in tondo o con periglio evitando quelle strade famigerate strade dove ombre di fantocci incappucciati che cupi e tetri puntano a me i loro fucili di ectoplasmi cecchini biechi che da ogni feritoia sembrano pi첫 e pi첫 spettri -- e cupi e tetri -che in un pacchiano matrix si annidano e mi vogliono am-maz-za-re [ah ma i ragazzi numinosi al trentasei...]

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indice dei nomi Abbado Claudio Adorno Theodor W. Agamben Giorgio Albertazzi Silvia Alfano Miglietti Francesca Allen Woody Andrews Julie Anedda Antonella Animal Collective Anouiulh Jean Arbasino Alberto Arendt Hannah Armstrong Herbert W. Ash Daniel Baldacci Alessandro Balderston John Ban Ki Moon Barba Eugenio Barbarella, Barthes Roland Bartók Béla Bataille George Bauhaus Bazlen Bobi Bell William Bellezza Dario Ben Ali Zine El-Abidine Bendandi Raffale Benn Gottfried Berg Alban Berg David Berlioz Hector Bernardo di Turingia Bernoulli Jaques Bettany Paul Bianco Elio Bin Laden Osama Bickers Patricia Boitani Pietro Bongiorno Mike Booth John Wilkes Bouazizi Mohamed Boulez Pierre Boyle Danny Brie César Brooks Max Burton Tim Cacciari Massimo Cage John Casadei Alberto Casali Renzo Cave Nick Celati Gianni Coen Joel e Ethan Copland Aaron Cortellessa Andrea Cossiga Francesco Cowell Henry Cruz Lusiano Damrosch Walter de Cusa Nicholas De Martino Ernesto De Seriis Lino

77 64, 67 26, 120 145 152 165 156 161 57 26, 27 106, 108 26 123 63 161 63 76 146 156 151 17 26 63 160 122 161 74 123 163 70 124 16 122 122 96 123 20 I, 40 10 I 98-100 74-75 70 35 146-147 36 95 78 136 161 146 115 163 165 69 161 I 17 78 69 122 120 77

Dean James Deane Hamilton Diéguez Ileana Dixon Jeane Dodds Eric Robertson Donatoni Franco Dougill John Dylan Bob Einstein Albert Esenin Sergej Ethyl Eicholberger Everett Hugh Ezzafouri Khaled Fabbri Fabriano Farrell Colin Fenoglio Giuseppe Flaiano Ennio Foucault Michel Frabotta Biancamaria Freda Riccardo Friedmann Alexander Gaines Charles Gallaccio Anya Gansel Dennis Gennari Francesco Ghannouchi Mohamed Gheddafi Muʿammar Giovanni di Toledo Gonzales Naira Gor’kij Makim Gramm Lou Grau Friedrich “Nausea” Gravame-Smith Seth Grotowski Jerzy Gualtieri Mariangela Håkansson Henrik Harris Charlaine Hegyi Lóránd Hendrix Jimi Hirst Damien Hoffmann Melchiorre Hon-Ming Chen Huasi Julio Hubble Edwin Huxley Aldous Jackson Michael Jensen Leland Jobs Steve Jones Grace Joy Division Kaoru Izima Kawai Toshio Kelly John Kepler Johannes Khomeini Ruhollah Mosavi Koray Erkin Kubrick Stanley La Capria Raffaele La Penna Antonio Lauriello Alberto Le Jang Lim Lee Henry Lemaitre Georges

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9 63 147 124 11 70 130 115-116 79-80 77 156 82 75 152 96 147 106-109 28, 26 161 96 80 124 18-21 96 151, 153-154 74-75 I 122 146 77 96 122 95 146 5-7 151, 154 95 153 58 20 122 124 78 80 71 117-118 124 I 95 63 151-152 88 156 138 145 58 16 106 161 77 124 115 80


Leowitz Cipriano Libertini Lucio Ligeti György Lincoln Abraham Linde Andrej Long Charles Lugosi Bela Lypsinka Majakovskij Vladimir Malcolm X Mao Tse Tung Marchiori Fernando Marley Bob Marra Claudio Marshall Berman Marziale Marco Valerio Miller William Millikan Ann Milton John Mimnermo Minogue Kylie Moldy Peaches Monicelli Mario Montale Eugenio Morales Evo Moravia Alberto Muller Johann Murphy Peter Musso Giuliana Nazzari Amedeo Newbrough John Ballou Newton Isaac Nicholson Jack Nicosia Salvatore Nono Luigi Nostradamus Obama Barack Pagliarani Elio Pannunzio Mario Pasolini Pier Paolo Penderecki Krzysztof Peròn Eva Pflaumen Jakob Pinder Lucy PJ Harvey Plath Sylvia Pollini Maurizio Pollock Jackson Paul Pontecorvo Gillo Porta Alberto Powell Lewis Princiotta Carmelo Quiroga Santa Cruz Marcelo Rasmussen Iben Nagel Rella Franco Restagno Enzo Rivette Jacques Roeslin Helisaeus Romero George A. Ronconi Cesare Rosselli Amelia Rushdie Salman Russell Charles Taze Rutherford Joseph Franklin Sabbati Zevi di Smirne Salomone Eccles

