Francesco Susi
SCUOLA, SOCIETĂ€, POLITICA, DEMOCRAZIA Dalla riforma Gentile ai Decreti delegati
ARMANDO EDITORE 3
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Sommario
Prefazione di CARLO FELICE CASULA Capitolo I Dall’Unità al fascismo 1. Il sistema scolastico dopo l’Unità 2. Fascismo e scuola
Capitolo II Il periodo 1943-1945 1. La scuola nella Resistenza 2. La scuola nel «Regno del Sud»
Capitolo III Il periodo 1945-1948 Capitolo IV Il periodo 1948-1953 1. Le organizzazioni degli insegnanti 2. Le iniziative innovative 3. La contrapposizione laici-cattolici 4. La politica del razionamento scolastico
Capitolo V Il periodo 1954-1962 1. Gli insegnanti e la crisi della scuola 2. Le forze politiche e la riforma della scuola 3. Le strutture della scuola 4. L’ordinamento scolastico
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5. L’azione del governo 6. Gli imprenditori e la programmazione scolastica 7. La scuola media unica 8. L’istruzione professionale e quella femminile
Capitolo VI Dal 1963 al 1974 1. La contrapposizione laici-cattolici 2. La scuola dell’obbligo 3. La scuola materna 4. Gli insegnanti: sindacato e formazione professionale 5. Scuola secondaria superiore e università
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Conclusioni Il principio educativo dominante ai tempi della crisi della democrazia
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Bibliografia
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Si ringrazia il prof. Edoardo Puglielli – Dottorando in Pedagogia presso il Dipartimento di Studi dei Processi Formativi, Culturali e Interculturali nella Società Contemporanea dell’Università degli Studi Roma Tre – per il prezioso lavoro di revisione del testo e della bibliografia nell’allestimento di questo volume. 6
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Prefazione CARLO FELICE CASULA
Nel sito istituzionale dell’Ocse (www.oecd.org), nell’introduzione a uno dei topics più importanti, Education, economy and society, si afferma: «i sistemi educativi sono il riflesso delle società, delle culture e delle economie nazionali, sulle quali essi indubbiamente influiscono. La formazione è collocata dall’Ocse in questi più vasti contesti, in particolare, per quanto concerne il suo impatto sul successo personale, sullo sviluppo nazionale e il suo ruolo nella lotta contro la povertà e l’esclusione sociale in ogni fase della vita». Nella stessa linea si muove Francesco Susi in questa meditata e matura ricostruzione dei percorsi e degli sviluppi della scuola nei tre decenni successivi alla caduta del Fascismo, nel nuovo contesto istituzionale e socioculturale dell’Italia liberata e dell’Italia repubblicana. Già nel titolo, Scuola, società, politica, democrazia, è facile individuare, però, un rinvio alla lezione di Antonio Labriola, che già nei suoi scritti pedagogici dei primi anni Ottanta dell’Ottocento, sulla base di un’analisi comparata dei sistemi scolastici dell’Europa, aveva magistralmente associato il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell’istruzione della popolazione, a partire da quella di base, allo sviluppo economico e anche all’affermarsi della democrazia. Non casualmente nell’immaginario e, persino, nella stessa iconografia del movimento operaio e socialista, negli stessi suoi primi vessilli, è sempre presente il libro, simbolo della cultura e dell’istruzione, assieme ai simboli del lavoro delle campagne e delle fabbriche. È una questione alla quale Francesco Susi è particolarmente sensibile, in quanto agli esordi del suo pluridecennale percorso di ricerca, indirizzato da Guido Verucci, ha pubblicato degli innovativi studi sulla vita e sulle liturgie delle società di mutuo soccorso del Piemonte sabaudo alla vigilia del processo d’industrializzazione. 7
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Il sottotitolo del libro, Dalla Riforma Gentile ai Decreti delegati, oltre a delimitare l’ambito cronologico, dà conto anche del filo rosso delle vicende della scuola italiana, narrate con uno stile elegante e brioso e con riferimenti numerosi e sempre pertinenti all’ampia letteratura disponibile. Nel primo capitolo, per il vero, si ricostruiscono origini, sviluppi, successi, parziali e contraddittori ma indubbi, del sistema scolastico dello Stato unitario italiano, del quale i primi censimenti generali della popolazione e delle abitazioni fotografavano, con la cruda evidenza dei dati numerici, la drammatica realtà dell’analfabetismo diffuso e perdurante, nel generale contesto di un’economia contadina arretrata. È compiuta anche un’approfondita analisi della grande riforma di Giovanni Gentile del 1923, nel nuovo contesto e clima politico-culturale, già fortemente autoritario, del primo governo Mussolini, che porta alla definizione di un sistema scolastico, con connotazioni rigidamente classiste, che privilegia il liceo classico e, in subordine, quello scientifico e, in forma subordinata, diversi altri corsi paralleli, quasi come canne d’organo di diversa durata, non comunicanti e senza alcuno sbocco nell’università. Una riforma di “straordinaria longevità” è stata definita da due studiosi non specialisti di storia della scuola, Pier Giorgio Zunino e Stefano Musso, autori di un denso saggio, Scuola e istruzione, inserito nel terzo volume, Politica e società, dell’autorevole Guida all’Italia contemporanea 1861-1997, pubblicata nel 1998 da Garzanti. La connotazione centralistica, autoritaria ed elitaria, o, più propriamente, classista, della scuola italiana, pur discussa e criticata dall’intellettualità antifascista e anche da gruppi diffusi d’insegnanti e di studenti, permane negli anni della guerra, della divisione del Paese in Repubblica sociale italiana e Regno del Sud, della Resistenza, anche se in alcune aree liberate delle Repubbliche partigiane si portano avanti esperienze innovative e creative d’insegnamento e di apprendimento. Dopo la Liberazione, in ogni modo, la scuola entra nella Costituente, per parafrasare il titolo del saggio di Giovanni Gonzi, pubblicato nel volume collettaneo, pubblicato da Franco Angeli nel 2004, La scuola in Italia tra pedagogia e politica (1945-2003) e la Costituzione si apre alla scuola come luogo e momento per la formazione di una società solidale di liberi e uguali. Gli articoli 33 e 34 fanno prefigurare, per parafrasare la notissima espressione programmatica di Cavour, che sia finalmente possibile dar vita alla “libera scuola in libero Stato”, nella quale, finalmente, «i capaci 8
