Donatello Santarone
DIDATTICA E INTERCULTURA
ARMANDO EDITORE
Sommario
Nota introduttiva
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1. La centralità della didattica
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2. Insegnamento e apprendimento
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3. “Conformismo dinamico”
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4. La docente mediatrice didattica
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5. Nuove domande di istruzione e risposte didattiche
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6. Il trattamento delle diversità in ambito educativo
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7. Didattica attiva per l’educazione degli adulti
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8. Individualizzazione didattica
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9. La didattica interculturale per una scuola aperta a tutti
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10. Costituzione e intercultura
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11. Percorsi di didattica interculturale*
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* I testi degli autori presenti in questo capitolo sono scaricabili dal sito www.armando.it.
a) Emigrazione italiana
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Vinicio Ongini, Ricordare le migrazioni passate Giovanni Russo, I meridionali a Torino Perry Wilson, Le donne nel “miracolo economico” Franco Alasia e Danilo Montaldi, Milano, Corea Roberto Roversi, Periferia Carlo Levi, L’altro mondo è l’America Michele Colucci, Matteo Sanfilippo, L’esodo italiano e l’emigrazione politica
b) Colonialismo e imperialismo
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Giovanni Pascoli, Convito d’ombre Giovanni Pascoli, La notte di Natale Giovanni Pascoli, La Grande Proletaria si è mossa Ennio Flaiano, Tempo di uccidere Gabriella Ghermandi, Un “talian sollato” Noam Chomsky, La grande impresa della Conquista Eduardo Galeano, Come porci affamati bramano l’oro Karl Marx, Colonialismo e accumulazione originaria del capitale Franz Fanon, Cultura e colonialismo Cyril Lionel Robert James, La vita degli schiavi Ken Saro-Wiwa, La maledizione del petrolio in Nigeria
c) L’Altro non occidentale Tzvetan Todorov, Noi e gli altri Edward W. Said, Contrappunto Denis Diderot, Invettiva anticolonialista di un vecchio thaitiano Albero Moravia, Un’idea dell’India Pier Paolo Pasolini, L’odore dell’India Arundhati Roy, I fantasmi del capitale Franco Fortini, Sonetto dei sette cinesi
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d) Globalizzazione
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Tzvetan Todorov, La conquista dell’America e il genocidio degli indios Basil Davidson, Il commercio degli schiavi Malcom X, I “creatori” di schiavi Karl Marx, Friedrich Engels, La borghesia unifica il pianeta Raj Patel, Wal-Mart, la più grande multinazionale al mondo Luciano Gallino, La globalizzazione come progetto politico
e) Razzismo
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Pierre-André Taguieff, La limpieza de sangre Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Razzismo e diversità Valentina Pisanty, La difesa della razza Pietro Basso, Razzismo e crisi globale
f) Immigrazione
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Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 21° Rapporto 2011 LINK www.dossierimmigrazione.it Vicinio Ongini, Il paesaggio multiculturale della scuola italiana Vicinio Ongini, Noi domani. Un viaggio nella scuola multiculturale Pap Khouma, Io, venditore di elefanti Pietro Basso, Relazione tra immigrati e autoctoni di fronte alla crisi economica Abdelmalek Sayad, Le migrazioni come fatto sociale totale Alessandro Barbero, I barbari alle porte dell’impero romano Costantinos Kavafis, Aspettando i barbari
Bibliografia
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Nota introduttiva
“Io che è noi, e noi che è io”. HEGEL
La didattica interculturale rappresenta ormai da molti anni, anche in virtù della presenza di migliaia di allievi con cittadinanza non italiana nel nostro sistema formativo, una nuova dimensione della didattica, che si aggiunge e si intreccia alle altre e diverse didattiche (didattica generale, didattiche disciplinari, didattica della lettura, didattica dell’e-learning, didattica speciale…). Il presente volume nasce dalla necessità di definire la didattica interculturale quale forma di mediazione educativa tra la condizione socio-culturale dei soggetti che apprendono e la dimensione globale dei saperi, dell’economia, della politica, della società, della cultura. Individuare, di conseguenza, metodi, strumenti e contenuti di una prospettiva internazionale e internazionalista nell’educazione che includa lo studio della storia del mondo e in essa, in modo particolare, la storia delle classi lavoratrici, dei popoli extraeuropei, dei migranti, delle donne, delle minoranze. Il volume presenta, inoltre, un’antologia di testi in relazione a possibili percorsi di didattica interculturale utilizzabili dai docenti e dagli studenti nella scuola, nell’Università, nella formazione e nei corsi di aggiornamento sull’intercultura. Si tratta di un vero e proprio manuale di orientamento sui temi cruciali dell’educazione interculturale: emigrazione italiana, colonialismo e impe9
