Francesco Bossio_Fondamenti di pedagogia interculturale

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Francesco Bossio

FONDAMENTI DI PEDAGOGIA INTERCULTURALE Itinerari educativi tra identità, alterità e riconoscimento

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione

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Capitolo primo: Il problema pedagogico dell’identità 1.1. L’identità dialogica 1.2. L’identità come materia signata in San Tommaso d’Aquino 1.3. L’identità negata come neotenia nell’era della globalizzazione 1.4. Identità come cura di sé

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Capitolo secondo: L’alterità e i paradigmi educativi 2.1. L’alterità come categoria pedagogica in Emmanuel Lévinas 2.2. Il rapporto io-tu come fondamento pedagogico della relazione in Martin Buber 2.3. Sé come un altro: identità e alterità in Paul Ricœur

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Capitolo terzo: Il riconoscimento come percorso per l’inserimento armonico delle identità plurali nella società complessa 79 3.1. Il riconoscimento come radice pedagogica della relazione 79 3.2. Il riconoscimento della persona nelle stagioni dell’esistenza 91 3.3. Il riconoscimento dell’altro come fondazione etica 104 della civile convivenza Capitolo quarto: Educare alla pluralità. Lineamenti di pedagogia interculturale 113 4.1. L’educazione come costruzione dell’intersoggettività 113 4.2. Educare alla pluralità nella società del Melting Pot 123


4.3. Educare le identitĂ in divenire. I bambini stranieri in classe 4.4. La pedagogia interculturale come fenomenologia personalistica

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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Introduzione

L’uomo non vive e non agisce mai da solo, ma è strutturalmente orientato al rapporto con gli altri, anzi, è proprio in questo rapporto che il soggetto realizza pienamente la propria personalità e la propria natura. Parlare di pedagogia interculturale in una società come la nostra dominata dalla globalizzazione, dal relativismo e dalla reificazione vuol dire necessariamente confrontarsi con ciò che l’uomo è, con la sua identità, riflettere sulle possibilità di incontro, di confronto e di riconoscimento, analizzare le istanze educative che possono, concretamente, condurci verso una società plurale e democratica. L’incidenza dell’altro, nel costituirsi dell’io, è quasi uno statuto dell’esistere umano, una norma dettata dalla sua stessa indole, per la quale sottrarsi alla dimensione della relazionalità non solo significa andare incontro ad una aridità ontologica ed esistenziale ma, ancor più, morire all’ideale stesso di uomo, alienando una di quelle componenti che rende tale l’essere umano, elevando il suo essere a quel mistero affascinante che egli stesso, dagli albori della sua esistenza, anela a conoscere e a rivelare più di qualsiasi altra cosa. Il soggetto che prende forma, si caratterizza, si emancipa e si determina per mezzo delle esperienze, delle emozioni e, soprattutto, delle relazioni che attraversano la sua esistenza. La dimensione relazionale, l’incontro con l’altro da sé, rappresentano fattori cardine della dinamica educativa e formativa. Nell’incontro vivo con l’altro, nella corrispondenza autentica fra persone, l’essere umano sboccia alla vita, nutrendo ed arricchendo la propria interiorità. La pedagogia, in particolare secondo l’approccio critico e dialogico delle “scienze dell’educazione”, si presenta come scienza in costante confronto con la vita, che nasce nel concreto agire educativo, intenzionando9


lo e conferendogli significato; in tal senso, essa genera un sapere dotato di senso, capace di dialogare con l’effettivo divenire umano e di orientarlo in modo critico, progettuale e teleologico. La formazione umana, dinamica delicata e costantemente in fieri, è intesa, all’interno di queste riflessioni, come un continuo miglioramento del sé che si realizza, anzitutto, nella dimensione intersoggettiva e tende, incessantemente, verso orizzonti esistenziali capaci di appagare, sempre un po’ di più, quell’inquietudine che accompagna da sempre l’essere umano e che, lungi da essere un elemento da rifiutare o da negare – così come vorrebbe il mondo moderno – innerva l’uomo di intenzionale vitalità invitandolo a spendere positivamente la straordinaria opportunità dell’essere nel mondo. Lo sviluppo armonico del soggetto, l’itinerario che lo porta alla scoperta, alla coltivazione e alla piena realizzazione delle sue potenzialità si esplica attraverso una serie di passaggi sostanziali che avvengono necessariamente all’interno di un determinato contesto che influenzerà in maniera determinante l’esito di queste processualità. L’incontro tra l’identità tendenziale della persona e il suo sviluppo nella storia – il trovarsi al centro di tutta quella serie di eventi, esperienze, incontri, relazioni, emozioni che popolano l’esistente – è continuo, dinamico ed inscindibile. Il rapporto tra la struttura sociale e il processo formativo, a lungo indagato all’interno della ricerca pedagogica, è ancora oggi la chiave di volta per comprendere i problemi dell’educazione contemporanea e, ancor più, per costruire ipotesi teoriche e operative finalizzate alla loro risoluzione. Il mondo è oggi popolato da una varietà di persone che – come mai nella storia dell’uomo – si trovano nelle condizioni fisiche e virtuali di entrare in relazione tra loro. Tuttavia, proprio nel tempo dell’efficienza delle comunicazioni si registra una crisi di relazioni autentiche e qualitativamente significative all’interno delle quali l’essere umano può effettivamente fare esperienza dell’altro. La rapidità evolutiva con la quale la nostra società si è trasformata nel corso degli ultimi decenni, i cambiamenti demografici, economici e culturali che hanno segnato e continuano a segnare il nostro tempo rendono sempre più tangibili i limiti del nostro sistema sociale all’interno del quale il confronto interetnico rappresenta una delle realtà più difficili e delicate. Più aumentano le differenze o, meglio, più aumentano le possibilità 10


di venire a contatto con una alterità che esplica le modalità esistenziali in maniera differente dalla nostra (considerando che la varietà di culture è sempre esistita costituendo una grande ricchezza per la specie umana) più è necessario trovare elementi di unione, estrapolare il generale dal particolare in un cammino che porti ad accettare la pluralità come espressione di una modalità diversa ma analoga di vivere l’esistenza. Componendosi e distruggendosi con estrema rapidità, l’apparato gnoseologico, esperienziale e persino assiologico della civiltà odierna non fa che gettare l’essere umano in una dimensione di continua incertezza che può essere dominata solo andando alla radice della humanitas, ovvero dei bisogni, delle tensioni, degli aneliti più propri dell’umana esistenza, dimensioni che vanno al di là della contingenza del presente indirizzandolo, altresì, verso orizzonti di senso e significato. La dimensione relazione del soggetto all’interno del suo processo di formazione rende la persona stessa viva, aperta e permeabile al confronto profondo con l’alterità tutta. Questo fondamentale assunto pedagogico, analizzato e ribadito con forza all’interno del dibattito contemporaneo, assume oggi nell’era planetaria un significato profondo che rappresenta una miniera da cui è possibile estrarre infinite possibilità di emancipazione ma che può, nel contempo, diventare un oscuro labirinto in cui è sempre più facile perdersi. Compito dell’educazione, ed in particolare dell’educazione formale, è quello di dotare la persona di un faro cognitivo, metodologico e valoriale con il quale affrontare questa preziosa opportunità cogliendone i molti lati positivi e annullando, per quanto è possibile, le occasioni di conflitto. Coltivare una umanità proiettata verso una dimensione plurale autenticamente intesa (dunque non solo come tolleranza del diverso ma come capacità di andare oltre la diversità formale scorgendo le infinite possibilità di incontro) è possibile solo tramite i sistemi educativi che hanno oggi la possibilità – contingente, teorica ed applicativa – di divenire il motore di una società nuova. Le riflessioni sull’identità, sull’alterità, sul riconoscimento e sull’educazione condotte all’interno di questo volume, ci pongono dinanzi alla precarietà e alla problematicità esistenziale che investono il soggetto contemporaneo, un soggetto sempre più bisognoso di essere illuminato, indirizzato e accompagnato nel suo percorso di formazione e di crescita 11


attraverso paradigmi pedagogici ed educativi che ne comprendano i bisogni autentici, le fragilità e le sconfinate potenzialità cognitive, affettive e relazionali. Le considerazioni teoriche e metodologiche fin qui espresse hanno, in definitiva, l’obiettivo di delineare alcune linee guida in grado di orientare l’atto educativo verso orizzonti più propriamente umani, dunque corrispondenti ad una idea di uomo e di formazione lontana dalle deviazioni e dai “falsi bisogni” propagandati dalla società consumistica e reificata. L’elaborazione di percorsi educativi che abbiano come obiettivo la coltivazione del soggetto e il suo inserimento armonico all’interno di una società aperta e democratica deve infatti prendere le mosse, a nostro avviso, dalla consapevolezza di “chi è l’uomo”, domanda antica ed eternamente insoddisfatta che ha trovato, nel corso del tempo e della storia, due importanti interpretazioni – una data dal personalismo e l’altra dalla riflessione fenomenologica – che, a nostro avviso, ben si prestano alla complessa realtà contemporanea e che, se ben integrate, possono generare suggestioni pedagogiche tutt’altro che banali. Le analisi, le riflessioni, le proposte pedagogiche scaturite all’interno di questo lavoro vogliono richiamare l’essere umano verso dinamiche esistenziali di autenticità e di senso, invitandolo per mezzo di una educazione propriamente intesa a declinare l’invito della modernità liquida e reificata a chiudersi in se stesso e a cercare fatui soddisfacimenti nella materialità e nell’omologazione, quanto piuttosto ad aprirsi con autenticità al dialogo con l’altro, con chi riconoscendolo come persona auspica a sua volta di essere visto come tale. F.B.

