Paolo Perticari_Alla prova dell’inatteso

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Paolo Perticari – Progetto “Moltitudini”

ALLA PROVA DELL’INATTESO Scuola e crisi educativa: dalla malaripetizione agli insegnamenti profondi Scritti di: Paolo Perticari, Angela Battagliola, Nina Saarinen, Rodolfo Apostoli, Maurizia Bertolazza, Federica Bottari, Aurora Castiglioni, Carlo Stanga, Lucia Costanzo, Anna Fermani, Nicoletta Giacomelli, Anna Magli, Anna Maria Manenti, Sandra Martignon, Maja Mencattelli, Barbara Barbisoni, Giovanni Pasini, Grazia Sagonti

ARMANDO EDITORE


Sommario

Presentazione

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ANGELA BATTAGLIOLA - PAOLO PERTICARI

Introduzione La scuola delle moltitudini: un’avventura nella ricerca-azione

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ANGELA BATTAGLIOLA

PARTE PRIMA: ALLA PROVA DELL’INATTESO. SULLA CRISI DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA DELLA GLOBALIZZAZIONE 29

Capitolo I Oltre l’insegnante consumista culturale La cultura dell’insegnante nell’epoca dell’industria culturale

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PAOLO PERTICARI

Capitolo II Alla prova dell’inatteso

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PAOLO PERTICARI

PARTE SECONDA: DALLA MALARIPETIZIONE AGLI INSEGNAMENTI PROFONDI

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Capitolo III Narrazione di insegnamenti profondi

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Capitolo IV Dalle reti dialogiche di genitori al cambiamento del modo di vivere

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NINA SAARINEN

Capitolo V Linee guida per un tfr da fare RODOLFO APOSTOLI

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Presentazione ANGELA BATTAGLIOLA - PAOLO PERTICARI

«Non è la massa ma la qualità della conoscenza ad essere importante. Si possono sapere molte cose senza conoscere le cose essenziali». (Lev Tolstoj)1

Questo libro è il naturale proseguimento delle puntualizzazioni teoriche e del racconto dell’esperienza maturata all’interno di una realtà scolastica complessa contenuta nel volume La scuola che non c’è2 è frutto della ricerca-azione “La scuola delle moltitudini” che i docenti dell’Istituto (ora “Comprensivo Centro 3 di Brescia”) stanno conducendo da un decennio sotto la guida di Paolo Perticari, al fine di promuovere, in una fase di vero stallo istituzionale, una corrente di pensiero che riveda il modo di fare scuola da parte dei docenti e, di conseguenza, di stare a scuola da parte degli alunni. A Freire, Illich e soprattutto a Don Milani si devono delle prese di posizione molto critiche nei confronti della scuola di massa omologata ai poteri forti o spesso soggetta a finte mode pseudo pedagogiche, organizzata più per cicli cronologicamente e staticamente definiti, anziché per spazi intesi come luoghi di una comunità costantemente in dialogo, aperta al quotidiano, ove l’imprevisto diventa un fattore importante per affrontare il legame che ci deve essere tra apprendimento e vita, tra pensiero e modo di vivere ancorato a valori universalmente riconosciuti, ma soprattutto da praticare giorno dopo giorno. L’urgenza di un rinnovamento profondo, non solo del far scuola quotidiano, ma anche dell’organizzazione complessiva dell’Istituzione scolasti1

L. Tolstoj, Il cammino della saggezza, Centro Gandhi, Pisa, 2010, p. 28. P. Perticari, La scuola che non c’è. Riflessioni ed esperienze per un insegnamento aperto, inclusivo e universalista. Il caso del 2° Istituto comprensivo di Brescia, Armando, Roma, 2008. 2

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ca, ha assunto il profilo, condiviso dalle voci più autorevoli delle società democratiche europee, di una vera e propria emergenza educativa da risolvere quanto prima pena la “morte” della scuola. La proposta che Paolo Perticari ed i docenti di Brescia fanno in questo libro è netta. Di fronte a una crisi educativa di proporzioni smisurate, la scuola, se vuol essere credibile, si trova a dover affrontare una vera svolta “immunologica”: continuare nella malaripetizione, perdendo credito, o orientarsi verso la prospettiva degli insegnamenti profondi. Infatti, questa necessità sta diventando ogni giorno sempre più evidente, soprattutto ora che le recenti riforme hanno compresso ancora di più le opportunità di fare della scuola un modo di vita non declinato sulla quantità delle conoscenze trasmesse in modo parcellizzato e neppure su indicazioni qualitative tese alla verifica di un apprendimento mnemonico classificato in modo sommatorio, bensì sulla profondità dei saperi criticamente appresi, i quali, superando la prova dell’inatteso, vengono a costituire una solida base per continui approfondimenti come parte integrante della vita stessa umanamente intesa. Vita e saperi, quindi, strettamente uniti per dar corpo ad un’interazione scuola e società fondata sulla consapevolezza che ciascun uomo è responsabile davanti a se stesso, ma anche davanti alla comunità di cui fa parte e alla cui crescita deve contribuire tanto in termini di generosità economica, quanto in termini di civiltà coerentemente vissuta. I docenti che hanno sperimentato la modalità di far scuola secondo gli attesi imprevisti hanno accettato la sfida del mostruoso e sono testimoni della qualità che docenti ed allievi possono raggiungere passando, da una semplice trasmissione di conoscenze per lo più attraverso un insegnamento di tipo frontale, ad una scuola poli-posizionata negli spazi degli insegnamenti profondi e dell’atteso imprevisto. Invero, i docenti sperimentatori, pur dovendo adattarsi all’organizzazione ormai obsoleta dell’istituzione che la governa, sono in grado di documentare come sia possibile, attraverso alcune strategie metodologiche didattiche di elevato spessore, mettere in gioco se stessi e gli alunni in un percorso di insegnamento/apprendimento integrato, altamente significativo per tutti, fecondo di prospettive future per un’umanità rinnovata. Si dovrà operare, quindi, su se stessi e con gli altri affinché questo ulteriore contributo possa essere motivo di rilancio riguardo alla necessità di cambiare registro, una volta per tutte, sul far scuola in modo non banale e per stare a scuola da persone pensanti e criticamente attive. 8


Introduzione

La scuola delle moltitudini: un’avventura nella ricercaazione ANGELA BATTAGLIOLA

«Dov’è la saggezza che abbiamo perso con la conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso con l’informazione?». (Thomas Eliot)