rialismo, l’Altro non occidentale, globalizzazione, razzismo e immigrazione. Testi che vanno usati non come exempla di una nuova “materia” – l’intercultura –, ma come stimoli-integratori per innervare i saperi tradizionali e spingerli ad uscire da una loro, talvolta, timorosa autoreferenzialità. Nella prospettiva di consentire la conoscenza di specifici contenuti che potranno poi essere approfonditi anche grazie ai consigli bibliografici presenti nel volume. DONATELLO SANTARONE Roma, settembre 2012
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1. La centralità della didattica La ricerca e la pratica didattica costituiscono una delle dimensioni fondamentali della pedagogia moderna a far data, almeno in Occidente, dall’opera di Comenio. Già ci troviamo di fronte, sia detto subito per inciso, ad un problema di natura squisitamente interculturale: abbiamo detto “Occidente”, circoscrivendo l’area geografica e storico-culturale di riferimento, perché molto poco sappiamo, ad esempio, della storia della didattica in Cina o in Nigeria o in tanti altri paesi del mondo. Questa consapevolezza ci dovrebbe accompagnare nel corso del nostro lavoro per evitare l’assunzione di qualsivoglia “assoluto didattico”, figlio di cinque secoli di supremazia occidentale sul mondo. D’altronde relativizzare le nostre concezioni della didattica significa pure tener conto di una delle conquiste più durature della ricerca pedagogica: e cioè che qualsiasi disegno educativo, ogni modello didattico vanno contestualizzati, situati, collocati all’interno di ben precise coordinate storico-culturali. L’importanza che la didattica ha via via assunto nel corso degli ultimi tre-quattro secoli è direttamente proporzionale all’aumento considerevole della domanda di istruzione che si è determinata in tante parti del mondo. Domanda correlata al progressivo aumento del peso che grandi masse di popolo hanno assunto in seguito ad alcuni eventi epocali della modernità: la rivoluzione scientifica, l’illuminismo, la rivoluzione industriale e la nascita del capita11
lismo, la rivoluzione francese, il liberalismo e il marxismo, la rivoluzione russa, l’emersione di popoli e paesi un tempo “periferici”, dall’India alla Cina, dal Sudafrica al Brasile, che oggi costituiscono le novità più rilevanti della geopolitica mondiale. Istruire grandi masse anche in luoghi lontani e impervi, difficilmente raggiungibili, portare l’alfabeto ai braccianti e ai contadini poveri delle aree rurali più depresse dell’India o della Tanzania o dell’Italia montana, diffondere la cultura, come imperativo prima di ispirazione illuministica e poi democratica e socialista, per farne uno strumento di schiarimento dalle tenebre attraverso il metodo scientifico, di emancipazione dei soggetti, di liberazione anche socio-economica, sono stati tra i principali fattori di civilizzazione nell’Otto-Novecento ed hanno “costretto” milioni di educatori e ricercatori a misurarsi con le forme più idonee per realizzare tutto questo. Forme rappresentate da mezzi didattici sorretti da metodi innovativi innervati dalla scienza moderna e correlati ai fini da raggiungere, quelli di un sapere il più possibile democratico, espansivo e condiviso. Da qui, ad esempio, anche la potente diffusione dell’istruzione a distanza, che dai primi invii postali nell’Ottocento è arrivata a misurarsi con le moderne tecnologie informatiche e multimediali capaci di raggiungere milioni di persone dovunque. 2. Insegnamento e apprendimento Per corrispondere ai nuovi bisogni di massa di istruzione, la ricerca didattica, nel corso del ’900, si è sempre più spostata dal problema dell’insegnamento, cioè da quel complesso di tecniche e strategie educative atte a trasmettere il sapere, al problema dell’apprendimento, che si preoccupa in modo particolare dei modi più idonei, più efficaci ed efficienti, per consentire al soggetto che apprende di fare esperienza di ambienti di apprendimento stimolanti e capaci di suscitare curiosità, interesse e moti12