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Capitolo primo

Il problema pedagogico dell’identità

1.1. L’identità dialogica “La formula dell’itinerario al significato della realtà è quella di vivere il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla […] Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro”. L. Giussani, Il senso religioso

Potrebbe sembrare anacronistico e paradossale parlare di identità in un’epoca come la nostra marcatamente segnata dal materialismo, dal nichilismo e dalla globalizzazione con tutte le implicazioni, più o meno evidenti, che queste comportano, come il conformismo, l’omogeneizzazione del modo di pensare, il relativismo, la negazione della coscienza, la funzione ipertrofica dell’apparire, insieme all’oblio personale e collettivo della memoria ed al trionfo, come paradigma onnicomprensivo, della presenzialità, dell’hic et nunc1. 1 Sugli aspetti complessi che caratterizzano la globalizzazione e sulle implicazioni a questa correlate vedi in particolare Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari, 2001; Id., Globalizzazine e glocalizzazione, Armando, Roma, 2005; M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005; G. Bocchi, M. Ceruti, Educazione e globalizzazione, Raffaelo Cortina, Milano, 2004; L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari, 2007; C. Giaccardi, M. Magatti, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2001; A. K. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano, 2003; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari, 2005. Sulle implicazioni educative e pedagogiche correlate a questi temi vedi M. Callari Galli, F. Cambi, M. Ceruti, Formare alla complessità. Prospettive

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Il termine identità rimanda, nella sua radice etimologica identitāte, īdem, ad una “uguaglianza completa e assoluta” ovvero ad una “qualificazione di una persona […] per cui essa è tale e non altra”2. A questa definizione tradizionale di identità fa eco una celeberrima espressione di Willard Van Orman Quine: “A cosa serve la nozione di identità, se identificare un oggetto con se stesso è banale e identificarlo con qualcos’altro è falso?”3. Potrebbe essere un valido punto di partenza quello di cercare di analizzare i nessi e le caratteristiche peculiari che connotano la persona umana come proprium identitario peculiare e irripetibile. Anche se è bene precisare che il concetto di identità non può essere catalogato in maniera rigida, definita e stabile, organizzato secondo modalità deterministiche e congruenti cronologicamente: si pensi, ad esempio, ad una persona adolescente che pensa, sente, agisce e interagisce con gli altri secondo alcune modalità che percepisce come proprie e che caratterizzano il suo essere nel mondo; pensiamo poi alla stessa persona qualche lustro più tardi nella piena età adulta. Cosa rimane, nei tratti peculiari e caratteristici, nell’adulto dell’adolescente che è stato? È chiaro che l’esperienza, il vivere la vita, l’interagire, il dialogare continuamente con gli altri, oltre naturalmente che con se stessa, portano la persona a crescere, ad evolversi, auspichiamo, ad ascendere verso la significatività autentica e al senso della propria esistenza, ma i tratti peculiari e caratteristici che connotano il proprium, l’identità unica e irripetibile della persona permangono come uno sfondo sul quale imprimere le trame della propria esistenza. L’identità caratterizza e connota, in maniera particolare e caratteristica, tutti quegli elementi che individuano una persona in quanto tale. Un elemento caratterizzante della persona, come vedremo più avanti, è dell’educazione nelle società globali, Carocci, Roma, 2003; F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, UTET, Torino, 2006; M. C. Demaio, Formazione e società complessa. Il ruolo della scuola, Carocci, Roma, 2010; G. Mari, Oltre il frammento. L’educazione della coscienza e le sfide del postmoderno, La Scuola, Brescia, 1995; F. Pinto Minerva, R. Gallelli, Pedagogia e post-umano. Ibridazioni identitarie e frontiere del possibile, Carocci, Roma, 2004; A Portera, Globalizzazione e pedagogia interculturale. Interventi nella scuola, Erickson, Trento, 2006; R. Regni, Geopedagogia. L’educazione tra globalizzazione, tecnologia e consumo, Armando, Roma, 2002. 2 Cfr. M. Cortellazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, voce “identità”, Zanichelli, Bologna, 2004. 3 W. V. O. Quine, Quidditates (1987), trad. it. a cura di L. Bonatti, Garzanti, Milano, 1991, p. 121.

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la costante ricerca conoscitiva di questi nuclei profondi, identitari, che la segnano, anzitutto, nella direzione di zoon logon echon attraverso il logos raccogliendo il molteplice nell’unità del discorso. Questa apertura dialogica costitutiva della persona viene agita, come dicevamo, attraverso il logos in una apertura dialettica positiva di ricerca di senso, interiore anzitutto, e con gli altri in una feconda e inderogabile dimensione relazionale. Su questo così si esprime Platone nel Teeteto: “Su! Che mai vuol significarci ragione, ragionamento? Una di queste tre cose mi sembra voglia dire. […] La prima sarebbe il rendere manifesto il proprio pensiero mediante la voce, con verbi e nomi, come in specchio o acqua imprimendo l’opinione nella corrente dell’emissione vocale. […] quanti una cosa giusta opinano, tutti è chiaro che l’avranno con ragione, e in nessun caso ci sarà ancora giusta opinione senza scienza”4. Il logos platonico è anzitutto discorso, ma è anche ragione, capacità di analisi verosimile degli elementi interrelati; è ancora caratterizzazione, ovvero studio, riflessione sulle peculiarità specifiche che stabiliscono le differenze. Il logos è linguaggio, elemento peculiare e caratteristico della persona in relazione; è possibilità logica e razionale di percezione della realtà, e di tutti gli elementi che la caratterizzano e che quindi proprio attraverso il logos possono essere analizzati; ancora è diaphorótēs differenza, come dicevamo, segno distintivo che indica la distinzione. Così Platone scrive: “[…] se tu cogli la differenza di una determinata cosa, per cui differisce dalle altre, tu coglierai la ragione, come alcuni dicono: ma finché tu tocchi qualcosa di comune, avrai la ragione di quelle cose di cui è la proprietà comune. […] Chi dunque, con giusta opinione, su qualsiasi degli esseri colga la differenza di esso dagli altri, sarà divenuto sciente di ciò di cui prima era opinante”5. Platone indica proprio nella ragione l’elemento attraverso il quale emerge la distinzione, la differenza; comprendere il logos è comprendere la diversità, la “definizione reale” dei soggetti e degli oggetti. Attraverso le molteplici accezioni del logos platonico sono emersi alcuni importanti elementi di riflessione che ci rimandano, direttamente, alla sfera relazionale della persona: quella interna del dialogo interiore come imprescindibile motus maieutico, nel senso socratico e educativo, e quella del rapporto di coimplicazione persona/ambiente. La persona è 4 5

Platone, Teeteto, trad. it. di C. Guzzi, Mursia, Milano, 1985, 206 c-e, pp. 280-281. Ivi, 208 d, pp. 288-289.

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continuamente in relazione con altre persone attraverso il logos, la comunicazione e proprio tramite l’interazione dialogica la persona inizia, già dall’infanzia, quel processo auto conoscitivo che declinerà interamente tutte le stagioni della sua esistenza6. Il linguaggio, non solo quello verbale ma anche quello mimico e gestuale, è lo strumento principale di relazione già a partire dalla prima infanzia, in cui il bambino attraverso un “linguaggio esteriore”, parafrasando Vygotskij, stabilisce una relazione comunicativa con le persone che gli stanno intorno. “La funzione primaria del linguaggio – scrive Vygotskij – sia nei bambini che negli adulti, è la comunicazione, il contatto sociale. Il primissimo linguaggio del bambino è quindi essenzialmente sociale. Dapprima esso è globale e plurifunzionale; successivamente le sue funzioni divengono differenziate”7. Il linguaggio rende possibile la relazione sociale, porta la persona, indipendentemente dalla sua età cronologica, status sociale, cultura, ad “essere nel mondo con gli altri”, utilizzando una celeberrima espressione heideggeriana che incontreremo ed analizzeremo, nel presente lavoro, più avanti. Vygotskij distingue poi altre due “funzioni” principali del linguaggio: quello “egocentrico” e quello “interiore”. Il linguaggio quindi, nella prospettiva vygotskijana, nasce dall’interazione del bambino con l’ambiente esterno nel quale vive e interagisce maggiormente, e solo negli stadi successivi di sviluppo diventa linguaggio “interno”, interiore, contribuendo significativamente alla strutturazione del pensiero8. Nel bambino una prima manifestazione del linguaggio avviene attraverso una reciprocità dialogica che si instaura – come dicevamo – con la madre o entrambi i genitori o le persone con le quali maggiormente entra in contatto. Queste prime dinamiche comunicative rappresentano una forma embrionale, ma estremamente importante, di apprendimento, attraverso le quali il bambino inizia a relazionarsi non solo con le persone che lo circondano ma anche con le forme e gli “strumenti culturali”, mediati attraverso attività pratiche: nella primissima infanzia, ad esempio, può essere la manipolazione o il portare alla bocca, il succhiare o il mordere, modalità attraverso cui il bambino sperimenta, 6

Cfr. R. Guardini, Le età della vita. Loro significato educativo e morale (1953), Vita e Pensiero, Milano, 19922, pp. 31-66. 7 L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio (1934), Giunti-Barbera, Firenze, 1966, p. 37. 8 Ibidem.