Da svariati decenni si parla di una scuola sempre più “disadattata” nel rispondere alle sfide della società contemporanea. Già negli anni Settanta del secolo scorso Giulio Girardi in Educare: per quale società sottolineava con forza il fatto che “è all’interno di un progetto d’uomo e di società che s’iscrive ogni progetto pedagogico”1 e che, quindi, il senso dell’educazione e della scuola va recuperato in una visione sistemica a partire dal tipo di umanità di cui vogliamo far parte e che intendiamo realizzare. Gli errori e gli orrori della storia hanno, invero, innescato dei processi evolutivi a livello mondiale, portando l’ONU a declinare carte dei diritti fondamentali le quali, spesso, non hanno trovato piena applicazione, nemmeno negli stati più avanzati dal punto di vista democratico; hanno suscitato la reazione di uomini attenti e sensibili che hanno dato vita ad organizzazioni internazionali, spesso no profit, che si occupano di diffondere strategie di resistenza, di denuncia, nonché di sostegno concreto alle popolazioni che vivono situazioni non solo di oppressione, ma anche di grande povertà ed emarginazione tra l’indifferenza degli stati nazionali più dotati di risorse. 1

G. Girardi, Educare: per quale società?, Cittadella, Assisi, 1975, p. 15.

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Quindi, c’è legittimamente da domandarsi, in che tipo di mondo viviamo noi oggi? Le società in genere, compresa quella italiana, non offrono certamente modelli virtuosi cui far riferimento: negazione totale o parziale di diritti fondamentali, omologazione dei saperi in nome del profitto e, quindi, perdita di conoscenze legate alla natura del proprio territorio, a culture, tradizioni, linguaggi, devastazione ambientale, escalation di corruzione, violenza, ecc. sembrano impregnare, senza lasciare alcuno scampo, se non quello di un consumismo ottuso a fronte di una degradante miseria sia materiale che spirituale, la vita quotidiana. Per converso, l’ideazione, e conseguentemente la produzione tecnologica, ha raggiunto traguardi di eccellenza in moltissimi settori ed ha contribuito a cambiare la visone del mondo: per cui si parla sempre di più di un mondo globalizzato che dovrebbe beneficiare delle conquiste che potrebbero rendere possibile una vita migliore per tutti gli esseri umani nel campo della comunicazione, della medicina, delle costruzioni, dell’energia, ovvero del lavoro in generale, meno gravato, in gran parte dalla presenza, ancora, di mestieri faticosi e pesanti. Ma non è proprio così. Infatti, anziché far tesoro delle esortazioni di tanti uomini “illuminati” del nostro tempo quali Augé, Amoruso, Bauman, Bertalanffy, Chomsky, Latouche, Magnaghi, Norman, Panikkar, Petrella, Rifkin, Salzano, Stiglitz, Vandana tra i tanti altri che si potrebbero citare e che spaziano in tutti i rami del sapere, si è frantumato il concetto di bene comune esaltando il mito dell’individualismo più sfrenato fondato su un liberismo cieco e sordo alle istanze di giustizia non solo locali, ma anche globali. Certamente non può essere consolante sapere che il malaffare2 ha sempre prosperato da che mondo è mondo, ma l’avvento, sia pure molto faticoso e che ha richiesto secoli, di norme internazionali in difesa della dignità dell’uomo e dei suoi diritti poteva far ben sperare in un rapido avanzamento verso una prospettiva di civiltà planetaria3 foriera di un vero e proprio scatto evolutivo della razza umana che potesse riconciliare l’uomo con l’uomo e l’uomo con la natura in genere. Si assiste, invece, con un profondo senso di disagio, ad un declino dell’umanità che sembra a prima vista irreversibile. 2 3

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C.A. Brioschi, Il malaffare. Breve storia della corruzione, Longanesi, Milano, 2010. L. Boff, Nuova era: la civiltà planetaria, Cittadella, Assisi, 1994.


Ulrich Beck nel suo libro I rischi della libertà si chiede se viviamo davvero nella società dell’egotismo ed osserva che “nella società moderna viene meno quel biotipo trascendente dei valori in cui si radicano la comunanza, la solidarietà, la giustizia ed anche la democrazia”4. Ma avanza, poi, tutta una serie di acute argomentazioni che portano ad evidenziare quanto sta accadendo sotto gli occhi di tutti, ma che rimane invisibile ai più, se i parametri di riferimento sono la crescita, l’accumulo di ricchezza, la paura per un futuro incerto. Così mentre alcuni si affannano ad ammassare beni che si fanno sempre più scarsi, altri si accontentano del poco e dedicano tempo a ciò che non si può comprare: “pace, ozio, impegno autodeterminato, gusto dell’avventura, confronto con gli altri”5. “Muta la percezione sociale di ciò che è considerato ricchezza e ciò che è considerato povertà e in modo così radicale che, in certi casi, un reddito e uno status sociale più basso, accompagnati a una maggiore possibilità di svilupparsi e di organizzarsi autonomamente, non vengono vissuti come un passo indietro, ma come un passo in avanti. […] D’altra parte si fa avanti l’inattesa possibilità che il meno si trasformi in più: le perdite sul piano economico possono essere superate se si accompagnano a una crescita della socialità autonomamente dispiegata. Forse solo una società della libertà – e non una società del tempo libero – potrebbe consentirci di prendere congedo dalla società della crescita e del lavoro”6. Così, due parole chiave che descrivono la situazione mondiale, individualizzazione e globalizzazione, sembrano trasformarsi da minaccia in opportunità per la seconda fase che può caratterizzare la modernità: individualismo si coniugherebbe, allora, come “individualismo altruista” tipico di chi vuole affrancare il proprio io, ma non teme di confrontarsi con la diversità ed accoglie l’altro senza pregiudizi; globalizzazione consisterebbe nella possibilità di attuare una mobilità seguendo criteri di responsabilità, di auto organizzazione della propria vita secondo principi di libertà, rinunciando anche ad un’opportunità di lavoro stabile e ad una sistemazione abitativa stabile su un determinato territorio. Anche Rifkin nell’Era dell’accesso esamina le rapide trasformazioni in atto e pone l’accento sul ruolo chiave delle nuove tecnologie che stan4

