Jean-Noël Kapferer
Rumors I più antichi media del mondo
Traduzione e cura di Laura Minestroni
ARMANDO EDITORE
Sommario
Presentazione alla seconda edizione italiana di Laura Minestroni Rumors. I più antichi media del mondo di Jean-Noël Kapferer Introduzione 1. Un fenomeno sfuggente 2. Come nascono i rumors? 3. Corrono, le voci corrono… 4. Perché crediamo alle voci? Nota bio-bibliografica
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Presentazione di Laura Minestroni
Opera fondamentale per tutti coloro che si occupano o si interessano di comunicazione – sia essa pubblica o economico-finanziaria, d’impresa (interna ed esterna) e di marca, politica e culturale – Rumeurs: le plus vieux média du monde pone le basi essenziali e, a distanza di oltre vent’anni, pressoché immutate, per comprendere il fenomeno de “le voci che corrono”. Con questa espressione è stato tradotto per la prima volta in italiano da Laura Guarino il testo di Jean-Noël Kapferer, pubblicato in Francia nel 1987 dalle Éditions du Seuil e dedicato al fenomeno dei “rumors”, termine che non ha un sostanziale corrispondente nella lingua italiana, a meno che non si faccia ricorso a un corteo di sinonimi, tanto suggestivi quanto imperfetti: dicerie, leggende metropolitane, chiacchiere, indiscrezioni, pettegolezzi. Nessuna di queste espressioni, infatti, restituisce a tutto tondo il significato dall’originale rumeurs, che deriva poi dal latino rumor (pl. rumores), cioè voce (voci) ormai internazionalizzata in rumor (col plurale anglosassone rumors1). Si capisce perché Guarino, nella traduzione per Longanesi del 1988, abbia optato per “le voci che corrono”, 7
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espressione che meglio e più pienamente restituisce il senso corale e dinamico del termine. Ma che tuttavia, a nostro avviso, è priva di quell’immediatezza di comprensione di cui gode invece l’anglosassone rumors, vocabolo ormai (e nel frattempo) ampiamente acquisito dai media e dal pubblico italiani. Esso indica, nel linguaggio corrente, una informazione non verificata che riguarda un tema d’interesse pubblico e che si diffonde da persona a persona: di fatto, “ciò che si dice in giro” a proposito di qualcuno o qualcosa. La rilevanza e la pervasività sociale del fenomeno si sono accentuate in maniera significativa proprio negli ultimi vent’anni, parallelamente alla rivoluzione tecnologica dell’era digitale, alla globalizzazione dei mercati e dell’informazione, oltre che all’internazionalizzazione delle culture, delle “conversazioni”, della paura e persino del terrore. Così, in questa seconda traduzione italiana, abbiamo preferito il più globale rumors, senza rinunciare, peraltro, all’uso del termine “voci”, che in questo contesto ben restituisce una forma e una sostanza al “si dice”. È quanto mai attuale la disamina che Jean-Noël Kapferer compie delle “voci che corrono”: si pensi ai rumors, spesso smentiti, di imminenti crack finanziari di questa o quell’altra società quotata, capaci di far crollare le borse, oppure di acquisizioni e joint-venture, in grado, al contrario, di far innalzare i titoli. Si pensi a quelli, ancor più planetari e tragici, sulla fine del mondo, su catastrofi naturali, su intere città rase al suolo dal terremoto. Come Roma, che un sisma – stando alla voce, appunto – avrebbe dovuto cancellare dalla carta geografica l’11 maggio 2011. A nulla sono valse le ennesime smentite dei sismologhi accompagnate dalla spiegazione che “prevedere i terremoti, allo stato attuale, è impossibile”2. La capitale 8
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si è letteralmente svuotata in vista del sisma. In particolare il quartiere Esquilino, la Chinatown romana, ha assunto un aspetto inquietante: serrande abbassate e negozianti in fuga e in preda al terrore. Non è un caso: fra le informazioni in grado di generare un rumor si trova principalmente tutto ciò che disturba l’ordine delle cose e provoca una reazione, vale a dire notizie che presentano un interesse pragmatico diretto come avvisaglie di pericolo, questioni morali, mutamenti di ordine sociale, cambiamenti dell’ambiente naturale. La contemporaneità dei rumors è quella che li vede “scendere” nel privato dei personaggi pubblici o che li usa, in maniera strumentale, in prossimità delle elezioni, ad esempio per screditare un avversario3 (forse non sarà inutile ricordare che lo scandalo Watergate del 1972, che negli Stati Uniti avrebbe determinato la caduta del presidente Nixon, esplose proprio a seguito di una fuga di notizie, a opera di un informatore segreto chiamato “Deep Throat” cioè “gola profonda”). L’ambito di studio del rumor è interdisciplinare: siamo all’intersezione della sociologia, della psicologia e delle dottrine dei processi comunicativi. Si tratta di un’informazione “mediata” dal gruppo e, al tempo stesso, di un potente mezzo di comunicazione. Da un punto di vista strettamente sociologico, non è azzardato parlare di comportamento collettivo, vale a dire un comportamento sociale più o meno spontaneo che numerosi individui manifestano allo stesso tempo, in presenza di un medesimo stimolo o di situazioni affini, siano essi riuniti in un luogo, oppure fisicamente separati e dispersi. Luciano Gallino, nel Dizionario di Sociologia, assegna al rumor “un posto speciale tra i comportamenti collettivi”. «La diceria – susseguirsi di voci incontrollate, in 9
