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SOMMARIO
Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza Salute mentale e riabilitazione
Volume 80 N. 1 Gennaio - Aprile 2013 SOMMARIO Editoriale: Gabriel Levi, Tempo di chiudere: tempo di aprire
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Sezione: disturbi dello sviluppo e disturbi di personalità F. Allemand, R. Averna, C. Dosi, C. Ferone, Le caratteristiche neuroevolutive in un campione di bambini nati pretermine: dati preliminari di uno studio longitudinale
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I. Barbicinti, L. Bondonio, C. Carminati, C. Cocco, A. Crispino, A. Rinaldi, M. Saggese, F. Saglio, D. Simonini, A. Tambornini, M. Valente, C. Zunino, Atelier fiaba: esperienza di terapia di gruppo con bambini con disturbo generalizzato di sviluppo
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S. Mazzoni, C. Veronesi, L. Vismara, Coordinare la genitorialità nelle famiglie con un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico
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Sezione: psicopatologia dello sviluppo e salute mentale E. Maserati, M. Bomba, F. Neri, R. Nacinovich, Psicoterapia psicodinamica nei Disturbi di Personalità in un Servizio Pubblico di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza
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F. Laghi, R. Baiocco, F. Costigliola, M. Rossetti, V. Magistro, Immagini mentali e condotte alimentari a rischio in preadolescenza
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G. Monniello, S. Cimino, L. Cerniglia, G. Ballarotto, L. Polito, L’adolescenza e la perdita di un genitore in età evolutiva. Uno studio longitudinale in un campione di ragazzi dagli 11 ai 16 anni
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Sezione: neuropsicologia dello sviluppo e riabilitazione F. Capozzi, A. Petrone, S. Del Signore, S. Rossetti, Studio di un campione di preadolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) attraverso una scala di funzionalità globale (C-GAS)
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SOMMARIO
A. Fabrizi, L.Carli, C. Frioni, S.Galosi, E. Patruno, P. Rosi, Modalità interattive e stati emotivi nella comunicazione bambino/caregiver: una ipotesi patogenica dei Disturbi Psicopatologici nei DSL
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V. Leuzzi, F. Manti, L. Antonaci, Funzioni Esecutive ed outcome della PKU
146
Sezione: epidemiologia clinica e prevenzione M. Cremonte, M. Arduino, P. Bailo, M. Gandione, Epidemiologia dei Disturbi dello Spettro Autistico in Piemonte
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A. Gritti, A.M. Di Sarno, S. Lucariello, A. Meterangelis, B. Bottiglieri, R. Pietroluongo, T. Salvati, Chiederesti aiuto ad un Servizio di Counselling Psicologico? L’atteggiamento di studenti universitari verso la sofferenza mentale e l’attitudine a chiedere aiuto
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Sezione: esperienze R. Di Cori, Testimoniare il trauma: considerazioni teorico-cliniche in tema di rappresentazione e ricordo nel child sexual abuse
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L. Libernini, C. Lupis, M. Nori, F. Reale, S. Perinetti, A. Santamaria Palombo, Chi sono i bambini con difficoltà scolastiche? Diagnosi differenziale e profili di comorbidità. Esperienza semestrale in un ambulatorio di Neuropsichiatria Infantile
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V. Ivancich, L’Ambulatorio in neuropsichiatria infantile
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Errata Corrige
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Istruzioni per gli Autori
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 3-7
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EDITORIALE Tempo di chiudere: tempo di aprire Gabriel Levi
Nell’ultimo anno, mi è capitato, più volte, di sentirmi formulare una domanda, che mi ha fatto pensare, la prima volta con imbarazzo e, le volte successive, con qualche maggiore chiarezza. La domanda: che cosa pensi di aver fatto nella tua professione, di veramente utile? La prima risposta è stata: penso di aver seguito molti bambini e molte bambine, per molti anni, e di aver capito cosa vuol dire prendere in carico e, curare. Prendere in carico vuol dire individuare l’emergenza di un disturbo ed occuparsi ad ampio spettro delle conseguenze attuali e prevedibili di quel disturbo in quel bambino nell’interazione con il suo ambiente. Curare vuol dire fare almeno il 20% in più rispetto a quello che sarebbe stata la prognosi spontanea migliore. In età evolutiva questo vuol dire un obiettivo ragionevole e misurabile. Il criterio non è mio, ma di Leon Eisenberg. Ma, dopo questa risposta immediata, e quasi forzosa, ho continuato a ragionare ed a ruminare. Alla fine, ho deciso di descrivere, nero su bianco, le linee di lavoro che penso di aver praticato, in quaranta anni di ricerca clinica. Mi sembra giusto aggiungere una piccola annotazione: credo sia la prima volta che, nella mia attività professionale, parlo e scrivo in prima persona. Tra l’altro: esponendomi ad un nuovo giudizio obiettivo. Non credo più severo di quanto ho già fatto da solo, anche senza falsa modestia. Penso sia utile definire, in via preliminare, la prospettiva metodologica a cui ho cercato di attenermi: 1. Il concetto di sviluppo è un concetto generale che riguarda sia la genetica, le dinamiche e le interazioni della mente, sia la genetica, le dinamiche e le interazioni dei disturbi; questo significa che i disturbi neuropsicologici e psicopatologici hanno un’organizzazione stadiale e una progressione per fasi critiche; la ricerca clinica deve tendere a documentare tanto gli stadi dei disturbi quanto le fasi critiche dei disturbi. 2. Il concetto di disturbo è un concetto biologico; come tale va studiato nei suoi meccanismi di scompenso e nei suoi meccanismi di equilibrazione; in neuropsicologia dello sviluppo questo significa cercare di mettere a fuoco, prima di tutto, le strategie spontanee ed attive di compenso funzionale; non tutte le strategie di compenso sono economiche e positive, ma tutte le strategie di compenso hanno una logica che va ricostruita e compresa. In psicopatologia dello sviluppo questo vuol dire capire la storia del disturbo nella storia del bambino nelle sue trattative psicologiche-sociale possibili. 3. La convergenza dei due concetti è necessaria per la comprensione dei disturbi dello sviluppo; i disturbi dello sviluppo vanno studiati sia come atipie dello sviluppo, sia come organizzazioni evolutive specifiche. Un disturbo di sviluppo va documen-
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tato attraverso tre profili funzionali: il profilo interno del disturbo (i meccanismi di scompenso), il profilo esterno del disturbo (le strategie di compenso), il profilo di sviluppo (gli appuntamenti evolutivi prevedibili). La conoscenza dei profili funzionali in un’ottica evolutiva rende prevedibile il peso specifico del singolo disturbo sullo sviluppo globale del bambino.
Le linee di lavoro 1) Disturbi Specifici di Linguaggio e Disfasie (1976-1977; 2005-2009) È la prima area di ricerca clinica su cui ho lavorato. Le tappe di questo percorso possono essere schematizzate: Ó una prima definizione nosografica, basata su un modello neurolinguistico, da cui era possibile individuare i quadri sindromici fondamentali. Con chiarezza clinica sull’esistenza di: a) disturbi più frequenti ed, in apparenza, stabili e b) nuclei determinanti, ma più profondi e generativi, e comunque più continui nel tempo; Ó una seconda definizione nosografica, basata su cluster neurolinguistici che si trasformano secondo diversi percorsi evolutivi, qualche volta alternativi, ma prevedibili. Questa seconda impresa ci ha consentito di vedere il movimento dei nuclei patologici secondo le emergenze dello sviluppo e la specificità delle interazioni terapeutiche. Gli obiettivi principali di tutta questa ricerca sono stati: a) l’abbassamento delle età possibili per una diagnosi, anche di sottotipo clinico (passando da una media ai 5,6-6 anni ad una media ai 2,6 anni); b) la messa a fuoco della comprensione verbale e delle interazioni centrate sulla comprensibilità, come momento patogenetico centrale, per la diagnosi e per la terapia. 2) Disturbi Specifici di Apprendimento (1976; 1984-1986; 2012) Le Dislessie, in Italia, sono state studiate molto a lungo, con l’ipoteca delle ricerche fatte nei paesi anglofoni. Con due conseguenze: la sopravvalutazione dei problemi di trascrizione (essenziali e persistenti per l’inglese) e la sottovalutazione dei problemi di comprensione del testo (essenziali, in Italia, per la dislessia ad emergenza tardiva). I contributi più significativi del nostro gruppo di ricerca sono stati: Ó aver formulato una ipotesi originale sul ruolo della metacodificazione linguistica nella patogenesi delle dislessie con l’individuazione di soggetti ad alto rischio in età prescolare; Ó aver dimostrato, con prove pertinenti, la realtà clinica delle dislessie che emergono fra gli 8 e 9 anni o per consolidamento o per scompenso, ma con nuovi problemi di metacodificazione linguistica; Ó negli ultimi 3 anni, abbiamo segnalato in tempo utile i punti deboli della legge 170, rispetto alla mancata previsione di livelli di gravità e delle possibili comorbilità, proponendo la definizione operativa di un profilo di sviluppo pertinente.
TEMPO DI CHIUDERE: TEMPO DI APRIRE
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3) Ritardo Mentale (1983 - 1988 - 2005) La ricerca sul Ritardo Mentale ha lungamente sottolineato l’importanza delle difficoltà di sviluppo specifiche e cognitive dentro una difficoltà d’integrazione della personalità attraverso: • l’individuazione precoce delle difficoltà aiutando il bambino con Ritardo Mentale ad usare al meglio le sue competenze, a raggiungerle nei tempi giusti, ad usare le crisi evolutive per crescere e non per specializzare le sue incapacità; • il riconoscimento per fasce di gravità e per disattivazioni cognitive di fase, al fine di lavorare concretamente sulla prognosi perché la conoscenza dei limiti entro cui un bambino con RM sta muovendosi e dei limiti verso cui quel bambino sta andando permette una programmazione ragionata e tempestiva degli interventi. 4) Disturbi dello Spettro Autistico e Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (1993; 2005 2007; 2011) Penso di aver concentrato la mia ricerca su alcuni punti tanto determinanti quanto spesso trascurati e controversi. La necessità di distinguere (per la patogenesi, per il rapporto tra vulnerabilità ed espressività, per la diagnosi differenziale e per la personalizzazione degli interventi): Ó forme senza compromissione neurocognitiva precoce, dalle forme con problemi neurocognitive; Ó forme con compromissione cognitiva più o meno stabile, distinguendole per grado di gravità; Ó forme frustre con diversi tipi di disturbi associati determinanti e con un’emergenza slow onset. Rispetto ai disturbi più gravi (a basso funzionamento cognitivo) ritengo tuttavia utile per la prognosi ricorrere agli indicatori basati sulla comprensione verbale e sullo sviluppo delle ecolalie e delle ecoprassie in un’organizzazione comunicativa. Avere individuato una cornice epidemiologica precisa, per fasce di gravità, ha consentito, negli ultimi anni, di aprire un nuovo discorso sui DPS frustri, rispetto alla ricerca di fenotipi comportamentali utili per la riabilitazione personalizzata. 5) Modelli di lavoro per la prevenzione (1999 - 2013) La nostra ricerca clinica, in questa area, è stata orientata su due direttive. La ricerca di popolazioni silenziose-sommerse che tendono a non essere segnalate, per quanto riconoscibili. La dimostrazione che in queste popolazioni esiste un consistente gruppo (4% nei ragazzi/ragazze ai 12 anni) che hanno problemi sia nell’area dei disturbi internalizzanti, sia nell’area dei disturbi esternalizzanti. Considerando l’elevato rischio psicopatologico, l’autopercezione del problema e, specialmente, il peso epidemiologico, la nostra proposta di lavoro è stata di costruire un percorso di riconoscimento di questa popolazione, da parte degli insegnanti, mediante delle griglie di lettura su temi sensibili proposti con composizioni scritte. La continuazione di questa ricerca ha due sviluppi: la proposta di un doppio screening a 8-9 anni oltre che a 12 anni e la possibilità di creare un sistema di discussione del problema attraverso sportelli di ascolto, seguendo prima la popolazione a rischio, piuttosto che segnalando singoli casi clinici.
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G. LEVI
6) Epidemiologia e programmazione dei servizi (1981; 1994; 2007; 2011) Il nostro contributo alla ricerca epidemiologica è stato semplice, quasi artigianale, ma costante e centrato sul rapporto tra flusso delle utenze reali ed attese epidemiologiche sulla popolazione generale. Nella sostanza abbiamo documentato: • L’area complessiva della disabilità, che oscilla stabilmente intorno al 2% della popolazione in fascia di età; • L’area dei disturbi neuropsicologici-psicopatologici, segnalati, con tipiche entrate-uscite, che oscilla intorno al 4-5% della popolazione in fascia d’età; • L’area della popolazione clinica con sofferenza certa, ma silenziosa, oscillante intorno al 4% della popolazione in fascia d’età. Attraverso periodiche ricognizioni sui nostri ambulatori, con confronti rispetto ad altre realtà territoriali, abbiamo anche documentato una relativa trasformazione delle sintomatologie emergenti. Di questo rilevante fenomeno, abbiamo cercato di dare un’interpretazione corretta, rispetto ai diversi criteri di rilevazione, ma anche ad una reale patomorfosi dovuta a nuove pratiche educative e a nuove situazioni di crescita sociale che hanno modificato i fenotipi sociali, affettivi e cognitivi. L’indicazione di modelli operativi e di standard per il reclutamento dei neuropsichiatri infantili e degli altri operatori sono stati basati sull’Ospedale Diurno Terapeutico, come modello di servizio più efficiente e più economico. 7) Depressione (1998 - 2011) I disturbi depressivi costituiscono un’area clinica di alta vulnerabilità in successione, durante l’età evolutiva ed anche rispetto all’età adulta. I nostri contributi sono stati: • Individuare, in età scolare, tre nuclei sindromici (disturbi atipici di apprendimento, disturbi somatoformi, disturbi atipici di iperattività-labilità emotiva) che, associati con un sentimento depressivo riconoscibile e persistente, costituiscono tre sottotipi con diverse evoluzioni e diverse risposte terapeutiche; • Individuare, in età prescolare, i precursori di questi tre nuclei sindromici, caratterizzati da una interessante oscillazione tra una pesante inibizione comportamentale ed una iperattività con disforia e discontrollo; • Individuare il percorso adolescenziale che porta verso un disturbo di personalità a sfondo depressivo con possibili rotture critiche, nell’arco di vita. 8) Sviluppo dei Disturbi di Personalità (1993 - 2008 - 2013) Forse, il dibattito più importante che ha coinvolto la psicopatologia dello sviluppo, negli ultimi venti anni, è stato quello dei rapporti tra disturbi sindromici e disturbi di personalità (o in termini più classici: tra Asse I e Asse II nel DSM). Per la psichiatria dell’età evolutiva, la questione si pone su due piani: Ó quale rapporto esiste tra l’analisi psicopatologica categoriale e l’analisi psicopatologica dimensionale nella cornice dello sviluppo? Quale rapporto esiste tra la realtà clinica di uno spettro dimensionale (documentabile per quasi tutti i disturbi) e la formazione di quadri sindromici che si organizzano, scompaiono, in un percorso carsico, e ricompaiono trasformati in un’altra fase-stadio dello sviluppo? Ó Quale rapporto esiste tra scompenso e crisi nella traiettoria evolutiva che accom-
TEMPO DI CHIUDERE: TEMPO DI APRIRE
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pagna lo sviluppo della personalità e lo sviluppo dei disturbi di personalità? In quale periodo della crescita mentale si può riconoscere il nucleo di un disturbo di personalità? Il grande contributo di P. Kernberg è stato determinante in questa ricerca clinica. Nella nostra esperienza, l’ipotesi su cui abbiamo lavorato è diventata progressivamente la seguente: il percorso, appunto carsico, dei disturbi di sviluppo, permette di riconoscere un movimento continuo tra la sindromizzazione dei disturbi (per esempio: sindrome ADHD e sindrome ansioso-depressiva) e la loro diffusione in strutture di personalità (per esempio: personalità border-line e personalità depressiva). Nei momenti di crisi evolutiva, questo percorso può invertire la sua direzione. È difficile comprendere l’emergere di ambedue gli sbocchi in adolescenza, senza tener presente questa ipotesi, ben trasformabile in un ragionamento prognostico verificabile. Conclusioni È difficile, se non impossibile, curare un bambino senza interagire con i suoi genitori. Il punto da chiarire è che i genitori non sono persone da curare, né persone da educare, per il fatto semplice e doloroso di avere un figlio con problemi. I genitori dei bambini con disturbi dello sviluppo (ed in questo senso tutti i disturbi neuropsichiatrici dell’età evolutiva sono disturbi dello sviluppo) debbono prima di tutto comprendere come funziona, e che cosa dis/organizza quel disturbo in quel bambino, che è il loro figlio, per sentirsi competenti nelle funzione primaria di rispecchiamento e agenti per lo sviluppo potenziale del loro bambino. In questo percorso, che condiziona tutte le interazioni con il figlio, i genitori sono i nostri compagni di lavoro. In alcune fasi del percorso siamo noi tecnici ad impostare ragionamenti ed interpretazioni. In altre fasi del percorso sono i genitori a guidare noi, in questo lavoro di documentazione clinica e di ricerca umana. I disturbi di sviluppo sono disturbi che si sviluppano. Questa affermazione, in apparenza molto banale, si basa e si alimenta su un lavoro continuativo di anticipazione dello sviluppo, di attesa degli appuntamenti evolutivi e di sostegno dei meccanismi di crescita psicologica. La psicoterapia e la riabilitazione, in età evolutiva, sono strumenti paralleli di questa precisa presa in carico, che si basa sulla comprensione funzionale dello sviluppo e delle patologie di sviluppo. *** Non sono sicuro di aver riassunto con efficacia il mio lavoro. Sono tuttavia abbastanza convinto che l’attenzione alla cura sia stata la molla principale della mia ricerca. Spero di aver ben capito l’indicazione di L. Eisenberg: cercare di curare per imparare a prevenire. gabriel levi
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 8-18
Le caratteristiche neuroevolutive in un campione di bambini nati pretermine: dati preliminari di uno studio longitudinale Neurodevelopmental outcome in preterm born children: preliminary data of a longitudinal study Federico Allemand*, Roberto Averna*, Claudia Dosi*, Claudia Ferone*
Summary The objective of this study is to increase the knowledge of low birth weight, on the one hand, and the relationship between prematurity and neurological complications that may arise on the other hand. Methods: we recruited 85 children were born preterm with a gestational age between 23 and 35 weeks. They were followed at regular intervals through neurodevelopmental (neurological and psychomotor) assessment up to 12 months of corrected age. A statistical analysis was conducted in order to look for correlations between pre- and perinatal variables and neuropsychomotor outcome at 12 months. Results: Those born with a gestational age less than 30 weeks are most often a birth weight less than 1000 grams (59.30% p<0.05) and children born with a gestational age greater 30 weeks are most often a birth weight greater than 1000 grams (97,70% p<0.05). The neurodevelopmental outcome were evaluated using the Bayley Scales of Infant Development (BSID-III) that showed that those born with a gestational age lower get lower scores but has also been proven to be a progression in the scores obtained at 6 months between evaluation and the other for both groups. Conclusions: The examination of the data makes it possible to confirm the close relationship between gestational age, birth weight, results of laboratory tests and diagnostic imaging studies and cognitive profile in preterm infants. Our study could represent a preliminary study whose data if confirmed would allow to simplify the protocol follow-up of children born preterm Key words Preterm birth – Gestational age – Neurodevelopmental – Follow-up of preterm infant.
Introduzione L’esperienza medica e diversi studi scientifici hanno dimostrato da tempo che la prematurità e il basso peso alla nascita, di norma correlati, costituiscono dei considerevoli fattori di rischio per lo sviluppo psicomotorio dei neonati. Infatti se da una * Dipartimento
di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.
LE CARATTERISTICHE NEUROEVOLUTIVE IN BAMBINI NATI PRETERMINE
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parte negli ultimi vent’anni i progressi nel campo della neonatologia hanno portato a un aumento della sopravvivenza dei nati pretermine, dall’altra questo dato si associa a un incremento delle sequele neurologiche a distanza (Bartlett et al., 1993; Cooker, 2005; Militerni, 2009). Tra il 1995 e il 2005 si è passati infatti dal 50% della mortalità neonatale al 15% (Bertino et al., 2008). Tuttavia il 10% dei nati pretermine di peso inferiore a 1000 grammi presenta gravi disabilità neurologiche a distanza e sequele neurologiche minori nel 25-50% dei casi (Als et al., 2004). Ne consegue che il peso e l’età gestazionale presentano un ruolo fondamentale nel determinare l’outcome neurologico (Struck et al., 2013). A tal proposito uno studio condotto nei Paesi Bassi ha messo in luce l’influenza notevole che un’età gestazionale estremamente bassa (tra 23 e 26 settimana) ha sulla morbilità a due anni di età corretta (de Waal et al., 2007). Nei bambini nati pretermine le disabilità neurologiche sono classificabili in base al grado di gravità in: Disabilità Maggiori, in cui il danno cerebrale è rappresentato da un insulto necrotico a livello della sostanza bianca, le cui lesioni fondamentali sono l’emorragia peri-intraventricolare e la leucomalacia periventricolare (Mercuri et al., 1999; Terrie et al., 2005), e Disabilità Minori caratterizzate da alterazioni dello sviluppo percettivo-motorio, deficit relazionali e comportamentali. Tra le disabilità maggiori un ruolo centrale è occupato dalle Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) (Bottos et al., 1993) la cui prognosi è legata al carattere mutevole della patologia ed è strettamente dipendente dall’estensione della lesione (Beaino et al., 2010), dall’entità della compromissione motoria e cognitiva nonché dalla qualità e dalla precocità dell’intervento (Contantinou et al., 2007; Oskoui et al., 2013). A differenza delle precedenti, le disabilità minori solitamente non evidenziano lesioni a livello cerebrale. Nonostante la diagnosi venga posta in età scolare o prescolare, tali disturbi rappresentano la possibile evoluzione di eventi perinatali legati alla prematurità (Marlow et al., 2005; Oliviera et al., 2011). Appare chiara quindi l’importanza di monitorare attraverso un accurato protocollo di follow-up lo sviluppo psichico e fisico del prematuro con lo scopo di individuare eventuali disarmonie di sviluppo e segni predittivi dell’outcome neuroevolutivo del bambino. In tal modo è possibile formulare proposte terapeutiche che considerino e integrino sia gli aspetti organici sia le difficoltà funzionali dello sviluppo psicomotorio (Allemand, 2003). Obiettivo del lavoro In questa prospettiva, il presente studio intende contribuire ad accrescere la conoscenza delle relazioni tra prematurità e basso peso alla nascita, da un lato, e le complicanze neurologiche che ne possono derivare, dall’altro. È bene sottolineare che nella nostra ricerca emergono quasi esclusivamente disabilità minori.
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F. ALLEMAND - R. AVERNA - C. DOSI - C. FERONE
Soggetti e metodi La ricerca effettuata, di tipo longitudinale, è basata sull’osservazione clinica di un campione di 85 bambini (34 maschi e 51 femmine) seguiti presso il Servizio di Neurologia dello Sviluppo della UOC B del Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Roma La Sapienza poiché nati da parto prematuro. L’età gestazionale media dei bambini presi in esame è di 30 settimane più 1 giorno all’interno di un range che va da un minimo di 23 a un massimo di 35 settimane. Il protocollo utilizzato nel presente studio ha previsto per i suddetti bambini controlli neuropsichiatrici regolari a 6 e 12 mesi e al fine di valutare e monitorare l’insorgenza di eventuali segni e/o sintomi di patologie o di disfunzioni neurologiche precoci. Di ciascun bambino sono stati presi in esame: 1. Età gestazionale (EG), in base alla quale abbiamo suddiviso il campione in EG bassa = da 160 a 209 giorni e EG alta = da 210 a 244 giorni; 2. Peso alla nascita, in base al quale abbiamo suddiviso il campione in 2 gruppi: gruppo 1 ≤ 1000g e gruppo 2 > 1000g; 3. Modalità del parto, in base alla quale abbiamo suddiviso il campione in 2 gruppi: gruppo 1 = naturale, gruppo 2 = taglio cesareo (TC); 4. Punteggio Apgar a 5’ minuti di vita, in base al quale abbiamo suddiviso il campione in 2 gruppi: APGAR basso ≤ 7 e APGAR alto > 7; 5. Esito di esami strumentali effettuati, per lo più rappresentati dall’ecografia cerebrale, in base ai quali abbiamo suddiviso il campione in gravità lieve e gravità media e alta; 6. Test di Bayley, per valutare il profilo cognitivo, le abilità nell’area del linguaggio e nell’area motoria. Nel nostro studio longitudinale, inoltre, abbiamo raccolto i dati delle suddette variabili a 6 e 12 mesi. Attraverso l’analisi statistica condotta con il programma SPSS 13.0 abbiamo cercato di studiare il peso che ciascuna di queste variabili ha sullo sviluppo neuroevolutivo dei bambini del campione preso in esame. Discussione dei dati Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative tra i soggetti suddivisi rispetto all’età gestazionale, al peso, alla modalità del parto, al punteggio Apgar ottenuto al quinto minuto di vita e agli esami strumentali, sono state confrontate le distribuzioni delle categorie delle variabili appena elencate attraverso il test del chi2. I risultati ottenuti, suggeriscono che tra i bambini con età gestazionale inferiore alle 30 settimane (EG-b) e quelli con età gestazionale superiore alle 30 settimane (EG-a) sono presenti differenze significative rispetto al peso, alla modalità del parto e all’esito ottenuto negli esami strumentali. In particolare, dai residui standardizzati si riscontra che i bambini con EG < 30 sett., rispetto al gruppo con EG > 30 sett.,
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LE CARATTERISTICHE NEUROEVOLUTIVE IN BAMBINI NATI PRETERMINE
hanno più spesso, come è ovvio, un peso alla nascita ≤ 1000g (Tabella 1), sono nati più frequentemente da un parto naturale (Tabella 2) e hanno esami strumentali di gravità medio alta (Tabella 3). Ad ulteriore conferma della stretta relazione tra età gestazionale e peso alla nascita, anche la variabile peso presenta lo stesso tipo di relazioni con le altre variabili.
Tabella1. Confronto fra le distribuzioni delle categorie dell’età gestazionale (EG) e del peso.
frequenze osservate EG bassa (EG -b)
frequenze attese % entro EG-b Residuo frequenze osservate
EG alta (EG -a)
frequenze attese % entro EG-a Residuo
Note.
chi2
(1,70)=
Peso<= 1000g
Peso>1000g
Totale
16
11
27
6,6
20,4
27
59,30%
40,70%
100,00%
5,4
-5,4
1
42
43
10,4
32,6
43
2,30%
97,70%
100,00%
-5,4
5,4
29,238; p<0,05
Tabella 2. Confronto fra le distribuzioni delle categorie dell’età gestazionale (EG) e della modalità del parto. Parto naturale
EG bassa (EG-b)
EG alta (EG-a)
Totale
frequenze osservate
12
14
26
frequenze attese
6,8
19,2
26
46,20%
53,80%
100,00%
Residuo
3
-3
frequenze osservate
6
37
43
11,2
31,8
43
14,00%
86,00%
100,00%
-3
3
% entro EG-b
frequenze attese % entro EG-a Residuo
Note. chi2(1,69)= 8,713; p<0,05
TC
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F. ALLEMAND - R. AVERNA - C. DOSI - C. FERONE
Tabella 3. Confronto fra le distribuzioni delle categorie dell’età gestazionale ed esami strumentali. Lieve frequenze osservate EG bassa (EG -b)
frequenze attese % entro CLEG-b Residuo frequenze osservate
EG alta (EG -a)
frequenze attese % entro CLEG-a Residuo
Note.
chi2
(1,66)=
medio-alta
Totale
13
12
25
18,9
6,1
25
52,00%
48,00%
100,00%
-3,5
3,5
37
4
41
31,1
9,9
41
90,20%
9,80%
100,00%
3,5
-3,5
12,368; p<0,05
L’analisi statistica è stata ulteriormente approfondita attraverso l’analisi della varianza; in particolare è stato eseguito un disegno fattoriale misto per verificare nel campione di bambini prematuri la presenza di differenze significative tra i punteggi medi ottenuti alle scale Bayley a distanza di 6 mesi (T1 = 6 mesi di età cronologica corretta e T2 = 12 mesi di età cronologica corretta) e per individuare eventuali differenze tra i soggetti, di volta in volta suddivisi in base all’età gestazionale, al peso, alla modalità del parto, agli esami strumentali, rispetto ai punteggi medi ottenuti alle scale Bayley a distanza di 6 mesi. Dall’analisi effettuata, per tutte le scale Bayley si riscontrano differenze statisticamente significative tra i punteggi medi ottenuti dal campione di prematuri al test somministrato a distanza di 6 mesi (effetto principale). In particolare i punteggi medi ottenuti nella prima somministrazione sono significativamente più bassi di quelli ottenuti a distanza di 6 mesi. I dati hanno evidenziato per la scala cognitiva e per la scala motoria l’effetto interazione della variabile età gestazionale sui punteggi ottenuti a distanza di tempo nella scala cognitiva (Grafico 1) e della variabile modalità del parto sui punteggi ottenuti nella scala motoria nel tempo (Grafico 2). Il parto cesareo influenza in un primo momento negativamente lo sviluppo motorio. Successivamente le abilità migliorano grazie al fatto che i bambini nati da cesareo sono per lo più quelli di peso ed età gestazionale maggiori (Grafico 2). In particolare per la scala cognitiva, l’età gestionale (EG) influisce significativamente sullo sviluppo cognitivo; infatti, nonostante l’abilità cognitiva aumenti nel tempo in tutti i bambini presi in esame, il cambiamento da 6 a 12 mesi risulta significativamente più elevato nel gruppo con età gestionale bassa, pur non raggiungendo il livello raggiunto dal gruppo con età gestazionale alta. Per la scala motoria, la modalità del parto influenza in modo significativo lo sviluppo motorio, in particolare l’aumento delle abilità motorie dal T1 al T2 è significativamente più elevato nei soggetti nati con parto cesareo. Si potrebbe ipotizzare, dato l’effetto di interazione della variabile
LE CARATTERISTICHE NEUROEVOLUTIVE IN BAMBINI NATI PRETERMINE
Grafico1.
13
Grafico 2.
EG e della variabile modalità del parto, che i soggetti con età gestazionale bassa e nati con TC, pur partendo da un livello cognitivo più basso dei soggetti con età gestazionale più alta e da abilità motorie meno evolute rispetto ai bambini con modalità del parto 1, ottengono una significativa progressione sul livello cognitivo e motorio dopo i 12 mesi di età cronologica corretta, pur non raggiungendo il livello raggiunto dal gruppo con età gestazionale alta. I risultati emersi dall’analisi hanno evidenziato differenze statisticamente significative nei punteggi medi delle tre scale Bayley ottenute dal campione disaggregato rispetto all’età gestazionale, al peso, agli esami strumentali: – nella scala cognitiva: i bambini con EG bassa presentano un punteggio medio significativamente più basso di quelli con EG alta (Tabella 4), il gruppo con peso alla nascita ≥ 1500g ha una media significativamente più alta rispetto agli altri due gruppi (Tabella 5) e i bambini con esito di lieve gravità agli esami strumentali hanno una media più alta rispetto agli altri due gruppi (Tabella 6); – nella scala del linguaggio: il gruppo con EG bassa presenta un punteggio medio significativamente più basso del gruppo con EG alta (Tabella 7); – nella scala motoria: i bambini con EG bassa presentano un punteggio medio significativamente più basso dei bambini con EG alta (Tabella 8) e il gruppo con esito di lieve gravità agli esami strumentali ha una media più alta del gruppo con esito di media gravità (Tabella 9).
Tabella 4. Effetto tra soggetti: punteggi medi ottenuti alla scala cognitiva da bambini con diversa egg. Media (stime)
Errore std.
EG – b
91,94
3,80
EG – a
113,16
2,85
Note. F(1,23)= 19,90; p<0,05
η 2= 0,46
14
F. ALLEMAND - R. AVERNA - C. DOSI - C. FERONE
Tabella 5. Effetto tra soggetti: confronti post-hoc tra i punteggi medi ottenuti alla scala cognitiva da bambini con diverso peso alla nascita. Media (stime)
Errore std.
Peso < 1000g
92,50
4,88
1000g ≥Peso< 1500g
98,93
4,52
Peso≥ 1500g
114,46
3,32 η 2= 0,417
Note. F(2,23)= 8,239; p<0,05
Tabella 6. Effetto tra soggetti: confronti post hoc tra i punteggi medi ottenuti alla scala cognitiva da bambini con diverso esito agli esami strumentali. Media (stime)
Errore std.
Esami 1 = lieve gravità
113,06
2,89
Esami 2 = media gravità
93,17
4,73
Esami 3 = alta gravità
91,88
Note. F(2,23)= 9,584; P<0,05
5,79 η
2=0,455
Tabella 7. Effetto tra i soggetti: punteggi medi ottenuti alla scala del linguaggio ottenuti da bambini con diversa egg. Media (stime)
Errore std.
EG – b
95,94
4,10
EG – a
107,56
Note. F(1,23)= 5,134; P<0,05
3,08 η
2=0,182
Tabella 8. Effetto tra i soggetti: punteggi medi ottenuti alla scala motoria da bambini con diversa egg. Media (stime)
Errore std.
EG – b
84,33
3,88
EG – a
95,28
Note. F(1,23)= 5,106; P<0,05
2,91 2
η =0,182
LE CARATTERISTICHE NEUROEVOLUTIVE IN BAMBINI NATI PRETERMINE
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Tabella 9. Effetto tra soggetti: confronti post hoc tra i punteggi medi ottenuti alla scala motoria da bambini con diverso esito agli esami strumentali. Media (stime)
Errore std.
Esami 1 = lieve gravità
96,72
2,74
Esami 2 = media gravità
80,92
4,47
Esami 3 = alta gravità
88,13
5,48
Note. F(2,23)= 4,803p<0,05
2
η = 0,295
Conclusioni In accordo con quanto emerge in letteratura, l’esame dei dati del presente studio consente di confermare la relazione tra età gestazionale, peso neonatale, esito degli esami diagnostici strumentali e profilo cognitivo nei bambini nati pretermine (Cornelieke, 2009). Un recente studio ha infatti dimostrato che un’età gestazionale alta e l’assenza di lesioni cerebrali sono associati a un miglior esito neurologico (Filipouski et al., 2012). In modo analogo si è notato che i nati con peso estremamente basso (<1000 gr.) presentano disabilità gravi maggiori di quelli nati con peso molto basso (compreso tra 1000 e 1500 gr.) (Stoinska, 2011). Affinchè la valutazione del bambino prematuro sia completa però, oltre a prendere in considerazione l’età gestazionale e il peso alla nascita è necessario effettuare una valutazione strumentale il più completa possibile (Zaharie, 2007). Nell’ambito del presente studio si è fatto ricorso ai dati disponibili che per lo più hanno riguardato l’Ecografia cerebrale e RMN per quanto riguarda i casi più dubbi (Mirmiran, 2004) (Woodward et al., 2006). Lo studio dimostra che combinando i risultati della diagnostica strumentale con la valutazione neurocomportamentale la sensibilità di previsione arriva all’80%, il che suggerisce che un approccio olistico alla diagnosi precoce delle lesioni cerebrali è preferibile ad un singolo test (Mirmiran, 2004). I bambini che nascono prima delle 30 settimane, cioè quelli che presentano un peso alla nascita al di sotto dei 1000 grammi, vanno meno frequentemente incontro a nascita da parto cesareo e presentano un decorso clinico dalla nascita alla dimissione più complesso rispetto ai nati dopo le 30 settimane. In questa prospettiva di colloca uno studio condotto con lo scopo di valutare l’esito perinatale rispetto alla presenza di danno cerebrale grave in nati pretermine in base alla modalità del parto che non ha tuttavia evidenziato una differenza significativa tra i nati con parto naturale e quelli nati con parto cesareo (Ljustina et al., 2013). I test di Bayley si sono rivelati particolarmente efficaci nel valutare lo sviluppo cognitivo e motorio nei bambini nati pretermine presi in esame (Fernandes et al., 2012) (Greene et al., 2013). Infatti, di particolare interesse risulta il dato emerso dal nostro studio longitudinale secondo cui i bambini nati prima delle 30 settimane, pur presentando un livello cognitivo di partenza più basso, a distanza di 6 mesi, ossia a 12 mesi di età corretta,
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F. ALLEMAND - R. AVERNA - C. DOSI - C. FERONE
manifestano un’accelerazione dello sviluppo neurocognitivo significativamente più cospicuo rispetto ai bambini nati dopo le 30 settimane pur non raggiungendo il loro stesso livello. In particolare: • Il 79,3% dei soggetti realizza una progressione per quanto riguarda la scala cognitiva; • Il 72,4% dei soggetti realizza una progressione per quanto riguarda la scala del linguaggio; • L’82,8% dei soggetti realizza una progressione per quanto riguarda la scala motoria. Quindi potremmo affermare, da un lato, che lo sviluppo cognitivo è strettamente dipendente dall’età gestazionale e, dall’altro, che la plasticità neuronale consente ai bambini con età gestazionale più bassa di effettuare un recupero a partire già dai primi mesi di vita. Non siamo attualmente in grado di valutare l’impatto della terapia riabilitativa su questi bambini ancora in studio. Tale dato potrebbe essere analizzato in modo più approfondito e dettagliato proseguendo lo studio a 18 e 24 mesi. In questo senso il presente rappresenta uno studio preliminare i cui dati, se confermati, potrebbero permettere di semplificare i protocolli valutativi dei follow up dei bambini nati pretermine. Infatti, poiché nel nostro campione, già dopo le prime due valutazioni a scadenza semestrale si registrino progressioni o, al massimo, stabilità nei punteggi ottenuti dai bambino e che non si registrino regressioni, ci induce ad ipotizzare che potrebbe essere sufficiente una valutazione dello sviluppo cognitivo del bambino nato pretermine una sola volta a 6 mesi di distanza dal primo, cioè a 12 mesi di età cronologica corretta. Nell’affermare ciò è importante sottolineare la sostanziale benignità clinica a breve e a lungo termine del campione preso in esame. Infatti i bambini oggetto dello studio non presentano quadri di PCI ma solo sequele di carattere neuropsicologico. Anche in questo senso, il presente può rappresentare uno studio preliminare che potrà essere completato ampliando il campione con un gruppo costituito da bambini clinicamente compromessi. Riassunto L’obiettivo di questo studio è quello di aumentare la conoscenza riguardo il basso peso alla nascita, da un lato, e il rapporto tra prematurità e complicanze neurologiche che possono insorgere dall’altro. Metodi: Abbiamo reclutato 85 bambini nati pretermine con età gestazionale compresa tra 23 e 35 settimane. Sono stati seguiti ad intervalli regolari attraverso la valutazione del neurosviluppo (neurologico e psicomotorio) fino a 12 mesi di età corretta. L’analisi statistica è stata condotta al fine di creare correlazioni tra le variabili pre- e perinatale ed esito neurologico a 12 mesi. Risultati: I nati con età gestazionale inferiore alle 30 settimane hanno più spesso un peso alla nascita inferiore ai 1000grammi (59.30% p<0,05) ed i bambini nati con età gestazionale superiore alle 30 settimane hanno più spesso un peso alla nascita superiore ai 1000 grammi (97,70% p<0.05). Gli esiti dello sviluppo neurologico sono stati valutati utilizzando le Bayley Scales of Infant Development (BSID-III) che hanno mostrato come coloro che sono nati
LE CARATTERISTICHE NEUROEVOLUTIVE IN BAMBINI NATI PRETERMINE
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con età gestazionale inferiore ottengono punteggi più bassi. È stato anche dimostrato che vi è una progressione nei punteggi ottenuti a 6 mesi tra una valutazione e l’altra per entrambi i gruppi. Conclusioni: L’analisi dei dati permette di confermare la stretta relazione esistente tra l’età gestazionale, il peso alla nascita, i risultati delle prove di laboratorio, gli studi di diagnostica per immagini e profilo cognitivo nei nati pretermine. Il nostro potrebbe rappresentare uno studio preliminare i cui dati se confermati permetterebbero di semplificare il protocollo di follow-up dei bambini nati pretermine. Parole chiave Prematurità – Età gestazionale – Sviluppo neurologico – Follow-up prematuri.
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F. ALLEMAND - R. AVERNA - C. DOSI - C. FERONE
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 19-38
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Atelier fiaba: esperienza di terapia di gruppo con bambini con disturbo generalizzato di sviluppo Fairly Tale’ s Atelier: group therapy’ s experience with pervasive developmental disorder children Irene Barbicinti***, Lorenza Bondonio*, Cristina Carminati******, Cristiana Cocco***, Alessandra Crispino******, Adriana Rinaldi*****, Marcella Saggese****, Francesca Saglio**, Donatella Simonini***, Alessia Tambornini******, Maddalena Valente****, Chiara Zunino****
Summary This work describes the activity of a Fairy Tale therapy group, inspired by the Professor Lafforgue’s model, director of the Centre “Pomme Bleu” in Bordeax. It shows the modalities and the features of the setting, the group and the story of the activity inside the Service of Child Neuropsychiatry of the ASL To2 of Turin. Also it analyze the specific way of a group of children in two years of therapy. We assess of them the global evolution and the specific individual change.The intent of the article is: to communicate un experience considered by us a valid and effective method in the cure of children with serious problem of developement. Key words Tale – Group – Setting – Evaluation parameters.
Introduzione Il gruppo fiaba, organizzato da operatori della S.C. NPI2 ASLTO2 Nord, inizia la sua attività nel 1999 come attività di gruppo rivolta a bambini con problemi di organizzazione emotiva e cognitiva in età scolare (materna ed elementare). L’idea nasce da alcuni operatori che già si erano interessati individualmente alla fiaba e alle sue valenze terapeutiche e che decidono di unire le loro esperienze al fine di costituire un gruppo di lavoro. L’imprinting teorico si basa sull’esperienza teorico-pratica del dott. Lafforgue presso il day-hospital “La Pomme Bleue” di Bordeaux nella cura di bambini * Direttore
Struttura Complessa di Neuropsichiatria Infantile ASL To2, Torino. Responsabile Struttura Semplice SRD della SC di NPI ASL To2, Torino. *** Struttura Complessa di Neuropsichiatria Infantile ASL To2, Torino. **** Struttura Semplice SRD della SC di NPI ASL To2, Torino. ***** Consulente esterna, Teatro Stalker, Torino. ****** Consulenti esterni ASLTO2, Torino. **
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I. BARBICINTI - L. BONDONIO - C. CARMINATI ET AL.
psicotici e autistici. Lafforgue dà inizio nel 1977 a un Atelier Conte a cadenza settimanale: “Ce sont les productions, associations, questions angoisses, joies et découvertes des enfants qui ont guidé ma recherche” (Lafforgue, 1995). Obiettivo del lavoro Gli obiettivi sono legati alle funzioni stesse della fiaba. “Le fiabe – scrive Calvino (1956) – sono il catalogo dei destini umani che possono darsi a un uomo o a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco da casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano”. La prima funzione si può definire organizzatrice ed è basata sulla ricorrenza delle strutture tipiche del repertorio fiabesco. Tale funzione per un bambino disturbato, con problemi di tipo cognitivo, confuso nel suo rapporto con la realtà, rappresenta la possibilità di costruire un mondo coerente esterno a sé che poi possa essere interiorizzato attraverso l’esperienza dell’ascolto, della ripetizione, della memorizzazione e della rappresentazione. La seconda funzione è quella riparatrice e di elaborazione, legata principalmente ai contenuti della fiaba e alla sua trattazione di conflitti: ciò permette al bambino il confronto con i propri conflitti interni e lo aiuta a gestire meglio le proprie angosce e a trovare possibili modelli di soluzione. Il piacere nel trattenere la fiaba mobilizza il desiderio, per esempio quello di riascoltarla, di ricordarla, di provare nuove emozioni. La fiaba inoltre può aiutare a mettere ordine nelle produzioni incoerenti e a indirizzo patologico, grazie alla sua funzione contenente. Fattori come la scelta accurata del racconto, dei suoi rituali di apertura e di chiusura, l’attenzione prestata alla postura del bambino e del narratore nella relazione uditore/narratore, il patto narrativo, la gestualità usata per arricchire il racconto, sono tutti aspetti che sottolineano la centralità delle funzioni contenenti della fiaba. “I personaggi e gli eventi delle fiabe personificano e illustrano anche conflitti interiori, ma suggeriscono in modo estremamente sottile come questi conflitti possono essere risolti, e quali potrebbero essere i passi successivi nello sviluppo verso una superiore umanità. La fiaba è presentata in modo semplice, familiare, nessuna richiesta viene posta all’ ascoltatore. Ciò fa sì che anche il bambino più piccolo non si senta costretto ad agire in modi particolari e non sia mai indotto a sentirsi inferiore. Lungi dal porre richieste, la fiaba rassicura, infonde speranza nel futuro e offre la promessa di un lieto fine”. Secondo Bettelheim (1987) non bisogna fornire al bambino un’interpretazione precostituita, ma occorre che il terapeuta o l’educatore sia in grado di scegliere la fiaba che meglio attraversa le problematiche di chi ascolta.
ATELIER FIABA
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Soggetti e metodi I momenti dell’atelier I momenti che scandiscono l’attività del laboratorio sono tre: il racconto, la rappresentazione e il disegno. a) Il racconto. All’interno della prima fase dell’atelier, il racconto, è importante far vivere ai bambini l’attesa dell’inizio della storia. Seduti in cerchio, dopo i saluti si verificano le presenze e si pone l’attenzione dei partecipanti sulle eventuali assenze, cercando di sapere quale ne è il motivo. I posti degli assenti vengono tenuti liberi. Un aspetto rituale aprirà e chiuderà la narrazione, al fine di delimitare gli spazi con estrema chiarezza e di coinvolgere maggiormente gli ascoltatori. Il narratore è garante della fiaba: è importante che abbia nel suo repertorio delle filastrocche da utilizzare, nei momenti di difficoltà, per ritornare nella storia. Quando la situazione degenera il conduttore potrà riportare l’attenzione sulla fiaba con commenti del tipo: «C’è qualcosa che ci impedisce di pensare». A volte è necessario fermarsi quando si verificano cali di attenzione. Il racconto della fiaba, infatti, non è un monologo teatrale, ma dev’essere un raccontare che interessa a tutti, bambini e adulti, e che si vuole condividere. Queste sono le condizioni per creare un patto narrativo che potremmo definire come un contratto tra qualcuno che ha voglia di raccontare e qualcuno che ha voglia di ascoltare. “Perché una storia riesca realmente a catturare l’attenzione del bambino – scrive Bettelheim (1987) – deve divertirlo e suscitare la sua curiosità. Ma per poter arricchire la vita, deve stimolare la sua immaginazione, aiutarlo a sviluppare il suo intelletto e chiarire le sue emozioni, armonizzarsi con le sue ansie e aspirazioni, riconoscere appieno le sue difficoltà e nel contempo suggerire soluzioni ai problemi che lo turbano”. Il nostro rito iniziale è scandito da una filastrocca che la narratrice-attrice, con il chiaro intento di “sedurre” il pubblico, declama da dietro il sipario: «È una storia bella che piace raccontare: la vuoi tu ascoltare?» E tutti insieme, agganciati dal suo sguardo e da quella formula “magica”, rispondiamo: «Sì!» Ed ecco che la storia può cominciare… A questo punto il narratore dovrà saper “nutrire” il gruppo con la fiaba e quindi sono molto importanti le tecniche usate per raccontare: la voce, i gesti, lo sguardo. Gli occhi dovranno essere a livello dell’uditorio (infatti siamo seduti tutti sullo stesso tipo di seggioline), la voce dovrà essere naturale, si potranno utilizzare filastrocche e canzoncine, sempre allo scopo di riportare l’attenzione di tutti sull’obiettivo: il racconto. Quest’ultimo sarà, per l’appunto, “raccontato”, non letto, e nel tempo, con l’esperienza, potrà essere arricchito di elementi creativi legati a dinamiche rispondenti alle specificità del gruppo. Il libro è comunque presente e chi lo desidera potrà prenderne visione alla fine della seduta, dopo il disegno: così potrà verificare ciò che ha ascoltato. È sempre necessario creare una cornice che permetta di comunicare il contenuto della fiaba a un uditorio spesso disattento, passivo, instabile. I più piccoli, caratteriz-
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I. BARBICINTI - L. BONDONIO - C. CARMINATI ET AL.
zati da una limitata capacità di attenzione, devono essere continuamente “tenuti con gli occhi” e riportati al racconto con l’uso della voce e della mimica. Abbiamo notato che nel momento in cui essi incominciano a interiorizzare le tracce di una fiaba, e cioè sono entrati nel patto narrativo, vanno spontaneamente a mettersi in semicerchio intorno al narratore. A volte i bambini occupano spazi diversi da quelli stabiliti, ad esempio si mettono sotto la sedia o si buttano per terra. In questi casi, chi racconta non deve interrompere la narrazione, poiché è importante che i bambini capiscano che il racconto non si lascia contaminare dalla realtà. Quando la situazione diventa ingestibile, tuttavia, può essere consigliabile fare una sospensione. Se in particolare un bambino assume atteggiamenti distruttivi per il gruppo, si può pensare di farlo temporaneamente uscire dalla stanza, dicendo a tutti che non si tratta di una punizione. La motivazione potrà essere la seguente: «Per lui in questo momento è troppo difficile restare qui». Gli altri adulti saranno presenti con la sola funzione di “facilitatori”: sono chiamati a sostenere il patto narrativo e a intervenire quando la situazione diventa troppo difficile. «E tricco e tracco il racconto è nel sacco!», dice il nostro rituale. La narrazione è finita e si può passare alla rappresentazione. “Le fiabe, a differenza di qualsiasi altra forma di letteratura, indirizzano il bambino verso la scoperta della sua identità e della sua vocazione, e suggeriscono inoltre quali esperienze siano necessarie per sviluppare ulteriormente il suo carattere. le fiabe suggeriscono che una vita gratificante e positiva è alla portata di ciascuno nonostante le avversità, ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità” (Bettelheim, 1987). b) La rappresentazione. Lo spazio della rappresentazione, allestito prima dell’inizio del gruppo, viene diviso in zone legate ai momenti chiave della storia raccontata, in modo molto semplice, disegnando sul pavimento con dei gessetti o delineando con un minimo di materiale (cartoni, tappeti, teli ecc.) i luoghi dove si svolgerà la storia. Anche i travestimenti per i vari personaggi saranno minimi: un cappello, un bastone, una mantellina. L’importante è evocare la situazione o il personaggio. Il sipario divide in modo inequivocabile lo spazio tra la scena e la platea. Un momento molto delicato, a questo punto, è la scelta dei personaggi da parte dei bambini. È necessario, come promemoria di confronto, scrivere ogni volta su un cartellone i ruoli scelti. La discussione spesso è difficile, i bambini sono ripetitivi, vogliono fare sempre la stessa cosa e conservare un quadro dei ruoli assunti nelle sedute precedenti può essere utile nella contrattazione. Abbiamo raccolto i dati relativi alle preferenze dei bambini ed è risultato molto interessante il collegamento tra le caratteristiche dei singoli e la ripetitività nelle loro scelte dei personaggi. Le osservazioni da noi fatte a questo proposito sono risultate utili in vista dell’interpretazione delle problematiche dei bambini. Durante la rappresentazione è importante che i bambini “giochino” il loro ruolo come sono in grado di farlo; l’adulto li supporta, mentre sarà il narratore, che tiene dall’esterno le fila della trama, a inserire le parti mancanti della storia. Chi rappresen-
ATELIER FIABA
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ta è all’interno della scena, gli altri stanno fuori se hanno rifiutato di coinvolgersi. La storia dev’essere rappresentata e, se mancano dei personaggi per la sua realizzazione, gli adulti entrano in gioco. Alla fine dello “spettacolo” gli “attori” si lasciano alle spalle la scena e i loro personaggi di Cappuccetto Rosso, della nonna, dei tre porcellini ecc., attraverso un rito di addio vero e proprio. Un augurio sollecito di buon ritorno alla loro individualità reale, in quanto Angela, Marco, Gabriele ecc, li riaccompagnerà in platea per l’ultima fase dell’atelier. c) Il disegno. I bambini si raccolgono attorno a un tavolo, viene loro dato un foglio per il disegno e i pennarelli sono messi in centro. La consegna a questo punto è la seguente: «Fate il disegno della storia che avete ascoltato e drammatizzato». I bambini possono scambiarsi le loro impressioni, possono ispirarsi gli uni agli altri, ma bisogna evitare che lascino delle tracce negli spazi individuali dei compagni (si possono innescare grossi litigi su quest’aspetto). È possibile che il bambino non disegni o si rifiuti di rappresentare la storia. A volte i disegni sono liberi, senza connessioni con la fiaba: è importante mettere in rilievo questa circostanza. Quando è possibile ognuno scrive il suo nome. Il disegno, considerato come una traccia di memorizzazione o come una proiezione associativa, sarà appeso per essere visto da tutto il gruppo e verrà commentato individualmente. Non vengono date delle interpretazioni, c’è solo il desiderio di capire che cosa ognuno abbia voluto esprimere. E a questo scopo si ha bisogno dell’aiuto dei piccoli. Alla fine di questa “lettura” il gruppo si scioglie con un saluto e con l’appuntamento per la volta successiva. L’osservatore Come già sottolineato in precedenza, l’inserimento di un osservatore all’interno del gruppo è stato molto importante al fine di un miglioramento della qualità del lavoro. Il ruolo dell’osservatore dev’essere un ruolo neutro: seduto sempre allo stesso posto, prende nota su un quaderno, ancor meglio su un modulo pre-stampato, ed è fuori dai ruoli assegnati agli altri operatori del gruppo. La necessità di raccogliere in modo rapido tutte le informazioni inerenti all’andamento dell’atelier, fase per fase e su ogni soggetto, ci ha portate a stilare e a stampare uno schema di verbale da compilare nel corso di ogni seduta. In esso vengono annotate le dinamiche del gruppo, i commenti dei bambini, le loro reazioni, i loro conflitti, le emozioni che esprimono attraverso il canale della mimica e dei gesti in tutte le loro azioni. Inoltre la presenza dell’osservatore ci ha permesso di utilizzare gli indicatori di risultato. Molto spesso i bambini chiedono a chi osserva cosa stia facendo, perché stia scrivendo. La risposta è importante: «È lì per scrivere e per aiutare a capire quello che sta succedendo». Alla fine del lavoro diretto con i bambini, gli operatori analizzeranno sistematicamente tutto questo materiale: sarà necessaria almeno un’altra mezz’ora per rivedere e riprendere gli spunti più interessanti, oltre a visionare i filmati della seduta stessa.
