Andrea Bobbio_pedagogia del dialogo e relazione d’aiuto

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Andrea Bobbio (a cura di)

PEDAGOGIA DEL DIALOGO E RELAZIONE DI AIUTO Teorie, azioni, esperienze

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione ANDREA BOBBIO 1. Diventare adulti 2. Sfondi e derive 3. Ragioni e strutture

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PARTE PRIMA: TEORIE

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1. Martin Buber: per una pedagogia dialogica MARCO BERTÈ 1. Buber e l’educazione 2. La selezione del mondo agente mostrata nell’educatore 3. Érōs e krātos 4. La ricomprensione 5. Accettazione e conferma 6. L’educazione del carattere 7. Il principio dell’educazione

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2. Viktor E. Frankl e la ricerca di significato come intenzionamento del mondo DANIELE BRUZZONE 1. Tra scienza e esperienza 2. Dalla psicologia del profondo alla psicologia dell’altezza 3. Dalla psicodinamica alla noodinamica

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4. Autorealizzazione e autotrascendenza 5. L’organismo psicofisico e la persona spirituale 6. Affinare la coscienza: il dialogo socratico

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3. Carl Rogers: accettare, ascoltare, comprendere. I cardini della relazione educativa VITTORIO SOANA 1. La specificità di Carl Rogers 2. L’approccio aperto e non direttivo: implicazioni operative nella relazione di aiuto 3. Riflessioni finali

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4. La Pedagogia di Maria Teresa Romanini. Costruirsi persona FERDINANDO MONTUSCHI 1. Una pedagogista originale 2. Un contributo originale alla teoria dell’Analisi Transazionale: il concetto di “copione” 3. Lo sviluppo degli Stati dell’Io: una chiarificazione necessaria 4. Lo “Stadio dell’Io” nello sviluppo della persona 5. Una educazione per ogni età della vita 6. La famiglia luogo privilegiato dell’educazione. Parlarsi genitori e adolescenti

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PARTE SECONDA: AZIONI

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5. L’ascolto come modalità di essere con l’altro GUIDO BONOMI 1. La svolta ermeneutica 2. La prospettiva dell’antropologia esistenziale: l’essere dell’uomo come essere nel mondo

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2.1. L’essere dell’uomo come possibilità e scelta 2.2. L’essere dell’uomo come essere-con 2.3. L’essere con gli altri come occasione per dare un senso alla propria esistenza

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3. Comprensione dell’altro e costruzione della relazione: la prospettiva ermeneutica 4. La prospettiva fenomenologica e il principio di fedeltà e trascendenza 5. L’altro come assoluta irriducibilità 6. Comprendere. La cifra andragogica dell’empatia RENZA CERRI 1. Comprendere 2. Un duplice movimento 3. Comprendere e empatizzare 4. La cifra andragogica dell’empatia 7. La pratica del counseling: domandare, condividere, consigliare FRANCO NANETTI 1. La pratica del counseling 2. Tre fondamentali presupposti metodologici: domandare, condividere e consigliare/orientare 2.1. Domandare 2.2. Condividere 2.3. Orientare/consigliare

3. Come procedere? 8. La mediazione educativa. Negoziare i confini, crescere nei conflitti ANDREA BOBBIO 1. Confini, rapporti e mediazioni 2. Cornici della mediazione 9. Guidare con il coaching MARINA FARINA 1. Introduzione 2. Coaching

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3. Coaching e Analisi Transazionale 3.1. Il primo colloquio 3.2. Il contratto a più mani

4. La struttura dell’intervento 4.1. Assessment e diagnosi 4.2. L’importanza delle risorse personali

5. La competenza emotiva al servizio dei risultati 6. Conclusioni 10. Liberare! Relazione di aiuto e crescita emozionale VITTORIO SOANA 1. Liberare le emozioni dalle contaminazioni 2. Il processo emozionale nell’intervento di counseling 2.1. Pulsioni, affetti e condizionamenti

3. Come lavorare con le emozioni nella relazione di counseling? 3.1. Tecniche di individuazione delle emozioni

4. Conclusioni 11. La supervisione educativa MILLY DE MICHELI 1. Farsi educatore 2. Fondamenti e pratiche della supervisione. Tecniche, ragioni, significati 12. Identità e orientamento. La svolta nella dimensione progettuale dalla giovinezza all’adultità OLGA ROSSI CASSOTTANA 1. L’orientamento educativo: una prima delineazione di significati 2. L’orientamento tra continuità e specificità delle fasi evolutive 3. La svolta verso l’autentica progettualità tra giovinezza ed età adulta 4. I punti nodali di una nuova dimensione orientativa

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PARTE TERZA: ESPERIENZE

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13. Il Centro di Counseling di Via Petrarca, Genova ANNA RATTO 1. L’esperienza del Jesuit Encounter Service

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1.1. La formazione degli operatori

2. L’ambito d’intervento. Chi accettiamo, chi non accettiamo e perché 3. Problematiche affrontate e aree della vita 3.1. Aree problematiche e stadi di sviluppo

4. Educare l’adulto 14. Il drop-out nella scuola secondaria. Lo sportello di orientamento dell’Istituzione R.M. Adelaide di Aosta SONIA D’AURIA 1. Genesi del progetto: i bisogni degli studenti 2. Presupposti e teorie 3. Il progetto 3.1. Il materiale 3.2. Gli studenti

4. Bilanci e prospettive Bibliografia

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Introduzione ANDREA BOBBIO

SOMMARIO: 1. Diventare adulti; 2. Sfondi e derive; 3. Ragioni e strutture.

1. Diventare adulti L’età adulta, pur con le sue inquietudini e le sue crisi, rappresenta una terminalità evolutiva e un approdo definitivo della formazione umana. Senza tale costrutto saremmo privi di un’ancora personologica per concetti filosoficamente ineludibili quali: autodeterminazione, libero arbitrio, autonomia, responsabilità, scelta. È nella condizione adulta, infatti, che l’uomo diviene pienamente generativo, assume un ruolo sociale proattivo, sviluppa una stabilità personale e un caratteristico approccio alla vita che fanno di lui un soggetto pienamente individuato, sviluppato in tutte quelle caratteristiche che lo rendono unico, irripetibile e, nel contempo, soggetto sociale, pienamente capace di rapporti positivi con il mondo e con la cultura. Tale approdo di maturità, lungi dall’essere un processo meramente evolutivo, automatico e innato, non è neppure spiegabile in termini meramente adattivi o reattivi rispetto a un contesto sociale predeterminato, o come mero esito di un insieme di condizionamenti ambientali o tecnologici predefiniti1. È, piuttosto, la sintesi, più o 1

Scrive Semeraro: «la cultura forma e deforma insieme: è sempre un compromesso o un prodotto delle esperienze tra ambiente, quello originario, e gli altri, con cui entrando in contatto si modifica, conservando pur sempre qualcosa del calco origina-

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meno felice e creativa di un insieme di propensioni individuali – quelle che Guardini ricomprende nel termine ‘configurazione esistenziale’, intesa come “forma vivente” che determina la persona e cui mi riferisco parlandone in un certo modo2 –, d’identificazioni, di rappresentazioni sociali, di occasioni ambientali che il soggetto ha coagulato in un disegno esistenziale, fattosi progetto di vita, dapprima sfocato e soltanto abbozzato, quindi, progressivamente, definitosi in termini sempre più strutturati e realistici3. Ciò richiama la profondità pedagogica assunta dal termine ‘formazione’, quale processo educativo di massima sintesi, più alto poiché radicalmente inerente al soggetto, che viene dopo l’inculturazione (che è assimilazione di cultura sociale, di pratiche, di regole, anche di saperi diffusi, di un ethos e di una “visione del mondo”) e dopo gli apprendimenti (connessi a tecniche, linguaggi, a regole operative, con statuto più formalizzato e canali più istituzionalizzati: le scuole), anche se reclama entrambi questi due processi per potersi costituire.