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e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi», con l’impegno solenne che «la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Le vicende della scuola italiana nei tre decenni successivi sono ricostruite nella loro forte continuità e nei loro tardivi e contrastati mutamenti, fra tutti l’introduzione della scuola media unica, in tre ampi capitoli che seguono l’ormai consolidata partizione cronologica della storia dell’Italia repubblicana: il periodo del Centrismo degasperiano e della Ricostruzione (1948-1953), quello della lunga e travagliata gestazione del Centrosinistra, che coincide anche con gli anni del Miracolo economico (1954-1962) e, infine, del decennio dei movimenti sociali (1963-1974), per usare una definizione di Paul Ginsborg, lo storico inglese, autore della fortunata sintesi, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988 (Einaudi 1989). In questa ricostruzione Francesco Susi supera la tentazione, in cui cadono non pochi studiosi di storia della scuola, di privilegiare in forma esclusiva il dibattito tra differenti scuole pedagogiche, di cui pur ricostruisce con finezza lo svolgimento, nella convinzione profonda che la questione della scuola è strettamente interconnessa con le trasformazioni economiche, le dinamiche politiche e istituzionali e i mutamenti delle culture e delle mentalità. I soggetti coinvolti sono nel tempo più numerosi e attivi, in un confronto talvolta acceso, fino allo scontro, ma non di rado, anche dialogico e cooperativo: governo e ministero, istituzioni scolastiche regionali, provinciali e comunali, organizzazioni imprenditoriali e sindacali, associazioni di genitori e di studenti e, naturalmente, nella Repubblica dei partiti, per usare il titolo di un libro noto di Pietro Scoppola, i partiti appunto, segnatamente, Partito comunista italiano e Democrazia cristiana, con la loro rappresentanza d’interessi e i loro universi valoriali. Matura la consapevolezza, pur senza che se ne traggano le opportune conseguenze, che in Italia, anche quando si sono avuti quei mutamenti profondi e pervasivi dell’economia e della società, che Karl Polanyi ha definito la grande trasformazione, permanga pur sempre un forte deficit d’istruzione e di scolarizzazione. Gaetano Bonetta a un saggio inserito nel volume da me pubblicato nel 1999 e più volte rieditato per i tipi di Carocci, L’Italia dopo la grande trasformazione, ha dato come titolo, La formazione come emergenza. 9
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I dati numerici, ordinati e precisi, provenienti da diverse fonti statistiche, dall’Istat al Censis, che, per i diversi periodi presi in esame, sono ripetutamente proposti e perspicuamente commentati, confermano il permanere in Italia di realtà corpose di evasione, mortalità e dispersione scolastica e, finanche, di analfabetismo totale e di ritorno. Essi smentiscono un luogo comune, tanto diffuso quanto infondato. Per quanto concerne l’Università si dimostra come in Italia, anche dopo la grande conquista della liberalizzazione degli accessi, rispetto ai Paesi del Nord del mondo, la percentuale dei giovani italiani che s’iscrive all’università e che consegue la laurea è sempre collocata a fondo classifica. Da questo punto di vista la conquista dell’istituto delle 150 ore, ossia di un monte ore di permessi retribuiti fruibili per favorire il diritto allo studio dei lavoratori studenti, previsto dall’articolo 10 dello Statuto dei lavoratori del 1970 e reso operante nel 1973 con il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, per forte e convinta pressione dell’allora sindacato unitario, la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), ha rappresentato una conquista di grande impatto sociale e d’indubbia valenza simbolica, non a caso estesa a quasi tutti i successivi contratti nazionali e ancora oggi operante. Infine i Decreti delegati del 1974, quasi un testo unico dell’istruzione, dalla scuola materna a quella superiore, costituiscono il termine ad quem della ricostruzione di Francesco Susi, che citando Mario Lodi scrive che «rappresentano con molta probabilità il punto più alto del lungo processo di democratizzazione del sistema scolastico italiano». Un punto di arrivo, come si legge nelle stimolanti conclusioni, che non deve essere considerato come definitivamente acquisito, perché tutte le conquiste possono essere rimesse in discussione e, proprio per questo, debbono essere studiate e conosciute, soprattutto dai giovani che corrono il rischio, come ha scritto Raffaele Mantegazza nel libro I buchi neri dell’educazione, di naufragare nel “mare di ghiaccio di una dinamica sociale pietrificata nell’esistente”.
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Capitolo I
Dall’Unità al fascismo
Per intendere la vicenda scolastica dell’Italia all’indomani della caduta del regime fascista bisogna tener conto delle caratteristiche di fondo che contrassegnavano il sistema scolastico, così come esso si era venuto costituendo nell’arco di tempo dall’Unità al fascismo, in modo da stabilire se la scuola dell’Italia repubblicana abbia ricalcato o modificato, ribadito o innovato negli aspetti sostanziali il precedente modello scolastico quanto a ordinamenti, principi ispiratori, procedure di controllo e suoi risultati in termini di diffusione della scolarità nelle differenti aree territoriali del Paese e fra i diversi strati della popolazione. 1. Il sistema scolastico dopo l’Unità Nel riflettere sulla storia scolastica italiana dall’Unità in poi, Lamberto Borghi ha affermato che «in regime liberale la scuola con i suoi istituti classici valse a dar vita a una classe dirigente fermamente impegnata nella difesa del suo posto egemonico, e colle scuole professionali e tecniche di vario tipo a creare un ceto di impiegati minori e di operai specializzati, mano d’opera dotata di una preparazione utilitaria e destinata a finalità di produzione a vantaggio della classe dirigente. La tendenza a salire dal basso e a rompere questa stratificazione sociale fu repressa dal fascismo»1. L’analisi storica, in effetti, evidenzia la natura fortemente classista ed inegualitaria del sistema scolastico italiano e ne sottolinea la 1 Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna [1951], La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 324-325.