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L’atelier senza osservatore sarebbe meno ricco e meno rigoroso. La griglia ci ha dato inoltre la possibilità di raccogliere dati importanti da analizzare in supervisione ai fini della verifica dei risultati. Il gruppo di sostegno ai genitori Il sostegno al gruppo dei genitori, secondo noi, è essenziale per un miglior rendimento dell’atelier. La possibilità di condividere con altri adulti tematiche comuni, inerenti alle difficoltà dei propri figli e alla loro gestione, li può rendere molto partecipativi e, senza dubbio, più consapevoli. Inoltre il confronto tra terapeuti dei due diversi gruppi permette di analizzare i cambiamenti dei bambini e delle dinamiche della relazione con i loro genitori. Il luogo Il luogo dove si tiene la fiaba dev’essere, possibilmente, una stanza dedicata solo a quest’attività, un luogo dove i bambini non abbiano già avuto altre esperienze terapeutiche, perché una tale sovrapposizione potrebbe generare confusione. Deve diventare “il luogo” dove le fiabe si raccontano, si rappresentano e si disegnano; ci dev’essere lo spazio per questi tre momenti fondamentali del lavoro, le pareti devono essere sgombre da qualsiasi materiale, l’arredamento sarà limitato a un tavolo da disegno. Due tendoni con funzione di sipario, che si possano quindi aprire e chiudere facilmente, separano lo spazio del racconto e del disegno da quello della drammatizzazione. Nell’area della narrazione le seggioline, tutte uguali, saranno sistemate in semicerchio; la sedia del narratore sarà al centro. Strumenti Il materiale necessario al laboratorio, nella nostra esperienza, è composto da oggetti semplici e di facile reperibilità: – due tende con le quali organizzare il sipario; – un numero di seggioline uguali, o per lo meno della stessa dimensione, in numero sufficiente sia per il gruppo dei bambini che per il gruppo degli adulti; – i libri con le storie; noi abbiamo preferito “costruire” dei libri dopo aver scelto le parti più significative delle storie, tagliando parti inutili o troppo difficili, e dopo aver messo l’accento su alcune frasi o formule-chiave; – cartoni, tappeti, teli o altro materiale di recupero per organizzare la scena; – travestimenti composti da elementi essenziali che permettano il riconoscimento del personaggio, per esempio il cappuccio rosso e il cestino per Cappuccetto Rosso, la coda ed eventualmente la maschera per il lupo, e così via; – gessetti (per la scenografia), pennarelli, fogli, cartelline per raccogliere i disegni. Vorremmo sottolineare, all’interno di questo paragrafo, l’importanza di videoregistrazioni regolari durante l’intero percorso, fin dalla prima seduta, in modo da abituare i bambini alla presenza della telecamera. I filmati ci hanno permesso di
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portare alla supervisione materiale concreto di lavoro con tutta la sua criticità e vitalità; insieme agli scritti, ci hanno dato la possibilità di rielaborare e riformulare il progetto in modo continuativo. È importante a nostro avviso far capire ai genitori, i quali molto spesso chiedono di vedere i filmati, che la registrazione è parte integrante della terapia e ci serve come base di lavoro al fine di migliorare la qualità del nostro intervento. Ogni settimana gli operatori si riuniscono per analizzare il materiale della seduta appena terminata, per riorganizzarne alcuni aspetti e per prendere eventuali decisioni in merito. Ogni quindici giorni una parte della riunione avviene in comune con gli operatori che conducono il gruppo genitori. Il materiale, a questo punto, diviene piuttosto consistente e suscettibile di interpretazioni più ampie e articolate. Per alcuni anni di funzionamento dell’Atelier Fiaba abbiamo avuto la supervisione del dott. Lafforgue una volta all’anno. Anche i curanti hanno partecipato a questi seminari di analisi. Questi incontri sono stati per noi davvero fondamentali, perché ci hanno dato la possibilità di approfondire, e in alcuni casi di capire, i nessi esistenti fra le risposte dei bambini alle diverse stimolazioni ricevute e il loro quadro patologico di partenza; inoltre, ogni supervisione ha significato un arricchimento dei contenuti teorici che supportano il nostro lavoro. La scelta della fiaba Scegliere la fiaba giusta per iniziare è fondamentale. A seconda dell’età, della patologia e dell’interesse dei bambini, la scelta delle fiabe sarà diversa. A volte si opta per la più semplice, quella necessaria per quel gruppo specifico, e la stessa storia potrà anche cadenzare la durata intera della sessione terapeutica. Con i bambini più piccoli o con quelli più problematici è opportuno raccontare soltanto fiabe di tradizione popolare probabilmente già note al bambino. Nel nostro atelier le fiabe utilizzate sono state soprattutto Cappuccetto Rosso e I tre porcellini. Con un gruppo è stata utilizzata anche la fiaba Hänsel e Gretel, ma negli ultimi ateliers con bambini con problematiche più complesse si è constatato che questa fiaba risultava troppo difficile. Discussione Il gruppo terapeutico, oggetto del presente lavoro, si è svolto nel corso di due anni (2009-2011) e ha visto il coinvolgimento di sei bambini d’ età compresa tra 5 e 6 anni al momento dell’inizio del percorso dell’ atelier. Tutti questi bambini, già in carico alla S.C. NPI2 dell’ASL TO2, presentavano problematiche cognitive e relazionali, che si configuravano nell’area dell’autismo e della psicosi precoce. Ogni anno si sono svolti 20 incontri a cadenza settimanale della durata di un’ora. Nello stesso orario, con frequenza quindicinale, si riuniva il gruppo offerto ai genitori dei bambini frequentanti l’atelier.
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Il gruppo dei bambini è stato condotto da una neuropsichiatra infantile, una logopedista e una neuropsicomotricista dell’età evolutiva, la narratrice, una psicologa osservatrice che trascriveva la seduta, una fisioterapista che filmava le sedute. Abbiamo ritenuto importante inserire nell’équipe di lavoro un’attrice con competenze ed esperienza nel lavoro con i bambini, nel ruolo di narratrice. I candidati al gruppo vengono segnalati agli operatori dai rispettivi curanti, tramite un’apposita scheda. La composizione del gruppo dei bambini viene stabilita in base all’età, al sesso (equilibrio tra il numero dei maschi e il numero delle femmine) e alle problematiche emergenti, che hanno indotto il curante a inviare il proprio paziente a intraprendere questo tipo di intervento. Una volta scelti, i bambini vengono presentati all’équipe dell’atelier in una riunione preliminare. L’atelier fiaba è stato offerto a bambini che avevano sperimentato precedentemente un lavoro di cura individuale, con indirizzo specifico a seconda delle loro problematiche; per tutti si trattava comunque di una prima esperienza di gruppo. I bambini presentavano: grossi deficit di attenzione, problematiche comportamentali, difficoltà comunicative, chiusure verso l’ambiente esterno, stereotipie gestuali. All’ inizio del percorso alcuni tendevano ad evitare l’esperienza, fuggendo dal setting o mettendo in atto comportamenti distruttivi. Pertanto l’atelier è stato caratterizzato, soprattutto inizialmente, da un alto grado di caos e confusione, con i quali i conduttori hanno dovuto confrontarsi. Nello specifico la stanza era invasa da urla, tendenza ad agiti scomposti, anche pericolosi per se stessi e per gli altri, gestualità ripetitive robotiche, tentativi di fuga, altri disturbi comportamentali specifici quali: mettersi le dita nel naso, sbavare sulle sedie, toccarsi ripetutamente le parti intime, buttarsi per terra. Era particolarmente difficile mantenere la narrazione e rendere possibile, nel momento della rappresentazione, la scelta del ruolo da rappresentare ed il mantenimento dello stesso. Infatti, era molto frequente il rifiuto a scegliere un personaggio e la tendenza a confondere i ruoli passando da un personaggio all’altro in modo caotico. In queste condizioni di paralisi del pensiero abbiamo sentito la necessità di attivare e costruire uno spazio di tempo, precedente alla seduta, adatto per pensare, al fine di organizzare modalità sempre nuove e più strutturanti di lavorare nel gruppo. Ogni quindici giorni a questo lavoro contribuivano anche le conduttrici del gruppo dei genitori. Gradualmente si è modificato lo spazio del setting, ridefinendo e sottolineando i passaggi da un momento all’altro dell’atelier. Per attivare una funzione “contenitrice” nel gruppo, fin dall’inizio, il setting prevedeva uno strumentario di base: la canzoncina iniziale per favorire la separazione dai genitori e accompagnare il percorso verso la stanza della terapia la canzoncina per recuperare l’attenzione durante la narrazione e consentire la ripresa della stessa dopo un momento caotico il richiamo verbale alla attenzione visiva e uditiva l’interruzione della narrazione in momenti particolarmente distruttivi
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l’accompagnamento al di fuori della stanza di chi disturba e non riesce ad essere contenuto, al fine di ritrovare la possibilità di seguire la fiaba. Nel percorso specifico di questo gruppo, in relazione alla serietà clinica dei bambini presenti, è stato necessario quindi modificare il setting, per migliorare le capacità di contenimento: • il sipario è stato potenziato: normalmente composto da vari teli, è stato dotato di velcri, che consentissero la completa chiusura, ed è stato “marcato” da una striscia posta sul pavimento per delineare meglio la distinzione tra i due spazi: quello della narrazione e quello della teatralizzazione; • è stato introdotto il rito di passaggio dallo spazio narrativo a quello della rappresentazione. Nel tentativo di contenere l’impulso all’agito ad invadere lo spazio della teatralizzazione nel momento della narrazione, si è stabilito un rito di passaggio. Questo rito scandiva molto bene il “prima e il dopo”, il “reale e la fantasia”, il “sono io” dal “sono io che faccio la parte di…”. In un particolare caso un bambino verbalizzava la difficoltà ad attuare questo passaggio dicendo: “io non sono Cappuccetto Rosso, io sono P.…”. Il passaggio consisteva nel concreto saltare individualmente al di là della striscia e del sipario pronunciando un saluto e indossando i “panni” del personaggio scelto: “…addio P., benvenuto Cappuccetto Rosso..”. Questo rito viene ripetuto anche al termine del “giocare la storia”, e gli “attori” ritornano bambini:“addio Cappuccetto, bentornato P.”. Nel setting è stato necessario lavorare su intensi sentimenti controtransferali, espulsivi ed angoscianti. La condivisione di tali emozioni e vissuti, presenti in ogni operatore, ha permesso di utilizzare strategie per stemperarli e ha reso possibile il contenimento di ansie e angosce altrimenti troppo forti e distruttive. Tra queste strategie, abbiamo stabilito, ad ogni seduta, chi di noi si faceva carico dei bisogni individuali e primari dei singoli bambini (essere contenuto fisicamente, essere accolto, essere richiamato, coccolato, inseguito…). Abbiamo ritenuto importante una turnazione sui bambini per poter avere energie sufficienti e per consentire l’ esperienza di una variabilità di relazione. All’interno di tutti questi cambiamenti una cosa è sempre stata la stessa: la fiaba. Per il primo anno si è narrata sempre la stessa fiaba, e la continuità narrativa ha consentito di contenere le modifiche del setting e delle relazioni. Nel secondo anno si è ripreso il percorso dal punto in cui si era interrotto: i bambini avevano interiorizzato l’esperienza e anche nella mente degli operatori si è mantenuta una continuità rappresentata dallo stesso setting (organizzazione, luogo, operatori,bambini e materiali). I genitori, dopo l’ estate, hanno riferito che i bambini attendevano con ansia l’inizio dell’ atelier. Nei primi incontri nel gruppo si è notata la gioia della ripresa, del ritrovarsi con gli altri e del riconoscersi reciprocamente. L’appartenenza al gruppo li riuniva e sosteneva, aiutandoli a tollerare l’ansia dell’inizio. Tutti questi elementi hanno consentito di poter creare un ambito meno caotico e distruttivo. Nei primi incontri è stato possibile ritrovare la storia (“I tre porcellini”),
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ascoltarla e iniziare a pensare ed esprimere emozioni rispetto ai contenuti di questa. Il fatto di ripetere e tornare dentro la stessa fiaba ha consentito ai bambini di poter dire di sé nei confronti degli altri. Si è potuto così affrontare la tematica dell’ essere “fratellini del gruppo ” e anche le emozioni e i vissuti collegate ai fratellini della realtà, lasciati fuori dalla stanza, ma sempre presentificati attraverso i comportamenti di chi era all’ interno dell’ atelier. Ad esempio, I. è un bambino gemello e nella sua realtà è dotato di minori strumenti del fratello, a lui spesso presentato come quello più adeguato. Nel gruppo tendeva a dimostrarsi il più competente e capace d’ insegnare agli altri come stare nella stanza, come rappresentare i personaggi e come disegnare al meglio la storia. Al contrario un’ altra bimba più adeguata e competente al di fuori dell’ esperienza del gruppo, nella stanza tendeva a portare istanze molto primarie, come quelle dei neonati, come il fratello appena nato. La funzione del gruppo ritrovato, la ripetizione della storia e il mantenimento di un setting strutturato hanno fornito ai bambini un contenitore dove poter pensare emozioni e attuare comportamenti diversi da quelli che solitamente li caratterizzano, variando le risposte ai contenuti del racconto e alle sollecitazioni del gruppo. A questo punto c’ erano le condizioni per cambiare la fiaba e passare a “Cappuccetto Rosso”, senza destrutturare il setting e il gruppo. Alcuni bambini hanno maturato il desiderio di cambiare fiaba, in altri si è manifestata di più la resistenza, la paura, il timore di fronte alla novità. Una bambina in particolare ha presentato una grande regressione, rifiutando la nuova storia sia attraverso i suoi comportamenti, che manifestando l’impossibilità a rappresentarsi in nuovi personaggi, continuando a nominare quelli della fiaba precedente. La possibilità di vivere un momento in cui occorreva mettersi in gioco per evolvere, imparare a “stare con” una nuova storia e “stare in” una nuova storia ha consentito al gruppo di iniziare a lavorare sul tema della conclusione dell’ atelier e della separazione. Gradualmente è emersa la possibilità di giocare un ruolo di escluso: a turno i bambini manifestavano un’ impossibilità a rappresentare un personaggio della storia o a disegnare la storia. Il resto del gruppo appariva indifferente e si attivava per completare l’ esclusione, proseguendo il lavoro, come in assenza del singolo. Avveniva così che, il passare attraverso il vissuto di esclusione (un “porcellino” che non fa parte della nuova storia), potevano avviarsi verso il pensiero di una storia che non sarebbe più stata narrata, ma che poteva diventare un ricordo dell’ esperienza. Questo percorso ha consentito di creare all’ interno del gruppo e nei singoli lo spazio per contenere e conservare l’ esperienza, integrandola nei vari aspetti di vita quotidiana. I colloqui effettuati al termine del lavoro con i genitori hanno consentito di evidenziare i cambiamenti dei bambini, che avevamo notato all’ interno dell’ atelier. Risultati Durante tutto il lavoro di atelier fiaba si sono evidenziati miglioramenti clinici dei bambini, sia nell’ ambito della seduta, sia nell’ ambiente di vita degli stessi. Pertanto
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si è cercato di rendere più evidente ed eventualmente confrontabile l’efficacia del trattamento attraverso l’ individuazione di criteri di valutazione della stessa, che potessero essere di facile rilevazione e confrontabili. Nello specifico si è riflettuto come valutare l’ andamento e l’evoluzione di ciascun bambino nell’ ambito delle sedute di fiabaterapia dell’ anno. I criteri di valutazione sono stati individuati per ciascuna fase della seduta di atelier fiaba: narrazione, teatralizzazione, disegno. Per ciascun criterio di valutazione si è stabilito uno standard, ossia ciò che ci aspettiamo come risultato soddisfacente del nostro lavoro, rispetto al criterio considerato. Nella scelta dei criteri il gruppo ha individuato comportamenti dei bambini di facile rilevazione, possibili da osservare anche in momenti di grande confusione.
Figura 1. Criteri Fase Narrazione. CRITERI FASE NARRAZIONE
POSSIBILE SIGNIFICATO
ATTRIBUZIONE PUNTEGGIO
CRITERIO A: STARE SEDUTO (Capacità del bambino di stare seduto)
Esserci e sentire il proprio corpo in “quello” spazio
Per attribuire il punteggio ci si riferisce al numero di volte in cui il bambino viene richiamato durante la narrazione 1. Più di 3 volte 2. Uguale o meno di 3 volte 3. Nessuna volta Standard = 2 oppure >2
CRITERIO B: STARE ZITTO (Capacità del bambino di stare in silenzio e in ascolto)
Ricevere i contenuti della narrazione
Per attribuire il punteggio ci si riferisce al numero di volte in cui il bambino viene richiamato durante la narrazione 1. Più di 3 volte 2. Uguale o meno di 3 volte 3. Nessuna volta Standard = 2 oppure >2
CRITERIO C: GUARDARE CHI NARRA
Capacità di focalizzare l’ attenzione Possibilità di “aggrapparsi allo sguardo, alla voce, alla gestualità della narratrice Riuscire a selezionare la narrazione tra i diversi stimoli
Per attribuire il punteggio ci si riferisce alla focalizzazione dello sguardo sul narratore 1. Assenza di focalizzazione 2. Discontinuità di focalizzazione 3. Focalizzazione pari all’ 80% del tempo della narrazione
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Figura 2. Criteri Fase Rappresentazione. CRITERI FASE RAPPRESENTAZIONE
POSSIBILE SIGNIFICATO
ATTRIBUZIONE PUNTEGGIO
CRITERIO D: ACCETTARE DI RAPPRESENTARE
Possibilità di entrare e giocare la fiaba
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 3
CRITERIO E: SCEGLIERE IL PERSONAGGIO
Potersi rappresentare in un ruolo Capacità di fare collegamentilegami e di accedere al simbolico
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 3
CRITERIO F: CONOSCERE IL RUOLO DEL PERSONAGGIO DA INTERPRETARE
Capacità di conoscere e di agire secondo un ruolo Possibilità di entrare e uscire di scena mantenendo la propria integrità
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 2 oppure >2
Figura 3. Criteri Fase Disegno. CRITERI FASE DISEGNO
POSSIBILE SIGNIFICATO
ATTRIBUZIONE PUNTEGGIO
CRITERIO G: ACCETTARE DI DISEGNARE
Possibilità di appropriarsi di un’ esperienza vissuta e renderla manifesta
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 3
CRITERIO H: DISEGNO CONGRUO AL TESTO
Possibilità di mantenere il contatto con i contenuti della fiaba e con l’ esperienza vissuta
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 3
CRITERIO I: DISEGNO STRUTTURATO
Presenza di capacità di rappresentazione grafica
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 2 oppure >2
CRITERIO L: SAPER DESCRIVERE IL PROPRIO DISEGNO
Capacità di pensare le proprie rappresentazioni e di esprimerle
1. no 2. si con aiuto 3. si Standard = 2 oppure >2
Conclusioni L’ evoluzione di tutti i bambini è avvenuta a vari livelli. Le Tabelle I-XII permettono una lettura dei progressi dei singoli pazienti nell’ambito dei criteri scelti.
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Tabella I. Paziente A. Anno 2009-2010.
Tabella II. Paziente A. Anno 2010-2011.
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Tabella III. Paziente G. Anno 2009-2010.
Tabella IV. Paziente G. Anno 2010-2011.
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Tabella V. Paziente I. Anno 2009-2010.
Tabella VI. Paziente I. Anno 2010-2011.
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Tabella VII. Paziente P. Anno 2009-2010.
Tabella VIII. Paziente P. Anno 2010-2011.
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Tabella IX. Paziente S.D.T. Anno 2009-2010.
Tabella X. Paziente S.D.T. Anno 2010-2011.
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Tabella XI. Paziente S.G. Anno 2009-2010.
Tabella XII. Paziente S.G. Anno 2011-2012.
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Un aspetto molto importante che si è evidenziato in tutti i bambini è stata l’acquisizione di maggior coesione tra di loro e di riconoscimento reciproco nel gruppo, con conseguente possibilità di sperimentare un’ appartenenza, che ha consentito di superare il senso di frustrazione e solitudine costantemente vissuti in altri ambiti. Questo ha determinato una ricaduta positiva sugli aspetti di socializzazione dei bambini e delle loro famiglie. I singoli individui hanno poi effettuato percorsi che hanno portato principalmente a sviluppare capacità di regolazione comportamentale, cognitive e di rappresentazione. Come si evidenzia nelle Tabelle I e II, A. ha manifestato un progressivo miglioramento nel primo anno di lavoro, mentre nel secondo anno si è manifestata una regressione. In questo periodo della sua vita è nato il fratellino. A questo evento nella sua storia si è aggiunto un lutto (morte del nonno materno). Attraverso il gruppo A. ha potuto manifestare e vivere il suo disagio, ha continuato a giocare il ruolo dei vari personaggi e vivere le emozioni della fiaba, tuttavia è regredito nella capacità di stare nel gruppo e negli aspetti di concentrazione. Alcuni bambini hanno potuto sperimentare attraverso la fiaba la possibilità di esprimersi e strutturare un “io” più stabile attraverso la definizione più chiara della distinzione tra la realtà e la fantasia. Questo ha portato allo sviluppo graduale di capacità rappresentative mentali di emozioni pensabili, narrabili. Si è evidenziato in G. e in I. una graduale maggior capacità di giocare e disegnare la storia (Tabelle III, IV, V e VI). Questi aspetti hanno avuto una ricaduta sulle prestazioni scolastiche curriculari, riferite dalle famiglie e dalle insegnanti al termine del percorso. S.G. nel suo percorso è riuscito a strutturare dentro di sé un confine più chiaro tra la realtà e la fantasia. Gli elementi immaginari tendevano a invadere ogni aspetto della sua vita, determinando agiti aggressivi principalmente rivolti contro di sé. Gradualmente rassicurato e contenuto dalla storia, dal setting e dal gruppo, S.G. ha migliorato, in particolare, la possibilità di giocare un ruolo chiaro, netto e definito senza confondersi e “perdersi” nel personaggio (Tabelle XI e XII). P. era una bambina che all’ inizio del lavoro non era in grado di fermarsi con il corpo nello spazio, né di rappresentare nulla della storia (Tabella VII). Il potersi aggrappare con lo sguardo alla narratrice e con l’ udito alla storia, l’ essere tenuta dalle braccia dei terapeuti e dai richiami vocali del gruppo, dalle filastrocche e canzoncine, le ha consentito di imparare e ricordare i nomi degli altri bambini e di rappresentare la storia con un disegno congruo al testo, anche se ancora poco strutturato (Tabella VIII). S.D.T. inizialmente si presentava estremamente passivo ed “estraneo” nel gruppo. Ha potuto gradualmente entrare e stare nella storia. A livello espressivo grafico è passato dall’ assoluta impossibilità a lasciare una traccia di sé alla capacità di esserci e fare un disegno congruo al testo (Tabella IX e X). La nostra esperienza di oltre dieci anni ci permette di ritenere questa modalità di lavoro efficace nel migliorare la qualità della vita del bambino e della sua famiglia. …e tricco e tracco il racconto è… nel sacco!!!
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Riassunto Questo lavoro descrive l’ attività di un gruppo di fiabaterapia, nato su ispirazione del modello del Professor Laffourgue, direttore del Centro “Pomme bleu” di Bordeaux. Esso illustra le modalità e le caratteristiche del setting e del gruppo e la storia dell’ attività all’ interno del Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’ ASL To2 di Torino. Inoltre prende in analisi il percorso specifico di due anni di terapia di un gruppo di bambini, di cui si sono valutati l’ evoluzione globale e lo specifico cambiamento individuale. L’ intento dell’ articolo è quello di comunicare un’ esperienza da noi ritenuta valida ed efficace nell’ intervento di presa in carico di bambini con gravi problematiche di sviluppo. Parole chiave Fiaba – Gruppo – Setting – Criteri di valutazione.
Bibliografia Bettelheim B. (1987), Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli Editore. Calvino I. (1956), Fiabe italiane, Torino, Einaudi Editore. Lafforgue P. (1995), Petit Poucet deviendra grand. Le travail du conte, Bordeaux, Mollat Editeur.
Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 39-60
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Coordinare la genitorialità nelle famiglie con un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico Parenting coordination in families with an Autistic Spectrum Disorder child Silvia Mazzoni*, Christian Veronesi*, Laura Vismara**
Summary Empirical and clinical work support the existence of a collective intersubjectivity that allows the child to interact precociously with both parents and to share experiences at a family level. Within such framework, the present research applies the clinical Lausanne Trilogue Play to children who have an Autistic Spectrum Disorder (ASD) diagnosis. Families were able to participate to the implied shared task, but different types of miscoordination were evident at the level of organization, focalization and affective contact. With respect to Family Coordination Global Scores, many negative correlations were found: the more severe the symptoms observed in the children (ADOS), the more family coordination was dysfunctional. Correlation was particularly high (< 0.01) when parents played together with the child, regulating their interaction and alternating their attention: family disfunctionality was strongly linked to the severity of children symptoms. In the parts in which only one of the parents played actively with the child while the other was just a participant observer, some families were able to be functional, despite the child’s symptoms severity. Moreover, some cases showed a counterintuitive trend: e.g. child high functionality/low family functionality. In conclusion, the outcome of family observation are discussed in terms of their implication for clinical evaluation, assessment of risk and protective factors and family interventions. Key words Intersubjectivity – Family coordination – Autistic Spectrum Disorders.
Introduzione Nella letteratura specialistica sui Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) è possibile trovare ormai lavori focalizzati sulle interazioni tra genitori e figlio che hanno evidenziato un’alterazione a livello dell’intersoggettività: la difficoltà del bambino ad attivare il genitore allo scambio interattivo influenza negativamente la competenza dei genitori a favorire lo sviluppo delle competenze sociali del figlio e dunque la disfunzionalità dei genitori si aggiunge come fattore di rischio a quelli biologicamente determinati (Davis, Carter, 2008; Hastings, Brown, 2002; Venuti, 2012). Tuttavia, tali * Dipartimento **
di Psicologia Dinamica e Clinica – Sapienza Università di Roma. Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia – Università di Cagliari.
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S. MAZZONI - C. VERONESI - L. VISMARA
studi – sotto l’influenza della primary caregiver theory – focalizzano la diade genitore figlio e non la famiglia come insieme. Nuove tecniche di osservazione diretta della famiglia (Fivaz-Depeursinge, Favez, Lavanchy, De Noni, Frascarolo, 2005) hanno reso possibile dimostrare l’influenza dei fattori familiari sullo sviluppo del bambino anche considerando la famiglia nel suo insieme – con particolare riferimento alla funzione di framing della coppia genitoriale (McHale, Fivaz-Depeursinge, Dickstein, Robertson, Daley, 2008) – ed è stata così evidenziata la relazione di tali fattori con le traiettorie evolutive funzionali e disfunzionali dei figli (Favez, Frascarolo, Carneiro, Montfort, Corboz-Warnery, FivazDepeursinge, 2006; Fivaz Depeursinge, Favez, 2006; Fivaz-Depeursinge, Frascarolo, Lopes, Dimitrova, Favez, 2007). L’osservazione della famiglia ha evidenziato in particolare le precoci competenze sociali del bambino nel contesto delle interazioni del gruppo familiare. A livello teorico, tali studi hanno consentito di ipotizzare l’esistenza di programmi innati volti ad una forma di intersoggettività collettiva (Fivaz-Depeursinge, Lavanchy-Scaiola, Favez, 2010). In base a tali sviluppi della ricerca, il Gruppo di Ricerca dell’Università Sapienza di Roma1, in collaborazione con l’Università di Cagliari2, ha voluto applicare la tecnica di osservazione della famiglia definita Lausanne Trilogue Play (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999; Malagoli Togliatti, Mazzoni, 2006) nel contesto clinico che accoglie le famiglie con bambini diagnosticati nel quadro dei Disturbi dello Spettro Autistico. Il presente studio è nato dall’approfondimento di alcuni modelli teorici ed evidenze empiriche che hanno dato nuovo impulso alla conoscenza dei disturbi dello spettro autistico e possono essere così schematizzate: 1) I processi soggettivi ed intersoggettivi sono mutualmente regolati e nella prima infanzia la triade genitori-figlio costituisce il primo contesto di sviluppo del bambino e la matrice relazionale entro cui egli definisce il proprio Sé (Stern, 2004). 2) L’intersoggettività è anche una componente fondamentale del sottosistema cogenitoriale, in cui è necessaria una coordinazione rapida, spontanea e flessibile tra i due partner e la capacità di condividere le rappresentazioni del bambino, di sé e del partner come genitore (Mc Hale, 2007). 3) Il neonato, attraverso una coordinazione intermodale altamente integrata, si orienta verso gli stimoli e verso i segnali umani; è in grado di rispondere in modo contingente alle espressioni dei caregiver; ha una specifica motivazione innata ad entrare in contatto con le emozioni degli altri e a condividere il proprio stato soggettivo e dunque condiziona gli altri a mettersi in rapporto con lui verso la definizione di una forma di companionship (Trevarthen, Aitken, 2001). L’autismo può essere descritto come un caso esemplificativo di un disturbo 1 Il gruppo è coordinato dalla Prof.ssa Mazzoni presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica della Sapienza Università di Roma e dal Dott. Veronesi presso il Centro Ricerca e Cura Balbuzie e disturbi del linguaggio e dell’apprendimento di Roma. 2 Il polo di Cagliari è coordinato dalla Dott.ssa Vismara presso il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia di Cagliari in convenzione con il Centro per i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (Ospedale Brotzu di Cagliari), diretto dal Dott. Doneddu.
COORDINARE LA GENITORIALITÀ NELLE FAMIGLIE CON UN BAMBINO DSA
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biologico del contatto affettivo e dell’intersoggettività. È possibile osservare disabilità a livello della comunicazione e delle interazioni molto precocemente che indicherebbero un problema latente nell’intersoggettività primaria, anche se molti indicatori di problematiche inerenti allo spettro autistico saranno più chiari dai 9 mesi in poi (intersoggettività secondaria) e soprattutto nello sviluppo delle funzioni cognitive e sociali caratteristiche dei primi due anni di vita (Aitken, Trevarthen, 1997; Trevarthen, Aitken, 2001). 4) Il funzionamento implicito dell’intersoggettività, emozionale e non verbale, ha una base neurobiologica nell’amigdala e nel sistema limbico. Il sistema dei neuroni specchio, una particolare classe di neuroni della corteccia premotoria e di altre aree cerebrali, media la mappatura delle azioni e delle emozioni osservate negli altri individui all’interno dello stesso substrato cerebrale che ne controlla l’esecuzione e l’esperienza soggettiva, assolvendo un ruolo chiave nell’ambito dei processi empatici ed imitativi. È stato evidenziato che i bambini autistici ad alto funzionamento mostrano differenze con campioni di controllo nell’imitare e osservare le espressioni emotive: in particolare una minore attivazione nel Giro Frontale Inferiore (IFG) inversamente proporzionale alla gravità dei sintomi (Dapretto et al., 2006). I deficit di empatia dei soggetti autistici possono, almeno in parte, dipendere da un deficit di base dei meccanismi della simulazione incarnata – a sua volta determinato da un malfunzionamento del sistema dei neuroni specchio (Gallese, 2007) – che permette di rappresentare mentalmente l’esperienza dell’altro e comprenderne le intenzioni. Recentemente (Rizzolatti et al., 2010) è stato specificato che i bambini con autismo hanno un deficit nell’organizzazione a catena degli atti motori quando osservano il comportamento altrui: questa impossibilità di “replicare” nella propria mente le azioni degli altri determina l’incapacità di afferrare direttamente le loro intenzioni senza un’inferenza cognitiva. Si tratta di una nuova ipotesi relativa al sistema dei neuroni a specchio: nell’autismo ci sarebbe una dissociazione tra la capacità di comprendere l’azione in sé – favorita dal meccanismo di base dei neuroni a specchio – e quella di comprendere il perché delle azioni stesse – che dipende dall’integrità dell’organizzazione a catena del sistema motorio (Rizzolatti et al., 2010). 5) Gli studi sull’intersoggettività rappresentano un ponte tra la neurobiologia, la psicologia dello sviluppo e gli studi sulla famiglia ed il Gruppo di Losanna ha dato un contributo importante ponendosi una domanda cruciale: “Le interazioni triadiche sono basate su un programma diadico (il bambino comunica in successione, ma separatamente con ciascuno dei suoi partners) oppure sono basati su un programma triangolare e collettivo (il bambino potrebbe avere la capacità di comunicare simultaneamente con più di un partner nello stesso momento)? Se esiste un programma innato triangolare, allora si potrebbe parlare di una forma di intersoggettività collettiva” (Fivaz-Depeursinge et al., 2010). La videoregistrazione delle interazioni triadiche con bambini di 3-4 mesi e la microanalisi delle interazioni hanno evidenziato la capacità del bambino di effettuare una comunicazione “triangolare” (persona-persona-persona) nonché di essere pronto ad
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interazioni “triadiche” (persona-persona-oggetto). Il Gruppo di Losanna ha definito “triangular bids” gli sguardi rapidi del bambino che vanno avanti e indietro tra i due genitori, dividendo e condividendo espressioni di piacere con entrambi. Il Gruppo di Losanna ha pertanto ritenuto possibile ipotizzare l’esistenza di un “programma triangolare” che consente di parlare di intersoggettività collettiva (Fivaz-Depeursinge et al., 2010). 6) In questo quadro è possibile ipotizzare un disturbo della relazione a livello familiare quando il figlio porta all’interno delle interazioni contributi influenzati da alterazioni neuroevolutive che compromettono proprio l’intersoggettività, la relazione sociale/affettiva e la comunicazione (Siller, Sigman, 2002; Venuti, 2012). Non solo la madre, ma entrambi i genitori, possono essere considerati come sottosistemi strutturanti che costituiscono l’ambiente in cui il figlio raggiunge e stabilizza i suoi obiettivi evolutivi ed è aiutato ad organizzare gli stimoli al cambiamento in nuove strutture: il cambiamento progressivo del bambino deve corrispondere al cambiamento progressivo della famiglia nel suo insieme. Quando questo non accade, la disfunzionalità del bambino (che non ha raggiunto in modo adeguato l’organizzazione del proprio funzionamento) si stabilizza, nonostante la necessità di procedere nello sviluppo a fronte dei nuovi stimoli (sia biologici che ambientali). Obiettivo del lavoro In base alle premesse teoriche schematizzate, ci si è posti l’obiettivo di osservare la qualità degli scambi interattivi e della condivisione dell’esperienza e degli affetti nelle famiglie che hanno il compito gravoso di guidare lo sviluppo di bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico. Assumendo che il Gruppo di Losanna sia riuscito ad operazionalizzare una qualità di base del funzionamento familiare – la coordinazione familiare – e vista la convergenza dei risultati della ricerca effettuata con la procedura osservativa LTP rispetto alle osservazioni cliniche pionieristiche dei terapeuti familiari impegnati nel trattamento dei disturbi nell’infanzia e nell’adolescenza (Minuchin, 1974), possiamo fare riferimento alla coordinazione familiare come un fattore di rischio, mediatore o moderatore nel processo di sviluppo del bambino che ci può fornire ulteriori indicazioni sia nello studio della psicopatologia che nell’individuazione di interventi di sostegno alla genitorialità. Partendo da queste riflessioni sono state poste le seguenti ipotesi di ricerca: • Il setting del Lausanne Trilogue Play clinico è adattabile a famiglie con bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (DSA)? • La coordinazione delle famiglie con bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico è diversa da quella delle famiglie con bambini con Disturbo dello Sviluppo (DS) o con Sviluppo Tipico (ST)? • C’è una correlazione tra coordinazione familiare e gravità dei sintomi del Disturbo dello Spettro Autistico come emergente all’ADOS?
COORDINARE LA GENITORIALITÀ NELLE FAMIGLIE CON UN BAMBINO DSA
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Soggetti Il campione totale è formato da 141 famiglie, suddiviso in tre gruppi: 1. gruppo clinico – N=68 (48,2%) famiglie di bambini con Disturbi dello Spettro Autistico (DSA); 2. gruppo clinico di confronto – N=30 (21,3%) famiglie con un figlio con Disturbo di Sviluppo (DS). Questo gruppo è stato selezionato tenendo conto della diagnosi clinica del bambino che doveva presentare una disfunzione relativa alla sfera neuropsicologica (Disturbo Specifico del Linguaggio e/o Disturbo Specifico di Apprendimento) mentre sono stati esclusi i casi in cui era presente una sintomatologia primaria e strutturata (es.: Ritardo Mentale)3; 3. gruppo normativo – N=43 (30,5%) famiglie non referred: i bambini di queste famiglie presentano uno Sviluppo Tipico ed i genitori non hanno mai richiesto una consultazione psicologica (ST). Le famiglie cliniche sono state reperite presso alcuni Centri di Riabilitazione di Roma e provincia. Le famiglie del gruppo di controllo sono volontarie ed hanno risposto ad un annuncio nella zona di Roma e provincia. Il criterio di inclusione è stato quello dell’età dei figli – che doveva essere omogenea a quella dei campioni clinici- e al fatto di non aver mai richiesto aiuto o consulenza in centro clinici. L’età media delle madri è pari a 39,14 anni (ds=4,81; range compreso tra 27 e 51 anni); quella dei padri è pari a 42,58 anni (ds=6,17; range compreso tra 28 e 56 anni). Nella quasi totalità dei casi i genitori sono coniugati (97,2%). L’età dei bambini è stata calcolata in mesi, per meglio rilevare eventuali differenze o correlazioni in rapporto all’età, soprattutto nei soggetti nei primi anni di vita. L’età media di tutti i bambini considerati è di 85.41 mesi (ds= 34.01). È stata effettuata inoltre un’Analisi della Varianza Multivariata (MANOVA) i cui risultati non hanno evidenziato nessun effetto generale significativo sia in base alla fascia di età dei bambini sia rispetto all’interazione tra gruppo di appartenenza e la fascia di età considerata. Quindi l’età dei bambini non influenza le variabili studiate e il campione può ritenersi uniforme sui punteggi dell’LTP, a prescindere dalla fascia d’età nei tre gruppi. Sono stati indagati, inoltre, il livello socio economico della famiglia, il titolo di studio e l’occupazione dei genitori. Il livello socio economico è in maggioranza medio (58,9%) ed entrambi i genitori sono occupati in tutti i gruppi, tranne un 35,5% del campione totale di madri che è casalinga.
3 Tale scelta metodologica è stata dettata, anche in riferimento ai dati presenti in letteratura (Levi, 1995; 2007), dalla possibilità di poter confrontare questo gruppo di bambini con quelli con DSA poiché possono presentare una compromissione sia a livello delle aree del linguaggio, della comunicazione e dell’apprendimento, sia una vulnerabilità del comportamento e del funzionamento relazionale.
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Metodi Procedura Il Lausanne Trilogue Play 1. La procedura osservativa LTP, adattata al contesto clinico e con bambini in età prescolare e scolare, ha previsto alcuni cambiamenti rispetto al setting ed al sistema di codifica definiti dal Gruppo di Losanna (Malagoli Togliatti, Mazzoni, 2006). Il contesto di osservazione che ha permesso al Gruppo di Losanna di evidenziare in modo empirico le interazioni familiari è costituito da un setting in cui i genitori possono interagire fra loro e con il figlio in uno spazio “triangolare”: a seconda dell’età del bambino, i genitori sono posti davanti al figlio seduto in un seggiolino (3 mesi) oppure in un seggiolone (9 mesi). In tutti i casi ci deve essere un’equidistanza tra i tre componenti della famiglia ed i genitori devono essere in posizione frontale con uguale possibilità di interagire con il figlio posto al vertice di un triangolo equilatero. Ai genitori è chiesto di seguire alcune istruzioni in base alle quali dovranno interagire giocosamente con il figlio – senza l’aiuto di oggetti (a 3 mesi) o con pochi oggetti (a 9 mesi) oppure con l’aiuto di alcuni giochi selezionati dal ricercatore (a 18 mesi) – per raggiungere un’interazione piacevole a livello familiare. In età prescolare e scolare (dai 4 ai 12 anni), viene predisposto invece un tavolo rotondo intorno al quale i genitori siedono ponendosi uno di fronte all’altro e il figlio siede tra loro al vertice di un triangolo ideale. L’uso di oggetti semplici (es. LEGO) consente alla famiglia di condividere l’esperienza del gioco negoziando le iniziative ed arrivando a definire un’esperienza piacevole. Il gioco ha una durata di 10 minuti circa con bambini piccoli (da 3 mesi a 9 mesi) e 20 minuti con i più grandi. Al di là di questa indicazione – che viene data alle famiglie durante le istruzioni- sono per lo più i genitori a strutturare il gioco e a determinare i tempi sia delle parti che dell’intero gioco. È per questo che la durata fa parte dei criteri di codifica. L’LTP prevede quattro parti: 1) nella prima parte uno dei due genitori gioca con il bambino, mentre l’altro è semplicemente presente (2+1); 2) nella seconda parte è previsto uno scambio di ruoli tra i genitori: il genitore che in precedenza aveva assunto una posizione periferica gioca ora con il bambino, mentre il primo ricopre il ruolo passivo (2+1); 3) nella terza parte i tre membri della famiglia giocano insieme (3-insieme); 4) infine, nella quarta parte, i genitori devono interagire tra di loro senza coinvolgere il bambino. Per raggiungere la coordinazione familiare – la misura principale che si ricava dall’applicazione della procedura- i membri della famiglia devono soddisfare quattro livelli funzionali: 1. Includere tutti e includersi in un’esperienza condivisa: partecipazione. 2. Rispettare – autoregolandosi o cercando di influire sulla regolazione reciproca – un’organizzazione basata su ruoli diversi (ad esempio essere attivi o essere osservatori; guidare o farsi guidare): organizzazione. Quando i genitori sono coordinati tra loro e regolano la loro relazione in modo cooperativo, riescono anche a coinvolgere il figlio in una regolazione delle relazioni che prevede
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fasi di simmetria e di complementarietà, momenti in cui si propongono gli stessi comportamenti e momenti in cui la diversità (esempio uno parla e l’altro ascolta) consente una regolazione ottimale della relazione (esempio una conversazione). 3. Condividere il focus attentivo sull’esperienza in corso e sulle interazioni in atto: attenzione focale. Questa funzione si evidenzia anche quando la famiglia come insieme ha un’esperienza condivisa e diviene più complessa perché i messaggi non verbali e verbali devono contribuire alla coordinazione del focus di attenzione per un numero maggiore di partecipanti all’interazione. 4. Arrivare a sperimentare la condivisione emotiva: contatto affettivo. Osservando il modo in cui le famiglie si coordinano per condividere l’esperienza vissuta, è evidente come, se i precedenti livelli funzionali sono stati garantiti, diviene possibile anche la condivisione della connotazione emotiva di tale esperienza. I genitori, in particolare, svolgono qui la loro funzione attraverso le numerose validazioni emotive che emergono dall’empatia verso il figlio e dalla capacità di attribuirgli emozioni, sentimenti, pensieri e motivazioni. Il sistema di codifica dell’LTP Per comprendere la varietà di punteggi che possono essere utilizzati per l’analisi dei dati, si propone nella Tabella 1 lo schema della codifica solitamente utilizzato da giudici indipendenti dopo aver visionato i video dell’osservazione diretta del gioco familiare. Coord. Globale
Parti P-F+M
M-F+P
3 insieme
M-P+F
M
P
F
Coord. I Parte
M
P
F
Coord. II Parte
M
P
F
Coord. III Parte
M
P
F
Coord. IV Parte
Partecipazione
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
Organizzazione
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
Att Focale
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
Cont Affettivo
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
2
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Livelli Funzionali
D urata Punteggi
2 8
8
2 8
10
8
8
2 8
10
8
8
2 8
10
8
8
40
Tabella 1. Schema per il sistema di codifica.
La Tabella 1 simula una codifica per la quale sono stati dati sempre punteggi di interazione appropriata (scala da 0 a 2 per ciascun livello funzionale). Nella prima
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colonna sono elencati i 4 livelli funzionali valutati – partecipazione, organizzazione, attenzione focale e contatto affettivo – e la durata del gioco che viene usata come indicatore della capacità, soprattutto dei genitori, di strutturare il gioco nel rispetto della consegna. Nella prima riga, invece, vengono differenziate le 4 parti del gioco in cui la famiglia si impegna. Nella seconda riga – per ogni parte – sono differenziati i punteggi di madre, padre e figlio. In sintesi, a livello strutturale, si procede con l’attribuzione di punteggi di 0 (inappropriato), 1 (parzialmente appropriato) e 2 (appropriato); nello specifico è possibile ottenere ed analizzare: 1) punteggi per ciascun livello funzionale nell’intero gioco (partecipazione, organizzazione, attenzione focale e contatto affettivo): da 0 a 8 per la famiglia come insieme o per ciascun componente della famiglia; 2) punteggi relativi a ciascuna parte: da 0 a 10 perché ai punteggi relativi ai livelli funzionali si aggiunge quello della durata della parte; 3) punteggi relativi al gioco nella sua globalità: da 0 a 40. È interessante sottolineare che, per ottenere il punteggio a livello familiare in ciascun livello funzionale o nella durata per ciascuna parte, non è stata usata una formula matematica (es. media), ma una logica sistemica: se uno dei componenti della famiglia non interagisce in modo appropriato e prende un punteggio basso, tutta la famiglia prende quel punteggio, perché si assume che non vi è stata riparazione o compensazione dei contributi negativi che talvolta qualche componente della famiglia propone. Ciò non toglie che a livello di analisi dei dati si potranno analizzare i punteggi individuali e dunque definire chi ha ostacolato la famiglia nel raggiungere un’interazione coordinata in modo appropriato. I punteggi globali della famiglia – che vanno da 0 a 40 – possono fornire la possibilità di suddividere le famiglie in due gruppi ad alta o bassa coordinazione. In base a studi precedenti (Lubrano Lavadera, Malagoli Togliatti, Mazzoni, San Martini, 2007; Di Renzo, Mazzoni, 2011; Mazzoni, Mattei, Savastano, Castellina, 2011; Mazzoni, 2012) i cut off sono: punteggi compresi tra 0 e 23 per le famiglie a bassa coordinazione; punteggi che vanno da 24 a 40 per le famiglie ad alta coordinazione. È stato ritenuto utile integrare alla valutazione delle interazioni familiari un’osservazione sistematica delle abilità comunicative e sociali esibite dal bambino rilevanti per la definizione dei diversi quadri diagnostici dei disturbi dello spettro autistico. A tal fine sono state utilizzate le scale ADOS che rilevano le abilità di interazione sociale e di intenzionalità comunicativa dei bambini con un focus particolare sulle loro abilità socio-pragmatiche e sull’uso delle abilità comunicative e di linguaggio mostrate nei contesti sociali. L’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS) Per la definizione della diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico sono state somministrate le Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS; Lord, Rutter, DiLavore, Risi, 1998). Le scale ADOS sono ricavate dall’applicazione di protocolli
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diagnostici standardizzati per l’osservazione: dei comportamenti sociali e comunicativi, dell’interazione sociale reciproca, del gioco, di interessi limitati o stereotipati in soggetti autistici. Lo strumento può essere adottato già con bambini non verbali di età prescolare e fino all’età adulta con soggetti autistici verbali. A seguito dell’applicazione dei protocolli diagnostici è possibile valutare: 1) Linguaggio e Comunicazione – Si vuole valutare il livello globale del linguaggio usato a fini sociali dal bambino con particolare interesse alla frequenza delle produzioni vocali dirette agli altri, alla presenza/assenza di parole e/o frasi idiosincrasiche o stereotipate non appropriate alla conversazione, alla presenza/assenza dell’uso del corpo dell’altro come strumento di comunicazione, all’uso del gesto deittico per richiedere e/o condividere l’attenzione su un oggetto, all’uso spontaneo dei gesti convenzionali e strumentali appropriati ad un contesto interattivo. 2) Interazione sociale reciproca – È intesa come la qualità dell’interazione sociale attraverso l’osservazione di alcuni comportamenti mostrati dal bambino durante la somministrazione delle scale ADOS. Tali comportamenti definiscono le modalità con cui il bambino è in grado di modulare socialmente lo sguardo e di usarlo in modo appropriato nei diversi contesti, il range di espressioni facciali dirette ad un’altra persona con lo scopo di comunicare affetto, il piacere e divertimento condiviso nell’interazione, la capacità di mostrare spontaneamente un oggetto ad un’altra persona, la richiesta spontanea del bambino di attenzione condivisa su un oggetto, l’uso dello sguardo o del gesto indicativo per dirigere l’attenzione dell’adulto su un oggetto distante, la qualità dei tentativi di iniziare l’interazione sociale. Discussione dei dati 1. Il setting del Lausanne Trilogue Play Clinico è adattabile a famiglie con bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico? Possiamo affermare che complessivamente questo risultato è stato ottenuto da quasi tutte le famiglie del gruppo e, sebbene con alcune eccezioni, l’obiettivo di partecipare al gioco è stato globalmente raggiunto. Questi genitori sono in grado di adottare efficaci strategie di framing e, dall’analisi dei filmati, si può affermare che nessuno manifesta una mancanza di disponibilità ad interagire oppure esclude il partner o il figlio dall’interazione.
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Figura 1. Andamento dei livelli di partecipazione dei tre gruppi.
Sebbene le famiglie del gruppo DSA manifestino difficoltà maggiori nel sostenere la partecipazione (F(2,138)=3,289; p=,040 DSA≤DS≤ST) – rispetto agli altri due gruppi – possiamo affermare che il livello funzionale di base – essere disponibili ad interagire in gruppo – è presente in queste famiglie (Figura 1). 2. La coordinazione delle famiglie con bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (DSA) è diversa da quella delle famiglie con bambini con Disturbo dello Sviluppo (DS) o con Sviluppo Tipico (ST)? Le famiglie dei 3 gruppi evidenziano lo stesso livello di coordinazione (range da 0 a 40)?
Famiglia: F(2,138)=9,513;p=,000. DSA,DS<S
Figura 2. Punteggi medi globali delle famiglie per l’intero gioco.
I punteggi medi globali ottenuti dalle famiglie con bambini con diagnosi nello spettro autistico (DSA) – insieme a quelle dei disturbi dello sviluppo (DS) – si coor-
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dinano in modo più disfunzionale rispetto alle famiglie con bambini che presentano sviluppo tipico [(ST) - F(2,138)=9,513; p=,000. DSA,DS<ST] (Figura 2). La differenza tra i due gruppi clinici, invece, non è significativa; ciò sembra indicare che lo sviluppo di una buona coordinazione a livello familiare è più difficile in genere quando un bambino presenta uno sviluppo atipico. Ciò vuol dire che una disfunzionalità familiare può aggiungersi a quella evolutiva come fattore di rischio. Tuttavia, quando è stata analizzata la differenza dei punteggi individuali medi ottenuti dai bambini, il gruppo DSA è risultato significativamente più disfunzionale sia rispetto a quello DS che a quello ST (F(2,138)=15,611; p=,000 DSA<DS, ST). I livelli di coordinazione (alta e bassa) sono distribuiti in modo diverso nei gruppi? Abbiamo voluto procedere ad una valutazione dimensionale suddividendo il campione in famiglie a bassa e famiglie ad alta coordinazione. L’andamento che si riscontra nei tre gruppi dello studio è illustrato nella Figura 3. Come si evince, riscontriamo la seguente distribuzione: • nel Gruppo DSA: alta coordinazione 14,9% (N 21) – bassa coordinazione 33,3% (N 47); • nel Gruppo ST: alta coordinazione 18,4% (N 26) – bassa coordinazione 12,1% (N 17); • nel Gruppo DS: alta coordinazione 9,2% (N 13) – bassa coordinazione 12,1% (N 17).
Figura 3. Classificazione delle famiglie in base ai livelli di coordinazione.
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Dall’analisi effettuata con un test χ2 (Tabella 2) è emersa un’associazione significativa tra l’appartenenza al gruppo DSA ed il livello di coordinazione familiare alto o basso. Lo stesso test ha evidenziato un’associazione significativa tra il livello alto di coordinazione familiare ed il gruppo di famiglie con bambini a sviluppo tipico. La coordinazione familiare è significativamente più bassa nel gruppo con DSA (χ 2(2)=9,440; p=,009). In particolare, nel gruppo a sviluppo tipico la frequenza di interazioni valutate come funzionali è più elevata rispetto a quanto ci si attenderebbe se la distribuzione fosse casuale (residuo standardizzato=1,8). COORDINAZIONE FAMILIARE
Groppo
DSA
ST
DS
Totale
BASSA (0 a 23)
ALTA (24 a 40)
Totale
N
47
21
68
% within the group
69,1%
30,9%
100%
% Totale
33,3%
14,9%
48,2%
N
17
26
43
% within the group
39,5%
60,5%
100%
% Totale
12,1%
18,4%
30,5%
N
17
13
30
% within the group
56,7%
43,3%
100%
% Totale
12,1%
9,2%
21,3%
N
81
60
141
% within the group
57,4%
42,6%
100%
% Totale
57,4%
42,6%
100%
Tabella 2. Distribuzione dei livelli di coordinazione all’interno di ciascun gruppo e tra i gruppi.
Il livello di coordinazione familiare è stabile nelle 4 parti del gioco? Al fine di confrontare l’andamento dei tre gruppi nelle diverse configurazioni familiari previste dall’LTP – le 4 parti – si è scelto di considerare il punteggio medio totale della famiglia in ciascuna parte e, attraverso un’analisi di varianza univariata (ANOVA), sono state determinate le eventuali differenze tra i punteggi riportati dai singoli gruppi. Quando le madri assumono il ruolo attivo nel gioco – «(Madre – Figlio) + Padre» – l’andamento dei valori medi ottenuti dalla famiglia in ciascun gruppo sembra essere piuttosto omogeneo all’interno della stessa configurazione relazionale e non si presentano differenze significative tra tre i gruppi [DSA: M=5.89; ds 1,8 ] – [DS: M= 6,4; ds 2,1] – [ST: M=6.92; ds 1,5], come si può notare dalla Figura 4.
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Figura 4. Andamento dei 3 gruppi nelle IV parti del LTP.
