Sistema di psicologia e altri saggi

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José Ortega y Gasset

SISTEMA DI PSICOLOGIA E ALTRI SAGGI Traduzione, introduzione e note di María Lida Mollo

ARMANDO EDITORE


SOMMARIO

Introduzione di MARIA LIDA MOLLO

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SISTEMA DI PSICOLOGIA Lezione I Lezione II: Sulla definizione del fenomeno psichico Lezione III Lezione IV: Il problema e il dubbio Lezione V: Il problema e il dubbio Lezione VI Lezione VII Lezione VIII Lezione IX Lezione X Lezione XI Lezione XII Lezione XIII Lezione XIV Lezione XV

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SUL CONCETTO DI SENSAZIONE

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SENSAZIONE, COSTRUZIONE E INTUIZIONE

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PER UN DIZIONARIO FILOSOFICO

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Indice dei nomi

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Introduzione MARIA LIDA MOLLO

El iniciado estaba leyendo un libro de biología cuando la palabra cucaracha, presente en la página por la que lo tenía abierto, abandonó el lugar que ocupaba en una oración subordinada y se deslizó con agilidad hacia la parte interior del lomo, desapareciendo enseguida por una costura de la encuadernación (Millás J.J., Cuerpos y prótesis, Madrid, Santillana, 2000, p. 37).

Prima di provare a sciogliere alcuni dei problemi nodali degli scritti che qui presentiamo, è d’obbligo pagare il pegno ad un curatore che per certi versi può essere considerato come co-autore del libro postumo apparso nel 1979 con il titolo di Investigaciones psicológicas1. A Paulino Garagorri, infatti, non si deve soltanto la pubblicazione integrale di Sistema de la psicología, il corso tenuto da Ortega al Centro de Estudios Históricos nel 1915 e di cui nel 1916 erano stati pubblicati nel primo volume di «El Espectador» solo dei frammenti estratti dalla quinta e dalla settima lezione – senza contare che sempre il curatore decise di includere, come lezione seconda, il denso saggio Sobre la definición del fenómeno psíquico, le cui bozze egli ipotizza fossero destinate alla rivista «La Lectura» –, ma anche gli altri tre testi che rendono ancora più chiari i termini dell’incontro tra Ortega e quella che egli stesso definì come la sua buena suerte. Tanto nella conferenza del 1913, Sensación, construcción e intuición, pronunciata al IV Congreso de la Asociación Española para el 1 Ortega y Gasset J., Investigaciones psicológicas, a cura di Garagorri P., Madrid, Alianza Editorial, 1979.

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Progreso de las Ciencias2, quanto nella serie di articoli pubblicati nella «Revista de Libros» nello stesso anno3, aventi una portata che supera di gran lunga quella della mera recensione allo scritto di Heinrich Hofmann Untersuchungen über den Empfindungsbegriff, quanto ancora nelle tre voci “Astrazione”, “Astratto” e “Percezione” che avrebbero dovuto far parte di un più ampio dizionario filosofico – che, ad esempio, secondo le intenzioni dell’Autore, avrebbe dovuto comprendere anche il termine Volontà – e che erano rimaste nel limbo dei manoscritti fino all’edizione di Garagorri, la buona sorte, l’occasione propizia, la congiuntura favorevole, la qualità dei tempi, è senza ombra di dubbio la fenomenologia di Edmund Husserl. Quest’ultima, infatti, appare alla “mente attanagliata da problemi”4 del giovane studioso spagnolo, o alla vista dell’uccello rapace che torna nel castello in rovine per divorare la preda ancora sanguinante5, sia come la via di fuga dalla scuola neokantiana di Marburgo – dalla cittadella in perpetuo assediata in cui si 2

Pubblicata nel tomo I del Congreso, Madrid, 1913 e che non era stata inclusa nell’edizione in undici volumi di Obras Completas, Madrid, Revista de Occidente, 1946/1962. 3 Successivamente inclusi nel vol. I delle Obras Completas, Madrid, Revista de Occidente, 1946. 4 Nel necrologio letto in occasione della morte di Ortega, un discepolo d’eccezione come Xavier Zubiri mise l’accento, più che sul ruolo del maestro nell’importare in Spagna correnti filosofiche di origine tedesca, sul cambiamento di mentalità che determinò coi suoi problemi – e con i suoi “malumori” – nella cultura spagnola: «Ciò che Ortega portò dalla Germania fu la sua mente attanagliata da problemi. […] Si direbbe che le sue riflessioni nacquero dal malumore che gli causavano, da un lato, l’io assoluto dell’idealismo e, dall’altro, l’impero tirannico della ragione scientifica, soprattutto nella sua forma fisico-matematica. Fino a pochi anni fa gli sentivo dire: “Adoro disturbare la geometria”» [Zubiri X., Ortega, (1955), in Id., Escritos menores, Madrid, Alianza Editorial, 2006, p. 226]. Lo stesso passo era presente nell’omaggio tributato al maestro in occasione del suo settantesimo compleanno e significativamente pronunciato nella cornice del corso Filosofía primera tenuto da Zubiri nel 1952/53. 5 Ortega y Gasset J., “Prologo per i tedeschi”, in Id., Il tema del nostro tempo, tr. it. a cura di Rocco C. e Lozano Maneiro A., Varese, Sugarco, 1994, p. 31: «Il lettore non deve quindi immaginare il mio viaggio in Germania come il viaggio di un devoto pellegrino che va a Roma a baciare il piede del Santo Padre. Fu tutto il contrario: il veloce volo di un predatore, la discesa sfrecciante di un giovane sparviero affamato su qualcosa di vivo, carnoso, che il suo occhio rotondo e sempre all’erta scopre nella campagna. In quella mia giovinezza appassionata ero infatti un po’ quel giovane rapace che abitava le rovine del castello spagnolo. Non mi sentivo un uccello da gabbia, ma un fiero e blasonato volatile; come lo sparviero ero vorace, altero, bellicoso e come questo usavo la penna».

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Introduzione

leggeva solo Kant6, o ancora dalla scuola in cui tutto prima valeva e poi era – sia come la scoperta di un territorio inesplorato di oggetti. Prima però di trasferirci nel nuovo mondo di centauri e di stati di cose, di adombramenti irreali e di cose reali e prima ancora di superare le metafore spaziali in vista dei nuovi e plurali sensi del trascendente e dell’immanente, prima di tutto questo deve essere chiaro che in nessun momento Ortega si pente degli anni dedicati alla lettura di Kant, del “callo sulla fronte” che, come all’elefante dello zoo di Lipsia, gli si era formato “a forza di dare colpi contro le sbarre della Critica della ragion pura”7, la frequentazione obbligata della quale, quindi, precede e motiva il soggiorno marburghese. Sebbene la critica all’idealismo in tutte le sua forme sia una costante dell’intera opera orteghiana, e sebbene al “timido pensatore di Königsberg” non siano state lesinate battute irriverenti fino al punto di smascherarlo nella sua volontà di potenza – squisitamente moderna – di ricondurre la ragione pura alla ragione pratica8, tuttavia Ortega afferma in più di un luogo di aver tratto non pochi 6 Ivi, p. 34: «Marburgo era la città del neokantismo. Si viveva nella filosofia neokantiana come in una cittadella assediata, in costante “chi va là!”. Tutto ciò che stava intorno era sentito come nemico mortale: i positivisti e gli psicologisti, Fichte, Schelling, Hegel. Erano considerati così ostili che non venivano nemmeno letti. A Marburgo si leggeva soltanto Kant e, previamente tradotti in kantismo, Platone, Cartesio e Leibniz». 7 Ivi, pp. 33-34. 8 Vedasi un passo in cui Ortega, in stretta consonanza con la riconduzione del concetto moderno di soggettività alla volontà di potenza, così come Heidegger avrebbe poi espresso nel suo Nietzsche, mostra l’inevitabile slittamento, pienamente compiutosi nel criticismo kantiano, dalla ragione pura alla ragione pratica: «La posizione passiva viene abolita ed esistere significa sforzarsi. Ovunque soffi la pura ispirazione germanica, semina un principio attivista, dinamico, volontarista. Alla fisica di Descartes, che è inerte geometria, Leibniz aggiunge la nozione di forza – vis, impetus, conatio –. La realtà non è altro che affanno. E dal seno di Kant, come il frutto rivelatore del seme, emergerà frenetico Fichte che affermerà in pubblico che la filosofia non è contemplazione, ma – avventura, gesta, impresa – Tathandlung. Quando a ciò che è, pateticamente si oppone ciò che deve essere, sospettiamo sempre che dietro a questo si nasconda un umano, troppo umano io “voglio”» (Ortega y Gasset J., Kant, in Id., Obras Completas, vol. IV (1926/1931), Madrid, Taurus, 2005, pp. 255-275, 274-275). Vedi anche Heidegger M., Nietzsche, a cura di Volpi F., Milano, Adelphi, 1994, p. 906: «per la storia moderna della metafisica la denominazione “soggettività” esprime la piena essenza dell’essere solo se si pensa non tanto, e nemmeno in misura prevalente, al carattere di rappresentazione dell’essere, ma se sono diventati manifesti l’appetitus e i suoi sviluppi come tratto fondamentale dell’essere. Dal pieno inizio della metafisica moderna in poi l’essere è volontà, cioè exigentia essentiae. “La volontà” cela in sé una essenza molteplice. È la

