Raniero Regni_Il sole e la storia

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Raniero Regni

IL SOLE E LA STORIA Il messaggio educativo di Albert Camus

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione 1. Il sole dell’infanzia La forza di un bambino L’inizio visto dalla fine: ciò che resta di un padre La madre, colei che non potrà mai leggerlo Il mito del maestro e il maestro mitico L’incontro: padri e maestri Camus pedagogo, ovvero grandezza ed esemplarità di un allievo che diventa maestro

2. Un cuore intelligente tra nostalgia e pensiero Tra Plotino e Agostino: la formazione filosofica Il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia Intelligenza delle emozioni Il disincanto delle emozioni

3. La pedagogia di un filosofo artista Geopedagogia della bellezza Paesaggio e metafore Cultura e clima Camus e Leopardi: lo stile di un filosofo artista La ginestra e i mandorli: la bellezza contro il nulla

4. Tra l’esilio della storia e il regno della natura La rivolta contro la Storia Forza e onore La rivolta libertaria contro la rivoluzione totalitaria Uscire assieme dalla caverna

9 13 13 18 22 27 32 42 47 47 54 60 66 71 71 78 81 84 89 101 101 113 117 124


5. Educazione e secolarizzazione Tra pedagogia dell’essenza e pedagogia dell’esistenza La natura umana come limite e possibilità di valori che precedono l’azione Oltre il nichilismo: le primavere contro il nulla Tra immanenza e trascendenza L’epoca del disincanto e della secolarizzazione L’educazione nella modernità post-secolare e multipla L’educazione dell’anima nell’epoca della naturalizzazione dello spirito e della biologizzazione della coscienza Quale umanesimo?

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Conclusione: oltre il sole e la storia?

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Bibliografia

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Opere di Albert Camus Traduzioni italiane Testi critici o di riferimento


Introduzione

La miseria mi impedì di credere che tutto sia bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto. (A. Camus, Prefazione a Il rovescio e il diritto, p. 158)

Albert Camus, perché quest’autore, perché quest’uomo mi ha parlato più di altri e così intensamente? Perché un libro virilmente maturo, su di un autore che i giovani amano per la sua purezza? Inizio con un timore, quello di non avere più uno sguardo, per così dire, puro, senza precomprensioni, per guardare a Camus. Nelle sue pagine sento scorrere la forza cieca e insicura dei miei vent’anni. È vero, la giovinezza non ha età, ha scritto Picasso. Il timore non è quello di non avere più vent’anni, ma di non avere la giovinezza, non biografica ma quasi metafisica, necessaria per poterlo penetrare. Qualcuno ha parlato dello strano bisogno che noi sentiamo oggi di Camus. Lo stesso vale per il mio strano bisogno che ho di questo autore, che ci invita alla persuasione e alla sincerità. L’idea di un lavoro come questo è da sempre. L’occasione, diciamo così, accademica, mi è stata fornita nei corsi di Educazione degli adulti, dove ho sperimentato Camus come modello di una biografia esemplare per l’educazione in età adulta. Uno scrittore che i giovani amano, uno scrittore morto relativamente giovane può diventare un riferimento per l’educazione degli adulti? La chiave di lettura privilegiata è stata quella di intrecciare la biografia e l’opera, dando seguito ad una propensione personale che mi ha sempre spinto ad interessarmi delle vite degli autori. Penetrare attraverso l’opera per giungere a dialogare con l’autore. L’opera di Camus è un’autobiografia interiore. Attraverso la vita e l’opera ho cercato di vedere le possibili prospettive educative e le suggestioni pedagogiche che si possono sempre trarre da grandi autori. Quasi un supplemento alla comprensione oppure, di contro, un’incapacità ad andare a fondo del solo pensiero quale vive nelle opere, 9


quasi che questo fosse troppo ma anche troppo poco e dovesse sempre essere riportato alla vita, ad una vita. D’altra parte ci si può sempre chiedere se capire una vita sia più semplice che interpretare un’opera. Altra prospettiva di questo saggio è quella di indagare il ruolo dell’infanzia algerina nella filosofia e nella poetica di Camus. Il sole è quello che illumina la sua infanzia. La luce è quella che illuminerà tutta la sua vita con la forza dell’infanzia. Senza voler proporre chi sa quale nuova interpretazione dell’opera camusiana si intende solo sostenere che in tutto quello che lui ha pensato e scritto c’è una continuità di temi e di fonti di ispirazione che vanno dai primi saggi all’ultimo romanzo incompiuto e postumo. Si cercherà di ricostruirne, senza nessuna pretesa di completezza, anzi con evidenti lacune, la formazione tra il padre assente e la madre presente e silenziosa, tra gli amici e i suoi maestri, quelli vivi e presentissimi nella sua vita come Grenier, e quelli cui dedicherà la sua attenzione, come Plotino e S. Agostino, Pascal, Nietzsche e Dostoevskij. Tutto quello che ha scritto è l’esplicitazione di quelle intuizioni sulle quali si era aperto sin dall’inizio il suo cuore. Certo, si sosterrà che Camus è solo per pigrizia iscritto tra gli autori dell’esistenzialismo. Contro questa sua collocazione egli ha scritto e pensato. Tutta la sua opera rappresenta un tentativo di trovare una via d’uscita al nichilismo e ai suoi disperanti esiti disumani e totalitari. Il suo essere filosofo-artista, scrittore-filosofo – qui sta anche il tentativo di metterlo vicino ad un autore immenso come Leopardi – fanno sì che nel suo pensiero poetante il ragionamento e la metafora si scambino spesso le parti, l’immagine e il concetto si rimandino l’uno all’altro come pure l’intelligenza e il sentimento, quasi un pascaliano pensare con il cuore, un sentire con il pensiero che si realizza in una singolare intelligenza delle emozioni. La nostalgia, il risentimento, la felicità, l’orgoglio, la tenerezza ed altre emozioni sono state viste come parte integrante del suo pensiero. Un saggio critico, un tentativo di lettura di un autore famoso pone sempre la domanda sul senso che può avere un’ennesima prova. Lo stesso Camus si lamentava che se gli antichi riflettevano più di quanto leggessero, oggi si fa il contrario e non ci sono che commenti. Eppure ogni interpretazione dell’opera serve, come direbbe un grande critico amico di Camus, “perché non s’irrigidisca nell’evidenza il segreto che le è proprio. Infatti è un’opera segreta” (M. Blanchot). Sì, leggendolo si ha sempre l’impressione di un segreto che si mostra e si nasconde in ogni frase. Ma un segreto di cui si può venir messi a parte nell’amicizia. Avrei voluto fare un libro molto scritto, con paragrafi brevi e intensi. Tessere di un mosaico che, se avesse contenuto un disegno interpretativo, lo avrebbe fatto emergere solo alla fine. Così non è stato. Guardandomi in10


dietro, guardando a quello che ho scritto vedo solo che una delle cose che succedono con l’età è che la scrittura si fa più interiore, più riflessiva, forse più saggia o semplicemente solo più triste. L’ideale è sempre lo stesso: il libro che vorrei scrivere è il libro che mi piacerebbe leggere. Non ci sono riuscito neanche questa volta ma, pensando alla massima di Beckett, “fallisci meglio”, vorrei sperare di aver “fallito meglio” di altre volte. Segnalo infine una difficoltà ed un limite. Non conosco il francese. Anche se ho cercato di confrontare la traduzione con l’originale ed ho cercato di ampliare la stessa bibliografia critica uscita in Francia anche in occasione dei cinquant’anni dalla morte di Camus. Comunque, il mio povero francese non è sufficiente. Eppure, ho cercato di servirmi anche di questa ignoranza. Se è vero, come diceva Wittgenstein, che in ogni parola si cela un’intera mitologia, lo stentare nella lingua originale del mio autore mi è servito a rallentare la comprensione cercando altre risonanze del suo pensiero. Camus è una mia lettura antica, era suo il primo libro “vero” letto, per caso, da adolescente. Forse anche per questo è stato un riferimento costante nella mia riflessione ed anche nella mia ricerca, dove compare a volte esplicitamente, altre volte in maniera implicita. Nel mio ultimo lavoro dedicato al paesaggio, il sole è stato concepito come un maestro più antico ed ancestrale della civiltà. E poi, lo stesso paesaggio mediterraneo era un tema camusiano. Una natura maestra contro la storia, capace di ispirare anche una geopedagogia. Nessuna originalità nel titolo, visto che moltissime opere della bibliografia critica su Camus parlano del tema del sole. Sole e ombra, sole e povertà, compaiono nei titoli di libri già usciti. Qui il sole è però l’infanzia. Il titolo non ha così bisogno di molte spiegazioni. C’è la storia e c’è il sole. Camus affianca sempre alla storia la natura. Essa c’era prima della storia e la sua bellezza è superiore alla sua verità. Il sole pone un limite alla storia ed apre ad una possibile trascendenza metastorica se non addirittura metafisica. Da molti anni, uno dei famosi e bellissimi scatti di Cartièr Bresson che ritrae Camus campeggia nel mio studio. Visto che in casa ci sono altre foto di nonni, bisnonni ed antenati, la mia figlia più piccola domanda se per caso anche quello sia un nostro parente. Vorrei pensare di sì, vorrei pensare ad una parentela dell’anima. Mi piacerebbe persino credere che mentre Camus visita Gubbio nell’estate del 1955, si affaccia da Piazza Grande, abbia potuto incontrare un bambino di pochi mesi che la nonna e la madre portavano spesso a spasso proprio lì. Un’ultima parola. Guardando al percorso da me fatto sin qui, mi sembra 11


di scorgere una personale propensione al non pedagogico in senso stretto. La globalizzazione, il lavoro, il paesaggio, ora la letteratura e la filosofia. È come un bisogno di coinvolgimento con il mondo esterno. Rispetto alla pedagogia, c’è sempre un bordo che sporge che è la vita, la storia, la poesia, il lavoro, la politica. Ora però basta parlare del libro, ma che il libro parli.

Ringraziamenti: grazie agli amici e ai maestri quelli di sempre e per sempre. Grazie agli studenti francofoni che mi hanno aiutato in alcune traduzioni. Grazie a Barbara Minelli per aver corretto il dattiloscritto. 12


1. Il sole dell’infanzia

La forza di un bambino Che cosa c’è all’inizio? Al principio c’è sempre l’infanzia. Che cosa c’è all’inizio della vita e del pensiero di Camus? C’è la sua infanzia di bambino povero, orfano, presto malato ma sorprendentemente felice e inaspettatamente amato. Il ruolo che l’infanzia nel quartiere povero di Belcourt, alla periferia di Algeri, ha nella vita di Camus ci rimanda – e non è solo un pretesto – al cuore del messaggio pedagogico camusiano, al cuore di ogni riflessione pedagogica. Il pais dell’etimologia eterna della pedagogia questa volta è il piccolo Albert, quello che il suo maestro di scuola elementare chiama scherzosamente “moscerino”. La biografia di Camus ci ripropone una riflessione sul ruolo decisivo dell’infanzia, che rappresenta letteralmente la presenza dell’avvenire. L’infanzia non solo come dato biologico, sociale e storico, ma l’infanzia come mito e come archetipo, individuale e collettivo. L’infanzia è quasi un Paese che abbiamo abitato, indipendentemente dal luogo di origine, e che non possiamo mai abbandonare. La speranza impossibile di salvare l’infanzia, la propria innocenza, dalla falsificazione della vita adulta è, forse, mal posta. Perché non si abbandona mai l’infanzia. Scrive un autore algerino contemporaneo, ammiratore di Camus: “Non è vero che si torna all’infanzia, semplicemente non se ne esce mai”1. Naturalmente non si tratta della condizione propria dell’infantilismo adulto, ma di quell’essere “sapientemente incomprensivo” come un bambino, di cui parla spesso Rilke. Quell’anima infantile che ha a che fare con le cose che durano, con le cose eterne dentro di noi. Come ha scritto Ravaglioli2, non è facile capire l’infanzia. Piuttosto la si ama. L’amore dei genitori è un caposaldo della civiltà. Ma questa realtà 1

Y. Khadra, Quel che il giorno deve alla notte, trad. it., Mondadori, Milano, 2009, p.

376.

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F. Ravaglioli, La mitologia dell’infanzia in K. Kerènyi, «Rinnovare la scuola», 38-39, 2008, pp. 8-11.