U. Beck, I rischi della libertà, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 39. Ivi, p. 48. 6 Ivi, p. 49. 5

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no cambiando i parametri non solo dell’economia, ma anche della cultura e delle relazioni. “Stiamo viaggiando verso una nuova epoca nella quale una porzione crescente dell’esperienza dell’uomo verrà acquistata attraverso l’accesso a reti poliedriche nel ciberspazio. Tali reti elettroniche nel cui dominio sempre più persone vivranno la maggior parte delle proprie esperienze quotidiane, sono controllate da un numero limitato di potenti multinazionali dei media”7. Stabilire al più presto un giusto equilibrio tra il dominio della cultura e quello dell’economia, dice Rifkin, sarà una delle questioni più urgenti dell’era dell’accesso che, comunque, sta modificando, non poco, ad un ritmo serrato, i comportamenti dei giovani di questa che viene definita dall’autore come “generazione proteiforme” ossia di persone che si “trovano perfettamente a proprio agio nel gestire attività ed intrattenere rapporti sociali nell’universo del commercio elettronico e del ciberspazio e si adattano senza difficoltà alla moltitudine di realtà simulate che compongono l’economia culturale. Il loro è un mondo più teatrale che ideologico, più orientato all’ethos del gioco che all’ethos del lavoro: l’accesso è, già, un modo di vivere e benché la proprietà possieda ancora una sua rilevanza, essere connessi per loro è più importante. Gli uomini del XXI sec. probabilmente percepiranno se stessi come nodi integrati in una rete di interessi condivisi […] Per loro la libertà personale avrà poco a che fare con il diritto di possedere e di escludere gli altri dal possesso e molto con il diritto di essere inclusi in una rete di relazioni reciproche”8. Anche lo sviluppo cognitivo e relazionale dei giovani della generazione del web subirà, certamente, un cambiamento. Alcuni psicologi li definiscono, già, come “personalità multiple” ossia come individui dalla coscienza frammentata perché orientata a rispondere ai bisogni, di volta in volta, determinati dalla rete virtuale. Ciò non toglie che vi siano altri studiosi che vedono in questo sviluppo qualcosa di nuovo e di positivo rispetto al passato, ossia la possibilità che i giovani siano più capaci di adattarsi alla realtà che muta velocemente, di cooperare anziché di competere, crescendo in un mondo di reti. Che tipo di progetto pedagogico può allora scaturire da questo stato di cose? 7 J. Rifkin, Entropia, Baldini & Castoldi, Milano, 2000; Id., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2000, p. 15. 8 Ivi, p. 19.

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Invero, il problema non è affatto semplice, in quanto educazione ed istruzione, nelle società cosiddette democratiche, si dovrebbero coniugare nel segno della qualità e non tanto della quantità di ciò che si apprende e ci si appresta a vivere; e si dovrebbero declinare, soprattutto, come opportunità date a ciascuno di realizzarsi come uomo libero e come cittadino responsabile che opera per il bene comune, in stretta collaborazione con la famiglia e con le agenzie educative del territorio di appartenenza. Certamente una scuola che si affida alla pura ripetizione forse non è stata del tutto utile nel passato, ma non lo è, tantomeno, nel tempo presente, soprattutto se si tiene conto dei risultati delle ricerche delle neuroscienze, degli studi avanzati in campo psicologico, come in quello sociologico, nonché pedagogico. Si parla da tempo di molteplicità delle intelligenze, di stili di apprendimento, di sviluppo della padronanza del linguaggio, della memoria, della creatività, ma nella scuola si registra una stupefacente ignoranza rispetto a tutto ciò, perché nella stragrande maggioranza dei casi, si procede come se non si fosse scoperto nulla rispetto al funzionamento della mente, della psiche. Per cui si opera sollecitando, tutt’al più, l’intelligenza di tipo verbale, la memoria a breve termine, si dimentica totalmente che la parte destra del cervello al pari di quella sinistra deve essere utilizzata perché consente di sviluppare le molteplici ed articolate funzioni intellettive di cui ciascuno è geneticamente dotato9. Studiare senza capire il senso profondo delle questioni che sono sottese ad ogni insegnamento, ripetere pedissequamente ciò che l’altro spiega e che un qualunque libro di testo riporta, senza poter chiedere un perché che interpelli le ragioni vitali dell’essere e dell’esistere, poiché è così che si raggiungono buoni risultati e si viene positivamente valutati al di là di quello che veramente si riesce a sedimentare nella propria coscienza, ha segnato troppo a lungo l’obbligo di frequentare la scuola. Quando, poi, non accade, anche troppo spesso, che qualcuno (e sono tanti), non rispondendo a degli standard prestabiliti, venga emarginato e costretto a fuoriuscire dal sistema. Ma c’è pure chi abbandona la scuola ancora prima di essere lasciato da parte. Ricordiamo, a questo proposito, la denuncia che Don Lorenzo Milani10 ha rivolto alla scuola che emargina mentre questa, invece, dovrebbe 9

Vedi E. de Bono, Sei cappelli per pensare, Rizzoli, Milano, 1999. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze, 1967.

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tendere a declinare un’educazione che sviluppi contemporaneamente il senso della libertà e della responsabilità. Per cui ogni docente deve accogliere lo studente, ovvero, tutti gli studenti, mettendoli in condizione di apprendere l’amore della verità ed il senso del bene e della giustizia; di improntare la propria esistenza nel segno della semplicità aprendosi con totale fiducia ad essa; di conquistare il senso del lavoro ben fatto, di praticare la cooperazione. Così diventa essenziale per i docenti incoraggiare e favorire le disposizioni che permettono lo sviluppo della vita interiore, centrando l’attenzione sulla profondità della persona ed assicurando l’unità del sapere per la vita liberato dalle sovrastrutture non essenziali. Quindi, se è un obbligo andare a scuola, si dovrebbe pretendere il meglio, perché lo studio deve ancorarsi alla vita e consentire a tutti di acquisire gli strumenti per riflettere sul presente, pensare al proprio futuro, interloquire appropriatamente, per poi agire ed operare possibilmente con quella dignitosa coerenza che dovrebbe radicarsi su valori universalmente riconosciuti. Infatti, la pura erudizione, al di là di quello che pensano la pur simpatica Paola Mastrocola11 ed altri da par suo, non si è mai tradotta in sapienza. Nietzsche in Considerazioni inattuali osserva che “L’erudito è immerso nel deserto accumulato delle cose apprese che non agiscono all’esterno, dell’erudizione che non diventa vita. Non produce un arricchimento, ma uno ‘svuotamento’”12. Ciò non vuol dire che l’insegnamento non debba fondarsi su categorie di pensiero che hanno il compito di inserire l’esistente in un sistema ordinato per cui è inconfutabile il fatto che la nostra mente, tendendo in media ad operare in questo modo, ha consentito all’umanità di conseguire il progresso materiale. Ma per essere “colti” non è necessario possedere una rara creatività o una particolare intelligenza, né un vastissimo repertorio enciclopedico personale. È, invece, indispensabile, ripercorrere criticamente il cammino della conoscenza, attraverso un’autonoma rielaborazione che sia in grado di arricchire le proprie potenzialità. 11 P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma, 2011; Id., La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma, 2008. 12 F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, Newton & Compton, Roma, 1997.