vazione a partire da ciò che il soggetto è ed ha già appreso nella vita. Si tratta di quella “rivoluzione copernicana” del centro di gravità dell’educazione dal maestro all’allievo di cui ha parlato John Dewey. Ma tale spostamento dell’asse pedagogico dal maestro all’allievo dovrebbe essere assunta non in maniera meccanica e spontaneistica, come talvolta è avvenuto, ma in maniera dialettica. Nel senso che enfatizzare oltremisura la figura del docente solo come “facilitatore dell’apprendimento”, sposare in modo eccessivo la metafora del docente “allenatore”, trasformare il maestro in “tutor”, reazioni storicamente necessarie di fronte all’autoritarismo direttivo di tanta scuola nozionistica e trasmissiva, rischia di indebolire una prospettiva educativa e didattica che va invece assunta, crediamo, nella sua totalità dialettica, nella sua relazione conflittuale ma foriera di sviluppi inediti e creativi, nel suo essere insieme norma e infrazione della norma, ripetizione e innovazione, socializzazione e individualizzazione, collettività e soggettività, autorità e libertà. Come nel passato è stata giusta la critica ad un docente depositario unico di un sapere indiscusso e indiscutibile, così oggi è altrettanto giusta, a nostro avviso, una critica a un discente portatore di un sapere che non andrebbe mai contrastato pena la mortificazione di chi apprende e il fallimento dell’azione didattica. Ma noi sappiamo quante scorie sottoculturali inquinano le teste dei nostri allievi, giovani e adulti, esposti alla devastazione mercificata e mediatica delle odierne società capitalistiche e quanto sia difficile, pur nella consapevolezza che dal “letame nascono i fiori” e che certamente da ciò che i giovani “sanno” bisogna partire, andare oltre tali scorie per affermare e far sedimentare saperi solidi, scientificamente rilevanti, creativamente significativi, concettualmente profondi. In altre parole, va contrastata la tendenza spontaneistica che vuole il docente solo un accompagnatore e va invece affermata, dialetticamente, la figura di un docente che sappia anche essere “maestro”, cioè portatore di un sapere sapienzario, oltreché disciplinare e tecnicoscientifico, che parli del nostro essere nel mondo alludendo ai 13
fondamentali problemi della condizione umana, un sapere a forte connotazione etico-politica, fondato su un orizzonte di senso che, per quanto ci riguarda, non può non essere che quello incarnato nei valori e nei principi della Costituzione repubblicana. 3. “Conformismo dinamico” Si tratta, in estrema sintesi, di far vivere, anche nella pratica didattica, quella dialettica tra conformismo e originalità, tra autorità e autoritarismo di cui hanno parlato, in tempi diversi, Antonio Gramsci e Franco Fortini. La scuola creativa è il coronamento della scuola attiva: nella prima fase si tende a disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una certa specie di “conformismo” che si può chiamare “dinamico”; nella fase creativa, sul fondamento raggiunto di “collettivizzazione” del tipo sociale, si tende a espandere la personalità, divenuta autonoma e responsabile, ma con una coscienza morale e sociale solida e omogenea1. Scambiando autoritarismo con autorità gli studenti rischiano di dimenticare che non c’è autorità più cieca di quella che non è avvertita come tale. […] Autorità è la voce, nello stesso tempo, dell’accordo e della gerarchia dei valori che sull’accordo si fonda. Hai l’autorità di un pensiero, di una verità, di un esempio. Finché non viene contestata in nome di una più alta, c’è l’autorità della propria esperienza; c’è quella del proprio passato irreversibile. Autoritarismo è invece l’insieme dei modi con i quali si impone una data gerarchia di valori. L’autorità accettata è stata sempre imposta? Sì, dalla forza del padre, del maestro, del signore, eccetera; ma solo fino a quando, contestata, non viene sostituita da un’altra autorità, quella che si
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A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1537.
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è venuta costituendo nel corso della contestazione e che è l’altro nome della libertà2.
In questo sempre instabile equilibrio tra naturalità e artefatto è dunque il posto della didattica. La Didattica mette in comunicazione le dimensioni di sviluppo delle diverse età generazionali (gli stadi cognitivi e socio affettivi delle singole età evolutive) con gli oggetti simbolico-culturali (le strutture della conoscenza umanistica e scientifica e i modelli di vita sociale da questi generati) che popolano le istituzioni intenzionalmente formative: la famiglia, la scuola, l’associazionismo, le chiese, nonché le agenzie del tempo libero e della cultura di massa. […] Il suo compito metodologico è per l’appunto quello di attuare una “mediazione” formativa tra la natura dell’allievo e la cultura della società3.