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fatica a imporsi se manca del supporto dell’immaginazione, se è priva di un mito che la sostenga. Nei sogni ci sono le immagini di miti secolari. Il mito è una traccia psichica dell’infanzia dell’umanità. La mitologia sorge dall’immaginazione infantile. L’infanzia è spesso un sogno ad occhi aperti e l’infanzia rivive i miti dell’umanità, conserva la possibilità di sentire l’identità di sogno e mito. È immersa nel leggendario. Come per Kerènyi3, che sostiene che il fanciullo è l’eterno indeterminabile. Per questo l’infanzia prova, non è organizzata e non obbedisce ad un programma, esplora, e su questo gioco delle occasioni si è costruita una mitologia. L’infanzia come mito e come archetipo si situa tra il Romanticismo che la inventa e la psicologia del profondo che la studia. Infinito è il territorio dell’infanzia e sconosciuto nonostante le continue rivisitazioni. Un luogo irrecuperabile, forse solo illusorio oppure di verità, come “il posto delle fragole” di Bergman, uno spazio senza lingua, come vuole l’etimo, o meglio con una lingua propria, perduta nel tempo degli adulti. Un tempo senza perché, che precede la colpa e le spiegazioni. L’infanzia è innanzitutto la nostra infanzia. Non possiamo e non dobbiamo perdere i contatti con la nostra e l’altrui infanzia, anche e soprattutto se si vuole essere educatori o, più semplicemente, persone. L’infanzia è il tempo in cui tutto avviene per la prima volta. Un’esperienza di assenza di tempo. Il tempo delle origini, il tempo dell’inizio. Ed ogni inizio è per sempre. L’infanzia è l’aurora, la luce degli inizi. Non è un caso che Camus sia stato definito anche il “poeta dell’aurora”. “Il primo giorno …è anche il primo uomo… Il primo nel tempo e anche il primo in eccellenza. Perché? Perché tutti gli inizi sono belli per chi ama la vita …perché il possibile non si è ancora mutato in fatale, – perché …ma sono poi necessarie tante ragioni? Non ci è dato scegliere, ma ci è permesso amare quel che è stato scelto per noi, quando la nostra sorte s’accorda alla nostra natura”4. Nella terza raccolta di saggi che Camus nel 1956 intende ancora scrivere non a caso ce ne è uno che si sarebbe dovuto intitolare L’eterno mattino5. Egli era ancora in cammino verso la luce dell’alba. Premessa gloriosa e tradita dell’esistenza, luogo ideale dove si celano l’unità e l’estasi da cui ogni sentimento promana, conoscenza senza dualità, esistenza beata smarrita, che si spera di riprendere nell’aldilà. Questo è il gran tesoro dell’infanzia che si trova a irraggiungibili profondità6. Camus, 3 C.G. Jung, K. Kerènyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. it., Bollati-Boringhieri, Milano, 1972. 4 J. Grenier, Albert Camus. Ricordi, trad. it., Mesogea, Messina, 2005, p. 84. 5 A. Camus, Taccuini 1951-1959, III, Bompiani, Milano, 1992, pp. 207-208. 6 E. Zolla, Lo stupore infantile, Adelphi, Milano, 1994, pp. 13-31.

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tornando frequentemente all’infanzia e tenendosi ostinatamente fedele ai propri insegnamenti e apprendimenti, ci ricorda che essa è la sede della nostra forza più che della nostra vulnerabilità. Certo, la sua infanzia è quella di un bambino povero, la sua povertà diventerà addirittura miseria e disperazione quando, a diciassette anni, si ammalerà di tubercolosi. “All’inizio il mondo non m’è stato nemico. Ho avuto un’infanzia felice”7. Questo cozza contro la realtà di un povero orfano, un’evidenza contro la povertà e malgrado la povertà. Eppure la luce non cessa di illuminare la sua infanzia. Il sole è la sua infanzia, quello reale e quello mitico, il sole dell’infanzia, l’infanzia algerina con il suo sole africano8. Scrive Camus: “Sono cresciuto sul mare e la povertà mi è stata fastosa, poi ho perduto il mare, tutti i lussi mi sono sembrati grigi, la miseria intollerabile”9. Il sole, la prima divinità degli uomini nati sulle rive del Mediterraneo, il sole, la vera ricchezza che non costa nulla, quel sole che fa scrivere a Nietzsche che anche il più povero dei pescatori, quando rientra nella luce del tramonto, rema con un remo d’oro. L’oro stesso che, senza il sole, non avrebbe alcuno splendore. Il sole inesauribile, quella luce che lui avverte sempre alle sue spalle, quel centro, sole nascosto che è luce che illumina l’infanzia di Camus. “Il sole leggero sulle teste bagnate, e lo splendore della luce riempiva quei giovani corpi di una gioia che li portava a strillare in continuazione. Regnavano sulla vita e sul mare, e ciò che il mondo poteva dare di più fastoso, lo accoglievano e lo usavano senza moderazione, come gran signori sicuri delle proprie insostituibili ricchezze”10. Un’infanzia felice, quella di un ragazzo di strada, che non conosce la miseria pur nella povertà – che scoprirà di essere povero solo andando al Liceo, e vedendo le case dei ricchi se ne vergognerà, ma poi proverà vergogna per questo suo stesso sentimento –, che sente la gioia di vivere e la bellezza pur nella tragedia. E Belcourt, il quartiere povero di Algeri, miscuglio di razze e attività diverse, è la sua prima vera scuola. Anche se la sua infanzia è al fondamento di una privata mitologia, Camus si sottrae a quella che è stata definita la mistica dell’infanzia, la metafisica dell’infanzia, che rappresenta l’ultimo rifugio della utopia politica come pura potenzialità. Secondo l’utopia politica dell’infanzia, quest’ultima 7 G. D’Aubarède, Incontro con Albert Camus, in A. Camus, L’estate e altri saggi solari, trad. it., Bompiani, Milano, 2003, p. 161. 8Abbiamo già accennato che molti saggi su Camus richiamano il tema del sole: cfr. R. Grenier, Albert Camus. Soleil et ombre. Une biographie intellectuelle, Gallimard, Paris, 1987; A. Rigobello, Camus tra la miseria e il sole, Il Tripode, Napoli, 1976. 9 A. Camus, L’estate e altri saggi solari, cit., p. 313. 10 A. Camus, Il primo uomo, trad. it., Bompiani, Milano, 1994, p. 47.

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“rappresenta, né più né meno, la nostra ultima speranza di vedere realizzato un mondo diverso da quello che conosciamo”11. Questa mistificazione, sopravvalutazione dell’infanzia e dell’educazione, coincide oggi con una sua nuova forma di incomprensione da parte degli adulti e un misconoscimento dei reali bisogni del bambino. “Se il XX secolo è stato quello della scoperta del bambino reale, il XXI secolo si apre nel segno della sacralizzazione del bambino immaginario”12. Una multiforme mistificazione dell’infanzia che finisce per rappresentare un notevole ostacolo all’impresa educativa. Una mitologia, un immaginario sociale dell’infanzia secondo cui desideriamo talmente la felicità dei nostri figli da perdere completamente di vista i loro reali bisogni. L’immagine che Camus ci rimanda della propria infanzia e il relativo messaggio pedagogico si sottrae a questa nuova forma di misconoscimento. Egli non vuole rimanere bambino, ma vuole essere adultamente e virilmente fedele alla sua infanzia povera, semplice eppure splendente tanto da far affermare a Grenier: “Questo bambino nato sotto il sole voleva continuare a vivere nella luce”13. Per lui tornare in Africa, tornare ad Algeri, dopo aver attraversato il grande dorso del mare, vuol dire tornare all’infanzia, tornare all’infanzia da cui non è mai guarito, a quel segreto di luce, di povertà calorosa che lo ha aiutato a vivere e a vincere ogni cosa14. Infatti, nonostante le apparenze, nella sua vita di bambino ci sono più luci che ombre, oppure la luce è più forte delle difficoltà che la vita gli pone davanti. Come avrebbe detto Ortega, un filosofo che avrà un sicuro influsso sul pensiero e sullo stile di Camus, c’è l’io e la mia circostanza; la mia libertà consiste nel trasformare la mia circostanza nella mia vocazione. L’infanzia di Camus è e rimarrà sempre la fonte segreta della sua forza e ispirazione. E, in un lettera del ’42 a Grenier, scrive a proposito di un autore: “e come capisco che anche in età matura un uomo non trovi soggetto più bello che la sua infanzia povera!”15. Un parallelo può essere fatto con l’esperienza di un altro grande scrittore, contemporaneo di Camus: A. de Saint-Exupery. Anche per quest’ultimo l’infanzia è la sorgente segreta della forza e del coraggio, quando l’aviatorepoeta, nel corso della seconda guerra mondiale, si getta con il suo aereo in una missione eroica quanto inutile sulle retrovie francesi in rotta, incalzate dalle armate tedesche. Mentre tenta di attraversare il fuoco di sbarramento 11

M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, trad. it., Vita e pensiero, Milano, 2010, p. 14. 12 Ivi, p. 3. 13 J. Grenier, Albert Camus, cit., p. 126. 14 A. Camus, Il primo uomo, op. cit., p. 38. 15 A. Camus, J. Grenier, Correspondance 1932-1960, Gallimard, Paris, 1981.

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sopra la città di Arras, egli si chiede: “Perché non ho paura?”. E la risposta la trova tornando con la memoria all’infanzia. “Di dove sono io? Della mia infanzia. Sono della mia infanzia come di un paese”. L’infanzia è la patria intima di questo combattente coraggioso. “Ho fatto i miei bagagli di ricordi”; risalendo con il ricordo fino alla propria infanzia egli può “ritrovare il sentimento di una protezione sovrana”16. Il mistero dell’infanzia è un prodigio e lo è in maniera eguale per due infanzie che non si potrebbero immaginare più diverse. Quella ricca e incantata del piccolo conte Antoine e quella del povero proletario Albert. Il parco, il castello dell’infanzia del primo, un reame segreto, un mondo interiore pieno di rose e di fate, sopra il quale vola con l’immaginazione l’aviatore che scriverà Il piccolo principe. Il quartiere povero le cui voci conserverà per sempre, quella del secondo. Due paesi dell’infanzia, che sono il contrario del paese dei balocchi; due bambini, che sono l’opposto degli esseri deboli, alimentano la forza di due uomini adulti, due personalità esemplari. “Qualcosa dell’infanzia ridonda nei grandi entusiasmi, negli amori e nelle stupefazioni”17. L’infanzia è l’unità prima di ogni scissione, è l’esperienza dell’uno, del noumeno che si può toccare. Nell’infanzia di Camus si cela il deposito segreto di quella forza oscura, di quella formidabile energia che lo sosterrà per tutta la vita e in tutta la sua opera, di cui parla ne Il primo uomo. Un’infanzia intrisa di povertà e di luce, di sole e di sogni, felice e minacciata. Qui si trova la sorgente segreta della sua opera. Ad essa sono legate le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una volta il cuore si è aperto. Come osserva – con una sincerità, se possibile, maggiore del solito – nell’importante Prefazione alla ristampa nel 1958 di Il rovescio e il diritto, la sua prima opera, “in questo mondo di povertà e di luce, dove sono vissuto a lungo e il cui ricordo mi preserva ancora dai due opposti pericoli che minacciano ogni artista, il risentimento e la soddisfazione… Il bel caldo che regnava sulla mia infanzia mi ha privato di ogni risentimento”18. E ancora: “Il merito di questa felice immunità non viene a me. La debbo prima di tutto ai miei, che mancavano quasi di tutto e non invidiavano quasi nulla. Solo col silenzio, col riserbo, con la naturale e sobria fierezza, questa famiglia, che non sapeva nemmeno leggere, m’ha dato allora le lezioni più alte, che durano sempre”. L’invidia, “vero cancro delle società e delle dottrine”, non 16 A. de Saint-Exupéry, Pilota di guerra, trad. it., Mondadori, Milano, 1971, pp. 72-74, 99-101, 104. 17 E. Zolla, op. cit., p. 16. 18 Le citazioni seguenti sono tratte da A. Camus, Prefazione, ed. cit., p. 167 e p. 158, 159, 161.

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ha nessuna presa su Camus che, poco oltre, scriverà: “Io non invidio nulla”. Per questo l’ammirazione può sgorgare libera e non inquinata. L’invidia è un ostacolo alla relazione educativa? Credo di sì. L’ammirazione ne è la molla più potente? Credo di sì. “La povertà non suppone necessariamente l’invidia”. Quando la malattia gli toglie momentaneamente la forza vitale che lo rende immune all’invidia, quello che ne viene fuori sono momenti di paura e scoraggiamento ma mai di amarezza e risentimento. Come artista comincia a vivere ammirando, il che, in un certo senso, è il paradiso terrestre. Camus riconosce la forza educatrice dell’ammirazione sulla sua stessa vocazione artistica ma, prima ancora, umana. E poi, ancora, quella forza che lo sorregge anche nei momenti più bui, come quello della riacutizzazione della tubercolosi, che gli farà scrivere a Grenier: “Un essere giovane non saprebbe d’altronde rinunciare completamente. Tutte le stanchezze riunite non sarebbero in grado di esaurire totalmente la forza di ricominciare che porta dentro di sé. Ho per troppo tempo sottovalutato la vitalità che ho dentro. Questo La stupirà, ma mi accorgo senza alcun compiacimento che sono capace di resistenza, di energia, di volontà”19. La forza dell’infanzia si misura anche con il cammino fatto. Un povero bambino di strada, contornato da analfabeti, che sale agli altari del Nobel e che oggi qualcuno vorrebbe sepolto al Pantheon. “Personne autour de moi ne savait lire. Mesurez bien cela”: questa è la risposta che darà un giorno Camus, diventato ormai grande e famoso20. Il senso del tragico non farà mai di Camus un pessimista e tantomeno un uomo triste. Ancora nel 1951 affermerà in un’intervista: “Quando mi capita di cercare quello che c’è di fondamentale in me, è il gusto della felicità che trovo. Ho un’inclinazione molto viva per gli esseri. Non ho alcun disprezzo per la specie umana… al centro della mia opera, c’è un sole invincibile”21.