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Si tratta, quindi, di elaborare e connettere le nozioni che vanno memorizzate dopo un’attenta meditazione. Ci piace ricordare Socrate, filosofo ricercatore, che “sa di non sapere”, mentre i sofisti erano consumatori di una conoscenza vacua ed astrusa, anche se ostentata con sussiego. Soltanto rielaborando le conoscenze si possono ottenere altrettante e forse più appropriate formulazioni, oppure ripensare in modo nuovo idee, concetti propri od altrui, allo scopo di coniugarli meglio oppure di perfezionarli e di adeguarli alla realtà presente. Molte sono state, invero, le sollecitazioni di studiosi di varie discipline, rivolte ai docenti perché provassero a sperimentare nuove modalità di far scuola e di stare nella scuola, anche se, poi, pochi hanno avuto il coraggio di lanciarsi in una ricerca-azione monitorata da esperti. Una corposa ricerca applicata, autorizzata dal Ministero della Pubblica Istruzione, è stata quella proposta dal 13° Circolo di Verona, partita nel 1975 ed ampiamente descritta nel volume di Vittorino Stanzial e Giuliana Chiavegato, L’unità pedagogica: una scuola per l’integrazione oltre la scuola delle classi (Ed Fabbri, 1980), frutto di un quinquennio di sperimentazione. Si è trattato di un’esperienza nata dall’esigenza di rispondere in termini di qualità alle molteplici problematiche presenti a scuola ossia alla necessità di fare della scuola un ambiente di apprendimento significativo per tutti gli allievi a partire dalla situazione di partenza di ciascuno, disabili compresi. Allora si è trattato di lanciare una vera sfida al sistema monolitico della pubblica istruzione da sempre orientata, soprattutto per ragioni economiche, a costituire classi di alunni di pari età. L’unità pedagogica di docenti ed alunni ha consentito, innanzitutto, di valorizzare le effettive competenze degli insegnanti superando l’affidamento ad un unico docente dell’insegnamento di tutte le discipline curricolari ed, inoltre, di dar vita a vari raggruppamenti di alunni di età diverse (gruppi classe eterogenei, gruppi di studio omogenei, gruppi opzionali per attività laboratoriali, grandi gruppi per attività assembleari) finalizzati a conseguire obiettivi diversificati in ordine al miglioramento della partecipazione di tutti gli allievi al proprio percorso di apprendimento, ma anche alla vita di tutta la scuola. Naturalmente grande è stato lo sforzo per la formazione del personale docente, ma sono stati anche notevoli i risultati verificati dal Ministero che avrebbe dovuto procede15


re, al termine del quinquennio di sperimentazione, ad implementare la ricerca coinvolgendo altre scuole per, poi, dar corso su tutto il territorio nazionale all’introduzione di un modello organizzativo maggiormente efficace. Ciò non si è verificato e tutto si è bloccato a livello di sperimentazioni finanziate ed autorizzate dal Ministero della Pubblica Istruzione. Soltanto l’occasione offerta dal Ministero di procedere nell’anno 1980 ad una verifica dello stato di avanzamento dell’integrazione generalizzata degli alunni disabili in tutte le scuole d’Italia, a seguito della chiusura o già avvenuta o in corso di completamento definitivo delle scuole speciali, ha consentito di far conoscere a livello nazionale una ventina di scuole meritevoli di attenzione tra le quali le scuole del 13° Circolo d Verona ed anche l’esperienza di integrazione degli alunni disabili intrapresa dalla Direzione Didattica del 7° Circolo di Brescia (ora Istituto comprensivo Centro 3 di Brescia). Il seminario nazionale “Iniziative pedagogico didattiche per l’inserimento scolastico degli handicappati” tenutosi ad Arezzo nel giugno dell’anno 198113 è stata l’occasione per iniziare da subito, con una realtà scolastica, quale quella del 13° Circolo di Verona, decisamente la più avanzata nella ricerca pedagogico-didattica tra le istituzioni scelte dal Ministero per la partecipazione al suddetto seminario, un proficuo ed intenso scambio di vedute sfociato, dapprima, nella visita sul campo al fine di verificare, con un gruppo di docenti scelti ad hoc, l’organizzazione di questo Istituto veronese preso come possibile modello; in seguito nella realizzazione di un percorso di formazione per i docenti dell’istituto tenuto dal Dott. Stanzial e dalla Dott.ssa Chiavegato in persona. L’organizzazione perseguita da queste scuole veronesi ha intrigato anche i docenti bresciani che si trovavano a gestire, nel centro storico di Brescia, una situazione scolastica assai problematica che non poteva, più a lungo, essere lasciata decantare. Infatti la popolazione scolastica dell’Istituto presentava un divario enorme tra chi aiutato anche dalla famiglia poteva conseguire un buon livello di istruzione e chi, abbandonato a se stesso e oppresso da mille problemi di quotidiana sussistenza, faticava a raggiungere o non raggiungeva del tutto un livello di istruzione accettabile. L’abbandono degli studi nell’età dell’adolescenza 13 Ministero della Pubblica Istruzione, Iniziative pedagogico didattiche per l’inserimento degli handicappati, Arezzo, 8-12 giugno 1981, Atti del seminario nazionale, Arezzo, 1982.

