Laura Faranda
LA SIGNORA DI BLIDA Suzanne Taïeb e il presagio dell’etnopsichiatria Con una nota etnopsichiatrica di Piero Coppo Traduzioni dal francese di Colette Taïeb
ARMANDO EDITORE
Sommario
PARTE PRIMA
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Introduzione
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Suzanne Taïeb vista di profilo
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Formarsi a Blida, alla scuola di Antoine Porot
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Elogio della dissonanza: Suzanne Taïeb tra primitivismo e vocazione etnografica
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Suzanne Taïeb tra psichiatria ed etnopsichiatria di PIERO COPPO
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PARTE SECONDA Le idee di influenzamento nella patologia mentale dell’indigeno nord-africano. Il ruolo delle superstizioni. Tesi di laurea in Medicina - Algeri 1939 In luogo di una conclusione: Colette Taïeb, fra traduzione e “note di cura”
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Riferimenti bibliografici
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Indice degli autori citati
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Indice dei luoghi citati
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Introduzione
Questo libro nasce da un incontro. Ogni libro, si potrebbe replicare, si genera ed evoca, produce e si nutre di incontri. In questo caso la questione è un po’ meno generica, un po’ più intima. Suzanne Rachel Taïeb arriva a casa mia, ospite inattesa in una domenica soleggiata d’autunno, come compagna di memorie di un’ospite reale, Colette Suzanne Taïeb, di professione restauratrice, mia amica e cognata, nonché sua amata, quasi omonima nipote. A poco meno di trent’anni dalla morte della zia, nell’ottobre del 2009 Colette, reduce da un lungo e sofferto inverno depressivo ha iniziato una psicoterapia e sta lavorando sulla sua “malattia” come evento annunciato. Ha ripreso cautamente una vita di relazione, qualche cinema, molte letture, qualche mostra. È proprio parlandomi di una mostra sull’Art brut che con garbo e con un certo pudore lascia affiorare il ricordo di una zia psichiatra, per lunghi anni impegnata in Algeria, che ha prodotto “uno studio sulla follia nord-africana”; una ricerca – forse una tesi di laurea – di cui la sua famiglia conserva una memoria tanto vaga quanto solenne. La questione ovviamente mi incuriosisce e cerco di sollecitarla a ricordare meglio. Colette replica che ci proverà, anche perché la figura di sua zia da qualche tempo si è come insediata nei suoi pensieri, compagna di notti insonni e risvegli lenti, custode informe di memorie secretate, complice onirica di una sofferenza di cui a lei stessa sfugge spesso consistenza e sostanza. La storia di vita di Suzanne sembra al momento coinvolgerla ben più che le sue ricerche, perché si intreccia in modo ineludibile con la sua infanzia e con la sua giovinezza: associa la zia agli anni felici trascorsi a Blida1 con i suoi genitori (il padre Albert, fratello di Suzanne, ha esercitato anche lui la professione medica), anni di cui ha un ricordo vivo e intenso, benché fosse molto piccola; e poi a quelli parigini, quando Colette, costretta a lasciare la Tunisia e la famiglia per intraprendere gli studi in un contesto europeo, raggiunge la nonna paterna a Parigi e si affida, ancora bambina, alle cure di una zia vigile, al tempo stesso “dolce 1
La città di Blida (al-Būlaīdah), capitale dell’omonima provincia, sorge a sud-est di Algeri, nell’angolo meridionale della pianura di Metija, ai piedi della catena dell’Atlante.
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e severa”, nel cui studio medico la domenica passerà ore a sfogliare testi di anatomia e a disegnare, seduta sulla scaletta del lettino per le visite. Uno studio che ricorda sempre affollato e molto frequentato da pazienti nord-africani, presenze per nulla estranee a chi, come lei, aveva vissuto gli anni più belli della sua infanzia nell’oasi di Gafsa, al sud della Tunisia, dove il padre lavorava come oftalmologo. Diaspore, distacchi, nomadismi esistenziali fra una sponda e l’altra del Mediterraneo ci portano ancora una volta alle radici ebraiche della sua famiglia e alle ferite mai sanate delle persecuzioni antisemite, che a Suzanne, quando a Blida si insediò una commissione tedesca, comportarono nel 1942 la frustrazione dell’allontanamento dalla professione medica. Mentre ascolto rapita Colette che racconta e si racconta, mentre si intrecciano le storie e la materia autobiografica si dilata, mi tornano alla mente le pagine intense di Adriana Cavarero sul desiderio di narrazione, sulla “sospetta dinamica psicoanalitica che regge le amicizie narrative”, sulla realtà necessariamente intermittente e frammentaria in cui prende forma, nella relazione amicale, la scena narrabile2. Prima che Colette vada via le raccomando di informarsi con le zie e con il padre – tutti ultranovantenni ma nondimeno lucidi e ancora fortemente presenti nella sua vita – per sapere di più del lavoro di Suzanne Taïeb sulla “follia nord-africana”. Mi promette che lo farà. Ci salutiamo e rimango sola. Primo effetto perturbante del racconto di Colette, un nome che non riesco subito a collocare, ma che avverto in qualche modo memorabile e familiare: Blida. Città natale di Colette e luogo al quale si ancora la memoria della zia, non ci vuole molto perché Blida mi richiami anche Franz Fanon e i suoi “dannati della terra”, neri come la terra e figli di quel tempo nero nel quale prende corpo, ambivalente e tormentata, la storia più oscura della psichiatria coloniale francese3. Verifico subito che Fanon arriva a Blida nel 1953: Suzanne Taïeb, da quanto mi accennava Colette era già andata via da diversi anni. Navigazione convulsa in rete: digito il suo nome e cerco di fermare i pochissimi indizi che lo schermo mi scaglia addosso, li raccolgo con prudenza, lascio che si materializzino nella forma rassicurante di appunti cartacei e ci dormo sopra. Al mattino, mi sveglio con la consapevolezza che Suzanne Taïeb esiste e che bisogna saperne di più. 2 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1996, p. 86. 3 Edito in Francia nel 1961 (con una appassionata prefazione di Jean-Paul Sartre), il libro di F. Fanon, I dannati della terra, Ed. Comunità, Torino 2000, è l’ultima pubblicazione prima della sua scomparsa, l’ultimo atto di denuncia di un impegno decennale di sensibilizzazione contro una psichiatria coloniale che era degenerata in pratica violenta di dominio, in legittimazione scientifica di stereotipi ideologici privi di fondamento.
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La pista si apre con un articolo rinvenuto la sera prima, a firma di Richard Keller, tratto dalla rivista «Journal of Social History» del dicembre 2001. Titolo del saggio, Madness and Colonization: Psychiatry in the British and French Empires, 1800-1962. Mentre scrivo e ne ripercorro le pagine a stampa non ho pudore a confessare che le prime otto le ho tradite e sono a tutt’oggi immacolate, mentre da pagina nove, ovvero da quando inizia la trattazione sulla conquista francese in Algeria, c’è la traccia indelebile delle fitte note a margine e di una sottolineatura nervosa e impaziente. Nel saggio – che prelude e anticipa un volume illuminante edito sei anni più tardi4– Keller ripercorre i passaggi più significativi della storia della psichiatria coloniale francese e in particolare della Scuola di Algeri, avviata da Antoine Porot nel 1925, con le innovazioni strutturali che il suo insegnamento comporterà, sia nel campo della ricerca che in quello di una radicale revisione politica dell’assistenza psichiatrica nelle colonie. Non dissimile dai colleghi britannici, Porot secondo Keller non si discosta tuttavia dall’ideologia dominante del suo tempo, guidata dall’assunto di un’inferiorità psichica e neurologica dei nativi delle colonie. Bugiardi, fannulloni, poveri di idee e tendenzialmente predisposti alla criminalità, i pazienti delle colonie si configuravano “normalmente anormali” e la pratica psichiatrica non poteva che ratificare e organizzare la loro inferiorità. Ed ecco, infine, il capoverso atteso: Nonostante gli sforzi di figure come Suzanne Taïeb, che parlava l’arabo e coniugava il lavoro sul terreno fra le donne tunisine degli hammam con le osservazioni psichiatriche, tentando di argomentare l’intuizione che i Nord Africani fossero “diversi” piuttosto che “inferiori”, l’orientamento della Scuola di Algeri rimase egemonico5.