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vantaggi dal rigore, dalla disciplina e dalla delimitazione dei problemi dettati dalla lettura approfondita dell’opera di Kant, la mancata conoscenza della quale ritiene sia un vuoto non più colmabile, un’ipoteca che soffoca qualsiasi tentativo di originalità. Con ancora maggior riconoscenza Ortega si rivolge ai suoi maestri diretti, Cohen e Natorp, la cui posizione costruttivista merita tutto il suo rispetto e tutta la sua attenzione, se non altro per averla un giorno condivisa, ad esempio, nel testo del 1910, Adán en el paraíso, che tanto risente dell’estetica antimimetica di Cohen, o ancora per esserne stato in parte condizionato nella ricezione della svolta trascendentale husserliana, a partire dalla recensione di Natorp a Ideen I. Non è il caso qui di riaprire una delle dispute più accese nella letteratura critica, basti menzionare chi come Nelson Orringer esaspera il ruolo giocato dalla lettura natorpiana di Husserl nelle prime critiche che Ortega avrebbe rivolto alla fenomenologia9, chi come Philip Silver vede in Ortega un fenomenologo che sarebbe giunto prima di Husserl e delle cosiddette “eresie” di Heidegger e di Merleau-Ponty a situare la coscienza nel mondo e nel corpo10, chi come Pedro Cerezo-Galán parla di una “neutralizzazione reciproca” per cui due idealismi – quello neokantiano e quello fenomenologico – si trovavano in una «congiuntura in cui ognuno di essi imponeva il superamento di un presupposto dell’altro»11 e, infine, chi come Javier San Martín – peraltro curatore dell’edizione tedesca del corso su “Sistema de la Psicología” e di altri saggi di chiaro stampo fenomenologico12 –, sostiene la stretta continuità non solo con la volontà della ragione oppure la volontà dello spirito, la volontà dell’amore, oppure la volontà di potenza». Sulla lettura orteghiana di Kant cfr. Colonnello P., Kant nell’interpretazione di José Ortega y Gasset, in «Bollettino Filosofico», vol. 21, Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi della Calabria, 2005, pp. 99-112. 9 Orringer N.R., Ortega y sus fuentes germánicas, Madrid, Gredos, 1979, p. 83. 10 Silver Ph.W., Fenomenología y razón vital, Madrid, Alianza Editorial, 1978. 11 Cerezo-Galán P., La voluntad de aventura, Barcellona, Ariel, 1984, p. 202. Vedi anche p. 216 dove Cerezo, più che constatare l’abbandono o il rifiuto da parte di Ortega della riflessione fenomenologica nel lontano 1914, preferisce parlare di una sua “messa in quarantena” onde evitare il rischio di una “ricaduta” nell’idealismo trascendentale dal quale era appena evaso: “il carcere neokantiano”. 12 Ortega y Gasset J., Schriften zur Phänomenologie, cura e intr. di San Martín J., tr. it. di Campos A. e Uscatescu J., Freiburg-München, Verlag Karl Alber, 1998. Questa edizione tedesca di scritti orteghiani sulla fenomenologia comprende Sensación, construcción, intuición; Sobre el concepto de sensación; Ensayo de estética a manera de prólogo (1914); Investigaciones psicológicas e Prólogo para alemanes (1934).

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fenomenologia husserliana ma persino con il bersaglio polemico della soggettività trascendentale anche, e soprattutto, quando Ortega rende esplicita l’esecutività dell’io13. L’acquisizione da parte dei sostantivi di un intimo valore verbale, per cui nella metafora il cipresso è lo spettro di una fiamma morta il cipresso si trasforma in “cipressare”, secondo quanto emerge da un testo coevo a quelli che qui presentiamo, Ensayo de estética a manera de prólogo – che è proprio quello a cui si è fatto generalmente riferimento per rintracciare l’origine dell’abbandono del presupposto metodologico dell’epoché o, viceversa, come nel caso di San Martín, per rinvenirvi un suo più radicale compimento – non poteva mancare in un corso che si prefigge in primo luogo di trovare l’oggetto della psicologia. Allora il fenomeno originario, onnipresente, irriducibile e invisibile, come lo sarebbe il blu in un mondo destinato ad avere un unico carattere cromatico, a stratificarsi in un’azzurrina legalità dell’apparire, quell’elemento in cui tutto galleggia e che con tutto si confonde, vale a dire la coscienza, non appare se non come residuo di un’interruzione, di un passaggio dal pesante al leggero, dal corporeo al fantasmatico, insomma da uno slittamento in virtù del quale l’asse della mia attenzione si trasferisce – come nella II lezione del corso – «dalla cosa pietra alla cosa “la mia percezione della pietra”» che, a sua volta, non ha nulla di pietroso, in quanto si è emancipata da ogni residuo iletico, e a rigore non è una cosa, ma un atto trasudante senso. “Torsione o reversione dell’atteggiamento naturale” sono poi i termini che troviamo nella VII lezione, ovvero lì dove da una tonalità affettiva – per la quale il linguaggio sembra farsi testimone della sua virtualità avvolgente: “il velo di tristezza” – ci si ritrae, dandole le spalle, per cogliere la “coscienza di tristezza”. È proprio a questo punto 13

Cfr. San Martín J., Fenomenología y cultura en Ortega, Madrid, Tecnos, 1998, in particolare il cap. IV, “¿La primera superación de la fenomenología?”, pp. 115-145. Nell’ottica di San Martín intendere la tesi dell’atteggiamento naturale a partire dal valore esecutivo equivale ad affermare una soggettività inserita in un mondo reale che è «soltanto nella misura in cui mi è». Da quest’intima correlazione, dal carattere tetico dell’esperienza deriva il senso dell’epoché. La tesi dell’atteggiamento naturale sarebbe dunque – e in contrasto con la letteratura critica tradizionale – «una scoperta di grande portata trascendentale» (ivi, p. 129). Dello stesso Autore vedi Ensayos sobre Ortega, Madrid, UNED, 1994, in part. pp. 83-101; e La metafora secondo Ortega e la difficoltà della sua traduzione, in Cantillo C. (a cura di), Forme e figure del pensiero, Napoli, La città del Sole, 2006, pp. 287-302.

