Prospettiva Ep gennaio agosto 2013

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Anno XXXVI n. 1-2 Gennaio - Agosto 2013

prospettiva EP Filosofia e educazione

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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - agosto 2013 - n. 1-2 Direttore: SIRA SERENELLA MACCHIETTI Comitato Scientifico: FERDINANDO ABBRI, GIUSEPPE ACONE, GABRIELLA ALEANDRI, SERGIO ANGORI, WINFRIED BÖHM, ROSSANA CUCCURULLO, FABRIZIO D’ANIELLO, ANNA GLORIA DEVOTI, JUAN GARCIA GUTIERREZ, JOSÉ ANTONIO IBÁÑEZ-MARTIN, ROSETTA FINAZZI SARTOR, FERDINANDO MONTUSCHI, LANFRANCO ROSATI, GIUSEPPE SERAFINI, BIANCA SPADOLINI, GIUSEPPE VICO Redazione: NICOLETTA BELLUGI, FRANCA PUGNALINI Redazione e direzione: c/o Mencarelli – Via F.lli Bimbi, 20 – 53100 Siena Amministrazione: Armando Armando Editore Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Tel. (06) 5894525 Fax. (06) 5818564 ABBONAMENTI 2012 Abbonamento annuo per l’Italia Un fascicolo Un fascicolo doppio Abbonamento annuo per l’estero

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Autorizzazione del Tribunale n. 70/94 del 23.2.1994 ISSN-1125-39-75

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Quadrimestrale di Educazione permanente Rivista fondata da Mario Mencarelli gennaio - agosto 2013 - n. 1-2

Filosofia e educazione Editoriale (s.s.m.)

Pag.

Studi M. MICHELETTI, Premessa » G. SERAFINI, Filosofia dell’educazione e pedagogia » M. MICHELETTI, L’educazione morale tra formalismo analitico edetica delle virtù » S. BROGI, Teste piene o teste ben fatte: Ars vivendi e ars scribendi in Montaigne » F. ABBRI, Teoria critica, educazione e educazione estetica » A. GIAMBETTI, Diventare persona. per una pedagogia personalista di matrice ricœuriana » S. MORIGI, Su l’idolatria » Ricerche M. CORNACCHIA, Un modello organizzativo per il sistema complesso. L’attualità dell’opera di Duilio Gasparini sul tema dell’organizzazione scolastica » R.G. ROMANO, Tempo vissuto e Kairòs in educazione » M. CANUTI, questioni sullo studio (e l’insegnamento) dell’etrusco » F. D’ANIELLO, F. GOFFI, The “shape” of post-modernity and contemporary art: pedagogical reflections and didactic suggestions » C. PANTALEO, Con Maritain oltre il Novecento: vita e pensiero in dialogo nella verità » Recensione D. CIUFEGNI, La pecorina Smarrita e i misteri della vita (S.S. Macchietti) R. Cuccurullo, Educare al futuro (Nota Redazionale) Aa.Vv.-CSSC, Educare alla vita buona del Vangelo nella scuola e nella FP (Nota Redazionale)

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IN DIALOGO PER L’EDUCAZIONE

La Premessa di Mario Micheletti al segmento monografico di questo fascicolo di “Prospettiva EP” presenta con puntualità i vari contributi che lo compongono e richiama l’attenzione sull’impegno testimoniato da alcuni colleghi filosofi per confrontarsi seriamente «nell’ambito delle proprie linee di ricerca sul tema specifico dell’educazione». Si tratta pertanto di una Premessa che si configura come l’Editoriale di questo fascicolo nel quale i filosofi hanno rivolto l’attenzione ad esperienze di dialogo tra la pedagogia e la filosofia e hanno “messo in luce” intuizioni e proposte educative che arricchiscono le conoscenze relative all’educazione. Questo fascicolo dimostra dunque l’efficacia del rapporto e del confronto tra filosofia e pedagogia agli effetti della costruzione di un’antropologia pedagogica capace di conferire significato e senso all’educare. È quindi auspicabile che il dialogo tra filosofi e pedagogisti possa continuare a dare “buoni frutti” ed è doveroso ringraziare gli autori dei saggi pubblicati in questo fascicolo e sottolineare la fecondità del rapporto tra studiosi di due scienze che, nel rispetto della loro identità, possono stimolarsi ed arricchirsi reciprocamente. Infine un ringraziamento particolare va a Mario Micheletti, che ha magistralmente organizzato e curato questo fascicolo. s.s.m.

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PREMESSA Mario Micheletti Questo fascicolo monografico di “Prospettiva EP” è dedicato al tema “Filosofia e educazione” ed è il frutto della collaborazione di studiosi che appartengono o fanno riferimento al “Dipartimento di Scienze dell’educazione, Scienze umane e della comunicazione interculturale” dell’Università di Siena, sede di Arezzo. C’è una chiara continuità col fascicolo del 2010 dedicato a “Diritti, coscienza e tolleranza: problemi filosofici…”, curato da Ferdinando Abbri, con la differenza che questa volta l’attenzione di pedagogisti e filosofi è più direttamente concentrata sulla problematica educativa. Prosegue in questa forma la proficua collaborazione tra pedagogisti e studiosi di discipline filosofiche, promossa in vari modi da Sira Serenella Macchietti, per lungo tempo professore ordinario di Pedagogia generale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena. Il mio stesso interesse per temi connessi con l’applicazione della filosofia morale all’ambito educativo è nato per le sollecitazioni di Sira Serenella Macchietti a intervenire, tramite conferenze, seminari e convegni, nelle attività scientifiche da lei organizzate, in particolare presso la nostra comune struttura universitaria di appartenenza. Il dibattito su “Filosofia e educazione” è particolarmente delicato in quanto, specialmente in Italia, condizionato da un passato storico in cui il riconoscimento dell’autonomia delle scienze dell’educazione è stato ostacolato dalla pretesa neoidealistica alla “egemonia” filosofica o addirittura alla risoluzione sistematica delle discipline pedagogiche nella filosofia. È evidente che riconoscere oggi un qualche ruolo alle discipline filosofiche nello studio del fenomeno dell’educazione non significa riproporre il rapporto tra filosofia e pedagogia in quei termini ormai obsoleti, e inaccettabili. Il saggio di Giuseppe Serafini in questo fascicolo, frutto delle sue competenze nei campi della Storia della pedagogia e della Filosofia dell’educazione, mette chiaramente in luce in quali termini si profili oggi il compito della Filosofia dell’educazione. Nello sviluppo storico della

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pedagogia italiana, osserva Serafini, l’opposizione al modello gentiliano ha sollecitato una riflessione molto ampia sulle possibilità di un punto di vista propriamente pedagogico, nonché sui rapporti con le altre discipline dalle quali è possibile indagare (ed effettivamente si indagano) i fenomeni educativi. Da un lato Serafini sostiene che la “pedagogia generale” include in qualche modo un momento filosofico, il filosofare dei pedagogisti, non chiuso ovviamente alla collaborazione con gli studiosi di filosofia, dall’altro mostra come la pedagogia si giustifichi come disciplina specifica, in quanto si occupa della pratica educativa per indagarne le peculiarità, per descriverne le molteplici modalità, ma anche per valutarne le intenzioni, i progetti, i risultati. La riflessione antropologica è ciò su cui più si è concentrato il filosofare dei pedagogisti italiani a partire dagli anni del secondo dopoguerra. Di fronte a molte forme attuali di “riduzionismo”, Serafini osserva giustamente che un’idea dell’uomo che lo privi della sua dignità e della possibilità d’esser libero toglie significato vero all’educazione che si riduce allora a nient’altro che a una sorta di condizionamento. La considerazione di Serafini che è forse proprio la pratica educativa a mostrare molti dei limiti teorici di talune conclusioni sulla natura umana è simile a quella con cui si apre il mio intervento, la considerazione che una riflessione seria sulle istanze interne al momento della formazione può addirittura indicare la via verso un riorientamento critico nell’ambito stesso della filosofia morale. Serafini nota nel suo saggio che è a cominciare dagli anni Sessanta del secolo scorso che, per le sollecitazioni provenienti dalla filosofia analitica, hanno cominciato a svilupparsi a livello internazionale gli studi sul linguaggio dell’educazione, che in Italia sono stati presentati ed approfonditi anche come studi sul “linguaggio della pedagogia”. Nel mio contributo mi occupo proprio di filosofia analitica dell’educazione, trattando in particolare il tema dell’educazione morale alla luce del paradigma, elaborato nell’ambito della filosofia morale, dell’etica delle virtù, ma anche con la consapevolezza, in accordo con la prospettiva difesa da R.S. Peters, delle implicazioni normative, in generale, del concetto di educazione. Diversi saggi affrontano il tema dell’educazione in una prospettiva prevalentemente storica. Stefano Brogi affronta con competenza e rigore storiografico il tema dell’educazione in Montaigne attraverso il confronto che l’autore degli Essais stabilisce fra ars vivendi e ars scribendi. Sebbene in Montaigne vi siano importanti riflessioni di carattere pedagogico, osserva Brogi, in lui prevale una diffidenza generale verso ogni modello educativo precostituito, poiché nella sua opera di autoformazione il suo unico obiettivo è di sviluppare al massimo tutte le proprie potenzialità. Il fatto è che la grande impresa pedagogica di Montaigne riguarda appunto essenzialmente se

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stesso e coincide proprio con la scrittura degli Essais. L’ars vivendi si apprende come si impara la sapienza dell’artigiano, che ogni giorno si mette di nuovo alla prova e che è così diversa dalla boria dell’erudito, convinto di aver immagazzinato per sempre il proprio sapere. L’immagine che Ferdinando Abbri presenta di Herbert Marcuse è particolarmente interessante perché mette in luce in modo originale un aspetto poco conosciuto di tale filosofo: Marcuse, il filosofo del ‘68, il teorico di riferimento dei movimenti studenteschi e antimperialistici che animarono quella stagione politica, è sempre stato un difensore strenuo della grande tradizione culturale europea. Le sue conferenze sull’educazione del 1968 e del 1975 hanno, secondo Abbri, una diversa struttura argomentativa a ragione dei differenti momenti storici in cui furono tenute, ma mettono entrambe in evidenza l’attenzione di Marcuse al problema della formazione e il suo progetto per una fondazione dell’educazione su un curricolo filosofico, umanistico e scientifico di alto profilo culturale. Andrea Giambetti discute di filosofia e educazione a partire dal significativo contributo filosofico di Paul Ricoeur. Giambetti mostra in modo convincente come la “filosofia pratica” di Ricoeur in diversi momenti intersechi i nuclei fondamentali delle scienze dell’educazione e come alcuni temi della speculazione ricœuriana si inseriscano con originalità e fecondità all’interno della riflessione pedagogica personalista contemporanea, a partire dalla considerazione del significato del rapporto interpersonale nelle pratiche educative. Si possono confrontare taluni aspetti del personalismo pedagogico posti qui in evidenza con riflessioni analoghe sul personalismo sviluppate da Serafini, nel suo saggio, in rapporto principalmente alla situazione culturale italiana. Riferimenti puntuali a Mounier caratterizzano il testo di Giambetti, ma sono presenti, appunto, anche nel contributo di Serafini, e, in un contesto assai diverso, nell’originale saggio di Silvio Morigi, che si differenzia dagli altri in quanto si muove in un ambito concettuale teologico e di filosofia della religione, concentrandosi in modo particolarmente significativo sul tema dell’idolatria, che sembra lontano da tematiche educative, ma ha invece, a giudizio di Morigi, ricadute non irrilevanti a livello educativo. Morigi da un lato mette in luce la “relazione”, anzi la “reciprocità”, che garantisce la pienezza della relazione, tra un “io” e un “tu”, per cui, secondo un rilievo di Martin Buber, citato da Morigi, i nostri allievi “ci formano”, e noi “veniamo educati dai bambini”, dall’altro sostiene che questa “reciprocità” è, e deve essere, limitata, proprio al fine della sua efficacia educativa. Ne deriva un’asimmetria, nella relazione tra educatore e discepolo, che viene ad assumere inevitabilmente, in quest’ultimo, un carattere mimetico. Ora, la mimesis, osserva Morigi, seguendo Girard, è estremamente ambigua, anzi essa può condurre ad esiti devastanti se si irrigidisce in idolatria del modello.

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I diversi studi raccolti in questo fascicolo mirano, in definitiva, muovendo da prospettive diverse, a far luce sul rapporto tra filosofia e educazione, anche attraverso la considerazione e l’approfondimento di figure e momenti di rilievo nello sviluppo storico della riflessione filosofica sul concetto di educazione e sulle pratiche educative, con particolare riguardo al contesto intellettuale contemporaneo. Desidero ringraziare gli amici e colleghi che hanno accettato di collaborare a questo progetto, impegnandosi seriamente a confrontarsi, nell’ambito delle proprie linee di ricerca, col tema specifico dell’educazione. Ringrazio in modo particolare la direttrice di “Prospettiva EP”, Sira Serenella Macchietti, per aver ideato questo fascicolo monografico e per avere, in questo modo, ancora una volta incoraggiato la collaborazione tra filosofi e pedagogisti.

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FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE E PEDAGOGIA Giuseppe Serafini Abstract: The purpose of these pages is to show the meaning, the functions, the space of a philosophy of education which has always been present in the field of pedagogy from which, however, must be distinguished. Riassunto: Scopo di queste pagine è quello di mostrare il significato, le funzioni, lo spazio di una filosofia dell’educazione da sempre presente nell’ambito della pedagogia dalla quale, tuttavia, deve essere distinta. Parole chiave: educazione, filosofia dell’educazione, pedagogia, didattica, storia della pedagogia.

1. Un tema sempre attuale È questione questa molto viva nell’ambito della nostra pedagogia, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, che segna anche la fine di una stagione culturale nella quale si era negata la possibilità di un’identità per la pedagogia, che non fosse altra rispetto a quella di un suo reinserimento pieno all’interno della filosofia, relativamente alla quale si ammetteva soltanto una distinzione dialettica perché – e richiamo la principale fonte critica di un modello disciplinare pedagogico, che si era venuto affermando nella riflessione, nel nostro paese, nell’Ottocento – «il concetto dello spirito come svolgimento segna il riassorbimento della pedagogia nella filosofia» (Gentile, 1982, 13). Del resto, quando educatore ed educando si fondono (senza più possibilità di distinguersi) nell’atto vivo dell’educare non ha più ragion d’essere un sapere (quello prodotto dalla pedagogia come disciplina pratica) che tenti di supporre quello che dovrebbe esser fatto, che questo (ciò che dovrebbe esser fatto) appare e si realizza nell’atto stesso del fondersi, nel quale le due individualità, e mi ripeto, non sono più due (con conseguenze per l’educando, che sono facili da immaginare perché nessuno gli riconosce diritti che gli appartengono in quanto essere umano e, dunque, nessuno può salvaguardarlo da possibili manomissioni, strumentalizzazioni, prevaricazioni, che sono tutt’altro che un’eventualità remota in quella visione dello stato e dell’individuo in esso). Con la chiusura di quella stagione profondamente segnata dal neoidealismo (soprattutto gentiliano), si ripropone con urgenza e con forza, nell’ambito del pedagogico, il tema dell’identità di una disciplina che si vuole altra dalla filosofia (senza con ciò legittimare alcun tentativo che

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rescinda legami con quell’ambito). Emblematico al riguardo è Esiste la pedagogia? di Casotti, che esce nel 1953. Quanto alla prima metà del Novecento, occorre dire che nel nostro paese non ci sono soltanto pedagogie (e filosofie dell’educazione) neoidealistiche che già in quegli anni incontrano critiche approfondite e fortissime (tanto sul piano teorico che metateorico, tanto, cioè, relative a quel teorizzare sull’educazione, quanto al teorizzare sulla pedagogia). Ma queste ultime, però, non trovano le condizioni per potersi affermare e questo per una serie di ragioni che non è qui il caso di ricordare. Tornando al discorso relativo agli anni cinquanta, deve esser sottolineato come l’opposizione al modello gentiliano solleciti una riflessione molto ampia sulle possibilità di un punto di vista propriamente pedagogico, sulle delimitazioni di un’ottica, sui rapporti con le altre discipline dalle quali è possibile indagare (ed effettivamente si indagano) i fenomeni educativi. In quest’ultimo contesto e quadro, un’attenzione particolare è rivolta al rapporto con la filosofia e al significato in sé e in relazione al pedagogico, della ricerca filosofica sull’educazione. L’ultima questione riceve in quegli anni, ma anche successivamente, un’attenzione speciale: tanto speciale da portare a giustificare che gli stessi pedagogisti possano assumersi (anche se, per la verità lo avevano e lo hanno sempre fatto) l’onere d’una riflessione (filosofare sull’educazione) che affronta questioni non eludibili per la ricerca propriamente pedagogica, nella quale, poi, non di rado, si include quella stessa riflessione, dimenticando che così si finisce per riportare la pedagogia dentro la filosofia. Una cosa, infatti, è giustificare che il pedagogista possa, in taluni casi e per certi problemi, assumere un punto di vista che non è suo, altra cosa è immaginare che questo appartenga al suo specifico. Nell’impegno di riflessione filosofica dei pedagogisti non c’è la volontà (anche se non sempre è chiaro, anche se talvolta si cede alla tentazione d’esser più filosofi dei filosofi) di sostituirsi ai filosofi – i quali non necessariamente possono o debbono avvertire necessità che sono proprie del pedagogista (di chi guarda all’educazione dall’ottica pedagogica) – ma c’è appunto l’urgenza di dar risposta a questioni non aggirabili e che esigono d’essere affrontate dall’ottica filosofica. Quel che avviene allora non è qualcosa di molto differente rispetto a ciò che si verifica in tutti gli altri ambiti disciplinari anche se probabilmente nell’ambito pedagogico questo avviene in maniera tutta speciale.

2. La riflessione filosofica in pedagogia A partire dalla fine degli anni cinquanta cresce, dunque, all’interno dell’ambito pedagogico un cospicuo patrimonio di sapere – frutto del

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filosofare dei pedagogisti che mostrano d’essere aperti al confronto con il più ampio universo filosofico – nel quale trovano anche spazio risposte circa il significato di quell’impegno di ricerca che lo ha prodotto, sulle funzioni dello stesso, sulla sua estensione, ecc. In merito a questi ultimi aspetti, deve essere necessariamente ricordato il numero 1 e 2 del 1976 della rivista “Scuola e Citta”, curato da Bertin, il quale raccoglie le risposte di un cospicuo numero di pedagogisti italiani (ma non solo), ai quali era stato chiesto di riflettere proprio sulla filosofia dell’educazione (che diviene anche il titolo dato a quel numero: La filosofia dell’educazione, oggi). Ciò che da queste pagine emerge è che i pedagogisti affidano al loro filosofare alcuni grandi compiti, tra i quali devono essere almeno ricordati: a) la comprensione (battendo certi itinerari tipicamente filosofici) di quel che l’educazione è realmente (e di ciò che la differenzia da fenomeni che paiono simili ma che sono tutt’altro) e la descrizione delle forme tipiche in cui essa si dà; b) l’analisi critica del linguaggio e dei concetti pedagogici (ma anche delle altre scienze che si occupano dell’educazione); c) la giustificazione e offerta d’una prospettiva umana perché non c’è possibile discorso sull’educazione e non c’è pratica educativa, che possano prescindere dal riferimento (o che non siano riconducibili) ad una idea di uomo (educare – nel senso più ampio del termine – è sempre sollecitare umanità, aiutare qualcuno a crescere come uomo o come donna, stimolare umanità più autentica, competente, ecc.); d) la critica nei riguardi dell’ideologia (cioè dei legami uomo-società-educazione nel quadro di cui al punto precedente); e) la ricerca e la definizione di una meno incerta identità disciplinare per la pedagogia (un filosofare sulla pedagogia come disciplina, che rende impropria l’espressione “filosofia dell’educazine”, ma di questo in quella stagione non ci si fa problema). Ciò che viene ipotizzato al punto (a) non produce (né lo aveva fatto in precedenza) frutti di grande significato nei successici decenni. Con ciò, tuttavia, non voglio dire che la nostra filosofia dell’educazione non si sia impegnata in analisi volte a chiarire il senso profondo dell’educare, ma questo quasi mai è andato separato da riflessioni di natura antropologica. Quel che voglio dire è che di questo impegno ci si è fatti carico soprattutto in corrispondenza degli approfondimenti – questi sì di grande rilievo e ai quali accennerò più avanti – legittimati al punto (c). Quanto detto in relazione al punto (a) vale in egual misura per quanto ho rappresentato al punto (b), per il quale però paiono necessarie ulteriori puntualizzazioni. È a cominciare dagli anni sessanta che, per le sollecitazioni che pro-

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vengono dalla filosofia analitica, crescono a livello internazionale una molteplicità di studi sul language of education, che da noi vengono presentati ed approfonditi anche come “linguaggio della pedagogia”, cioè con un’espressione – che sorprende per chi (mi riferisco a De Giacinto) la compie e la giustifica perché uno dei pochi ad aver tanto e con puntualità approfondito la questione dell’identità della pedagogia – che solo in parte corrisponde alle intenzioni delle fonti originarie. Ma non è tanto questo che mi premeva sottolineare. Quel che invece va evidenziato è che tanto interesse e fervore di riflessione non trovano, dopo la metà degli anni settanta, gli sviluppi che appena pochi anni prima si legittimavano e si auspicavano. E non li trovano perché se reale appare una necessità (fare chiarezza su linguaggio e concetti, nell’ambito della ricerca sull’educazione, troppo spesso equivoci), illusorio – a mio parere – è l’intento di poter «tracciare una mappa» (Peters, 1971, 1) nella quale linguaggio e concetti possano starci con quella forza referenziale, che contraddistingue le indicazioni di una mappa geografica. Ed è illusorio perché tutta la ricerca sull’educazione (compresa quella di una disciplina propriamente pedagogica) è in connessione più o meno stretta ed evidente con le differenti visioni dell’uomo e del mondo, alle quali linguaggio e concetti, che tentano di descriverla, spiegarla, o progettarla (e questo, come vedremo più avanti, sembra da legare allo specifico pedagogico), sono da riferire. Il rilievo precedente in nessun modo può lasciare immaginare che nell’ambito della filosofia dell’educazione, che cresce dentro la pedagogia, venga meno il bisogno e l’impegno ad approfondire, svelare, precisare, solo che questi sono da collegare alla riflessione di carattere antropologico. Del resto, i molti dizionari, mappe lessicali, ecc., che hanno visto la luce in questi ultimi trenta/quaranta anni, sono testimonianza di una urgenza forte sempre avvertita e di un impegno di ricerca mai venuto meno. Proprio la riflessione antropologica – e arrivo così alle questioni indicate al punto (c) – è ciò su cui più si e concentrato il filosofare dei nostri pedagogisti a partire dagli anni del secondo dopo guerra (ma anche in precedenza, per la verità). Ed è su queste tematiche (quale uomo? quale società? quali significati per vivere? quale progetto di vita? ecc.) che si delineano, almeno fino agli anni novanta (l’89 è anno cruciale), alcuni grandi filoni di filosofia dell’educazione, ai quali è in larghissima misura da legare l’ampio e variegato quadro della ricerca propriamente (dal mio punto di vista, che chiarirò più avanti) pedagogica. Tre sono i principali grandi orientamenti nei quali si dispone la ricerca di filosofia dell’educazione nel nostro paese. Uno che si riconosce in una visione cristiana dell’uomo e del mondo e che si caratterizza come fondamentalmente personalistica (almeno in un’accezione ampia del termine personalismo). Un altro che può essere definito come laico-proble-

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maticista e nel quale è da collocare tanto chi trova in Dewey una delle principali fonti di riferimento – fonte dalla quale emerge «una concezione unitaria della vita, che ne accetta la problematicità senza indulgervi, che ne delinea i motivi di progresso senza cullarsi per questo in illusioni dannose, che elimina ogni dualismo, reinserendo l’uomo nella natura quale ci è mostrata dalla fisica e dalla biologia moderne, senza tuttavia ridurlo a meccanismo, ma al contrario lumeggiando l’insufficienza critica di ogni positivismo vecchio e nuovo» (Visalberghi, 1967, 5) – quanto chi incontra nel razionalismo critico di Banfi un solido appiglio (integrato successivamente dalla rilettura di Nietzsche, dal confronto con le teologie sulla morte di Dio e gli studi sulla creatività) e quanto, ancora, chi vede nell’itinerario fenomenologico la figura di un’umanità che cerca di vivere e realizzarsi in autenticità. Accanto a questi due filoni ne cresce, in quegli anni, anche uno marxista per quanto occorra aspettare gli inizi degli anni sessanta per vedere legittimata e delineata una pedagogia marxista che è risultato di un serio lavoro di esegesi sui testi marxiani e marxisti. Durante gli anni cinquanta ci sono ancora soltanto pedagogie che provengono dalla riflessione di intellettuali che si collocano nell’area del partito comunista (da Concetto Marchesi ad Antonio Banfi, da Mario Alicata a Dina Bertoni Jovine, da Bruno Ciari a Lucio Lombardo Radice). Sul piano antropologico, le differenze tra i tre grandi orientamenti della pedagogia (filosofia dell’educazione dei pedagogisti) italiana sono così evidenti da non aver bisogno di molte precisazioni. C’è una prima profonda differenza tra chi ritiene che l’uomo sia figlio di Dio e chi, invece, nega l’esistenza di Dio. Ma tra questi ultimi le differenze non sono meno importanti. Una cosa, infatti, è l’idea dell’uomo di Borghi o di Bertin (due figure di riferimento nell’ambito della filosofia dell’educazione laico-problematicista), che senza eccessive forzature interpretative possono essere indicati come voci ed espressioni di un personalismo non cristiano, altra cosa è la visione dell’uomo, che emerge dalla riflessione marxista, per la quale è difficile, almeno per me, non condividere il rilievo di Mounier circa un «pessimismo radicale della persona» (Mounier, 1982, 112). A queste differenze corrispondono differenze altrettanto profonde sull’idea di educazione, intesa fondamentalmente – almeno dal mio punto di vista, che Borghi (sicuramente quello degli anni cinquanta e sessanta, che accostava la visione cristiana dell’educazione a quella marxista) avrebbe criticato assolutamente – come valorizzazione piena dell’essere umano tanto nella visione cristiana che in quella laico-problematicista (di sicuro in quelle di Borghi, Bertin, Bertolini), mentre invece viene considerata (da parte marxista) incapace di tanto, prescindendo da un cambiamento radicale della società, perché la prospettiva dell’uomo multilaterale esige

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di legare «il processo pedagogico al processo generale della società, come processo insieme oggettivo e rivoluzionario», istituendo «un rapporto immediato tra educazione e rivoluzione» (Manacorda, 1964, 10). I brevissimi richiami mi auguro lascino intuire tutto l’impegno con il quale i pedagogisti italiani degli ultimi decenni hanno partecipato al dibattito sull’uomo svoltosi nel più ampio ambito filosofico (così come nel vasto campo delle cosiddette scienze umane). Un dibattito nel quale il tema della “persona” ha avuto grande spazio e che è rimasto vivo nella riflessione filosofica dei pedagogisti anche dopo che era venuto ad evidenza (nell’ambito propriamente filosofico) come l’antropologia personalistica avesse «finito per esaurire il suo annuncio» (Rigobello, 1977, 176). E quanto vivo sia rimasto, lo dimostra tutta una serie di studi usciti negli anni ottanta e lo dimostra ancor di più il fatto che del tema della persona abbiano cominciato ad occuparsene specificamente anche i pedagogisti non cattolici. Emblematico al riguardo è il rilievo di una delle voci più vive nella pedagogia non cattolica degli ultimi venti/venticinque anni. Mi riferisco a Cambi e alla sua sottolineatura relativa al fatto che anche la pedagogia laica abbia fatto propria una vocazione (critica) personalistica nel senso che ogni soggetto non può non essere considerato «valore e principio assoluto», non ovviamente in quanto «sostanza orma di una Sostanza», ma piuttosto perché «protagonista di un cammino che sviluppa ciò che è virtuale, fa maturare il possibile, dà corpo ad un’identità finita e situata…» (Cambi, 2010, 218). Le conclusioni di Cambi mi sollecitano almeno ad accennare ad altre questioni con le quali il filosofare dei pedagogisti ha in parte fatto e continua a fare i conti. Mi riferisco in modo particolare a quanto è emerso ed emerge dal dibattito mente-corpo e dalle ricerche nell’ambito delle neuroscienze, che avrebbero «irrevocabilmente dissolto» «l’immagine giudaico-cristiana dell’umanità» con la conseguenza di spalancare la strada ad un volgare materialismo (Metzinger, 2010, 244-245) e che solleciterebbero a rinunciare all’illusione del libero arbitrio, all’idea che siamo padroni delle nostre azioni, mentre forse dovremmo ipotizzare «che qualche parte del nostro cervello decida per noi», che siamo solamente «testimoni delle decisioni, e delle loro conseguenti realizzazioni, che il nostro sistema nervoso prende per noi di volta in volta» (Boncinelli, 2012, 134-135). Sulle provocazioni di un naturalismo spavaldo, di un evoluzionismo che non legittima che il caso, di nuove forme di meccanicismo e di teorie computazionali della mente, non ho bisogno di insistere. E non è il caso di approfondire le molte obiezioni – il cervello che parla di sé come entità neuronale non si eleva al di sopra di quel che ha definito? certi scienziati non finiscono per occupare il posto di Dio? perché dichiarare il darwinismo incompatibile con una religione teistica quando è dalla fine dell’Ot-

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tocento che i teologi hanno mostrato il contrario? è ricorrendo alle molte forme di riduzionismo che si che si può dar ragione della complessità e non scomparsa misteriosità umana? ecc. – che a tutto questo si son fatte e si fanno. Però non può non esser sottolineato come tutto ciò, cui ho fatto appena cenno, solleciti con forza e inevitabilmente la riflessione (filosofica) dei pedagogisti perché un’idea dell’uomo che lo privi della sua dignità e della possibilità d’esser libero toglie significato vero all’educazione che si riduce allora a nient’altro che una sorta di condizionamento. Ma l’idea di educazione come condizionamento, che esige che qualcuno la pianifichi e progetti come tale, non torna a legittimare per costui quella intenzionalità, decisionalità, libertà, che si negano per tutti gli altri? E non è allora forse proprio la pratica educativa che mostra molti dei limiti di talune conclusioni sulla natura umana? I dubbi e gli interrogativi mi pare che continuino a giustificare, anzi sono essi stessi parte, di quella funzione che fino a qualche anno fa si chiamava come “critica all’ideologia”, alla quale ho fatto cenno al punto (d), assegnando al termine “ideologia” non soltanto il significato di falsa coscienza, pensiero dogmatico, mistificato, ecc., ma anche quello di visione dell’uomo e del mondo. Ma forse allora conviene, oggi, semplicemente far riferimento ad una generale funzione critica – che il pedagogista non può non svolgere dal momento che è chiamato a orientarsi e decidere – da esercitare dinanzi alle differenti visioni dell’uomo e del mondo, alle conseguenti idee sull’educazione (anche in riferimento ai differenti contesti), alle scelte sugli oggetti culturali, valoriali, ideali, che non possono non esser fatte dal momento che l’umanità, che attraverso l’azione educativa si intende proteggere, sostenere, sollecitare è direttamente connessa con la possibilità e qualità dell’esperienza in questi ambiti.

3. Peculiarità della pedagogia A questo punto non mi resta che affrontare l’ultima delle questioni che il dibattito su quel numero di “Scuola e Città” del 1976 affrontava: quella dell’identità della pedagogia. Come accennavo all’inizio, sin dalla fine degli anni quaranta la questione della possibilità di un’ottica pedagogica torna ad occupare uno spazio centrale nelle attenzioni dei pedagogisti italiani. L’ipotesi, in larga misura, pur con eccezioni e differenze anche profonde, sulla quale ci si ritrova e si torna a discutere (almeno fino a metà degli anni sessanta) è quella di una pedagogia come disciplina pratica. Una disciplina, però, della quale non si riesce a definire con una qualche precisione lo specifico. Una disciplina che ha, dunque, confini incerti, ma che è massimamente aperta e che ha rapporti inevitabili con altri ambiti disciplinari che indagano

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l’essere umano (soprattutto, in quegli anni, il soggetto in età evolutiva) e l’educazione. Una disciplina, comunque, complessa e articolata e il cui discorso si colloca su differenti piani e ha da fare i conti con differenti questioni (di natura antropologica, teleologica, metodologica). Una disciplina che, non di rado, si cerca di precisare ricorrendo, come era stato fatto anche in precedenza, ad analogie quali la clinica medica e l’ingegneria o la scienza delle costruzioni (per chi si richiama particolarmente a Dewey). Due decenni di indagini non producono i risultati sperati se è vero che alla fine degli anni sessanta non manca, tra i pedagogisti, chi (Agazzi, 1968) sottolinei come la pedagogia abbia ancora un’identità da trovare. E questo è tanto vero che quando nel 1971 esce, a cura di A. Babolin, un volume su Le scienze umane in Italia, oggi, in esso la pedagogia non vi compare quantunque tra gli animatori del convegno (i cui risultati sono contenuti, appunto, nel volume) all’università di Bologna ci sia anche Bertin e sebbene un qualche riconoscimento, nella Premessa al volume, la pedagogia incontri. A partire dagli anni settanta, il dibattito sulla identità della pedagogia si incrementa facendo assumere al quadro, che in brevissimo tempo va delineandosi, una complessità incredibile. Nuove sollecitazioni e linfa, infatti, alla riflessione metateorica in ambito pedagogico, giungono dal più ampio dibattito che in quegli anni va crescendo, a livello mondiale, sulla scienza e sulle scienze. Così ci si dispone ad indagare la questione del punto di vista pedagogico disponendosi da differenti paradigmi – marxismo, filosofia analitica, fenomenologia, ermeneutica, neopositivismo, pragmatismo, teoria generale dell’azione, complessità – ora presi singolarmente, ora cercando fruttuose sintesi. Il panorama che alla fine degli anni settanta si mostra è quello rappresentato da un cospicuo numero di ipotesi che si situano tra due estremi: (a) è pedagogia ogni discorso sull’educazione, (b) la pedagogia come disciplina non esiste (in questo condividendo quanto si verifica nell’area culturale anglo-americana). Un panorama questo che si complessifica ulteriormente nei tre successivi lustri per le riflessioni sulla didattica. Quanto agli ultimi anni, la ricerca su questi temi a me pare abbia subito un forte rallentamento e mi sembra pure che l’attenzione alla ricerca qualitativa non abbia recato contributi significativi alla soluzione dei problemi di identità che riguardano la pedagogia, problemi ai quali certamente non si offrono contributi per una risoluzione auspicando, come da qualche parte si fa, che si superino le distinzioni tra le discipline. Il quadro che sommariamente ho tentato di ricostruire e alcuni giudizi che ho espresso credo consentano in parte di intuire, e sul piano teorico e su quello metateorico, quel che è il mio punto di vista su pedagogia e filosofia dell’educazione (quella che è risultato della riflessione dei pedagogisti).

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Sul piano teorico, la mia adesione al personalismo cristiano, al di là delle vicende cui ho accennato, dovrebbe essere emersa con una qualche evidenza. Sul piano metateorico, poi, ritengo che quel che nelle nostre università si definisce come “pedagogia generale” (o simili) altro non sia e non possa essere che il filosofare dei pedagogisti: il loro confrontarsi criticamente con le differenti visioni dell’uomo (e, ovviamente, del mondo e della società), il loro giustificare una precisa scelta al riguardo (non ci si può occupare di educazione senza schierarsi), il loro legare a queste il significato dell’educazione e le sue principali finalità, il loro legittimare precise e puntuali scelte culturali (tra le quali ci sono anche quelle relative ai differenti universi religiosi), ma anche morali, sociali, civili, civiche. Se queste puntualizzazioni hanno un senso (ma non credo sia agevole contestarle ragionevolmente), c’è allora da interrogarsi su quale possibilità e spazio ci sia per una disciplina – pedagogica – che sia altra rispetto a tutte quelle discipline (a cominciare dalla filosofia, per continuare con la psicologia e la sociologia, per restare alle classiche e più significative) dalle quali è possibile indagare l’educazione. Credo che non sia legittimo negare l’esistenza di uno spazio per una specifica disciplina perché là dove questo avviene inevitabilmente si verifica che filosofi, psicologi e sociologi si assumano compiti che non appartengano a loro se si resta al loro specifico disciplinare. Ritengo allora che – a partire dalla considerazione che l’educare (utilizzando il termine in senso ampio e comprensivo) è fare intenzionale di qualcuno nel rapporto (asimmetrico) con un altro, un fare che mira a creare le condizioni perché quell’altro si metta in giuoco, si lasci coinvolgere in situazioni ed esperienze che gli consentano di accrescere in modo significativo la sua umanità – si giustifichi una disciplina che si occupi di quel fare (che è l’educare) per indagarne peculiarità e specificità e pure per descrivere i molti modi di darsi e realizzarsi nei differenti contesti, nelle diverse istituzioni, nei molti possibili ambiti, ma anche per valutare intenzioni, progetti, modalità, risultati (di quel fare). Se mi pare sostenibile questa ipotesi di una pedagogia come disciplina su quel fare, con i caratteri e i limiti precisati, mi pare altrettanto plausibile una pedagogia come disciplina per, cioè come disciplina che va a ipotizzare progetti per quel fare (nei differenti contesti e nelle diverse istituzioni e rivolto a soggetti delle diverse età, considerando che l’educazione riguarda l’essere umano dalla nascita alla morte) che è appunto l’educare. Progetti che vengono offerti a chi educa perché possa trarne eventuali sollecitazioni. Non dovrebbe esser difficile intuire come il propriamente altro (rispetto a tutte le altre discipline dalle quali è possibile indagare l’educazione) che vado ipotizzando sia la didattica da intendersi tanto come disciplina su quanto come disciplina per. Una disciplina – rimane al

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momento per me irrisolta la questione se trattasi di due aspetti di una medesima ottica, di due facce della stessa medaglia, ma una risposta positiva non mi pare totalmente incoerente – che ha per “oggetto” una pratica che va indagata come tale, che è aperta ai contributi di tutte le altre discipline che indagano quella pratica per aspetti particolari. Una disciplina (sulla quale occorrerebbero ben altre puntualizzazioni rispetto ai pochi rilievi che qui mi sono concessi) che, proprio per la sua specificità, sollecita il ricercatore (pedagogista/ricercatore in didattica) ad assumere altri punti di vista (che sono e rimangono altri): quello filosofico, in maniera speciale, ma ugualmente quello storico. E come ci sono filosofie dell’educazione (che sono, e mi ripeto, punto di vista tipicamente filosofico) che sono dei filosofi filosofi ma anche dei pedagogisti (e le due non possono essere immaginate in concorrenza), così ritengo che ci sia e possa essere una storia della pedagogia e dell’educazione (che è propriamente storia e non pedagogia/didattica) che è dei pedagogisti ed una medesima storia che è degli storici storici. E le due devono integrarsi non contrapporsi. Presentazione dell’Autore: Giuseppe Serafini è professore ordinario di storia della pedagogia nella Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena, sede di Arezzo. La sua attività di ricerca si è mossa su alcune linee direttrici fondamentali: la filosofia dell’educazione, l’epistemologia pedagogica, la storia della pedagogia e dell’educazione, che di fatto taglia trasversalmente tutti gli altri ambiti. Bibliografia AGAZZI, A. (1968), Problematiche attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale, Brescia, La Scuola. AGAZZI, E. (1969), Temi e problemi di filosofia della fisica, Milano, Manfredi. AGAZZI, E. (1979), Analogicità del concetto di scienza. Il problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane, in V. POSSENTI (a cura di), Epistemologia e scienze umane, Milano, Massimo. BABOLIN, A. (a cura di) (1971), Le scienze umane in Italia, oggi, Bologna, Il Mulino. BERTIN, G.M. (a cura di) (1976), «La filosofia dell’educazione, oggi», in Scuola e Città, n. 1-2. BONCINELLI, E. (2012), Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli. CAMBI, F. (2010), Sulle orme di Ricoeur. Considerazioni sulla persona (e la pedagogia), in S. ANGORI, S. BERTOLINO, R. CUCCURULLO, A.G. DEVO-

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G. SERAFINI (a cura di), Persona e educazione. Studi in onore di Sira Serenella Macchietti, Roma, Armando. CASOTTI, M. (1953), Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola. DE GIACINTO, S. (1977), Educazione come sistema, Brescia, La Scuola. DENNET, D.C. (2009), Coscienza. Che cos’è, trad. it. di L. Colasanti, Bari, Laterza (1ª edizione 1991). DENNET, D.C., PLATINGA, A. (2012), Scienza e religione. Sono compatibili?, trad. it. (a cura di M. Di Stasio), Pisa, ETS (1ª edizione 2011). GENTILE, G. (1982), Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. II, Didattica, Firenze, Sansoni (1ª edizione 1913). KNELLER, G.F. (1975), Logica e linguaggio della pedagogia, trad. it. N. Ponzanelli, Introduzione di S. De Giacinto, Brescia, La Scuola (1ª edizione 1966). MANACORDA, M.A. (1964), Il marxismo e l’educazione (testi e documenti: 1843-1964), Roma, Armando. METZINGER, T. (2010), Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, trad. it., Milano, Raffaello Cortina (1ª edizione 2009) MOUNIER, E. (1982), Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Introduzione e traduzione di A. Lamacchia, Bari, Ecumenica (1ª edizione 1936). OLIVERIO, A. (1999), Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Milano, Raffaello Cortina. — (2003), Dove ci porta la scienza, Bari, Laterza. PETERS, R.S. (1971), Che cos’è un processo educativo?, in Analisi logica delle’educazione (a cura e traduzione di A. Granese), Firenze, La Nuova Italia (1ª edizione 1967). RIGOBELLO, A. (1977), L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Roma, Armando. SCHEFFLER, I. (1972), Il linguaggio della pedagogia, trad. it. (a cura di S. De Giacinto), Brescia, La Scuola (1ª edizione 1960). VISALBERGHI, A. (1967), John Dewey, Firenze, La Nuova Italia (1ª edizione 1951).

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L’EDUCAZIONE MORALE TRA FORMALISMO ANALITICO ED ETICA DELLE VIRTÙ Mario Micheletti Abstract: Analytic philosophy of education is here examined against the background of the contrast between the formalist outlook on moral education, particularly connected with R.M. Hare’s ethical and educational views, and the educational perspective based on virtue ethics as itself distinct from both deontological and consequentialist normative theories. Peters, Hare, Carr and Steutel are the philosophers chiefly dealt with. The theory based on virtue ethics turns out to be the perspective that best allows us to account for the whole education and flourishing of a person. Riassunto: La filosofia analitica dell’educazione è qui esaminata alla luce del confronto tra l’impostazione formalistica sull’educazione morale, connessa in particolare con le tesi di R.M. Hare, e quella fondata sull’etica delle virtù, in quanto distinta a sua volta da concezioni normative di tipo deontologico o consequenzialistico. Sono presi in considerazione in particolare i contributi di Peters, Hare, Steutel e Carr. Nella conclusione si mostra come la teoria che si ispira all’etica delle virtù sia quella che meglio permette di rendere conto della formazione integrale della persona. Parole chiave: filosofia analitica, educazione morale, formalismo, etica delle virtù, carattere.

«Philosophers may have been too apt to overlook or ignore the fact that men have childhoods». (Dearden, 1975, 6)

In un articolo di sedici anni fa (Micheletti, 1997) espressi alcune considerazioni critiche circa la capacità della recente filosofia morale, nei suoi indirizzi prevalenti, di affrontare in modo significativo il tema dell’educazione morale, per la mancanza di realismo e di rilevanza pratica, sia nelle sue versioni meta-etiche formalistiche sia nelle sue versioni normative di tipo utilitaristico o pubblico-procedurale. Notavo che sia il formalismo sia la concentrazione quasi esclusiva sugli atti o sulle classi di atti, anziché sulle persone, sul loro carattere e sulle loro disposizioni, rendevano problematico e perfino imbarazzante parlare, in quel contesto, di “formazione morale”. D’altra parte, trovavo motivi di fiducia nel fatto

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che le istanze etiche ed etico-formative provenienti dalle comuni situazioni sociali indicavano abbastanza chiaramente una direzione all’indagine filosofica, suggerendo un ritorno al realismo e a una prospettiva di etica delle virtù, sulla base del riconoscimento di un legame non contingente fra l’etica normativa e la prassi educativa. Concludevo osservando che una riflessione seria sulle istanze interne al momento della formazione poteva addirittura indicare la via verso un riorientamento critico nell’ambito stesso della filosofia morale. Vorrei mostrare in questo articolo, in modo necessariamente schematico, come all’interno stesso della filosofia analitica si siano effettivamente sviluppate tendenze, riguardo al concetto di educazione, capaci di contrastare sul piano etico-normativo l’approccio formalistico, grazie soprattutto alla rinascita, nell’etica normativa, dell’etica delle virtù e alla sua naturale tendenza a trovare un’immediata applicazione nell’ambito educativo, a motivo del legame necessario che si costituisce in tale prospettiva etica tra lo sviluppo delle virtù e la formazione integrale della persona.