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parte vere in parte false, ma senza la possibilità di distinguere tra il falso e il vero – può costituire da sola un comportamento collettivo, ed esaurirsi senza accompagnarsi ad altre forme di comportamento manifesto. Altre volte, la diceria costituisce invece il principale sistema di informazione tra individui coinvolti in un comportamento collettivo, come avviene caratteristicamente nel panico di origine economica o bellica o catastrofica»4. Eppure, tra tutte le forme di comportamento collettivo, il rumor è forse la meno esplorata e dunque meno compresa. Già Edgar Morin si era interessato del fenomeno: nel Medioevo moderno a Orléans analizzava, da un punto di vista sociologico, la “voce” diffusasi in Francia sul finire degli anni Sessanta secondo cui nei camerini di alcuni negozi di abbigliamento scomparivano ignare ragazze per essere avviate alla “tratta delle bianche”5. Un rumor, questo, di straordinaria longevità e persistenza che circola ancor oggi in tutta Europa, attualizzato, riveduto e corretto: i negozi di abbigliamento che a Orléans erano gestiti da commercianti musulmani, sono adesso diventati negozi di abbigliamento gestiti da negozianti cinesi, la tratta delle bianche è ora divenuta il commercio di organi. Ma la dinamica del racconto, la sua struttura narrativa, le angosce e i timori che esso esprime, sono chiaramente i medesimi. Morin colloca i luoghi d’incubazione dei rumors nelle classi femminili di collegi religiosi o licei dove la popolazione adolescente, isolata dalle realtà sociali, è portata a produrre fantasie sessuali, a inventare storie fantastiche frutto di desideri repressi e raccontate come fatti realmente vissuti in prima persona. Ma i territori in cui nascono i rumors, vere e proprie casse di risonanza, sono innumerevoli: la scuola, ad esempio, è uno di questi. Per i bambini, l’ora di ricreazione è il momento 10
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topico di divulgazione delle voci. Nelle aziende e nelle organizzazioni in generale, poi, accanto ai circuiti e alle procedure istituzionali della comunicazione, il rumor instaura circuiti paralleli e invisibili, che sfuggono a ogni gerarchia e a ogni controllo. E nel Medioevo la Chiesa ha rappresentato il medium per eccellenza del rumor, il suo mezzo di trasmissione. Le origini dei rumors come mezzi di comunicazione si possono far risalire alla fase che Walter Ong indicherà dell’“oralità primaria”, quella che precede la scrittura e in cui il pensiero e l’espressione tendono ad essere strutturati per favorire una facile memorizzazione della parola6. La voce che corre “rientra in quei canali naturali di comunicazione in microgruppi”7 che appartengono alla forma più elementare di trasmissione delle informazioni, quella personale e diretta che interviene tra individui faccia a faccia. Un tipo di comunicazione, cioè, sottoposto alle regole più generali della comunicazione e ai modelli del comportamento umano. Prima che esistesse scrittura, infatti, il passaparola era l’unico canale di trasmissione delle informazioni all’interno delle società. La voce, in questo caso, sia in senso astratto che figurato, veicolava le notizie, faceva e disfaceva le reputazioni, degenerava in sommosse o conflitti. Ma il rumor è anche (e soprattutto) il frutto di un processo cognitivo di elaborazione dell’informazione. D’altro canto, l’approccio di Jean-Noël Kapferer è mutuato dalla psicologia sociale: da sempre attratto dalle modalità con cui si formano l’immaginario collettivo, le percezioni, le convinzioni e le opinioni delle persone, quando scrive Rumeurs si è già occupato dell’impatto della divulgazione scientifica sul pubblico8, ha studiato a lungo i processi di persuasione dei media e della pubblicità9, ha osservato l’immagine dello spazio nella mente 11