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da parte di molti, troppi, ragazzi veniva, poi, letto, giustamente, come una sconfitta per la scuola. Da qui è iniziato un cammino di ricerca dei docenti ed in alcuni casi anche del restante personale (collaboratori scolastici, operatori per l’integrazione, personale di segreteria e parte delle famiglie dell’Istituto) che, nel corso degli anni, si sono soffermati ad indagare le varie problematiche per trovare delle risposte che consentissero di rivedere l’impostazione generale della scuola nel segno della qualità. Per prima cosa è stata rivista l’organizzazione complessiva della scuola individuando nel modello dell’unità pedagogica, sperimentato con successo a Verona, un punto di riferimento sicuro da perseguire, sia pure con qualche aggiustamento dovuto al fatto di dover fare i conti su una diversa distribuzione delle risorse di personale assegnata, di anno in anno, da parte dell’amministrazione scolastica periferica (ex Provveditorati agli studi provinciali). La richiesta, avanzata nell’anno 1985 al Ministero della Pubblica Istruzione, di procedere ad una sperimentazione quinquennale non ha sortito l’effetto desiderato, in quanto l’amministrazione centrale ha bloccato definitivamente, proprio a partire da quel periodo, tutte le sperimentazioni proposte dai circoli didattici, pur invitando a realizzarle localmente in piena autonomia. Certamente il non poter contare su risorse finanziarie aggiuntive ha reso più difficile l’avvio del progetto dell’Unità Operativa docenti/allievi, progetto che, tuttavia, è andato arricchendosi e consolidandosi nell’arco di un decennio. Quindi, il confronto anche con altre realtà scolastiche italiane tra le più vivaci, l’aggancio, pur se non continuativo, con l’Università e/o con agenzie accuratamente scelte per la formazione di tutto il personale docente e non docente, l’introduzione sistematica della pratica dell’assemblea settimanale degli alunni per unità operative di classi parallele, quale opportunità data agli allievi di partecipare attivamente al processo di insegnamento/apprendimento, lo sviluppo della pratica laboratoriale estesa a tutte le discipline secondo le linee metodologico didattiche indicate da De Bartolomeis14, l’approccio alle nuove tecnologie come strategia di supporto nelle difficoltà di apprendimento a partire dall’handicap, hanno consentito, anno dopo anno, ai docenti dell’istituto, di sperimentare ulteriori modalità di far scuola, nonché di porsi nella condizione di con14

F. De Bartolomeis, Il sistema dei laboratori. Per una scuola nuova necessaria e possibile, Feltrinelli, Milano, 1978.

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dividere con i colleghi delle significative esperienze in base alle quali riprogettare una scuola come luogo veramente capace di accogliere tutti, una scuola come strumento di promozione delle potenzialità di ciascuno, una scuola come tempo da restituire alle pratiche per una vera educazione alla libertà di pensiero e di parola. Così si è puntato molto sulla formazione del personale affinché tutti i docenti fossero in grado di sperimentare le più consolidate ed avanzate strategie metodologico didattiche in ordine alle varie discipline del curricolo, di applicare le migliori pratiche per l’integrazione degli alunni disabili e degli alunni non italofoni, di rivedere ancora una volta il taglio da dare all’organizzazione dell’Istituto con l’introduzione dell’autonomia scolastica. Nel 1996 l’uscita del testo di Paolo Perticari Attesi imprevisti15 stimolava all’interno dell’Istituto, dapprima sia pur molto timidamente e poi via via in maniera sempre più decisa, l’esigenza di cercare nuovamente la collaborazione con l’Università per dar vita ad una sperimentazione che consentisse di superare la frammentarietà di un’azione didattica oltre che organizzativa, orientata a trovare soluzioni per rispondere di volta in volta all’emergenza del fare quotidiano. Invero, anno dopo anno, l’impegno prevalente dei docenti, soprattutto dopo l’avvento dell’autonomia organizzativa, anziché tradursi in opportunità di snellimento di tempi e procedure, ha significato, troppo spesso, rincorrere il tempo per occuparsi prevalentemente di tamponare le emergenze o di rispondere a pratiche burocratiche poco funzionali all’attività didattica vera e propria. È vero che lo scollamento delle realtà istituzionali (scuola, servizi comunali, servizi di assistenza per il diritto allo studio, ecc.) deputate alla collaborazione per il raggiungimento delle medesime finalità costituzionali è andato sempre più allargandosi in questi ultimi anni, alla faccia del lavoro di rete che con tanta fatica si era riusciti a costruire nel tempo sul territorio. Ma è nella mancanza di tempo per occuparsi in modo significativo di didattica, di apprendimento, di relazione che si può rischiare davvero di perdere il senso della propria professione. Nell’Istituto, però, è prevalso un grande senso di responsabilità, per cui, dinanzi ad una crisi generale, davanti al moltiplicarsi dei problemi, si è voluto rispondere con un atteggiamento positivo e ci si è andati in15

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P. Perticari, Attesi imprevisti, Bollati Boringhieri, Torino, 1996.


terrogando se la moltitudine di culture, identità, stili di apprendimento, anziché costituire una barriera ad un far scuola ripetitivo negli schemi e nei metodi, potesse costituire una risorsa nel far scuola quotidiano. Nell’anno 2002 ha, così, avuto inizio l’attività di ricerca-azione, tutt’ora in corso, sotto la guida del Prof. Paolo Perticari: “La scuola delle moltitudini: la molteplicità delle intelligenze, degli stili di apprendimento, delle culture e qualità della didattica”, progetto di sperimentazione per una ricerca-azione congiunta tra l’Università degli Studi di Bergamo, Facoltà di Lettere e filosofia ed il 2° Istituto comprensivo di Brescia (dall’anno 2010 Istituto comprensivo Centro 3 di Brescia). Dopo i primi segnali che si stava imboccando la strada giusta, c’è sempre stata la volontà di estendere l’invito alla partecipazione alle scuole, dapprima viciniori, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo e secondo grado del territorio, poi all’IRRE Lombardia (non ancora soppresso) perché si facesse interprete di estendere la sperimentazione a più vasto raggio e, quindi, ad associazioni professionali, in seguito ad altre scuole della provincia raccogliendo, invero, poche adesioni in quanto ci è sempre stato risposto che la ricerca, benché interessante, costituiva un grosso impegno per i docenti, i quali, da una quindicina d’anni a questa parte, non hanno più l’obbligo di partecipare alla formazione, mentre i singoli Istituti sono ancora tenuti a proporre attività di aggiornamento (vera contraddizione in termini, tutta italiana!!!). L’Istituto, nonostante ciò, ha continuato a mantenere vivo questo impegno, grazie alla volontà del corpo docente pienamente consapevole che, se si vuol cambiare in meglio il far scuola quotidiano, la cosa tocca tutti da vicino e che non si può continuare a lamentarsi di quello che non funziona, rinviando sempre al domani la ricerca di soluzioni alternative. Invero, la formazione continua se è un fattore imprescindibile per tutte le professioni, ma anche per tutti i mestieri oggi, lo è ancora di più per chi opera nella scuola, vista la delicatezza dello specifico ruolo del docente, ruolo che si configura nella capacità di guidare e sostenere il cammino delle nuove generazioni verso la scoperta di un sapere sempre più soggetto a continui cambiamenti. Certamente, mettersi in cammino con la giusta dose di curiosità come un viandante che ama scoprire luoghi sconosciuti, ma anche come un viaggiatore sufficientemente attrezzato che non ha paura di incontrare ostacoli insormontabili, richiede, almeno, un pizzico di voglia di mettersi 19