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sostanziale continuità dalla legge Casati del 1859 alla riforma Gentile del 1923 fino alla Carta della Scuola di Bottai del 19392. Con l’Unità nazionale, la legge pensata per il Piemonte e la Lombardia da Gabrio Casati, ministro della Pubblica istruzione del Regno sardo (1859-1860), venne estesa al Regno d’Italia in sostituzione delle regolamentazioni dei diversi Stati preunitari3. Redatta nel giro di soli quattro mesi e promulgata il 13 novembre 1859 in forma di decreto legge – in virtù del fatto che vigevano ancora i pieni poteri concessi al governo per la conduzione della guerra contro l’Austria – la legge Casati era «destinata a restare per oltre sessant’anni l’ossatura della scuola italiana»4. La scuola, che veniva così istituita, rifletteva la volontà del ceto sociale ed intellettuale che, uscito vittorioso dal Risorgimento, aveva costituito un regime di governo fondato su una rappresentanza estremamente ristretta e su un sistema elettorale che ammetteva al voto solo una piccolissima parte della popolazione5. Non poteva discenderne che una scuola “forte2 Sull’argomento si vedano: Dario Ragazzini, Storia della scuola italiana. Linee generali e problemi di ricerca, Le Monnier, Firenze 1983; Giorgio Canestri, Centoventanni di storia della scuola 1861-1983, Loescher, Torino 1983; Remo Fornaca, Storia della scuola moderna e contemporanea, Anicia, Roma 1994; Saverio Santamaita, Storia della scuola. Dalla scuola al sistema formativo, Bruno Mondadori, Milano 1999. 3 Per una panoramica sulle istituzioni educative e scolastiche degli Stati preunitari si vedano: Giovanni Genovesi, Storia della scuola italiana dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 13-69; Roberto Sani, Sub specie educationis. Studi e ricerche su istruzione, istituzioni scolastiche e processi culturali e formativi nell’Italia contemporanea, EUM, Macerata 2011, pp. 27-295. Limitatamente allo Stato Pontificio: Carmela Covato, Manola Ida Venzo (a cura di), Scuola e itinerari formativi dallo Stato Pontificio a Roma Capitale. L’istruzione primaria, Unicopli, Milano 2007. 4 Giuseppe Ricuperati, Scuola, in Il mondo contemporaneo. Enciclopedia di storia e scienze sociali diretta da Nicola Tranfaglia, vol. I, tomo 3, Fabio Levi, Umberto Levra, Nicola Tranfaglia (a cura di), Storia d’Italia, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 1196. 5 Dal 1861 al 1919 analfabetismo ed esclusione dal diritto al voto procedettero di pari passo. La legge 31/10/1850 n. 4385 (in vigore anche nel nuovo Regno) ammetteva al voto i cittadini maggiorenni alfabeti e in possesso dei diritti civili e politici che pagassero un censo di imposte dirette non inferiori a 40 lire. Sulla base di tale norma il corpo elettorale corrispondeva all’1,89% degli italiani. Nel 1872 venne abbassata la soglia della maggiore età (da 25 a 21 anni) così portando il corpo elettorale all’1,9%. Con la legge Zanardelli (24/9/1882) ottennero il diritto al voto i cittadini maggiorenni alfabeti che versassero imposte dirette per una cifra annua non inferiore a 19,8 lire, corrispondenti complessivamente all’8% della popolazione. La legge 30/06/1912 n. 666 promulgata dal governo Giolitti estese l’elettorato attivo a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il corpo elettorale salì al 23,2% della popolazione. La legge 15/08/1919 n. 1401
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mente piramidale e gerarchica”6, con una rigida distinzione fra istruzione tecnico-professionale, cui potevano aspirare alcune frazioni delle classi medio-inferiori, e istruzione umanistica destinata ai figli delle classi dirigenti. Una scuola che, anche nei contenuti, «oscillava abbastanza contraddittoriamente fra la sacralizzazione dei miti risorgimentali a livello elementare (confortata dalla forte diffusione del manzonismo e quindi dall’imposizione di un modello linguistico astratto per la grande massa della popolazione) e la diffusione massiccia del positivismo al livello universitario (secondo il principio per cui altra doveva essere l’istruzione dei poveri e altra quella dei ricchi)»7. Giuseppe Ricuperati così delinea le caratteristiche principali della legge Casati: essa rifletteva la realtà della società piemontese e lombarda per cui era stata concepita; nel governo della scuola proseguiva sulla strada dell’accentramento già delineata negli anni precedenti; divideva l’istruzione umanistica da quella tecnica, riducendo quest’ultima ad una copia imperfetta della prima; non assumeva la responsabilità dell’istruzione professionale, che veniva affidata al ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, il quale del resto, dal 1861, avrà anche la responsabilità degli istituti tecnici; prevedeva un obbligo scolastico limitatissimo, affidato alla buona volontà dei comuni, privo di una solida garanzia finanziaria e perciò del tutto inadeguato ad affrontare i problemi posti dall’analfabetismo che caratterizzava la grande maggioranza della popolazione del nuovo Stato; affrontava in modo inadeguato e differenziato il problema del personale, sia nel campo dell’istruzione secondaria sia in particolare di quella primaria, dove i maestri, privi spesso di qualsiasi formazione professionale, erano lasciati in balìa delle amministrazioni comunali da cui dipendevano e che tendevano a pagare loro stipendi quasi sempre inferiori ai salari medi operai8. Nel suo insieme, il sistema scolastico disegnato da Casati – che si caratterizzava per solidità di concezione e coerenza dell’impianto, e anintrodusse il sistema proporzionale ed il suffragio universale maschile, dichiarando elettori tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età abolendo di fatto le precedenti esclusioni per gli analfabeti. Si veda Pier Luigi Ballini, Elettorato, sistemi elettorali, elezioni, in Massimo Firpo, Nicola Tranfaglia, Pier Giorgio Zunino (diretta da), Guida all’Italia Contemporanea 1861-1997, vol. II, Istituzioni e forme di governo, Garzanti, Milano 2008. 6 Alberto Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, IV, Dall’Unità ad oggi, 2, Torino, Einaudi 1975, p. 842. 7 Ivi, pp. 842-843. 8 Giuseppe Ricuperati, Scuola, cit., pp. 1196-1197.
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che per ciò destinato, nei suoi aspetti di fondo, a durare nel tempo – si adattava plasticamente alla realtà sociale quale era: non nel senso, ovviamente, di ricercare potenzialità ed attitudini da promuovere e valorizzare dovunque fossero, ma piuttosto nel senso di ribadire l’esistente e quasi pietrificare la fisionomia di ogni classe sociale, razionandone l’istruzione e comprimendone il bisogno di promozione. «Paternalismo, filantropismo, beneficenza: era il limite massimo a cui giungevano gli uomini delle classi dirigenti»9. Il fine assegnato alla scuola rimaneva quello della conservazione della pace sociale, della riproduzione delle classi e della perpetuazione del sistema di rapporti fra loro esistenti10. Con le parole di Antonio Gramsci, «ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale»11. I.1 La scuola elementare La scuola elementare pubblica per tutti, ha osservato Antonio Santoni Rugiu, è stata in Italia «una delle grandiose novità dell’Ottocento, non meno del telegrafo, della locomotiva e del piroscafo a vapore, dell’automobile e di tante altre mirabolanti invenzioni e scoperte che nel giro di qualche decina d’anni rivoluzionarono la scienza, la tecnologia e quindi l’organizzazione sociale, la cultura e la mentalità»12. Presentata come il principale strumento di elevazione delle classi popolari, «l’istruzione per tutti fu vantata come la panacea per sanare i mali del mondo». Quell’ottimismo si rivelò solo in parte fondato: in primo luogo, «senza l’istruzione non si sarebbe andati avanti, tuttavia da sola essa non avrebbe garantito l’eden sognato»; in secondo luogo, la scuola pubblica obbligatoria in9 Federico Chabod, Storia della politica estera italiana. Le premesse, Laterza, Bari 1951, p. 340. 10 «La piramide scolastica ha una figura molto indicativa. La prima strozzatura è dopo il primo biennio elementare. La seconda, fortissima, è al secondo biennio. Tutta la scuola secondaria, compreso il ramo tecnico, non supera di molto negli anni sessanta le tremila unità, sufficienti a produrre tutta la fascia dei piccoli e medi impieghi a ad inviare ancora meno di un terzo alle università»: Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d’Italia, V, I documenti, 2, Einaudi, Torino 1973, p. 1701. 11 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere [1929-1935], 4 voll., Einaudi, Torino 1977, vol. III, p. 1242. 12 Per la presente e le successive citazioni cfr. Antonio Santoni Rugiu, Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementari, Carocci, Roma 2006, p. 41.