Suzanne Taïeb esisteva davvero, e il suo profilo si annunciava denso. Dai primi indizi di rete alle prime avventure in biblioteca il passo è stato breve e sostenuto. Le prime letture, appassionate e convulse, mi lasciavano interdetta. Dopo Keller, un altro psichiatra francese, Jean Michel Bégué, segnalava che, mentre la psichiatria comparata della prima metà del ’900 si impegnava sulle “strutture cerebrali delle razze arabe e africane”, alla ricerca di un substrato organico che desse ragione delle differenze mentali tra nativi e occidentali, tra colonizzatori e colonizzati, 4
R. Keller, Colonial Madness. Psychiarty in French e North Africa, University of Chicago Press, Chicago and London 2007. 5 R. Keller, Madness and Colonization: Psychiatry in the British and French Empires, 1800-1962, in «Journal of Social History», vol. 35, n. 2, Winter 2001, pp. 295-326.
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un approccio più armonioso e moderno, sensibile al sapere antropologico, comincia ad affiorare poco prima della seconda guerra mondiale. Humann e Costedoat, così come Suzanne Taïeb, mettono in connessione credenze, racconti tradizionali e forme del pensiero psicopatologico, in modo tale che le culture osservate potevano essere comprese come sistemi organizzati del pensiero simbolico. Essi intrapresero anche feconde ricerche sulle teorie eziologiche native connesse con il tema della follia6.
E ancora Robert Berthelier, storico della psichiatria, ripensando Fanon negli anni di Blida e retrocedendo nel tempo alla Scuola di Algeri, dopo aver ricordato l’importanza della conoscenza della lingua per la comprensione di una cultura, e dopo aver denunciato come alla scuola di Porot ogni teoria sulla mentalità indigena riposava nella quasi assoluta ignoranza della lingua e della cultura dei soggetti osservati, conclude che Suzanne Taïeb, con la sua tesi del 1939, aveva rappresentato, a quanto pare, un’eccezione tanto notevole quanto isolata. Quanto ad Antoine Porot, si è limitato a sottolineare la “povertà” della lingua araba, quando era del tutto incapace di tradurne nozioni inerenti la sfera affettiva e quella astratta, dal momento che ignorava totalmente la ricchezza metaforica di questa lingua7.
I primi dati, come si può intuire, erano incoraggianti. La ricerca di Suzanne Taïeb, promettente allieva della scuola di Porot, veniva richiamata da tutti sotto forma di “tesi di medicina” discussa ad Algeri nel 1939 e sembrava l’unico lavoro di riferimento da lei prodotto: anche il titolo si annunciava promettente, Les Idées d’Influence dans la Pathologie mentale de l’Indigène Nord-Africain. Le Rôle des Superstitions. La tesi, dunque. Bisognava trovarla e forse non sarebbe stato facile. La prima pista da intraprendere era quella degli Archives nationales d’outre-mer di Aix-en-Provence, che a quanto avevo appreso conservavano le tesi di laurea prodotte nelle colonie, mentre un collega storico della psichiatria8 mi indirizzava per una prima verifica anche verso la BIUM (Bibliothèque Interuniversitaire de Médecine, Université Paris Descartes), che a suo dire aveva un fondo notevole di storia della medicina, con diversi documenti provenienti dalle colonie. Ovviamente nel frattempo avevo aggiornato Colette sui primi risultati della mia ricerca e 6 J.M. Bégué, French psychiatry in Algeria (1830-1962): from colonial to transcultural, in «History of Psychiatry», VII, 1996, p. 540. 7 R. Berthelier, Fanon, psychiatre encore et toujours, in «Vie sociale et traitements», n. 89, 2006 (pp. 76-84), p. 82. 8 Il dott. Luigi Grosso, che mi orientò in una prima ricognizione, nel novembre 2009.
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la sollecitavo ad acquisire informazioni presso i suoi parenti parigini. Non mi rendevo ancora conto di aver attivato, inconsapevolmente, quel meccanismo fragile e contingente (e nondimeno potente) che dà luogo a un “desiderio di narrazione” condiviso: Colette, infatti, aveva già preso contatti con il padre, con la zia Yvette (sorella di Suzanne) e tramite i suggerimenti di quest’ultima (che dichiarava di ricordare molte cose e di aver posseduto la tesi di Suzanne in anni passati) con Yvon Jaubertie, nipote ed erede diretto di Suzanne, figlio della sorella del marito, con cui Colette ha condiviso gli anni della giovinezza a Parigi e lo stesso destino di lontananza dalla famiglia nucleare e dall’Algeria9. Yvon, che avrebbe raggiunto la casa paterna a sud della Francia in occasione della ricorrenza dei defunti, si sarebbe impegnato a cercare la tesi tra le carte della zia Suzanne e ci avrebbe aggiornate quanto prima. In attesa di notizie, le letture di preparazione all’eventuale ritrovamento della tesi si moltiplicavano. Franz Fanon, per cominciare – a cui mi riavvicinavo dopo anni – e la lettera di denuncia che accompagnava le sue dimissioni dall’ospedale di Blida, rassegnate per assoluta incompatibilità tra l’esercizio di una professione psichiatrica e il rispetto del paziente, della sua dignità umana e della sua appartenenza culturale10. E ancora Franz Fanon di Peau noir, masque blancs, che denunciava gli esiti devastanti di una psichiatria ispirata alla discriminazione e alla marginalizzazione dei popoli colonizzati, ma anche i grandi rischi di una “negritudine” la cui enfasi ideologica avrebbe finito per destorificare la singolarità delle culture e incoraggiare processi di ibridazione forzata. E infine Fanon, tra colonizzazione e decolonizzazione, che dichiarava inutilizzabili i principi e i reperti ideologici della psichiatria coloniale e che rivendicava piuttosto una revisione epistemologica tout court delle “discipline della psiche”, segnate inequivocabilmente dalla cultura che le origina11. Fanon con le sue opere aveva denunciato e divulgato l’inefficacia dell’istitu9
Cfr. testimonianza Yvon Jaubertie, infra, p. 26. F. Fanon, Lettera al Ministro residente, in id. Opere scelte (a cura di G. Pirelli), Einaudi, Torino, vol. I, p. 104. 11 Si pensi, a titolo esemplificativo, all’efficacia di pagine come quella in cui Fanon dichiara che «né Freud né Adler e neppure il cosmico Jung nel corso delle loro ricerche hanno pensato ai negri. Troppo spesso si dimentica che la nevrosi non è costitutiva della realtà umana. Lo si voglia o no, il complesso di Edipo fra i negri non è affatto sul punto di comparire. Ci si potrebbe far notare, con Malinowski, che il solo responsabile di questa assenza è il regime matriarcale. Ma, a parte il fatto che noi potremmo domandarci se gli etnologi, imbevuti del complesso della loro civiltà, non si siano sforzati di ritrovarne la copia presso i popoli da essi studiati, ci sarebbe relativamente facile dimostrare che nelle Antille francesi il 97 per cento delle famiglie non possono dare origine a una nevrosi edipica. Incapacità di cui noi ci rallegriamo moltissimo». Cfr. F. Fanon, Peau noir, masque blancs, ed. it. Il negro e l’altro, Il Saggiatore, Milano 1952, p. 171. Per una collocazione della figura di Franz Fanon nel panorama della storia dell’etnopsichiatria, si veda P. Coppo, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati-Boringhieri, Torino 2003, pp. 21-29. 10
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zione manicomiale, impegnandosi a far convergere la sua militanza scientifica con quella politica. Ma per poter meglio collocare il lavoro di Suzanne Taïeb nel pensiero dominante della sua epoca occorreva retrocedere cronologicamente e riprendere i primi contributi della sua scuola di provenienza, la Scuola di Algeri e del suo maestro Antoine Porot. Promotore del più vasto programma di igiene mentale in Nord-Africa, Porot già dal 1907, anno del suo arrivo in Tunisia, aveva avviato un’infaticabile politica di promozione delle istituzioni e delle pratiche di cura psichiatriche, in un Nord-Africa che egli percepiva ed enfatizzava come un “contenitore vuoto” del sapere medico e per il quale auspicava la nascita di strutture che potessero interrompere l’assurda deportazione di pazienti psichiatrici nei manicomi francesi12. L’apparente pionierismo di un simile orientamento avrebbe tuttavia finito per legittimare una pratica clinica sperimentale spesso invasiva, del tutto indifferente alle prospettive terapeutiche autoctone e sempre più funzionale ai pregiudizi discriminanti: una nuova arma a servizio dell’arsenale coloniale. Così, mentre la nozione di mise en valeur tipica dell’ideologia coloniale francese legittimava una stringente politica di acculturazione coatta – che nel periodo compreso tra le due grandi guerre investiva di un valore etico etnocentrico qualsiasi processo di “civilizzazione”– gli psichiatri coloniali del Nord-Africa avviavano imponenti programmi di assistenza mentale e davano vita, accanto ai manicomi, a strutture ospedaliere formalmente pensate come servizi aperti, volte a facilitare il contatto con la comunità indigena, da contrapporre al trattamento “sotto custodia” dei pazienti cronici; salvo poi diventare nuovi laboratori abilitati a nuove forme di trattamento clinico discriminante e spesso abusivo. L’ospedale di Blida, inaugurato nel 1938, avrebbe incarnato, come avremo modo di vedere13, un simile paradosso. Lo zelo di queste mie prime ricognizioni fu generosamente premiato: a metà novembre, al rientro dalla sua vacanza, Yvon ci comunicava di aver trovato tra le carte della zia Suzanne sia la tesi (in una versione a stampa a cura dell’Ancienne Imprimerie Victor Heints di Algeri) che alcuni documenti fotografici di quegli anni. Avrebbe provveduto a farne copia e a spedirci quanto prima il materiale. Da allora sono trascorsi quasi tre anni e non c’è pagina di quella tesi che non sia stata vergata, contrassegnata da una data o da un appunto, lavorata, tradotta, ripensata e rimeditata, nonché affiancata da altre letture che ne consentissero una interpretazione a tutto campo. Il lavoro organizzato in questo libro ambirebbe a rigenerare del lavoro di Suzanne Taïeb al tempo stesso l’unicità (nel 12 Cfr. R. Keller, Colonial Madness…, cit., pp. 57-62. Né appaia pleonastico ricordare che i Francesi, quando nel periodo coloniale parlavano di Afrique du Nord, intendevano spesso l’Afrique du Nord Française, ovvero l’area compresa fra la Tunisia e il Marocco, con evidente connotazione politica e non solo geografica. 13 Cfr. infra, p. 33 e ss.