Nella parte in cui è il padre ad essere attivo – «(Padre – Figlio) + Madre» –, emerge una tendenza delle famiglie di bambini con sviluppo tipico [ST: M= 6,92; ds 1,5] ad una funzionalità maggiore se confrontati con quelli degli altri due gruppi [DSA: M= 5.63; ds 1,9] – [DS: M=6.23; ds 1,8]. Tale differenza non è tuttavia significativa. Questo dato può far ipotizzare che i padri del gruppo ST, quando assumono una funzione di guida e di sostegno nei confronti del figlio, siano in grado di seguire maggiormente l’iniziativa e le proposte del bambino e creare un clima affettivo più divertente rispetto ai padri degli altri due gruppi che potrebbero aver trovato come più gravoso l’impegno nella guida e nel sostegno del figlio e una preoccupazione maggiore per la prestazione. Se si osservano i dati rilevati nella parte tre insieme – ovvero quando ogni membro della famiglia è coinvolto nell’interazione – il valore medio ottenuto dal gruppo DSA e DS è significativamente inferiore a quello del gruppo ST (p=0.01). Mentre non emerge una differenza significativa tra le configurazioni familiari del gruppo DSA e quello DS, nelle famiglie cliniche il bambino sembra catalizzare l’attenzione degli adulti che sono meno disponibili ad alternarsi nella guida del figlio e a condividere la trama narrativa del gioco. In queste configurazioni sembra venir meno la possibilità di creare un’alleanza co-genitoriale tra madre e padre. Le famiglie normative mostrano invece un buon livello di coordinazione e cooperazione, raggiungendo l’obiettivo della parte: “giocare insieme come una squadra” stabilendo un clima affettivo e sereno. L’andamento dell’ultima parte del gioco triadico ci consente di riflettere accuratamente sulle dinamiche attuate dai tre gruppi di famiglie. In questa parte si chiede implicitamente al bambino di rispettare i confini dello spazio coniugale e di accettare l’esclusione, di essere autonomo e di proseguire l’attività di gioco. Al contempo i genitori devono consentire questa esclusione e definire uno spazio di coppia stabilendo un’interazione diretta tra loro.
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Dall’analisi effettuata emerge che il gruppo DSA ed il gruppo DS differiscono significativamente dal gruppo ST nel modo in cui affrontano la quarta parte del gioco. I due gruppi clinici hanno un punteggio medio inferiore rispetto al gruppo normativo (p=0.000: DS M=3,67; ds 2,0 e DSA M=3.71; ds 2,5 vs ST M= 6.0; ds 2,1): tale dato indica che le famiglie cliniche hanno più difficoltà a raggiungere l’obiettivo della quarta parte rispetto al gruppo normativo. Quest’andamento si verifica non solo per il punteggio globale della famiglia, ma anche per i punteggi di ogni singolo membro nella quarta parte. Il bambino cerca di essere incluso nell’interazione tra i genitori che non sono in grado di riportarlo sul compito e sono troppo attenti ad ogni sua richiesta determinando un confine diffuso tra sottosistema cogenitoriale/coniugale e figlio. Dall’analisi dei filmati i genitori del gruppo DSA non sempre hanno effettuato la transizione alla quarta parte e a volte la procedura non è stata completata: i bambini spesso hanno difficoltà nello sviluppare una propria attività ludica in autonomia e quindi i genitori si attivano per sostenerli interrompendo il loro dialogo. Le famiglie sono diverse nel modo in cui modulano i 4 livelli funzionali? Un secondo livello di analisi, per riconoscere ed individuare pattern familiari funzionali e disfunzionali, è stata la valutazione dell’andamento delle famiglie nelle quattro funzioni previste dallo strumento. Anche in questo caso nella Figura 5 sono presentati i risultati (media) dei punteggi globali ottenuti dai tre gruppi nella: 1) partecipazione, 2) organizzazione, 3) attenzione focale e 4) contatto affettivo.
Figura 5. Andamento dei 3 gruppi nelle IV funzioni del LTP.
Abbiamo già evidenziato che, a livello della partecipazione, nessun genitore si è disimpegnato nel corso dell’attività e tutte le famiglie hanno accettato di realizzare il compito dell’LTP nel contesto di valutazione proposto, confermando che il setting previsto dalla procedura può avere una buona validità ecologica. A livello dell’organizzazione si delinea una tendenza dei gruppi clinici a funzio-
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nare in modo più disfunzionale rispetto al gruppo normativo, ma tutti i partecipanti sembrano in grado di assumere un ruolo coerente con: a) il sottosistema a cui appartengono (strutturante o evolutivo); b) le esigenze evolutive della fase che sta attraversando il nucleo familiare; c) la consegna e le diverse parti del gioco. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante perché si assume che “la divisione in fasi del gioco rispecchia le diverse configurazioni che l’interazione spontanea della triade mostra anche fuori dalla situazione sperimentale o di valutazione” (Malagoli, Mazzoni, 2006 - p. 72). Proseguendo con l’esame dei livelli funzionali è stata riscontrata una differenza significativa tra il gruppo DSA ed i gruppi DS e ST nei livelli funzionali dell’attenzione focale e del contatto affettivo. Rispetto al mantenimento di un focus attentivo comune, le famiglie DSA come quelle DS ottengono un punteggio medio significativamente inferiore al gruppo non clinico (F(2,138)=8,248; p=,000 DSA, DS<ST). Diversamente da quanto riscontrato nel gruppo di famiglie con bambini a sviluppo tipico, raggiungere un focus di attenzione congiunto può spesso rappresentare un’ardua sfida per le famiglie cliniche. Nell’attenzione focale si registrano in media punteggi bassi sia nelle madri, sia nei padri, sia nei figli dei gruppi clinici e questo trend è presente in tutte le categorie diagnostiche considerate. Nel gruppo DSA si rilevano, nella funzione “contatto affettivo”, punteggi medi significativamente inferiori a quelli ottenuti dagli altri gruppi (F(2,138)=14,554; p=,000 DSA<DS<ST). Per il raggiungimento di un appropriato calore affettivo è molto importante, come dimostrano gli studi di McHale (2008), che ogni partner sia intenzionato a condividere le proprie emozioni positive con tutti gli altri partecipanti al gioco. A questo livello, l’osservazione si concentra sulle espressioni del volto dei partecipanti e sulla tonalità della voce, anche se si considera globalmente il comportamento prestando attenzione allo scambio degli sguardi e ad alcuni comportamenti non verbali, quali i contatti fisici che veicolano la comunicazione degli affetti che, nel gruppo dei DSA, sembrano proprio gli aspetti maggiormente compromessi. 3. C’è una correlazione tra coordinazione familiare e gravità dei sintomi del disturbo dello spettro autistico? Un ultimo quesito che ci si è posti in questa indagine è stato quello di verificare se esiste una relazione tra la funzionalità della famiglia e la severità della sintomatologia del bambino valutata tramite l’ADOS. In generale, emerge che più i sintomi del bambino osservati con l’ADOS sono gravi, più il livello di coordinazione familiare è disfunzionale (r=0,46; p.<0,01). Come si evince dalla Tabella 3, la variabile funzionalità familiare e quella relativa alla sintomatologia del bambino sono tra loro associate.
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LTP – Global Score ADOS - Global Score
Padre
Madre
Bambino
Famiglia
-,157
-,105
-,518**
-,461**
Tabella 3. Correlazioni tra ADOS Totale e LTP Totali.
La correlazione tra i punteggi ADOS ottenuti dai bambini ed i punteggi individuali del bambino all’LTP è significativa (r=0,518; p.<0,01): la severità dei comportamenti esibiti all’ADOS è dunque corrispondente con contributi non appropriati del bambino nel coordinarsi nell’esperienza condivisa con i genitori. Questo risultato è intuitivo: date le specifiche difficoltà dei bambini con DSA, non possiamo aspettarci che il bambino sia di sostegno ai genitori nell’interazione a tre. Tale competenza evolve fin dall’inizio della vita: è stata evidenziata già a tre mesi dal Gruppo di Losanna (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) ed è inerente alle competenze intersoggettive sia a livello primario, sia secondario (Trevarthen, 2001). Essendo stata rilevata la disfunzionalità intersoggettiva dei bambini con DSA (Venuti, 2003), possiamo intuire che essa si evidenzi durante l’LTP che richiede la condivisione dell’esperienza vissuta e quindi le competenze intersoggettive di ciascun componente del gruppo familiare. Se teniamo conto delle analisi che hanno confrontato la funzionalità del figlio, del padre e della madre, dobbiamo sottolineare che in generale i genitori non riescono a moderare le difficoltà del figlio per raggiungere una coordinazione familiare funzionale. È stata condotta, infatti, un’ANOVA con Disegno a Una Via sui punteggi del contatto affettivo (il livello funzionale più significativo nella gerarchia dei 4 livelli analizzati) dell’intero campione, al fine di esplorare le eventuali differenze tra madri, padri e bambini su questo Livello Funzionale. I risultati non hanno messo in evidenza differenze statisticamente significative tra i soggetti e quindi i padri (M=3,65; ds=1,61), le madri (M=3,99; ds=1,46) e i bambini (M=3,72, ds=1,77) presentano punteggi medi sul contatto affettivo del tutto sovrapponibili. Rispetto alla relazione tra i livelli funzionali dell’LTP – partecipazione, organizzazione, attenzione focale e contatto affettivo) – e i punteggi ottenuti all’ADOS dai bambini (Tabella 4), la correlazione è altamente significativa in particolare con l’attenzione focale (r=0,497; p.<0.05) e il contatto affettivo (r=0,554; p.<0.05). Questi risultati sembrerebbero essere in linea con i comportamenti atipici caratteristici dei disturbi dello spettro autistico. La capacità di attenzione focalizzata al compito e la competenza nell’entrare in contatto emotivo con gli altri partecipanti al gioco sembrano essere correlate alla gravità del disturbo del bambino: più è grave il sintomo, più alta è la disfunzionalità in questi livelli funzionali.
ADOS Global Score
ADOS Global Score
- ,086
P
-,183
M -,271
FAM
- ,090
M
,024
M -,306*
B -,340*
FAM -,126
P -,029
M -,497**
B
Attenzione Focale
- ,312
FAM -,055
P ,079
M -,410**
B -,355*
FAM
Padre/ Bambino + Madre
-,283
P
M
-,453**
B
3 insieme
-,221
LTP – Parti del Gioco
-,473**
FAM
-,489**
FAM
Tabella 5. Correlazioni tra ADOS Totale e andamento delle IV parti del LTP.
-,452**
B
-,072
P
Organizzazione
Tabella 4. Correlazioni tra ADOS Totale e LTP Livelli Funzionali.
-,340*
B
Madre/Bambino + Padre
,018
P
Partecipazione
LTP – Livelli Funzionali
-,121
P
-,146
M -,554**
B
-,632**
FAM
-,204
M
-,415**
B
-,217
FAM
Madre/Padre + Bambino
-,197
P
Contatto Affettivo
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Anche la partecipazione al gioco familiare è in relazione alla compromissione del funzionamento del figlio (r=0,340; p.<0.01): la possibilità di essere incluso in un’attività e di essere orientato al compito è influenzata dalla qualità dell’interazione sociale reciproca e dalle abilità comunicative acquisite dal bambino. Inoltre, queste competenze sociali e relazionali influenzano non solo la capacità del bambino di assumere un ruolo coerente con le diverse parti del LTP e con la consegna (r=0,306; p.<0.01), ma incidono significativamente sul livello di organizzazione dell’intero nucleo familiare (r=0,340; p.<0.01). Rispetto alle quattro configurazioni dell’LTP emerge che una grave compromissione dei comportamenti esibiti all’ADOS correla significativamente con la capacità del bambino di collaborare ed essere guidato nel corso dell’attività di gioco sia dalle madri (r=0,452; p.<0.05) sia dai padri (r=0,410; p.<0.05) e questo indipendentemente dal ruolo attivo del genitore (Tabella 5). Inoltre, la gravità sintomatologica del bambino rappresenta un ostacolo non solo per il nucleo familiare che non è in grado di lavorare in modo appropriato durante la configurazione relazionale del “tre insieme” (r=0,410; p.<0.05), ma incide sul rapporto tra i coniugi che sono richiamati o interrotti dal bambino che manifesta comportamenti disadattavi durante l’ultima fase (r=0,415; p.<0.05). In considerazione del compito specifico richiesto dallo svolgimento dell’LTP, si è deciso di valutare la scala dell’interazione sociale dell’ADOS e il punteggio all’LTP (Tabella 6). LTP – Global Score ADOS - Interazione Sociale
Padre
Madre
Bambino
Famiglia
-,138
-,093
-,481**
-,436**
Tabella 6. Correlazioni tra ADOS Interazione Sociale e LTP ptg Totali.
In tal caso è risultato che la capacità di condividere lo sguardo in modo socialmente modulato e la qualità dei tentativi del bambino ad iniziare l’interazione con i genitori influenzano negativamente il livello di coordinazione familiare (r=0,436; p.<0.05). Queste difficoltà costituiscono soprattutto nella parte “tre insieme” (r=0,464; p.<0.05) un fattore di criticità per la circolarità degli affetti (r=0,568; p.<0.05) e la condivisione del focus attentivo nell’attività di gioco della famiglia (r=0,446; p.<0.05). Conclusioni In base ai risultati esposti, si può affermare che l’applicazione della procedura osservativa LTP è utile ad evidenziare diversi pattern di interazione nella famiglia osservata come insieme e nei diversi sottosistemi del contesto clinico dedicato all’ac-
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coglienza del bambino con disturbo dello spettro autistico e della sua famiglia. In tale prospettiva, i clinici potrebbero usare la procedura per condividere la valutazione con la famiglia – ad esempio usando sedute di video feedback – e per organizzare interventi di parent training monofamiliare o di gruppo. Le famiglie con bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico possono essere invitate a svolgere il compito dell’LTP che consente la valutazione e osservazione della qualità delle interazioni. Infatti, nei tre gruppi considerati il livello della partecipazione raggiunge un valore medio più alto rispetto alle altre funzioni dell’LTP. Si registra un andamento omogeneo in tutti i componenti della famiglia e la disponibilità ad essere tutti inclusi in un gioco è stata possibile anche nelle famiglie di bambini con DSA. Anche se molti genitori erano perplessi sulla possibilità del figlio di partecipare al gioco, la partecipazione è stata sufficientemente appropriata nella maggior parte dei casi. La coordinazione familiare – che può essere considerata come un indicatore dell’intersoggettività collettiva – è più bassa nelle famiglie con Disturbo dello Spettro Autistico anche in confronto alle famiglie con bambini con Disturbo dello Sviluppo (linguaggio e apprendimento). Dunque ci troviamo di fronte ad un fattore di rischio aggiuntivo rispetto al disturbo di sviluppo dei bambini con DSA. Tuttavia le famiglie con DSA possono mostrare risorse sia nel promuovere la partecipazione ad un’esperienza condivisa, sia nel rispettare i diversi ruoli (organizzazione): i sintomi del bambino, infatti, vengono spesso moderati dai genitori e le famiglie, seppur tendenzialmente più disfunzionali delle altre, garantiscono livelli accettabili di appropriatezza nella partecipazione e nella organizzazione. La disfunzionalità è specificamente connessa alle funzioni dell’attenzione condivisa e del contatto affettivo nella famiglia, funzioni familiari che sono correlate alla gravità dei sintomi del bambino nell’interazione sociale. Occorre ricordare che la condivisione emotiva può configurarsi come un fattore di protezione per la circolarità degli affetti in situazioni in cui il linguaggio verbale può essere un ostacolo alla comunicazione o quando si verificano eventi sociali che per un bambino con DSA possono essere di difficile interpretazione. Il linguaggio non verbale può diventare un veicolo di comunicazione più efficace di quello verbale, così come le espressioni del viso possono essere utilizzate come rassicurazioni o per comprendere meglio l’accaduto (Maurice, 2005; Rogers, 2010). Le famiglie cliniche manifestano difficoltà nella capacità di porre attenzione agli interventi degli altri e nel co-costruire una trama narrativa del gioco che si snoda attraverso momenti più o meno organizzati, ma mantiene un’idea di continuità. Nell’ottica di individuare fattori protettivi a sostegno di queste famiglie, il mantenimento di un focus attentivo comune riveste una particolare importanza per la condivisione dei significati che può condurre alla condivisione degli affetti che connotano l’esperienza condivisa. La funzione dell’attenzione focale e il contatto affettivo richiedono una maggior coordinazione alla famiglia, rispetto alle funzioni precedenti: non è solo importante che ognuno presti attenzione al gioco, ma anche che l’attenzione di tutti sia focalizzata contemporaneamente sugli stessi elementi dell’interazione. Come in un circolo vizioso, le difficoltà del bambino nell’interazione sociale pos-
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sono influenzare negativamente i genitori e la companionship (Trevarthen, Aitken, 2001; Venuti, 2012). La disfunzionalità familiare è correlata ai sintomi del bambino, ma non sempre: la gravità dei sintomi influenza i genitori quando devono guidare il figlio nella parte “tre insieme” e nella funzione dell’attenzione condivisa e del contatto affettivo. I risultati sono particolarmente utili nella riflessione sulle linee guida per gli interventi di sostegno alla genitorialità quando la famiglia si confronta con le sfide proposte dai figli con diagnosi nello spettro autistico. Gli interventi di riabilitazione specifica potrebbero essere considerati come interventi di Remediation (Sameroff, 2004) attraverso i quali i genitori diminuiscono il loro stress e diventano più funzionali a livello interpersonale. Se il supporto alla famiglia è offerto insieme alla riabilitazione specifica, tuttavia, potrebbero essere incrementati fattori di protezione a livello familiare che l’LTP ha operazionalizzato in termini di coordinazione familiare e di diversi livelli funzionali. Si eviterebbe così che, oltre ai fattori di rischio per lo sviluppo connessi ai disturbi dello spettro autistico, si aggiungano fattori di rischio a livello della funzionalità familiare. Seguendo Sameroff (2004), ciò significa che l’intervento di sostegno alla genitorialità potrebbe orientarsi sia come intervento psicoeducativo (Reeducation) sia, laddove si rivelasse necessario, come intervento psicoterapeutico (Redefinition). L’LTP, inoltre, focalizza i pattern interattivi e la comunicazione nella famiglia ed è particolarmente adatto a coinvolgere i genitori in una valutazione partecipe del loro ruolo nell’interazione: a seguito della partecipazione al gioco, è possibile coinvolgere i genitori in una sessione di video feedback e sviluppare la loro capacità di riflettere sulle relazioni cui partecipano ed aumentare la loro empatia e comprensione delle iniziative interattive dei figli. Tale lavoro, pur essendo concepito in termini di psicoeducazione, favorisce l’emergenza – laddove necessario- di una domanda di aiuto focalizzata su aspetti delle rappresentazioni di Sé, dell’altro e della relazione solitamente oggetto d’interesse di interventi psicoterapeutici. Riassunto Nell’ottica dell’intersoggettività è possibile ipotizzare l’esistenza di un’intersoggettività collettiva che consente al bambino di interagire precocemente con entrambi i genitori e condividere un’esperienza a livello familiare. Tale coordinazione familiare si realizza grazie a diversi livelli funzionali: partecipazione, organizzazione, attenzione focale e contatto affettivo. L’articolo presenta e discute alcuni risultati ottenuti attraverso l’applicazione del Lausanne Trilogue Play clinico nel caso in cui il bambino ha un Disturbo dello Spettro Autistico (DSA). Le famiglie hanno potuto partecipare allo svolgimento di un compito condiviso (LEGO), ma diversi tipi di coordinazione disfunzionale sono stati evidenti a livello dell’organizzazione dei ruoli, dell’attenzione focale e del contatto affettivo. Considerando i punteggi globali della coordinazione familiare, sono state evidenziate molte correlazioni: più è grave la sintomatologia osservata nel bambino (ADOS), più la coordinazione familiare è disfunzionale. La correlazione è particolarmente alta (< 0.01) nella parte in cui entrambi i genitori giocano insieme al figlio regolando le loro interazioni ed accettando l’alternanza dell’attenzione: la disfunzionalità familiare è in questo
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caso fortemente connessa alla gravità dei sintomi del bambino. In altre parti del gioco, in cui un genitore gioca e l’altro è solo un osservatore, le famiglie possono essere funzionali nonostante la gravità dei sintomi del bambino. Inoltre, alcuni casi evidenziano una tendenza controintuitiva: ad esempio alta funzionalità del bambino/bassa funzionalità della famiglia. La discussione focalizza l’impatto dell’osservazione della famiglia e dei suoi risultati per la valutazione clinica e gli interventi volti a considerare i fattori di rischio e di protezione a livello familiare. Parole chiave Intersoggettività – Coordinazione familiare – Disturbi dello spettro autistico.
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S. MAZZONI - C. VERONESI - L. VISMARA
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 61-71
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Psicoterapia psicodinamica nei Disturbi di Personalità in un Servizio Pubblico di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza Psychodinamic psychotherapy for treatment of Personality Disorders in a public clinic of child and adolescence neuropsychiatry Elisa Maserati*, Monica Bomba**, Francesca Neri***, Renata Nacinovich****
Summary Personality disorders (PDs) are severe and quite common psychiatric diseases in adolescence, and represent an high risk for a psychosocial maladjustment and severe psychiatric illness in adulthood. The international literature in last years focused on the importance and the complexity to treat these patients, and recently identifies the long-term psychodynamic psychotherapy (LTPP) as the more effective therapy in PDs. The present study enrolled 23 adolescent with a diagnosis of PD, according to DSM IV-TR KSADS interview, and with an indication to a psychodynamic psychotherapy. The sample was divided into two groups: the experimental group received LTPP and the comparison group received usual neuropsychiatric cares (UNPC), both lasted overall 48 session in a year. All subjects and their parents filled out CBCL; adolescents’ psychotherapists completed CGAS questionnaire and KSDAS interview at the start (T0) and at the end (T1) of the therapy.The Pearson’s χ2 test and the ANOVA analysis were performed. The data underline that at T1 subjects treated by LTPP show a diagnostic improvement on KSADS and CGAS, compared with patients treated by UNPC. The CBCL Anxiety, Internalizing and Total Competence subscales show great improvements in the LTPP group, both in comparison with LTPP patients at T0, and with UNPC group at T1. In conclusion, according to the data collected, LTPP seems to be a specific and effective treatment for PDs, able to improve personal competences and psychosocial adjustment. Key words Personality disorders – LTPP.
Il Disturbo di Personalità (DP) è comparso per la prima volta come categoria diagnostica standardizzata nel DSM IV-TR, che ha proposto una definizione ge* Medico
Specializzando NPI, con dottorato in Neuroscienze. Medico NPI. *** Ricercatrice NPI. **** P.O. NPI. Clinica di Neuropsichiatria Infantile, Ospedale San Gerardo Monza – Università degli Studi di Milano Bicocca. **
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nerale, applicabile a tutti i sottotipi organizzati in cluster A, B e C, di un “modello abituale di esperienza o comportamento che si discosta notevolmente dalla cultura a cui l’individuo appartiene e si manifesta in almeno due delle seguenti aree: esperienza cognitiva, affettiva, funzionamento interpersonale e controllo degli impulsi (area comportamentale)”, e che “presenta caratteristiche di pervasività ed inflessibilità, è stabile nel tempo, e determina disagio o menomazione del funzionamento psicosociale dell’individuo” (APA, 2000). Dal punto di vista teorico e clinico, la psicoanalisi si è occupata di questi disturbi, ed in particolare del disturbo borderline, già dagli anni ‘30 del secolo scorso, a partire dalle osservazioni cliniche di Stern (1938), che descriveva un gruppo di pazienti che sfidavano il quadro terapeutico e la tecnica psicoanalitica classica, per il loro comportamento particolare e l’atteggiamento imprevedibile, atipico, negativistico e refrattario ad ogni miglioramento. Questa definizione ha portato a chiedersi se fosse possibile curare questi tipi di pazienti, che ad esempio per quanto riguarda i pazienti borderline presentano già nella diagnosi il riferimento al fallimento terapeutico (Sanislow e McGlashan, 1998). Inoltre la letteratura internazionale riporta diversi lavori in cui pazienti con diagnosi di DP presentano frequentemente comorbilità con disturbi psichiatrici definiti nell’asse I del DSM (Andreoli et al., 1989; Dolan-Sewel, Krueger, Shea, 2001), ed è stato documentato con una buona validità che la presenza di un DP risulta determinante nel fallimento terapeutico dei trattamenti dei disturbi dell’asse I (Gabbard, 1997; Reich e Green, 1991; Reich e Vasile, 1993). Gli studi di Kernberg, che ha proposto la definizione di “organizzazione borderline di personalità “ (Kernberg 1967; 1975; 1984) e si è concentrato sulla possibilità di una modificazione della tecnica psicoanalitica classica che rispondesse alle particolari esigenze messe in campo nella cura di pazienti di questo tipo (Kernberg,Seltzer, Koenigsberg et al., 1989; Yeomans, Clarkin e Kernberg, 2002), hanno fornito un contributo fondamentale al dibattito scientifico in merito. Le pubblicazioni nell’ultimo decennio sul trattamento dei DP hanno posto l’attenzione sulla complessità di definire il trattamento più indicato per questi disturbi, anche alla luce della scarsità del trials clinici controllati, considerati il gold standard per la definizione dell’efficacia degli interventi psicoterapeutici, e della difficile applicazione dei criteri dell’evidence based medicine (EBM) a questi trattamenti. Con il crescente consenso e l’applicazione degli studi semi-naturalistici nell’ambito delle psicoterapie, anche l’opinione scientifica internazionale riguardo alla realizzabilità e all’efficacia dei trattamenti nei pazienti con DP è quindi gradualmente cambiata. Una review pubblicata nel 2000 afferma che i problemi più significativi riguardanti l’impossibilità di randomizzare i trattamenti, atto che inficerebbe componenti significative del processo terapeutico quali l’aspettativa del paziente (Horowitz, Rosemberg e Bartholomew,1993), e la specificità del tipo di terapia da utilizzare nel trattamento di questi disturbi non impediscono di stabilire l’efficacia della psicoterapia nei DP. Rimane dibattuta e controversa la posizione rispetto al tipo di trattamento da utilizzare, considerando che anche questo studio ha evidenziato una differenza statisticamente significativa fra il trattamento psicoterapeutico e ad es. la
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permanenza in lista d’attesa, ma non ha riscontrato alcuna differenza fra i diversi metodi terapeutici (Bateman e Fonagy, 2000); altri studi pubblicati negli anni più recenti hanno poi identificato alcuni tipi di psicoterapia che possono essere considerati efficaci secondo i criteri dell’EBM, fra cui alcune terapie psicodinamiche (la psicoterapia incentrata sul transfert – TFP-, e la terapia basata sulla mentalizzazione -MBT-) (Rivera e Darke, 2012), e hanno sottolineato l’influenza della durata del trattamento sugli outcome (Ingenhoven et al., 2012). Il dibattito sulla durata del trattamento psicoterapeutico nei DP è ancora aperto. La psicoterapia psicodinamica a breve termine (STPP) è definita come una terapia di cui sia esplicitata chiaramente la durata complessiva, che va da un minimo di 7 ad un massimo di 40 sedute, e che applichi la tecnica della psicoterapia psicodinamica, così come indicato nelle metaanalisi pubblicate, che ne attestano l’efficacia nel trattamento di specifici disturbi psichiatrici, quali i DP (Leichsenring, Rabung, Leibing, 2004; Abbass et al., 2006; Lewis, Dennerstein, Gibbs, 2008; Town, Abbass, Hardy, 2011). Altri studi hanno invece evidenziato come la brevità del trattamento psicoterapeutico condizioni gli outcome e la persistenza dei risultati in questo tipo di pazienti, e indicano come trattamento preferenziale la psicoterapia psicodinamica a medio-lungo termine (LTPP) (Leichsenring e Rabung, 2008; 2011). Il trattamento psicoterapeutico dei DP in un servizio pubblico di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza pone quindi diversi e difficili quesiti riguardo all’attuabilità, alla quantificazione delle risorse da impiegare e alla metodologia più efficace per la cura e la riabilitazione di questi pazienti, che presentano un disagio psicosociale e un impatto sulle risorse dei dipartimenti di salute mentale considerevolmente elevato (Bender et al., 2001). In un lavoro italiano di valutazione degli accessi in NPI (Di Brina et al., 2008) la percentuale di consultazioni con diagnosi di DP è stimata al 3% annuo, senza differenze significative fra maschi e femmine. I dati raccolti dall’Azienda San Gerardo rispetto all’afferenza di ricoveri alla clinica NPI riportano, nel periodo compreso fra marzo 2011 e agosto 2012, una percentuale di accessi di pazienti con DP pari a circa il 30% del totale. La psicoterapia psicodinamica nel servizio pubblico rappresenta un filone di interesse clinico e di ricerca che prosegue negli anni (Neri et al., 1994; Neri, 1996). Nell’ambito dei nostri studi clinici sull’efficacia della psicoterapia psicodinamica (Neri et al.,2009) abbiamo raccolto e analizzato i dati in un campione di 23 adolescenti con DP, che secondo i principi degli studi semi-naturalistici sono stati arruolati fra quelli afferiti alla clinica di NPI in consultazione ambulatoriale, DH o ricovero, e con un’indicazione alla psicoterapia psicodinamica (PP). Per testare la superiorità della PP nei DP, i pazienti sono stati divisi in due gruppi: 11 trattati con una psicoterapia psicodinamica di media-lunga durata (LTPP, experimental group), che consisteva in una terapia di un anno con frequenza monosettimanale, per un totale di circa 48 sedute, e 12 con cure NPI routinarie (usual neuropsychiatric cares, UNPC, comparison group), della medesima durata complessiva (Tabella 1).
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Tabella 1. Dati sociodemografici sul campione. Experimental group
Comparison group
N°(%)
11 (47,8%)
12 (52,2%)
Maschi
5
3
I due gruppi sono apparsi confrontabili considerando i dati sociodemografici e non sono emerse differenze statisticamente significative fra i due gruppi usando il test χ2 di Pearson (Tabella 2). Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad un’intervista semistrutturata (K-SADS), per la standardizzazione diagnostica secondo i criteri del DSM IV-TR, e hanno compilato, dopo firma di un consenso informato, i questionari CBCL e CGAS per l’inquadramento e la valutazione dell’andamento clinico dal punto di vista del paziente, dei genitori e del terapeuta all’inizio (T0) e alla fine della terapia (T1). Prima di discutere i dati ottenuti, è opportuno segnalare che, come già evidenziato in letteratura (Ingenhoven et al., 2012), il campione reclutato ha subito una riduzione fra T0 e T1 (drop out di 3 pazienti nel gruppo UNPC). È stata effettuata un’analisi statistica utilizzando il test χ2 di Pearson,con lo scopo di analizzare se l’effetto “Drop out” osservato nel gruppo controllo fosse legato a variabili particolari all’interno del campione totale al T0 (casi + controlli): il test non ha evidenziato differenze statisticamente significative (.075, n.s.) fra i gruppi, quindi è possibile ipotizzare che l’essere inserito in un percorso strutturato come quello psicoterapeutico sembrerebbe rappresentare per questi pazienti, che presentano una tendenza a creare relazioni oggettuali parziali, con utilizzo di meccanismi di difesa arcaici, e una caratteristica diffusione dell’identità (9,11), fattori che non favoriscono il mantenimento di relazioni complesse quale quella terapeutica, un fattore protettivo di continuità nell’aderenza al progetto di cura rispetto alle cure NPI routinarie (Tabella 2). Tabella 2. Confronto dati sociodemografici (T0). Exp: experimental group; comp.: comparison group.
Exp -comp: sex
χ2
p-value
1.059
.304
Exp-comp: father’s job
.210
.647
Exp-comp: family structure
1.011
.315
Exp-comp: CBCL TOT C
.290
.590
Exp-comp: drop out
3,163
.075
Cbcl anx
1.245
.265
Cbcl int
.381
.537
Cbcl C tot
.290
.590
PSICOTERAPIA PSICODINAMICA DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ
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Sono stati analizzati i dati relativi a T0 e T1, confrontando le variazioni diagnostiche nei due gruppi. Considerando la KSADS, è stata osservata una variazione significativa della diagnosi fra T0 e T1 nei sottogruppi di pazienti con DP, sia considerando il confronto fra gruppo sperimentale/gruppo controllo globale differenziando per diagnosi, sia all’interno della specifica categoria (Grafico 1) (Neri et al., 2009).
Grafico 1. Variazioni diagnostiche KSADS per categorie; d=disorder.
Analizzando nel particolare i punteggi ottenuti alla CBCL dal campione di pazienti con DP, sono emersi alcuni risultati significativi (Tabella 3). Al T0 nella sottoscala “Ansia” i due gruppi apparivano confrontabili dal punto di vista statistico (Tabella 2, vedi sopra). Al T1 è possibile osservare come nel gruppo LTPP tutti i pazienti abbiano ottenuto punteggi “non clinici”, cioè al di sotto del cut off patologico (“clinical”, vedi Tabella 3), mentre nel gruppo controllo il miglioramento riguarda un numero inferiore di pazienti. La differenza fra i due gruppi appare inoltre statisticamente significativa (p= 0.027). Considerando la sottoscala “ Internalizzazione”, che valuta la capacità di insight del paziente valutato dal punto di vista individuale e dei genitori, è possibile osservare che al T0 i due gruppi sono confrontabili considerando i punteggi patologici della sottoscala, senza differenze statisticamente significative (p=.537). Al termine della terapia (T1), è possibile osservare un andamento diverso nei due gruppi. I pazienti sottoposti alla LTPP mostrano un miglioramento statisticamente significativo (p=0.030) dei punteggi della sottoscala, che nell’81.8% dei casi (9 pazienti su 11) rientrano nel range non patologico (“non clinical”), mentre i pazienti sottoposti a UNPC non mostrano alcun miglioramento. Guardando infine la scala complessiva delle Competenze totali, è possibile osservare che il gruppo sperimentale mostra al T1 un trend di miglioramento, anche se
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non statisticamente significativo (p=0.087), nel quale si evidenzia che il 72,7% dei pazienti sottoposti a LTPP mostra punteggi “non clinici”, mentre il gruppo UNPC non presenta alcun miglioramento. Tabella 3. Confronto dati sottoscale CBCL T0-T1. Anx: anxiety subscale; Int: internalizing subscale; Tot C: total competence subscale. Exp T0
Exp T1
Comp T0
Comp T1
Clinical
Non Clinical
Clinical
Non Clinical
Clinical
Non Clinical
Clinical
Non Clinical
CBCL Anx
3
8
0
11
6
6
4
7
CBCL Int
5
6
2
9
7
5
7
4
CBCL Tot C
6
5
3
8
9
3
7
4
È stata poi effettuata un’analisi ANOVA (Tabella 4) per il confronto di variabili all’interno dei due gruppi, valutando le caratteristiche sociodemografiche e i punteggi alla scala CGAS e alle sottoscale della CBCL a T0, T1, e confrontando i due valori all’interno di ogni gruppo (DELTA T0-T1). Alla scala CGAS è emerso che i due gruppi di pazienti, confrontabili a T0, mostrano una differenza statisticamente significativa (DELTA CGAS T0-T1 p=.021) nei punteggi ottenuti a T1: questo indica che la LTPP sembra mostrare miglioramenti nella scala che valuta il funzionamento globale dei pazienti, e che tali miglioramenti risultano significativi rispetto ai pazienti trattati con UNPC. Anche le sottoscale della CBCL mostrano alcuni risultati significativi: i punteggi nella sottoscala “School”, che valuta il funzionamento scolastico globale, mostrano a T1 una differenza statisticamente significativa sia nel confronto T0-T1 all’interno del gruppo LTPP (DELTA CBCL School: p=.017), sia confrontando i due gruppi (CBCL School T1: p=.030). I punteggi della sottoscala “Total Competence”, che valuta le capacità e le risorse globali del paziente, mostrano un miglioramento statisticamente a T1 confrontando i due gruppi (CBCL Tot Comp T1: p=.042), mentre nel confronto T0-T1 all’interno del gruppo LTPP tale differenza, osservata anche nel test χ2 di Pearson (vedi sopra) non si mantiene (DELTA CBCL Tot Comp: p=.193), forse a causa della limitata numerosità del campione. Sono emersi ulteriori risultati significativi nella sottoscala “Somatization”, che indica la presenza di sintomi/lamentele somatiche, e che mostra punteggi in miglioramento sia confrontando fra loro i due gruppi (CBCL Som T1 p=.005) sia nel confronto fra T0 e T1 intragruppo (DELTA CBCL Som p=.026). Questi risultati suggeriscono che nei pazienti con DP la LTPP mostra una capacità superiore alle UNPC di migliorare i disturbi e le lamentele somatiche, che all’inizio della terapia risultavano clinicamente significative e statisticamente confrontabili in entrambi i gruppi.
PSICOTERAPIA PSICODINAMICA DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ
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Per quanto riguarda la sottoscala “Anxiety”, risultata in miglioramento nel gruppo sperimentale nel test χ2 di Pearson, i pazienti del gruppo sperimentale trattato con LTPP mostrano un trend di miglioramento dei punteggi senza che tuttavia emerga una differenza statisticamente significativa (CBCL Anx T1 p=.06 8 n.s.). Infine nella sottoscala “Internalizing”, risultata in miglioramento al test χ2 di Pearson, viene confermato il miglioramento dei punteggi nel confronto fra i gruppi (CBCL Int T1 p=.024), mentre tale differenza non sembra mantenersi nel confronto intragruppo (DELTA CBCL Int p=.334 n.s.).
Tabella 4. ANOVA;Comp: competence sub scale; Som: somatization sub scale; Anx: anxiety sub scale; Int: internalizing subscale. Subscale
p value
CGAS 1
.806
CGAS 2
.083
DELTA CGAS (T0-T1)
.021
CBCL School T0
.466
CBCL School T1
.030
DELTA CBCL School (T0-T1)
.017
CBCL Comp Tot T0
.935
CBCL Comp Tot T1
.042
DELTA CBCL Comp Tot (T0-T1)
.193
CBCL Som T0
.535
CBCL Som T1
.005
DELTA CBCL Som (T0-T1)
.026
CBCL Anx T0
.120
CBCL Anx T1
.068
DELTA CBCL Anx (T0-T1)
.667
CBCL Int T0
.252
CBCL Int T1
.024
DELTA CBCL Int (T0-T1)
.334
Discussione I dati presentati mostrano che nei pazienti con DP la psicoterapia psicodinamica a medio-lungo termine (LTPP) può essere considerata uno strumento terapeutico utile in un servizio di neuropsichiatria infantile. Questo appare in accordo con i dati della letteratura internazionale sull’efficacia della psicoterapia psicodinamica nei DP,
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che evidenzia come la LTPP costituisca il trattamento più efficace per questa tipologia di pazienti (Leichsenring, Rabung, 2008; 2011). Appare interessante discutere quanto emerso nelle Tabelle riportate sopra mettendo in relazione le modificazioni cliniche e sintomatologiche rilevate e analizzando i punteggi ottenuti dai pazienti alla CGAS e nelle sottoscale della CBCL. Il miglioramento statisticamente significativo evidenziato nei punteggi CGAS, che nel gruppo trattato con psicoterapia psicodinamica raggiungono, dopo un anno di terapia, un livello che rientra nel range non clinico del test, non è riscontrabile nei pazienti che hanno ricevuto cure NPI routinarie. Queste ultime sembrano in grado di fornire un aiuto in termini di miglioramento clinico, che tuttavia non risulta significativo nel confronto con LTPP; questo può essere spiegato considerando che le UNPC, campione che racchiude al suo interno diversi tipi di terapie erogate nei servizi NPI sul territorio (colloqui di sostegno, sedute periodiche con i genitori, ecc.) mostrano comprensibilmente una minore capacità di incidere sul funzionamento globale dei pazienti, poiché rispondono a bisogni più mirati e specifici in senso riabilitativo, ma che non sembrano sufficienti a poter stimolare una autentica modificazione della struttura psichica dei pazienti. La modificazione diagnostica osservata alla KSADS può essere letta nella medesima ottica, considerando che “una terapia che implica un’attenzione dedicata specialmente all’interazione terapeuta-paziente, dove l’interpretazione del transfert e delle resistenze restituite al paziente nel momento opportuno danno segno significativo e raffinato del contributo del terapeuta in un rapporto a due” (Gunderson, Gabbard, 1999) come viene definita la psicoterapia psicodinamica, sembra poter essere in grado, come suggerito dai nostri, seppur limitati, dati finora raccolti, di costituire un setting adeguato ed un metodo relazionale capace di fornire al paziente un’esperienza di cura che risulti trasformativa per il suo funzionamento affettivo e relazionale, modificando di conseguenza anche il suo comportamento e adattamento psicosociale. In particolare, il miglioramento nella sottoscala della scuola e nella scala delle competenze totali possono essere considerati segnali visibili di un migliore funzionamento psichico globale, che diventa evidente osservando il paziente nelle varie attività individuali e sociali, che rappresentano un aspetto decisivo nella valutazione della prognosi e dello sviluppo successivo dei pazienti trattati. Studi in letteratura hanno infatti segnalato che esiste una correlazione significativa fra insuccesso scolastico, maladattamento globale in età evolutiva e lo svilupparsi di problematiche emotive e sociali nell’età adulta. I pazienti con disturbo di personalità trattati con psicoterapia psicodinamica presentano miglioramenti superiori a quelli sottoposti alle cure neuropsichiatriche routinarie alla KSADS, con la completa risoluzione dei sintomi nella maggior parte dei casi. Questo gruppo di pazienti sembra essere specificamente sensibile ad una psicoterapia psicodinamica a medio-lungo termine, in accordo con la letteratura e con le linee guida dell’APA, specificità da noi osservata anche nel confronto con pazienti che presentavano una differente diagnosi, come già discusso nel lavoro da noi pubblicato nel 2009 (Neri et al., 2009). Tale specificità ed efficacia, anche in considerazione del ristretto numero di casi analizzati, pone le basi per studi successivi, che possano
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meglio approfondire la stabilità delle modificazioni diagnostiche e sintomatologiche nel tempo, come suggerito dai lavori più recenti (Ingenhoven et al., 2012). In conclusione, i dati da noi raccolti suggeriscono che la psicoterapia psicodinamica può essere efficace sui sintomi e sull’adattamento psicosociale dei pazienti affetti da DP. Questo aspetto appare ancora più rilevante se visto nell’ottica di un miglioramento della prognosi di questi gravi disturbi nella vita adulta, rispetto alla quale potrebbe costituire un fattore di resilienza e di prevenzione delle patologie psichiatriche croniche. Accanto all’aspetto della prevenzione e del contenimento della spesa pubblica, questione centrale in quest’epoca di crisi economica globale e nazionale, è comunque importante considerare che lo scopo della psicoterapia psicodinamica è principalmente quello di favorire una ripresa dello sviluppo dell’adolescente nel suo percorso evolutivo verso l’età adulta, ripresa che si auspica possa tendere a quello “stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale […] che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società”, che costituisce l’impegno e l’interesse di ogni clinico nei confronti dei propri pazienti. Riassunto I Disturbi di Personalità (PDs) sono gravi e relativamente comuni fra i disturbi psichiatrici in adolescenza, e presentano un rischio elevato di disadattamento psico-sociale e cronicità nell’età adulta. La letteratura internazionale negli ultimi anni si è concentrata sull’importanza e la complessità del trattamento di questi pazienti, e recentemente la psicoterapia psicodinamica a lungo termine (LTPP) è stata indicata come la terapia più efficace nei PDs. In questo studio sono stati arruolati 23 adolescenti con PD, con diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM IV-TR attraverso l’intervista semistrutturata KSADS, e con l’indicazione ad una psicoterapia psicodinamica. Il campione è stato diviso in due gruppi: il gruppo sperimentale ha ricevuto LTPP mentre il gruppo di controllo è stato sottoposto a “cure neuropsichiatriche di routine” (UNPC), entrambi della durata complessiva di 48 sessioni in un anno. Tutti i soggetti ed i loro genitori hanno compilato il questionario CBCL, gli psicoterapeuti degli adolescenti hanno completato il questionario CGAS e l’intervista KSDAS all’inizio (T0) e alla fine (T1) della terapia. Per la valutazione statistica sono stati utilizzati il test χ2 di Pearson e l’analisi ANOVA. I dati analizzati hanno evidenziato che i soggetti trattati con LTPP mostrano a T1 un miglioramento clinico (CGAS) e diagnostico (KSADS) rispetto ai pazienti trattati con UNPC. Le sottoscale della CBCL “Ansia”, “Internalizzazione” e “Competenze totali” mostrano miglioramenti statisticamente significativi nel gruppo LTPP a T1, sia nel confronto intragruppo (DELTA T0-T1), sia rispetto al gruppo trattato con UNPC a T1. In conclusione, secondo i dati raccolti, LTPP sembra essere un trattamento specifico ed efficace per PD, in grado di migliorare la competenza personale e l’adattamento psicosociale. Parole chiave Disturbi di personalità – Psicoterapia psicodinamica a lungo termine.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 72-85
Immagini mentali e condotte alimentari a rischio in preadolescenza Mental Images and Risky eating behaviors in early-adolescence Fiorenzo Laghi*, Roberto Baiocco*, Federica Costigliola*, Marzia Rossetti*, Valerio Magistro**
Summary The present study aims to investigate the relationship between risky eating behaviors and imagery about food and his consumption. Mental Images Thoughts Associations Questionnaire-Children (Baiocco, Couyoumdjian, Del Miglio, 2007) and Minnesota Eating Behavior Survey (von Ranson et al., 2005) have been administered to a sample of 133 preadolescents. According to our hypothesis, findings suggest that subjects with risky eating behaviors show a higher percentage of negative imagery about food and his consumption both referring to themselves and to the others. Results highlight the possibility to use mental images as a tool for evaluating risk factors related to eating disorders. Key words Eating disorder – Mental Images – Early-adolescence – Risk factors.
1. Introduzione L’attuale nosografia (DSM-IV-TR, APA, 2000; ICD-10, WHO, 1992) suddivide i disturbi alimentari in Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbi del Comportamento Alimentare Non Altrimenti Specificati (EDNOS) tra i quali è incluso il Binge Eating Disorder (BED). Il BED è un disturbo caratterizzato dall’assunzione, in periodi di tempo definiti, di “una quantità di cibo indiscutibilmente maggiore di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso intervallo di tempo e in circostanze simili”. Tali abbuffate sono accompagnate da una sensazione di perdita di controllo sulla quantità e il tipo di cibo consumato e, a differenza della bulimia, non sono necessariamente compensate dall’utilizzo di condotte di eliminazione (vomito, uso di lassativi/diuretici, etc.). Le classificazioni diagnostiche attuali, oltre ad avere una scarsa validità clinica nella popolazione adulta, non permettono un’adeguata rilevazione dei disordini alimentari in età prepuberale. Per ovviare a tale problema il DSM-V (in corso d’opera) * Dipartimento
di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza, Università di Roma. ** Sapienza, Università di Roma.