1. L’analisi del concetto di “educazione” e la problematica etica Nel contesto di una valutazione storico-critica della filosofia analitica dell’educazione Paul H. Hirst ha notato che l’impatto della filosofia analitica si è manifestato nell’introduzione di un rigore nuovo nella riflessione sull’educazione piuttosto che nell’indicazione di teorie pedagogiche originali. Questa considerazione vale forse soprattutto per la fase iniziale del movimento (Hirst, 2003, xv; cfr. anche Hirst – Peters, 1970, IX, 12 ss.)1. Una sistematica ricostruzione storica della filosofia analitica dell’educazione è stata fornita da Randall Curren, Emily Robertson e Paul Hager nel dodicesimo capitolo di A Companion to Philosophy of Education (Curren, Robertson, Hager, 2003), nonché da Nicola S. Barbieri, il quale ha dedicato peraltro una particolare attenzione agli influssi di tale tendenza sulla pedagogia italiana (Barbieri, 2001). Mi limito qui a sottolineare il ruolo pioneristico svolto da studiosi come Israel Scheffler negli Stati Uniti e soprattutto Richard S. Peters in Gran Bretagna. In The Language of Education, del 1960, Scheffler introduce la filosofia dell’educazione come una ricerca su questioni filosofiche o metodi filosofici, ovvero come un tentativo di applicare metodi filosofici alle idee educative fondamentali, soprattutto attraverso l’analisi della forza logica di diverse specie di asserzioni ricorrenti nelle discussioni sull’educazione e la discussione di vari tipi di definizioni date in pedagogia. Nell’ambito dell’educazione morale Scheffler nota l’insufficienza di un’analisi che ignori la distinzione, fondamentale, tra l’apprendere a essere onesti e l’acquisizione di uno

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schema etico di azione in base al quale si agisce onestamente per una convinzione morale (Scheffler, 1972, 28, 68, 183). Nel saggio Philosophical Models of Teaching, del 1967, Scheffler sostiene che l’insegnamento può essere caratterizzato come un’attività che è diretta al raggiungimento del sapere e deve essere praticata in modo da rispettare l’integrità intellettuale dello studente e la sua capacità di giudizio indipendente (Ibidem, 1971, 149). Il punto di partenza della filosofia dell’educazione sviluppata da R.S. Peters è lo studio delle caratteristiche logiche dei concetti educativi. Peters ha finito col considerare la filosofia dell’educazione come una branca specifica della filosofia. Ciò non significa per lui che la filosofia dell’educazione sia isolata e indipendente dall’epistemologia, dall’etica e dalla filosofia della mente, dal momento che essa attinge ai contributi di queste discipline filosofiche, sintetizzandole in modi che sono rilevanti per le questioni educative (Peters, 1977). Nei suoi primi scritti Peters tuttavia si preoccupa soprattutto di difendere l’approccio analitico dalle critiche mosse da quei filosofi che lamentano la trascuranza in quell’indirizzo filosofico del compito tradizionalmente affidato ai filosofi dell’educazione: la spiegazione di quale sia la vita buona, la società buona, e quindi l’indicazione dei fini che gli educatori devono perseguire. Ci sono, naturalmente, modi differenti di categorizzare i fini dell’educazione (Winch – Gingell, 2008, 10). In Authority, Responsibility and Education (1959) Peters sostiene che molte dispute sui fini dell’educazione sono in realtà dispute su “principi di procedura” (Peters, 1963, 90, 96), mentre in Ethics and Education (1966) mette in evidenza il compito modesto, ma necessario, svolto dai filosofi analitici, che mirano non a procurare direttive elevate per l’educazione o per la vita, ma a una disciplinata demarcazione dei concetti e alla paziente spiegazione dei fondamenti della conoscenza e delle presupposizioni delle diverse forme di discorso. Fra i diversi compiti attribuiti alla filosofia dell’educazione, Peters privilegia in Ethics and Education l’analisi del concetto di “educazione” come preliminare alla discussione dell’applicazione dell’etica e della filosofia sociale ai problemi dell’educazione. Considero un aspetto assai rilevante dell’analisi che Peters compie del concetto di educazione il rilievo circa le implicazioni normative di quel concetto, anche se la connessione fra “educazione” e ciò che ha valore non implica, nella sua prospettiva critica, un particolare impegno di tipo contenutistico. In altre parole, che l’educazione in quanto tale, non solo l’educazione morale, abbia implicazioni di valore etico è un dato logicamente necessario, anche se non c’è nessuna necessità logica riguardo ai valori particolari attribuiti in determinate società alla variabile “dotato di valore”. La filosofia si occupa, infatti, delle procedure mediante le quali l’educazione si differenzia dalle mere pratiche di addestramento2:

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formalmente una persona non è descritta mai come “educata” in relazione a un fine specifico, a una data funzione o modo di pensare, rispetto alla competenza in un’abilità specifica. Principi fondamentali come l’equità, la libertà, la considerazione degli interessi coinvolti e il rispetto per le persone sono difesi in quanto capaci di fornire una struttura procedurale entro cui si può cercare una soluzione di tipo contenutistico ai problemi morali e politici, mediante il ricorso a una discussione ragionevole piuttosto che alla forza o a una decisione arbitraria (Ibidem, 1971a, 25ss., 45, 291 ss.). La conferma dell’inseparabilità della “educazione” dai giudizi di valore mi sembra, ancora una volta, l’aspetto più interessante del contributo di Peters al volume da lui stesso curato The Concept of Education, del 1967, un’inseparabilità destinata nella fase finale del suo pensiero ad assumere connotati più marcatamente contenutistici. Del resto, che la situazione educativa, in generale, debba essere concepita propriamente in termini etici, «è probabilmente una delle sue caratteristiche più fondamentali» (Smeyers, 1995, 106; cfr. Curren, 2003, 3). Il processo educativo è analizzato da Peters sia in rapporto all’interessante nozione di “iniziazione”, nella misura in cui un allievo è “iniziato” da un’altra persona a qualcosa che egli deve padroneggiare, conoscere, ricordare e ad attività che hanno valore, sia in termini di “compito” e “risultato”. In questa prospettiva, il successo dell’insegnante può essere definito solo in relazione al risultato raggiunto dal discente (il che costituisce la verità logica dell’affermazione che l’educazione è “autoeducazione”). Perché ci sia “educazione”, per Peters, ciò che si impara deve essere considerato valido, e nel contempo la procedura dell’insegnamento deve essere considerata moralmente legittima, ineccepibile. Per questo il processo educativo non può ridursi all’acquisizione di abilità, o di semplici informazioni. Il modo di vivere della persona “educata” deve mostrare che è capace di forme di pensiero e di consapevolezza, che non hanno un carattere meramente strumentale; la sua forma di vita, quale è rivelata dalle attività cui si dedica, dai suoi giudizi e sentimenti, è tale da essere ritenuta desiderabile. Una condizione fondamentale dell’educazione è che l’allievo acquisisca la consapevolezza dei processi educativi cui partecipa, di ciò che sta tentando di comprendere e possedere (Peters, 1971b). In Reason and Compassion (1973) Peters affronta più decisamente tematiche etiche, per mostrare come nell’educazione morale genitori e insegnanti non necessariamente debbano muoversi fra due tipi estremi di etica, da un lato un’etica deontologica caratterizzata da codici rigidi di regole, dall’altro una moralità di tipo individualistico, che privilegia l’autonomia individuale e preferenze soggettive. Utilizzando anche gli schemi evolutivi contenuti nelle prospettive di Piaget e Kohlberg circa la formazione morale, Peters difende, sul piano pedagogico, il ricorso a

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una moralità razionale non chiusa tuttavia alla dimensione passionale, e in particolare al ruolo della compassione. Il contrasto decisivo non è fra ragione e passione, ma fra livelli di vita, caratterizzati ciascuno da peculiari livelli di pensiero e di sentimento. Perché sia effettiva nella vita di una persona la maturità etica, che per Piaget, in accordo con Kant, è connessa con l’autonomia, con la capacità di riflessione sulle regole in base a principi come l’imparzialità e il rispetto delle persone, deve realizzarsi un’altra condizione: la persona deve essere sensibile a considerazioni che si riferiscano alla sofferenza degli altri, alla compassione, un aspetto in cui la fede religiosa, in particolare la fede cristiana, riconosce Peters, ha dato un contributo rilevante (Ibidem, 1973, 10 ss, 23 ss., 73 ss., 99 ss 114 ss.). Uno sviluppo significativo del pensiero di Peters è costituito dai saggi contenuti in Moral Development and Moral Education (1981), i quali attestano una svolta verso il riconoscimento dell’insufficienza di una moralità di principi e regole nel processo educativo e quindi del ruolo positivo svolto, non solo dalla dimensione emotiva, ma anche e soprattutto dagli abiti morali o dalle virtù. Da un lato, Peters insiste ora, a differenza che nei suoi primi scritti, sulla centralità del contenuto della vita morale e sui metodi con cui è insegnato, dall’altro, alla luce di una significativa distinzione tra differenti classi di virtù, finisce col riconoscere che la spiegazione che Kohlberg dà dello sviluppo morale, in gran parte di ispirazione kantiana, dev’essere considerata unilaterale in quanto fondata su un’interpretazione limitata della moralità (Ibidem, 1981, 111, 123, 180). Non posso diffondermi qui più a lungo sul pensiero di Peters3. Mi sembra significativo che il metodo analitico da lui propugnato, con l’approfondimento del tema dell’educazione morale, si sia progressivamente aperto, grazie anche alla sua avversione a una concezione puramente strumentale dell’educazione, a quegli aspetti contenutistici, che nei primi scritti erano più marcatamente subordinati a principi formali e procedurali. Questa apertura è sottolineata da diversi studiosi. Per O’Hear, ad esempio, l’ultimo Peters, dando spazio al ruolo di virtù e vizi in una prospettiva relazionale, ha sviluppato una concezione della moralità che finisce col mettere in secondo piano il modello kantiano di una volontà razionale autonoma che sceglie i suoi principi alla luce di astratte considerazioni razionali, in favore di una concezione dell’educazione morale e della scelta morale che mira a rendere le persone più “umane”. Resta vero, inoltre, che, per Peters, nell’acquisire abiti morali non ci si allontana dall’agire in modo razionale o intelligente (O’Hear, 1981, 34, 126, 130-131). P.H. Hirst ha analogamente segnalato come il «ripristino dei tratti del carattere» operato da Peters si contrapponga all’accento posto da Kohlberg sui principi morali kantiani e segni una svolta verso un orientamento di tipo aristotelico nell’interpretazione della moralità e del suo sviluppo (Hirst, 1986, 36; cfr. Sandin, 1992, 84), anche se, per Carr e

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Steutel, Peters in realtà ha concepito la formazione morale e lo sviluppo del carattere nel senso aristotelico come un potenziale supplemento piuttosto che come un’alternativa alla tendenza rappresentata da Kohlberg (Carr - Steutel, 1999, 242). Vorrei porre l’accento sulla circostanza, forse poco nota, che uno dei massimi filosofi morali analitici, il principale esponente della tendenza metaetica del “prescrittivismo”, Richard M. Hare, in alcuni saggi ha affrontato tematiche educative, in una direzione che io assumo qui come esemplare del formalismo nella filosofia dell’educazione, nonostante l’esito utilitaristico del suo pensiero critico normativo. Il suo approccio al tema dell’educazione morale è reso particolarmente evidente da un suo intervento nella discussione tra filosofi sul tema dell’educazione pubblicata nel 1975 col titolo Philosophers discuss education. Nei suoi Chairman’s Remarks Hare nota che, nella discussione, emerge la domanda cruciale sulla logica del linguaggio morale («Quali sono le proprietà logiche delle parole morali e quali restrizioni impongono a ciò che possiamo o non possiamo dire coerentemente»?) e osserva che nel discutere dell’educazione morale i filosofi non possono permettersi di trascurarla, essendo quella «la più rilevante di tutte le domande» (Hare, 1975, 42). Nel saggio Adolescents into Adult, del 1964, Hare critica l’indottrinamento, in quanto distinto dall’educazione, in conformità con una distinzione spesso sottolineata dai filosofi dell’educazione (cfr., ad es., White, 1971; Müller, 1994, 222; Warnock, 1975, 159; Norman, 1975, 174-175), ma giustificando il suo atteggiamento critico sulla base del suo formalismo metaetico. Se la suddetta distinzione, egli osserva, si fondasse su dei contenuti, allora bisognerebbe ammettere che ci sono contenuti giusti, dottrine giuste e altre sbagliate. La distinzione può ricavarsi invece da una riflessione sullo stesso scopo dell’educazione, in quanto Hare ritiene che, formalmente, lo scopo (il semplice mirare all’educazione delle persone) determinerà il metodo e questo, in una certa misura, determinerà il contenuto. In base allo stesso requisito formale dell’universalizzabilità dei giudizi morali il bambino, o comunque l’educando, deve capire che ciò che è moralmente scorretto che gli altri facciano a lui è moralmente scorretto che lui lo faccia agli altri (questo è il fondamento della moralità nel nostro rapportarci agli altri, anche se non tutta la moralità si riduce alla moralità sociale). Hare concede che con i bambini in tenera età possa essere necessario il ricorso a metodi non-razionali di insegnamento4, ma è desiderabile che i bambini imparino il più presto possibile a pensare moralmente da se stessi. Occorre quindi creare nei bambini l’interesse a pensare razionalmente alla moralità. Hare concede inoltre che in pratica sia impossibile trasmettere ai bambini la mera forma della moralità senza incorporarla in qualche contenuto, senza insegnare loro dei concreti principi morali, ma ricorda anche che dallo stesso ricorso al principio formale dell’universalizzabilità

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può derivare la tendenza a coltivare in modo fruttuoso l’immaginazione simpatetica (Hare, 1992, 113 ss., 122 ss.). L’impostazione del suo discorso porta Hare ad affrontare, seguendo il suo metodo, temi assai dibattuti nella filosofia analitica dell’educazione, come quelli dell’autonomia personale e del suo ruolo centrale nella formazione morale della persona, e della “neutralità” dell’insegnante5. Nel saggio Autonomy as an Educational Ideal, del 1975, Hare sostiene che, se l’apprendimento del linguaggio morale è formalmente indipendente dall’abbracciare certe convinzioni morali, allora l’insegnante può essere neutrale circa le questioni morali (e in questo senso l’insegnamento morale differisce dall’insegnamento di altre discipline). Naturalmente, nell’ottica di Hare, l’insegnante può e deve non essere neutrale circa il linguaggio stesso della morale e la sua logica (e quindi, se ne deduce, anche riguardo alle restrizioni che, come abbiamo visto, derivano logicamente dai requisiti formali di quel linguaggio). Il compito dell’insegnante, in morale come in matematica, è di aiutare i bambini a imparare il linguaggio e le regole del discorso in questione; il suo compito non è quello di insegnare le risposte ma di sollevare questioni (Ibidem, 1992, 136). Si potrebbe osservare che qui l’educazione morale è equiparata all’insegnamento di una disciplina, la morale, le differenze rispetto ad altri tipi di insegnamento consistendo soltanto nelle strutture formali diverse dei linguaggi delle discipline prese in considerazione. In realtà non è del tutto così, perché Hare mette in evidenza anche le differenze che attengono da un lato alle specifiche proprietà logiche delle parole morali, dall’altro al carattere non descrittivo e non informativo dell’insegnamento morale. Il rapporto fra l’educazione morale e l’insegnamento di discipline come la matematica, la geografia, la chimica è riproposto nel saggio Language and Moral Education, del 1973. L’analogia con l’insegnamento della matematica si fonda unicamente sul carattere formale, per Hare, della matematica e della filosofia morale. La matematica stabilisce le proprietà logiche dei numeri, e la filosofia morale fa la stessa cosa con parole come “moralmente corretto” e “moralmente sbagliato”, mostrando che ci sono certe cose che non si possono dire coerentemente usando queste parole. La matematica e la filosofia morale pertanto operano in modo assolutamente e puramente formale, rendendo conto delle proprietà logiche delle parole in questione, implicite nel loro significato, e ci mostrano come evitare incoerenze nel loro uso. L’educazione morale diventa allora, almeno in parte, educazione «all’uso del linguaggio morale». La differenza è data, ovviamente, dalle diverse proprietà logiche dei due linguaggi, in particolare dalla circostanza fondamentale che il linguaggio della morale rinvia necessariamente a un’opzione, a una scelta. La differenza dell’etica dalle discipline che insegnano dati di fatto, come la geografia, la storia e la chimica, in quanto queste sono discipline fattuali, è ancora più profonda.

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La logica del linguaggio morale richiede che si adottino principi morali, e di conseguenza si adotti un intero modo di vivere. Ma ciò non si può ottenere semplicemente come risultato di un’informazione data agli allievi. La ragione principale di questa conclusione, per Hare, è che nell’uso del linguaggio morale adottare dei principi implica la scelta, la scelta di un modo di vivere, e «la scelta di un modo di vivere è una cosa ovviamente assai diversa dall’apprendere nomi e date degli imperatori romani» (Ibidem, 1992, 156, 159). Nel saggio del 1976, Value Education in a Pluralist Society: A Philosophical Glance at the Humanities Curriculum Project, emerge chiaramente una tesi di fondo di Hare, sottesa ad altri suoi contributi o esplicitamente sottoscritta (come nel saggio Platonism in Moral Education: Two Views, del 1974), la tesi secondo cui il “descrittivismo” in meta-etica produce l’autoritarismo nell’ambito dell’educazione morale, mentre il “prescrittivismo” garantisce il rispetto dell’autonomia e del pensiero critico. Dal momento che la cosiddetta “neutralità” dell’insegnante è collegata chiaramente da Hare alla posizione prescrittivistica, è comprensibile il suo sforzo di chiarire il ruolo dell’insegnante nel campo dell’educazione morale. La neutralità dell’insegnante non esclude che egli debba avere le qualità dell’imparzialità e della lucidità razionale, né che debba dare l’esempio di uno strenuo desiderio di trovare le risposte alle domande che pone, esprimendo anche le proprie convinzioni e fornendo le ragioni a loro sostegno. Ciò non toglie che, quando i bambini hanno interiorizzato le regole procedurali, secondo Hare, in qualche misura diventino capaci di svolgere essi stessi in qualche modo un ruolo simile a quello del moderatore di una discussione (Ibidem, 1992, 147, 153, 180). Ciò che, a mio avviso, esclude, nella prospettiva di Hare (ma forse non in un’analisi critica del suo pensiero) i rischi solitamente associati al formalismo è la sua convinzione, che io considero assai problematica, che dalle caratteristiche formali che attribuisce alla moralità, ovvero la prescrittività, l’universalizzabilità e la predominanza, si possano ricavare in qualche modo regole sostanziali di comportamento, come quando nel saggio Language and Moral Education osserva che prescrittività e universalizzabilità, insieme, ci procurano gli elementi essenziali per la moralità pratica, sufficienti a rendere vivibile la nostra vita sociale, o come quando nel saggio Are there Moral Authorities? si richiama sorprendentemente all’etica del grande moralista inglese del Settecento, Joseph Butler, per mostrarne la congruenza con la propria teoria dei due livelli del pensiero morale, sviluppata nella parte finale della sua attività filosofica, in cui svolge un ruolo centrale la convinzione della diretta derivabilità dell’utilitarismo dalla metaetica prescrittivistica (Ibidem, 1981 e 1997). Hare osserva infatti che, al livello critico, si può fondare la moralità sull’amore e sulla benevolenza e quindi sull’adoperarsi il più possibile per soddisfare

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le preferenze di tutti in modo imparziale, nella supposizione che la stessa benevolenza ci indurrà a coltivare virtù e a riconoscere doveri non direttamente basati sulla benevolenza stessa. Qui Hare arriva a dire che alla conoscenza degli effetti delle nostre azioni si deve aggiungere l’amore del prossimo, secondo l’insegnamento del cristianesimo, associato all’insegnamento kantiano dell’imparzialità e del rispetto per le persone, che è visto quindi come congruente con la stessa prospettiva utilitarista (Ibidem, 1992, 63, 170; cfr. anche 70, 187; Ibidem, 1997, 147 ss.; Di Biase, 2004, 133 ss, 212 ss.), una visione della moralità problematica, che qui non posso discutere. Mi limito a metterla in rilievo come una componente significativa della concezione che Hare sviluppa dell’educazione morale, insieme alla rivalutazione, negli scritti della maturità, del livello intuitivo del pensiero morale, da riconsiderare tuttavia al livello del pensiero critico anche per la soluzione di eventuali conflitti morali.

2. Il ruolo delle virtù nell’educazione morale Il tema delle virtù non svolge certo un ruolo centrale nel pensiero di Hare. Se limitiamo lo sguardo ai suoi saggi sull’educazione, vediamo che Hare ne parla in Language and Moral Education per sottolinearne il valore educativo, in una direzione che, nonostante il riferimento d’obbligo ad Aristotele, è in realtà più conforme alla concezione kantiana della virtù come fortitudo moralis, all’interno quindi di un primato dei principi morali e della legge (cfr. Micheletti, 2006a, 2010). L’assenza di uno sfondo antropologico e metafisico appropriato (in qualche modo presente anche nell’etica di Butler, cui pure Hare rinvia, come abbiamo visto) rende comunque problematico il riferimento di Hare alle virtù. Hare intende per virtù quelle qualità, intellettuali e morali, che dobbiamo possedere se vogliamo agire con successo e con coerenza in base ai principi che ci siamo autonomamente formati. Sono le virtù che ci danno la forza di compiere ciò che pensiamo di dover fare anche quando è molto difficile farlo, in particolare le virtù del coraggio, della pazienza, dell’autocontrollo (il riferimento alla forza, come caratterizzante la virtù, fa pensare ancora una volta a Kant). Si tratta per Hare di virtù che costituiscono una parte importante dell’educazione morale, ma, nell’attuale contesto storico, meno importante degli altri aspetti su cui pone l’accento negli scritti sull’educazione (Hare, 1992, 171). Questa è, in definitiva, la posizione che Hare sostiene anche nelle poche pagine dedicate all’educazione morale e alle virtù nei due libri in cui si esprime il suo pensiero maturo, Moral Thinking (1981) e Sorting out Ethics (1997), dove il rapporto fra virtù e dovere è affrontato anche alla luce della distinzione fra i due livelli di pensiero morale, il livello intuitivo (in cui si riconosce all’educazione morale anche

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il compito di inculcare i sentimenti morali e la pratica delle virtù a sostegno dei principi morali) e quello critico (dove l’utilitarismo delle preferenze risulta essere il metodo di ragionamento più appropriato) (Ibidem, 1981, 30-31, 173, 191, 196-205; Ibidem, 1997, 86 ss, 156 ss.). David Carr è forse il filosofo dell’educazione che ha più insistito sulla necessità di caratterizzare la formazione morale nel senso di un’educazione volta a promuovere le virtù. Nell’introduzione a Educating the Virtues (1991), Carr sostiene che un’educazione morale appropriata richiede un apprezzamento pieno, adeguato, del contributo importante che certe fondamentali disposizioni morali possono dare a qualsiasi forma di vita umana degna di essere vissuta, in quanto le virtù hanno il potere di trasformare la vita di una persona, in rapporto sia al carattere individuale sia alle relazioni sociali. In questa prospettiva, è essenziale che un buon educatore morale aspiri egli stesso al conseguimento in qualche misura dell’eccellenza morale (Carr, 1991, 9-10). Le virtù acquistano un ruolo primario nella filosofia dell’educazione in quelle prospettive che si rifanno direttamente all’ “etica delle virtù” come teoria etica normativa e considerano l’educazione morale consistente in modo essenziale nella promozione delle virtù. Trovo particolarmente interessante la concezione teorica elaborata in questo senso da Steutel e Carr, per i quali un approccio filosofico riguardante l’educazione morale fondato sulle virtù è quello che assume come fine le virtù, o il loro sviluppo, o si caratterizza principalmente come focalizzato sulla promozione delle virtù. In una concezione “ristretta” dell’etica delle virtù, che esclude dal proprio ambito le considerazioni di Hare sulla natura e il valore delle virtù, nonché la concezione di Kohlberg della fase finale, post-convenzionale, dell’educazione morale, che si ispira alla concezione kantiana della giustizia, e in generale le interpretazioni delle virtù formulate all’interno di prospettive etiche di tipo deontologico o consequenzialistico, Steutel e Carr caratterizzano come la concezione filosofica di educazione morale più appropriata quella che si ispira a un’etica delle virtù di tipo “aretaico” e non “deontico”, cioè a un’etica in cui il concetto di virtù svolge un ruolo primario, non subordinato al concetto di dovere (comunque questo sia inteso, al modo di Kant oppure in senso consequenzialistico). Indipendentemente dal fatto che sia intesa come fondata sul soggetto agente (agent-based), o sull’atto (act-based) oppure focalizzata sul soggetto agente (agent-focused), l’etica delle virtù, nel suo senso più autentico, è necessariamente “aretaica” e incentrata sul carattere; essa si distingue dal cosiddetto “utilitarismo” dei “tratti del carattere”, in quanto attribuisce alle virtù un valore non-strumentale. L’eudemonismo aristotelico è giudicato da Steutel e Carr la versione più plausibile di questa forma di etica delle virtù. In questa prospettiva le virtù sono quei tratti del carattere che in un senso rilevante promuovono la “fioritura” o eudai-

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monia della persona, del soggetto agente, essendone d’altronde elementi costitutivi, e la fioritura personale ha un’importante dimensione sociale, di modo che l’amicizia, la socievolezza e la giustizia sono virtù cruciali. L’etica delle virtù aristotelica è un’etica teleologica, non consequenzialistica, e quindi può coerentemente presentare le virtù come intrinseche alla vita buona, a una vita piena di senso. Diversamente dall’ “utilitarismo del tratto”, che condiziona il valore delle virtù all’utilità eventuale che può derivarne, nell’assicurare in qualche modo l’obiettivo, apprezzato in modo indipendente, della felicità umana, la prospettiva etica aristotelica non concepisce nessuna completa realizzazione umana che escluda la pratica delle virtù (Steutel - Carr, 1999, 3-18). Proponendo i vantaggi sul piano educativo di tale etica, David Carr ha messo in evidenza come la conoscenza morale abbia a che fare «con l’acquisizione di disposizioni più che con l’apprendimento di proposizioni» e come il ruolo della phronesis sia quello di «informare o ordinare la nostra esperienza pratica in vista di un’effettiva attività morale» (Ibidem, 1999, 147; cfr. Ibidem, 2008).

3. Conclusione Michael Slote ha osservato che l’etica delle virtù può indurre a sollevare la questione se sia meglio educare i bambini ad un comportamento etico mediante l’insegnamento pratico dell’importanza di virtù particolari o, al modo solito, insegnando loro regole e principi morali, mentre John Haldane ha difeso la tesi secondo cui la teoria delle virtù rende l’educazione morale, meglio di ogni altra prospettiva, «una possibilità reale e razionalmente difendibile» (Slote, 1999, 103; Haldane, 1999, 158)6. Carr e Steutel, a loro volta, anche alla luce della concezione, sviluppata da Peters, del processo educativo come iniziazione degli allievi al riconoscimento della significanza intrinseca e non meramente estrinseca o strumentale di qualsiasi forma di conoscenza o esperienza, hanno ragionevolmente sostenuto che il modo più appropriato di concepire l’educazione morale è quello che considera il suo scopo cruciale l’aiutare i giovani ad apprendere il valore intrinseco della moralità, e in questo senso l’educazione morale consiste nella coltivazione delle virtù, nel condurre gli allievi a un apprezzamento del pregio intrinseco dell’impegno morale più che nell’addestrarli ad obbedire a obblighi o nell’imporre proibizioni (Carr - Steutel, 1999, 244-245)7. Devo limitarmi in questo articolo a considerazioni di carattere generale. Vorrei tuttavia ricordare le conclusioni cui personalmente sono pervenuto in taluni miei scritti recenti nei quali, utilizzando in particolare la distinzione, di matrice aristotelica e tomistica, fra autocontrollo e temperanza (Micheletti, 2006a, 2010; cfr. Steutel, 1999; Carr, 1999), ho affron-

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tato i problemi che nascono dal confronto fra alcune prospettive etiche, normative, di tipo rigidamente deontologico e l’etica delle virtù. Che non siano problemi puramente formali o irrilevanti sotto l’aspetto pratico è mostrato dal fatto stesso che, a seconda della soluzione loro data, si prospettano due linee notevolmente diverse di educazione morale, la prima volta a inculcare principi e norme riguardo alla correttezza morale delle azioni e a premiare i comportamenti che esprimono lo sforzo di aderire ad essi in contrasto con le inclinazioni; la seconda invece volta alla formazione di persone virtuose, di persone che sono buone nel loro carattere, dotate quindi di disposizioni stabili non solo ad agire in modo corretto e a compiere agevolmente le scelte giuste, ma anche a provare le emozioni appropriate nelle diverse situazioni e circostanze. Se si deve riconoscere che norme e regole acquistano senso solo nel definire e costituire un intero modo di essere e di vivere, quello cui le virtù stesse sono orientate o che già esprimono in modo eccellente, non c’è dubbio che la seconda prospettiva sia la più appropriata, perché dà spazio e rilievo alla formazione, attraverso le scelte morali, del carattere e delle sue disposizioni stabili, mostra che non ci sono alternative ragionevoli alla nozione di una formazione integrale e armoniosa della persona e permette di dare un senso e un orientamento definito all’agire e alle ragioni per agire (cfr. anche Dent, 1999, 26 ss.; Sherman, 1999; Dunne, 1999; Curren, 1999). L’etica delle virtù, anche per la consapevolezza che esprime del principio, di matrice aristotelica, della capacità della scelta libera di modificare non solo stati di cose esterni, ma la stessa persona che agisce, pone la formazione del carattere, la costituzione dell’identità morale, come essenziale (cfr. Micheletti, 2006b). Presentazione dell’Autore: Mario Micheletti è professore ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale dell’Università di Siena, a Arezzo. I suoi principali interessi di ricerca sono i seguenti: 1) Filosofia analitica della religione, 2) etica e religione nel pensiero britannico dei secoli XVII e XVIII, 3) etica delle virtù. Fra le sue pubblicazioni più recenti, si ricordano i seguenti volumi: Tomismo analitico, Brescia, Morcelliana, 2007; La teologia razionale nella filosofia analitica, Roma, Carocci, 2010; I platonici di Cambridge. Il pensiero etico e religioso, Brescia, Morcelliana, 2011. Note 1 Hirst stesso ha finito col criticare in modo più deciso il razionalismo nella teoria dell’educazione in favore di una teoria più complessa dell’azione razionale: Hirst, 1983, 10.

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teorie comportamentistiche, cfr. Nucci, 2001, 5. Peters, cfr. ora Cuypers – Martin, 2011. 4 Cfr., ad es., anche in rapporto al tema “autorità ed educazione”, Peters, 1971a, 237 ss., 258 ss.; O’Hear, 1981, 124. 5 Sul tema della neutralità dell’insegnante, cfr. Warnock, 1975; Norman, 1975. 6 Si vedano anche le considerazioni di Sandin, 1992; Ellrod, 1992, 27 ss.; Stewart, 2009, 67; Nucci – Narvaez, 2008, 7; Wren, 2008, 18 ss.; Kiss – Euben, 2010, 11. 7 Sull’educazione spirituale, cfr. Astley, 2003; Carr, 2003. Su virtù, educazione politica e liberalismo, cfr. Callan 1997, 3 ss., 196 ss.; su posizioni assai diverse P.P. Simpson 2001, 156 ss. 3 Su

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TESTE PIENE O TESTE BEN FATTE: ARS VIVENDI E ARS SCRIBENDI IN MONTAIGNE Stefano Brogi Abstract: The paper is focused on the relation between art of writing and art of living in Montaigne, particularly in two Essays on education (Du pédantisme and De l’institution des enfants). On this ground the paper suggests some observations about the art of self-fashioning practiced by Montaigne, in the wake of humanism but also in opposition to them. This experiment is performed by writing the Essays, to the extent that ars scribendi and ars vivendi are inclined to be indistinguishable, in Montaigne’s case, in spite of his philistinism. Riassunto: Il saggio mette a fuoco il rapporto tra ars scribendi e ars vivendi in Montaigne, con particolare attenzione ai Saggi che si occupano di educazione (Du pédantisme e De l’institution des enfants). Ne scaturiscono alcune indicazioni sul complesso tentativo di formazione del sé di cui il grande perigordino fu protagonista, sulla scia dell’eredità umanistica ma anche in forte tensione dialettica con essa. Questo tentativo trovò concreta attuazione nella scrittura degli Essais, al punto che ars scribendi e ars vivendi risultano tendenzialmente coincidenti, nel caso di Montaigne, nonostante la sua polemica contro ogni forma di sapere libresco. Parole chiave: Montaigne, educazione, arte del vivere, libro, umanesimo

1. La polemica contro il sapere libresco è uno degli aspetti più appariscenti degli Essais, anche se non è facile inquadrare correttamente l’anti-intellettualismo di cui Montaigne ripetutamente fa professione, anche sul piano pedagogico. Si prenda un ben noto passo di Du pédantisme, che si pronuncia decisamente per un’educazione protesa verso la vita e non verso l’accumulazione di conoscenze: «Noi domandiamo volentieri: “Sa di greco o di latino? Scrive in versi o in prosa?” Ma la cosa principale era chiedere se è diventato migliore o più avveduto, ed è quello che resta in secondo piano. Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Proprio come gli uccelli vanno talvolta in cerca del granello e lo portano nel becco senza assaggiarlo per imbeccare i loro piccoli, così i nostri pedantes vanno spigolando la scienza nei libri e la tengono appena a fior di labbra, tanto per ributtarla fuori e gettarla al vento» (Montaigne,

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2012, 243-245). Notiamo subito che al sapere cumulativo di chi sa di più (il “plus savant”) viene contrapposta una sapienza pratica che contiene in sé la saggezza morale, per un verso, e la competenza operativa, per l’altro: chi sa meglio (il “mieux savant”) è infatti colui che si rende “meilleur ou plus avisé”, che non si limita a riempire la memoria ma, al contrario, coltiva “l’entendement et la conscience” (Ibidem, 242-244). Il saggio è colui che sa esercitare la propria capacità di giudizio e di determinazione nella concretezza dell’esperienza vissuta, non certo in una dimensione puramente erudita o speculativa, non è colui che sa, ma semmai colui che sa pensare e agire (“bien penser et bien faire”) (Ibidem, 252). La prospettiva del discorso appare chiara, almeno nel suo orientamento generale: è però l’autore stesso, tornando a distanza di qualche anno su questo passo, a inserirvi una considerazione autoironica, in cui si riflette la forte tensione interna di un anti-intellettualismo strutturalmente radicato nella tradizione umanistica. Il comportamento dell’erudito o del pedante, la loro “sottise”, appare ora a Montaigne singolarmente simile al suo stesso lavoro di scrittore: «è straordinario come questa stoltezza si convenga esattamente al caso mio. Non è fare la stessa cosa quel che io faccio nella maggior parte di questa composizione? Me ne vado piluccando qua e là nei libri le sentenze che mi piacciono, non per tenerle in serbo, perché non ho serbatoio [gardoire], ma per trasferirle in questo libro dove, a dire il vero, non sono più mie che nel loro posto primitivo. Siamo sapienti, credo, solo della scienza presente, non della passata, e altrettanto poco della futura» (Ibidem, 245). L’autore dei Saggi si rende conto del paradosso costituito dalla ricerca di un’ars vivendi che si realizza nella scrittura, di una polemica contro i pedanti che vivono nel mondo dei libri condotta all’interno di una sorta di libro-mondo. Montaigne non si limita ad attingere egli stesso al sapere dei libri, “piluccando qua e là”, ma in ultima analisi finisce per trasferire la sua stessa sapienza al di fuori di sé, nel libro a cui dà forma: si rende però conto che non è possibile immagazzinare la sapienza, né in un serbatoio esterno né in uno interno, perché in senso proprio essa si dà solo nel suo esercizio. La sapienza autentica è sempre operativa, per cui si può esser sapienti “solo della scienza presente”, quella che informa concretamente il nostro agire. Nel caso degli Essais, dunque, appare decisivo il saper scrivere, la sapienza conquistata nella scrittura del libro, in cui egli mette alla prova se stesso e la propria capacità di giudizio, mentre conta assai meno il prodotto finale, che in definitiva è solo deposito ormai inerte di un sapere che non appartiene più all’autore: a meno che il libro non resti un cantiere aperto, in continua rielaborazione. Perfino la scrittura può insomma diventare conquista e esercizio effettivo dell’arte di vivere, pratica concreta delle proprie capacità intellettuali e morali di giudizio, in cui l’autore dà forma prima di tutto a

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se stesso. Si capisce allora che, proprio come è impossibile emendare la propria vita passata, non sia lecito correggere quel che ormai è scritto, in linea di principio fissato una volta per tutte, mentre è possibile e anzi necessario aggiungervi qualcosa di nuovo, cioè continuare a vivere (e a scrivere) utilizzando le proprie risorse e le proprie energie in tutta la loro estensione, peraltro senza alcuna garanzia di far meglio di quanto si è fatto in precedenza. Si può già cogliere, sulla base di questi pochi elementi, la complessità del rapporto tra Montaigne e l’eredità umanistica. Un’eredità che egli indubbiamente fa propria, ma per sottoporla a una vera e propria metamorfosi, operando su alcune tensioni interne già caratteristiche dei grandi autori del primo Cinquecento, a cominciare da Erasmo. Si può così intendere in senso più generale quel che Garin affermava con specifico riferimento alla dimensione educativa: «Montaigne reagisce alla scuola umanistica, degenerata in un’arida precettistica grammaticale e retorica, proprio in nome dei principi dell’umanesimo», appellandosi a «un’istanza più profondamente umanistica […] contro la pedanteria grammaticale e la vuotezza retorica» e ponendo l’esigenza di «una soda filosofia morale, che costituisce libere e forti personalità» (Garin, 1976, 210-211). Montaigne ritorce insomma contro l’umanesimo e contro certi suoi epigoni alcune delle accuse che gli umanisti stessi avevano lanciato contro la pedanteria scolastica, spingendosi fino a mettere in discussione lo stesso legame essenziale tra vita bona e bonae litterae, uno dei presupposti cruciali su cui si era andata costruendo la tradizione umanistica. Quanto la polemica anti-libresca appartenga al filone principale dell’umanesimo è ben noto a qualunque lettore di Erasmo o di More: proprio qui si può misurare però lo scarto interno che Montaigne introduce nel discorso dei grandi pensatori dell’inizio del suo secolo. Egli si riallaccia in effetti al tema erasmiano dell’insufficienza di uno studio fine a se stesso, ma lo fa in un orizzonte ben diverso da quello dell’umanesimo cristiano. Come ricorda ancora Garin, «Banditore instancabile della nuova “filologia” nel suo valore umano, entusiasta della cultura umana concretatasi nel trionfo delle bonae litterae, Erasmo fu tuttavia fermissimo nel difendere i valori ideali e i metodi umanistici dalle loro degenerazioni pedantesche, che, in modi diversi, restauravano, o conservavano sotto mutate sembianze, la ottusa pedanteria scolastica» (Ibidem, 153). Il fatto è che per Erasmo questo doppio movimento, di esaltazione e nel contempo di critica della cultura filosofica e letteraria, si inserisce a pieno titolo nell’orizzonte della philosophia Christi: Montaigne lo ripropone invece nell’ambito di una riflessione tutta profana, che senza rifiutare una superiore dimensione religiosa la lascia tuttavia ai margini dell’attenzione. La convergenza sul primato della sapienza vissuta su ogni forma di dottrinarismo o di dogmatismo assume dunque una connotazione tutta diversa nei due autori.

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Il biblicismo di Erasmo, con la sua sottolineatura costante dell’esigenza della conversione della vita, non tende solo a relegare le controversie teologiche e il sapere disputatorio degli scolastici tra gli adiaphora, ma ne denuncia implicitamente e talora esplicitamente le pretese autoritarie e il dogmatismo, incompatibili con la libertà e la semplicità dell’annuncio evangelico. L’ars vivendi tutta terrena di Montaigne, invece, con le sue venature epicuree e stoiche, non esclude una realistica e conformistica adesione all’ordine stabilito, pur rivendicando uno spazio privato, per il saggio, di esercizio della critica. Anche nella ricerca di una personale libertà di pensiero si misura la somiglianza e la differenza tra Erasmo e Montaigne: l’uno ancora capace di proporsi un ruolo pubblico di pacificazione e di formazione culturale, sebbene assista al primo fronteggiarsi degli schieramenti che presto travolgeranno l’Europa; l’altro costretto ad appellarsi ormai alla dimensione puramente privata dell’indagine intellettuale. L’uno ancora animato dalla speranza di un rinnovamento evangelico capace di scalzare, almeno in prospettiva, la furia dell’intolleranza e del dogmatismo; l’altro capace di intravedere come uniche potenziali difese della libertà intellettuale lo strutturarsi di un potere politico abbastanza forte per contrastare il fanatismo religioso e ancor più la delimitazione di uno spazio personale il più possibile riparato dai conflitti pubblici. L’uno pervaso da un’autentica tensione religiosa, pur con caratteristiche nuove e originali, che lo spinge a considerare questa vita terrena come un passaggio verso la vita vera; l’altro capace di scavare nel proprio universo interiore alla ricerca di significati immanenti del vivere e del morire, in cui l’orizzonte oltremondano appare ormai, se non inattingibile, certo sfuocato e distante. La philosophia Christi di Erasmo non è una “filosofia” nel senso che noi siamo abituati a dare a questo termine. Non è una qualche dottrina, ma una forma di vita, un modo di stare al mondo. Cristo non ci ha affidato un lascito teorico, ma la sua stessa vita, con la sua passione, morte e resurrezione: ipsa philosophia Christus (cfr. Cavazza, 1986). E tuttavia la dimensione linguistica è fondante, in Erasmo: il sermo divino si è incarnato per noi nella predicazione del Cristo e poi nel testo stesso della Scrittura. Inscindibilmente legato con la vita, insomma, il Vangelo erasmiano è però al tempo stesso, nella sua radice più profonda, logos, cioè discorso intelligibile, parola comunicante, colloquio che sollecita la nostra ragione e la nostra volontà e che ci è consegnato attraverso un testo che richiede di essere preservato, indagato e studiato con tutti i mezzi a nostra disposizione (Boyle, 1977; Chomarat, 1981). Il fatto stesso che Dio si riveli attraverso un libro conferisce valore e implicita sacralità a ogni libro, purché esso sia strumento autentico di conoscenza e di spiritualità. Certamente la lettera non è mai fine a se stessa, perché solo lo spirito salva, ma la scrittura, nel senso più generale, è il veicolo che Dio ha scelto per rivelarsi e per con-

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durci alla salvezza: per questo il grammatico, l’uomo dei libri, partecipa in qualche misura di una funzione sacerdotale, purché non scivoli nella tentazione sempre incombente della pedanteria e nella follia di sostituire il proprio sapere terreno a quello dell’unica sapienza che è spirito e vita. Questa dimensione sacerdotale delle litterae è completamente assente in Montaigne, in cui emerge invece un senso acutissimo della finitezza e della necessità di calarsi fino in fondo dentro di essa. Il legame strettissimo che anche per lui si ripropone tra il libro e la vita è privo di significativi risvolti religiosi e vale in definitiva per un’esperienza di scrittura, fragilissima sebbene privilegiata, qual è quella che lui consapevolmente conduce, non per i libri in generale. Nei libri Montaigne non cerca mai le tracce di una qualche superiore sapienza, ma conferme e conforti per il suo viaggio interiore, in cui sa bene di essere obbligato a rischiare in proprio, anche quando attinge a Seneca o a Plutarco. Il problema, con i libri, è che essi possono divenire pretesto o nascondiglio per sfuggire al rischio della vita, alibi per la nostra incapacità di vivere in prima persona. «Siamo buoni a dire: “Cicerone dice così”, “questi sono i costumi di Platone”, “queste sono proprio le parole di Aristotele”. Ma noi, da parte nostra, che cosa diciamo? Che giudizi diamo? Che cosa facciamo? Anche un pappagallo saprebbe fare altrettanto» (Montaigne, 2012, 245). L’illusione che il sapere altrui possa surrogare il nostro viene paradigmaticamente attribuita a quel ricco romano che si era dato da fare, senza badare a spese, per avere costantemente a propria disposizione esperti in ogni tipo di scienza, «affinché, quando gli si presentasse l’occasione di parlare con i propri amici di una cosa o dell’altra, essi prendessero il suo posto e fossero sempre pronti a fornirgli chi un discorso, chi un verso di Omero, ciascuno secondo la propria specialità; e pensava che quel sapere fosse suo perché era nella testa dei suoi uomini; e così fanno anche quelli la cui dottrina sta nelle loro sontuose biblioteche» (Ibidem, 245-247). L’unico sapere che Montaigne considera degno d’interesse è quello utile alla vita, questa vita terrestre di cui cerca di esplorare le molteplici forme sempre cangianti. Non si tratta, naturalmente, di un sapere meramente tecnico, perché la sua dimensione fondamentale è quella del giudizio e della scelta: la dimensione operativa è però intrinseca a quella deliberativa, che deve far fronte alle sfide concrete che la natura e gli uomini ci pongono di fronte. Questo tipo di sapere non si può prendere in prestito da altri, ma va digerito e assimilato, perché ci faccia crescere e ci renda più forti. Contro la paura della morte non ci si può armare a spese di Seneca o trovare consolazione a spese di Cicerone: da loro possiamo trarre esempio e aiuto, ma solo se siamo disposti a pagare di tasca nostra. «Quand’anche potessimo esser sapienti del sapere altrui, saggi, almeno, non possiamo esserlo che della nostra propria saggezza» (Ibidem, 247). Tutto il contrario, insomma, della pedanteria di chi crede di esser sag-

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gio perché può esibire o citare un libro, un genere di uomo verso cui Montaigne manifesta il più alto disprezzo: «Conosco uno che quando gli domando che cosa sa, mi chiede un libro per mostrarmelo; e non oserebbe dirmi che ha il deretano rognoso, senza andare immediatamente a studiar sul suo lessico che cos’è rognoso e che cos’è deretano» (Ibidem). 2. I riferimenti spartani ritornano spesso, negli Essais, dove si tratta di prendere le distanze da modelli educativi di tipo erudito e autoreferenziale, in favore di un’educazione morale e civile orientata effettivamente alla vita. Ciò avviene con particolare insistenza in Du pédantisme (I, 25): «È cosa degna di moltissima considerazione che nell’ottima legislazione di Licurgo, in verità prodigiosa [monstreuse] per la sua perfezione, quantunque essa fosse tanto sollecita dell’educazione dei fanciulli come del suo principale compito, e nel nido stesso delle Muse, si facesse così scarsa menzione della dottrina: come se a quella gioventù generosa, che sdegnava ogni altro giogo che non fosse quello della virtù, si dovessero fornire, invece dei nostri maestri di scienza, solo dei maestri di valore, di prudenza e di giustizia; esempio che Platone ha seguito nelle Leggi» (Montaigne, 2012, 255). La funzione educativa era al centro dello stato spartano, ma era orientata all’agire, non all’accumulazione del sapere. Si puntava infatti a stimolare il coraggio, l’astuzia e le abilità guerriere, ben più che la conformità ad astratte norme morali: il richiamo è qui alle notizie plutarchee sull’incoraggiamento perché i giovani dimostrassero la propria abilità nel furto del cibo (secondo Plutarco essi dovevano temere le punizioni non per il furto in sé, ma per la loro eventuale mancanza di destrezza) (II, 12: Montaigne, 2012, 1071; cfr. Plutarco, 1990, 67). La polemica contro l’educazione libresca non significa rifiuto o svalutazione dello studio e della lettura, purché questi restino funzionali alle esigenze vitali. Perfino a Sparta era previsto l’insegnamento della storia: uno studio di valore inestimabile, in quanto via d’accesso alle grandi personalità del passato e ai loro straordinari esempi di vita. I libri possono essere un’occupazione del tutto futile e vana, ma anche un’occasione privilegiata per penetrare la natura umana. Nei libri non si deve cercare un modo di estraniarsi dalla frequentazione degli uomini, ma al contrario per conoscerli meglio, per apprenderne costumi e debolezze, capricci e virtù, si afferma in De l’institution des enfants (I, 26): «In questa pratica degli uomini intendo comprendere, e soprattutto, quelli che vivono solo nella memoria dei libri. Egli frequenterà, per mezzo delle storie, le grandi anime dei secoli migliori. È questo, se si vuole, uno studio vano; ma è anche, se si vuole, uno studio che dà frutti inestimabili» (Ibidem, 281). Vi è una differenza enorme tra gli usi che si possono fare di uno stesso libro, soprattutto se è un libro di storia: c’è chi non è capace di

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affrancarsi dalla mera erudizione e chi sa trarne spunto per riflessioni acutissime sulla vita propria e altrui, su come essere artefici della propria esistenza e su come trattare con gli altri uomini. «A mio parere questa è, fra tutte, la materia a cui i nostri ingegni si applicano in più diversa misura. Io ho letto in Tito Livio cento cose che un altro non vi ha letto. Plutarco ve ne ha lette cento più di quelle che io ho saputo leggervi; e forse anche più di quelle che l’autore vi aveva messo. Per alcuni è un puro studio grammaticale; per altri l’anatomia della filosofia, nella quale si penetrano le parti più astruse della nostra natura» (Ibidem, 281-283). Montaigne sembra davvero precorrere, in questo caso, certi accenti della Seconda Inattuale nietzscheana (cfr. Panichi, 1995). Lo studio della storia deve essere finalizzato alla vita, cioè all’apprendimento e all’emulazione di capacità indispensabili all’esercizio effettivo delle proprie responsabilità. Responsabilità che lo stesso Montaigne fu evidentemente obbligato ad assumersi nel corso della sua vita, come soldato, come magistrato e come sindaco di Bordeaux. La conoscenza degli uomini e della storia gli fu senz’altro utile, in quei frangenti, ma quelle esperienze rafforzarono in lui la convinzione che l’autentico sapere è quello che prepara all’azione, che addestra alla responsabilità della scelta, non certo quello che si limita a immagazzinare conoscenze fini a se stesse. L’educazione spartana era conforme al modello sociale organicistico di cui la città laconica fu la più nota espressione nell’antichità. I risultati erano vistosi, secondo il topos che Montaigne raccoglie con alcune sottolineature personali: «I retori, i pittori e i musici si andava a cercarli nelle altre città di Grecia, i legislatori, i magistrati e i comandanti di eserciti a Sparta. Ad Atene si imparava a parlar bene, e qui ad agir bene; là a cavarsela in una dissertazione sofistica e a rovesciar l’impostura delle parole capziosamente involute, qui a liberarsi dalle lusinghe del piacere e a respingere con gran coraggio le minacce della fortuna e della morte; quelli si affaccendavano dietro alle parole, questi dietro alle cose; là era un continuo esercizio della lingua, qui un continuo esercizio dell’anima» (Ibidem). I ragazzi spartani non venivano guidati, in prima istanza, all’acquisizione di specifiche competenze, ma a divenire membri di una società e di uno stato che anteponeva le esigenze collettive, di tipo politico e militare, a quelle individuali. Proprio per questo l’educazione aveva, nella città lacedemone, una centralità che non era dato riscontrare altrove (Ibidem, 257-259). In questo contesto ritorna insistentemente, negli Essais, il confronto tra un’educazione di tipo retorico-letterario e un’educazione di tipo militare, che riprende un topos ricorrente nella cultura cinquecentesca. In verità Montaigne ne fa un uso ben diverso – come ha ben mostrato, tra gli altri, Supple, 1984 – da quello prevalente nelle opere dei suoi contemporanei, che per lo più tendevano a sottolineare la necessità di includere lo

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studio delle lettere nella formazione del buon comandante. Il perigordino insiste piuttosto sulla sostanziale inconciliabilità tra questi due tipi di formazione, non solo per i diversi contenuti, ma per la diversità generale dell’approccio e delle finalità. A testimoniare della superiorità del modello spartano, anche in questo caso, veniva chiamato il Socrate che si prendeva gioco del sapere sofistico di Ippia e che lo portava a riconoscere che gli apparentemente rozzi spartani erano in realtà più virtuosi e felici degli altri Greci e in particolare dei raffinati Ateniesi, dediti ad arti inutili e vane (Montaigne, 2012, 259). Esempi come questo insegnano «che lo studio delle scienze infiacchisce gli animi e li rende più effeminati, più che fortificarli e agguerrirli». Non è un caso se «lo Stato che attualmente sembra il più forte nel mondo è quello dei Turchi: popoli anch’essi educati al rispetto delle armi e al disprezzo delle lettere» (Ibidem). La stessa Roma fu più valorosa quando non era ancora diventata sapiente, mentre la diffusione delle arti e delle lettere indebolì le sue virtù militari (Ibidem). Molti studiosi (cfr. MacPhail, 2002) hanno insistito sulla vicinanza di Montaigne alle rappresentazioni culturali degli ambienti aristocratici che rivendicavano il primato del proprio ruolo soprattutto militare, sebbene la sua famiglia fosse di recente anoblissement (o forse proprio per questo). In ogni caso gli Essais appaiono scarsamente interessati alla dimensione propriamente politica del mito spartano, che tanta fortuna aveva avuto nel suo secolo ed era destinata ad avere in quelli successivi. Non vi sono richiami alle discussioni sul modello “misto” di governo che Sparta suggerì a Machiavelli o a Bodin. Poco presente, al di fuori dei passi già citati, lo stesso parallelo tra Sparta e Roma, che fu invece dominante in tutta la prima età moderna, ben più dell’opposizione Sparta-Atene (cfr. Vlassopoulos, 2012). A colpire il De la colère è invece, significativamente, proprio la centralità dell’educazione nell’organizzazione dello stato spartano, indicata come antidoto necessario agli abusi che caratterizzano l’educazione familiare. Riprendendo Plutarco, Montaigne bolla come sconsiderata l’abitudine di «abbandonare i fanciulli all’autorità e alla cura dei padri». Già Aristotele, del resto, denunciava che la maggior parte degli stati lasciasse a ogni capofamiglia, «al modo dei Ciclopi, il governo delle mogli e dei figli, secondo la propria folle e sconsiderata fantasia». Solo la costituzione spartana e l’ancor più mitica costituzione cretese hanno regolato per legge l’istruzione dei fanciulli e dei ragazzi, sebbene si tratti di una funzione decisiva per la vita e la prosperità di qualunque società: «Chi non vede che in uno Stato tutto dipende dal modo come la si educa e la si alleva? E tuttavia, senza alcun discernimento, la si lascia alla mercé dei genitori, per quanto stolti e malvagi possano essere» (Montaigne, 2012, 1317). L’autore confessa di aver avuto molte volte, per strada, la tentazione

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«di fare una scena per vendicare dei ragazzetti che vedevo spellare, picchiare e pestare da qualche padre o madre infuriati e fuor di senno per la collera» (Ibidem). Gli appare perciò inconcepibile che l’autorità pubblica non intervenga a sanzionare e limitare, se non a prevenire, questi abusi. Nel concreto, però, a differenza di Erasmo, egli si limita ad invocare l’intervento dello stato solo per correggere gli eccessi dell’educazione privata: l’apprezzamento per il modello spartano non si traduce insomma nella prefigurazione effettiva di una riforma dell’educazione che privilegi la dimensione pubblica. Anche in questo caso Montaigne non dimostra davvero l’animo del riformatore. La sua acuta consapevolezza dei limiti delle pratiche educative più diffuse non lo spinge a sollecitare trasformazioni di carattere sociale o politico. Al contrario egli dedica la sua attenzione alle modalità correnti di educazione delle élites, senza voler proporre mutamenti strutturali, ma reclamando semmai uno stile e uno sguardo diverso all’interno di moduli consolidati e che ritiene evidentemente difficilmente modificabili. È questa, mi pare, la prospettiva del De l’institution des enfants indirizzato alla contessa di Gurson, Diane de Foix, in cui si guarda bene dal riproporre come concreto suggerimento l’ardita sperimentazione pedagogica che suo padre aveva tentato per insegnargli il latino, anche se la ricorda nel dettaglio per trarne spunti e indicazioni che affida alla riflessione dei genitori del bambino appena nato (Ibidem, 315-317). 3. Sebbene in Montaigne vi siano importanti riflessioni di carattere pedagogico, in lui prevale una diffidenza generale verso ogni modello educativo precostituito. In fondo anche scrivendo a Diane de Foix egli finisce per parlare di sé, più che proporre suggerimenti per l’educazione del bambino della sua interlocutrice. Il fatto è che la grande impresa pedagogica di Montaigne riguarda per l’appunto se stesso e coincide proprio con la scrittura degli Essais. Scrivendo il libro della sua vita (i diversi sensi di quest’espressione sono assolutamente inscindibili, nel suo caso) Montaigne ci rende testimoni di un prodigioso lavoro di costruzione e modellamento (che è anche continuo rimodellamento) del sé. Gli Essais non sono un surrogato della vita, una forma di compensazione per una vita non vissuta, ma piuttosto un tentativo di vivere di più e meglio. Non lo si potrebbe dichiarare più esplicitamente: «Non fo alcun conto dei beni che non ho potuto impiegare a servizio della mia vita. Quale che io sia, voglio esserlo altrove che sulla carta. La mia arte e la mia abilità sono state impiegate a farmi valere per me stesso. I miei studi, a insegnarmi ad agire, non a scrivere. Ho dedicato tutti i miei sforzi a formare la mia vita. Ecco il mio mestiere e la mia opera. Sono facitore di libri meno che di ogni altra cosa. Ho desiderato il sapere per il servizio delle mie comodità