L’inizio visto dalla fine: ciò che resta di un padre Come si sa, Camus muore prematuramente in uno scontro automobilistico il 4 gennaio 1960. Aveva affermato una volta che la morte più ridicola sarebbe stata quella in un incidente d’auto e la sorte beffarda gli riserva pro19 A.

Camus, J. Grenier, op. cit., Lettera del 17 agosto 1934. R. Grenier, Albert Camus. Soleil et ombre. Une biographie intellectuelle, cit., p. 15. 21 G. D’Aubarède, Incontro con Albert Camus, in L’estate e altri saggi solari, cit., pp. 163-164. 20

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prio questa fine. Tra i rottami contorti dell’auto, assieme ad una copia de La gaia scienza di Nietzsche, è ritrovato il manoscritto del suo ultimo romanzo, Il primo uomo, pubblicato postumo e incompleto, dopo un lungo lavoro curato dalla figlia. Si tratta di un vero e proprio romanzo di formazione: come Camus è diventato quello che è, oltre che un tentativo di assegnare una genealogia alla sua famiglia e alla sua gente, poveri coloni senza storia. Jacques Cormery, il primo uomo protagonista del romanzo, è un adulto che ha quarant’anni. Il primo uomo è anche l’uomo primitivo, incolto ma anche integro, in possesso della forza originaria. “È un uomo da cui ci si può aspettare di tutto, il bene più grande oppure il male più grande. Niente di mediocre, in ogni caso”22. Il Primo uomo, come afferma Lotman, rappresenta la prima generazione di franco-algerini; è il padre di Albert Camus, ucciso durante la prima guerra mondiale, ancora prima che Albert compia un anno, ma è anche Albert stesso, che cresce in un vuoto storico e culturale, accentuato dall’analfabetismo della propria famiglia e simboleggiato dall’assenza di libri nella sua casa23. In realtà, il primo uomo è un bambino. Camus ripercorre la sua vita cominciando dall’inizio, raccontando la storia di un altro giovane uomo, suo padre. “Più andava avanti nella vita, più avvertiva l’esigenza di appoggiarsi a un passato”24, ha scritto a tale proposito J. Grenier. Un padre che vive con lui appena otto mesi e che lui quasi non conosce e non ricorda. Il primo uomo è un bambino orfano che per questo deve crescere da solo, tra la madre, la nonna, lo zio, il fratello, ma senza un padre. Lo zio, marito di una sorella di sua madre, Gustave Acult, macellaio colto, anarchico e volterriano, che lo accoglie in casa propria – dove può ricevere cure migliori durante la malattia, mentre frequenta il liceo – gli vorrà molto bene. Alla sua morte Camus scriverà: “È stato il solo uomo che mi ha fatto immaginare un po’ che cosa può essere un padre”25. Anche l’Odissea, una delle grandi opere che stanno all’inizio della nostra civiltà, inizia con la ricerca di Ulisse da parte del figlio Telemaco. Il movente è quello del dolore più grande, ovvero l’assenza del padre, la cui funzione educatrice all’interno della famiglia è stata sempre fondamentale. Il figlio ama il padre, ne vuole essere un po’ riconosciuto, anche se questo non sempre accade e spesso porta al conflitto. La morte del padre fa prendere coscienza al figlio che non c’è esistenza al riparo dal dolore e dall’annientamento, per cui siamo sempre sull’orlo di un abisso. Un padre morto consegna sin dall’inizio questa verità al figlio, nonostante, come qui, si tratti 22

J. Grenier, Albert Camus. Ricordi, cit., p. 151. H. R. Lotman, Albert Camus, trad. it., Jaka Book, Milano, 1984, p. 21. 24 J. Grenier, Albert Camus. Ricordi, cit., p. 161. 25 A. Camus, J. Grenier, op. cit., Lettera a J. Grenier del febbraio 1946. 23

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di un dialogo mancato, di un dialogo impossibile tra un figlio ed un padre non conosciuto. Eppure, anche se il padre vive, “tra padre e figlio il silenzio è prezioso come l’oro”26. Ne Il primo uomo, l’inizio coincide con la nascita di Camus, ma poi prosegue con la ricerca, da parte di un Camus quarantenne, della tomba del padre in Francia. All’ingresso del cimitero il viaggiatore si ferma a guardare un bambino dall’aria sveglia che sta facendo i compiti in un angolo, su una lapide ancora senza iscrizione27. È solo una veloce immagine, eppure il suo valore sembra archetipico: quel bambino è il piccolo Albert che attende ai suoi compiti appoggiandosi alla figura di un padre di cui non sa niente, alla tomba di “quello sconosciuto”, nei confronti del quale non può inventarsi un amore che non sente. E poi il dolore e lo stupore per un padre che, morto a ventinove anni, è più giovane del figlio e il disordine, il caos che da questo deriva: “Non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre”. Il disordine mortale del mondo, la tenerezza, la pietà, ma anche la forza, l’energia di un uomo che si è fatto da solo sono al fondamento di una specie di vertigine. L’assenza del padre quasi gli impedisce di essere qualcuno e fa scaturire il bisogno di “sapere, sapere prima di morire, sapere finalmente per essere, una sola volta, un solo secondo, ma per sempre”. Il padre è il fondamento e il garante di questa stabilità che gli sembra mancare. Il padre assente gli impedisce di essere. Quel segreto della vita che lui cerca nei libri e nelle persone è invece legato a questo padre ragazzo morto, di cui quasi nessuno gli ha mai parlato. La stessa scrittura, come arte del ricordo, sembra legata alla morte. Come osserva Grenier, parlando in uno splendido testo del suo amore per il proprio cane morto, “scrivere deve avere una complicità – che avrei amato e che ora detesto – con la morte. Se il cane fosse vivo, non ne parlerei”28. Non ci si rassegna facilmente alla assenza e alla morte del padre. Questo perché esso svolge una insostituibile funzione educativa. Per cui “l’umanizzazione della vita esige l’incontro con ‘almeno un padre’”29. Che cosa insegna il padre? Il padre è una di quelle figure biostoriche che da sempre fanno parte della dinamica e della struttura della formazione umana. La sua funzione è quella di iniziare i figli ai segreti della vita, che si attua lanciandoli verso di essa. Il padre pone un limite, un ordine, una misura, costringe 26

M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, R. Cortina, Milano, 2011, p. 142. 27 A. Camus, Il primo uomo, cit., pp. 23-26. 28 J. Grenier, La morte di un cane, trad. it., Mesogea, Messina, 2011, p. 32. 29 M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit., p. 15.

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a rinunciare all’onnipotenza e, contemporaneamente, indica la conquista, il dono, la promessa, la fede. Non c’è formazione che non passi, in una maniera o nell’altra, attraverso la strettoia del conflitto con ciò che resiste ai nostri desideri ma, così facendo, accentua il nostro desiderio. Il padre “è colui che aiutando il figlio ad accettare la perdita lo conduce verso il futuro… L’assenza del padre trasforma invece ogni uomo, da essere partecipe del mondo vivente creato dal Padre, in un individuo solo”30. Certo, un padre assente può essere anche più facilmente amato da un figlio, di un amore che idealizza una figura fantasmatica privandola di ogni scontro. L’assenza lo priva del conflitto ed anche del dolore che, secondo l’interpretazione junghiana, è proprio della ferita che il padre infligge al figlio, separandolo dall’amore esclusivo e simbiotico della madre. Ma, per contro, aumenta il dolore dell’assenza e la nostalgia di quello che avrebbe potuto essere il loro rapporto. Questo accade anche quando un padre muore troppo giovane ed il figlio, diventato oramai maturo, avrà sempre nostalgia e più passerà il tempo e più sentirà questa mancanza. Magari gli apparirà talvolta in un sogno ricorrente e lui rimarrà interdetto, vorrà dirgli che gli è mancato terribilmente, vorrà magari rimproverarlo perché se ne è andato lontano ma, vedendolo vivo, si sentirà in colpa perché allora è lui, il figlio, che non lo ha cercato e non gli è stato abbastanza vicino. Allora vorrà abbracciarlo e nello slancio colmo di gioia trattenuta si sveglierà con quello strano sentimento che crede di aver provato più volte, un déjà vous. Perché non si sono parlati quando era tempo? Perché l’avrebbero fatto una volta diventato il figlio adulto ed il padre vecchio. Ma questo non è potuto accadere. Albert figlio e Lucien padre vivono insieme otto mesi31. Nato nel 1885, il padre di Camus, che vive a Mondovì vicino a Bona, in Algeria, dove nascerà il suo secondogenito, viene richiamato nel 1914 nel corpo degli zuavi e, ferito pochi mesi dopo, morirà, in seguito, nell’ospedale di Saint-Brieuc in Bretagna. Un uomo di cui resta soltanto un ricordo impalpabile come le ceneri di un’ala di farfalla arsa nell’incendio di una foresta32. Nel cimitero di quella città verrà anche sepolto. Che cosa rimane del cantiniere Lucien Camus, di quel padre, oltre la misteriosa eredità genetica? Qualche foto ingiallita, qualche cartolina, la croce di guerra e i ricordi della moglie e della suocera. “Ai piccoli Lucien e Albert la nonna materna parla troppo e la madre troppo poco”33. La madre gli racconta dell’ultimo abbraccio a lei e ai figli ad Algeri prima di vederlo “sparire, più in là, davanti al cinema, nella luce splenden30

C. Risè, Il padre, l’assente inaccettabile, San Paolo, Milano, 2003, pp. 30-39. O. Todd, Albert Camus. Una vita, trad. it., Bompiani, Milano, 1997, p. 24. 32 A. Camus, Il primo uomo, cit., p. 64. 33 O. Todd, op. cit., p. 25. 31

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te del mattino, per non vederlo tornare mai più”34. In fondo, è la storia ad aver privato Camus di suo padre, la storia che parla attraverso i cannoni, la guerra, la volontà di potenza degli imperi, quella storia di cui i poveri, gli umili, come la madre, non sanno niente e di cui lui invece imparerà a sapere molto. Nella notte del mondo che lei non può immaginare e nella storia che lei ignora, si è appena insediata una notte più buia35. Nell’universo di Camus il padre è morto e, forse, anche Dio è morto. Il padre rappresenta la stabilità del mondo. Un mondo senza padre è senza legge, dove è facile sentirsi degli stranieri. Ma il padre assente forse lo educa all’insufficienza. Certo, non gli insegna la preghiera, ma gli insegna qualcosa di irriducibile al proprio io. “Che cosa resta del padre?”, si è domandato il già citato Recalcati. C’è un’eredità anche senza testamento, c’è una funzione anche dentro l’assenza. La funzione paterna è quella dell’“incontro con il nostro limite più radicale”. Nella prospettiva psicoanalitica lacaniana (e Lacan frequentava Camus e Sartre), la proibizione dell’incesto è il fondamento della Legge e la matrice del desiderio. La legge è la condizione del desiderio, questo coincide con la “definizione di un impossibile”. Recalcati lo traduce oggi con l’impedire il godimento incestuoso e il congiungimento con la Cosa materna, promossi in maniera insopportabile dall’anti-Edipo della società dei consumi36. Il desiderio senza la legge diventa capriccio, una pseudoliberazione dalla legge, simmetrica e complementare all’identificazione paranoica alla causa della storia propria del totalitarismo. Il padre è legge, interdizione e ascesi, trauma e dono, chiamata e sublimazione, distacco e ritrovamento. Jacques/Albert, il protagonista de Il primo uomo, dice: “Ho cercato sin dall’inizio, ancora bramo, di scoprire da solo che cosa fosse bene e che cosa fosse male… mi rendo conto di aver bisogno di qualcuno che mi indichi la strada e mi dia biasimo e lode, non in nome del potere ma in quello dell’autorità, ho bisogno di un padre”37.

La madre, colei che non potrà mai leggerlo Il potente mito dell’infanzia si è trasformato spesso nello stereotipo del bambino. Questo, a sua volta, ha dato vita, oggi molto più di ieri, ad un culto dell’infanzia, ad una religione parentale che ha fatto sì che i bambini siano 34 A.