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che si pone la domanda, alla quale avrebbero fatto seguito montagne di carta e oceani di inchiostro, “che ne è della tristezza nella coscienza di tristezza?”. Se nell’esempio della pietra, lo slittamento dal fenomeno fisico della pietra al fenomeno psichico della percezione della pietra non comportava alcuna perdita, ma anzi un possesso di qualcosa che non conteneva nulla di pietroso e che eppure era lì davanti a me «come qualcosa di mio e soltanto mio», cosa accade, invece, con il fenomeno tristezza? Dalla seconda lezione emerge che la percezione della pietra è mia in quanto è un mio atto; ma subito diviene chiaro che non è l’essere atto ciò che sancisce la proprietà dei miei vissuti. L’esempio non tarda ad arrivare ed è quello del dolore, ossia di un vissuto che è più mio del corpo-proprio ma meno mio dell’ira e del disagio che mi provoca. Ciò che mi appartiene più di tutto è uno di quei vissuti che, nell’appendice alla Sesta Ricerca logica – testo che per ora Ortega non può conoscere – Husserl definisce come percezioni non-interne, ma non nel senso di esterne, bensì nel senso di inadeguate o trascendenti: l’angoscia mi serra la gola, il dente mi duole, l’affanno mi tormenta il cuore. Sono tutte percezioni di stati psichici che «non possono essere evidenti, dal momento che vengono percepiti come localizzati nel corpo»14. Il lettore di Ortega sa bene con quale insistenza e con quanta frequenza il mal di denti appaia come una prova evidentissima dell’insostenibilità di due capisaldi della fenomenologia di Husserl quali l’epoché e la Einfühlung, nella sua valenza di endopatica comprensione dei vissuti altrui. Che, però, il pensatore spagnolo successivamente si appelli all’evidenza dell’opacità del dolore per contestare l’epoché e la riflessione trascendentale, che nelle sue mani ha cessato di essere riflessione fenomenologica su un senso preesistente per trasformarsi in ricordo di quello che ormai è passato15, e che lo faccia proprio per ri14 Husserl E., Ricerche logiche, 2 voll., a cura di Piana G., Milano, Net, 2005, vol. II, p. 536. 15 Per sorprendere Ortega in un’illecita “naturalizzazione” della riflessione fenomenologica e nell’assimilazione di quest’ultima al ricordo, vedi Ortega y Gasset J., Ensayo de estética a manera de prólogo (1913), in Id., Obras Completas, vol. I (1902/1915), Madrid, Taurus, 2004, p. 669: «per vedere il mio dolore occorre che interrompa la mia situazione di sofferente e divenga un io che vede. Quest’io che vede l’altro io sofferente, ora è l’io vero, quello esecutivo, quello presente. L’io sofferente, parlando con precisione, è stato, e ora è soltanto un’immagine, una cosa o un oggetto che ho davanti». Un’argomentazione analoga compare nella versione originale di Prólogo para alema-

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vendicare l’esecutività dell’io, fa sospettare che forse aveva immaginato male quando nella VII lezione aveva così tranquillizzato la platea: Immagino che la parola atto non presenti per voi grandi difficoltà. I modi di coscienza, se vi siete già abituati a vederli, si presentano con il carattere di movimenti spontanei, di esercizi di un’attività. Se dal voluto isolo il mio volere, o se dal percepito isolo il mio percepire, trovo due “qualcosa”, la mia volizione e la mia percezione che posso descrivere solo se dico che non sono né la cosa che vuole, o io, né la cosa voluta, bensì quel mio agire nei confronti della cosa che designiamo con la parola volere16.

In poche parole, se i vissuti sono atti di coscienza, dove si colloca allora la tristezza, con la quale è lo stesso Ortega a dirci che intratteniamo un rapporto passivo non potendo fare altro che assistere al suo spettacolo? Forse che della tristezza ho una coscienza d’immagine, come ce l’ho di quegli oggetti che non rientrano nella percezione e neanche nella rappresentazione – e qui una maggiore attenzione all’equivocità e alla ricchezza del termine probabilmente avrebbe fatto la differenza17 – ma nes (tr. it. in Il tema del nostro tempo, cit., p. 60) ma non in quella tedesca, dalla quale – come ha opportunamente segnalato Javier San Martín – sarebbe stata eliminata anche in ragione di un incontro chiarificatore tra Ortega e Fink, di cui v’è traccia in una nota de La idea de principio en Leibniz y la evolución de la teoría deductiva; tr. it. “L’idea di principio in Leibniz e l’evoluzione della teoria deduttiva”, in Id., Scienza e Filosofia, a cura di Lozano Maneiro A. e Rocco C., pref. di Pellicani L., Roma, Armando, 1983, pp. 322-323. Per “smantellare” la critica orteghiana basta ricorrere a Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, libro I, tr. it. a cura di Costa V. e Franzini E., Torino, Einaudi, 20042, § 45, p. 109, dove si mostra come l’atteggiamento fenomenologico sia in grado di cogliere il senso di ciò che è vissuto come «qualcosa che non soltanto è e perdura nello sguardo percipiente, ma [che] esisteva già prima che questo sguardo prestasse ad esso attenzione». 16 Infra. 17 Vedasi l’“Elenco delle equivocazioni più notevoli dei termini di ‘rappresentazione’ e ‘contenuto’” in Husserl E., Ricerche logiche, vol. II, cit., “Quinta Ricerca”, in particolare i tredici significati diversi che possono essere attribuiti al termine Vorstellung, § 44, pp. 286-292: rappresentazione come: 1) materia d’atto; 2) mera rappresentazione; 3) atto nominale; 4) atto oggettivante; 5) intuizione corrispondente di ciò che era meramente pensato; 6) immaginazione (presentificazione) opposta a percezione (render presente); 7) immagine come cosa fisica di ciò che viene raffigurato (la fotografia) e oggetto dell’immagine (Bildobjekt distinto dal Bildsubjekt); 8) segno della cosa (segno algebrico che suscita una rappresentazione e fa le veci); 9) fantasma corrispondente

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che sono mentados, ossia che si trovano «davanti a noi in un modo più lontano e sottile», nel modo dell’allusione e del riferimento, quel modo che Meinong, “agrimensore dell’esistente” secondo la bella definizione di Agamben, aveva tematizzato come Annahmen?18 Ma cosa potrebbe mai avere in comune un vissuto privato, localizzato e intrasferibile come il dolore, che è mio e che procura male soltanto a me, con gli oggetti “privi di patria”, heimatlos come li chiama Meinong, quali “il numero che contiene tutti i numeri”, “la stella più lontana dalla terra” o “la prima ameba ad esistere”? Proprio nulla. Anche perché il mal di denti non è né un oggetto19 né qualcosa a cui sia indifferente essere o non essere, così come non è la sua lontananza ma anzi la sua estrema vicinanza ciò che ne determina l’opacità, ciò che rende avventuroso e drammatico il tentativo di gettare su di esso la clara pupila. Perché allora quest’insistenza sul dolore? Perché è nel suo non poter fare a meno della trascendenza del corpo che troviamo la spia di quello che, anche andando contro i termini che lo stesso Ortega

alla rappresentazione fantastica; 10) oggetto rappresentato (es. “il mondo è la mia rappresentazione”); 11) vivere un contenuto (le ideas della filosofia empiristica inglese da Locke in poi); 12) concetto bolzaniano di “rappresentazione in sé” (significato all’interno di un enunciato completo). Rappresentazione nominale in senso puramente logico (distinta dall’atto in cui si realizza), mera intenzione significante (distinta dai vissuti che offrono ad essa un riempimento più o meno adeguato, cioè dalle rappresentazioni come intuizioni); 13) opinione. 18 Oltre al testo di Alexius Meinong cui Ortega fa esplicito riferimento (Über Annahmen, Leipzig, 1902), vedi anche Id., Über Gegenstandstheorie (1904); tr. it. Teoria dell’oggetto, a cura di Coccia E., Macerata, Quodlibet, 2003, in part. pp. 30-31: «A deve in qualche modo essermi “dato” […], se devo cogliere il suo non essere. Ciò comporta però […] un’assunzione [Annahme] di qualità affermativa: per negare A devo prima assumere l’essere di A. […] è nell’essenza dell’assunzione stessa che essa miri ad un essere che non deve necessariamente esistere». 19 Lo stesso Meinong ammette che i sentimenti sono più complicati, oltre al fatto che il linguaggio ci inganna rinviandoci a qualcosa che si sente, ma aggiunge che anche chi non dovesse condividere la sua opinione «per la quale sentimenti e desideri, nella misura in cui hanno delle rappresentazioni come necessarie presupposizioni psicologiche, sono fatti psichici non indipendenti, dovrà pure concedere senza esitazione che si gioisce di qualcosa, ci si interessa di qualcosa […]. In poche parole è innegabile che questo particolare “essere orientato a qualcosa” [auf etwas Gerichtetsein] convenga all’accadere psichico in maniera straordinariamente frequente, tanto che si è indotti a riconoscere in esso un momento particolare che distingue ciò che è psichico da quanto non lo è» (ivi, pp. 21-22).