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presenti ed essenziali, non per farne magazzino e riserva per i miei eredi» (ibidem, 1451). Lo stesso invito viene rivolto, per naturale consequenzialità, ai lettori: «Chi ha qualche valore, lo faccia apparire nei suoi costumi, nei suoi discorsi abituali, nel trattare l’amore o le liti, nel gioco, a letto, a tavola, nella condotta dei suoi affari e nell’amministrazione della sua casa. Quelli a cui vedo fare dei buoni libri avendo le brache rotte, avrebbero dovuto pensare prima di tutto alle loro brache, se mi avessero dato retta» (Ibidem). Dal canto suo l’autore non vorrebbe essere ricordato come «uomo abile nello scrivere, ed essere uomo da niente e sciocco nel resto. Preferisco ancora essere uno sciocco e qui e là, che aver scelto così male come impiegare il mio valore» (Ibidem). Chi ha saputo meditare e regolare la propria vita ha compiuto l’impresa più grande di tutte, l’unica che in fondo abbia valore: «Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non comporre libri, e conquistare non battaglie e province, ma l’ordine e la tranquillità alla nostra vita. Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve. Tutte le altre cose, regnare, ammassar tesori, costruire, non sono per lo più che appendicoli e ammennicoli» (III, 13: Ibidem, 2069). Che tipo di uomo vorrebbe essere Montaigne, a quale vita vorrebbe educarsi? Ancora una volta, una vita tutta terrestre e perciò integralmente umana: «Non c’è nulla di così bello e legittimo come far bene e dovutamente l’uomo. Né scienza tanto ardua quanto quella di saper viver bene e con naturalezza questa vita. E la più bestiale delle nostre malattie è disprezzare il nostro essere. Chi vuol astrarre la propria anima lo faccia arditamente, se può, quando il corpo starà male, per liberarla da questo contagio. In altri casi, invece, essa lo assista e favorisca, e non rifiuti di partecipare ai suoi piaceri naturali, e di compiacervisi coniugalmente, portandovi, se è più saggia, la moderazione, per paura che per dissennatezza essi non si confondano col dispiacere» (Ibidem, 2073). La natura è la guida più sicura per apprendere l’arte del vivere: «Come essa ci ha fornito di piedi per camminare, così ci ha fornito di saggezza per guidarci nella vita: saggezza non tanto ingegnosa, vigorosa e pomposa» come quella inventata dai filosofi, ma in compenso «facile e salutare, e che fa assai bene ciò che l’altra dice, in chi ha la fortuna di sapersi condurre spontaneamente e moderatamente: cioè naturalmente. Affidarsi il più semplicemente possibile alla natura, è affidarcisi il più saggiamente. Oh quale capezzale dolce e molle, e sano, è l’ignoranza e l’indifferenza, per riposare una testa ben fatta!» (Ibidem, 1999). Ma la natura umana è per eccellenza mutevole, variabile, multiforme: paradossalmente più capace di seguire la natura propria dell’uomo è chi è capace di assumere le forme di vita più diverse, cioè chi è cosciente di non avere una natura predefinita. «La nostra dote principale è il sapersi applicare a diversi usi. È essere, ma non è vivere, tenersi attaccato

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e obbligato per necessità a una sola linea di condotta. Le più belle anime sono quelle che hanno maggior varietà e duttilità. […] Se dipendesse da me foggiarmi a modo mio, non c’è alcuna forma per quanto buona in cui volessi essere conficcato così da non sapermene distaccare. La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme. Non è essere amico di sé, e meno ancora padrone, è esserne schiavo, il seguire se stesso continuamente, ed essere così preso dalle proprie inclinazioni da non potersene mai distogliere, da non poterle stravolgere» (Ibidem, 1513). Si tratta di allenare la propria capacità di adattamento alle innumerevoli e diverse condizioni e situazioni della vita, di saper percorrere con la stessa naturalezza strade diverse, di essere frugali a Sparta e voluttuosi in Persia, sull’esempio di Alcibiade (Ibidem, 303). La continua opera di autoformazione a cui Montaigne si dedica non suppone un ideale preformato di uomo, non tende a un telos predefinito, ma semmai alla sperimentazione di tutte le possibilità inscritte nella nostra natura. L’impegno per la costruzione di se stesso è, almeno tendenzialmente, totalizzante. Proprio per questo è importante disporre di tanto in tanto di qualche diversivo, ad esempio quelli di cui si tratta in De trois commerces (III, 3): la conversazione con i diversi generi di uomini, dai più bassi e volgari ai più sapienti; la piacevole compagnia delle donne, con i giochi della seduzione; la lettura dei libri. In apparenza questi diversivi sono una pausa dallo studio di se stesso, ma non sono affatto semplici distrazioni: la diversion si connota anzi paradossalmente come momento privilegiato di formazione. Per chi, come Montaigne, preferisce “forgiare la [propria] anima che guarnirla” i libri sono occasione di riposo e di distrazione, ma anche occupazione particolarmente utile e propizia: «La lettura mi serve in special modo a svegliare con diversi oggetti il mio ragionamento, a far lavorare il mio giudizio, non la mia memoria» (Ibidem, 1515). Ha ragione dunque chi sostiene che la scrittura degli Essais è per Montaigne «an ethical practice of self-work and self-fashioning» in cui egli si mette costantemente alla prova attraverso «trials and tests, not objective reports and findings» (De Marzio, 2012, 400). Ciò che caratterizza questa pratica auto-educativa è però l’assenza di un modello predefinito a cui tendere, poiché l’unico obiettivo è di sviluppare al massimo tutte le proprie potenzialità, senza discriminare a priori tra quelle positive e quelle negative: «Multum interest utrum peccare aliquis nolit aut nesciat», secondo il detto di Seneca (Montaigne, 2012, 303). Del resto l’autore non è affatto sicuro di poter progredire costantemente nella sua ricerca. In questa chiave si possono leggere anche le affermazioni relative alle stratificazioni successive degli Essais: «non correggo le mie prime idee con le successive […]. Voglio riprodurre il corso dei miei umori, e che si veda ogni parte nel suo nascere» (Ibidem, 1401). E ancora più chiaramente, nella “terza aggiunta” del 1588, che contiene il celebre e

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programmatico “Aggiungo, ma non correggo”, motivato proprio dalla convinzione che ciò che vien dopo non è necessariamente migliore di quel che l’ha preceduto: «Il mio ingegno non va sempre avanti, va anche indietro. Non diffido meno dei miei pensieri perché sono secondi o terzi invece che primi, o presenti invece che passati. Ci correggiamo spesso altrettanto scioccamente come correggiamo gli altri. Le mie prime pubblicazioni furono nell’anno millecinquecentottanta. Da allora sono invecchiato d’un buon numero d’anni, ma non sono certo diventato più saggio, neppure d’un pollice. Il mio io di adesso e il mio io di poco fa, siamo certo due. Ma quale sia migliore non posso davvero dirlo. Sarebbe bello esser vecchi se non procedessimo che verso il miglioramento. È un andamento da ubriaco, titubante, da capogiro, informe, o di giunchi che il vento fa muovere a caso, a suo piacere» (Ibidem, 1789-1791). Montaigne non è solo ben lontano dalla convinzione che la storia umana sia descrivibile come un progresso costante, più o meno lineare. Ancor più radicalmente egli dissocia il suo intento autoformativo dalla prospettiva di una crescita personale come maturazione e arricchimento graduale. Egli è consapevole che la sua vita, come quella altrui, non è affatto una serie di conquiste progressive, ma un alternarsi di successi e di sconfitte, di avanzamenti e arretramenti. Egli descrive perciò la sua e la nostra esperienza di vita come un incedere tortuoso e spesso casuale, in cui ogni volta viene rimesso in discussione quel che si è acquisito: ogni nuova pagina del libro che scriviamo ogni giorno, sulla carta come nella vita, può essere il nostro capolavoro, ma può anche dimostrarsi indegna di quel che avevamo già prodotto. Solo chi sa accettare questo stato di cose può, in definitiva, accettare se stesso, il che non implica la rinuncia al tentativo di costruirsi nel modo migliore possibile nella sfida di ogni giorno. Il senso della propria ineliminabile incompiutezza è insomma il miglior antidoto rispetto a ogni vaneggiamento perfezionistico e all’illusione che le conquiste passate siano acquisite una volta per tutte. L’ars vivendi si apprende come si impara la sapienza dell’artigiano, che ogni giorno si mette di nuovo alla prova e che è così diversa dalla boria dell’erudito, convinto di aver immagazzinato per sempre il proprio sapere. Presentazione dell’Autore: Stefano Brogi è ricercatore confermato di Storia della filosofia presso la sede aretina dell’Università di Siena (Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale). I suoi libri più recenti sono Il ritorno di Erasmo: critica, filosofia e religione nella «République des Lettres» (Milano, F. Angeli, 2012) e Nessuno vorrebbe rinascere: da Leopardi alla storia di un’idea tra antichi e moderni (Pisa, ETS, 2012).

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TEORIA CRITICA, EDUCAZIONE E EDUCAZIONE ESTETICA Ferdinando Abbri Abstract: The paper aims at considering a neglected aspect of Herbert Marcuse’s philosophical thought, that is, his conceptions of the philosophy of education and of the aesthetical education. Such conceptions are considered according to his projects of reform of man and society. Riassunto: Il saggio intende considerare un aspetto trascurato nelle ricostruzioni del pensiero di Herbert Marcuse, ossia le sue concezioni di filosofia dell’educazione e di educazione estetica in particolare. Queste concezioni sono connesse al progetto di riforma dell’uomo e della società. Parole chiave: Marcuse, educazione, teoria critica, estetica, cultura.

Alla metà degli anni sessanta del secolo scorso Herbert Marcuse (1898-1979), filosofo tedesco naturalizzato americano di orientamento marxista, professore universitario, autore di opere filosofiche di rilievo, divenne una figura celebre a livello internazionale perché fu considerato il teorico di riferimento dei movimenti studenteschi e antimperialistici che animarono quella stagione politica. Marcuse lavorava da tempo attorno ai nodi teorici del marxismo, in particolare sui rapporti di Marx col pensiero di Hegel, a temi di filosofia critica, e un suo volume del 1964 dal titolo One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society (Marcuse, 1967b) fu considerato una fonte privilegiata per l’analisi della situazione sociale e per l’azione politica: Marcuse divenne il referente filosofico della Nuova sinistra. Nella parte finale del volume del 1964 Marcuse aveva sostenuto, a fronte della società capitalistica avanzata, un individualistico “Great Refusal” (Ibidem, 256-266) ma negli scritti politici pubblicati dal 1964 sino all’anno della sua morte cercò di elaborare teorie volte a costituire la base per l’azione dei movimenti appartenenti alla Nuova sinistra, che venne da lui vista, per diverse ragioni, come una forza politica significativa. In particolare, la Nuova sinistra aveva avuto il merito di porre al centro della lotta politica temi legati ai bisogni non materiali (relazioni interpersonali, determinazioni di sé, l’idea di comunità, la liberazione delle donne e delle minoranze etniche e sessuali) e aveva considerato come cruciali la preservazione della natura, la ricerca della felicità e della soddisfazione delle esigenze erotiche e estetiche da parte degli individui (Marcuse, 2005).

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È possibile, in maniera del tutto schematica, dividere la carriera filosofica di Marcuse in tappe diverse che sono segnate dal tentativo di trovare una sintesi tra il pensiero di Marx e l’approccio fenomenologico, la filosofia dell’esistenza di Sein und Zeit (1927) del suo maestro Martin Heidegger; dal lavoro sui fondamenti della teoria critica nel contesto dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte del quale fece parte a partire dal 1933; da una profonda riflessione su Marx in relazione a Hegel e al metodo della dialettica; dalla indagine filosofica su Freud culminata in Eros and Civilisation del 1955 (Marcuse, 1967a). Nel periodo compreso tra Eros and Civilisation e One-Dimensional Man, ovvero tra due poli filosoficamente significativi ma differenti per quanto riguarda diagnosi e prospettive, Marcuse pubblicò (1958) un volume su Soviet Marxism. A Critical Analysis (Marcuse, 1969b) che contiene una dura critica del marxismo sovietico nelle sue diverse manifestazioni. Nella prima parte di questo volume Marcuse svolgeva osservazioni critiche anche sulla teoria del cosiddetto realismo socialista nell’arte; il realismo poteva essere considerato una forma progressiva e critica di arte, in quanto capace di mostrare l’ideale della libertà umana, ma quello sovietico accettava la realtà sociale stabilita come un contesto stabile e definitivo del contenuto artistico, senza ammettere alcuna possibilità di trascendenza in fatto di stile o di contenuto (Ibidem, 129). Marcuse riconosceva che l’estetica sovietica, nonostante le sue “most shocking notions”, possedeva una piena consapevolezza della funzione sociale dell’arte, derivata da una sottolineatura della sua funzione cognitiva, ma non stabiliva che l’arte come forza politica è arte in quanto conserva le immagini di liberazione. In una società come quella sovietica si praticava la negazione di queste immagini perché lo stato sovietico proibiva la trascendenza dell’arte (Ibidem, 131-133). Come ho accennato sopra, negli anni sessanta la teoria politica marcusiana guardò ai movimenti della Nuova sinistra mentre da un punto di vista strettamente filosofico Marcuse pose al centro della sua riflessione la questione estetica, il problema del bello, dell’educazione estetica, di una trasformazione del sapere e della tecnologia, tutti temi che erano in verità da tempo presenti nella sua agenda filosofica ma che assunsero un valore decisivo proprio nell’ultima fase della sua vita. Su quest’ultima fase marcusiana si è molto discusso e gli studiosi si sono divisi tra chi la considera un deciso impoverimento teoretico rispetto ai grandi testi dedicati a Hegel (Marcuse 1969a; 1997) e alla teoria critica e chi vi ritrova una piena continuità tematica, anzi una ripresa decisiva di argomenti che erano stati considerati sin dal periodo della sua formazione in Germania, ossia durante la Repubblica di Weimar. Nel 1999 Leonardo Casini ha pubblicato un volume dal titolo Eros e utopia. Arte, sensualità e liberazione nel pensiero di Herbert Marcuse (Casini, 1999) nel quale viene indicata e ben definita la centralità della riflessione estetica nell’arco di tutto il

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pensiero marcusiano. La riflessione estetica di Marcuse ha conosciuto un impatto assai più limitato rispetto alla teoria estetica di Theodor W. Adorno, suo collega presso l’Istituto francofortese, anche lui impegnato nell’elaborazione di una teoria critica, ma costituisce un capitolo decisivo della sua opera filosofica (Abbri, 2006). In questo saggio non intendo ripercorrere il pensiero marcusiano nelle sue diverse articolazioni o proporre un bilancio della sua parabola filosofica, voglio soltanto considerare due aspetti del suo pensiero, connessi ma di rilievo diverso, che riguardano il tema dell’educazione, cioè i riflessi in ambito educativo delle concezioni critiche marcusiane, e il significato attribuito dal filosofo tedesco-americano alla educazione alla bellezza, in particolare il ruolo svolto da questa educazione nella prassi di una formazione umana e politica radicalmente alternativa. Questo secondo aspetto possiede un rilievo filosofico notevole perché è al centro del tardo pensiero di Marcuse e se considerato anche alla luce di una idea specifica di educazione mostra che la preoccupazione pedagogica non era estranea al disegno del marxismo critico marcusiano. Giova segnalare che Marcuse era un professore attento, affascinante, che prestava particolare attenzione ai suoi studenti. Di recente Andrew Feenberg ha ricordato che nel 1965 da graduate student di filosofia all’Università della California a La Jolla chiese al Professor Herbert Marcuse di aiutarlo a leggere Essere e tempo di Heidegger e di aver passato molti pomeriggi del martedì a discutere con lui il significato di parti oscure di quel difficile libro (Feenberg, 2005, ix). Dagli inizi del nuovo secolo si assiste negli Stati Uniti ad una ripresa degli studi su Marcuse che si traducono in monografie, nella pubblicazione di edizioni in inglese dei suoi saggi editi e, soprattutto, di molti inediti conservati nell’Archivio Marcuse. Douglas Kellner ha pubblicato nel 1984 un’importante biografia intellettuale dal titolo Herbert Marcuse and the Crisis of Marxism (Kellner, 1984), e dal 1998 è il curatore di una edizione in sei volumi (ad oggi ne sono stati pubblicati cinque) per l’editore Routledge (Londra – New York) dei Collected Papers of Herbert Marcuse. Questa edizione ha favorito traduzioni, una nuova circolazione degli scritti, delle concezioni marcusiane anche nel nostro paese grazie in particolare a Raffaele Laudani che nel 2005 ha per altro pubblicato un volume dal titolo Politica come movimento. Il pensiero di Herbert Marcuse (Laudani, 2005). Questa ripresa degli studi è stata vista negli USA come l’espressione di un atteggiamento nostalgico nei confronti degli anni sessanta del Novecento, si tratta in verità di ripensare, alla luce di scritti editi e soprattutto inediti, un’avventura filosofica significativa, connessa ad eventi di innegabile rilievo storico. Nel 2009 Kellner, Tyson Lewis, Clayton Pierce, K. Daniel Cho hanno curato un volume di saggi dal titolo Marcuse’s Challenge to Education che

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ha come oggetto la analisi critica della educazione scolastica ad opera di Marcuse che veniva da lui ritenuta capace di generare «transformative pedagogical practices through a reconstruction of schooling» (Kellner, Lewis, Pierce, Cho, 2009, 2). Nella loro Introduzione tre dei curatori indicano che il legame di Marcuse con una pedagogia critica e con la filosofia dell’educazione è indiretto, pur tuttavia esiste una letteratura su questo argomento e ricordano che Marcuse, più di ogni altro filosofo di professione del suo tempo, è stato il promotore della filosofia classica, comprendente Platone, Rousseau, Kant, Hegel, Marx, Nietzsche, Heidegger e Freud. In polemica culturale con alcuni movimenti di opposizione, di liberazione delle minoranze, dei quali era pur sempre un sostenitore e referente filosofico, Marcuse si oppose ad un abbandono dei “great books” della tradizione occidentale, propose invece una loro lettura critica alla luce dei problemi contemporanei. Molte idee marcusiane sulla educazione e sulla scuola vanno poste in collegamento con le proposte di alcuni teorici dell’educazione moderna, da Rousseau a John Dewey poiché Marcuse riteneva necessario uno sviluppo libero, interattivo di tutti gli aspetti dell’essere umano, dalla cura e pratica sensoriale del corpo allo sviluppo della razionalità critica, e questo sviluppo implicava il rifiuto di una società e di una scuola unidimensionali. In idee di questo tipo è rintracciabile una indubbia influenza delle concezioni di Dewey in merito a una pedagogia della libertà. Il volume americano sulla filosofia marcusiana dell’educazione contiene anche i testi di due conferenze inedite di Marcuse sulle quali vale la pena di soffermarsi in maniera puntuale. La prima è una Lecture on Education tenuta al Brooklyn College nel 1968 che prende le mosse da una definizione della educazione come «the teaching and learning of knowledge considered necessary for the protection and enhancement of human life» (Marcuse, 2009a, 33). Marcuse ricorda che il concetto di una educazione generale è assai recente, essendo stata l’educazione per molto tempo riservata alla sola classe dominante, perché la popolazione non era libera di procurarsi le necessità della vita, ovvero conquistare il tempo per essere educata, e in quanto classe dominata si supponeva fosse “protetta”, guidata dalla classe dominante. Nota che ancora negli anni sessanta l’educazione non è generalizzata, continua ad essere un privilegio di classe ma proprio le restrizioni nell’accesso alle risorse educative dimostrano che nell’educazione esiste un elemento sovversivo: conoscenza, intelligenza, ragione sono catalizzatori di mutamento sociale. Di conseguenza, l’educazione è sospetta, e questa sfiducia, questo timore della razionalità, della comprensione razionale e della formazione è stata instillata nelle classi subalterne che nutrono risentimenti verso coloro che sanno di più e meglio; gli intellettuali sono infatti considerati pericolosi, la cultura viene identificata con i padroni, viene vista come finalizzata a preservare il loro

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dominio, l’antintellettualismo diventa uno strumento di vendetta contro l’oppressione: «better not to know much » (Ibidem, 34). Benché le opposizioni alla formazione abbiano una lunga storia, Marcuse constata che la tendenza ad una educazione generalizzata sta guadagnando spazio e consenso a causa di un fondamento di tipo materiale e economico che è il bisogno della società industriale avanzata di accrescere il numero e le qualifiche di operai e impiegati specializzati per uno sviluppo efficiente delle forze produttive nonché la necessità, emersa di recente, di psicologi e sociologi nella sfera economica e politica. Nella società si può individuare una dialettica dell’educazione che implica da un lato una dipendenza crescente dalla formazione, da una conoscenza libera al fine di fronteggiare in modo efficace processi economici competitivi, e dall’altro lato la necessità di contenere la conoscenza entro l’universo concettuale e di valori della società attuale che si oppone a qualunque mutamento radicale. Ne consegue un risultato obbligato: l’enfasi sulla formazione professionale, vocazionale e il declino delle “humanities”, del pensiero trascendente, critico (Ibidem). Questo disegno di una dialettica storica della formazione serve a Marcuse per tracciare un quadro della situazione coeva e per sottolineare che all’interno dell’educazione è presente un fattore politico che deriva dal carattere trascendente della ragione. Non si tratta di una trascendenza metafisica ma empirica che è riferibile alle possibilità reali di preservare e sviluppare la vita, la libertà umane e che implica anche una trascendenza sociale, politica che la colloca al di là della cultura stabilita, dominante. La filosofia marcusiana dell’educazione risulta strettamente connessa a un progetto rivoluzionario di cambiamento sostanziale della società. Marcuse indica infatti che al fine di creare le condizioni soggettive per una società libera non è sufficiente educare individui in grado di svolgere, più o meno bene, le funzioni che sono chiamati a svolgere in questa società o estendere questa educazione “vocational” alle masse. È necessario un uomo di tipo nuovo, è necessario educare uomini e donne che non sono più capaci di tollerare ciò che sta accadendo, esseri umani che hanno realmente compreso ciò che sta avvenendo, hanno compreso le cause e sono preparati a resistere e lottare per un nuovo modo di vita. Scrive Marcuse: «By its own inner dynamic, education thus leads beyond the classroom, beyond the university, into the political dimension, and into the moral, instinctual dimension. Education of the whole man, changing his nature! And in both these extensions – into the political and the moral – the driving power is the same: the application of knowledge to the improvement of the human condition, and, the liberation of the mind, of the body, from aggressive and repressive needs» (Ibidem, 35). Marcuse si riferisce anche al tema del rapporto tra eros e thanatos, alla conoscenza e a un insegnamento al servizio del “former against the

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latter”, alla questione di una nuova sensibilità umana, ovvero all’educazione estetica sulla quale mi soffermerò nella seconda parte di questo saggio. In questa conferenza del 1968 Marcuse guarda dunque all’educazione in maniera ambivalente: la formazione serve all’establishment ma la forza trascendente della conoscenza la colloca oltre l’establishment, e propone dunque una educazione finalizzata ad una società migliore, diversa e in grado di agire contro l’establishment. Non a caso era un sostenitore dell’esclusione dall’Università di ogni progetto di ricerca che serviva alla guerra e allo sforzo bellico; nel 1968 ritiene che il curricolo degli studi debba essere orientato in maniera diversa, rafforzando le “humanities” contro le scienze dure, anche contro le scienze sociali dure, attraverso l’introduzione dello studio di pensatori e di correnti letterarie, filosofiche, storiche che hanno a che fare con gli eretici, i non conformisti, gli utopisti, i surrealisti, i rivoluzionari. In quegli anni Marcuse teorizzò una educazione in grado di formare individui che si oppongono in maniera radicale alla società e al sistema economico e politico dominanti. Nel 1975 Marcuse tenne a Berkeley una conferenza su Higher Education and Politics (Marcuse, 2009b) nella quale difese con forza la “scholarship”, la scientificità della formazione, ribadì la sua contrarietà all’abbandono di un’attitudine scientifica ed a una riduzione del “learning”, confermando di avere sempre proposto una nuova direzione per gli studi, non un allentamento negli studi accademici. Nel 1975 ammetteva in effetti che non si possono modificare i fini dell’educazione senza mutare la società che stabilisce questi fini, ma riteneva anche del tutto vero che non si può aspettare l’avvento della rivoluzione per diventare esseri umani, sradicare il sessimo e il razzismo che è dentro di noi, per apprendere a essere solidali con le vittime, a liberare noi stessi dal cinismo e dall’ipocrisia della morale comune. Una piena consapevolezza e la percezione esistenziale della necessità di un cambiamento sostanziale devono emergere all’interno della società esistente e delle sue istituzioni, perché non esiste un al di fuori. Da tutto ciò deriva la sua strenua difesa della cultura alta e dell’insegnamento universitario di eccellenza (Ibidem, 39-40). Nel 1975 Marcuse continuava a sostenere una filosofia dell’educazione fondata su un progetto radicale di mutamento politico, una filosofia che è in stretta correlazione con una teoria critica della società capitalistica. Sottolinea infatti che la teoria marxista ha da tempo fatto propria la tendenza negativa a trascurare l’individuo, il soggetto che è in verità l’agente di ogni azione, riafferma perciò che la coscienza di classe è mediata dalla consapevolezza individuale e senza un atteggiamento di opposizione negli individui non esistono masse rivoluzionarie. In tal modo Marcuse riprende le sue critiche alla tradizione marxista ortodossa, mirate a stabilire il primato della coscienza rispetto all’appartenenza sociale (Ibidem, 41).

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In riferimento al problema della formazione universitaria Marcuse traccia anche un bilancio del ’68, ne rivendica l’importanza perché “1968 has changed things”, la nostra società non è più la stessa, gli studenti sono stati i protagonisti del movimento per i diritti civili, contro la guerra in Vietnam, per la fine dei bombardamenti in Cambogia e gli studenti hanno costituito l’avanguardia dell’opposizione radicale in tutto il mondo. Marcuse delinea le possibilità di azione dentro la comunità universitaria e sostiene una nuova concezione di apprendimento e di insegnamento basata sulla reintroduzione dell’etica, della passione, di un coinvolgimento esistenziale nell’apprendimento e nell’insegnamento. L’alternativa al modo accettato, canonico di formazione universitaria non è una specie di emozionalismo ma un concetto e una pratica dell’oggettività in termini di interpretazione alternativa dei fatti. Occorre insistere su una attitudine scientifica anche quando si parla di una scienza libera, sull’essere empiristi, perché è necessario apprendere i fatti e il modo di interpretarli, e a tal scopo abbiamo bisogno di apprendere di più, non di meno, e per questo non si vuole certo distruggere le istituzioni finalizzate alla creazione e diffusione di conoscenza ma ricostruirle: «not deschool society, but reschool it» (Ibidem, 42-43). Questo è lo scopo della filosofia marcusiana dell’educazione e per raggiungerlo Marcuse sottolinea la necessità di acquisire “knowledge”, perché la teoria è pur sempre la guida per una pratica radicale e la conoscenza necessaria è costituita dalla storia – è necessario conoscere le radici della civiltà attuali – e da una storia non solo di vincitori ma anche delle vittime. Alla storia deve essere affiancata una sociologia del potere reale che modella la struttura sociale, una scienza economica che non sia sublimata in matematica, la scienza per ridurre povertà, dolore, malattia e “to restore nature”. Si tratta, a ben vedere, di un curricolo accademico di impronta critica che mette insieme le scienze umanistiche, quelle sociali e le scienze “dure” al servizio della liberazione dell’uomo. Fuori del campus universitario Marcuse vede la necessità per gli studenti di svolgere “community work” e un’attività politica significativa, superando le divisioni interne ai diversi orientamenti della sinistra rivoluzionaria (Ibidem, 43). Le due conferenze sull’educazione del 1968 e del 1975 hanno una diversa struttura argomentativa a ragione dei differenti momenti storici in cui furono tenute, confermano una fedeltà all’impegno politico volto alla creazione di una società nuova e multidimensionale e testimoniano aspetti significativi del pensiero di Marcuse. Questi testi mettono in evidenza la sua attenzione al problema della formazione e il suo progetto per una fondazione dell’educazione su un curricolo filosofico, umanistico e scientifico di alto profilo culturale: un sapere diverso significava per lui un sapere consapevole ma scientificamente fondato. Marcuse non ebbe

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mai nessuna simpatia per pseudo-conoscenze, e le sue esemplificazioni di tipo filosofico e estetologico hanno sempre riferimenti letterari, figurativi e musicali appartenenti alla cultura alta, i migliori prodotti della tradizione borghese occidentale. Il quarto volume dei Collected Papers (2007) di Marcuse ha per titolo Art and Liberation e contiene saggi, conferenze, interviste editi e inediti relativamente all’arte, al suo ruolo sociale, politico, rivoluzionario e al problema di The Aesthetic Dimension che è anche il titolo dell’ultimo libro pubblicato da Marcuse nel 1977 (Marcuse, 1978). Prima di affrontare la questione dell’educazione estetica è opportuno soffermarsi brevemente su un “commencement speech” che Marcuse tenne nel giugno del 1968 al New England Conservatory of Music che è l’unico suo contributo nel campo della filosofia della musica. Da questo testo risultano ben chiari il ruolo decisivo dell’arte e i legami stretti tra cultura alta e il nuovo emergente nella cultura popolare. È da sottolineare che questo discorso venne tenuto in una istituzione per la formazione musicale (Marcuse, 2007, 130-139). Marcuse confessa di essere uno “stranger” nel mondo dei musicisti, ma non nel mondo delle arti, musica compresa, di trovarsi a suo agio più in questo ambiente che non in quello dei filosofi e dei sociologi perché il suo lavoro lo ha condotto a credere che le arti, oggi più che nel passato, devono svolgere un ruolo decisivo nel mutamento della condizione e della esperienza umane, contribuire sia alla uscita da quel mondo falso, inumano, brutale e ipocrita nel quale siamo intrappolati sia a progettare, percepire, forse persino costruire un società migliore, libera e umana. Marcuse confessa che come filosofo il suo approccio alla musica deve molto all’amico Adorno, di trovarsi a casa con Gustav Mahler, Arnold Schönberg, Alban Berg, Anton Webern, persino con un compositore d’avanguardia come Karlheinz Stockhausen, ossia di guardare alla tradizione musicale tedesca. Marcuse individua in Hegel e in Schopenhauer i filosofi attraverso i quali considerare e analizzare la musica poiché ritiene di poter rintracciare nelle loro opposte concezioni estetologiche spunti e terreni comuni per definire l’arte come una grande forza di negazione, che prepara allo stesso tempo una musica per il futuro, ossia per un nuovo inizio dell’umanità. Secondo Marcuse l’arte, nel creare la propria forma, un proprio linguaggio, si muove in una dimensione di realtà che è altra, antagonistica rispetto alla realtà stabilita di ogni giorno. Tuttavia nel cancellare, trasformare, sublimare immagini, parole, suoni la musica preserva la loro intima verità, sfigurata o dimenticata, e la restituisce attraverso la forma, l’armonia, la dissonanza, il ritmo: la musica rende belle e armoniose l’esperienza e la condizione umane. Scrive Marcuse: «Creare l’armonia dalla sofferenza, l’eternità della gioia dalla transitorietà del piacere, giustificare la dissonanza, cantare, mentre gli altri possono

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solo parlare; questa, credo, è stata la grande acquisizione della musica tradizionale: l’affermazione nella negazione, riconciliazione, dopo tutto!» (Marcuse, 2007, 133; Marcuse, 2011, 95). È nel segno del classicismo (Bach, Beethoven), del romanticismo e del modernismo (Mahler e la seconda scuola di Vienna) di matrice germanica che Marcuse guarda al ruolo dell’arte musicale, confermando così il suo approccio culturalmente alto al significato rivoluzionario dell’arte. Nella seconda parte del suo discorso considera anche la musica popolare, mette in discussione la differenza tra “serious and popular music” e specifica la musica degli afroamericani, la black music come un riferimento di importanza storica cruciale. Marcuse termina il suo discorso affermando che la grande ribellione contro la civiltà repressiva coinvolge anche il campo della musica e questo coinvolgimento rende i suoi cultori alleati o avversari; in ogni caso gli studenti di musica sono coinvolti perché potranno difendere, quindi salvare il vecchio con le sue promesse e forme ancora incompiute e valide o lavorare per attribuire nuove forme a nuove forze creative. Il discorso sulla musica di Marcuse meriterebbe un’analisi più dettagliata, perché risultano molto interessanti sia la scansione logica dei vari passaggi sia la struttura complessiva dell’argomentazione ma una ricostruzione della sua filosofia della musica esula dallo scopo di questo saggio, mi premeva solo sottolineare che a partire dagli anni sessanta il contesto educativo svolse un ruolo cruciale nella diffusione delle idee marcusiane, che l’arte giunse a acquisire una posizione centrale nel suo pensiero e nonostante i riferimenti privilegiati alla grande tradizione culturale occidentale Marcuse fu assai attento alle nuove forme di arte che si venivano sviluppando in quegli anni negli Stati Uniti. A differenza di Adorno Marcuse non si sentiva un estraneo nel mondo della musica jazz, pop, rock, folk dell’America del suo tempo. Nelle varie conferenze sull’educazione e sull’arte Marcuse accenna al tema di una nuova sensibilità, alla questione dell’educazione estetica, al ruolo politico dell’arte, argomenti che erano presenti da tempo nel suo orizzonte di pensiero. Erano stati infatti affrontati in Eros and Civilisation (Marcuse, 1967a, 194-214) e in One-Dimensional Man (Marcuse, 1967b, 215-234) e trovarono un nuovo assetto teorico in An Essay on Liberation del 1969. Conviene soffermarsi brevemente sulla questione dell’educazione estetica perché questo argomento fu (ri)proposto con forza da Marcuse all’attenzione della comunità filosofica del tempo. L’espressione “educazione estetica” si ritrova in una celebre opera del 1795 di J.C. Friedrich Schiller dal titolo L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere, nella quale Schiller, come ha sottolineato Luigi Pareyson (Pareyson, 1983, 11), individua nell’armonia fra sensibilità e razionalità il fine dell’uomo. Nella lettera ventitreesima Schiller stabilisce che «il passaggio dallo stato passivo del sentire a quello attivo del

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pensare, del volere non avviene dunque altrimenti che attraverso uno stato intermedio di libertà estetica […]. In una parola: non c’è altra via per rendere razionale l’uomo sensibile che quella di renderlo prima estetico» (Schiller, 1998, 191). Nella seconda parte di Eros and Civilisation si ritrova un capitolo (Marcuse, 1967a, 194-214) sulla dimensione estetica nel quale svolgono un ruolo decisivo Kant e soprattutto le lettere sull’educazione estetica di Schiller: Marcuse attribuisce a Schiller il merito di aver collocato l’arte in campo sociale, di aver individuato nell’immaginazione e nel suo prodotto, nell’arte la mediazione tra sensibilità e razionalità. Giova ricordare che Schiller nella lettera ventiduesima aveva anche indicato che in un’opera d’arte veramente bella il contenuto non deve costituire nulla, la forma invece tutto perché solamente attraverso la forma si agisce sull’uomo nella sua totalità antropologica mentre i contenuti agiscono su forze singole, dunque è dalla forma che ci si può attendere vera libertà estetica (Schiller, 1998, 187). L’estetica marcusiana è radicalmente formalista e sulla scia di Schiller Marcuse afferma che l’educazione estetica ha il compito di preparare l’uomo alla libertà attraverso una modifica, un raffinamento della sua esperienza del mondo: l’educazione estetica, l’arte bella sono in grado di realizzare una vera e propria rivoluzione culturale. L’arte non ha il potere di trasformare direttamente la realtà, la dimensione estetica svolge tuttavia un ruolo straordinario nel mettere il relazione ciò che è e ciò che dovrebbe essere, nel mostrare, in modo fittizio, il mondo possibile, che è più autentico e vero del mondo fattuale. The Aesthetic Dimension del 1977 porta significativamente come sottotitolo l’indicazione Toward a critique of Marxist aesthetics e in questo volume Marcuse riprende sia le critiche al realismo socialista, all’idea dell’arte come rispecchiamento del reale formulate in Soviet Marxism sia le idee sul carattere autenticamente rivoluzionario dell’arte e dell’educazione estetica che si ritrovano nei saggi e conferenze raccolti nel volume quarto dei Collected Papers. È opportuno ricordare che Marcuse usa il termine “estetico” nel duplice significato di appartenente ai sensi e di appartenente all’arte, e in An Essay on Liberation (Marcuse, 1969c) indica che senza un mutamento nella sensibilità non può esserci un mutamento sociale effettivo e l’arte può contribuire a formare, coltivare le condizioni di una nuova sensibilità. Attribuire ai sensi una mera funzione passiva è per Marcuse un errore decisivo di certa filosofia perché se è vero che i sensi sono modellati dalla società, tuttavia costituiscono un’esperienza primaria del mondo e forniscono alla ragione e alla immaginazione i loro materiali. Attraverso un’emancipazione dei sensi, dell’estetico, emerge una nuova sensibilità che può produrre effetti di liberazione. Nell’Essay on Liberation il secondo capitolo porta il titolo di The New Sensibility e qui Marcuse propone la sua celebre idea di una nuova

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scienza e una nuova tecnologia che superi il dualismo tra immaginazione e ragione, tra facoltà superiori e facoltà inferiori, tra pensiero scientifico e pensiero poetico in modo che possa nascere un principio di realtà, cosicché grazie a questo principio una nuova sensibilità e una intelligenza scientifica desublimata possano unirsi per dar vita ad un ethos estetico (Ibidem, 24). Si tratta di affermazioni che hanno sollevato da tempo molte discussioni e controversie, qui è sufficiente solo indicare che secondo Marcuse in un processo di ricomposizione della società l’immaginazione svolge un ruolo mediatore tra sensibilità e ragione, l’estetico può perciò diventare una “gesellschaftliche Produktivkraft”. In questo processo il Bello occupa una posizione centrale, di conseguenza l’educazione al bello svolge una funzione pedagogico-critica determinante. Il bello appartiene al dominio dei due istinti primari, eros e thanatos, ha la capacità di controllare l’aggressione perché, come la “beautiful Medusa” pietrifica colui che l’affronta, così il bello blocca e immobilizza l’aggressore. Il bello svolge un ruolo centrale nell’estetica classica perché è dotato di molte qualità e grazie a queste qualità (soggettive e oggettive) la dimensione estetica può servire come una sorta di indicatore per una società libera: «Un universo di relazioni umane non più mediato dal mercato, non più basato su uno sfruttamento concorrenziale o sul terrore, richiede una sensitività (sensitivity) libera dalle soddisfazioni repressive delle società non libere; una sensitività ricettiva di forme e modi di realtà che fino a oggi sono stati solo progettati dall’immaginazione estetica» (Ibidem, 27). Una nuova sensibilità, la centralità del bello e della dimensione estetica, l’arte come sublimazione e come mondo di una realtà fittizia che è promessa di felicità sono concetti centrali del pensiero marcusiano compreso tra gli anni sessanta e la fine degli anni settanta. Si tratta di concetti che riecheggiano temi affrontati da Marcuse negli anni trenta allorché era alle prese con le idee artistiche di modernità e di avanguardia (Feenberg, 2005, 83-85). Dato il ruolo centrale della dimensione estetica nella teoria critica e nella prassi politica, la questione dell’educazione, in particolare dell’educazione al bello, acquistò un rilievo notevole nel progetto filosofico complessivo di quell’irriducibile combattente che rispondeva al nome di Herbert Marcuse. Da un punto di vista sociale e politico il pensiero filosofico di Marcuse contiene aspetti e spunti critici che conservano una loro vitalità teorica nel presente. Non sono in grado di valutare quanto questo pensiero possa essere oggi utile nell’elaborazione di teorie critiche e estetiche, anche se la sua teoria estetica appare meno cogente rispetto alla sociologia e alla filosofia dell’arte moderna del suo amico Adorno. In questo saggio ho adottato un approccio e una prospettiva rigorosamente storici, mirati alla ricostruzione di alcuni aspetti del pensiero di Marcuse connessi alla questione dell’educazione e alla filosofia dell’educazione. Esiste una vasta

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letteratura sull’estetica marcusiana, sul ruolo dell’arte e sulla questione della dimensione estetica nel contesto complessivo del suo pensiero, ma non sempre è stata messo in giusta luce l’interesse primario di Marcuse per il tema dell’educazione che pure svolge un ruolo decisivo nella sua teoria politica. Marcuse riteneva che la formazione e l’apprendimento fossero fattori decisivi per la creazione di una coscienza critica e per molto tempo ha teorizzato una scuola e una università diverse, nuove ma saldamente radicate nella grande tradizione culturale occidentale. La sua difesa delle “humanities” e la sua richiesta di una scienza e di una tecnologia al servizio dell’uomo risuonano ancora oggi come messaggi di innegabile significato e valore. Presentazione dell’Autore: Ferdinando Abbri è professore ordinario di storia della filosofia presso il Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale dell’Università di Siena, a Arezzo. Si occupa di storia della filosofia moderna e contemporanea, di storia delle idee filosofiche e scientifiche, con particolare attenzione alle vicende della musica contemporanea. Bibliografia ABBRI, F. (2006), «Funzione critica dell’arte: ideali, realtà, e promessa di felicità», in Bollettino Filosofico, XXII, 219-240. CASINI, L. (1999), Eros e utopia. Arte, sensualità e liberazione nel pensiero di Herbert Marcuse, Roma, Carocci. FEENBERG, A. (2005), Heidegger and Marcuse. The Catastrophe and Redemption of History, New York – London, Routledge. KELLNER, D. (1984), Herbert Marcuse and the Crisis of Marxism, Berkeley — Los Angeles, University of California Press. KELLNER, D., LEWIS T., PIERCE C., CHO, K.D. (eds.) (2009), Marcuse’s Challenge to Education, Lanham, Rowman & Littlefield Publishers. LAUDANI, R. (2005), Politica come movimento. Il pensiero di Herbert Marcuse, Bologna, Il Mulino. MARCUSE, H. (1967a), Eros e civiltà, Torino, Einaudi. — (1967b), L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi. — (1969a), L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, Firenze, La Nuova Italia Editrice. — (1969b), Soviet Marxism. A Critical Analysis, New York, Columbia University Press. — (1969c), An Essay on Liberation, Boston, Beacon Press.

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(1978), The Aesthetic Dimension. Towards a Critique of Marxist Aesthetics, Boston, Beacon Press. — (1997), Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale, Bologna, Il Mulino. — (2005), The New Left and the 1960s. Collected Papers of Herbert Marcuse. Volume Three (Edited by D. Kellner), London and New York, Routledge. — (2007), Art and Liberation. Collected Papers of Herbert Marcuse. Volume Four (Edited by D. Kellner), London and New York, Routledge. — (2009a), «Lecture on Education, Brooklyn College, 1968», in Marcuse’s Challenge to Education, 33-38. — (2009b), «Lecture on Higher Education and Politics, Berkeley, 1975», in Marcuse’s Challenge to Education, 39-43. — (2011), Teoria critica del desiderio (a cura di R. Laudani), Roma, manifestolibri. PAREYSON, L. (1983), Etica e estetica in Schiller, Milano, Mursia. SCHILLER, J.C.F. (1998), L’educazione estetica dell’uomo. Una serie di lettere (a cura di G. Boffi), Milano, Rusconi.

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DIVENTARE PERSONA Per una pedagogia personalista di matrice ricœuriana Andrea Giambetti Abstract: The article underlines the possibilities of interaction between the foundations of Ricoeur’s philosophical speculation and the main issues of the contemporary personalist pedagogic research. Although some valuable contributions have recently appeared, the importance of Ricoeur’s thought for the education sciences still needs to be fully enquired. The author’s aim is to begin a study in this direction, to indicate how Ricoeur’s personalism supports and amplifies the echoes of some voices in the twentieth century pedagogy. Riassunto: L’articolo pone in evidenza le possibilità di interazione tra i cardini della speculazione filosofica ricœuriana e i principali temi della riflessione pedagogica personalista contemporanea. Nonostante alcuni pregevoli contributi, in effetti, l’importanza del pensiero ricœuriano per le scienze dell’educazione è ancora da indagare compiutamente. Il contributo dell’autore si propone di avviare una riflessione in questa direzione, indicando sentieri nei quali la matrice personalista di Ricœur supporta ed amplifica l’eco di alcune voci del panorama pedagogico del Novecento. Parole chiave: Ricœur, Persona, Educazione, Pedagogia, Personalismo.

Paul Ricœur (1913-2005) non si è occupato direttamente di educazione, almeno non in una dimensione specifica ed organica. Nonostante ciò, la sua “filosofia pratica” in diversi momenti interseca i nuclei fondamentali delle scienze dell’educazione. Nel corso del presente studio cercheremo di mostrare come alcuni temi della speculazione ricœuriana si inseriscano con originalità e fecondità all’interno della riflessione pedagogica personalista contemporanea1. La matrice personalista del grande filosofo francese è ormai acclarata, considerata anche la sua manifesta discepolanza nei confronti di Emmanuel Mounier e la vicinanza mai interrotta, anche se a tratti sopita, con il gruppo Esprit. La “persona”, per Ricœur, non è un dato di fatto, un concetto a-priori, un elemento di partenza; piuttosto è il frutto maturo di un complesso ed articolato processo di costruzione identitaria, mai definitivamente concluso, che si dipana, lungo il corso dell’intera esistenza umana, nei luoghi di una situazionalità ineludibile, storicamen-

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te e culturalmente data. Persona si diventa – sembra affermare il filosofo – e lo si diviene nel contesto di una relazione, che rimane a fondamento dell’educabilità di ogni individuo. In questo senso il processo di personalizzazione si connette naturalmente all’iter educativo, come ha posto in evidenza R. Laporta per il quale «il rapporto fra l’educazione e la persona è un topos classico della pedagogia: l’educazione è la formazione stessa della persona» (Laporta, 1994, 205). Facendo eco a Mounier, Ricœur sembra far sua l’impossibilità di determinare compiutamente la persona: ogni tentativo di definirne concettualmente le caratteristiche risulterebbe destinato al fallimento. La persona è al di là di ogni possibile concetto, essa è un’ulteriorità e, perciò, mai rigorosamente definibile, mai totalmente esprimibile. «Ogni definizione fissa rischia di sclerotizzare ciò che invece è mobile, dinamico, fluttuante, trasformando ciò che è e deve rimanere un soggetto, appunto la persona, in un oggetto» (Mounier, 1949, 13). Essa è, per dirla ancora con Mounier, «il volume totale dell’uomo. È equilibrio in lunghezza, in larghezza e in profondità, è in ogni uomo una tensione tra le sue tre dimensioni spirituali, quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo; quella che è diretta verso l’alto e la eleva ad un universale, quella che è diretta verso il largo e la porta verso una comunione» (Mounier, 1935, 90). Queste tre dimensioni rendono la persona un sistema dinamico, un “vivente” (secondo il lessico ricœuriano), con infinite possibilità di essere e di divenire. Come possiamo tuttavia strutturare un “processo di personalizzazione” in assenza di un concetto stabile ed univoco di persona? La domanda, seppur dotata di un’apparente correttezza formale, deve essere capovolta nella seguente affermazione: possiamo parlare di personalizzazione proprio perché non aspiriamo ad avere un concetto univoco e rigidamente determinato di persona. In definitiva, infatti, la persona sussiste in un progetto di libertà e di autodeterminazione che, però, non può attuarsi senza il riferimento ad un’alterità che la precede, che le conferisce limiti, indicandole direzioni e possibilità di sviluppo. Non si tratta, perciò, di una realizzazione autocentrata, piuttosto di una costruzione “decentrata” o, meglio, “incentrata” sulla relazione.

Il rapporto interpersonale nelle pratiche educative Sia nel rapporto asimmetrico genitore/figlio o docente/discente, sia nel rapporto simmetrico all’interno del gruppo dei pari, il soggetto in formazione diviene persona mediante una relazione intersoggettiva. L’esperienza dell’alterità si attua, dunque, a vari livelli, secondo modalità diversificate:

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– L’“altro”, costituito dal genitore e dalla famiglia, è “luogo” educativo per eccellenza. All’interno delle relazioni familiari si sperimenta il sostegno, ma anche il limite, alla creatività e alla libertà del proprio progetto identitario. L’esercizio dell’autorità parentale, nutrendosi di dialogo, è particolarmente importante quando i figli «hanno bisogno di una guida adulta prudente e accorta, di conforto e di incitamento» (Galli, 2000, 185). Soprattutto nel contesto dei rapporti asimmetrici vissuti in famiglia, il dialogo diventa essenziale per la crescita educativa; i genitori devono saper ascoltare per conoscere i propri figli ed essi devono poter manifestare agli adulti le paure e le perplessità che sempre agitano la crescita personale. Il colloquio, sinonimo di disponibilità ed apertura, diviene comprensione profonda e la comprensione si trasforma ben presto in sostegno. In questa virtuosa circolarità si compie nel modo più positivo il “processo primario” di personalizzazione dell’individuo, che non deve essere considerato soltanto in rapporto ai minori, ma, in virtù della reciprocità dello scambio e del dono di sé, esso ricade significativamente anche sui genitori e sulla famiglia intera. «L’accettazione, la solidarietà, il riconoscimento vicendevole, che si instaurano nella coppia genitoriale, superando le disuguaglianze di sempre, comprendono anche la progenie, che ben presto si sentirà avvalorata nella sua identità, impegnata nell’autostima, motivata ad esprimere il meglio di sé. P. Ricœur ha ravvisato l’ideale della reciprocità nello scambio, nel rapporto cioè tra dare e ricevere. L’idea del dono è prossima a quella dello scambio; s’intende tra due generosità, la qual cosa eccede tanto il saper ricevere quanto il saper donare» (ibidem, 187). – L’“altro”, costituito dall’amico e dal coetaneo, permette il confronto tra pari; in esso si cresce nella reciprocità, nella stima di sé e nella stima degli altri. Soprattutto nella preadolescenza e nell’adolescenza il concetto e l’immagine di sé si sviluppa attraverso cambiamenti importanti in un continuo confronto con il gruppo dei coetanei. Aspirazioni, successi ed insuccessi, prospettive, desideri e sogni futuri si costituiscono in relazione al gruppo di elezione. «Nella formazione dell’identità i rapporti con i coetanei sono essenziali: si riferiscono allo sviluppo di tutte le dimensioni della personalità. Dalla preadolescenza in poi acquistano un’importanza crescente, la qual cosa implica una progressiva desatellizzazione dalla famiglia, quindi un decentramento di essa verso i compagni di scuola o di gioco, la sottrazione al suo influsso e l’acquisizione dei modelli del gruppo» (Ibidem, 107). Proprio in questo periodo della vita, l’adolescente speri-

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menta la necessità di affermarsi come persona, con una propria originale individualità, ma sente perentoria anche la spinta ad aprirsi in maniera confidenziale con il tu amicale. A questo proposito sappiamo quanto Paul Ricœur abbia insistito sulla necessità di questo tipo di “alterità”, «determinante per la costruzione dell’ipseità stessa» (Ricœur, 1990, 263). La metafora del “volto”, che ci interpella e ascrive le nostre azioni a noi stessi, permette alla persona di cogliersi nella forma identitaria della responsabilità. La mutualità di questo rapporto io-tu, «nella circolarità del reciproco riconoscimento», è la chiave di volta che sostiene il complesso edificio del processo di personalizzazione (Ricœur, 2004,183)2. L’adolescente, nel gruppo dei pari, da un lato si afferma e dall’altro si decentra in un continuo alternarsi di “sistole e diastole”. Afferma il suo “io”, ma impara anche ad aprirsi al “tu”. Così si struttura psicologicamente e costruisce la sua identità: questo allenamento continuo risulterà assai prezioso quando dovrà integrarsi compiutamente nel mondo degli adulti e nella società. «Il gruppo offre un contesto utile ed efficace allo sviluppo, attraverso le relazioni di comunicazione, dell’esperienza di rafforzamento della propria identità individuale, simultaneamente a quello della percezione di se stessi come una parte, ben distinta ma comunque parte, di quel tutto che è costituito dalla realtà del mondo» (Pollo, 1994, 139). – L’“altro” costituito dal compagno di scuola e, in particolar modo, dalla figura dell’insegnante permette una forma di elevata socializzazione; in essa si rintracciano anche le dinamiche più istituzionali della vita civile. «Accanto alla famiglia, dunque, sono imprescindibili altri enti educativi tra cui la scuola. Questa, infatti, trasmette l’eredità culturale delle generazioni anteriori, apre l’accesso alla propria comunità, fornisce i mezzi occorrenti alle modificazioni postulate dalle varie professioni, dischiude orizzonti nuovi su scala europea e mondiale» (Galli, 2000, 406). Possiamo osservare, dunque, come all’interno dell’esperienza formativa scolastica il volto del tu amicale, così presente all’interno del gruppo di elezione, cede il passo ad una forma di alterità più istituzionale, dotata cioè di regole e rapporti di tipo sociale. Usando il linguaggio ricœuriano, potremmo dire che la scuola favorisce la relazionalità con il “ciascuno” (chacun) (Ricœur, 1992, 25-36). Nell’istituzione scolastica i rapporti avvengono, infatti, entro un contesto più formale; essa sollecita un’esperienza di “terzietà” fondamentale per la costituzione della stessa identità individuale. La figura dell’insegnante svolge, a questo proposito, una funzione peculiare che non si lascia facilmente ricondurre

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ai ruoli sperimentati nella sfera familiare. In lui è presente, accanto al calore della relazione intersoggettiva, anche il volto del diverso, dell’autorità, della legge, in un rapporto completamente asimmetrico. In pratica, nella figura dell’insegnante si concretizzano le esigenze della società, che non è solo luogo di accoglienza incondizionata ma anche di impegno, di fattiva laboriosità e di rispetto altrui. Anche il rapporto con il gruppo-classe non si lascia ridurre facilmente al semplice assetto amicale. La classe scolastica, infatti, non coincide perfettamente con il gruppo di elezione; in essa si è chiamati alla responsabilità della collaborazione e alla contemperanza delle esigenze. Inoltre, l’accoglienza condizionata e la necessità della collaborazione stimolano l’educando ad uscire dai propri interessi particolari per aprirsi ad un’alterità, forse più problematica, ma ugualmente necessaria al suo percorso formativo.