122 77 16-17, 71 95, 98-100 82 123 63 156 77 77 136 147 9 151 57 106-107 123 71 71, 115 11 115 55-57 I 161 146 106-108 122 63 110, 112 32-34 123 125 17 12 77-78 122, 124-125 36 161 107 106-107, 161 17-18, 71 40 122 95 115 160 77 77 164 123 98-100 161 147 146 19 77-78 164-165 122 35-36 5-6 160-161 144-145 123 123 123 123

Sánchez Sonia Sanguineti Edoardo Scataglini Franco Schnyder Jean Frédéric Schoenberg Arnold Schumacher Joel Sciarrino Salvatore Sculthorpe Peter Seconda Scuola di Vienna Sereni Vittorio Serrano Andres Sex Pistols Sheldon Lee Siouxsie and the Banshees Snow Samuel Sofocle Sordi Alberto Southcott Joanna Staffler Johann Stockhausen Karlheinz Stratos Demetrio Streisand Barbra Sun Myung Moon Swedenborg Emanuel Taborda Raul Damonte “Copi” Tan Dun Tarantino Quentin Taricone Pietro Teiji Furuhashi The Cure The Doors The Exploited The Strokes Thomas Louis-Vincent Timpane Justin Timpone Anthony P. Tolstoj Lev Turner John Turner Kevin Turrel Pierre Tutuola Amos Ugarek Gary Ugarek Ungaretti Giuseppe Vasta Giorgio Venturini Vernant Jean-Pierre Verzotti Giorgio Von der Weid Jean-Noël Walter Benjamin Webern Anton Weil Simone Welby Piergiorgio Wendy Carlos Wenk Richard Wesley John Whiston William Wilcock Juan Rodolfo Winehouse Amy WroeJohn Xenakis Iannis Zanzotto Andrea

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77 I 64-65 116 70 96 71 137-138 70 161 151-153 56 115 63 123 27 33-34 122-123 122 17, 69 69 156 123 122 40 136-137 148 I 157 63 96 56 57 6-7 95 35-36 165 122-123 130 122 144 95 77 162 161 10, 12 153 78 95 70 19 173-174 16 95 122 122 106 I, 76 123 71 I, 161


topografiche Sconosciuto | © Mattia Santini, 2011 Dolore di Maria sul Cristo morto | Niccolò dell'Arca, Santa Maria della Vita, Bologna, 1462 | © sconosciuto Il pugile pesi massimi Jack Dempsey colpisce Harry Houdini (tenuto fermo dal pugile pesi leggeri Benny Leonard) | © sconosciuto / United States Library of Congress ID: ggbain.50392 Cheloidi gravi, o cicatrici, causati dalle radiazioni termiche | Hiroshima 1946 | © sconosciuto Il Cristo delle Trincee | dalla battaglia della Neuve Chapelle, 1915 | © sconosciuto Animals | © Giacomo Burnelli Sconosciuto | © sconosciuto Sconosciuto | © sconosciuto Birthday Party V | From the serie Birthday Party | © Vee Speers Sconosciuto | © sconosciuto Unità industriale. La sposa | © Giordano Morganti Re-ruined Hiroshima | © Arata Isozaki, 1969 Ultimo albero rimasto sul Montesanto | © sconosciuto

! argocrociere Prenota un posto: ABBONATI! * quattro numeri a 30 €, anziché 40 € * due abbonamenti (uno per te e uno da regalare) a 50 €, anziché 60 € * abbonamento sostenitore | argonauta onorario: saga completa di Argo (nn. 1-15) + altri 4 numeri a 100 € Versamento tramite bollettino postale: conto corrente n. 51946051 intestato a: ASSOCIAZIONE NIE WIEM – Casella Postale n. 138 / 60123 Ancona, indicando nello spazio per la causale: “Sostegno attività + Rivista ARGO nn. 17-20” e l’indirizzo di spedizione. Versamento tramite bonifico: conto corrente bancario n. 51946051 presso Poste Italiane Spa, intestato a: ASSOCIAZIONE NIE WIEM – Casella Postale n. 138 - 60123 Ancona, ABI 07601, CAB 02600, CIN: B, IBAN: IT05B0760102600000051946051, indicando come causale “Sostegno attività 2009 + Rivista ARGO NN. 1720” e l’indirizzo di spedizione. Una volta effettuato, inviare la ricevuta di pagamento, assieme al presente modulo debitamente compilato, via fax al n. 071/2073067


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finito di stampare a novembre 2011 presso Digitech Srl / 62019 Recanati


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