Un compito che negli ultimi trent’anni assume una funzione sempre più importante di fronte al sistema dei media: informazione, spettacolo, intrattenimento, pubblicità, sport, televendite e telepredicatori e tutto il resto di un universo di format globali sempre più pervasivi e onnipresenti. Un sistema che fa della comunicazione un oggetto scientifico di studio, un oggetto didatticamente organizzato in ogni sua parte, un congegno raffinatissimo (anche quando si presenta nella sua versione scurrile e viscerale) in gran parte volto a trasformare i soggetti in consumatori compulsivi e in passivi gregari dell’ordine sociale e politico esistente. Anche su questo terreno, naturalmente, le cose si presentano in modo contraddittorio. Accanto a tale poderoso sistema egemonico esistono forme della comunicazione non omologate, tra le quali, in primo luogo, la rete internet insieme a prodotti autogestiti, film d’autore, reportages coraggiosi capaci di dare 2 F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, in Questioni di frontiera, Einaudi, Torino 1977, pp. 57-58. 3 F. Frabboni, Manuale di Didattica generale, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 44.
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voce agli esclusi, programmi educativi e per bambini di qualità, giornali e giornalisti indipendenti, televisioni di strada e quant’altro. Tutte esperienze nelle quali, insieme al mezzo, continua a contare il messaggio, quasi a voler contestare la troppo abusata e riduttiva parola d’ordine di McLuhan per il quale “il mezzo è il messaggio”. 4. La docente mediatrice didattica Di fronte a tutto ciò la didattica, che si preoccupa di costruire, organizzare e trasmettere criticamente i saperi, assume una funzione cruciale. L’artefatto didattico, l’ambiente di insegnamentoapprendimento ricco e ben costruito, la consapevolezza da parte dei docenti del loro essere costruttori di “congegni” strutturati per l’apprendimento sono elementi necessari per combattere l’omologazione, il rumore di fondo, la superficialità gridata o soffusa, in taluni casi la menzogna, che educano naturalmente, anche grazie ad una loro “didattica” sapientemente orchestrata, milioni di esseri umani. Certo si corre il rischio idealistico di contrapporre una didattica povera, priva di mezzi e talvolta sciatta qual è quella praticata in tante scuole nel mondo ad una “didattica” miliardaria, fatta di professionisti super pagati, di avanzati mezzi tecnologici, sostenuta dalle maggiori imprese multinazionali e finalizzata in ultima analisi alla trasformazione di ogni aspetto dell’esistenza umana in merce. È del tutto evidente che in una tale situazione l’impegno per una didattica di qualità, volta a sedimentare negli allievi un sapere problematico e critico, non può non assumere i caratteri di una lotta politica che in primo luogo affermi le antiche rivendicazioni della modernità rivoluzionaria degli ultimi tre secoli: universalità, laicità, gratuità, gestione pubblica dell’istruzione. Rivendicazioni che si sono sempre accompagnate ad un’idea di società e di cultura radicalmente democratiche, solidali, fondate sul metodo critico-scientifico. Una didattica che mette in primo 16
piano, simultaneamente, l’acquisto delle conoscenze e competenze di base, il gusto della scoperta e dell’esplorazione, il pensiero divergente e la creatività. Certo è che il carattere alienante dell’“educazione permanente naturale in atto”4, tipica dei media e delle merci, pone la grande questione del superamento di un assetto socio-economico e comunicativo fondato sull’appropriazione privata dei beni comuni (perché tali sono informazione, istruzione, sapere, conoscenza, arte) in vista di una loro fruizione sociale per tutti fondata sul valore d’uso di quei beni. Molti studiosi sostengono che non più del 20-30% del corredo cognitivo in possesso delle giovani generazioni sia stato appreso a scuola. Il restante 70-80% è il risultato di un impasto spesso caotico derivante dal mondo delle merci e dei media, insieme, naturalmente, alle esperienze di vita e di lavoro. Sembra essersi avverata la tesi della descolarizzazione che quasi quarant’anni fa aveva proposto Ivan Ilich: solo che essa si sta volgendo non in direzione di una rete virtuosa e autogestita di comunità civiche educanti ma in un monopolio mercantile di un pensiero unico di massa, pervasivo e molecolare, che sottrae e privatizza progressivamente, come per le grandi foreste tropicali, gli alberi dell’educazione, la biodiversità delle culture, le sementi del sapere. Ancora una volta le grandi questioni educative e didattiche chiamano in causa i contesti sociali, economici e politici, in una parola storici, del mondo e ci chiedono a quale idea di uomo e di società esse devono corrispondere e indirizzarsi. Ancora una volta ogni neutralità diviene una falsa coscienza. La didattica, quindi, con tutte le cautele e le consapevolezze del caso, deve interagire e competere con questo mondo stregato che incanta e persuade. La didattica, in altre parole, deve essere attraente e retoricamente attrezzata quanto il suo antagonista, ma senza assumerne i caratteri di vacuità, superficialità, istupidimen4