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utilizza per esprimere la relazione tra l’amata Sierra de Guadarrama e la sua visione di essa, dovremmo chiamare anticorrelativismo20. Il venir meno per il filosofo dell’Escorial di quello che Husserl nel vero testo della svolta definì “meravigliosa correlazione tra ciò che appare e il puro apparire”21 è proprio ciò che rivela una non più sanabile incompatibilità nel modo di intendere la fenomenologia, soprattutto quando in gioco è la costituzione del mondo. Se ciò che appare è irriducibile al puro apparire come posso mai credere di poter recuperare la granitica, violacea e alta Sierra seguendo l’esortazione in te redi con cui Husserl, in un significativo omaggio ad Agostino – l’artefice dell’intreccio tra il flusso di coscienza e il flusso temporale nel destino comune della compenetrazione delle estasi –, avrebbe chiuso le sue Meditazioni cartesiane? E, infatti, pur potendo valere anche per Ortega la parola d’ordine “intelletto meno che si può e intuizione più pura che si può”22, la ragione, tuttavia, non ha mai a che fare con assolute datità bensì con trascendenze che le resistono – o che la assistono – ma con le quali pur sempre vi si scontra senza mai fondersi, come la palla lanciata contro il muro che rimbalza per essere rilanciata. Una tale cattiva infinità dell’afferramento non può mai spingere Ortega sulla soglia di un pensiero che si faccia puro occhio né su quella di un linguaggio che sia «linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo»23. «Se il mistici20

Ortega y Gasset J., Verdad y perspectiva; tr. it. “Verità e Prospettiva”, in Il tema del nostro tempo, cit., “Appendice A”, pp. 145-146: «se la Sierra materna fosse una finzione, un’astrazione o un’allucinazione, le pupille degli spettatori segoviani potrebbero coincidere con le mie. Ma la realtà non può essere osservata se non dal punto di vista che ciascuno, fatalmente, occupa nell’universo. La realtà e il punto di vista sono correlativi e così come non si può inventare la realtà, non si può simulare il punto di vista». 21 In quell’epocale introduzione alle lezioni su cosa e spazio del 1907, in cui Husserl, anche in risposta alla sollecitazione di Natorp, aveva sì seguito la via del trascendentale kantiano, ma non per costruire il reale con l’ideale, bensì per costituire ciò che appare a partire dalla certezza chiara e distinta dell’apparire stesso, il terzo gradino della critica della conoscenza era consistito nell’individuazione, attraverso l’esempio della percezione del suono, della distinzione, all’interno dell’immanenza, fra l’apparire e ciò che appare. Laddove tale distinzione non era finalizzata a porre in evidenza lo scarto ma anzi aveva portato al riconoscimento della «meravigliosa correlazione tra fenomeno di conoscenza e oggetto di conoscenza» (Husserl E., L’idea della fenomenologia, a cura di Rosso M., tr. it. di Vasa A., Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 43-55). 22 Ivi, p. 93. 23 Heidegger M., Lettera sull’«Umanismo», a cura di Volpi F., Milano, Adelphi, 1995, p. 104: «Con il suo dire, il pensiero traccia nel linguaggio solchi pochi vistosi.

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smo è tacere – avrebbe scritto ne La defensa del teólogo frente al místico – la filosofia è dire, scoprire nella grande nudità e trasparenza della parola l’essere delle cose, dire l’essere: “ontologia”»24. A questo punto appare più che fondato l’invito di Cerezo-Galán a non assimilare tout court la circostanza al mondo25 e a badare alle ragioni che ne avrebbero determinato l’incoincidenza e, con essa, l’afronte dramático tra l’io e ciò che è «radicalmente altro dall’io, non il suo polo oggettivo, meramente correlativo», in particolare tenendo presente l’intento di superare tanto l’Antropologia filosofica quanto l’Ontologia fondamentale. Eppure, tale intento sfocia nell’ambiguità di un’Ontologia generalis della vita che, non potendo fare a meno dell’essenza dell’uomo, finisce per assumere i termini equivoci di un’Antropologia metafisica26. Se, infatti, da una parte, l’intensa frequentazione dei testi scheleriani sembrerebbe imprimere una svolta verso l’antropologia filosofica con domande che hanno di mira l’altro da me e l’altro dall’essere, dall’altra parte, l’ontologia dell’estraneo e del valore, pur evidenziando non poche oscillazioni – basti pensare alla questione dell’intersoggettività – si sarebbe in parte allontanata dal concetto scheleriano di “simpatia” pur mostrandosi ferma e intransigente nel rifiuto dell’apprensione analogizzante. L’insistenza sull’eterogeneità dell’altro, che però è il telos della mia eccentricità, e sull’impossibilità di coincidere con lo straniero, al quale però sono destinato – secondo diversi gradi di permeabilità e di realtà –, pur essendo un tratto distintivo dei testi che rappresentano il futuro di quelli che qui presentiamo, sarebbe tuttavia rientrata appieno nella cornice della Metafisica della vita e, di conseguenza, nel raggio d’azione della terza metafora. La metafora dei dioscuri o dii consentes – pensata per uscire indenne da indebite assimilazioni ontologiche del soggetto all’oggetto, ma anche da “squartamenti” di cose e sostantivazioni di atti, come quello del rendersi conto [darse cuenta] – è terza in quanto Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo». 24 Ortega y Gasset J., Obras Completas, vol. V (1932/1940), Madrid, Taurus, 2006, pp. 725-731, p. 728. 25 Cerezo-Galán P., Las dimensiones de la vida humana en Ortega y Gasset, in San Martín J. e Moratalla T.D. (a cura di), Las dimensiones de la vida humana. Ortega, Zubiri, Marías y Entralgo, Madrid, Biblioteca Nueva, 2010, pp. 19-52, in part. pp. 27-28. 26 Ivi, p. 51.

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viene a contrapporsi a quelle della tabula rasa e del continente, ossia a quelle figure con cui Aristotele e Kant avrebbero identificato la coscienza in una virtuale gigantomachia, su cui Ortega non si sarebbe mai stancato di scrivere e di fare lezione27 e con la quale ha inteso farla finita con il chiasmo soggetto-oggetto, che qui fa la sua apparizione nelle ultime battute della VI lezione. Che questi siano testi dell’inizio, dell’inaugurazione e della onomaturgia lo tradiscono le vertigini che, come avveniva per gli uomini antichissimi che posero i nomi28, colgono Ortega dinanzi all’avvenire che avanza. Il lettore ha qui occasione di assistere al “canto di gallo” di una nuova epoca, secondo l’accezione mattinalista della crisi, cui Ortega d’altra parte avrebbe dedicato diverse pagine, ed alla quale non manca di richiamarsi sin dalla prima lezione. Il momento di passaggio, che è anche il punto archimedico della meditazione orteghiana, è costituito, come già per Cartesio e Husserl, da un dubbio. Un dubbio che come prima cosa, o come primo grado della ricerca, richiede la corretta impostazione del problema, l’orthotes della domanda prima che della risposta. La crisi è dovuta al fatto che la domanda “qual è l’oggetto della psicologia?”, nel momento stesso in cui viene formulata, si traduce in un abbandono del patrimonio scientifico accumulato talmente radicale da esigere un’istanza antipsicologista. Allora si perde il vecchio ancor prima di conquistare il nuovo, laddove il vecchio è la psicologia “XIX secolo” e il nuovo non è un oggetto ma un inusitato, muy siglo veinte, modo di guardare. Un guardare senza presupposti e per ciò stesso orfano e disperato, “che non si ascrive a nessun punto e che cerca di essere in tutti” come il

27 Cfr. Ortega y Gasset J., Las dos grandes metáforas (1924), in Id., Obras Completas, vol. II (1916), Madrid, Taurus, 2004, pp. 505-517. Un bel ricordo dell’aula in cui fa lezione Ortega come di un’arena virtuale sta in Zubiri X., Ortega, maestro de filosofía, in “El Sol”, 8 marzo 1936: «Sono passati già diciotto anni da quando lo conobbi, in un pomeriggio di gennaio, mentre iniziava la sua prima lezione del corso di Metafisica in un’aula scura e quasi desertica della calle de los Reyes. Ricordo ancora le sue parole: “contempleremo, signori, una lotta gigantesca tra due giganti del pensiero umano: tra Kant, l’uomo moderno, e Aristotele, l’uomo antico”». 28 Platone, Cratilo, 411 b: «gli uomini antichissimi che posero i nomi, esattamente come i più fra gli attuali sapienti, per il loro girarsi frequentemente intorno ricercando come stiano le cose che sono, sono colti da vertigini, e quindi a loro sembra che le cose girino e si muovano comunque».