rio.Essa fornisce materiale che l’individuo e la comunità selezionano per conto loro, spinti da interessi, bisogni, aspirazioni che non si concludono nel primo imprinting ricevuto attraverso l’educazione. L’educazione del resto ci modifica in continuazione e così l’esperienza. Ma essa è anche un campo di resistenza che i soggetti oppongono al cambiamento» (A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni, Carocci, Roma 2007, p. 97). 2 Cfr. R. Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, la Scuola, Brescia 1987, pp. 231-232. 3 La valenza pedagogica della progettualità esistenziale in adolescenza è analizzata in profondità da Coggi e Ricchiardi le quali così concludono: «la letteratura di ricerca mette in risalto come l’elaborazione di un progetto personale, scolastico e professionale, rappresenti una strategia utile per aiutare il ragazzo a chiarificare i suoi valori, il senso dei comportamenti che mette in atto e le mete che vuole raggiungere. L’importanza di pianificare e prospettare il proprio futuro è prospettata da numerosi studi. Questi testimoniano, con dati empirici, che l’adozione del progetto personale favorisce: la conoscenza di sé e dei propri valori, lo sviluppo motivazionale e la conseguente attivazione personale, con l’effetto di protezione da fattori di rischio e lo sviluppo del benessere soggettivo» (C. Coggi, P. Ricchiardi, Progetto di vita negli adolescenti, in «Pedagogia e vita», 2010, 68, 5-6, p. 27).

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Adultità, quindi, come condizione di un soggetto adeguatamente formato che, dopo avere affrontato i compiti evolutivi connessi alla prima parte del suo ciclo di vita, quella evolutivamente più critica e sensibile, è in grado di adempiere a quel pilotaggio esistenziale che gli consente di «deliberare e di scegliere, di fare un piano e di ordinare i fini, di decidere attivamente cosa abbia valore e quanto ne abbia»4. Non a caso l’Analisi Transazionale definisce come Adulto proprio quello Stato dell’Io in grado di assumere questa funzione adattiva della persona all’ambiente, facendo da coagulo ad un fascio coerente di emozioni, pensieri e comportamenti adeguati alla soluzione di problemi nel qui e nell’ora5. Seguendo Martha C. Nussbaum, tuttavia, non possiamo nasconderci che un siffatto “io della ragione” «divino, immortale, intellegibile, unitario, indissolubile, sempre coerente con se stesso e invariabile»6 trascuri gran parte di quella parte irrazionale dell’anima cui fa riferimento la cultura tragica e la nostra esperinza quotidiana: appetiti, sentimenti, emozioni. Infatti la nostra natura sensibile e corporea, le nostre passioni, la nostra sessualità, tutto funge da potente legame con il mondo del rischio e della mutevolezza. Le attività associate con i desideri corporei non solo esemplificano, nella loro struttura interna, la mutevolezza e l’instabilità, bensì ci spingono verso il mondo degli oggetti deperibili legandoci, in tal modo, al rischio della perdita e del conflitto7.

La non autosufficienza della soggettività umana, il suo essere entità sì sussistente, ma anche strettamente dipendente dalle influenze am4

M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna e etica nella tragedia e nella filosofia greca, tr. it., il Mulino, Bologna 2004, p. 47. 5 Cfr. F. Nanetti, Il counseling: modelli a confronto. Pluralismo teorico e operativo, QuattoVenti, Urbino 2003, p. 163. 6 M.C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 47. 7 Ivi, p. 55.

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bientali, dai giudizi e dai condizionamenti educativi, dalle occasioni e dalle risorse che il soggetto ha ricevuto nel suo “farsi persona”, rendono dunque l’adultità uno stato sub condicione, una possibilità soggetta ad un certo grado d’instabilità e influenzata dal coacervo di occasioni che ne hanno segnato – precedentemente, nell’infanzia e nell’adolescenza – l’incedere e il dipanarsi come esperienza di vita e di formazione. Tale grado d’indeterminazione, d’immaturità (Demetrio), di neotonia (Montagu), se persistente, addirittura, secondo alcuni sarebbe la garanzia strutturale di una stenia ancora feconda e di una creatività ancora attiva, tanto come processo auto-trasformativo quanto come plasticità nel vivere e nel costruire nuove relazioni sociali8. Oggi, infatti, «non è più il legame sociale che determina l’individuo, ma l’individuo che sceglie i propri legami sociali»9. Con Scurati, quindi, possiamo dire che all’immagine tradizionalmente atteggiata dell’adulto come perfezione, stabilità, immodificabile equilibrio e raggiunta posizione sociale si è ormai concordemente sostituita un’idea personalisticamente dinamica, di progettualità aperta e continua, di cambiamento senza soste, di espansione ed innovazione, di creatività. L’adulto non è l’equivalente dell’arresto e della fissazione, ma, piuttosto, del movimento consapevole e autodiretto10.

Anche una prospettiva antropologica così dinamica e “debole” come quella appena delineata, tuttavia, sconta le sue difficoltà: l’onnipotenzialità della condizione adulta è un’utopia, il pensare la persona come tabula rasa è mero esercizio retorico – nasciamo sempre con un fondamento esistenziale che, in parte, ci determina ad origine – così come è irrealistico pensare a un uomo perennemente rinnegatore di se stes8 9

Cfr. D. Demetrio, Elogio dell’immaturità, Raffaello Cortina, Milano 1998. J.C. Kaufman, Ego. Pour une sociologie de l’individu, Nathan, Paris 2001, p.

240.

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p. 15.

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C. Scurati, Fra presente e futuro. Analisi di pedagogia, La Scuola, Brescia 2001,


so, incessante distruttore della propria storia e della propria esperienza, preda delle proprie passioni, ubriacato dalla vertigine di quella radicale libertà cui faceva riferimento Sartre11 e schiavo di quella “struttura edipica del tempo” (Vattimo) che porta a dissolvere presente e passato nell’indeterminatezza del futuro. La condizione adulta, tuttavia, oggi assume proprio i caratteri di questa fatica di Sisifo: spiazzata (ma anche sfidata/sfaldata) dall’incessante ambiguità del nostro tempo, ove a una pluralità di modelli di vita si affiancano contraddizioni sempre più pesanti e bisogni umani viepiù stimolati e traditi, che originano storie di formazione frammentate e divise. Un “eccesso di mondo” sembra invadere, quasi devastare l’io contemporaneo, disseminandolo di rivoli che sembrano solcarlo, disperderlo, disorientarlo fino a ridurlo a entità minima e multipla allo stesso tempo, dipendente, vulnerabile, vorace, ferita e inquieta. Ma anche illusa e al contempo disincantata12. Emblema di tutto ciò è il pervasivo sentimento di hybris che contraddistingue il nostro tempo e che si correla con il rifiuto di valori quali la sobrietà e la misura, virtù che richiamano il riconoscimento e l’accettazione del limite, la consapevolezza che non tutto ciò che ho la capacità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso […] e che implica consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta13.

Gli esiti di una siffatta deriva individualistica comportano l’approdo a quel nichilismo teoretico richiamato da Possenti e che implica 11 Scrive Sartre in L’existentialisme est un humanisme: «L’uomo non è niente d’altro che quello che progetta di essere, egli non esiste che nella misura in cui si realizza, non è, dunque, niente altro che l’insieme dei suoi atti, niente altro che la sua vita». (J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, tr. it., Mursia, Milano 1963, p. 55). 12 F. Cambi, Dalla crisi del soggetto all’io multiplo, debole, aperto, flessibile/minimo come persona, in F. Cambi (a cura di), Soggetto come persona. Statuto formativo e modelli attuali, Carocci, Roma 2008, p. 23. 13 E. Bianchi, La sobrietà che ci fa crescere, “La Stampa”, 3 luglio 2011, p. 27.