F. Susi (a cura di), L’interculturalità possibile. L’inserimento scolastico degli stranieri, Anicia, Roma 1995, p. 29.
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to, senza esserne contagiata nei suoi valori effimeri tutti fondati sull’egoismo proprietario di chi deve consumare tutto e subito, in un eterno presente di narcisismi e indifferenze. Se la didattica è una forma di mediazione tra l’allievo che apprende e i saperi da insegnare, il primo mediatore didattico è il docente. Anzi, la docente, considerato che questa professione è per la gran parte svolta da donne. Le cui qualità principali, come sostengono molte studiose del rapporto tra genere ed educazione, sono quelle della relazionalità e della cura educative, della versatilità, dell’antidogmatismo, della gratuità. Tutti fattori tipici di una buona progettazione didattica, che deve saper contemperare la dimensione scientifica e tecnologica dei diversi momenti di un curricolo fatto di scansioni temporali dell’apprendimento, di allestimento di materiali didattici a misura dell’allievo, di verifiche e valutazioni robuste e docimologicamente fondate, ma che, in egual misura, deve includere – come abbiamo già visto – la dimensione socio-affettiva, emozionale e motivazionale dell’apprendimento, quella dimensione fatta di imprevedibilità, di derive e approdi, di percezioni non sempre razionalizzabili, che fanno della relazione educativa una relazione umana. La pluridimensionalità della formazione scolastica esige […] che non si faccia ricorso solo a parametri relativi agli apprendimenti, cioè alla sfera cognitiva, ma anche ad altri obiettivi primari tra i quali hanno particolare importanza quelli relativi alla sfera affettivo-motivazionale, socio-emotiva e relazionale5.
Essendo tuttavia consapevoli che tutto questo non passa attraverso un’astratta comunione di anime, ma solo dal concreto operare del lavoro didattico fondato su cose, oggetti di studio, numeri e poesie, dipinti e norme giuridiche, formule chimiche e mappe geografiche, brani musicali ed esercizi fisici, ricostruzioni 5
G. Domenici, Manuale della valutazione scolastica, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 14.
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storiche e programmi informatici. Le “cose” (e tra queste vi è anche il fare, l’operare, il tirocinio) che la didattica media organizza, propone, e solo a partire dalle quali è possibile conferire un senso alla contraddittoria esigenza di “onnilateralità” che ogni educazione attiva, relazionale e radicalmente democratica e partecipativa si propone. 5. Nuove domande di istruzione e risposte didattiche Abbiamo sopra accennato al rapporto tra nuove domande di istruzione e innovazioni didattiche. Gli ultimi due secoli sembrano aver accolto l’invito di Comenio di “insegnare tutto a tutti”, anche se gli altissimi indici di analfabetismo e di esclusione culturale presenti sul pianeta ci dicono che resta ancora molto da fare. Risulta evidente che insegnare, come è stato fatto per secoli, a piccoli gruppi di “eccellenze”, per usare un’espressione tanto di moda oggi, cioè ai figli delle élite economiche e politiche di un paese, anche attraverso il ricorso alla figura del precettore privato, è cosa assai diversa che non quella di rivolgersi a un pubblico eterogeneo e formato in gran parte dai figli delle classi subalterne. In fondo, la sfida più grande che la didattica novecentesca ha raccolto è stata quella di misurarsi con queste nuove diversità educative tentando di costruire percorsi di insegnamento e apprendimento a misura di esse e provando a compensare i deficit socio-culturali che tanti allievi si portavano nelle aule scolastiche (con la consapevolezza che senza una radicale trasformazione della società in senso egualitario difficilmente si potrà costruire una scuola che dia a tutti le stesse opportunità e che garantisca a tutti i medesimi esiti formativi). Questo nuovo pubblico di massa, formato in larga parte da figli di operai, contadini, artigiani, impiegati di bassa qualifica, ecc., si è via via fortemente intrecciato con altre figure sociali portatrici anch’esse di diversità radicali. Anzitutto le donne, per secoli escluse dall’educazione, che oggi rappresentano, 19