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guardare del cacciatore che non sa da dove spunterà la preda29, o come quello dello “spettatore” delle prime cose che non solo non può contare su nulla, ma che deve cominciare rinunciando al suo stesso nome proprio per fare presa su un problema concreto qual è quello dell’esistenza e della consistenza della verità. “La filosofia deve guadagnarsi la vita sin dalla culla” leggiamo in Sensazione, costruzione e intuizione e, nella lezione III, non solo ritroviamo l’assenza di presupposti come condizione di rigore della scienza prima, ma anche la necessità per quest’ultima di rinunciare al nome “filosofia”, che, benché “bellissimo”, si rivela, alla resa dei conti con il problema della verità, “oltremodo vago, insufficiente, arcaico, pericoloso”. La scienza prima, allora, è una scienza che prima descrive l’apparire e solo dopo può dar ragione della genesi di ciò che appare, che prima ha a che fare con verbi e solo dopo con sostantivi, che è scienza dei fenomeni psichici e fisici e non di esseri reali presupposti quali l’anima o la materia. Man mano che ci si inoltra nella lettura di un corso che, non lo si dimentichi, ha come scopo la costituzione di un sistema di psicologia, avvertiamo che quelli che erano stati preliminarmente prospettati come “Fondamenti della Psicologia”, vale a dire la Noologia, l’Ontologia e la Semasiologia, subiscono un significativo mutamento del loro statuto. Mutamento o forse bisognerebbe dire capovolgimento, visto che da fondanti passano ad essere fondati se non su una logica pura, di certo su una Psicologia rinverdita dalla “primavera” delle Ricerche logiche? Che le Logische Untersuchungen siano la falsariga delle Investigaciones psicológicas lo dimostrano i passaggi che Ortega dedica al segno, al segnale e alla distinzione tra senso e significato, che sembrano scritti sulla “carta d’avorio” della Prima Ricerca, ma anche il brano sul resto, parte non-indipendente che ha nostalgia del tutto, di un tutto che, pur essendo andato in rovina, non cessa di essere la patria di ciò che rimane. Se questa poetica fenomenologia del resto archeologico – alla quale va aggiunta la più volte affermata inseparabilità di colore ed estensione – mostra una sottile affinità con la Terza Ricerca, che, com’è noto, verte appunto sulla teoria degli interi e delle parti, l’alleanza si fa ancora più stretta e più esplicita, in particolare con la Quarta Ricerca, laddove Ortega si sofferma sul rapporto tra categorematico e sincategorematico e, 29 Cfr. Ortega y Gasset J., Prólogo a Veinte años de caza mayor, del conde de Yebes, in Id., Obras Completas, vol. VI (1951/1955), Madrid, Taurus, 2006, p. 332.

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soprattutto, quando nell’ultima lezione pone la questione di una “Grammatica generale a priori” distinta da una psicologia empirica. Abbiamo già accennato a quello che consideriamo il motivo principale della distanza tra la concezione husserliana e quella orteghiana di costituzione. L’eterogeneità tra ciò che appare e l’apparire, ma anche il dilemma che compare alla fine della XIV lezione (studiare i colori del paesaggio o l’occhio che li vede), non fanno altro che evidenziare lo scarto tra oggetto intenzionale e oggetto reale. Se infatti Husserl avrebbe superato tale scarto nella doppiezza dell’irreale, nel volto bifronte del vissuto, suscettibile di essere dissezionato in hyle sensibile e morphé intenzionale30, Ortega invece lo avrebbe assunto come l’elemento animatore dell’incessante drammatismo dell’apparire, degli amori e degli odi che fanno essere e distinguere le cose, le quali restano tali finché continui ad essere valido, e attivo, il dualismo tra reale e irreale. A questo punto non ci resta che passare ad un altro testo inaugurale, non solo perché è stato definito el primer texto de fenomenología en 30 Vedi

E. Husserl, Idee I, cit., § 85, p. 213, dove si distingue tra due gruppi di vissuti, i vissuti del primo gruppo, che nelle Ricerche logiche erano indicati come “contenuti primari”, e i vissuti del secondo gruppo, o momenti appartenenti ai vissuti, che hanno la proprietà dell’intenzionalità. «Appartengono al primo gruppo certi vissuti sensoriali […] Essi sono contenuti di sensazione, per esempio dati cromatici, acustici, tattili e simili, che ci guarderemo dal confondere con i momenti cosali che si manifestano, come colorazione, ruvidezza, ecc., che al contrario “si presentano” dal punto di vista del vissuto tramite i contenuti di sensazione. Allo stesso modo, appartengono al primo gruppo le sensazioni sensoriali del piacere e del dolore, del solletico, ecc., come pure i momenti sensoriali della sfera degli “impulsi”». Che la separazione tra i due gruppi di vissuti sia un artificio dell’astrazione è confermato da quanto segue: «troviamo tali dati concreti appartenenti ai vissuti quali componenti in vissuti concreti più comprensivi che, presi come un intero, sono intenzionali, nel senso che al di sopra di quei momenti sensoriali c’è uno strato che, per così dire, li “anima”, che conferisce il senso (o che implica per essenza il conferimento di senso), grazie al quale dall’elemento sensoriale, che non ha in sé alcuna intenzionalità, si realizza appunto il concreto vissuto intenzionale». Il completo superamento del residuo iletico sarebbe avvenuto, come segnala Costa, nel ciclo di lezioni intitolato Analysen zur passiven Synthesis del 1924, dove l’abbandono della nozione di residuo fenomenologico come “morta materia” avrebbe risposto all’esplicito intento di neutralizzare il sensualismo dei dati di Ideen I – le quali pure ne avevano determinato un ridimensionamento rispetto alle Ricerche logiche – per conquistare la soggettività trascendentale (Costa V., L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, Milano, Vita e Pensiero, 1999, p. 196. Cfr. anche Husserl E., Lezioni sulla sintesi passiva, a cura di Spinicci P., tr. it. di Costa V., Milano, Guerini, 1993, p. 205).

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español31, ma anche perché con esso ci imbattiamo in un Ortega alle prese con il compito di far fare alla lingua spagnola i gesti mentali di quella tedesca, ma con la consapevolezza di non poter contare, in questa circostanza, su quello che nella lezione III viene esaltato come un segno di liberazione dalle ipocrisie terminologiche del positivismo, ossia l’uso del termine castigliano alma32 nella cornice di una psicologia che, però, non vuole essere metafisica ma parafisica, nel senso di posta accanto alla fisica. Nella recensione allo scritto di Hofmann, l’allievo di Husserl che rilevando lo scarto tra la grandezza visiva e l’immagine retinica, ossia ponendo la questione della non corrispondenza tra gli stimoli e le manifestazioni, avrebbe contribuito all’abbandono da parte del maestro di un certo “naturalismo dei dati ancora presente nelle Ricerche logiche”33, Ortega non fa mistero di essere in difficoltà. La lingua spagnola è sprovvista di un termine di uso comune in quella tedesca, che è stato centrale nella filosofia di Dilthey (anche se per il momento Ortega ne ha solo un vago sentore che gli deriva dalla lettura di Natorp e non da una conoscenza diretta della Psicologia diltheyana34) non solo nella riscrittura delle categorie reali ma anche in un libro in cui il concetto cardine di “connessione” si fa poetica “figurazione” della melodia della 31

Così recita un intero capitolo del già citato libro di San Martín Ensayos sobre Ortega, pp. 161-246. 32 Cfr. con i termini in cui Husserl segnala la carenza dei metodi psicofisici, sperimentali e statistici: «La nuova psicologia ama di tanto in tanto definirsi psicologia senza anima, ma essa è nel nocciolo anche psicologia senza coscienza» (Husserl E., Fenomenologia e psicologia, a cura di Donise A., Napoli, Filema, 2003, p. 74). 33 Costa V., L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, cit., in particolare il paragrafo “La critica all’idea di sensazione pura in Heinrich Hofmann e nella psicologia della Gestalt”, pp. 190-194. Dello stesso autore vedi Sensazione e analisi descrittiva in Heinrich Hofmann, in Besoli S. e Guidetti L. (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei circoli di Monaco e Gottinga, Macerata, Quodlibet, 2000, pp. 565-588. Costa non manca di accennare in nota alla recensione di Ortega Sobre el concepto de sensación che ha il merito di mettere a confronto il testo di Hofmann con Ideen I, apparse subito dopo. Richiama l’attenzione sull’importanza della dissertazione di Hofmann in Ortega anche Spiegelberg H., The Phenomenological Movement. A Historical Introduction, Den Haag, Martinus Nijhoff, 1982, p. 167. 34 Alla conoscenza dell’opera di Dilthey sarebbe giunto molto più tardi, intorno al 1933, e tale ritardo gli avrebbe fatto perdere per sua stessa ammissione “circa dieci anni di vita” (Ortega y Gasset J., Guillermo Dilthey y la idea de la vida (1933-1934), in Id., Obras Completas, vol. VI, cit., pp. 222-265, p. 227).