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l’abbandono completo dell’intelletto a favore della volontà (Nietzche), la risoluzione dell’intero processo della realtà nell’atto puro o nell’autoctisi dell’io trascendentale – [il processo di autocoscienza in cui l’Io crea se stesso (Gentile)] –, la distruzione del concetto di verità come adeguatio (Heidegger). Ma, pure, la risoluzione della conoscenza a interpretazione mai conclusa, l’assoluto convenzionalismo nella scelta dei linguaggi e degli assiomi, il fallibilismo con cui viene colpita ogni asserzione della filosofia, ormai privata del suo oggetto e metodo, infine l’incondizionata certezza di sé nel proprio dominare calcolante. In esso appare impossibile rispondere alle tre domande che, secondo Kant, totalizzano il compito della filosofia: cosa posso conoscere? Cosa debbo fare? Che cosa posso sperare? Non c’è risposta alle ultime due, perché è venuta meno quella alla prima14.

L’insieme degli atteggiamenti sopra descritti – narcisisti e nichilisti allo stesso tempo – comportano ricadute esistenziali ed etiche non di poco conto: «accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso»15. I risvolti individuali, psicologici, di questo atteggiamento non sono meno dirompenti: l’esasperato bisogno di autorealizzazione induce a una strumentalizzazione del presente che ha una radice narcisistica, se è vero, come è vero, che il narcisismo è compensazione enfatica di un vuoto relazionale originario. La sua logica non è – come si potrebbe credere – quella dell’amore di sé come interiorizzazione di un sano amore oggettuale, bensì quella di una difesa del sé per tentare di annullare il dolore e più ancora il risentimento contro coloro che non rispondono ai desideri, che non quietano le paure, che non appagano i bisogni. Il narcisismo è allora l’esatto contrario di un forte amore di sé, ed è, tutto sommato, 14

V. Possenti, Il nichilismo teoretico e la morte della metafisica, Armando, Roma 1996, pp. 21-22. 15 E. Bianchi, op. cit., p. 27.

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una difesa contro le pulsioni aggressive. Per questo crea nella persona soltanto il tempo della sopravvivenza, della conservazione del sé nel presente e non il tempo della crescita che è fatto di un passato, di un presente e di un futuro16.

2. Sfondi e derive Gli autori che hanno analizzato con lucido disincanto la crisi del soggetto contemporaneo sono innumerevoli e ormai costituiscono un portato consolidato del post-moderno. A essi si deve la teorizzazione di una società, di una cultura, di una Weltanschauung che hanno quale principio costitutivo quello dell’a-teleologia, della de-indeterminatezza e del “pensiero debole”. In particolare, tra i portavoce di questo clima culturale, possiamo annoverare: − Lyotard, che descrive la nostra condizione post-moderna nella quale i grandi miti o le grandi narrazioni storiche, come la scienza, il progresso, il marxismo e relative legittimazioni di pratiche umane risultano ormai ridotte a frammenti che costituiscono un disordinato insieme di piccole, locali storie le quali portano con loro verità inconciliabili; − Foucault, che rivisita le relazioni reciproche che esistono tra potere e conoscenza e il costituirsi del soggetto nel contesto dei discorsi che si svolgono nel tempo e nelle situazioni di vita; − Baudrillard, che vede nel linguaggio l’unica realtà con la quale confrontarsi, poiché parole e immagini non si riferiscono ad alcunché se non a loro stesse e al loro intrecciarsi; − Derrida, che considera l’intreccio linguistico l’unica possibile fonte di significati, dal momento che non ne esistono altri celati al di fuori di esso e del suo svolgersi17; 16 A.

Perucca, Educazione, sviluppo, intercultura, Pensa Multimedia, Lecce 1996,

p. 17. 17

Cfr. F. Botturi, Crisi della ragione e ragioni della vita, «Vita e Pensiero», 1998, 5, p. 334.

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− Heidegger, che mette a nudo le derive della tecnica e del sapere razionalizzato quali uniche voci possibili dell’ipermoderno, presenze dis-umane e quindi inidonee ad un’educazione globale e completa18; − Bauman, che denuncia gli incoerenti rapporti tra cultura dell’individuo ed esigenze collettive enfatizzando le caratteristiche sociali più eclatanti della “società liquida”: paura, solitudine, anomia, spersonalizzazione19; − Levy, che riscrive i rapporti tra realtà e virtualità in termini di progressiva deterritorializzazione, intravedendo percorsi d’incipiente disinnesto degli eventi dal loro alveo naturale: come virtualizzazione, ubiquità, simultaneità, distribuzione frantumata o in larga misura parallela e diffusa dei processi cognitivi, politici e culturali20. Ogni autore tra quelli citati sembra tratteggiare la fisionomia di quello che Gauchet definisce l’individuo ipercontemporaneo, profondamente disorganizzato dalla precedenza del sociale e dall’inserimento nella comunità; disconnesso simbolicamente e cognitivamente dal punto di vista globale; contraddistinto da un modello espressivo che, in mancanza di un’interiorità riconosciuta come tale, si protende spasmodicamente verso l’esterno, in un bisogno continuo di allacciamento, di connessione alla moda, di consumo21. Ciò determina una potenziale eclissi di senso, perché nelle reti e nei loro nodi non c’è risposta alle vere doman-

18 Per una lettura delle implicazioni pedagogiche del pensiero di Heidegger, cfr. G. Sola, Heidegger e la pedagogia, Il Melangolo, Genova 2008. 19 Cfr. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 20068, pp. 10-11. 20 Cfr. P. Levy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997; Id., L’intelligenza collettiva: per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996; Id., Cyberdemocrazia, Mymesis, Milano 2008. 21 Cfr. M. Gauchet, Essai de psychologie contemporaine, in «Le Debat», 1998, 99.

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de se non in termini di adattamento e ubbidienza alle procedure con uno sbilanciamento in favore del frammentario e del contingente22. Le dinamiche sociali che caratterizzano il nostro tempo, d’altro canto, come si è fin qui evidenziato, non facilitano la formazione di un soggetto felicemente adattato al suo ambiente di vita: i contesti sociali si fanno sempre più mobili e frammentati, la secolarizzazione, in Occidente ormai definitivamente consumata, ha suggellato lo sfaldamento di configurazioni familiari stabili e definitive, la globalizzazione, con l’accelerazione delle dinamiche produttive (ma anche con la loro delocalizzazione, smaterializzazione, di continua riduzione del sapere e delle tecnologie ad uno stato di perenne obsolescenza) ha segnato la fine dei paradigmi fino a qui delineati. Espressioni quali learning society, long life learning, educazione permanente enucleano il doppio volto di questa svolta: opportunità di crescita continua e di riqualificazione pedagogica permanente, ma anche inesausta fatica per riprogettarsi incessantemente, adattarsi ad una condizione di perenne divenire, sperimentare come permanente un’inquietudine esistenziale un tempo considerata corollario della condizione adolescenziale o al più giovanile. In queste condizioni il disorientamento esistenziale diviene cifra stessa dell’esistere, la crisi economica, oggi quasi strutturale, acuisce lo smarrimento e il senso di alienazione connesso alla marginalizzazione dell’uomo dai processi sociali e produttivi, alla sua estromissione da circuiti di comunicazione autentica e dai luoghi di decisione politica e d’incidenza sociale.

3. Ragioni e strutture Se questo è il quadro della condizione antropologica contemporanea, della sua crisi e del suo tramonto23, due ci paiono i riflessi che già dagli anni ’90 investono le scienze dell’educazione: 22 23

Cfr. A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione, cit., p. 105. Cfr. G. Acone, Declino dell’educazione e tramonto d’epoca, La Scuola, Brescia

1994.