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tempo irripetibile e puntuale del suo presente) e la vocazione (in una prospettiva fedele al senso etimologico di un vocare che reclama il riconoscimento di un ascolto “accogliente”). Un lavoro – Le idee di influenzamento nella patologia mentale dell’indigeno nord-africano. Il ruolo delle superstizioni – il cui titolo annuncia gli intenti e che, come vedremo, si articola in due parti distinte. La prima parte, invertendo l’ordine del titolo, è dedicata alle “credenze e superstizioni” che si delineano nella cultura religiosa islamica e nei suoi sincretismi, legittimando nell’indigeno nord-africano l’adesione a pratiche di cura mutuate ora dalla medicina coranica, ora da mondi magici di cui Taïeb restituisce con dovizia di particolari i tratti più rappresentativi: dai culti dedicati agli animali alla coesistenza quotidiana con il mondo dei djenoun (djin, djinn, djenn, eddjenoun, j’nun)14, geni, demoni o spiriti benefici o malevoli in “stretto legame di parentela” con i moulouk15, angeli o spiriti superiori; e ancora, dai marabout16 la cui virtù e la cui potenza terapeutica perpetua la loro fama oltre la vita, originando veri e propri culti, fino ai tolba (taleb)17 interpreti orali della cifra magica del Corano, che ereditano tanto la via iatrica quanto quella mantica della sua tradizione poetico-letteraria. E infine le Streghe (guannat, biiatat, dérouchat), che ci immettono nella complessa rappresentazione di un mondo femminile nomade o sedentario, che si nutre di forze infere, notturne, spesso ripugnanti; le streghe che assumono ora il ruolo di “consultanti” ora quello di intermediarie di un mondo decifrabile solo attraverso il ricorso alla pratica magica. Un mondo iscritto nell’impenetrabile influenza di “occhi malevoli”, parole magiche, sogni, parole dei morenti – o degli alienati – che progressivamente tracima in quelle idee di influenzamento alle quali, nella seconda parte della tesi Suzane Taïeb si affida, declinandole in 53 osservazioni psichiatriche. Nella seconda parte, dedicata per l’appunto agli stati psicotici di influenzamento, quelle idee prendono un corpo, un nome, uno statuto patico: ordinate secondo un impianto nosologico che distingue lo stato acuto da quello cronico, asservite ai contenuti deliranti dei soggetti internati in un ospedale psichiatrico, declinate all’interno di una classificazione di genere, le idee di influenzamento si riorganizzano come scenari esplicativi di stati ansiosi o melanconici, di stati di agitazione maniacale, di bouffées deliranti, di eventi psicopatici acuti. E al tempo stesso si incarnano nelle storie di Zohra, di Aicha, di Yamina, di Mohamed; 14
Nel testo della Taïeb troveremo il termine djenoun (arabo singolare: ĝīnn) declinato e traslitterato in diverse varianti e non sarà un caso unico. È in questa prospettiva che qui e oltre abbiamo ritenuto opportuno inserire in nota, per ogni termine, per ogni nome proprio o di luogo virtualmente “ambiguo” nella sua traslitterazione, la corrispettiva traslitterazione araba, solitamente declinata al singolare (vedi indicazioni nelle Note traduzione e cura), infra p. 101. 15 Arabo singolare: malak. 16 Ar. sing.: marbū¥. 17 Ar. sing.: ¥âlib, plur.: ¥ullab.
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sedimentano nel vissuto di sofferenza di un soldato, di un fuciliere, di un marito tradito, di una prostituta, di un’educatrice o di una vergine prossima al matrimonio; ne perimetrano le condotte, ne strutturano gli incontri ma soprattutto si radicano nei loro corpi-vissuti come sorgenti di significati che alludono a un mondo altro preesistente e imprescindibile da ogni contenuto alieno. Le idee di influenzamento con cui mi andavo misurando (affiancata da Colette, nei mesi dedicati alla traduzione) affioravano così nell’impianto della tesi, prima ancora che come derive patologiche di “indigeni nord-africani non evoluti”, come universi narrativi logici, come metafore di voci interiori invisibili, divine, esterne, imperative che rinviavano a un sostrato culturale riconoscibile. Sottratte alla visione istantanea dell’alienista, restituite alla tessitura etnografica di studiosi oggi dimenticati18, “le varie credenze preislamiche” trovavano infatti spazio e collocazione critica nelle segrete leggi del rito, dei culti, delle pratiche magiche che Suzanne Taïeb faceva rivivere nella prima parte del suo lavoro. Con una garbata deviazione metodologica, rispetto alle indicazioni del suo maestro, Suzanne ci informava del resto, fin dalle prime pagine, delle ragioni di un simile proposito: Quando tre anni fa il nostro Maestro, professor Porot, ci propose come soggetto di tesi Le idee e i deliri di influenzamento presso gli indigeni nord-africani ci consigliò di raccogliere prima le Osservazioni che erano in relazione con questo tema e rimandare a un secondo momento la cura di trarne delle conclusioni; ma nel corso della nostra pratica psichiatrica siamo stati particolarmente colpiti dal ruolo che giocano le superstizioni e le credenze nella patologia mentale degli indigeni e in particolare nelle loro psicosi di influenzamento. Così abbiamo ritenuto utile far precedere le Osservazioni da un capitolo nel quale cercheremo di abbozzare la psicologia dell’indigeno musulmano nord-africano non evoluto, sforzandoci di delineare il carattere superstizioso e primitivo della sua mentalità. Certamente a questo fine abbiamo consultato alcune opere ormai classiche, tra le quali la più notevole è Magie et Religion di Doutté; ma ci siamo al tempo stesso affidati alle informazioni raccolte nel corso di conversazioni che abbiamo avuto noi stessi con gli indigeni o ai ricordi di infanzia, dal momento che abbiamo avuto la fortuna di vivere molto vicini a loro, nella piccola città tunisina che ci ha visti nascere19.
18 Studiosi dimenticati persino da una storia degli studi antropologici che difetta di gravi omissioni, che ha costruito i propri palinsesti teorici su basi “etno-centrate” o eurocentriche. Si pensi a figure come Edmond Doutté o Joseph Desparmet, costantemente richiamate dalla Taïeb nel suo lavoro [cfr. infra, p. 53 e ss.]. 19 Cfr. infra, p. 107.