continuamente in gioco, senza aspettarsi incoraggiamenti dall’alto, ma forti della propria consapevolezza di non aver mai finito di conoscere e quindi di imparare perché il nuovo è sempre davanti a noi ed esige criterio interpretativo. Ma in tutte le imprese felici, quel che conta è partire anche in pochi, per raccogliere, strada facendo, altrettanti compagni di viaggio. La provocazione che ci ha fatto capire come non si possa più continuare a perpetuare una trasmissione del sapere sic et simpliciter, condita da qualche espediente didattico e nulla più, è l’assunto ormai consolidato, visto il declino sempre più evidente della nostra società occidentale, che, dopo Auschwitz, non si possa più insegnare nello stesso identico modo. Paolo Perticari nel libro Pedagogia critica della prassi comunicativa e cognitiva16 scrive a questo proposito: Abbiamo costruito tutto un sistema formativo centrato attorno alla parola “efficienza”. Quanta efficienza è stata necessaria ad Auschwitz, per accogliere in spazi ristrettissimi fino a 16 vagoni al giorno pieni di ebrei, ebree, zingari, zingare, comuniste, comunisti, bambini e bambine, handicappati, handicappate? Oppure quanta efficienza ha richiesto il lavoro di uccidere da cinquemila a ventimila persone in ventiquattro ore? Diecimila ebrei al giorno potevano essere cremati solo se i treni non arrivavano più tardi delle tredici e dieci. E i treni arrivavano puntuali. Bisogna considerare a fondo la distinzione che c’è tra efficienza e efficacia, e non puntare sull’efficienza, ma sull’efficacia. Ma poi, ancora, che cosa vuole dire efficacia nei processi educativi e formativi? Lo sfondo delle scienze, del pensiero e della formazione nell’attualità in cui viviamo, è Auschwitz. La formazione umana è ancora tutta dentro l’orizzonte di Auschwitz. Un apprendimento che non serve a capire questo è vergognosamente falso. Le premesse cognitive di Auschwitz funzionavano sulla base di una normale ordinata e sana efficienza umana che tende a riproporre l’obbedienza dell’uomo capace ed efficiente: tutte le volte che si riceve una richiesta di efficienza o di efficacia, non importa, ogniqualvolta si arrivi ad un’assunzione di responsabilità, si dovrebbe pensare ad Auschwitz… 16

P. Perticari, Pedagogia critica della prassi comunicativa e cognitiva, CLUEB, Bologna, 2004, p. 10.

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La stretta collaborazione tra scuola ed università ha portato alla realizzazione nell’ottobre del 2008 del convegno nazionale “La scuola che non c’è. Società del sapere, intercultura, globalizzazione: un legame da ricomporre” durante il quale è stato presentato il volume di Paolo Perticari17, maturo frutto della ricerca-azione che i docenti ricercatori dell’Istituto hanno abbondantemente documentato. Il lavoro di ricerca si sarebbe potuto concludere dignitosamente in questo modo. Così non è stato perché i docenti hanno voluto continuare nel cammino di ricerca-azione18 per affinare sempre di più l’utilizzo della didattica conversazionale quale feconda strategia utilizzabile in tutte le discipline, strategia che ha rappresentato, insieme ad altri sofisticati accorgimenti didattici19, una possibile risposta in termini di qualità rispetto agli apprendimenti che a scuola, spesso, vengono inficiati da stanchi rituali di soliloqui a senso unico, dove la trasmissione del sapere non fa la differenza, anzi aumenta la distanza tra chi insegna e chi apprende. Ricercare soluzioni per un far scuola significativo è difficile, ma non impossibile ed è ancora più stimolante se lo si condivide. Del resto l’urgenza della scuola nella società contemporanea è quella di andare verso le intelligenze inespresse di quei ragazzi che vivono situazioni difficili o che hanno difficoltà ad apprendere, ma che sono i veri atti di intelligenza mancanti oggi. Ed è un dovere della scuola dell’obbligo, oggi più di ieri, di non venir inclusa tra le prime cause del disagio, bensì di essere rivalutata come luogo in cui la prevenzione primaria funziona. 17

P. Perticari, Progetto sperimentale moltitudini. La scuola che non c’è. Riflessioni e esperienze per un insegnamento aperto, inclusivo ed universalista. Il caso del 2° Istituto comprensivo di Brescia, Armando, Roma, 2008. 18 Ed infatti si sta ancora proseguendo cercando, con gran fatica, di catturare l’interesse dei docenti nuovi arrivati nell’istituto. 19 Accoglienza sistematica ossia giorno dopo giorno degli allievi attraverso le discipline, indagine circa gli stili di apprendimento degli alunni, verifica delle intelligenze messe in atto dagli stessi, utilizzo delle coppie di aiuto reciproco, utilizzo del teach-back ossia dell’insegnamento di ritorno, ricorso sempre più controllato, da parte dei docenti, delle domande legittime riducendo, sempre di più, le domande illegittime che, del resto, sono quelle alle quali, i docenti irriflessivi, ricorrono di più, indagine sull’errore, ma soprattutto grande apertura a lasciarsi catturare, nel far scuola quotidiano, dall’atteso imprevisto che fa la differenza tra una scuola ripetitiva ed una scuola che stimola curiosità, creatività e voglia di indagare sempre di più in profondità pensieri, sentimenti, parole, ecc.