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1) il rifrangersi della pedagogia in una rete polifonica e poliglotta di saperi via via sempre più articolati e reciprocamente specializzati, con il rischio di una divaricazione al suo interno tra aspetti normativi, deontici, assimilativi, procedurali e funzionali; 2) il ribollente e tumultuante emergere di bisogni di mediazione pedagogica nei confronti della multiforme (e non di rado tragicamente impegnativa) complessità del vivere24. Proprio a partire da queste considerazioni (e dalla ricerca che il volume di Cesare Scurati, Volti dell’educazione, aveva avviato) prendiamo spunto per sviluppare il dispositivo investigativo della nostra indagine – di marca interdisciplinare, ma caratterizzata da una profonda centratura sociale e pedagogica – volta a scandagliare la profondità della formazione del giovane e dell’adulto, – dinamismo che è anche sviluppo del sé nell’io e superamento della propria materialità in vista dell’arricchimento della vita spirituale25 – attraverso una triplice griglia interpretativa: − quella della ricerca filosofica, antropologica e della psicologia umanistica (capitolo I, Teorie), espressa dall’analisi del pensiero di autori dal profondo respiro dialogale, esistenziale e pedagogico e spendibile all’interno di una relazione di aiuto metodologicamente fondata (da Buber a Rogers fino Frankl e alla Romanini). Un’antropologia e una filosofia della speranza, quindi, in grado di valorizzare il potenziale umano, – per quanto offeso dalle vicissitudini dell’esistenza o occultato dalla sofferenza e dal male di vivere – e di svolgerne i destini nel segno dell’approccio creativo

24 C. Scurati, Introduzione, in C. Scurati (a cura di), Volti dell’educazione. Dal bisogno sciale alla professionalità pedagogica, La Scuola, Brescia 1996, p. 9. 25 Cfr. F. Cambi, Ottica della formazione e soggetto postmoderno, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini, Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzioni, Carocci, Roma 2009, p. 36.

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al problema del senso e del significato dell’esistenza26. Per offrire un sostegno alla funzione prospettica, intenzionata della soggettività umana, aperta a regioni dell’esperienza ricche ed espansive, per rafforzare la capacità (non importa se consapevole o no, se riconosciuta o no dall’interessato) di dare un senso, e quindi di rivestire di un valore, alle cose, alle persone, alle esperienze, o agli accadimenti che egli incontra o alla cui determinazione egli stesso contribuisce attivamente. Un senso e un valore che, pur fondandosi ed avendo le proprie radici nella storia di ciascun individuo come di ciascun gruppo, si costruisce in misura certo consistente anche attraverso le cosiddette proiezioni di futuro: queste ultime intese sia in una direzione più generale che ha nella categoria del possibile il suo principale punto di riferimento, sia in una direzione più particolare, addirittura individuale, che ha nei concetti di aspettativa e di aspirazione un suo analogo punto di riferimento27.

− quella delle azioni specifiche connesse alle diverse professionalità educative (capitolo II, Azioni). Ecco così che funzioni eminentemente pedagogiche quali orientare, consigliare, ascoltare, mediare, condurre/guidare, liberare/decondizionare, comprendere, interpretare, liberare divengono azioni centrali di una trasversalità professionale che contraddistingue la relazione andragogica a tutti i suoi livelli operativi ed ermeneutici. Tali azioni, pur nella loro portata generale, talvolta, presentano così vaste implicazioni operative da configurarsi come pratiche pedagogicamente auto26 Scrive Mencarelli «Le stesse ricerche psicologiche sulla creatività ripropongono in termini categorici il concetto di dignità umana, di autenticità, di originalità, di potenziale umano da valorizzare; i quali termini, se illustrano la necessità e i doveri della società contemporanea, invitano a recuperare il concetto di persona per l’immediatezza con cui lo evocano e per la realtà sulla quale il concetto stesso può trovare la sua risonanza più valida» (M. Mencarelli, Creatività e valori educativi. Saggio di teleologia pedagogica, La Scuola, Brescia 1977, p. 54). 27 P. Bertolini, L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 38.

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nome, che danno luogo a professionalità specifiche e a setting professionali ben delineati: la mediazione/il mediatore; il counseling/counselor; la formazione continua/il coach; l’orientamento/ l’orientatore; il decondizionamento/l’educatore di comunità; la supervisione educativa/il supervisore. L’ottica assunta da questo volume per traguardare l’insieme delle pratiche sopra elencate è quella umanistica, declinata in psicologia nell’approccio dell’Analisi Transazionale, la cui compatibilità con la complessiva visione pedagogica è già stata riscontrata da parecchi Autori «per il suo carattere personalistico, per la sua caratteristica di flessibilità, per la garanzia di pieno rispetto della persona riconosciuta in tutte le sue dimensioni» (Montuschi, p. 78). Rilevava al proposito Mencarelli nel 1974: Anche l’interessantissima analisi strutturale/transazionale del Berne deve essere guadagnata alla pedagogia, in particolare per i curricola della formazione professionale degli insegnanti. La teoria berniana dei giochi psicologici e dei canovacci nei ruoli interpersonali è fondamentale per rilevare quanto autoritarismo strisciante e quanta violenza occulta intridono le relazioni umane, anche quelle educative (cioè quella cha si pone come eminentemente liberatrice)28.

− quella empirico-esperienziale, (capitolo III, Esperienze) volta a individuare modelli operativi di counseling all’interno di due realtà diversificate – un centro di consulenza privato e una scuola secondaria di secondo grado – che, pur nel loro differente funzionamento (come mission, utenza, modalità d’invio, contratto, problematiche trattate) sono accumunate da una valenza attivistica e partecipativa, secondo la quale la persona implicata è o diviene capace di assumere decisioni e di compiere le conseguenti ope28

M. Mencarelli, La pedagogia cristiana oggi. L’orizzonte internazionale, in M. Mencarelli, E. Damiano, C. Scurati, Orizzonte culturale contemporaneo e pedagogia cristiana, La Scuola, Brescia 1972, p. 79.

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razioni che producono il raggiungimento progressivo dell’autosufficienza (svolgere compiti essenziali per la vita quotidiana), dell’autorealizzazione (promuovere il proprio sviluppo e realizzare le proprie aspirazioni), dell’eterorealizzazione (interessarsi agli altri e averne cura)29. Tutto ciò all’interno di una pratica contrattuale di natura non terapeutica – il counseling – che richiede una formazione specifica e che rimanda a campi applicativi diversificati (assistenziale, sociale, sanitario, lavoro pastorale, prevenzione, mediazione, educazione…)30. L’intento del volume è quello di rendere il senso di una ricerca interdisciplinare che, dalla pedagogia sociale, si protende “ad armi pari”31 verso le altre scienze dell’educazione, si lascia interrogare dalla realtà, la assume come fulcro ermeneutico per ripensarsi come sapere (paradigmatico è qui il rapporto teoria-prassi) e come funzione culturale. Se l’attuale situazione sociale e civile mostra i segni della frammentazione, infatti, ciò non significa che debbano scomparire i valori propri della sintesi educativa (la coerenza, la cooperazione, l’armonizzazione produttiva del diverso, il concorso delle forze). Occorre allora mobilitare nuove sinergie, nuove alleanze, per evitare i rischi del disimpegno sociale e politico, della cronicizzazione della sofferenza e del disagio, della spoliazione della persona della sua capacità di dare un senso all’esistenza, alla sofferenza ed al suo stare al mondo32. 29 R. Cerri, Professionalità, in R. Cerri (a cura di), Didattica in azione. Professionalità e interazioni nei contesti educativi, Carocci, Roma 2008, p. 23. 30 Cfr. la definizione di counseling elaborata dall’EATA nel 1995. 31 Cfr. P. Bertolini, Ad armi pari. La pedagogia a confronto con le altre scienze sociali, UTET, Torino 2005. 32 Ricorda Frankl che «essere nel mondo vuol dire allora essere orientato fondamentalmente verso uno scopo, verso un significato da individuare, verso valori da realizzare. Essere-nel-mondo vuol dire essere aperti, essere recettori, essere capaci di integrare nella propria personalità ciò che viene offerto dal mondo circostante e dagli altri. Essere-nel-mondo vuol dire essere rivolti intenzionalmente verso la comprensione del profondo e intimo significato della propria esistenza. E solo in tale intenzionalità è da ricercare la più genuina e reale caratteristica dell’essere uomo» (V. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 1972, p. 113).