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Avremo modo più avanti di riflettere sull’approccio e sulle influenze teoriche che Suzanne Taïeb mutua dal suo maestro – e alle quali riserva l’omaggio e la fedeltà indiscussa dell’allieva promettente – ma che significativamente confina nel primo capitolo e nell’ultima pagina della sua tesi. Cosicché, in una sorta di poetica della dissonanza, la mentalità primitiva teorizzata da Porot (sulla falsariga e sui fraintendimenti dell’assunto di Lucien Lévy-Bruhl)20 ci arriva infine come nota acuta, come voce in “falsetto” di una partitura del mondo che Suzanne successivamente modula, diversamente dal suo maestro, con l’intelligenza eclettica (e forse con la tragica dissociazione esistenziale) di chi ha intuito che il logocentrismo della tradizione occidentale è a volte incompatibile con i ricordi d’infanzia, con il lessico “che le donne parlano quando non c’è nessuno a correggerle”21. Certamente, il mondo che ci si apriva nelle pagine dedicate alle “superstizioni” – a detta di Suzanne viatico imprescindibile per la comprensione dell’universo storico-religioso da cui si originavano le idee di influenzamento – era anche il riverbero di un primitivismo abbastanza peculiare, edificato sul misticismo, affidato alla voce autoritaria delle Notes de Psychiatrie Musulmane redatte dal suo maestro. Ed è innegabile che lo stesso ancoraggio teorico a figure come Joseph Desparmet ed Edmond Doutté costituisca una apertura, per un verso, alla finezza intuitiva dell’approccio etnografico, ma al tempo stesso non apra alcuna faglia significativa nell’impianto monolitico della scuola di Algeri di cui Suzanne si fa portavoce. Anche su questo avremo modo di tornare più avanti, ma solo dopo aver restituito il profilo di Suzanne Taïeb alla sua complessa biografia intellettuale e umana. Una tappa essenziale per comprendere, prima ancora che il mondo descritto nella sua tesi, i suoi “mondi” e la sua vocazione etnografica, la sua curiosità maturata in un contesto culturale eccentrico, in cui 20 Tra le figure più rappresentative dell’etnologia francese fra le due guerre, continuatore delle intuizioni teoriche di Émile Durkheim, Lucien Lévy Bruhl, in sintonia con la sua formazione filosofica, avvia la riflessione sulle forme del pensiero primitivo già nel 1910 (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures), per approdare nel 1922 alla sua opera miliare, La mentalità primitiva, che introduce le nozioni di “prelogismo” e di “partecipazione mistica” come categorie di un pensiero “altro”, ma non per questo meno “evoluto”, comunque svincolato dalle procedure e dalle polemiche antimagiche di matrice evoluzionista. Sulla falsariga interpretativa de La mentalità primitiva, psicologi, psicoanalisti e psichiatri dell’epoca si sentirono legittimati a ratificare le presunte “concordanze” tra i comportamenti dei nevrotici e degli psicotici e le forme elementari del pensiero magico. Per un approfondimento della figura di Lévy-Bruhl vedi U. Fabietti, Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna 1996, pp. 77-80; per il rapporto tra Lévy-Bruhl e la psicoanalisi, vedi E. De Martino, Magia e civiltà, Garzanti, Milano 1962, p. 79, p. 97; per il rapporto tra Lévy-Bruhl e Antoine Porot, vedi infra, p. 52. 21 Mutuo l’espressione dal passo memorabile di Hélène Cixous, Entre l’écriture, Des femmes, Paris 1986, p. 31, che Adriana Cavarero richiama in una pagina non meno intensa del suo lavoro A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 155.
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la matrice ebraica di segno paterno coesisteva con le risonanze di una madre affabulatrice, con la potenza femminile di un mondo fatto di “latte e parole”, dove la lingua eccede i codici del linguaggio e la magia si incontra, prima ancora che nelle osservazioni psichiatriche su pazienti maghrebini, nell’improbabile biblioteca di una nonna. Di questi mondi la tesi di Suzanne Taïeb si nutre e da questi mondi mutua la necessaria revisione della sua formazione psichiatrica alla luce di un’avventura etnografica decisamente pionieristica. Compagni di viaggio, come si è detto, due etnografi “orientalisti”, due modelli troppo poco rivisitati dalla storia dell’antropologia, la cui portata innovativa meriterà una riflessione specifica. Due studiosi sorprendentemente sensibili al registro plurale e alle stratigrafie simboliche di un sistema religioso “maghrebino” fedele al dettato coranico (ma non di meno pervaso di sincretismi compositi, esiti storici di contatti con altre culture) e al tempo stesso recettivo rispetto alle mutue compenetrazioni autoctone22. Due interpreti infaticabili, consapevoli della portata etnografica di un sapere di segno femminile – e non appaia secondaria la precisazione – che trattiene modelli e rigenera scenari rappresentativi di una dialettica mai del tutto sopita del “dogma” islamico della predestinazione. E se Doutté non esitava a ripensare in questa chiave tanto le commemorazioni rituali di un capodanno islamico quanto gli spazi residuali di una sfera domestica sensibile alle pratiche divinatorie23, Desparmet si spingeva ben oltre, mettendo in gioco le sue piste intuitive e recuperando dalle “anziane israelite” che avevano accesso alle tradizioni orali “proprie di un pubblico femminile islamico” un’ampia messe di notizie altrimenti interdette24. Potrà apparire inconciliabile, alla luce di simili intuizioni di cui peraltro Suzanne Taïeb mostra di cogliere appieno la consistenza antropologica, l’ostinazione con la quale, lungo tutto il primo capitolo del suo lavoro orienterà il lettore a una costante declinazione della voce di Allâh nello specchio deformante di un “primitivismo” fatalista, proprio di “masse ignoranti e poco evolute”, che segna in modo irreversibile la vita intellettuale dell’indigeno nord-africano e ne avviluppa l’intelligenza in una sorta di “scoria impermeabile”25. Sono forse le pagine più grigie e inquietanti della tesi, che testimoniano in qualche modo una dissociazione acritica della studiosa, impegnata a consegnare al palinsesto inflessibile della sua scuola di appartenenza il potenziale “psicogeno” di una Blida popolata di orchi e demoni, consegnata alla potenza fabulatoria di “vec22
Cfr. E. Doutté, La Société Musulmane du Maghrib. Magie et religion dans l’Afrique du nord, Typographie Adolphe Jourdan, Alger 1909, pp. 14-22. 23 Ivi, pp. 15-17, capp. VII-VIII. 24 Cfr. J. Desparmet, Contes Populaires Sur Les Ogres Recueillis a Blida et traduits, voll. 2, Leroux, Paris 1909-1910. 25 Cfr. infra, p. 119.
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chie narratrici” ostili e insofferenti a ogni contatto con la cultura occidentale e restituita dalla sua penna come spazio deputato a una connaturata “debilità mentale” che facilita l’elaborazione di un sistema delirante. La sua perspicacia, la sua osservazione partecipante ante-litteram, la pazienza di un ascolto dedicato soprattutto alle testimonianze femminili – secondo quanto emergerà dalle pagine più interne al testo – sembrano a tutta prima volutamente occultate. Né affiora alcuna traccia della sua sensibilità verso le matrici endogene di un disagio, di una crisi di agitazione, di un’ansia originata dal volo imprevisto di uno scarabeo o da un taglio di capelli che getta nel panico una delle sue pazienti. Bisognerà attendere che inizi il viaggio in mare aperto perché Suzanne Taïeb si consegni alla polifonia di senso di credenze, superstizioni, culti ofidici, djenoun, moulouk; o perché intercetti l’irradiazione spirituale che fa dei marabut “anime di luce superiore” e la incoraggia a percorrere con disinvolta puntualità le pratiche di cura della medicina coranica mutuate dal sapere di un taleb. Così, per separare le note introduttive da un primo capitolo – che come si è già detto si piega all’ortodossia della sua scuola – Suzanne chiama in causa il filosofo e teologo Abu Hamid al-Ghazali26 (1058-1111) e imprime come epigrafe eloquente della sua tesi una sua celebre citazione: «Da dove ci vengono la malattia e la guarigione?», chiese a Dio il Profeta Mosè. «Da me», gli rispose Allâh. «Cosa fanno dunque i medici?». «Guadagnano il loro pane e alimentano la speranza nel cuore del malato, finché io non rapisco la sua vita o gli restituisco la salute».