IMMAGINI MENTALI E CONDOTTE ALIMENTARI A RISCHIO
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si propone di inserire all’interno della più ampia classificazione dei “Feeding and Eating Disorder” anche i disturbi propri dell’età infantile e adolescenziale. La nuova organizzazione dovrebbe quindi comprendere: Pica, Ruminazione, Disordine da alimentazione restrittiva, Anoressia nervosa, Bulimia Nervosa, Binge Eating Disorder, Altri disturbi specifici della sfera alimentare, NAS (fonte, sito DSM-V http://www. dsm5.org/). La possibilità di una più puntuale diagnosi nel periodo adolescenziale, data dalla nuova proposta di classificazione dei disturbi alimentari del DSM-5, riflette l’importanza che questa fase della vita riveste nello sviluppo di tali disordini. I forti cambiamenti fisici, psicologici e psicosociali che caratterizzano questo periodo, possono essere vissuti come una minaccia al controllo di sé, del proprio corpo e delle relazioni d’attaccamento (Ammaniti, 2002). Com’è noto, i fattori maggiormente predisponenti all’insorgenza dei disordini alimentari sono proprio l’adolescenza e, in particolare, il genere femminile. Nelle donne infatti, ancor più che negli uomini, l’aderenza ad un modello estetico ideale è un tema talmente pregnante che, se frustrato, può condurre allo sviluppo di una tonalità affettiva negativa patologica e alla messa in atto di condotte alimentari mal adattive (Wertheim, Koerner, Paxton, 2001). Tali agiti sembrano essere differenti in base al tipo di tonalità affettiva sperimentato; nello specifico, le condotte di binge eating sembrano svolgere principalmente una funzione “sedativa” delle emozioni negative in generale, mentre le condotte compensatorie sembrerebbero più mirate alla riduzione dell’ansia relativa all’aumento del peso corporeo (Laghi et al., 2012a; Laghi et al., 2012b; Williamson, 1990, Stice e Shaw, 2002). Negli uomini, invece, l’attenzione ossessiva per la forma fisica si manifesta prevalentemente tramite un’attività fisica eccessiva che assolve un compito di controllo su se stessi equivalente a quello esercitato dall’astinenza da cibo nelle donne (Feltman e Ferraro, 2011). A causa di questa differente manifestazione, i disturbi alimentari nel genere maschile non vengono adeguatamente rilevati dagli attuali sistemi nosografici, risultando così sottostimati. Tra i fattori predisponenti e di mantenimento dei disordini alimentari sono state evidenziate anche alcune caratteristiche psicologiche come i tratti ossessivi di personalità, le aspettative esasperate, il perfezionismo patologico, lo scarso controllo degli impulsi (Laghi et al., 2007), alcune difficoltà relative al processo di separazione-individuazione (Laghi et al., 2009a; 2009b), il rifiuto del corpo adulto e della sessualità e la conseguente tendenza ad una sessualità disordinata (Ammaniti, 2002). In particolare alcuni autori hanno evidenziato come il perfezionismo possa svolgere un duplice ruolo: di promozione di una ricerca spasmodica della forma fisica ideale (Bruch, 1993) e di mantenimento della patologia bulimica (una dieta eccessivamente rigida perpetua il ciclo di condotte binge-compensatorie, Fairburn, 1997). Diversi studi hanno evidenziato anche l’influenza di alcuni fattori psicosociali, in particolare del mito della magrezza come sinonimo di bellezza e della competitività esasperata di alcuni ambienti. La pressione ad essere magri derivante dalla famiglia, dai pari e dai media può contribuire all’internalizzazione di un ideale di magrezza impossibile da raggiungere (Garner, Olmsted, Polivy, 1983; Fairburn, 1997) e ad una
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F. LAGHI - R. BAIOCCO - F. COSTIGLIOLA ET AL.
sopravvalutazione generale dell’importanza dell’“apparire” (Pyle, Mitchell, Eckert, 1981). Queste sollecitazioni possono quindi spingere l’individuo ad intraprendere condotte alimentari rischiose per la salute (rigide diete dimagranti, episodi di binge eating, condotte di compensazione bulimiche, etc.), anche in assenza di una reale insoddisfazione corporea, per diminuire la pressione sociale percepita (Stice e Shaw, 2002). Dato il recente aumento della prevalenza dei disturbi alimentari e dei rischi ad essi associati, sono stati ricercati nuovi modelli che potessero permettere un migliore approccio al trattamento. Il modello cognitivo-comportamentale ha evidenziato il ruolo preponderante dei pensieri automatici negativi e degli assunti di base disfunzionali nell’insorgenza e nel mantenimento della patologia alimentare. Infatti, da una disamina della letteratura, è emerso che, per comprendere meglio il funzionamento psicologico sottostante ai comportamenti alimentari disfunzionali, le ricerche effettuate negli ultimi anni si sono dedicate principalmente all’approfondimento dell’influenza delle core beliefs e degli assunti di base sui comportamenti alimentari, disfunzionali e non (Leung, Waller, Thomas, 1999). Le core beliefs sono state definite dalla teoria cognitiva come il contenuto degli schemi mentali. Gli schemi mentali sono quelle strutture cognitive che organizzano l’esperienza e il comportamento e che determinano il contenuto di pensieri, affetti e comportamenti (Leung, Waller, Thomas, 1999). Più precisamente, diversi autori hanno ipotizzato che le core beliefs negative sul sé abbiano un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento dei disordini alimentari (Cooper, 2005; Waller et al., 2007). Le core beliefs negative derivano da esperienze precoci vissute durante la prima infanzia e sono generalmente assolute, inflessibili e globali. Anche se, in accordo con il modello cognitivo comportamentale, le persone con disordini alimentari tendono a giudicare loro stesse in termini di abitudini alimentari, forma o peso e alla loro abilità di controllarli (Fairburn, Cooper e Shafran, 2003), le loro credenze di base negative non sono rivolte a questi elementi ma verso il sé (Cooper et al., 1997; Leung, Waller e Thomas, 1999; Waller, 2003; Waller et al., 2000). Per ciò che riguarda i disturbi alimentari possiamo quindi ritrovare ad esempio credenze come: “Sono un fallimento”, “Sono inadeguato”, “Sono debole”, “Sono disgustoso”, “Sono solo” (Cooper, 2009; Cooper et al., 1997; Cooper e Hunt, 1998; Cooper, Todd, Wells, 1998; Cooper e Turner, 2000; Leung, Waller, Thomas, 1999; Somerville e Cooper, 2007; Waller, 2003; Waller et al., 2000). Dingemans e collaboratori (2006) hanno osservato che le persone con AN, BN e BED, hanno delle core beliefs più disfunzionali rispetto al gruppo di controllo non clinico e che le core beliefs dei pazienti con BED si collocano in una posizione intermedia fra quelle altamente disfunzionali dei pazienti con AN e BN e quelle del gruppo di controllo. Le indagini sulle core beliefs possono essere agilmente realizzate attraverso le relative immagini mentali poiché queste ultime derivano la loro potenza proprio dalla relazione triadica tra immaginario del sé, memoria e core beliefs sottostanti (Holmes, Arntz, Smucker, 2007). Stopa (2009) definisce l’immagine come una rappresentazione mentale che si presenta anche in assenza di un input sensorio esterno
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e che può essere generata sia a livello conscio che inconscio. Le immagini possono avere differenti forme e possono riguardare la rappresentazione di oggetti, persone (incluso il sé) o eventi reali (anche se non necessariamente vissuti in prima persona) o immaginari sia presenti che futuri (Holmes e Hackmann, 2004). Nonostante le immagini siano solitamente espresse attraverso il canale visivo queste possono anche manifestarsi tramite le altre modalità sensoriali (uditiva, olfattiva, cutanea, cinestetica, tattile) (Kosslyn, Ganis, Thompson, 2001). Le immagini mentali intrusive sono state a lungo tempo considerate come fattori fondamentali nella determinazione e nel mantenimento di alcune patologie legate sia alla sfera ansiosa come la fobia sociale (Hackmann, Surawy, Clark,1998), l’ansia per la salute (Wells e Hackmann, 1993), l’agorafobia (Day, Holmes, Hackmann, 2004), il disturbo ossessivo-compulsivo (Ottaviani e Beck, 1987) sia a quella alimentare come la bulimia nervosa (Somerville e Cooper, 2007; Hinrichsen et al., 2007). In questi studi è stato chiesto ai pazienti di riportare alla mente l’immagine che avevano esperito l’ultima volta che si erano sentiti preoccupati relativamente all’alimentazione, al peso e alla forma (Somerville, Cooper, Hackmann, 2007) e poco prima di indursi il vomito (Hinrichsen et al., 2007). In entrambi i casi, le immagini riportate dai pazienti sono state categorizzate come negative e stressanti rispetto al contenuto e risultavano associate a significative sensazioni di ansia e vergogna. Per quanto riguarda l’anoressia invece non sono stati condotti studi specifici. Recenti ricerche hanno altresì mostrato come l’immaginario, rispetto al pensiero e all’espressione verbale, abbia un maggiore impatto sulla sfera emotiva individuale e funzioni quindi da amplificatore emotivo sia per gli stati positivi che per quelli negativi (Holmes, Mathews, 2005; Holmes et al., 2008). 2. Obiettivi e ipotesi Il presente studio si propone quindi di indagare in un gruppo di preadolescenti la relazione esistente tra immagini mentali e condotte alimentari a rischio. In particolare, le ipotesi che si intende verificare sono: (H1) indagare le rappresentazioni o immagini mentali che i preadolescenti hanno del cibo, delle conseguenze legate al suo consumo e dei comportamenti ad esso connessi; (H2) verificare la relazione tra produzione qualitativa e quantitativa delle immagini mentali ed effettivo comportamento adottato nei confronti del cibo: rappresentazioni più negative dovrebbero essere associate ad una maggior predisposizione a condotte alimentari a rischio. 3. Soggetti e metodi Il gruppo è composto da 133 soggetti (64 femmine e 69 maschi), frequentanti quattro scuole secondarie di I grado di Roma e Provincia. I ragazzi hanno un’età
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compresa tra gli 11 e i 14 anni e un’età media di 12.41 (d.s.=0.97). Il 30.8% dei soggetti (N=41) frequenta la prima, il 28.6% (N=38) la seconda e il 40.6% (N=54) la terza classe. Con il permesso dei dirigenti scolastici e dei genitori dei ragazzi, la somministrazione degli strumenti è stata effettuata durante il normale orario di svolgimento delle lezioni a seguito di una breve spiegazione iniziale degli obiettivi e degli strumenti utilizzati nell’indagine. Per la compilazione dei questionari anonimi sono stati impiegati mediamente 30 minuti a classe. 3.1. Strumenti a) Mental Images Thoughts Associations Questionnaire-Children Tale strumento (MTAQ-C; Baiocco, Couyoumdjian, Del Miglio, 2007) è un adattamento italiano della tecnica di associazioni di parole utilizzata da Benthin e collaboratori (1995). Nel presente studio, gli stimoli proposti nell’MTAQ-C sono stati modificati per indagare specificatamente le rappresentazioni o immagini mentali dei preadolescenti associate alle condotte alimentari, proprie ed altrui. L’MTAQ-C indaga le immagini mentali relative ad otto comportamenti, di cui due implicano l’utilizzo della tecnologia e possono condurre a dipendenza (l’uso dei videogiochi, del cellulare), tre sono potenzialmente salutari (fare sport, curare la propria igiene, portare il casco) e tre dannosi per la salute (bere, fumare sigarette, fumare marijuana). I ragazzi, dopo aver scritto pensieri ed immagini associati a tali comportamenti devono indicare per ognuno di essi l’effettivo coinvolgimento. Nel presente studio, gli stimoli proposti nell’MTAQ-C sono stati modificati per indagare specificatamente le rappresentazioni o immagini mentali dei preadolescenti, associate alle condotte alimentari proprie ed altrui, attraverso due stimoli: “Pensa per un momento a te che mangi. Noi siamo interessati a cinque pensieri che ti vengono in mente”; “Pensa per un momento a qualcun altro che mangia. Noi siamo interessati a cinque pensieri che ti vengono in mente”. Ad ogni ragazzo è stato chiesto di produrre fino a un massimo di cinque associazioni di parole per ognuno di questi stimoli, e successivamente di dare un giudizio positivo o negativo di ognuna di esse. In accordo con la metodologia proposta da Benthin et al. (1995) e da Baiocco et al. (2007), le immagini mentali proposte dai ragazzi e congruenti con lo stimolo sono state definite nelle seguenti categorie: esiti positivi, esiti negativi, concetti positivi e concetti negativi. Le risposte relative agli esiti sono quelle che enfatizzano uno scopo del comportamento o un suo effetto sul sé e sugli altri, mentre quelle relative al concetto si riferiscono ad una definizione o giudizio sul comportamento stesso o sulla sostanza. Esempi di esiti positivi sono: “mi piace questa pasta”, “sono felice di mangiare quello che mangio”,“le piace quasi tutto”, “beato lui che mangiando così tanto non ingrassa”. Rispetto agli esiti negativi si possono annoverare: “mi potrei strozzare o soffocare”, “quanto sono ingrassata mangiando quel cibo”, “si potrebbe strozzare o
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soffocare”, “se continua a mangiare in quel modo, scoppierà”, “penso che se andrà avanti così diventerà obeso”, “se mangia così tanto ingrassa”. Tra i concetti positivi si possono ritrovare: “Quanto è buono!”, “Penso che quello che mangia è buono!”. Mentre rispetto ai concetti negativi alcuni esempi sono: “che schifo!”, “un po’ sciapo!”, “oddio, ma questo è un pozzo senza fondo!”. b) Minnesota Eating Behavior Survey Lo strumento (MEBS; von Ranson et al., 2005) è un breve inventario self-report di 30 item del tipo Vero/Falso costruito a partire dall’Eating Disorder Inventory (EDI; Garner, Olmsted, Polivy, 1983). Il MEBS può essere utilizzato con soggetti di età diverse e permette la valutazione di specifiche aree di difficoltà nel comportamento alimentare, compresi eventuali cambiamenti nel tempo. Nello specifico esso è composto da 4 sottoscale che misurano: la Preoccupazione per il Peso (Weight Preoccupation), l’Insoddisfazione Corporea (Body Dissatisfaction), l’Alimentazione Incontrollata (Binge Eating) e le Condotte Compensatorie (Compensatory Behaviors). L’indagine sulle proprietà statistiche del MEBS è stata effettuata attraverso uno studio longitudinale su un campione di gemelli, maschi e femmine, suddiviso in due coorti differenziate per età (11-14 e 17-20) e i loro genitori. Lo strumento ha dimostrato di possedere buone proprietà psicometriche. L’affidabilità è stata misurata sia in termini di consistenza interna che di affidabilità test-retest. Nello specifico il coefficiente alfa analizzato per le diverse coorti si è così distribuito: per il Punteggio Totale e per le scale di Insoddisfazione Corporea e Preoccupazione per il Peso α=0.71-0.85; per il Binge Eating ha mostrato un valore medio di 0.70; mentre per la scala della Condotta Compensatoria α=0.40 e 0.71. L’affidabilità test-retest si è mostrata maggiore nel gruppo delle madri (α=0.690.80) a causa della maggiore stabilità caratterizzante l’età adulta. Nel gruppo dei ragazzi si rileva comunque una buona affidabilità. Anche in questo caso le scale che presentano un coefficiente di affidabilità minore sono il Binge Eating e le Condotte Compensatorie probabilmente a causa della variabilità nelle definizioni individuali di Binge Eating e della molteplicità di condotte compensatorie/eliminatorie esistenti (von Ranson et al., 2005). Per ciò che concerne la validità sono state indagate sia la validità concorrente che quella di criterio. La validità concorrente del MEBS è confermata da coefficienti di correlazione medio-alti tra le sottoscale del MEBS e quelle dell’Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q) (Fairburn, Beglin, 1994). Parimenti la validità di criterio è stata confermata dall’alta correlazione dei punteggi ottenuti nelle diverse sottoscale del questionario da ragazze con disturbi del comportamento alimentare confrontate con un gruppo di controllo della stessa età senza disturbo (von Ranson et al., 2005). Nel presente studio sono stati utilizzati solo 25 item della versione originale in quanto si è preferito eliminare la scala delle Condotte Compensatorie, mantenendo di essa solo l’item 5 (“ho pensato di vomitare per perdere peso”), per evitare che lo strumento potesse risultare eccessivamente invasivo.
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3.2. Metodologia statistica Le elaborazioni statistiche sono state eseguite con il pacchetto statistico SPSS 17.0 per Windows. Le risposte al questionario sulle immagini mentali sono state, invece, indagate mediante il programma NUDIST VIVO. Per verificare la presenza di differenze significative tra le frequenze di risposte fornite dai ragazzi in funzione di variabili quali il genere e il comportamento alimentare, sono state condotte delle analisi utilizzando il test non parametrico del Chi². 4. Risultati 4.1. La rappresentazione del cibo: esiti e concetti Attraverso il questionario Mental Images Thoughts Associations QuestionnaireChildren sono state raccolte 1304 immagini mentali (il 98% delle 1330 totali possibili), di cui 662 (51%) rispetto a sé e 642 (49%) rispetto ad altri. Le risposte non congruenti allo stimolo proposto (ad esempio: “penso ai compiti”, “alla scuola”, ecc.) sono state inserite nella categoria “non codificabile” e rappresentano il 18% (f=229) del totale delle 1304 associazioni prodotte. Le immagini mentali proposte dai ragazzi e congruenti con lo stimolo sono state definite nelle seguenti categorie: esiti positivi, esiti negativi, concetti positivi e concetti negativi. I totali delle frequenze e delle percentuali di associazioni per ciascuna categoria sono riportate in Tabella 1.
Tabella 1. La rappresentazione del cibo: esiti e concetti. Immagini Mentali Esito Positivo Esito Negativo Concetto Positivo Concetto Negativo Non codificabile Totale
Sé
Altri
Totale
f
64
41
105
%
9.67
6.39
8.05
f
50
53
103
%
7.55
8.25
7.89
f
130
82
212
%
19.64
12.77
16.26
f
281
374
655
%
42.45
58.25
50.23
f
137
92
229
%
20.69
14.33
17.56
f
662
642
1304
%
100
100
100
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Tabella 2. Immagini Mentali (esiti vs. concetti) associate a sé: differenze di Genere Immagini Mentali Relative a Sé Esito Positivo
Femmine f
31
33
64
9.69
9.65
9.67
f
29
21
50
9.06
6.14
7.55
f
60
70
130
%
18.75
20.47
19.64
%
Concetto Negativo Non codificabile Totale
Totale
%
Esito Negativo
Concetto Positivo
Maschi
f
130
151
281
%
40.62
44.15
42.45
f
70
67
137
%
21.87
19.59
20.69
f
320
342
662
%
100
100
100
Tabella 3. Immagini Mentali (esiti vs. concetti) associate ad altri: differenze di Genere Immagini Mentali Relative agli Altri Esito Positivo
Femmine
Maschi
Totale
f
26
15
41
%
8.33
4.54
6.39
f
22
31
53
%
7.05
9.39
8.25
f
38
44
82
%
12.1
13.33
12.77
Esito Negativo
Concetto Positivo Concetto Negativo Non codificabile Totale
f
179
195
374
%
57.3
59.09
58.25
f
47
45
92
%
15.0
13.64
14.33
f
312
330
642
%
100
100
100
Il gruppo in esame ha fornito essenzialmente un giudizio negativo sia sulle immagini riferite a sé che su quelle riferite ad altri (Immagini negative=758; immagini positive= 317). La frequenza più alta ricade nella categoria di concetto negativo (f=655, corrispondente al 50% delle associazioni fornite), soprattutto quando associato ad
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altri (f=374, corrispondente al 29% delle associazioni). Tuttavia la percentuale di esiti negativi è la stessa degli esiti positivi (8% delle associazioni fornite). Le differenze di genere sono state rilevate sia nelle immagini riferite a sé (Chi²=6.49; p<.001) che nelle immagini riferite ad altri (Chi²=7.22; p<.001). In particolare, nelle immagini relative a sé i maschi riportano una percentuale di concetti negativi più alta (44%) rispetto alle femmine (40%) (v. Tabelle 2 e 3). 4.2. Immagini mentali: differenze tra soggetti a rischio e soggetti non a rischio Le risposte fornite dai ragazzi al MEBS sono state utilizzate al fine di dividere i soggetti in due sottogruppi: uno costituito da 22 soggetti che si collocano 2 d.s. sotto la media del punteggio totale del MEBS e l’altro costituito da 25 soggetti con 2 d.s. sopra la media del punteggio totale del MEBS. In altre parole è stato possibile individuare 22 soggetti senza disturbi del comportamento alimentare e 25 soggetti a rischio. Si è quindi effettuata una seconda analisi delle risposte fornite al Mental Images Thoughts Associations Questionnaire-Children per valutare la presenza di differenze nella produzione di immagini mentali tra soggetti a rischio e non. Anche in questo caso, nella valutazione dei due gruppi di soggetti, le rappresentazioni sono state distinte tra quelle riferite a sé e quelle riferite ad altri ed emergono differenze statisticamente significative (Chi²=9.65; p<.001; Chi²=8.74; p<.001). Tabella 4. Immagini Mentali (esiti vs. concetti): differenze tra soggetti senza disturbi del comportamento alimentare e soggetti a rischio. Relative a Sé
Immagini Mentali
Esito Positivo
Esito Negativo
Concetto Positivo
Concetto Negativo
Non codificabile
Totale
Relative agli altri
Senza disturbi
A Rischio
Totale
Senza disturbi
A Rischio
Totale
f
10
16
26
9
9
18
%
7.57
10.96
9.35
6.92
6.29
6.59
f
10
13
23
14
8
22
%
7.57
8.90
8.27
10.77
5.59
8.06
f
25
33
58
23
34
57
%
18.94
22.60
20.86
17.69
23.78
20.88
f
44
50
94
43
64
107
%
33.33
34.45
33.81
33.08
44.75
39.19
f
43
34
77
41
28
69
%
32.57
23.29
27.70
31.54
19.58
25.27
f
132
146
278
130
143
273
%
100
100
100
100
100
100
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Come mostrato in Tabella 4 e in conformità con quanto emerso dalle analisi precedenti, in entrambi i gruppi le frequenze maggiori ricadono nella categoria dei concetti negativi. Tra i due gruppi, i soggetti a rischio sono quelli che presentano una percentuale maggiore di concetti negativi (e.g “che schifo!”) sia nelle immagini associate a sé (34%) sia in quelle associate ad altri (44%). In relazione agli esiti negativi i soggetti a rischio riportano una percentuale leggermente più alta rispetto ai soggetti senza disturbo solo nelle immagini legate a sé. Tale differenza è osservabile anche in riferimento agli esiti (soprattutto quelli associati a sé) e ai concetti positivi, nei quali i soggetti a rischio ottengono frequenze di associazioni più alte se confrontati con i soggetti senza disturbo. 5. Discussione e conclusioni Il presente studio si è proposto di indagare la relazione esistente tra immagini mentali e condotte alimentari a rischio durante il periodo preadolescenziale in soggetti non clinici. Come precedentemente affermato, a causa della scarsità di ricerche condotte in tale campo, non è possibile effettuare dei confronti empiricamente validi tra i risultati ottenuti e la letteratura già esistente. Date queste premesse, in primo luogo si è cercato di approfondire quali siano le immagini mentali che i preadolescenti hanno in relazione al cibo, al suo consumo e ai comportamenti ad esso connessi (H1). Le risposte fornite al questionario Mental Images Thoughts Associations Questionnaire-Children sono state differenziate in: relative agli esiti (che enfatizzano uno scopo del comportamento o un suo effetto sul sé e sugli altri), e relative ai concetti (definizione o giudizio sul comportamento stesso o sulla sostanza). I risultati hanno mostrato che nonostante le associazioni prodotte dai ragazzi fossero riferite in egual misura sia ad esiti positivi che negativi, i giudizi relativi ai concetti erano invece prevalentemente negativi. L’aspetto particolarmente interessante di questo dato è che l’associazione dell’immagine mentale con il concetto è ancor più negativa se riferita agli altri piuttosto che a sé. Sono state altresì rilevate delle importanti differenze di genere. Gli uomini hanno espresso una più alta percentuale di concetti negativi mentre nelle donne è stata registrata una maggiore prevalenza di associazioni relative agli esiti positivi riferiti ad altri. Il gran numero di concetti negativi riportato dagli uomini conferma quanto emerso in letteratura negli ultimi anni (Somerville e Cooper, 2007; Hinrichsen et al., 2007): le condotte alimentari a rischio sono aumentate anche nella popolazione maschile nonostante la diversa manifestazione comportamentale a queste associata. Feltman e Ferraro (2011) sottolineano infatti come negli uomini il disordine si esprima principalmente attraverso l’iperattività fisica. Nelle donne, invece, la maggiore prevalenza di associazioni relative agli esiti positivi riferiti ad altri è probabilmente dovuta alla centralità del tema relativo all’aderenza all’ideale di magrezza proposto dai mass media (Striegel-Moore, et al., 2009; Laghi et al., 2007; Keashubeck-West, Mintz e Weigold, 2005; Wertheim, Koerner, Paxton, 2001; Lake, Staiger e Glowinski, 2000).
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In secondo luogo si è voluta verificare la relazione tra produzione qualitativa e quantitativa delle immagini mentali e l’effettivo comportamento adottato nei confronti del cibo secondo l’ipotesi, mutuata dagli studi di Hinrichsen e collaboratori (2007), per cui rappresentazioni più negative dovrebbero essere associate ad una maggior predisposizione a condotte alimentari a rischio (H2). A tale scopo il gruppo di soggetti è stato suddiviso in due sottogruppi in base ai punteggi ottenuti al MEBS: gruppo a rischio di sviluppare un disordine alimentare e gruppo non a rischio. In accordo con l’ipotesi di partenza i soggetti a rischio hanno presentato una percentuale maggiore di concetti negativi (ad esempio “che schifo!”) sia nelle immagini associate a sé sia in quelle associate ad altri. In relazione agli esiti negativi i soggetti a rischio hanno riportato una percentuale leggermente più alta rispetto ai soggetti non a rischio solo nelle immagini legate a sé. Tale differenza è osservabile anche in riferimento agli esiti (soprattutto quelli associati a sé) e ai concetti positivi, nei quali i soggetti a rischio ottengono frequenze di associazioni più alte se confrontati con i soggetti non a rischio. Il dato, apparentemente contrastante, può in realtà spiegare una bassa percezione del rischio nella messa in atto di alcuni comportamenti alimentari, e.g. quelli di binge eating (“mi mangerei tutto!”, “mi ingozzo di cibo!”) (Boyd e Zimbardo, 2005; Rothspan e Read, 1996). Inoltre, questo dato è in accordo con quanto emerso nella ricerca di Baiocco, Couyoumdjian, Del Miglio (2007), nella quale i comportamenti predittori dei DCA si differenziano per tipologia di disturbo. Di conseguenza, si può affermare che anche le rappresentazioni mentali di questi stessi comportamenti si differenziano in base al tipo di disturbo. Riassunto L’obiettivo del presente studio è analizzare la relazione tra condotte alimentari a rischio e le immagini mentali riguardanti il cibo e le conseguenze del suo consumo. L’indagine ha coinvolto un gruppo di 133 preadolescenti, a cui sono stati somministrati il questionario Mental Images Thoughts Associations Questionnaire-Children (Baiocco, Couyoumdjian, Del Miglio, 2007) e il Minnesota Eating Behavior Survey (von Ranson et al., 2005). In accordo con le ipotesi di partenza i risultati hanno mostrato che i soggetti a rischio presentano una percentuale maggiore di immagini negative associate al cibo e al suo consumo riferite sia a sé che agli altri. I risultati evidenziano come sia possibile utilizzare le immagini mentali come strumento per indagare i fattori di rischio associati ai disturbi alimentari. Parole chiave Disturbi Alimentari – Immagini Mentali – Preadolescenza – Fattori di rischio.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 86-104
L’adolescenza e la perdita di un genitore in età evolutiva. Uno studio longitudinale in un campione di ragazzi dagli 11 ai 16 anni Early Parental Loss and psychological functioning. A longitudinal study in a sample of subjects from 11 to 16 years of age Gianluigi Monniello*, Silvia Cimino**, Luca Cerniglia***, Giulia Ballarotto****, Laura Polito*****
Summary The present longitudinal study, about the loss of a parent during childhood as a traumatic experience, is the continuation of a previous research (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012) and has the purpose of evaluating the possible change in the overall psychological functioning from pre-adolescence period to adolescence in a non referred sample, investigating the impact of the loss of a significant caregiver (mother or father) occurred in childhood on the current psychological profile. Three specific samples are assessed in this study: 1) subjects who had lost a significant caregiver during the first three years of life; 2) subjects who had the same loss experience when they were between three and ten years old; 3) a control sample composed of subjects who didn’t experience any kind of parental loss. We have administered three self-report questionnaires: 1) SCL-90-R (Derogatis et al., 19739; 2) EAT-40 (Garner, Garfinkel,1979); 3) A-DES (Armstrong et al., 1990. Moreover, as regards to the first two groups the surviving parent was also given the SCL-90-R. The results show that there is a significant decrease in the scores reported by children in the transition from pre-adolescence to the mid-late adolescence. Children who have suffered the loss of a caregiver within the first 3 years of life, however, continue to report higher scores than the other two groups. In addition, research has shown that parental psychopathology significantly predicts SCL-90-R scores of sons. Key words Bereavement during childhood – Adolescence – Eating disorders – Dissociative experiences – Psychological functioning.
* Dipartimento
di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma. Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma. *** Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica, Clinica e dello Sviluppo, Università Telematica Internazionale Uninettuno, Roma. **** Dottore in Psicologia, Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma. ***** Medico Chirurgo, Frequentatore scientifico, Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma. **
L’ADOLESCENZA E LA PERDITA DI UN GENITORE IN ETÀ EVOLUTIVA
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Numerosi studi suggeriscono che, per i soggetti in età evolutiva, la perdita di un genitore provochi un impatto rilevante su numerosi aspetti del loro funzionamento affettivo1, cognitivo e comportamentale (Akerman, Statham, 2011). Molti studi hanno dimostrato che i soggetti in età evolutiva che hanno perso un genitore nella loro infanzia presentano un maggior numero di difficoltà di adattamento e problemi psicopatologici rispetto ai coetanei che non hanno subìto questa esperienza. Tali soggetti mostrano un aumento di stati emotivi come paura, aggressività, depressione, somatizzazione, sintomi ossessivo-compulsivi e problemi scolari (Cerel et al., 2006; Melhem et al., 2008), così come una diminuita autoefficacia (Balk, Corr, 2001) e sintomi traumatici (Nader, 1997). In un recente studio Rolls e Payne (2007) hanno valutato bambini e adolescenti che avevano perso un genitore, riscontrando complesse difficoltà emotive e sociali, tra cui la difficoltà a gestire i propri sentimenti, senso di isolamento, problemi scolastici ed emozioni di timore verso il genitore superstite. La sintomatologia dei soggetti in età evolutiva è però differente in base alla fase di sviluppo in cui si trovano: alcune ricerche mostrano infatti che depressione e senso di colpa sono presenti maggiormente nell’adolescenza rispetto all’età infantile (Weller et al., 1991; Cheifetz, Stavrakakis, Lester, 1989). Inoltre alcuni Autori hanno associato quest’esperienza vissuta nell’infanzia con la comparsa della depressione in età adulta (Kendler et al., 2002). Altri studi non hanno però trovato queste differenze di adattamento psicologico fra bambini e adolescenti che hanno affrontato il lutto dei genitori ed un campione di controllo (Siegel, Karus, Raveis, 1996). Tutto ciò suggerisce che non tutti i soggetti in età evolutiva che hanno subìto quest’esperienza riportano delle problematiche: sicuramente una varietà di fattori, come la struttura della famiglia, il funzionamento psicologico del genitore rimasto e la natura della morte del genitore, possono influire sulla regolazione emotiva di un bambino o di un adolescente che ha subìto un lutto, negli anni successivi alla perdita. Per quanto riguarda il soggetto in età evolutiva, bisogna considerare che la perdita di un genitore ha un impatto differente in relazione all’età e alla fase di sviluppo in cui avviene quest’esperienza e vi sono varie risposte che egli può manifestare di fronte a tale perdita (Abdelnoor, Hollins, 2004; Ratnarajah, Schofield, 2007). Le capacità di far fronte a tale evento si presentano tanto più adeguate quanto maggiore è l’età in cui avviene la perdita e l’attivazione di strategie resilienti e adattive si collega alla presenza di ulteriori figure di accudimento con cui il minore aveva stabilito forti ed intensi legami precedenti la perdita (Haine et al., 2008). Numerosi studi retrospettivi su soggetti psichiatrici adulti, comunque, riportano eventi di perdita di un genitore avvenuti durante l’infanzia (Zanarini et al., 1989). La letteratura scientifica che ha approfondito gli esiti sullo sviluppo della perdita di un genitore in età infantile non ha però distinto in dettaglio le fasi specifiche in cui 1 Il termine affetto è qui inteso nell’accezione psicodinamica che descrive l’espressione qualitativa della quantità di energia pulsionale. In questa ottica metapsicologica esso è sempre legato a una rappresentazione psichica. Distinguiamo questo concetto da quello di emozione, utilizzato nel più vasto ambito psicologico, che può essere descritta come una reazione da uno stimolo ambientale che provoca una modificazione a livello somatico, vegetativo e psichico ( J. Laplanche e J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 1, Bari, Laterza, 2005).
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è avvenuta tale esperienza di lutto (ad esempio la prima o la seconda infanzia) e si è concentrata poco sui possibili esiti di questo evento durante l’adolescenza, fase evolutiva in cui il ragazzo deve far fronte a numerosi compiti e deve allontanarsi dalle figure di attaccamento, al fine di sviluppare una propria identità autonoma. Luecken et al. (2009) sottolineano come quest’esperienza potenzialmente traumatica vissuta nell’infanzia abbia notevole influenza sul distress individuale percepito durante l’adolescenza. Blos (1989) inoltre sottolinea come l’entrata nell’adolescenza porti in primo piano la rielaborazione e la gestione dei traumi infantili, cioè di esperienze che sono state vissute dal soggetto come soverchianti e che devono essere integrate nell’Io. In questo senso sembra che una perdita molto precoce, in una fase della vita in cui il bambino ha rilevanti difficoltà di elaborare un evento di lutto, abbia un’influenza molto più negativa sul funzionamento psicologico rispetto allo sperimentare una perdita nella seconda infanzia in cui il minore ha a sua disposizione una gamma molto più diversificata di strumenti cognitivi ed affettivi. Alcuni studi hanno evidenziato, nei ragazzi che hanno perso la madre nell’infanzia, comportamenti aggressivi, delinquenziali, problemi scolastici, rabbia, ipocondria, identificazione con la persona deceduta (Dowdney et al., 1999; Dowdney, 2000; Draper, Hancock, 2011). Tali comportamenti possono interferire con l’adempimento dei compiti di sviluppo tipici di questa fase evolutiva. Per quanto riguarda le variabili della rete sociale del bambino dobbiamo considerare che questo evento influenza ogni membro della famiglia e la famiglia nel suo complesso. Le modalità con cui il genitore superstite affronta la perdita del proprio partner influenza le modalità di elaborazione del lutto utilizzate dai propri figli (Kirwin, Hamrin, 2005) ed il loro adattamento alla vita (Saldinger, Porterfield, Cain, 2004). Il genitore in lutto può avere difficoltà a gestire i propri sentimenti di perdita e il dolore, compromettendo il suo ruolo genitoriale; si può sentire soverchiato dalle responsabilità che si trova a sostenere, così da non riuscire a sostenere le aumentate necessità del bambino (Auman, 2007) e spesso amici e familiari sono concentrati a confortare il coniuge rimasto, lasciando che siano i bambini a superare questa fase da soli. Madigan e collaboratori (2006) hanno inoltre sottolineato che il genitore superstite può non essere in grado di elaborare nel tempo il lutto subìto sperimentando difficoltà emotive che possono influenzare negativamente gli scambi affettivi e relazionali con i propri figli anche molti anni dopo la perdita del partner. Molti autori hanno parlato a questo proposito di scarsa capacità materna di monitorare l’esperienza emotiva del figlio a causa di pensieri ed emozioni legati alle esperienze non risolte che limitano l’interazione attuale con il proprio figlio (Out, Bakermans-Kranenburg, Van IJzendoorn, 2009). Inoltre Weller et al. (1991) hanno riscontrato che soggetti in età evolutiva che hanno perso la figura paterna riportavano un maggior numero di sintomi depressivi rispetto ai soggetti della stessa età che avevano perso la figura materna. La letteratura scientifica riporta però dati contrastanti al riguardo: due recenti studi (Kalter, 2002; Raveis, Siegel, Karus, 1999), infatti, hanno valutato i sintomi depressivi in bambini che avevano perso un genitore, non riscontrando differenze significative nella sintomatologia tra bambini che avevano perso il padre e bambini che avevano perso la madre.
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Dowdney (2000) rileva che, quando sono presenti adeguati fattori di protezione, solo un soggetto su cinque che ha sperimentato la perdita di un genitore nell’infanzia mantiene nel tempo una sintomatologia tale da giustificare un invio ai servizi specialistici. Considerando quindi la letteratura scientifica in questo campo e la difficoltà di ottenere dati chiari sull’impatto della perdita precoce di un genitore nel corso dell’età evolutiva, abbiamo condotto uno studio longitudinale, che si basa su una precedente ricerca (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012), al fine di valutare il passaggio dalla fase pre-adolescenziale a quella adolescenziale in ragazzi che hanno avuto esperienze di perdita nell’infanzia, approfondendo i cambiamenti nel tempo delle caratteristiche del profilo emotivo e adattivo dei ragazzi e il profilo psicologico del genitore rimasto. È utile ricordare che il periodo della pre-adolescenza costituisce una fase di sviluppo particolarmente complessa in cui il funzionamento psicologico del ragazzo è instabile e mutevole, tanto che eventuali indici di funzionamento disadattivo devono essere interpretati clinicamente con cautela poiché potrebbero essere temporanei e non caratteristici del soggetto in fasi di sviluppo successive (Steele, Malchiodi, Kuban, 2008; Cimino, Monniello, Sinesi, 2012). Nella precedente ricerca (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012) era stato valutato il funzionamento psicologico globale in un campione di pre-adolescenti non referred, studiando l’impatto della perdita di un caregiver significativo (la madre o il padre) avvenuta nell’infanzia sul profilo psicologico attuale. Il campione esaminato dagli Autori era stato suddiviso in tre sottocampioni: 1) soggetti che hanno vissuto la perdita di un genitore nei primi tre anni di vita; 2) soggetti che hanno vissuto la perdita fra i tre ed i dieci anni; 3) soggetti che non hanno sperimentato alcuna perdita genitoriale. I risultati di questo studio suggeriscono che i ragazzi che hanno sperimentato il lutto di un genitore nei primi tre anni di vita presentano un funzionamento psicopatologico in diverse aree, tra cui in particolare i comportamenti alimentari disfunzionali e la sperimentazione di vissuti dissociativi. Questo gruppo di pre-adolescenti ha evidenziato un rischio molto significativo di stabilizzarsi all’interno di un funzionamento psicologico disadattivo. Obiettivo del lavoro Il presente contributo di ricerca si è posto l’obiettivo di mettere in luce le differenze significative che si riscontrano nel passaggio dalla fase pre-adolescenziale a quella adolescenziale in soggetti che hanno perso un genitore nella prima infanzia. La valutazione del funzionamento emotivo-adattivo dei ragazzi ha preso in esame, specificatamente, le esperienze dissociative, i comportamenti alimentari inappropriati e l’eventuale presenza di un profilo psicopatologico. Inoltre è stato studiato il profilo psicologico del genitore rimasto in vita. In particolare, questo studio si è proposto di: 1. valutare se i punteggi dei ragazzi agli strumenti di valutazione empirica variano al variare dell’età, tenendo in considerazione le variabili genere, perdita del padre o della madre e perdita avvenuta nella prima o nella seconda infanzia;
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2. valutare se il profilo emotivo-adattivo dei ragazzi varia in funzione dell’SCL90-R dei genitori. Soggetti e Metodi Gli stessi soggetti dello studio di Cimino, Monniello e Sinesi (2012), sono stati contattati ed è stata proposta loro la prosecuzione della ricerca, nella quale ci siamo prefissi l’obiettivo di valutare i cambiamenti del funzionamento emotivo-adattivo dei ragazzi nel passaggio dalla fase evolutiva pre-adolescenziale a quella adolescenziale. Inoltre, per quanto riguarda i primi due sotto-campioni, è stato somministrato l’SCL-90-R anche al genitore rimasto in vita, al fine di valutare se i punteggi degli adolescenti fossero predetti da quelli del caregiver. Nella Tabella 1 sono descritti sia i soggetti appartenenti al primo studio (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012) sia quelli appartenenti allo studio attuale, reperiti grazie alla collaborazione di Istituti scolastici pubblici e privati del territorio laziale. Il campione del presente studio risulta numericamente inferiore a quello del primo lavoro, in quanto alcuni soggetti hanno scelto di non partecipare. Tutte le famiglie dei ragazzi che hanno partecipato allo studio appartengono ad uno status socio-economico medio (Hollingshead, 1975). Inoltre, tutti i ragazzi che hanno partecipato alla ricerca hanno compilato i questionari in forma anonima previo consenso informato da parte delle famiglie.
Tabella 1. Soggetti dello studio longitudinale [che include lo studio Cimino, Monniello e Sinesi, (2012) e il presente studio] suddivisi in tre gruppi di studio: soggetti che hanno subìto una perdita genitoriale nei primi 3 anni di vita; soggetti che hanno subìto una perdita genitoriale fra i 3 ed i 10 anni di vita; soggetti che non hanno vissuto alcuna perdita genitoriale. Gruppo di studio
Campione tempo 1 (pre-adolescenza)
Campione tempo 2 (adolescenza)
numerosità
età in anni
genere
numerosità
età in anni
genere
esperienza di perdita nei primi 3 anni di vita
N=38
media= 12,47 ds=1,08
17 maschi 21 femmine
N=33
media=16,33 ds=0,74
16 maschi 17 femmine
esperienza di perdita tra i 3 ed i 10 anni di vita
N=39
media=12,41 ds=1,11
18 maschi 21 femmine
N=31
media=16,19 ds=0,75
15 maschi 16 femmine
nessuna esperienza di perdita
N=40
media=12,37 ds=1,07
20 maschi 20 femmine
N=32
media=16,22 ds=0,71
16 maschi 16 femmine
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Gli strumenti utilizzati sono i seguenti: a) La Symptom Checklist-90-R (SCL-90-R) (Derogatis, Lipman, Covi, 1973) è un questionario self-report che è stato somministrato nel presente studio ai soggetti in età evolutiva e al genitore superstite e che fornisce una misura standardizzata dello status psicologico e/o psicopatologico attuale di un individuo, applicabile a popolazioni normali o psichiatriche di adulti e adolescenti. La SCL-90-R permette di ottenere un ampio spettro di informazioni sull’esperienza soggettiva attuale di benessere e/o di disagio psicologico, consentendo di effettuare screening sia in ambito clinico che di ricerca. I punteggi ottenuti sono interpretati sulla base di 9 dimensioni primarie: 1) Somatizzazione, 2) Ossessione compulsione, 3) Sensibilità interpersonale, 4) Depressione, 5) Ansia, 6) Ostilità, 7) Ansia fobica, 8) Ideazione paranoide, 9) Psicoticismo. Inoltre, sulla base di tre Indici Globali (Global Severity Index, Positive Symptom Distress Index, Positive Symptom Total), la SCL-90-R fornisce il livello di gravità e l’ampiezza del distress psicologico individuale relativo alle nove dimensioni primarie misurate. Questo strumento può anche evidenziare cluster di sintomi associati a specifiche condizioni psicopatologiche (ad es., disturbi affettivi e di personalità). La coerenza interna della versione italiana, testata su un campione di adolescenti e di adulti, è soddisfacente (coefficiente alpha compreso tra 0.70 e 0.96) e il cut-off clinico è risultato pari ad 1 (Prunas, 2012). b) L’Eating Attitude Test (EAT-40) è un questionario di autovalutazione costruito da Garner e Garfinkel (1979; 1982) che nel presente studio è stato somministrato ai ragazzi. È un test utile per la valutazione clinica di comportamenti alimentari abnormi e, in particolare, dell’anoressia mentale (Cuzzolaro, Petrilli, 1988). In ripetute ricerche ha sempre dimostrato la sua attendibilità e validità, sia nella versione integrale che in quella ridotta, l’EAT-26. La versione integrale è composta da 40 item con una scelta fra sei risposte per ogni item; fornisce un punteggio totale e tre punteggi parziali suddivisi in tre sottoscale: Digiuno (D), Bulimia e preoccupazione per il cibo (B), Controllo orale (CO). Un punteggio totale elevato indica insoddisfazione per la propria immagine corporea, desiderio di magrezza, preoccupazione per l’effetto negativo dei comportamenti alimentari sul peso e rigido auto-controllo sull’alimentazione. Lo strumento presenta una soddisfacente attendibilità (coefficiente alpha da 0.79 a 0.94), è stato validato su un campione di pazienti adulti con diagnosi di anoressia nervosa, ed è spesso utilizzato per rilevare la presenza di disturbi alimentari in popolazioni non-cliniche. Da studi di validazione, il cut-off clinico è risultato pari a 30 (Garner, Garfinkel, 1980). Punteggi superiori al cut-off indicano la presenza molto probabile di sintomi del Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA) ma non implicano, necessariamente, una diagnosi di anoressia nervosa o di bulimia nervosa. Infatti l’EAT-40 non ha capacità diagnostiche, ma è prezioso come strumento di screening in ricerche epidemiologiche ed è utile come strumento clinico di valutazione della gravità dei sintomi e del loro andamento nel tempo. c) L’Adolescent Dissociative Experiences Scale (A-DES) (Armstrong et al., 1997) è un questionario self-report composto da 30 item su scala Likert a 11 punti, somministrato a soggetti tra gli 11 e i 18 anni; nel presente studio è stato somministrato ai soggetti in età evolutiva. Lo strumento indaga quattro aree specifiche: a) Amnesia
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dissociativa; b) Coinvolgimento immaginativo e assorbimento; c) Influenza passiva; d) Depersonalizzazione e derealizzazione. Punteggi elevati indicano un livello patologico di dissociazione e giustificano un’ulteriore indagine. Vediamo quindi come anche questo strumento non venga utilizzato per scopi diagnostici, ma di screening. La ADES presenta una buona coerenza interna (coefficiente alpha=0.93) e una buona stabilità al test-retest (r = 0,91) (Zoroglu et al., 2002). La A-DES è stata validata su un campione di adolescenti con sviluppo tipico tra i 12 e i 17 anni e il cut-off clinico è risultato pari a 4 (Smith, Carlson, 1996). Risultati Utilizzando l’ANOVA a misure ripetute, abbiamo valutato l’andamento dei punteggi agli strumenti di valutazione empirica considerando come fattore entro i soggetti (within) il tempo trascorso fra le due somministrazioni e come fattori tra i soggetti (between) l’appartenenza ai diversi sotto-campioni, la perdita del padre o della madre ed il genere dei soggetti. Valutazione del cambiamento dello status psicologico e/o psicopatologico dei soggetti dalla preadolescenza all’adolescenza. Per quanto riguarda i punteggi al test SCL-90-R, sono state evidenziate differenze significative per quanto riguarda il GSI, Global Severity Index (effetto del fattore tempo: F=14,040 gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=4,31; gdl=1; p<0,05), il Positive Symptom Total (effetto del fattore tempo: F=17,502; gdl=1; p<0,001) e il Positive Symptom Distress Index (effetto del fattore tempo: F=7,39; gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=11,469; gdl=1; p<0,01). Nel particolare, le differenze significative riguardano le medie nei punteggi alle sottoscale Ossessione compulsione (effetto del fattore tempo: F=5,697; gdl=1; p<0,05), Depressione (effetto del fattore tempo: F=15,14; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=11,236; gdl=1; p<0,01), Ansia (effetto del fattore tempo: F=5,099; gdl=1; p<0,05), Ostilità (effetto del fattore tempo: F=5,885; gdl=1; p<0,05), Ansia fobica (effetto del fattore tempo: F=14,943; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza per tipo di perdita per genere: F=5,222; gdl=1; p<0,05), Ideazione paranoide (effetto del fattore tempo: F=7,051; gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=8,059; gdl=1; p<0,01), Psicoticismo (effetto del fattore tempo: F=7,420; gdl=1; p<0,01) e Sensibilità interpersonale (effetto del fattore tempo per campione: F=20,14; gdl=1; p<0,001). È interessante sottolineare che i soggetti che superano il cut-off del GSI sono così distribuiti: 1) nel primo sotto-campione tutti i 38 soggetti esaminati nella prima somministrazione e tutti i 33 soggetti esaminati nella seconda;
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2) nel secondo sotto-campione 6 soggetti dei 39 valutati nella prima somministrazione e 3 soggetti dei 31 esaminati nella seconda; 3) nel terzo sotto-campione 22 soggetti dei 40 esaminati nella prima somministrazione e 17 soggetti dei 32 valutati nella seconda. Nella Figura 1 possiamo vedere le differenze fra le medie dei tre indici principali per quanto riguarda l’SCL-90-R.
Figura 1. Differenze fra le medie dei tre indici principali dell’SCL-90-R nelle due somministrazioni (pre-adolescenza e adolescenza).
Valutazione della variazione dei comportamenti alimentari disadattivi dalla pre-adolescenza all’adolescenza. Per quanto riguarda i comportamenti alimentari disadattivi invece, sono state evidenziate differenze fra le medie dei punteggi totali al test (effetto del fattore tempo: F=8,957; gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=9,274; gdl=1; p<0,01). In particolare, le differenze significative riguardano le medie dei punteggi nelle sottoscale D (effetto del fattore tempo: F=10,536; gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=10,684; gdl=1; p<0,01) e B (effetto del fattore tempo per genere: F=5,635; gdl=1; p<0,05; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza per genere: F=8,034;
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gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per genere per tipo di perdita: F=6,302; gdl=1; p<0,05; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza per genere per tipo di perdita: F=5,364; gdl=1; p<0,05). Inoltre, abbiamo rilevato che 33 soggetti del primo sotto-campione superano il cut-off dellâ&#x20AC;&#x2122;EAT-40 nella prima somministrazione (N=38), mentre nella seconda questo avviene solo per 15 soggetti dei 33 esaminati. Nel secondo sotto-campione, invece, nessun soggetto oltrepassa il cut-off del test sia alla prima che alla seconda somministrazione. Nel campione di controllo, infine, 2 soggetti superano il punteggio soglia nella prima somministrazione, mentre 1 nella seconda. Anche in questo caso riportiamo le differenze fra le medie dei punteggi ai test nella Figura 2. Figura 2
Valutazione del cambiamento delle esperienze dissociative esperite dal soggetto nel passaggio dalla fase pre-adolescenziale a quella adolescenziale. Infine, esaminando le variazioni dei vissuti dissociativi, abbiamo riscontrato differenze significative fra le medie dei punteggi, sia nel punteggio totale (effetto del fattore tempo: F=25,676; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sottocampione di appartenenza: F=6,33; gdl=1; p<0,05), che nelle sottoscale Amnesia dissociativa (effetto del fattore tempo: F=24,734; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=13,647; gdl=1; p<0,001; effetto
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del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza per tipo di perdita per genere: F=4,547; gdl=1; p<0,05), Assorbimento immaginativo (effetto del fattore tempo: F=30,636; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=5,333; gdl=1; p<0,05), Influenza passiva (effetto del fattore tempo: F=24,778; gdl=1; p<0,001) e Depersonalizzazione-derealizzazione (effetto del fattore tempo: F=37,16; gdl=1; p<0,001; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza: F=10,321; gdl=1; p<0,01; effetto del fattore tempo per sotto-campione di appartenenza per tipo di perdita: F=4,444; gdl=1; p<0,05). I dati riguardanti le esperienze dissociative sono molto interessanti, infatti: 1) tutti i soggetti del primo sotto-campione superano il cut-off dell’A-DES nella prima somministrazione, mentre solo 16 dei 33 soggetti esaminati nella seconda. 2) nel secondo sotto-campione le esperienze dissociative risultavano eccessive per 2 soggetti nella fase pre-adolescenziale, mentre durante l’adolescenza nessun soggetto supera il cut-off. 3) infine, nessun soggetto supera il cut-off dell’A-DES, sia nella prima che nella seconda somministrazione. Come possiamo vedere nella Figura 3, i punteggi riguardanti le esperienze dissociative sono significativamente inferiori nella seconda somministrazione.
Figura 3. Differenze fra le medie del punteggio globale dell’A-DES e delle sue sottoscale, nelle due somministrazioni (pre-adolescenza e adolescenza).
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Valutazione dell’influenza dello status psicologico e/o psicopatologico del genitore su quello del figlio. Per valutare se i punteggi al test SCL-90-R del genitore potessero predire i punteggi al test dei ragazzi, abbiamo utilizzato la regressione lineare. Ne è emerso che sia il Global Severity Index (β=0,966; t=29,295; p<0,001), il Positive Symptom Total (β=0,970; t=31,686; p<0,001) e il Positive Symptom Distress Index (β=0,853; t=12,893; p<0,001) che tutte le sottoscale dell’SCL-90-R del genitore sembrerebbero predire i punteggi dei ragazzi al test (Somatizzazione: β=0,978; t=37,011; p<0,001; Ossessione compulsione: β=0,979; t=37,366; p<0,001; Sensibilità interpersonale: β0,964; t=28,507; p<0,001; Depressione: β=0,941; t=21,945; p<0,001; Ansia: β=0,889; t=15,304; p<0,001; Ostilità: β=0,853; t=12,871; p<0,001; Ansia fobica: β=0,965; t=29,132; p<0,001; Ideazione paranoide: β=0,828; t=11,643; p<0,001; Psicoticismo: β=0,413; t=3,572; p<0,01)2. Infine è stato rilevato che 19 genitori dei soggetti appartenenti al primo sottocampione (N=33) superano il cut-off dell’SCL-90-R per quanto riguarda il GSI, mentre solo 3 genitori dei soggetti appartenenti al secondo sotto-campione (N=31). È interessante anche notare che tutti questi genitori hanno figli che superano il cutoff. Discussione dei dati e conclusioni I dati emersi dalla nostra ricerca possono essere inseriti all’interno di un ampio filone di studi empirici. L’adolescenza fa il suo esordio con la pubertà. In questo periodo si verificano due cambiamenti fondamentali per lo sviluppo psicofisico dell’individuo: lo sviluppo puberale e il consolidarsi del pensiero logico-formale che permette di organizzare i contenuti dell’esperienza. I ragazzi vanno incontro ad una rapida e spesso inattesa maturazione corporea, con la conseguente modifica del rapporto con se stessi che viene spesso percepita come fuori dal proprio controllo (Carbone Tirelli, 2006). Inoltre, secondo Piaget (1976) nel periodo puberale il ragazzo inizia ad acquisire il pensiero ipotetico deduttivo o formale, acquisizione che terminerà verso i 15 anni, in piena adolescenza. Bisogna anche considerare lo sviluppo cerebrale che avviene in questa fase. Jay Giedd et al. (1999) hanno condotto alcuni studi al National Institute of Mental Health di Betesda. Gli Autori, attraverso studi su 1800 bambini e adolescenti, hanno riscontrato che appena prima della pubertà la corteccia prefron2 Dalle analisi statistiche effettuate sui profili emotivo-adattivi dei ragazzi (SCL-90-R; EAT40; A-DES) dei tre gruppi esaminati (adolescenti con perdita nella prima infanzia, adolescenti con perdita nella seconda infanzia e adolescenti senza esperienza di perdita di un genitore nell‘infanzia) il fattore perdita della madre o perdita del padre non ha prodotto differenze significative in alcuna area di funzionamento (p>0.5). Inoltre, rispetto al fattore genere dei ragazzi, non sono emerse differenze significative fra maschi e femmine in tutti i gruppi. È stata rilevata una differenza statisticamente significativa (p>0.01) solo nella sottoscala Bulimia e preoccupazione per il cibo dello strumento EAT-40 per la quale le femmine mostrano punteggi più elevati rispetto ai maschi in tutti i gruppi e in entrambi i tempi di somministrazione (Tempo 1: F=8,235 gdl=1 p<0,01; Tempo 2: F=4,864, gdl=1 e p<0,05).
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tale si trova in fervente attività di crescita. In particolare quest’ultima, definita “area di ripensamento assennato”, controlla l’ippocampo, responsabile dei bisogni primari. Si è quindi osservato un aumento repentino della crescita neuronale tra gli 11 e i 12 anni, che fa sì che gli adolescenti abbiano meno risorse disponibili per l’apprendimento e il rispetto delle regole sociali. La corteccia frontale e prefrontale (Thompson et al., 2000) sono infatti deputate al controllo degli impulsi, alla regolazione delle emozioni e alla consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Queste funzioni raggiungeranno il loro sviluppo solo all’inizio dell’età adulta (Monniello, Quadrana, 2010). Attraverso la somministrazione dell’SCL-90-R abbiamo riscontrato, infatti, una sensibile diminuzione dei punteggi dalla fase pre-adolescenziale alla media-tarda adolescenza. Questo probabilmente conferma il fatto che le modificazioni pubertarie comportino un periodo di “smarrimento”, nel quale il ragazzo deve affrontare numerosi processi di perdita (Birraux, 1994) al fine di compiere ciò che Blos (1967) definisce un secondo processo di individuazione. È però interessante notare anche come variano i punteggi nei diversi sotto-campioni. Infatti, come possiamo vedere dai risultati, i soggetti che hanno subìto la perdita di un genitore entro i tre anni superano il cut-off dell’SCL-90-R sia alla prima che alla seconda somministrazione. Soggetti che invece hanno subìto la perdita del genitore fra i 3 e i 10 anni superano il cut-off in un numero molto inferiore rispetto al gruppo di controllo. Quest’ultimo dato potrebbe dipendere dallo status psicopatologico dei caregiver ma, non avendo somministrato l’SCL-90-R ai genitori del gruppo di controllo, non è possibile verificare questo dato. Per quanto riguarda i punteggi dell’EAT-40, anche qui si evidenzia una diminuzione dei punteggi riportati al test dai ragazzi fra la prima e la seconda somministrazione. Come riporta Corcos (2006), l’età media di comparsa dei disturbi precoci del comportamento alimentare è di circa 11 anni e la sintomatologia è nel complesso identica a quella che si osserva nella forma tipica dell’adolescenza. Durante la pubertà è il corpo che dall’essere indifferenziato da quello della madre subisce passivamente i cambiamenti dello sviluppo puberale che riattivano i processi di differenziazione e individuazione (Blos, 1967). In questa fase il corpo, “garante della continuità” (Carau, Fusacchia, 2006), si pone come punto di intersezione fra continuità e discontinuità: Ladame (1998) ha sottolineato la centralità del corpo per l’adolescente come mezzo di riconoscimento e sperimentazione della realtà3. Se durante le fasi precoci della vita del bambino, questi non ha però avuto la possibilità di costruire la propria identità attraverso lo sguardo della madre, in questo periodo il ragazzo affronterà difficilmente questa nuova fase di separazione dai genitori. Dai nostri risultati emerge infatti che i ragazzi che hanno vissuto una perdita genitoriale nei primi tre anni di vita riportano alla prima somministrazione (durante la pubertà) alti punteggi per quanto riguarda i comportamenti alimentari disadattivi. Questo trova spiegazione nel fatto che il 3
De Mijolla-Mellor, riprendendo i concetti espressi da Ladame, ha parlato della “relazione Io-corpo” che “viene a sostituirsi al rapporto Io-l’altro” nei pazienti psicotici (in Pensare la psicosi. Una lettura dell’opera di Piera Aulagnier, Roma, Borla, 2001).
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ragazzo può aver perso la figura materna o che quest’ultima poteva essere immersa nelle dinamiche del lutto coniugale; infatti, come riporta Corcos (2006), in momenti di smarrimento, di impotenza, di impedimento, o di lutto profondo, la madre può essere incapace di sintonizzarsi con i bisogni emotivi del bambino. Ciò che quest’ultimo vede, e di cui in parte si nutre attraverso lo sguardo della madre, dipende da ciò che essa riesce a trasmettere e da ciò che il bambino riesce a percepire e a rappresentarsi. Storicamente è stato messo in luce che durante la pubertà i ragazzi affrontano i cambiamenti corporei e si rivolgono verso se stessi, mentre durante la media e tarda adolescenza si separano dalle figure genitoriali e costruiscono una propria identità. Dai nostri risultati si può vedere infatti come i comportamenti alimentari disadattivi decrescano nell’intero campione nel passaggio dalla pubertà alla media-tarda adolescenza. Anche per quanto riguarda le esperienze dissociative riportate dai ragazzi notiamo una significativa diminuzione fra la pubertà e l’adolescenza. Numerosi studi riportano infatti che i soggetti in età evolutiva esibiscono un range di comportamenti dissociativi4 che decrescono con l’età; la tendenza a dissociare raggiunge un picco verso i 9-10 anni e declina nell’adolescenza fino a dei livelli bassi e stabili nella prima età adulta (Putnam, 1993; Sanders, Braun, Kluft, 1989). Coerentemente con questi dati, gli adolescenti esaminati riportano minori esperienze dissociative rispetto alla prima somministrazione. L’andamento dei comportamenti dissociativi decresce in tutti i gruppi, anche se possiamo notare come gli adolescenti che hanno subìto la perdita del genitore nei primi tre anni di vita riportano punteggi superiori rispetto agli altri due gruppi. Abbiamo inoltre notato che, come sottolinea la letteratura scientifica più recente (Kalter, 2002; Raveis, Siegel, Karus, 1999) non ci sono differenze significative fra la perdita del padre e quella della madre nello sviluppo emotivo-adattivo dei ragazzi, tranne che per l’ansia fobica: i soggetti in età evolutiva che hanno perso la figura paterna sembrano riportare, infatti punteggi maggiori in questa sottoscala dell’SCL90-R. Il dato più interessante del nostro studio si riferisce al rapporto fra la psicopatologia dei genitori e disturbi nei figli. Ravi et al. (2009) riportano infatti che sia le madri che i padri di adolescenti con anoressia nervosa riportano punteggi elevati di sintomi ossessivi-compulsivi, ostilità, depressione ed ansia, mentre Clark et al. (2004) riportano che la psicopatologia, sia materna che paterna, può essere associata ad un possibile rischio per lo sviluppo di problemi internalizzanti ed esternalizzanti nei figli adolescenti. Inoltre, i risultati dello studio di Liakopoulou et al. (2010) mostrano che genitori di bambini con disturbi ossessivo-compulsivi riportano punteggi elevati in ossessioni, compulsioni, ansia, depressione e sensibilità interpersonale. Coerentemente con questi studi, i nostri risultati mostrano che la psicopatologia genitoriale predice significativamente i punteggi dell’SCL-90-R dei figli adolescenti 4
È opportuno ricordare che i comportamenti dissociativi qui discussi si differenziano dalla dissociazione psicopatologica per come ad esempio la definisce Bromberg (in Standing in the Spaces: Essays on Clinical Process, Trauma, and Dissociation, Hillsdale, NJ, The Analytic Press, 1998).