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inventa o usa questi “strumenti” per adattarsi all’ambiente in cui vive. Per Vygotskij proprio attraverso questi “linguaggi” il bambino inizialmente esplica questa funzione di socializzazione per poi utilizzare questi strumenti, segni e simboli comunicativi acquisiti per strutturare meglio il suo pensiero9. Analogamente a Vygotskij, Jerome Bruner riconosce che i processi mentali del bambino sono fortemente influenzati dalle interazioni sociali che questi andrà ad esperire ed in particolare analizza il legame che si stabilisce tra il bambino e le figure genitoriali o chi maggiormente si prende cura di lui. In questo rapporto comunicativo e relazionale il bambino e l’adulto interagiscono continuamente e reciprocamente in maniera interattiva comunicando le rispettive “intenzioni” e codificandole a vicenda. Il bambino, secondo Bruner, percepisce l’adulto, i genitori o le persone che maggiormente frequenta, come esseri intenzionali e gradatamente riesce trasformare la comunicazione in verbalizzazione in quanto, in questa dinamica, viene implicata l’elaborazione di una intenzione e di una attività interpretativa10. “[…] i bambini – scrive Michael Tomasello – muovono da costruzioni linguistiche organizzate intorno a particolari elementi linguistici e solo gradualmente formano costruzioni più astratte, che possono poi diventare entità simboliche che vanno a costituire un livello ulteriore della competenza linguistica. […] Della massima importanza sono tre insiemi di processi: l’apprendimento culturale, il discorso e la conversazione, l’astrazione e la schematizzazione”11. Il bambino apprende i segni e i codici linguistici attraverso raffinati processi “imitativi” dagli adulti con i quali interagisce maggiormente12. Così come utilizzando le stesse modalità “imitative” il bambino inizierà ad assumere come propri i codici e le modalità che appartengono alle persone, ed ai luoghi, con i quali si relaziona di più. Analogamente l’adulto si esprime utilizzando codici e segni della cultura nella quale vive declinando questi paradigmi con la sua personalità, il suo modo d’essere, la sua identità. Il linguaggio, e più precisamente i dialoghi, che ciascuno di noi fa declinano in primis la condizione del modo “specifico” che noi instauriamo in rapporto 9

Ibidem. Cfr. J. S. Bruner, Il linguaggio del bambino (1983), Armando, Roma, 1987. 11 M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana (1999), Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 172-173. 12 Cfr. ivi, p. 175. 10

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al nostro “essere nel mondo”. In altre parole, la persona non parla un linguaggio, ma “è un linguaggio”13. Il linguaggio, il dialogo, è qualcosa che ci appartiene, ci caratterizza, ci rende esseri relazionali, con noi stessi anzitutto – il dialogo interiore, la riflessione, la nostra percezione, la nostra autonarrazione – e con gli altri nei rapporti continui io-tu e io-altri come un tramite originario e costitutivo che unisce e parimenti distingue le persone, in quanto depositarie ciascuna della propria identità, nella loro irriducibile pluralità14. Ciascuna persona è depositaria di un proprium che la rende unica e irripetibile e le complesse ed articolate dinamiche che le permettono di prendere coscienza delle sue peculiarità caratteristiche emergono, prioritariamente, nell’incontro, nel confronto, nel dialogo, nella comunicazione che ciascuna persona, continuamente, esperisce. Etimologicamente il termine comunicazione rimanda allo “stare insieme con”, al “porre in comune”, proprio attraverso questa interazione comunicativa e dialogica con gli altri prende corpo quella complessa dinamica di svelamento dell’identità personale, già a partire dall’infanzia, la prima età dell’uomo in cui, come abbiamo visto, proprio attraverso gli stimoli comunicativi che riceve dagli altri e che rielaborati restituisce, il bambino può svilupparsi – iniziando progressivamente ad uscire, ad emanciparsi, dalla dimensione polimorfica e totalizzante del viluppo – per riconoscersi come essere singolo distinto dagli altri15. Nell’intero corso dell’umana esistenza, già a partire dall’infanzia come abbiamo visto, ogni atteggiamento, postura del corpo, movimento, oltre che espressione verbale sono comunicazione e queste relazioni comunicative radicano la persona nella realtà, con le sue particolari peculiarità, con il suo proprium identitario. Non è possibile, infatti, non comunicare16. 13 Cfr. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale (1967), Il Saggiatore, Milano, 1971, pp. 300-320. 14 Cfr. D. Dennett, Coscienza (1991), Rizzoli, Milano, 1993, pp. 255-282. 15 Sulle articolate dinamiche dello sviluppo del linguaggio nel bambino, vedi in particolare M. C. Corballis, Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, Cortina, Milano, 2008; S. I. Greenspan, Il bambino sicuro, Fioriti, Roma, 2005; M. Mazzeo, Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole, Editori Riuniti, Roma, 2003; M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, Cortina, Milano, 2009; Id., Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli, Bollati Boringhieri, Torino, 2010. 16 Il primo assioma della comunicazione, negli studi del Mental Research Institute, mostra che è impossibile non comunicare: qualsiasi interazione umana è una forma di co-

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1.2. L’identità come materia signata in San Tommaso d’Aquino Il problema dell’identità si lega, costitutivamente, a quello della persona già dal momento della nascita: un bambino appena nato deve immediatamente essere identificato con un nome, un cognome, quindi con un nucleo familiare di appartenenza ed un luogo dove questa nascita si è verificata, quindi, implicitamente, la cultura alla quale appartiene con il patrimonio di codici comportamentali, educativi, sociali. Questa identificazione primaria sancisce, fattivamente, il proprium peculiare e caratteristico che distingue quella persona da tutti gli altri. Questa identificazione attraverso i propri tratti distintivi è, anzitutto, inscritta nel corpo tramite il DNA personale che rimanda, anche da un punto di vista biologico e scientifico, all’unicità del soggetto17. Il nuovo nato è una progettualità aperta, completamente in fieri, che attraverso l’educazione, nell’intero corso della propria esistenza realizzerà, concretamente, il poter essere potenziale che aveva alla nascita. È questa la mission più radicale dell’educazione, quella di sviluppare quanto più umanamente possibile le potenzialità innate della persona e rendere concreto questo “progetto gettato”, questo poter essere, portare alla piena realizzazione umana questa potenzialità iniziale. All’opposto una mancanza di educazione limita lo sviluppo della persona, che al momento della nascita è solo candidata alla condizione umana, che resta così relegata nell’originario viluppo e non riesce ad emergere in processualità di crescita, acquisizione di consapevolezza di sé e di progettualità positiva per la propria esistenza. Educazione da educĕre, ex-ducĕre, trarre fuori, far emergere, e nell’altra radice etimologica edere, mangiare, consumare, nutrire e dunque coltivare, allevare. In ambedue le accezioni etimologiche il termine educazione ci rimanda direttamente all’oggetto del suo operare, ovvero al soggetto/persona che per poter ascendere alla pienezza ed alla significatività della sua condimunicazione. Qualunque atteggiamento assunto da un soggetto, diventa immediatamente gravido di significato per gli altri, cfr. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi (1967), Astrolabio, Roma, 1997, pp. 40-41. 17 Cfr. R. Klitzman, Am I my Genes? Confronting Fate and Family Secrets in the Age of Genetic Testing, Oxford University Press, USA, 2012; J. D. Watson, A. Berry, DNA. Il segreto della vita, Adelphi, Milano, 2006; J. D. Watson, La doppia elica, Garzanti, Milano, 2004.

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zione umana deve far emergere da sé, deve tirare fuori maieuticamente la propria identità per poi poterla nutrire, coltivare, in altre parole deve prendersene cura affinché possa crescere e ascendere pienamente alla realizzazione della sua umanità. Possiamo ancora pensare l’identità come una sorta di principio primo, unico, che appartiene a tutti gli esseri umani, il verbo della persona, la manifestazione autentica della sua natura specifica. San Tommaso d’Aquino indica come materia signata la distinzione del soggetto da quella della specie, riconosce una materia costitutiva comune a tutti gli uomini, “la natura”, che assume poi dei tratti caratteristici identificando ciascuna persona come singola, unica, diversa da tutti gli altri. “[…] E con altro nome – scrive San Tommaso d’Aquino – l’essenza viene anche chiamata natura. […] L’essenza comprende la materia e la forma. […] Ma poiché il principio di individuazione è la materia, da ciò sembrerebbe forse derivare che l’essenza, che comprende in sé al contempo la materia e la forma, sia soltanto particolare e non universale. […] E perciò occorre sapere che non la materia intesa in un modo qualunque funge da principio di individuazione, ma solo la materia segnata, e chiamo materia segnata quella che viene considerata sotto determinate dimensioni. Tale materia non viene posta nelle definizioni dell’uomo in quanto uomo, ma potrebbe invece essere posta sulla definizione di Socrate, se Socrate avesse una definizione. Nella definizione dell’uomo si pone invece la materia non segnata. […] Risulta così chiaro che l’essenza dell’uomo e quella di Socrate differiscono tra loro per il fatto che in una la materia è segnata e nell’altra no”18. L’identità coniuga e rende manifesta sia la materia comune, le caratteristiche comuni per natura a tutti gli esseri umani che il segno, il proprium peculiare e caratteristico, di ciascuna persona. Da questi presupposti, l’identità assume il valore costitutivo più alto di cui la persona è depositaria, ovvero l’insieme di peculiarità e caratteristiche che rendono ciascuna persona eguale a tutte le altre – “natura”, come ci suggerisce San Tommaso – e diversa, in quanto depositaria di un suo “segno”, di materia signata, di una sua identità unica ed irripetibile. Questo proprium caratteristico – materia signata, identità – non è solo da rintracciarsi in peculiarità fisiche e fisiologiche, si pensi alle differenze genetiche, di DNA 18

Tommaso d’Aquino, De ente et essentia (1252-1256), trad. it. L’ente e l’essenza, Bompiani, Milano, 2002, pp. 79, 83, 85, 87.