Ce n’è abbastanza per cogliere fin dalle prime pagine l’intuizione portante di un lavoro apparentemente sottomesso alle sofisticate ideologie razziste della medicina di importazione europea, ma al tempo stesso del tutto recettivo rispetto alla funzione salvifica della malattia come stigma religioso, che attesta l’attenzione e la predilezione di Allâh verso il fedele e verso chi ne alimenta le speranze, ovvero il medico27. In questo senso, la lettura della tesi di Suzanne Taïeb richiede da parte di chi la intraprende anzitutto uno sforzo di rigenerazione antropologica della nozione di idee di influenzamento oltre gli spazi e le certezze nosografiche del canone psichiatrico. Lo stesso sforzo intrapreso dalla “allieva fedele” di Porot 26 Abū
Hāmid Mu|ammad ibn Mu|ammad al-Ghazzālī. Si tratta di uno dei cardini della bioetica islamica, secondo la quale tutto viene da Dio, malattia e guarigione, e se al medico spetta il compito di distribuire rimedi e cure è perché per ogni malattia Dio ha creato una cura; l’esito è sempre in mano a Dio, ma ciò non toglie che bisogna affidarsi con fiducia a coloro che posseggono il sapere medico su delega divina. 27
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nel II capitolo della prima parte – ovvero nelle pagine più dense di un progetto che per sua stessa ammissione “devia” dalle direttive del maestro – tentando di restituire anzitutto l’approccio alla malattia di quanti si fanno portatori di saperi ermetici, detentori di un sapere collettivo di cui controllano anche la trasmissione scritta, e che ritengono di aver ereditato da una sorta di ermetismo coranico, dall’ioqcha28, la sola medicina ortodossa del Maghreb, la sola verità iatrica. Un approccio nosologico cui fa da sponda la “magia terapeutica”, da intendere come constatazione empirica di eventi che appartengono al mondo sensibile, ma le cui cause profonde si rinvengono nel mondo immateriale, nel mondo occulto degli spiriti, il solo che allude a una verità mondata da menzogne, illusioni, miraggi; un mondo che disdegna le apparenze e in cui risiede la ragione prima delle malattie29. Rigenerare la cifra critica interdisciplinare delle idee di influenzamento significherà così, una volta ultimata la lettura del lavoro, saper guardare oltre, per poter intendere il carattere antesignano delle intuizioni che ne scaturiscono. Il che implicherà l’impegno a riguadagnare quegli spazi di incontro, quelle sponde di riflessione che in anni più recenti hanno sostanziato nel panorama europeo il “meticciato” epistemologico e metodologico di discipline come l’etnopsichiatria e l’antropologia culturale; oppure a evocare alcuni padri fondativi condivisibili, che hanno contribuito a dilatare le frontiere disciplinari e a far sedimentare la tematica dell’incontro entro nuove metodologie osservative. Ci limiteremo qui a richiamare, solo con intenti introduttivi, l’Ernesto De Martino di Sud e Magia, che descrivendo l’esperienza di crisi della presenza e il piano metastorico di un “orizzonte della crisi” nell’ambito della magia lucana, si sofferma sul “sentimento di vuoto, sul delirio di influenza e sugli stati di possessione” lavorando sulle intersezioni critiche mutuabili dalla letteratura psichiatrica di Janet30; o il De Martino de La fine del mondo, che denuncia il carattere di “non autenticità e inattualità storica del delirio di influenzamento” rispetto ad analoghe credenze magiche organicamente inserite in contesti culturalmente altri31. Mentre nel tentativo di sprovincializzare il dialogo, deportandone gli esiti proprio nell’Algeria contemporanea, correrebbe l’obbligo di ritornare a 28 Cfr. Le mal magique. Ethnographie traditionelle de la Mettidja, Publications de la Faculté des Lettres d’Alger, Ancien Bullettin de Correspondance Africaine I Serie – Tome LXIII, Carbonel-Geuthner, Algeri-Parigi 1932, p. 12. 29 Cfr. ivi, pp. 12-13. 30 Cfr. E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 73-77, dove si avvia il suo serrato dialogo intellettuale con la letteratura psichiatrica di P. Janet, attraverso De l’angoisse à l’extase, voll. 2 (1ª ed. 1926-1928), Aleam, Paris 1980. 31 E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 179. Né va omesso che lo studio dei deliri di influenzamento da parte di De Martino contempla diverse notazioni critiche mutuate dal Traité de Psychologie di G. Dumas (cfr. ivi, paragrafi 57, 89, 91).
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figure come Mhafoud Boucebci, lo psichiatra algerino assassinato nel 1993 da un gruppo di fondamentalisti islamici, davanti all’ospedale Drid-Hocine, nel quale si era formato e che dirigeva con autorevole passione. Membro fondatore della prima Lega per i diritti dell’Uomo in Algeria, Boucebci ha lottato per una psichiatria democratica, includendo nelle sue battaglie civili la tutela dei diritti delle madri nubili e dei minori abbandonati o l’impegno riflessivo sui disagi di giovani migranti di seconda e terza generazione32. E infine, nel segno di un incontro con la produzione “di frontiera”, alla ricerca di antenati comuni e di un lignaggio virtuale che apparenti, in un futuro auspicabile, psicopatologia e antropologia culturale, andrebbe riattualizzato l’approccio esemplare del sociologo cabilo Abdelmalek Sayad, scomparso prematuramente nel 1998, dopo aver consegnato al suo maestro Pierre Bourdieu i materiali inediti di un lavoro miliare sulla doppia assenza degli algerini immigrati in Francia: un viaggio nel disagio e nella malattia dei migranti come smascheramento di una “menzogna sociale” che esplicita ancora ai giorni nostri il disordine e la fragilità del loro statuto, la persistente delegittimazione di “prestiti” terapeutici mutuati da improbabili mediatori tra il “corpo del paziente” e la “corporazione” dei medici33. L’altro sforzo che si richiede al lettore è quello di tenere costante e alta la vigilanza sulle evidenze cronologiche del lavoro. La tesi di Suzanne Taïeb viene compilata in anni nei quali i contatti con la psicoanalisi freudiana sono ancora sporadici, la psichiatria è del tutto ancorata alle matrici biologiche e alle origini neurologiche delle malattie mentali, i manicomi sono simboli della civilizzazione europea e della superiorità della bio-medicina e la riforma di Pinel viene presa a modello per un processo di modernizzazione dei sistemi di cura dell’indigeno nord-africano. Sono gli anni in cui la Francia edifica il proprio impero coloniale affiancando alle forze militari il personale medico, mentre nell’Africa occidentale britannica gli inglesi si impegnano nella teorizzazione di una specifica “insanità” africana. Sono gli anni dominati ideologicamente da resoconti coloniali che insistono sull’inferiorità psichica e neurologica dei nativi e al tempo stesso sono gli anni delle memorabili missioni etnologiche Dakar-Gibuti, (1931-1933) o Sahara-Sudan (1935), finalizzate in ultima istanza ad acquisire oggetti e reperti etnografici che enfatizzino l’immagine delle colonie fra le sale autocelebrative di un museo. Ci sembra però significativo che mentre alla scuola di Porot affiora la co32
Della produzione di Boucebci ci limitiamo a richiamare La psychiatrie tourmentée, Bouchène, Alger 1990; Psychiatrie, société et développement, Algérie, 1978, Editions S.N.E.D., Paris 1982; con A. Yaker, Aspects généraux et tendances évolutives de la psychiatrie en Algérie, in «La Tunisie médicale», 53, 1975, pp. 355-365. 33 Cfr. A. Sayad (ed. or. 1999), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 247 e ss.