La comunicazione come nucleo della relazione L’attento lettore dell’opera ricœuriana avrà avuto modo di osservare quanto sia determinante per il pensatore francese l’elemento della comunicazione intersoggettiva, sino a considerare l’aspetto narrativo come qualificante per la sua visione etica e per la sua “ontologia debole”. Senza volerci addentrare nell’analisi puntuale delle dinamiche comunicative, vogliamo ricordare come ogni pratica che voglia definirsi educativa non possa prescindere dalla dialogicità quale elemento fondativo della relazione. Prima di essere lo scambio di parole, il dialogo è, al contrario, uno scambio di reciproci ascolti. Il requisito posto a suo fondamento non è tanto la capacità dei partners di uscire da se stessi attraverso il linguaggio, quanto la disponibilità a permettere l’accesso dell’altro all’interno del proprio mondo interiore tramite l’ascolto. Paradossalmente il tempo in cui viviamo segna il primato della comunicazione e congiuntamente quello della sordità e dell’indifferenza. Il “rumore di fondo” della società complessa provoca un’autentica difficoltà di “sintonizzazione” sul canale dell’altro e mina la possibilità stessa di una comunicazione che non sia il semplice lancio di messaggi. Viene, in questo modo, pesantemente compromessa la propensione al silenzio, all’ascolto come dimensione costitutiva dell’essere umano e fondamento della crescita interpersonale. Nella costruzione del Sé occorre, invece, insegnare ad ascoltarsi e ad ascoltare. «Saper ascoltare è decentrarsi, è esser capaci di liberarsi dall’ossessione di se stessi, è centrare la comunicazione sul tu, è inviare all’altro chiari messaggi di accoglienza e disponibilità, è rispecchiare sentimenti e pen-

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sieri, è porlo in una condizione di agio accettandolo nella sua differenza di pensiero, affettività e cultura… Nel rapporto io-tu, l’io si pone dinanzi ad un altro, si volge verso di lui per dirgli tu e per confermarlo come umanità radicalmente altra. Grazie all’incontro incardinato sulla relazione io-tu ai partners di tale relazione è concesso di ascoltarsi l’un l’altro e di riuscire a liberarsi della loro ontologica sordità» (Rossi, 1997, 25). L’impegno a comprendere e a farsi comprendere risulta così una delle dimensioni qualificanti del rapporto educativo. L’educatore deve sapersi collocare di fronte al soggetto in formazione in modo singolare e personale, disponibile a promuovere fiducia e stima, riuscendo a gestire il difficile equilibrio tra autorità ed autorevolezza, tra confidenza e rispetto, tra comprensione e richiesta. Solo in un contesto di ascolto la dialogicità del linguaggio diviene autentica espressione del proprio mondo interiore. «Il linguaggio non è solo una delle doti di cui dispone l’uomo che vive nel mondo; su di esso si fonda e in esso si rappresenta il fatto stesso che gli uomini abbiano un mondo. Per l’uomo, il mondo esiste come mondo in un modo diverso da come esiste per ogni altro essere vivente nel mondo» (Gadamer, 1983, 507). Attraverso la narrazione dei propri stati interiori, la persona ricœuriana non solo si apre all’alterità ma conferisce a se stessa una dimensione sensata ed unitaria; essa si designa mediante il tempo e si definisce attraverso la coesione, la concatenazione delle vicende, la “connessione di una vita” (Zusammenhang des Lebens), come direbbe Dilthey. «Ogni storia di vita, lungi dall’essere chiusa in se stessa, si ritrova inviluppata in tutte le storie di vita con le quali ognuno è mischiato. Si può dire che la storia della mia vita è un segmento della storia di altre vite umane, ad iniziare da quella dei miei genitori, proseguendo con quella dei miei amici e, perché no, dei miei avversari» (Ricœur, 1992, 67). Si tratta del “mantenimento del Sé” (maintien de soi) che solo un altro può suscitare e risvegliare “tramite un appello” (come direbbero Mounier e Marcel). Qui l’altro non è più l’estraneo, il diverso, ma “colui che conta su di me”, che condivide con me la sua vita. L’operazione narrativa, dunque, sviluppa un concetto d’identità dinamica del tutto originale, che concilia le categorie d’identità e di alterità. Ricœur usa di sovente il termine “inviluppo” (enveloppe) per esplicitare come interi segmenti della vita personale siano parte di altrettanti segmenti della vita altrui, per cui la storia di ciascuno si aggroviglia nella storia di numerosi altri (Ibidem, 69). Solo narrandosi il soggetto in formazione prende coscienza della sua identità profonda, elabora i segmenti temporali della sua vita conferendo ad essi un senso unitario e, collegandoli saldamente, comincia a costruire la complessa struttura della propria identità personale.

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Il processo di integrazione e di produzione culturale Come abbiamo visto, il soggetto in formazione porta con sé la ricchezza e il fardello del proprio orizzonte storico-culturale, di un’esperienza del mondo che non può essere sospesa né messa tra parentesi. La sua identità non è costituita da un io capace di ergersi sul mondo e di cogliersi indipendentemente da esso; rimane invece indissolubilmente legata al proprio orizzonte culturale in cui è gettato e si trova ad essere. L’essergettato, nell’orizzonte previo del mondo che è dato a ciascuno, ci appare come l’immagine più efficace per comprendere il senso del processo di integrazione culturale che scaturisce dalla speculazione ricœuriana. La persona è un vivente che ha sin dall’inizio, come orizzonte di tutti i suoi progetti, un mondo, il mondo. Con Ricœur l’identità della persona non è avulsa dal contesto storico-culturale in cui essa, suo malgrado, viene situata. L’orizzonte ermeneutico che la precede è quella concreta alterità che afferma perentoriamente l’unità inscindibile di “io” e “mondo”. Non soltanto il soggetto da educare, ma anche la stessa azione educativa comporta un’opzione culturale ed epistemologica che le è previa. Possiamo affermare, infatti, che sia le grandi teorizzazioni pedagogiche che le concrete prassi educative accadono entro un contesto ermeneutico e valoriale che le precede e, anzi, quasi sempre le produce. Le diverse visioni antropologiche e le varie correnti filosofiche hanno, così, contribuito a produrre modelli educativi talora diversissimi. Tutto ciò conferma la tesi ricœuriana dell’ineliminabile situazionalità dell’esistenza umana. Anche quando nell’azione pedagogica si perseguono finalità generali e si auspicano mète educative che paiono universali, assolute e trascendenti, l’educatore deve rimanere sempre consapevole della radicale contingenza delle metodologie adottate e dei riferimenti storico-culturali che suscitano e sorreggono le sue idealità più vaste. L’azione educativa, in effetti, è sempre storicamente condizionata: «si tratta di un processo che è rivolto all’umanizzazione dell’uomo e che si realizza con e senza intenzionalità, con modalità differenziate, spesso condizionate dalla cultura in cui si svolge ma in coerenza con la visione che si ha dell’essere umano, delle sue potenzialità, del suo valore e dei traguardi che può conseguire» (Macchietti, 2004, 42). L’educazione, dunque, consiste in una prassi socio-culturale che è sempre, per l’appunto, culturalmente situata. Se osserviamo come stiano le cose dal versante del soggetto educabile, notiamo immediatamente come egli sia in grado di appropriarsi dei principali modelli culturali, che ogni società tende a trasmettere per mezzo del processo educativo, in modo estremamente efficiente. L’intreccio tra la formazione dell’identità personale e l’inserimento dell’individuo all’interno della società è una delle tematiche tradizionali del sapere so-

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ciologico. Nelle società altamente differenziate e complesse una parte del patrimonio culturale, quella cioè che va a formare le competenze sociali di base, deve essere trasmessa a tutti i membri della società, mentre una seconda, che comprende le competenze sociali più specifiche, va distribuita in modo differenziato in base al grado e al tipo di divisione sociale del lavoro realizzata in una data società e in un peculiare momento storico. Un processo senza dubbio assai complesso, che implica anche lo sviluppo della personalità individuale in un delicato equilibrio tra modelli sociali ed inclinazioni personali, tra capacità ed aspirazioni, tra potenzialità e limiti. Proprio per tale motivo il processo di integrazione culturale si svolge entro il difficile binomio di natura e cultura, in equilibrio tra la natura specifica dell’essere umano e il patrimonio culturale che egli si trova, volente o nolente, a dover accogliere sin dalla nascita. Dunque, il percorso che conduce il neonato a diventare un individuo adulto e maturo non è scandito esclusivamente da mutazioni di ordine biologico, giacché in ogni fase la cultura sociale interviene per determinarne l’esito e guidarne gli sviluppi. Anche se molto spesso risulta difficile distinguere ciò che è imputabile alla natura e ciò che, invece, è opera di acquisizione, possiamo affermare senz’altro che l’uomo ha una capacità di apprendimento straordinariamente maggiore rispetto alla dotazione istintuale di cui la natura lo ha fornito. Questa capacità di apprendere garantisce una progressione graduale, non semplicemente aritmetica, nell’appropriazione dell’orizzonte ermeneutico e valoriale della società ove la persona va ad inseririsi. La società, in un certo senso, funziona da sostegno e garantisce lo sviluppo di molte delle capacità che altrimenti «non si manifesterebbero o sarebbero destinate a rimanere costantemente in potenza nel soggetto umano» (Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 1997, 147). Pertanto il processo che garantisce lo sviluppo dell’identità personale non può essere mai disgiunto dall’acquisizione di una determinata cultura nel contesto di una specifica società. L’interazione tra mondo personale e mondo culturale costituisce una delle caratteristiche più tipiche dell’esser-uomo. Solo entro il contesto di una cultura vengono apprese le norme, i valori, i significati e il senso delle istituzioni che costituiscono il supporto ad ogni crescita individuale. La persona, quindi, è il prodotto di una serie di dinamiche che avvengono entro un contesto già dato (che comprende sia la dotazione genetica ed organica dell’individuo, sia l’alterità socio-culturale nella quale essa si trova inserita), che sono, però, proiettate verso l’espressione originale del Sé che costituisce, in definitiva, la risultante dell’avvenuta opera di personalizzazione e di integrazione culturale. Vi è, dunque, un intreccio fecondo, insito nell’azione educativa, che risulta costituito dal limite del già-dato (come dotazione primitiva invariante) e dalle potenzialità del

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progetto (come possibilità di espansione di tutte le possibilità del Sé). In questa direzione rinveniamo le tracce della costruzione identitaria qual è stata proposta da Ricœur; quell’avventura che costituisce la storia di un Self in cammino tra il già e il non-ancora.

Il processo di integrazione sociale Come risulta ormai evidente, il processo di socializzazione è inestricabilmente connesso con quello di costruzione dell’identità personale. Dato che si tratta di un “processo” esso può esser considerato come una successione di fasi nelle quali il soggetto umano sviluppa un’identità sempre più articolata e complessa. «La formazione dell’identità personale corre parallela alla scoperta e all’elaborazione cognitiva del mondo sociale i cui confini si allargano per cerchi successivi e che appare sempre più differenziato e complesso. Ad ogni stadio il soggetto assume ruoli nuovi che si aggiungono e si diversificano dai ruoli precedenti e così anche la sua identità diventa nello stesso tempo più differenziata e specifica. Questo processo però non si svolge in modo lineare e cumulativo, e ad ogni svolta l’individuo deve definire la propria identità personale in relazione alla ristrutturazione della mappa cognitiva del mondo sociale esterno… È necessario che l’individuo cambi e nello stesso tempo mantenga stabile la propria identità» (Ibidem, 57). L’indissolubile intreccio tra formazione dell’identità e processo di socializzazione si sviluppa in un comune itinerario di crescita che accompagnerà l’individuo dal sorgere della sua esperienza vitale sino al suo compimento. L’attenzione educativa dovrà dunque estendersi all’intero arco dell’esistenza umana. Seppur risulti di fondamentale importanza la cosiddetta “socializzazione primaria”, quella cioè che avviene nei primissimi anni di vita e nel continuo confronto con le figure parentali, in questo contesto desideriamo analizzare soprattutto la “socializzazione secondaria”, cioè quell’insieme di pratiche messe in atto dalla società che consentono agli individui di assumere ed esercitare ruoli nel mondo degli adulti. Uno degli agenti più importanti della socializzazione secondaria è senza dubbio, come dicevamo, il mondo scolastico. La scuola, infatti, è la prima istituzione sociale extradomestica con la quale l’individuo entra in contatto. Come abbiamo visto, nell’interazione con l’insegnante l’alunno acquisisce modelli di comportamento diversi rispetto a quelli esperiti nel nucleo familiare. Inoltre, assai presto, egli dovrà imparare a calibrare la propria azione in conformità alle regole esplicite ed implicite, formali ed informali, tipiche della vita adulta. Per tali motivi si ritiene che la scuola offra un contributo determinante nelle dinamiche di socialità e di costruzione dell’identità personale. Essa ha il grave compito di agevolare, indirizzare e stimolare

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non soltanto le competenze disciplinari, ma dovrà occuparsi anche – e soprattutto – della qualità globale della formazione e della positiva integrazione tra l’individuo e la società. Come ripetutamente ha insegnato Ricœur, la persona non sussume l’alterità entro la sola dinamica del rapporto io-tu. Nelle società – specialmente in quelle complesse e differenziate – il “volto” dell’altro viene perso e la sua dignità e il suo valore possono sbiadirsi, confondersi sino ad essere addirittura dimenticati. L’educazione sociale può consistere, a questo punto, nel condurre il soggetto in formazione verso l’esperienza ricœuriana del “ciascuno” e dell’“istituzione”. La società contemporanea, infatti, è costituita da un sistema articolato di relazioni che non si lasciano cogliere al di fuori del medium istituzionale. La vita relazionale, che abbiamo osservato nelle “relazioni corte” (genitoriali, amicali, scolastiche…) dismette ora i caratteri del rapporto interpersonale per acquisire quelli dell’intersoggettivo e dell’interistituzionale; in altre parole del rapporto con il diverso, con il distante, con l’altro non conosciuto tramite lo “sguardo” e il “volto”. Il processo di socializzazione deve permettere nell’educando la scoperta di un “tu senza volto”, rivelato dalla dimensione “politica” del “ciascuno”. Questa “terzietà senza volto” non è costituita semplicemente da un tu lontano, cui si deve egualmente rispetto e cura, piuttosto è la formalizzazione dell’anelito stesso alla giustizia e alla fedeltà, e ad ogni altra virtù che è richiesta dalla vita associata dell’uomo. L’anonimo, cui si deve giustizia, è l’incarnazione dell’alterità nella sua dimensione sociale3. A livello educativo può risultare particolarmente significativa, in questo settore, l’educazione alla giustizia, alla concertazione e alla pace. Si ricorderà che il senso della giustizia non si esaurisce, secondo Ricœur, nella semplice distribuzione dei beni, anche se con essa deve comunque confrontarsi. La giustizia è innanzitutto un “sentimento” che non si limita alla mera distribuzione di compiti, vantaggi e svantaggi, piuttosto implica quell’assunzione di responsabilità che deriva dal “prendere parte” ad uno spazio condiviso e che forgia l’esperienza della vita nella sua dimensione sociale e politica. “Prender parte” significa, in prima istanza, sapersi inserire in un sistema di relazioni; assumere la responsabilità del proprio ruolo all’interno delle varie istituzioni. Significa esporsi pubblicamente, vincere la tentazione di rinchiudersi nelle proprie logiche di campo. Significa costruire il “noi” con impegno e convinzione; forgiare e dar vita ad una “persona comunitaria”. Per istituzione intendiamo qui la compagine del vivere-insieme in una comunità storica – popolo, nazione, religione etc. – struttura irriducibile alle relazioni interpersonali e, tuttavia, legata ad esse in maniera considerevole. È per costumi comuni e non per regole di costrizione che, fondamentalmente, si caratterizza l’idea di istituzione di Ricœur. A questo proposito possiamo osservare chiaramente il profilo mounieriano del personalismo di Ricœur: «Il noi, per Mounier,

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rappresenta il centro vivo di confluenza e di irradiazione dei membri di un gruppo sociale e la sfera di riferimento costante per la trascendenza dell’io e del tu. Il noi, presente nell’io e nel tu, li trascende anche come novum che non aveva esistenza prima del loro incontro. Ciascuno dei tre poli io-tu-noi è impensabile senza gli altri e tuttavia è radicato autonomamente nell’essere. La relazione, infatti, genera un noi, reale come l’io e il tu, ma anche dipendente da essi. Mounier si distacca dalle concezioni a lui contemporanee per attrbuire al noi, con un’intuizione originale, i lineamenti di una persona, emergente sempre più chiaramente in relazione alla qualità del rapporto. Egli respinge le teorie nominalistiche per le quali la società non è che la risultante casuale della vicinanza di una pluralità di individui, il loro accostamento e la loro somma… Mounier, centrando il discorso sulla qualità del rapporto interattivo, introduce il concetto del noi-persona» (Ricœur, 1994, 38-39). Prendere parte alla costruzione di questo noi personale e comunitario significa attuare il processo di socialità cui ciascuno è chiamato. La società, in questo caso, cessa di presentarsi come relazione tra anonimi, come massa, per vestire i panni di una comunità nuova intessuta dell’impegno di ognuno a vivere in relazione, a fare la sua parte. «Se non c’è questo, noi abbiamo nella relazione umana una cosificazione degli altri e la distruzione del sociale. La vera socialità è solo una socialità di persone: ossia non un puro accostamento quantitativo, ma, essendo ogni persona non un numero, ma un valore, ossia una qualità, unica e originale, la socialità autentica è una quantità di qualità» (Agazzi, 1982, 40). «Pertanto il compito dell’educazione è quello di aiutare il singolo a non funzionalizzarsi, a non rinunciare alla sua dignità, alla sua responsabilità, alla sua vocazione, a non chiudersi, a non reprimere le sue potenzialità varie e vaste o per metterle al servizio di una funzione o per valorizzare soltanto un aspetto della sua complessa realtà, della sua umana ricchezza» (Macchietti, 2004, 62). Così l’intersoggettività viene affermata dal personalismo pedagogico a livello di tre termini (io-tu-altro)4, mentre la dimensione del ciascuno pone la sfida ad un’educazione che umanizzi la qualità della relazione tra persone, anche tra le più distanti, e che permetta il superamento delle concezioni pessimistiche della vita sociale. Il ciascuno permette altresì una concretezza che evita uno spiritualismo vuoto, incantato e disincarnato: «in quanto strumento di equità, il terzo evita alla dimensione espressiva di scadere nello spiritualismo dell’anima bella, e a quella oggettiva di scadere nel fattualismo dell’indifferenza etica… Nelle istituzioni, l’equità ha lo stesso compito etico che nelle relazioni intersoggettive svolge la sollecitudine… Una relazione mancante del terzo, ferma ad uno schema binario, è una vicinanza di solitudini, priva di slancio, di quella scintilla di vita espressa, non senza un alone di mistero, nel termine “reciprocità”,

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terzo vitale per quel che riguarda il puro livello amicale, terzo istituzionale per quel che riguarda il livello oggettivo… Quanto detto evidenzia che il terzo non può essere inteso in senso cronologico; è contemporaneo a qualunque rapporto io-tu, alla stima di sé e alla sollecitudine per l’altro, consentendo la possibilità stessa dell’incontro e impedendo che si instaurino relazioni di tipo duale, che sfociano nella fusione o nell’opposizione irriducibile» (Danese, 1994, 24). Procedendo in questo percorso ci troviamo ben presto di fronte al concetto e al tema dell’istituzione. Essa svolge un ruolo assai positivo, funzionando da facilitatore e da mediatore della comunicazione tra individui distanti. Poiché è impossibile che le relazioni interpersonali, soprattutto in una società altamente differenziata e complessa, possano raggiungere il livello e il tono delle relazioni amicali, è possibile affidarsi alle istituzioni come a canali di incontro tra persone. L’istituzione supera la distanza; non perché la annulla, piuttosto nel senso che ne supera la negatività e rende così possibile l’incontro anche tra anonimi. «Ricœur intende dunque l’istituzione in senso molto alto, dal semplice gesto alle più grandi istituzioni sociali, giuridiche, ecclesiali, politiche. Egli fa riferimento alla filosofia del diritto americana e alla sua nozione del ruolo della catena di cooperazione, senza la quale non si potrebbero avere relazioni contrattuali. Se il sociale si reggesse, come dice Hobbes, sulla guerra permanente, noi non potremmo mantenere alcuna promessa, poiché saremmo fuori di una qualsiasi possibilità di fiducia reciproca. Viceversa, la convivenza sociale suppone un regime di fiducia e una qualche protezione dello statuto e del ruolo di ciascuna persona» (Ibidem, 49). In tale direzione Ricœur conferma che l’intero spirito del personalismo consiste nell’utopia (in un senso molto positivo) nella quale la società sarà una “persona di persone”. Per quanto chimerico possa apparire, questo modello rimane l’ideale di tutte le società e proprio nella tensione verso questa idea-limite trova direzione e senso l’intero processo di personalizzazione e il significato complessivo di una pedagogia della persona ricœurianamente intesa. Presentazione dell’Autore: Andrea Giambetti, insegnante di filosofia presso il Liceo classico “Poliziano” di Montepulciano (Siena), dopo il conseguimento della laurea in filosofia e in scienze dell’educazione ha conseguito il dottorato di ricerca in scienze filosofiche presso l’Università di Siena – Sede di Arezzo. Ha approfondito il pensiero di Paul Ricœur soprattuto in relazione al personalismo francese producendo vari contributi apparsi in altrettante riviste scientifiche. Di prossima pubblicazione le monografie Ricœur nel labirinto personalista e Diventare Persona. Una filosofia dell’educazione di matrice ricœuriana.

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A questo proposito è interessante osservare la risposta di Ricœur alle seguenti domande di O. Rossi: «D: Vi sono stati anche interessi pedagogici (nel suo percorso filosofico)? R: È in occasione della morte di Emmanuel Mounier che ho affrontato dei temi pedagogici. Mounier è stato un filosofo pedagogo, un educatore. Io l’avevo definito filosofo-educatore. Si tratta di vecchi scritti che sono stati raccolti nell’opera Histoire et Vérité. Ci sono diversi articoli che sono di orientamento pedagogico… Nei miei scritti Mounier è un filosofo personalista che aveva una personalità pedagogica, comunitaria. Io mi ero interessato a questa idea pedagogica e personalista. Così ho sviluppato quest’idea di Mounier educatore e mi sembra che la posizione centrale occupata da questi saggi nel volume citato sia abbastanza significativa, perché interagisce con gli argomenti lì affrontati, riguardanti il potere, la violenza… D. Vi è un particolare interesse pedagogico? R. Non ho un ampio sguardo sulla pedagogia; è sempre più difficile oggi parlare di pedagogia, soprattutto in rapporto alla pedagogia degli adulti. Credo che la cosa più difficile sia insegnare agli altri ad apprendere ed io non so come fare questo. Prima di tutto credo che ci siano dei buoni professori e dei cattivi professori ed è molto difficile insegnare a qualcuno ad essere un buon professore, a educare alla lettura, a raccontare le contraddizioni; ma più che di pedagogia scolare parlerei di pedagogia degli adulti, come servirsi della televisione, come leggere i giornali criticamente ecc. Insisterei di più su un’educazione critica nei confronti dei mass-media, ed io mi sento molto portato per questo nuovo tipo di pedagogia», RICŒUR, P. (1994) Persona, comunità, istituzioni, Fiesole, ECP, p. 176. 2 Il tema della mutualità è diffuso in gran parte dell’opera ricœuriana e lo si può rintracciare anche nelle opere giovanili. È tuttavia l’ultimo Ricœur a riportare in primo piano la tematica della reciprocità e della mutualità dello scambio, in particolare nel testo Parcours de la reconnaissance (2004) in cui il filosofo declina il concetto di mutualità a vari livelli ponendolo sempre in relazione con le problematiche identitarie. 3 «Si sarà notato che non ho limitato la dialettica dell’ethos al confronto tra la stima di sé e la sollecitudine. Ho messo sullo stesso piano di quest’ultima l’auspicio a vivere in istituzioni giuste. Introducendo il concetto di istituzione, faccio riferimento ad una relazione all’altro che non si lascia ricostruire sul modello dell’amicizia. L’altro è il vis-à-vis senza volto, il ciascuno, di una distribuzione giusta… Il ciascuno è una persona distinta, ma che io non raggiungo se non mediante i canali dell’istituzione», RICŒUR, P. (1994), Persona, comunità e istituzioni, Fiesole, ECP, p. 80. Nella medesima direzione si esplicita anche il contributo di Lorenzon: «Il terzo elemento dell’intenzione etica si riferisce alle istituzioni nel loro aspetto di giustizia. Accade che il vivere bene non possa limitarsi all’io e allo spazio delle relazioni interpersonali, ma debba estendersi all’altro non conosciuto, distante dal nostro convivio, ma che può essere raggiunto dalla complessa rete delle istituzioni. È perciò questa relazione, fino ad un certo punto anonima e impersonale che può legarci all’altro. È così che la vita buona, cioè di accordo con i grandi principi e le norme etiche e morali, e pure la pratica o l’effettuazione della giustizia si realizzano e si cristallizzano nelle istituzioni. Se l’uomo vivesse isolato la discussione etica sarebbe senza fondamento. La parola “etica” suppone, nella sua origine etimologica, “comportamento”, originariamente intrecciata con la politica. E qui appare un altro merito molto rilevante della riflessione di Ricœur nell’articolare la felicità

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Studi personale con quella dell’altro e per l’altro, in una rete di srutture sociali chiamate istituzioni», LORENZON, A. (1995), «L’etica nel pensiero di Ricœur» in Persona, comunità, istituzioni, pp. 44-45. 4 «Si sarà notato che Mounier propone una dialettica a due termini: persona, comunità. La mia formula a tre termini: stima di sé, sollecitudine, istituzioni giuste, mi sembrerebbe completare, piuttosto che rifiutare, la formula a due termini», RICOEUR, P. (1994), «L’etica ternaria della persona», in Persona, comunità, istituzioni, p. 82.

Bibliografia AGAZZI, A. (1982), Una scuola a misura d’uomo, Brescia, La Scuola. BAGNASCO, A., BARBAGLI, M., CAVALLI, A. (1997), Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino. DANESE, A., (1994), «Etica della responsabilità e politica», in P. Ricœur, Persona, comunità, istituzioni, Fiesole, ECP, pp. 13-35. GADAMER, H. G. (1983), Verità e metodo, Bergamo, Bompiani. GALLI, N. (2000), Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Milano, Vita e pensiero. LAPORTA, R. (1994), «Persona (formazione della) dal punto di vista paidetico», in G. Flores d’Arcais (a cura di), Pedagogie personaliste e/o pedagogia della persona, Brescia, La Scuola, pp. 205-243. MACCHIETTI, S.S. (2004), «Educazione e formazione», in Prospettiva EP, XXVII, n. 4, 41-65. MOUNIER, E. (1935), Révolution personnaliste et communautaire, tr. it., Milano, Comunità. — (1949), Le personnalisme, tr. it. di G. Campanini, M. Presenti, Roma, Ave. POLLO, M. (1994), Educazione come animazione, Torino, Elledici. RICŒUR, P. (1955), Histoire et vérité, Paris, Seuil, tr. it. di C. Marco, A. Rosselli, Cosenza, Marco. — (1990), Soi même comme un autre, tr. it. di D. Iannotta, Milano, Jaca Book. — (1992), Lectures 2, tr. it. di I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana. — (1994), Persona, comunità, istituzioni, Fiesole, ECP. — (2004), Parcours de la reconnaissance, tr. it. di F. Polidori, Milano, Cortina. ROSSI, B. (1997), «L’io e il tu. Dalla sordità all’ascolto», in Prospettiva EP, XIX, n. 2, 25.

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SU L’IDOLATRIA Silvio Morigi L’uomo ha o Dio o un idolo Max Scheler, L’eterno nell’uomo

Abstract: A philosophical inquiry on idolatry can have important links with the subject of education. From an anthropological point of view an interesting conceptual key apt to elucidate the essence of idolatry is the mimetic attitude of the “triangular desire” (R. Girard). From a religious point of view the danger of the idolatry in the Christian faith is due to an immoderate emphasis accorded to the monotheism. Such an emphasis changes the Biblical God into a “monolithic god” (A. Zarri) which overshadows Christ’s centrality in the Christian faith as exclusive “sacrament” (E. Schillebeeckx) which reveals the true God. The authenticity of the kérygma in the Gospels comes out only if the mysterium unitatis is joined to the mysterium trinitatis. On this matter, the concept of “trinitarian kénosis” (A. Zarri) emerges as particulary fruitful. Riassunto: Una riflessione filosofica su l’idolatria può avere ricadute non secondarie sul tema dell’educazione. In un’ottica antropologica, una interessante chiave ermeneutica per cogliere l’essenza dell’idolatria è la mimesis che connota il “desiderio triangolare” (R. Girard). In un’ottica specificatamente religiosa, in rapporto alla fede cristiana, un rischio idolatrico deriva da una accentuazione ipertrofica del monoteismo, che trasforma il Dio biblico in un “dio monolitico” (A. Zarri), oscurando la centralità di Cristo nella fede cristiana quale unico “sacramento” (E. Schillebeeckx) rivelativo del vero Dio. Solo coniugando il mysterium unitatis col mysterium trinitatis emerge l’autenticità del kérygma evangelico. Particolarmente feconda, al riguardo, si delinea la nozione di “kénosis trinitaria” (A. Zarri.) Parole chiave: educazione-idolatria-mímesis-dio, monolitico-kénosis trinitaria.

Pur potendo a prima vista apparire quali ambiti tematici tra loro distanti e irrelati, una riflessione sull’idolatria (sia in un’ottica antropologica che più specificatamente filosofico-teologica: perché l’idolatria trova il suo archetipo originario nell’homo religiosus) può avere ricadute non irrilevanti sul tema dell’educazione. Questa è certo “relazione”, la cui

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pienezza è garantita dalla “reciprocità” tra un “io” e un “tu”, per cui «i nostri allievi ci formano», «come veniamo educati dai bambini» (Buber, 2012, 70). Eppure, nel rapporto pedagogico (al pari che in quello psicoterapeutico, o pastorale) questa “reciprocità” è, e deve essere, limitata, proprio al fine della sua efficacia educativa (Ibidem, 163-182). Ne deriva una asimmetria, nella relazione tra educatore e discepolo, che viene ad assumere inevitabilmente, in quest’ultimo, un carattere mimetico. Ora, la mimesis è estremamente ambigua. Certo, «se i bambini non scegliessero come modelli gli esseri umani che li circondano, l’umanità non possederebbe né linguaggio né cultura» (Girard, 2001,36). Eppure la mimesis può condurre ad esiti devastanti se si irrigidisce in idolatria del modello. In particolare essa, allora, è quanto mai atta a rovesciarsi repentinamente in risentimento e aggressività: perché è l’indifferenziazione mimetica, molto più che le pretese differenze rivendicate dagli antagonisti, a costituire la dimensione più profonda della violenza: ove è l’«odio» che ci «permette di tenere lo sguardo fisso» sul nostro modello (Ibidem, 1965, 165). Ogni processo educativo percorre questo rischioso crinale. Esso, inoltre, ha il compito essenziale di educare, oltre ogni rigidità ideologica e logocentrica, alla complessità del reale, ad aprirsi ad un’incontro con una polifonia di volti, di forme, nella loro alterità irriducibile. E qui, di nuovo, è una postura mimetico-idolatrica l’ostacolo da travalicare. La sua fissità ossessiva su modelli-idolo appiattisce, desertifica il mondo esistenziale, ne impedisce un fecondo dilatarsi spazio-temporale. Essa è la “chiusura” di una “accoglienza rifiutata”, di uno “slancio spezzato”, di un “appello inascoltato” (Ibidem, 1968, 109). Un’idolatria di cui oggi sono particolarmente succubi le folle mediatiche («la folla è la menzogna», già diceva Kierkegaard): segnate da una isteria mimetica ove l’ “imitazione positiva” tende sempre a rovesciarsi nella violenza vittimizzante dell’ “imitazione negativa” (Ibidem, 1965, 88), e ove dietro la retorica del virtuale, del multimediale si cela solo l’inaridirsi di ogni capacità di incontro con la concretezza di volti personali.

Il “dio monolitico” Un discorso sull’idolatria può muovere, assumendole come Leitwörter, da due espressioni che risuonano nel linguaggio teologico di A. Zarri, “dio monolitico” e “kénosis trinitaria”. Ad esse può riconnettersi un suo monito ricorrente: per cui è Dio stesso, entro la fede cristiana, che può divenire una tentazione idolatrica (Zarri, 2007). Una tentazione assecondata da un tacito, quanto indebito, privilegio accordato all’unità del Dio cristiano, alimentato anche da un ritenere di poter immediatamente accedere ad essa (quasi si trattasse di un auto-evidenza di tipo aritme-

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tico) senza passare attraverso il mistero trinitario. Gioacchino da Fiore nell’Adversus Haebreos parla di un magnum mysterium unitatis: dunque non certo inferiore al mysterium trinitatis. Il “dio monolitico” è appunto l’esito di una indebita accentuazione ipertrofica di un monoteismo cristiano inadeguatamente inteso. Esso cela in sé un cripto-arianesimo che disattende quel «chi ha visto me ha visto il Padre» che risuona nel quarto Vangelo (Gv, 14, 8-9), ovvero che elude la centralità, entro la fede cristiana, dell’Incarnazione e della Croce, che rendono Cristo unico “sacramento” (Schillebeeckx, 1994) rivelativo del vero Dio. Estremamente rischioso, al riguardo, è il relegare la cristologia, come fa Tommaso d’Aquino, al termine di una summa teologica, riducendo Cristo, come d’altronde già aveva fatto Agostino nelle Confessioni, a mera via, qua eundum est ad Deum (uno status, dunque, che per certi versi potrebbe evocare quello di Buddha). Per di più, le venature neo-platoniche, nonostante il creazionismo anti-emanazionistico, che permangono nell’aristotelismo di Tommaso incidono anche sulla sua soteriologia: nella stessa tripartizione della Summa Theologiae (Chenu, 1950, 261)1, in cui la prima parte evoca l’ódos káto, il próodos, mentre la seconda, e soprattutto la cristologia della terza parte, nella sua dimensione salvifica, l’ódos áno, l’epistrophé entro lo schema cosmologico di Plotino e di Proclo. Tutto ciò oscura anche il fatto che il kérygma evangelico conduce ad una metánoia, circa la nozione di “Dio”, talmente radicale da incrinare, quale suo preteso presupposto, la stessa idea di homo religiosus legata all’idea dell’universalità di un sacro a priori antropologicamente costitutivo. Ed in effetti il “dio monolitico” resta succube di un sacro pre-cristiano costruito su un’idea di perfezione e di assolutezza che altro non è che la magnificente inerzia (appunto “monolitica”) di una pienezza incontaminata e totalmente riposante in se stessa: quale è quella che già connota l’“essere pieno e rotondo” parmenideo, e che si ripropone anche nell’“Atto puro” aristotelico, nell’“Uno” plotiniano, nonostante il loro porsi come fondativi di una dinamica cosmica, cosmogonica e soteriologica, che però è radicalmente altra dall’incurvarsi agapico, creativo e salvifico, del Dio cristiano2. I praeambula fidei, l’intelligo ut credam delle teologie razionali, proprio nel loro intento apologetico di fondare la fede cristiana a prescindere da ogni pre-comprensione rivelata, rischiano di restare inconsapevolmente condizionati da una pre-comprensione sacrale, di ascendenza greco-classica, dell’ens perfectissimum, dell’id quo majus cogitari nequit cui esse approdano: anche nel loro dimostrarlo quale trascendenza personale creativa, provvidente e redentiva. In tal modo, anzichè fondare razionalmente il kérygma cristiano, esse rischiano, di fatto, sia pur inconsapevolmente, di riproporre l’averroismo di una “doppia verità”: razionale e kerygmatica. Anche il principio tomistico dell’analogia entis fallisce o perlomeno tace proprio laddove esso dovrebbe imporsi in tutta la sua

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rilevanza al centro della fede cristiana: nell’intimo nesso tra le lacerazioni dell’umano e il grido d’angoscia sulla Croce del Dio incarnato. Qualunque ens perfectissimun teologico-razionale che relativizzi o anche solo sottaccia questo nesso indulge inconsapevolmente ad un monofisismo gnostico: che eludendo la valenza rivelativa dell’Incarnazione, ritenendo la Croce incompatibile con la deità del Dio-uomo, in realtà offuscava l’autentica phýsis del Dio cristiano. Infatti, è vero che tale grido è rivolto al Padre, ma chi grida ha chiamato se stesso immagine del Padre (Temple, 1935, 322). Ma questo stretto rapporto che si viene delineando tra idolatria e “dio monolitico” non è riducibile all’esito di un intelligere filosofico-teologico inadeguato. Esso ha radici ben più profonde nella stessa costituzione esistenziale dell’uomo: ovvero, se Dio, anche entro la fede cristiana, può diventare una tentazione idolatrica, è perché sulle labbra umane “Dio” è destinato a risuonare come una parola costitutivamente idolatrica. È qui dunque che si impone, più che mai, un wittgensteiniano «avventarsi oltre le sbarre della gabbia del linguaggio». Ed è in vista di ciò che gli ateismi possono assumere una valenza profetica (nel senso biblico del termine). Ma solo se non restano succubi proprio di ciò che combattono (come i “nuovi ateismi” di R. Dawkins, D. Dennet, P.G. Odifreddi), cioè nel condividere tacitamente con le fedi idolatriche la loro stessa immagine di Dio: senza confrontarsi, quindi, autenticamente col Dio biblico, ed anche con la denuncia dell’alienazione religiosa che scaturisce entro lo stesso pensiero cristiano3. Ma soprattutto il loro limite sta nel ritenere che basti l’espulsione della parola “Dio” a fondare un autentico sguardo antropologico garante di una autenticità umana. Al contrario: rifuggire in tal modo da Dio è rifuggire dalla più intima natura dell’uomo Ma non perchè l’uomo sia nobilitato per il fatto che è un homo religiosus, un animal capax religionis, bensì perché è solo confrontandosi radicalmente con questa parola-idolo, “Dio”, generatrice di cieche ossessioni e di violenza, che può essere fondata un’autentica antropologia capace di misurarsi col Dio biblico. Ed è forse proprio questo (anche se non solo questo) che intende M. Buber in una pagina di L’eclissi di Dio, ove scrive: «generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con la loro divisione in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue […] Essi disegnano caricature e vi scrivono sopra “Dio”, si uccidono a vicenda e lo fanno “in nome di Dio” […] Si, è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano». Ma Buber conclude: «proprio per questo non devo rinunciare ad essa» (Buber, 1990, 22).

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Dice M. Scheler: «l’uomo ha o Dio o un idolo» (Scheler, 2009, 277). Questa sua frase può essere fraintesa in due modi. La fraintende il credente se la intende nel senso che basta scostarsi dagli idoli per accedere al vero Dio. La fraintende l’ateo se egli crede che, dato che Dio è l’idolo umano archetipico, basta sbarazzarsi di Dio per azzerare il religioso nella sua essenza idolatrica. Infatti: all’ateo si può rispondere che l’aut aut, in questa frase, implica che tertium non datur, ovvero che l’idolatria, anche senza Dio, resta un irrefrenabile, costitutivo riflesso nell’umano. Al credente, proprio per lo stesso motivo, si può obiettare che il salto dall’idolo a Dio è estremamente arduo, perché anche la fede nel vero Dio è costretta a germinare su di una natura umana costitutivamente idolatrica. Una via, filosoficamente intrapresa in vari modi, per liberarsi dall’idolatrico “dio monolitico”, è quella di negarlo come ens perfectissimum (anche per risolvere l’impasse delle teodicee, di fronte al problema del male, nel coniugare in Dio l’onnipotenza e la bontà infinita). Se J. Stuart Mill e W. James pongono un non onnipotente “dio finito”(finite God), Schelling e Pareyson pongono il male già in Dio, come un suo “abisso”, “fondo oscuro” rispetto a cui egli, come “dio che diviene”, è eternamente agonico. Quest’ultima tesi, in particolare, ricade in una cripto-teodicea, assimilabile ad un feuerbachismo rovesciato, o anche ad un cripto-manicheismo gnostico che condensa in un unico Essere sia la Luce che la Tenebra eterna del bene e del male. Ciò che soprattutto va rilevato, al riguardo, è che ogni siffatta traslazione semantica del termine “Dio”, che neghi in lui quel perfectissimum come integralità ontologica cui costitutivamente rimanda il senso di tale termine, rischia di ridurlo ad un mero flatus vocis cui possono attribuirsi i sensi più disparati. Solo mantenendo la densità semantica di questa parola l’uomo può autenticamente interrogarla, e farsi interrogare da essa. Quindi, anche una fede cristiana che travalichi l’idolatrico “dio monolitico”, se vuole essere onesta verso questa parola, “Dio”, non può non dirlo perfectissimum. Eppure, è proprio nel costitutivo protendersi dell’uomo verso una totale perfezione, verso un’assoluta pienezza d’essere incontaminata da ogni finitudine, che può cogliersi, parimenti, la radice di ogni idolatria. É questo forse uno degli esiti più rilevanti dell’indagine sul desiderio umano sviluppata da R. Girard, per il quale, molto più che un razionalismo illuministico, è proprio la Sehnsucht romantica, nei suoi esiti religiosi (lo Streben nach dem Ubendingtet, come dice Schlegel)4 ad essere estremamente insidiosa per un’autentica fede cristiana. Questa quindi, pur non potendo eludere il perfectissimum in Dio, dovrà penetrare il senso autentico che tale perfezione assume entro il kérygma evangelico, e in alcun modo pretendere di poter muovere da una sua pre-comprensione intesa quale praeambulum fidei. Infatti, alla luce dei Vangeli, tale senso emerge

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come radicalmente antitetico al modo idolatrico, a lui costitutivamente connaturato, in cui l’uomo comprende abitualmente perfezione e pienezza d’essere, anche nelle prevalenti concettualizzazioni filosofiche delle teologie razionali.