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1. Martin Buber: per una pedagogia dialogica MARCO BERTÈ

SOMMARIO: 1. Buber e l’educazione; 2. La selezione del mondo agente mostrata nell’educatore; 3. Érōs e krātos; 4. La ricomprensione; 5. Accettazione e conferma; 6. L’educazione del carattere; 7. Il principio dell’educazione.

1. Buber e l’educazione Più che un teorico dell’educazione Buber è stato un educatore. Negli incontri personali, nell’insegnamento, nell’impegno profuso nelle istituzioni educative (specie nel campo dell’educazione degli adulti) ha influito profondamente su coloro che lo hanno incontrato e ne sono stati intimamente coinvolti1. Tuttavia, non si è sottratto al compito di elaborare su questa esperienza una rilettura personale. Fondamento di questa riflessione è la distinzione tra la relazione IoTu, con cui l’Io si apre all’altro con l’intero suo essere, rispettandone l’alterità, e il rapporto Io-Esso, con cui l’Io si pone come soggetto di fronte a un oggetto per ricondurlo entro il proprio orizzonte, sperimentarlo e utilizzarlo. La relazione Io-Tu è caratterizzata dalla reciprocità, 1 «Buber, che esercitò sempre una profonda e decisiva influenza su coloro che sapevano ascoltarlo, come uomo o come professore, fa pensare a quei Maestri chassidici o a quei filosofi antichi che agivano più con la loro parola che con i loro scritti» (R. Misrahi, Martin Buber, philosophe de la rélation, Éditions Seghers, Paris 1968, p. 99).

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mentre il rapporto Io-Esso è caratterizzato dall’unilateralità. Noi viviamo per lo più secondo il rapporto Io-Esso, ma per grazia e per nostra iniziativa (iniziativa che risponde al tu che ci incontra per grazia), possiamo entrare nella relazione Io-Tu e, in essa, “diventare Io nel Tu”. Ma si tratta di una condizione sempre esposta al rischio di ricadere nel rapporto Io-Esso. Da questi principi deriva un importante corollario: non c’è alcun io in sé; io non lo si è, ma lo si diventa, o nella relazione Io-Tu o nel rapporto Io-Esso. L’Io non si costituisce in rapporto a se stesso, come interiorità, ma solo in rapporto all’altro da sé. Ne consegue l’imprescindibilità del dialogo, del reciproco rivolgersi dell’Io e del Tu: un tema che Buber svolge nelle più diverse sfaccettature e da cui trae molti dei motivi che andremo esponendo. “Il rapporto educativo è un rapporto puramente dialogico”2. Posto questo fondamento, la riflessione pedagogica di Buber si può rinvenire in molteplici spunti disseminati nell’intero arco della sua produzione. Ma egli si è occupato anche direttamente del problema in diversi saggi. Il più ampio e argomentato è lo scritto Sull’educativo, che riproduce una relazione svolta alla Terza Conferenza Internazionale di Pedagogia ad Heidelberg, nel 1925. Oggetto dell’incontro è “il dispiegarsi delle forze creative del bambino”. Buber non condivide né il concetto di “dispiegamento” come evoluzione, né il fatto che l’educazione si riduca allo sviluppo delle “forze creative” nel bambino. A suo giudizio le forze creative devono essere promosse, ma non in modo esclusivo e, soprattutto, non come un “dispiegamento” evolutivo. Certamente nel bambino bisogna riconoscere l’esistenza di un “istinto di creatività”, grazie al quale egli tende a partecipare, ed effettivamente partecipa, all’impulso formativo che muove la cosa stessa. «Che la forma avanzi di fronte a un uomo e, per mezzo suo, voglia diventare

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M. Buber, Sull’educativo, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi (1991), tr. it. di A.M. Pastore, Saggio introduttivo, apparati e commento di A. Poma, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 177.

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opera, questa è l’eterna origine dell’arte»3. Il bambino dialoga con la forma, risponde al suo appello, cresce con essa. L’istinto della creatività rientra dunque nel mondo della relazione: l’opera agisce su di lui, come lui agisce sull’opera che sta formando. È quindi importante riconoscere e coltivare l’istinto della creatività nell’opera educativa. Ma, come accade per ogni relazione, anche in questo caso è in agguato la caduta nel mondo dell’esso. L’opera, una volta realizzata, diventa cosa tra le cose, destinata a essere sperimentata e utilizzata. L’istinto della creatività, abbandonato a se stesso, non può condurre a una vera reciprocità. Produrre un’opera è un processo unilaterale. La reciprocità che si sperimenta nel dialogo con la forma intravista, si esaurisce e vien meno una volta prodotta l’opera. E l’uomo come “creatore” rimane solo e sta al di qua della reciprocità dell’uomo con l’uomo. D’altra parte, per “forze creative” non dobbiamo intendere il solo istinto creativo, ma la spontaneità umana in tutte le sue espressioni. La liberazione di questa spontaneità, il non reprimerla e lasciarle produrre quanto è capace, è sicuramente ciò che permette una vera educazione. Ne è però solo un presupposto, solo una parte; l’altra è l’influenza discreta dell’educatore.

2. La selezione del mondo agente mostrata nell’educatore Posto quanto sopra, è necessario allora chiarire l’apporto delle due parti, della liberazione della spontaneità e dell’influenza educativa: Il divenire dello spirito, esattamente come quello del corpo, non è uno sviluppo. In verità, se si potesse analizzare un’anima, le disposizioni che si scoprirebbero nell’anima di un neonato non sarebbero altro che capacità di accogliere il mondo e di immaginarlo. Il mondo genera nell’individuo la persona. Il mondo, cioè tutto il mondo circostante, na3

M. Buber, l’Io e il Tu, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., p.

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tura e società, “educa” l’uomo: ne suscita le forze, lascia che esse afferrino e compenetrino i suggerimenti del mondo. Ciò che noi chiamiamo educazione, quella consapevole e voluta, significa selezione del mondo agente operata dall’uomo; significa attribuire potere decisivo ed efficace a una selezione del mondo raccolta e mostrata nell’educatore. Si ha cura del rapporto educativo sottraendolo alla corrente priva d’intenzione dell’educazione universale: curandolo come intenzione. Così solo nell’educatore il mondo diventa il vero soggetto del proprio agire4.

La densità di questo passo – centrale nella pedagogia di Buber – richiede un’analisi accurata: Appare subito evidente la necessaria relazionalità che nell’educazione collega tre dimensioni, l’educatore – l’educando – il mondo […] la vera educazione contribuisce indubbiamente al movimento di continua realizzazione dell’educatore e dell’educando – attraverso la reciprocità della loro azione – ma partecipa anche alla perenne costruzione di quel mondo che – in tutte le sue espressioni – può e deve entrare in tale relazione complessa come “altro”, come “tu” da ascoltare e da costruire, come soggetto attivo in grado di contribuire con la sua specifica parola al processo educativo dell’uomo5.

Vi è la spontaneità del soggetto, l’incontro con l’altro da sé e l’educazione intenzionale. Anzitutto vi è la spontaneità del soggetto, la capacità di accogliere il mondo e di immaginarlo. «Lo spirito, al suo inizio, è potenza pura, cioè potenza reale dell’uomo di “comprendere” il mondo con intima partecipazione, in stretta e serrata lotta con esso, mediante l’immagine, il suono e il concetto»6.