Camus, Il primo uomo, cit., p. 60. Ibidem. 36 M. Recalcati, Che cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit., p. 44. 37 A. Camus, Il primo uomo, cit., p. 34. 35

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oggi più spesso amati che rispettati, più spesso adulati che conosciuti. Addirittura si è passati ad un vero e proprio mutamento antropologico, per cui non sarebbe più la famiglia a fare un bambino, ma sarebbe, in “un allucinato sovrainvestimento dell’infanzia”38, il bambino a fare la famiglia. Non così per quel bambino che Camus è stato. L’infanzia rimanda alla famiglia; Camus ha una concezione mediterranea, algerina e spagnola, della famiglia. Della sua famiglia di origine e di quella che lui stesso si costruirà. E, dentro la famiglia da cui proviene, centrali sono le figure, anch’esse archetipiche, dei primi fondamentali educatori: il padre e la madre. Sì, prima dei suoi maestri vivi come J. Grenier, prima dei suoi grandi maestri morti, come Plotino e S. Agostino, Pascal e Nietzsche, ci sono il padre e la madre. Non a caso, il primo pensiero appuntato nei suoi Taccuini nel 1935 contiene già in nuce il tema dell’amore per la madre e per la sua infanzia povera: “Un certo numero di anni miseramente vissuti è sufficiente a costruire una sensibilità. In questo caso particolare quel curioso sentimento che il figlio prova nei confronti della madre costituisce tutta la sua sensibilità. Le manifestazioni di questa sensibilità nei campi più diversi sono sufficientemente giustificate dal ricordo latente, materiale, dell’infanzia (un vischio che si appiccica all’anima)”39. La madre, innanzitutto. Lei è per Camus una figura decisiva40: “Bruna, piccola, era stata una bambina cagionevole. Un po’ sorda, non sa scrivere e neanche leggere… la vedova Camus è adesso donna a ore in casa di privati”41. Egli vive e cresce tra il padre assente e la madre presente e lontana; cresce orfano tra l’amore della madre, l’autorità della nonna materna e l’amicizia dello zio semimuto dall’intelligenza limitata. Camus affermerà che tutto quello che scrive nasce dal desiderio di interpretare il silenzio di sua madre, calma, profonda, impenetrabile e silenziosa. Quell’ammirevole silenzio di una madre è la fonte dello sforzo di un uomo per ritrovare una giustizia o un amore che equilibri quel silenzio. “Vivevano in cinque: la nonna, il figlio minore, la figlia maggiore e i due bambini di quest’ultima. Il figlio era quasi muto; la figlia, malaticcia, pensava con fatica”42. Una madre “ritirata per la maggior parte del tempo nella regione notturna dell’esistenza… la madre di Camus non è possessiva, invadente o fusionale; 38

M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, cit. Camus, Taccuini 1935-1942, I, trad. it., Bompiani, Milano, 1992, p. 7. 40 “Risposta a una domanda sulle dieci parole che preferisco: il mondo, il dolore, la terra, la madre, gli uomini, il deserto, l’onore, la miseria, l’estate, il mare”, Taccuini 19511959, III, cit., p. 11. 41 O. Todd, op. cit., pp. 25-26. 42 Le citazioni sono tratte da Il rovescio e il diritto, cit., pp. 167 e 175. 39 A.

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è inaccessibile”43. Una madre capace di una muta rassegnazione e di un amore assoluto anche se uniforme, con sguardi capaci di esprimere la tenerezza, ma senza parole, senza che con lei ci si possa parlare e tantomeno che possa parlare a lui. “Avendo in cuore un grande slancio d’amore per quella madre che taceva sempre”. Un amore senza parole da parte di entrambi. “‘Mi vuol bene, mi vuol bene allora’ disse, scendendo la scala e, nello stesso tempo, capì di amarla perdutamente, di essersi augurato con tutte le sue forze di esserne amato e di averne sempre dubitato sino a quel momento”44. Eppure i legami che uniscono il piccolo Albert a sua madre sono immensi e profondissimi, “come se lei fosse l’immensa pietà del suo cuore”45. Queste ed altre espressioni di Camus mostrano anche riferimenti a momenti precisi della sua vita. Quando Camus, dopo il primo attacco della tubercolosi, va a vivere da suo zio e la madre lo andava a trovare “e rimaneva seduta senza parlare: tutti e due lottavano per trovare parole che non venivano mai dette. Il ragazzo venne a sapere che l’avevano vista piangere; la donna si rendeva conto della gravità della malattia del figlio, ma conservava la sua sorprendente indifferenza. “In realtà lui, Albert, condivideva questa indifferenza: il loro attaccamento reciproco andava ben oltre”46. In un abbozzo che ritorna più volte nei suoi primi saggi e romanzi, descrive la sua infanzia tra una nonna priva di bontà e una madre buona e dolce, ma che non sa né amare né accarezzare e quindi indifferente, anche se, più che di indifferenza, si può parlare di un carattere strano e quasi soprannaturale, che la fa appartenere ad un altro mondo47. Quel volto e quel silenzio sono la fonte del rapporto di Camus con il linguaggio, fatto di fede e di diffidenza, di gratitudine e di scetticismo, che Bernard-Henri Lévy, definisce l’une des signatures du camusime48. Egli conosce la tentazione del silenzio, che può essere più ricco della parola, come è stata decisiva la presenza silenziosa, essenziale e sacra della madre, che lui sente talvolta di tradire nelle sue parole. Queste devono essere sempre all’altezza di quel silenzio, e per questo motivo non saranno mai banali, mai gioia compiacente e superficiale del bello scrivere, mai semplici parole ma bisogno profondo di dire l’indicibile, espressione dal più profondo e dal più vero dell’essere. 43 A. Finkielkraut, “Qui sono i miei, i miei maestri, il mio lignaggio…”. Lettura del “primo uomo” di Albert Camus, in Un pensiero del cuore, trad. it., Adelphi, Milano, 2011, pp. 93-94, 175. 44 A. Camus, Il primo uomo, cit., p. 79. 45 A. Camus, Il rovescio e il diritto, cit., p. 184. 46 H. R. Lotman, op. cit., p. 51. 47 A. Camus, Appendice a La morte felice (a cura di J. Sarocchi), trad. it., Rizzoli, Milano, 1971, p. 162. 48 Lévy B.-H., Un philosophe artiste, “Le Monde”, Hors-Série, Paris ,2010, p. 10.

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Chiare ma sempre alle prese con il mistero della vita, una verità nascosta al di là del linguaggio. Il dialogo con il volto della madre, quel volto che lui tanto ama, quel viso fonte dell’amore, della parola, del silenzio. Nella già citata prospettiva lacaniana, “l’essere immersi nel linguaggio ci separa irreversibilmente dalla Natura”49. Il bambino, per parlare, deve rinunciare a succhiare dal seno materno. Ecco perché l’inconscio è fondamentalmente linguaggio. Il simbolo separa dalla madre ma permette anche di ritrovarla, al termine di una speciale ricerca linguistica. Per ritrovare la madre deve passare attraverso la poesia, quella splendida e nuda parola che rende unico lo stile di Camus. Allora lo stile non è mai ornamento ma sempre autenticità della parola, sorella dell’amore, della musica e del silenzio. Il linguaggio, la stessa scrittura di Camus sono ciò che lo separa dalla madre, ma sono anche la poesia che permette di riattingere la fonte dell’amore. Basta ricordare quello che le indagini magistrali di E. Erikson, di D. Winnicott, di D. Stern e, prima ancora, di M. Montessori ci hanno insegnato sulla relazione occhi ad occhi, tra la madre e il bambino, quel volto che è come il cielo, uno specchio dove domina la costellazione materna. Gli occhi del neonato, ritenuti per tanto tempo incapaci di vedere bene, sono programmati per mettere a fuoco un oggetto che sta fermo a venticinque centimetri di distanza, la distanza esatta dal volto della madre. Il bambino, mentre succhia il latte dal seno, stilla dagli occhi un alimento altrettanto indispensabile anche se immateriale. La luce degli occhi che dicono che sei un oggetto degno di essere amato, un oggetto che diventa soggetto per qualcuno che lo ama contraccambiato. E il bambino studia a lungo la bocca, la fonte della parola, che già conosce prima di nascere, e si incammina, così, verso il linguaggio: “Ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge”50. Amore e parola, sta qui l’amore per la parola che Camus deve ad una madre semimuta. Camus non scrive per la madre ma forse a causa della madre. Il suo silenzio illetterato è la fonte della sua scrittura. La “donna che non pensa”, che in casa, col suo amore “minerale”, “passa il tempo a seguirlo con gli occhi”. La donna che, alla notizia della morte prematura di Albert, come al solito, non piange e dice solo: “È troppo giovane”. La donna che, tornando a casa dal lavoro, e trovando per caso la casa vuota, fissa al buio e in silenzio una riga del pavimento. Il piccolo Albert la sorprende così. La madre con cui prova una strana solitudine a due, la madre a cui deve l’immensa pietà del suo cuore. In altri testi, tra le righe della finzione narrativa, sono riconoscibili i tratti della 55.

49

M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, cit., p.

50

D.W. Winnicott, Gioco e realtà, trad. it., Armando, Roma, 2006, p. 178.

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reale figura materna, come nella madre del dottor Rieux, l’eroe de La peste. Ci sono gli occhi di color marrone chiaro e il suo sguardo “in cui si leggeva tanta bontà sarebbe stato sempre più forte della peste”51. E poco oltre, “la sera in cui Rieux lo aspettava, il dottore stava appunto guardando sua madre, tranquillamente seduta in un angolo della sala da pranzo, su una sedia dove passava le sue giornate quando le cure della casa avevano finito di occuparla. Con le mani appoggiate sulle ginocchia, essa aspettava. Rieux non era nemmeno sicuro se aspettasse lui; tuttavia, qualcosa mutava nel volto di sua madre quando lui compariva. Tutto quello che una vita laboriosa vi aveva messo di mutismo sembrava allora animarsi. Poi ricadeva nel silenzio”52. Ed anche qui torna il tema di una intesa silenziosa. “Egli sapeva quello che sua madre pensava, e che lei lo amava in quel momento. Ma sapeva, inoltre, che non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai così forte da trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre amati in silenzio. E lei sarebbe morta – o lui – senza che, durante la loro vita, fossero potuti andar oltre nella confessione del loro affetto”53. E ancora, anche nelle ultime pagine inedite, parla di una donna che “aveva un viso dolce e regolare, capelli da spagnola ondulati, un nasino diritto e occhi marrone, belli e limpidi… quell’aria assente dolcemente distratta che si nota sempre in certi innocenti, ma che qui affiorava a tratti sulla bellezza dei lineamenti” e più avanti, quando riabbraccia la madre, descrive “quel piccolo incavo che aveva l’odore, troppo raro nella sua vita infantile, della tenerezza”54. Pur essendo povero, Camus non invidia mai. Questa lezione preziosa per il suo cuore gliel’ha data sua madre che egli definirà aristocratica, perché incapace di invidia. Scriverà, infatti: “Vicino a loro non ho sentito la povertà, l’indigenza o l’umiliazione. Perché non dirlo: ho sentito e sento ancora la mia nobiltà. Davanti a mia madre, sento di appartenere a una razza nobile: quella che non invidia niente”55. In questo risiede la vera nobiltà: non invidiare. Così come il vero spirito aristocratico è legato alla capacità di abnegazione, e anche in questo sua madre è stata esemplare. “Non esiste aristocrazia che non sia del sacrificio. L’aristocratico è prima di tutto colui che dà senza ricevere, che rende servizio”56. Una donna povera ma che lui non ha mai sentito parlar male di qualcuno. L’amore per sua madre gli sug51 A. Camus, La peste, trad. it., in Opere I, Introduzione di N. Chiaromonti, Bompiani, Milano, 1974, op. cit., p. 222. 52 Ivi, p. 226. 53 Ivi, p. 366. 54 A. Camus, Il primo uomo, cit., pp. 21 e 51. 55 A. Camus, Taccuini 1942-1951, vol. II, op. cit. trad. it., Bompiani, Milano, 1992, p. 276. 56 Ivi, p. 15.

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gerirà anche la leggendaria frase pronunciata a Stoccolma, dopo il conferimento del Nobel, durante un dibattito con gli universitari svedesi, quando, in risposta alla domanda di un giovane algerino sulla situazione in Algeria e il terrorismo, Camus risponderà: “Credo alla giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre”57. L’amore per la madre gli insegnerà ad essere più giusto della giustizia perché, come dirà Levinas, “l’amore deve sempre sorvegliare la giustizia”. Abbiamo detto che tratti della figura materna si ritrovano nella madre del dottor Rieux di La peste, fatta di “silenzio e ombra”. Qui compare l’immagine della donna che si affaccia al balcone o sta dietro i vetri della finestra quando scende la sera. Un’immagine che ritroviamo anche ne Il primo uomo. La madre silenziosa, la persona che lui amava di più al mondo, sia pure di un amore disperato. “Jaques adesso a quarant’anni, regnante su tante cose e tuttavia certo di esser inferiore ai più umili, e comunque nulla in confronto alla madre”58. Quella stessa madre di cui, in un appunto preparatorio sempre de Il primo uomo, dice “sua madre è Cristo”, di Gesù possiede il volto che replica alla sofferenza con uno sguardo pieno di dolcezza, testimone di un mondo che non è questo. In un momento in cui egli era famoso ma isolato, di fronte all’incrudelirsi della rivolta algerina, egli ritrova la sua coerente posizione umana pensando all’amore di sua madre. Fa tacere tutti i pensieri e ascolta la lezione profonda dell’amore di sua madre. Il padre e la madre, due figure bio-storiche, come l’uomo e la donna, come la vita e la morte59. Due archetipi che, attraverso la vicenda letteraria e biografica di Camus, si confermano, persino nella loro assenza – come nel caso del padre – come fondamentali per la formazione dell’uomo. La sua famiglia è la sua prima e più grande educatrice. Sono queste le persone che lui ama e che gli insegnano l’amore. Più avanti, nella sua vita ne incontrerà altre, ma il suo atteggiamento sarà sempre di gratitudine: “Le persone che ho amato sono state sempre migliori e più grandi di me”60.