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della gente10. È profondamente convinto che l’immaginazione, sotto forma di “schemi-tipo”, possa deformare la percezione degli eventi cui assistiamo. A partire dagli anni Ottanta, sposterà l’attenzione sul consumatore e in particolare sul coinvolgimento di questo (l’implication)11 nei confronti della marca: dunque percezione, immagine e sensibilità. È in particolare dal 1983 che conduce, con Gilles Laurent, le prime sistematiche riflessioni proprio sul tema della sensibilità alla marca: cosa la determina, da che cosa è influenzata, come e perché esprime l’atteggiamento del consumatore. Si tratta di studi che rimangono a oggi fondamentali12 per chiunque voglia analizzare i processi di formazione della brand image, il vissuto della marca all’interno di una categoria merceologica e i comportamenti d’acquisto degli individui. Dagli anni Novanta, si dedicherà alle dimensioni dell’immagine e dell’identità del brand13. Ormai arcinoto è il suo “prisma dell’identità”. Non c’è studente che non perda occasione di citarlo in tesi di laurea, sempre che tratti i temi della comunicazione e dell’impresa. Fino al 2008 la marca sarà il filo conduttore e il tema chiave di gran parte dei suoi lavori14, per giungere agli studi più recenti sul lusso15, tema peraltro dall’autore già magistralmente trattato tra il 1997 e il 199816. In Rumeurs, Kapferer getta le fondamenta teoriche per chiarire e “smontare” il processo di formazione delle “voci che corrono”. Il suo lavoro si basa direttamente sulle sue ricerche empiriche. Questo rende l’analisi molto pratica e, soprattutto, di facile comprensione. Il processo prende avvio da una diceria, nata non si sa come, venuta non si sa da dove, che inizia a diffondersi, a circolare liberamente. Il movimento si amplifica, raggiunge il culmine per poi ricadere, affievolirsi e mo12
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rire, in genere nel silenzio: un vero e proprio ciclo di vita del rumor. L’autore sospende qui ogni giudizio: non esistono, in assoluto, rumors buoni o cattivi e, soprattutto, essi non sono, a priori, informazioni infondate, prive di riscontri oggettivi, come il paradigma teorico dominante, sorretto dalle considerazioni di Edgar Morin, ha sempre affermato. Introdurre la nozione di vero e di falso nella definizione scientifica di rumor, significa introdurre un parametro non necessario, addirittura fuorviante. Un diffuso approccio “pregiudiziale” alle voci ha sempre cercato di condannarle, di moralizzarle, trattandole come fenomeni irrazionali e figli della superstizione o dell’ignoranza, associandole alla malattia mentale, se non alla follia: una sorta di equivalente sociologico dell’allucinazione. Convinto che i rumors obbediscano a una logica ferrea di cui è possibile smontare i meccanismi soltanto attraverso il rigore metodologico, Kapferer isola il campo semantico del rumor e chiarisce le condizioni che ne determinano l’insorgenza e la diffusione. Nel farlo, nell’intraprendere questo cammino che egli stesso definisce “un compito difficile”, si interroga sulla scarsità di lavori teorici al proposito. È la reperibilità dei messaggi, la loro conservazione su supporto, che manca. Non c’è registrazione né documento che testimoni o che conservi un rumor. In genere, il ricercatore è in grado di analizzarlo solo quando s’è già estinto o, al massimo, è nella sua fase terminale. In effetti, non si sa granché sui rumors. Questa mancanza è ancor più evidente in un’epoca come la nostra in cui la frammentazione dei media e la socialità discorsiva introdotta dalle nuove tecnologie hanno generato un inedito protagonismo della comunicazione orizzontale e delle “conversazioni tra utenti”. 13
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Comportamento collettivo, mezzo di comunicazione o sistema di informazione tra individui coinvolti in un comportamento collettivo, il rumor è dunque un oggetto di indagine che tende a sfuggire all’osservazione del ricercatore. Salvo eccezioni, è difficile esaminarlo in divenire. Se ne apprende, in genere, troppo tardi l’esistenza. Si ricorrerà, allora, a interviste sul ricordo. Tuttavia, chiedere alla gente di raccontare ciò che torna alla mente a proposito di questa o quella diceria significa dover considerare le variabili della dimenticanza, della razionalizzazione a posteriori e della distorsione che necessariamente interverranno. Così, però, come lo stesso Kapferer è costretto ad ammettere, il ricercatore non studia il rumor, ma il ricordo che questo ha lasciato negli uni e negli altri. Dopotutto, il rumor non trae origine da un fatto ma dalla sua percezione; non precede la persuasione, ne è la manifestazione visibile. Alla sua genesi e al suo dinamismo contribuiscono il grado di probabilità che assegniamo a certi eventi, i nostri stereotipi mentali e le nostre