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contrò molte resistenze ed «ebbe forti oppositori, soprattutto i reazionari, figli dell’ideologia immobilistica della società contadina, e il magistero della Chiesa che nel processo di secolarizzazione della scuola vedeva strapparsi dalle proprie mani più controllo e gestione dell’istruzione, dagli asili all’università». Ciò spiega le ricorrenti esitazioni e ambiguità mostrate dalla classe dirigente nei confronti dell’istruzione popolare e, in genere, riconducibili alla concezione che essa aveva del popolo, visto come una classe bisognosa non tanto di istruzione quanto piuttosto, oltre che di conoscenze poco più che elementari, di ‘educazione’ ai valori e ai comportamenti ammessi, al fine di trarne giovani capaci di diventare uomini operosi e devoti alla monarchia e alla patria. La critica contro l’uso conformizzante e ideologico che si faceva dell’istruzione da parte dei governanti – a cui contribuiva efficacemente anche il tradizionale insegnamento religioso13 – si sviluppò per decenni nelle organizzazioni di cui andò via via dotandosi il movimento dei lavoratori fin dai tempi dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864-1876)14. La convinzione che per lungo tempo diede continuità a tali critiche era già stata espressa da Carlo Pisacane: «la propagazione dell’idea [è] una chimera e l’istruzione popolare un’assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà certo libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero»15. I due più fortunati libri per ragazzi pubblicati in questo periodo – Cuore di Edmondo De Amicis e Le avventure di Pinocchio. Storia di 13 Nella scuola elementare, l’art. 315 della legge Casati sanciva l’insegnamento religioso quale prima materia obbligatoria. «Alla fine d’ogni semestre vi sarà in ogni scuola comunale un esame pubblico, nel quale gli allievi saranno interrogati ciascuno sopra le materie insegnate nella propria classe. Il Parroco esaminerà gli allievi di queste scuole sopra l’istruzione religiosa» (art. 325). Con la circolare ministeriale n. 274 del 29/09/1870, il ministro della Pubblica istruzione Cesare Correnti rese facoltativo l’insegnamento dell’istruzione religiosa. La legge Coppino (15/07/1877, n. 3961) lo sostituì con “prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino” (art. 2). Anche se sulla carta l’insegnamento religioso restò unicamente facoltativo a richiesta delle famiglie, nella realtà le cose andarono ben diversamente e la questione rimase oggetto di laceranti ed aspre polemiche che si protrassero a lungo. 14 Sulla I Internazionale si vedano: Pier Carlo Masini, La Federazione Italiana della Associazione Internazionale dei Lavoratori – Atti ufficiali 1871-1880, “Avanti!”, Milano 1963; Gian Maria Bravo, Marx e la prima Internazionale, Laterza, Bari 1979. 15 Carlo Pisacane, Testamento politico, in Scritti vari, inediti o rari, 3 voll., “Avanti!”, Milano 1964, vol. III, p. 356. Si veda anche Angelo Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), La Nuova Italia, Firenze 1968. Per una riflessione più ampia sulla scuola come apparato ideologico, si veda Louis Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato, in «Critica marxista», 5, 1970.
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un burattino di Carlo Lorenzini, più noto come Collodi, (rispettivamente del 1886 e del 1883) – «ci fanno capire come il primo valore educativo sia per questi scrittori e per il loro ambiente il sacrificio»16, visto quasi come un destino. Ebbe così il via «la saga dei fanciulli dalle mani nere, ma dal cuore d’oro, dei piccoli fabbri, della folla anonima delle vittime sublimate di una divisione del lavoro che non aveva ancora capito il modello capitalistico e predicava i valori di una società della penuria, l’autolimitazione, il risparmio, il rispetto dei potenti e delle istituzioni, la religione come unica salvezza reale dalle ingiustizie terrene»17. Si realizzava, dunque, soprattutto nelle pagine del libro Cuore, «una effettiva convergenza fra la tematica pedagogica e i caratteri della ‘comune’ moralità borghese dell’epoca, che ne fa per molti versi il ‘prontuario’ delle regole di comportamento accettabili, delle virtù da rispettare e dei vizi da rifiutare, dei miti patriottici e dei tabù sociali propri di quella età: dal culto per il padre e la madre, e per la famiglia, intesa come microcosmo sociale basilare, all’amore per la patria, “simbolo” politico e spirituale più che ‘realtà’ politica e sociale, dalla riverenza per l’esercito, pegno di unità e d’indipendenza, ma anche giusta scuola di virilità, al rispetto per tutto ciò che nella società si presenta come “gerarchicamente” superiore»18. Nella stessa direzione, seppure scevra della retorica interclassista e patriottica del testo di De Amicis, si svolge il percorso raccontato da Collodi che conduce il burattino a trasformarsi in uomo, configurandosi nelle forme di una rappresentazione che al lettore suggerisce le ragioni di un iter educativo necessario: «il suo burattino-popolo-Italia, che matura attraverso il dolore e la sventura, pur senza mai rinunciare a contemplare nostalgicamente quella fase di passaggio tra ingenuità e consapevolezza, che nessun individuo e nessun popolo vorrebbero mai varcare (anche se lo debbono, anche se sanno di doverlo fare), è in sostanza la più vera tra le tante ricerche d’identità nazionale, che l’Ottocento ci ha lasciato»19. All’indomani dell’unità nazionale, l’Italia si presentava come un Paese essenzialmente agricolo: quasi il 70% della popolazione lavorava nelle campagne (producendo più del 50% del prodotto nazionale lordo), e 16 Alberto Asor
Rosa, La cultura, cit., p. 926. Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1706. Sul significato sociale del testo collodiano si veda anche Giacomo Cives, Pinocchio inesauribile, Anicia, Roma 2006. 18 Alberto Asor Rosa, La cultura, cit., p. 928. 19 Ivi, p. 939. 17
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la maggior parte dell’attività agricola era destinata all’autoconsumo. Lo sviluppo industriale era debole e circoscritto solo a poche province del settentrione, come riflesso anche di una quasi inesistente moderna rete nazionale di trasporti (1.707 km di ferrovie di cui 850 concentrati in Piemonte, 483 nel Lombardo-Veneto e 225 in Toscana). Mancavano anche le strade, tanto che non poche province erano costrette all’isolamento geografico, economico e culturale. La situazione economico-sociale era particolarmente grave nelle regioni già appartenute allo Stato pontificio e al Regno delle Due Sicilie. Nel Mezzogiorno intere zone saranno caratterizzate ancora per decenni da una debole penetrazione del capitalismo, attestata dalla scarsa diffusione dell’azienda moderna, dall’arretratezza dei sistemi produttivi, da rapporti agrari, proprietari e sociali che vedevano i lavoratori (braccianti, mezzadri, salariati giornalieri) legati ai proprietari non solo da vincoli contrattuali, ma anche di fedeltà e dipendenza quasi feudali. La pastorizia, che a lungo aveva alimentato lo sviluppo dell’industria armentizia e la civiltà pastorale, perse via via importanza per cause molteplici (messa in coltura del Tavoliere delle Puglie, ribasso del prezzo delle lane). Essa rimase pressoché confinata in poche zone, dove miseri erano i salari percepiti da mulattieri, cacieri e pastori, e tristi, nel complesso, le condizioni di vita20. In una celebre inchiesta sulle condizioni economiche ed amministrative delle province meridionali, così scriveva Leopoldo Franchetti: «ad eccezione di poche città, vi trovammo un popolo confinato in un paese selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei campi circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso, diretto da preti poco più civili di lui e da signori, una parte dei quali ignoranti quanto lui, ma più corrotti; i buoni in galera o sorvegliati o cacciati, segregati tutti dal resto d’Italia e d’Europa da un sistema di proibizioni commerciali, di passaporti e di esclusioni di libri; nell’amministrazione una corruzione svergognata. La sola parte della popolazione in cui si trovano qualche volta sentimenti liberi sono gli artigiani delle città e
20 Sulle condizioni economico-sociali dell’Italia postunitaria si vedano: Valerio Castronovo, La storia economica, in Storia d’Italia, IV, Dall’Unità ad oggi, 1, Einaudi, Torino 1975, pp. 5-72; Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, IV, Dall’Unità ad oggi, 3, Einaudi, Torino 1976, pp. 1667-1743. Specificamente sul Mezzogiorno e sulle province meridionali: Piero Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Dall’Ottocento a oggi, Donzelli, Roma 1997; Giuseppe Trebisacce, Il problema educativo nella storia del Sud, Jonia, Cosenza 2004.