Mímesis e idolatria In Menzogna romantica e verità romanzesca Girard sostiene che quasi mai il desiderio nell’uomo è rettilineo, cioè immediatamente proteso verso i caratteri reali intrinseci alla cosa (o alla persona, nei rapporti amorosi) desiderata, e motivato da essi. Quasi sempre esso è “triangolare”: cioè mediato dall’imitazione di un modello, nel senso che si desidera qualcosa solo perché un nostro modello già lo desidera, o lo possiede, più in generale perché gli è intimo quale elemento del suo mondo esistenziale. I tre vertici del triangolo in questione sono dunque: il soggetto desiderante, o “discepolo”, il “modello” (o “mediatore” del desiderio), l’“oggetto” desiderato (Girard, 1965, 4-7). Quest’ultimo riveste dunque un ruolo secondario, subordinato. Primario è il modello, l’assoluta “superiorità d’essere” (Ibidem, 81), “pienezza d’essere” (Ibidem, 1980, 193) che il discepolo crede di cogliere in lui al confronto di un frustrante deficit d’essere che egli avverte in sé. L’oggetto figura quale mera “reliquia” (Ibidem, 1965, 73) del modello, l’appropriarsi della quale viene vissuto come un modo di partecipare della sua pienezza d’essere, di realizzare una “fusione” (Ibidem, 1987, 71) con essa. Ma l’esito di ciò è che ogni oggetto acquista un significato solo perché gli viene conferito dal modello, offuscando in tal modo il senso autentico delle cose, l’identità effettiva delle persone, sradicando quindi il discepolo dalla concretezza della realtà. Il modello-idolo, elevato illusoriamente al rango di un ens realissimum, equivale ad un “sole finto” che proietta su oggetti e persone, entro il mondo del discepolo, uno “splendore fallace”(Ibidem, 1965, 20)5. L’idolatria, per Girard, si radica appunto in tale tipo di desiderio. La sua “menzogna”non sta solo nel caricare illusoriamente di attributi favolosi un nostro simile, che in quanto tale mai li possiede. Soprattutto la menzogna idolatrica sta nel confondere un ente (il modello) con l’essere la cui pienezza ontologica non può che eccedere ogni singolo ente. Girard parla anche al riguardo di “desiderio metafisico” che determina una “malattia ontologica” (Ibidem, 75-76). L. Goldmann ha giustamente rilevato un singolare assonanza tra questo lessico girardiano e quello heideggeriano (Goldmann, 1981, 14-15). Per Heidegger infatti la “metafisica” è “oblio dell’essere”, oblio della “differenza ontologica” tra ente ed essere. Lo stesso potrebbe dirsi (sia pur entro un contesto tematico radicalmente differente) per il “desiderio triangolare”. Inoltre, come per

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Heidegger la metafisica è sempre “onto-teo-logia”, parimenti questo tipo di desiderio potrebbe dirsi “onto-teo-logico”, se si considera la sua impronta religiosa, di culto sacrale del modello-idolo. Per il Girard di Menzogna romantica e verità romanzesca la fuoriuscita dall’idolatria del “desiderio triangolare” sta nel recupero di un desiderio rettilineo, “secondo sé” e non mimeticamente “secondo l’altro” (il modello-idolo) (Girard, 1965, 8), capace di volgersi alle cose e ad assaporarle nella loro concretezza effettiva; capace, nel caso delle persone, di un vero incontro con esse, nella loro effettiva realtà. Se l’esistenzialismo francese contemporaneo, con riferimento a Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij, celebrava il “sottosuolo” come la dimensione di una “autenticità” che Sartre contrapponeva ad una “malafede” occultante la propria libertà esistenziale, Girard, nel suddetto volume del 1961 (e in Dostoevskij, dal doppio all’unità del 1963) inverte radicalmente tale interpretazione. Il “sottosuolo” dostoevskijano deve intendersi, al contrario, come la dimensione alienante del desiderio mimetico, fuoriuscendo dal quale si risale sulla “superficie della terra”, metafora di una postura esistenziale improntata dal rettilineo desiderio “secondo sé”; una “terra” che equivale per l’uomo ad una sorta di eden perduto. Scrive Girard: «gli uomini si lusingano di aver rigettato le antiche superstizioni, ma stanno sprofondando sottoterra, in quel sottosuolo ove trionfano illusioni sempre più grossolane. A mano a mano che il cielo si spopola, il sacro rifluisce sulla terra, isola gli individui da tutti i beni terrestri, scava tra lui e il quaggiù un baratro più profondo dell’antico aldilà. La superficie della terra su cui abitano gli altri diventa un paradiso irraggiungibile» (Ibidem, 1965, 56). L’idolatria del desiderio triangolare viene dunque riconnessa ad un protendersi non più verso la “trascendenza verticale” di Dio, ma verso la “trascendenza deviata” del modello-idolo (Ibidem, 55-56). Girard intende inoltre il “desiderio secondo sé” come intimamente connesso ad un contestuale “slancio” (Ibidem, 14) verso la perduta “trascendenza verticale” del vero Dio. Infatti un’autentica fede cristiana (come nell’Alëša dei Fratelli Karamazov) si traduce sempre in una rettilinea e lucida «apertura al mondo e all’altro» affrancata da ogni ossessiva “chiusura” idolatrica (Ibidem, 1987, 121). Ma, per Girard, anche a prescindere di una tale esplicita fede, in ogni metánoia dal “desiderio triangolare” ad un autentico desiderio “secondo sé”, può dirsi sotteso, anche se implicitamente, un tale protendersi verso la suddetta “trascendenza verticale”: perché la concretezza del reale che questo desiderio ci fa incontrare, in un’ottica di fede trova la sua radice e fondamento creaturale nella concretezza ontologica del vero Dio. Si potrebbe però rilevare che il desiderio “secondo sé” così inteso, cioè in un suo nesso costitutivo (esplicito o implicito) con la “trascendenza verticale” di Dio, pur rompendo col desiderio “secondo l’altro” prote-

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so verso la “trascendenza deviata” di un idolo umano, disegna anch’esso, sia pur in modo diverso, un triangolo: alla cui sommità nel primo caso c’è Dio, nel secondo caso il modello-idolo. Ma allora, in entrambi i casi, ogni oggetto termine del desiderio potrebbe, parimenti, assimilarsi a “reliquia” di una “pienezza d’essere”, che nel primo caso si pretenderebbe di discriminare come reale, nel secondo caso illusoria. Un’inquietante simmetria. Essa potrebbe condurre alla conclusione che il connettere il desiderio “secondo sé” ad una “trascendenza verticale” lo renda difficilmente distinguibile dall’idolatria; che l’idolatria, in qualunque sua forma, stia nell’elevare, ad di sopra della “terra”, la trascendenza di un “sole”, e che quindi anche la luce proiettata su di essa da un preteso “sole” vero risulti “fallace” alla pari di quella proiettata da un preteso“sole finto”: entrambi, al di là di questa distinzione arbitraria, equiparabili ad idoli, parimenti occultanti un autentico, autonomo “splendore” terrestre, in una nietzschiana “fedeltà alla terra”. Ma, approfondendo il modo in cui Girard intende il desiderio “secondo sé”, risulta che il modo in cui la “trascendenza verticale” del Dio cristiano (connessa a tale tipo di desiderio) fonda un mondo esistenziale è radicalmente diverso da quello in cui lo fonda la “trascendenza deviata” dell’idolo. Dunque, per Girard, il desiderio “secondo sé” radica «sulla superficie della terra ove abitano gli altri», ovvero permette un autentico incontro con essi, il che è un aprirsi alla concretezza dei loro volti. Ancora prima che in E. Lévinas, il tema del “volto” risuona nel personalismo francese (che tramite la mediazione di D. de Rougemont, incide profondamente sul Girard di Menzogna romantica e verità romanzesca). Ma in un’accezione notevolmente diversa da quella lévinasiana, ove il visage è «un volto senza il “tu”» (Danese, 1984, 192), per cui (anche per l’iconofobia anti-idolatrica propria dell’ebraismo di Lévinas) esso equivale ad una radicale alterità che svaluta nel volto ogni figuralità quale possibile esito di una sua raffigurazione reificante e totalizzante. Invece nel personalismo francese il visage richiama piuttosto lo splendore epifanico dell’icona russo-ortodossa. La luce che si irradia da un volto rimanda alla sua inconfondibile figura, marcata dalla linea del contorno che lo racchiude, ove «il limite è disegno, superficie sensibile, vera bellezza della persona» (Mounier, 1949, 105). É solo la finitudine di tale contorno a delineare un volto nella sua singolarità irripetibile, espressiva di un “inesauribile” (Ibidem, 1964, 61) tale da poter suscitare in noi una “vertigine della profondità” (Ibidem, 65). «Strettezza è condizione di profondità» (Idem, 1981, 93). É per questo che «il mistero ama la luce, esso aspira a precisarsi in forme afferrabili» (Ibidem, 1949, 105). Dunque, la “terra” di cui parla Girard potrebbe assimilarsi ad una coralità polifonica di volti (umani e naturali) cui si apre il desiderio “se-

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condo sé”. Ma allora, se davvero questo desiderio è sempre contestuale ad uno “slancio”, implicito o esplicito, verso il vero Dio che, in quanto creatore, è radice e “garante” (Girard, 2003, 118) del senso vero di ogni realtà, il modo in cui questo Dio fonda la concretezza del reale privilegia la singolarità irripetibile dei volti creaturali che ci si dischiudono solo in virtù della loro finitudine. Ne deriva che, per una paradossale analogia entis, è proprio la finitudine ad essere la cifra più adeguata della vera pienezza d’essere che è in Dio, che essa è la via privilegiata per accedere a questa. Si ha qui, cioè, un assoluto, un infinito la cui supremazia sul creaturale, la cui potenza fondativa si esprimono in una celebrazione del finito; un Dio il mistero della cui integralità ontologica si rivela, kenoticamente, solo nel mistero, nell’enigma luminoso del finito, nella sua singolarità irriducibile. Sia Mounier che de Rougemont citano Spinoza: «quanto più conosciamo le cose particolari, tanto più conosciamo Dio» (Mounier, 1981, 79; de Rougemont, 1993, 377). Radicalmente diverso è il modo in cui l’agognata e illusoria “pienezza d’essere” dell’idolo è a fondamento di un mondo esistenziale. Il suo fondare è assimilabile ad un totalizzante “imperialismo del Medesimo” (Lévinas, 1980, 37) che omologa, appiattisce, desertifica, inducendo a ricercare ossessivamente la stessa nota, lo stesso timbro nella pluralità degli enti. L’idolo è effettivamente equiparabile all’ens realissimum, al summum genus delle ontologie filosofiche: il quale fonda subordinando, classificando, ovvero omologando a sé. Proprio ciò induce Freud ad equiparare la filosofia ad un delirio paranoico, affine, per la loro comune ýbris fondativa, alla religione, alla postura dell’homo religiosus equiparata ad una nevrosi ossessiva (Freud, 1969). L’auto-distruttività desertificante dell’ossessione idolatrica può dirsi icasticamente espressa anche in un racconto di J.L. Borges, Lo Zahir, tratto dalla mitologia araba: chi vede lo Zahir finisce per impazzire perché questo, poi, gli si ripropone ossessivamente in ogni ente. Per Girard l’idolatrico desiderio triangolare è “chiusura” che blocca non solo un effettivo incontro con l’altro, ma anche con se stessi, con quell’alterità che noi sempre siamo per noi stessi (come accade, egli nota, nelle «ossessioni sessuali» contemporanee dove c’è «una duplice impotenza alla comunione e alla solitudine») (Girard, 1965, 141-142). Al contrario, il desiderio “secondo sé” è «inscindibile da una calata in noi stessi» (Ibidem, 53), esso «genera un nuovo rapporto con gli altri» e «con noi stessi», ove «solitudine» e «comunione», «esistono unicamente l’una in funzione dell’altra» (Ibidem, 129, 252). Anche de Rougemont parla di «solitudine» e «comunione» come di «due aspetti dello stesso movimento dell’essere» (de Rougemont, 1997, 63). Tale “solitudine” è ciò che Mounier definisce “conversione intima” (Mounier, 1964, 59) la quale più che “raccoglimento” (“termine troppo pacato”) è “sradicamento”, inquietu-

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dine agonica, che implica “oscurità e scommessa” (Ibidem, 1981, 31): perché il vero incontro con se stessi può essere altrettanto sconvolgente, drammatico dell’incontro con l’altro. «Bisogna uscire dall’interiorità per consentire l’interiorità autentica»; «bisogna che sappiamo coltivare la distanza e che, con Nietzsche, non temiamo di disinfettare spesso il gusto di ciò che è più vicino con l’amore del remoto» (Ibidem, 91, 78). Se per Sartre l’enfer, c’est les autres, ed è già il pietrificante “sguardo dell’altro” ad essere una minaccia per la mia libertà esistenziale, Mounier rileva che quel che ancor prima mi pietrifica (come nel caso della Lot biblica, trasformata in una statua di sale non per il suo essere guardata, ma «per il suo guardare in un certo modo i propri desideri») è lo sguardo che abitualmente mantengo su di me: segnato da una «opacità» da cui deriva, poi, anche «l’opacità che in seguito sviluppo sull’altro». Ma allora è proprio l’irruzione dello “sguardo dell’altro“ che mi “sconvolge”, che se accolta con “disponibilità” (per Mounier sempre esistenzialmente drammatica: kiekegaardianamente segnata da “rischio”, “scommessa”, “salto”), può assecondare in me un passaggio dalla “opacità” del guardare alla lucidità di un vedere: capace di aprirsi, al contempo, sia al mio vero volto, sia al vero volto dell’altro, che si cela al di là del suo sguardo (Ibidem, 116-117). È per questo che Mounier celebra l’irruzione dell’ “evento” in una esistenza umana: l’évenément sera notre maître intérieur6. Egli scrive: «ma ecco che sorge davanti a me, in me un punto oscuro, un enigma, lo sbarramento di uno sconforto, la resistenza di un essere, lo strazio di una solitudine, la stranezza di un avvenimento, e con esso una sorda protesta contro l’ordine delle mie idee, delle mie ragioni, della mia vita, delle mie parole. La passione della Notte mi afferra, una passione di distruggere l’abitudine e l’evidenza, di far silenzio, per lasciare che quelle cifre insolite comunichino il loro messaggio inatteso» (Mounier, 1981, 172-173). Forse proprio in ciò sta l’agápe cristiana: di fronte al nemico, superando un’immediata e passiva reattività spersonalizzante, che genera una “desertica geometria di doppi” violenti (Girard, 1970, 154), nel recupero di una lucidità attiva che si azzarda ad andare a vedere il suo vero volto, il che è, al contempo, capacità di far emergere anche il proprio vero volto. Così inteso, nel comandamento dell’amore del prossimo, forse acquista una nuova comprensibilità anche quel “come te stesso” che sembrerebbe in apparenza contrastare la sua gratuità auto-oblativa. Ora, se davvero aprirsi ad un autentico incontro con l’altro è aprirsi alla “trascendenza verticale” del vero Dio, e se tale incontro è quasi sempre improntato da questa ineludibile drammaticità, con ciò emerge un altro aspetto del modo in cui un tale Dio è fondativo, a differenza dell’idolo, di un mondo esistenziale. Il fondare di questo Dio assomiglia piuttosto ad uno “sfondare”: uno “sfondare” ogni idolatrico e rassicu-

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rante orizzonte di senso. L’événement, come possibilità di accedere al vero volto dell’altro, è quindi, al contempo, possibilità di accedere al vero volto di Dio. D’altronde, anche privilegiando la sua dimensione “verticale”, la fede nel Dio biblico è sempre drammatica: come costante azzardo ad incontrarlo al di là delle sue consolidate e rassicuranti immagini idolatriche. Scrive Mounier: «lo stato del cristiano è uno “stato terrificante”. Impedisce che il cristiano si riposi e si organizzi, anche cristianamente, in questo mondo. Lo sforzo delle cristianità storiche è un tentativo acristiano di negare la contingenza sempre precaria della Creazione e dell’Incarnazione per istallare al suo posto un’immobilità rassicurante come una legge» (Ibidem, 39). «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb, 10, 31): perché (dice de Rougemont citando Kierkegaard) «“Dio crea tutto ex nihilo” e quelli che il suo amore elegge egli “comincia con l’annientarli ”, sì che nell’immediato egli appare allora come “il mio mortale nemico”» (de Rougemont, 1993, 379). Del dramma di questa fede sono figure emblematiche Abramo e Giobbe, anche se in due modalità che parrebbero nettamente opposte. In Abramo la fede sembra solo obbedienza silenziosa, in Giobbe invece è grido di rivolta che sfiora la bestemmia. Ma il silenzio di Abramo non è riducibile ad ascetica rassegnazione antitetica all’urlo di Giobbe: Giobbe «leone ruggente» il cui vero «timor di Dio calpesta la saggezza e disprezza la difesa di Dio» da parte degli amici, quei «consolatori d’ufficio» che «come rigidi cerimonieri prescrivono ciò che è conveniente recitare nell’ora della sofferenza» (Kierkegaard, 1992, 77). Come Giobbe non si acquieta nell’immagine che essi gli propongono di un Dio inflessibilmente retributivo per qualche colpa sicuramente da lui commessa, come egli non si acquieta neppure di fronte all’epifania sacrale di un dio maestoso che rivendica l’imperscrutabilità dei suoi piani, così anche Abramo non si acquieta di fronte al volto tremendo con cui Dio ora gli si manifesta, la sua obbedienza è fede angosciosa alla ricerca del vero volto di Dio. Egli assomiglia ad un giocatore di poker che di fronte ad un rilancio spaventoso dell’avversario, non si ritira, ma rilancia a sua volta, anche se rischia di perdere tutto. Ed è solo in virtù di questo azzardo che gli si manifesta, alfine, il Dio vivo e vero. Solo allora Abramo potrebbe gridare come Giobbe: «ma io so che il mio difensore è vivo»7. Anche se questo grido, in Giobbe, è ancora l’azzardo supremo della sua fede. Ma al contempo esso è anche la suprema, verace epifania, sulle sue labbra, del volto autentico di Yahvè.

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La “kénosis trinitaria” Radicalizzando questa antitesi tra il perfectissimum nel Dio cristiano e la presunta “pienezza d’essere” nell’idolo, è la stessa espressione “trascendenza di Dio” (cui pure storicamente, nella tradizione del pensiero cristiano, va riconosciuto il merito essenziale di aver arginato rischiose derive filosofico-teologiche) che può risultare estremamente ambigua, se non addirittura insidiosa: nel suo evocare una separatezza che asseconda l’idea del “dio monolitico”, nel marcare un’antitesi radicale tra una superiore integralità ontologica e la finitudine umana (per cui la stessa distinzione girardiana tra “trascendenza verticale” e “deviata” risulta precaria: perché anche la “trascendenza deviata” è vissuta soggettivamente come verticalità; anzi, forse è proprio qui che nella storia religiosa dell’uomo il “trascendente” ha la sua genesi, nella ipostatizzazione sacrale di un umano trasfigurato). Ma il tentativo di travalicare questo termine non va frainteso. Non può certo significare il privare la parola “Dio” della sua densità ontologica, attribuendole una valenza meramente simbolica, atta ad orientare l’uomo ad un agire morale: ovvero, ridurre la fede ad etica. Ciò vale, peraltro, a snaturare il kérygma cristiano, nel suo porsi come antitetico ad ogni autonomia etica dell’uomo. È in tal senso che per Agostino virtutes gentium splendida vitia sunt, e già il Genesi biblico proietta un’ombra inquietante di ýbris auto-divinizzante sulla distinzione bene-male, nelle parole tentatrici del serpente: eritis sicut dei, scientes bonum et malum. Girard, su queste tracce, rileva il carattere di violenza discriminante ed espulsiva che la distinzione “bene-male” è sempre, costitutivamente, destinata ad assumere sulle labbra umane. Nelle parabole evangeliche, egli nota, Dio figura spesso come «un padrone assente», «un proprietario partito per un lungo viaggio che lascia mano libera ai suoi servi». E che se è presente «vieta che venga strappato il loglio» dal grano, «fosse anche per favorire la crescita del grano». Proprio per questo il Dio cristiano «fa splendere il sole e cadere la pioggia sui giusti e sugli ingiusti». Egli «non può agire con mano potente in un modo che gli uomini giudicherebbero divino. Quando credono di rendergli omaggio, essi onorano quasi sempre il dio dei persecutori». Questo Dio «non regna sul mondo» perché ogni regno mondano sussiste sempre solo marcando limina espulsivi (analoghi all’imputazione etica del “male”). La sovranità sul mondo è di «Satana, l’accusatore» (Ibidem, 191, 193-194): un essere «morale e risolutamente manicheo» (Ibidem, 1987, 114), rispetto a cui il Dio cristiano si pone come il Paracleto8. Certo il male esiste, è tremendamente reale. Ma forse la sua radice essenziale sta proprio nelle distinzioni operate dagli uomini tra bene e male, in cui, con un irrefrenabile ed idolatrico Gott mit Uns, essi vorrebbero sempre coinvolgere anche Dio. Il quale, invece, sot-

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to questo aspetto, come il “padrone assente” delle parabole evangeliche, potrebbe ben dirsi Jenseits von Gut und Böse. Il travalicare il termine “trascendenza” non è neppure da intendersi come un riproporre logori immanentismi filosofici, i quali, per un verso, sono solo trascendenze invertite, e, per un altro verso, restano succubi proprio del termine “trascendenza”: perché, nel loro stesso opporsi ad essa, inchiodano il pensiero nell’angustia dell’alternativa immanenzatrascendenza. È proprio avvalendosi terminologicamente ancora di essa, che W. Temple ne rileva efficacemente il limite: «è una mezza verità dire che dobbiamo adorare il trascendente perché possiamo afferrare il valore dell’immanente. Dio mai è così trascendente come quando massima è la sua immanenza», nella «sublime e tremenda solitudine della Figura sulla Croce» (Temple, 1954, 273). Ma forse il modo essenziale per travalicare l’ambiguità insidiosa del termine “trascendenza” nel suo evocare un idolatrico “dio monolitico” sta nel coniugare ineludibilmente nel Dio cristiano il mysterium unitatis col mysterium trinitatis, alla luce di una teologia trinitaria che si ponga oltre una concezione meramente “psicologica” della Trinità (qual è quella di Agostino e Tommaso, pur nella sua imprescindibile rilevanza storica) cioè incentrata su di una analogia tra il ritmo trinitario e l’esse, nosse, velle nell’anima umana. Entro il pensiero teologico contemporaneo vari autori (da W. Temple a E. J ngel) hanno intrapreso questa via, ed in essa si profila particolarmente feconda, quale traccia per un’ulteriore riflessione, l’espressione “kénosis trinitaria” di A. Zarri. Essa vale ad esprimere icasticamente il fatto che nella Trinità del Dio cristiano ogni Persona trae la sua identità eterna solo dall’auto-deprivarsi di un’autonoma auto-sussistenza ontologica. Vale a dire, le tre Persone emergono come tali solo in virtù di quel loro reciproco impeto auto-oblativo che fonda quel che i padri greci chiamavano pericóresis, ovvero l’eterno, abissale e vertiginoso, vortice del ritmo trinitario. In esso, ogni Persona si afferma come tale, trae la sua identità ontologica solo incurvandosi kenoticamente verso l’altra: un incurvarsi che potrebbe assimilarsi ad un concavo totalmente recettivo, ma che potrebbe dirsi, al contempo, un convesso intimamente penetrativo. Un incurvarsi reciproco che potrebbe assimilarsi anche ad una perfetta intimità dialogica. Mounier (in virtù di una analogia entis che muove da una considerazione che nell’umano «la prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io») nota che «il concetto di Trinità rivela l’idea sorprendente di un Ente supremo entro cui più persone dialogano intimamente» (Mounier, 1964, 44, 16). Ciò rende il Figlio l’eterno “‘Tu’ del Padre” (Zarri, 1968, 33)), la sua alterità perfetta. Ma come il Padre è l’eterno Tu del Figlio. La loro consustanzialità deriva da un generarsi reciproco che ciò determina (allo stesso modo in

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cui, al di là della mera generazione biologica, nella pienezza del rapporto padre-figlio essi si generano reciprocamente come tali). E lo Spirito è l’attiva energia che conferisce un respiro abissale, un vertiginoso, infinito spazio di gioco a questo reciproco, eterno dialogo tra Padre e Figlio. Ma è un’energia che ha una densità personale pari a quella del Padre e del Figlio. Forse ciò può in qualche modo comprendersi considerando come, nell’esperienza umana, la relazione tra due alterità possa crescere, venire animata, acquisire una pienezza altrimenti irrealizzabile solo in virtù dell’irrompere sconvolgente, ma vitalizzante entro di essa di un’ulteriore alterità. Ed è ciò, forse, anche il senso della frase di Cristo agli apostoli preannunciante il suo ritorno al Padre: «se non me ne vado, non viene a voi lo Spirito» (Gv 16, 7). Solo la Pentecoste, l’irruzione dello Spirito avrebbe conferito alla loro fede, al loro rapporto con Cristo, da sempre insidiato da una un chiusura idolatrica, di aprirsi verso spazi, dimensioni inesplorate. Ed è anche per questo che G.K. Gibran invita gli amanti a far sì «che i celesti venti danzino tra di voi», «che vi sia un mare in moto tra le sponde delle vostre anime» (Gibran, 1989, 27): perché è solo un tale spazio di gioco a conferire una permanente, inesauribile freschezza al mistero del loro amore. Tutto ciò, anche se in modo precario, può aiutare a comprendere come sia la vitalizzante alterità dello Spirito, rispetto all’incessante dialogo tra un Io e un Tu eterni nel ritmo trinitario, a fondarlo ontologicamente nella sua profondità abissale. È così che lo Spirito si incurva agapicamente verso il Padre e il Figlio, come essi, nel loro agapico incurvarsi reciproco l’uno verso l’altro, si incurvano agapicamente verso di Lui9. Ma allora, se l’autenticità del “tu”, già nell’esperienza umana, è tensione verso l’“inesauribile”, la “vertigine della profondità” che si cela in un volto, forse anche il ritmo trinitario potrebbe intendersi come una incessante tensione ad illuminare, penetrare, celebrare l’“inesauribile” infinitamente più vertiginoso, abissale di un Volto che equivale ad un Tu eterno per un Io eterno. Eppure, la finitudine di un volto umano non sarebbe ancora la cifra più adeguata dell’infinità di Dio. Lo può essere pienamente soltanto se si intende il ritmo trinitario come un qualcosa che prefigura, anche, e ricapitola eternamente in sé, tutte le angosciose notti oscure, i deserti aridi, solo attraversando i quali, in un esodo rischioso e sempre precario, si può pervenire a quella “terra promessa” che è l’agápe del “tu”, che vive eternamente in Dio. È dunque il tema biblico dell’esodo che viene a delinearsi come ulteriore cifra del ritmo trinitario: per una paradossale analogia entis. Infatti, in ogni esodo umano, è da una schiavitù che si accede ad una libertà edenica. Ma il perfectissimum nel Dio uno e trino non può che condurre al mistero di una coincidentia oppositorum per cui, in Lui, esodo ed eden eternamente si identificano. Si potrebbe allora tentare di esprimere l’eterna tensione kenotica, nel Dio trinitario, all’aprirsi agapico

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verso un Tu eterno, come esodo, liberazione infinita, ma senza che in Lui vi sia, vi sia mai stata, possa mai esserci, schiavitù, limite alcuno. Un paradosso cui può anche condurre l’ossimoro di quel felix culpa che risuona entro il canto dell’Exultet nella veglia pasquale10. Solo così si può dire che la Trinità «concentra» in sé «ciò che forse da sempre, già in Dio, era la storia» (Zarri, 1968, 33), anche come storia di ogni individuo umano. «Il Dio vivo e vero fu da tutta l’eternità e da tutta l’eternità volle come un Dio. Volle che la sua divina essenza fosse comunicata, volle persone che ne godessero. Volle mondi, volle enti in cui riflettersi, volle gioie, volle tesori. Volle, eppur non volle, perché egli li aveva» (Traherne, 2009, 27). È con queste parole che già T. Traherne alludeva ad un intimo nesso tra Trinità e creazione, ma avvolgendolo in un mistero, espresso da una paradossale ed illuminante contraddizione logica (He willed, yet He willed not, for He had them) dissipante ogni necessità emanativa. Ma la storia umana, pur entro i “tesori”, lo splendore del creato, è ineludibilmente segnata da un tremendum agonico il quale, se davvero il ritmo trinitario prefigura e “concentra” in sé tale storia, viene eternamente assunto nel perfectissimum del Dio cristiano, ma non come suo limite, bensì proprio come condizione essenziale di tale perfezione. La quale ci si dischiude nell’uomo-Dio: “reso perfetto dalla sofferenza” (Eb 5, 8-9) sulla Croce, quale “immagine del Dio invisibile”(Col 1, 15). Proprio per questo sempre Traherne chiama la Croce “Centro dell’Eternità” (Traherne, 2009, 39). Alla luce di ciò può forse anche assumere un senso ulteriore la realtà del male. Certo, è la linea del contorno che lo racchiude a rendere un volto umano inconfondibilmente espressivo di un suo “inesauribile”. Ma assai spesso i concreti lineamenti di un volto, di una figura umana, emergono solo in virtù di un crampo che attanaglia (come in certi ritratti di Egon Schiele). Un crampo che è indice di un male che devasta e stravolge, ma che, al contempo, vale a dischiuderci, nel suo dramma, una irriducibile singolarità personale. Ma se questa è la condizione prevalente dell’espressiva finitudine di un volto umano, e se tale finitudine ci è apparsa quale cifra privilegiata del mistero della pienezza d’essere del Dio trinitario, forse il male non è solo l’enigma che si profila come antitetico all’esistenza di un qualsiasi Dio. La nostra esperienza del male nell’altro, del male che marchia a fuoco i lineamenti del suo volto, potrebbe costituire il tremendamente concreto punto di avvio ad un itinerarium mentis in Deum. Tale ambiguità del male, che nel suo devastarlo configura al contempo un volto, viene icasticamente resa da un aggettivo, crooked, che risuona in un verso di W.H. Auden: You shall love your crooked neighbour / With your crooked heart11.

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Presentazione dell’Autore: Silvio Morigi, professore associato di Filosofia della Religione e di Storia della Filosofia Medievale presso l’Università di Siena (sede di Arezzo), si è occupato della cultura filosofico-teologica britannica tra Ottocento e Novecento (R.G. Collingwood, B. Bosanquet, W. Temple) e del pensiero francese contemporaneo (E. Mounier, D. de Rougemont, R. Girard). Note 1

Per Tommaso «poiché la teologia è la scienza di Dio, tutte le cose saranno studiate nella loro relazione con Dio, sia nella loro produzione sia nella loro finalità: exitus et reditus» (Chenu, 1950, 261). 2 L’atto puro aristotelico “muove” (kínei), ma solo “in quanto amato” (ós erómenos) nella sua imperturabile staticità (Aristotele, 2000, 1072 b 3). L’Uno, pur essendo emanativo, in quanto “amore di sé” (éros autoú), (Plotino, 2000, VI, 8, 15), mai “esce da sé” (Ibidem, VI, 3, 12), mai “scende dal trono regale” (Ibidem, IV, 8, 4), esercita solo, dalla sua sublime “altezza” (metereoporéin), una “sovranità inattiva” (ápragmoni epístasia), (Ibidem, VI, 8, 2). 3 K. Barth e D. Bonhöffer considerano antitetiche fede e religione; R. G. Collingwwod definisce il cristianesimo la «morte della religione», la «via purgativa rispetto alla forma mentis religiosa», perchè «la superstizione» religiosa «di ogni tipo viene ridotta in cenere dalla fiamma cristiana» (Collingwood, 1924, 145, 146)); D. de Rougemont considera l’Incarnazione al centro della fede cristiana «la negazione radicale di ogni specie di religione» (de Rougemont, 1993, 110); E. Lévinas oppone al “sacro” il “santo” (Lévinas, 85, 86-111); R. Girard dice che il cristianesimo «priva gli uomini del religioso» (Girard, 2008, 287), perchè «è la religione umana nel suo insieme che i Vangeli distruggono, e le culture che ne derivano» (Ibidem, 1987, 165). 4 Il termine Sehnsucht, non facilmente traducibile, significa “brama appassionata”, “aspirazione struggente” impaziente di ogni limite che anela all’illimitato, all’incondizionato (Mittner 1954, 275), e anche «desiderio di avere l’impossibile, di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile» (Lupi, 1933, 52). L’espressione di Schlegel può tradursi con “tensione verso l’assoluto”. 5 Per il Girard di Menzogna romantica e verità romanzesca, molto più che le scienze umane, è la scrittura “romanzesca” che “rivela” (antitetica a quella “romantica” che meramente lo “riflette”) il desiderio triangolare (Girard, 1965, 19). Gli eroi di Stendhal quasi sempre ardono per donne solo perché esse sono già desiderate o possedute da modelli per loro prestigiosi, e per questo essi “cristallizzano” su di esse qualità che esse in realtà non possiedono. É solo perché M. me Bovary è mimetica delle eroine romantiche e dei loro avventurosi amori, che può scambiare Rodolphe e Leon, pur nella loro mediocrità umana che Flaubert ben evidenzia, per amanti affascinanti. È solo perchè Don Chisciotte imita Amadigi di Gaule, il principe dei cavalieri erranti, che può scambiare mulini a vento per giganti, e catinelle da barbiere per magici elmi di Mambrino. Ed è la medesima fissità ossessiva su modelli a rendere delirante e paranoico il mondo esistenziale di certi personaggi dostoevskijani. 6 L’espressione figura in una sua nota di diario (cfr. Campanini, 1995, 188), e

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Studi al tema dell’événement è specificatamente dedicato un suo scritto del 1930 (Mounier, 1953). 7 Per Girard è in questa frase (e non già nel Dio che “dal mezzo della tempesta” rivendica l’imperscrutabilità dell’ordine con cui governa il mondo) che va colto “l’apice dei Dialoghi”, ed egli sottolinea anche un’altra significativa invocazione di Giobbe: «sia lui [Dio] a difendere l’uomo contro Dio»; in cui il vero Dio, come “Dio delle vittime” si contrappone alla violenza di un Dio idolatrico (Girard, 1994, 173-174). 8 Nota Girard: «in greco parákletos è l’equivalente esatto di avvocato […]. Il Paracleto è l’avvocato universale, il difensore di tutte le vittime innocenti» schiacciate nella storia dalle divinità-idolo (Ibidem, 1987, 319). 9 «Per la piena realizzazione di tutti i valori compresi nell’Amore, la triplicità è indispensabile. Deve esserci l’Amante, l’Amato, e l’Amico che gode del loro mutuo amore. Nella realtà piena del perfetto Amore, le tre parti sono intercambiabili. Ciascuno è Amante; ciascuno è Amato; ciascuno gode (come l’amico degli sposi gode) del reciproco amore. Non è vero dunque, come talvolta si crede, che per principio solo due centri siano necessari per la perfezione dell’Amore. Il perfetto Amore è per principio Trino» (Temple, 1954, 283). 10 O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem. 11 C. Izzo traduce: «Tu amerai il tuo perfido prossimo col tuo perfido cuore». Ma così si coglie solo la metà del senso che qui assume (con una icasticità difficilmente traducibile in lingua italiana) l’aggettivo crooked. Meglio tradurre, come fa G. Forti: «Tu amerai il prossimo tuo storto con il tuo storto cuore» (Auden, 1994, 41). Infatti: ogni “storto” (che si contrappone al “retto”, come il male si contrappone al bene) è storto è a suo modo, ovvero configura a suo modo. Inoltre,”‘storto”, inteso come participio passato di “storcere”, rende abbastanza l’idea del crampo che, proprio nello stravolgere un volto, ne marca ancor più in profondità i lineamenti.

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UN MODELLO ORGANIZZATIVO PER IL SISTEMA EDUCATIVO COMPLESSO. L’attualità dell’opera di Duilio Gasparini sul tema dell’organizzazione scolastica Matteo Cornacchia Abstract: In 1977 Duilio Gasparini wrote a book entitled “Structure and Organization of the Complex Education System”. Thirty five years after that book still contains a lot of intuitions that confirm his pedagogic foresight on scholastic organization and politics. The concept of complexity, the schools organizational profile, the reading of the industrial enterprise as a model for school organization, the teachers training based on management skills (and not only on didactical ones), are just few principles inside Gasparini’s work. Those contents have punctually anticipated a new season for the Italian scholastic system. Riassunto: Nel 1977 Duilio Gasparini ha pubblicato un testo dal titolo Struttura e organizzazione del sistema educativo complesso. Riletto a distanza di oltre trentacinque anni quel volume contiene una serie di intuizioni del compianto pedagogista triestino che hanno rivelato la sua lungimiranza pedagogica e la sua profonda conoscenza di politiche scolastiche. La nozione di complessità, la dimensione organizzativa degli istituti scolastici, l’indicazione dell’impresa industriale come modello cui ispirarsi, la formazione docente improntata sulla capacità di agire nell’organizzazione, oltre che insegnare, sono solo alcune delle indicazioni contenute nel lavoro di Gasparini. E che puntualmente si sono dimostrate anticipatorie di una stagione nuova per il sistema scolastico italiano. Parole chiave: Organizzazione, Modello, Scuola, Impresa, Formazione.

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Genova e Trieste sono due città unite idealmente da molte analogie: la loro collocazione geografica “agli opposti”, quasi incastonate fra il mare aperto e un entroterra che le avvolge, lo storico legame con l’attività portuale, le complesse soluzioni urbanistiche e di edilizia popolare, la sopraelevata, le rive e i moli. Fra le tante somiglianze esiste poi un trait d’union “pedagogico” che le congiunge, incarnato nella figura di Duilio Gasparini, il compianto “pedagogista dei due mari”, come è stato affettuosamente definito dall’amico Claudio Desinan1, la cui parabola professionale ed umana è stata recentemente ricordata attraverso due convegni2 a lui dedicati, tenutisi proprio a Genova e Trieste. Tali iniziative, cui “Prospettiva EP” ha già dedicato alcuni articoli, hanno avuto senza dubbio il merito di celebrare l’opera di Gasparini, ma anche di evidenziarne l’attualità, a testimonianza di una lungimiranza pedagogica e didattica non comune. In alcune circostanze gli scritti di Gasparini si sono rivelati addirittura “profetici”: è il caso, in particolare, di una monografia del 1977, forse nemmeno fra i suoi lavori più noti, intitolata Struttura e organizzazione del sistema educativo complesso, che contiene una serie di intuizioni e, in alcune circostanze, vere e proprie anticipazioni di ciò che sarebbe accaduto vent’anni dopo con la legge sull’autonomia (L. 59/1997). Anzitutto, la prima valutazione sulla portata innovativa di quello scritto riguarda l’utilizzo del paradigma della “complessità” per la lettura del sistema educativo e che compare già nel titolo dell’opera. Anche se il concetto ha radici lontane e multidisciplinari – si pensi ai contributi di Von Bertalanffy, Maturana e Varela, Prigogine, Wiener, Shannon e Weaver –, il suo impiego nelle scienze sociali e umane è molto più recente ed è prevalentemente legato al processo di globalizzazione che ha avuto inizio fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e che, per dirla con Giddens (1994), ha intensificato le relazioni sociali a livello mondiale. In ambito strettamente educativo è stato soprattutto Morin a riferirsi alla complessità per prendere le distanze dalle filosofie totalizzanti e dalla falsa ambizione di raggiungere la conoscenza attraverso processi riduzionistici e di semplificazione del sapere. Il filosofo francese, invece, ha espresso in diversi saggi la sua convinzione nella necessità di un “pensiero complesso”, al quale l’educazione deve preparare e che privilegia la prospettiva d’insieme rispetto alla visione delle parti, pur nella consapevolezza della natura incerta e incompiuta della conoscenza umana (Morin, 2001). Ma se dal versante filosofico si passa a quello più squisitamente organizzativo, come del resto emerge dalle considerazioni di Gasparini, l’associazione fra sistema educativo e complessità è ancor più recente. In Italia, l’idea di una scuola non più “monopolista” in materia di educazione si è sviluppata nei primi anni Novanta, in coincidenza con il moltiplicarsi di agenzie educative extrascolastiche di varia natura e

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la forte domanda di professionisti con competenze pedagogiche diversi dalla figura degli insegnanti (non è un caso che l’attivazione del corso di laurea in Scienze dell’Educazione, con gli indirizzi per educatori e formatori, nascesse proprio in quel periodo). Anche sul fronte politico l’invito alla scuola era di aprirsi il più possibile al territorio e di intraprendere un percorso di dialogo e collaborazione reciproca con gli altri soggetti che svolgevano azioni educative: la complessità, dunque, derivava da un modello di sistema educativo non più scuola-centrico, come avvenuto nel passato, ma caratterizzato da un policentrismo formativo che Frabboni (1999) ha ben inquadrato nel concetto di “sistema formativo integrato”. Il Ministero dell’Istruzione, dal canto proprio, ha tradotto questa necessità di integrazione fra diversi attori in una serie di provvedimenti che fra il 1999 e il 2003 hanno profondamente ridimensionato l’autoreferenzialità della scuola, almeno a livello di istruzione secondaria: rientrano in questo disegno l’adozione del cosiddetto sistema delle “passerelle” (L. 20 gennaio 1999, n. 9), voluto per contenere il fenomeno della dispersione scolastica e facilitare pertanto i passaggi da un canale all’altro dell’istruzione; l’attivazione dei corsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS), pensati proprio per integrare l’azione formativa della scuola, dell’impresa, delle agenzie di formazione professionale e dell’università nella preparazione di tecnici altamente specializzati (L. 17 maggio 1999, n. 144); l’introduzione nel nostro ordinamento scolastico della novità dell’obbligo formativo (art. 68 della stessa L. 144/1999), da assolvere anche attraverso percorsi integrati fra scuola, formazione professionale regionale o apprendistato; infine la definizione di un sistema educativo di istruzione e formazione che conferma le disposizioni precedenti e le riorganizza in un unico impianto (L. 28 marzo 2003, n. 53, cosiddetta riforma “Moratti”). Ebbene, in Gasparini questi temi sono già elementi di consapevolezza e, anzi, la complessità del sistema educativo cui egli si riferisce consiste proprio nel considerare la scuola non più come un’organizzazione chiusa e separata, ma “integrata”, capace cioè di strutturare al suo interno tutti i servizi che concorrono allo sviluppo, alla tutela e all’educazione della persona: «non vi possono essere chiusure verso l’ambiente esterno, o attività, iniziative, operazioni unilaterali, che continuino a considerare la scuola staccata dalla vita: quella realtà ambientale e sociale, che forse fino ad oggi è stata considerata esterna, o complementare ma diversa, ormai non può più essere ritenuta tale, bensì deve integrarsi con la scuola stessa e formare un unico sistema educativo» (Gasparini, 1977, 55-56). Anche il considerare la scuola come organizzazione è un passaggio non affatto scontato, specie per l’epoca in cui Gasparini scrive. I pedagogisti e, più in generale, gli addetti ai lavori (insegnanti e dirigenti in primis) hanno a lungo snobbato la dimensione organizzativa in cui

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avvengono i processi di insegnamento e apprendimento, giustificando tale ritrosia con il timore di dar vita ad una sorta di aziendalizzazione della scuola. È stato solo con la già menzionata legge sull’autonomia che i due ambiti, quello pedagogico e quello organizzativo, hanno iniziato a confrontarsi, sia pure timidamente e con non poche riserve. Già altrove ho avuto modo di ricordare il confronto avvenuto sulle pagine di “Dirigenti Scuola” verso la fine degli anni Novanta fra un illustre pedagogista, Cesare Scurati, e un grande esperto di teorie organizzative, Piero Romei: in quella circostanza i due studiosi riconoscevano l’opportunità di un reciproco incontro e di una visione della scuola allargata non soltanto alle attività educative e didattiche, ma anche al modo in cui tali attività sono organizzate (Cornacchia, 2010). La vicenda, letta in termini contemporanei, assume i connotati di una fondazione epistemologica del management scolastico, disciplina che in contesti anglosassoni ha ormai una sua collocazione scientifica e accademica ben precisa. Nell’introduzione al suo testo Gasparini sembra subito centrare il problema, evidentemente consapevole che il punto di vista assunto necessiti di una puntualizzazione circa il rapporto fra la pedagogia e le altre scienze, compresa quella organizzativa: «Bisogna tener presente che i problemi e i settori di interesse della pedagogia sono diventati sempre più vasti a mano a mano che l’interesse specifico della disciplina si è venuto estendendo a tutti i gradi del sistema scolastico, dilatando la sua ricerca anche ai settori meno esplorati della struttura organizzata, prendendo coscienza degli aspetti sociali, occupandosi dell’educazione degli adulti e del tempo libero, affrontando la tematica della formazione professionale, occupandosi del diritto scolastico e dell’organizzazione delle istituzioni educative, e così via. Pertanto oggi la pedagogia non può non essere intesa anche come scienza e come sapere tecnico e applicativo, ossia come strumento di trasformazione e di riforma dei sistemi educativi. Il che significa, ancora una volta, che il problema dell’educazione non può essere affrontato senza tenere nel debito conto gli apporti di tutte le altre scienze dell’uomo, da quelle a carattere più propriamente biologico e psicologico, a quelle sociali, dall’economia all’antropologia culturale e alla sociologia» (Ibidem, 20). Nel momento in cui la pedagogia e la teoria delle organizzazioni hanno cominciato a confrontarsi, è subito emersa la questione dei modelli: da una parte si è cercato di leggere le realtà scolastiche attraverso modelli esplicativi già noti (la teoria burocratica di Weber, il cosiddetto “diamante” di Leavitt, il sistema “aperto” di Parsons, ecc.); dall’altra gli studiosi del settore hanno tentato di individuare un modello specificamente adatto alle particolarità dell’agire organizzativo scolastico e le possibili conseguenze nel modo di concepire il management della scuola e i processi di differenziazione e integrazione che si svolgono al suo interno. Un autore

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che viene spesso chiamato in causa al proposito è lo statunitense Karl Weick il quale, in un celebre articolo del 19763, indicava le organizzazioni scolastiche (educational organizations) come esempi paradigmatici dei sistemi “a legame debole”, caratterizzati cioè da una relativa autonomia fra i loro elementi costituivi. Come hanno avuto modo di chiarire diversi studiosi del settore, il “legame debole” non è una carenza, come si potrebbe ritenere ad una prima lettura, ma una caratteristica strutturale di alcune tipologie di organizzazione che, di per sé, non esprime alcun giudizio di valore sull’efficacia dell’azione organizzativa. Gasparini, pur non chiamando in causa la ricerca di Weick, presenta una dettagliata rassegna delle principali teorie organizzative, dimostrando peraltro una grande competenza disciplinare, e pure lui avverte la necessità di affrontare la questione di un “modello organizzativo” per le scuole. In maniera molto coraggiosa ma, certo, argomentata, egli esplicita subito la sua convinzione, ovvero che il modello organizzativo di riferimento per le istituzioni scolastiche possa essere individuato nelle imprese industriali. Il pedagogista triestino è ben consapevole del fatto che un simile accostamento possa «offendere e far inorridire qualcuno», così come non manca di sottolineare subito le profonde differenze che separano la cultura di produzione dalla cultura di servizio alla persona; ciò nonostante il modello industriale, sul quale egli insiste molto, si presta ad un confronto costruttivo con il sistema educativo soprattutto nell’ottica di contenere sprechi e inefficienze che gravano sul bilancio (economico ed umano) del sistema scolastico: «Naturalmente, l’influenza dell’impresa industriale come struttura modello delle altre forme di vita associata deve subordinarsi al rispetto delle loro finalità. Per quanto riguarda il sistema educativo – nella sua organizzazione scolastica – non si tratta tanto di un adeguamento ai criteri di economicità (quantunque gli sprechi siano da evitarsi nell’istituzione statale come, se non di più, in quella di un’impresa privata), quanto piuttosto di un problema di efficienza, di efficacia e di rigore nel determinare, perseguire e raggiungere gli obiettivi propri dell’educazione: e in ciò l’impresa è un utile modello» (Ibidem, 70-71). Nel farsi promotore di queste argomentazioni, Gasparini non tralascia però un’importante precisazione che riguarda la natura umana dell’organizzazione; come molti esperti del settore, infatti, anch’egli avverte il rischio che l’organizzazione possa essere reificata, disumanizzata da una concezione meccanicistica del comportamento organizzativo, quando invece essa è data anzitutto dalle persone, dalle loro culture, dalle loro attitudini e inclinazioni, dalle loro ambizioni e dalle loro paure: in un’unica espressione, dalle loro storie. Il suo discorso è in linea con quanto avrà modo di scrivere qualche decennio dopo Romei, per il quale l’organizzarsi non è altro che il mezzo per non farsi sovrastare dalla complessità, per cercare al massimo di contenerla e per abituarsi a fare i conti con i propri

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limiti, ben lontani dall’illusione di una razionalità assoluta che certo non appartiene alla natura umana. Questa autoconsapevolezza, però, non toglie nulla al doveroso tentativo di migliorarsi continuamente e in tal senso i richiami di Gasparini all’efficienza, all’efficacia e alla qualità complessiva del sistema scolastico, oltre ad apparire quasi del tutto coincidenti ai principi generali di riforme che arriveranno molto tempo dopo (su tutte le già citate L. 59/1997 e la L. 53/2003), si concretizzano nell’invito a rivedere i rapporti fra il “centro” e la “periferia”: al primo spetterebbero funzioni di indirizzo e la garanzia di unitarietà del sistema, anche dal punto di vista della rapidità delle decisioni; la seconda, invece, dovrebbe rendere più semplici le innovazioni didattiche, la ricerca e l’adeguamento dei metodi di insegnamento ai cambiamenti della società. Per Gasparini, insomma, l’efficienza del sistema educativo complesso passa principalmente attraverso una chiara differenziazione dei compiti, dal Ministero al singolo istituto scolastico, e si fonda sulla valorizzazione delle autonomie locali, cui deve essere garantita la possibilità di promuovere iniziative e agire sul territorio senza dover sempre attendere direttive od orientamenti nazionali. Non è difficile scorgere in tali posizioni un esplicito riferimento al principio dell’autonomia delle scuole che, come già anticipato, ha assunto un profilo di riforma amministrativa prima e costituzionale poi solamente a partire dalla fine degli anni Novanta. Si è trattato di un cammino lungo e travagliato, iniziato già in seno all’Assemblea Costituente del 1946 e articolatosi in una serie di tappe o circostanze che ciclicamente hanno riproposto la questione, in maniera però non sempre incisiva (dal cosiddetto “Progetto 80” del 1969, alle “Proposte per il nuovo piano della scuola” del 1971). È stato solo nel 1997, però, che il processo di decentramento ha avuto effettivamente avvio, assegnando ad ogni singola scuola la personalità giuridica e, con essa, opportunità di gestione e organizzazione dell’attività didattica e delle relazioni con l’esterno totalmente nuove rispetto al passato. Quella che oggi è diventata una caratteristica fondante del nostro sistema di istruzione e formazione era insomma già molto chiara a Gasparini che vedeva nell’autonomia una possibile soluzione per decongestionare gli organi centrali e rendere meno burocratica l’attività della scuola. L’ultimo punto sul quale mi soffermo riguarda infine il personale della scuola. Quanto si è constatato in precedenza, ovvero la natura essenzialmente umana delle organizzazioni, indica nelle persone – il cosiddetto capitale umano – l’elemento imprescindibile dell’agire organizzativo e ciò che più determina successi o insuccessi nel raggiungere gli scopi. Naturalmente, una condizione importante per convogliare gli sforzi dei singoli verso finalità comuni, è la loro adesione al progetto, espressa certamente in termini di convinta partecipazione ma anche, se non soprattutto, di preparazione e formazione. Nel caso della scuola il personale

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coincide quasi totalmente con i dirigenti e gli insegnanti (al quale, naturalmente, si aggiungono amministrativi, tecnici e ausiliari), il cui percorso di formazione iniziale, come sappiamo bene per le ultime vicende sul Tirocinio Formativo Attivo (TFA), è stato a dir poco travagliato. In Italia l’attivazione di un canale universitario specificamente dedicato alla formazione docente risale alla metà degli anni Novanta (attivazione del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) e in meno di vent’anni quell’impianto è già stato messo in discussione, poi sospeso (almeno per le SISS), e ora nuovamente riformato (articolazione su base quinquennale del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e, appunto, sostituzione delle SISS con il nuovo TFA). Che il problema fosse ampiamente noto già negli anni Settanta lo conferma lo stesso Gasparini con queste parole: «Dev’essere comunque chiaro che per una adeguata preparazione del personale docente di ogni ordine e grado, non sono più sufficienti non solo gli anni di studio ad essa dedicati durante la frequenza della Scuola Magistrale, dell’Istituto Magistrale o dell’Università, ma neppure i corsi di aggiornamento integrativi di formazione culturale o professionale specifica, né le attività di tirocinio a carattere pedagogico, psicologico o didattico; oggi occorre anche – ed è per questo che ne trattiamo qui – un’idonea formazione di natura tecnico-organizzativa, che prepari un docente consapevole delle finalità sociali delle istituzioni scolastiche, idoneo nel vero senso della parola ad assolvere i suoi compiti di formazione individuale e sociale» (Ibidem, 102). Ciò che più sorprende nelle parole di Gasparini non è tanto l’esortazione a ripensare il sistema complessivo di formazione iniziale degli insegnanti – argomento, questo, condiviso da molti pedagogisti dell’epoca – quanto piuttosto la sua ferma convinzione a includere nel percorso formativo anche i temi dell’organizzazione. L’ambito prettamente educativo-didattico e quello organizzativo sono rimasti a lungo separati, come ha peraltro denunciato di recente Romei, secondo il quale gli insegnanti accettano le regole che tengono insieme sul piano gestionale le scuole – orari, divisione in classi, uso degli spazi, ecc. – ma le considerano qualcosa che va bene alla logistica e che andrebbe tenuto ben distinto dall’insegnamento e dall’educazione (Romei, 1999). Non è tanto diversa l’opinione di Gasparini, per il quale gli insegnanti «pensano, in gran parte, che i problemi dell’organizzazione non li riguardano o, se li riguardano, essi non possono farci niente “contro” il volere e lo strapotere di chi mena le fila del sistema. Queste persone – prosegue il pedagogista triestino – rinunciano non solo ad un esercizio di democrazia pratica, ma anche ad uno di democrazia intellettuale» (Ibidem, 304-305). Sempre Romei ha poi lamentato un’interpretazione ancora estremamente soggettiva della funzione docente, addirittura individualistica, in cui ogni insegnante agisce in una “spazio attrezzato per monologhi”

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senza sentire la necessità di coordinare la sua azione didattica con quella dei colleghi. Anche il principio di collegialità, nato proprio negli anni Settanta con i Decreti Delegati e che pure dovrebbe contenere questo atteggiamento, è in realtà un mero esercizio di condivisione formale, ma non sostanziale, del progetto educativo scolastico. Includere la competenza organizzativa nei percorsi di formazione docente, invece, dovrebbe servire proprio ad impedire che si perpetuino atteggiamenti individualistici e che, al momento della differenziazione, segua una coerente strategia di integrazione dei compiti e delle funzioni (Ferante e Zan, 1998). Non solo. La riforma dell’autonomia ha reso molto più complessa la gestione delle organizzazioni scolastiche, anche perché le disposizioni sul dimensionamento ottimale degli istituti hanno di fatto creato poli pluricomprensivi articolati in senso verticale e orizzontale (appartengono alla prima categoria gli istituti comprensivi, alla seconda i cosiddetti poli di istruzione superiore). L’ipotesi secondo cui i dirigenti scolastici possano, da soli, governare realtà così complesse è oramai impensabile. L’unica strategia percorribile è quella di coinvolgere un certo numero di insegnanti nelle funzioni gestionali, creare uno staff di dirigenza, utilizzare sapientemente l’istituto della delega e adottare stili di leadership allargata e condivisa. Ecco dunque una ragione in più per includere nella formazione iniziale dei docenti anche elementi di teorie organizzative applicate alla scuola. Per contro, però, va precisato che lo staff, per quanto molto diffuso, è tuttora una soluzione informale, non è previsto dal nostro ordinamento scolastico e dunque soggetto alla declinazione soggettiva del dirigente. Eppure, anche su questo specifico tema, Gasparini sembra avere le idee già molto chiare, auspicando non soltanto l’attivazione degli staff, ma attribuendovi anche precise mansioni si controllo e soluzione dei problemi. Va precisato che gli staff cui si riferisce il pedagogista triestino sono pensati anzitutto a livello centrale, a presidio delle funzioni di controllo e valutazione dell’efficacia del sistema di istruzione (qualcosa di molto simile all’azione svolta oggigiorno dall’INVALSI e non è un caso che fra gli autori più citati da Gasparini ci sia quel Giovanni Gozzer che molti reputano il “padre” del Centro Europeo dell’Educazione, da cui l’INVALSI è nato); di rimando, poi, tali staff dovrebbero avere analoga collocazione a livello locale, negli organismi periferici regionali e provinciali; la sua concezione dello staff, dunque, non coincide del tutto con quella odierna, ma non va dimenticato che nel momento in cui Gasparini esprime le proprie opinioni l’autonomia scolastica era ancora solamente un’ipotesi e gli istituti non avevano personalità giuridica, condizione essenziale per assegnare precise responsabilità (e non colpe) a chi li governa. Evidentemente di “responsabilità” Gasparini doveva sentirne tanta. Una responsabilità nei confronti della scuola come bene comune che certamente gli derivava dalla sua esperienza di direttore didattico, ma anche

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dall’essere pedagogista e, in fondo, educatore. La scelta di partire dalle questioni organizzative, per quanto paradossale possa sembrare, è una scelta di grande significato pedagogico perché testimonia la volontà di dare sostanza – forse lui avrebbe detto “struttura” – alle finalità educative più nobili, che non possono essere affidate all’improvvisazione e a interventi estemporanei. Eppure, sempre più spesso dalla scuola ci si attendono risultati immediati, tanto da parte dei genitori, che tendono a delegare ad essa anche le scelte educative che competerebbero loro, quanto da parte della politica che invece di investire seriamente nell’istruzione pubblica ne ha spesso fatto un terreno di scontro e propaganda politica. In questa sua convinzione Gasparini ha dimostrato, prima di ogni altra cosa, di aver intuito in maniera lucida e profonda la pericolosità del clima culturale che stiamo tuttora vivendo e le possibili conseguenze per il sistema di istruzione: un clima caratterizzato soprattutto dalla disabitudine per l’attesa e, di conseguenza, dalla sempre minor attenzione prestata al momento della programmazione e al coraggio di proiettarsi nel futuro, con fiducia e speranza. In questa sua preziosa lezione egli ha voluto ricordarci che l’organizzarsi, dopo tutto, ha a che fare con la nostra capacità di fare previsioni, nel medio e nel lungo periodo, e ciò assume un profilo ancor più significativo quando l’oggetto delle nostre previsioni sono le generazioni future, la loro crescita, la loro educazione. Presentazione dell’Autore: Matteo Cornacchia è ricercatore confermato in Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Trieste. In passato ha insegnato Organizzazione delle Istituzioni scolastiche presso il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria e Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni nel Master Nazionale di II Livello per la formazione dei dirigenti scolastici (MUNDIS). Al tema dell’organizzazione scolastica ha dedicato diverse pubblicazioni, fra cui Lo staff del dirigente (scritto con Carla Berto, Carocci, 2005), Teorie di management e organizzazione della scuola (Unicopli, 2010) e La formazione dello school management inglese. Un contributo per il sistema scolastico italiano (scritto con Emanuela Gobbat, EUT, 2012). Attualmente si occupa di Educazione degli adulti ed è membro del comitato scientifico della collana Condizione adulta e processi formativi (Unicopli). Note 1 Cfr. G. Imperatori Gasparini, Duilio Gasparini, docente dei due mari, in “Pagine giovani”, a. XXXV, 149, n. 3-4, Luglio-Dicembre 2011, pp.15-20. L’espressione è poi stata ripresa anche da Luciano Malusa e Olga Rossi Cassottana (2011).