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Insegnare ed imparare non possono più essere, quindi, finalizzati alla sola trasmissione di un programma predefinito, ma si devono contestualizzare nell’incontro tra persone che comunicano interattivamente facendo tesoro dei punti di vista diversi e prendendo il tempo necessario perché l’apprendere significa misurarsi con il dominio di azione in cui si deve incominciare ad imparare e quindi ad agire. La ricerca intrapresa ha fatto emergere l’importanza del saper perdere tempo per guadagnarlo, di recuperare il tempo dell’invisibile attraverso il gioco della narrazione, dell’incontro tra intelligenze diverse, della reciprocità docente/allievo che implica il conoscersi ed il riconoscersi, del porsi domande intelligenti, dell’attesa, dell’imprevisto da accogliere, del sapere condiviso. Del resto, il punto cardine di tutta la ricerca-azione è sempre stato, sin dall’inizio, quello di mettere in atto strategie tali da poter fare della scuola un luogo significativo dove bambini, ragazzi ed adulti abbiamo l’opportunità di crescere insieme come persone socialmente responsabili e quindi aperte all’incontro, al dialogo, al rispetto reciproco. Infatti, dove c’è autostima, c’è spazio per avanzare nella conoscenza a partire da qualsiasi forma di intelligenza ed indipendentemente dall’ambito disciplinare esplorato. La qualità della scuola sta, quindi, nella qualità dell’apprendere che si traduce nella capacità di imparare per sempre. Il progetto di ricerca-azione ha preso forma, così, a partire dalle difficoltà che una giornata di scuola presenta in particolar modo nell’incontro tra le diversità, in quegli scarti che fanno dell’inatteso e dell’imprevisto solitamente una pietra d’inciampo. Il non considerare, invece, come un ostacolo i conflitti, le difficoltà, lo spaesamento prodotti dall’intreccio tra differenti modi di vivere, è stato il mandato della ricerca medesima che intendeva partire proprio da questi elementi fluidi, e spesso non prevedibili, per sostenere un apprendimento/insegnamento denso di partecipazione anche emotiva per entrambi gli attori, ossia docenti ed allievi. Si è seguita, quindi, la strada degli attesi imprevisti per aprire ampi spazi di confronto nei quali sia i docenti che gli alunni sperimentino, inoltre, l’avventura di scambiarsi i ruoli. In questo l’opera Il maestro

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ignorante di Jacques Rancière20 ha messo in luce come il docente Joseph Jacotot, già nel 1818, avesse sperimentato che l’umiliazione dell’intelligenza di qualsiasi allievo è l’effetto dell’esercizio del potere del maestro che ritiene la sua intelligenza superiore, mentre chi si fa “maestro ignorante” e lavora sulla volontà di apprendere insita in ciascun allievo, riesce ad emancipare l’allievo stesso. Chi, invece, pratica la distanza tra le persone, stigmatizzando le differenze, persegue l’ineguaglianza che è foriera di divisione tra gli uomini fino a richiederne la sottomissione. Anche da Alexander Sutherland Neil, fondatore nei primi anni Venti del ’900 della celebre scuola di Summerhill21, sostenitore di una pedagogia non direttiva, si era già levato il monito che l’insegnamento tradizionale è terribilmente sbagliato, inumano e dannoso perché in ogni bambino esiste un’energia interiore positiva che sostiene e orienta lo sviluppo verso una personalità spontanea, creativa, equilibrata, ma soprattutto felice. Per lui non esistono bambini difficili, ma solo cattivi genitori e cattivi maestri e di conseguenza l’infelicità dell’infanzia è un prodotto degli interventi errati dell’adulto. In ogni momento dell’esperienza di un individuo è necessario ispirarsi ad un principio educativo fondamentale che è quello di rispettare gli interessi ed i bisogni del soggetto che va accolto per quello che è e sostenuto nello sviluppo delle sue potenzialità. Si è fatto cenno a queste due esperienze che vengono da lontano (ma ce ne sarebbero altre interessanti da citare) per mettere in luce quanto si sia ancora molto distanti dall’aver intrapreso una vera riforma che ponga la scuola in condizione di essere veramente uno strumento che garantisca il pieno sviluppo della persona e la sua effettiva uguaglianza, come del resto è scritto ben chiaro nella nostra Costituzione repubblicana22. Anche nel manifesto sull’educazione “Progetto Paideia” elaborato negli Stati Uniti negli anni ’8023 si trovano indicazioni che toccano la so20

J. Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis, Milano, 2008. Neill, Questa terribile scuola, La Nuova Italia, Firenze, 19762. 22 Art. 3 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 23 M.J. Adler, Il progetto Paideia, Armando, Roma, 1985. 21 A.S.

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stanza del problema educativo: l’educazione e l’istruzione sono processi che durano tutta la vita. Così la ricerca ha sottolineato, ancora una volta, come è già stato ricordato, quanto sia necessario saper perdere del tempo per guadagnarlo, quanto sia indispensabile instaurare una reciprocità docente/allievo che implica il conoscersi ed il riconoscersi, condividere il sapere, ricercare la qualità della relazione e della comunicazione, concentrarsi sull’imparare a comprendere e non soltanto sul come ottenere risposte corrette. Questo è ciò che fa la differenza. Ma ha anche puntato l’attenzione sulla necessità di recuperare, nella barbarie del tempo presente, la dimensione dell’interiorità e del prendersi cura dell’altro. E quell’altro a scuola è l’allievo. Si è riflettuto molto sul fatto che l’insegnamento è vita e non s’insegna quello che non si è. Per cui anche il docente deve prendersi cura di sé, della propria anima se vuole prendersi cura degli altri. La scuola di oggi è troppo ripetitiva, appiattita com’è proprio sulla ripetizione dei programmi. La novità, invece, è data dal fatto che l’accento deve essere messo non soltanto sul “sapere”, ma soprattutto sulla “conoscenza”, così che dalla conoscenza si possa passare alla vita. Il che implica lo scambio tra insegnamento/apprendimento, binomio reversibile che va verso il modo di vivere di ciascuno, dove si gioca l’apprendimento e l’insegnamento non banale. Pierre Hadot fa presente che, fin dall’antichità, la filosofia è stata concepita come un modo di vivere, non come pura teoria24. Così se si accetta l’idea della filosofia come modo di vivere, si passa dalla semplice teorizzazione, al darsi delle regole di vita, per migliorare la qualità dell’agire in un determinato contesto legato alla propria esistenza. Naturalmente ciò richiede impegno ed allenamento costante e continuo. Ci si deve quindi allenare per diventare più competenti nelle cose che ci stanno più a cuore. Così come non esiste filosofia senza esercizio, non c’è conoscenza senza esercizio e l’esercizio non è più una variabile indipendente, ma incide in maniera sostanziale come forma di auto-educazione. 24

P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino, 2008.