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come abbiamo visto, che rendono unica ciascuna persona, ma anche e soprattutto in qualità e modalità, modi d’essere, interiori che la persona può migliorare ed accrescere con l’educazione. Il processo educativo e il divenire della forma19, ovvero le successioni formative che declinano il modo d’essere della persona nell’intero corso della sua esistenza regolano e rendono possibile il passaggio, la trasformazione dell’individuo in persona. L’individuo è l’essere umano che vive, si riconosce e si realizza all’interno di quella dimensione comune (“di natura” riferendoci ancora a San Tommaso) da molteplici prospettive: socio ambientali, culturali, di gusti, tendenze e aspettative, dinamiche identificative e di riconoscimento, luoghi comuni, mode, consumismo. La persona si affranca da queste istanze comuni e collettive e cerca di emanciparsi coltivando e curando il proprium, la sua dimensione interiore più profonda, la materia signata, la sua identità, ovvero i nuclei più autentici e intimi del sé tendendo alla personale individuazione. Così il soggetto, l’individuo, diviene persona quando ascende alla sua forma autentica, quando prende congedo dai tratti comuni (lo stato di “natura”, parafrasando ancora San Tommaso) per fare prevalere nella sua interiorità le istanze proprie, che appartengono solo a lui e a nessun altro. In altre parole, si allontana dalle modalità, dai tratti comuni per affermare le differenze personali che distinguendolo dagli altri lo rendono autenticamente se stesso, persona unica ed irripetibile. L’altro è una risorsa impareggiabile, come vedremo più avanti, fonte di confronto e di stimolo, in tutte le stagioni dell’umana esistenza, ma tuttavia è necessario che la persona ascenda prioritariamente alla piena consapevolezza di sé, alla sua essenza più autentica, il proprium, l’identità di essere singolare, unico ed irripetibile. Queste acquisizioni, ovviamente, non portano la persona ad isolarsi come una “monade”, anzi all’opposto ascendendo all’essenza più autentica la persona incontra gli altri e vi si relaziona in maniera diversa, più autentica, positiva e progettuale. Proprio distinguendosi dagli altri la persona non confonde più le istanze proprie con quelle dell’al19

Il percorso formativo, pedagogicamente, si caratterizza come un continuum, come una evoluzione continua ed inarrestabile della persona. Sul tema della formazione della persona nel corso dell’umana esistenza vedi F. Bossio, Il divenire della forma. Riflessioni pedagogiche sulla senescenza, Anicia, Roma, 2008.

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tro, si pensi ad esempio alle dinamiche psicologiche di “proiezione” e di “spostamento”20, ma agisce maieuticamente il riconoscimento: ovvero, riconoscendo, autenticamente, se stessa nella sua identità la persona riconosce anche l’altro nelle sue peculiari caratteristiche che lo rendono persona. “[…] Se infatti – scrive San Tommaso d’Aquino – la comunanza rientrasse nel concetto di uomo allora in tutto ciò in cui fosse l’umanità dovrebbe trovarsi anche la comunanza, e ciò è falso, perché in Socrate non si ritrova alcuna comunanza, ma tutto ciò che in lui è individuato”21. La persona diviene autenticamente tale solo dopo essersi appropriata delle qualità proprie, senza questo passaggio è un individuo soggetto allo stato di “natura”, alla “comunanza”, ovvero allo status primigenio di viluppo, come abbiamo detto, una condizione polimorfica e confusa di obnubilamento di sé e della realtà. Quando la persona inizia a relazionarsi con la sua verità, il proprium, l’identità, progressivamente comincia a coltivare se stessa seguendo nuove modalità, inizia a prendersi cura delle sue istanze migliori, cercando, nel contempo, di trasformare i suoi aspetti caratteriali meno nobili in istanze migliori. Il “conosci te stesso” socratico è il punto di avvio di un lungo e faticoso percorso di miglioramento attraverso la dialettica interiore, anzitutto, e poi quella con le altre persone, come progressiva acquisizione di consapevolezza. L’educazione è lo strumento attraverso il quale queste progressive acquisizioni di conoscenza di sé, quindi di crescita interiore, di miglioramento, di trasformazione, dicevamo, delle parti meno nobili del carattere in modalità migliori, possono autenticamente compiersi. Ad esempio l’aggressività, dal latino aggrĕdi, andare verso, è una energia libera, “di natura”, della persona che può essere educata ed incanalata in una direzione positiva, propositiva e progettuale invece che, all’opposto, rivolta per contrapporsi o sopraffare l’altro. Quando la persona inizia a rapportarsi, dialetticamente, con se stessa, mettendosi in discussione e coltivando la propria autonomia, personale, economica, di pensiero, parimenti inizia a relazionarsi, ad aprirsi con verità e sincerità all’altro, in una dimensione di complementarità, di confronto positivo e di reciprocità, di condivisione. 20 Cfr. A. Freud, L’io e i meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze, 1967; S. Freud, Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa, in Id., Progetto di una psicologia e altri scritti 1892-1899, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, vol. 2, pp. 307-327; C. G. Jung, Tipi psicologici, Boringhieri, Torino, 1984. 21 Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, cit., p. 103.

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In conclusione, queste dinamiche evolutive dell’individuo in persona sono in primis profonde e radicali successioni educative: la percezione di sé, il riconoscimento di sé come persona, quindi specularmente, il riconoscimento dell’altro; queste due processualità sono fortemente complementari e interrelate: il riconoscimento di sé è propedeutico al riconoscimento dell’altro e quindi alla consapevolezza che l’altro fonda insieme a me una relazione. Altro passaggio fondamentale riguarda la percezione della realtà personale – non la proiezione di sé nel reale, non la realtà mediata, guardata attraverso prospettive egocentriche, di ideale dell’io, o di onnipotenza – non la realtà come vorrei o desidererei che fosse, ma vera, concreta e reale senza veli o travisamenti. Questa presa di coscienza della realtà è mediata da una forte, autentica consapevolezza di se stessi. Più riesco a guadare a me stesso, alla mia essenza, al proprium che mi connota e mi caratterizza senza alcuna edulcorazione o finzione, tanto più riuscirò a codificare efficacemente la realtà e parimenti sarò capace di relazionarmi efficacemente con la realtà esterna a me, con l’altro.

1.3. L’identità negata come neotenia nell’era della globalizzazione “Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi”. Benedetto XVI, Caritas in Veritate

Questa dimensione di autoreferenzialità, di cui parla Benedetto XVI, dell’uomo tecnologico del terzo millennio, figlio della globalizzazione e dell’efficientismo, è uno degli aspetti più penosi e preoccupanti dal quale scaturiscono i mali principali dell’epoca nella quale viviamo: il relativismo, la reificazione come paradigma onnicomprensivo e totalizzante, il consumismo, l’obnubilamento della coscienza individuale e l’incessante ricerca della felicità nell’esteriorità e nei beni materiali. La condizione di inautenticità esistenziale che Martin Heidegger indicava con il “si” (Man) che comportava in primis lo smarrimento nella generalità dei “luoghi comuni” e della “chiacchiera”, come semplificazione linguistica funzionale alla restituzione di false immagini dell’uomo 23


e della realtà, sembra oggi il paradigma prevalente attraverso cui declinare l’umano in questa società reificata. L’esserci – scrive Heidegger – è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o scegliersi, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo apparentemente. Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé”22. L’inautenticità esistenziale si connota in primis con l’omologazione di ogni sentire e di ogni comprendere, alimentando opinioni già condivise capaci di dare certezze rassicuranti a buon mercato, in quanto non discendono da domande o da ricerche di senso o di significatività, ma semplicemente sono già date, preconfezionate, ritenute valide, buone e giuste sempre ed in ogni luogo. Lo sviluppo, inteso come abbiamo visto in qualità di emancipazione dal viluppo, la crescita interiore, l’ascesa attraverso l’educazione alla consapevolezza della propria identità, del senso della propria esistenza e la piena realizzazione della propria dimensione progettuale in una direzione etica e di significatività non sono affatto passaggi spontanei cronologicamente determinati. La persona può decidere consapevolmente di “scegliersi” e di ascendere verso una dimensione progettuale positiva oppure, all’opposto, può optare di percorrere un itinerario esistenziale più semplice – in linea a quanto pervasivamente viene restituito dalla società reificata e nichilista – e meno tortuoso regolato dall’omologazione e dal consumismo. Parafrasando un celeberrimo saggio di Erich Fromm il soggetto può decidere se Avere o essere23, in altre parole, se appropriarsi delle sue peculiarità e capacità, quindi di se stesso, della sua identità di persona unica ed irripetibile oppure perdersi in una dimensione di inautenticità e di soddisfacimento dei bisogni e della pulsioni più elementari. Oggi molto più di ieri la società consumistica e globalizzata propone codici e modelli, stili di comportamento ed orientamenti esistenziali che attraverso paradigmi onnicomprensivi, si pensi ad esempio alle pubblicità o alla spettacolarizzazione dei sentimenti più profondi in trasmissioni di largo seguito, cerca di obliare lo sforzo personale che la ricerca di se stessi, necessariamente, comporta proponendo come alternativa modelli 22 M. Heidegger, Essere e tempo (1927), a cura di P. Chiodi, UTET, Torino, 19862 (1969), § 9, p. 107. 23 Cfr. E. Fromm, Avere o essere? (1976), Mondadori, Milano, 2001.