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Ricerche 2 Il primo convegno, intitolato Dalla ricerca alla scoperta: l’educazione sotto la lente. Il pensiero di Duilio Gasparini si è tenuto il 2 dicembre 2011 presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova; il secondo convegno è stato invece organizzato all’Università di Trieste il 18 maggio 2012 ed ha avuto come titolo Scuola, Ricerca, Educazione ieri e oggi. 3 L’articolo in questione, pubblicato sulla rivista “Administrative Science Quarterly”, è intitolato Educational Organizations as Loosely Coupled System e la sua traduzione italiana (Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole) è contenuta in Zan S. (a cura di), Logiche di azione organizzativa, Bologna, il Mulino.

Bibliografia CORNACCHIA, M. (2010), Teorie di management e organizzazione della scuola, Milano, Unicopli. BUSH, T. (1995), Theories of educational management; tr. it. Manuale di management scolastico, Trento, Erickson. FERRANTE, M. e ZAN, S. (1998), Il fenomeno organizzativo, Roma, Carocci. FRABBONI, F., GUERRA, L., SCURATI, C. (1999), Pedagogia. Realtà e prospettive dell’educazione, Milano, Bruno Mondadori. GASPARINI, D. (1977), Struttura ed organizzazione del sistema educativo complesso, Lecce, Milella. GIDDENS, A. (1994), Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna. MALUSA, L., ROSSI CASSOTTANA, O. (2011) (a cura di), Le dimensioni dell’educare e il gusto della scoperta nella ricerca, Roma, Armando. MORIN, E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina. ROMEI, P. (1999), Guarire dal mal di scuola, Firenze, La Nuova Italia. — (2000), L’organizzazione come trama, Padova, Cedam.

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TEMPO VISSUTO E KAIRÒS IN EDUCAZIONE Rosa Grazia Romano Abstract: Navigating through time, the contribution tries to understand its various meanings, from mythology and ancient names of the time until the connection among time of physics, lived-time and time “kairotico” in education, according to a humanistic-phenomenological perspective. The multiverse ‘time’ is related with the different ways of the soul and the concept of “appropriate time” is analyzed because it is crucial for the growth of the person. Finally, some forms of the time – know how to wait, how to assimilate, how to be able to pause, how to hope – are indicated as forms that in postmodernity people are unlearning and on which, instead, everybody should pay more attention to live more fully the different experiences of life. Riassunto: Navigando attraverso il tempo, il contributo tenta di comprendere meglio i suoi vari significati, a partire dalla mitologia e dai nomi antichi del tempo fino alla connessione tra tempo della fisica, tempo vissuto e tempo kairotico in ambito educativo, secondo una prospettiva umanisticofenomenologica. Viene messo in relazione il pluriverso ‘tempo’ con i diversi modi dell’anima e viene analizzato il concetto di “tempo opportuno”, così determinante per la crescita della persona. Si indicano, infine, alcune forme del tempo – saper attendere, saper assimilare, saper fare pausa, saper sperare – che nella postmodernità si stanno disimparando e sulle quali, invece, si dovrebbe porre più attenzione per vivere più pienamente le diverse esperienze della vita. Parole chiave: educazione, tempo, kairòs, tempo vissuto, attesa/speranza.

1. Navigare attraverso il tempo 1.1. Il tempo in mitologia Alle origini del pensiero greco, il concetto di “tempo” si presenta ancora profondamente influenzato dalla mitologia, dalle speculazioni cosmogoniche e dalla tradizione orfica, che indica in Kronos il padre di tutte le cose. Kronos è figlio di Urano - il Cielo - e di Gaia, detta anche Gea, la Terra: dal matrimonio tra Urano e Gaia, tra spazio infinito e spazio finito, nasce Kronos, il tempo-durata, il Tempo Finito.

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Il mito racconta che Kronos (il tempo durata), si impossessa di sua madre Gaia (lo spazio finito), evira Urano (lo spazio infinito) e divora tutti i figli che nascono dal suo rapporto con Gaia, poiché Urano e Gaia – depositari della saggezza e della conoscenza dell’avvenire – gli avevano predetto che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli. La “tecnofagia”1 di Kronos, rendendo impossibile la sopravvivenza della specie, rappresenta così la negazione del futuro. Gaia, non potendo più sopportare questo abominio compiuto dal marito, con l’aiuto di Metis (il Tempo astuto, il Tempo intelligente), fa ingoiare a Kronos una pietra che il tiranno vomiterà, facendo uscire con essa l’ultimo figlio divorato, Zeus. La Metis – il Tempo astuto – è la più piccola dea della mitologia greca che, insieme a Gaia, sconfigge il tirannico Kronos, il Tempo finito. Metis, pertanto, rappresenta la vittoria dell’intelligenza sulla forza, e quindi è più preziosa della forza, perché capace di ribaltare la situazione in maniera intelligente e nonviolenta. Zeus viene definito il re degli dei, il più potente di tutti, il dio che col solo corrugare le sopracciglia fa tremare l’Olimpo, proprio perché è il dio della Metis. Per questo viene definito il “metìeta”, il dio fatto metis, perché, dopo aver sposato Metis, la inghiotte, eliminando per sempre il pericolo di un’astuzia capace di minacciare il suo dominio assoluto. Si narra anche che quando Kronos fu spodestato da Zeus, riparò in Italia, dove fu accolto da Giano (Ianus, che deriva dal lat. Ianua che vuol dire Porta), il dio che al mattino apre le porte del cielo e la sera le chiude. Lo si raffigura con due volti opposti (per questo è detto “bifronte”), uno che guarda davanti a sé, l’altro dietro. Giano simboleggia insieme l’entrata e l’uscita, il davanti e il di dietro, la morte e la vita, il passato e il futuro. Kronos, invece, viene comunemente raffigurato come un vegliardo dalla lunga barba bianca, che tiene in una mano la falce – simbolo della morte – e, nell’altra una clessidra – simbolo del tempo che inesorabilmente scorre. Alcune raffigurazioni romane rappresentano Kronos con una falce e con un serpente che si morde la coda, per indicare la circolarità, l’eternità ed anche la perfezione, chiusa in se stessa. È interessante osservare che nella lingua greca esiste un avverbio che significa sia «dietro» che «in futuro»; si tratta di p sw (opìso), che, come avverbio di luogo, significa, appunto, che sta dietro e, come avverbio di tempo, che sta davanti. Contrariamente a come “passato” e “futuro” vengono comunemente rappresentati, secondo i filologi Liddel e Scott la bipolare caratteristica semantica di questo termine è dovuta al fatto che le due realtà – ciò che sta dietro di noi (che è quello che non vediamo e pertanto anche il futuro) e ciò che sta davanti a noi (che è ciò che è possibile vedere e quindi anche il passato che conosciamo) – sono contemporanea-

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mente presenti nella vita dell’essere umano. Questa apparente antinomia è una costante nella vita dell’uomo e nelle rappresentazioni iconografiche che egli fa della vita e della morte, del futuro e del passato. 1.2. I nomi antichi del tempo I nomi con cui nell’antico Occidente veniva indicato il tempo erano: chronos (crónoς), scopòs (skopóς), aiòn (aἰώn), kairòs (kairóς). Sempre più nel corso della civiltà greca e nel corso della riflessione filosofica greca, chrònos (crónoς) ha assunto il significato di tempo misurato, che scorre in modo regolare, ciclico. Scopòs (skopóς) è il tempo che ha uno scopo, una direzione, una meta. Aiòn (aἰώn) è il tempo nella sua totalità, il tempo dell’eternità, il tempo senza tempo, il tempo che non finisce mai, termine di estrema importanza per la cultura greca e successivamente per la cristianità. Kairòs (kairóς), invece, è il termine più documentato, anche sul profilo iconografico: viene rappresentato da un fanciullo con le ali ai piedi, con un ciuffo in avanti, che vola (spesso) sopra una palla. Kairòs indica propriamente l’«occasione», il bonus eventus, l’opportunitas latina, o, ancora, il “tempo opportuno”, il “tempo debito”. Ma indica anche molto di più. Kairòs, infatti, viene attribuito ad una forma, ad una figura, ad un gesto, ad una parola, nel senso che questi elementi hanno completamente e perfettamente compiuto la propria occasione. Il Kairòs è un tempo che non è caratterizzato da una misura, né da una estensione quantitativa; piuttosto, è caratterizzato da una rilevanza qualitativa, grazie alla quale diviene “tempo propizio”. Il fanciullo Kairòs passa ed io lo devo afferrare; ma, se resto dietro, non riesco ad afferrarlo poiché il ciuffo è avanti a me. L’unica soluzione rimane quella di afferrarlo proprio mentre passa, mentre corre. Quindi devo “prendere” l’occasione al volo, afferrare il kairòs mentre passa rapidissimo, mentre vola con le ali ai piedi. Nel momento in cui colgo l’evento, sono en kairò (ἐν kairῶ), nel tempo giusto, sono cioè in una situazione di perfezione perché ho colto il mio tempo, quindi sono nella perfezione della mia forma. Secondo i greci tutto va fatto en kairò, a tempo determinato, a tempo debito; ed è proprio questa occasione colta che, in quanto accolta, ci rende perfetti e rende perfetto il nostro agire.

2. Il pluriverso tempo e i modi dell’anima Non c’è esistenza né esperienza umana che non si coniughi o non si accompagni alla presenza del tempo. Nulla è possibile al di fuori del

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tempo e, soprattutto, nessun senso si dà fuori del tempo, come annota Martin Heidegger in Essere e Tempo (1927). Il tempo è una di quelle aree tematiche di riflessione che dall’inizio della storia del pensiero ha abbracciato e continua ad abbracciare molteplici e variegati campi del sapere: filosofia, cosmologia, teologia, pedagogia, logica, spiritualità, fisica, chimica, storia, psicologia, psichiatria, psicopatologia, linguistica. Il tempo, infatti, è una delle componenti più ricorrenti, più tormentate e tormentose della riflessione umana, poiché si colloca tra ed in tutte queste discipline. È impossibile, infatti, fare una ricognizione completa della letteratura sul tempo, scritta in ambito scientifico ed umanistico. Alla luce degli studi della fenomenologia, della filosofia dialogica, delle psicologie di orientamento umanistico-esistenziale e delle psicoterapie fenomenologico-relazionali, già da tempo sappiamo che l’individuo è primariamente un essere relazionale: nasce come essere relazionale e si realizza solo nella relazione piena con se stesso e con l’Altro/altro. L’esperienza, dunque, si compie non solo all’interno della persona, ma anche in relazione all’altro; anzi, si realizza pienamente con l’altro. Quindi, l’ermeneutica di un’esperienza si dà – da un parte – nell’interazione con l’ambiente e con l’altro, e – dall’altra parte – nel tempo. In altre parole, da un lato l’esperienza è sempre fatta di vissuti e di elaborazione personale, tuttavia acquista più valore se condivisa o vissuta nelle esperienze successive con l’altro; dall’altro lato, si radica con più forza nel tempo e grazie al tempo, che consente la sedimentazione ed il nutrimento di ciò che si esperisce. Si può anche dire che l’esperienza trova il senso nel tempo vissuto personale e nel tempo vissuto della relazione. È fondamentale, quindi, riscoprire l’importanza del tempo in educazione correlato all’esperienza del tempo vissuto: c’è sempre un tempo per ogni esperienza e c’è sempre una esperienza per ogni tempo di vita. Imparare, dunque, a trovare il tempo per il tempo è un apprendimento che, nella società postmoderna, diventa indispensabile. La parola tedesca Zeiterlebnis spiega molto bene l’importanza di coniugare esperienza con tempo vissuto, poiché si può tradurre sia come esperienza del tempo vissuto, sia come esperienza vissuta del tempo. È evidente, quindi, come il tempo del vissuto umano si componga di due elementi irriducibili, che sono l’esperire ed il temporalizzarsi (cfr. Callieri, Maldonato, Di Petta, 1999, 166-167). Tutti noi nella vita conosciamo varie tipologie di tempo: il tempo dell’orologio che scandisce le ore, che è un tempo oggettivo, diverso dal tempo interiore, o “tempo vissuto”, che invece è un tempo soggettivo, che cambia sia di soggetto in soggetto sia in ciascuno di noi a seconda della situazione che viviamo. La percezione interiore che abbiamo del tempo quando siamo tristi, annoiati, stanchi è certamente diversa da quando ci

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sentiamo allegri, gioiosi, felici. Nel primo caso, il “computo interiore” del tempo risulta essere un tempo sicuramente più ingombrante, più lungo e – talvolta – interminabile; nel secondo caso, diviene un tempo più breve, “volato via”, trascorso “troppo in fretta”. È abbastanza evidente che il tempo dell’orologio, o tempo lineare della fisica, sembra non avere nulla a che fare con le articolazioni interne del tempo, le quali ci consentono di cogliere meglio il senso profondo delle esperienze umane insieme all’infinita schiera delle emozioni presente in ciascun essere umano. Eugenio Borgna, psichiatra di indirizzo fenomenologico, passa in rassegna le modalità attraverso cui viene vissuto il tempo, in relazione ai differenti stati d’animo dell’uomo. Ad esempio, egli scrive che «nella noia il futuro perde di slancio e il presente si dilata, e si estende senza fine» (Borgna, 2005, 44)2. Nella noia così come nella melanconia, annota ancora Borgna, si ha la dissociazione fra tempo interiore e tempo della clessidra, cosicché il secondo procede incessantemente, come abitualmente avviene, ed il primo, invece, rallenta talmente tanto che sembra addirittura arrestarsi. In maniera ancora più marcata, nella depressione si ha uno sprofondamento nel passato, dove il tempo vi precipita vorticosamente, ed avviene una radicale dissolvenza del futuro: «la dimensione del futuro (dell’avvenire) è tagliata, amputata, recisa e il presente è risucchiato dal passato che con le sue vele gigantesche inibisce ogni divenire (ogni slancio vitale) e alimenta la colpa» (Ibidem, 46) commessa o mai commessa. Nell’angoscia, invece, non vi è un’amputazione di una delle tre forme del tempo (passato, presente e futuro), ma una modificazione delle modalità con cui le tre dimensioni si collegano reciprocamente. Nell’angoscia la dimensione predominante è quella di una «vertiginosa accelerazione» e di «una enigmatica anticipazione del futuro (di un futuro sigillato dalle ombre e dalle inquietudini di una morte vicina) che non è vissuto come eventuale, come possibile, ma come già realizzato in un qui-e-ora in cui possono confluire e rifluire, dilagando, anche le cose avvenute nel passato» (Borgna, 2011, 35)3. L’esperienza del tempo cambia ancora una volta quando ci si confronta con la solitudine interiore, che può essere momento poietico vissuto positivamente, così come nostalgia di relazioni presenti o passate smarrite, come anche ricerca delle proprie radici interiori, oppure coscienza della propria fragilità di vivere nel mondo. Nella solitudine interiore, le scansioni del tempo vissuto fluiscono liberamente, in un richiamo continuo tra passato, presente e futuro, in una cascata di rimandi da una dimensione all’altra. Situazione diversa è la condizione di isolamento, dove invece il tempo si sfalda e si perde la fluidità della dimensione triadica del

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tempo: «il tempo si immobilizza in un qui-e-ora che, pietrificandosi, non ha futuro, e non ha nemmeno passato» (Ibidem). Anche nell’esperienza della tristezza, “normale” o “patologica” che sia, il vissuto del tempo viene modificato. Nella prima, la tristezza cosiddetta “normale” perché vissuta nell’anima da ogni essere umano, il tempo interiore sembra non avere lo stesso slancio che ha nei giorni in cui si sperimenta serenità o gioia: il passato si dilata leggermente, richiama i vissuti ed alimenta la nostalgia di un tempo altro, mentre il presente ed il futuro si mantengono aperti. Questa tristezza, proprio perché (spesso) motivata, può essere creativa e diviene sorgente di riflessione e di meditazione. Nella tristezza “patologica”, invece, il tempo si trasforma radicalmente: il futuro si affievolisce e può precipitare fino al suo dissolversi dove si perde ogni speranza, ed il passato entra in una vorticosa voragine, tipica della sofferenza psichiatrica e della malattia (cfr. Borgna, 2000, 66-67). L’esperienza interiore del tempo che si vive nella gioia è quella del presente, dell’istante. Quando, infatti, siamo emozionalmente impegnati in esperienze di vita traboccanti di soddisfazione, realizzazione, distensione, il tempo corre veloce, inafferrabile, e si ha la sensazione che fugga via. Le altre due dimensioni del tempo si inverano in maniera serena: il passato è vissuto in maniera nitida, non opprimente, rassicurante, come qualcosa che dà fondamento alla propria vita, da cui si sa di essere nutriti e a cui ci si sente ancorati, come le radici di un albero al terreno. Il futuro, da canto suo, viene esperito come «un orizzonte di possibilità infinite alle quali è estranea ogni connotazione di pericolo» (Borgna, 2009, 69), di preoccupazione e di timore. In questo stato dell’anima si vive una situazione molto particolare, poiché il presente sembra staccato da passato e futuro e tutto sembra consumarsi rapidamente nel qui-e-ora. Ma, nella gioia, avviene qualcosa di ancora più potente, poiché, non essendoci un’attenzione ossessiva al tempo, si realizza l’assenza del tempo, si vive, cioè, come se il tempo non esistesse e ci si sente al di sopra di ogni dimensione temporale, al di là di ogni tempo. Non si ha bisogno di sperare qualcosa perché in quell’istante la si ha già, non si ha nostalgia di qualcosa perché ci si sente appagati di quel che si ha lì in quel momento, non si ha paura di qualcosa perché la gioia di quel momento ha una connotazione di sicurezza e protezione. Borgna descrive così l’esperienza del tempo che si fa nella Stimmung sigillata dalla gioia: «Il presente della gioia, l’attimo e l’istante della gioia, sembrano dilatarsi e allungarsi nella esperienza soggettiva che si ha di questa fragile e intensa, friabile e scintillante, esperienza emozionale; e in essa sembrano confluire, o almeno sconfinare, sia il futuro sia il passato: nella figura di un tempo che si dissolva, […], in una a-temporalità senza fine» (Ibidem, 70). Spesso siamo incapaci di vivere la gioia del presente perché viviamo sempre in attesa di qualcosa di migliore, di più forte; ma questa infinita

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attesa ci mette nelle condizioni di non vivere mai l’attimo presente, il qui ed ora che ci è dato. Sarebbe splendido se arrivassimo a com-prendere che la sorgente della gioia è più in noi che attorno a noi, e che la gioia si dà solo nel modo del presente. Il presente, infatti, è il luogo dell’incontro, dove si dipana la storia di ciascuno di noi, dove è possibile attualizzare tutto sé stesso, dove è possibile scegliere, dove è possibile far entrare l’eternità. Il momento presente, dunque, conduce l’uomo alla valorizzazione delle piccole cose di ogni giorno, del piccolo grigio quotidiano che, sotto questa nuova ottica, risplende di insospettata bellezza ed acquista un fascino sottile e profondo. Chi trova gioia negli eventi ordinari, nelle cose più piccole, riesce a vivere in maniera diversa, più luminosa le cose più penose, più dolorose, più tristi, e diviene capace di contagiare chi gli sta accanto. Louis-Marie Parent scrive che «Dio ha limitato talmente l’essere umano che questi non ha controllo che sul momento presente» (Parent, 1990, 19)4. Per vivere il momento presente si dovrebbe evitare di vivere immersi nelle ombre del proprio passato e delle proprie pene, di rimuginare i brutti ricordi, di accusare gli altri della propria infelicità, di disperare di sé, di credersi irrimediabilmente sconfitto dalla vita, di ritrovarsi a terra senza la forza di rialzarsi ancora una volta. Uscire dal momento presente per deplorare il passato e per tentare di distruggere ciò che si è stati e gli errori che si sono compiuti è tempo perduto, perché non si fa altro che accumulare rimpianti, sentimenti e sensi di colpa, inutili o addirittura nocivi. Allo stesso modo, uscire dal momento presente per occuparsi unicamente del futuro, di ciò che sarà, di ciò che potrà accadere a sé o agli altri, è un’illusione, un’utopia, perché non è dato all’uomo di conoscere il suo futuro. Parent, per rafforzare la potenza del momento presente, scrive ancora: «Ogni giorno ha dei momenti buoni, ma il migliore di tutti i momenti è il momento presente che io posso riempire di pensieri seri e positivi, di gioia, di ottimismo, di pace per me e per gli altri» (Ibidem, 15). Paradossalmente, la gioia – se vissuta consapevolmente ed in profondità – è un modo dell’anima che ci porta a riflettere sulla fragilità della condizione umana, sul mistero della vita e della sofferenza. La vera gioia è quella capace di resistere alle intemperie della vita, di allietare il cuore per le cose inaspettate, di illuminare l’anima persino lì dove c’è sofferenza, malattia, povertà. È’ sempre commovente vedere un sorriso gioioso sul volto di chi soffre, di chi è malato, di chi non ha nulla per vivere. Ed è proprio questa gioia, capace di resistere anche nelle situazioni più drammatiche ed insostenibili, che mette in crisi l’uomo di oggi, perché è una gioia che va al di là della plausibilità, della ragionevolezza umana, del contingente: è la gioia di chi non rinuncia mai a cogliere le ragioni della gioia stessa anche nell’ora della sofferenza e della morte.

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3. Il Kairòs in educazione Il mio esserci è […] costituito, di volta in volta, nella situazione presente […]. Il “chi” io sia, si può dire solo attraverso questo soggiornare, e nel soggiornare v’è sempre, nel contempo, anche ciò presso cui io soggiorno, e il con chi e in che modo mi ci rapporto. MARTIN HEIDEGGER (1987, 238)

Il tema del tempo, così determinante per la crescita, va adeguatamente valorizzato dalle scienze pedagogiche per la capacità di qualificare l’efficacia dell’intervento educativo da parte del formatore. In ambito educativo, risulta essere elemento indispensabile soprattutto il tempo inteso come kairòs (tempo opportuno). Già la saggezza antica aveva formulato l’invito kairòn gnoti, e cioè “conosci il tempo giusto”, il momento decisivo che ti è dato. Il tempo definisce la nostra vita, ci caratterizza come esseri particolari, definisce la nostra identità e le nostre relazioni, ne determina gli inevitabili cambiamenti interni ed esterni. Per questo siamo costantemente chiamati ad un continuo adattamento creativo del “tempo interno vissuto” al “tempo della storia”. Sappiamo bene che l’elemento tempo è indispensabile, perché – come scrive Salonia – «mentre permette alla relazione di “farsi”, la costringe anche a definirsi. Lo scorrere del tempo, infatti, dà alla relazione grounding (fondamento) e configurazione» (Salonia, 1992, 12). Ma come comprendere il “quando” del momento opportuno, l’attimo del kairòs, il tempo favorevole, il momento decisivo? Per non ritrovarci a dovere sempre rimpiangere “dopo” un “prima” che avrebbe potuto essere diverso, deve divenire compito centrale di chi si prende cura della crescita del singolo o del gruppo porre attenzione al tempo come fattore decisivo della crescita e delle trasformazioni dell’identità. Aldo Gargani ha scritto che «La nostra vita [...] rassomiglia più a una domanda che a una risposta, e quando dà risposte non sono le risposte che avevamo chiesto» (Gargani, 1992, 95). È indispensabile che la vita rassomigli più ad una domanda, perché è proprio questo atteggiamento che non ci fa mai arrestare, che ci consente di sperimentare lo stupore di fronte alle meraviglie, che ci stimola a sapere sempre di più e sempre meglio, che ci invoglia a trovare percorsi personali, che ci sollecita a restare in un atteggiamento di stimolante attesa, che risveglia in noi la curiosità intellettuale. Ed è per questo che diventa saliente scoprire il tempo delle risposte della vita, riscoprire l’importanza del “tempo giusto” nella re-

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lazione educativa, proprio per non ritrovarsi a dovere rimpiangere tutti quei momenti non afferrati al volo, perché colti alla sprovvista, o non attenti, non disponibili, o semplicemente perché in attesa di un momento “migliore”. Il “tempo giusto” nella formazione, quindi, va focalizzato all’interno della qualità della relazione educativa, dalla quale emergono il tipo di ricettività dell’educando, la sua disponibilità, le resistenze, i dubbi, le aspettative. Come educatori, però, dobbiamo fissare bene in mente che non esiste un tipo di relazione, né un tipo di intervento educativo, né un movimento unidirezionale verso l’altro; ma relazione ed intervento si “fanno” e si costruiscono nel e col tempo, e sempre con la partecipazione dei due partner/interlocutori. Solo allora il tempo della relazione diviene «tempo vissuto», diventa kairòs, tempo propizio. È in questo tempo-vissuto-della-relazione che l’altro si svela a me, è in questo momento di trascendenza e di esodo da me che avviene la scoperta dell’altro, che, secondo Lévinas, assume una connotazione spiccatamente etica. Infatti, il tempo, secondo la concezione levinasiana, diviene ciò che permette al soggetto di “consegnarsi” al prossimo, in una quasi omonimica “diacronia-diaconia”. “Diacronia”, perché Lévinas non fa una scelta di un asse invariabile, come Hegel il passato, Husserl il presente, Heidegger il futuro, ma, nel filosofo francese, il tempo appare in tutte le sue forme diacroniche e discontinue5. “Diaconia”, perché è il tempo che permette di rivelarsi all’altro per “servirlo”. L’altro, perciò, si costituisce in prima istanza all’interno della dialettica della temporalità, in cui si fa presente come l’«altro istante». Non a caso, nelle prime righe del paragrafo Il tempo e l’altro dell’opera Dall’esistenza all’esistente, Lévinas scrive: «come potrebbe il tempo sorgere in un soggetto solo? Il soggetto solo non può negarsi. L’alterità assoluta dell’altro istante […] non può trovarsi nel soggetto che è definitivamente se stesso. Quest’alterità non mi viene che da altri […]. La dialettica del tempo è la dialettica stessa della relazione con altri» (Lévinas, 1948, cit. in Sansonetti, 1985, 43-44). La genesi dell’alterità a partire dal tempo diviene un tassello fondamentale anche nelle scienze pedagogiche, poiché il tempo non è il fatto di un soggetto isolato e solo, avulso dal contesto storico e sociale, ma la stessa relazione del soggetto con l’altro e con il mondo, come sostiene Lévinas. Quella che, fondamentalmente, viene capovolta con Lévinas è proprio la prospettiva della dialettica temporale come dialettica dell’alterità: adesso, perché possa darsi la temporalità è necessaria l’alterità. È chiaro che quando si parla di “alterità” non si intende la mera presenza fisica dell’altro, rispetto alla quale posso permettermi di agire o prendere tutte le decisioni indipendentemente dalla sua presenza nella relazione. In campo didattico, abbiamo scoperto che per potere insegnare non

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basta conoscere la materia, ma è necessario conoscere anche l’allievo e soprattutto capire “a che punto si trova” (= il tempo) la relazione tra l’insegnante e l’allievo. L’apprendimento, infatti, concerne non la disponibilità del solo allievo, e neppure quella del solo insegnante; ma una sinergia di disponibilità all’opera per la costruzione e la comprensione della relazione educativa. Ciò che si rivela necessario, quindi, è un’attenzione particolare ai tempi dell’apprendimento, che sono i tempi della disponibilità: si tratta di apprendere il ritmo della relazione con i tempi di intervento. «Non pochi interventi educativi falliscono – dice Salonia – non perché siano “errati” dal punto di vista contenutistico, ma perché precoci o ritardati, non adeguati alla persona che è in crescita e, quindi, al tipo di relazione che si è instaurata» (Salonia, 1994, 16-17). Ritorna in tutta la sua forza l’invito kairòn gnoti come “elemento costitutivo di ogni competenza” nella formazione ed elemento fondante la relazione educativa. È interessante notare come, nel linguaggio comune ed in particolare in quello educativo, la mancanza o la prestazione di tempo faccia riferimento solo alla quantità di tempo. Molto spesso l’avere tempo per qualcuno non coincide con la qualità del tempo: si può dare tempo, ma essere assenti mentalmente, essere altrove o semplicemente non riuscire a darlo. È importante, dunque, cominciare a riscoprire il “tempo del tempo” e l’avere “tempo per il tempo”.

4. Il “tempo” che stiamo disimparando All’interno dell’esperienza, e soprattutto di quella educativa, è fondamentale porre attenzione ad alcune declinazioni del tempo che oggi stiamo perdendo, e che dovremmo recuperare, che sono: saper attendere, saper digerire-assimilare, saper fare pausa, saper sperare. Analizziamole brevemente. 4.1. Saper attendere Stiamo perdendo il tempo dell’attesa: “voglio tutto e subito” è entrato non solo nel linguaggio quotidiano, ma anche nelle mentalità dei più, e soprattutto dei giovani. Indipendentemente da moralismi inutili, in sé e per sé non c’è nulla di male a volere tutto e subito, se questo è possibile. Il punto è che certe cose si capiscono solo aspettando, perché è aspettando che si prova l’assenza, il bisogno, il desiderio; che si preparano le condizioni per capire, per assaporare, per vivere un’esperienza più pienamente; che si gusterà ciò che si avrà ottenuto (cfr. Salonia, 2011, 131-134). Il tempo dell’attesa corre velocemente verso una meta, un altrove,

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un non-ancora che si desidera si realizzi; questo tempo, però, non viene vissuto sempre positivamente, perché può riempirsi di ansia e di inquietudine per qualcosa che non si conosce e che si teme. Nell’attesa, infatti, l’esperienza interiore del tempo è quella della sospensione, di improvvise frenate e di «enigmatiche accelerazioni a trascendersi in un avvenire: in un futuro inconoscibile», come scrive Borgna (Borgna, 2005, 51). L’attesa ci dà la dimensione di un ordine del tempo: esiste un prima e un dopo, che si definiscono con l’irreversibilità del tempo. È l’attesa il tempo che segna l’esistenza di un dopo, perché mi separa dalla realizzazione dei miei desideri. Scrive Sartre: «Senza il succedersi dei “dopo”, sarei subito ciò che voglio essere; non vi sarebbe più distanza fra me e me stesso, né separazione tra l’azione e il sogno» (Sartre, 1943, 172). In fondo, l’attesa mi separa da me stesso, da ciò che voglio essere, da ciò che vorrei e, al contempo, mi unisce, nella misura in cui, in nuce, faccio vivere nell’attesa ciò che attendo. L’attesa, e più in generale il tempo, dunque, opera una straordinaria divisione che, al contempo, riunisce. L’attesa, quindi, non va concepita come una perdita di tempo, anzi è assolutamente il contrario, proprio perché essa porta con sé il grande potere di far capire all’individuo se ciò che desidera è veramente ciò che vuole. Ad esempio, nel “no” – che bambini, ragazzi e giovani non sono più abituati a sentirsi dire – c’è una grande potenzialità educativa, perché il “no” dà il tempo dell’attesa e in questo tempo prezioso matura il desiderio, si cresce e si diventa più forti. Potremmo definire il “no” come costitutivo della relazione, perché consente l’attesa e l’apprendimento dell’alterità, in quanto presenta l’altro nella sua totale diversità. Diventa indispensabile, dunque, recuperare la capacità di attesa, senza l’idea di ciò che si attende, ma come scommessa silenziosa dei significati a venire. 4.2. Saper digerire-assimilare Un altro tempo che stiamo perdendo è il tempo della “digestione”, che in Gestalt è il tempo del post-contatto, cioè quel momento in cui ciò che si è “mangiato” lo si fa proprio e lo si sente proprio, quel tempo in cui ciò che viene dall’esterno diventa un tutt’uno con sé stessi perché viene assimilato. Anche l’attuale trend dei rapporti “usa e getta” - cioè dei rapporti facili che si cambiano, si aprono e si chiudono con estrema facilità - non è un problema moralistico, ma umano e postmoderno. Un rapporto “usa e getta” è un rapporto consumato subito, che manca dei tempi naturali di assimilazione. Anche questa incapacità di saper digerire le cose ed i rapporti è una caratteristica della postmodernità, che investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, e non solo quello con le persone. C’è un nesso indissolubile che congiunge l’esperienza fatta ed il

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tempo dell’assimilazione dell’esperienza: senza tempo non può esserci assimilazione e, quindi, neppure esperienza vissuta e sedimentata, ma solo successione ininterrotta di eventi. Oggi, infatti, si corre il pericolo di diventare meri collezionisti di fatti e persone, senza essere più capaci di dare un significato ed un senso alle cose ed alle relazioni che si vivono. Senza il tempo l’esperienza non è in grado di sedimentare e di nutrire il soggetto, per cui si rischia di perdere ciò che si vive in un amalgama indistinto di elementi eterogenei e, talvolta, persino contrastanti. 4.3. Saper fare pausa In genere, quando parliamo della capacità di fare pausa, ci riferiamo al saper fare pausa nel parlare. Se qualcuno ci parla, è importante non solo ascoltarlo ma anche non aggredirlo nell’istante in cui sta dicendo l’ultima parola del suo discorso o, peggio ancora, interrompendolo. Nel dialogo è come se si fosse uniti, o quantomeno si ha l’impressione di essere uniti, ma questa unione, per essere genuina, deve essere nutrita dalla separazione, che è costituita proprio dalla pausa (momento di separazione che attraversa due individui). Spesso le difficoltà del dialogo non nascono dalla mancanza di disponibilità o di buona volontà, ma principalmente dalla mancanza di un’educazione al silenzio e all’ascolto. In ambito più generale, possiamo affermare che abbiamo perso il gusto dell’intervallo, della pausa, che è un elemento fondamentale nella vita, nell’educazione, nelle relazioni. Perdere l’intervallo e, soprattutto, la coscienza dell’intervallo significa – secondo Gillo Dorfles – ottundere la nostra sensibilità temporale ed avvicinarsi sempre più ad una situazione di annichilimento della propria cronoestesia, cioè della propria sensibilità per il trascorrere del tempo, con i suoi ritmi e le sue pause (cfr. Dorfles, 1980). La continuità di sollecitazioni sensoriali cui siamo sottoposti e da cui non possiamo più svincolarci investe ogni luogo ed ogni ambito: per strada, nei locali pubblici, nei luoghi di villeggiatura, e persino ai limiti delle campagne, nelle isole e dentro le nostre case siamo bombardati da insistenti e continui rumori, suoni, immagini (pubblicitarie, filmiche, fotografiche, etc.) che non ci permettono più di fare una pausa tra due eventi, tra due suoni, tra due immagini. Tutto appare un anodino continuum: i brani trasmessi dalla radio, le immagini della televisione, i cartelloni pubblicitari, le pareti dei musei ricolme di quadri, le vetrine delle librerie o dei negozi di abbigliamento, le macchine ferme in coda, e così via. È come se vivessimo nel tempo dell’«antico horror vacui dell’uomo preistorico, che colmava ogni angolo della sua caverna con immagini autoprodotte» (Dorfles, 2008, 15), ossia quell’orrore del vuoto, quel senso di sgomento procurato da assenza di suoni, di immagini, di segni. Il critico d’arte e filosofo triestino propone di estendere il concetto di repul-

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sione, di orrore appunto, alla situazione odierna di rumore indistinto. È assai significativo ed eloquente il titolo del volume Horror pleni. La (in) civiltà del rumore, dove egli sostiene che «ci troviamo di fronte ad un colossale “inquinamento immaginifico”: l’eccesso di stimolazioni visive e auditive dovute a giornali, fumetti, filmati, televisione, ma anche alla segnaletica del traffico, alle scritte luminose, ecc., ha fatto sì che non resti più nulla libero da segni, segnali, indici. L’ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre più la necessità d’una pausa immaginifica» (Ibidem, 20). In altre parole, siamo o ci ritroviamo ubiquitariamente schiavi del rumore, del frenetico, del “pieno”, così come smaniosi del prestissimo e del velocissimo nelle relazioni, nelle faccende quotidiane, negli affari, nella comunicazione virtuale, nei mezzi di trasporto. E ciò che è più paradossale è che ad un rapidissimo sviluppo della tecnologia (si pensi ai computer sempre più prestanti, alle connessioni high speed tramite cellulare o smartphone, alle scattanti autovetture, agli aerei, ai treni, al tutto sempre più veloce) spesso non corrisponde la possibilità di poter attuare le cose con la stessa velocità promessa. Le linee intasate dei gestori di reti internet, le code sulle strade cittadine e sulle autostrade, i tempi degli spostamenti e le attese/soste negli aeroporti spesso molto più lunghe dei voli stessi (tre ore di attesa per un’ora di volo) non consentono di dedicare la nostra attenzione a cose più interessanti, così come non ci consentono di vivere questo tempo come un tempo di pausa. «Per me il futuro è ieri, mi serve l’informazione ora, prima della chiusura. No, tra dieci minuti è storia. Alle quattro sarò un dinosauro». Questa è la misura del tempo adrenalinico del giovane broker nel film Wall Street di Oliver Stone, ma – possiamo affermare – è anche l’ordito temporale della società postmoderna e della comunicazione globale. «La durée bergsoniana è ormai sopraffatta da un tempo che “non dura”, perché tutto concorre ad abbreviarlo e spezzettarlo» (Ibidem, 22), ad accelerarlo, a bruciarlo fino alla maniacalità. Dobbiamo imparare ad avere l’horror pleni, che è avvertito da pochi (ma che tutti dovremmo avere), a vantaggio della capacità dell’intervallo, del tempo della pausa, che deve essere recuperato e (nuovamente) appreso, non soltanto come un temporaneo arresto del flusso sonoro o visivo, ma come un intervallo che si frappone tra cosa e cosa, tra suono e suono, tra immagine ed immagine, tra opera ed opera, in modo da consentire all’individuo di poter accogliere un evento nella sua singolarità e di dargli il tempo dell’assimilazione e della “decantazione” dell’esperienza. L’horror vacui, dunque, dovrebbe essere sostituito dall’horror pleni e dalla conseguente ricerca di spazi e tempi vuoti da non riempire istantaneamente: anche in campo affettivo, non sappiamo più star da soli, ma abbiamo bisogno che qualcuno riempia subito i nostri vuoti. Si pensi

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all’incremento del possesso e dell’uso dei cellulari, segno evidente di una incapacità sempre maggiore di stare soli ed isolati, così come alla diffusione dei social network (Facebook, Twitter, etc.) che mettono in collegamento le persone in tempo reale, abbattendo le barriere dello spazio. Tutti segni che indicano che l’uomo postmoderno è ancora profondamente ancorato all’errore del pieno e non all’orrore dello stesso, come sostiene Dorfles ne L’intervallo perduto. La capacità di fare pausa è strettamente collegata alla capacità di attesa. Saper vivere un tempo di attesa e di pausa significa anche saper vivere un tempo di incertezza, in un mondo in cui ci viene continuamente insegnato ad essere sempre e soltanto sicuri, decisi, rapidi, risoluti, determinati, in una parola, efficienti. L’attesa e la pausa sono esperienze che “stanno fra”, che meritano un’attenzione educativa particolare e competenze non indifferenti. Dal canto loro, queste competenze portano con sé una ulteriore capacità, che è quella di recuperare l’«intervallo perduto» o capacità diastematica, come la definisce Dorfles. Recuperare l’intervallo perduto, quindi, si concretizza nell’educatore come capacità di soggettivizzare il tempo, il ritmo del lavoro, il ritmo della relazione e il ritmo all’interno della comunicazione. 4.4. Saper sperare Anche il tempo della speranza sembra svanire in quest’epoca definita da filosofi, teologi ed umanisti sempre più spesso “post-umana”. Il tempo della speranza è animato dalla forza e dalla fiducia dell’avvenire, da un passato e un presente che interagiscono continuamente, rifluendo ed emergendo senza soluzione di continuità. Nella speranza non vi è traccia di ansia, tristezza, angoscia, insicurezza, che invece possono essere presenti nell’attesa e che sembrano dominare questo nostro tempo. Nell’attesa, infatti, il futuro è vissuto nella sua «dimensione ambigua e dilemmatica»; nella speranza, invece, «nella sua dimensione radicalmente aperta e luminosa» (Borgna, 2005, 51). L’opposto di speranza non è paura, come spesso si è portati a ritenere, bensì disperazione. Disperare, infatti, è vivere senza speranza, vivere con le prospettive di un futuro fermo al presente, di un futuro morto, o, nel migliore dei casi, con le vedute rivolte ad un futuro molto, talvolta troppo, prossimo. Quando, invece, la nostra anima diviene capace di aprirsi agli orizzonti luminosi della speranza si colora di gioia e brillantezza e si riempie di calore e di fervida serenità. Nel tempo della speranza diventa possibile vivere più pienamente l’esperienza della partecipazione, della condivisione e della solidarietà, perché si è più pronti ad aprirsi ad inedite possibilità, alle sofferenze ed alle emozioni altrui.

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Ma vi sono degli equivoci della speranza – che in sé stessi non fanno male, anzi possono portare anche dei grandi benefici all’essere umano – che rischiano di confondere e far perdere di incisività e di vigore il vero significato del termine “speranza”. Questi equivoci sono: – l’ottimismo, che è una ferma convinzione, oppure un vago sentimento, che le cose si aggiusteranno e che si troveranno soluzioni favorevoli, per dirla con Gabriel Marcel (Marcel, 1953); – il desiderio, che, inserendosi nella fenomenologia dell’avere e del possesso, è sempre, secondo Marcel, desiderio di qualcosa. La speranza, invece, non è legata ad un oggetto determinato e, per questo, è sottratta al dolore della mancanza, della privazione. A volte, i desideri divengono “paradisi a prezzo scontato”, come li definisce Ernst Bloch nell’opera monumentale Il principio speranza (Bloch, 1954-1959), cioè desideri filtrati sempre dalla pubblicità che veicola il piacere di avere qualcosa o di essere qualcuno. – le speranze deboli, che sono dei desideri che si vorrebbe vedere realizzati per qualche fortunata combinazione di cose e di eventi, o per un fato benevolo; – l’utopia, che è una costruzione astratta in cui vengono superati contesto e realtà storica, e viene formulata una ipotesi perfetta risolutiva, in cui prendono vita alti valori umani. Le utopie hanno il grande merito di dare agli uomini delle motivazioni valide per intraprendere lotte e portare avanti “giuste” cause per il rinnovamento/cambiamento della realtà in cui si vive. Ma non è superfluo ricordare come l’u-topia, il non-luogo, rivela in sé una inevitabile componente di illusorietà. La speranza, a differenza dei quattro elementi su citati, non si configura come uno “sperare che”, ma come uno “sperare in”. Una peculiare caratteristica della speranza è che, nel viverla, è insita la necessità di aprirsi all’alterità, e quindi alla fiducia in un Altro: «la speranza è sempre centrata su di un noi, su di una relazione vivente; e se non ce ne rendiamo conto è perché usiamo troppo spesso la parola speranza là dove invece si tratta del desiderio», scrive Gabriel Marcel (Marcel, 1951, 76-77). Nell’ottica cristiana, infatti, si spera in un Dio che è, che crea, che ama, che ritornerà. La speranza cristiana diviene certezza, poiché si fonda sulla fede in Dio. In questa dimensione, la speranza non è attesa passiva ma attiva, non è degli uomini stanziali ma degli uomini pellegrini e camminatori. Nell’opera di Marcel, infatti, l’uomo viene descritto proprio come homo viator, sempre in cammino e sostenuto dalla speranza (cfr. Marcel, 1944). La consapevolezza, poi, di essere straniero e pellegrino nasce come frutto di elezione e non di esclusione, e fa vivere l’uomo in una specie di paradosso, quello di essere al contempo appartenente ed

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estraneo al mondo. La speranza, dunque, si configura non come mera neghittosità ma come operosità, non come probabilità ma come certezza. Senza questa speranza, la vita di fede non ha alcun senso. Infatti, nell’ottica cristiana, l’essenza del cristianesimo è la sua escatologia, cioè il tempo ultimo, l’éskaton. Infatti, il termine biblico corrispondente a escatologia è proprio “speranza”, nel senso di riflessione credente sul futuro della promessa, e, ancora, la speranza degli ultimi giorni, in cui Dio ritornerà (parusìa) e ristabilirà il suo Regno per sempre. Ma la categoria della speranza non può esistere se non si incarna in uomini e donne che sanno sperare, o che imparano a sperare. Non esiste la speranza in sé, ma esistiamo noi che siamo chiamati a sperare, noi che decidiamo di abitare la speranza, pianeta talvolta affollato, ma molto spesso inesplorato. Non si può essere felici senza avere speranza, poiché è la speranza che fa accettare gli errori del passato ed apre la porta al futuro, che riempie di senso e di luce l’inevitabile sofferenza che avvolge l’esistenza, che ridona lo stupore di conoscere cose nuove e di entrare in novità di vita. Non solo non si può vivere senza sperare, ma la vita dell’uomo nella storia, per essere degna di questo nome, deve essere fondamentalmente speranza. Jürgen Moltmann, teologo protestante tedesco, scrive che la speranza permanente non fa parte del nostro corredo genetico, non ce la portiamo dietro dalla nascita né l’acquisiamo dall’esperienza, ma è una possibilità esistenziale che dobbiamo apprendere (Moltmann, 1979). Crediamo, dunque, che un importante punto di partenza per la crescita e l’arricchimento dell’umanità sia interrogarsi sui propri desideri e sulle proprie speranze e decidere di investire su questi forze ed energie. Desiderio e speranza, infatti, sono la pista di volo senza la quale la visione del mondo e di se stessi rimane fortemente amputata, senza la quale non ci si alza, non si decide di intraprendere il viaggio della vita, non si rischia di andare avanti ed affrontare il futuro. È compito dell’educazione, dunque, stimolare a vivere con speranza proprio quei soggetti che, non avendola conosciuta o avendola smarrita durante il percorso, non riescono più a percepire quanto il tempo sia estremamente prezioso. Il tempo è lo spazio in cui si dispiega la nostra vita, in cui giochiamo il nostro destino (eterno, per chi crede) e non possiamo permetterci di viverlo con monotonia e senza slanci. Non è facile, abitando il tempo, tenere sempre viva la fiamma iniziale riuscendo ad accettare anche le “lentezze” della vita ed il richiamo di una Trascendenza che abita il senza-tempo, l’eternità. Soltanto l’inabitazione umana del krònos può immettere la persona nel tempo della possibilità che, così, può diventare tempo di attesa, di speranza, di relazione, di appartenenza, di separazione: cioè, sempre e comunque, tempo di esperienza e di opportunità di crescita e di vita (kairòs).

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Presentazione dell’Autore: Rosa Grazia Romano è psico-pedagogista e counselor, ricercatrice presso la Facoltà di Scienze della Formazione (Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e Studi culturali) dell’Università di Messina, dove insegna “Pedagogia delle relazioni educative” e “Metodologia della ricerca pedagogica”. È membro di Comitati scientifici e di Comitati di Revisori nazionali di varie riviste pedagogiche a cui collabora attivamente. Ha pubblicato tra l’altro, L’arte di giocare. Storia, epistemologia e pedagogia del gioco (Pensa MultiMedia, 2000), Il gioco come tecnica pedagogica di animazione (Pensa MultiMedia, 2000), Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna (Franco Angeli, 2004), Virtualità e relazionalità nella cybercultura. Percorsi pedagogici tra ludos e patìa (Pensa MultiMedia, 2012), oltre a diversi articoli in riviste scientifiche e contributi in volumi collettanei. Note 1 Il termine tecnofagia deriva dal greco tέknon (téknon) che vuol dire “figlio” [derivante da τεκνόω (tehnòo) che nella forma attiva significa “generare figli”] e jageῖn (faghéin) che vuol dire “mangiare”, “divorare”, “distruggere”. Per quanto riguarda il mito della rivalità paterna e gli aspetti psicologici ad esso connessi, cfr., tra gli altri, Moscato (1998, 190-195). Qui, l’Autrice sottolinea come Kronos, pur generando figli coerentemente alle leggi biologiche della fecondità, si rifiuta di divenire “padre”, proprio per le conseguenze che l’accoglimento di tale responsabilità implica: la costituzione di un erede, con la sua consequenziale detronizzazione. 2 Scrive ancora Borgna: «Una delle problematiche della noia è il vuoto: quello svuotamento del tempo che Ludwig Binswanger considera l’elemento essenziale nella costituzione fenomenologica della noia» (Borgna, 2005, 44). Chi si annoia perde l’orizzonte di senso dinanzi a sé e viene, in qualche misura risucchiato dal suo corpo. Ne sono prova gli atteggiamenti del corpo che assume chi si annoia: il continuo martoriamento di parti del corpo, come ad esempio di mani o gambe o viso, lo sbadigliare continuo, il cambiare posto e posizione senza riuscire mai a trovare quella “giusta”. 3 Borgna prosegue: «Benché ci siano livelli diversi di destrutturarsi del tempo, in ogni condizione di isolamento, la sua connotazione estrema è quella magistralmente descritta da Eugène Minkowski nella forma di vita psicotica» (Borgna, 2011, 35). 4 Egli aggiunge: «Ogni giorno, egli [l’uomo] deve cercare la gioia di vivere con l’energia dell’ape che vola ad enormi distanze per raccogliere il polline ch’essa trasforma in miele gustoso» (Parent, 1990, 19). 5 La posizione di Lévinas rispetto al “Tempo” resterà pressoché immutata fino agli ultimi scritti, sebbene – apparentemente – potrebbe sembrare che l’ottica de Il tempo e l’Altro (1947) differisca da o si contraddica con quella dell’opera successiva Totalità e Infinito (1961). È vero che Lévinas non fa una scelta di un “asse temporale invariabile”, poiché resterà sempre presente nelle sue opere la ripartizione ternaria del tempo (passato, presente, futuro), ma – soprattutto in Totalità e Infinito – il tempo assume prevalentemente il profilo dell’avvenire. Sempre in

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Ricerche quest’ultima opera, il tema dell’avvenire produce nuove aperture sul tema della storia, sebbene – secondo Sansonetti – Lévinas non sia un pensatore “storico”: la storia appare, per dir così, come il non-detto a cui il detto rinvia necessariamente (cfr. Sansonetti, 1985).