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e che tutti i figli di genitori che riportano punteggi globali all’SCL-90-R superano anch’essi il cut-off. Il presente studio, inserito in un filone di ricerca più ampio e ancora da approfondire, indica l’utilità clinica di indagare la psicopatologia del genitore rimasto in vita a seguito di un lutto poiché le conseguenze di questo sembrano compromettere lo sviluppo del bambino che ha perso l’altra figura genitoriale. Thompson et al. (1991) riportano che soggetti che hanno perso il coniuge continuano a mostrare alti livelli psicopatologici anche dopo 30 mesi dal lutto e, come sottolineano Kirwin e coll. (2005), la perdita di un genitore in età evolutiva, se non supportata nelle fasi precoci dello sviluppo possono sviluppare seri disturbi emozionali e comportamentali che possono comportare alcuni disturbi psichiatrici maggiori. Questi dati sono importanti al fine di prevenire lo sviluppo di una psicopatologia nei figli. Una genitorialità positiva può avere un impatto particolarmente forte per bambini che hanno vissuto la perdita di un genitore o un divorzio (Tein, 2007), perché contrasta il senso di insicurezza e di abbandono, collegati con i problemi di salute mentale che possono insorgere nei soggetti in età evolutiva che hanno sperimentato queste esperienze (Wolchik et al., 2002; Wolchik et al., 2008). Vediamo quindi quanto possa essere importante il sostegno alla relazione fra i bambini ed ai genitori colpiti dal lutto del coniuge. Un intervento mirato a sostenere la relazione fra pre-adolescenti e genitore potrebbe diminuire il rischio di un peggioramento delle difficoltà psicologiche in adolescenza e rinforzare le risorse già presenti nel ragazzo e nel genitore come fattori di protezione verso l’insorgenza di una psicopatologia. La nostra ricerca possiede però dei limiti. Innanzi tutto non sono state indagate alcune variabili come la modalità con cui è avvenuta la morte del genitore. Come sottolinea Dowdney (2000) è importante andare ad indagare anche come è avvenuta la morte del genitore, se vi è stato un omicidio, un suicidio o se la morte è avvenuta dopo una lunga malattia. Inoltre, la nostra ricerca non ha tenuto in considerazione la rete sociale che può essere stata di supporto al pre-adolescente durante il suo sviluppo: un buon rapporto sia con la rete della famiglia allargata che con i pari, rapporto fondamentale in questo periodo evolutivo, possono essere importanti fattori di protezione che vanno indagati maggiormente. Un altro limite riguarda l’utilizzo di strumenti self-report. Infatti una valutazione tramite questa tipologia di strumenti può non sempre essere una strategia di valutazione adeguata, soprattutto in caso di adolescenti o adulti con disturbi di personalità, a causa di una possibile difficoltà di porsi in una dimensione prospettica e a causa delle distorsioni prodotte dai meccanismi difensivi, che si riflettono sui resoconti selfreport (Westen, Shedler, 1999). Riassunto Il presente studio, sulla perdita di un genitore nell’infanzia quale evento altamente traumatico, è la continuazione di una ricerca precedente (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012) ed ha lo scopo di valutare il cambiamento del funzionamento psicologico globale dal periodo preadolescenziale a quello adolescenziale in un campione non referred, indagando l’impatto della perdita di un caregiver significativo (la madre o il padre) avvenuta nell’infanzia sul profilo psicologico attuale. Abbiamo analizzato tre gruppi spe-
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cifici: 1) ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di perdita di un caregiver significativo nei primi tre anni di vita; 2) ragazzi che hanno esperito tale evento dai tre ai dieci anni; 3) un campione di controllo in cui non si sono verificati eventi di perdita di figure significative nell’infanzia. Abbiamo somministrato agli adolescenti gli stessi questionari self-report, somministrati precedentemente dagli Autori (Cimino, Monniello, Sinesi, 2012): 1) l’SCL-90-R (Derogatis et al., 1973), 2) l’EAT-40 (Garner e Garfinkel, 1979), 3) l’A-DES (Armstrong, Putnam, Carlson, 1990). Inoltre, per quanto riguarda i primi due gruppi, è stato somministrato anche l’SCL-90-R al genitore rimasto in vita. I risultati mostrano che vi è una sensibile diminuzione dei punteggi ai test riportati dai ragazzi nel passaggio dalla pre-adolescenza alla medio-tarda adolescenza. I ragazzi che hanno subìto la perdita di un caregiver entro i primi 3 anni di vita continuano però a riportare punteggi più elevati rispetto agli altri 2 gruppi. Inoltre la ricerca ha mostrato che la psicopatologia genitoriale potrebbe essere significativamente associata a specifici punteggi dell’SCL-90-R dei figli adolescenti. Parole chiave Lutto durante l’infanzia, Adolescenza, Disturbi alimentari, Esperienze dissociative, Funzionamento psicologico.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 105-123
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Studio di un campione di preadolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) attraverso una scala di funzionalità globale (C-GAS) Study of a sample of preadolescents with Specific Learning Disorder (SLD) through a global functioning scale (C-GAS) Flavia Capozzi*, Antonia Petrone*, Sara Del Signore*, Serena Rossetti*
Summary The aim of this study was to evaluate the overall functioning, through the C-GAS scale, of a sample of 100 preadolescents with a diagnosis of Specific Learning Disorder (SLD). Were searched correlations between this functioning and: emotional-behavioral problems (measured by CBCL and YSR scales); intrinsic factors to the SLD (measured by speed reading MT tests); intellective level (measured using the intellective scale WISC-III); external factors to the SLD (socioeconomic level, measured by the Hollingshead scale). The results seem to show that children with SLD present a comprehensive framework of functioning (C-GAS) described in most cases to moderately low scores (with an average of 58.71 at the C-GAS). Statistical analysis showed significant correlations between scores obtained with the C-GAS scale and: the scores of CBCL scales investigating skills; the scales of CBCL relating to internalizing, externalizing and total problems; the scores obtained with the scale of YSR on the aggressive component; the values from the evaluation of socio-economic status. There is no correlation between the score obtained to C-GAS and MT tests (speed) and between C-GAS and the values of IQ (except for a low correlation with the Total IQ). Key words Global functioning – Specific Learning Disorder – Preadolescents – Psychosocial factors.
Disturbo Specifico di Apprendimento I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disordini di origine neurobiologica che interessano e alterano specifici processi di apprendimento (Rutter, Yule, 1975), inclusi nell’asse I del DSM IV (American Psychiatric Association, 2002) in cui ritroviamo i disturbi diagnosticati per la prima volta in infanzia e adolescenza. Nel 2010, con l’articolo 1 della legge 170, “Nuove norme in materia di Disturbi Specifici di Apprendimento in ambito scolastico”, si è asserito che i DSA non inclu* Dipartimento
di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.
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F. CAPOZZI - A. PETRONE - S. DEL SIGNORE - S. ROSSETTI
dono handicap o disabilità e che pertanto verranno identificati solo se non associati a patologie neurologiche o sensoriali; l’attività didattica dunque dovrà essere gestita da insegnanti curriculari e non tramite sostegno ad personam, avvalendosi di misure compensative e dispensative. L’attuale interesse nei confronti di tali Disturbi ha favorito e permesso il moltiplicarsi di studi volti all’indagine epidemiologica che, in Italia, ha assunto solo negli ultimi anni un valore rilevante nella valutazione della gravità del problema oltre che nella organizzazione dei servizi e nella verifica dei risultati (Penge, Levi, 2002). Fattori condizionanti sono l’età, in base alla quale l’andamento appare a U rovesciata con un massimo di prevalenza tra gli 8 e i 10 anni, e il sesso, in relazione al quale i maschi appaiono dalle 2 alle 4 volte più rappresentati delle femmine. I manuali di classificazione internazionali, DSM IV e ICD 10 (World Health Organization, 1992), riportano una prevalenza dei DSA che oscilla tra il 2 e il 12% della popolazione generale; secondo Levi (2010) 3 bambini-ragazzi su 100, se si valuta tutta l’età scolare, presentano un DSA, in 2 casi su 3 preceduto da un Disturbo Specifico di Linguaggio e/o da un Disturbo Specifico della Coordinazione Motoria. Per la maggior parte di questi soggetti è possibile e, ovviamente, auspicabile una prima valutazione già intorno ai 5-7 anni, solo in un caso su 4 l’alterazione emerge e si presenta tardivamente posticipandone di 4-5 anni l’individuazione. Tali percentuali ben concordano con le numerose dimostrazioni della ormai ampiamente nota e confermata partecipazione genetica nell’acquisizione delle abilità di lettura. Gli studi di Gayàn e Oslon (2001) hanno dimostrato tale correlazione con lo sviluppo della Dislessia in coppie di gemelli; Fisher e Francks (2006) riconoscono in una serie di geni coinvolti nella migrazione neuronale la base della predisposizione alla Dislessia. Il coinvolgimento dei fattori genetici, comprovato dalla altissima concordanza tra gemelli omozigoti, risulta attestato dalla identificazione di 9 loci genomici (DYX1-DYX9) definiti “loci per la Dislessia” (Schumacher et al., 2006; Schumacher et al., 2007), o meglio loci che contengono geni di suscettibilità per lo sviluppo della Dislessia. La copiosità di tali ricerche, tuttavia, non permette di spiegare completamente l’alta variabilità dello sviluppo individuale come l’altrettanto elevata variabilità dei fattori che sottendono un DSA, rendendo ancor oggi impossibile definire con precisione indicatori di rischio certi e univoci. La Consensus Conference del 2010 (Ministero della Salute) espone in maniera dettagliata quei fattori di rischio per i quali è di chiaro riscontro un’associazione positiva con lo sviluppo di un DSA, descritti e riportati secondo un ordine decrescente in base alla forza delle prove scientifiche esistenti: esposizione a più di due anestesie generali entro i primi quattro anni di vita (Wilder et al., 2009; Sprung et al., 2009); disturbo del linguaggio (Tomblin et al., 2000; Baker, Cantwell, 1987); sesso maschile (Sauver et al., 2001); storia genitoriale di alcolismo o di uso di sostanze (Martin, Romig, Kirisci, 2000); familiarità per Disturbo di apprendimento (Lyytinen et al., 2001); esposizione prenatale alla cocaina (Morrow et al., 2006). L’elevata variabilità dei fattori intrinseci ed estrinseci ai DSA sembra aumentare e divenire più complessa nella preadolescenza, non solo a causa delle specifiche
STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
107
caratteristiche emotivo-biologiche di questa fase evolutiva, ma anche per le modalità con cui queste ultime correlano con le caratteristiche proprie del DSA. Appare dunque importante valutare e osservare come il Disturbo si esprima ed evolva in questo periodo già di per sé problematico, in cui la percentuale di soggetti con disturbi psico-comportamentali risulta molto alta anche nella popolazione generale: i dati epidemiologici, ricavati dallo studio PrISMA (Progetto Italiano Salute Mentale Adolescenti, Frigerio et al., 2008), parlano di un 8-9% di preadolescenti che presenterebbe problematiche psicologiche con una prevalenza di quelle affettive rispetto ai disturbi comportamentali, e la percentuale aumenterebbe nelle età successive raddoppiando in adolescenza. Anche lo stato socio-economico partecipa alla modulazione dell’espressività e appare chiaro come un basso livello socio-culturale infici lo stato psichico del ragazzo. A questo proposito, in un editoriale pubblicato sulla rivista “Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza”, Levi (2010) esprime perplessità e preoccupazioni riguardo al rischio psicopatologico in cui incorrono i soggetti con diagnosi di DSA, definendo questi e i Disturbi Ansioso Depressivi come gli “indicatori più forti e probanti per l’ipotesi di un disturbo psichiatrico in età adulta”. Secondo la letteratura internazionale i bambini con DSA hanno da 6 a 8 volte più probabilità di sviluppare un problema psichiatrico che si manifesta generalmente con un Disturbo di Personalità. Viene quindi ulteriormente sottolineato il peso di tale correlazione ricordando che “i Disturbi di Personalità in età adulta, che potrebbero essere prevenuti in età evolutiva, riguardano oltre 4 soggetti su 100”. Su queste premesse bisognerebbe soffermarsi particolarmente alla luce del fatto che il 30-70% dei ragazzi che manifestano problemi neuropsichiatrici in preadolescenza svilupperà un disturbo psichiatrico nelle fasi successive (Roberts, Attkisson, Rosenblatt, 1998; Kim-Cohen et al., 2003). Un progetto di ricerca volto alla promozione della salute mentale in preadolescenza, che ha coinvolto diverse scuole di Roma e della Regione Lazio (Levi, Di Biasi, Tardiola, 2010), ha arruolato nello studio 2.045 ragazzi in età preadolescenziale e 204 insegnanti. Gli studenti sono stati sottoposti a una serie di questionari di autovalutazione che indagavano il funzionamento psicologico, le competenze scolastiche e sportive, l’autostima e l’immagine di sé. In relazione alla percezione che gli studenti hanno delle loro difficoltà emotive, si possono individuare due aree complessive di disagio psicologico: l’area di inibizione-dipendenza, che include il 16% dell’intero campione; e l’area di impulsività-problematiche comportamentali a cui fa riferimento il 9,4% dei ragazzi. Quest’ultima area risulta quella maggiormente esaminata dalla letteratura internazionale, che ha “enfatizzato” l’alta frequenza con cui la Dislessia si associa a comportamenti antisociali e aggressivi nei ragazzi (Rutter, Maughan, 2005). Rutter ha evidenziato come tale correlazione sembri originare da una moltitudine di fattori e, in particolare, quanto dipenda dalle caratteristiche del temperamento dei ragazzi, dalle influenze familiari, da fattori genetici e, negli adolescenti, soprattutto dalla disaffezione alla scuola indotta spesso dagli stessi problemi nell’apprendimento. Tali e tanti fattori si scontrano e crescono in un individuo che sta vivendo un periodo definito “finestra”, in cui predomina ancora una visione concreta della vita e
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delle esperienze: egli deve improvvisamente affrontare questioni nuove e impellenti, trovare un’armonia tra emozioni e ragionamenti, trovare soluzione all’ambivalenza tra volere e non volere, scoprire cosa e come volere (Erikson, 1974). Lo scontro tra cuore e cervello resta nascosto, i ragazzi si studiano guardandosi con gli occhi degli altri e assimilando il comportamento degli adulti. Il ragazzo ha, dunque, bisogno di creare una nuova immagine di sé per creare nuove relazioni, egli può in questo modo cercare di differenziarsi dagli oggetti primari, stabilire una nuova identità e definire nuovi legami (Quadrana, Monniello, 2010). La continua plasticità delle reti neurali, tipica di questa fase evolutiva, pare intervenga proprio in questa serie complessa di eventi: dagli studi di brain-imaging è emerso che la regione dorso-mediale frontale, deputata a pensare i propri pensieri, raggiunge il pieno sviluppo solo in tarda adolescenza. Per questo la capacità di comprendere il punto di vista degli altri o le intenzioni altrui si presenta ancora deficitaria o comunque non completa in preadolescenza (Gallagher, Frith, 2003; Eisenberger, Lieberman, 2004). In questo periodo di crescita e trasformazione, spesso il ragazzo arriva ai 9-10 anni già consapevole dei suoi problemi, che si sono manifestati fin dalla prima elementare come difficoltà nell’apprendimento della lettura o della scrittura, nella elaborazione e comprensione di un testo, nel ragionamento aritmetico (Cornoldi, 2007; Stella, 2010). Altrettanto frequentemente, però, tali abilità scadenti restano misconosciute o comunque minimizzate sia per la tenera età, sia poiché poco “lesive”, o meglio poco evidenti: in un precedente studio del 2011 (Capozzi, Del Signore, Di Tucci) si è evidenziato che in un campione di 49 preadolescenti, giunti per una difficoltà scolastica presso il servizio di Neuropsicologia della UOC B del Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile dell’Università “Sapienza” di Roma, i 3/5 presentavano un DSA; di questi, quasi i 3/4 affrontavano una prima consultazione solo in scuola media con forte ritardo diagnostico. Per questi motivi può accadere che il ragazzo sia impreparato di fronte alle improvvise difficoltà che sembrano scatenarsi all’ingresso in scuola media, per un aumento delle richieste didattiche o per mutamenti nell’organizzazione cognitiva e sociale (Di Brina et al., 2005), non avendo mai palesato prima rilevanti inadeguatezze, e non avendo mai neanche ricevuto indizi da familiari o insegnanti al riguardo. La sottovalutazione delle iniziali difficoltà, da parte di genitori, insegnanti o centri specialistici stessi, diventa responsabile dell’ulteriore riduzione delle potenzialità del ragazzo impoverendo il processo di apprendimento e conoscenza. Dal punto di vista dell’ apprendimento, nella scuola secondaria i DSA si caratterizzano per un aumento delle performance con incremento dei valori di rapidità e correttezza della lettura, che però non si accompagnano a un migliore rendimento scolastico probabilmente a causa di un aumento della discrepanza fra richieste e prestazioni: le difficoltà tecniche di lettura sembrano risolte mentre residuano problemi nella scrittura e nella comprensione del testo, con anomalie nella capacità di sfruttare il linguaggio orale per programmare quello scritto; aumenta il tempo necessario allo studio, la specificità delle materie, le richieste dei professori e la metodologia basata su lezioni frontali, che portano a una maggiore autonomia da parte dell’alunno (Pen-
STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
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ge, 2010; Cornoldi, 2007). L’ iter scolastico può diventare impossibile, non a caso il DSA non supportato è una delle prime cause attuali di dispersione scolastica. Tuttavia il Disturbo Specifico di Apprendimento è un disturbo che va ad interessare molti aspetti della crescita, non solo l’ ambito scolastico, e in una fase così critica come la preadolescenza non è né accettabile né sufficiente che venga studiato solo da un punto di vista cognitivo-neuropsicologico. Vanno analizzate altre aree come quelle psico-comportamentali, sociali e di adattamento. Spesso, infatti, i bambini/ ragazzi con DSA possono manifestare una riduzione delle competenze funzionali, responsabili di un “impairment” relazionale (Molteni, 2011), scarsa autostima e problemi emotivi e comportamentali (Maughan, Carrol, 2006). Uno studio francese (Fluss et al., 2008) ha mostrato come la prevalenza dei DSA varia dal 3,3%, nei soggetti provenienti da famiglie ad alto livello socio-culturale, al 24,2% nei soggetti il cui ambiente familiare si caratterizza per un livello socio-culturale particolarmente basso. Comprendere le relazioni tra Dislessia, problemi psico-sociali e bassa autostima diventa essenziale per lo sviluppo di strategie di intervento e prevenzione. Terras, Thompson e Minnis (2009) hanno esaminato il grado di autostima e la presenza di problemi emotivo-comportamentali in 68 ragazzi (età media 11,2 anni) con Dislessia utilizzando due questionari compilati dai ragazzi e dai genitori. La percezione delle competenze scolastiche appare significativamente più bassa rispetto alla popolazione generale e, alla SDQ, le sottoscale relative alla presenza di sintomi emotivi, problemi di condotta, iperattività, problemi di relazione con i pari e difficoltà totali presentano lo stesso andamento. Per questo potrebbe risultare utile l’uso di una scala come la C-GAS che permette di riassumere l’andamento psicosociale del soggetto in un unico indice in maniera semplice e rapida, e di essere applicata sia nel contesto clinico, sia nei follow-up, sia in ambito di ricerca. Inoltre, tale scala ha il vantaggio di permettere di assimilare e confrontare campioni anche molto diversi tra loro dal punto di vista etnico o geografico (Rey, Starling, Wever, 1995). La validità della C-GAS non è del tutto comprovata nonostante correli abbastanza bene con la CBCL in ambito clinico ed epidemiologico: punteggi significativamente più bassi di C-GAS sono stati riscontrati in soggetti afferiti ai centri di Salute Mentale rispetto al campione di controllo (Bird et al., 1987). Nel 2006 in India alcuni ricercatori (Prabhuswamy et al., 2006) hanno utilizzato la scala C-GAS per valutare il funzionamento globale di un gruppo di 33 bambini/ragazzi (8-16 anni) che avevano manifestato un rifiuto della scuola: l’87,9% del campione presentava una diagnosi per disturbi depressivi o di ansia. Il punteggio medio alla C-GAS era di 50,15 (moderatamente basso) ma risaliva fino a 68,17 (medio-alto) a tre mesi dallo studio, quando 20 soggetti su 33 si erano reintegrati in ambito scolastico. Obiettivo del lavoro L’obiettivo del presente studio è quello di valutare se un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA), quindi un Disturbo settoriale dello sviluppo e non glo-
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F. CAPOZZI - A. PETRONE - S. DEL SIGNORE - S. ROSSETTI
bale, possa determinare una riduzione del livello di funzionamento globale (C-GAS). A tale scopo abbiamo esaminato il funzionamento globale, ossia le competenze e le abilità socio-comportamentali, di una coorte di preadolescenti (mediante l’utilizzo della scala C-GAS) all’interno dei loro tre ambienti di vita principali: nell’interazione con i coetanei, in ambito scolastico e all’interno del contesto familiare. Muovendo dall’ipotesi che il funzionamento globale possa essere influenzato da fattori a loro volta associati alla presenza o allo sviluppo di un DSA, si sono ricercate, in un secondo momento, correlazioni e interazioni tra la C-GAS e alcuni tra questi fattori: problemi psico-comportamentali, gravità del disturbo di lettura, livello intellettivo, livello socio-economico. Soggetti e metodi Il campione è costituito da 100 preadolescenti con un’età media di 12,79 anni (range: 10,83-14,66) e rappresentato da 31 femmine e 69 maschi. I soggetti sono afferiti presso il Servizio di Neuropsicologia della UOCB del Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile dell’Università “Sapienza” di Roma nel periodo compreso tra il 26/01/2007 e il 13/11/2011 e hanno ottenuto una valutazione diagnostica per Disturbo Specifico di Apprendimento secondo il protocollo in uso nel Servizio: raccolta anamnestica; intervista strutturata al soggetto in esame e ai genitori sugli aspetti psico-comportamentali; valutazione cognitiva e neuropsicologica degli apprendimenti scolastici, linguistici e visuo-motori; eventuali indagini neurobiologiche. La diagnosi di DSA è stata effettuata considerando i seguenti criteri: normodotazione intellettiva, rilevata attraverso un punteggio di quoziente intellettivo totale della scala WISC-R (Wechsler Intelligence Scale for Children – Revised; Wechsler, 1974) o WISC III (Wechsler Intelligence Scale for Children – III; Wechsler, 2006) uguale o superiore a 85, con almeno una delle due scale (QIV e QIP) superiore a 90; presenza di una caduta di almeno due deviazione standard rispetto alla classe frequentata, in almeno uno dei parametri (rapidità, correttezza e comprensione) delle prove MT (Cornoldi, Colpo e Gruppo MT, 1981); assenza di disturbi neuromotori, neurosensoriali e psicopatologie primarie. Dal protocollo valutativo in uso presso il servizio, sono stati presi in considerazione i seguenti dati: dati anamnestici: età, classe frequentata, provenienza, familiarità, età dei genitori, scolarità e professione dei genitori da cui si è ricavato lo status socioeconomico familiare tramite la scala di Hollingshead (1975); informazioni relative al funzionamento globale nel periodo immediatamente precedente al momento della valutazione per ottenere il punteggio alla scala C-GAS; risultati ottenuti alla WISC-R o WISC-III, uno dei test più utilizzati per la valutazione dell’intelligenza globale. Viene somministrato a bambini/adolescenti di età compresa tra i 6 e i 16 anni e testa le abilità cognitive di base
STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
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fornendo sia il QI globale, sia il QI di performance (QIP, somma dei punteggi ponderati dei subtest di performance), sia il QI verbale (QIV, somma dei punteggi ponderati dei subtest verbali); punteggi ricavati dalla somministrazione della CBCL (Achenbach, 1991a) e dello YRS (Achenbach, 1991c) che sono, rispettivamente, la versione per i genitori e per l’adolescente di uno dei questionari di valutazione del profilo emotivo-comportamentale più diffusi e utilizzati a livello internazionale. Ideato e validato da Achenbach presso l’Università del Vermont, il questionario indaga il profilo sociale e comportamentale di bambini/ragazzi tra i 6 e i 18 anni. Nella prima parte analizza la qualità delle relazioni sociali (con genitori, fratelli, amici, coetanei) e la partecipazione o meno ad attività scolastiche, sportive o in ambito familiare. Nella seconda parte 118 item sono stati raggruppati in otto scale sindromiche relative ognuna a un quadro problematico: ansia/depressione, ritiro, lamentele somatiche, problemi del pensiero e nell’attenzione, comportamento delinquenziale e aggressivo. Da questi dati si ricavano poi il punteggio di internalizzazione, esternalizzazione e totale; punteggi ottenuti alle prove di rapidità di lettura MT, elaborate presso l’Istituto di Psicologia di Padova dal gruppo di ricerca MT (1981). Le prove MT di lettura comprendono anche la valutazione della correttezza e della comprensione nella lettura del brano. La velocità rappresenta il livello di automatizzazione del processo e viene espressa in sillabe per secondo: quante sillabe il bambino riesce a leggere in un secondo. La correttezza rappresenta il livello di adeguatezza nella conversione e viene espressa in numero di errori rapportati poi alla media dell’età scolare considerata. La comprensione del testo rappresenta l’uso funzionale della lettura. La C-GAS (Children’s Global Assessment Scale; Shaffer et al., 1983), la scala di funzionalità globale del bambino/adolescente, è uno degli strumenti più utilizzati nella valutazione della severità dell’alterazione funzionale dei bambini e degli adolescenti dai 4 ai 16 anni. Il suo utilizzo è raccomandato dal DSM e inserito nella Kiddie-SADS (un’intervista diagnostica per la valutazione dei disturbi psicopatologici, passati e attuali, in bambini e adolescenti secondo i criteri del DSM-III-R e del DSM-IV). La scala di Shaffer è derivata dall’analoga GAS (Global Assessment Scale) per l’adulto, sviluppata da Endicott et al. nel 1976 e divenuta nel 1998 Global Assessment Functioning (GAF, DSM-III-R; Schorre, Vandvik, 2004). La scala C-GAS propone la descrizione di esempi di storie cliniche, sintomi o ridotti funzionamenti in relazione alle tre aree indagate: funzionamento globale in ambito familiare, scolastico e nei rapporti con i pari. I valori ricavati hanno un range che va da 1 (condizione di massima compromissione funzionale, ma anche comportamentale, comunicativa, dell’esame di realtà) a 100 (funzionamento ottimo e al di sopra della media in tutte le aree indagate). I punteggi sono poi suddivisi in 10 livelli, ciascuno di 10 punti: sotto i 61 si individuano le situazioni patologiche, tra i 61 e i 70 quelle limite, sopra i 70 siamo nel range di normalità. I dati del nostro studio sono stati ricavati utilizzando le informazioni provenienti dalle cartelle cliniche dei soggetti inclusi nel campione.
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Partendo dalle medie dei valori relativi alle variabili considerate, abbiamo applicato l’analisi delle Correlazioni tra i valori ottenuti con la scala C-GAS e le altre variabili in esame: le scale della CBCL e dello YSR, il SES, il QI (verbale, di performance e totale) e i valori relativi al parametro rapidità delle prove MT. Successivamente le dieci fasce del C-GAS sono state ulteriormente ridotte a due gruppi allo scopo di ampliare il numero di soggetti presenti in ogni gruppo e di permettere l’analisi della Varianza Multivariata tra la media ottenuta con il C-GAS e le medie dei valori delle variabili della CBCL, dello YSR, della WISC-III, delle prove MT di rapidità in lettura e del SES. Il primo gruppo (funzionamento “alto”) comprende i soggetti inclusi nelle fasce con punteggi compresi tra 61 e 100; il secondo gruppo (funzionamento “basso”) è rappresentato dai soggetti con punteggi compresi tra 60 e 0. Risultati I punteggi medi (Tabella 1) del nostro campione evidenziano alla C-GAS un funzionamento globale medio di 58,71 (DS di 12,95). Tabella 1. Statistiche descrittive.
Media
D std.
Asim
Curtosi
C-GAS
58,71
12,95
0,18
-1,03
CBCL Attività
39,07
9,85
0,45
-0,14
CBCL Socialità
43,99
8,37
0,07
-0,26
CBCL Scuola
36,87
5,41
-0,11
-0,5
CBCL Competenze
36,48
9,6
0,66
0,65
CBCL Disturbi d’Ansia
58,9
8,07
0,94
0,64
CBCL Inibizione
57,77
7,66
1,17
1,19
CBCL Lamentele Somatiche
58,37
7,37
0,63
-0,45
CBCL Problemi Sociali
60,52
7,99
0,4
-0,47
CBCL Problemi Pensiero
55,61
7,5
1,63
2,61
CBCL Problemi Attentivi
64,87
9,12
0,93
1,21
CBCL Disturbo Condotta
55,95
6,57
1,3
1,39
CBCL Comp. Aggressivo
58,77
8,38
0,78
-0,23
CBCL Disturbi Internalizzanti
57,86
9,96
-0,46
-0,44
CBCL Disturbi Esternalizzanti
55,8
10,19
-0,22
-0,37
CBCL Disturbi Int/Est
58,76
9,1
-0,35
-0,21
113
STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
CBCL Problemi Affettivi
59,19
7,7
0,34
-0,85
CBCL Problemi d’Ansia
57,65
7,65
0,68
-0,58
CBCL Problemi Somatici
56,84
7,32
0,94
0,47
CBCL ADHD
61,7
7,72
0,28
-0,38
CBCL Dist. Opp.-Provocatorio
58,04
8,15
0,45
-0,18
CBCL Disturbo Condotta
56,68
7,2
0,85
0,17
QI Totale
96,22
12,06
0,78
0,76
QI Verbale
94,09
13,91
0,14
1,12
QI Performance
97,68
14,43
-0,71
2,34
YSR Disturbi d’Ansia
57,49
7,27
0,8
0,14
YSR Inibizione
57,49
7,4
0,91
-0,09
YSR Lamentele Somatiche
56,93
7,05
1,08
0,59
YSR Problemi Sociali
58,52
8,48
1,53
3,91
YSR Problemi Pensiero
54,85
6,73
2,1
5,18
YSR Problemi Attentivi
61,46
9,47
1,29
2,08
YSR Disturbo Condotta
54,41
5,6
1,9
4,74
YSR Comp. Aggressivo
58,94
9,5
1,45
2,76
YSR Disturbi Internalizzanti
56,47
10,52
0,3
0,83
YSR Disturbi Esternalizzanti
54,91
10,96
0,42
1,96
YSR Disturbi Int/Est
56,71
10,57
0,3
1,99
YSR Problemi Affettivi
56,81
7,7
0,99
1,03
YSR Problemi d’Ansia
56,24
7,99
1,5
5,23
YSR Problemi Somatici
55,78
6,48
0,59
-0,06
YSR ADHD
58,71
8,52
1,39
3,72
YSR Dist. Opp.-Provocatorio
57,79
9,39
1,71
3,29
YSR Disturbo Condotta
56,04
7,35
0,91
2,95
MT rapidità lettura
36,97
15,82
1,99
4,88
Status Socio-Economico totale
36,04
14,34
-0,01
-1,18
La media dei punteggi relativi ai comportamenti di adattamento sociale individuati dalla CBCL, completata dai genitori, rientra nel range di normalità (>35). Per quanto riguarda le medie delle otto scale sindromiche e dei punteggi ottenuti alle scale internalizzante, esternalizzante e totale, non si osservano né valori clinici
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F. CAPOZZI - A. PETRONE - S. DEL SIGNORE - S. ROSSETTI
(>70) né border (65-70), lo stesso andamento si evidenzia nelle medie dei punteggi delle scale sindromiche, internalizzante e esternalizzzante dello YSR, compilato dal ragazzo. Tuttavia è importante osservare la percentuale dei punteggi che rientrano nel range dei valori clinici e borderline alle scale internalizzante, esternalizzante e totale della CBCL (Tabella 2): alla scala dei problemi totali il 30% dei ragazzi riporta punteggi clinici e il 26% punteggi borderline; alla scala relativa ai problemi internalizzanti i punteggi clinici e borderline riguardano rispettivamente il 30 e il 16% del campione; per la scala dei problemi esternalizzanti il 20% dei soggetti rientra nel range dei valori clinici e il 18% in quello dei valori borderline.
Tabella 2. Percentuale dei punteggi clinici e borderline alle scale internalizzante, esternalizzante e totale della CBCL nel nostro campione. Punteggi borderline (60 – 65)
Punteggi clinici (>65)
CBCL int
16%
30%
CBCL est
18%
20%
CBCL tot
26%
30%
Lo status socio-economico (SES) del campione si esprime con una media pari a 36,04 (DS di 14,34), un livello moderatamente alto. I valori medi di QIV, QIP e QIT rientrano nella normalità e sono rispettivamente: 94,09; 97,68 e 96,22 (DS di 13,9; 14,4; 12). Per le prove MT di rapidità si osserva una media di 36,97 secondi (DS 15,82). In riferimento ai soggetti inclusi nel campione, i punteggi medi ottenuti nei test considerati e gli indici di asimmetria e curtosi per questi calcolati, indicano una distribuzione complessivamente approssimabile alla normale. Dall’analisi delle variabili appena descritte nel campione esaminato, emergono correlazioni significative (Tabella 3a, 3b, 3c) tra i valori ricavati con la scala C-GAS e i punteggi ottenuti con alcune scale della CBCL e dello YSR, nei sub-test totali relativi al QI e nella valutazione dello status socio-economico. In particolare la C-GAS correla in maniera significativa, moderata e positiva (per p < 0,01) con i punteggi ottenuti alle scale della CBCL che indagano competenze quali attività, competenze sociali, scolastiche e totali (CBCL A, S, Sc, C). Si evidenzia una correlazione significativa moderata e negativa (per p <0,01) tra la C-GAS e le scale sindromiche della CBCL che descrivono problemi di inibizione, di ritiro sociale, del pensiero, di attenzione, di affettività, di condotta; e tra la C-GAS e le scale internalizzante, esternalizzante e totale della CBCL (CBCL I, Ps, Pp, Pa, Di, De, Die, Paff, Dc-IV). La correlazione è significativa moderata e negativa (per p <0,01) anche tra C-GAS e le scale dello YSR che indagano problemi di ritiro sociale e di aggressività (YSR Ps, Ca). Inoltre la C-GAS mostra una correlazione significativa, bassa e positiva (per p <0,05) con i valori relativi al QIT; significativa, bassa e negativa (per p <0,05) con alcune scale sindromiche della CBCL e dello YSR: per
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STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
la CBCL sono interessate le scale che valutano la presenza di sintomi indicativi di ansia, di disturbi della condotta, di aggressività, di deficit di attenzione e iperattività e di oppositorietà (CBCL Da, Dc, Ca, Ans2, ADHD, Dop); per lo YSR la scala dei problemi esternalizzanti, la scala totale e le scale relative ai problemi di ansia e di condotta (YSR De, Die, Da, Dop). Non si evidenziano correlazioni tra la C-GAS e i sub-test di performance e verbale relativi al QI, e tra la C-GAS e il grado di gravità del disturbo di lettura valutato tramite il parametro rapidità con le prove MT (Tabella 3c). I valori ricavati nella valutazione del livello socio-economico sono correlati in maniera maggiormente significativa e positiva (per p <0,01) con il punteggio ottenuto alla C-GAS. Tabella 3a. Correlazioni C-GAS*CBCL. CBCL Variabile1 C-GAS
A
S
Sc
C
Da
I
Ps
Pp
Pa
Dc
Ca
Di
De
Die
Paff
ADHD Dop Dc-IV
,346** .342** .434** .454** .234* .397** .401** .305** .274** .251* .225* .371** .269** .362** .414**
.198*
.220* .268**
Note.**:p< 0,01; *: p< 0,05; 1: A = Attività, S = Socialità, Sc = Scuola, C = Competenze, Da = Disturbi d’Ansia, I = Inibizione, Ps = Problemi Sociali, Pp = Problemi Pensiero, Pa = Problemi Attentivi, Dc = Disturbo della Condotta, Ca = Comportamento Aggressivo, Di = Disturbi Internalizzanti, De = Disturbi Esternalizzanti, Die = Disturbi Internalizzanti/Esternalizzanti, Paf = Problemi Affettivi, ADHD = Attention Deficit Hiperactivity Disorder, Dop = Disturbo Oppositivo-Provocatorio, Dc-IV = Disturbo della Condotta DSM IV-Oriented, QIT = Quoziente Intellettivo Totale, Ses = Status Socio-Economico, MT-R = Prova MT rapidità lettura brano.
Tabella 3b. Correlazioni C-GAS*YSR. YSR Variabile1 C-GAS
Ps
Ca
De
Die
Da
Dop
.274**
.281**
.239*
.230*
.212*
.204*
Note.**:p< 0,01; *: p< 0,05; 1: Ps = Problemi Sociali, Ca = Comportamento Aggressivo, De = Disturbi Esternalizzanti, Die = Disturbi Internalizzanti/Esternalizzanti, Da = Disturbi d’Ansia, Dop = Disturbo Oppositivo-Provocatorio.
Tabella 3c. Correlazioni C-GAS*QIT; C-GAS*Ses; C-GAS*MT-R. Variabile1
QIT
Ses
MT-R
C-GAS
.246*
.264**
.195
Note.**:p< 0,01; *: p< 0,05; 1: QIT = Quoziente Intellettivo Totale, Ses = Status Socio-Economico, MT-R = Prova MT rapidità lettura brano.
Dopo aver riorganizzato le dieci fasce della C-GAS in due grandi gruppi, si è condotta l’analisi della Varianza Multivariata tra la media ottenuta con la C-GAS e le medie dei valori delle variabili della CBCL, dello YSR, della WISC-III, delle prove MT di rapidità in lettura e del SES.
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I risultati mostrano (Tabella 4) un effetto principale della C-GAS rispetto a tutte le componenti della CBCL eccetto quelle che indagano i problemi sociali, i disturbi somatici, i problemi di iperattività e oppositori. Rispetto allo YSR l’effetto principale si rileva solo nel subtest che indaga la componente di aggressività. Inoltre, si evidenzia un effetto principale tra le medie della C-GAS, disaggregate per i livelli di funzionamento “alto” e “basso”, e le medie ottenute dall’analisi dello stato socio-economico. Non si osserva nessun effetto della C-GAS rispetto al parametro rapidità di lettura della prova MT, rispetto al QI e rispetto alle scale internalizzante, esternalizzante e totale dello YSR.
Tabella 4. Test degli Effetti fra i gruppi: Confronto fra i punteggi medi ottenuti rispetto al Ses, al CBCL e allo YSR nei Gruppi Alto(+)/Basso(-) CGAS.
Scala1
CBCL A
CBCL Sc
CBCL C
CBCL Ans
CBCL I
CBCL Ps
CBCL Pp
CBCL Pa
CBCL Pc
CBCL Ca
CBCL Di
CGAS2 + (n= 45) - (n= 54)
Mean
Std. D.
+
42,82
10,56
-
35,94
8,07
+
39,42
4,87
-
34,87
4,95
+
40,60
10,31
-
33,06
7,47
+
56,67
7,56
-
60,85
8,09
+
54,40
5,55
-
60,54
8,15
+
57,18
6,54
-
63,15
8,12
+
53,47
6,77
-
57,48
7,68
+
62,62
9,20
-
66,76
8,78
+
54,09
5,28
-
57,59
7,17
+
56,91
8,26
-
60,46
8,22
+
53,93
10,06
-
61,19
8,76
F
Sig.
8,694
0,004
15,733
0
11,796
0,001
11,823
0,001
16,716
0
18,125
0
8,084
0,005
6,278
0,014
7,456
0,008
5,46
0,022
20,777
0
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STUDIO DI UN CAMPIONE DI PREADOLESCENTI CON DSA
CBCL De
CBCLDie
CBCL Paf
CBCL Da
CBCL Dc-IV
YSR Ca
Ses
+
53,11
9,79
-
58,19
10,07
+
55,44
8,50
-
61,56
8,80
+
55,84
5,97
-
62,13
7,84
+
55,87
7,00
-
59,13
7,99
+
54,80
5,88
-
58,35
7,85
+
56,56
6,76
-
60,91
11,04
+
40,81
13,93
-
32,44
13,52
7,878
0,006
16,216
0
25,26
0
5,872
0,017
6,774
0,011
4,863
0,03
6,224
0,014
Note. 1: A = Attività, Sc = Scuola, C = Competenze, Ans = ansia scale sindromiche, Da = Disturbi d’Ansia, I = Inibizione, Ps = Problemi Sociali, Pp = Problemi Pensiero, Pa = Problemi Attentivi, Dc = Disturbo della Condotta, Ca = Comportamento Aggressivo, Di = Disturbi Internalizzanti, De = Disturbi Esternalizzanti, Die = Disturbi Internalizzanti/Esternalizzanti, Paf = Problemi Affettivi, Dc-IV = Disturbo della Condotta DSM IV-Oriented, QIT = Quoziente Intellettivo Totale, Ses = Status Socio-Economico. 2: C-GAS + = alto funzionamento globale, CGAS - = basso funzionamento globale.
Le statistiche descrittive mostrano come un soggetto con C-GAS alto abbia punteggi più alti nelle scale della CBCL relative alle “competenze” rispetto ai soggetti con basso livello di funzionamento. Nelle scale sindromiche della CBCL, per le quali è stato evidenziato l’effetto principale della C-GAS, si osservano punteggi più bassi, indicativi di una presenza minore di disturbi emotivo-comportamentali, nei soggetti con funzionamento “alto”. Lo stesso vale per la componente aggressiva valutata allo YSR, per la quale si rilevano valori più bassi nei soggetti con C-GAS alto. L’effetto principale tra C-GAS e SES viene descritto da valori medi relativi al livello socioeconomico moderatamente più alti nel gruppo con funzionamento “alto”. Discussione e conclusioni Il primo dato rilevante emerge dalla media dei valori relativi al funzionamento globale dei bambini inclusi nel campione in esame (Tabella 1). La media dei punteggi ricavati dalla C-GAS, infatti, mostra che questi bambini presentano un grado moderato di compromissione dell’adattamento e del funzionamento globale e difficoltà saltuarie che di solito interessano più aree sociali. Il 50% del campione ottiene alla C-GAS punteggi inclusi nell’intervallo compreso tra 51 e 70, più del 30% del campione presenta una compromissione ancora maggiore della funzionalità globale con punteggi tra 31 e 50, meno del 20% dei bambini mostra un funzionamento
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moderatamente buono o buono, con valori di C-GAS tra 71 e 90. I dati, dunque, sono indicativi di una generale inadeguatezza, seppur lieve, al di là del disturbo di apprendimento, espressa come difficoltà di adattamento e di interazione sociale, di relazione con i compagni, nelle attività scolastiche o sportive, nell’ ambiente familiare con i genitori e con i fratelli. Inoltre, nonostante i preadolescenti con DSA non sembrino mostrare in media maggiori problemi psico-comportamentali, come evidenziano le medie dei valori relativi alle scale internalizzante, esternalizzante e totale della CBCL, è importante tuttavia sottolineare che la percentuale dei soggetti con punteggi che rientrano nel range dei valori clinici risulta maggiore di quella osservabile nella popolazione generale. In particolare i valori clinici riguardano 30 ragazzi su 100 per le scale internalizzante e totale e 20 su 100 per quella esternalizzante (Tabella 2). La percentuale dei disturbi psico-comportamentali appare ancora più alta se confrontata con un gruppo di preadolescenti di controllo dello studio PrISMA (Figura 1) che riportava un 8,2% di punteggi clinici alla scala dei problemi totali della CBCL, 6,5% alla scala relativa ai problemi internalizzanti e 1,2% alla scala dei problemi esternalizzanti.
Figura 1 - Percentuale dei punteggi clinici alle scale internalizzante, esternalizzante e totale della CBCL nel nostro campione e nello studio PrISMA. 30,0%
30,0%
20,0%
Studio C -G AS PrISMA
8,2%
6,5% 1,2% C BC L int
C BC L est
C BC L tot
Dall’analisi delle relazioni tra la C-GAS e le variabili considerate, si evince una correlazione moderata e positiva con i subtest della CBCL che indagano le competenze, una correlazione quindi tra funzionamento globale e competenze sociali, scolastiche e nelle attività quotidiane (Tabella 3a). Rilevante appare anche la correlazione moderata e negativa con alcune scale sindromiche della CBCL che indagano sui problemi psico-comportamentali osservati dai genitori. Nei bambini con un grado di compromissione maggiore del funzionamento generale vengono descritti più di frequente sintomi inibitori, di chiusura, di isolamento, spesso associati a una pronunciata presenza di disturbi somatici quali mal di testa, mal di pancia, nausea e vomito, incubi notturni e disturbi del sonno. La C-GAS inoltre, presenta una correlazione moderata e positiva anche con i valori ricavati dallo stato socio-economico familiare (Tabella 3c): sembra che i bambini
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provenienti da ambienti familiari a più alto SES abbiano un funzionamento globale più congruo e meno compromesso. L’ambiente familiare e il suo livello economicoculturale potrebbero intervenire nello sviluppo e nell’acquisizione delle abilità di relazione necessarie alla crescita del bambino all’interno dei contesti caratteristici e fondamentali per la sua vita e per la sua età. Altro dato interessante è la mancanza di correlazione tra C-GAS e i valori di QI (eccetto una correlazione bassa con il QIT), e tra C-GAS e il parametro rapidità di lettura. Le caratteristiche specifiche del DSA e del profilo cognitivo non sembrano condizionare il funzionamento globale del ragazzo e la capacità di interagire con gli altri e di acquisire una buona sicurezza di sé nei suoi ambiti di interesse. I 3/4 dei bambini con DSA esaminati nel nostro campione hanno un funzionamento limitato, non perfettamente adeguato, che non correla con la gravità del disturbo, bensì con l’organizzazione psico-comportamentale della personalità e con le condizioni socioeconomiche del suo ambiente familiare. La compromissione del funzionamento globale può essere intesa come compromissione della qualità di vita, che spesso si associa a problematiche emotivo-comportamentali e sociali e che in adolescenza o in età adulta possono prendere la forma di patologie psichiatriche o quadri di dissocialità. Inoltre un disturbo settoriale, come il Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), non sembra determinare da solo un peggioramento del funzionamento globale. Il basso funzionamento sembra invece determinato e influenzato da una costellazione negativa di elementi associati al DSA (fattori socio-ambientali e caratteristiche psico-comportamentali individuali). Un bambino con DSA non è solo un bambino che scrive o legge male o lentamente, è un bambino con difficoltà a inserirsi nel gruppo dei coetanei, spesso isolato o allontanato dai pari, è un bambino che si esprime poco ed esprime poco le sue preoccupazioni, è un bambino che non partecipa alle attività scolastiche ed evita i momenti di socializzazione. Individuare queste problematiche significa individuare un nucleo psicopatologico ancora poco manifesto ma che col tempo potrebbe ampliarsi generando sintomi e disturbi di entità maggiore e ancor più disabilitanti, significa evitare che un bambino che legge male decida di abbandonare i suoi percorsi e progetti di conoscenza e di crescita. I preadolescenti con DSA rappresentano una popolazione estremamente “vulnerabile” pertanto una diagnosi di DSA, anche se tardiva sul piano riabilitativo e didattico, perché formulata solo in preadolescenza, può risultare utile e puntuale in un’ottica di prevenzione. La valutazione e la diagnosi possono infatti ridare al ragazzo un’immagine positiva di sé e del suo funzionamento, stimolare la fiducia nelle sue potenzialità da cui dipenderà il suo progetto futuro, renderlo più consapevole dei suoi punti di forza ma anche delle sue debolezze. La conoscenza dei propri limiti da parte del bambino e della sua famiglia permette loro di fare scelte di indirizzo scolastico e sociale più idonee. In questo la legge 170/2010 può rappresentare un aiuto poiché nasce con la finalità di garantire il diritto all’istruzione e assicurare eguali opportunità di sviluppo delle capacità in ambito sociale e professionale. Propone, inoltre, anche la possibilità di adottare nuove forme di verifica e di valutazione adeguate alle necessità
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formative degli studenti, e sottolinea la necessità di preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori nei confronti delle problematiche legate ai DSA. L’OMS (2004) definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, in quest’ottica la diagnosi può diventare un momento di raccordo tra aspetti biologici e psicologici nella valutazione dello stato di salute globale del bambino nel suo ambiente (Engel, 1977). Il “wellbeing” individua nel concetto di salute non solo l’assenza di malattia, ma anche la presenza di qualcosa di positivo. Keyes (2007) ha proposto 13 dimensioni specifiche e rappresentative del “well-being”, raggruppate in tre aree: benessere emotivo, psicologico, sociale. L’assenza di segni manifesti di malattia non è sinonimo di salute. Spesso tra gli adolescenti e i preadolescenti uno stadio “intermedio” di malattia risulta associato a uno scarso livello funzionale-relazionale e a un alto rischio per la comparsa di condizioni peggiori di malessere psicofisico (Keyes, 2006). Un approccio dicotomico nella valutazione della malattia mentale oscura la natura stessa della malattia e la comorbilità con molti disturbi cronici. Ridurre i casi diagnosticati di malattia non equivale necessariamente a favorire o incrementare la percentuale di soggetti che vivono in uno stato di pieno e completo benessere. La salute mentale non è quindi una condizione di “tutto o nulla” ma un continuum caratterizzato da diversi livelli di “well-being”. Riassunto Con il presente studio è stato valutato il funzionamento globale, mediante la scala C-GAS, di un campione di 100 preadolescenti con diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA). Sono state ricercate correlazioni tra detto funzionamento e: problemi emotivo-comportamentali (rilevati tramite le scale CBCL e YSR); fattori intrinseci al DSA (misurati tramite le prove MT di rapidità in lettura); livello intellettivo (misurato tramite la scala intellettiva WISC-III); fattori esterni al DSA (livello socioeconomico, valutato tramite la scala di Hollingshead). I risultati sembrano dimostrare che i bambini con DSA presentino un quadro globale di funzionamento (C-GAS) definito nella maggioranza dei casi da punteggi moderatamente bassi (con una media di 58,71 al C-GAS). L’analisi statistica ha mostrato correlazioni significative tra i punteggi ottenuti con la scala C-GAS e: i punteggi ottenuti alle scale della CBCL che indagano le competenze; le scale della CBCL relative ai problemi di internalizzazione, di esternalizzazione e totali; i punteggi ottenuti con la scala dello YSR relativa alla componente aggressiva; i valori relativi alla valutazione dello stato socio-economico. Non è presente correlazione tra il punteggio ottenuto alla C-GAS e le prove MT (rapidità) e tra C-GAS e i valori di QI (eccetto una bassa correlazione con il QIT). Parole chiave Funzionamento globale – Disturbo Specifico di Apprendimento – Preadolescenti – Fattori psicosociali.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 124-145
Modalità interattive e stati emotivi nella comunicazione bambino/caregiver: una ipotesi patogenetica dei Disturbi Psicopatologici nei DSL Interactive modality and emotions in child/caregiver communication: a pathogenetic hypothesis of Psychopathological disorders in Specific Language Impairment Anna Fabrizi1, Lucia Carli2, Cristina Frioni3, Serena Galosi4, Ester Patruno5, Paola Rosi6
Summary Our pursuit is part of a line of research upon the relationship between the emergence of childhood psychopathology and early Specific Language Disorder. For that reason we support a unitary evolutional approach to speech-language pathology and developmental psychopathology, in view of interactive-relational and attachment theories. The objective of this study is to look into the presence of atypical-recurrent pattern present in Specific Language Disorder at an early stage, to see whether the disorder inserted into the mother-child dyad, altering, and if the child’s Verbal Comprehension Level would represent an important discriminative during interactive-affective-communicative exchange. For this purpose is used a tool of analysis of the caregiver’s communicative style, built on the assumption that the exchange of dialogue acts simultaneously on communication and attachment styles.Our results are discussed on the assumption that the difficulties interactive-communication in dyads mother/child SLD represent a significant weakness on the psychopathology in children. Key words Specific Language Impairment – Psychopathological Comorbidity – Maternal verbal communication.
1 Già Professore associato. Università degli Studi di Roma-Sapienza. Docente presso l’Università degli Studi de L’Aquila. 2 Professore ordinario. Università degli Studi di Milano – Bicocca. 3 Terapista della Neuropsicomotricità dell’Età Evolutiva. Centro Convenzionato Casa Giocosa SRL, Roma. 4 Medico in formazione specialistica in Neuropsichiatria Infantile. Università degli Studi di Roma-Sapienza. 5 Psicologa Psicoterapeuta Specialista in Psicologia Clinica. 6 Psicologa. Centro Convenzionato AssoHandicap, Marino, Roma.