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Tutto ciò rappresenta una vera scommessa se si vuole che la qualità della scuola e dell’insegnamento si avviino verso una vera e significativa svolta. Pensare ed insegnare in modo filosofico porta ad un modo di vivere profondo. Allora esercitarsi ed allenarsi come allievi, guidati da docenti che fanno altrettanto, diventa la strada per migliorare se stessi: l’obiettivo finale non è più orizzontale e limitato all’apprendere, ma è verticale, perché cerca la via della sapienza esperienziale. Un’altra questione consequenziale a ciò è quella che riguarda la lentezza. In un mondo dove la frenesia è il motore del consumo sfrenato, concedere tempo per capire e per riflettere in profondità deve diventare una pratica costante. In una scuola che procede in fretta senza interrogarsi troppo sul cosa sta trasmettendo, certamente, non ci si pone il problema dell’innalzamento delle coscienze, della cura dell’anima di cui Socrate è stato un interprete raffinato nella visione di una polis ove ciascun cittadino è capace di prendersi cura di sé e degli altri. È necessario, quindi, che i docenti riscoprano la vera paideia che fa della scuola un mondo dove vita e pensiero costituiscono un tutt’uno. E la scuola deve investire in profondità per evitare l’abbruttimento che ne deriva dalla semplice applicazione, esecuzione privata, da ogni pensiero critico. Il successo, l’apparire, il senso di immortalità che irrompe nella realtà odierna devono trovare nella scuola una barriera di pensiero pensante. Per cui è necessario saper proporre il senso dell’abitare questo mondo, insieme ad altri che provengono da mondi diversi e che ci aprono vie nuove. Emerge sempre con maggiore urgenza il bisogno di educare i giovani a prendersi cura della propria anima risvegliando il senso profondo dello stare al mondo. È questo il segreto della didattica conversazionale; infatti si crea più intimità accogliendo l’imprevisto che seguendo pedissequamente i programmi prestabiliti. Per questo, ad un certo punto della ricerca, si è scelta come idea di base la filosofia di Sloterdijk, “Devi cambiare la tua vita”25, perché la conoscenza deve cercare di fondarsi sull’interiorità, coniugando la psiche con la vita reale. 25

P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffello Cortina, Milano, 2010.

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Quindi è necessario ripensare “la sfera” del sapere a scuola mettendo in atto delle esperienze disciplinari più consapevoli. Che cosa vuol dire preoccuparsi di cercare lo spessore di ciò che si insegna entrando nel profondo delle discipline, stante il fatto che qualunque tipo di anima-mondo sembra morto? Come si risveglia il pensiero, se è già morto? Con un sistema autoimmunitario, suggerisce Sloterdjik. L’anima che è morta o sta morendo, la si risveglia ripristinando la capacità di pensare calandosi dentro i principi formativi. Così la didattica può diventare terreno di un esercizio pieno di senso. Mentre fuori si percepisce un modo di agire superficiale e teso al ristagno, è necessario adoperarsi per provare ad esercitarsi con la co-valutazione, che deve assumere una direzione evolutiva, per diventare una vera occasione di innalzamento. L’occasione di agire in profondità, di entrare nell’intimità delle cose, non potrà mai essere declinata come progetto perché deve diventare un’abitudine quella di attivare, ogni volta che si insegna, un approfondimento serio, staccandosi dalla banalità di cui la malaripetizione è lo specchio. Del resto l’insegnamento che si esercita solo frontalmente, rischia di indebolirsi se non si arricchisce degli insegnamenti dell’altro e degli imprevisti. Gli stranieri non sono solo un problema per la scuola, ma, come è stato ampiamente sperimentato, rappresentano una vera occasione per applicare l’insegnamento altro in quanto, grazie alla loro presenza, è stato possibile passare dall’insegnamento agli insegnamenti, ossia da un insegnamento monolocalizzato ad un insegnamento plurilocalizzato, questione questa che apre una miniera di opportunità nell’approccio alla vera conoscenza. Per una scuola che si rinnova veramente nel segno, non diciamo più semplicemente della qualità, bensì dell’elevazione, bisognerebbe avere il coraggio di dire sempre molti no: no al logocentrismo dell’insegnante, al didatticismo, al docimologismo, al prescrittivismo finto valoriale, al moralismo, all’efficientismo fine a stesso, all’antropocentrismo eurocentrico. Dovremo anche puntare con determinazione su alcuni sì: sì all’insegnamento dell’altro, alla contaminazione,al meticciamento, all’accoglienza dell’imprevisto, alla centralità delle emozioni e della corporeità, alla trandisciplinareità, al polimorfismo degli insegnamenti, all’ascesi. 26


Naturalmente c’è ancora molto di più da fare, ma anche per questo nuovo appuntamento la strada è tracciata: la locanda dell’inatteso apre le porte a chi vuol transitare e lasciare una traccia per una scuola che osa tentare di raggiungere le vette della sapienza ossia dell’incarnazione di una vita vera. E dalla locanda passa tutta l’umanità: bambini, ragazzi, genitori, maestri, profesisonisti di ogni genere, sacerdoti di ogni religione. Allora che cosa c’è di meglio dell’incontro con l’altro attraverso la dialogicità? Questo dunque è il compito al quale tutti sono chiamati e questa è la scommessa del prossimo futuro: l’accoglienza senza eccezioni, la parola data a tutti per una nuova umanità. Bibliografia Augé M., Non luoghi, Elèuthera, Milano, 1993. –, Perché viviamo, Meltemi, Roma, 2004. Authier M., Levy P., Gli alberi di conoscenze, Feltrinelli, Milano, 2000. Barcellona, L’individuo e la comunità, Lavoro, Roma, 2000. Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1972. Bauman Z., Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano, 1996. –, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000. –, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari, 2005. –, La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari, 2002. Bertalanffy L. Von, Il sistema uomo, Isedi, Milano, 1971. Bronfenbrenner U., Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna, 1986. Chomsky N., Herman E.S., La fabbrica del consenso, Tropea, Milano, 1998. Chomsky N., Democrazia ed istruzione, Edup, Roma, 2004. –, Capire il potere, Net, Milano, 2007. Di Pasquale G., Maselli M., L’arte di documentare, Marius, Milano, 2002. Gardner H., Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 1987. –, Educare al comprendere, Feltrinelli, Milano, 1993. –, L’educazione delle intelligenze multiple, Anabasi, Milano, 1995. Kundera M., L’ignoranza, Adelphi, Milano, 2001. 27


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