Bibliografia BLOCH, E. (1954-1959), Il principio speranza, 3 voll., tr. it. Milano, Garzanti. BORGNA, E. (2000), Noi siamo un colloquio. Gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria, Milano, Feltrinelli. — (2005), L’attesa e la speranza, Milano, Feltrinelli. — (2009), Le emozioni ferite, Milano, Feltrinelli. — (2011), La solitudine dell’anima, Milano, Feltrinelli. CALLIERI, B., MALDONATO, M., DI PETTA, G. (1999), Lineamenti di Psicopatologia fenomenologica, Napoli, Guida. DORFLES, G. (1980), L’intervallo perduto, Torino, Einaudi. — (2008), Horror pleni. La (in)civiltà del rumore, Roma, Alberto Castelvecchi. GARGANI, A. (1992), Il Testo del tempo, Roma–Bari, Laterza. HEIDEGGER, M. (1927), Essere e tempo, tr. it. Milano, Longanesi. — (1987), Seminari di Zollikon, Napoli, Guida. LEVINAS, E. (1948), Dall’esistenza all’esistente, tr. it. Genova, Marietti. MARCEL, G. (1944), Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, tr. it. Roma, Borla. — (1951), «Structure de l’ésperance», in Dieu vivant, n. 19, pp. 71-80. — (1953), Filosofia della speranza, a cura di A. Scivoletto, tr. it. Firenze, Philosophia. — (1984), Dialogo sulla speranza, a cura di E. Piscione, tr. it. Roma, Logos. MOLTMANN, J. (1979), Esperienze di Dio. Speranza, angoscia, mistica, tr. it. Brescia, Queriniana. — (1985), Dio nella creazione, tr. it. Brescia, Queriniana. MOSCATO, M. T. (1998), Il sentiero nel labirinto. Miti e metafore nel processo educativo, Brescia, La Scuola. PARENT, L.-M. (1990), Il momento presente. Un segreto per la felicità, tr. it. Roma, Città Nuova. SALONIA, G. (1992), «Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Gestalt Terapia», in Quaderni di Gestalt, VIII, N. 14, 7-21 [e pubblicato successivamente in: SPAGNUOLO LOBB, M. (2001) (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e clinica, Milano, Angeli, 65-85].

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(1994), Kairòs, Bologna, Dehoniane. (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Trapani, Il pozzo di Giacobbe. SANSONETTI, G. (1985), L’Altro e il Tempo. La temporalità nel pensiero di Lévinas, Bologna, Cappelli. SARTRE, J.-P. (1943), L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, tr. it. Milano, Il Saggiatore.

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QUESTIONI SULLO STUDIO (E L’INSEGNAMENTO) DELL’ETRUSCO Massimiliano Canuti Abstract: This paper has as goal to speak about the problems of hermeneutic and epistemology concerning Etruscan tongue. To do it we have to describe some feature of Tyrrhenian langue and generally the conditions of studies. When we shall have seen some hermeneutic positions contrasting amongst themselves, we shall try to find solutions to such problems and to describe the advantages that Etruscan can receive from the “experimental method” (in sense of suiting the better meaning to the words in their context) applied to own texts. Finally, it will be discuss about the dangers of teaching a tongue, whit so big holes of interpretation, like Etruscan. It will propose some tools in order to solve them. Riassunto: Questo articolo tratta dei problemi di ermeneutica ed epistemologia relativi all’etrusco. Per fare ciò si esporrà prima un abbozzo della sua grammatica e dello stato attuale degli studi che lo riguardano. Dopo aver visto alcune posizioni ermeneutiche in contrasto l’una con l’altra, cercheremo di trovare una soluzione a tali problemi e di descrivere quanto l’etrusco possa guadagnare dall’applicazione del “metodo sperimentale” (nel senso di adattare il miglior significato possibile in relazione al contesto ove si trovano le parole da interpretare). Infine si analizzerà la questione dell’insegnamento di una lingua con così grandi lacune di conoscenza qual è l’etrusco. A tal proposito saranno fornite alcune possibili soluzioni. Parole chiave: Etrusco, ermeneutica, epistemologia, linguistica, insegnamento. L’etrusco (secondo una classificazione riportata in Poccetti, 2008, 28), è una lingua di frammentaria attestazione o Trümmersprache. Ciò indica una lingua attestata epigraficamente in maniera consistente (oltre 10.000 attestazioni) ma che mostra grosse difficoltà di interpretazione. Questo è dovuto alla scarsa conoscenza del significato dei suoi vocaboli e alla mancanza di lingue genealogicamente imparentate adeguatamente conosciute, che agevolino operazioni di comparazione. Sicuramente l’etrusco, per la nota religiosità degli Etruschi nell’antichità1 e per la loro perizia nell’aruspicina, è divenuto, prima di estinguersi, nel corso del I sec. d. C., anche una Restsprachen. Vale a dire una lingua adoperata solamente in particolari settori della società, in questo caso quello religioso

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(Ibidem). Per poter parlare con cognizione di causa di ermeneutica etrusca, è necessario, almeno fugacemente, descrivere gli aspetti più importanti della grammatica di questa lingua2. Nello schema seguente sono riassunti i fonemi vocalici etruschi: i e

u ŋ

ovvero, quattro vocali, che, almeno nel periodo arcaico prevedevano una realizzazione arretrata della “a”. Tale sistema si sarebbe poi evoluto in un altro meno simmetrico, che avrebbe portato ad una pronuncia centralizzata della a. Tale spostamento avrebbe condotto ad un abbassamento della realizzazione della u in direzione della o: i e

u ↓

(ε) a

La realizzazione della o come fonema rimarrebbe comunque esclu-

sa.

Adesso possiamo passare ad analizzare le consonanti:

Luogo Modo

Bilabiali

Labiovelari

Labiodentali

Alveolari

Palatali

Palatoalveolari

Velari

Occlusive

p

t

k

Occlusive Aspirate

ph

th

kh

Fricative

φ?

f

Affricate Nasali

m

s

ts

t∫?

h

n

Laterali

l

Vibranti

r

Approssimanti

Laringali

w

j

Da questo schema si può osservare che l’etrusco, almeno alle sue origini, era privo di occlusive sonore, ma, in compenso, possedeva una serie di occlusive sorde aspirate. Probabilmente, verso la fine della storia

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dell’etrusco, quando il latino mostrava più fortemente la sua influenza, ci poterono essere realizzazioni sonorizzate delle occlusive. Ciò ci è suggerito dalle iscrizioni bilingui, dove, ad esempio, in ET Cl 1.2552 al gentilizio etrusco trepi, corrisponde quello latino Trebi. Nei suoi circa sette secoli di attestazione, l’etrusco ha subito anche altre variazioni. Quella più importante è stata la sincope delle vocali interne non accentate. Il fenomeno è avvenuto all’altezza del V sec. a.C. e divide l’etrusco arcaico dal neoetrusco. Un esempio è il seguente: il prenome ramuϑa (ET Cr 2.75, VII/VI sec. a.C.) diviene ramÐa (ET Ta 3.4, IV sec. a.C.). Adesso passiamo ad analizzare la morfologia. L’etrusco era una lingua a casi agglutinante, cioè in cui è abbastanza agevole distinguere i vari morfemi che compongono una parola. In linea di principio, infatti, si può assegnare, a ciascuno di essi, un significato determinato, ad es. tur-c-e “donò” è formato rispettivamente da radice, marca di passato (-c-) e di modo indicativo (-e). Per quanto riguarda la morfologia del nome, il nominativo e l’accusativo, di norma, non erano marcati nei sostantivi e nell’onomastica, mentre nei pronomi l’accusativo assumeva una desinenza in nasale -n(V), ad esempio mini “me” rispetto al nominativo mi “io”. Erano presenti due tipi di genitivo, uno in -s e l’altro in laterale (-l). L’alternanza tra i due tipi era condizionata da ragioni fonetiche (ad esempio dopo una sibilante si utilizzava il gen. II: laris “Laris”, larisal “di Laris”) non sempre ravvisabili con regolarità. C’era un locativo in -i, a volte accompagnato dalla posposizione (i). Come erano presenti due genitivi, parimenti, erano riscontrabili due ablativi, formati (almeno nel primo caso) dall’unione del locativo e del genitivo (risp. -is ed -ls). Conseguentemente è possibile riscontrare due tipi di pertinentivo, un caso formato dalla giustapposizione del gen. e del loc. (-si vs -le < lai). Tale caso era utilizzato per indicare nell’ambito di chi o che cosa si svolgeva una data azione. Il pertinentivo poteva essere utilizzato anche come complemento di agente. Il plurale nei sostantivi si faceva in due modi a seconda dell’animatezza del soggetto in questione3 in -r come in ais-er-as “dei” da ais “dio” per i nomi animati e in -χva e varianti per gli inanimati. Erano presenti anche altri morfemi come quelli indicanti la provenienza (-tra) o a favore di chi si faceva una determinata azione (-ri). La morfologia verbale rimane alquanto più oscura. Probabilmente non erano distinte le varie forme del verbo a seconda della persona, provvedendo il contesto a disambiguare la frase. C’è consenso pressoché unanime nel segnalare la presenza di un passato indicativo in -ce a cui se ne affianca uno passivo in χe. -a indicherebbe il congiuntivo attivo presente, mentre con -u si indi-

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cherebbe il participio passato passivo con sfumatura perfettiva, in caso di verbo transitivo, in caso di verbo intransitivo indicherebbe semplicemente il participio passato attivo (lupu “morto”). Esistevano pure participi presenti in -as(a) e -θ (ma qui la questione si fa più complessa e le certezze più labili) a cui avrebbero corrisposto altrettanti participi passati in -θas(a) e -nas(a). Esisteva anche un modo necessitativo in -ri assimilabile al gerundivo latino e un imperativo costruito con la sola radice (ad es. trin “dì”?). Sono stati isolati anche altri morfemi, ma data l’aleatorietà dei significati attribuiti, non è questo il luogo più adatto per parlarne. Per fornire alcuni rudimenti di sintassi e lessico è opportuno presentare subito un esempio di testo e, tramite la sua traduzione, prendere spunto per descrivere l’ordine dei costituenti e il significato dei vocaboli in etrusco. In questa lingua ci sono pervenute diverse categorie, a livello di contenuto, di testi: giuridici4, religiosi5, di dono, di possesso, firme di artisti e marchi. L’iscrizione che segue, tratta dal territorio di Tarquinia, è, invece, di carattere sepolcrale (ET AT 1.171): arnth χurcles lar al clan ram as nevtnial Arnth Churcles di Larth figlio (e) di Ramtha Nevtni. zilc parχis amce marunuχ spurana Pretore di patriziato??? fu. Marone comunitario cepen tenu avils maχs semφalχls lupu sacerdote tenuto. Di anno di cinque di ottanta?? morto. Arnth Curcles figlio di Larth e di Ramtha Nevtni. Fu pretore del patriziato(???). Fu ricoperto da lui il maronato (magistratura edile??) comunitario in qualità di sacerdote. Morto a ottantacinque (??) anni. Per la morfologia è da notare la presenza nel numerale di un genitivo in -ls. Mentre, in relazione alla sintassi, si nota che l’ordine dei costituenti della frase è S(oggetto)O(ggetto)V(erbo). Qui la testa (V) è in fondo. Tale sequenza è ritrovata anche tra genitivo e nome (GN) con il modificatore che precede la testa. Quest’ultima, tuttavia, non è una norma ferrea, poiché si trova anche l’ordine NG. Rispetto all’aggettivo si ha invece un ordine NA (per altro non sempre rispettato in altri testi), con la testa che precede il modificatore. Gli elementi lessicali della frase sopra riportata ci consentono di suddividere il lessico in tre gruppi (naturalmente per l’appoggio bibliografico si rimanda alle opere di carattere generale già richiamate sopra). Il primo raccoglie termini di cui si conosce con una certezza sufficiente il significato. Essi sono tutti gli elementi onomastici (Larth, Ramtha) a cui si aggiungono appellativi come clan, avil, cepen e spurana il verbo amce,

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il numerale maχ. Di altri vocaboli si conosce abbastanza l’area semantica, essi sono tenu il numerale semφalχ- (settanta??, ottanta??), le due magistrature zilc e marunuχ. Di parχis, infine, si tenta di dare un’interpretazione6 al limite dell’azzardo. Purtroppo, nei testi più lunghi, ci si trova spesso di fronte a casi come quest’ultimo e in molti altri non siamo assolutamente in grado di formulare la ben che minima ipotesi sul significato della parola da esaminare. Alcuni dei termini appena visti come clan, avil, amce, maχ (tutti appartenenti al vocabolario base della lingua, ovvero, quello che muta più difficilmente) sono fondamentalmente alieni dalle omologhe forme indoeuropee. Questo testimonia la non appartenenza dell’etrusco a quella famiglia. Ciò complica notevolmente le cose nel campo interpretativo, poiché possiamo fare scarso assegnamento sulle lingue indoeuropee come termini di paragone per ricostruire il significato delle parole etrusche. L’etrusco, pur essendo una lingua fondamentalmente unitaria, presentava anche variazioni dialettali. La più importante era quella che concerneva un uso maggiore della sibilante palatalizzata (∫) nell’Etruria settentrionale, rispetto a quella meridionale. A tale differenziazione corrispondeva un utilizzo inverso dei rispettivi segni per indicare la sibilante alveolare (s) e la palatale. Nel nord era utilizzato il san (M) per la sibilante alveolare, il sigma (S) per quella palatale, l’opposto avveniva nel sud7. La demarcazione tra Etruria meridionale e settentrionale vedeva la prima terminare con i territori di Vulci e Volsinii (Orvieto) mentre la seconda iniziare con quelli di Chiusi e Roselle. Passiamo adesso a considerare i metodi ermeneutici utilizzati per l’interpretazione dell’etrusco. Sono fondamentalmente quattro. Il metodo etimologico è, di fatto, utilizzato solamente nell’onomastica, dal momento che l’etrusco non ha lingue ben conosciute, con cui è imparentato, che consentano di ricostruire il significato del proprio vocabolario, mediante la comparazione8. Un secondo metodo è il combinatorio. Questo prevede il confronto dei vari lemmi etruschi, all’interno dei testi di questa stessa lingua, per riuscire a carpirne il significato in base al contesto. Tale metodo ha esaurito le sue possibilità già nel secolo scorso. Una terza tecnica ermeneutica è rappresentata dal metodo del confronto storico culturale che si attua mediante il confronto tra i testi etruschi e quelli intellegibili di altre culture antiche, presumibilmente affini in contenuto, per poi trarre un’interpretazione dei vocaboli. La tipologia linguistica, infine, agisce tramite il confronto interlinguistico, con particolare attenzione a lingue con struttura simile all’etrusco. Si cerca cioè di isolare tendenze generalizzate comuni che possano valere anche per la lingua dei Tirreni. In questo modo si cerca di comprendere il funzionamento di parti della grammatica etrusca al momento non decifrate o passibili di diverse inter-

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pretazioni. Uno stato della questione abbastanza recente su tutto ciò si rileva in Agostiniani (2003). A questo punto possiamo parlare del problema più importante, immanente all’etrusco, ovvero dell’ermeneutica, qui trattato nella sua accezione epistemologica. Praticamente ogni scritto sull’etrusco, almeno indirettamente, affronta la questione dell’interpretazione9. Il caso etrusco, rispetto ad altre discipline, presenta una complicazione in più, si tratta della divisione netta tra metodi di indagine scientifici e dilettantistici. Questi ultimi pretendono, a cadenze ormai regolari, di avere la chiave interpretativa olistica per la comprensione della lingua dei Tirreni (cosa che è lungi dal vero). Solitamente, il mondo scientifico risolve il problema ignorando completamente i lavori dilettantistici. Tuttavia, in Facchetti (2005) si è voluto criticare le maggiori teorie dilettantistiche, facendone anche una breve storia, ponendo così, in modo esplicito, un discrimine netto tra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Certamente, però, le problematiche maggiori e più difficili da risolvere sono all’interno dell’ambito scientifico, infatti sono moltissimi i punti che vedono discordi gli studiosi tra loro. A mero titolo di esempio ne ricorderò solamente tre tra i più significativi. Il primo, risalente all’ultimo quarto dell’Ottocento, forse è il più tragico, vede il suicidio di Corssen in seguito alla confutazione delle sue tesi. Quest’ultimo mirava a fare dell’etrusco una lingua indoeuropea (posizione che, contro ogni aspettativa, è ancora viva oggi). Ciò fu completamente smentito da parte di Deecke, Bréal, Bugge ed altri (Agostiniani, 2003, 119 nota 25). Il secondo esempio vede contrapposta, da una parte, l’interpretazione di un gruppo di studiosi, tra cui spicca Agostiniani, che mira a fare della Tabula cortonensis un documento giuridico10, in opposizione a quella di de Simone, che punta a fare di questo stesso testo una parentatio, ovvero, un documento attestante una cerimonia in onore dei parenti morti. Infine, riporto la contrapposizione, avuta tra lo stesso de Simone e Facchetti, per l’inusitata asprezza dei toni che ha raggiunto e che qui esemplifico con un brano tratto da Facchetti (2004, 313) che presenta alcune posizioni contrapposte tra le due parti: «Alla parte genealogica, infine, è indirizzato una specie di anatema: “Essa è destinata al profondo oblio: storici ed etruscologi possono dormire sonni tranquilli senza conoscerla, od impegnarsi in una seria analisi critica” (sembra una frase pronunciata apposta da De Simone per le sue due ultime monografie, “nate morte”, perché, come visto, fondate all’inizio su letture tragicamente sbagliate – come per †la tita – o gravemente carenti in molteplici punti chiave – come per la Tavola di Cortona – )». Senza entrare nel merito di ogni questione, questi tre esempi rappresentano, per lo meno, una situazione fluida all’interno degli studi di

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linguistica etrusca. La soluzione al problema forse sta nella nota massima del Fedone di Platone (91c) «… σμικρὸν φροντίσαντες Σωκράτους, τῆς δὲ ἀληϑείας πολὺ μᾶλλον …» «…preoccupatevi poco di Socrate e più della verità…». In altre parole si tratterebbe di eliminare tutto quello che rappresenta una sovrastruttura retorica e di concentrarsi sulla sostenibilità scientifica delle varie ipotesi ermeneutiche presentate. Conseguentemente, ogni supposizione che abbia un minimo punto di appoggio su prove fattuali dovrà essere presa in considerazione fin quando altri fatti non l’abbiano smentita. Naturalmente, alcune parole o sintagmi etruschi, in relazione allo stato odierno delle nostre conoscenze, sono semplicemente intraducibili e allora sarà molto più saggio attenersi alla massima con cui L. Wittgenstein chiudeva il suo Tractatus Logicus-Philosophicus: «Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen» «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»11. Che sia possibile trovare nuovi indirizzi di ricerca può essere testimoniato, ad esempio, da Canuti (2008). Qui, nell’ambito di un confronto tipologico tra basco ed etrusco, si cerca di dimostrare come possa convivere, nell’etrusco, la presenza di elementi indoeuropei con l’origine non indoeuropea della lingua. Tale fenomeno è spiegato conguagliando le affinità indoeuropee a prestiti o loro derivazioni. Infatti, in basco (qui utilizzato come termine di paragone), le similitudini con le lingue indoeuropee sono considerate universalmente come derivanti da prestito. Le difficoltà sopra esposte si ripercuotono inevitabilmente su chiunque voglia accingersi a proporre l’insegnamento dell’etrusco. Nel panorama italiano, questo è solitamente afferente alle cattedre di Etruscologia che ricadono, come è ovvio, nell’ambito dei dipartimenti di Archeologia. Ciò, da un lato ha favorito numerosi suggerimenti, provenienti dalla cultura materiale, volti ad attribuire significati ai vari testi, da l’altro ha forse ritardato l’intervento della linguistica nell’ambito degli studi su questa lingua. Tuttavia, oggi, i lavori di eminenti linguisti (Agostiniani, de Simone, Rix) hanno consentito, grazie alla tipologia, la comparativistica e lo studio approfondito della morfologia, grossi passi in avanti nel campo delle conoscenze sull’etrusco. Per quanto riguarda l’insegnamento vero e proprio, si deve basare, innanzi tutto, sull’epigrafia che consente di introdurre la fonologia su cui generalmente c’è una base di consenso sufficientemente ampia tra gli studiosi. La morfologia si presenta abbastanza decifrata, con importanti lacune, tuttavia, nell’ambito verbale. La struttura sintattica è sufficientemente definita come SOV, con le licenze consuete che si verificano nell’ambito delle lingue a casi. Infatti, la presenza del caso con una marca riconoscibile che spiega il suo ruolo nella sintassi della frase indipendentemente dalla collocazione della parola, consente numerose eccezioni rispetto a un ordine fisso degli elementi. Questo è dovuto, ad esempio, a

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ragioni di focalizzazione del termine. Al contrario di ciò che avviene tendenzialmente, ad esempio, in italiano con un ordine dei costituenti SVO, impostato più rigidamente, dal momento che questa lingua non ha casi12. Nel lessico si riscontrano i maggiori problemi, per cui ad alcuni termini chiaramente interpretati (ci “tre”, mlaχ “buono/bello”) si contrappongono altri di cui è nota l’area semantica (camθi “ruolo istituzionale”) e altri ancora di cui non si può fare alcuna illazione , ad es. rie “?”, u ari “?” di ET Cr 8.113. Nel lessico, quindi, dovrà essere prestata maggiore attenzione nell’attribuzione di nuovi significati, verificando attentamente quanto le nuove proposte possano adattarsi convenientemente a tutte le occorrenze del termine etrusco in questione. Quindi, nell’ambito dell’insegnamento, massimamente se si tratta di divulgazione (che non deve mai sfociare nella banalizzazione), si deve chiaramente dividere ciò che è un dato sufficientemente acquisito da ciò che non lo è. Presentazione dell’Autore: Massimiliano Canuti, dottore di ricerca in Filologia Romanza e Linguistica Generale, è attualmente cultore della materia in L-LIN/01 – Glottologia e Linguistica, presso l’Università degli Studi di Siena e membro del C.I.S.A.I. (Centro Interdipartimentale di Studi per l’America Indigena) dell’Università degli Studi di Siena. Queste le pubblicazioni più attinenti al tema svolto qui: (2008) Basco ed etrusco. Due lingue sottoposte all’influsso indoeuropeo, Fabrizio Serra editore, Pisa – Roma; (2010) A «Sull’origine di Osenna, antico toponimo di San Quirico d’Orcia», B «Sull’origine del toponimo Seggiano», in Eleiva Oleum Olio, a cura di Gabriella Barbieri, Andrea Ciacci, Andrea Zifferero, San Quirico d’Orcia, Editrice DonChisciotte, pp. 139-142. Note 1

Si veda ad es. Livio V 1: «Gens [gli Etruschi] itaque ante omnes alias eo magis dedita religionibus quod excelleret arti colendi eas…» «Gli Etruschi, pertanto, davanti a tutti gli altri tanto più dediti alle pratiche religiose, poiché eccellevano nell’arte di coltivarle…». 2 Per approfondire la grammatica etrusca si può consultare Wallace (2008), o in italiano Rix (2000). 3 Per questa scoperta recente sul plurale si può consultare Agostiniani (1992, 54-55). 4 A questa categoria appartengono la Tabula cortonensis o il Cippo di Perugia, entrambi di notevole lunghezza. In Facchetti (2000), riguardo a questi, si può trovare un’analisi linguistica. L’editio princeps della Tabula cortonensis è Agostiniani e Nicosia (2000). 5 Tra questi i più importanti sono: Tabula capuana e il Liber linteus. Il primo è considerato un calendario rituale, di cui è possibile reperire una monografia in Cri-

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Ricerche stofani (1995). Il secondo è l’unico libro di lino che c’è pervenuto dall’antichità e sicuramente, benché mutilo, il più lungo documento in etrusco con circa 1300 parole (Belfiore 2010, 11). La monografia più recente su questo argomento è (Ibidem). 6 Lo spunto è tratto da Facchetti (2001, 87), un’opera il cui taglio divulgativo consente all’autore di esprimere supposizioni con più libertà rispetto ad altre produzioni di taglio specialistico. 7 Per tutto ciò si può vedere Agostiniani (1992, 43). 8 In realtà l’etrusco è stato accostato geneticamente, in modo abbastanza certo a due altre lingue. La prima è il lemnio, parlato nell’isola di Lemno, per cui si può consultare Agostiniani (1986). La seconda è il retico, testimoniata nelle Alpi centrali, per cui si può vedere la monografia di Rix (1998). Sfortunatamente di entrambe queste lingue, estintesi prima della nostra era, non abbiamo che scarse testimonianze. 9 Per citare solo un esempio specifico, abbastanza recente, si può vedere de Simone (1989). Tuttavia per avere una visione sostanziale si dovrebbe partire almeno, dalla seconda metà dell’Ottocento con le opere, tra gli altri, di Pauli, Deecke e poi nel Novecento da Torp, fino ai nostri giorni. 10 L’editio princeps della Tabula è in Agostiniani e Nicosia (2000), mentre per la visione contrapposta si può consultare de Simone (2003). 11 Su questo e sull’importanza delle condizioni di verificabilità degli enunciati si può vedere Lepschy (2002, 118-121). 12 Prescindendo da espedienti soprasegmentali (di intonazione) o pragmatici (situazionali) il cambio dell’ordine dei costituenti in italiano provoca un cambiamento di senso sostanziale : Mario mangia la mela vs. la mela mangia Mario. 13 Per cui si può consultare Facchetti (2000, 103).

Riferimenti bibliografici AGOSTINIANI, L. (1986), «Sull’etrusco della stele di Lemno e su alcuni aspetti del consonantismo etrusco», in Archivio Glottologico Italiano, volume LXXI, Firenze, Casa Editrice Felice Le Monnier, pp. 15-46. — (1992), «Contribution à l’ètude de l’èpigraphie et de la linguistique ètrusques», in Lalies - Actes de session de linguistique et de littérature, 11, Paris, Presses de l’École Normale Supérieure, pp. 37-74. — (2003), «Modelli e metodi di ricostruzione di Restsprachen», in D. Maggi e D. Poli (a cura di), Modelli recenti in linguistica, Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia, Macerata 26-28 ottobre 2000, Roma, Il Calamo, pp. 109-133. AGOSTINIANI, L. e FRANCESCO N. (2000), Tabula Cortonensis, Roma, “L’Erma” di Bretschneider. BELFIORE, V. (2010), Il liber linteus di Zagabria. Testualità e contenuto, Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, Biblioteca di “Studi Etruschi”, 50, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore. CANUTI, M. (2008), Basco ed etrusco. Due lingue sottoposte all’influsso indoeuropeo, Pisa-Roma, Fabrizio Serra editore.

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CRISTOFANI, M. (1995), Tabula Capuana. Un calendario festivo di età arcaica, Biblioteca di Studi Etruschi 29, Istituto nazionale di Studi Etruschi ed Italici, Firenze, Leo S. Olschki Editore. ET: HELMUT RIX (a cura di) (1991), Etruskische Texte, Editio Minor, (ScriptOralia 23, Reihe A Bd 6), 2 voll., Tübingen, Gunter Narr Verlag. DE SIMONE, C. (1989), «L’ermeneutica etrusca oggi», in Atti del Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Firenze 26 Maggio-2 Giugno 1985, Istituto Nazionale di Studi Etruschi ed Italici, Roma, Giorgio Bretschneider Editore, pp. 1307-1320. — (2003), «Recenzione a V. Scarano Ussani - M. Torelli, La Tabula Cortonensis. Un documento giuridico, storico e sociale, Napoli 2003, pp. 115», in A.I.O.N Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, annali di archeologia e storia antica, Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico, Nuova Serie 8, Napoli, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, pp. 222-243. FACCHETTI, G.M. (2000), Frammenti di diritto privato etrusco, Biblioteca dell’“Archivium Romanicum”, Serie II: Linguistica, 50, Firenze, Leo S. Olschki Editore. — (20012) L’enigma svelato della lingua etrusca, Roma, Newton & Compton editori. — (2004), «Qualche commento alla “recensione” di de Simone ad Appunti di morfologia etrusca (2002), uscita su “Gnomon” 2004», in Ostraka, rivista di antichità, anno XIII, n. 2, luglio dicembre 2004, Napoli, Loffredo Editore, pp. 309-313. — (2005), «The Intepretation of Etruscan Texts and its Limits», in The Journal of the indo-european Studies, Volume 33, number 3 & 4, Hattiesburg, Mississippi, pp. 359-388. LEPSCHY, G.C. (2002) La linguistica del Novecento, Bologna, Il Mulino. POCCETTI, P. (20087), «Identità ed identificazione del latino», in P. Poccetti, D. Poli, C. Santini, Una storia della lingua latina, Roma, Carocci Editore, 1999. RIX, H. (20002), «La scrittura e la lingua», in M. Cristofani (a cura di), Etruschi una nuova immagine, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1984, pp. 199-227. — (1998), Rätisch und Etruskisch, Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft, Vorträge und Kleinere Schriften 68, Herausgeber: Prof. Dr. Wolfgang Meid, Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck, Innsbruck. WALLACE, R.E. (2008), Zich Rasna. A manual of the Etruscan Language and Inscriptions, New York, Beech Stave Press, Ann Arbor.

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THE “SHAPE” OF POST-MODERNITY AND CONTEMPORARY ART: PEDAGOGICAL REFLECTIONS AND DIDACTIC SUGGESTIONS F. d’Aniello, F. Goffi Riassunto: Questo articolo si propone di evidenziare la significatività del contributo dell’arte contemporanea in ordine alla comprensione e alla possibile risoluzione di determinati temi e problemi educativi propri della complessità postmoderna, sia sotto il profilo della riflessione pedagogica sia sotto quello dell’agire didattico. Nello specifico, nei primi due paragrafi si fa leva sull’arte contemporanea quale mezzo ermeneutico privilegiato per chiarire la centralità del concetto di “forma” nella postmodernità, insieme ai suoi risvolti identitari, comunicativi ed esperienziali; nel terzo paragrafo si concentra l’attenzione sulla carica mediativa delle opere d’arte contemporanea e, quindi, sui vantaggi derivanti da un eventuale interazione proficua tra la didattica dell’arte contemporanea e la didattica in generale, specie quella costruttivista; nel quarto paragrafo, infine, si prende in considerazione il rapporto tra arte contemporanea, intersoggettività e formazione di personalità critiche rispetto all’espansione del “tecnologismo”. Abstract: The aim of this article is to highlight the importance of contemporary art in understanding and potentially resolving particular educational issues and problems arising within the post-modern complexity, both in terms of pedagogical reflection and teaching practice. In particular, in the first two sections we consider contemporary art as a privileged hermeneutical means for clarifying the centrality of the concept of “form” in postmodernity, alongside its identity-forming, communicative and experiential implications. In the third section we focus on the meditative power of contemporary art works and on the potential benefits to be had by fostering interaction between the teaching of contemporary art and teaching in general, especially within a constructivist framework. Finally, in the fourth section we consider the relationship between contemporary art, intersubjectivity and the development of critical thinking in the light of “technologism” expansion. Parole chiave: Postmodernità, arte contemporanea, educazione, conoscenza, intersoggettività Key words: Post-modernity, contemporary art, education, knowledge, intersubjectivity.

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1. The “shape” of post-modernity Since J.F. Lyotard (2002) has coined the term post-modern, there have been several attempts to delimit the semantic-conceptual boundaries of the lemma. For some, in fact, post-modernity can be identified with Nihilism and it has to be intended as «the last temptation of a secularization which produces drifts, ruins, losses». For others, it coincides with «the advent of Technique, for better or for worse». For others, still, inasmuch supposed carrier of freeing energies, it rises to a “time to be welcomed” and, «for it is free, surely, even to be governed, putting in the middle a social commitment (solidarity)» and «the formation of subjects (subject-as-person), in a way to eclipse every interpretation of the postmodern as drift» (Cambi, 2006a, 26). Others, finally, wonder whether it is «a style (aesthetic/ethic/rhetoric), a historical condition or a cognitive strategy (representative strategy/hermeneutic attitude) […]» (Giaconi, 2008, 47). Beyond giving in to a flattery or to defining synthesis, it is without a doubt, nevertheless, that post-modernity is characterized by complexity. A complexity nurtured by pluralisms, comparisons and oppositions, tensions and transitions, de-constructions and re-constructions, on the background of which appears an ambiguous and contradictory subject, governed more and more by the media, guided by a restless and multiple Self, that «is in charge of its own orientation of meaning and that does it by forming itself in autonomy/responsibility/projectuality» (Cambi, 2006a, 26). Despite the homologating tendencies of the twentieth century, in fact, this subject feels the onerous responsibility of its own becoming a person and, by appealing to a «open formativeness […], which works with interpretation» (Ibidem, 55), he questions post-modernity and its meanders to create adequate spaces in which the leading role of the own educational processuality can be celebrated. Questioning postmodernity, nevertheless, means managing to install a dialogue with the notion which, more than anything, informs post-modernity itself, such as “shape”. The concept of shape, in reality, dominates the scene and the post-modern anthropological condition, or better the idea of a “very new shape”1, which can be explained, according to us, through the comprehension of the nature of contemporary art, if it is true as it is, on the one hand, that the adjective post-modern originates in the context of aesthetic studies and is plausibly in connection with the artistic avant-gardes of the dawning of the short century (Signore, 2003, 21-23) and, on the other hand, that it reckons “shape” as a crucial matter.

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2. Contemporaneity reflects itself on arts As previously mentioned, contemporary art can constitute an exemplary area from which to start to refresh changes which have happened during the passage from modern to post-modern and, at the same time, clarify the so called shape. Let’s analyze in depth the subject. If abstract art tended to represent the essence of the artistic phenomenon, contemporary art sees the gradual disappearing of the object, with the aim to put art itself as an institution into question. «The appearance of the work of art and of the aesthetic object in general reaches our eyes in terms of an indefinable shape or structure, often edified with a bricolage operation on the ruins of the past tradition» (Carmagnola, Senaldi, 2005, 57). This is because with the affirmation of technologic society we can assist to the identification of aesthetics with the media, which distribute information and create consensus too, unifying tastes and common feelings. In the face of this phenomenon, art reacts with unapparent non expressivity, or miming the most banal and squalid appearance, caused by the extreme aesthetics of Lebenswelt. This fleeting separation between real and imaginary is defined by F. Carmagnola with the expression of “sad science”: «the imaginary not as a utopist excrescence, motive of hope for what concerns the effectual, but as a veil or spectral symptom» (Carmagnola, 2002, 42). We cannot avoid thinking, then, of M. Duchamp’s art, that moves the eye of the artist on certain objects and does not produce them, for the ready made defines «an equivalence between choosing and fabricating, consuming and producing» (Bourriaud, 2004, 17). An emblematic case, in this sense, is also represented by Pop art, which «is a reaction to a philosophical question on the nature of art: why is something art even when something exactly the same isn’t?» (Mecacci, 2007, 199). We can use A. Warhol’s art as an object for analysis. Who does not know his works depicting in series the face of Marilyn Monroe, or the cans of Coca-Cola or Cambell’s soup? «Warhol’s art has always to do with merchandising because it is our own life which confronts itself with the surface of the world: we never see soups, but the object or the brand of food which is no more a cultural elaboration of nature by man, but something produced by machines» (Ibidem, 200). Another interesting aspect is the work of this artist conducts to the thematic of mask, of the identity of the individual. Warhol, briefly, seems to want to make us reflect on the fact that every experience, nowadays, is mediated by the iconic power of the new means of communication, so that the contemporary artist uses art to reflect upon the human condition, dictated by contemporaneity. «We, as symbolic infants, perhaps manage to narrate ourselves, through contemporary art, as we have never managed to do before and we are astounded

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to see ourselves; we are astonished to stop “not seeing to not see” at least for a while» (Morelli, 2010, 88). G. Ritzer, in his essay, dating 1996, Il mondo alla McDonald’s, talks about lifestyle, «a term from post-industrial marketing, for which goods are usage value but carriers of worlds of meaning» (Regni, 2002, 85): shape becomes the element which tries to hit the consumer, regardless of the real functional value of the object, risking to actuate «a functional interaction not only with things, but also with people» (d’Aniello, 2009, 29). With the phenomenon of macdonaldization (or standardization), we intend the effect of globalization, that is the homogenizing convergence of cultural symbols and forms of life: «the principles of fast food food service are standing out more and more in a rising number of sectors in American society and in the rest of the world» (Regni, 2002, 135), provoking the affirmation of aspects – such as predictability, efficiency and calculus –, which also reflect on the world of education. For example, when reproduced programmes, lessons and course books are preferred, and when the spreading of “computerization” itself risks to marginalize the learning full of experience, contributing to the formation of minds all but creative. The creative activity depends on the individual’s previous experience, «for this, experiences in series, all similar to one another, in reality have little value of experience» (Ibidem, 142). What we are assisting to is a “progressive loss of experience” (Regni, 1997, 183), a phenomenon mainly provoked by the exchange of illusion and reality, desires and needs, and which the post-modern subject tries to compensate with consumption (Bauman, 2012, 116)2. This concept of shape as appearance, fusing information with communication and generating shared emotions, would also be responsible, according to Z. Bauman, for the satisfaction of the “desire of community” of the post-modern subject. The aesthetic community, according to the sociologist, would be the most suitable to interpret the necessities of identity of the contemporary man, offering him «the possibility to get rid of an identity the moment in which this stops satisfying or loses appeal compared to other more seducing available identities»; a possibility which is «more important than the “realism” of the current lounged identity or momentarily achieved and enjoyed» (Bauman, 2001, 63).Those, who exert the guide function in such context, seem to be celebrities, people from the showbiz who appear as charismatic as ready to disappear whenever they are no more appropriate for the fashion and dominating trends. Connecting such considerations to some works of contemporary art results as natural. Let us think of the ready mentioned portraits by Warhol, or simulacra by J. Koons, that seem to put the consumer in front of what

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is the essence of aesthetic community. The former artist, in particular, through his “banal”3 works, seems to suggest that we reflect on the condition dictated by our society; however, it is better to accept having bad taste instead of not having any or being completely “anaesthetized”. As A. Danto states, in the Banality series the message is «be yourself, don’t demand to be another one you imagine superior to yourself. Your taste is good the way it is» (Danto, 2009, 19). Going back to Bauman’s analysis, not only we can intend the characters of the showbiz, but we can also include every problem or aspect based on experience, as the target weight, or every frivolous and occasional event. «Whatever their pillar is, the common trait to all aesthetic communities is the frivolous and superficial, and transitory, nature of the connections established among the members» (Bauman, 2001, 69).

3. The active role of the audience: the art of “constructing knowledge” F. Cambi states that contemporary art deconstructs canons, “opens a new vision”, stimulating «the capacity to look beyond tradition, to think/ organize different visions, also plural, also heteroclite, in which allegory, symbol and metaphor become more and more central, forcing art to denaturalize itself» (Cambi, 2005, 247). In this de-structuring accomplishment, works of contemporary art aim to operate on the world through the spectator. The action of the artist is transformed into an interaction and artists ask the consumers to cooperate towards the “construction” of the work’s meaning to complete its significance, which, therefore, is constructed in relation to an outer world at which this glances critically. The (risky) consequence of such operation is that if the spectators do not understand the artist, the work is not succeeded: «that is why we think we can conduct actions of mediation» (Ceva, 2004, 69). Contemporary art looks for the disorientation rather than the engagement of the spectator and shape, this way, since the first already mentioned avant-gardes, «becomes a formative paradigm acting according to the indication of the new aesthetics, with the new echoes of surrealism, of Dadaism and of what is informal, etc.» (Cambi, 2006b, 28). The concept of mediation, when we talk about contemporary art and education, appears to have a very relevant role, because most of the times certain creations have a sense which is determined in specific contexts and communicative situations. «The tool which helps the spectator then, the consumer of contemporary art, to penetrate this sense, to give it a direction transforming it into meaning, is the didactic of art» (Centonze, 2007, 89). For this reason, this leads back to certain concepts introduced

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by Constructivism, which privilege interactions among students and disciplinary themes, didactic methodologies based on problem solving, on role playing and on cooperative learning, which are linked to an interpretation of learning through discovery, for it is able to stimulate divergent thinking. Moreover, it is worth stressing that constructivist approaches in didactics are in line with the paradigm of complexity: «for the methods it is necessary to fix the value of the constructivist method which looks at the accomplishment of knowledge based on the principle of research, and of a research which constantly keeps its variety of methods open, implying a constant meta-cognition of itself» (Cambi, 2003, 133). Therefore, the question which seems to generate other paths of research consists of wondering whether contemporary art’s didactics can offer suggestions to understand the educative role of contemporary art itself. H. Illeris affirms that the challenge of contemporary art in postmodern age sees «on the one hand the work not as an object but as a form of social relation, on the other the formation as a self-construction of the individual» (Illeris, 2010, 105). Contemporary art is founded on performance4, represented by all those behaviors staged and freely constructed by an individual, fostering a different concept of corporeity even in the meeting of work of art and student. If, in fact, in standard museum lessons one used to recur to a contemplative body – typical of the student, who would wander as any other visitor and would then contemplate with admiration, although passively, the various works –, in current laboratories centered on contemporary art, instead, we can talk about a pseudoproductive body, that accepts those challenges given by contemporary art to art’s didactics itself. «It is then that the approach to contemporary art is multisensory; we should, in front of a work, “re-open” all our senses, for, in order to get in touch with it, we should be able to listen to it, touch it, smell it, taste it and see it» (Dallari, Francucci, 1998, 144). In this perspective, the work of art establishes a relation with the body of the spectator, giving rise to a kind of teaching where the protagonist is the student and where the work of art contributed to the strengthening of a personal feeling of identity. Therefore, the work of art consists more and more of the social relations which it is able to establish with artists, young people, material and work, and the performances of artists can represent an inspirational factor for the organizational mode of didactic meetings which include engagement and reflection. If contemporary art values the function of didactic mediation, it is interesting to notice that the emphasis can be also put on the educator’s body, not only on the pupils’ ones, and all of this through the concept of performance: «didactics is technology of performance […] and it can be considered equally as the theater is considered a technology of view» (Rivoltella, 2012, 159). Also with E. Damiano, we can talk about the di-

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dactic action as a real seducing performance, which, although centered on the affective dimension transmitted by the physical presence of the educator, needs to help the pupil construct their own knowledge independently. According to Damiano «the seductive educator needs to give way to the seductions of knowledge» (Damiano, 2007, 201), a concept which seems to fit in well with what J. Baudrillard defined as the age of seduction. «Our society of consumption well knows the power of aesthesis pathos and uses it to make its products more and more appealing, to the most outrageous seduction» (Bottero, 2003, 249), therefore, borrowing E. Bottero’s thought, the teacher should exploit this aesthetic pathos to instill a sense of wonder towards the object to be known in the pupil or to involve the latter in the learning of relevant ethic aspects.

4. Contemporary art and new technologies: “face to face” relations or electronic interface? Other ideas for pedagogic reflection come from the consideration of «mediality as a proper field of action for creativity and for the aesthetic consumption: mediality constitutes, indeed, the ultimate dilatation of the aesthetic territory» (Senaldi, Carmagnola, 2005, 43). For this reason, this context of enlargement of the aesthetic sphere in our own daily experience makes the cognitive orientation harder and harder even for the adult. M. Costa talks about the disenchantment of the contemporary world following the predominance of technology; phenomenon to which art has decided to respond with a progressive de-materialization of the work of art and the reduction of art to a mental level. The events beholding to imaginary are more and more difficult to distinguish from technologies, so the contemporary artist is the one who experiments new ways of meaning and suggests new approaches to fruition as results to new technologies, which also allow to produce those which have always been the languages of various arts, in an automated way. A. Piromallo Gambardella affirms that by simulation it is intended the capacity of means of communication to make direct experience more “mediated”, de-realizing what is real and giving, then, a new interpretative model of itself. In particular, the individualistic usage of the medium requires «a process of de-massification of the audience in favor of a more complete integration of the spectator’s body with the electronic device» (Piromallo Gambardella, 1993, 63). It follows that the spectator does not try to establish a dialogue with images offered by different media, but it surrenders to them. A similar phenomenon is well highlighted by videoart5, or «the artistic use of the video, which images often evoke those effects of “drift” and “dissolution”, fluidity, which recall the operation

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of flaking meaning and structure actuated by neo-television» (Ibidem, 64). We talk about images of synthesis, or better those which tend to lose all relations with the real datum, thanks to the massive intervention of technology. Failing to meet the possibility of a dialogue and of an analogical communication – see the case of the images above – the ethic component should be conveyed by aesthetics, or better by the possibility to «giving a concrete shape to information» (Piromallo Gambardella, 1994, 279) selecting and choosing what could be the best shape to give to the synthetic image. The attention towards new multimedia technologies, moreover, «strongly recall a renewed didactics, which considers its traditional statutes and in which art, the creative dimension of the individual finally contributes to the balancing of this man of the third millennium» (Bua, 2010, 13). The contribution that creativity and art can give to media education, therefore, seems to coincide with the re-balancing of the excessive technicistic aspect, with the aim to preserve the human character of the relation with the knowledge of a complex society. Therefore, dialogue and cooperation, altogether with the development of a critic sense and of what is imaginary: to make sure that education is not defined by a disproportioned technicism. A. Nanni, drawing from the UNESCO report by the National Commission for Education in the XXI century, underlines that, even if technologies, new artistic forms and virtual time and space are sources of a new relationship with knowledge, «the more a child is exposed to mass media, to a virtual reality, the more he will need to be educated to face to face relationships and to intersubjectivity» (Nanni, 2000, 51). Not exclusively to “counter-balance”, but also because, if modern children tend to form themselves more and more independently, choosing from several societies and cultures the models they want to refer to (given the increase of virtual relations and the diminishment of direct ones), then it is helpful to stress on the reinforcement of an “educating intersubjectivity” which can account as a gym for the dynamic conquer of a “capacity of separation”, of «a real “selective self”, an autonomous personality, free, able to seize messages and to form an own vision of the world» (Ibidem, 53). According to E. Frauenfelder, the overload of information spread by the means of mass communication should have an impact of environmental factors, defining them with such a variability which does not allow the subject to decode the messages correctly, producing «difficulties to communicate which could block the individual in a radical solitude or in a private an inaccessible world, often expressed with aggressive and incontrollable behavior». Therefore, if, following the stimulations

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produced by new technologies, the environmental factor results as little pedagogically manageable, at a cognitive level, «instead more space to the educative intervention can be hypothesized at a relational level» (Frauenfelder, 1993, 94-95). The nucleus of our argumentation is here, in the proposition of contemporary art as the carrier of a valid contribution in such context. Beyond those aspects which have already been mentioned, it is worth remembering that N. Bourriaud, coining the definition of aesthetique relationelle, confirms the fact that in contemporary art «it is the social relation itself which constitutes the shape […], not the physical material eventually used» (Illeris, 2010, 114). Contemporary art is, in fact, «a form of art whose intersubjectivity forms the substrate and which assumes the being-together as a core theme, the meeting of the observer and the painting, the collective elaboration of meaning» (Bourriaud, 2010, 14). Bourriaud states that a contemporary art exposition would be able to realize what he calls “the civilization of proximity”, some zones of communication which favor spaces and times which are different from the daily ones. The production of a shape, then, is loaded with a strong ethic intentionality, because such perspective can also mean creating possible meetings, for the representation of a desire which, also, through the spectator’s overlook, can lead to new developments. In this sense, contemporary art would favor the development of that aesthetic conscience which is useful to transform “the society of knowledge” to a “society of understanding”. «One should then reflect on the fact that the “society of knowledge” risks the submission to the regulations and imperatives of the technopolis, if it is not finalized and it can find its deep motivation in the “society of understanding”» (Mollo, 2005, 255). G. Mollo states, then, that the element which would allow the subject to face the disorientation caused by globalization would be the action of keeping the sense of humanity alive, of developing a form or ethic intentionality which has as a core element what unites peoples and cultures. In conclusion, the creation of aesthetic and experimental relations between pupil and contemporary art would help, apart from a strong comeback of experience (Senaldi, 2007, 49-60), also the understanding of the contemporary world. The co-creation of relations, in fact, configures itself as one of the pillars of post-modernity: «the only reality to which we can appeal is not our inside, but our getting in touch with the other, with what is different, it is making this relationship the only possible reference point in our post-modern society» (Romano, 2005, 213).

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Authors’ presentation: Fabrizio d’Aniello is Associate Professor in General and Social Pedagogy at the Department of Education, Cultural Heritage and Tourism of the University of Macerata, where he actually teaches General Pedagogy and Theory and models of education processes. Federica Goffi has obtained her doctor degree in Theory of education in March 2013, at the University of Macerata. Her doctoral dissertation was about the role of the aesthetic experience and education in the phenomenology pedagogy, in order to point out some pedagogical perspectives to educate in the era of complexity. Notes 1

According to Carmagnola «the shape which emerges […] is the unaesthetic product (in the sense that it denies good form, the perfectio) which contributes, paradoxically, to the complete anesthetization of the world» (Carmagnola, 2000, 60-61). 2 Z. Bauman, Conversazioni sull’educazione, it. translation, Trento, Erickson, 2012, p. 116, where it is affirmed that «empting the wallet or raiding one’s own credit card takes the place of the abandon and of the sacrifice of the self that the responsibility of the Other requires». 3 On this aspect see also F. De Bartolomeis, L’esperienza dell’arte, Scandicci, La Nuova Italia, 1989, p. 284, where it said that the «banalisation […] stimulates the attention to concentrate on things which have a strong importance, they determine us, but we still let go by indifferently to the vision and use». 4 See also R. Barilli, Il ciclo del post-moderno, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 79, where it is stated that all arts tend to performance, as visual art is now characterized by the abandon of the painting and the invasion “of real space and time”. The interest for the real movement offered by the muscular energy or the body finds as alleys technologies paradoxically, as a film, a VCR, which allow the recording of performance. 5 On this aspect see also A.M. Repetto, L’interattività del video: percorsi di riflessione, in D. Parmigiani (a cura di), Tecnologie per la didattica, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 88-103, where she stresses on the fact that the video editing, since it is imposed by an outer entity, exerts a strong persuasive power on the user, it is as if it captured the look exploiting a channel of visual communication.