4 M.

Buber, Sull’educativo, cit., p. 168. G. Milan, Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma 1994, p. 31. 6 M. Buber, Il problema dell’uomo, tr. it., Marietti, Genova-Milano 2004, p. 195. 5

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Si tratta di una potenza assieme recettiva e attiva, che deve essere risvegliata e realizzata. Il che avviene grazie all’incontro con l’altro da sé, con le cose che ci circondano e che avvengono, con la natura e la società. Per questo Buber può dire: “Il mondo genera nell’individuo la persona”. Fa di un uomo chiuso in se stesso un soggetto aperto all’altro, in relazione vivente con la realtà. In questo senso il mondo “educa” l’uomo, con “la corrente priva d’intenzione dell’educazione universale”. Ma, a fianco dell’educazione universale (un’educazione che avviene sempre e comunque, in modo non intenzionale) e radicata in essa, deve essere posta l’educazione intenzionale, ciò che chiamiamo propriamente educazione e che è consapevole e voluta. Questa è «selezione del mondo agente operata dall’uomo […] selezione del mondo raccolta e mostrata nell’educatore». Se nell’educazione universale, non intenzionale, è operante solo la spontaneità, qui è all’opera l’influenza educativa. La quale, peraltro, non si pone come elemento autonomo e separato, ma come qualcosa che seleziona e indirizza l’educazione universale. In altre parole, accompagna gli incontri fatti dall’educando, sceglie ed esalta quelli che meglio rispondono ai suoi bisogni, guida modalità, sviluppi e possibilità dell’incontro. In ciò consiste la “selezione raccolta e mostrata nell’educatore”. Questi, quando agisce, deve farlo come se non lo facesse. Il suo autentico fare consiste in quel dito che accenna, in quello sguardo interrogativo […] Il mondo, dicevo, agisce sul bambino come natura e come società. Gli elementi lo educano, l’aria, la luce, la vita della pianta e dell’animale; e lo educano i rapporti. L’educatore vero li rappresenta entrambi; ma, di fronte al bambino, deve essere come uno degli elementi7.

È stabilito, in questo passo, il giusto rapporto tra educazione universale non intenzionale e educazione propriamente detta, intenzionale. Questa si fonda su quella, interviene su essa e però ne assume la forma. 7

M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 169.

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3. Érōs e krātos Delineato il primo abbozzo di quella che possiamo chiamare una pedagogia dialogica – attraverso la messa a punto delle relazioni tra spontaneità del soggetto, incontro con l’altro da sé ed educazione intenzionale – Buber indica due modelli che da essa si discostano: la pedagogia moderna, indirizzata secondo la tendenza alla libertà, la quale disconosce e comunque sottovaluta l’importanza dell’influenza educativa e la vecchia pedagogia autoritaria, che disconosce l’importanza della liberazione della spontaneità e a cui si può accostare la “scuola della costrizione”. Scrive Buber: «Si è soliti contrapporre il principio della “nuova” educazione a quello dell’“antica” come si contrappone l’érōs alla “volontà di potenza”. In realtà l’uno è tanto poco principio dell’educazione quanto l’altro»8. Il vecchio educatore trasmetteva i valori della tradizione ereditata, rappresentava il mondo storico. Questa situazione era facilmente sfruttata dalla volontà di potenza dell’individuo, nella misura in cui questi poteva farsi forte dei “pieni poteri” della storia ed imporsi nel loro nome. Ma quando, come ai nostri tempi, questi poteri decadono, allora l’insegnante non è più di fronte all’allievo come rappresentante del mondo storico e da esso inviato: viene rigettato a se stesso nella sua singolarità e diventa bramoso. A krātos, alla volontà di potenza, subentra érōs. «Érōs appare. Ed érōs trova posto nella nuova situazione educativa come quell’altra volontà nella vecchia; ma, come in quella, egli non è portatore, fondamento, principio. Pretende solo di esserlo»9. Esso è volontà di godere degli uomini, scelta compiuta secondo l’inclinazione. Nell’érōs chi ama sceglie l’amato e desidera goderne. Ma l’educatore, l’educatore odierno, non sceglie, ma trova gli educandi e li deve accogliere tutti e farsi responsabile del divenire di ognuno.

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Ivi, p. 172. Ivi, p. 173.


Il pensiero di Buber è chiaro: érōs e krātos non sono principi dell’educazione, ma tentazioni che la soffocano e travisano. Ma cedere a queste tentazioni significa distruggere l’opera educativa. La quale, invece, è assunzione di responsabilità, risposta all’appello che ci è rivolto, accoglienza e cura dell’altro nella sua inviolabile alterità. Superate le tentazioni insite nella volontà di potenza e nell’érōs, il compito dell’educatore odierno è caratterizzato da una vera e propria ascesi. L’educativo significa allora un’alta ascesi: gioiosamente rivolta al mondo per amore di responsabilità nei confronti di un ambito di vita che ci è stato affidato, sul quale dobbiamo operare ma su cui non dobbiamo interferire, né con la volontà di potenza né con l’érōs. Lo spirito può servire veramente la vita solo in un sistema di affidabile contrappunto di dedizione e riservatezza, confidenza e distanza10.

4. La ricomprensione Il carattere ascetico dell’attività educativa non è tuttavia tale da rendere impossibile un qualche legame con érōs e krātos. Si tratta di “convertire” i due istinti, di imprimere loro una nuova direzione: non più verso il dominio e il godimento, ma verso la cura e l’amore dell’altro. Buber sostiene che c’è una esperienza che è in grado di convertire la direzione di questi istinti: è l’esperienza della parte opposta o ricomprensione [Umfassung]. Cerchiamo di capire di cosa si tratta. La volontà di potenza come dominio e l’érōs come godimento sono forme dello sperimentare e dell’utilizzare e dunque del rapporto IoEsso, abitato dall’Io di questo rapporto. Ma se a questo Io si sostituisce l’Io della relazione Io-Tu, l’Io dell’uomo nel suo essere più autentico e profondo, se è questo Io che abita gli istinti di érōs e krātos, allora que10

Ivi, p. 174.

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sti possono ricevere un’altra direzione. Possono essere volti non più al dominio e al godimento ma alla cura e all’amore dell’altro. Ed è appunto quello che opera la ricomprensione che, rendendo l’altro presenza, è una forma della relazione Io-Tu. «Soltanto la potenza che ricomprende è guida; soltanto l’érōs che ricomprende è amore»11. Ma cosa è propriamente la ricomprensione? Non è una semplice immedesimazione, un trasferirsi e perdersi nell’altro, lontano da sé. La “ricomprensione” [Umfassung] è opposta alla “immedesimazione” [Einfühlung]. Secondo Buber nella Umfassung sono tenute ben ferme la dualità, la polarità e la tensione tra l’Io e il Tu, laddove nella Einfühlung si ha la loro identificazione, l’immergersi e perdersi dell’uno nell’altro12. La ricomprensione è un particolare rapporto dialogico, costituito da tre elementi: un rapporto reciproco tra due persone; un processo esperito da entrambe, cui una partecipa attivamente; il fatto che questa persona, mentre avverte e vive la propria partecipazione, esperisce il processo anche dall’altra parte, cogliendo ciò che è vissuto dall’altra persona. Questa esperienza è propria di ogni rapporto dialogico. Anzi, è ciò che lo costituisce nella sua dialogicità. Nel nostro caso, però, si tratta di quella particolare relazione dialogica che è il rapporto educativo. Questo è un rapporto dialogico, come tale caratterizzato dalla reciprocità13. Tuttavia, non si tratta di una reciprocità di ricomprensione. Questa 11