Il mito del maestro e il maestro mitico Il bisogno di relazione educativa e umana, educativa perché umana, appartiene all’uomo in quanto tale. Da soli non ci si educa. Se è vero che 57

Citato in O. Todd, op. cit., p. 675. Camus, Il primo uomo, cit., p. 230. 59 Vedi R. Mazzetti, A. Mazzetti, Edipo e Anti-Edipo, Gentile, Roma, 1979. 60 Ivi, p. 161. 58 A.

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dalla caverna si esce uno alla volta, non si esce da soli. Si ha bisogno di un altro, ma non un altro qualsiasi. Ieri, oggi, sempre abbiamo bisogno di adulti, maestri, guide. L’incontro con un maestro è indispensabile anche se raro. L’accento è posto sull’eternità della funzione e, più che della funzione, direi del carisma. Camus è stato lo scrittore della solitudine, ma di una solitudine innamorata della vita; eppure in lui è chiara l’idea che “anche i più dotati hanno bisogno di un iniziatore. L’uomo che la vita mette sulla tua strada, quello che deve essere sempre amato e rispettato, anche se non è sua la responsabilità”61. Chi è un maestro? È colui che insegna cose che non sono scritte nei libri. Per questo non è sostituibile dai libri, neanche dai suoi libri, e tantomeno dall’ICT informatica. Un maestro è un padre che si sceglie. Coloro che vengono chiamati maestri devono la loro autorità meno all’istituzione che a se stessi. Il loro carisma è attinente meno alla loro funzione che alla loro persona. Non li si subisce, li si segue. Il maestro è l’uomo il cui insegnamento ci libera e ci permette di essere noi stessi. Un maestro è colui che insegna la sua specialità e qualche altra cosa che è la sicurezza dei gesti e del pensiero, l’onestà, il gusto, il desiderio di sapere, il coraggio di riflettere, l’attitudine a giudicare, l’orgoglio di essere un po’ più adulto e la gioia di disporre di se stessi. Il vero maestro è l’uomo che educa insegnando. Egli ti aiuta a conquistare uno stile, il contrassegno di quello che sei in quello che fai. Possedendo e mostrando il suo ti aiuta a conquistare il tuo. Il bravo maestro impartisce spiegazioni soddisfacenti, il grande maestro turba, trasmette inquietudine, invita a fare obiezioni. “Come riconoscerai un maestro?”; fa dire Platone ad un protagonista dei suoi dialoghi: “Quando te ne andrai sarai migliore di prima”. Il desiderio di essere migliore, di avere più coraggio, di essere più curioso, esplorativo, avventuroso, creativo, anche a costo di errori. Questo provoca il maestro. Nella sua lezione, oltre all’onestà intellettuale, c’è sempre qualcosa di più: forse concepire la conoscenza non soltanto come un problema del sapere ma della salvezza. Come insegna Edda Ducci, i grandi maestri sono primitivi e inattuali, non si gingillano con le cose senza peso, escono e fanno uscire dal quotidiano, non fermano quando li si incontra, né inducono a fare la loro strada, ma invogliano a cercare liberamente ognuno la propria e a percorrerla62. Questo fa sentire l’allievo come un erede. Siamo gli eredi di tutte le persone che ci hanno voluto bene, grazie alle quali siamo diventati quello che siamo. Per ereditare bisogna ricreare. L’eredità culturale è diversa da quella 61 A. 62

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Camus, Il primo uomo, cit., p. 31. E. Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma,1999, pp. 73-74.


dei beni materiali o del denaro. “Ciò che hai ereditato dai padri/riconquistalo, se vuoi possederlo davvero”, scrive Goethe. E Nietzsche sembra fargli eco quando afferma: “Si ripaga malamente un maestro rimanendo uguale a lui”. Siamo eredi, abbiamo un debito. Debito e legame con un maestro. In questo caso, però, sarebbe più giusto parlare di “resto”. Questo debito non è contrattuale, tale che possa essere sanato da un qualsiasi sacrificio, ma è appunto un “supplemento di infinito” che deve continuamente essere reso. Si tratta di un impegno in infinite reciprocità. Un maestro rimanda ad un altro maestro, un discepolo si fa a sua volta maestro. Questo infinito entrare per uscire unisce discepoli e maestri. La coscienza del resto rende possibile una trasmissione di memorie e saperi. Quello del maestro è, generalmente, un sapere incarnato, un sapere che prende corpo. L’inconfondibile fisionomia del maestro, il suo originale modo di affrontare i temi, persino i suoi gesti, sono tutt’uno con il suo sapere. Nell’epoca della smaterializzazione elettronica e della comunicazione mediata può apparire bizzarro ricordare che l’insegnamento tradizionale consiste nel rapporto con un maestro in cui s’incarna un sapere: ovvero nel rapporto con una persona che non insegna né quel che sa né quel che è, ma quello che incarna nella sua ricerca. La relazione umana è analogica più che digitale. “L’insegnamento esemplare è una messa in atto”63; esso si esplica nella parola ed è legato all’oralità, alla parola pronunciata che risuona nell’animo dell’allievo. L’ideale della verità vissuta è un ideale di oralità. Ma questo succede anche ai bravi insegnanti, come direbbe Pennac, quando scoprono il tempo specifico dell’apprendimento, quello che lui chiama il “presente d’incarnazione”64. Quando l’insegnante è assolutamente presente in classe con tutto se stesso e allora il sapere si fa presenza. E questo che apparirebbe ovvio è invece piuttosto raro anche nelle aule universitarie. Si è sempre da qualche altra parte, raramente si è presenti. A differenza del “disumano” – nel senso del non-umano – delle reti elettroniche, che separa sempre, nonostante l’uso massiccio dell’immagine, il sapere dei corpi, la relazione maestro-allievo è una relazione incarnata che ci lega reciprocamente. Educare significa toccare ciò che c’è di più vitale in un essere umano. È accendere un fuoco in anime nascenti, è contagiare. Un maestro libera creando legami. “Chi è un professore?” – si chiedeva con evidente ironia Schiller – “Una persona che sa tutto e nient’altro”. Certo, ciò che genera la venerazione è il sapere e la competenza. Ma la vera sapienza è quella che 63 64

G. Steiner, La lezione dei maestri, trad. it., Garzanti, Milano, 2004, p. 12. D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008.

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si coniuga con la saggezza. Questa non consiste nell’avere una risposta per ogni domanda, come succede ai sofisti di tutti i tempi. Contro di essi spesso il maestro autentico afferma che non c’è alcuna dottrina da trasmettere. Attraverso la dottrina c’è un esperire interiore, che è il solo modo di essere per condurre altri ad un esperire interiore. Quello che E. Ducci chiamava lo spazio interiore e la densità ontologica del maestro65. Il maestro, quello che P. Sloterdijk chiama, nel suo gergo originale, “l’allenatore nel campo dello slancio verso l’impossibile”66. È questo un discorso esagerato che mitizza una figura che, al contrario, la realtà scopre troppe volte inadeguata? Siamo così sospettosi verso ogni credo che dobbiamo sollevare il dubbio e qualcuno potrebbe accusare di mitizzazione e di chi sa quale doppio gioco dell’inconscio questa esaltazione del maestro. Sto descrivendo una figura irreale e perciò mitica? Il mito è pedagogico e strutturalmente educativo perché propone delle figure esemplari. Il mito è un modello esemplare67, il mito racconta una storia sacra, avvenuta in un tempo ab initio, in illo tempore, e raccontare una storia sacra significa rivelare un mistero. Al centro di questo mistero c’è il sacro. Imitare gli dèi nei gesti significa dar corpo e vita ad un rito. Il rito comporta una iniziazione e, generalmente, un passaggio. Questa iniziazione non può avvenire in solitudine, ecco la verità di questa grande ed antica struttura antropologica. Il rito comporta un apprendimento che deve avvenire al cospetto di un maestro, qualcuno che ci indichi come fare e che cosa cambiare in noi stessi. Esso non propone soltanto idee ma esperienze vissute. Noi moderni o tardo moderni “possiamo offrire introduzioni in questo o quell’ambito del sapere, ma non ammettiamo iniziazioni”68. Perché l’iniziazione è legata ad un sapere sacrale che non è affatto pubblico e quindi in qualche maniera controllabile. Per la moderna cultura didattica l’iniziazione è inaccettabile. Come osserva Eliade, qualsiasi esistenza cosmica è predestinata al passaggio. Una volta nato, l’uomo è incompleto, deve nascere una seconda volta, spiritualmente. L’uomo primitivo ha cercato di vincere la morte trasformandola in un rito di passaggio e la seconda nascita ha il potere di una generazione spirituale. A questo servono gli innumerevoli riti di passaggio e le iniziazioni successive che, anche in un’età secolare, chiedono di essere assolti. L’iniziato è colui che conosce i misteri. Egli deve affrontare la 65

Vedi E. Ducci, L’uomo umano. Anicia, Roma, 2008. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, trad. it., R. Cortina, Milano, 2010, p. 351. 67 M. Eliade, Il sacro e il profano, trad. it., Bollati-Boringhieri, Torino, 1984. 68 P. Sloterdijk, op. cit., p. 339. 66

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prova e il passaggio attraverso la “porta stretta”, ovvero attraversare l’esperienza del morire e del rinascere, attraverso una morte simbolica. Il rito era un’esperienza di trasformazione collettiva. La formazione individuale è quella tipica della modernizzazione, che ha sostituito la ritualizzazione antica con l’interiorizzazione moderna. Nella relazione maestro-allievo l’elemento dell’iniziazione riattinge aspetti forse arcaici ma nel senso di eterni e costitutivi dell’umano. Non c’è apprendimento senza cambiamento. Apprendere significa nascere. Per questo l’autentico apprendimento-insegnamento è sempre trasformazione. L’apprendimento iniziatico, tipico invece della sapienza di altre civiltà come quella indiana, non ha a che fare con la qualificazione ma con la trasformazione e la rinascita. Eppure richiama qualcosa che permane in ogni forma di relazione educativa autentica e potente. La relazione educativa possiede comunque, pena la sua inefficacia, un indistruttibile elemento rituale. Ma oggi una società senza riti di apprendimento, senza discepoli e senza maestri, è una società che collettivizza dei non-saperi e li cannibalizza, in maniera sempre più efferata. Molti comportamenti giovanili considerati patologici possono essere visti anche come sintomi di una mancata tensione iniziatica, “la droga che vuole soddisfare un bisogno di iniziazione insoddisfatto, esperienza del morire e del rinascere”69. Senza un senso di gratitudine verso energie più grandi della nostra non ci sono nuovi significati. L’educazione, nel senso verticale in cui cerchiamo di pensarla, dovrebbe cercare di trovare un potere verso il quale possiamo provare gratitudine: il potere di adulti e maestri saggi e sapienti richiede il rischio dell’esposizione alla grandezza. Che cosa ha da dirci Camus, il suo pensiero e la sua biografia, a tale proposito? Per rispondere abbiamo bisogno di rifarci ad una fenomenologia della relazione maestro-allievo quale propone il già citato G. Steiner. Egli riduce a tre i principali scenari o strutture di relazione che possono caratterizzare la pur infinita gamma in cui si attua la relazione educativa. La prima è quella in cui i maestri hanno distrutto i loro discepoli, sia psicologicamente che fisicamente, spento spiriti, consumato speranze, sfruttato dipendenze. In questo caso si tratta di pedagoghi distruttori di anime, oppure di maestri che ripudiano i loro allievi. La seconda alternativa è costituta da allievi che hanno rovesciato, tradito e rovinato i propri maestri. Allievi che sentono che devono abbandonare il maestro per diventare se stessi. Allievi che abbandonano il proprio maestro perché sentono di averlo superato. 69

U. Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 94.

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La terza possibilità è rappresentata dallo scambio, di un eros e di una reciproca fiducia: interazione, osmosi, amore, il maestro apprende dal discepolo mentre insegna, l’intensità del dialogo genera amicizia nel più alto senso della parola. Il dono diventa reciproco come nell’amore: “Io sono più completamente io quando sono te”. L’incontro riempie una vita con un’amicizia eterna e una parentela dell’anima.