convinzioni, il nostro stato d’animo e la nostra immaginazione, il gruppo di riferimento o il contesto. Per Kapferer il rumor è, essenzialmente, una notizia17. Una notizia che riguarda temi legati all’attualità, ritenuta vera ma non confermata, che si diffonde nel corpo sociale e si propaga attraverso quello che, nel poeticissimo idioma francese, è definito bouche à l’oreille, (di nuovo intraducibile in italiano se non con l’espressione assai meno elegante “bocca all’orecchio” o più semplicemente “passaparola”). Affinché la notizia possa dar luogo a quella dinamica di ripetizione-discussione che è tipica del rumor, è necessario che l’informazione sia attesa o temuta, che risponda cioè alle speranze e alle paure, più o meno consapevoli, degli individui. Occorre inoltre 14
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che sia inaspettata e che abbia conseguenze immediate e importanti per il gruppo. Abbandonando la concezione corrente, Kapferer introduce un nuovo punto di vista: tre sono gli elementi necessari e sufficienti a definire un rumor, vale a dire la fonte (non ufficiale), il processo (diffusione a catena) e il contenuto (si tratta di una notizia che verte su un fatto di attualità). È chiaro, lo abbiamo detto, che la veridicità non rientra nella definizione scientifica del rumor, tanto che l’autore osserva diverse tipologie di rumors: fondati, infondati e incerti, cioè dalla dubbia attendibilità. D’altra parte, criminologi e giuristi hanno da tempo ampiamente dimostrato come, in genere, gli individui sopravvalutino le proprie facoltà percettive: la testimonianza di chi ha visto o sentito qualcosa, raramente corrisponde alla realtà degli avvenimenti. E non è affatto casuale se il campo d’indagine del rumor inizi ad affiorare già all’inizio del Novecento, proprio nell’ambito della psicologia giuridica e, in particolare, della psicologia della testimonianza. Lo psicologo tedesco William Stern, nel 1902, mise a punto un “protocollo sperimentale” per osservare il processo di trasformazione dei racconti riportati dai testimoni oculari di un crimine attraverso il passaparola18. La sua è una metodologia elementare che probabilmente molti conosceranno, se non altro per gli effetti comici che produce. Si tratta di creare una sorta di “catena” tra individui che “si passano” una storia o una frase riferendola gli uni agli altri, senza diritto alla ripetizione o a spiegazioni: alla fine, se si confrontano le storie riferite dal primo soggetto e dall’ultimo, emergeranno importanti differenze. Il racconto iniziale, infatti, giungerà mutilato (alcuni dettagli si perderanno inevitabilmente 15
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attraverso il passaparola) oppure, nella peggiore delle ipotesi, deformato. Qualche anno più tardi, Édouard Claparède approderà alle stesse conclusioni19, confutando per la prima volta – attraverso numerosi esperimenti condotti con gli studenti del suo corso di Psicologia giudiziaria all’Università di Ginevra (veri e propri happening) – il concetto secondo il quale la moralità e la buona fede dei testimoni bastano per convalidarne le dichiarazioni20, e dimostrando l’esistenza di una deformazione percettiva della realtà. In verità, i primi studi sistematici condotti in maniera specifica sui rumors sono di taglio psicologico, americani, e risalgono alla Seconda guerra mondiale: gli effetti negativi sul morale di truppe e popolazione prodotti dal susseguirsi di voci e dicerie sullo stato del conflitto, indussero numerosi ricercatori a interessarsi al fenomeno. È ad Allport e Postman (1947) che si deve il principale modello teorico di riferimento in tal senso. Secondo gli autori, il rumor è una proposizione legata ai fatti del giorno, non verificata e però destinata a essere creduta, che si propaga da individuo a individuo e si trasmette in genere attraverso il passaparola21. Esiste una logica ben precisa che governa i meccanismi di formazione e trasmissione dei rumors: essa risponde ai processi cognitivi di elaborazione dell’informazione (riduzione: gli effetti dell’oblio e della memoria selettiva semplificano il messaggio; accentuazione: gli individui ricordano in maniera distinta solo certi particolari, valorizzandoli, oppure aggiungono dettagli e spiegazioni al racconto al fine di rafforzarne la coerenza o l’impatto; assimilazione: gli individui si appropriano del messaggio in funzione di valori, convinzioni o emozioni preesistenti). Così, per Allport e Postman, il rumor è, di fatto, una forma di comu16