MODALITÀ INTERATTIVE NELLA COMUNICAZIONE BAMBINO/CAREGIVER
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Introduzione Negli ultimi 40 anni numerosi studi hanno dimostrato una comorbidità sostanziale tra Disturbi Specifici del Linguaggio (DSL) e problemi emotivo-comportamentali (Levi et al., 1977; Cantwell e Baker, 1991; Silva et al., 1987; Beitchman, 1996; 2001; Cohen et al., 1998; Tomblin et al., 2000). Il progressivo abbassamento dell’età in cui l’associazione è stata riscontrata ha posto molti problemi di interpretazione sul piano teorico e di scelte sul piano metodologico (Stevenson e Richman, 1985). Sul piano metodologico è stata sottolineata l’importanza di selezionare casistiche pure (Benasich et al., 1993) e di utilizzare strumenti non solo sufficientemente tarati per l’età, ma anche costruiti per valutare adeguatamente la complessità clinica del problema, vale a dire strumenti di valutazione con buona sensibilità e buona specificità (Beitchman et al., 1996; 2001; Fabrizi et al., 2000). In particolare gli studi condotti sui bambini sotto i tre anni, hanno evidenziato una specifica difficoltà nella scelta degli strumenti. Infatti, mentre gli studi condotti su popolazioni generali utilizzando strumenti di screening compilati dai genitori (LDS, ASQ) hanno evidenziato un’associazione tra DL e DPP statisticamente significativa solo per popolazioni molto numerose (N>1000) (Rescorla e Achenbach 2002), forti associazioni sono state riscontrate su campioni clinici selezionati (Irwin et al., 2002; Ross e Weimberg, 2006; Fabrizi et al. 2000; 2003). Sul piano teorico ciò ha portato a ritenere che i DPP non emergono come una difficoltà secondaria e tardiva al DSL, al contrario il rischio precoce e bidirezionale dimostrato tra i due ordini di patologie ha determinato importanti nuove linee di ricerca e in particolare: 1) la ricerca di fattori eziopatogenetici di immaturità neuroevolutiva che spieghi entrambi i disturbi; 2) la necessità di un approccio evolutivo unitario (diagnostico e terapeutico) che consideri linguaggio ed emozioni in una prospettiva evolutiva; 3) il cambiamento dell’approccio alla patologia del linguaggio e alla psicopatologia dello sviluppo nella prospettiva delle teorie interattivo relazionali e dell’attaccamento. Modelli di sviluppo interattivo relazionale Modelli evolutivi interattivi sono stati formulati per spiegare sia i processi neuroevolutivi che lo sviluppo comunicativo-linguistico ed emotivo-relazionale. Molti studi hanno evidenziato già da tempo che le interazioni tra genitore, bambino e ambiente contribuiscono allo sviluppo del bambino in modo dinamico e reciproco riflettendosi sulle capacità di adattamento precoce. Il presupposto erroneo secondo cui il cervello nel periodo prenatale riflette rigidamente programmi genetici deterministici è stato ormai sostituito dalla consapevolezza che l’esperienza ha un ruolo critico nello sviluppo cerebrale. Il modello transazionale è basato sull’idea dell’interazione tra programmi genetici per i processi evolutivi e modificatori ambientali nel senso di un’influenza reciproca
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tra il bambino e il suo ambiente di crescita (Siegel, 2001; Vigotsky, 1954; Wood et al., 1976). Le ricerche psicobiologiche stanno rivelando che i sistemi omeostatici di madre e bambino sono interconnessi l’uno all’altro all’interno di un’organizzazione superordinata: attraverso processi regolatori “nascosti” il sistema nervoso più maturo e differenziato del genitore agisce come elemento regolatore esterno per lo sviluppo dei sistemi omeostatici del bambino ancora immaturi. La modificazione investe le strutture cerebrali di entrambi i membri della diade modificandole da un punto di vista funzionale e strutturale, processo in cui l’esperienza, rappresentata dall’interazione con l’adulto significativo, riveste un ruolo centrale (Sansovini, 1998; Schore, 1994; 1996; 2001). Nell’arco del primo anno di vita le capacità del bambino di partecipare a forme di scambio comunicativo con l’adulto crescono enormemente con una sempre maggiore capacità di coinvolgimento del bambino che culmina in scambi affettivi molto intensi resi possibili dalla risonanza del genitore. Si tratta di quelle che Trevarthen (1990) chiama “Brain-to-brain interaction” che si realizzano durante le interazioni face-to-face (Tronick, 1989) nell’ambito di una relazione affettivamente valida e che sembrano essere di fondamentale importanza per la crescita cerebrale stimolando la produzione di neurotrofine e la sinaptogenesi. Alla fine del primo anno di vita il bambino è già in grado di segnalare con intenzionalità tutta una serie di stati d’animo e di bisogni, ma nei primi mesi di vita è il genitore a dover interpretare le sue richieste. Fogel (1993) riferendosi a questo processo di regolazione messo in atto dal genitore ma guidato dal bambino parla di “co-regulation”, Tronick (1989) di “mutual regulation”, Beebe e Lackmann le hanno denominate” co-costructing interactions”. Feldman (1996; 1999) spiega che la madre sincronizzandosi con i tempi di attenzione del bambino ne promuove le capacità di regolazione, migliora i suoi tempi di attenzione e pone le basi per lo sviluppo della comunicazione verbale. La capacità della madre di creare una dinamica interattiva contingente e reciproca serve a facilitare nel bambino la comprensione sociale dell’adulto come “agente intenzionale” (Tomasello, 1995). La capacità materna di cogliere l’oggetto dell’attenzione visiva del bambino o di comprenderne l’intenzione comunicativa o i comportamenti esplorativi, rispondendo ad essi in modo adeguato, è definita “sensibilità”. Numerosi studi hanno dimostrato il ruolo della sensibilità materna rispetto allo sviluppo del linguaggio del bambino (Tamis-LeMonda et al., 2001; Paavola et al., 2005). La condivisione di forme di significato progressivamente più convenzionali porta il bambino a scoprire e a padroneggiare le relazioni significante-significato caratteristiche del codice linguistico. Un aspetto dell’input linguistico, che sembra facilitare l’acquisizione del linguaggio, è la cosiddetta “contingenza semantica”, ovvero la replica della madre semanticamente collegata alla precedente espressione del bambino che tende a prolungare lo scambio comunicativo (Snow e Nathan, 1987). L’espansione/estensione della madre del precedente enunciato del bambino produce effetti positivi sia sulla comprensione che sulla produzione linguistica del bambino (Cross, 1977) che sull’acquisizione della sintassi (Nelson, 1998).
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Le caratteristiche comunicative nella diade sono state anche rapportate al modello di attaccamento del bambino al caregiver (Crittenden, 1997). Ciò in base all’assunto che il genitore nel rispondere ai bisogni del bambino gli trasmette modelli di relazione, inizialmente attraverso pattern affettivo-relazionali, successivamente attraverso il dialogo verbale sulle esperienze vissute (Bretherton, 1995). A sua volta il bambino elabora le comunicazioni del genitore in configurazioni relazionali che gli permettono di adattare il proprio comportamento a quello del caregiver. Modalità di sviluppo comunicativo interattivo nei DSL Le ricerche riguardanti lo studio delle caratteristiche della comunicazione genitore-bambino con Disturbo di Linguaggio si sono poste l’obiettivo di verificare se l’esperienza interattiva e linguistica di cui usufruiscono questi bambini sia simile o differente da quella che si rileva per i bambini con sviluppo tipico. Lo sviluppo linguistico, inteso come un fenomeno interindividuale, si realizza all’interno di un contesto sociale e affettivo nel quale l’adulto assume una funzione tutoriale che ha caratteristiche di “responsività” e “sensibilità”. Il grado di “responsività” può variare in funzione di diversi fattori; tra questi: il livello di sviluppo globale raggiunto dal bambino e la percezione che l’adulto ha del bambino stesso. Questi due elementi contribuiscono a creare un particolare contesto che può essere più o meno adatto a promuovere e sostenere lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino (Paul et al., 1991; Longobardi, 2007). Particolarmente a rischio per quanto riguarda le caratteristiche assunte dal sistema interattivo sono le situazioni di ritardo o atipia nello sviluppo linguistico (Fabrizi et al., 2000). I ritardi, i deficit, le atipie dello sviluppo interferiscono in modo diretto sulla qualità e sulle modalità di elaborazione dell’esperienza e delle relazioni con il mondo esterno, sulla regolazione/organizzazione cognitiva, sulla qualità dell’interazione, mentre l’impatto specifico della disabilità modifica le risposte dell’ambiente e, in particolare, il disturbo specifico comunicativo si configura nel sistema familiare come un nucleo di fragilità in grado di alterare e distorcere le risposte interattive dei genitori (Emde e Buchsbaum, 1989; Fabrizi et al., 1996; 2000; Sameroff, 2006; Stern, 1989; 1995). L’adulto, nella comunicazione con un bambino affetto da disturbo linguistico, diventa spesso meno “comprensibile”, non parla con lui in maniera congrua, utilizzando tutto il ventaglio delle funzioni comunicative e linguistiche per farsi comprendere, ma tende a sollecitare nel bambino una produzione verbale sganciata da nessi pragmatico-semantici reali. Il bambino, di conseguenza, ha maggiori difficoltà ad imparare le strategie linguistiche e comunicative necessarie in uno scambio comunicativo efficace. Questa atipia d’uso delle funzioni comunicative attuata verso il bambino e dal bambino con DSL incide particolarmente nel gioco tra Comprensione (CV) e Produzione Verbale (PV), che il bambino dovrebbe utilizzare per integrare le produzioni verbali materne con le proprie; il bambino non attiva correttamente le
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funzioni comunicative per analizzare il messaggio verbale degli altri in tutte le sue regole linguistiche e allo stesso tempo i messaggi verbali che produce mancano delle componenti necessarie per farsi capire (Levi et al., 2007). Disturbi psicopatologici e DSL precoci: ipotesi patogenetiche I presupposti teorici illustrati ci hanno guidato nella nostra ricerca sulla comprensione dei nuclei patogenetici precoci che spieghino l’emergenza di disturbi psicopatologici nei bambini con disturbo di linguaggio sotto i tre anni di età. In due primi studi condotti su bambini DSL tra i 18 e i 36 mesi, la nostra attenzione era focalizzata sulle caratteristiche del profilo neurocognitivo e neurolinguistico del bambino e sulla gravità e pervasività del disturbo linguistico, che potessero influenzare l’eventuale presenza del disturbo psicopatologico. I nostri risultati hanno messo in evidenza, in linea con studi internazionali effettuati in età successive, che la gravità del disturbo linguistico altera il funzionamento cognitivo e lo sviluppo del pensiero verbale del bambino ed incide sull’emergenza precoce di difficoltà emotivocomportamentali. E in particolare la prevalenza e la distribuzione dei diversi disturbi psicopatologici sembra variare in rapporto alla presenza o meno di un deficit di Comprensione Verbale insieme al deficit di Produzione Verbale (Fabrizi et al., 2000, 2003). Sul piano delle difficoltà interattivo comunicative tra bambino DSL e genitori abbiamo studiato sia le interazioni diadiche madre/bambino che triadiche padre/ madre/bambino. Lo studio sull’interazione diadica conferma la presenza di maggiori difficoltà comunicative e interattive nelle diadi in cui il bambino ha maggiori difficoltà di CV. Viene alterata la capacità reciproca di utilizzare indici chiari nella decodifica delle situazioni, degli scambi comunicativi e della regolazione degli stati affettivi. Lo studio delle interazioni famigliari triadiche ha permesso di evidenziare condizioni di funzionamento di tipo ansioso che coinvolge l’intera famiglia, dove anche la cogenitorialità e il rapporto coniugale vengono messi in crisi dal disturbo del bambino (Fabrizi et al., 2010). In due lavori successivi abbiamo indagato quale possa essere il ruolo della presenza di una psicopatologia materna sull’emergenza precoce di un disturbo psicopatologico del bambino, anche quando il campione DSL selezionato è soltanto espressivo (difficoltà solo in PV), e quanto sul disturbo emotivo-comportamentale del bambino possa incidere la tipologia della percezione materna del disturbo del figlio, diversa nei diversi disturbi genitoriali (Fabrizi et al., 2008; 2009). Nello studio attuale intendiamo soffermarci in modo specifico sullo stile comunicativo assunto dalle madri durante l’interazione con il bambino DSL in età infantile. A tale scopo consideriamo utile utilizzare uno strumento costruito appositamente e basato sull’approccio comunicativo all’attaccamento così come viene descritto da Bretherton (1990; 1997) e come viene utilizzato nello strumento proposto da Carli, Castaldi e Nasuelli (2003). Nei lavori di Bowlby (1973, 1980) venivano già sottolineati i vantaggi, ma anche i
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rischi impliciti negli scambi verbali genitore-bambino per la formazione dei modelli operativi, costitutivi dei modelli di attaccamento. Nello specifico vengono analizzate le possibili deformazioni dell’esperienza operate dal genitore tramite comunicazioni volte a falsificare od omettere la realtà vissuta dal bambino. Il conflitto tra ciò che il bambino vive nella realtà e l’intervento distorcente del genitore, viene risolto a favore dei modelli forniti dall’autorità genitoriale, determinando nel bambino configurazioni relazionali che mantengono gli schemi difensivi genitoriali. In altri casi l’intervento del genitore può essere carente per una propria mancanza di strumenti comunicativi atti ad affrontare le proprie emozioni e inquadrarle in una cornice coerente. In questo caso il bambino non riceve il supporto necessario per integrare e organizzare le esperienze emotive sia positive che negative vissute, e non può quindi costruire gli strumenti narrativi che gli consentono di elaborare le problematiche di attaccamento e di relazione che incontra. Cosa succede tra genitore e bambino quando il bambino non possiede sin dalle prime fasi dello sviluppo strumenti comunicativi e linguistici adeguati? Quanto viene influenzato lo stile comunicativo del genitore dai possibili fallimenti nello scambio comunicativo con un bambino che non parla? Quali funzioni può assumere il linguaggio materno se il bambino oltre a non parlare comprende anche poco o affatto il linguaggio dell’altro? Quali conoscenze, quali informazioni, quali emozioni, quali modelli di relazione può veicolare in questo caso il linguaggio materno? L’interesse principale del presente studio è quello di indagare le atipie interattive e comunicative presenti nel Disturbo Specifico di Linguaggio già in fase precoce, verificando se e quanto il disturbo si inserisca nella diade madre-bambino, disturbandola, e se il livello di comprensione verbale possa essere, anche in questo caso una discriminante rilevante nello scambio comunicativo-interattivo ed emotivo. La comprensione verbale va intesa come un indicatore multidimensionale che si sviluppa tipicamente attraverso processi intermodali e che riveste, così, un ruolo centrale nei processi di sviluppo linguistico, cognitivo, sociale ed affettivo, in modo particolare nella prima infanzia (Fabrizi et al., 2003). Comprendere quali siano le conseguenze in termini di caratteristiche dell’interazione genitore-bambino quando questa funzione è deficitaria significa individuare indici diagnostici e prognostici precoci per poter intervenire sul disturbo in maniera specifica, andando a modificare le variabili familiari, interattive e relazionali, che possono determinare a loro volta un alto rischio evolutivo nel bambino. Ipotesi di lavoro Lo scopo della presente ricerca è quello di verificare la presenza di pattern atipici ricorrenti nell’interazione-comunicazione tra madre e bambino con Disturbo di Linguaggio precoce; in particolare, come le difficoltà nello scambio interattivo-comunicativo possa essere influenzato dal livello di Comprensione Verbale del bambino, essendo questa, soprattutto in fase precoce, il motore trainante le diverse competenze comunicative, cognitive, emotive e dell’attaccamento.
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Già in un precedente lavoro (Fabrizi, Giamundo, Setaro, 2002), focalizzato nella comprensione dell’atipia di sviluppo nell’attaccamento e nei modelli operativi interni dei bambini con Disturbo dello Sviluppo, è stato sottolineato come lo stile interattivo-comunicativo dell’adulto venga notevolmente influenzato dal percorso evolutivo atipico del bambino sin dalle fasi più precoci, determinando, nel DSL, un dècalage della partecipazione nella diade. Verificare quanto un Disturbo Specifico di Linguaggio del bambino condizioni lo stile comunicativo materno e analizzare quanto e in che modo il livello di Comprensione verbale incida sullo scambio interattivo-comuniactivo-affettivo, ci consente di evidenziare con maggiore precisione i pattern diadici atipici, fornendoci indici predittivi per una diagnosi differenziale precoce, e un intervento terapeutico mirato. Campione Il gruppo clinico, è stato selezionato all’interno di una vasta casistica di bambini afferiti nel nostro Centro. È costituito da ventidue coppie madre-bambino, con un’età compresa tra i diciotto e i trenta mesi, di cui 6 femmine e 18 maschi. Tutti i bambini presentano diagnosi di Disturbo Specifico di Linguaggio, suddivisi in due gruppi: DSL Misto e DSL Espressivo, in base ai criteri del DSM IV R, attraverso i risultati ottenuti con i nostri strumenti (Batteria Neurolinguistica, Questionario MacArthur nella versione italiana PVB (Caselli, Capirci, Casadio, 1995). Sono stati esclusi dal campione tutti i soggetti che presentavano una evidente comorbidità con altri disturbi (come Disturbo Multisistemico dello Sviluppo, Ritardo Globale di Sviluppo, ADHD, e patologie organiche, etc.) Il gruppo clinico è stato suddiviso in due sottogruppi, differenziati in base al livello di comprensione verbale (CV0 = maggiore compromissione della CV; CV1 = CV più adeguata) desunto attraverso la prova di Comprensione Prassico Linguistica (CPL), (Levi et al., 1979) che prevede l’integrazione di informazioni verbali in compiti prassici (il cut-off calcolato in base al CPL, è presentato in un lavoro di Fabrizi e colleghi (2003). Il gruppo di controllo (CTRL) è costituito da ventidue coppie madre-bambino, con età compresa tra i diciotto e i trenta mesi, di cui 13 maschi e 9 femmine, reperito all’interno della popolazione normale di due asili nido presenti sul territorio romano. I criteri di inclusione sono stati: tappe di sviluppo funzionale secondo la norma; assenza di patologia neurologica, neuropsicologica e psichiatrica del bambino; assenza di condizioni socio ambientali di deprivazione (Figura 1). Tutti i bambini, sia del gruppo clinico che di controllo, hanno effettuato una seduta di gioco madre bambino, videoregistrata, strutturata in quattro momenti distinti (Attività di gioco Strutturato e non Strutturato, momento dell’Allontanamento e della Separazione). Tutte le diadi madre/bambino dei tre gruppi sono state analizzate e differenziate in base alla qualità della relazione tramite la Scala di valutazione globale della relazione genitore-figlio (PIR-GAS) (CD 0-3 R). I punteggi ottenuti dalla scala di valutazione della relazione madre-bambino PIR-
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GAS, mostrano che le interazioni del gruppo clinico hanno ottenuto dei punteggi notevolmente inferiori rispetto al gruppo di controllo. Il gruppo (CV0) si inserisce nella categoria “ansiosa”, mentre il gruppo (CV1), in quella “significativamente perturbata”, ottenendo un punteggio rispettivamente di 50 e 60. (figure 2 e 3) Diversamente le relazioni del gruppo di controllo appaiono distribuite tra “ben adattate” e “adattate”, ottenendo un punteggio di 80 (Figura 2). Figura 1. Descrizione del campione Gruppo Clinico
Gruppo di Controllo
Mesi
M
F
Tot.
M
F
Tot.
18-22
1
2
3
2
3
5
23-25
3
1
4
4
0
4
26-30
12
3
15
7
6
13
16
6
22
13
9
22
Figura 2. Scala Pir-Gas Confronto DSL vs CTRL
Figura 3. Scala Pir-Gas: Confronto CV0 vs CV1 vs CTRL
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Strumenti Il materiale raccolto durante le osservazioni delle sedute di gioco diadico è stato integralmente trascritto e codificato. Per individuare e classificare lo “stile comunicativo materno” è stato adottato un sistema di codifica, che permette un’analisi dello stile comunicativo linguistico della madre: “Il Sistema di codifica delle proprietà funzionali della comunicazione verbale dell’adulto”. Tale strumento è stato proposto da Carli, Castaldi e Nasuelli (2003) in base all’ipotesi che lo scambio dialogico, al pari della sensibilità genitoriale ai segnali del bambino, incida sulla formazione dei modelli operativi interni e quindi sugli stili di attaccamento e sulle modalità di costruire relazioni intime con l’altro. Lo strumento mira a cogliere le proprietà funzionali della comunicazione verbale, in altre parole le funzioni svolte dalle singole unità verbali identificate nel contesto interattivo. Come unità di codifica è stato scelto l’enunciato, definito come: “Ogni espressione pienamente significante ed intonata secondo un pattern convenzionale di valore illocutivo interpretabile pragmaticamente”(Moneglia e Cresti, 1997)1. Lo strumento adottato individua tre aree di valutazione: 1) Informativo-referenziale: riguarda le comunicazioni attraverso cui il genitore fornisce o richiede informazioni su eventi oggetti, attività e persone. 2) Interattiva: si riferisce alle comunicazioni in cui l’adulto cerca di avviare, stimolare, sostenere o controllare l’interazione con il bambino. 3) Emotivo-affettiva: comprende le comunicazioni attraverso cui il genitore esprime i propri stati emotivi e le proprie valutazioni nei confronti del bambino, interpreta gli stati mentali del figlio. All’interno di ogni area sono state individuate le categorie, di ampiezza più limitata e che si escludono reciprocamente, atte a rappresentare le varie modalità in cui il caregiver mette in atto la specifica funzione comunicativa. In particolare, all’interno dell’area informativo-referenziale sono presenti categorie che identificano una comunicazione non ambigua, coerente ed adeguata come “referenziale”, “euristico”, “paradigmatico”, altre capaci di rilevare una comunicazione che fornisce informazioni falsificate ad esempio “referenziale distorcente”. All’interno dell’area interattiva sono rappresentate sia categorie riferite a comunicazioni linguistiche attraverso cui il genitore cerca in modo coerente di avviare e proseguire lo scambio interattivo con il bambino, ad esempio “sollecitazione all’interazione”, “sottolineatura dell’azione del bambino”, “invito”, “saluto” “eco” “richiamo”, sia categorie volte a controllare l’azione del bambino come “direttivo”, o a evitare un reale coinvolgimento nell’interazione con lui, ad esempio “pseudocomunicativo”, o sollecitare nel bambino un modello formale, esteriore, poco autentico, di interazione “pseudointerattivo”. 1
M. Moneglia, F. Cresti (1977), L’intonazione e i criteri di trascrizione del parlato adulto e infantile, in U. Bortolini, E. Pizzuto (a cura di), Il progetto Childes in Italia. Contributi di ricerca sulla lingua italiana, Padova, Del Cerro, 57-90.
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Infine, nell’area emotivo-affettiva, sono presenti sia le categorie riferite alla comunicazione chiara e coerente rispetto ad affetti positivi e negativi, ad esempio “approvazione”, “rimprovero”, “presa in giro benevola”, “disapprovazione”, “consolazione”, “rassicurazione”, “minaccia”, e categorie riferite ad una comunicazione apparentemente di contenuto affettivo positivo, nella quale però manca una reale partecipazione del genitore quali “pseudoespressivo” e “approvazione apparente”, e categorie riferite alla comunicazione con cui il genitore squalifica i comportamenti e le richieste del bambino oppure respinge il bambino stesso, quali “sarcasmo”, “rifiuto”, “ostilità”. Analisi dei dati L’analisi dei dati ha permesso di: 1) Verificare l’omogeneità dei due gruppi (tipico e atipico) rispetto al sesso e all’età cronologica dei bambini. Le frequenze dei due sessi nei due gruppi sono state studiate riportando le frequenze in una tabella di contingenza bidimensionale e testato con il chi-square; l’analisi non ha mostrato differenze statisticamente significative tra i due gruppi (chi-square = .910345, p=.34). Le età cronologiche osservate nei due gruppi sono state confrontate tra loro utilizzando la t di Student per gruppi indipendenti previa applicazione del test di confronto di uguagliaza delle varianze, l’analisi non ha mostrato differenze statisticamente significative tra l’età dei due gruppi (t =.9769, p =.33). Nelle fasi successive sono state eseguite analisi di confronto tra gruppi. La valutazione dei risultati del test di significatività è stata eseguita utilizzando un livello di alpha 0.05 per il rifiuto dell’ipotesi nulla (H0). 2) Confrontare le valutazioni eseguite con il PIR-GAS tra il gruppo di controllo e quello patologico. Le distribuzioni del punteggio nei due gruppi sono state descritte previo raggruppamento dei valori con intervallo di 10 score (10-19, 20-29, 30-39, ecc fino a 90). 3) Esecuzione dei test di confronto tra i due gruppi (controllo e patologico) rispetto alle variabili di studio, utilizzando la t di Student per gruppi indipendenti previa applicazione di un test di confronto di uguaglianze delle varianze. Applicazione dei test di confronto all’interno del solo gruppo patologico, opportunamente suddiviso rispetto al livello di Comprensione Verbale (maggiormente compromessa/più adeguata). Le analisi di confronto sono state eseguite utilizzando il t di Student per gruppi indipendenti previa esecuzione di test di confronto delle varianze. 4) Eseguire un’analisi di confronto tra i tre gruppi (controllo, patologico con alta Comprensione Verbale, e patologico con bassa Comprensione Verbale). Data la diversa consistenza numerica del gruppo di controllo rispetto ai restanti due gruppi, il gruppo di controllo è stato sottoposto a processo di randomizzazione per selezionare solo 11 unità statistiche che sono state inserite nell’analisi di confronto. Le analisi di confronto sono state eseguite utilizzando l’analisi della varianza (ANOVA) ad 1 criterio di classificazione; limitatamente alle sole variabili che hanno
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mostrato differenze statisticamente significative nelle ANOVA, è stato applicato il test post-hoc di Tukey-Kramer per evidenziare i gruppi che maggiormente avevano contribuito alle differenze rilevate. Risultati Nel confronto tra l’intero gruppo clinico e il gruppo di controllo, emerge che le madri dei bambini con DSL forniscono al figlio un numero di informazioni inferiore rispetto al gruppo CTRL, inserendo all’interno dello scambio comunicativo alcune informazioni di tipo falsificato o fallito. In particolare, si nota che le informazioni, anche quando sono vere, sono spesso difficili da comprendere, perché il linguaggio usato dal genitore risulta troppo adulto (informativo non comprensibile) e le domande poste ai bambini appaiono retoriche (retorico). Talvolta, l’esperienza vissuta dal bambino è minimizzata dalla madre per una sua difficoltà nel gestire le emozioni negative del bambino, in questo caso spesso spostano sul piano informativo un problema emotivo (pseudoinformativo). Per tale motivo, nel momento in cui devono lasciare solo il bambino queste madri trovano spesso una scusa bloccando l’espressione di una possibile emozione negativa (informativo ingannevole). Diversamente, le madri dei bambini tipici forniscono al figlio molte informazioni su persone, oggetti o attività, ponendogli diverse domande per verificarne le conoscenze (euristico). Inoltre spesso ripetono l’enunciato del bambino aggiungendo elementi nuovi, per espanderlo ed ottenere, così, un enunciato più completo dal punto di vista funzionale e grammaticale (informativo-didattico-correttivo). A livello interattivo sono emerse differenze significative tra i due gruppi, in particolare nella categoria controllo e interattivo falsificato. Nel gruppo clinico le madri tendono a controllare maggiormente l’interazione con il figlio (controllo) richiamando spesso la sua attenzione (richiamo) e divenendo a volte direttive (direttivo). La sollecitazione di tipo quasi compulsivo (pseusollecitazione) non lascia al bambino il tempo di soffermarsi su qualcosa a cui ha rivolto la sua attenzione, creando così un focus solo apparentemente condiviso ed un’interazione superficiale (pseudocomunicativo). Nel gruppo di controllo invece le modalità interattive risultano adeguate poiché vi è una condivisione dell’attività ludica ed una bidirezionalità interattiva. All’interno dell’area emotivo-affettiva, i due gruppi si differenziano principalmente nella categoria affettività apparente e rifiuto, mentre lo scambio emotivo è simile per entrambi. I risultati mostrano che le madri dei bambini con DSL tendono a volte a rifiutare il comportamento o le richieste del bambino (rifiuto), disapprovando o criticando il suo comportamento (disapprovazione) o approvandolo solo apparentemente, ma senza una vera partecipazione (approvazione apparente). Nel gruppo di controllo, le madri valorizzano il comportamento del bambino scherzando affettuosamente sulle sue caratteristiche, prendendolo in giro in maniera benevola (Figure 4, 5 e 6). Il confronto effettuato tra i due sottogruppi (CV0 – CV1) tratti dal gruppo cli-
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nico in base al livello di Comprensione Verbale, ha rilevato le seguenti differenze significative. Nell’area informativa, le madri dei bambini con un basso livello di comprensione verbale (CV0) forniscono un numero di informazioni notevolmente inferiore rispetto al gruppo di confronto. Il loro stile comunicativo-linguistico appare “povero” sia di informazioni (informativo) che di espansioni/estensioni dell’enunciato del bambino (informativo didattico-correttivo). Si osserva, inoltre, che pongono poche domande al bambino per verificare le sue conoscenze (euristico) e forniscono pochi commenti di supporto all’attività condivisa (sottolineatura dell’azione). La difficoltà materna si manifesta anche all’interno dello scambio interattivo caratterizzato da alcune modalità atipiche. Le madri sollecitano poco il bambino sia ad agire da solo (invito) che ad interagire con lei (sollecitazione all’interazione); al contrario talvolta, lo sollecitano in modo incongruo, creando un focus d’attenzione solo apparentemente condiviso (pseudosollecitazione). La prosecuzione dell’interazione è spesso bloccata dalle difficoltà materne nel segnalare al bambino l’interesse autentico che prova nei suoi confronti e nel confermare ciò che sta dicendo o facendo (prendere atto). La fatica ad attivare e a mantenere l’interazione impoverisce lo scambio emotivo, che si differenzia notevolmente dal gruppo clinico di confronto. Si nota, infatti, che le madri dei bambini DSL/CV0 approvano poco il comportamento del figlio (approvazione), comprendendo poco i suoi stati mentali ed esplicitando poco sia i pensieri che le emozioni del proprio bambino (esplicitazione dei pensieri). È interessante osservare che le madri dei bambini con un miglior livello di Comprensione Verbale (CV1) si comportano diversamente nelle tre aree indagate. Nonostante i loro bambini presentino, comunque un disturbo di linguaggio, queste madri forniscono un numero più elevato di informazioni (informativo), interpretano l’enunciato del bambino arricchendolo ed espandendolo (informativo didattico-correttivo) e soprattutto ne correggono il comportamento per aiutarlo (correzione). Invitano (invito) il bambino sia a fare da solo che ad interagire, commentando l’azione condivisa, ed esortando il bambino nella prosecuzione dell’attività (sottolineatura dell’azione). Anche nell’area emotiva le madri CV1 mostrano una partecipazione attiva esplicitando i pensieri e gli stati emotivi del bambino (esplicitazione) approvando il suo comportamento (approvazione) e rassicurandolo nei momenti di disagio (rassicurazione) (Figure 7, 8 e 9). Il confronto tra tutti e tre i gruppi (CV0, CV1 e il gruppo CTRL) è stato posto ad ulteriore verifica dell’incidenza del livello della Comprensione Verbale sullo stile comunicativo-linguistico materno. I risultati ottenuti confermano che nelle tre aree studiate, il gruppo CV0 è maggiormente compromesso. A livello informativo si rileva quanto lo stile comunicativolinguistico di queste madri si differenzi significativamente da entrambi i gruppi di confronto, confermando che il livello di comprensione verbale e la gravità del disturbo pregiudicano in modo particolare questa area. Differenze considerevoli si riscontrano anche nell’area interattiva dove le madri dei bambini CV0 si differenziano, infatti, da entrambi gli altri due gruppi, ottenendo un punteggio medio notevolmente inferiore anche rispetto al gruppo CV1.
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Grazie alla capacità di iniziativa del bambino, le madri del gruppo di controllo si preoccupano meno di avviare l’interazione e di mantenerla; diversamente, le madri dei bambini CV1 cercano di attivarsi maggiormente nell’interazione con il proprio figlio, utilizzando sia le risorse interattive che emotive: il risultato ottenuto dall’analisi dell’area emotiva, mette in risalto che lo scambio emotivo nelle interazioni del gruppo CV1 è adeguato e di supporto per il bambino (Figure 10 e 11).
Figura 4. Categorie Area Informativa DSL vs CTRL
Figura 5. Categorie Area Interattiva DSL vs CTRL
MODALITÀ INTERATTIVE NELLA COMUNICAZIONE BAMBINO/CAREGIVER
Figura 6. Categorie Area Emotiva DSL vs CTRL
Figura 7. Area Informativa DSL CV vs DSL CV1
Figura 8. Area Interattiva DSL CV0 vs DSL CV1
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Figura 9. Area Emotiva DSL CV0 vs DSL CV1
Figura 10. Confronto Aree Informativa – Interattiva – Emotiva DSL CV0 vs DSL CV1 vs CTRL
Figura 11. Area Interattiva DSL CV0 vs DSL CV1 vs CTRL
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Discussione e Conclusioni I risultati raggiunti permettono di sostenere che il DSL incide sullo stile comunicativo materno, sulle modalità interattive adottate dal genitore e sulla relazione madre-bambino sin dalle fasi più precoci dello sviluppo. Inoltre emerge in modo evidente che quanto più è compromesso il livello di CV del bambino, tanto più risulta alterato lo stile comunicativo materno. Ogni gruppo studiato si caratterizza per modalità interattivo-comunicative-affettive differenti. Nel gruppo CV0 la madre sembra non essere in sintonia con i segnali del bambino e appare incapace di assumere una funzione speculare adeguata, in cui si riflettano gli stati interni del figlio; in questo tipo di relazione uno dei partner, o entrambi, appaiono provare disagio ostacolando, così, la crescita del rapporto diadico, che appare rigido e bloccato. Una severa compromissione della comprensione crea difficoltà nelle madri, incidendo notevolmente sul loro stile comunicativo e sulle “naturali” capacità di interagire con il figlio, determinando uno stile comunicativo “povero” ed “incongruo”: la scarsità delle informazioni fornite ai bambini, rappresenta un rischio di ulteriore impoverimento del linguaggio con un aggravamento del disturbo stesso. Queste madri non sembrano capaci di utilizzare i canali essenziali su cui si organizza la comunicazione con il figlio: sembrano confuse su quanto e come il bambino comprenda il linguaggio, tanto da non riuscire a capire quali strumenti privilegiare per interagire con lui, sollecitandolo in maniera compulsiva e utilizzando a volte modalità di tipo “direttivo” o di “controllo”. Le difficoltà nel gestire le emozioni negative del figlio, implica una riduzione di enunciati che esprimano gli stati emotivi del bambino, o che approvino il suo comportamento, ostacolando, talora il passaggio esplicito di affetti. Quando il DSL non è tale da compromettere eccessivamente la comprensione verbale (CV1), le relazioni sono meno disturbate, apparendo talvolta tese, ma abbastanza soddisfacenti per entrambi i membri della diade. Le madri di questi bambini partecipano attivamente all’interazione con il bambino, comunicando con lui verbalmente ed emotivamente e manifestando minori difficoltà interattive. Nonostante la preoccupazione per il disturbo del bambino, cercano di attivarsi nell’avviare l’interazione con il figlio, utilizzando le risorse personali e facendo leva sulla capacità di comprensione del bambino. Inoltre, creano con lui un focus d’attenzione e d’azione condiviso e mantengono attiva l’interazione commentando l’attività che stanno svolgendo insieme, e poi lo invitano a fare da solo. Cercano di aiutare il bambino nell’acquisizione del linguaggio denominando gli oggetti o le attività svolte, fornendo informazioni ed espandendo il precedente enunciato del bambino per renderlo completo dal punto di vista funzionale e grammaticale. Le relazioni del gruppo di controllo sono caratterizzate da interazioni sincrone e reciproche, risultano piacevoli per entrambi i partner e rappresentano uno stimolo per la crescita della coppia.
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Lo stile comunicativo adottato da queste madri risulta adeguato nei diversi ambiti esaminati, rappresentando per il bambino un valido sostegno per il suo sviluppo. Il linguaggio utilizzato, semanticamente contingente, è costituito da modellamenti, da estensioni/espansioni (ripetizioni corrette di forme scorrette del bambino) e da esplicitazioni degli stati emotivi e dei pensieri del bambino. Le interazioni diadiche sono basate su un ricco scambio di informazioni, sul coinvolgimento emotivo dei partner nello scambio e su un certo grado di bidirezionalità e reciprocità. Se facciamo riferimento alla teoria dell’attaccamento in chiave dinamico-maturativa, così come previsto da Crittenden (1997), possiamo affermare che i processi e i percorsi di sviluppo prevedibili nei tre gruppi di bambini analizzati sono molto diversi tra di loro. Le modalità di elaborazione delle informazioni cognitive e affettive acquisite attraverso gli scambi verbali e non verbali con i genitori, danno luogo nei bambini a configurazioni della relazione diversificate. Allo stile comunicativo coerente e responsivo delle madri dei bambini tipici sembra corrispondere nei bambini una configurazione di attaccamento di tipo sicuro. Lo stile comunicativo incoerente e fuorviante delle madri dei bambini DSL/CV0, sembra rendere i bambini fortemente insicuri ed evitanti, e a tratti disorganizzati. Lo stile comunicativo delle madri dei bambini DSL/CV1, affidabile sul piano affettivo ma controllante, sembra determinare un attaccamento con caratteristiche di tipo ansioso. Queste nostre ipotesi sembrano trovare parziale conferma in un precedente lavoro da noi svolto confrontando bambini DSL, con bambini con Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, oltre che con bambini tipici. Anche in quel caso abbiamo riscontrato che bambini con DSL confrontati con bambini tipici presentavano più frequentemente un modello di attaccamento insicuro (Fabrizi et al., 2002). Nello studio attuale tuttavia risulta più chiaro il ruolo rilevante della CV nella comunicazione diadica. La compromissione degli aspetti recettivi nei bambini con DSL rappresenta un ostacolo al coinvolgimento attivo e creativo del bambino, inibendo a sua volta le naturali capacità materne ad interagire con il figlio. Questo dato, rilevando l’importanza dell’interscambio all’interno dell’interazione, evidenzia che, quando il bambino ha grandi difficoltà ad inviare i messaggi di ritorno alla madre e a rivolgere attenzione all’interazione, la madre sembra meno capace di interagire e supportare il figlio. D’altro canto un contesto interattivo e linguistico che offre poche possibilità al bambino di apprendere nuove conoscenze atte a sviluppare le sue capacità, rende più difficoltoso il percorso di sviluppo dei bambini ed è forte elemento di rischio sul piano psicopatologico. L’importanza dei fattori che il sistema di codifica adottato ha messo in evidenza ci fornisce nuovi strumenti di comprensione dei legami patogenetici complessi tra DSL e DPP, cosi come abbiamo espresso nelle nostre ipotesi. Sul piano clinico la conoscenza delle atipie interattive nelle diadi madre-bambino ci consente di fare una diagnosi differenziale precoce ed è un fattore da tenere in forte considerazione per programmare un intervento terapeutico mirato sul bambino e per aiutare il genitore ad attuare variazioni funzionali e affettive per un’interazione
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costruttiva e serena che vada oltre le difficoltà specifiche di linguaggio del profilo evolutivo del bambino. Riassunto Il nostro studio fa parte di una linea di ricerca sui rapporti tra emergenza di Disturbi Psicopatologici nell’infanzia e DSL precoci. A tale scopo sosteniamo un approccio evolutivo unitario alla patologia del linguaggio e alla psicopatologia dello sviluppo, nella prospettiva delle teorie interattivo-relazionali e dell’attaccamento. Obiettivo del presente studio è indagare le atipie interattive e comunicative presenti nel Disturbo Specifico di Linguaggio già in fase precoce, verificando se e quanto il disturbo si inserisca nella diade madre-bambino, alterandola, e se il livello di comprensione verbale possa essere una discriminante rilevante nello scambio comunicativo-interattivo ed emotivo. A tale scopo viene utilizzato uno strumento di analisi dello stile comunicativo del genitore, costruito in base all’ipotesi che lo scambio dialogico agisca contemporaneamente sugli stili comunicativi e di attaccamento. I nostri risultati vengono discussi in base all’ipotesi che le difficoltà interattivo-comunicative nelle diadi madre/bambino DSL rappresentino una linea di fragilità significativa sul piano psicopatologico nel bambino. Parole chiave Disturbo Specifico di Linguaggio – Comorbidità Psicopatologica – Stile comunicativo verbale materno.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 146-158
Funzioni Esecutive ed outcome della PKU Executive Function and PKU outcome Vincenzo Leuzzi*, Filippo Manti**, Laura Antonaci***
Summary The aim of this paper is to analyze the outcome of executive function (EF) in early treated phenylketonuria (PKU). The pathogenetic hypothesis as well as the neuropsychological tests are discussed. A prolonged reaction time emerges as the executive deficit most consistently impaired in early treated PKU. This review suggests that the exploration of mental functioning in PKU patients involves not only the assessment of their intelligence quotient but also the evaluation of reaction time in complex tasks and in particular those relating to EF. Key words Phenylketonuria – Executive Function – Time Reaction.
Introduzione La fenilchetonuria (PKU) è una malattia del metabolismo, autosomica recessiva, causata dal deficit dell’enzima fenilalanina idrossilasi (PAH) che catalizza la conversione dell’aminoacido fenilalanina (Phe) in tirosina ed è caratterizzata da un incremento dei valori di Phe plasmatica al di sopra della soglia normale (50-110 μmol/L) (Blau, van Spronsen, Levy, 2010). Nel 1934 Fölling osserva in alcuni individui una condizione di iperfenilalaninemia associata ad importante disabilità intellettiva, difficoltà motorie ed anormalità cutanee da lui definita imbecillitas phenylpirouvica, terminologia che progressivamente fu sostituita nel 1937 da Jervis con oligofrenia fenilpiruvica per poi essere assunta dalla terminologia attuale dal genetista Lionel Penrose (Christ, 2003). Nel 1950 Horst Bickel (Bickel, Gerrard, Hickmans,1953) introduce il modello di trattamento dietetico restrittivo per tutti quei pazienti che presentavano una condizione di iperfenilalaninemia e nel 1960 Robert Guthrie realizza un test diagnostico di screening neonatale (the Guthrie test, Guthrie, 1961). L’alterazione dei parametri biochimici permette di classificare e correlare l’entità del quadro sintomatologico alla concentrazione plasmatica della Phe. Individui con * Professore Associato presso Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza, Università di Roma. ** Medico in formazione specialistica presso Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza,Università di Roma. *** Medico frequentatore presso Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza, Università di Roma.
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concentrazione plasmatica di Phe compresa tra 120-600 μmol/L vengono classificati come forme di iperfenilalaninemia mild; individui con concentrazioni plasmatiche comprese tra 600-1200 μmol/L vengono classificati come PKU forma mild; individui con concentrazioni >1200 μmol/L vengono classificati come PKU forma classica (Blau, van Spronsen, Levy, 2010). Con il protrarsi del follow-up si è osservato che i pazienti PKU, che avevano iniziato precocemente la dieta povera in Phe, nonostante un normale sviluppo mentale presentavano delle sfumate difficoltà neuropsicologiche associate ad un rendimento scolastico non ottimale. La necessità di individuare il background neuro anatomico e neuro funzionale alla base di queste difficoltà ha portato ad indagare quel complesso di funzioni corticali superiori che va sotto il nome di FE. Il presupposto teorico di questo orientamento é la peculiarità del sistema dopaminergico prefrontale (assenza del trasportare della dopamina, DAT) che lo rende particolarmente vulnerabile alle conseguenze della malattia (deficit secondario di tirosina e quindi di dopamina). L’obiettivo di questa revisione è quello di analizzare i risultati dei diversi studi sulle FE nei soggetti PKU sia sul piano delle ipotesi patogenetiche che sulla pertinenza degli strumenti testologici utilizzati rispetto alle finalità degli studi. Indagare il funzionamento mentale dei pazienti affetti da PKU implica non soltanto la rilevazione del loro livello di sviluppo come espresso dal QI, ma anche l’utilizzo di misure specifiche della velocità di elaborazione in relazione a compiti di diversa complessità ed in particolare di quelli relativi le FE. In tal senso l’utilizzo di test ripetibili in diverse età costituisce un’adeguata soluzione. Infatti un deficit di velocità di elaborazione diventa più evidente quando un compito maggiormente complesso richiede una maggiore interazione tra diverse aree cerebrali, come per quelli che implicano una regolamentazione cognitiva di ordine superiore. Le funzioni esecutive: la corteccia prefrontale ed il sistema dopaminergico Storicamente studi sulla corteccia prefrontale (CPF) ne hanno evidenziato il ruolo chiave nello sviluppo delle FE, che successivamente è stato messo in discussione dalla crescente consapevolezza dell’esistenza di reti neurali complesse in cui i neuroni dopaminergici sembrano presentare una maggiore sensibilità (sito-specifica) alla riduzione dei precursori della dopamina rispetto ad altre regioni cerebrali (Diamond et al., 1997; Diamond et al., 2004). Inoltre, la maturazione neurobiologica e nello specifico gli studi sui livelli di mielinizzazione permettono di poter delineare una sequenza temporale circa lo sviluppo delle aree cerebrali che costituiscono la CPF. Al fine di semplificare tale analisi, è utile distinguere una corteccia prefrontale laterale da una corteccia mediale, sebbene una suddivisione così netta sia artificiosa. La corteccia prefrontale laterale è implicata nel controllo e nella regolazione della memoria di lavoro e può essere ulteriormente suddivisa in porzione ventro-laterale (controlla il mantenimento delle informazioni immagazzinate) ed in porzione dorsolaterale (regola la selezione delle informazioni immagazzinate) (Elliott, 2003).
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V. LEUZZI - F. MANTI - L. ANTONACI
Al contrario, la corteccia prefrontale mediale include la corteccia cingolata anteriore (identificazione degli errori successivi all’attuazione di un comportamento) ed il giro frontale superiore (selezione e flessibilità nei confronti di un compito da eseguire) (Rushworth et al., 2004). Il contributo di Fuster (1997) sottolinea la precocità di sviluppo della corteccia prefrontale orbitale, implicata nel funzionamento dell’inibizione comportamentale che rappresenta l’antecedente evolutivo delle FE più complesse. Inoltre, il controllo inibitorio coinvolge anche la corteccia occipitale (per la percezione degli stimoli), e alcune aree motorie (corteccia motoria e corteccia premotoria) per attuare la risposta. In una fase successiva segue la maturazione della porzione mediale e di quella dorso laterale della CPF correlata alla funzione di pianificazione e alla memoria di lavoro, condizione quest’ultima che coinvolge le precedenti aree così come le regioni parietali (e forse anche le regioni temporali). Tale sequenza consente di elaborare e consolidare le rappresentazioni mentali (Schlösser, Wagner, 2006; Laird et al., 2009). Nello studio della PKU l’ipotesi della disfunzione dopaminergica costituisce quella più accreditata in quanto aumentati livelli di Phe nel sangue implicano un ridotto livello nella formazione di tirosina, precursore della dopamina e noradrenalina, e di triptofano, precursore della serotonina. Inoltre, l’aumentato livello ematico di Phe determinerebbe una riduzione dei trasportatori dei neuromediatori attraverso la barriera ematoencefalica mediante un meccanismo di competizione (Scriver, Eisensmith, Woo, 1995; van Spronsen, Hoeksma, Reijngoud, 2009). Un dato molto interessante è rappresentato dal fatto che i neuroni che proiettano alla CPF presentano un’elevata sensibilità alla dopamina, pertanto, piccole variazioni dei livelli di tirosina disponibili si riflettono in un’importante disfunzione corticale. Questo livello di sensibilità rappresenta una peculiarità della medesima regione corticale e questa condizione è testimoniata dal fatto che gli stessi neuroni situati nella sostanza nigra che proiettano sia alla CPF che al nucleo accumbens presentano proprietà e livelli di sensibilità diversi (Crone et al., 2006; Yurgelun-Todd, 2007; Paus, Keshavan, Giedd, 2008; Christ 2010a). Aspetti neuropsicologici e deficit delle Funzioni Esecutive nei pazienti PKU trattati Con il termine di funzioni esecutive (FE) si intende un insieme di abilità cognitive, con caratteristiche specifiche parzialmente indipendenti e con probabili differenze nelle traiettorie evolutive, all’interno delle quali è possibile identificare i seguenti ambiti: – Flessibilità cognitiva: comprende la capacità di modificare le risposte comportamentali in funzione di un possibile cambiamento delle condizioni presenti, attraverso strategie alternative che implicano una flessibilità dell’attenzione selettiva e condivisa. – Memoria di lavoro: sistema deputato al mantenimento e all’elaborazione di informazioni necessarie all’esecuzione di attività complesse, come la compren-
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sione, l’apprendimento ed il ragionamento;inoltre, permette l’integrazione con le informazioni sensoriali e con i sistemi di memoria a lungo termine (semantica, episodica, autobiografica) (Baddeley, 1996). – Inibizione comportamentale: capacità di focalizzare l’attenzione su dati rilevanti inibendo le risposte motorie ed emotive non adeguate agli stimoli. – Pianificazione: capacità di pianificare una sequenza di azioni al fine di raggiungere lo scopo, controllando l’esecuzione e valutando i risultati. Queste abilità vengono considerate FE perché richiedono un’ elaborazione delle informazioni che rimanda a processi trasversali di integrazione tra domini cognitivi, aspetti sensoriali e modalità di risposta (Christ, Moffit, Peck, 2010a). Sono stati condotti diversi studi al fine di definire il modello del deficit delle FE tipico dei pazienti PKU (Huijbregts et al., 2002a; Christ et al., 2010b) e sebbene tali approcci siano stati molto utili per chiarire il profilo cognitivo dei pazienti trattati, una serie di questioni non è stata ancora risolta. Allo stato attuale esistono pochi studi longitudinali (Koch et al., 2002) e la maggior parte delle meta-analisi sull’outcome neuropsicologico dei soggetti PKU (DeRoche,Welsh, 2008) si basa su studi trasversali in cui l’eterogeneità del campione (numerosità, età e variabile genetica) nonché l’utilizzo e l’interpretazione di strumenti testologici diversi hanno aumentato l’artificiosità dei risultati. La maggior parte della ricerca è stata condotta su bambini che erano a dieta al momento della somministrazione dei test. Ciò sembra indicare che i periodi più sensibili, in cui alti livelli di Phe possono arrestare o ritardare lo sviluppo delle FE, in realtà si verificano durante l’infanzia, con prove che dimostrano un maggiore controllo per i bambini ed i ragazzi PKU rispetto agli studi su popolazioni adulte che hanno più volte segnalato gravi problemi nell’ambito delle funzioni corticali superiori (o addirittura evidenziato un maggiore deficit delle FE per i genitori rispetto al gruppo dei propri figli) (White, 2001; Huijbregts et al., 2002b; Brumm et al., 2004; VanZutphen et al., 2007; Bik-Multanowski, Pietrzyk, Mozrzymas, 2011). Ancora una volta, per decidere strategie di trattamento dopo l’infanzia, sarebbe importante includere solo i dati dei pazienti che sono stati trattati precocemente e rigorosamente durante i primi 12-15 anni di vita. I risultati degli studi sugli adulti, che avevano spesso interrotto il trattamento dietetico restrittivo o adottato un regime terapeutico incostante non sono ancora stati considerati all’interno di specifici modelli teorici. L’utilizzo di modelli di studio sulle FE, empiricamente convalidati mediante l’utilizzo di analisi statistiche (es. analisi fattoriale), ha conferito un’importante contributo: – permettendo di poter associare specifici risultati a regioni del cervello (prefrontale e altre) ed a sistemi neurotrasmettitoriali; – dimostrando che i compiti più complessi richiedono molteplici FE ed una maggiore comunicazione tra le diverse reti neurali; – razionalizzando il numero delle categorie delle FE e raggruppando le numerose funzioni. Nel corso del tempo sono stati utilizzati diversi test per cercare di delineare i pro-
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fili neuropsicologici dei pazienti PKU, esplorando diversi ambiti funzionali. Leuzzi et al. (2004), hanno evidenziato delle cadute significative nell’ambito dei processi di pianificazione, programmazione e attenzione sostenuta, sottolineando l’assenza di correlazione tra alterazione delle FE e QI, normale in tutti i soggetti esaminati. Sono stati utilizzati, inoltre, ulteriori modelli di valutazione tra cui quelli di Posner et al. (2011) hanno studiato specificamente orientamento, allarme e controllo; Corbetta e Shulman (2002) hanno utilizzato i modelli top-down (stile di programmazione in cui la progettazione inizia specificando parti complesse per poi suddividerle in parti semplici) e bottom-up (stile di programmazione in cui la progettazione parte da componenti semplici per arrivare ad un sistema complesso); Petrides (2007) ha approfondito gli studi sulla componente motivazionale; Banerjee et al. (2011) hanno approfondito le abilità esecutive attraverso lo studio della fluidità fonemica (le parole vengono generate in risposta ad una lettera) e semantica (attraverso l’utilizzo di categorie) in cui il numero di parole correttamente segnalato rappresenta la variabile primaria. I risultati ottenuti hanno messo in evidenza delle difficoltà nei processi di shifting nelle sottocategorie degli stimoli presentati ma alcuni limiti tra cui l’utilizzo sia di test verbali che non verbali necessita di approfondimenti futuri e più definiti anche attraverso l’utilizzo della diagnostica strumentale. I medesimi studi hanno dimostrato che le differenze più evidenti tra i pazienti con PKU ed i controlli erano rappresentati dall’impulsività nella risposta, da difficoltà nella memoria di lavoro e dalla combinazione di entrambe le condizioni. A tal proposito sono state condotte delle operazioni di misura del controllo inibitorio, della memoria di lavoro e di una combinazione di entrambe le funzioni attraverso l’utilizzo di test computerizzati, come i test neuropsicologici di Amsterdam (Amsterdam Neuropsychological Tasks, ANT, De Sonneville, 1999) (vedi Tabella 1) e quelli di Cambridge (Cambridge Neuropsychological Test Automated Battery CANTAB, 2011, vedi Tabella 2) (Bik-Multanowski, Pietrzyk, Mozrzymas 2011; Luciana, 2003).