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fortemente performativi e competitivi. “Differenziarsi – scrive Jean Baudrillard – significa precisamente affiliarsi ad un modello, qualificarsi in riferimento ad un modello astratto, a una figura combinatoria di moda e dunque per questo privarsi di ogni differenza reale, di ogni singolarità che non può manifestarsi che nella relazione concreta, conflittuale con gli altri e col mondo”24. Lo smarrimento esistenziale discende dall’oblio della coscienza individuale che invece di affrancarsi dal collettivo con le sue modalità e ritualità naufraga nei piaceri e nel soddisfacimento superficiale offerto al mondo dagli oggetti. Risuonano come una triste profezia le parole di Baudrillard, benché scritte quasi otto lustri fa, la differenziazione consiste nel riconoscersi, nell’affiliarsi ad un modello, pensiamo, ad esempio, alle mode ed alle tendenze del mondo giovanile come l’uso del piercing oppure dei tatuaggi, che rappresentano, sia pure a livello embrionale e superficiale, aneliti di differenziazione, di distinzione tra sé e gli altri. Oppure, ancora, all’uso pervasivo che fanno i giovani dei social network, come Facebook o Twitter, che hanno trasformato anche le modalità di comunicare, di relazionarsi con se stessi, con gli altri, con il mondo, sia pure virtuale25. “Con il virtuale – scrive Jean Baudrillard – non si tratta più di retro-mondo: la sostituzione del mondo è totale, si è alla duplicazione dell’identico, il miraggio perfetto, e il problema si risolve attraverso l’annientamento puro e semplice della sostanza simbolica. Persino la realtà oggettiva diventa una funzione inutile, una sorta di rifiuto, di cui lo scambio e la circolazione si fanno sempre più difficili. Si è dunque passati dalla realtà oggettiva a uno stadio ulteriore, una sorta di ultra-realtà che mette fine insieme alla realtà e all’illusione”26. Questo universo parallelo del virtuale dove i sogni possono divenire realtà, ovviamente virtuale, rappresenta una sorta di “paese dei balocchi”, parafrasando la celeberrima metafora utilizzata da Collodi in Pinocchio, dove alimentare le pulsioni più narcisistiche e infantili, caratterizzate in primis dal soddisfacimento dei propri bisogni e della propria vanità. Carl Gustav 24 J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1974), il Mulino, Bologna, 1976, p. 115. 25 Vedi F. Bossio, I giovani e la cultura, ovvero la cultura dei giovani. Questioni pedagogiche, in M. Corsi, G. Spadafora (a cura di), Progetto generazioni. I giovani il mondo l’educazione, Tecnodid, Napoli, 2011, pp. 253-261. 26 J. Baudrillard, Violenza del virtuale e realtà integrale, Le Monnier, Firenze, 2005, p. 4.

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Jung, in un suo saggio sugli sviluppi stadiali nel corso dell’esistenza umana27, indica l’infanzia come la stagione in cui il bambino, completamente immerso in una dimensione inconscia di indifferenziazione, attraverso le esperienze e la relazione con gli altri gradatamente si emancipa da questa condizione psicologica polimorfica di incoscienza per ascendere alla conoscenza di sé e della realtà. Il virtuale, attraverso i social network, come abbiamo visto, i consumi, l’oblio di sé, continuamente alimenta nel soggetto questa imago infantile a cui è semplice aderire in quanto collettivamente accettata e riconosciuta ed inoltre non richiede, come un moderno “paese dei balocchi” dicevamo, nessuno sforzo, nessun onere di responsabilità, o di impegno della volontà. Tutto è semplice e collettivamente condiviso, anche la pulsione infantile di alimentare lo status quo e di negare se stessi come soggetti in crescita, in trasformazione; l’acquisizione di una propria identità viene ritenuta una operazione superflua ed anacronistica, il soggetto relega così se stesso in una condizione neotenica, di non nascita ad una dimensione adulta, autentica e progettuale. Anche la comunicazione si trasforma e prevalentemente nell’universo giovanile diviene virtuale, attraverso i social network, le modalità relazionali cambiano, il dialogo tradizionale viene rimpiazzato dal contatto via web, ciò che conta è ora l’essere in linea oppure no, l’aprire o negare il contatto, riconoscere l’altro accordando l’amicizia, come avviene ad esempio con Facebook28. Insieme alle modalità di comunicare, e quindi di relazionarsi, cambiano anche l’imago di sé, la propria percezione e rappresentazione e insieme i significati e il senso con cui si codificano le situazioni, gli altri, la stessa realtà. Oltre alla comunicazione, nell’universo giovanile in primis si trasformano i paradigmi di percezione, e quindi di codifica, della stessa realtà, i codici culturali e comportamentali, le modalità di interazione con se stessi e con gli altri. Ma l’elemento forse più importante pedagogicamente è l’oblio e l’obnubilamento di se stessi, della personale identità, negoziata di volta in volta con le iconiche molteplicità delle real-tà sociali, continuamente restituite proprio dai principali canali comunicativi, dai media e accettate attraverso le 27

Cfr. C. G. Jung, Gli stadi della vita (1931), in Id., La dinamica dell’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 1976. 28 Cfr. F. Bossio, I giovani e la cultura, ovvero la cultura dei giovani. Questioni pedagogiche, cit., pp. 257-258.

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relazioni/scambio nei social network. Nasce così una meta comunità, un moderno villaggio globale, una sorta di cittadinanza virtuale, in cui si viene riconosciuti e a cui si può accedere solo attraverso l’adesione a precisi modelli comunicativi e di consumo, legando ed intrecciando in maniera estremamente complessa la dimensione mediale, virtuale, con quella tradizionalmente relazionale. Nella società postmoderna e reificata il progressivo dissolvimento dei paradigmi valoriali ha comportato una crescente attribuzione di significatività a logiche altre, a paradigmi diversi di senso, a modalità completamente nuove di interazione sociale, come ad esempio, le dinamiche di costruzione di un gruppo sociale; parimenti l’evoluzione delle tecnologie comunicative ha completamente modificato il concetto stesso di comunità, sostituendo sempre di più le forme tradizionali di aggregazione geografica, con altre fondate sulla condivisone di interessi o emozioni comuni. Le stesse modalità di percepire le relazioni umane si trasformano sostituendo, ad esempio, le passeggiate o le discussioni tra amici, con rarefatti incontri virtuali via web. Viene ad innescarsi un meccanismo estremamente complesso attraverso il quale il giovane destinatario e fruitore di questi codici e tendenze che il sociale continuamente restituisce inizia a percepire il proprio sé come un crogiuolo di ruoli da mettere in scena sul palcoscenico virtuale dell’imago personale restituita, ad esempio, nella propria pagina Facebook. Questi strumenti di comunicazione divengono così, da un lato, luoghi privilegiati di costruzione e di esternazione della propria identità, dall’altro, spazi simbolici di narrazione di sé e di condivisione della propria realtà interiore. La condivisone, nell’universo giovanile, di particolari codici comunicativi e relazionali di riconoscimento, come abbiamo visto nei social network, blinda l’accesso e la condivisione solo a questa particolare stagione dell’esistenza, opposta ed inaccessibile agli adulti, che non possiedono, talvolta, la chiave di accesso, la password, l’amicizia, come abbiamo visto, come può accadere ad un genitore preoccupato che non può accedere al dominio del proprio figlio adolescente per rendersi conto di quello che realmente sente e pensa. In questo modo l’acquisizione e lo svelamento del proprium identitario personale segue percorsi riconducibili anzitutto alla molteplicità ed alla frammentarietà veicolata da questi modelli sociali condivisi; il sé, l’identità soggettiva si trasforma in una sorta di puzzle flessibile e aperto a continue revisioni e modifiche ispirate dai codici e dai 27


modelli assunti e metabolizzati, ad esempio, attraverso lo stesso social network. L’io non riconoscendo più una sua dimensione autentica si decentra e perde, o meglio, non si attribuisce più quel corpus di peculiarità e caratteristiche che lo rendono singolare ed irripetibile, e inizia ad assumere ruoli diversi e ad identificarsi in un fascio di io, di maschere e imago che introietta per adattarsi e negoziare rispetto alle diverse esigenze che la realtà complessa gli restituisce, l’identità perde il suo focus e diventa multipla, quindi falsa e vuota in quanto deprivata di quei tratti caratteristici che la connotano. Nelle società tradizionali le fasi della crescita soggettiva erano scandite da momenti precisi in cui tutta la comunità riconosceva alla persona candidata a questa evoluzione il nuovo status conseguito, oppure mancato, attraverso riti di passaggio29. Nella contemporaneità questi momenti rituali sono stati progressivamente sostituiti da alcune tappe, alcuni risultati che implicitamente scandiscono le fasi evolutive e di crescita personale: possiamo indicare, ad esempio, il transito giovinezza/adultità come momento particolare caratterizzato da alcune trasformazioni che il soggetto esperisce, la fine della formazione scolastica e l’ingresso nel mondo del lavoro, il conseguimento di una indipendenza economica, e quindi l’abbandono della casa genitoriale, la creazione di un nuovo nucleo familiare, l’assunzione di un ruolo genitoriale, rappresentano chiaramente un momento di passaggio, come dicevamo, dalla giovinezza all’età adulta30. Nel nostro presente postmoderno e globalizzato questi passaggi e dinamiche di crescita assumono sempre più consistentemente i contorni della precarietà e dell’incertezza – si è coniata l’espressione “sindrome di Peter Pan” ad indicare l’habitus giovanile di restare legati e dipendenti dalle figure parentali anche in età adulta31 – il soggetto sembra essere sempre più solo e spaesato in quanto non riesce a codificare pienamente se stesso, 29