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dei borghi, classe pochissimo numerosa e miserrima»21. Per sfuggire alla povertà di un ambiente che spesso negava anche l’elementare diritto ad una vita sopportabile, si determinò un fenomeno di lungo periodo, l’emigrazione di massa, che certamente rappresentava l’aspetto più evidente e drammatico di un diffuso malessere sociale e che coinvolse milioni di italiani fin oltre la metà del Novecento22. Nel contesto arretrato del nuovo Regno, alla diffusa e profonda miseria si accompagnavano i bassissimi livelli di istruzione della popolazione, con un tasso medio di analfabetismo del 78% sull’intera popolazione nazionale (72% maschile, 84% femminile, con picchi più elevati nel Mezzogiorno e nelle Isole)23. Nel 1862-1863, solo l’8,9 per mille della popolazione in età fra gli 11 e i 18 anni riceveva un’istruzione postelementare. Nello stesso periodo, la percentuale di italiani in grado di parlare la lingua nazionale corrispondeva appena all’8 per mille del totale. Di fronte ad una tale situazione, i governanti della Destra storica non adottarono risolute politiche di diffusione dell’istruzione, non soltanto a causa delle ristrettezze finanziarie, ma anche al fine di non alterare i precari equilibri fra Paese legale e Paese reale. Chiusa in una concezione elitaria e classista della società e della cultura, la classe dirigente, da un lato, delegò alla scuola elementare problemi che questa con la sua sola azione non poteva risolvere (lotta all’analfabetismo, unificazione linguistico-culturale del Paese24), dall’altro, permanendo per decenni ben salda la distinzione tutta 21 Leopoldo Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane: Abruzzi e Molise, Calabrie e Basilicata. Appunti di viaggio, Tipografia della “Gazzetta d’Italia”, Firenze 1875, ora in Mario Arpea, Alle origini dell’emigrazione abruzzese. Le vicende dell’altipiano delle Rocche, Franco Angeli, Milano 1987, p. 9. 22 Si vedano: Robert Paris, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, IV, Dall’Unità ad oggi, 1, Einaudi, Torino 1975 pp. 525-620; Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., Donzelli, Roma 20012002; Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Laterza, Roma 2003. 23 La percentuale degli analfabeti sull’intera popolazione andò così progressivamente decrescendo: 72,96% (1871), 67,27% (1881), 56% (1901), 46,7% (1911), 35,8% (1921), 21% (1931). Cfr. Giovanni Genovesi, Storia della scuola italiana dal Settecento a oggi, cit., p. 226. 24 «L’estensione dell’obbligo scolastico e del servizio militare a tutto il nuovo Regno rappresentano due evidenti segni d’improvvisa e necessaria sovrapposizione di disposizioni estranee alle tradizioni delle popolazioni meridionali soprattutto, dettata dall’esigenza di dover a tutti i costi promuovere e favorire l’insorgere di una coscienza di appartenenza, premessa necessaria per l’elaborazione di una cultura nazionale»: Brunella Serpe, Potere democrazia educazione. Analisi storico-sociale e pedagogica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 39.
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ideologica tra educazione (sempre necessaria) ed istruzione (solo possibile), si mantenne la scuola elementare in condizioni non sempre e dappertutto sufficienti per poter efficacemente operare, togliendole la possibilità di trasformarsi effettivamente in una leva di integrazione sociale e di promozione culturale. Dirà più tardi Antonio Gramsci, parlandone nei termini di Una verità che sembra un paradosso, che è nella mediocrità e nel dilettantismo che vanno individuati i tratti che da sempre contraddistinguevano le classi dirigenti. «Le autorità italiane, quelle governative, quelle provinciali, quelle cittadine, non hanno finora decretato un provvedimento che non sia stato tardivo, non hanno pensato un provvedimento che non abbia avuto bisogno di essere modificato, di essere prima o poi cassato, perché, invece di provvedere, veniva a far rincrudire il malessere. Non sono riuscite ad armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse ignorano la realtà, ignorano l’Italia in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. Sono retori pieni di sentimentalismo, non uomini che sentono concretamente. Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano. La folla è ignorata dagli uomini di governo»25. Per conseguenza, l’interesse che il ceto dirigente manifestò nei confronti della scuola popolare finì spesso per tradursi letteralmente nella ben nota formula di Guido Baccelli (ministro della Pubblica istruzione dal 1881 al 1884): “istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può”. Per 25 Antonio Gramsci, Una verità che sembra un paradosso [3 aprile 1917], in Id., Scritti Giovanili 1914-1918, Einaudi, Torino 1972, pp. 100-102. Egli è convinto che la classe dirigente italiana si caratterizza per assenza di “fantasia drammatica”, inclinazione che genera e insieme giustifica il dominio del “dilettantismo”, a sua volta fonte di patologia sociale e di inutile crudeltà. «Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato […]. Uno dei caratteri italiani, e forse quello che è più malefico per l’efficienza della vita pubblica del nostro paese, è la mancanza di fantasia drammatica. Sembra una affermazione letterariamente paradossale, e in verità è una osservazione profondamente realistica […]. Sono crudeli perché la loro fantasia non immagina il dolore che la crudeltà finisce col suscitare. Non sanno rappresentarsi il dolore degli altri, perciò sono inutilmente crudeli».