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scienza etnografica di Suzanne Taïeb, pressappoco negli stessi anni, alla scuola di un maestro memorabile come Marcel Mauss, si avvia la stagione così poco esplorata di una “etnografia militante” di declinazione femminile34. Sarebbe di estremo interesse ripercorrere le tappe di queste convergenze anche cronologiche, mai del tutto casuali, mai abbastanza sorprendenti, che riattualizzano ad esempio le piste intuitive di una antropologa come Denise Paulme – quando auspica una consuetudine alla ricerca che restituisca infine “in presa diretta” la visione che le donne hanno della propria società – o la folgorante intuizione di Julia Kristeva sulla «solitudine che prova una donna […] quando assume il rischio della sua propria singolarità, che è semplicemente il rischio della libertà»35. O infine la fortuita condivisione di un terreno, quello algerino, e la comune persecuzione antisemita che avvicina il destino di Suzanne Taïeb a quello coevo e ben più drammatico di Germaine Tillion, antropologa sottratta alle sue missioni etnografiche nel continente africano (dove pionieristicamente affrontava il problema dell’influenza della colonizzazione sullo statuto delle donne) e deportata nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove rimarrà dal 1943 al 194536. Negli stessi anni Suzanne, sfuggita ai rastrellamenti tedeschi e “mimetizzata” in uno studio medico clandestino nel quartiere arabo di Blida, sarà costretta a lasciare l’ospedale e si preparerà a una diaspora definitiva, rigenerando la “sua”Algeria nella banlieue parigina di Gennevillieres, dove aprirà uno studio medico nell’immediato dopoguerra. Il quartiere di Gennevilliers è ancora oggi teatro di scontri e violenze intestine che hanno come protagonisti adolescenti di origine nord-africana; giovani sospesi tra le due rive del paese d’origine dei genitori e di quello di accoglienza – che spesso coincide con una patria provvisoria tanto ambita quanto denegata – a distanza di più di un cinquantennio ancora prossimi antropologicamente a quei pazienti che affollavano lo studio medico di Suzanne e che affioravano nella memoria d’infanzia di Colette. La tesi di Suzanne Taïeb, come si potrà intuire, costituisce il cuore di questo lavoro. La riproponiamo nella traduzione italiana firmata da Colette Taïeb, concepita con il rispetto e la fedeltà di una semi-traslitterazione. Ci sarebbe piaciuto tuttavia, oltre che tradurla, poterla “raccontare”, rivivendone con meno approssimazione la tessitura narrativa di una storia di vita e la complicità testimoniale di quanti, fra gli studiosi che le sono sopravvissuti, ne hanno condiviso la più intensa stagione riflessiva. Peccato che, come si vedrà, di Suzanne Taïeb si è parlato troppo poco e quel poco che ne è emerso in sede scientifica non ha 34 Si veda in merito il denso saggio di Michela Fusaschi, Denise Paulme e Germaine Tillion: etnografe militanti nell’Africa degli anni Trenta, in «Genesis», VIII, 2, 2009, pp. 159-177. 35 J. Kristeva, Seule une femme, Edition de l’Aube, Paris 2007, p. 7. 36 Cfr. M. Fusaschi, Denise Paulme e Germaine Tillion: etnografe militanti nell’Africa degli anni Trenta, cit., p. 170.
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lasciato molte tracce interpretative, tanto meno pretesti autobiografici significativi. Così il profilo biografico di Suzanne, che apre questo libro, si affida a una tessitura intermittente, frammentaria e di pertinenza quasi esclusivamente femminile. La Suzanne che ne affiora non può ambire ad alcuna “frontalità” autobiografica, può essere semmai ritratta in un profilo labile, che prende forma negli spazi irriflessi di un’identità sottoesposta, di un’autobiografia incompleta, di un sé narrabile mai dimenticato solo da chi l’ha amata e per ciò stesso rigenerato nella fatica di memorie enigmatiche, di amnesie traumatiche, di tessiture familiari troppo a lungo taciute, secretate o riposte nella condensazione silenziosa di ciò che è stato. Di lei direbbe Adriana Cavarero, signora impareggiata di una “filosofia della narrazione”, la storia che ne risulta non ha dunque al suo centro un’identità compatta e coerente. Ha piuttosto al suo centro un’unità labile e insostanziale di cui il desiderio evoca la figura: ossia il disegno impadroneggiabile di una vita che solo gli altri possono raccontare37.
Suzanne Taïeb rivive di fatto nelle pagine che seguono attraverso le testimonianze orali di sua nipote, della sorella, della cognata, di un nipote che ne ha conservato il ricordo d’infanzia; la sua identità di studiosa, il senso politico della sua esistenza difettano di una scena plurale e interattiva entro la quale il suo lavoro sia sottratto all’equivoco di un’evenienza fortuita o di un anonimato scelto. Forse, e tanto più per questo, narrare la sua storia e ripensare il suo lavoro assolve anche a un impegno di natura politica.
37 A.
Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., p. 86.
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Suzanne Taïeb vista di profilo
Suzanne Rachel Taïeb nasce il 17 agosto del 1907 da Eugenie Hafsia Timsit e Raphaël Taïeb, nella casa di famiglia di Beja, una cittadina al centro della Tunisia. Primogenita di 13 figli, cinque dei quali non sopravvivono ai primi due anni di vita, appartiene a una famiglia agiata. Suo padre, commerciante in grano, possedeva anche un’officina meccanica e un banco dei pegni: per le sue condizioni economiche, si racconta che la gente avesse sostituito il detto “ricco come Creso” con l’espressione “ricco come Taïeb”1. Degli otto figli sopravvissuti, solo Suzanne e Albert, di 10 anni più giovane di lei, intraprendono gli studi universitari: entrambi si laureeranno in Medicina ed entrambi parleranno fluentemente la lingua araba. L’esiguità di notizie biografiche relative alla sua giovinezza rappresenta solo una delle diverse zone d’ombra nella vita di Suzanne, il cui profilo, come si è detto, finirà per essere fedele alla labilità di una storia di vita al femminile preclusa ad ogni esercizio autobiografico. Nonostante la madre sia stata una grande affabulatrice e a quel che raccontano figli e nipoti una fiera portavoce delle memorie familiari, i fratelli e le sorelle più giovani non conservano che il ricordo d’infanzia di una sorella già adulta, trasferitasi ad Algeri per frequentare l’università quando loro erano ancora bambini. È una perdita di dati non indifferente, se si considera quanto ricca possa essere stata la sua infanzia e la sua adolescenza in una famiglia di ebrei tunisini, nella quale il padre, rigorosamente osservante, era anche un medium e la nonna paterna, benché autodidatta, possedeva una biblioteca ricca di libri di magia e di spiritismo. Circa la morte del padre, avvenuta nel 1932, la famiglia conserva peraltro un ricordo discorde e c’è chi la riconduce a un episodio inquietante. Raphaël era infatti famoso per le sue doti ipnotiche, che esercitava indifferentemente su uomini e animali, e sembra che si fosse rifiutato di ipnotizzare dei prigionieri politici, respingendo la richiesta delle autorità governative: cosicché, all’indomani della sua morte, prematura e avvenuta in circostanze misteriose, alcuni figli avanzarono il sospetto che non si fosse trattato di un evento naturale. 1
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Testimonianza di Colette Taïeb, registrata il 26 novembre 2009.
Se già la crisi del 1929 aveva compromesso la solidità economica della famiglia Taïeb, dopo la morte di Raphaël la situazione precipita. A quel tempo Suzanne è comunque già iscritta alla Facoltà di Medicina di Algeri, dove si laureerà nel 1939, dopo tre anni di internato a Blida. Stando alle testimonianze dei familiari, già prima della laurea Antoine Porot la incoraggia a intraprendere una formazione psichiatrica, indirizzandola verso quell’ospedale di Blida che verrà ufficialmente inaugurato nel 1938, ma dove già esistono padiglioni attivi, e dove Suzanne sarà accolta, prima come “esterna” poi nell’internato psichiatrico. Del primo triennio a Blida – quello il cui lavoro confluirà nella sua tesi di laurea – si intuisce tanto l’ottimismo della neofita quanto l’impegno intensivo nella pratica clinica. Le dediche e i ringraziamenti che aprono la tesi ne rappresentano una testimonianza eloquente: in primis la dedica alla memoria del padre, alla madre, ai familiari tutti, quindi un elenco ricco e dettagliato di ringraziamenti ai suoi docenti di Algeri, a maestri e colleghi, a medici e funzionari amministrativi interni all’ospedale, ad amici e compagni di studi. L’omaggio più ufficiale va ovviamente al maestro, Antoine Porot, direttore della tesi, nonché “guida generosa dei suoi primi passi nel mondo della psichiatria”. Una generosità che Suzanne ricambierà nel suo lavoro, oltre che con i costi di una ostentata fedeltà acritica ai quadri interpretativi del maestro, con le grandi doti comunicative e con gli esiti di una osservazione clinica puntuale e accurata, particolarmente fruttuosa anche in ragione della sua solida conoscenza della lingua araba. E se la sua familiarità con il mondo femminile è stata segnalata in più di una sede scientifica2, dalle pagine della sua tesi traspare anche la vicinanza attenta e compartecipe con il personale ausiliario, soprattutto con le infermiere dell’ospedale psichiatrico, preziose informatrici dalle quali raccoglie usi e credenze locali, nonché con le pazienti donne, che proprio in quel contesto di profonda diffidenza verso la medicina di importazione occidentale, le aprivano il loro mondo, consentendole di penetrarne saperi e misteri. Saranno anni intensi professionalmente ed emotivamente, condivisi con i membri di una comunità chiusa, auto-appagata e in qualche modo auto-reclusa nell’avventura di una sperimentazione clinica legittimata scientificamente dal “paternalismo” coloniale: si pensi che buona parte del personale medico e amministrativo impegnato a Blida aveva la propria residenza abitativa nel complesso ospedaliero, per cui la vita lavorativa, quella familiare e quella sociale finivano per esaurirsi fra i padiglioni interni all’ospedale. È in uno di questi villini adibiti ad abitazione che Suzanne nel 1936 trova 2 Cfr. J.M. Bégué, French Psychiatry in Algeria (1830-1962): from colonial to transcultural,
cit., p. 540; R. Berthelier, Fanon, psychiatre encore et toujours, in «Vie sociale et traitments», 89, 2006, p. 82; M. Bégué, Un psychiatre en Algérie française. Entretien avec le professeur Jean Sutter, in «Psychopathologie africaine», XXXVI, 3, 2007-2008, p. 350.