Cfr. A. van Gennep, I riti di passaggio (1909), Bollati Boringhieri, Torino, 1981. Cfr. C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, il Mulino, Bologna, 2007; Ead, La famiglia nella società contemporanea, Loescher, Torino, 1975. 31 Cfr. D. Demetrio, L’educazione nella vita adulta: per una teoria fenomenologica dei vissuti e delle origini, Carocci, Roma, 1998; Id., L’età adulta: teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo, Carocci, Roma, 1998; per una lettura psicologica e psicoanalitica sulla sindrome di Peter Pan come condizione di rifiuto della crescita all’età adulta vedi in particolare A. Carotenuto, La strategia di Peter Pan, Bompiani, Milano, 1995; M. R. Costanza, La favola di Peter Pan e la sindrome di Peter Pan, Seam, Roma, 1997; P. Gulisano, C. Nejrotti, Alla ricerca di Peter Pan, Cantagalli, Siena, 2010; M. Lascala, Paura di 30

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non riesce ad ascendere allo svelamento e quindi alla coltivazione della propria identità, alla scoperta di sé come unità distinta dalla generalità della massa, della società. “Se il problema dell’identità moderno – scrive Zygmun Bauman – consisteva nel costruire una identità e mantenerla solida e stabile, il problema dell’identità postmoderno è innanzitutto quello di come evitare ogni tipo di fissazione e come lasciare aperte le possibilità”32. L’incertezza e la possibilità scandiscono, in maniera sempre più pervasiva, l’esistenza giovanile continuamente protesa tra gli aneliti delle possibilità e una dimensione indefinita di precarietà personale, carente comunque di una consapevole dimensione progettuale verso la vita adulta. Questo passaggio giovinezza/adultità si connota pedagogicamente come una condizione più che come un processo: indicando come condizione una processualità legata all’attesa, alla possibilità, ma tuttavia caratterizzata da un esito incerto; il processo, invece, è costituito da una serie di azioni orientate progettualmente al conseguimento di un risultato precedentemente programmato. Non possiamo certo pensare pedagogicamente al conseguimento della piena maturità della vita adulta come qualcosa di spontaneo legato, ad esempio, all’incedere del tempo, ad un mero raggiungimento di una età cronologica come garanzia di realizzazione dell’obiettivo prefissato. La maturazione e la crescita interiore possono avvenire, pensando a processualità armoniche di sviluppo personale, oppure all’opposto possono anche non avvenire relegando il soggetto in una condizione di immaturità permanente, di neotenia, ovvero di non nascita a se stesso, alla propria dimensione autentica, identitaria. Sono molteplici e estremamente complessi i fattori che possono influenzare o determinare l’arresto dell’evoluzione interiore del soggetto, che così resta prigioniero in una condizione di viluppo, come dicevamo, di obnubilamento di sé, di non nascita alla propria dimensione autentica di persona. Potremmo, come esempio simbolico, prendendo a prestito l’imago socratica della maieutica, indicare il momento della nascita del bambino, il parto, come situazione estremamente delicata e rischiosa sia per la madre che per il nascituro: la natura, solitamente nell’approssimarsi della nascita, fa girare il feto nell’utero in posizione cefalica rispetto al canale del parto così da consencrescere. Sindrome di Peter Pan e ribellione nel racconto di formazione contemporanea, Albatros, Viterbo, 2012. 32 Z. Bauman, La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna, 1999, p. 27.

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tire una nascita naturale al bambino. In alcuni casi questo non accade e il feto resta nell’utero in una posizione podalica rispetto al canale di uscita, così da impedire, fattivamente, un parto naturale33. Se il bambino riesce a girarsi facilita il processo della nascita che può essere espletato con maggiore sicurezza, all’opposto se questa condizione non si realizza è necessario incidere l’addome della madre ed estrarre il bambino; provare a farlo nascere, in “posizione podalica”, seguendo un parto naturale espone il bambino e la madre alla possibilità di morire34. Analogamente, ritornando al nostro discorso, il soggetto può rendersi conto che deve “girarsi”, ovvero invertire la rotta rispetto ai modelli e agli habitus culturali e comportamentali che la società globalizzata e reificata propone e iniziare un percorso personale di emancipazione dal collettivo e di progressiva acquisizione di coscienza, quindi di nascita a se stesso, alla propria identità; oppure all’opposto assopirsi nei comfort e nelle situazioni rassicuranti che la società continuamente restituisce e perdersi nell’oblio di una sterile condizione neotenica, non riuscendo a nascere a se stesso. In questo caso “[…] il contenuto – scrive Michel Maffesoli – certo non è insignificante per alcuni. Ma per la maggior parte, esso vale semplicemente perché avvalora il sentimento di partecipare a un gruppo più vasto, di uscire da sé. Così si è più attenti al contenente che fa da sfondo, che crea ambiance, atmosfera, e perciò stesso unisce”35. I mezzi di comunicazione di massa, la televisione e internet in primis, propongono continuamente nuovi modelli, nuovi codici relazionali, culturali e comportamentali, attraverso telefilm, serie tv, fiction, reality show, pubblicità, tutto è a portata di mano, o di telecomando, con le connessioni satellitari e via web siamo immersi, virtualmente e passivamente, in un universo che non ci appartiene, che non sentiamo vicino ma che tuttavia ci pervade. L’uomo fruitore di tanti strumenti tecnologici appare sempre più solo e spaesato, non riesce a codificare questa moltitudine di informazioni che riceve, a ricondurle ad una dimensione di significatività e di senso, a paradigmi culturali prossimi, in quanto queste informazioni provengono da aree culturali che superano i confini degli stati e dei continenti in quanto i mass media sono costitutivamen33 Cfr., H. Valensise, S. Felis, T. Ghi, Sorveglianza fetale in travaglio e parto, CIC, Roma, 2009. 34 Ibidem. 35 M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società di massa, Armando, Roma, 1988, pp. 42-43.

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te aperti ad una dimensione globale. La televisione ci connette oramai con il mondo, facendo zapping possiamo vedere, ad esempio, un marito e una moglie che litigano ferocemente in un reality show, oppure assistere al ricongiungimento tra un genitore ed un figlio dopo mezzo secolo di indifferenza, o ancora vedere immagini di guerra e seguire il bombardamento di una città in diretta, o assistere al parto plurigemellare di una attempata signora, oppure ancora seguire una preparazione meticolosa di una ricetta di una pietanza esclusiva. Volendo simbolicamente richiamare l’attenzione, sia pure in maniera superficiale, su alcuni aspetti peculiari dell’umana esistenza, l’affettività; la morte e la vita. Tutto è immagine, velocità, desiderio di altrove, fruizione prêt à porter, voracità e aneliti inappagati e inconfessabili, presente a combustione rapida. Manca in questo ampio proscenio globale e virtuale l’invito a cercare se stessi, a riconoscersi nelle proprie peculiarità e caratteristiche, a emanciparsi dall’incubo delle passioni, a diventare persone. Questa mancanza, assolutamente non causale, relega ed orienta strumentalmente il fruitore/spettatore in una dimensione di passività radicale e di esteriorità: tutto deve essere cercato all’esterno, fuori da se stessi. La televisione comunica attraverso una dimensione iconica, immaginale, restituendo una fruizione semplice, e non richiedendo alcuno sforzo allo spettatore, sta divenendo, sostanzialmente, uno strumento che produce eventi, esperienze, tendenze, mode, ma anche paradigmi esistenziali e di senso. Una volta che il soggetto/fruitore viene sgravato dall’onere della corresponsione, gli enunciati possono moltiplicarsi indefinitamente generandosi l’uno dall’altro. Tutto questo soddisfa un bisogno implicito di disinteresse, di disimpegno e di oblio, d’altro canto la società efficientista e performativa nella quale viviamo non incita in alcun modo la possibilità che il soggetto possa educarsi, crescere e maturare nella direzione della consapevolezza di sé. L’adolescenza come stadio evolutivo, talvolta, diventa una condizione permanente dell’intera esistenza personale, come abbiamo visto, in cui il soggetto rinuncia ad emanciparsi, ad ascendere alla consapevolezza di sé come persona unica ed irripetibile, mancando, fattivamente, il progetto esistenziale fondamentale della sua vita e naufragando in una condizione neotenica di immaturità permanente. L’esistenza è la vita del soggetto che continuamente diviene, in primis attraverso l’educazione, le esperienze, gli incontri e le relazioni con gli altri; decidere di arrestare questa processualità esistenziale nel suo 31


costitutivo divenire, vuol dire pedagogicamente mancare non solo alla progettualità personale, alle dinamiche di crescita, di evoluzione e di sviluppo, ma radicalizzando il problema, vuole dire rinunciare a vivere coerentemente ad una progettualità personale e salvifica, in altri termini vuole dire, morire a se stessi, alla propria identità, al divenire esistenziale consapevole e a diventare persona.