Tabella 1. Protocollo di valutazione ANT. AMSTERDAM NEUROPSYCHOLOGICAL TASKS (ANT) ETÀ
TEST
FUNZIONE ESPLORATA
DOMINIO
BASELINE SPEED
Valuta la capacità di rilevare e rispondere ad uno stimolo
Attenzione visiva Tempi di reazione
Dai 7 anni
ENCODING
Riconoscimento di lettere
Attenzione Visiva
Dai 4 anni
FOCUSED ATTENTION
Valuta la capacità attentiva ed i processi di memoria di lavoro attraverso l’individuazione di lettere/oggetti
Attenzione selettiva Memoria visiva
Dai 7 anni
FEATURE IDENTIFICATION
Esplora l’abilità cognitiva di rilevare uno specifico target tra target simili
Attenzione visiva Tempi di reazione
Dai 7 anni
FLANKER
Consiste nel riconoscere ed associare uno stimolo visivo colorato
Attenzione selettiva Inibizione
Dai 4 anni
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FUNZIONI ESECUTIVE ED OUTCOME DELLA PKU
Dai 6 anni
FACE RECOGNITION
Consiste nel riconoscimento dei volti proposti
Memoria visiva
Dai 4 anni
GO NO GO
Valuta la capacità di inibire risposte non corrette
Attenzione visiva inibizione
Dai 6 anni
IDENTIFICATION AVERTEDE EMOTIONS
Capacità di riconoscere le diverse espressioni facciali
Attenzione visiva
Dai 4 anni
IDENTIFICATION OF FACIAL EMOTIONS
Capacità di riconoscere 8 diverse emozioni
Attenzione visiva
Dai 6 anni
MATCHING FACIAL EMOTIONS
Capacità di riconoscere e correlare le diverse espressioni facciali alle emozioni presentate
Attenzione visiva
Dai 7 anni
MENTAL ARITHMETIC
valuta la rapidità di calcolo mentale
Tempi di reazione
Dai 4 anni
MEMORY SEARCH
Valuta la capacità di riconoscere lettere o oggetti
Attenzione sostenuta Working memory
Dai 5 anni
PROSODY
Capacità di riconoscere le emozioni attraverso l’ascolto delle voci stimolo
Working memory
Dai 4 anni
PURSUIT
Valuta la coordinazione visuomotoria
Pianificazione e memoria di lavoro
Dai 4 anni
RESPONSE ORGANIZATION arrows/objects
Valuta la flessibilità attentiva e la capacità di inibizione degli stimoli distrattori
Attenzione condivisa inibizione
Dai 5 anni
SUSTAINED ATTENTION
Capacità di mantenere l’attenzione visiva o uditiva a seconda dello stimolo sonoro/ visivo presentato
Attenzione sostenuta
Dai 5 anni
SHIFTING ATTENTIONAL SETAUDITORY
Consiste nel valutare la corretta associazione tra stimolo visivo e stimolo vocale.
Attenzione sostenuta Working memory
Dai 4 anni
TAPPING
Prove di coordinazione visuomotoria
Attenzione visiva
Dai 4 anni
TRACKING
Prove di coordinazione visuomotoria
Attenzione visiva
Dai 4 anni
VISUOSPATIAL SEQUENCING
Consiste nell’individuare una specifica sequenza temporale
Memoria visiva
Tabella 2. Protocollo di valutazione CANTAB. TEST
FUNZIONE ESPLORATA
DOMINIO
MOTOR SCREEENING TASK
Esplora la capacità di soddisfare i criteri minimi di esecuzione di tutti i test presentati
Tempi di reazione
BIG CIRCLE LITTLE CIRCLE
Valuta la comprensione, l’apprendimento e l’inversione di regola
Attenzione visiva
DELAYEDMATCHING TO SAMPLE
Valuta la memoria di riconoscimento rispetto ai target proposti
Memoria visiva
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PAIRED ASSOCIATES LEARNING
Esplora la memoria visiva e l’apprendimento
Memoria visiva
PATTERN RECOGNITION MEMORY
Esplora la memoria visiva attraverso il riconoscimento dei target proposti in una prima parte
Memoria visiva
SPATIAL RECOGNITION MEMORY
Esplora la memoria visuo-spaziale attraverso il riconoscimento della posizione dei target proposti in un primo tempo
Memoria visiva
ATTENTION SWITCHING TASKS
Valuta la capacità di spostare l’attenzione tra la direzione o la posizione di una freccia sullo schermo
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
INTRA-EXTRA DIMENSIONAL SET SHIFT
Esplora la capacità di comprendere le regole sottostanti al compito e la flessibilità attentiva
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
ONE TOUCH STOCKINGS OF CAMBRIDGE
Valuta la capacità di pianificazione in compiti a crescente difficoltà
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
SPATIAL SPAN
Valuta la quantità di informazioni visuo-spaziali mediante il coinvolgimento della memoria a breve termine
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
SPATIAL WORKING MEMORY
Valuta la capacità di mantenere le informazioni spaziali e di manipolare gli oggetti
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
STOCKING OF CAMBRIDGE
Compito di pianificazione e di organizzazione comportamentale
Memoria di Riconoscimento/ Pianificazione
CHOICE REACTION TIME
Valuta la prontezza e la velocità di scelta
Attenzione visiva Tempi di reazione
MATCH TO SAMPLE VISUAL SEARCH
Richiede la capacità di ricercare tra i target ed ignorare i modelli distruttori che hanno caratteristiche simili agli obiettivi finali
Memoria visiva
RAPID VISUAL INFORMATION PROCESSING
Richiede capacità di attenzione sostenuta per individuare la sequenza numerica
Attenzione visiva
REACTION TIME
Valuta i tempi di reazione separando la latenza di risposta dai tempi di movimento
Tempi di reazione
SIMPLE REACTION TIME
Valuta i tempi di reazione attraverso la consegna di un singolo stimolo
Tempi di reazione
GRADED NAMING TEST
Valuta le difficoltà di denominazione e gli aspetti semantici
denominazione semantica
VERBAL RECOGNITION MEMORY
Esplora la memoria a breve e a lungo termine di informazioni verbali date
Memoria verbale
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FUNZIONI ESECUTIVE ED OUTCOME DELLA PKU
AFFECTIVE GO/NO-GO
Esplora gli errori di elaborazione delle informazioni per gli stimoli negativi e positivi
Controllo nella risposta
CAMBRIDGE GAMBLING TASK
Valuta i processi decisionali
Controllo nella risposta
INFORMATION SAMPLING TASK
Valuta l’impulsività e i processi decisionali
Controllo nella risposta
STOP SIGNAL TASK
Valuta i tempi di reazione in funzione dei segnali di stop
Controllo nella risposta
EMOTIONAL RECOGNITION TASK
Esplora l’abilità di riconoscere le emozioni attraverso le espressione facciali presentate
Livello emotivo
VISUAL ANALOGUE SCALES
Valutazione soggettiva circa i livelli di energia,la vigilanza, l’umore e la malattia
Livello emotivo
La batteria di test che è stata usata più di frequente nella ricerca della PKU è la ANT ed un numero minore ha utilizzato la CANTAB. L’utilizzo dell’ ANT permette di misurare la velocità di elaborazione, l’attenzione sostenuta, il controllo inibitorio, e la memoria di lavoro associata a diversi indici di controllo della dieta (livelli di Phe attuali e pregressi, il rapporto tra Phe e tirosina, e le fluttuazioni della Phe plasmatica). Inoltre, l’utilizzo di questi test ha permesso di osservare una probabile correlazione tra qualità del controllo dietetico e i domini cognitivi esplorati (BikMultanowski, Pietrzyk, Mozrzymas, 2011). Negli ultimi anni sono stati sviluppati alcuni questionari che permettono di misurare le FE nella vita quotidiana, come il Behavior Rating Inventory of Executive Function (BRIEF) (Gioia, 2000). In sintesi, il BRIEF è un questionario standardizzato che comprende tre versioni: quella per i 2-5 anni (cinque scale: Inhibit, Shift, Emotional Control, Working Memory, Plan/Organization), quella per i 5-18 anni (otto scale: alle cinque scale presenti per il più giovane gruppo si associano, Organization of Materials e Monitor), e quella per gli adulti (nove scale: la scala del monitoraggio della versione per i 5-18 anni di età è suddivisa in Self-Monitor e Task Monitor). Nel complesso i punteggi composti possono essere generati da tutte le scale: per i 2-5 anni: Inhibitory Self-Control (ISCI), Flexibility (FI), e Emergent Metacognition (EMI), e per 5-18 anni e adulti Behavioral Regulation and Metacognitive (vedi Figura 1) da cui si ricava il Global Executive Composite.
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Figura 1. Sintesi dei domini indagati dal BRIEF.
Inhibit
Fino ad oggi sono pochi gli studi in cui hanno utilizzato il BRIEF, e purtroppo, i risultati non sono stati molto coerenti. Tuttavia, ci si potrebbe aspettare differenze più pronunciate rispetto al campione normativo nelle sottoscale Inhibit e Working Memory. Anderson et al. (2002) hanno identificato delle significatività nei risultati circa la scala Shift e la scala Monitor (che potrebbe essere considerato una combinazione di controllo inibitorio e memoria di lavoro); Antshel e Waisbren (2003) hanno riportato che i bambini PKU presentavano punteggi significativamente più bassi solo nell’ambito della Metacognition rispetto ai controlli sani; mentre Sharman et al. (2009) hanno riportato difficoltà su una serie di sottoscale: Initiation, Working Memory, Planning, Organization e Monitor. Inoltre, non vi sono studi che dimostrano associazioni tra i domini del BRIEF e misurazioni di laboratorio circa le FE. Pertanto, prima di ritenere il BRIEF un sostituto adeguato ai test neuropsicologici, nel monitoraggio a lungo termine dei pazienti PKU, sarebbe necessaria una validazione interculturale. Tuttavia, fino ad allora, il suo utilizzo rimane fondamentale nell’ evidenziare i problemi di vita quotidiana rispetto alle indagini in laboratorio. Non dobbiamo dimenticare l’ulteriore contributo della scala Emotional Control e la possibilità che le FE nella vita quotidiana spesso si associno ad alcune componenti emotive, motivazionali o affettive. Esistono, inoltre, dei modelli empiricamente convalidati (Krain et al., 2006), che comprendono sia il controllo cognitivo che quello emotivo, di cui sono state iden-
FUNZIONI ESECUTIVE ED OUTCOME DELLA PKU
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tificate sia le basi neuroanatomiche che neurobiologiche (dopamina, serotonina) e possono essere considerate il miglior modello teorico per evidenziare tutti i deficit funzionali osservati nei pazienti PKU. Le funzioni esecutive: dalla RMN strutturale alla RMN funzionale (fMRI) Gli studi di risonanza magnetica strutturale hanno messo in evidenza, come anche i pazienti PKU precocemente trattati, possano presentare alterazioni della sostanza bianca soprattutto nelle regioni periventricolari posteriori con possibile estensione alle regioni frontali e subcorticali . Una prima analisi (Anderson, Leuzzi, 2010) ha permesso di differenziare e correlare i livelli di gravità delle funzioni superiori esplorate (attenzione, velocità di processamento e memoria di lavoro) con l’entità del danno. Un’analisi più dettagliata delle correlazioni tra lesioni della sostanza bianca in pazienti PKU trattati e deficit delle funzioni esecutive è stata possibile, soltanto ultimamente attraverso gli studi di fMRI (Christ, Moffitt, Peck, 2010a) che hanno permesso di indagare l’integrità strutturale delle interconnessioni cerebrali e la localizzazione delle aree che sostengono i processi cognitivi superiori. Sono state individuate circa 11 regioni cerebrali, delle quali quasi la metà è localizzata nella CPF che hanno presentato un’attività neurale atipica durante l’esecuzione di un compito di memoria di lavoro. Conclusioni Nonostante il moltiplicarsi degli studi su PKU e FE poche certezze emergono circa l’esistenza di deficit specifici e la loro eziopatogenesi. I limiti metodologici sono amplificati dalla complessità della malattia che emerge come risultato di una vulnerabilità individuale non del tutto rappresentata dai suoi parametri biochimici periferici. Da questo punto di vista i disegni sperimentali trasversali sinora sviluppati appaiono fortemente inconcludenti. In attesa di nuovi studi longitudinali che estendano quanto già esplorato circa lo sviluppo mentale, alcune conclusioni preliminari possono essere tratte. Sono disponibili poche conoscenze circa lo sviluppo delle FE nei bambini PKU in relazione ai normali. Le difficoltà che più tardi si rilevano possono essere eredità di discronie evolutive precoci o il risultato di un impairment di funzioni emergenti. La velocità di elaborazione della risposta è il deficit esecutivo più costantemente rilevato nei pazienti PKU in età giovanile. Data la non uniformità dei protocolli di valutazione è difficile capire se questo è causa o effetto di altri deficit. Fermo restando l’importanza di un’ipotesi patogenetica di partenza nella scelta della griglia di valutazione, i test CANTAB, ANT e BRIEF sembrano adattarsi bene ad individui di cultura occidentale (mentre potrebbe mostrare dei limiti in pazienti con altri background culturali). Dagli studi di fMRI e di neurofisiopatologia delle funzioni
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cognitive ci si aspetta di cogliere elementi che definiscono la vulnerabilità individuale alla Phe non dai suoi esiti clinici, ma come peculiarità biologiche sulla cui base fondare un adattamento individuale più appropriato del trattamento. Riassunto Lo scopo di questo lavoro è quello di analizzare i risultati dei diversi studi sulle funzioni esecutive (FE) nei soggetti affetti da fenilchetonuria (PKU) trattati precocemente. Saranno discusse sia le ipotesi patogenetiche che la pertinenza degli strumenti testologici utilizzati. Una prolungata velocità di elaborazione della risposta emerge come il deficit esecutivo più costantemente rilevato nei pazienti PKU in età giovanile. Questa revisione suggerisce che il funzionamento mentale dei pazienti affetti da PKU implica non soltanto la valutazione del loro quoziente intellettivo di sviluppo, ma anche l’utilizzo di misure specifiche della velocità di elaborazione in relazione a compiti complessi ed in particolare di quelli relativi le FE. Parole chiave Fenilchetonuria – Funzioni Esecutive – Velocità di Elaborazione.
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FUNZIONI ESECUTIVE ED OUTCOME DELLA PKU
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 159-181
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Epidemiologia dei Disturbi dello Spettro Autistico in Piemonte Epidemiology of Autistic Spectrum Disorder in Piemonte-Italy Maurizio Cremonte*, Maurizio Arduino**, Paolo Bailo***, Marina Gandione****
Summary The Authors show epidemiological data of Autistic Spectrum Disorders (ASD) in Piemonte-Italy. Since 2002 the Regional Health Department has created a network of data called NPI.net which collects the diagnosis made by Child Neuropsychiatry Department, Psychology Department and Rehabilitation Department in Piemonte. Also since 2008 a regional coordination group for autism has been activated with the aim of directing the procedures and training in this topic. Epidemiological data confirm a constant growth of diagnosis of ASD with prevalence rates, for the last few years, that exceed 3 per thousand approaching the data of international literature. Also the strong prevalence of the male sex agrees with literature data. We want to stress that the diagnosis of these disorders, thanks to the awareness of the specialists, is made in ever earlier ages. In the light of data collected, different comorbidity and the growing interest of regional public health services in dealing with these disorders are also discussed. Key words Autism spectrum disorders – Pervasive developmental disorders – Autism – Epidemiology.
Introduzione I disturbi dello spettro autistico (DSA) riguardano un gruppo eterogeneo di disturbi dello sviluppo variabili in gravità e caratterizzati dalla precoce comparsa di ritardo e distorsione nello sviluppo delle interazioni sociali e nella comunicazione verbale e non verbale: infatti la triade di caratteristiche nucleari comprende marcate anomalie qualitative nell’ambito dell’interazione sociale, della comunicazione e un * Responsabile Struttura Complessa di Neuropsichiatria Infantile - Dipartimento Pediatrico Presidio “C. Arrigo” – Azienda Ospedaliera di Alessandria. ** Psicologo Dirigente Responsabile Centro Autismo e Sindrome di Asperger ASL CN1 – Presidio Ospedaliero di Mondovì (CN). *** SC Neuropsichiatra Infantile Azienda Ospedaliero Universitaria Maggiore della Carità Novara. **** Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza Università di Torino – Sezione di Neuropsichiatria Infantile.
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M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
repertorio ristretto di attività e interessi ( Johnson, 2007; Levi, 2007; Teplin, 1999; Volkmar, 2003-2009). Si tratta di una sindrome neuro evolutiva a base neurobiologica che associa un disturbo dello sviluppo del cervello (alterazioni della struttura e delle funzioni nervose) e della mente (alterazioni dello sviluppo psico-cognitivo ed emozionale). Sia fattori genetici che ambientali sono oggi considerati all’origine dello spettro autistico (Levi, 2007). In mancanza di markers biologici i differenti quadri clinici vengono codificati in termini di patterns comportamentali. Tali configurazioni sono definite dalla classificazione dell’American Psychiatric Association (APA DSMIV-TR, 2000) che li raggruppa nei disturbi pervasivi dello sviluppo e da quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS ICD10, 1992) che li codifica come sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico (Tabella 1). Tabella 1. Categorie diagnostiche dei DSA. ICD -10
DSM IV - TR
Sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico (F84)
Disturbi pervasivi dello sviluppo
F84.0 Autismo Infantile
Disturbo Autistico
F84.1 Autismo Atipico
Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non altrimenti specificato / PDD-NOS
F84.2 Sindrome di Rett
Disturbo di Rett
F84.3 Sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo
Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia
F84.4 Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati F84.5 Sindrome di Asperger
Disturbo di Asperger
F84.8 Altre sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico F84.9 Sindrome non specificata da alterazione globale dello sviluppo psicologico / PDD-NAS
Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non altrimenti specificato / PDD-NOS
Normalmente gli aspetti clinici emergono nei primi anni di vita; già nel primo anno possono essere presenti anomalie della interazione/comunicazione e la diagnosi può avvenire con una considerevole affidabilità tra il secondo e il terzo anno di vita (Chawarska, 2007; Filipek, 2000; Johnson, 2008; Landa, 2012; Mandel, 2005; Ozonoff, 2010-2011;Turner, 2006). Le caratteristiche del deficit sociale e cognitivo, come in generale la sintomatologia clinica, sono eterogenee in termini di complessità e gravità e presentano una espressività variabile nel tempo (Charman, 2005). Frequente è la comorbidità con il ritardo mentale (Rapin, 1997; CDC, 2006), il deficit di attenzione con iperattività (Ehlers, 1997), i disturbi dell’umore (Ghaziuddin,1998), l’epilessia (Ballaban-Gil, 2000; Mouridsen, 2011; Parmeggiani, 2007),
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
161
mentre solo in un 10-25% dei casi il disturbo autistico è associato ad altre condizioni mediche generali quali anomalie genetico/metaboliche, anomalie strutturali del sistema nervoso centrale e disturbi sensoriali (Battaglia, 2006; Chakrabarti, 2001; Gillberg, 1996; Johnson, 2007). I DSA non presentano una significativa prevalenza geografica etnica mentre il rapporto maschi/femmine è circa 4/1 (Fombonne, 2009; APA, 2000). I primi dati epidemiologici sull’autismo risalgono ad un lavoro di Lotter del 1966 dove nella contea del Middlesex in Inghilterra su una popolazione pediatrica dagli 8 ai 10 anni l’autore riscontrava un quadro di autismo con una percentuale del 4.5 su 10.000; tale diagnosi veniva effettuata secondo i criteri dell’autismo classico di Kanner, criteri che vengono mantenuti nei successivi studi degli anni ’70 con percentuali pressoché analoghe (Wing, 1979). Solo dagli anni ’80, con l’uso dei criteri del DSM (gradualmente ampliatisi nelle successive edizioni) e dell’ICD si assiste ad un progressivo incremento della prevalenza di tali disturbi (Williams, 2006) che alla fine degli anni ‘90 viene riportata in circa 1:750 bambini quando si consideri una ristretta definizione dello spettro, che sale a 1:150 quando tale prevalenza si riferisce ai disturbi dello spettro autistico nel suo complesso. Negli Stati Uniti le stime più recenti indicano una prevalenza di circa 1:110 mentre in Europa le stime variano da 1:160 della Danimarca e della Svezia, a 1:86 della Gran Bretagna (ADDMNS, 2007ab-2009-2012; Baird, 2006; Fombonne, 2009; Harrison, 2006; Suren, 2012). Pertanto il dato costante riportato dagli studi epidemiologici condotti sia negli Stati Uniti che in Europa è un generalizzato aumento delle diagnosi di autismo e delle sindromi correlate, che sono più che raddoppiate nell’ultimo decennio (Fisch, 2012; Weintraub, 2011). L’ipotesi di una vera e propria epidemia di autismo viene però confutata da molti autori (Wing, 2002; Hertz-Picciotto, 2009), che associano almeno in parte il pur evidente incremento del numero delle diagnosi all’allargamento dei criteri diagnostici e all’abbassamento dell’età alla diagnosi, conseguenze della maggiore sensibilità e attenzione al disturbo. In italia gli studi epidemiologici sui disturbi dello spettro autistico sono carenti e frammentari; nelle rare realtà in cui tali dati sono disponibili (Nardocci, 2010, dati Emilia Romagna) la prevalenza dei DSA si situa intorno al 2 per 1000. Ulteriori indicatori, anche se parziali, possono essere ottenuti attraverso i dati rilevati dalle certificazioni scolastiche. La Regione Piemonte presenta una capillare distribuzione sul territorio dei servizi di Neuropsichiatria Infantile; si tratta di una dozzina di strutture complesse corrispondenti al territorio delle diverse ASL più alcune strutture localizzate a livello ospedaliero. L’Assessorato Regionale alla Sanità dal 2002 ha creato una rete informatizzata (NPI.net) a cui afferiscono tutte le diagnosi formulate dai servizi di Neuropsichiatria Infantile (NPI) della regione e da alcuni servizi di Psicologia Clinica e di Riabilitazione Funzionale. Tale rete ha permesso di acquisire negli anni una innumerevole mole di dati riguardanti sia le diagnosi che i trattamenti/presa in carico delle differenti patologie neuropsichiche. Per quanto riguarda i DSA nel 2008 la Regione ha predisposto, sull’input derivato dalle Linee Guida per l’autismo della SINPIA (2005), delle Linee Guida regionali che sono state recentemente aggiornate dopo la pubblicazione delle Linee Guida dell’ISS alla fine del 2011.
162
M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
Inoltre nell’aprile 2009 è stata deliberata la costituzione di un Coordinamento Regionale per l’autismo presso l’Assessorato Regionale Sanità del Piemonte composto dai rappresentanti dei quattro centri NPI di riferimento regionale, da funzionari regionali e associazioni, recentemente ampliato alla scuola e ai servizi Psichiatrici dell’adulto, che ha come compito di monitorare l’applicazione del programma autismo evidenziandone eventuali criticità e di fornire adeguato supporto per la formazione degli operatori. Dal lavoro di tale Coordinamento e da quello di tutti i servizi afferenti ad NPI. net sono derivati i dati che verranno successivamente presentati e che riguardano la popolazione compresa tra gli 0 e 18 anni (esclusi) della Regione Piemonte. Dati epidemiologici Prevalenza I dati di prevalenza riportati riguardano tutti i soggetti inseriti nel Registro Regionale NPI.net, da quando questo è attivo (anno 2002), che sono nati tra il 1993 (compreso) e il 2011 (soggetti cioè che hanno compiuti 18 anni entro il 2011). In quest’ambito, su di una popolazione pediatrica piemontese totale di 721689 soggetti di età compresa tra 0 e 18 anni hanno ricevuto una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (diagnosi ICD10 F84) 2241 soggetti, con una prevalenza del 3.1 per mille (Tabella 2): tale dato è sufficientemente completo ed affidabile poiché non riguarda solo i soggetti seguiti regolarmente dai servizi di NPI ma comprende anche i soggetti che, pur essendo diagnosticati in anni precedenti non sono stati seguiti dai servizi che usano il sistema NPI.net nell’anno di riferimento. Infatti va rilevato che il Tabella 2. Prevalenza Disturbi Spettro Autistico residenti in Piemonte per fascia d’età al Dicembre 2011. Popolazione 0-18 anni: 721689.
2010
2011
FASCIA ETÀ
Nr. PAZIENTI
PREVALENZA / 1000
Nr. PAZIENTI
PREVALENZA / 1000
0-3
103
0,7
97
0,6
4-6
415
3,6
421
3,6
7-11
795
4,2
858
4,5
12-14
395
3,5
455
4,1
15-18
389
2,6
410
2,8
TOTALE
2097
2,9
2241
3,1
PAZIENTI IN CARICO
1703
2,3
1800
2,5
163
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
numero dei soggetti presi in carica annualmente dai servizi che usano la rete NPI.net è inferiore a quello dei diagnosticati. Il dato relativo al 2010 e 2011 vede scendere la prevalenza rispettivamente al 2.3 e 2.5. I soggetti che “mancano all’appello” sono stati presumibilmente seguiti a livello privato o in strutture private convenzionate (con fondi quindi delle ASL) che non caricano i propri dati sulla rete NPI.net. Nel gruppo esaminato si conferma una netta predominanza del sesso maschile in rapporto 4 a 1 su quello femminile. Da rilevare che nel confronto con i dati del 2010 si rileva un incremento di 144 soggetti, corrispondenti ad una variazione della prevalenza di un + 0.2 per mille; tale incremento delle diagnosi è comunque una costante da quando è iniziata la rilevazione epidemiologica attraverso il sistema NPI.net. Il dato epidemiologico potrebbe comunque essere lievemente impreciso perché alcuni dei soggetti registrati nel sistema NPI.net potrebbero essersi trasferiti in altre regioni (quindi sono stati “contati” pur non essendoci più), oppure, alcuni di quelli registrati come residenti in altri regioni potrebbero essere oggi residenti in Piemonte (non sono stati “contati” pur essendoci). Altra imprecisione possibile è quella relativa al cambiamento della diagnosi, nel caso in cui questa sia passata da Disturbi dello Spettro Autistico ad altre diagnosi differenti. L’esame della distribuzione per fasce di età, considerando una suddivisione sovrapponibile a quella dei cicli scolastici, evidenzia come la prevalenza sia nettamente più elevata nelle fasce 7-11 (4.5 per mille) e 12-14 (4.1 per mille) corrispondenti alla scuola dell’obbligo e quindi ad un’epoca in cui la codifica diagnostica, anche per problematiche di natura certificativa, appare più facilmente accertata. Valori bassi di prevalenza (0.6 per mille) si rilevano nella fascia 0-3 anni, ma tale dato è condizionato per gran parte dalla difficoltà di fornire una diagnosi codificata “definitiva” nel primo biennio di età come si rileva dall’analisi dei dati di prevalenza del 2010 (Tabella 3) dove, a fronte di una prevalenza nella fascia 0-2 anni dello 0.2 per mille questa balza al 2.9 per mille nella successiva fascia 3-5 anni.
Tabella 3. Prevalenza Disturbi Spettro Autistico residenti in Piemonte per fascia d’età al Dicembre 2010. FASCIA ETÀ
Nr. PAZIENTI
PREVALENZA / 1000
0-2
24
0.2
3-5
334
2.9
6-10
806
4.2
11-14
544
3.6
15-18
389
2.6
TOTALE
2097
2.9
164
M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
Infine, l’apparente caduta della prevalenza al 2.8 per mille nella fascia adolescenziale probabilmente rispecchia anche la carenza di diagnosi nei soggetti afferiti ai servizi in un’epoca (fine anni 90 e primi anni 2000) in cui la sensibilizzazione verso la diagnosi di DSA era ancora carente. Se i dati vengono dettagliati considerando i singoli valori delle dodici ASL regionali si rilevano discrete discrepanze nella prevalenza, variabile da 2.1 per mille a 4.2 per mille; tale variabilità potrebbe essere dovuta, oltre a fattori ambientali o demografici, anche alla differente presenza sul territorio di servizi pubblici o privati che non registrano le loro diagnosi su NPI.net o ad una ancora incompleta uniformità di valutazione e formazione nei differenti servizi territoriali. Incidenza Per incidenza si intende la proporzione di “nuovi eventi” che si verificano in una popolazione in un dato lasso di tempo. In particolare per quanto riguarda la popolazione in oggetto, è stata calcolata la percentuale di soggetti con una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico nati in un certo anno sul totale dei nati quell’anno (Tabella 4). Anche in questo caso il dato sulle età più precoci è comprensibilmente basso e si stabilizza per gli anni di nascita di soggetti che hanno, al 2010, circa 5 anni o più. Questi dati indicano che intorno ai 3 anni (nati 2007, incidenza 2.1) i soggetti diagnosticati sono solo circa la metà di quelli che dovrebbero essere affetti da un DSA (incidenza per i nati nel 2003-2004 pari a 4.4).
Tabella 4. Incidenza Disturbi Spettro Autistico residenti in Piemonte - Casi diagnosticati tra i nati nell’anno. Anno di nascita
Nr. Pazienti
Totale nati
% INCIDENZA
2003
161
36370
4.4
2004
165
37413
4.4
2005
144
37251
3.9
2006
123
37851
3.2
2007
81
38565
2.1
2008
20
39551
0.5
2009
4
39123
0.1
Nuove diagnosi Dal registro NPI.net sono state rilevate le nuove diagnosi di DSA registrate negli anni che vanno dal 2008 al 2011. Si osserva un significativo incremento di queste tra
165
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
il 2008 e il 2009, una stabilizzazione tra i 2009 e il 2010 e una lieve deflessione nel 2011. Nel complesso si può rilevare che ogni anno in Piemonte si hanno tra le 331 e le 397 nuove diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (Tabela 5). Tale dato tuttavia appare particolarmente elevato se si confronta con il dato dell’incidenza (Tabella 4) che per gli anni “stabilizzati” risulta di circa 160 soggetti per ogni anno di nascita e potrebbe essere almeno in parte dovuto a errori nei criteri di rilevazione e di analisi. D’altra parte se si sommano le diagnosi “mancanti” (quelle cioè che mancano per raggiungere la cifra di 160 per ogni anni di nascita) per le età più giovani (per il 2010 i nati nel 2007, 2008 e 2009) il totale è pari a 376, quindi in linea con le “nuove diagnosi” conteggiate dal sistema NPI.net. Se questo ragionamento è corretto, anticipando l’età della diagnosi il dato riguardante le “nuove diagnosi” dovrebbe ridursi nei prossimi anni.
Tabella 5. Nuove diagnosi di Disturbo dello spettro autistico anni 2008-2011. Anno
Nr. Nuove diagnosi
2008
331
2009
395
2010
397
2011
353
Totale
1476
Se consideriamo la distribuzione delle nuove diagnosi per codifica ICD10 nel periodo che va dal 2008 al 2011 si può rilevare come sia ancora molto utilizzata la diagnosi generica F84 (senza alcuna specificazione). Questa diagnosi, insieme a quel-
166
M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
le che possono essere raggruppate nella categoria Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non altrimenti specificato del DSM IV (F84.8, F84.9 e F84.1) rappresentano circa i 2/3 delle diagnosi della categoria F84. Rappresentata per circa 1/4 appare la diagnosi di autismo, al di sotto del 1/10 appare il disturbo di Asperger: tali percentuali risultano relativamente stabili negli anni di osservazione (Tabella 6).
Tabella 6. Distribuzione Nuove Diagnosi per Codifica ICD10.
CODICE DIAGNOSI
Nr. PAZIENTI 2008
% 2008
Nr. PAZIENTI 2009
% 2009
Nr. PAZIENTI 2010
% 2010
Nr. PAZIENTI 2011
% 2011
F84
79
23,87
103
26,08
92
23,17
85
24,1
F84.0
98
29,61
111
28,10
102
25,69
99
28
F84.1
28
8,46
32
8,10
30
7,56
29
8,2
F84.2
6
1,81
3
0,76
5
1,26
2
0,6
F84.3
3
0,91
3
0,76
3
0,76
2
0,6
F84.4
3
0,91
5
1,27
6
1,51
6
1,7
F84.5
20
6,04
20
5,06
36
9,07
20
5,7
F84.8
43
12,99
28
7,09
23
5,79
23
6,5
F84.9
51
15,41
90
22,78
100
25,19
87
24,6
TOTALE
331
395
397
353
167
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
Comorbidità Si tratta dei dati relativi alla comorbidità tra Disturbi dello Spettro Autistico e altre patologie, in particolare quelle relative all’Asse 3 (Ritardo mentale) e all’Asse 4 (Patologie Organiche), variamente frequenti in letteratura e nell’esperienza della pratica quotidiana. Tali dati sono del tutto preliminari e richiedono ulteriori approfondimenti ed analisi. Comunque dei 2241 soggetti diagnosticati come DSA poco più di 1/3 associa ritardo mentale di varia gravità: tale percentuale si incrementa di poco se il dato è riferito al campione di soggetti di età compresa tra 6 e 18 anni, facendo considerare che il deficit cognitivo appare una caratteristica di “stabilità” nell’ambito della diagnosi di DSA (Tabella 7) .
Tabella 7. Soggetti con comorbidità diagnosi F84 e Ritardo Mentale.
Nr. Pazienti F84 2010
Nr. Pazienti F84 + Ritardo 2010
% soggetti F84 + Ritardo 2010
Nr. Pazienti F84 2011
Nr. Pazienti F84 + Ritardo 2011
% soggetti F84 + Ritardo 2011
Totale regionale corretto
2097
788
37.6
2241
764
34,1
Totale regionale 6-18 anni
1739
676
38.8
1739
676
38,8
Il valore appare inferiore a quello della letteratura (percentuali variabili dal 75% al 40%); un’ulteriore fattore di incertezza è dovuto all’alta variabilità con cui la codifica di ritardo mentale viene segnalata dai differenti servizi territoriali afferenti a NPI. net: si va da una percentuale minima di circa il 7% ad un massimo del 69%. Questi valori indicano probabilmente che in molti casi pur essendo presente un Ritardo Mentale associato al Disturbo dello Spettro Autistico, questo non viene registrato in NPI.net, pur essendo il ritardo mentale un fattore prognostico negativo e predittivo di un più importante carico familiare e sanitario anche in età adulta. Probabilmente altrettanto sottostimati sono i dati per quanto riguarda la comorbidità con altre patologie mediche (Asse 4). Al 2010 sono stati individuati 324 soggetti codificati per affezioni mediche su 2097 soggetti diagnosticati come DSA, corrispondenti ad una percentuale del 15.5 %. Di questi circa un 7% è rappresentato dall’epilessia, un altro 5% dalle encefalopatie malformative o lesionali e un 2% rispettivamente dalle anomalie cromosomiche e dai disturbi sensoriali; solo lo 0.5% è riferibile alla sindrome di Martin Bell.
168
M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
Impegno dei servizi Il monitoraggio dell’azione dei servizi per quanto riguarda il Percorso Autismo è stato condotto attraverso questionari compilati dai responsabili delle strutture afferenti ad NPI.net. Pertanto sono rimasti esclusi dalla rilevazione i servizi sanitari pubblici e privati convenzionati che si occupano a qualunque titolo del percorso riabilitativo dei DSA ma che non sono inclusi nella rete regionale di rilevazione. Sono state considerate le prestazioni dirette e indirette a favore di minori con Disturbi dello Spettro Autistico nel periodo 2008-2011. Il primo anno (2008) può essere considerato quello di partenza (baseline), precedente all’invio alle ASL delle Linee di indirizzo del Percorso Autismo, quelli successivi (2009-2011) possono essere indicativi di un primo “effetto” del documento di indirizzo, almeno a livello quantitativo. La Tabella 8 riporta il numero di prestazioni dirette e indirette a favore di minori con Disturbi dello Spettro Autistico, nel periodo considerato. Il dato appare in costante aumento e il confronto tra la situazione di partenza (2008, prima del documento di indirizzo regionale) e quella dopo circa due anni (dato 2010) indica un incremento delle prestazioni dirette di quasi il 42% (circa 5700 prestazioni dirette in più), di quelle indirette di circa il 38% (3268 prestazioni indirette in più); tali dati si sono pressoché stabilizzati nel 2011. I risultati possono essere considerati un primo indicatore di efficacia del sistema dei servizi a livello regionale, ma anche un possibile indicatore di efficienza, visto che nel periodo considerato, complice anche la congiuntura economica, non sono di certo aumentate le risorse umane. Naturalmente, ciò non significa che la risposta dei servizi abbia raggiunto un livello soddisfacente, né che ci sia una omogeneità sul territorio regionale. Inoltre, questi dati quantitativi nulla dicono sulla qualità dei servizi erogati. Per quanto riguarda la tipologia delle prestazioni dirette erogate le figure professionali che in genere fanno parte dell’équipe multidisciplinare (NPI, Psicologo, Logopedista, TNPEE) fanno rilevare tutte un netto incremento di attività, così come l’Educatore che al momento è presente solo in poche realtà. L’incremento maggiore si osserva per le figure di Logopedista e TNPEE (+78% e + 77%) che sempre più appaiono le professionalità che maggiormente si occupano dell’intervento abilitativo (Tabella 9). Nel caso in cui i dati delle prestazioni dirette vengano riferite alle differenti fasce di età prese in esame all’inizio (Tabella 10) si rileva come, sin dalle prime rilevazioni del 2008, più dei 2/3 del lavoro sia rivolto ai soggetti di età compresa tra 4 e 11 anni. Poiché il documento di indirizzo sull’autismo prodotto dalla Regione Piemonte nel 2008 sottolineava l’importanza della diagnosi e dell’intervento precoce, indicando come prioritaria l’intensità dell’intervento nei bambini più piccoli, si rileva un passaggio, nella fascia da 0 a 3 anni, da percentuali irrisorie nel 2008 a valori percentuali superiori all’8% nel 2011 e, nella fascia da 4 a 6 anni, da valori di poco superiori al 20% nel 2008 a percentuali intorno al 35% nel 2011, confermando che le linee di indirizzo sono state almeno in parte recepite dai servizi. Ugualmente in linea con quanto indicato appaiono le prestazioni dirette annue per fasce di età, che risultano circa il
169
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
Tabella 8. Prestazioni dirette e indirette anni 2008-2011. confronto % rispetto all’anno precedente
PRESTAZIONI INDIRETTE
confronto % rispetto all’anno precedente
anno
PRESTAZIONI DIRETTE
2008
13559
2009
15847
+ 14,44
9709
+ 10,62
2010
19250
+ 17,68
11946
+ 18,73
2011
20096
+ 4,2
11890
- 0,5
INCREMENTO PERCENTUALE 2008 - 2010
+ 41,97
8678
+ 37,66
doppio per le fasce 0-6 anni rispetto alla fascia 7-11 anni (Tabella 11) Quest’ultima fascia di età negli anni presenta una riduzione delle prestazioni sia in termine assoluto che percentuale, mentre nelle fasce successive (12-18 anni) la riduzione appare solo percentuale mentre si osserva un lieve incremento nel valore assoluto. Nel complesso comunque il livello assistenziale dei servizi pubblici così come fotografato dai dati in nostro possesso è ancora largamente insoddisfacente; il numero medio di prestazioni per soggetto, nelle diverse fasce d’età è, infatti, sicuramente al di sotto di quello necessario per garantire trattamenti adeguati alle esigenze dei soggetti con autismo. In particolare, appare assolutamente insufficiente il livello assistenziale
Nr. prestazioni 2008
1609
768
31
2128
4045
2814
2
1200
272
690
OPERATORI
Educatore
Fisioterapista
Infermiere professionale
Logopedista
NPI
Psicologo
Tecnico
TNPEE
Terapista riabilitazione
Altro operatore
5,09
2,01
8,85
0,01
20,75
29,83
15,69
0,23
5,66
11,87
% 2008
220
297
1682
1
3501
4871
2912
21
674
1668
Nr. prestazioni 2009
1,39
1,87
10,61
0,01
22,09
30,74
18,38
0,13
4,25
10,53
% 2009
39
221
2128
1
3966
6015
3792
20
933
2135
Nr. prestazioni 2010
0,20
1,15
11,05
0,01
20,60
31,25
19,70
0,10
4,85
11,09
% 2010
Tabella 9. Distribuzione prestazioni dirette per operatore.
-94,3
-18,8
77,3
-50,0
40,9
48,7
78,2
-35,5
21,5
32,7
INCR. % 2008 2010
15
183
2744
1
4266
6066
3815
12
690
2290
Nr. prestazioni 2011
0,1
0,9
13,6
0,01
21.2
30,2
19
0,1
3,4
11,4
% 2011
170 M. CREMONTE - M. ARDUINO - P. BAILO - M. GANDIONE
171
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
Tabella 10. Distribuzione prestazioni dirette per fascia d’età. FASCIA ETÀ
Nr. prestazioni 2008
% sul totale
Nr. prestazioni 2009
% sul totale
Nr. prestazioni 2010
% sul totale
Nr. prestazioni 2011
% sul totale
0-3
28
0,21
209
1,35
1312
6,82
1644
8,2
4-6
2988
22,04
5070
32,69
7449
38,70
7117
35,4
7-11
7038
51,91
6679
43,06
6604
34,31
7198
35,8
12-14
1995
14,71
1797
11,59
2198
11,42
2023
10,1
15-18
1510
11,14
1755
11,32
1687
8,76
2114
10,5
rivolto alla fasce più giovani, verso cui, per tutte le Linee Guida, il trattamento dovrebbe essere “intensivo”. Tra le sindromi psichiatriche in età evolutiva i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) rappresentano forse quelli che hanno un maggior impatto sociale per la pervasività dei sintomi, la loro durata, la frequente comorbidità con altri gravi patologie come il Ritardo Mentale e per la significativa frequenza. Infatti la letteratura internazionale riporta valori di prevalenza che sono gradualmente cresciuti dagli anni ’70 a oggi, passando da percentuali di 4-5 su 10.000 alle attuali vicine all’1 su 100 (Fonbonne, 2009; Meledandri, 2009). Tale incremento è da un lato dovuto alla maggiore sensibilizzazione della diagnosi di DSA ma dall’altro anche ad un allargamento dello spettro diagnostico: infatti da criteri strettamente kanneriani degli anni 70-80 la diagnosi si è ampliata con i criteri formulati nel DSM IV-TR e nell’ICD10, specie con la codifica rispettivamente del disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato o sindrome non specificata da alterazione dello sviluppo psicologico (PDD-NOS o PDD-NAS). Stime realistiche e ragionevoli indicano che i DSA presentano attualmente una prevalenza nella popolazione generale dei quattro continenti del 6 per mille per i PDD e del 1.7 per mille per l’autismo (Chiarotti, 2012). In Italia non esistono allo stato attuale dati generali sulla popolazione complessiva ma solo alcuni sporadici dati parziali derivati sia da sistemi di rilevazione sanitaria regionale sia dal sistema scolastico (Bailo, 2011). Una indagine condotta nella regione Emilia Romagna evidenzia una prevalenza nel gruppo di età 0-17 anni dello 2.3 per mille (Nardocci, 2010; Chiarotti, 2012). Il sistema di rilevamento delle diagnosi strutturato nel 2002 dall’Assessorato Regionale alla Sanità della Regione Piemonte (NPI.net) ha permesso di ottenere dei dati sufficientemente completi riguardo alla diagnosi e agli interventi nell’ambito dei DSA nella fascia di età 0-18 anni. Tali dati dimostrano che la prevalenza complessiva dei Disturbi dello Spettro Autistico in ambito regionale è ancora inferiore ai dati internazionali (3.1 per mille) ma superiore al confronto con i dati dell’Emilia Romagna, unici sino ad ora nel panorama italiano per ampiezza del campione di popolazione. D’altro canto se si considerano solo i soggetti nella fascia di età della scuola elementare (7-11 anni) tale valore raggiunge il 4.5 per mille e si avvicina a quello
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Tabella 11. Prestazioni dirette annue per fascia d’età.
Nr Pazienti
Nr. Medio Prestazioni Per Fascia D’età
Nr. Prestazioni 2011
Nr Pazienti
N. Medio Prestazioni Per Fascia D’età
1312
103
12,74
1644
97
16,9
4-6
7449
415
17,95
7117
421
16,9
7-11
6604
795
8,31
7198
858
8,4
12-14
2198
395
5,56
2023
455
4,4
15-18
1687
389
4,34
2114
410
5,2
Fascia età
Nr. Prestazioni 2010
0-3
EPIDEMIOLOGIA DEI DSA IN PIEMONTE
173
indicato dalla recente letteratura. Analizzando in dettaglio il campione complessivo appare altresì evidente come i valori percentuali risultino molto bassi nelle età più precoci, in particolar modo nel primo biennio di vita. Tali aspetti sono comuni anche ad altri autori (D’Ardia, 2007) e derivano dalla difficoltà incontrata dagli specialisti nella codifica diagnostica di soggetti che spesso non presentano ancora tutto l’ambito comportamentale dello spettro autistico. D’altronde la presenza di valori vicini al 3 per mille nella fascia immediatamente superiore indica come, anche attraverso l’opera di sensibilizzazione e di formazione derivata dalla Linee Guida regionali del 2008 e dall’intervento del Coordinamento per l’autismo, l’invio da parte dei pediatri di base e la successiva diagnosi di DSA da parte degli specialisti regionali avvenga in epoca più precoce ed in maniera più tempestiva rispetto al passato. La maggiore sensibilizzazione sia dei pediatri che degli specialisti verso il problema è anche confermata dall’incremento costante nel tempo delle diagnosi, sia in valore assoluto che percentuale, ulteriore indicatore dell’utilità dell’opera di formazione portata avanti dal Coordinamento Regionale. La caduta della prevalenza nella fascia di età più alta (15-18 anni) oltre a possibili carenze diagnostiche che rispecchiano una minor sensibilizzazione al problema comune negli anni ’90 e nei primi anni 2000, potrebbe essere riferibile anche ad una migrazione delle diagnosi. Infatti è di esperienza comune a molti autori che specialmente i PDD-NOS col tempo fuoriescono dai DSA per altre diagnosi in una percentuale intorno al 20% (Rondeau, 2010, Woolfenden, 2012, Zappella, 2010). È pur vero che esiste ancora una certa disomogeneità nell’ambito del territorio regionale circa la diagnosi di DSA: tale dato non può essere imputabile solo a fattori ambientali o demografici, anche tenendo conto di differenti flussi migratori nei vari ambiti regionali o di fattori genetici insiti in alcuni gruppi di popolazioni che vivono in alcune valli. Anche la presenza più o meno rilevante sul territorio di servizi pubblici e privati che si occupano della diagnosi e del trattamento di tali disturbi ma non accedono al server NPI.net non rende appieno ragione di tali sostanziali differenze. È probabile che, nonostante il lavoro svolto a livello regionale, alla base ci sia ancora una incompleta sensibilizzazione e formazione degli operatori dei differenti servizi territoriali che porta ad una sottovalutazione delle diagnosi e della loro codifica corretta. D’altra parte incoraggiante appare il dato dell’incremento delle nuove diagnosi negli anni successivi alla pubblicazione delle Linee Guida regionali sull’autismo, con una impennata negli anni 2009-2010. Questo, pur essendo probabilmente sovrastimato se confrontato con i dati relativi all’incidenza (il valore ponderato è meno della metà rispetto alle nuove diagnosi), fa supporre che comunque ci sia una progressiva crescita quali-quantitativa nel lavoro degli specialisti del servizio pubblico: ciò sarebbe anche dimostrato da recenti dati che vedono la maggior parte delle Strutture di NPI impegnate a costituire équipe multi professionali con competenze specifiche finalizzate alla diagnosi e alla presa in carico dei DSA. Ciò potrebbe permettere in un recente futuro di abbattere drasticamente la diagnosi generica F84 (sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico senza alcuna specificazione) che occupa ancora una parte importante (24%) nelle codifiche dei DSA ma che probabilmente è anche dovuta a codifiche “in corso d’opera” che non
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sono state successivamente aggiornate o meglio precisate anche per le note carenze di tempo e personale delle strutture. Le percentuali di disturbo autistico (F84.0) nel 2011 raggiungono un significativo 28% delle prime diagnosi, mantenendosi peraltro discretamente stabili nel corso degli ultimi anni e avvalorando il fatto che i casi di autismo classico sono sempre stati relativamente “facili” alla codifica. Similmente si può affermare del disturbo di Asperger (F84.5) che si mantiene nettamente al di sotto del 10%. La maggior parte delle codifiche appare peraltro riferibile a PDD-NOS (F84.1, F84.8, F84.9) che nel 2011 raggiungono quasi il 40%, (valore che si avvicina al 65% se viene assommato alla codifica F 84 generica): inoltre dal 2008 al 2011 si è assistito ad una lenta ma progressiva crescita di tali codifiche probabilmente dovuta alla sensibilità e capacità degli specialisti dei servizi di identificare anche i casi più lievi o atipici. Tali dati concordano discretamente con quelli della recente letteratura internazionale (Baird, 2006; Kim, 2011) che individua un rapporto 3/1 tra le diagnosi di PDD-NOS e quelle di DA. Tale ottica dovrà comunque essere modificata alla luce delle nuove indicazioni dell’APA che nel DSMV di prossima pubblicazione individua, nell’ambito dei disturbi neuro evolutivi (dello sviluppo), un’unica entità del disturbo dello spettro autistico caratterizzata da diversi livelli di gravità e aggiunge ampliandolo il gruppo dei disturbi della comunicazione con l’indicazione di un gruppo di disturbi della comunicazione sociale che possono presentare correlazioni con i DSA (in special modo PDD-NOS) (Levi, 2012; Wing, 2011). I dati relativi alla comorbidità dei DSA sono stati ampiamente studiati in particolare per quanto riguarda l’associazione con il ritardo mentale e le patologie mediche congenite o acquisite (D’Ardia, 2012; Johnson, 2007). La preliminarietà dei nostri dati, ancora parziali e non corretti, non permette significativi raffronti con i dati relativi alla recente letteratura. Ad esempio il ritardo mentale, che nei lavori degli anni novanta raggiungeva anche valori superiori al 70%, percentuale che si è ridotta a valori variabili dal 45 al 60% negli studi più recenti (CDC, 2006), appare di riscontro comunque molto frequente nella popolazione dei DSA. Tale dato appare meno rappresentato nelle nostre stime dove il ritardo mentale colpisce circa 1/3 del totale: ciò probabilmente è dovuto ad una incorretta modalità di codifica che privilegia il disturbo del comportamento rispetto al funzionamento cognitivo ma anche talora ad una oggettiva difficoltà, su taluni soggetti, di effettuare valutazioni del funzionamento cognitivo affidabili. Da ultimo va aggiunta la persistenza, rara ma dura a morire in taluni operatori, di una certa cultura che tendeva a considerare il disturbo dello spettro autistico come qualcosa di esclusivamente emotivo-relazionale per cui non rivestiva significatività la valutazione cognitiva. Diversamente, da tempo conosciamo con certezza il valore predittivo che riveste, sia sull’evoluzione del soggetto con DSA che sul carico di lavoro dei servizi e delle famiglie, la presenza di un funzionamento cognitivo deficitario. Recenti dati italiani (Picardi, 2012), in linea con i dati internazionali, evidenziano che il carico di impegno e di stress richiesto alle famiglie dei soggetti con DSA, già più elevato rispetto ad altre patologie croniche invalidanti quali la sindrome di Down e il diabete, aumenta significativamente nel caso il soggetto presenti anche ritardo mentale.