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cogliere la dimensione ideologica della scuola italiana di questi anni basta esaminare i libri in uso nelle scuole. «Un primo elemento che emerge è la lunga durata dei testi scolastici, spesso ristampati per oltre cinquant’anni. La resistenza alle innovazioni, tipica di ogni istituzione scolastica, appare particolarmente forte in un paese non ancora sollecitato dallo sviluppo industriale. Un’altra caratteristica è la forte carica di idealizzazione, la volontà di inculcare una morale basata sul rispetto dei ruoli sociali accettati come oggettivi. Questo è vero soprattutto per i testi elementari, dove, a sviluppo industriale già iniziato, persistevano ancora tutti i modelli della società agricolo-artigianale, con i suoi comportamenti ormai anacronistici. Ma anche in questa forma di resistenza del passato possiamo scorgere una precisa funzione. Nel clima repressivo di fine secolo i libri di testo delle elementari polemizzano spesso contro le ambizioni sbagliate dei poveri»26. In questo senso anche la tradizionale distinzione tra ceto letterato e volgo illetterato, caratteristica del modo di pensare della classe dirigente, non era che la trasposizione su un altro piano dei rapporti esistenti fra classe dominante e classe subalterna: la classe letterata, in generale, si identificava con la classe dominante. Ciò può spiegare, almeno in parte, la diffidenza che in quegli anni i ceti popolari mostrarono non solo nei confronti della “classe letterata”, ma anche della scuola e dell’alfabeto in quanto tali. L’istruzione elementare era distinta in due gradi (inferiore e superiore) e regolamentata, insieme alle scuole normali per la preparazione dei maestri e delle maestre, dai 58 articoli del Titolo V della legge Casati. Differenziata in classi maschili e femminili, fra il 1861 e il 1871 i suoi iscritti passarono da 1.008.674 a 1.722.94727. Solo il grado inferiore era gratuito e formalmente obbligatorio, da istituire in borgate con almeno 50 bambini; il grado superiore poteva essere invece istituito in comuni con oltre 4.000 abitanti. Il programma didattico del grado inferiore prevedeva l’insegnamento religioso, oltre a lettura, scrittura, aritmetica elementare, lingua italiana, nozioni elementari sul sistema metrico. Il grado superio26 Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., pp. 1705-1706. Si veda anche Antonio Santoni Rugiu, Ideologia e programmi nelle scuole elementari e magistrali dal 1859 al 1955, Manzuoli, Firenze 1980. 27 Gli iscritti alla scuola elementare andarono così crescendo: 1.976.135 (1881-82), 2.454.032 (1891-92), 2.733.349 (1901-02), 3.634.556 (1926-27), 4.761.690 (1931-32), 5.213.004 (1940-41). Cfr. Giovanni Genovesi, Storia della scuola italiana dal Settecento a oggi, cit., p. 227.
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re, oltre a continuare «lo svolgimento delle materie del grado inferiore», comprendeva «le regole della composizione, la calligrafia, la tenuta dei libri, la geografia elementare, l’esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, le cognizioni di scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi ordinari della vita. Alle materie sovr’accennate saranno aggiunti, nelle scuole maschili superiori, i primi elementi della geometria ed il disegno lineare; nelle scuole femminili i lavori donneschi» (art. 315). Le spese per la scuola elementare erano a carico dei comuni, che intervenivano, «in proporzione delle loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti» (art. 317), per provvedere agli stipendi di maestre e maestri e «alle altre spese occorrenti per lo stabilimento e la conservazione delle rispettive scuole» (art. 344). La legge prevedeva che l’intervento dello Stato sarebbe avvenuto attraverso stanziamenti annuali, ma solo in sostegno di quei municipi che «per l’angustia delle loro entrate, o per la poca agiatezza dei loro abitanti, non saranno in grado di sottostare alle spese che questa legge pone a loro carico per l’istruzione elementare» (art. 345). Ciò era previsto formalmente. Di fatto, però, la legge Casati, se nel complesso appariva prudente nel garantire i finanziamenti necessari per far funzionare l’intero sistema scolastico, per l’istruzione elementare, che in fondo era quella che concerneva direttamente la più gran parte della popolazione (perché era la sola che i ceti popolari potevano sperare di frequentare), si mostrò particolarmente carente. Non solo la spesa statale destinata all’istruzione pubblica non era fra le più consistenti (a paragone delle spese militari o in confronto a quella di altri paesi europei), ma si concentrava prevalentemente sull’università e sull’istruzione secondaria classica. Province e comuni dovevano accollarsi notevoli quote della spesa scolastica (dall’edilizia all’arredamento), ma era sui comuni, soprattutto, che gravavano i costi dell’istruzione elementare, dal reperimento dei locali al pagamento dei maestri. E mentre le finanze dei municipi si mostravano largamente insufficienti per una politica di alfabetizzazione, fra il 1861 e il 1876 l’intervento dello Stato diminuì ulteriormente nel settore della scuola elementare, con finanziamenti inferiori ad un decimo di quelli francesi28. 28 Cfr. Giuseppe Ricuperati, Scuola, cit., p. 1197. A riguardo, vanno ricordati i primi studi di carattere storico-comparativo condotti da Antonio Labriola, che approfondì l’indagine e la riflessione sull’evoluzione dei sistemi scolastici di Prussia, Sassonia, Baviera, Austria, Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America, Belgio, Olanda. L’autore sottolineava l’importanza dello «studio dei criteri seguiti dagli altri governi» e, al contempo, della «com-
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I maestri venivano “eletti” dai municipi e assunti con un contratto da uno a tre anni rinnovabile. Per poter essere chiamato ad insegnare in una scuola elementare il candidato doveva essere munito di una patente di idoneità all’insegnamento, di un “attestato di moralità” e doveva aver compiuto 18 anni se uomo, 16 se donna. Le patenti, che erano diverse per il grado inferiore e superiore, si ottenevano attraverso un concorso a cui potevano accedere gli abilitati delle scuole normali per la formazione degli insegnanti della scuola elementare; l’attestato di moralità, invece, veniva rilasciato dal sindaco. A causa dell’insufficiente numero di abilitati dalle scuole normali, la legge prevedeva «la possibilità di presentarsi agli esami di patente nelle scuole normali e magistrali anche senza aver seguito il corso di studi»29. Infine, in caso di carenza di candidati abilitati, il Regio Ispettore per gli studi primari, residente in ogni comune capoluogo di provincia, aveva il potere di affidare l’incarico a persone sprovviste di titolo ma “riputate sufficientemente abili a tale uffizio” (art. 329). Seppure prevista come eccezionale, questa fu in realtà la prassi a cui si dové ricorrere frequentemente per almeno due motivi: da un lato, le scuole normali esistenti non bastavano a formare un numero sufficiente di maestri, dall’altro, rimaneva comunque ristretto il numero di quanti potevano permettersi un prolungamento della scolarità tale da consentire di frequentare la scuola normale e conseguire l’abilitazione. I maestri, dunque, costituirono, per un non breve periodo, un personale improvvisato e instabile. «Presi per lo più d’accatto fra i naufraghi di altre carriere, dagli ex garibaldini agli spretati», tanto deboli da essere “alla totale mercè dei Comuni” e costretti a «rimpolpare il magro stipendio con altri lavori, quaparazione metodica e continua dello stato della nostra coltura scolastica con quella dei paesi più civili»: Antonio Labriola, L’ordinamento della scuola popolare in diversi paesi [1881], in Id., Scritti di pedagogia e politica scolastica, a cura di Dina Bertoni Jovine, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 118. Su Labriola si vedano: Carmelo Vigna, Le origini del marxismo teorico in Italia. Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia, Città Nuova, Roma 1977; Valentino Gerratana, Antonio Labriola e l’introduzione del marxismo in Italia, in Storia del marxismo, vol. II, Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979, pp. 619-657; Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, La Goliardica, Roma 1979; Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Manifestolibri, Roma 2011, pp. 35-41; Nicola Siciliani de Cumis, Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d’archivio, ricerche, didattica, ETS, Pisa 2011. 29 Carmela Covato, La scuola normale: itinerari storiografici, in Carmela Covato, Anna Maria Sorge (a cura di), L’istruzione normale dalla legge Casati all’età giolittiana, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1994, p. 26.