anche in termini di successo scolastico, l’elemento più dinamico dei sistemi formativi, nonostante in tante parti del mondo persista ancora un’odiosa esclusione nei loro confronti dalle scuole e dalle università. Va ricordato che la presenza delle donne è stata storicamente accolta in un’ottica per certi versi di tipo “segregazionista”, considerando che per loro l’accesso agli studi più prestigiosi (dal liceo classico ad alcune facoltà universitarie) è stato per molto tempo interdetto e che fino a pochi decenni fa nelle scuole italiane vi erano classi separate tra maschi e femmine, in omaggio ad una cultura sessuofobica che ha sempre visto la donna portatrice di un eros destabilizzante e materialistico, capace di suscitare nelle aule scolastiche quel “ritorno del represso” di cui parlava Freud e che consiste nell’affermazione della gratuità del piacere. Tema di grande importanza che sarà ripreso dai movimenti giovanili degli anni Sessanta del ’900, divenendo oggetto anche di riflessione filosofica. Ma l’elenco delle diversità faticosamente accettate, ma non dappertutto e mai completamente, nella scuola, sono molteplici: la diversità religiosa, prima negata (si pensi agli allievi ebrei cacciati dalle scuole dopo le leggi razziali del 1938), poi scoperta e parzialmente riconosciuta dall’Occidente (anche se nei fatti nella scuola italiana vi è una religione dominante, quella cattolica, con insegnanti pagati dallo Stato e scelti dalla Chiesa). Poi, come già detto, le diversità di classe, con ciò che questo ha significato con la nascita del socialismo nell’Ottocento, e le diversità di genere, dalle prime rivendicazioni per il suffragio universale alla nascita del femminismo negli anni ’50 e ’60 del Novecento; le diversità nelle pratiche sessuali (non va dimenticato che l’omosessualità è ancor oggi fortemente stigmatizzata e che gli omosessuali furono tra le prime vittime del nazismo); le diversità di età e poi le diversità psico-fisiche (l’handicap); le diversità cosiddette etniche; le diversità linguistiche, e l’elenco potrebbe continuare. Tra le nuove diversità presenti nella società odierna vi è quella dei figli dell’immigrazione. Una diversità, è bene subito pre20
cisarlo, che si intreccia fortemente a quella di classe, essendo i giovani allievi che frequentano le scuole italiane in grandissima parte figli di edili, operai dell’industria, badanti e colf, camerieri, braccianti, piccoli commercianti. Una diversità, inoltre, che si intreccia con quelle storico-culturale, linguistica, di genere, di appartenenza religiosa. Tutto ciò, lo vedremo, implica per la didattica un grande lavoro di riflessione e trasformazione. 6. Il trattamento delle diversità in ambito educativo Ciò che a noi interessa, in ambito pedagogico e didattico, è il modo in cui tutte queste diversità sono state accolte nei sistemi educativi, se e quando sono state accolte e valorizzate6. Come già detto, è solo a partire dal Novecento che tutto questo avviene, in particolare con la diffusione della scuola di massa e di conseguenza con la presenza a scuola di un’utenza eterogenea, portatrice di bisogni socio-culturali e di domande educative diversi da quelli, selezionati e quantitativamente modesti, del passato. In Italia, in particolare, tutto ciò avviene con l’introduzione della scuola media unica nel 1962, in concomitanza con le radicali trasformazioni socio-economiche del Paese (gli anni del “miracolo economico”, che porteranno ad una accresciuta domanda di istruzione). Un nuovo pubblico della formazione si affaccia nelle aule scolastiche, un pubblico costituito in gran parte da figli di lavoratori, fino ad allora destinati al vicolo cieco dell’avviamento professionale. Questi nuovi e diversi soggetti sociali metteranno in crisi la cultura retorico-umanistica di una parte del ceto medio insegnante di quegli anni, il quale risponderà con la selezione e le bocciature. È in questi anni che nasce la scuola di Barbiana di don
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Per questa parte cfr. D. Santarone (a cura di), Educare diversamente. Migrazioni, differenze intercultura, Armando, Roma 2006.