L’incontro: padri e maestri La relazione di Camus con i suoi maestri è dell’ultima specie. Si tratta di veri e propri incontri, nel senso di qualcosa che sfugge ad ogni programmazione, che non può essere frutto di una pedagogia strutturata, di un addestramento tecnico, né tanto meno di una semplice disciplina. Si tratta di autentici incontri educativi nel senso che a questa parola hanno dato i filosofi dialogisti e, in Italia, la filosofia dell’educazione come è stata sviluppata da E. Ducci. Scrive Ebner: “C’è qualcosa di meraviglioso nell’incontro degli uomini nella vita; l’incontro in cui gli uomini non passano semplicemente gli uni accanto agli altri o fanno soltanto un breve tratto di strada insieme non è mai un puro caso. Possono venire in mente buoni pensieri, ai quali non si sarebbe mai pensato; si possono compiere azioni, e non le peggiori, che non si comprenderebbero mai se non si fosse incontrata una data persona, sperimentando la sua amicizia e il suo amore”70. La vita di Camus, senza l’incontro decisivo con i suoi due maestri, non sarebbe stata la stessa, né sul piano strettamente biografico, né, a maggior ragione, sul piano della produzione letteraria. Il suo essere scrittore impareggiabile e filosofo originale si associa in lui ad una vita esemplare, per cui la sua biografia è altrettanto importante della sua opera. Certo, i primi maestri di Camus, come abbiamo appena visto, sono stati sua madre e suo padre: la prima con il suo amore silenzioso, il secondo con l’ancor più paradossale assenza. La madre e il padre sono figure bio-storiche, sono figure archetipiche, e pertanto fondamentali nella formazione dell’uomo. Abbiamo già scritto che “un maestro è un padre che si sceglie”. I genitori uno se li ritrova, appartengono in un certo senso al destino. Un maestro viene scelto, anch’egli si trova sulla nostra strada per caso, ma nel caso si può scegliere e trovare un senso. Di fronte a quella che non possiamo più neanche definire crisi – parola che accompagna ogni discorso e non spiega nulla – della scuola e dell’edu70

Citato in E. Ducci, La parola nell’uomo. Spunti per una filosofia dell’educazione dalla pneumatologia di Ferdinand Ebner, La Scuola, Brescia, 1983.

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cazione. Di fronte ad uno stato dell’istituzione scolastica nei confronti del quale il vaso delle lamentele e dell’indignazione si è colmato, non è però inutile domandarsi quanti studenti amano i loro docenti e quanti docenti amano i loro studenti. La domanda è diventata oggi stranamente insolita, ma è a questa domanda che la vicenda della formazione del giovane Albert Camus può aiutarci a dare una risposta. Il maestro è sempre un maestro di desiderio: “La trasmissione del desiderio, infatti, non può che avvenire attraverso un incontro, dunque attraverso un evento che ha il carattere della sorpresa, dell’inatteso, del fuori programma”71. Camus ha incontrato almeno un maestro e un professore che ha amato e da cui è stato amato e che hanno indicato una strada alla sua capacità di amare e creare. Amare, il verbo non è fuori luogo né tantomeno equivoco. È un verbo semplice e potente che intesse la relazione educativa nelle sue più intime fibre. Quale lezione ci viene da questa storia in un momento in cui assistiamo al “silenzio dei maestri”, alla “loro improvvisa (e nuova) irrilevanza”72? Il primo maestro di Camus è il suo insegnante di scuola elementare, quello che lui, diventato premio Nobel per la letteratura nel 1957, chiamerà ancora “Monsieur” Louis Germain, il “signor” Louis Germain, il signor maestro. Un insegnante è la versione secolarizzata e democratizzata di quello che è stato il maestro. L’insegnante e il professore come figure storiche spostano l’accento dalla persona dell’insegnante al campo dell’apprendimento, per certi versi spersonalizzano l’esercizio ascetico. Un professore originale, come osserva Sloterdijk, è una contraddizione in termini73. Eppure il maestro Germain possiede lo spessore di un autentico educatore. “Germain non gli ha certo insegnato tutto, ma ha avuto il grande merito di riconoscere in lui un ragazzo eccezionale e di fare lo sforzo, notevole, se consideriamo l’epoca e il luogo, di prepararlo ad una carriera”74. Ne Il primo uomo Camus parla esplicitamente di lui, anzi, da un certo punto in avanti nel manoscritto inedito e incompleto, il nome di finzione, di signor Bernard, torna ad essere quello vero di Germain. Egli è la persona autrice “dell’unico gesto paterno, insieme meditato e decisivo, che fosse intervenuto nella sua vita infantile. Perché il signor Bernard, suo maestro nel corso per la licenza media, ha fatto valere in un certo momento tutto il suo peso di uomo per modificare il destino di questo ragazzo che gli è stato affidato, e di fatto è riuscito a 71

M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, p. 20. V. Giacopini, L’illusione e l’assedio, «Gli asini. Educazione e intervento sociale», 1, luglio-agosto 2010, p. 16. 73 P. Sloterdijk, op. cit., p. 361. 74 H.R. Lotman, op. cit., p. 36. 72

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modificarlo”75. Se “la miseria è una fortezza senza un ponte levatoio”, il suo maestro di scuola elementare apre un varco nelle mura di questa fortezza, interviene sulla nonna che comanda in casa di Albert, gli impartisce lezioni private e gli permette di partecipare all’esame di ammissione al liceo. È lui a lanciarlo nel mondo, “assumendosi da solo la responsabilità di staccarlo dalle sue radici perché andasse a fare scoperte ancora più grandi”. Il maestro-padre sogna per il piccolo Albert un sogno da premio Nobel. A lui Camus, uomo giusto che non dimentica, dedicherà il discorso che pronuncerà di fronte al Re di Svezia nel ricevere la massima onorificenza mondiale, il Nobel per la letteratura, perché senza di lui non avrebbe mai continuato gli studi che lo avrebbero portato poi così lontano. Camus è un ragazzo di strada, non parla neanche il francese ma un dialetto locale, per lui il francese sarà una conquista come tutto il resto. Che cosa sono i libri, la cultura, la stessa scuola per un bambino povero figlio di analfabeti? Che cosa abbiano rappresentato scuola e libri per dei ragazzi poveri è un’esperienza comune a molti intellettuali che provengono dal popolo. La voce del libro76 è quella di un compagno misterioso e fantastico che salva. La scuola è una forma di evasione, la cultura un modo per uscire dal mutismo e per pensare la vita come un viaggio di scoperta. In questo il suo maestro di scuola elementare avrà un ruolo decisivo. Sarà lui che riconoscerà per primo l’intelligenza del giovane scolaro, che lo trarrà fuori da un ambiente intellettualmente e materialmente povero, che vincerà le resistenze della nonna preparandolo alla prosecuzione degli studi anche con lezioni al di fuori dell’orario scolastico. Gli aprirà per primo il mondo della cultura, il mondo dei libri, una terra immensa dove non ci si sentiva più soli. Venendo da un mondo analfabeta e senza libri il mondo della cultura genererà in lui un grande rispetto che non ha nulla in comune con la sottomissione. Ne Il primo uomo – un vero e proprio romanzo di formazione che racconta come lui è diventato quello che è77 – scrive del legame speciale che si è andato creando tra il piccolo Albert e il suo insegnante che gli legge in classe La croce di legno, che tratta della prima guerra mondiale, del corpo degli zuavi, lo stesso in cui erano arruolati sia suo padre che il suo maestro, che vanno all’assalto. Quando il maestro sollevava gli occhi dal libro vedeva il suo allievo che piangeva in silenzio. E ai suoi compagni, che chiamano Albert il “cocco del maestro”, egli replica duramente e una volta e per sempre, nel silenzio più totale della classe, dice: 75 A.

Camus, Il primo uomo, cit., p. 115. E. Raimondi, La voce dei libri, Il Mulino, Bologna, 2012. 77 Scrive a Grenier nel 1955: «Poi, tenterò di scrivere un romanzo “diretto”, intendo dire che non sia, come i precedenti, una sorta di mito organizzato. Si tratterà di un’“educazione”, o l’equivalente. A 42 anni, si può provare». 76

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“Io, che ho fatto la guerra con i loro padri, sono ancora vivo. E cerco di sostituire almeno qui i miei compagni morti”78. E quando il giovane Albert riesce a superare l’esame di ammissione e il suo insegnante lo accompagna a casa per l’ultima volta, dal cuore dello scrittore sgorga una pagina stupenda di ricordi, “se ne andò, e Jaques rimase solo, smarrito fra tutte quelle donne; poi si precipitò alla finestra, per guardare il suo maestro che lo salutava ancora una volta e lo lasciava ormai solo, e anziché la gioia del successo, sentì un immenso dolore infantile che gli stringeva il cuore, come se sapesse in anticipo che quel successo lo sradicava dal mondo caldo e innocente dei poveri, un mondo chiuso in se stesso come un’isola nella società, ma nel quale la miseria sostituisce la famiglia e la solidarietà, per gettarlo in un mondo sconosciuto, che non era più il suo, e d’ora in avanti avrebbe dovuto imparare, capire senza aiuto, diventare uomo, insomma, senza l’appoggio dell’unico uomo che mai gli avesse dato una mano, crescer insomma e allevarsi da solo, a carissimo prezzo”79. Quell’uomo ha fatto le veci del padre, gli è stato accanto per un tratto di strada e poi gli ha permesso di guardarsi indietro e riannodare i legami con il padre sconosciuto. È ancora proponibile e persino pensabile una figura e un ruolo di questo genere? Mutate le forme, credo proprio di sì. Non dovremmo infatti ignorare che noi siamo antichi, che anche se usiamo strumenti tecnicamente molto sofisticati le modalità di apprendimento e di formazione si sono costruite molto tempo fa. Si può trattare, quella del maestro e della funzione magistrale, come una costante antropologica? Sì, perché anche nell’era dell’e-learning, l’apprendimento non è un fatto elettronico, come vorrebbe invece ingannevolmente il neologismo formativo, ma psichico e persino spirituale, in ogni caso umano e non tecnico. Non è un caso che anche Finkielkraut, proprio nelle pagine dedicate a Camus, proponga una riflessione simile: “La civiltà dell’immagine, che nel 1957 moveva i primi passi, è oggi nella piena maturità; ha disertato le strade rendendo obsoleto il signor Germain, che, da intermediario, è divenuto ostacolo. Prima indicava la via; ora impedisce la vista… nel nuovo sistema dell’informazione e della comunicazione su scala planetaria, non c’è più posto per una figura che funga da tramite o interceda presso l’universale… I suoi alunni non hanno più sete; sono saturi di immagini shock, satolli di surrogati e fantasmi”80, continua ancora Finkielkraut. La stessa ricchezza e povertà hanno oggi sensi diversi e contraddittori. “L’indigenza abita sotto la stessa insegna visibile e virtuale dell’opulenza. Poveri o facoltosi tutti consumano programmi… 78 A.

Camus, Il primo uomo, cit., p. 128. Ivi, p. 147. 80 A. Finkielkraut, Un cuore intelligente, trad. it., Adelphi, Milano, 2011, p. 103. 79

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l’essere-nel-mondo della vecchia umanità ha ceduto inevitabilmente il passo a un essere-per-lo-schermo, svincolato dalla gravità, in grado di superare ogni distanza, imbottito di impressioni sensazionali, collegato a tutti i luoghi del mondo, ma separato dalla materia delle cose”81. Ma torniamo a Germain. Ancora al liceo confronta i suoi nuovi professori con il suo antico insegnante elementare: “Un maestro, da questo punto di vista, è più simile a un padre, ne occupa quasi del tutto il posto, è inevitabile quanto lui e altrettanto necessario… al liceo, invece, i professori erano come degli zii, fra i quali si ha il diritto di scegliere”82. Tra questi “zii” egli ne sceglie uno. Il secondo maestro di Camus è il raffinato scrittore e filosofo Jean Grenier, il suo insegnante di filosofia al Liceo di Algeri, prima e all’Università della stessa città, poi. È su questa straordinaria relazione educativa che si vuole insistere qui. Quando si conoscono, Camus ha diciassette anni, Grenier trentadue. Egli nota il suo allievo brillante e indisciplinato e, dopo qualche mese, non vedendolo più a scuola, si informa e, saputo che è malato, lo va a trovare assieme ad un compagno. “Nei licei francesi capita di rado che professori e studenti entrino in confidenza”83, riferisce Todd. Ma questo non vale per Camus e Grenier. Grenier ricorderà così il suo primo incontro, nella povera casa di periferia. “Ricorderò sempre l’incontro che ebbi con Albert Camus quando lui aveva ancora solo diciassette anni…In una stanza vidi seduto Albert Camus che mi disse appena buon giorno e rispose a monosillabi alle mie domande sulla sua salute”84. Nel ’42, a distanza di tanto tempo, ripensando a quel loro primo incontro, Camus gli scrive in una lettera: “Sì, mi ricordo della Sua visita a Belcourt. Ancora oggi posso rammentarne tutti i dettagli. Forse, parlando in assoluto, Lei rappresentava la Società. Ma Lei era venuto e da quel giorno ho sentito di non essere così povero come pensavo”85. Anche se la loro sarà una “confidenza senza familiarità” – si daranno del lei anche in futuro – sarà l’inizio di una amicizia per la vita. E per Camus coltivare l’amicizia è un’esperienza preziosa ed esaltante. “Dimostrò fedeltà agli amici anche con gesti insoliti per uno così misurato come lui, quale dedicare vari libri in epoche diverse a una stessa persona (il suo maestro Jean Grenier)”86. “Che cosa ha imparato da me? – si domanderà in un doloroso ricordo il maestro a qualche anno dalla morte prematura del suo allievo – Ha 81