Ivi, p. 176. Quando Buber pronuncia la conferenza Sull’educativo, nel 1925, il termine Einfühlung ha assunto il valore tecnico di empatia. E anche se in un primo tempo, ad esempio con Lipps, si coglie in essa soprattutto il fenomeno dell’immedesimazione, in seguito, già con Husserl e soprattutto con Edith Stein, si riconosce progressivamente l’elemento della dualità, della percezione dell’altro come altro. Ora, è difficile che Buber non conoscesse il valore tecnico di Einfühlung. Probabilmente, trova troppo debole il riferimento alla dualità e preferisce rifarsi al significato letterale del termine e contrapporre ad esso quella polarità tra l’Io ed il Tu che costituisce il fulcro del suo pensiero. Per approfondire la tematica si rimanda al testo di Renza Cerri (cap. 6 di questo volume). 13 Per Buber il dialogo si nutre della reciprocità. Questa è irrinunciabile. Di diverso avviso è Lévinas: «nella Relazione – contrariamente alla “reciprocità” sulla quale, senza dubbio a torto, insiste Buber – ci sarebbe una disparità, una dissimmetria. Senza possibilità di scampo, come se fosse stato eletto per questo, come se fosse così insosti12

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è e deve rimanere unilaterale. Per chiarire questo concetto Buber distingue tre forme principali del rapporto dialogico. La prima si fonda su una esperienza di ricomprensione astratta ma reciproca. È il caso di una discussione tra due persone, ognuna delle quali riconosce la legittimità della posizione dell’altra, pur senza abbandonare la propria. Ognuno si pone anche dalla parte dell’altro. È un riconoscimento reciproco. Questa forma è astratta perché riflette solo il piano delle convinzioni e persuasioni teoriche, senza coinvolgere la piena concreta realtà dell’altro. Il che, invece, accade nelle altre due forme. La seconda forma di rapporto dialogico è appunto il rapporto educativo, che si fonda sull’esperienza concreta ma unilaterale della ricomprensione. Poiché l’educare comporta che una persona influisca su un’altra, c’è sempre il pericolo che la volontà educativa degeneri in arbitrio, che l’educatore parta da sé e dal concetto che ha dell’educando e non dall’effettiva realtà di questi. Per evitare questo, è necessario che egli esperisca sempre di nuovo il suo fare anche dalla parte opposta; deve cioè non solo cogliere l’educando nella sua vivente concretezza e singolare alterità, ma deve cogliere altresì come questi percepisca il fare e l’agire su di lui dell’educatore. Deve rendersi conto degli effetti della sua attività educativa. Solo in questo modo può controllare la sua influenza sull’altro, verificarne la legittimità, dare la giusta direzione a érōs e krātos. «Tuttavia, per quanto egli sia legato al suo educando in una fiduciosa reciprocità del dare e del ricevere, la ricomprensione non può essere reciproca. Egli esperisce l’essere educato dell’educando, ma questi non può esperire l’educare dell’educatore»14. Nel caso questo avvenisse, il rapporto educativo si trasformerebbe in amicizia. E questa è la terza forma di rapporto dialogico, fondata sull’esperienza concreta e reciproca della ricomprensione. Affermare che la ricomprensione non può essere reciproca non significa escludere qualunque tipo di reciprocità tra l’educatore e l’edutuibile e unico, l’Io come Io è servitore del Tu nel Dialogo» (E. Lévinas, Martin Buber e la teoria della conoscenza, in Nomi propri, tr. it., Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 36). 14 M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 180.

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cando. Il rapporto educativo è un rapporto che si fonda sulla reciprocità io-tu, su una autentica relazione tra le persone, su un dare e ricevere scambievole. Si tratta però di una mutualità limitata, in quanto esclude la reciprocità della ricomprensione.

5. Accettazione e conferma L’esperienza della parte opposta costituisce l’essenza, l’origine e il fondamento del rapporto educativo. È accompagnata dalla consapevolezza dei propri limiti, dalla difficoltà di cogliere l’altro, l’educando, nella profondità del suo essere e di poterlo quindi realmente aiutare a diventare ciò che deve essere. Ma è accompagnata, anche, dalla ricchezza di essere con l’altro e per l’altro. Egli deve saper cogliere nell’educando, anche da piccoli indizi, l’accettazione o il rifiuto di ciò che lui, l’educatore, gli offre. Deve, soprattutto, rendersi conto di “ciò di cui l’uomo ha bisogno per divenire tale”, ma anche di quanto egli, l’educatore, «può offrire di ciò che serve, ciò che può o non può ancora dare»15. E la direzione verso cui muoversi, in tutto questo, è suscitare, consentire e promuovere l’autoeducazione e dunque il processo con cui l’educando trova e mobilita in sé le forze per farsi uomo. In ciò l’educatore non dovrà limitarsi ad accettare l’educando così com’è e assecondarne gli impulsi anche più superficiali, ma dovrà individuarne e confermarne la natura profonda, la tendenza essenziale, il desiderio fondamentale, ciò che muove l’aspetto più intimo del suo essere16. Cade qui l’opportunità di richiamare la distinzione operata da Buber tra accettazione e conferma. Accettazione è il semplice “dir di sì” all’altro, così com’è. Conferma è dir di sì all’altro non solo come è, ma come

15

Ivi, p. 181.

16 Cfr. M. Buber, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico (1948),

tr. it. di G. Bonola, Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, Magnano (VC) 1990, pp. 2931.

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potrebbe divenire. Nel Dialogo con Rogers17, Buber è molto netto in proposito. La “accettazione” è far sentire all’altra persona che io la accetto esattamente come ella è […] Ma questo non è ancora ciò che io intendo per “confermare l’altro”. Perché accettare è accettare l’altro per come è in questo momento, nella sua attualità. Confermare significa anzitutto accettare tutte le potenzialità dell’altro […] io non solo accetto l’altro per come è, ma lo confermo, in me stesso, e poi in lui, in relazione a questa potenzialità che è intesa da lui ed essa allora si può sviluppare, può evolversi, può entrare a far parte della realtà della vita. Egli può fare di più o di meno per questa possibilità, ma anche io posso fare qualcosa [ … ]. Ho a che fare con il problematico che è in lui. E ci sono casi in cui devo aiutarlo contro se stesso. Lui vuole che lo aiuti contro se stesso […] posso aiutare quest’uomo anche nella sua lotta contro se stesso. E ciò lo posso fare soltanto se distinguo tra “accettare” e “confermare”18.

La distinzione fra accettazione e conferma – tra accettare l’altro così com’è o confermarlo nel movimento verso ciò che potrebbe essere – segna il discrimine tra pedagogia moderna e pedagogia dialogica. E diventa criterio dell’essere e dell’operare dell’educatore. Questi, man mano che individua e conferma il movimento profondo dell’educando e ciò di cui ha bisogno, gli deve offrire ciò che gli serve per diventare uomo, per autoeducarsi e crescere nella responsabilità. Ma ciò che gli offre non lo trae da sé, da ciò che è, che sa e che fa, non si illude di possedere a priori ciò che occorre all’altro. Lo trae dalle “forze costruttive del mondo”, dal “mondo della solidarietà rivolto a Dio”. Torna qui il concetto fondamentale della pedagogia buberiana. «Educazione di 17 Il Dialogo Martin Buber - Carl Rogers lo si può leggere ora nella traduzione, introdotta e commentata, di Daniele Bruzzone: D. Bruzzone, Relazioni di cura e cura della relazione. Il dialogo Martin Buber - Carl Rogers (1957), in «Da persona a persona. Rivista di studi rogersiani», novembre 2007. 18 Ivi, pp. 84-85.

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esseri umani tramite esseri umani significa selezione del mondo agente tramite una persona e in essa. L’educatore raccoglie le forze costruttive del mondo. In se stesso, nel suo io riempito di mondo, egli separa, rifiuta e conferma»19. Ma separa, rifiuta e conferma non in base alle proprie inclinazioni e predilezioni, ma in relazione a ciò di cui l’educando ha bisogno. Non si sovrappone all’altro, non gli prescrive il cammino, ma nemmeno si limita a facilitarglielo (può renderglielo più impegnativo) e ad accompagnarlo (può e deve guidarlo). Lo aiuta, lo soccorre. E, certo, lo fa con “un dito che accenna, con uno sguardo interrogativo”20, lo fa «in un sistema di affidabile contrappunto di dedizione e riservatezza, confidenza e distanza»21.