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Milani e Lettera a una professoressa7, l’impegno sperimentale di maestri quali Bruno Ciari e Mario Lodi, le innovazioni didattiche di associazioni quali il Cemea (Centri per i metodi dell’educazione attiva), l’Mce (Movimento di cooperazione educativa) e tante altre. Si comincia in questi anni a discutere di un tema che aveva appassionato educatori e pedagogisti in tante parti del mondo (Claparède, Dewey, Montessori…) e che nasce dall’urgenza di docenti, capi d’istituto, uomini e donne di scuola ai diversi livelli di misurarsi con il nuovo pubblico di allievi prodotto dalle trasformazioni di cui si parlava prima: come adeguare i processi di insegnamento/apprendimento ai nuovi e diversificati bisogni formativi indotti dalla scolarizzazione di massa. Non mancavano certo riferimenti teorici e pratici. Lo psicologo ginevrino Claparède aveva proposto, nei primi decenni del Novecento, la “scuola su misura”, volendo con ciò intendere una scuola pensata per offrire ad ogni allievo un percorso di studi individualizzato, appunto “su misura” come un abito che si indossa. Egli proponeva il superamento del gruppo classe come entità chiusa, un curricolo comune ed un curricolo che oggi chiameremmo “elettivo”, scelto cioè dai singoli allievi sulla base delle loro attitudini e dei loro interessi8. È interessante notare che il concetto di “attitudine” verrà ripreso e sviluppato nel corso degli anni ’80 del Novecento da Howard Gardner, il quale, con la sua teoria delle intelligenze multiple 7 Così scrivono i ragazzi di Barbiana e il loro priore a proposito dei libri di storia allora adottati: «In genere non è storia. È un raccontino provinciale e interessato fatto dal vincitore al contadino. L’Italia centro del mondo. I vinti tutti cattivi, i vincitori tutti buoni. Si parla solo di re, di generali, di stupide guerre tra nazioni. Le sofferenze e le lotte dei lavoratori o ignorate o messe in un cantuccio. Guai a chi non piace ai generali o ai fabbricanti d’armi. Nel libro che è considerato più moderno Gandhi è sbrigato in 9 righe. Senza un accenno al suo pensiero e tanto meno ai metodi» (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967, p.123). 8 Cfr. N. Filograsso, Claparède e la pedagogia scientifica, La Nuova Italia, Firenze 1966.
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(linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo-cinestetica, interpersonale, intrapersonale) offre un prezioso contributo scientifico per un intervento educativo capace di valorizzare le diversità individuali degli allievi9. L’opera di Gardner è di grande interesse per gli studi interculturali. In un libro del 198910 egli analizza, in un serrato confronto comparativo di carattere interculturale, i sistemi educativi cinese e statunitense. Dopo essersi recato più volte in Cina negli anni ’80 del secolo scorso, lo studioso di Harvard si interroga sul rapporto tra esecuzione e creatività, tra approccio “mimetico” e approccio “trasformativo” ai problemi dell’educazione, arrivando a riconoscere eguale dignità ai due approcci e superando la tradizionale contrapposizione tra “esecutivi” e “creativi”. Un altro autore che ha riflettuto sul rapporto tra soggetto e istruzione è stato John Dewey. Il filosofo e pedagogista statunitense – lo abbiamo già accennato – sostiene la necessità di spostare il centro di gravità dei processi di insegnamento/apprendimento dal maestro all’allievo, e parla, per questo, di una vera e propria “rivoluzione copernicana”. Io posso compendiare così il mio pensiero: il centro di gravità è fuori del fanciullo. Esso è nel maestro, nel libro scolastico, in quel che volete e dove volete, eccetto che nell’attività immediata del ragazzo… Ora con l’educazione nuova si sta verificando lo spostamento del centro di gravità. È un cambiamento, una rivoluzione, non diversa da quella provocata da Copernico, quando spostò il centro dell’astronomia dalla terra al sole. Nel nostro caso il fanciullo diventa il sole intorno al quale girano gli strumenti dell’educazione. Esso è il centro intorno al quale essi sono organizzati11. 9 Cfr. H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano 1995. 10 H. Gardner, Aprire le menti. La creatività e i dilemmi dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1991. 11 J. Dewey, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze 1949, pp.26-27. Cfr. anche l’antologia curata da L. Borghi, Il mio credo pedagogico e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze, 1954.