Ibidem. Ivi, p. 183. 83 O. Todd, op. cit., p. 48. 84 J. Grenier, Albert Camus. Ricordi, cit., p. 17. 85 Ivi, p. 23. 86 M. Vargas Llosa, Tra Sartre e Camus, trad. it. Libri Scheiwiller, Milano, 2010, p. 95. 82

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vissuto vicino a un uomo incaricato di educarlo, fra molti altri, ma che non ha fatto altro che comunicargli involontariamente i suoi sogni. Scrivere è mettere ordine nelle proprie ossessioni”87. E ancora: “Se gli ho comunicato qualcosa, è stato come trasmettere una malattia – o come si contagia una passione. Ma di questa malattia, di questa passione, aveva già tutti i germi. Forse non hanno fatto altro che maturare un po’ più rapidamente”88. Il maestro riconosce di aver rappresentato un modello, almeno all’inizio, non nel senso scultoreo e magistrale del termine, ma nel più modesto ma efficace significato di occasione: “Quanti semi sospesi nel nostro spirito hanno atteso una circostanza favorevole per germogliare! E ancora non si trattava che di un’occasione”89. A venti anni Camus leggerà uno dei libri di Grenier, Isole, pubblicato nel 1933, dopo di che si deciderà a diventare uno scrittore. Da parte sua, Camus, diventato uno degli intellettuali più grandi ed in vista, molto più famoso del suo maestro, scriverà una Prefazione nel 1958, poco prima della sua morte, ad una nuova edizione di Isole, nella quale espliciterà il loro legame, ma non vedrà la nuova edizione pubblicata perché morirà prima, lasciando al suo maestro questo splendido dono postumo che la morte, come accade anche ad altri aspetti, rende definitivo. Dal punto di vista pedagogico Camus individua una delle forze fondamentali che alimentano la relazione educativa, ovvero l’ammirazione. Dal punto di vista pedagogico, l’ammirazione è forse la più potente e nobile molla motivazionale per ogni apprendimento che abbia come scopo la più alta e profonda formazione umana. Ammirare è eguagliare. L’ammirazione è poi un antidoto contro l’invidia che tutto diminuisce e distrugge; si rifiuta l’ammirazione perché in essa c’è la confessione che qualcuno sia migliore di noi. L’ammirazione è “un sentimento di allegria che nasce alla vista di un’eccellenza morale piena e che suscita nello spettatore il desiderio di emularla”90. L’ammirazione si carica di stupore e innesca un apprendimento che provoca la trasformazione della persona. Non opporre nessuna resistenza all’ammirazione trasforma la povertà in ricchezza, ti mette in condizione di poter imparare da tutti, qualcosa da ognuno. “Le due seti che non si possono ingannare per molto tempo senza che l’essere inaridisca: amare, cioè, e ammirare. Perché non essere amati è solo sfortuna: non amare è sventura. Oggi moriamo tutti di questa sventura”91. Commentando 87

J. Grenier, Albert Camus. Ricordi, cit., p. 25. Ivi, p. 98. 89 Ivi, p. 27. 90 Arteta citato in F. La Porta, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, Bollati-Boringhieri, Torino, 2007, p. 14. 91 A. Camus, L’estate e altri saggi solari…, cit., p. 310. 88

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ne L’uomo in rivolta il pensiero dei nichilisti russi, che pure ama ma di cui vede le contraddizioni disumane e distruttive, dice che essi, separando la rivoluzione dall’amore e dall’amicizia, non facevano che applicare fino alle estreme conseguenze la filosofia di Hegel senza però prendere in considerazione il fatto che, nella dialettica della coscienza, il riconoscimento può avvenire nell’amore, così come nell’ammirazione. E qui ricompare il tema del rapporto tra maestro e allievo che smentisce la dialettica servo-padrone. La relazione educativa per Camus è il contrario della dialettica servo-padrone, possiamo dire una via alternativa alle pur straordinarie implicazioni pedagogiche che il filosofo tedesco ci ha fatto intravedere nella relazione tra due coscienze. Non a caso dirà che “la Fenomenologia dello spirito ha anche carattere pedagogico. Al punto di sutura tra due secoli, descrive, nelle sue opere, l’educazione della coscienza in cammino verso la verità assoluta. È un Emile metafisico”92. Al mondo non c’è solo la terribile lotta per il riconoscimento e per la libertà che contrappone da sempre padroni e schiavi, compromettendo in realtà la loro umanizzazione. Un’altra via è possibile e si basa non sulla lotta ma sull’ammirazione. “Al signore si sostituisce allora il maestro, colui che forma senza distruggere”93. Ammirazione. Essa innesca la motivazione ad eguagliare e si sottrae così ad ogni risentimento e concorrenza, così come ad ogni altra forma di dialettica servitù-padronanza. L’invidia e il risentimento, ben più della semplice gelosia, sono sentimenti distruttivi che negano ogni possibilità di raggiungimento del bene invidiato. “Proprio perché non posso averlo io non deve averlo nessuno”, pensa l’invidioso. Ed è cosa diversa la gelosia, per cui il geloso pensa fra sé: “Potessi averlo”. È vero che l’ammirazione preferisce ignorare che per mobilitare l’istinto mimetico verso il modello bisogna ammettere che ciò che si loda non sia del tutto assente dentro di sé, ovvero l’incredibile viene trasformato in ciò che è esemplare, ciò che è impossibile da imitare diventa invece l’incitamento all’imitazione più intensa. Se questo accade ed è vero lo è su di un piano di fenomeni di massa. Nel caso di Camus abbiamo invece proprio l’ammirazione che guida la creazione originale. Forse Camus non voleva essere come i suoi maestri ma li amava e li ammirava e questo amore e questa ammirazione corrisposti lo hanno aiutato a diventare quello che è diventato. L’invidia si collega all’ingratitudine, l’ammirazione invece fa coppia con la gratitudine. “Come artista, per esempio, ho cominciato a vivere ammirando – confesserà un anno prima della morte in un momento di bilancio ma anche di grande ripresa della creatività –, il che, in certo senso, 92 A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, vol. II, trad. it., Bompiani, Milano, 1963, p. 476, corsivo dell’autore. 93 Ivi, p. 504.

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è il paradiso terrestre. Anche le mie passioni di uomo non sono mai state ‘contro’. La povertà, come l’ho vissuta io, non mi ha dunque insegnato il risentimento, ma una certa fedeltà e la tenacia silenziosa”94. Come riferisce Todd, “Camus ama amare, i film come i libri”95. Il suo desiderio di onestà e purezza sono più forti dell’invidia. Impediscono all’invidia di nascondersi, come invece accade spesso, sotto mentite spoglie. Non potendo confessarsi, essendo un sentimento antisociale e criticato in tutte le culture e condannato in tutte le etiche, l’invidia tende a mascherarsi, a mimetizzarsi assumendo la forma di richiesta di eguaglianza. È quella forma particolare che Eraclito ed Ortega hanno individuato: “Gli efesini esiliarono Ermodoro con questa motivazione: era il migliore di tutti”. L’ammirazione genera una forma singolare di obbedienza orgogliosa e di sottomissione entusiasta, che provoca una forma singolare di liberazione. Così scrive lucidamente Camus in una pagina di altissima riflessione pedagogica: “Ma la parola maestro ha anche un altro senso che la oppone soltanto al discepolo, in una relazione di rispetto e di gratitudine. Non si tratta più allora, di una lotta delle coscienze, ma di un dialogo che, una volta avviato, non si estingue, e che può far piene alcune vite. Questo lungo confronto non comporta servitù né obbedienza, ma soltanto l’imitazione, nel senso spirituale del termine. Alla fine, il maestro gioisce quando l’allievo lo abbandona, distinguendosi da lui, mentre quest’ultimo custodirà sempre la nostalgia del tempo in cui riceveva tutto, sapendo di non poter restituire nulla. Lo spirito crea così lo spirito, attraverso le generazioni, e la storia degli uomini, per fortuna, si costruisce sull’ammirazione oltre che sull’odio”96. È sicuramente pensando ai suoi maestri viventi, ma facendo riferimento al suo grande maestro morto, Nietzsche, che egli dirà in uno dei due Discorsi di Svezia: “Quella gioia suprema dell’intelligenza il cui nome è ‘ammirazione’”97. Camus e Grenier si vorranno bene per tutta la vita. Camus non cesserà mai di esprimergli il suo debito, fino alla fine. Grenier non farà altro che schernirsi, dicendo che non gli doveva niente e che questa sopravvalutazione del debito nei suoi confronti era dovuta solo alla giovane età di Camus al momento del loro incontro. Si scambieranno un enorme carteggio per trent’anni in una relazione ininterrotta, che neanche la morte prematura di Camus potrà cancellare nel maestro che gli sopravvive. L’ultima lettera è 94 A.

Camus, Prefazione a Il rovescio e il diritto, cit., p. 161. O. Todd, op. cit., p. 233. 96 A. Camus, Prefazione (1959), a J. Grenier, Isole, trad. it., Mesogea, Messina, 2003, p. 26. 97 A. Camus, Opere, vol. II, cit., p. 941. 95

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stata scritta tre giorni prima dell’incidente in cui Camus perderà la vita. Sin dall’inizio Camus si rivolge a Grenier per sottoporgli i quesiti decisivi della sua vita: “Prima di tutto grazie. La Sua voce è la sola oggi che posso ascoltare con profitto. Quello che Lei mi dice mi scombussola sempre per qualche ora. Ma mi costringe a riflettere e a capire. Dopo, non sento altro se non la mia riconoscenza e la mia amicizia per Lei… Pensa sinceramente che dovrei continuare a scrivere?”, gli scrive dopo aver terminato La morte felice e dopo aver registrato il giudizio non completamente positivo del suo maestro. E non si tratta di un quesito da poco per il giovane scrittore, perché la scrittura è l’unica cosa pura della sua non facile esistenza. In quella domanda egli affida al maestro né più né meno che la sua vita e la possibilità futura di un’esistenza e il suo accordo con il lavoro. I giudizi di Grenier saranno a volte anche troppo severi, tanto da suggerire a Camus queste parole: “La ringrazio ancora per la Sua lettera. Sì, Lei è sempre stato severo con quello che facevo. Ma non mi sono mai augurato che fosse altrimenti. Lei mi ha aiutato e non posso dire questo di molti uomini. Quest’ultimo colpo mi ha lasciato un po’ malinconico. Ho posto grandi speranze nel mio lavoro attuale. Su cosa dunque porrei delle speranze?”. Già famoso, scrive a Grenier alla fine del 1946 a proposito de La peste: “Per me l’importante sarebbe di avere il Suo parere sul libro stesso. Ma non posso spedire il manoscritto così lontano, per la prima volta un mio libro sta per essere pubblicato senza che Lei lo abbia letto. E io non valgo nulla senza la Sua approvazione”. E ancora nel 1948: “Talvolta mi sembra che non abbia più niente da dire a nessuno, salvo a Lei (e a mia madre, con la quale non parlo mai, beninteso). E in tutto quello che mi propongo di fare sarei ben povero se non potessi fare riferimento a Lei. Mi scriva malgrado i miei silenzi”. E Grenier gli scrive così nel 1951: “In fretta Lei ha superato la superbia dell’adolescenza, (e) allora ha raggiunto la vera grandezza. Ha ricevuto dei grandi doni, ha incontrato dei grandi ostacoli, e si è mostrato degno di quei doni e di quegli ostacoli. È ancor più raro che averli ricevuti e incontrati”. E ancora Camus in una lettera del 1951: “Mi permetta di dirLe ancora una cosa per me importante: non ho avuto un’infanzia infelice, la reale povertà in cui ho vissuto non è mai stata per me veramente penosa. Non ho mai udito pianti né rivendicazioni, intorno a me, la nostra vita mi sembrava naturale. Se è vero che in seguito ho appreso, al liceo per esempio, che le fortune potevano essere disuguali, Lei sa anche che in Algeria le classi sociali non sono così nette come qui (sarebbe stato diverso se fossi stato arabo, naturalmente). Successivamente ho avuto, e Lei non lo ignora, una vita difficile. Ma non rimpiango nulla. Le mie fortune hanno superato le mie sfortune. E tra quelle opportunità, perché questo era per uno come me, annovero quella di averLa incontrata e di 40