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vita35, e che è una parola chiave della nuova scienza fondata da Husserl. Si tratta, com’è facile intuire, del termine Erlebnis e la situazione per Ortega è di quelle in cui le armi tradizionali si rivelano – come si legge in un passo sulla crisi in un testo degli anni Trenta – «spade di legno, gesti insufficienti, attrezzi di teatro che si spezzano contro il duro bronzo del nostro futuro, dei nostri problemi»36. Ortega si scusa con i filologi e “provvisoriamente”, dopo aver cercato invano un termine preesistente (tentativo, questo, di cui v’è traccia nella parola intimidad, appositamente scelta per dire in spagnolo lo “strano termine” Erlebnis al quale Hofmann si sarebbe fermato senza più offrire quanto aveva promesso, ossia un concetto chiaro di sensazione) conia il vocabolo vivencia “fintantoché non si trovi un termine migliore”, meno cacofonico o meno esotico – avverte in un eccesso di zelo, senza sapere di avere così segnato un solco nel pensiero in lingua spagnola. La dualità tra reale e irreale, a cui abbiamo prima accennato, appare in questa recensione su Hofmann in cui vi sono diverse tracce di una lettura avida di Ideen I, nella dualità tra oggetto (ciò che l’oggetto è) e fatto (la nota dell’esistenza dell’oggetto, qui e ora), dove il primo, però, può, in virtù di un’intuizione d’essenza, essere sottratto alle “narrazioni spazio-temporali” dell’intuizione sensibile, e diventare così puro e incorruttibile. L’oggetto quindi cessa di essere “fatto” per acquisire il carattere virtuale proprio del fenomeno, sostiene Ortega. In questo contesto, il passaggio dall’atteggiamento naturale a quello fenomenologico è equivalente al passaggio dal valore esecutivo delle cose ad un “atteggiamento spettacolare e descrittivo”, e potremmo aggiungere, andando avanti di dodici anni verso La deshumanización del arte, da un atteggiamento umano ad uno disumanizzato. Che l’associazione sia lecita è avallato dalla distinzione – peraltro in parte riconducibile a quella husserliana tra coscienza trascendentale e empirica – tra il termine co35 Dilthey W., Esperienza vissuta e poesia, a cura di Accolti N. e Vitale G., Genova, il melangolo, 1999. 36 Ortega y Gasset J., Goethe dal di dentro, in Id., Meditazioni sulla felicità, intr. di Argeri D., tr. it. di Rocco C. e Lozano Maneiro A., Milano, Sugarco, 1994, p. 192. Sul concetto di crisi come «spettroscopio in grado di registrare le tracce delle scosse incessanti lasciate dai passaggi, dalle transizioni dal vecchio al nuovo», e sul suo essere apparentabile più all’idea di disorientamento che non a quella di rivoluzione catastrofica, cfr. Cacciatore G., Filosofia e crisi in Ortega e Nicol, in Schafroth E., Schwarzer C., Conte D. (a cura di), Krise als Chance aus historischer und aktueller Perspektive, Oberhausen, Athena-Verlag, 2010, pp. 349-363, in part. pp. 352-353.

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scienza e quell’oggetto “alquanto strano” di coscienza umana. La stranezza risiederebbe per Ortega nel fatto che il carattere “umano” è “un essere relativo e di qualità limitata”, che a sua volta avrebbe la pretesa di limitare l’essere della coscienza, dando così luogo ad un paradosso: la relativizzazione non deriva da un assoluto ma da un relativo. Oltremodo interessante, se si tiene conto degli sviluppi successivi del rapporto di certo non lineare ma pur sempre vivo tra Ortega e la fenomenologia37, è il riferimento all’epoché, ossia a quella sospensione del carattere esecutivo dell’atto che in questo preciso momento non implica per il filosofo spagnolo un suo snaturamento, ma una messa tra parentesi che non ne intaccherebbe l’esecutività. Certo, si potrebbe osservare che la mira della neutralizzazione, ciò che le Ideen includono in quella che per ora sembra un’innocua messa tra parentesi – come dice Husserl “molto graficamente” – è in primo luogo la tesi del mondo e in secondo luogo tutti gli atti naturalmente atteggiati che vedono così sottrarsi la credenza in ciò a cui sono destinati. Ma un’altra precisazione che occorre fare è che il passaggio dall’atteggiamento naturale a quello fenomenologico deve avvenire per Husserl sin dal momento dell’intuizione sensibile. In poche parole, è perché ho guadagnato il fenomeno che posso puntare a intuire l’essenza. Un altro luogo da segnalare si trova in calce alla recensione, in una nota che allude all’incoincidenza tra correlato dell’atto intenzionale e oggetto reale, tra il senso del sole e il sole che scotta. La nota mostra il fiuto di Ortega per i problemi nodali, visto che quello che egli stesso definisce qui come una “distinzione probabilmente difficile” meritante altro spazio, avrebbe costituito per Husserl una questione decisiva e suscettibile di essere rettificata: ciò appunto avrebbe fatto una decina d’anni dopo nel corso intitolato Filosofia prima, grazie alla struttura temporale del riempimento. In base a quest’ultima, infatti, il senso noe-

37 Ortega y Gasset J., Notas de trabajo sobre Husserl, a cura di Sánchez Cámara I. e Ferreiro Lavedán M.I., «Revista de Estudios Orteguianos», 4, 2002, pp. 7-28, p. 13: «La differenza sta nel fatto che “fenomeno” significa per noi due il contrario. Husserl sospende la Realtà nel suo carattere vigente. Io sopprimo la “coscienza di…” e rimango con il noema che ora ha carattere di Realtà […]. Il fenomeno in Husserl sorge quando attraverso la riduzione trasformo la Realtà in coscienza di… Per lui e per me il termine ha una direzione inversa; per Husserl è fenomeno della coscienza o ego trascendentale. Per me è fenomeno di Realtà».

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matico agirebbe «come una sorta di fantasma che media tra l’apprensione soggettiva, motivata ma sempre presuntiva, e l’oggetto reale»38. Per quel che riguarda la conferenza Sensazione, costruzione e intuizione, potremmo dire che non ha bisogno di presentazioni – o di introduzioni – visto che sin dal titolo emergono in maniera inconfondibile i tre principi dei tre orientamenti presi in esame: l’empirismo di Mach, il neokantismo di Cohen e la fenomenologia di Husserl. Possiamo solo anticipare quanto Ortega inclini la sua riflessione sull’intuizione eidetica e sul suo correlato, che può essere tanto un centauro quanto la giustizia, tanto lo spazio a n dimensioni quanto un tavolo. Non quindi la verità o non verità del giudizio, e neanche l’essere o il non essere di sensazioni cosiddette pure (il puro suono di Mach) ma che in realtà sono costruite dalle scienze, bensì gli oggetti non sottoposti a spazio, tempo né predicazione di realtà sono quelli che attirano l’interesse di chi, almeno per ora, vede nel piano più profondo e più originario su cui fa presa la husserliana Anschauung il segno di un inedito concetto di passività e il presagio di una nuova epoca della Filosofia. Che Garagorri avesse visto giusto quando a questi testi di data certa affiancò il manoscritto in cui erano raccolti gli studi “Per un dizionario filosofico” sono molti elementi a confermarlo. In primo luogo, bisogna tener presente che oltre alla trattazione completa delle parole chiave “Astrazione”, “Astratto” e “Appercezione”, tra le quali appare un rimando a quella solo annunciata di “Concreto”, vi è un insieme di voci 38

Costa V., L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, cit., p. 85: «le modalizzazioni che si realizzano sul terreno stesso dell’esperienza possono, infatti, richiedere una modificazione del senso noematico conformemente a una x che si configura come “realtà”, come l’in sé, delineando così, in una prospettiva infinita, la possibile coincidenza tra sapere e realtà». Cfr. Husserl E., Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, intr. e cura di Costa V., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 57-64, in part. p. 58: «ogni percezione di cosa spaziale consiste inevitabilmente […] in un miscuglio di autodatità autentica e di co-intenzione. Questa co-intenzione è quella che dà ad ogni intenzione osservativa e sperimentale il suo senso pratico, fornendole gli orizzonti aperti non ancora colti, non ancora osservati oppure conosciuti imperfettamente. Al contempo, essa indica quali serie percettive debbano essere liberamente messe in gioco affinché quanto è meramente co-inteso, ciò che è cosciente in una mera anticipazione, divenga qualcosa di colto in se stesso e in carne e ossa, qualcosa di realmente percepito. Sebbene la percezione di una cosa spaziale si estenda, si dispieghi giungendo a cogliere la cosa stessa e mettendo allo scoperto parti e lati sempre nuovi di essa, tuttavia questa struttura resta irriducibile, appartenendo all’essenza generale della percezione».