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nicazione non rigidamente vincolata ai criteri oggettivi della verità perché è espressione della naturale tendenza degli individui a livellare, affinare e assimilare il messaggio e i suoi contenuti al contesto personale e culturale. I rumors nascono spesso proprio da un errore nell’interpretazione di un messaggio. Il malinteso va fatto risalire a una “testimonianza di testimonianza” e alla differenza fra il messaggio che è stato emesso e quello che è stato decodificato. Tutto sommato, per Kapferer il problema della fonte è irrilevante. Ciò che invece è significativo, nella genesi di un rumor, è l’adesione del gruppo, la mobilitazione collettiva. Il pubblico non è lettore, spettatore, audience: esso funge da attore principale, da protagonista. Viene da chiedersi, però, quand’è che una fonte può davvero dirsi ufficiale o non ufficiale? Kapferer sostiene che le fonti possano ritenersi “ufficiali” quando attorno alla loro autorevolezza c’è consenso. Quando cioè la maggioranza dei membri di una determinata collettività condivide l’idea che esse siano “abilitate a parlare”, che abbiano l’autorità giuridica per farlo, anche se si nega loro ogni credibilità e ogni autorità morale. Di converso, la fonte non ufficiale è quella che giunge da canali informali e può risultare estremamente credibile. Si capisce come il fenomeno dei rumors sia tanto politico quanto sociologico. “Parola che disturba”, “mercato nero dell’informazione”, “contropotere”, il rumor mette in discussione le fonti ufficiali. Non è la fonte che genera una voce, è il gruppo. D’altra parte, che il rumor possa essere letto come un “ritorno compensatorio ai canali naturali” di fronte all’inattendibilità di certi mezzi di comunicazione di massa non è cosa nuova. Secondo il filosofo spagnolo Aranguren: «l’inattendibilità evidente che a volte presentano i mezzi artificiali di comunicazione di massa, quan17
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do sono soggetti a un determinato orientamento politico, spesso dà luogo a un ritorno compensatorio ai canali naturali: […] viene data estrema attenzione a quel che si dice, alle voci, alle notizie che corrono le quali, benché non confermabili, ispirano maggior fiducia dell’informazione ufficiale […]»22. Già Katz e Lazarsfeld hanno ampiamente dimostrato come i mass media siano potenti canali d’informazione ma come spesso i veri “canali d’influenza” siano altrove, specie nella rete di comunicazioni interpersonali23. Così, in generale, prestiamo molta attenzione all’esperienza, all’opinione e al parere di amici e parenti, oppure vicini, colleghi e conoscenti. Lo stesso Kapferer, sul finire degli anni Settanta, nel chiarire l’influenza dei media e della pubblicità sul comportamento degli individui, aveva evidenziato che «il meccanismo chiave dell’influenza sta nella comunicazione verbale tra le persone, e non nei mezzi di comunicazione di massa impersonali, almeno per quanto riguarda i problemi in cui siamo molto coinvolti»24. Nondimeno, il fenomeno dei rumors dimostra quanto, in generale, sia poco spontaneo il processo di verifica dell’informazione. Molte voci nascono come notizie false, non verificate e pubblicate su quotidiani autorevoli che si diffondono poi nella realtà sociale. Da questo punto di vista, si può parlare di mediatizzazione del rumor o di sua copertura mediatica. Kapferer usa, a tal proposito, l’espressione “rumorer l’information” che non è un semplice riportare la voce, ma pubblicare una notizia non verificata e dunque pubblicare una voce sotto forma di notizia facendo ricorso ai “si dice”, alle insinuazioni, ai sottintesi, e favorendone così una sua più ampia diffusione. Va detto, però, che i rumors non possono essere considerati esclusivamente come il risultato di una infor18
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mazione distorta, di una comunicazione “difettosa”. Le persone, in situazioni ambigue o in contesti caratterizzati dall’incertezza, tendono a comportarsi come pragmatici problem-solvers: mettono in comune risorse intellettuali – che includono dati precisi, congetture, convinzioni, opinioni correnti – da ogni fonte disponibile, per dare senso a ciò che accade25. Così, ogni volta che il pubblico vorrebbe comprendere ma non riceve risposte, nasce un rumor. Esso è anche un efficace veicolo di coesione sociale: tutte le discussioni che ne derivano sono il frutto di un processo di elaborazione e discussione collettiva dell’informazione ed esprimono l’opinione del gruppo di riferimento. Come ha osservato Kapferer, prendere parte alla voce equivale a un atto di partecipazione al gruppo. Ma il rumor, a volte, può uccidere, o quasi. I ministri francesi Roger Salengro e Robert Boulin si suicidarono, uno nel 1936 e l’altro nel 1979, a seguito di una campagna diffamatoria. In Italia, la carriera e la vita privata