aver saputo custodire la Sua amicizia, malgrado ciò che ero” 98. Il maestro è sempre più un amico, come scrive nel 1954: “Per il resto, non avrei da dirLe nulla che Lei non sappia già. Ma ci si chiarisce a se stessi chiarendosi all’amico, Lei lo sa. Alla fine”. E poi nel 1955: “Non mi piace più leggere, credo, come prima. Ho bisogno di amicizia, anche nei libri. È perché non leggo quasi più ciò che oggi si scrive e rimpiango sempre tanto che le Sue pubblicazioni siano rare”. In una di queste lettere, nel 1951, Camus scrive: “Caro G., caro amico, ho bisogno in questo momento di ringraziarLa? Non si ringraziano quelli che ti hanno allevato, e guidato. Si chiede loro di continuare a essere quello che sono. Mi conservi la Sua amicizia, essa è essenziale alla mia vita, e ai miei sforzi. E non dubiti del Suo ombroso allievo, né del Suo amico fidato”. “Grenier è stato ed è rimasto il mio maestro”99. Camus riflette sulla funzione educativa che ha avuto su di lui il suo maestro. Riconosce che ha bisogno di essere disciplinato, riconosce di aver trovato il suo stile di scrittura anche a contatto con quello di Grenier. L’incontro con un maestro non vale solo per il genio che Camus è stato. Credo che valga per ogni persona, per ogni bambino o giovane; esso lascia il segno ancora oggi. Dentro e fuori la scuola, dentro e fuori l’università, dentro e fuori i laboratori. Forse è questo uno degli aspetti misteriosi eppure evidenti dell’insegnare l’ininsegnabile, che caratterizza il contatto da anima ad anima. Non si tratta solo di sapere e di esperienze che si scambiano e trasmettono, né di abilità o competenze che si aiutano a maturare. Quello che si fa avanti è un’idea di competenza più ampia. In tempi recenti non è la macchina ad aver perfezionato le proprie prestazioni al punto tale da assomigliare all’uomo, ma è il modello con cui rappresentiamo l’uomo a essere sempre più simile a quello della macchina. L’uomo post-umano è definito da una lista di competenze. La competenza è sempre un’entità che possiamo modellizzare. L’opposto dell’uomo-macchina è l’uomo di qualità che è intimamente legato a un tutto che lo completa e lo sostiene. Di questo universo fa parte anche il maestro che crede nel sapere e nel suo valore per la vita. Come ha scritto E. Ducci, “il professionalismo non può surrogare né il tecnicismo compensare un eventuale vuoto d’identità”100. Il maestro non è tecnica e neanche improvvisazione, la sua professionalità ha a che fare sia con una deontologia professionale che con una ontologia professionale, la prima riposa sulla seconda. Se non ha un’identità, un prestigio, un’autorità e 98 99

Prefazione, a Il Rovescio e il Diritto, in Opere, vol. II, p. 58. G. D’Aubarède, Incontro con Albert Camus, in L’estate e altri saggi solari, cit., p.

162.

100

E. Ducci, L’uomo umano, cit., p. 82.

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persino un carisma potrà essere un istruttore ma non un educatore, potrà addestrare ma non trasformare o aiutare qualcuno a divenire se stesso. Questo processo appare indispensabile: “L’educazione è una forza debole. Ma è pur sempre da lei che passa l’umanizzazione della persona, come pure senza di lei la disumanizzazione dilaga” (E. Ducci).

Camus pedagogo, ovvero grandezza ed esemplarità di un allievo che diventa maestro Camus è stato sin dalla giovinezza un uomo di grande talento, un uomo affascinante. Anche tra i suoi coetanei, poco più che ventenni, nel gruppo di intellettuali che costituiranno quella singolare scuola di Algeri sarà un leader. Alto, bello, con gli occhi verdi, è un capo che non ha il gusto del potere né del comando, che però possiede un grande fascino. “Gli bastava comparire per diventare il capo che non teneva ad essere”, scrive Grenier101. A lui si deve una memorabile definizione di questo sfuggente carattere umano. Ne La caduta, il protagonista dice: “Sa che cos’è il fascino: una maniera di sentirsi rispondere sì senza aver fatto nessuna domanda chiara”102. Molti tra quelli che lo hanno conosciuto hanno notato questa sua peculiare bellezza interiore ed esteriore. “La faccia di Camus era una faccia vera, non da marcio intellettuale – ha scritto di lui D. Buzzati – se mai da sportivo, chiara, popolare, solida, ironica, una faccia da garagista”103. La sua verticalità morale di spirito libero nel secolo delle catene ideologiche era evidente a tutti. Anche per questo è stato definito uno dei “maestri irregolari”104, intanto perché questo genere di maestri riesce a trasmettere solo ciò che ha vissuto direttamente. Poi perché sono stati individui indocili, spesso isolati ma anche ostinati, capaci di parlare a ognuno di noi: “Quando li leggi mi sembra di ascoltarne la voce. Come se parlassero proprio a me, quasi in intimità”. Maestro è chi arriva prima e ci chiede di raggiungerlo, anche se la via dobbiamo trovarla da soli. Maestro perché non divide mai la vita dall’opera, le idee e le emozioni. Essere puri, questo è il problema, e Camus ispira nel lettore una fiducia che è suscitata da quella purezza ed onestà che è propria di chi si mette sempre totalmente in gioco. Critica dell’esistente e amore 101

J. Grenier, Albert Camus, Ricordi, cit., p. 145. La caduta, in Opere, vol. II, cit. 103 Traggo questa citazione da M. Breda, Uno straniero nel Paese delle ideologie. Alberto Cavallari, l’intellettuale ‘alla Camus’ che volle sfidare il conformismo, “Corriere della Sera”, 18 dicembre 2011, p. 37. 104 F. La Porta, op. cit., la citazione successiva si riferisce a p. 12. 102

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per la realtà. La sua insoddisfazione per quel che non va e la sua rivolta che riposa sempre, però, su un consenso che non trema nei confronti di una natura che è prima della storia, di vite umili e di grandi avventure dello spirito che generano in lui ammirazione e rispetto. La centralità del limite che è necessario per dare forma all’esistenza. Il bisogno di ripensare la nostra civiltà, dopo gli orrori del XX secolo. I maestri irregolari sono però “fratelli maggiori più che padri”, per i tratti fragili, insicuri, radicali che li fanno assomigliare a degli adolescenti. Sono educatori e non indottrinatori, educano se stessi e il prossimo senza violarne la diversità e senza un credo ideologico da imporre. Strano considerare Camus un pedagogo, perché egli avrebbe detto che non ha niente da insegnare: “La nuova generazione la considera oggi come uno dei suoi maestri – afferma un’intervistatrice –… (questa volta l’autore de La peste ride apertamente) Un maestro, già! Ma io non pretendo d’insegnare a nessuno! Chi lo crede è in errore. I problemi che oggi si pongono ai giovani sono gli stessi che si pongono a me. Ecco tutto. Ma io sono lontano dall’averli risolti… Coloro che fanno affidamento sanno che mai mentirò loro”105. E in un’altra intervista afferma la sua posizione aperta e leale ma anche irriducibile in un mondo di ideologie contrapposte: “Si può fare un partito di quelli che non sono sicuri di aver ragione? Sarebbe il mio partito”106. In realtà il suo è un insegnamento eloquente perché legato all’essere e non solo al dire e al pensare. Proprio perché non vuole essere un maestro ma un uomo giusto e buono che vuole dire quello che pensa, egli è un maestro autentico, che non mente perché non sa mentire. O, più semplicemente, è un maestro in quanto è un adulto responsabile, che si incarica della propria e dell’altrui sorte, della propria e altrui liberazione. Un maestro che assomiglia più ad un fratello maggiore? Questo ci riconduce al tema del padre. Nell’epoca dell’evaporazione del padre, tramontata la sua funzione teologica (Dio padre) e la sua funzione ideologica (il grande dittatore), rimane comunque una funzione paterna, nella sua dimensione simbolica (il nome del padre) e soprattutto il suo resto (l’atto singolare di responsabilità e di limite). Questo non lo pone come esemplarità monumentale, come guida e maestro, come modello, ma nella sua funzione etica, come testimone e custode del mistero della vita e della morte, come esempio di responsabilità nei confronti di un’eredità umana e di “generatività del 105

G. D’Aubarède, Incontro con Albert Camus, in L’estate e altri saggi solari, cit., p.

164.

106 A.

Camus, La rivolta libertaria, (a cura di A. Bresolin), trad. it., Elèuthera, Milano, 1998, p. 196.

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desiderio come nuda fede”107, come apertura e preghiera verso qualcosa che comunque ci trascende. Se non gli fosse stata negata l’aggrégation per motivi di salute, avrebbe fatto il professore universitario e forse non sarebbe diventato quello che è diventato. Scrive nel 1938: “Mi è stato rifiutato definitivamente il mio certificato medico per l’aggrégation. Una commissione del governo generale ha lungamente deliberato sul mio caso. Il risultato è stato negativo [C. si era intestardito, nella speranza di migliori referti medici]. È per questo che ho accettato l’impiego come redattore al giornale”. Un maitre a penser, “più esemplare che dottrinario, più testimone che giudice, più contagioso che persuasivo”108. Un filosofo che non si è mai separato dalla vita. Un maestro reale e mitico. “Il mito alla Camus che non abbiamo saputo incarnare, gli attori e le comparse che abbiamo di volta in volta impersonato, geniali e grotteschi… Chi siamo noi… Gli appuntamenti che abbiamo mancati oppure gli incontri fortuiti che hanno deviato il corso del nostro destino?”109. Egli ci ricorda che per educarsi c’è sempre bisogno di un altro. Anche se dalla caverna platonica si esce sempre uno alla volta, non si esce per questo da soli. C’è sempre bisogno di un altro, un maestro, come abbiamo visto, ma anche un amico, un compagno di viaggio, un complice o anche soltanto un semplice testimone. Il mito e la letteratura ce lo insegnano, da Castore e Polluce a Sancho Panza e don Chisciotte. Il compagno di viaggio può saperla molto lunga, conoscere il cammino ed avere una particolare saggezza oppure essere come noi, incerto ed insicuro, ma comunque deciso a percorrere il cammino assieme a noi. Camus è un maestro che sta tra il mentore classico e il compagno di viaggio, è saggio ma attraversa dei tempi complessi e cerca assieme a noi delle luci nella notte. La cultura moderna o tardo moderna occidentale ha progressivamente sviluppato una mentalità antiautoritaria, ha creato un’ironia sistematica e distruttiva nei confronti della superiorità di un essere umano, che qualunque mortale possa essere superiore a chiunque altro, che ha gettato discredito sulle professioni docenti. “Così in Europa il concetto di maestro è caduto in rovina”110. Con la “morte di Dio”, la fine delle ideologie e della storia, è finita anche l’età dei maestri? Con la nostra difficoltà di diventare adulti, la società senza padri sarà una società senza maestri? Non credo. Credo invece che questa figura che Camus può incarnare, quella del maestro, sia insop107

M. Recalcati, Cosa resta del padre?, cit., p. 23. J. Daniel, Resistere all’aria del tempo (con Camus), trad. it., Mesogea, Messina, 2008, op. cit., p. 27. 109 Y. Khadra, op. cit., p. 375. 110 P. Sloterdijk, op. cit., p. 339. 108

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primibile. Indice e segnavia di quella verticalità ancor più radicata nel cuore dell’uomo che è rappresentata dal divino. Potrebbe apparire paradossale, ma credo che tra le sfaccettature del messaggio pedagogico di Camus ci sia anche una dimensione “religiosa”. Paradosso per un autore che occupa comunque un posto nella storia dell’ateismo occidentale, ma che rientra però anche tra quei maestri che mostrano, senza credere in Dio, che c’è una scintilla che eleva l’uomo e che, pur libertaria e non credente, l’educazione debba recuperare uno sguardo religioso sul mondo e forse anche un’educazione al trascendente inteso come legame che ogni cosa ha con il resto di tutto ciò che esiste. Quel bisogno di trascendenza che appare oggi, anche nel discorso pedagogico, una cifra più importante che segna la differenza più di quella politica, tra destra e sinistra, conservazione e rivoluzione/innovazione, così come più di quella logora che oppone laici e credenti. “Recuperare uno sguardo religioso sul mondo… il riconoscimento del legame di ogni singola cosa con l’insieme delle cose… ordine che trascende”, ha scritto L. Monti111, citando un amico di Camus, uno dei pochi che gli è rimasto fedele tutta la vita, Nicola Chiaromonte. Camus può essere considerato un maestro autentico perché unisce grandezza ed esemplarità. Una grande opera coniugata con una vita esemplare. Egli unisce quello che in altri grandi intellettuali o personaggi è spesso rimasto separato: dare l’esempio come maestro di tecnica e darsi ad esempio come maestro di vita112. Il padre è il sole, la madre è il mare mediterraneo. Questo è stato Camus nella sua infanzia e nella sua giovinezza di cui conserverà tutta la forza nella propria opera e nella propria vita. Questa sua esperienza si conserverà costante per tutta la vita e lo porterà a scrivere, con orgoglio e senza presunzione, che “nel segreto del cuore, io mi sento umile solo davanti alle vite più povere o alle grandi avventure dello spirito. Fra queste due cose, oggi si trova solo una società che fa ridere”113.

111

L. Monti, Oggi e domani, «Gli asini. Educazione e intervento sociale», 1, luglioagosto 2010, p. 13. 112 Ivi, p. 181. 113 A. Camus, Prefazione a Il Rovescio e il diritto, cit., p. 163.

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