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ospitalità appena arrivata, presso la famiglia di Alexandre Jaubertie, responsabile dell’ufficio accettazioni, la cui moglie Emma era responsabile a sua volta dei servizi di infermeria. A casa dei suoi ospiti ha l’occasione di conoscere Pierre Arcolea, fratello di Emma, che all’epoca era ancora studente liceale e che diventerà suo marito nove anni più tardi. Il medico che ne guida la preparazione all’internato, Aimé Kanoui, che ambisce a sua volta a sposarla, verrà invece “dirottato” dalla stessa Suzanne verso una sorella di tre anni più giovane, Yolande: si sposeranno nel 1936 e un anno dopo nascerà il loro primogenito, Joe, destinato a vivere parte della prima infanzia con la zia Suzanne, fra i padiglioni di Blida. Anche il figlio di Emma e Alexandre, Yvon Jauberty, nascerà nel 1937, messo al mondo da “Suzanne-Tatie” in un piccolo padiglione all’interno dell’ospedale; crescerà con il cugino Joe e un altro piccolo cugino, accudito da familiari e personale sanitario, scarrozzato con una carriola dal giardiniere dell’ospedale3 lungo i giardini fioriti e gli ampi viali costeggiati da giovani alberi. In un ambiente nel quale la psichiatria coloniale si misura con nuove, spesso ardite pratiche cliniche e con l’ambizione a nuovi terreni di ricerca, Suzanne interagisce con medici e colleghi come Jean Sutter e al tempo stesso coesiste con la vitalità “endogamica” di un gruppo socialmente coeso: alcuni dei suoi conviventi dell’ospedale di Blida saranno destinati a diventare parenti e ad accompagnarla per tutta la sua vita intima e professionale. Di questa stagione i parenti ricordano ancora la “pazienza angelica”, la grande disponibilità umana, la dedizione professionale e la qualità dell’ascolto nei confronti dei pazienti4. Mentre in Francia le leggi antisemite varate dal governo di Vichy nell’ottobre del 1940 inaugurano la tragica stagione dei rastrellamenti, a Blida Suzanne continua a lavorare indisturbata fino al 1942, quando la presenza di una commissione tedesca comincerà a imporre una politica di epurazione. Ben consapevole del clima di antisemitismo dilagante, nel 1939 Suzanne aveva intanto proposto alla madre e alle due sorelle Yvette e Nadine, che nel frattempo si erano trasferite a Parigi, di raggiungerla cautelativamente a Blida. Anche Yvette inizia a lavorare in ospedale nel reparto di radiografia, dopo aver frequentato un corso di formazione (finanziato dalla stessa Suzanne) presso l’ospedale Mustapha di Algeri5. Nel 1942, tuttavia, Suzanne è costretta ad abbandonare la professione medica e viene licenziata dall’ospedale di Blida, assieme alla sorella Yvette e alla futura cognata, Emma Jaubertie, che per averla difesa viene accusata strumentalmente di un furto nel reparto lavanderia. Suzanne continua per qualche tempo a occupare un appartamento nei padiglioni residenziali e inizia a lavorare come dattilografa presso un notaio, che a sua volta verrà indotto dalle autorità tedesche a licenziarla perché ebrea. 3
Testimonianza di Yvon Jaubertie trasmessa via e-mail, 15 ottobre 2010. Ibidem. 5 Testimonianza di Yvette Taïeb, raccolta da Colette Taïeb nel novembre 2010. 4
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Quando nel novembre del 1942 lo sbarco anglo-americano in Algeria mette fine al dominio delle forze tedesche, lascia l’appartamento in ospedale e apre uno studio a Blida, a Rue Randon, nei pressi del mercato arabo, in un primo momento clandestinamente. Ci lavorerà fino al 1947, ovvero fino alla vigilia della partenza per la Francia. Saranno anni nei quali, stando alle testimonianze dei familiari, Suzanne perde la continuità professionale con l’ospedale di Blida ma non con i pazienti psichiatrici, dei quali si prende cura nel suo studio (sempre affollato e da sempre dotato di due sale d’attesa, una per sole donne musulmane), e neppure con le donne di Blida, se è vero che era lei stessa a raggiungere nelle loro abitazioni le prostitute della città, per prestare cure e garantire prevenzione6. In questo periodo di piena riabilitazione professionale, in linea con la ripresa economica di tutta la famiglia, Suzanne sposa nel febbraio del 1945 Pierre Arcolea, il fratello di Emma Jaubertie, cattolico, di dodici anni più giovane di lei, profondamente innamorato fin dall’età dell’adolescenza e fedele alla sua compagna per il resto della vita. Due anni dopo partiranno per Parigi. Suzanne aveva letto su una rivista specializzata l’annuncio di un medico che voleva scambiare il suo studio ad Avenue Chandon, nel quartiere di Gennevilliers, con uno studio in Algeria7. Accetta la proposta, ma arrivata in Francia trova lo studio del collega completamente privo di clientela. Dopo i disagi dei primi mesi, sostenuta dai risparmi della sorella Yvette, Suzanne inizia ad avere una clientela stabile e assidua, mentre Pierre, laureato in ingegneria, trova lavoro a Colmar, in Alsazia. La sua attività professionale a partire da questi anni sarà intensissima, infaticabile e spesso dedicata ai pazienti di origine nord-africana che vivevano nelle bidonvilles limitrofe al suo studio medico. Non rimane nessuna documentazione oggettiva a comprovarlo: ne sono stati testimoni diretti i nipoti e soprattutto ne è stata testimone attiva per anni la sorella Yvette, che ricorda come spesso si rendesse necessario il suo aiuto di segretaria per far fronte agli impegni di Suzanne, la quale per parte sua non si risparmiava nell’assistenza di partorienti e di malati indigenti, oppure in visite domiciliari nelle quali era spesso lei a sostenere economicamente i pazienti. E sembra che ancora oggi, nelle sue rare uscite nel quartiere Yvette, ormai ultranovantenne, incontri anziani pazienti che rimpiangono la professionalità e la disponibilità umana della sorella. In piena maturità professionale, Suzanne alternerà il lavoro privato di medico di base con quello ospedaliero, nel reparto geriatrico dell’ospedale di Beaujon prima, di Nanterre poi. Conseguirà una specializzazione in dermatologia e malattie veneree, senza tuttavia riprendere le ricerche avviate a Blida o anche solo i contatti professionali con gli psichiatri della stagione coloniale. La sua vita lavorativa coesisterà con molteplici curiosità intellettuali, con l’amore 6 7
Testimonianza di Yvon Jaubertie trasmessa via mail, 15 ottobre 2010. Testimonianza di Yvette Taïeb, raccolta da Colette Taïeb nel novembre 2010.