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progettate che costituiscono un plesso tematico legato a quello di “Appercezione”: “Kant”, “Herbart”, “Volontà” e “Pedagogia”. Il modello nella stesura di “Astratto” e “Astrazione” è, e Ortega non ne fa mistero, la Seconda Ricerca logica di Husserl, con la sua critica a Locke, avente di mira un indebito uso del concetto di rappresentazione che coinvolge più punti: assimilazione di idea a rappresentazione, confusione tra rappresentazione e rappresentato, e di conseguenza confusione tra gli attributi dell’oggetto e i contenuti immanenti (sensazioni), e soprattutto mancata «distinzione tra rappresentazione nel senso di rappresentazione intuitiva (fenomeno, “immagine” fantasticata) e rappresentazione nel senso di rappresentazione di significato»39. L’esposizione che fa Ortega della critica husserliana all’empirismo diviene ancora più aderente al testo della Seconda Ricerca nel momento in cui si sofferma sul “triangolo generale di Locke”. Si tratta di un passaggio in cui si rende ancora una volta necessario riformulare il rapporto tra reale e irreale, in particolare mostrando come Locke sbagli a collegare l’evidente inesistenza di un triangolo generale reale con la sua esistenza nella rappresentazione. In primo luogo perché quest’ultima è reale nel senso di reell, e poi perché – come avverte Husserl – «quando si contrappone l’essere-rappresentato all’essere-effettivamente-reale, […] non si deve tendere a stabilire un’opposizione tra psichico ed extra-psichico, ma tra rappresentato, nel senso di puramente intenzionato, e vero nel senso di corrispondente all’intenzione. Ma essere intenzionato non significa essere-psichicamente-reale. […] Locke avrebbe dovuto dire: un triangolo è qualcosa che ha la triangolarità»40. Così come Ortega dice arboreidad quando intende “albero” a differenza di “quest’albero”, “l’altro albero”, “un albero”41. Un altro momento cruciale è quello in cui Ortega riprende la critica husserliana a quella che è una reazione da parte di Berkeley e di Mill alla teoria lockiana delle idee. L’interesse di questa critica, che Ortega espone sempre sulla scia della Seconda Ricerca42, è dovuta al fatto che nel non accettare che l’astrazione sia una funzione dell’attenzione, Ortega affronta una questione che appare sin dal momento programmatico del corso Sistema di Psicologia e che spesso si insinua nel modo 39

Husserl E., Ricerche logiche, vol. I, cit., p. 399. Ivi, p. 404. 41 Infra. 42 Husserl E., Ricerche logiche, vol. I, cit., pp. 408-438. 40

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in cui intende il rapporto tra la molteplicità dell’immanente e l’unicità del trascendente, tra gli adombramenti e l’oggetto reale, tra i fenomeni e le cose. Quel che appare in questi primi scritti, e che sarebbe rimasto stretto in un legame indissolubile con il concetto di circostanza sin da Meditaciones del Quijote del 1914, è ciò che Ortega, per così dire “anticipando” un concetto chiave di Foucault43, chiama dispositivo attenzionale. Che negli appunti “Per un dizionario filosofico” Ortega si rifiuti di ricondurre l’astrazione all’atto psichico dell’attenzione e che lo faccia affermando che «l’attenzione non trasforma un oggetto in un altro, non realizza la presunta funzione generalizzante», evidenzia non soltanto l’antipsicologismo che connota questi primi scritti strettamente fenomenologici ma anche il senso che avrebbe assunto il prospettivismo orteghiano degli anni a venire, vale a dire quello in base a cui la prospettiva è una dimensione della realtà – così come el escorzo è una dimensione del bosco in Meditaciones del Quijote. In poche parole, benché Ortega usi con fin troppa disinvoltura la parola “porzione” per riferirsi all’adombramento – il che sarebbe stato uno degli elementi del fraintendimento che, d’altra parte, avrebbe determinato una certa presa di distanza da Husserl44 – tuttavia appare indubbio che l’asse dell’at43 Il concetto orteghiano di dispositivo attenzionale presenta alcune affinità col con-

cetto foucaultiano di dispositivo, inteso come un groviglio o matassa di linee di natura diversa. Per quel che riguarda la dimensione o curva della visibilità, cfr. Deleuze G., Che cos’è un dispositivo?, tr. it. a cura di Moscati A., Napoli, Cronopio, 2007, p. 23: «La visibilità non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee di luce che formano figure variabili, inseparabili da questo o da quel dispositivo. Ogni dispositivo ha il suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza e si diffonde, distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che non esiste senza di essa». 44 Vedi la seconda lezione di Husserl E., L’idea della fenomenologia, cit., p. 71: «questa trascendenza ha un doppio senso. Si può da un lato pensare al non-esser-materialmente-contenuto dell’oggetto di conoscenza nell’atto di conoscenza, sicché sotto l’espressione “dato in senso vero e proprio” o “immanentemente dato” si intenderebbe l’esser-contenuto materiale. L’atto di conoscenza, la cogitatio, ha momenti materiali, che materialmente la costituiscono, ma la cosa che essa intende e, a quanto si crede, percepisce, di cui si ricorda, ecc., nella cogitatio stessa, in quanto vissuto, non è dato trovarla materialmente come porzione, come qualcosa che sia davvero in essa». Vedi anche Ortega y Gasset J., Il tema del nostro tempo, cit., “La dottrina del punto di vista”, pp. 133-134: «Da diversi punti di vista due uomini guardano lo stesso paesaggio. Eppure non vedono la stessa cosa. Il diverso modo in cui sono situati fa sì che il paesaggio si organizzi davanti a ognuno in modo diverso. Ciò che per uno sta in primo piano e

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tenzione può far acquistare maggiore intensità psichica ad una “parte o elemento” di un oggetto, può fare in modo che lo veda meglio, ma «non lo vedrò diverso da com’è, vale a dire, non lo vedrò individuale se non è parte di qualcosa di individuale»45. Alla voce “Appercezione” ritroviamo, tra le altre cose, la “tazza” nella quale ci si imbatte nella recensione al testo di Hofmann. E come in quest’ultimo testo, anche qui Ortega indugia sulla non coincidenza, da un lato, tra le due “porzioni” in cui si scomporrebbe il vedere («la visione di un’immagine in senso stretto, e l’interpretazione di quest’immagine, di questo che è presente in me, come immagine di una tazza reale»)46 e, dall’altro, l’oggetto reale. Laddove quest’ultimo a rigore non può essere detto neanche “visto”, dacché “della tazza vedo un lato, una tazza che ha soltanto una faccia, pertanto una tazza che non è tazza”, una “tazza caricaturale”47. D’altra parte, il termine “Appercezione” è, sin dalla sua origine leibniziana, legato al doppio e quando Ortega ne declina una delle possibili duplicità nella diade intimità-oggettività emerge con forza la natura liminare di un “vissuto con padrone”48 che, però, ha la vocazione all’oggettivazione: «La più piccola particella percettibile del colore nero di questo tavolo non è più una sensazione mia di colore, bensì l’oggettivazione, la trasformazione in oggetto della mia sensazione. La sensazione è mia, è “io”: il colore nero è del tavolo, e si trova nello spazio»49. Sono davvero molte le forme e le figure presentate in questi primi scritti – coraggiosamente affacciantisi su “problemi nodali” senza il riparo di un classico – che si sarebbero rivelate delle conquiste stabili: oltre alla metafora dei dioscuri, all’accenno alla ragione vitale, alla mostra nitidamente tutti i suoi dettagli, per l’altro è molto in lontananza e appare oscuro e confuso. Inoltre, dato che le cose messe una dietro l’altra si nascondono del tutto o in parte, ognuno dei due uomini percepirà porzioni di paesaggio che non arrivano agli occhi dell’altro […]. La realtà cosmica è tale da poter essere vista soltanto da una determinata prospettiva. La prospettiva è una delle componenti della realtà. Lungi dall’essere la sua deformazione, è la sua organizzazione». 45 Infra. 46 Infra. 47 Infra. 48 Ci si riferisce qui per contrasto all’espressione di Schlick di “Erlebnisse senza padrone” che egli stesso ammette di usare più nel senso di Mach che in quello di Kant (Id., Meaning and Verification in «Philosophical Review», XLV, 1936, pp. 339-369; tr. it. in Pasquinelli A. (a cura di), Il neoempirismo, Torino, Utet, 1969, pp. 323-358. 49 Infra.