della cantante Mia Martini sono state drammaticamente segnate da una serie di rumors a sfondo superstizioso diffusisi in seno allo stesso mondo dello spettacolo e che finirono per emarginarla. Nei primi anni Ottanta, decise di ritirarsi dalle scene, proprio a causa di quelle dicerie che legavano la sua fama a eventi negativi. E sulla sua morte, avvenuta nel 1995 e le cui cause sono ancora incerte, pesa l’ombra di quei rumors. È difficile, allora, non accostare il rumor al “venticello” di rossiniana memoria. Nel Barbiere di Siviglia, infatti, è una calunnia creata ad hoc per metter fuori gioco un avversario in amore. Una calunnia che, al pari del rumor, nasce come “un venticello, un’auretta assai gentile” e che progressivamente si propaga e si amplifica (“prende forza a poco a poco, scorre già di loco in loco”) fino a diventare di pubblico 19
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dominio con conseguenze nefaste («… e il meschino calunniato avvilito, calpestato sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar»). La leggenda metropolitana non è che una variante del rumor. Essa si colloca nella fase terminale del suo ciclo di vita: una volta cessata, infatti, la “voce” non si spegne del tutto ma può riaffiorare sotto forma di racconto mitico e “fluttuante” che vive un’esistenza quasi nascosta, per certi versi sotterranea, e riapparire in maniera imprevedibile. La leggenda, così, circola di città in città, senza riferimenti di tempo o di luogo. Può essere attualizzata (“è accaduto proprio ieri”), ma costituisce sempre l’eco deformata di un lontano fatto reale che la memoria collettiva conserva e ripropone attraverso un processo di ancoraggio del mito alla realtà. È solo a partire dagli anni Settanta che si inizia a parlare di urban legend o contemporary legend, storie ben note agli studiosi del folklore (si deve a Jan Harold Brunvand il più imponente lavoro divulgativo in tal senso26) come quella dell’autostoppista fantasma, della baby sitter cannibale, o degli alligatori nelle fognature di New York; storie fantasiose, caratterizzate dal “fascino del perturbante” e da contenuti che riflettono angosce profonde e diffuse a livello sociale. Questi studi, così come quelli di carattere etnografico, pur avendo il merito di “mettere insieme” poderose raccolte di dati, testimonianze e racconti sulle voci e sulle leggende urbane, e di riuscire a ricostruire la catena dell’informazione, sia quella temporale sia quella geografica, spesso privilegiano la classificazione alla comprensione, la catalogazione allo studio del processo e della struttura. Come ha sottolineato Aldo Grasso, la leggenda metropolitana ha “una struttura narrativa comunque ben architettata, quasi un genere letterario”27. In realtà essa 20
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presenta diversi sottogeneri o categorie: Animali e piante, Automobili, Orrori, Rapimenti, Espianti e Commercio d’organi, Contaminazioni, Prodotti, eccetera. D’altra parte, questa forma di rumor riflette i tratti dominanti delle società contemporanee di cui incarna paure e speranze legate alla modernità. L’ossimoro “leggenda metropolitana” ben esprime l’incidenza dei mondi mitici e della tradizione sulla realtà odierna. Spesso si tratta di storie arcaiche ma dai contenuti “universali” e dalla forte valenza simbolica. Dimostrano la vitalità e la “capacità mitopoietica” propria, anche, dell’individuo moderno28. Il mondo dell’impresa, le grandi Corporation globali in testa, è oggi un formidabile attrattore di rumors. Le infinite leggende metropolitane attorno al soft drink per eccellenza, Coca-Cola, non cessano di circolare da oltre cent’anni. E quelle che riguardano il logo della Procter & Gamble, accusandolo di satanismo, hanno costretto la multinazionale di Cincinnati ad abbandonare lo storico marchio dell’uomo barbuto a forma di mezzaluna su uno sfondo di stelle perché, stando alla voce, avrebbe lasciato intravedere il numero 666, vale a dire la cifra di Satana. E poi: rumors sul presunto contenuto di oppio delle sigarette Camel, sulle tre K (Ku-Klux-Klan) visibili nella fascia rossa del pacchetto di Marlboro; sui presunti effetti cancerogeni di determinati beni di largo consumo. Tutti i simboli, dice Kapferer – e le marche, aggiungiamo noi, sono super-simboli –, costituiscono, almeno potenzialmente, “il trampolino di lancio” dei rumors. Naturalmente, è possibile “mettere in giro” una voce a proprio vantaggio, o a beneficio della notorietà e dell’appeal di una marca: la confidenza, secondo Kapferer, può essere involontaria o pianificata. 21