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CON MARITAIN OLTRE IL NOVECENTO: VITA E PENSIERO IN DIALOGO NELLA VERITÀ Carlo Pantaleo Nel caleidoscopio dell’esperienza del pensiero contemporaneo Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain di Piero Viotto offre una articolata e innovativa prospettiva di ricerca sull’opera dei pensatori che continuano a interrogare questo passaggio d’epoca. Vita e pensiero sono necessariamente in dialogo circolare, ma verso quale senso ultimo? Come educarci a conoscere e a conoscerci nell’oggi che viviamo e pensiamo? Quali i dilemmi del nostro tempo e del nostro futuro, proprio là dove normalmente acquisiamo scienza ma tralasciamo saggezza? Perché sentirsi responsabili non solo delle proprie azioni e di una scrupolosa esecuzione, ma anche degli altri e di quelle che li riguardano? Sfidando e mettendo a nudo la tragedia dei pensieri dell’umanesimo così come giungono al nostro presente, si sente la necessità della capacità di recuperare un vero e proprio pensiero integrale. Il nodo problematico non è più solamente quello di una nuova società, perché oggi più che mai è in crisi l’idea stessa di persona che ne è il soggetto protagonista. L’apporto inestimabile delle sole scienze non ha dato i suoi frutti. Heidegger constatava che «Nessuna epoca quanto la nostra ha accumulato sull’uomo conoscenze così numerose e diverse... nessuna epoca è riuscita a rendere questo sapere così prontamente e così facilmente accessibile. Eppure nessuna epoca ha saputo meno che cosa è l’uomo». Non si tratta più solo o primariamente delle relazioni circostanziali che si instaurano nella costruzione della civiltà, ma della necessità di saper e sapersi pensare senza farsi travolgere dal mondo nuovo. «Resta tuttavia, e questo Kierkegaard l’ha mirabilmente visto, che è il singolo che esercita l’atto di esistere, che è il singolo che esercita l’atto di conoscere... che è il singolo che si salva o si perde per sempre, che con le sue azioni e nientificazioni, nella sua relazione con Dio e con le creature, contribuisce a dar forma ai destini del mondo». Anche se contrariamente alle sue intenzioni, ogni sistema che essenzialmente ignora la persona umana, condanna definitivamente l’uomo a essere uno schiavo del proprio prodotto. Non si disgrega la società e la persona stessa quando si aiutano a capire che sono vittime esse stesse di errori fatali, tra cui i propri. L’esempio negativo può diventare come un momento di crescita. La nostra cultura invece tende a concentrarsi solo su quelle che ritiene le sirene delle “Best practices” di successo, e ciò vale anche per il pensiero. Ma in questo modo esso diventa come prigioniero di una schema, di una ragione calcolante con premesse non discusse. Sarebbe molto meglio

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si cominciassero ad affrontare le “Worst practices” che sono quelle che fanno la differenza. Del resto l’esperienza ha le sue radici proprio negli insuccessi ed è per questo la storia del pensiero ne deve tener conto. Essa deve essere una storia di verità, di una verità per e con la persona umana per il suo pieno sviluppo, apprendendo anche dai fatali errori e dal cattivo pensiero. Sbagliare è umano ma diventa disumano perseverarvi. L’esperienza è prodotto degli errori che si compiono, ma anche e a maggior ragione, di quelli che si intercettano e prevengono prima che arrivino alla conseguenza finale dell’evento avverso. Anche a un passo dalla fine ci deve essere la possibilità correggersi, ma perché accada serve un pensiero capace della necessità di imparare dall’esperienza e dagli errori. Quindi si può e si deve esporre anche quelle teorie e dottrine, che alla luce delle esperienze e conoscenze successive, si sono rivelate falsificate come ricerca o ricondotte contro la stessa persona e il suo riconoscimento. Permettendone di comprenderne il limite intrinseco per superarne la crisi, particolarmente ricca di implicazioni e confronti è quest’opera di Viotto. Molto più di una rielaborazione di quanto Maritain ha scritto, in essa ogni ricerca o indagine dell’uomo, anche particolare, diviene necessariamente sull’umano in quanto tale. Emblematico è il titolo della sua stessa introduzione al volume: “Dal criticismo al pensiero debole”. Nella lettura del testo, anche per moduli tematici o per pensatori, attraverso le riflessioni in profondità avviene un coinvolgimento personale che le sviluppa e tiene conto delle relazioni sociali e del contesto storico a cui si appartiene. Questa opera ha il pregio e la responsabilità di farci pensare. Ci aiuta e ci spinge in questa direzione senza mai ridursi al solo acquisire elementi di storia della filosofia. Ne è necessariamente anche un riassunto, ma la sua lettura ci interroga e invita ancor più ad approfondire, sia quanto si legge nelle sintesi espresse che gli interrogativi che si aprono. Certo ogni filosofia si proietta anche nel futuro, ma in questa lettura le prospettive che si generano sono come accompagnate e verificate in un dialogo continuo di esperienza e considerazioni, comprese quelle nel passaggio tra un pensatore ed un altro. Compiendosi certamente con l’uso della ragione, si tengono sempre presenti le connessioni fra i singoli sistemi e problemi. Ancor prima, questi sono uniti alle esigenze vive dello spirito umano che anela a interpretare universalmente tutta la realtà.

Un pensiero per la vita Il pensiero integrale che emerge deve quindi saper ascoltare gli altri pensatori di cui si tratta andando direttamente alle fonti, piuttosto che solo alle letture che se ne fanno. Questo recupero e riforma del pensare deve essere esigente rispetto alla realtà, ma anche frutto di un sapere in-

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terdisciplinare che tenga conto di tutte le dimensioni della persona, che è valore morale e realtà ontologica. Confrontandosi con i presupposti, le sintesi e il modo di procedere dei diversi pensieri, si organizza in una forma tendenzialmente oggettiva rispetto a quanto emerge di soggettivo nell’esperienza compiuta. Infatti tra gli esistenti l’essere umano è l’essere che come persona più si eleva sulle cose e dall’azione, potendo partecipare all’Essere. La sua dignità significa il diritto ad essere rispettata e che è soggetto delle relazioni sociali con i suoi diritti e doveri. Come afferma l’autore Piero Viotto nell’introduzione: «Articolo l’analisi del multiforme mondo delle correnti di pensiero contemporaneo in due parti, perché pur riconoscendo tutte il valore, la libertà, l’autonomia della persona umana nella sua individualità, alcune, dipendendo dall’impostazione kantiana, riconoscono questa dignità solo come un valore morale, e rimandano ad una soggettività empirica, mentre altre, rifacendosi, in modo più o meno esplicito, alla filosofia dell’essere, riconoscono l’ontologia dell’essere uomo». La filosofia apprendendo ad apprendere dalla sua stessa storia e dal vissuto umano, tra le nostre conoscenze diviene scienza della verità, spingendo sempre più alla ricerca per imparare a vivere veramente. Non vivacchiare o sopravvivere, ma «sostenere l’uomo e l’intelletto umano di quell’atto, l’adesione alla verità, nel quale consistono ad un tempo la dignità dell’uomo e la sua ragione di vivere». Aderire non è solo un insegnare a cercare rischiando l’illusione di possedere, ma è educare a trovare e a vivere la stessa verità, superandosi continuamente nell’aiuto reciproco. Il deposito dei tanti pensatori del passato e del presente, può essere questo scrigno in cui cercare e confrontarsi per trovare risposte. Come in una filigrana i diversi capitoli del libro ne rappresentano in successione i passaggi fondamentali: “Oltre l’illuminismo”, “L’età delle ideologie”, “La crisi della modernità” e “Incertezze e speranze”.

Pensare in dialogo, capaci di verità Ben più di un compendio di storia della filosofia e dei filosofi rielaborandone in nozioni quanto ha scritto Maritain nei volumi dell’opera omnia, quest’opera è piuttosto un’introduzione alla realtà e alle tendenze del nostro tempo. Non è «il pensiero di un uomo solo, ma un pensiero in dialogo, capace di trovare la verità ovunque essa sia, anche nei sistemi diversi dal proprio, non essendo la verità esclusiva di un sistema filosofico, ma inclusiva di tutti coloro che la cercano... Chi pretende l’esclusiva della verità, non la condivide, non accetta che altri, per altre strade, possano raggiungere la medesima verità». Viotto collabora con diverse riviste ed è autore di numerose pubblicazioni. Ha dedicato una vita intera allo studio e all’insegnamento, oltre a far conoscere Jacques e Raissa Maritain.

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Per primo ha eccellentemente curato l’edizione italiana di “Umanesimo integrale” del filosofo francese attraverso cui ne aveva così permesso una profonda conoscenza e divulgazione, ad una platea ampia quanto trasversale. In piena sintonia con Maritain, nei suoi scritti e introduzioni che ne richiamano tutte le opere, ricostruisce anche qui con linguaggio semplice i passaggi fondamentali e le direttrici innovative, offrendo continuamente spunti e proposte che divengono impegno per l’attualità. Da cristiano, il pensiero di Maritain si rivolge così a tutti gli uomini di buona volontà nel tempo che vivono, per ricercare la garanzia di una libertà corresponsabile nella tendenza alla giustizia sociale. È questo un modo e una via efficace per vivificare il sociale, permettendo a Cristianesimo e democrazia di ritrovarsi insieme nella distinzione, purché l’esser persona sempre preceda e conduca il pensare e l’agire, il contratto e la legge, l’individuo e la società. Come spiega Viotto, in Maritain i nomi dei pensatori e delle correnti di pensiero precedenti e contemporanei, connettono «in continuità le diverse modalità del filosofare, che variano con il susseguirsi dei filosofi nella storia, con la filosofia, che rimane invariata nella sua problematica per ogni uomo, che, rispettando l’oggettività della sua ricerca, non la risolve nella soggettività del suo pensare». Nella conclusione del libro, nell’ultimo paragrafo su “Il ritorno della saggezza” così si legge: «Se gli uomini nel travaglio della storia sono riusciti a trovare un accordo pratico sui diritti dell’uomo, riconoscendo a ciascuno la libertà di coscienza, è perché si sono liberati dalla presunzione illuministica di essere legge a loro stessi e dalla sovranità dello Stato come assoluto nella storia. Dall’idealismo della ragione trionfante sono tornati al fenomenismo del pensiero debole, facendo un passo avanti possono ritrovare il realismo della conoscenza e riscoprire il diritto naturale come fondamento del loro accordo». La costante struttura logica del pensiero Non bisogna dimenticare che in Maritain la logica è studio della ragione nella percezione e consapevolezza di quello che fa e comporta. Per approfondirne l’analisi ne ha scritto anche un trattato, ma in tutte le sue opere che hanno un linguaggio discorsivo, c’è sempre costante una struttura logica. Nelle differenze di metodologia e linguaggio, ci sono così elementi di continuità e convergenza che come un’ossatura attraversano i diversi campi del sapere. Senza contraddirsi il suo non è un realismo ingenuo che storpiando la realtà la vorrebbe conservare in una facile e statica rappresentazione. È invece un purificare, liberare ed aprire il senso comune per riportare la logica a critica che verifica la validità dei ragionamenti, sempre in rapporto alla realtà delle cose. Da questa cogenza dipende l’azione e la sua conformità. Maritain rileva che «i concetti

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sono prodotti dallo spirito prima di essere assemblati, nel senso che le parti della proposizione (prese separatamente e in loro stesse) sono conosciute prima di questa; perché la semplice apprensione precede il giudizio». Come in Karl Popper la conoscenza procede per congetture e confutazioni che tendono alla verità, perché la mente accostandosi ai fatti è impregnata di teoria, cioè precomprensioni. C’è dunque bisogno dell’apporto di ognuno perché in questo confronto il binomio conoscenza e convivenza non scada nella confusione tra errore ed errante, non si pieghi né abdichi al proprio compito, ma divenga invece premessa dell’umanesimo personalista e comunitario. Ci sono molte corrispondenze con la società aperta di Popper, ma anche con quell’amicizia civile che Bergson riprende per la città aperta, capace di abbracciare l’umanità intera. L’aspetto cruciale non è chi è dentro o fuori, oppure l’esserne ritenuti tali per un’appartenenza individuale o di gruppo predefinita, ma «Si tratta di passare da un ordine a un altro: dall’ordine di società chiusa all’ordine, infinitamente differente, della società aperta e spirituale, in cui l’uomo è unito a quell’amore stesso che ha creato il mondo. Tutto questo è vero. Ma anche qui la semplice considerazione dello sviluppo in estensione è solo accidentale». In questo rapportarsi alla realtà nella forma della verità è richiesto il coraggioso impegno di ciascuno e di tutti, ma avanza non a prescindere, non imponendolo, non per convenienze, convenzioni o inclinazioni, bensì sperimentando la convinzione e la convergenza del bene sempre possibile e operante. Trattando di Maurice Blondel che contrapponeva la conoscenza intellettuale a quella reale sperimentabile nell’affettività: «egli dichiara che questa conoscenza corrisponde senza dubbio a un momento dello sforzo dell’intelligenza in cerca di un reale più reale del reale apparente, ma afferma che quella stessa conoscenza è incapace di soddisfare un tale desiderio e di mettere la nostra intelligenza in possesso del suo proprio oggetto... Esiste una bella differenza tra l’affermare che la filosofia non basta e il costruire una filosofia dell’insufficienza».

Conoscenza che diviene convivenza La conoscenza è ricerca autentica della verità che diviene amore. Proprio perché possa vivere non va tenuta per se stessi, bensì comunicato e donato per il bene di tutti: «Come Bergson ha dimostrato nelle sue profonde analisi, è stato lo slancio di un amore infinitamente più forte della filantropia predicata dai filosofi, in quanto esso è la manifestazione in noi dell’amore creatore degli esseri e rende veramente ogni essere umano nostro prossimo, a far valicare all’abnegazione umana le frontiere chiuse dei gruppi sociali naturali, gruppo familiare e gruppo nazionale, allargandola a tutto il genere umano... un tale amore, esteso a tutti gli uomini, trascende

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e contemporaneamente trasforma dall’interno la vita propria del gruppo e tende a riunire l’intera umanità in una comunità di nazioni e di popoli in cui gli uomini siano riconciliati». Questa opera ne offre davvero gli strumenti critici essenziali di comprensione. In questa prospettiva la sfida che Viotto si propone non è quella di affrontare questo o quell’aspetto della filosofia o di un sistema filosofico, ma di porsi sul piano più generale della forza del pensiero in quanto tale, proprio per superare l’imperante antropocentrismo del relativismo e del nichilismo. Si esce dalla crisi di senso con un recupero del pensiero classico e scolastico, «del realismo di san Tommaso, senza perdere i valori espressi dalla modernità, tanto da parlare di realismo critico». Questa dinamica permette di uscire dall’imprigionamento del processo cognitivo-centrico e dalla relativa debolezza del pensare che sostituisce i concetti ai simboli. Maritain riconosce che «non è nell’intellezione ma nel giudizio che l’intelligenza possiede propriamente la verità», ma «ripugna l’assoggettamento alla cieca costrizione delle forme a priori kantiane». Si potrebbe dire né padroni, né schiavi neanche di sé stessi e del proprio pensiero. Come si umanizzasse, esso diventa una riconquista della libertà di coscienza e dell’esigenza di un pensiero cogente dentro e dalla stessa persona. Essa ne è il soggetto, piuttosto che l’oggetto prevalentemente condizionato da fattori esterni, che ne sono pur conseguenza. Aiutare «a prendere coscienza dell’importanza del problema della personalità morale», non significa concettualizzare talmente l’essere umano da credere di potersi salvare da solo con i propri mezzi. Così facendo se ne ha invece accelerato la possibilità della sua stessa fine. Confondendo «la libertà di scelta con la libertà di autonomia, facendo della volontà umana la regola delle proprie azioni, ha generato un superuomo». Questo «si è rapidamente decomposto, di modo che dopo avere rivendicato un’indipendenza divina, l’uomo del materialismo psicologico o sociologico contemporaneo cerca invano se stesso nei conflitti e nei fantasmi del mondo sotterraneo dell’inconscio o nei meccanismi della vita sociale». Non si può e non si deve risolvere l’umano e il suo pensiero in un impassibile divenire dialettico dove “si sostanzializza il nulla, e il male diventa un protagonista della vita come Nietzsche ha profetizzato e Sartre ha teorizzato”. Senza speranza non vi è giustizia nel presente, perché nel fare che diviene un “per fare” ad ogni costo si emargina, anziché accompagnare e promuovere, la persona che è al centro delle relazioni sociali. «Nel mondo anglosassone il pragmatismo giunge ad affermare il principio del successo, facendo della riuscita il criterio della verità. È la logica di mercato, per cui una cosa vale se rende, e il concetto una sorta di previsione della riuscita (marketing)». Una società libera e giusta che sia fraterna può essere realizzata soltanto nel rispetto della concreta dignità trascendente della persona umana. La coincidenza è tra vero e reale secondo la complessità e corrispondenza di tutti i suoi aspetti, rifiutando la settorialità dell’intelletto a cui ci si è

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abbandonati, oppure la contrapposizione che ne diviene assurda assimilazione. «Il realismo critico salva l’oggettività della conoscenza e l’attività del soggetto, nella distinzione e nella correlazione tra essere e pensiero. Soltanto in Dio il soggetto e l’oggetto, il pensiero e l’essere, coincidono».

La ragione aperta nel pensiero che diventa azione Viotto, in questa vera e propria opera che ne esprime la missione, completa e sviluppa il volume precedente “Il pensiero moderno secondo Maritain”, traccia itinerari di riflessione che partendo da Socrate arrivano fino a Sartre. C’è un confronto continuo con i pensatori di cui si tratta come con viventi e i loro enunciati assumono carattere universale. Non ne è considerata la rilevanza solo nella misura in cui siano ricondotti a momenti di una dialettica che avanzerebbe inarrestabile. Durante la giovinezza Maritain aveva vissuto una crisi profonda e dolorosa in cui gli insegnamenti appresi lo avevano portato a disperare e diffidare della ragione stessa. Scoprendo il pensiero di San Tommaso questa invece gli veniva restituita in pienezza secondo la sua giusta autonomia, trovando così risposta all’inquietudine delle verità impazzite e ai problemi avanzanti del proprio tempo. Non scriveva per i filosofi ma rispondeva agli interrogativi e bisogni che emergevano. La sua ricerca filosofica è esistenziale, logica e sociale. Il cambiamento parte anzitutto da se stessi, divenendone esempio e testimonianza vivente. È saggezza di ragione non chiusa, ma aperta alla sapienza della grazia nella vita. Ripensarsi significa ripartire dalla persona che è la condizione necessaria per riconciliarsi nelle relazioni in se stessi e con l’altro, base per ogni vita e società degna dell’essere umano. Quanto mai attuale questa sua seria e determinante indagine, non si ferma ad enunciazione di principi generali. Se fosse così rimarrebbero astratti e di fatto continuerebbero l’eterogenesi dei fini rispetto alle azioni che si compiono. Il pensiero di Maritain invece permettendone quelle transizioni, mediazioni e conciliazioni nel presente che si vive, ne progetta e ne prepara il futuro. Mai fine a se stesse o per interessi, permette di ricercare e realizzare nel pluralismo la pratica collaborazione della società. Uomo del dialogo ma senza compromessi quando la verità è in causa, aveva grande attenzione alla realtà e passione per la giustizia. «Il pluralismo non è una filosofia ma solo una metodologia politica che fonda la legittimità della legge formulata dalla maggioranza e insieme garantisce al cittadino la libertà dell’obiezione di coscienza... Ma la democrazia non richiede soltanto il rispetto della libertà di coscienza, ma implica anche la ricerca della giustizia sociale... perché l’unità sociale di base non è l’individuo come atomo ma la persona nelle sue relazioni sociali, ad incominciare dalla famiglia... la democrazia è un tutto fatto di tutti, perché il bene comune non

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è il bene delle istituzioni, ma delle persone in società... non solo deve essere intrinsecamente morale, ma dev’essere distribuibile ai cittadini».

La verifica non coincide con la verità, ma ne è mezzo Risultato dell’esperienza di una vita e dello studio durato quattro anni, questo volume di Viotto si presenta come una sorta di controstoria rispetto allo storicismo dei manuali della storiografia contemporanea. Un comportamento spassionato dovuto al fatto di non piegare i fatti al proprio desiderio, ma anche dalla necessità di garantirne l’approfondimento opportuno. Spacciato per teorico oppure utopista, ancora oggi Maritain anche quando citato è realmente poco conosciuto. Il suo contributo è tenuto distante dal consumo della mediacrazia. Se non negato, è reso incomprensibile dal pensiero unico senza alternative, anche quando in crisi. Considerato come problema per i temi affrontati né è invece soluzione, permettendo di non rimanere prigionieri di egemonie o del conflitto tra opposti estremismi. «Il nostro razionalismo classico perde il suo mordente e cerca di far posto a valori che ha per lungo tempo negato e nel medesimo tempo sente minacciati quegli elementi di verità, che egli affermava con cieco esclusivismo». È grazie all’autore, e a quanti altri hanno compiuto quest’opera meritoria, di averlo studiato e di averci arricchito di questa proposta di contemplazione nella convivenza sociale. Non è miopia o fuga, ma quale mezzo unito al fine, ciò che per eccellenza permette di giungere alla perfezione della carità ed esercitarla. Non dunque momenti separati, ma contemplativi nella vita attiva e attivi nella contemplazione. Si riconosce così la priorità e il primato del fine sui mezzi, dei valori sulle tecniche, dell’essere sul divenire. «I monaci benedettini hanno costruito l’Europa perché hanno raccordato l’azione alla contemplazione, il lavoro e la preghiera (Ora et labora), connettendo teoresi e prassi; in seguito questo primato della contemplazione è venuto meno, e si è giunti al primato dell’azione, della prassi, fino a fare della riuscita il criterio di verità, con il pragmatismo culturale e il machiavellismo politico, per cui un’opinione, un’azione, valgono, sono vere, sono giuste, se riescono... Cercherò di tracciare, secondo l’analisi fatta da Maritain, il percorso di questa caduta nel pensiero debole che finisce per negare la filosofia stessa in un relativismo universale dove tutte le opinioni sarebbero vere, e di intravedere l’inizio di un ritorno alla sorgente». La verifica non coincide con la verità, «non è che una via e un mezzo per raggiungere la verità”. Permettendo di scegliere tra i “come” con il “perché” e “per chi”, tramite essi se ne permette la realizzazione, senza cadere nel finalismo o meccanicismo. «La libertà di scelta è un prerequisito della moralità, non la sua forma». Laicità diviene laicalità con vocazione e missione distinta ma unita nelle due dimensioni, quella

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spirituale e quella temporale. Non diventa laicismo o confessionalismo, ma ne scaturiscono dinamismi che attraversano reciprocamente tutte le dimensioni umane e si alimentano del loro confronto: dall’educazione alla politica, dall’arte alla scienza, dalla morale alla democrazia, dalla filosofia alla teologia. «Non è un ritorno al medioevo, anzi intende recuperare i valori positivi della modernità... essere fedeli a Tommaso, non per ripeterlo, sarebbe antistorico, ma per continuarlo; la filosofia non si fonda su un principio di autorità, ma sull’evidenza intellettuale, anche quando si serve dei risultati della ricerca altrui». Tommaso d’Aquino è davvero l’apostolo dei tempi moderni, ma in una fedeltà che si rinnova senza rinnegare. In Maritain l’unità del sapere attraverso la distinzione delle diverse discipline, è saldata all’unità di una vita che ne è prima di tutto testimonianza diretta. Nell’Angelus del 29 aprile 1973 Papa Paolo VI annunciandone la morte lo ricordò leggendone un frammento inedito dedicato al servizio della verità: «Ogni professore cerca d’essere quanto più possibile esatto, e ben informato come possibile nella disciplina particolare sua propria. Ma egli è chiamato a servire la verità in modo più profondo. Il fatto è che a lui è domandato d’amare prima di tutto la Verità, come l’assoluto, al quale egli è interamente dedicato; s’egli è cristiano, è Dio stesso ch’egli ama». Poi aggiunse: Chi parla così? È Maritain, morto ieri a Tolosa. Maritain, davvero un grande pensatore dei nostri giorni, maestro nell’arte di pensare, di vivere e di pregare. Muore solo e povero, associato ai Petits frères di padre De Foucauld. La sua voce, la sua figura resteranno nella tradizione del pensiero filosofico e della meditazione cattolica».

Unità e testimonianza di vita e di pensiero Maritain fornisce una sorta di guida per il viaggio nel pensiero umano, e quindi anche del tempo e dello spazio della storia umana in cui questo prende avvio. Pensatore in movimento il suo messaggio non rimane intrappolato nel suo tempo, ma continua a scavare arrivando fino all’ora presente. Si autodefinisce “operaio dell’intelletto” e «mendicante del cielo travestito da uomo del nostro secolo». Come si riscontra dalla biografia, la sua formazione si esprime e si arricchisce nell’azione non solo di studioso e scrittore, ma anche in quel rinnovamento civile capace di una concreta capacità di risolvere i conflitti. Il suo pensiero è come la sua vita, richiama e traduce sempre il principio di responsabilità. Nato a Parigi nel 1882 si iscrive alla Sorbona laureandosi in filosofia e dopo in scienze naturali. In gioventù è stato anarchico e socialista, frequentava l’Ècole socialiste e teneva conversazioni nelle Università Popolari. Era a favore dei socialisti russi perseguitati dallo zar e scriveva articoli in un periodico socialista per ragazzi. Insoddisfatto delle risposte dello scetticismo insegnato nei corsi

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universitari dai propri professori, tanto era tormentato dal desiderio e passione per la verità che con la fidanzata Raissa meditava il suicidio. Conosciuto Charles Péguy di cui diventa grande amico, è da lui invitato alle lezioni di Henri Bergson, decisivo per la vocazione intellettuale propria e della moglie Raissa, sposata nel 1904. Aiuta Peguy nella redazione dei “Cahiers de la Quinzaine”, quando incontrando lo scrittore Léon Bloy in un momento di forte crisi intellettuale, decide la sua conversione da protestante a cattolico. Uscendo dalla crisi, insieme alla moglie ebrea e a sua sorella Vera, ricevono il battesimo nel 1906. L’incontro con il domenicano Humbert Clérissac lo porta a leggere la Summa Teologica di san Tommaso. Diviene una rivelazione intellettuale che lo mette in crisi rispetto alle insufficienze di Bergson. Convinto dal pensiero tomista, fonderà i Circoli tomistici e poi la Société thomiste. Cercherà di provarne l’attualità e la fecondità dei principi anche per i nuovi problemi e temi del pensiero moderno, in un continuo arricchimento con tutte le altre forme di pensiero. Nel 1912 insegna filosofia al “Collège Stanislas” provocando la reazione delle autorità scolastiche per le sue innovazione didattiche. Dal 1913 al 1939 è incaricato della cattedra di “storia della filosofia moderna” all’Institut Catholique. La casa dei Maritain diventa luogo di incontro di intellettuali, artisti, scrittori, poeti, filosofi e teologi. All’aggravarsi della situazione politica in Europa prepara nel 1934 il manifesto “Per il bene comune”. Firmato da 50 intellettuali è un duplice no al fascismo e al comunismo. Prende posizione contro l’invasione dell’Etiopia, il bombardamento di Guernica e la guerra di Spagna. Maritain sostiene il più importante rappresentante del personalismo, Emmanuel Mounier, in particolare nella fondazione della rivista “Esprit”, seppure successivamente se ne distacca perché finisce per diventare movimento politico. «La sua proposta di Umanesimo integrale (1936) va oltre il liberalismo e il socialismo perché pone al centro delle relazioni sociali la persona, non l’individuo o la società». Costretto a lasciare la Francia, si trasferisce a New York sfuggendo all’occupazione nazista. Partecipa attivamente alla resistenza con radiomessaggi e stampa. La polizia politica tedesca lo cerca per i suoi ripetuti interventi contro il fascismo e l’antisemitismo. Dopo la guerra, dal 1944 al 1948, il generale De Gaulle lo convince ad accettare l’incarico di ambasciatore della Repubblica francese presso la Santa Sede. Nel 1947 accetta di rappresentare la Francia alla seconda conferenza generale dell’Unesco a Città del Messico, in cui come presidente tiene il discorso di apertura “Le vie della pace”. Trasferitosi a Princeton insegna filosofia morale. Tra i padri della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ne partecipa alla preparazione. Il suo pensiero ha influito anche nell’elaborazione della Costituzione italiana e nelle politiche successive, in particolare da parte dei costituenti Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani. Anche Adriano Olivetti si richia-

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ma a lui, curandone nelle edizioni del movimento Comunità da lui fondato, le prime traduzioni delle opere politiche. Maritain ha profondamente influenzato e contribuito a determinare la cultura dei movimenti e delle differenti formazioni di ispirazione cristiana. Ne ha fatto comprendere la necessità di autonomia e la responsabilità laicale, distinguendo legge e diritto, politica e religione, società e stato. Riconoscendo nella collaborazione tra tutti gli uomini la funzione pubblica delle comunità intermedie ne sviluppa l’articolazione sussidiaria e solidale nell’ordinamento sociale e politico, sempre a favore degli ultimi. La sua riflessione accoglie ed è accolta dalla dottrina sociale della Chiesa sia per l’unità e lo sviluppo della famiglia umana dei popoli, che per una democrazia anche internazionale che difenda la libertà e i diritti umani. Coscienza e servizio sono maniera esigente di vivere l’impegno “lievitante” in prima linea, con competenza e eroicità, negli ambienti di vita e nella società. Non cedendo alle ideologie o solo a un minimo dottrinale comune, tutti possono contribuirvi, credenti e non, in un’opera pratica comune per trasformare la società secondo il rispetto della persona e la forza dell’amore evangelico. Ispiratore e maestro di questo forte impulso, tuttavia mette in guardia contro il grave malinteso di ritrovarsi confusi con le scelte partitiche (o comunque di difesa del proprio “particolare”) raccomandando di aprirsi a uomini di partiti diversi, o che non fanno parte di nessuno. Tanti si sono ispirati alla sua opera, proprio durante le dittature, nella speranza della ricostruzione e di una pace permanente. Maritain ha curato un’antologia di testi vari di filosofia politica, “Il filosofo nella società”, mentre in America usciva “La responsabilità dell’artista”. Dopo la morte della moglie nel 1960, si ritira presso la comunità dei Piccoli fratelli di Gesù a Tolosa. Nel 1961 riceve dall’Accademia francese il Gran Premio Nazionale della Letteratura, nel 1963 il Gran Premio Nazionale delle Lettere. Anticipatore degli esiti del Concilio Vaticano II, ne è interpellato su alcune questioni fondamentali. Alla fine dei lavori nel 1965 Paolo VI consegna proprio a Maritain il “Messaggio agli uomini di scienza e di cultura”. Nel 1966 all’Unesco tiene il discorso “Le condizioni spirituali del progresso e della pace”. Nel 1969 riunisce i suoi scritti pedagogici e fa scrivere la prefazione a una studentessa alla Sorbona che aveva partecipato alla contestazione del 1968. Nel 1970 tratta della natura e storia della Chiesa, che considera senza peccato, ma fatta di peccatori. Nel 1973 rivede le bozze del libro finale in cui è compresa la sua ultima conferenza proprio su Lèon Bloy. Maritain è davvero uno dei maggiori pensatori del XX secolo sapendo riunire in sintesi vitali verità e forma, dinamismo e ordine. Uomo di profonda passione religiosa, filosofica e civile, ha difeso l’ideale democratico di fronte alle ideologie totalitarie del secolo scorso, ricercando la possibilità di una società a misura di persona.

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Il pensiero trascende la storia ed è necessario al bene comune Democrazia è e deve essere libertà responsabile per tutti. Questo è risultato del faticoso svolgimento impensabile senza il fermento del Vangelo, che ha continuato a operare anche nella storia dell’umanesimo moderno antropocentrico. In questa opera comune “Chi non è contro di voi è con voi”. Fu testimone attivo e partecipe degli eventi del proprio tempo, in particolare contro le tendenze delle tentazioni totalitarie e quelle di un falso pluralismo dell’indifferenza. Come dimostra anche questo libro di Viotto, le sue riflessioni con pensatori ed artisti delineano sempre i risvolti che la cultura comporta sulle azioni. Ad esempio con il mondo tedesco riguardo le atrocità perpetrate dal nazismo «ritiene che si debba eliminare il virus dell’imperialismo prussiano, e propone sul piano politico una soluzione federale e sul piano morale il riconoscimento delle colpe commesse». Nella politica, nell’arte e nella scienza si ricercano e offrono strumenti solidi ed efficaci per interpretare un mondo in cambiamento. Emerge nella storia come il progresso della ragione non è stato un crescere unilaterale, né ha coinciso necessariamente con uno sviluppo umano integrale. «Per Maritain la filosofia trascende la storia. Comte, Hegel, Marx ritengono che l’ultima filosofia apparsa nella storia sia quella vera, che dialetticamente riassume in se stessa tutte le contraddizioni del passato; Maritain, seguendo Aristotele e san Tommaso, ritiene che la verità non sia in divenire perché riferendosi all’essere, trascende e giudica il divenire. Pertanto, pur seguendo l’ordine cronologico del susseguirsi dei sistemi filosofici, in Maritain troviamo anticipazioni e richiami che superano la descrizione storica e rimandano alla filosofia che trascende i sistemi, in quanto la filosofia non coincide con la sua storia». Quest’opera è totalmente attuale perché, a differenza della precedente dedicata al pensiero moderno in cui se ne riscontravano le premesse, permette di affrontare e superare la politica che non viviamo, l’economia che subiamo e la filosofia del diritto che accettiamo. Il rapporto tra la teoria e la sua storia, ampiamente discusso durante il secolo scorso, si ripropone infatti periodicamente in funzione dei grandi avvenimenti, con forme e contenuti nuovi, pur restando sostanzialmente legato al diverso modo di intendere il reale. Il discorso si riconduce inevitabilmente a un problema di metodo. La persona umana deve essere la misura di ciò che è buono, essa non è fatta solo per produrre e accumulare. Confrontando «tra la morale secondo Aristotele e Tommaso e la morale secondo Kant... la prima riferisce il bene dell’azione da intraprendere al bene dell’oggetto da porre come fine, è una morale cosmico-realistica a base sperimentale normativa; la seconda, che si propone il bene dell’azione staccato dal bene dell’oggetto, è una morale acosmico-idealistica a base deduttivo-normativa. Nella prima la ragione umana è una misura misurata, nella seconda la ragione umana è una misura puramente misurante». Il suo è un

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riferimento antropologico-personalistico in quanto la realtà personale è modello esplicativo del pensiero che ne procede e dell’esperienza vissuta, compresa quella sociale. Il suo è un messaggio di libertà e di indipendenza dell’intelligenza rispetto alle riflessioni sull’evoluzione del pensiero filosofico: si assume il rapporto con l’altro come criterio. Maritain trattando di Kierkegaard, che ritiene più poeta che filosofo, riconosce tra le sue intuizioni che «L’etica kantiana svuota il singolo di se stesso, lo riduce a farsi puro punto astratto, o un soggetto logico svuotato di realtà davanti all’universale astratto, che è la legge. L’etica hegeliana restituisce il singolo a se stesso in quanto obbedisce volontariamente allo Stato e si identifica con l’universale concreto, dove egli raggiunge il suo essere e la sua sostanza, che è la volontà universale dello Spirito oggettivato nello Stato. È contro questi due generi di etica che la singolarità kierkegaardiana grida vendetta». Il pensiero è quindi una vigilanza critica sul tempo che fa dell’essere umano la via quotidiana della sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica. “Maritain riconosce che l’essenza è un’astrazione, nell’oggettivazione della mente, che essa in realtà esiste solo unita all’esistenza nella soggettività individuale e ripropone il problema metafisico del suppositum”. Senza di esso l’esperienza sembra dunque convergere verso un decentramento dell’uomo, verso la sua stessa decostruzione che diventa perdita di qualsiasi punto di riferimento, di qualsiasi télos. «San Tommaso chiama suppositum ciò che noi chiamiamo soggetto. L’essenza è ciò che cosa una cosa è, il supposito, il soggetto, è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, chi sussiste». Il rapporto pensiero-persona si sviluppa partendo dall’attenzione ad ogni essere umano fino a comprendere l’umanità intera ed i problemi che in modo universale toccano la persona umana. L’essere umano rimane oggi “questo sconosciuto” spesso più per cattiva scienza che per ignoranza. Come afferma Piero Viotto nell’avvertenza preliminare del volume precedente sul pensiero moderno: «la competizione tra le scienze e le saggezze è sempre presente nel divenire della storia della filosofia, ma nello spirito umano questa competizione tende verso una composizione, proprio perché non possono esserci due verità». C’è in Maritain la riproposta delle ricchezze universali della millenaria riflessione cristiana attraverso un’interpretazione critica dei diversi filoni dottrinali. Le stesse esigenze interpretative di aspetti e problemi della realtà contemporanea, si riflettono anche nel campo della ricerca storica del pensiero. Spesso la tradizione della filosofia accademica sacrifica la comprensione dei problemi reali all’eleganza del modello analitico, ma ciò è ormai vivacemente contestato. «Non è il linguaggio a fare i concetti, ma sono i concetti a fare il linguaggio. E il linguaggio che li esprime li tradisce sempre, più o meno». Da qui il paradosso che più conosciamo, meno comprendiamo l’essere umano. Diventa dunque urgente chiedere al pensiero di assumere una propria personale responsabilità nel processo di trasformazione sociale,

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rielaborando quelli che sono i temi più cari all’uomo di ogni tempo. «L’analisi del percorso storico del pensiero occidentale, dilagato con il marxismo e il neocapitalismo in tutto il mondo, ha mostrato come il prevalere della scienza sulla saggezza, dell’avere sull’essere, del sapere discorsivo sul sapere intuitivo, porta al disumanesimo, al dominio della società sull’uomo, di pochi su molti, dei popoli ricchi sui popoli poveri». La storia umana cresce così perché non si ha un processo di ripetizione ma di espansione che coinvolge necessariamente lo stesso pensiero. Secondo la sapienza del cuore che diviene saggezza, Papa Giovanni XXIII disse che «Dio non guarda alle molteplicità delle azioni, ma al modo in cui si fanno». Se l’uomo fosse incapace di verità resterebbe fondamentalmente utilitarista e avrebbe una libertà che ha già una fine predeterminata. Viotto in continuità e proiettando il pensiero di Maritain, nei paragrafi della “Conclusione” del libro, individua negli stessi titoli le aperture verso riflessioni più sistematiche dell’intreccio delle nuove problematiche: “Oltre la modernità”, “Dal realismo alla fenomenologia”, “Dalla logica formale alla logica strumentale”, “Dalla legge eterna al diritto come intersoggettività”, “Dallo stato assoluto allo Stato democratico”, “Dall’universo organico al pluriverso casuale”, “Il ritorno alla saggezza”. Determinante di questa crescita è quanto sia una sfera di espansione dell’individuo per una comunità di comunità e della società per la persona. Al centro di queste due tendenze riumanizzanti e reciproche, il pensiero diventa presenza del e dal volto umano. Vi si trova così l’ideale di un obiettivo a lunga scadenza che non potrà mai dirsi cosa fatta o acquisizione di un solo particolare sapere. Il pensiero di Maritain anche quando tratta gli aspetti più teorici, è un pensiero responsabile, con l’altro e per l’altro. Non è chiusura in se stessi perché persona significa relazione. Nota Lévinas, filosofo del dialogo: «Se io fossi solo con l’altro, gli dovrei tutto. Ma c’è il terzo... Il terzo è altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo dell’Altro e non unicamente il mio simile». Al contrario dell’utopia che rimane tale e che si disinteressa delle necessità presenti, la nuova cultura che si genera è un bene fruibile da tutti e da tutte le discipline. Essa è impegno nelle diversità per un futuro di dialogo e di cooperazione tra gli uomini e le culture stesse. Nell’insegnamento di Gandhi si afferma: “Non vale la pena avere dei diritti che non derivano da un dovere assolto bene”. Questa cultura integrale è riconoscimento di quanto già in atto nelle relazioni umane quando vi sia convivenza civile. Essa spinge a sottolineare l’esigenza della divulgazione dei risultati delle riflessioni teoriche, tecniche, spirituali e artistiche che ne sono arricchimento, rende più incisiva la stessa ricerca e azione, ne fa emergere la dimensione umana del vivere sociale a partire dal vissuto. Di fronte ai pericoli di un reale svuotamento del pensiero effettivo, l’esercizio stesso della umanissima facoltà del raziocinio sembra presentare oggi, anche al di fuori del mondo accademico,

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maggior interesse delle rassegne genealogiche di scuole e di teorie. La cultura è pensare e vivere integrale come modo di essere. «Il pensiero contemporaneo ripudia l’identificazione hegeliana dell’essere con il pensiero, torna indietro alla ricerca della sorgente del sapere, ma si ferma ad una conoscenza fenomenica che, come aveva già fatto Kant, presuppone l’essere ma non lo conosce, e siamo all’ermeneutica, alla fenomenologia, alla filosofia analitica, alle filosofie del linguaggio». La ragione si riscopre come motore dell’umano nel suo rapporto e nella ricerca con l’Infinito. L’impostazione storiografica che deriva da queste premesse giustifica un procedere discontinuo: esso è uno svolgimento che guarda al passato in vista del presente, una storia il cui scopo principale è di mettere in evidenza il progressivo perfezionamento delle conoscenze analitiche attuali andando oltre i condizionamenti storico-istituzionali. Senza rinunciare all’impostazione scientifica rigorosa, Viotto con tavole didattiche, significative citazioni, indici degli argomenti e dei nomi dei pensatori e delle correnti di pensiero, accompagna in un approccio che facilitandone la consultazione, consente di concentrare l’attenzione sulla coerenza e implicazioni delle singole teorie. «Tutti i saperi sono scienza nel campo della loro ricerca se individuano con esattezza l’oggetto del conoscere e formulano con sicurezza un metodo di investigazione». Il pensiero diventa così impegno civile perché capace di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile per tutti. Non distruggere, non trincerarsi nell’inazione, ma diventare coscienti della propria dignità di persona umana, compartecipi della vita sociale, attivando tutte le potenzialità e costruendo con gli altri una migliore casa comune. Porre la dignità della persona come fondamento di ogni iniziativa atta a dipanare l’intreccio delle nuove problematiche, permette di vincere l’indifferenza di un pensiero che oggettivizzandosi diventa oggetto e cosifica la persona stessa. Un pensiero degno di essere tale richiede realismo, ragionevolezza e moralità. Già comporterebbe un cominciare a compiere il bene che si può compiere. Anche con mezzi imperfetti assai, ne prepara la via ad un meglio che sempre maggiormente si avvicini al vissuto di domande e di attese che chiedono di essere comprese, decodificate, accompagnate. Questo il contenuto del bene comune che più speditamente si raggiunge ma che assume nella sua azione la necessità di un pensiero capace di analisi, giudizio e prospettiva integrale. Presentazione dell’Autore: Carlo Pantaleo è Formatore e ricercatore sociale, Presidente Ass. Centro Studi Nuove Generazioni e Di Comunità

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D. Ciufegni, La pecorina Svampita e i misteri della vita, Tipolitografia Toscanagrafica, Foiano della Chiana (AR), 2013. Gli otto brevi racconti, raccolti in questo volumetto, sono una testimonianza dell’amore dell’Autrice (la nonna Dina) per i suoi nipotini Gaia e Mattia, del suo sentimento dell’infanzia e del suo amore per la vita. La protagonista di questi racconti è la pecorina Svampita, la quale è curiosa e generosa ed «affascinata dalla vita e da tutto ciò che la circonda…». È infatti attratta da tutto ciò che vede, dai rumori che sente e dalle voci che ascolta, dalla bellezza della natura, dagli animali, dai fiori, dalle piante ed è capace di meraviglia e di stupore. Ascoltando o leggendo il racconto di ciò che Svampita pensa, dice e fa i bambini la seguono nel suo cammino e nei suoi incontri. Con lei conoscono prati ed aiuole, condividono l’ammirazione della bellezza dei paesaggi, degli stagni e degli animali, si avvicinano ai misteri della vita e godono della gioia che può donare. Come Svampita possono aprirsi agli altri… familiarizzare con gli animali, gioire… con “tutti gli abitanti del villaggio” ed “abbandonarsi alla gioia della danza…”. Le illustrazioni del volumetto, che sono “fresche”, vivaci e suggestive, si pongono in un rapporto di coerenza con il testo scritto, ne favoriscono la comprensione, lo rendono più simpatico e stimolano i bambini a confrontare le parole con le immagini, ad esprimersi, a fare considerazioni e confronti e favoriscono la comprensione del messaggio educativo che l’Autrice implicitamente e serenamente propone. La semplicità della narrazione, l’amore per la “natura…”, per il mondo degli animali e per la vita che caratterizzano i racconti, le rapidissime considerazioni sui comportamenti di Svampita, che “apprende” a vivere attraverso le sue esperienze, consentono di apprezzare le potenzialità educative di questo dono che l’Autrice ha fatto ai suoi nipotini ed

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anche ai bambini che avranno l’opportunità di leggere e di conoscere… e di gustare questo “agile” e vivace volumetto. Sira Serenella Macchietti

R. Cuccurullo (a cura di), Educare al futuro. Speranza scelta impegno, Atti dei Convegni di studio della FISM-Roma, XXXV – Roma 2010 / XXXVI – Roma, 2011, Roma, Euroma-La Goliardica, 2012. Questo volume raccoglie gli Atti di due Convegni (Educare: una scelta, un compito-2010 e (Già oggi… è domani. Orientare la speranza-2011), organizzati dalla FISM-Roma, nel corso dei quali sono state proposte numerose riflessioni rivolte ad educare al futuro e in particolare ad educare alla speranza. Nei vari capitoli del volume si intrecciano diagnosi e proposte che rimandano ad un orizzonte comune e che chiedono di impegnarsi per educare all’amore per la vita, alla convivialità delle differenze, alla solidarietà, alla pace, alla ricerca della verità, cioè a quei valori che sono “la sostanza stessa dell’educazione”. Invitavano inoltre a ricordare, richiamandosi agli «Orientamenti Pastorali dell’Episcopato Italiano per il decennio 2010-2020», intitolati Educare alla vita buona del Vangelo, che i cristiani hanno «motivi di fondamento della speranza… che vengono dalla fede…». E, in coerenza con questo documento considerano la persona come promessa e come vocazione. È una promessa grazie a ciò che ha ricevuto e continua a ricevere ed ha la vocazione a realizzare «la sua più grande pienezza» cioè a conseguire «la finalità suprema dello sviluppo personale» che trova in Cristo l’origine e il compimento. In questa prospettiva antropologica “la speranza” si configura come “l’anima dell’educazione”. I vari contributi presentati nel volume prendono in esame i modelli culturali del presente, i loro rischi e le opportunità che offrono e sostengono che la speranza dell’educatore è la «cifra della scuola della comunità». Il volume pertanto ha il merito di aver individuato ed analizzato i bisogni “emergenti” di educazione dei bambini che oggi frequentano le scuole dell’infanzia e soprattutto di avere proposto agli educatori degli itinerari da percorrere per realizzare una costante formazione in servizio culturalmente solida e puntuale capace di potenziare la loro speranza e la loro coscienza pedagogica. Il possesso di questa coscienza infatti può

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consentire di superare i rischi del didatticismo e di testimoniare “fiducia e speranza” e quindi di guardare «al tempo nella prospettiva del futuro, senza misconoscere il passato e avendo i piedi ben piantati nel presente». La lettura di questo volume che è attento alla prassi educativa, all’organizzazione e alla didattica della scuola dell’infanzia e in particolare alla qualità delle “relazioni” interpersonali le quali costituiscono l’essenza della comunità scolastica, consente di affermare che i suoi Autori hanno offerto un contributo “efficace” agli effetti del potenziamento di questa istituzione. Nota Redazionale

Aa.Vv.-CSSC, Educare alla vita buona del Vangelo nella scuola e nella FP. Scuola Cattolica in Italia. Quattordicesimo Rapporto, 2012, Brescia, La Scuola, 2012. Il Centro Studi per la Scuola Cattolica (CSSC) dal 1999 ad oggi ha pubblicato quattordici Rapporti sullo stato della scuola cattolica e dei centri di formazione professionale di ispirazione cristiana con l’intento di far conoscere la loro identità, i loro progetti educativi e la loro situazione. Ha inoltre svolto un’intensa attività di studio, di ricerca, di sperimentazione e di valutazione in diversi settori scientifici ed operativi. I risultati delle sue più recenti ricerche sono presentati nel quattordicesimo Rapporto che si articola in quattro segmenti (I. La Chiesa e la scuola; II. Scuola ed educazione; III. I protagonisti della comunità scolastica e formativa; IV. La scuola della società civile). La prima parte prende avvio con il contributo di S.E. Mons. Mariano Crociata (La proposta culturale ed educativa della Chiesa italiana: gli orientamenti per il decennio) il quale precisa che «la proposta della Chiesa, anche considerata dal punto di vista culturale ed educativo, è quella di sempre: è Gesù Cristo» e successivamente riflette sull’umanesimo cristiano…. Il secondo contributo di S.E. Mons. Franco Brambilla (Educare: se non ora quando?), confrontandosi con lo stesso documento, sostiene che l’educazione cristiana «trova … nei racconti del Vangelo una costellazione di segni di vita buona…» e che ha il compito di coltivare l’educazione integrale della persona e la disponibilità a comunicare, ad ascoltare ed a donarsi. Nella seconda parte del volume viene presa in esame la scuola, di

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cui viene sottolineata la “natura educativa”. Inoltre di questa istituzione vengono analizzate e presentate la sua situazione attuale e le sue dinamiche socio-culturali (C. Collicelli). Due contributi chiedono alla scuola di testimoniare il “coraggio di educare” (G. Savagnone) e di “fare cultura scolastica alla luce del Vangelo” (G. Chiosso). Nella terza parte intitolata I protagonisti della comunità scolastica e formativa figurano tre capitoli il primo dei quali riflette sui compiti educativi degli insegnanti laici e sulla gestione dei laici di questa istituzione (Redi Sante Di Pol), sulla sua autonomia e sulla sua libertà (Giulio M. Salerno) e sull’educatore al lavoro (D. Nicoli). La scuola della società civile costituisce l’oggetto di riflessione della quarta parte in cui figurano due contributi il primo dei quali di O. Grassi riflette sul tema La sussidiarietà, i corpi intermedi e la scuola e il secondo di C. Nanni indica le linee educative per un progetto il cui punto focale è “l’idea di vita buona del Vangelo”…. Nell’Appendice del volume (La scuola cattolica in cifre, A.S. 201112) vengono presentati il quadro generale di questa istituzione e quelli specifici delle scuole dell’infanzia, di quelle primarie, di quelle secondarie di primo e di secondo grado e dell’Istruzione e formazione professionale nella federazione “Forma”. Il volume pertanto consente di conoscere il “pianeta” delle istituzioni scolastiche e della formazione professionale, propone interpretazioni della loro realtà, segnala problemi e risorse ed indica prospettive di azione pedagogicamente legittimate e sempre attente al valore di ogni essere umano, al suo diritto di realizzare la piena educazione e di contribuire alla costruzione ed all’affermazione di “un umanesimo cristiano”. Nota Redazionale

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