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coniazione del termine vivencia, all’esempio del mal di denti della IX lezione, al problematismo della filosofia perennemente in bilico tra il principio e il fenomeno, all’accezione mattinalista della crisi, alla dialettica idee-credenze, vi è un’affermazione che giustifica l’impegno riposto nel garantire la vita e il “quartiere” ad un oggetto che fuori-è50 come il centauro, ma anche l’appunto incompleto sulla cornice dorata e quello che in modo apparentemente insensato associa Protagora ad una bacinella. L’affermazione è la seguente e riguarda la coscienza d’immagine che è: una questione che mi interessa enormemente – dice Ortega nella VII lezione – in quanto si tratta né più né meno che del piano su cui si realizzano tutte le arti plastiche, e non sarà mai possibile un’autentica estetica fintantoché non ci assumiamo il lavoro, assai oneroso, di chiarire cos’è quello che viene detto coscienza di immagine. Ogni quadro, ogni scultura, è un’immagine ed in ogni immagine si compenetrano due oggetti: uno presente, i pigmenti e le linee o il volume del marmo; un altro assente, vale a dire, ciò che è rappresentato dal pigmento e dal marmo. Né l’uno né l’altro, isolati, sono la bella opera, bensì l’uno e l’altro, in essenziale reciprocità, in indissolubile coppia51.

Eppure non si tratta solo di un’estetica fenomenologica. Il motivo che ci consente di estendere la tensione tra reale e irreale ad una metafisica che può dirsi estetica lo ritroviamo sin da Meditaciones del Quijote, ossia lì dove le linee che si dipartono dallo sguardo sono due, una dritta o ingenua e un’altra obliqua o ironica, così come ogni figura ha una controfigura e ogni cosa una contro-cosa, vale a dire una cosa che non è cosa ma lato intimo, senso virtuale che da sempre anima le sensazioni materiali. Si comprende allora la preferenza per quei trafficanti di irrealtà che sono i maghi del Don Chisciotte. La costituzione intersoggettiva della realtà52 è affidata proprio a loro che, un po’ ladri come Ermes – a cui 50 Meinong A., Teoria dell’oggetto, cit., p. 32: «l’oggetto è per natura fuoriessente [außerseiend] sebbene in ogni caso dei suoi due oggettivi d’essere, il suo essere o il suo non-essere, ne consista necessariamente uno». 51 Infra. 52 Vedi Schütz A., Don Chisciotte e il problema della realtà, a cura di Jedlowski P., Roma, Armando, 1995, p. 31: «I maghi […] possono trasformare ogni cosa, mutare le

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José Ortega y Gasset, Sistema di psicologia e altri saggi

peraltro si è ispirata la declinazione postmetafisica della negoziazione del senso – danno e tolgono, facendo apparire una cosa ora come una bacinella ora come l’elmo di Mambrino. Ma si comprende anche, come dicevamo prima, l’appunto sulla cornice, non solo per l’interruzione del luogo e l’apertura dello spazio che comporta53, ma perché nel caso sia dorata costituisce con i suoi riflessi un irresistibile invito ad indugiare sul confine del luogo e sull’intervallo di tempo, e quindi a posare lo sguardo su ciò che non è mai né tutta presenza né tutta assenza, ma puro fantasma di luce. Il riflesso allora non solo fa spostare il limite tra reale e irreale, ma, da un lato, fa stare una cosa nell’altra, e dall’altro lato, fa assistere all’ars drammatica di una cosa che non è né cogitans né extensa, ma che è sempre straniera a se stessa, che, come le figure del buon ritratto spagnolo, sta sulla tela senza mai completare la propria apparizione, senza mai “riuscire a istallarsi appieno nella realtà”54. Se come è stato osservato, il testo di Hofmann ha spinto Husserl a cercare una terza via rispetto a quella dei gestaltisti e degli strutturalisti, ossia la via della costituzione che indaga sì le totalità strutturate ma che ne cerca anche la genesi, le relazioni interne attraverso le quali le forme si costituiscono e divengono55, lo stesso può dirsi di Ortega, anche se in questi lo stile del mondo non è oggetto di un’analisi dei nessi percettivi nei quali una cosa giunge a datità, ma piuttosto di una meditación che si forme naturali. Ma, in senso stretto, quello che trasformano è lo schema di interpretazione che prevale in un sotto-universo nello schema di interpretazione che è valido in un altro. Entrambi gli schemi si riferiscono agli stessi dati di fatto, che diventano – nei termini del sotto-universo privato di Don Chisciotte – il miracoloso elmo di Mambrino, e, nei termini dell’evidente realtà della vita quotidiana di Sancho, una comune bacinella da barbiere». 53 Sul ruolo della cornice nel sottolineare la condizione di chiusura e di autosufficienza dell’opera d’arte, ma anche nel propiziare l’apertura, l’offerta e il dono, cfr. Simmel G., La cornice del quadro. Un saggio estetico, in Mazzocut-Mis M. (a cura di), I percorsi delle forme. I testi e le teorie, Milano, Mondadori, 1997, in part. p. 211. Sulla cornice come soglia tra luogo e spazio, tra finito e infinito, cfr. Masi F., I modi della figura. Tre studi per un’estetica eidologica, Napoli, Guida, 2011, p. 43: «è proprio l’interruzione della cornice che può indire – anche già nell’esperienza comune – la forma di uno spazio infinito, proprio perché istituisce una nuova distinzione tra gli oggetti e lo spazio vuoto circostante, proprio perché ripropone, in altra forma, il problema euleriano della differenza tra luoghi oggettuali e spazio assoluto». 54 Ortega y Gasset J., Introducción a Velázquez, in Id., Obras Completas, vol. VI, cit., pp. 909-910. 55 Costa V., L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, cit., pp. 193-194.

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Introduzione

fa esercizio erotico su cose che «si desiderano come maschi e femmine […] che si amano e aspirano a sposarsi, a unirsi in società, in organismi, in edifici, in mondi»56. Non è quindi un caso che le Meditaciones del Quijote, il libro che fa da sfondo ai testi che qui presentiamo, affidino proprio all’intuizione della legge di coesistenza la comprensione delle cose in profondità. È in questo vincolo tra materia e ombra ontica delle idee o, come dice Ortega, è nell’“ombra mistica che il resto dell’universo versa nella materialità di una cosa”, che si trova l’origine di ogni significato, ovvero di ciò che permette di distinguere l’orma che lascia dietro di sé il Bostrychos typographus dalla parola “scarafaggio” che, da una frase subordinata, può svignarsela e sparire agile tra le pieghe della rilegatura. Nel licenziare il lavoro desidero esprimere la mia gratitudine in primo luogo al Prof. Pio Colonnello, non solo per aver accolto questo testo nella prestigiosa collana da lui diretta, ma anche e soprattutto per essere stato promotore della fenomenologia in lingua spagnola con i suoi libri e saggi dedicati all’allievo di Ortega che ha sviluppato l’atto sulla via della mocionalidad, José Gaos. Ringrazio il Prof. Giuseppe Cacciatore per l’attenzione con cui ha seguito e segue ogni mio progetto. L’ultimo ringraziamento va a Felice Masi, amigo del mirar. Mentre il presente volume era in seconde bozze è uscito alle stampe San Martin J., La fenomenologia de Ortega y Gasset, Madrid, Biblioteca Nueva, 2012.

56 Ortega y Gasset J., Meditaciones del Quijote, in Id., Obras Completas, vol. I, cit., p. 782.

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