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Indotti o spontanei che siano, la funzione di certi rumors, in questo ambito, è quella di conferire fascino e mistero a prodotti altrimenti poco interessanti e banalizzati. Vengono in mente, a tal proposito, i rumors sull’energy drink Red Bull, che sarebbe ottenuto dai genitali del toro o quelli sulla Coca-Cola, con il fantomatico seven x, l’ingrediente ombra mai rivelato (cocaina?). Voci che, a ben vedere, hanno contribuito al successo delle famose bevande. «Non a caso è necessaria la pubblicità nel campo dei consumi – osserva Kapferer – i prodotti sono poco importanti, e la gente non ha molta voglia di parlarne» (infra, p. 45). Alcuni rumors sono capaci di orientare persino le scelte d’acquisto degli individui. Si pensi, ad esempio, alla relazione tra boicottaggio di prodotti di largo consumo e voci sui presunti misfatti di certe multinazionali; oppure al peso del “si dice” a proposito dei prodotti Apple. Diverse, infatti, sono oggi le comunità virtuali on-line accomunate dall’interesse per l’azienda e suoi marchi di punta, in particolare Macintosh, iPhone, iPod, iPad. Nell’ultima decade, in prossimità del lancio sul mercato di nuovi prodotti e servizi da parte di Apple, s’è assistito al fiorire di indiscrezioni e voci veicolate da microgruppi di consumatori appassionati e fedelissimi al brand. Da qui la nascita di vere e proprie subculture o tribù (la cosiddetta “Apple rumor community”) che trovano nel web lo spazio e il territorio elettivo di socializzazione. L’azienda ha sempre cavalcato il fenomeno, con una corporate policy di “bocche cucite”, lasciando che, attraverso i social media digitali, le riviste di settore e il passaparola, le voci proliferassero e circolassero liberamente. Una prova, questa, che importanza (player globale del mercato) e ambiguità (voci non confermate né smentite), in una relazione moltiplicativa, costituiscono, 22
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come il sociologo Tamotsu Shibutani ha teorizzato29, gli ingredienti fondamentali per l’insorgenza e la diffusione di un rumor. Originariamente una forma di comunicazione di tipo face-to-face, il rumor trova la sua naturale evoluzione contemporanea nel “buzz”: in ambito digitale l’insieme delle “conversazioni” attorno a un tema. Nel mondo del marketing indica quell’aggregato di commenti e opinioni riguardo un prodotto, un servizio, oppure una marca o un’azienda (buzz marketing)30. Tema particolarmente caldo e contemporaneo dicevamo, quello dei rumors, anche perché confina con quello della reputazione, mai tanto richiamato come in questa epoca. Se la reputazione è ciò che gli altri dicono su una persona, un’impresa o un personaggio politico, allora sono (anche) i rumors che la determinano. E così non è affatto casuale se oggi il reputation management (sia esso on-line o off-line) faccia leva su tecniche che consentono a un’azienda o a un’organizzazione il “governo del passaparola”, ovvero il controllo di ciò che si dice su un certo argomento o un determinato soggetto (la marca, l’azienda, i suoi prodotti e servizi), in altre parole il controllo dei rumors. Ma il rumor, come insegna Kapferer, è – per sua natura – incontrollabile. Il rumor giustifica e al tempo stesso rivela il pensiero del gruppo di riferimento che vi partecipa. Crea consenso attorno a un tema e dunque contribuisce a formare l’opinione pubblica. Ma propone una verità spesso scomoda. Per questo, può far vacillare le convinzioni più profonde. L’individuo che vi aderisce ne trae una serie di benefici psicologici: la conferma di sentimenti radicati, la soddisfazione di desideri repressi, la risposta a preoccupazioni latenti, lo sfogo a conflitti psicologici. Il rumor, questa voce potente e silenziosa che Kapferer assimila a 23
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“una lettera anonima” che ciascuno può scrivere impunemente, comunica e giustifica in maniera palese ciò di cui siamo intimamente convinti ma che non possiamo (o non vogliamo) dire o non osiamo sperare. Da un certo punto di vista, l’interpretazione di Kapferer pone il rumor alla stregua di un moto dell’inconscio collettivo: esso esprime l’indicibile, il temuto, il desiderato. Lo esprime in maniera informale e non ufficiale. Il “si dice”, scrive l’autore, “è un ‘non detto’”. Cioè non detto ufficialmente. E per tornare alla radice classica del termine, rumor, va ricordato che un “rumore collettivo”, se così si potesse dire, è la vox populi, ovvero la vox Dei, la voce di Dio. Confermando, con questo, i nostri antenati, che quando un rumor è ricorrente e “collettivo”, appunto, comincia a essere percepito come “verità”. NOTE 1