6. L’educazione del carattere Nel saggio Sull’educazione del carattere, Buber fissa l’intima natura e lo scopo del lavoro educativo. «L’educazione che merita questo nome – esordisce – è essenzialmente educazione del carattere»22. In essa si ha a che fare con la totalità della persona, con ciò che è e soprattutto con ciò che può diventare. Per questo non serve “far lezione”, fare discorsi e raccomandazioni. «Sulla totalità dell’allievo agisce veramente solo la totalità dell’educatore, la sua autentica esistenza»23. E l’unica via d’accesso all’allievo è la sua fiducia. Quando egli accetta l’educatore come persona, quando sente che si può fidare perché questa persona partecipa alla sua vita, lo conferma e lo sostiene, allora tutto ciò che accade fra i due può aprire la strada all’educazione del carattere. Nella quale, d’altra parte, non serve nemmeno rifarsi a valori assoluti, eterni, universal19

M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 181. Ivi, p. 169 21 Ivi, p. 174. 22 M. Buber, Sull’educazione del carattere, in M. Buber, Discorsi sull’educazione (a cura di A. Aluffi Pentini), tr. it., Armando, Roma 2009, p. 83. 23 Ivi, p. 85. 20

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mente validi, visto che nessuno, oggi, è disposto a riconoscerli. Occorre seguire un’altra via. Di fatto, sono troppi quelli che oggi s’illudono di trovare pacificazione e giustificazione in collettività, come gli Stati totalitari24, i partiti o istituzioni simili, che si considerano l’istanza più alta per i loro seguaci. È necessario, allora, salvare il sé personale dal collettivismo che divora ogni identità, «che inghiotte tutte le possibilità di essere se stessi»25. Il desiderio di salvarsi si nasconde nel dolore del singolo per questa relazione turbata con il proprio sé. Il primo compito del vero educatore è mantenere vivo il dolore e risvegliare il desiderio. Ma il suo obiettivo più importante è suscitare il sorgere del grande carattere, «quello che grazie alle sue azioni e ai suoi atteggiamenti risponde alle richieste della situazione a partire da una profonda disponibilità, dalla responsabilità di tutta la sua vita. Cosicché l’insieme delle sue azioni e atteggiamenti rivelino nella volontà anche l’unità del suo essere, del suo essere radicato nella responsabilità»26. In effetti, una parte della gioventù comincia a rendersi conto che, se si è assorbiti dal collettivo, si perde la responsabilità per il mondo e per la vita. Questa gioventù non sa che il suo cieco affidarsi al collettivo è nutrito dal desiderio inconscio di sottrarsi alla responsabilità e che questo sottrarsi è una fuga. Non lo sa, ma comincia a rendersi conto che chi non decide responsabilmente con tutto il suo essere ciò che fa e non fa diventa sterile d’animo. È a questo punto che l’educatore può e deve intervenire. Egli può aiutare a trasformare questo senso di mancanza in chiarezza di coscienza e forza di aspirazioni. Egli può risvegliare il coraggio di 24 «In tutti i suoi ultimi scritti, tra il 1950 e il 1955, Buber è stato continuamente preoccupato dall’esistenza degli Stati totalitari e dal sentimento che bisognava ad ogni costo costituire una teoria, una filosofia del Noi che eviti tali aberrazioni» (G. Marcel, L’anthropologie philosophique de Martin Buber, in AA.VV., Martin Buber, l’homme et le philosophe, Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1968, p. 38). 25 M. Buber, Sull’educazione del carattere, cit., p. 94. 26 Ivi, pp. 99-100.

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accollarsi nuovamente sulle spalle la propria vita. Egli può prospettare ai suoi allievi l’immagine del grande carattere, che non si tira indietro rispetto alle risposte da dare alla vita e al mondo, e invece assume responsabilmente tutto ciò che di essenziale incontra27.

Solo il grande carattere può opporre, all’ingannevole molteplicità di contraddizioni in cui il collettivo irretisce la persona, «la rinascita dell’unitarietà personale, dell’unitarietà di essere, vita e opere»28. Né deve credersi che l’assunzione di questa responsabilità conduca all’individualismo. Non si tratta di un ritorno all’individualismo, ma di un passo per superare la frattura tra individualismo e collettivismo. «La vera e propria educazione del carattere è la vera educazione alla comunità»29. Non è immaginabile, nel pensiero di Buber, un ripiegamento della persona su di sé e nemmeno della singola comunità o del singolo gruppo. Nel saggio Educazione e visioni del mondo l’Autore, a questo proposito, sostiene che il lavoro di formazione, in presenza di gruppi che si ispirano a visioni del mondo diverse, li unisce in una grande comunità e che questa deve intendersi non come unione di persone che la pensano allo stesso modo, bensì come una vita vissuta in piena reciprocità da persone che hanno origini e appartenenza comuni anche in presenza di opinioni diverse. E precisa che non serve un’apparente comprensione minima, ma la conoscenza di un rapporto di verità vista dall’altro versante, dalla prospettiva che non è la mia, affinché si possa avere un rapporto reale con la verità dalla parte dell’altro; non ‘neutralità’, ma solidarietà, presenza vitale di uno per l’altro, mutualità, attivo interscambio. Non abolizione dei confini tra associazioni, circoli e partiti, ma conoscenza comune della realtà comune e verifica comunitaria della responsabilità comune30. 27

Ivi, p. 102. Ivi, p.103. 29 Ivi, p. 104. 30 M. Buber, Bildung e Weltanschauung, in M. Buber, Discorsi sull’educazione, cit., p. 77. 28

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È chiara l’estensione al campo culturale e politico del principio della precomprensione. Un insegnamento, oggi, di bruciante attualità. 7. Il principio dell’educazione Delineato il giusto atteggiamento educativo (contrappunto di dedizione e riservatezza, confidenza e distanza) e stabilito l’obiettivo di suscitare il grande carattere, sembra raggiunto il “principio” dell’educazione, la sua norma e massima costante. Ma non esiste nessuna norma e massima dell’educazione che valga sempre e dovunque. L’unico principio cui ci si può rifare, in una situazione come l’attuale, caratterizzata da un generale sommovimento e dalla disgregazione dei legami tradizionali, è quello della responsabilità personale31. Ma questa altro non è che la disponibilità a rispondere all’appello che giunge dall’altro e dalle situazioni in cui l’altro è coinvolto. Anch’essa, dunque, è tutt’altro che costante e non ha davanti a sé nessuna forma, nessun modello. Che cosa rimane allora da formare? «Nient’altro che l’immagine di Dio. Questo è l’indefinibile “verso dove”, solo fattuale, dell’educatore che è nella responsabilità»32. Ma, possiamo interpretare, immagine di Dio è l’uomo. E l’uomo non può creare, ma «può invocare il creatore, affinché salvi e compia la propria immagine»33, in sé e negli altri. Un itinerario rispettoso di questa impostazione è quello tracciato ne Il cammino dell’uomo, secondo il quale ciascuno ha davanti a sé un cammino assolutamente personale, per percorrere il quale deve prendere coscienza di sé, individuare la propria tendenza essenziale, raccogliere attorno ad essa tutte le energie e, procedendo con risolutezza dalla scissione all’unificazione, aprirsi agli altri e dedicarsi all’opera da compiere nel mondo e cui Dio lo ha destinato. Il vero educatore deve esercitare la sua responsabilità disponendosi a “soccorrere” l’educando nell’intraprendere questo itinerario. 31

R. Misrahi, Martin Buber, philosophe de la rélation, cit., p. 66. M. Buber, Sull’educativo, cit., p. 182. 33 Ibidem. 32

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