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per la musica e con la dedizione verso la famiglia, soprattutto verso quei nipoti che – in una famiglia disseminata fra le due sponde del Mediterraneo – assisterà negli studi e ospiterà costantemente, facendo le veci di padri e madri assenti e appagando indirettamente un desiderio di maternità mai realizzato. Morirà il 15 dicembre del 1979, in seguito alle complicazioni di una grave forma di diabete. Dopo qualche giorno Pierre Arcolea, il marito, riceverà questa lettera commossa di Jean Sutter, a testimonianza di una affettuosa continuità amicale, anche se nessun familiare è in grado di asseverare l’incidenza di tale amicizia nella vita professionale di Suzanne: Mio caro Pierre, è con grande dolore e tristezza che ho appreso della scomparsa della nostra cara Suzanne. Certo, la grave malattia di questi ultimi anni l’aveva quasi miracolosamente risparmiata, incoraggiandoci a pensare che potesse ancora uscirne vittoriosa, e l’ultimo aggravamento deve essere stato per te particolarmente doloroso, tanto più in ragione delle cure che le hai prodigato per così tanto tempo. I ricordi si affollano e a volte mi sembra di percepirli ancora così vivi, così prossimi. Blida soprattutto, ma anche Gennevilliers, nella quale da tanto tempo ormai vi eravate radicati e dove il mio pensiero era solito ritrovarvi. La vita di un malato mette a dura prova chi lo affianca, e tu hai ammirevolmente affiancato Suzanne in tutti questi anni; è grazie a te che, malgrado il suo male, ella è stata felice. Prego per lei e per te, mio caro Pierre. Mi unisco con tutto il cuore al tuo dolore e ti abbraccio con tutto l’antico affetto, Jean8.
Sarà lo stesso Sutter a far pubblicare la notizia del decesso su un Bollettino destinato al personale medico-sanitario già impegnato nell’Africa francese9. Il testo, sotto forma di necrologio, suona come un asciutto riconoscimento postmortem del suo impegno generoso, come psichiatra a Blida, come medico generico a Gennevilliers. 8
L’originale della lettera è stato rinvenuto da Yvon Jaubertie assieme alla tesi e ai documenti riguardanti la zia Suzanne. 9 Questo il testo pubblicato nel numero 1-2 (gennaio-febbraio 1980) del «Bullettin de liaison mensuel de l’Antenne Médical pour le membres de l’ancien corps de santé d’A.F.N.»: «Suzanne Arcoléa Taïeb è deceduta dopo una lunga malattia il 15 dicembre 1979; è stata allieva del Professor Antoine Porot e del Professor Jean Sutter, interna all’ospedale Psichiatrico di Blida, sostituta del prof. Sutter nel suo ruolo, quando questi fu messo in mobilità. Partita per Parigi dopo il suo matrimonio, ha esercitato con grande dedizione la professione di medico generico presso la laboriosa popolazione di Gennevilliers. Inviamo le nostre condoglianze a M. Pierre Arcoléa, 3 B, avenue Claude-Debussy, 92230 Gennevilliers».
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Rimane da comprendere la ragione autobiografica per cui, a partire dall’arrivo in Francia e per il resto dei suoi giorni, Suzanne Taïeb ha abbandonato la psichiatria; o forse, e più proficuamente, rimane da chiedersi “cosa” abbia abbandonato e cosa abbia metabolizzato di quella pratica clinica che aveva connotato la sua formazione psichiatrica nell’Algeri della prima metà del secolo scorso. Affiora, con tutte le cautele che esige un profilo biografico complesso e accidentato, il sospetto che la ragione portante di questa sua rimozione possa essere stata l’esperienza vissuta di una discriminazione antisemita. Costretta a lasciare il terreno della pratica clinica nell’ospedale di Blida, Suzanne ottiene il suo risarcimento professionale gestendo uno studio medico nel quartiere arabo della città; uno studio affollato di pazienti indigeni, con i quali ha appreso a dialogare nonostante la scuola di Porot e grazie a una formazione personale versatile e sensibile al linguaggio composito delle culture locali. Le cure che presta ai suoi pazienti algerini sono quelle di una medicina di importazione, la cui efficacia si rivela determinante soprattutto in quei centri urbani nei quali, a partire dai primi decenni del ’900, l’incremento demografico favoriva la diffusione di malattie infettive e parassitarie acute10. Suzanne, come si è detto, conosce bene la loro lingua, le loro credenze, le implicazioni religiose della loro relazione con “il senso del male”; e non disdegna di condividerne modalità di accoglienza autoctone, se la situazione particolarmente critica di un paziente le rende necessarie. I nipoti ricordano ad esempio il caso di un malato che Suzanne ospitò per lungo tempo a casa sua, e che aveva l’abitudine di ridurre in mille piccoli pezzi qualsiasi indumento avesse a portata di mano. Le ultime pagine della tesi, come avremo modo di segnalare più oltre, lasciano del resto trasparire il suo sospetto che fosse in corso una trasformazione progressiva dei contenuti deliranti, in merito alle idee di influenzamento, man mano che gli indigeni entravano a contatto con la civiltà occidentale. Al suo arrivo in Francia, l’approdo in un quartiere popolato da immigrati nord-africani deve esserle sembrato il luogo più coerente con la sua formazione e con la pratica medica degli ultimi anni, e forse quello nel quale le conoscenze acquisite in Algeria, la ricchezza dei dati raccolti, la consapevolezza delle variabili culturali del mondo maghrebino potevano rigenerarsi e sedimentare in un nuovo saper-fare, funzionale alle emergenze sanitarie di una non-cittadinanza migrante, attraversata dalla diaspora e segnata dal neocolonialismo. 10 Cfr. R. Collignon, Vingts ans de travaux à la clinique psychiatrique de Fann-Dakar, in «Psychopathologie Africaine», XIV, 2-3, 1978, p. 133; e si veda in proposito P. Coppo, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, cit., p. 22. Ma sul rapporto tra incremento demografico e assistenza medica nel Maghreb, si veda anche l’ottima monografia di Salvatore Speziale, Oltre la peste. Sanità, popolazione e società in Tunisia e nel Maghreb (XVIII-XX secolo), Pellegrini, Cosenza 1997, in particolare parte II (Epidemie e risposte sociali), pp. 153313.
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Nei primi anni Cinquanta, del resto, la psichiatria della scuola di Algeri con le sue derive ideologiche si apprestava a cadere sotto i colpi implacabili di Franz Fanon, mentre le pionieristiche intuizioni etnopsichiatriche erano ancora ben lontane dal conoscere sponde operative. Non c’è ragione per credere che una donna tunisina, di origini ebraiche, sopravvissuta alle forme più violente di discriminazione antisemita, approdata in una patria culturale alla quale era stata annessa in virtù di una “naturalizzazione” concessa ai tunisini quando aveva quasi vent’anni dovesse sentirsi obbligata o fortemente motivata a importare ed ereditare l’ambiguità scientifica del suo maestro. Capovolgendo l’ordine interpretativo, già vagamente dissociante ai tempi della sua ricerca (la cultura locale come genesi di forme deliranti che si originano in regime di miseria psicologica, passività, fatalismo; ma al tempo stesso le credenze religiose indagate con passione, recepite come inesauribile fonte e strumento di sapere), la Suzanne parigina deve aver preferito rigenerarsi sulle macerie di un “pensiero di stato”, piuttosto che sulle contraddizioni di una scuola di pensiero che la Suzanne algerina aveva mutuato quasi per automatismo dai modelli concettuali della medicina coloniale. Etnospichiatra ante-litteram in un territorio sociale che muta, dotata di un bagaglio di competenze e di un travaglio esistenziale che la avvicina per le vie di una comune “naturalizzazione” ai corpi fuori-luogo dei migranti maghrebini, Suzanne passerà la seconda stagione professionale della sua esistenza a deportare in un nuovo mondo una variante possibile di quella che Abdelmalek Sayad ha definito la doppia assenza. Nel silenzio di una periferia urbana, ignorata dai pionieri di nuovo corso e forse immemore di una fatica interpretativa che nel tempo deve essere tracimata, silenziosamente, nella sua fibra morale prima ancora che intellettuale, Suzanne Taïeb, negli anni intercorsi tra la partenza dall’Algeria e la sua morte, avrà sicuramente messo in gioco le forme poliedriche della sua identità, delle sue appartenenze, del suo incontro con corpi, esistenze, mondi altri. Senza scrivere più nulla, isolandosi dal mondo scientifico e provando a “cambiar pelle”, ovvero tentando di rigenerare anche la propria formazione medica nel campo della dermatologia. La sua tesi ha riposato per anni fra i ricordi ereditati dai nipoti, custodita con cura e in qualche modo secretata anche da lei, quando era in vita, come tutta la stagione travagliata degli anni a seguire, censurati nella memoria familiare, non tanto perché intellettualmente vulnerabili, quanto perché difficili da sopportare, da ripercorrere, da sdoganare.
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