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Si tratta di mettere al centro l’allievo che apprende e, di conseguenza, di adattare l’insegnamento ai suoi bisogni, alla sua individualità. Tutto questo attraverso la capacità di suscitare “interesse” da parte del docente e tenendo in gran conto l’“interesse” del bambino. È l’origine dell’attivismo pedagogico che, nonostante le reazioni del cognitivismo di Jerome Bruner12 negli anni ’50 e ’60 del Novecento, resta – a nostro avviso – tra i lasciti maggiori del Novecento pedagogico13. 7. Didattica attiva per l’educazione degli adulti Tale prospettiva pedagogica è centrale, ad esempio, per l’educazione degli adulti, un ambito educativo nel quale è fondamentale tener conto della biografia dell’adulto che apprende, della sua storia di vita e di lavoro, delle sue conoscenze ed esperienze. Non è, infatti, possibile costruire alcun percorso formativo per gli adulti se nel percorso stesso non entrano attivamente i bisogni formativi e culturali che gli adulti esprimono, le loro competenze, i loro vissuti. Detto in altri termini, la formazione intenzionale che si vuole loro proporre non può non tener conto della formazione naturale che essi hanno acquisito nei loro percorsi 12
Cfr. J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 1997. 13 A proposito di inserimento dei figli degli immigrati negli Usa, «è interessante apprendere […] che, pur tenacemente contrario all’assimilazione culturale forzata, Dewey considerava rischiosa la prospettiva di chi […] contrapponeva alla versione conformista del melting pot, allora circolante, le metafore dell’orchestra (ogni gruppo rappresenterebbe uno strumento che suona e si adatta armoniosamente agli altri) e della tenda (gli Stati Uniti come protezione sotto cui si ponevano i vari gruppi): all’illustre pedagogista tali metafore sembravano evocare (e magari giustificare) una inedita forma di segregazione, nella misura in cui circoscrivevano e irrigidivano le differenze e le appartenenze culturali dei soggetti, e le rappresentavano come il modo per favorire la coesione delle comunità e il mantenimento delle tradizioni linguistiche, religiose, sociali praticate dalle generazioni precedenti» (F. Gobbo, Pedagogia interculturale, Carocci, Roma 2000, p. 23).
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di vita e di lavoro. Altrimenti gli adulti si infantilizzano e si demotivano. Due autori, in particolare, hanno riflettuto su tali questioni: Bertrand Schwartz e Francesco Susi. Il primo, ingegnere minerario divenuto formatore e “pedagogista”, ha condotto numerose azioni di formazione con lavoratori e giovani con basso livello di scolarità, pervenendo ad alcune nozioni di grande rilevanza quali “pedagogia del successo”, “pedagogia per obiettivi”, “teoria dei post-requisiti”: il soggetto deve essere messo in condizione di affrontare problemi adeguati al suo livello di conoscenze e competenze (pena la mortificazione), il soggetto deve poter aver chiari gli obiettivi da perseguire (anche attraverso un “contratto formativo”), il soggetto può apprendere anche senza essere in possesso di quelli che normalmente vengono definiti i pre-requisiti14. F. Susi, altresì, attraverso molteplici azioni di formazione e ricerche empiriche, ha sottolineato più volte l’importanza dell’educazione permanente naturale in atto, volendo con ciò intendere la necessità di tener conto di tutti quegli elementi del contesto sociale e ambientale che educano continuamente i soggetti e li persuadono a valori e comportamenti: dal gruppo dei pari al sistema dei media, dal lavoro alla famiglia. Importante è poi la distinzione che Susi fa tra bisogni impliciti di formazione e bisogni espliciti, con la conseguente sottolineatura che la mancata manifestazione dei bisogni impedisce molto spesso il successo delle azioni di formazione15. Tutto ciò è un ambito educativo che tiene in gran considerazione la diversità individuale nel pensare e promuovere iniziative educative. Nella scuola si è cominciato a riflettere e a sperimentare sull’istruzione individualizzata a partire dagli anni Settanta. 14 Cfr. B. Schwartz, Modernizzare senza escludere. Un progetto di formazione contro l’emarginazione sociale e professionale, Anicia, Roma 1994. 15 Cfr. F. Susi, La domanda assente, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989, Idem, La formazione nell’organizzazione, Anicia, Roma 1995 e Idem, Educare senza escludere, Armando, Roma 2012.
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