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li il sarto, il sagrestano, il banditore, il campanaro»30. Ancora al principio del Novecento «v’erano maestri che dovevano adattarsi a fare i donzelli in Tribunale, a dirigere le processioni, a seppellire i morti, a insegnare il catechismo domenicale»31. Non molto diversa si presentava la situazione delle scuole secondarie – di cui si parlerà più avanti – dove la penuria di docenti durò per tutto il secolo XIX e solo verso la sua fine, quando l’università fu alla portata delle ambizioni della piccola borghesia, si raggiunse un certo equilibrio fra domanda di docenti e offerta di laureati. Il problema fu affrontato, nella scuola secondaria, attraverso l’assorbimento di un personale precario e spesso privo di laurea, e, nella scuola elementare, attraverso patenti di insegnamento rilasciate con ampie deroghe alla legge32. Nella scuola secondaria, in particolar modo, la ragione della carenza di insegnanti era anche «implicita nel meccanismo selettivo della società, tanto duro che chi arrivava alla frequenza universitaria di rado sceglieva facoltà economicamente poco remunerative come lettere e filosofia»33. D’altra parte, tra gli studenti di matematica, fisica e chimica, seppur più numerosi rispetto a quelli del ramo letterario-filosofico34, erano pochi coloro che aspiravano ad ottenere impieghi nella scuola, preferendo dirigersi piuttosto verso le nuove occupazioni dell’industria e dei servizi e verso l’amministrazione pubblica e privata, che garantivano un reddito superiore a quello dell’insegnamento. Più in generale, il problema della retribuzione del lavoro intellettuale si presentava come rilevante, tanto che fu lo stesso Francesco De Sanctis ad evidenziarlo in occasione della discussione del bilancio di previsione del ministero della Pubblica 30
Giovanni Genovesi, Storia della scuola italiana dal Settecento a oggi, cit., p. 80. Dina Bertoni Jovine, La scuola dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 130. 32 Il numero dei maestri in servizio andò così progressivamente crescendo: 35.323 (1861-70), 46.746 (1871-80), 55.081 (1881-90), 62.159 (1891-1900), 67.753 (1901-10), 89.220 (1911-20), 102.654 (1921-30), 116.368 (1931-40). Cfr. Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Tipografia Failli, Roma 1976, p. 47. 33 Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1702. 34 Nel decennio 1861-70 risultavano nell’università 2.958 iscritti al ramo giuridico, 3.305 al ramo scientifico (compresa la Scuola superiore di applicazione per ingegneri), 2.338 al ramo medico, 222 al ramo agrario, 152 al ramo letterario-filosofico, 59 al ramo economico. Nel decennio 1881-90 si registrò la seguente crescita: 5.051 iscritti al ramo giuridico, 4.180 al ramo scientifico (compresa la Scuola superiore di applicazione per ingegneri), 5.321 al ramo medico, 467 al ramo agrario, 801 al ramo letterario-filosofico, 157 al ramo economico. Cfr. Istituto centrale di statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, cit., p. 57. 31
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istruzione per il 1878: «talora stupisco che in Italia ci sia ancora chi lavori [nel settore della ricerca e delle lettere], quando guardiamo ai magri guadagni, e anche ai magri compensi morali, [essendo] così scarso il numero dei lettori. E manca ancora la fama, perché presso di noi il criterio è ancora così basso, che non si sa distinguere libri nati immortali da libri mediocri. Vi domando quale eccitamento, quale stimolo ha un uomo a lavorare colla bella prospettiva di dover forse rimettere anche le spese di stampa. È dunque necessario che noi pensiamo a creare una posizione alla scienza; non è possibile rimanere in questo stato. Quando penso che un professore tedesco guadagna fino a tremila lire all’anno colle sole lezioni che dà, quando penso che il Mommsen per quei suoi volumi d’iscrizioni latine ha trentamila lire, capisco perché un uomo può consacrarsi all’insegnamento, può fare dell’insegnamento la sua vocazione»35. Arretratezza della società italiana, dunque, miseria degli alunni ma anche difficoltà economiche per professori e maestri. Soprattutto in questi ultimi, affermò Antonio Labriola, spesso era assai viva la «contraddizione dell’esser chiamati apostoli di civiltà e sale del mondo, e del dover poi lottare per il pane cotidiano!»36. La legge Casati fissava per i maestri il minimo dello stipendio annuo differenziandolo secondo il grado di scuola (inferiore e superiore), la popolosità dei comuni sedi di scuola elementare (con la distinzione tra scuole urbane e rurali, a loro volta suddivise in tre diverse classi) e il sesso dell’insegnante37. Tutti, però, erano alla mercé delle amministrazioni comunali per quanto concerneva la garanzia della retribuzione e la stabilità del posto di lavoro, costretti quotidianamente a scontrarsi «con le miserie dello scarso stipendio, dei sindaci ignoranti, del clero rozzamente ostile»38, soggetti a umilianti percorsi che, specie per le giovani mae-
35 Francesco De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova Italia, Einaudi, Torino 1970, p. 234. 36 Antonio Labriola, Della scuola popolare [1888], in Id., Scritti di pedagogia e politica scolastica, cit., p. 245. 37 Ciò implicava che chi prestava servizio nel grado superiore guadagnava di più di chi insegnava in quello inferiore, chi insegnava in città era più retribuito di chi insegnava in borghi rurali o montani e che i maestri percepivano uno stipendio superiore a quello delle maestre. 38 Antonio Labriola, Della scuola popolare [1888], in Id., Scritti di pedagogia e politica scolastica, cit., p. 245.