1.4. Identità come cura di sé “Noli foras ire, in teipsum redi: in interiore homine habitat veritas.[…] et si tuam naturam mutabilem inveneris trascende et teipsum”36. Sant’Agostino, De vera religione, 39, 72

Il monito di Sant’Agostino all’introspezione per scoprire la verità interna a ciascuna persona è un invito a non distrarsi nelle cose futili ed esteriori, in quanto solo partendo da uno sguardo interiore autentico e disincantato possiamo ascendere alla conoscenza di noi stessi, fase propedeutica per conoscere l’altro, gli altri, il mondo esterno, con tutte le peculiarità caratteristiche correlate. Solo dopo essere riuscito a fare queste trasformazioni l’uomo può scoprire una verità ulteriore che lo abita, la trascendenza di Dio37. L’esistenza umana è caratterizzata da un divenire continuo che trascina il soggetto nei suoi vortici impetuosi, solo riuscendo a sottrarsi da questa velocità del divenire la persona ha la possibilità di perfezionare uno sguardo più attento e consapevole sugli eventi, solo la distanza dalla dinamica delle cose può conferire equilibrio e capacità di orientare l’esistenza stessa in dimensioni di progettualità e di senso. Nel rientrare in se stessa la persona inizia a prendersi autenticamente cura di sé, cominciando a operare uno svelamento, alétheia, della propria verità, 36 “Rientra in te stesso, è dentro l’uomo che abita la verità. […] e se scopri la tua mutevole natura trascendi te stesso”; Sant’Agostino, La vera religione, Mursia, Milano, 2012. 37 Sant’Agostino descrive nelle Confessioni questa dinamica di autotrascendimento in cui l’anima una volta rientrata in se stessa “si scoprì in sé mutevole e di qui si sollevò all’intelligenza di sé sottraendosi alla vita abituale […] per ritrovare quella luce che l’aveva inondata quando senza alcun dubbio aveva dichiarato l’immutabile migliore di ciò che muta”, Sant’Agostino, Confessioni, Edizioni Paoline, Roma, 1961, VII, 17.23.

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l’identità, che anzitutto è emancipazione dal collettivo e dai luoghi comuni, dalle dimensioni fatue e polimorfiche del sociale. Purtroppo nell’epoca che noi viviamo dominata, come abbiamo visto, dalla globalizzazione, dalla reificazione e dal nichilismo tutto è consumo, merce in vendita da comprare, res, non è concesso alcuno spazio per gli aspetti squisitamente umani della persona, come l’anelito educativo e pedagogico insopprimibile a coltivare se stessi, epimeleisthai heautou di cui ci parla Platone nell’Alcibade primo38. Per i greci il prendersi cura di se stessi era un anelito fondamentale dell’esistenza personale ma anche sociale, si pensi al ruolo della persona nella polis. Questo precetto, epimeleisthai heautou, si coniugava con quello delfico ghnōthi sauton, in quanto la conoscenza di sé è disgiungibile dalla coltivazione di se stessi, dal prendersi, autenticamente, cura della propria interiorità e della persona nel suo insieme. Così nell’Eutifrone Socrate sottolinea la necessità di “prendersi cura dei giovani, affinché crescano nel miglior modo possibile”39. La cura a cui Socrate auspica è l’azione educativa e maieutica che porti il soggetto ad ascendere alla verità di se stesso, allo svelamento della propria natura più autentica, alla conoscenza della propria identità. Così come accade anche nel mondo delle idee: “Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e ha cura di esse”40. Analogamente, l’uomo deve ristabilire un ordine nel caos originario della propria vita, emancipandosi dalle dimensioni totalizzanti e polimorfiche del viluppo originario, come abbiamo già sottolineato in precedenza, del suo stato di natura ed evolversi attraverso un consapevole percorso educativo di progettualità e di senso. “L’esserci dell’uomo – scrive Romano Guardini – è plasmato da diverse esperienze, in primo luogo dal modo in cui diviene consapevole della realtà del mondo e dal tipo di realtà interiore che entra in gioco nel 38

In questo dialogo platonico Alcibiade manifestando la volontà di intraprendere una vita politica, sente la necessità di imparare a parlare in pubblico in modo convincente ed assertivo. Socrate dopo avergli dichiarato il suo amore lo invita ad evolversi e acquisire una dimensione adulta, perché ciò possa compiersi, suggerisce Socrate, è necessario ascendere alla conoscenza delle regole della legge, della giustizia e della concordia. Purtroppo Alcibiade non è stato educato in queste direzioni, allora Socrate suggerisce di acquisire la technē, l’educazione a prendersi cura di se stesso, attraverso la cura dell’anima. Vedi Platone, Alcibiade primo, Alcibiade secondo, trad. it. di D. Puliga, Rizzoli, Milano, 2000, 127e. 39 Platone, Eutifrone, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2001, 2d. 40 Platone, Fedro, trad. it. di M. Bonazzi, Einaudi, Torino, 2011, 346e.

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suo incontro con il mondo. Vi è ad esempio l’esperienza della verità. La verità è tale da chiamare l’uomo alla conoscenza”41. Analogamente a Platone, Romano Guardini indica nel rapporto fondamentale e complementare conoscenza di sé, conoscenza del mondo/verità, il fondamento stesso che connota e caratterizza ontologicamente l’esserci dell’uomo, ovvero la persona in quanto tale. La cura di sé, è necessario precisare, può sussistere solo in presenza di una relazione. La cura di sé e la cura dell’altro, degli altri, possono essere esperite solo attraverso una relazione, una connessione profonda, un motus dialettico, una apertura costitutiva. Non possiamo pensare alla cura in situazioni di completa chiusura rispetto a se stessi, in condizioni di alienazione personale o di estraniazione; così, specularmente, rispetto agli altri la cura può essere offerta solo quando sussistano condizioni di relazione o di collegamento, di qualche tipo, tra sé e l’altro. È fondamentale, come ci ricorda Guardini, il rapporto con la realtà, quella interiore, e quella esterna a sé, del mondo, degli altri e l’elemento che in primis caratterizza questa processualità è il legame profondo che la persona ha stabilito con se stessa e con gli altri. Pedagogicamente, infatti, non possiamo pensare ad un soggetto che possa dare o restituire qualcosa che non ha, che non gli appartiene. Pensiamo, ad esempio, al rapporto docente/discente, il docente può concretamente, insegnare ai suoi allievi solo ciò che conosce, sarebbe paradossale chiedere ad un docente di insegnare argomenti che non possiede o che ignora. Allo stesso modo, la conoscenza verso altro sarà direttamente proporzionale alla conoscenza che il soggetto avrà di sé medesimo. Sarebbe irreale pensare ad un soggetto alieno a se stesso, alla sua dimensione interiore, alla sua identità, che riesca a conoscere l’altro nella sua autenticità. L’atto educativo esperito dal docente nei riguardi dei suoi allievi è un radicale processo educativo di cura che si connota, anzitutto, nella capacità del maestro di farsi carico, di comprendere, cǔm prehendere, prendere con sé, assumersi la responsabilità della cura dei suoi allievi, così da condurli in primis verso la conoscenza di se stessi e verso l’inculturazione. Da molti anni si discute, anche in ambiti diversi da quelli squisitamente pedagogici, come, ad esempio, nei contesti istituzionali e legislativi, sulle finalità precipue dell’educazione scolastica: in particolare il nodo cruciale della questione riguarda le finalità 41

R. Guardini, L’uomo. Fondamenti di una antropologia cristiana, in Id., Opera omnia, III/2, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 110.

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della scuola, ovvero ci si pone la domanda se il compito precipuo della scuola sia quello di istruire oppure di educare. In altre parole, da una parte viene richiamata l’attenzione sull’esigenza, di matrice tipicamente deweyana42, di fare fronte con l’istruzione – intesa in primis come trasmissione di conoscenze, di contenuti – alla crescente complessità sociale, così da formare cittadini in grado di interagire positivamente con i problemi della quotidianità e risolverli e di abitare positivamente il presente; dall’altra viene sottolineata l’esigenza di educare, ovvero di fare emergere l’identità della persona e di coltivarla, così da farla crescere ed emanciparsi in una dimensione etica di consapevolezza di sé e di rispetto per l’altro, ovvero di cura degli aspetti più tipicamente umani dell’esistenza43. Sicuramente la scuola, pedagogicamente, deve assolvere ad ambedue questi compiti fondamentali, quello dell’istruzione e quello dell’educazione. La crisi del sistema scolastico italiano affonda le sue radici proprio nello squilibrio, nella disarmonia tra queste due componenti fondamentali. In particolare negli ultimi anni è prevalso, sicuramente, il ruolo dell’istruzione – pensiamo allo slogan di qualche anno fa, ampiamente esternato dall’allora Ministro dell’Istruzione italiano, della centralità delle “tre I: informatica, inglese, impresa”44 – slogan che ha segnato, in maniera consistente, i tentativi di riforma della scuola che negli ultimi anni si sono succeduti45. Resta comunque fondamentale il ruolo nell’educazione scolastica della cura che il docente deve profondere verso i suoi allievi. Oggi molto più di ieri – a causa di situazioni particolari restituite dal nostro presente come, ad esempio, la disgregazione familiare, le famiglie monoparentali oppure i nuclei familiari con entrambi i genitori impegnati in defatiganti attività lavorative che comportano una scarsa interazione con i figli – il ruolo del docente scolastico riveste una importanza fondamentale a livello sociale. In termini psicologici possiamo indicarla come “identificazione”46, in quanto la sua imago deve vicariare la presenza genitoriale o la mancanza di riconoscimento o anche di semplice ascolto delle figure parentali, ele42 Cfr. J. Dewey, Democrazia e educazione (1916), a cura di A. Granese, La Nuova Italia, Firenze, 1992. 43 A tal proposito vedi, in particolare, F. Mattei, Sfibrata Paideia, Anicia, Roma, 2009. 44 Cfr. G. Bertagna, Dietro una riforma. Quadri e problemi pedagogici dalla riforma Moratti al «cacciavite» di Fioroni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009. 45 Ibidem 46 Cfr, E. H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma, 19893, p. 244.