Che diviene, nell’inglese britannico, rumours. Il giorno del terremoto. «Basta con la psicosi», in “Corriere della Sera”, 11 maggio 2011. 3 Secondo Philippe Aldrin, l’“agir rumoral” – il rumor come atto di parola – costituisce oggi una disposizione ampiamente acquisita dai protagonisti della politica. Far circolare un rumor (creandolo o semplicemente ritrasmettendolo) consente agli attori coinvolti di sferrare un colpo (basso, aggiungiamo noi) nell’arena della politica, minimizzando i rischi delle dichiarazioni attraverso il carattere anonimo e officioso della notizia. Per un approfondimento si veda: P. Aldrin, Sociologie politique des rumeurs, PUF, Paris, 2005. 4 L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Seconda edizione riveduta e aggiornata, UTET, Torino, 2004, p. 124. 5 E. Morin, La Rumeur d’Orléans, Éditions du Seuil, Paris, 1969 (trad. it., Medioevo moderno a Orléans, ERI, Torino, 1979). 2
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Si vedano, in particolare: W. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna, 1987 e La presenza della parola, il Mulino, Bologna, 1970. 7 Cfr: J.L. Aranguren, Sociologia della comunicazione, Il Saggiatore, Milano, 1967. 8 J.F. Boss, J.-N. Kapferer, Les Français, la science et les média: une évaluation de l’impact de la vulgarisation scientifique sur le public, La Documentation Française, Paris, 1978. 9 J.-N. Kapferer, Les Chemins de la persuasion: le mode d’influence des média et de la publicité sur les comportaments, Bordas, Paris, 1978. 10 J.-N. Kapferer, B. Dubois, Echec à la Science: l’image de l’espace dans le public, Éditions Rationalistes, Paris, 1981. 11 Per un approfondimento si veda: J.-N. Kapferer, G. Laurent, Comment mesurer le degré d’implication des consommateurs, IREP, Paris, 1983. 12 J.-N. Kapferer, G. Laurent, La sensibilité aux marques: nouveau concept pour la gestion des marques, Fondation Jours de France pour la Recherche en Publicité, Paris, 1983. 13 J.-N. Kapferer, Les marques, capital de l’entreprise, Éditions d’Organisation, Paris, 1991; J.-N. Kapferer, J.-C. Thoenig, La marca. Motore della competitività delle imprese e della crescita dell’economia, Guerini e Associati, Milano, 1991. 14 In particolare si veda: J.-N. Kapferer, Re-inventare la marca. Potranno le grandi marche sopravvivere al nuovo mercato?, FrancoAngeli, Milano, 2002. 15 V. Bastien, J.-N. Kapferer, Luxe Oblige, Éditions Eyrolles, Paris, 2008. 16 J.-N. Kapferer, Managing luxury brands, in «Journal of Brand Management», vol. 4, n. 4, 1996, pp. 251-260 e J.-N. Kapferer, Why are we seduced by luxury brands?, in «Journal of Brand Management», vol. 6, n. 1, 1998, pp. 44-49. 17 Già Shibutani aveva posto i rumors alla stregua di notizie improvvisate risultanti da un processo di discussione collettiva. Per un approfondimento si veda: T. Shibutani, Improvised News: A Sociological Study of Rumor, Bobbs Merrill, Indianapolis, 1966.
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Presentazione 18
L.W. Stern, Zur Psychologie der Aussage. Experimentelle Untersuchungen über Erinnerungstreue, in «Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft», vol. XXII, n. 2/3, 1902. 19 Per un approfondimento si vedano in particolare: E. Claparède, L’association des idées, Doin, Paris, 1903 e E. Claparède, Inediti psicologici (a cura di Carlo Trombetta), Bulzoni, Roma, 1982 (voll. 1 e 2). 20 Gli esperimenti di Claparède hanno “fatto scuola” e sono stati ripresi negli anni successivi da numerosi psicologi. Tra questi, in Italia, Cesare Musatti. Per un approfondimento si veda il classico C.L. Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza, Cedam, Padova, 1931. 21 G.W. Allport, L. Postman, The Psychology of Rumor, Henry Holt, New York, 1947. 22 J.L. Aranguren, op. cit., p. 126. 23 E. Katz, P.F. Lazarsfeld, Personal Influence, The Free Press, New York, 1955 (trad. it. L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, ERI, Torino, 1968). 24 J.-N. Kapferer, Les Chemins de la persuasion: le mode d’influence des média et de la publicité sur les comportaments, cit. (trad. it. di Enzo Campelli, Le vie della persuasione: l’influenza dei media e della pubblicità sul comportamento, ERI, Torino, 1982, pp. 126-127). 25 Cfr: T. Shibutani, op. cit. 26 Per un approfondimento si vedano: J.H. Brunvand, The Vanishing Hitch hiker. American Urban Legends and Their Meanings, Norton, New York, 1981 e J.H. Brunvand, Sarà vero? Leggende metropolitane di tutto il mondo, Pan Libri, Milano, 2001. 27 A. Grasso, Se una leggenda urbana fa chiudere i negozi, in “Corriere della Sera”, 11 maggio 2011. 28 C. Bermani, Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia, Dedalo, Bari, 1991, p. 21. 29 T. Shibutani, op. cit. 30 E. Rosen, The Anatomy of Buzz, Currency, New York, 2000, p. 7.
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