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stre39, spesso vittime di pregiudizi, potevano determinare conseguenze anche drammatiche, come testimonia il caso della maestra Italia Donati, figlia di poverissimi contadini della Val di Nievole, suicidatasi nel 1886 perché oppressa dall’ingiusta accusa di aver ottenuto il posto sottomettendosi ai desideri del sindaco40. Per il solo grado inferiore della scuola primaria la legge Casati stabilì l’obbligo scolastico, ma poco si operò per attuarlo e farlo rispettare. Alla caduta della Destra storica, la Sinistra parlamentare, nello slancio riformatore del suo primo periodo, con la legge Coppino (15/07/1877) compì un non trascurabile passo avanti. La legge innalzò l’obbligo scolastico fino ai 9 anni d’età, cercò di rendere effettivamente operante il principio dell’obbligatorietà almeno nel grado inferiore della scuola elementare attraverso l’introduzione di sanzioni per gli inadempienti (artt. 3-8), stanziò anche dei finanziamenti statali destinati «ad aumentare il numero delle scuole, ad ampliare e migliorarne i locali, a fornirli degli arredi necessari, e ad accrescere il numero dei maestri» (art. 13). Tuttavia, il processo di scolarizzazione continuava ad incontrare difficoltà41. Non vi era solo un problema di determinazione e volontà politica da parte delle classi dirigenti, ma anche di effettiva propensione a cogliere le opportunità scolastiche disponibili da parte del pubblico potenziale. In altri termini non tutte le famiglie erano in grado di vedere nella scuola un’opportunità, in quanto per lungo tempo l’istruzione non sembrò consentire un percorso, anche modesto, di mobilità sociale ascendente. «La scarsa istruzione non compensava la grande miseria, la scuola non poteva cancellare le ingiustizie»42. Per di più, restava diffuso nelle classi dirigenti e «nell’opinione pubblica influenzata dai partiti reazionari, il 39 Sul rapporto tra genere e educazione si vedano: Simonetta Ulivieri, Educare al femminile, ETS, Pisa 1995, Carmela Covato, Un’identità divisa. Diventare maestre in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma 1996; Carla Ghizzoni, Simonetta Polenghi (a cura di), L’altra metà della scuola. Educazione e lavoro delle donne tra Otto e Novecento, Sei, Torino 2008. 40 Si veda Elena Gianini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Rizzoli, Milano 2003. 41 Nel 1888, Antonio Labriola rilevò che «dal movimento dello stato civile per l’anno 1885 risulta che, sul totale degli sposi e delle spose del regno d’Italia, 55 su 100 non sapevano né leggere né scrivere. Il reclutamento militare per l’anno 1884 ci dava di poco diminuita cotesta cifra pei soli maschi, segnando il 47,22%, mentre il censimento del 1881 dava in totale il 61,94 d’analfabeti su 100 abitanti al di sopra dei 6 anni»: Antonio Labriola, Della scuola popolare [1888], in Id., Scritti di pedagogia e politica scolastica, cit., p. 236. 42 Dina Bertoni Jovine, La scuola dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 15.
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pregiudizio che l’istruzione del popolo portava, come fatale conseguenza, la ribellione, il disordine, la delinquenza»43: per un lungo periodo, essa fu vista con sospetto dalla classe dirigente, timorosa dell’alfabetizzazione perché convinta che avrebbe potuto allargare il malcontento tra i ceti più umili, resi più consapevoli della propria condizione. Fin dall’inizio della vicenda dello Stato unitario, «clero e reazione si trovarono di nuovo saldamente uniti nella battaglia contro il nuovo Stato e, in particolare, contro la nascente scuola nazionale, che non aveva scheletro abbastanza forte per sostenere l’urto»44. La caduta del potere temporale aveva «inasprito l’ostilità dei clericali contro la scuola statale. Il vecchio ricatto messo in opera dai Gesuiti verso i liberali del periodo risorgimentale fu rimesso in uso: l’istruzione, la libertà concessa alla plebe, avrebbero armato le classi subalterne contro i poteri costituiti, alimentato disordini, malcontenti e ribellioni. I fatti della Comune di Parigi parevano dar ragione all’allarmismo dei conservatori, e la frazione contraria all’istruzione del popolo riuscì a intimidire gli animi, a rallentare le iniziative già in atto»45. Le cose, in realtà, andavano viste diversamente, come osservò Pasquale Villari. Da un lato erano le insopportabili condizioni di vita a rendere le popolazioni inclini alla ribellione; dall’altro – questo è il punto – la scuola non produceva alcun benefico effetto su di esse, poiché la sola istruzione non bastava a sottrarle alla miseria. «Che volete che faccia dell’alfabeto colui al quale manca l’aria e la luce, che vive nell’umido, nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Se gli date l’istruzione, se gli spezzate il pane della scienza, come oggi si dice, risponderà come ho inteso: “lasciatemi la mia ignoranza, poiché mi lasciate la mia miseria”»46. Il problema della scuola e dell’istruzione, dell’analfabetismo e della deprivazione culturale era innanzitutto un problema sociale. «Una parte troppo grande della popolazione italiana è quasi abbrutita dalla miseria, dalla oppressione e dall’abiezione in cui si trova». L’industria, l’agricoltura e il commercio non progredivano; «la ricchezza non aumenta come dovrebbe e, quello che è più, lo stato intellettuale e 43 Dina Bertoni Jovine, Introduzione, in Antonio Labriola, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, cit., p. 7. 44 Dina Bertoni Jovine, La scuola dal 1870 ai giorni nostri, cit., p. 15. 45 Ivi, p. 18. 46 Per la presente e le successive citazioni cfr. Pasquale Villari, La scuola e la questione meridionale, in «Nuova Antologia», 1 novembre 1872, ora in Id., Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale in Italia, Guida, Napoli 1979, pp. 141-177.
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morale del paese non si solleva». Era certamente necessario diffondere l’istruzione ed aprire scuole, «ma esse non giovano punto in mezzo ad un popolo, di cui una parte è così abbrutita, un’altra resa indifferente dinanzi a tanta miseria. Se le cose persistono in questo stato, avremo fatto degli sforzi vani, e non vedremo mai trasformarsi il paese». Per conseguenza, «dobbiamo lasciare il popolo nella sua ignoranza, o, per istruirlo davvero, dobbiamo anche educarlo, e migliorare le sue condizioni economiche e sociali. Ed è in questo senso che io dico: la questione della scuola è per noi anche una questione sociale». Lo storico non sminuiva l’importanza delle leggi sull’istruzione pubblica fino ad allora varate dai governi della Destra storica, ma ammoniva che il governo avrebbe dovuto altresì agire in vista di un sistema scolastico “in armonia con i bisogni del paese”. Ciò era però possibile soltanto se la classe dirigente avesse compreso che «il suo primo dovere è di dare non solo l’alfabeto e il pallottoliere al povero lazzarone ed al contadino, ma un tetto, ma l’aria pura e la luce, un tozzo di pane, un mestiere». All’intervento di Villari seguì una polemica piuttosto accesa, ma la questione di fondo – e cioè che un buon funzionamento della scuola presupponeva la creazione di migliori condizioni di vita per la popolazione – rimase per lo più incompresa non soltanto da parte dei governanti ma anche dalla maggior parte degli oppositori, che continuarono a non cogliere il nesso tra questione sociale e istruzione. Ancora nel gennaio 1896, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, «l’oratore ufficiale trovò modo di parlare della delinquenza giovanile sostenendo che essa andava aumentando colla diffusione del sapere»47. In quello stesso anno, a voler fare un altro esempio, il magistrato, giurista e criminologo Raffaele Garofalo svolse a Roma una conferenza sul tema La criminalità in Italia in rapporto all’educazione del popolo. In quell’occasione, alla presenza della regina e di un selezionatissimo pubblico, attribuì alla scuola “l’aumento dell’inquietudine popolare” affermando che «gli insegnanti sono spostati, malcontenti, genii incompresi, i quali, non potendo raggiungere i loro ideali sognati nelle scuole normali e dovendo annoiarsi ne’ paesi a insegnare la grammatichetta, si vendicano col promuovere il socialismo, coll’insegnar cose che offendono la morale e la religione»48.
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Dina Bertoni Jovine, La scuola dal 1870 ai giorni nostri, cit., pp. 94-95. Ivi, p. 94-95.
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