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menti assolutamente fondamentali per uno sviluppo psicologico armonico del bambino e del ragazzo. Se questo processo di “identificazione” educativa nella figura del docente per qualche dinamica psicologica, non dovesse avvenire, possono insorgere nel soggetto blocchi emotivi, ferite narcisistiche e disturbi della personalità, mancanza di autostima, carenze di volontà47. Esiste un legame molto profondo, costitutivo, tra l’educazione e la cura, non solo da un punto di vista etimologico, edere come nutrire, coltivare, allevare, quindi appunto prendersi cura; l’educazione, l’atto di educare, come abbiamo visto parlando dell’educazione formale nella scuola, si realizza nel legame profondo che si instaura tra il docente e l’educando; l’educatore ante litteram è tale solo attraverso il prendersi cura dei suoi allievi, attraverso la maieutica educativa quotidiana che agisce continuamente nella sua mission educativa. Purtroppo, come abbiamo visto, il sociale oggi restituisce in maniera sempre più totalizzante e pervasiva l’imago atomistica del soggetto e della stessa realtà, come se solo la dimensione solipsistica e narcisistica della soggettività fosse il paradigma da adottare per vivere in sintonia con se stesso e con la società, negando in maniera implicita la dimensione relazionale, fondamento cardine della cura. L’altro è visto sempre di più come problema da evitare, non come persona da incontrare, conoscere, con cui stabilire feconde corrispondenze. Questa chiusura solipsistica porta in primis il soggetto a vivere una situazione di disagio, di estraniazione anzitutto rispetto a se stesso e poi nei confronti degli altri, della realtà circostante, del mondo intero. “[…] L’altro in quanto altro – scrive Emmanuel Lévinas – non è qui un oggetto che diventa nostro o che finisce per identificarsi con noi; esso, al contrario si ritrae nel suo mistero”48, ad indicare, da un lato, il fondamento radicale dell’esistenza umana nella relazione; dall’altro, “l’irriducibile alterità dell’altro” – utilizzando una felice espressione lévinassiana – che identifica e connota in primis l’altro come persona depositaria di identità, di elementi che la caratterizzano come essere unico ed irripetibile, come “mistero”, ovvero depositaria di una verità propria che non è percepibile in maniera superficiale o esterio47

Cfr. H. Kohut, La guarigione del sé (1951-19632), Bollati Boringhieri, Torino, 1980, pp. 125-140; R. May, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Astrolabio, Roma, 1991, p. 23 e sgg., 49 e sgg. 48 E. Lévinas, Il tempo e l’altro (1947), il melangolo, Genova, 1993, p. 55.

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re ma deve essere cercata, accolta e disvelata. Negare l’altro in quanto tale e eludere le relazioni che l’esistenza continuamente restituisce, come abbiamo visto, è fonte di alienazione per il soggetto, di sofferenza. Se questa chiusura egoica e questa dimensione di non accettazione dell’altro e della dialettica relazionale dovessero protrarsi nel tempo, ovvero essere vissute molto a lungo, l’esistenza soggettiva potrebbe deformarsi patologicamente fino a sfociare anche in disturbi della personalità e della mente. Copiosi studi e ricerche scientifiche49 indicano quale eziologia delle malattie mentali, anzitutto, disturbi di tipo relazionale50. La relazione rappresenta un elemento costitutivo della persona, non possiamo pensare l’umano privato della sua galassia relazionale che è naturalmente collegata all’esistenza personale. Elemento cardine della relazione, come abbiamo visto, è la cura. Possiamo indicare due modalità principali dell’esplicarsi della cura. La prima modalità è il prendersi cura di sé, cura sui, è il passaggio, propedeutico e fondamentale, di svelamento del proprium personale, l’identità che caratterizza la persona umana come essere unico ed irripetibile. Il passaggio successivo riguarda la cura dell’altro, elemento fondante, come vedremo più avanti, della civile convivenza. Esiste poi una terza modalità, non meno importante delle prime due, che è il prendersi cura dell’ambiente in cui si vive, l’utero che ci circonda – etimologicamente ambiĕnte participio presente di ambīre, circondare, andare incontro – che ci accoglie, ci nutre e ci dà la possibilità di vivere. Una delle conquiste della contemporaneità è la coscienza ecologica, il rispetto e la cura dell’ambiente, l’educazione ambientale. In tutti i Paesi democratici esiste un ministero deputato alla tutela ambientale. Queste tre modalità della cura: il prendersi cura di sé, degli altri e dell’ambiente sono fortemente interrelate tra loro, complementari, lineari e sincroniche. Solo chi riesce autenticamente a prendersi cura di sé, può realmente avere cura dell’altro, degli altri e parimenti, colui che ha cura degli altri avrà cura dell’ambiente in cui vive, del mondo. Esiste poi una ulteriore modalità 49 Vedi D. Goldberg, I. Goodyer, Origine e sviluppo dei disturbi mentali, Centro Scientifico Editore, Milano, 2009; D. Hales, R. Hales, La salute della mente. Riconoscere, prevenire e curare i disturbi mentali, Longanesi, Milano, 1998; F. Pellegrino, L’approccio integrato ai disturbi mentali. Linee guida e pratiche cliniche, Springer Verlag, Milano, 2011. 50 Cfr., G. Caprara, D. Cervone, Personalità. Determinanti, dinamiche, potenzialità, Cortina, Milano, 2003; V. Lingiardi, La personalità e i suoi disturbi. Un’introduzione, Il Saggiatore, Milano, 2001.

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del prendersi cura, sicuramente meno importante delle tre precedenti, la cura delle cose, degli oggetti. Questa forma di cura, razionalmente, meno rilevante delle altre, come abbiamo detto, ha assunto nei Paesi occidentali, fortemente industrializzati, nell’ultimo secolo una preoccupante diffusione e rilevanza. Questo fenomeno, già lucidamente analizzato nella seconda metà del Novecento da diversi esponenti della Scuola di Francoforte, tra questi è opportuno ricordare Herbert Marcuse51, Erich Fromm52 e Jürgen Habermas53, si circostanzia nella sostanziale identificazione tra l’essere umano e gli oggetti che possiede, o che vorrebbe possedere. In altre parole, le persone iniziano a riconoscersi, a sentire sentimenti profondi come l’affettività per le loro merci, ed in questa direzione cercano soddisfacimento e felicità. Una delle possibili ragioni di questa dinamica psicologica e sociale potrebbe essere individuata nel tentativo di vicariare la mancanza di relazionalità, quindi di cura, con se stessi, anzitutto, e poi con gli altri, magari per una chiusura caratteriale, oppure uno stato di sfiducia o alienazione, con un soddisfacimento semplice quanto effimero negli oggetti posseduti o desiderati. Questa dinamica di cura rivolta alle cose, ai complementi, può essere particolarmente venefica per il soggetto postmoderno che assopito nella speranza effimera di avere soddisfazione e benefici dalle cose materiali, come un moderno adoratore di oracoli, si allontana sempre di più da se stesso, da una dimensione autentica di ricerca della propria verità interiore, della identità personale, dall’autenticità delle relazioni interpersonali, per chiudersi in una dimensione di sterile solipsismo, alienandosi così sempre di più dalla realtà. La cura, come abbiamo visto, è una categoria pedagogica che declina costitutivamente l’identità della persona che amorevolmente ha cura di sé, degli altri, dell’ambiente. Pensando alla formazione umana – come processualità di 51 Cfr. H. Marcuse, Eros e civiltà (1955), Einaudi, Torino, 1980; Id., L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino, 1987. 52 Vedi, E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea (1955), Mondadori, Milano, 1995; Id., Avere o essere? cit.; Id., Da avere a essere, a cura di R. Funk, Mondadori, Milano, 1991. 53 Vedi, J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, RomaBari, 2005; Id., Conoscenza e interesse (1968), Laterza, Roma-Bari, 1990; J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale (1971), Etas, Milano, 1983; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità (1985), Laterza, Roma-Bari, 2003; Id., La rivoluzione in corso (1990), Feltrinelli, Milano, 1990; Id., Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), Guerini, Milano, 1996.

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crescita interiore e di acquisizione di consapevolezza di sé e degli altri, quindi della realtà – che continuamente si dispiega nel tempo delle stagioni della vita e nello spazio esistenziale segnato, in primis, dalle relazioni interpersonali, risulta evidente che l’educazione, elemento caratterizzante e fondamentale del processo formativo, processualità aperta e in divenire, che conduce il soggetto allo svelamento delle sue peculiarità e caratteristiche, ovvero l’identità della persona unica e irripetibile, è anzitutto cura che consente di orientare la persona a realizzare se stessa in una direzione etica per quanto umanamente possibile.

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