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Maggiormente in linea con la letteratura risultano le percentuali dei soggetti che associano il DSA con differenti affezioni mediche; il valore del 15.5% riscontrato nel 2010 rientra nelle stime pubblicate che variano dal 10 al 25% nei diversi lavori ( Johnson, 2007); l’associazione con epilessia, relativamente frequente nei soggetti con DSA ma variabile in letteratura dall’11 al 39% (variabilità in gran parte dovuta alla selezione dei campioni esaminati) si rileva del 7% nel nostro gruppo, con una rappresentazione di quasi tutte le sindromi epilettiche. I nostri dati confermano inoltre il fatto che la sindrome dell’X fragile, con uno 0.5%, è scarsamente rappresentata nel gruppo dei DSA, così come non superano il 2% le anomalie cromosomiche e i disturbi sensoriali. Non vi sono dati relativi alle nuove metodiche di indagine genetica molecolare (es. l’Array-CGH) in tale ambito, ma almeno per l’esperienza personale, queste allo stato attuale, non paiono apportare significative novità in questo ambito clinico-diagnostico. I dati sopra esposti, se ulteriormente confermati, ci dovranno far riflettere sull’opportunità e sull’utilità, in tempi di gravi ristrettezze economiche, di investire risorse in screening genetico-metabolici, neurofisiologici, sensoriali e neuroradiologici indiscriminati su tutti i soggetti affetti da DSA. Tali risorse appaiono invece indispensabili per affrontare in maniera proficua la presa in carico di tali soggetti. Infatti i servizi, a fronte del perfezionamento delle capacità diagnostiche cliniche, dell’incremento delle diagnosi di DSA e delle indicazioni delle Linee Guida nazionali che sollecitano un intervento tempestivo e precoce, si trovano spesso, con organici ridotti all’osso, sopraffatti da innumerevoli richieste provenienti dalle più svariate tipologie di utenza. Nonostante ciò, i nostri dati indicano che le prestazioni dirette ed indirette dedicate ai DSA si sono costantemente e grandemente incrementate dal 2008 (anno di pubblicazione delle Linee Guida regionali) al 2010, rimanendo sostanzialmente stabili nel 2011. Tale incremento è certamente dovuto ad una migliore organizzazione dei servizi che nella maggior parte dei casi hanno costituito delle équipe multi professionali ad hoc in funzione di coordinamento degli interventi, probabilmente focalizzandosi in prevalenza su quelli che la letteratura e le linee guida ritengono i più idonei e produttivi; ma è prevedibile che, visto che in questi anni le risorse umane e materiali a disposizione non sono certo aumentate, ciò sia avvenuto anche a scapito di patologie considerate “meno importanti” e che quindi potrebbero aver avuto più difficoltà ad una presa in carico continuativa. D’altronde che gli interventi siano più mirati lo si rileva anche dalla tipologia degli operatori interessati; sempre più incremento del lavoro di terapisti della neuro psicomotricità e logopedisti accanto a neuropsichiatri e psicologi, scomparsa di figure professionali meno qualificate ed emergenza, al momento solo in alcune realtà, della figura dell’educatore. Quest’ultimo in stretto rapporto con la famiglia per aiutarla nel training parentale ma anche per alleviarla dalla fatica nella gestione dei comportamenti disfunzionali, specie nelle fasce di età maggiori. L’indicazione dell’utilità di una diagnosi e di una presa in carico precoce del disturbo ha determinato un progressivo incremento delle prestazioni nelle fasce di età sino al primo ciclo scolastico, ma ciò ha probabilmente determinato una lieve ma significativa riduzione delle prestazioni nelle fasce successive poiché, in assenza di
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risorse aggiuntive, sono stati privilegiati i soggetti di minore età verso cui maggiori si presentano le aspettative di miglioramento o anche di uscita dalla diagnosi di DSA. D’altronde se analizziamo i dati derivati dalle di prestazioni dirette annue ci accorgiamo che il livello assistenziale fornito dai servizi pubblici afferenti a NPI.net è ancora largamente insufficiente: i migliori valori annuali riscontrati nelle fasce di età 0-6 anni non raggiungono le 17 prestazioni/anno. Pur considerando che, sempre per una carenza di personale, non tutti gli interventi siano stati caricati su NPI.net dai servizi afferenti, appare ragionevole pensare che una buona parte di questi siano dispensati da strutture private convenzionate dell’ambito regionale che suppliscono in questo modo alle carenze del servizio pubblico. In conclusione i dati sopra esposti, pur se limitati ad una sola regione e ancora parziali, evocano alcune riflessioni. I disturbi dello spettro autistico rappresentano un’entità clinico diagnostica in progressiva crescita nel mondo occidentale e questo non tanto per un problema “epidemico” ma quanto specialmente per l’affinamento culturale degli specialisti che porta ad identificare più facilmente ed in epoca sempre più precoce tali quadri disfunzionali, aspetti ben rilevabili anche dai nostri dati che evidenziano come nella fascia 0-18 anni quasi 2300 soggetti su di una popolazione di circa 700.000 siano colpiti da tale disturbo. Da qui il ruolo centrale dei servizi di Neuropsichiatria Infantile che, in collaborazione con i pediatri di base e con la scuola, sono deputati sia ad individuare sempre più precocemente i segni clinici di tali patologie che a fornire gli indirizzi per una adeguata e positiva presa in carico di tali bambini e delle loro famiglie. In effetti per gli specialisti dell’età evolutiva, come nel caso di molti disturbi neuropsichici, la presa in carico non può limitarsi alla semplice diagnosi ed indicazioni terapeutiche ma deve attuare e coordinare una rete di interventi chiari, codificati e riconosciuti validi dalle attuali Linee Guida, che accompagnino l’evoluzione del soggetto all’interno del tessuto sociale sino alla sua vita adulta. Evoluzione, quindi possibilità di modifica in corso d’opera degli interventi e della stessa diagnosi che nel caso dei PDD-NOS in circa 1/4 dei casi può non confermarsi a distanza o per “guarigione” o per passaggio ad altre diagnosi (Bailo, 2011). Certamente per fare ciò occorrono strumenti formativi, di valutazione e di verifica omogenei e diffusi, cosa che all’interno della Regione Piemonte si sta attuando attraverso il Coordinamento Regionale per l’autismo. Ma, viste anche le attuali ristrettezze economiche e le ataviche carenze di personale, dai nostri dati emerge che il servizio pubblico non riesce, da solo, a fornire un’adeguata e qualificata assistenza a tali soggetti e alle loro famiglie e che se, per l’opera di sensibilizzazione portata avanti negli ultimi anni, con la diagnosi precoce gli interventi si sono spostati sempre più verso i primi anni di vita, le possibilità di trattamento almeno quantitativamente sono ancora nettamente insufficienti e frammentate e pertanto molto spesso delegate a strutture convenzionate. Anche in tale ambito però, nell’utopica attesa di maggiori o almeno meglio distribuite risorse, il ruolo dei servizi pubblici deve almeno essere quello di coordinamento delle tecniche di cura validate e di verifica puntuale dell’evoluzione dei singoli soggetti alla luce dei trattamenti effettuati. A ciò deve obbligatoriamente associarsi un ruolo di costante riferimento per le famiglie a cui fornire precise e dettagliate indicazioni sia dei possibili trattamenti sia delle tecniche di parent training per
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i DSA. Solo facendo sentire agenti attivi e partecipativi i familiari si potranno evitare o almeno mitigare quei sentimenti di impotenza/depressione e di abbandono/rabbia che frequentemente colpiscono le famiglie dei soggetti affetti da DSA e che, se non adeguatamente supportate, portano verso una frammentazione degli interventi e a “fughe” su terapie alternative spesso anche economicamente dispendiose. Nota: Si ringraziano tutti i componenti del Coordinamento Regionale per l’Autismo ed in particolare la Dott.ssa Maria Maspoli della Direzione Sanità, Settore Organizzazione dei Servizi Sanitari Ospedalieri e Territoriali della Regione Piemonte. Un particolare ricordo al Dott. Dante Besana, Primario Neuropsichiatra Infantile scomparso nel 2011, che tante energie ha profuso per l’attivazione e il funzionamento di tale coordinamento e della rete NPI.net. Riassunto Gli Autori descrivono l’esperienza della Regione Piemonte nella raccolta dei dati epidemiologici riguardanti i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA). L’Assessorato Regionale alla Sanità dal 2002 si è dotato di un network di raccolta dati chiamato NPI. net a cui afferiscono le diagnosi formulate dai Servizi di Neuropsichiatria Infantile e da alcuni servizi di Psicologia e di Riabilitazione Funzionale della regione. Inoltre dal 2008 è stato attivato un Coordinamento Regionale per l’Autismo con funzione di indirizzo e di formazione in tale ambito. I dati epidemiologici presentati confermano una costante crescita delle diagnosi di DSA con percentuali di prevalenza che, per gli ultimi anni, superano il 3 per mille, avvicinandosi ai valori della letteratura internazionale. Anche la prevalenza netta del sesso maschile (4:1) è in linea con la letteratura. Viene evidenziato il fatto che la diagnosi di tali disturbi, grazie alla maggiore sensibilizzazione degli specialisti, avviene in epoche sempre più precoci Alla luce dei dati rilevati vengono inoltre discusse le differenti comorbidità e il crescente impegno dei servizi pubblici della regione nell’affrontare le problematiche legate a tali disturbi. Parole chiave Disturbi dello spettro autistico – Disturbi pervasivi di sviluppo – Autismo – Epidemiologia.
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Chiederesti aiuto ad un Servizio di Counselling Psicologico? L’atteggiamento di studenti universitari verso la sofferenza mentale e l’attitudine a chiedere aiuto Would you seek help from a Counselling Service? The attitude of university students toward mental health Antonella Gritti*, Angela Maria Di Sarno*, Silvana Lucariello*, Annamaria Meterangelis*, Bianca Bottiglieri**, Rosario Pietroluongo**, Tiziana Salvati*
Summary The Authors examined the knowledge about the Counselling and the attitude toward mental health and help-seeking among university students. A sample of 226 students completed a self-administered questionnaire providing information related to the aims of the research. Most of the sample (56%) did not know about the Conselling; furthermore, the 77% did not know the Counselling Service of the University. Data shows that the majority of the students had fear of stigma and a self-reliance, associated with low attitude to seek professional help. Results show factors that might interferer with the use of mental health services among young people. Key words Counselling – Students – Mental Health.
Introduzione La tipologia di utenza che afferisce ai Servizi di Counselling universitari include, oltre a studenti che attraversano una condizione di crisi psicologica che ostacola gli studi, anche soggetti con una vasta gamma di sintomi comportamentali e affettivi riconducibili a quadri psicopatologici (Benton, 2003, Ruvolo 2005). In Italia, Lia e coll. hanno indagato l’entità e la tipologia dei disturbi psichici tra gli studenti. Circa un terzo degli utenti di un Servizio Universitario manifestava un disturbo diagnosticabile al DSM-IV e circa la metà di questi era composta da soggetti con disturbi depressivi di vario tipo (Lia et al., 2011). La letteratura specialistica richiama l’attenzione sull’aumento tra la popolazione studentesca di difficoltà emotive, comportamentali e di disturbi psichiatrici e sulla necessità di offrire a questa utenza Servizi di Counselling (Storrie, Ahern, Tuckett, * Università
Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Scienze della Formazione, Napoli. Dipartimento di “Scienze formative psicologiche e della comunicazione”. ** Servizio di Orientamento e Tutorato. Università Suor Orsola Benincasa, Napoli.
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2010; Cook, 2007; Schwartz, 2006). Benton (2003) ha valutato la variazione del numero e tipologia delle richieste di 13257 studenti universitari nell’arco di tredici anni ed ha messo in evidenza il netto aumento di ansia, depressione, ideazione suicidale, e disturbi di personalità, mentre le consultazioni per problemi legati alla vita universitaria erano aumentati in modo meno consistente. Coelho de Oliveiro (2008), in un campione di oltre 2000 studenti, ha riscontrato un alto numero di richieste riguardanti conflittualità in ambito familiare. Occorre sottolineare che l’inizio degli studi universitari coincide con una fase complessa il cui compito evolutivo è la transizione verso l’età adulta, i conflitti che accompagnano la transizione (Adamo, Giusti, Portanova et al., 2005; Hicks, Heastie, 2008) possono facilitare l’insorgenza di crisi transitorie o l’esordio di disturbi psicopatologici . Purtroppo, il rapporto tra l’entità del bisogno d’aiuto ed il numero di studenti che si rivolgono ai servizi universitari è piuttosto basso, in Italia come all’estero (Ruvolo, 2005; Yorgason, Linville, Zitzman, 2008; Eisenberg, Hunt, Speer et al., 2011). In particolare, tra gli studenti che soffrono di un disturbo psichico, una quota compresa tra il 30% e l’80% non chiede aiuto (Eisenberg, Golberstein, Gollust, 2007). Studi su estese popolazioni studentesche, svolte presso università statunitensi, indicano che, a fronte di circa il 40% di studenti universitari che vivono un disagio psicologico, solo il 10% si rivolge ai Servizi di Counselling universitario (Eisenberg, Golberstein, Gollust, 2007; Hyun, Quinn, Madon et al. 2007; Rosentthal, Wilson, 2008). I fattori sottesi alle resistenze a rivolgersi ai Servizi universitari sono il timore dello stigma - che incide in modo rilevante nella fascia d’età 12-22 anni - la diffidenza in ordine alla riservatezza della consultazioni o alla affidabilità degli operatori, la scarsa conoscenza degli scopi e metodi dei Servizi (Golberstein, Eisenberg, Gollust, 2008; Eisenberg, Downs, Golberstein et al., 2009). Gulliver, Kathleen e Griffiths (2010) in una review sul tema elencano, in ordine di frequenza, i motivi che ostacolano la richiesta d’aiuto psicologico da parte dei giovani (Tabella 1). Variabili quali età, sesso, provenienza culturale o sociale non incidono significativamente (Rosentthal, Wilson, 2008). Le resistenze a chiedere aiuto psicologico sono diffuse nella popolazione generale e ancora di più nella fascia adolescenziale (Rickwood, Deane, Wilson, 2007), epoca in cui la conflittualità si incentra proprio sull’area della dipendenza, laddove l’accettazione dei propri limiti e di un certo grado di dipendenza potrebbero sostenere l’alleanza di lavoro in psicoterapia. È stato dimostrato che i giovani che maturano una esperienza positiva nel corso di una prima consultazione psicologica incontrano meno ostacoli a formulare una richiesta d’aiuto successivamente, qualora ne abbiano bisogno (Gulliver, Kathleen, Griffiths, 2010). La qualità dell’ascolto nel primo incontro appare determinante per sostenere la spinta ad esplorare la propria vita mentale e facilitare il rapporto con la dimensione intrapsichica (Ferraro, Petrelli, 2000). Nel complesso, il Counselling Psicologico in ambito universitario svolge una funzione più estesa di quanto si ritenga. L’utenza richiede un aiuto specialistico che va
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Tabella 1. Ostacoli a chiedere aiuto ad un Servizio di Counselling in ordine di frequenza.* 1
Stigma personale e sociale verso la malattia mentale
2
Esigenze di riservatezza, scarsa fiducia
3
Difficoltà ad identificare i sintomi
4
Preoccupazioni circa le caratteristiche del fornitore del servizio
5
Fiducia in sé, rifiuto di chiedere aiuto
6
Scarsa conoscenza dei servizi di salute mentale
7
Timore dello stress prodotto dal chiedere aiuto o timore verso chi fornisce l’aiuto
8
Tempi, costi, accessibilità
9
Difficoltà o rifiuto di esprimere emozioni
10
Non voler essere “un peso” per gli altri
11
Ricorso ad altre risorse di aiuto (famiglia, amici, ecc..)
12
Paura degli effetti sulla carriera
13
Ritenere che gli altri non comprendono il bisogno d’aiuto o non hanno la capacità di aiutare * Da Gulliver et al., 2010, modificato.
ben oltre l’intervento sulla crisi e la messa in moto di energie per la ripresa degli studi universitari. Pur non configurandosi come ambulatori diagnostici, i Servizi di consultazione per studenti possono svolgere anche una funzione di monitoraggio e prevenzione della salute mentale giovanile. Obiettivo del lavoro Sulla scorta dei dati riferiti in letteratura abbiamo svolto questo studio con l’obiettivo di esplorare a) il grado di conoscenza degli studenti universitari riguardo ai servizi Counselling Psicologico, in generale, e di quello dell’Università Suor Orsola Benincasa1, b) le loro credenze al riguardo, c) la loro attitudine a chiedere aiuto in caso di difficoltà. Lo studio inoltre mirava ad ottenere informazioni circa l’atteggiamento degli studenti nei confronti della salute mentale, e le variabili che possono influenzare la richiesta d’aiuto al servizio.
1
Si ringrazia la Prof. Ornella De Sanctis, Responsabile del Coordinamento delle Attività di Orientamento e Comunicazione di Ateneo per il sostegno a questa ricerca. Presso l’ Università Suor Orsola Benincasa di Napoli è attivo un Servizio di Counselling Psicologico per studenti Universitari. La metodologia di lavoro si articola in un primo incontro finalizzato a esplorare le difficoltà presenti e valutare opportunità e motivazioni a proseguire l’intero ciclo che include un massimo di quattro incontri. Gli operatori sono psicologi e neuropsichiatri infantili, tutti psicoterapeuti esperti. L’orientamento teorico prevalente è psicoanalitico.
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Soggetti e metodi Partecipanti. Sono stati arruolati 320 studenti afferenti a vari corsi di laurea della facoltà di Scienze Pedagogiche, scelti in maniera random tra coloro che frequentavano il primo semestre di corsi, nell’anno accademico 2009-2010. Gli studenti sono stati informati dello scopo della ricerca ed invitati a partecipare. N° 94 studenti hanno restituito il questionario in bianco. Il campione è risultato composto di 226 studenti. Le caratteristiche del campione sono riportate nella Tabella 2.
Tabella 2. Caratteristiche del campione. N. Studenti
226
F/M %
F. 74 % M. 26 %
EM e SD
22.39 SD±1
Residenza
32% Città, 68% Provincia
Titolo di studio
72% Diploma, 12% Laurea triennale, 16% Laurea magistrale.
Corso di Laurea
58% Scienze dell’Educazione, 14% Lingue,13% Beni Culturali, 4% Giurisprudenza, 3% Scienze della Comunicazione, 3% Lettere, 2% CDI, 2% DEAMS, 1% Altro.
Strumenti. È stato approntato un questionario (Allegato 1) costruito in base ad una revisione della letteratura, con particolare riguardo al test di Fischer (1970). Il questionario è composto di due sezioni, la prima raccogliere i dati anagrafici, residenza, titolo di studio, corso di laurea. La conoscenza del Counselling Psicologico e del Servizio d’Ateneo è esplorata attraverso domande a risposta chiusa ed aperta (Quesito A e B). La seconda sezione è composta di una scala tipo Likert decrescente, 21 items (completamente d’accordo, d’accordo, in disaccordo, in completo disaccordo). I contenuti degli items sono stati scelti nell’intento di valutare sia l’atteggiamento degli studenti nei confronti del counselling che il grado di Autoreferenzialità (item 1, 4, 19, 17, 20), Paura dello stigma (item 2, 7, 11, 15), Attitudine a chiedere aiuto psicologico(item 5, 6, 9, 14, 16, 20), Paura dell’introspezione (item 3, 10, 12), Difficoltà nello studio (item 8, 13, 18). Analisi dei dati. Al fine di stimare il grado di conoscenza del Counselling Psicologico e del Servizio Counselling d’Ateneo sono state calcolate le frequenze delle risposte ai quesiti A e B. Attraverso il calcolo delle frequenze percentuali che indicavano un atteggiamento positivo o negativo alle singole risposte sono stati valutati il grado di Autoreferenzialità, Paura dello stigma, Attitudine a chiedere aiuto ad un esperto, Paura dell’Introspezione, Difficoltà nello studio. Il campione è stato suddiviso in due sottogruppi rispetto alla variabile conoscenza-non conoscenza del counselling ed attraverso l’ANOVA è stata valutata la differenza nell’atteggiamento nei confronti dello stesso.
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Sono state studiate anche eventuali differenze in base alle variabili sesso, età, luogo di residenza e titolo di studio. Risultati Gli studenti che hanno restituito il questionario compilato sono 226 pari al 98% degli studenti arruolati nello studio. Alla domanda: Ha mai sentito parlare di Counselling Psicologico? gli intervistati hanno risposto affermativamente nel 44% dei casi (N=99), negativamente nel 56% (N=127). Alla domanda: Conosce gli scopi del Sevizio di Counselling Psicologico per studenti di questa Università? Il 53 studenti (23%) ha risposto affermativamente, mentre 173 studenti (77%) ha risposto negativamente. Gli studenti ritengono che lo scopo del Counselling sia: aiuto psicologico, 52%; sostegno, 20%; consulenza, 4%; orientamento, 24%. Analisi delle frequenze cumulate percentuali I risultati riguardanti le frequenze percentuali per Grado di autoreferenzialità, Paura dell’introspezione, Paura dello stigma, Difficoltà negli studi, Attitudine a chiedere aiuto, sono riportati nella Tabella 3 . Differenze nelle risposte relative alla conoscenza del Counseling Psicologico Chi non conosce il Counselling Psicologico (N. 127 studenti): a) ritiene maggiormente che le persone giudichino male la presenza di disagio psicologico (item 2; F=11.593; df=1,183; p=.001); b) ha un atteggiamento più timoroso rispetto all’introspezione (item 3; F=6.238; df=1,183; p=.013); c) ritiene che esso serva di più nei casi più gravi (item 11; F=4.619; df=1,183; p=.033); d) ha un atteggiamento più diffidente nel raccontare i propri problemi ad uno sconosciuto (item 17; F=4.538; df=1,183; p=.034). Chi conosce il Counselling Psicologico (N. 99 studenti): dichiara maggiormente di aver avuto problemi psicologici rispetto a chi non lo conosce (item 5; F=5.441; df=1,183; p=.021). Non sono presenti differenze significative in base alle variabili età, sesso, titolo di studio e luogo di residenza. Discussione Il questionario è stato un buon strumento di misura dell’atteggiamento degli studenti universitari nei confronti del Counselling Psicologico in generale e quello specifico per studenti. Il questionario si è dimostrato utile per la valutazione delle varie aree indagate: grado di autoreferenzialità, paura dello stigma, attitudine a chiedere aiuto, paura dell’introspezione, percezione delle proprie difficoltà nello studio.
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Tabella 3. Analisi delle frequenze cumulate percentuali delle singole aree esplorate. Area GRADO DI AUTOREFERENZIALITÀ
(ITEM 1,4, 19,17, 20).
PAURA DELL’INTROSPEZIONE (ITEM 3, 10, 12) PAURA DELLO STIGMA (ITEM 2, 7, 11, 15).
DIFFICOLTÀ NEGLI STUDI (ITEM 8, 13, 18)
ATTITUDINE A CHIEDERE AIUTO
(ITEM 5, 6, 9, 14, 16, 20).
Risposta
Stud. %
È meglio cercare di superare da soli i propri problemi psicologici piuttosto che chiedere aiuto ad un esperto
87
Non mi piace raccontare i miei problemi ad uno sconosciuto
66
Solo gli amici possono essere d’aiuto in un disagio psicologico
63
Chiedere aiuto al Servizio di Counselling è segno di debolezza
92
Quando ho un problema psicologico preferisco non pensarci
68
Parlare dei propri problemi fa soffrire troppo
71
Chiedendo aiuto al Servizio di Counselling potrei farmi una cattiva reputazione presso gli amici
94
Chiedendo aiuto al Servizio di Counselling potrei farmi una cattiva reputazione presso i professori
92,5
La gente giudica male le persone che hanno un disagio psicologico
39
Il Counselling Psicologico serve solo nei casi gravi
75
Alcune volte l’ansia mi impedisce di studiare
34
Non ho sostenuto un esame per paura di fare una brutta figura
58
Spesso non comprendo quello che sto studiando
62
Almeno una volta ho attraversato un periodo di disagio psicologico
24
Riflettere sulle proprie difficoltà emotive con un esperto può aiutare a portare a compimento gli studi
18
Ho pensato almeno una volta di chiedere aiuto ad un esperto per i propri problemi psicologici
57
Il Servizio di Counselling potrebbe aiutarmi
23,4
Il Servizio di Counselling può risolvere i problemi degli studenti
46
I ragazzi dovrebbero essere aiutati dagli adulti a superare le proprie difficoltà
31
Gli adulti non possono comprendere i problemi dei ragazzi
86,6
Gli studenti, in maggioranza, non erano in possesso di informazioni adeguate circa gli scopi ed obiettivi del counselling. Questo dato è simile a quello rilevato da altri autori circa la scarsa conoscenza di servizi predisposti all’aiuto di studenti (Eisenberg, Hunt, Speer et al., 2011; Hyun, Quinn, Madon et al., 2007). Solo un terzo degli intervistati ha risposto di essere a conoscenza del Servizio di Counselling d’Ateneo, il dato indica una modesta conoscenza, ma potrebbe essere conseguente al ristretto tempo intercorso tra l’attivazione del servizio (un anno) e il momento dell’intervista. I giovani intervistati manifestano un alto grado di autoreferenzialità, notevole paura dell’introspezione e dello stigma e bassa attitudine a chiedere aiuto. Richiedere aiuto psicologico è considerato indice di debolezza ed è temuto perché potrebbe procurare sofferenza. È diffuso il timore che la richiesta d’aiuto al servizio possa pro-
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durre stigma sociale e ledere la propria immagine presso i docenti o presso i colleghi di studio. Gli intervistati hanno un atteggiamento di sfiducia verso gli adulti, come si evince dalla alta percentuale di studenti che rispondono che “gli adulti non possono comprendere i problemi dei giovani”. A fronte di questi risultati, circa la metà degli studenti riconosce indirettamente il bisogno d’aiuto ed afferma di aver pensato almeno una volta di chiedere aiuto per le proprie difficoltà. Un terzo degli studenti dichiara senza timori di aver attraversato una crisi psicologica. Inoltre, un intervistato su tre riconosce i possibili vantaggi di una consultazione e ritiene che l’adulto debba offrire aiuto in caso di crisi. L’area che indaga le difficoltà nello studio mette in luce il peso delle problematiche emotive a prevalenza ansioso-narcisistiche che gravano sull’apprendimento. Un terzo dei ragazzi ammette che l’ansia ha interferito con gli studi e la metà asserisce di non aver sostenuto un esame per paura di “fare brutta figura”. Sorprende il numero di studenti, circa sei studenti su dieci, che lamentano difficoltà di comprensione di una materia di studio. La natura di questo dato dovrà essere ulteriormente indagata in quanto potrebbe essere legata a variabili non indagate dalla nostra ricerca. È probabile che una inibizione su base ansiosa o depressiva sia sottesa al dato, ma non si può escludere che modalità inidonee di apprendimento e scarsa motivazione allo studio possano giocare una ruolo importante. Non sono presenti differenze significative in base alle variabili età, sesso, titolo di studio e luogo di residenza, in linea con quanto affermato da altri autori (Rosentthal, Wilson, 2008). In linea con quanto riferito in letteratura, la mancanza di conoscenza da parte degli studenti circa la natura e gli obiettivi del Counselling Psicologico influenza il loro atteggiamento e, probabilmente l’accesso al servizio, in quanto si associa al maggior timore dello stigma ad un atteggiamento reticente verso l’introspezione e alla difficoltà ad affidarsi, e alla convinzione che il counselling si occupi di casi psichiatrici. La conoscenza del Counselling Psicologico, però, influenza positivamente la capacità di riflettere sul disagio personale. Conclusione I risultati dello studio sono in accordo con quanto presente in letteratura circa le resistenze ad accedere ad un Servizio di Counselling (Golberstein, Eisenberg, Gollust, 2008, Eisenberg, Downs, Golberstein et al., 2009, Gulliver et al., 2010). I dati confermano anche la natura dei timori sottesi. Essi sono connessi al fantasma della emarginazione sociale e ad una rappresentazione negativa della sofferenza mentale e della cura della stessa. Segnaliamo, in particolare, lo scarso valore assegnato all’introspezione che viene vissuta come potenziale causa di maggior sofferenza. Questo dato suscita interrogativi circa le modalità difensive messe in opera dai giovani contro l’ansia generata dagli aspetti sconosciuti della propria mente. Non siamo in grado di stimare nel nostro campione il ruolo che gli aspetti culturali possono aver avuto
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nell’orientare le risposte, ma ipotizziamo che le risposte riflettano un clima culturale che allontana i giovani dalla dimensione intrapsichica. È probabile che il fattore età pesi sui risultati ottenuti e che ricerche su campioni di soggetti di età maggiore potrebbero offrire dati più confortanti. I giovani da noi interpellati dichiarano in un terzo dei casi di vivere o aver vissuto un disagio psicologico e di avvertire il bisogno d’aiuto, tuttavia, più dei due terzi degli intervistati non sembra in grado di assumere su di sé la responsabilità della tutela del proprio benessere psicologico e conseguentemente di attivarsi per ottenere una consultazione. Il senso di questa dinamica deve essere indagato per mettere a punto strategie che favoriscano un maggior uso dei Servizi di Counselling messi a disposizione dei ragazzi in difficoltà. Purtroppo dalla ricerca emerge tra i giovani intervistati una attitudine stigmatizzante verso la sofferenza psichica. Probabilmente è necessario attuare percorsi informativi in ambito scolastico per modificare i pregiudizi nei riguardi del disagio psicologico. Riassunto Lo studio valuta il grado di conoscenza del Counselling Psicologico e l’atteggiamento degli studenti nei confronti della salute mentale, nonché le variabili che possono influenzare la richiesta d’aiuto ad un Servizio di Counselling operante presso la loro Università. Il campione è composto di 226 studenti universitari che hanno compilato un questionario auto-somministrato per indagare la conoscenza del Couselling Psicologico e le variabili prescelte. I risultati mostrano che la maggior parte degli studenti non conoscevano il Counselling (56%) né il Servizio d’Ateneo (77%); gli intervistati avevano un alto grado di autoreferenzialità, alta paura dell’introspezione e dello stigma e bassa attitudine a chiedere aiuto. Questi risultati delineano i principali fattori che possono ostacolare l’uso dei servizi di aiuto psicologico da parte dei giovani. Parole chiave Couselling – Studenti – Salute Mentale.
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Allegato 1 QUESTIONARIO PARTE PRIMA Età _____________ , Sesso M F , Luogo di residenza ______________________________ Titolo di studio ________________________________________________________________ Corso di Laurea _______________________________ anno __________________ A) Ha mai sentito parlare di Counselling Psicologico? sposta)
Sì
No (apporre una X sulla ri-
Se sì, indichi dove e quando_______________________________________________________ B) Conosce gli scopi del Sevizio di Counselling Psicologico per studenti di questa Università? Sì No (apporre X sulla risposta) Se sì, può descrivere brevemente___________________________________________________ PARTE SECONDA Apporre una X nella casella che corrisponde alla sua opinione Completo accordo 1
È meglio cercare di superare da soli i propri problemi psicologici piuttosto che chiedere aiuto ad un esperto (psicologo/psicoterapeuta).
2
La gente giudica male le persone che hanno un disagio psicologico
3
Parlare dei propri problemi fa soffrire troppo
4
È difficile accettare l’idea di aver bisogno d’aiuto psicologico
5
Almeno una volta ho attraversato un periodo di disagio psicologico
6
Il Servizio di Counselling potrebbe aiutarmi a comprendere la natura delle mie difficoltà
7
Il Counselling Psicologico serve solo nei casi gravi
8
Non ho sostenuto un esame per la paura di fare una brutta figura
9
Ho pensato almeno una volta di chiedere aiuto ad un esperto per i miei problemi psicologici
10
Chiedere aiuto al Servizio di Counselling Psicologico per i problemi personali e relazionali è segno di debolezza
D’accordo
In disaccordo
Completo disaccordo
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11
Potrei farmi una cattiva reputazione presso gli amici se sapessero che ho chiesto aiuto al Servizio di Counselling
12
Quando ho un problema psicologico preferisco non pensarci
13
Alcune volte l’ansia m’impedisce di studiare
14
Riflettere sulle proprie difficoltà emotive con un esperto può aiutare a portare a compimento gli studi
15
Potrei farmi una cattiva reputazione presso i professori se sapessero che ho chiesto aiuto al Servizio di Counselling
16
Il Servizio di Counselling risolve i problemi degli studenti
17
Non mi piace raccontare i miei problemi ad uno sconosciuto (psicologo/psicoterapeuta)
18
Spesso non comprendo quello che sto studiando
19
Solo gli amici possono essere d’aiuto in un disagio psicologico
20
I ragazzi della mia età dovrebbero essere aiutati dagli adulti a superare le difficoltà psicologiche
21
Gli adulti non possono comprendere i problemi dei ragazzi della mia età
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Bibliografia Adamo S.G.M., Giusti P., Portanova F., Et Al., (2005), La cassetta degli attrezzi: concetti che troviamo più utili nel lavoro di counselling psicodinamico con studenti universitari, in G. Ruvulo (2005), a cura di, Domanda e Offerta di consultazione psicologica nei contesti universitari, Milano, Franco Angeli. Benton S.A., Robertson J.M., Tseng W.C., Newton F.B., Stephen L. (2003), University Changes in Counseling Center Client Problems Across 13 Years, Professional Psychology: Research and Practice, 34,1: 66-72 Coelho de Oliveiro M.L., de Rosalmeida Dantas C., Soares de Azevedo R.C., Et Al. (2008), Demographics and complaints of university students who sought help at a campus mental health service between 1987 and 2004, Sao Paulo Med. J., 126(1):58-62. Cook L.J. (2007), Striving to help college students with mental health issues, J. Psychosoc. Nurs. Ment. Health Serv., 45(4):40-4. Eisenberg D., Downs M.F., Golberstein E., Et Al. (2009), Stigma and
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 193-209
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Testimoniare il trauma: considerazioni teorico-cliniche in tema di rappresentazione e ricordo nel child sexual abuse Witnessing trauma: theoretical and clinical considerations about memory and representation in child sexual abuse Renzo Di Cori*
Summary Starting with the analysis of the condition of witnesses and victims of child abuse, the author questions the nature and functioning of the memory and the effects of trauma on performative characteristics of remembering. The Author provides some theoretical and clinical notations with reference to psychoanalytic and neuroscientific literature, looking for evidence and convergences to clarify the relationship between legal and psychological consistency of the witness and offer a greater understanding of the representability of trauma. Both psychoanalysis and neuroscience indicate that trauma – which causes the massive irruption of stimulation unassimilable by the psychic apparatus – interferes with the formation of a symbolic representation of the event and its subsequent chances of recovery. The deeper and more widespread the trauma, the greater the story is flawed, incomplete, inaccurate. The Author concludes that listening to the child must take the physiological limits and the incomplete nature of memory into account and consequently operate by maintaining a respectful position of the uncertainty of the story, to allow a “construction” that will be constitutionally incomplete and will never be a faithful “objective reconstruction” of the event. Key words Witness – Representation – Trauma – Memory.
“…l’invisibile non è il contrario del visibile: il visibile ha esso stesso una membratura di invisibile, e l’in-visibile è la contropartita segreta del visibile, non appare che in esso”. (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile) “…l’essenza propria del visibile è di avere un doppio di invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto forma di una certa assenza”. (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito)
* Psicoterapeuta, Servizio per l’Assistenza, Cura, Ricerca sull’Abuso all’Infanzia del Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, “Sapienza” Università di Roma; Docente del Master di II livello “Psichiatria forense dell’età evolutiva”, “Sapienza” Università di Roma; Consulente Tecnico del Tribunale per i Minorenni di Roma.
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Il testimone-vittima: un’identità doppia Vorrei introdurre questo lavoro con una breve notazione intorno alla condizione che definirei aporetica di chi, essendo stato vittima di un trauma da abuso, è diviso tra la necessità etica di ricordare, raccontare e l’urgenza di liquidare, dimenticare la propria esperienza. Quella del testimone-vittima è dunque una condizione doppia, in cui il soggetto – a fronte dell’urgenza di ristabilire i confini del sé alterati dalla violenza – è convocato in qualità di relatore, a rendere pubblico quel che è privato, rendendolo discutibile, contestabile (cfr. Agamben, 1998). Egli è chiamato ad aprire il proprio ricordo al dibattito, sottoponendosi ad una singolare tensione tra dovere etico della memoria e resa estetica della narrazione. In questo senso la migrazione di contenuti rappresentativi interni, evocanti un avvenimento passato, doloroso, in forma di discorso pubblico, non solo espongono il testimone al giudizio di chi l’ascolta, ma lo proiettano nel cuore stesso del conflitto tra logos e mythos, tra parola, discorso e pensiero, fantasia. Molti sono gli interrogativi circa la natura della memoria nel momento in cui si coagula in rappresentazioni linguistiche definite, o anche relativamente agli effetti del trauma sulle caratteristiche performative del ricordo. In questo lavoro cercherò di esporre alcune notazioni teorico-cliniche nella speranza di rintracciare convergenze utili ad una maggiore comprensione del complesso, affascinante tema della rappresentabilità del trauma e della testimonianza. Tuttavia, prima di addentrarmi nelle questioni relative alla memoria, al trauma ed ai rapporti intercorrenti tra consistenza giuridica e psicologica (non giuridica) della testimonianza, ritengo indispensabile partire da alcune considerazioni più generali circa la criticità di taluni assunti teorici, epistemologici, alla base delle valutazioni psicologico-forensi nei casi d’abuso all’infanzia. Relativismo e indeterminazione dei processi psichici: carattere probabilistico del sapere psicologico La clinica del child sexual abuse anima da sempre aspre dispute clinico-giudiziarie nelle quali la materia del contendere rimanda alla sostanza stessa del sapere scientifico, a quel che discrimina una conoscenza empiricamente provata da interpretazioni che possono assumere il carattere di costruzioni mitologiche non falsificabili. Penso ad esempio all’abitudine di alcuni di ricostruire una determinata esperienza pregressa a partire dai ricordi del bambino o dai fenomeni comportamentali osservati nello stesso, o alla facilità con la quale certe manifestazioni psicopatologiche del minore vengono classificate come post-traumatiche a prescindere dall’accertamento del trauma. In tutti questi casi alcuni specialisti si sentono autorizzati a risalire linearmente dal fenomeno osservato ad uno specifico agente eziologico (spesso questa lettura dei fatti è riconducibile ad un errore logico – conosciuto come post hoc ergo propter hoc – in base al quale si è indotti a credere che se un avvenimento segue un altro, il primo è causa del secondo). Si pone quindi l’interrogativo se sia giustificato attribuire alle spiegazioni dei fenomeni psicologici un simile valore inferenziale piuttosto che un significato esclusivamente probabilistico.
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Circa il valore euristico dei fenomeni psichici, mi sembra illuminante riportare un frammento di un noto caso clinico di Freud. A proposito della delucidazione analitica dei processi psichici osservati nella paziente e del rapporto di questi con le informazioni anamnestiche, Freud (1920) scrive: “Il metodo dell’esposizione lineare risulta scarsamente adatto alla descrizione di processi psichici intricati e che si svolgono a livelli diversi della psiche… Fintantoché seguiamo lo sviluppo del caso a ritroso, a partire dal suo esito finale, la catena degli eventi ci appare continua e pensiamo di avere raggiunto una visione delle cose del tutto soddisfacente e fors’anche completa. Ma se percorriamo la via opposta, se partiamo dalle premesse a cui siamo risaliti mediante l’analisi, e cerchiamo di seguirle fino al risultato, l’impressione di una concatenazione necessaria e non altrimenti determinabile viene completamente meno. Ci accorgiamo immediatamente che l’esito avrebbe potuto essere diverso e che questo diverso esito avremmo potuto capirlo e spiegarlo ugualmente bene. La sintesi non è dunque altrettanto soddisfacente dell’analisi; in altre parole, la conoscenza delle premesse non ci permetterebbe di prevedere la natura del risultato”. Le parole di Freud mi sembra che siano ispirate ad un non dichiarato, ma pur rilevabile relativismo ed alla consapevolezza di un ineludibile grado d’incertezza nella comprensione e previsione dei fenomeni psichici. Quest’atteggiamento, oltre a testimoniare il rigore metodologico del maestro viennese, sembra riflettere le speculazioni scientifiche del suo tempo che – con l’affermazione del principio relativistico e con l’avvento della fisica quantistica – andava sovvertendo il modello deterministico tradizionale fondato sulla concezione di universo oggettivo ed intelligibile. L’introduzione di concetti quali l’effetto osservatore ed il principio di indeterminazione ha infatti contribuito a ripensare radicalmente la frontiera della conoscenza tra soggetto ed oggetto della scienza. Se fino agli anni ’20, infatti, la realtà era considerata del tutto indipendente dall’osservazione, con la fisica quantistica si dimostrava il limite della concezione tradizionale dell’universo, e si affermava un nuovo modello di comprensione, fondato sulla coscienza dell’osservatore. Secondo questo nuovo modello, l’oggetto quantistico si trova in uno stato oggettivamente indefinito che, sebbene matematicamente definito, ne descrive unicamente la potenzialità, ovvero una rosa di valori possibili, ciascuno con la propria probabilità di divenire reale, oggettivo al momento dell’osservazione. In base a questo assunto non sarebbe possibile, ad esempio, prevedere (per questo l’indeterminazione) quale valore sarà scelto da un elettrone nel suo movimento nello spazio, ed è per questa casualità, che non sarebbe possibile spiegare perché un valore venga preferito ad un altro. La novità introdotta dalla fisica quantistica – secondo la quale è la coscienza dell’osservatore, a far sprofondare uno stato indeterminato in uno stato definito – fa sì che non si possa più parlare di una realtà soggettiva (la mente) che studia la realtà oggettiva (la materia), in quanto le due realtà sarebbero intimamente integrate, reciprocamente influenzanti. In definitiva nel campo della fisica – non molto diversamente dalla dottrina freudiana – la conoscibilità, la previsione degli eventi, lo studio del rapporto esistente tra una causa ed un effetto, è subordinata alla constatazione che si possa pervenire unicamente a previsioni di carattere probabilistico. È proprio trasponendo questo ragionamento nel campo dei fenomeni psichici, che Brunswik (Olivetti Belardinelli, 1974), ha interpretato i fenomeni psicologici della percezione come il risultato di un
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controllo esperienziale continuo del soggetto su degli indizi aventi semplicemente valore casuale. Questa indeterminazione nel campo delle conoscenze psicologiche, ritengo che sia esemplificata anche dalla difficoltà a localizzare talune funzioni o manifestazioni psichiche secondo le convenzionali categorie di spazio e di tempo. Anche i concetti di dentro e fuori, in una prospettiva puramente psicologica, ci appaiono relativi con riferimento al rapporto tra realtà, percezione e memoria, quasi il soggetto del ricordo si confondesse in parte con l’oggetto ricordato, come se stesse in bilico, tra un interno ed un esterno (oltre che tra un passato ed un presente). In tal senso trovo suggestive le riflessioni di Barthes sull’osservatore e l’immagine, che sottolineano la singolare criticità della percezione in rapporto alla soggettività dei processi psichici. In particolare l’idea di punctum di Barthes – quel che di un’immagine fotografica colpisce soggettivamente l’osservatore, l’esperienza emotivamente indipendentemente dalle intenzioni del fotografo, che mette in contatto con il corpo e il tempo della cosa fotografata, contemporaneamente visibile ed inattingibile – sembra convergere con le argomentazioni freudiane de “Il perturbante” (1919) e “La negazione” (1925) in cui Freud afferma: “…non si tratta di sapere se una parte di ciò che è percepito (una cosa) deve essere ammesso o no all’interno dell’io, ma se una parte dell’io, in quanto rappresentazione, può riscontrarsi all’interno della percezione (realtà). Come possiamo vedere è ancora una questione di dentro e fuori…”. Per Barthes ogni immagine è il precipitato di qualcosa che «è stato là» (evocativo del Ding freudiano). Davanti ad ogni fotografia è come se si vivesse un’esperienza di perdita, di distanza tra referente e segno, tra oggetto rappresentato e sua rappresentazione, tanto che il paradosso della fotografia consisterebbe proprio nella presenza di un’assenza (idea espressa efficacemente nei frammenti di Merleau-Ponty riportati in epigrafe, come anche nelle riflessioni di Foucault sul quadro Las Meninas di Velázquez, in cui viene stigmatizzata la divaricazione tra visibile ed enunciabile). Scrive Lippi (2007) in una prospettiva lacaniana, circa la percezione: “Quello che ci riviene dal di fuori, non è altro che quello che abbiamo espulso (Ausstossung) dal di dentro durante la rimozione originaria: la significazione fallica del nostro corpo, la nostra identificazione al desiderio dell’Altro. Come difendersi allora dalla forza pulsionale e annichilente degli oggetti sensibili, gli oggetti che giungono a noi dal di fuori, gli oggetti della nostra percezione? Il pensiero (risultato della rimozione), grazie alla catena significante produttrice di senso, ci protegge dal “troppo” pulsionale di ogni sensazione. Secondo Kant, ogni fenomeno presenta due facce: da un lato, esso è oggetto dell’esperienza — dunque “fenomeno”— e dall’altro è “Cosa in sé” (Ding an sich) inconoscibile. L’atto di percepire, che passa inevitabilmente per il linguaggio, permette l’accesso al “fenomeno” e non alla “Cosa in sé”, la Cosa pulsionale che abbiamo espulso (Ausstossung) e che è comunque là, presente in ogni oggetto percepito”. Con queste argomentazioni non intendo sostenere che non esiste immagine, ricordo dell’oggetto, o che questo non abbia un fondamento “reale”, ma più semplicemente stigmatizzarne la manchevolezza di base, rappresentare cioè l’essenza equivoca della percezione e la caducità della memoria in rapporto alla realtà. Pakman (2004, 2007) nota come la memoria funzioni proprio a causa della sua incompletezza, della divaricazione tra segno e referente, ovvero in virtù di quel che manca in essa della cosa originaria. Senza il lavoro dell’immaginazione, della fantasia,
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segno e referente sarebbero come un’unica cosa e rischierebbero di portare ad una sorta di saturazione del sistema psichico, al collasso del pensiero. Per Pakman – secondo il quale il testimone si trova in una condizione di ritardo costitutivo del suo discorso, in quanto il segreto custodito nella sua espressione ha già avuto luogo – il ricordo perfetto, data la distanza tra segno e referente, non esiste e se esistesse sarebbe auto-referenziale, alienato. La parzialità o la manchevolezza della memoria si fa ancor più evidente quando i ricordi si fanno parola e si confrontano con quella che potremmo definire la debolezza del logos. È al livello del discorso che possiamo registrare la parzialità della rappresentazione, la vocazione nomade di questa, la sua natura equivoca, mai univoca. Freud, con la psicoanalisi, rintraccia in definitiva la verità proprio in un luogo indefinibile, tra corpo e coscienza, un luogo dove, quando la si coglie per un attimo, cessa d’essere tale. Su questo punto le analogie epistemologiche con il paradigma conoscitivo di Einstein si fanno particolarmente consistenti: “…La spiegazione degli eventi – scrive Pauletta (1983) a proposito delle convergenze del pensiero di Einstein con il modello freudiano – …non porta tanto a una verità quanto ad interpretazioni, che valgono a far conoscere meglio il mondo circostante e a controllarne maggiormente gli eventi, ma che possono essere abbandonate non appena più ampie connessioni si delineano alla mente dello scienziato… L’oggettività, la verità assoluta delle cose dell’universo se pur esiste è comunque fuori della portata di una conoscenza fortemente legata al soggetto che conosce”. In sostanza la memoria non sarebbe registrazione fedele della realtà e il ricordo di un evento, tanto la registrazione quanto la sua rievocazione, subisce influenze significative dello stato generale del soggetto, dei suoi bisogni individuali e delle caratteristiche quantitative e qualitative dell’esperienza vissuta. Il fatto che un ricordo non sia del tutto oggettivo, non significa ovviamente che non sia vero, quanto piuttosto che la sua verità è costruzione, presentazione nell’adesso, piuttosto che ri-costruzione fedele di ciò che è stato. In questa prospettiva penso si collochi l’affermazione di Person e Klar (1994) secondo i quali “persino la percezione, sulla quale si basa la memoria, viene colorata dal desiderio e dalle emozioni, in modo tale che ogni specifica percezione viene passata al setaccio dell’immaginazione”. Per dirla ancora con le parole di Pakman (2007), la nostra mente è ambigua, “opera attraverso una molteplicità incerta di rappresentazioni incomplete. Mappe, percezioni e memorie perfette tenderebbero a essere simili a Dio, ma in un tale mondo esse rispecchierebbero il mondo ad infinitum, un mondo demoniaco senza soggetti, perché i soggetti si insinuano nell’incapacità di riflettere il mondo, nella distanza di rappresentazione tra il segno e il suo referente, la mappa e il territorio, la memoria e il passato inafferrabile…”. Il convincimento fideistico secondo il quale la memoria è costituita da tracce inequivoche, appare dunque un modello puramente ideale piuttosto che reale. Percezione e ricordo consisterebbero infatti in concatenazioni di processi, sinergie operazionali che generano memorie in una forma tutt’al più simile a quella che Freud – in tempi non sospetti (1895), prima ancora d’essere abbagliato dalle argomentazioni sul Wunderblock (1924) – concepiva come facilitazioni neuroniche, che vanno comprese nel più ampio rapporto associativo intercorrente all’interno di reti neurali complesse. Per questo ritengo venga meno la presunzione che ci vorrebbe capaci d’una misurazione precisa, certa, di fenomeni di per sé discreti, discontinui,
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incompleti come quelli psichici del ricordo e che si affermi al contrario, relativamente alla nostra capacità di risalire alle possibili cause dei fenomeni che osserviamo, un modello meramente probabilistico. Rappresentazione e memoria in psicoanalisi1 Nella dottrina freudiana la memoria non è intesa come semplice contenitore in cui sono archiviate le immagini, ma come sistema complesso, dinamico, suscettibile di continui rimaneggiamenti. Essa non ha forma univoca, ma molteplice, fissata in diversi tipi di segni secondo il processo di riscrittura cui è sottoposta (Freud, 1896). Il ricordo, la rappresentazione psichica dell’oggetto, non è quindi una semplice impressione in relazione di somiglianza con quanto rappresentato, ma segno coordinato con altri segni. La rappresentazione psichica, in questo senso, è in relazione associativa con altre rappresentazioni (Laplanche e Pontalis, 1967). La capacità sensoriale dell’apparato psichico di rendere presente nella forma d’immagine un oggetto assente (il ricordo) è effetto dunque delle rappresentazioni, ovvero ciò che dell’oggetto viene trascritto nei diversi sistemi ψ. Freud distingue rappresentazioni di cosa (Dingvorstellung) e di parola (Wortvorstellung). La rappresentazione di cosa, essenzialmente visiva, deriva dalla cosa (Ding) – della quale peraltro non è l’analogo mentale, in quanto appunto la cosa è presente in diversi sistemi associativi – e costituisce la materia rappresentazionale dell’Inconscio. Diversamente, la rappresentazione di parola è acustica, traccia psichica di un suono che ci viene data dalla testimonianza dei sensi. Secondo questo modello l’immagine mnestica acquista lo specifico segno di qualità della coscienza associandosi ad un’immagine verbale, in modo tale che la rappresentazione conscia comprenda la rappresentazione di cosa più la rappresentazione di parola corrispondente (Freud, 1895; 1915). Seguendo questa prospettiva, sono traumatici tutti quegli eccitamenti non assimilabili dall’apparato psichico, causa di disturbo nell’economia energetica dell’organismo (Freud, 1920) ed interferenti con il compito psichico di legare gli stimoli e con la formazione di una rappresentazione simbolica, di parola, degli eventi. A causa dell’insuccesso nell’opera di trascrizione da un sistema all’altro dell’apparato psichico (Freud, 1896), l’esperienza traumatica si insedia in una provincia psichica in cui persistono processi eccitativi anacronistici, fissati, esclusi dalla possibilità elaborativa. Si tratta d’aree di funzionamento presimbolico, sottratte al processo secondario, che Freud paragona alle città-stato spagnole medioevali regolate da leggi speciali (fueros) non vigenti altrove. L’evento traumatico, sottratto all’elaborazione secondaria a causa delle sue caratteristiche qualitative e quantitative e della condizione d’impotenza psichica del soggetto, resta così indisponibile nel sistema preconscio-cosciente, segregato nell’inconscio come contenuto non-rimosso oppure come rappresentazione inconscia rimossa. Qui, pensando alle situazioni traumatiche estreme, mi riferisco soprattutto ad un inconscio non-rimosso non nel senso di contenuti o memorie prelinguistiche, ma di elementi mnestici essenzialmente sensoriali 1 Paragrafo
in parte rielaborato da R. Di Cori e V. Sabatello (2011; 2012).
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ai quali è venuta a mancare l’opera di investimento e controinvestimento che normalmente contraddistingue la rimozione. Generalmente, infatti, le esperienze spiacevoli vengono rimosse, dimenticate dopo che è avvenuta una piena articolazione degli eventi nella coscienza (Freud, 1932). Diversamente, nelle situazioni traumatiche estreme, complesse, l’Io si dissocia dall’esperienza soverchiante prima che sia stato in grado di rappresentarla sul piano simbolico. L’evento traumatico preclude il lavoro di articolazione della rappresentazione, privando i ricordi di una struttura linguistica, del contesto temporale (cfr. Terr, 1984), manifestandosi in seguito come memoria somatica dissociata, esperienza sensoriale. L’avvenimento, racchiuso in segni o rappresentazioni di cosa, può quindi cercare una risignificazione a posteriori in una forma quasi allucinatoria attraverso l’enactment o l’irruzione nella coscienza di frammenti di ricordo a partire da impressioni sensoriali (cfr. Di Cori e Sabatello, 2011; 2012). Detto ciò dobbiamo rilevare che quando la scena traumatica è sovrainvestita (fissazione al trauma) ed il soggetto è preda di un ricordo vivido, immutabile (come nel Disturbo Post-Traumatico da Stress - PTSD) la rappresentazione di parola sembra perdere il proprio potenziale elaborativo. È uno scenario prossimo a quello della schizofrenia, in cui è possibile riscontrare l’esistenza di rappresentazioni di parola trattate talvolta come rappresentazioni di cosa, secondo le leggi del processo primario (Freud, 1915). Un’esemplificazione di questo rilievo clinico, la si può rintracciare in letteratura nella testimonianza di Levi (1963) a proposito del bambino Hurbinek: “Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz… non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi…la parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva”. Ad un certo punto, continua Levi, Hurbinek comincia a ripetere una parola: MASS-KLO, parola senza significato che rimaneva incompresa a tutti. MASS-KLO era come una parola segreta, “… suono – spiega Agamben (1998) – che proviene dalla lacuna, la non-lingua che si parla da soli”. Questa parola segreta, non-lingua, è paragonabile a quel che Freud chiamerebbe rappresentazione di parola trattata come rappresentazione di cosa, parola che non è ancora linguaggio, che risponde al funzionamento del processo primario2. L’elaborazione e la rappresentazione mnemonica, di per sé complessa, si fa quindi ancor più fragile ed incerta nel caso in cui il soggetto sia vittima di un’esperienza traumatica. Sappiamo che normalmente l’operazione di rimemorazione di un evento, la sua resa estetica, subisce varie interferenze di natura sia interna, sia esterna, ma nel caso di esperienze traumatiche, la tensione tra consistenza giuridica e non giuridica della memoria e della testimonianza, si fa ancora più critica. Sebbene ogni trauma sia particolare in quanto a caratteristiche qualitative e quantitative e quella della Shoah sia un’esperienza del tutto peculiare, la testimonianza di alcuni sopravvissuti ai campi 2 Qualcosa
di simile ritengo che sia riferibile anche alle memorie dissociate ed ai flashback dei soggetti con PTSD, fenomeni che possiamo senz’altro definire come rappresentazioni sottratte al simbolico, al processo secondario, che danno luogo a veri e propri sintomi restitutivi.
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di sterminio sembra descrivere in forma estrema l’impasse in cui si trova spesso la vittima nel rappresentare l’orrore che ha vissuto. Scrive Levi: “Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri… noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o per fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgona, non è più tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i musulmani, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione”. Wiesel, dal canto suo, afferma: “Quelli che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l’hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non fino in fondo. Il passato appartiene ai morti”. Levi e Wiesel, ognuno a suo modo e con lo stile che gli è proprio, indicano l’impasse in cui si trovano i sopravvissuti dei traumi massivi, estremi. Essi parlano per delega, sanno di parlare per l’impossibilità di testimoniare toccata ad altri, per questo si trovano in una posizione paradossale: la loro testimonianza – scrive Agamben (1998) – contiene una lacuna. Nella loro narrazione, qualcosa dell’atrocità vissuta, sfugge alla parola, sottraendosi alla possibilità di rappresentazione. In questi casi, sottolinea Agamben – secondo il quale Levi con il concetto di zona grigia, “incessante alchimia in cui il bene e il male e con essi tutti i metalli dell’etica tradizionale raggiungono il loro punto di fusione”, crea una sorta di paradosso del giudizio che deforma l’entità del testimone e lo statuto della testimonianza – la quaestio iuris non può essere ricondotta alla quaestio facti. L’esperienza della Shoah mostra in forma estrema e paradigmatica, l’impossibilità di dire integralmente l’orrore (cfr. Rosenblum, 2009; Moore, 2009). Questo altera la testimonianza, anche se non ne determina certo l’illegittimità. Qui si fa ancor più stridente il contrasto tra criterio giuridico – che convoca il testimone a fornire elementi di prova che diano consistenza alla verità processuale in vista del giudizio – ed il criterio psicologico, secondo il quale siamo portati a cercare la cosa, l’esperienza del trauma, in una zona imprevista, in bilico tra un dentro ed un fuori, un po’ come nel noto effetto anamorfico del quadro degli ambasciatori di Holbein (cfr. Lacan, 1964) in cui un teschio è sospeso in primo piano, ma reso in-visibile alla vista dell’osservatore. In questa prospettiva il trauma non è altro che lacuna, buco di senso, trou-matisme secondo il noto neologismo lacaniano, qualcosa che non trova iscrizione in forma di parola. Anche per questo, credo, nelle storie di abuso proliferano le lacunosità nella rivelazione, nei racconti del minore, finanche nella rilevazione del caso o nelle stesse tecniche di ascolto da parte dei tecnici. L’insidia peggiore è costituita proprio dall’incertezza, dai vuoti rappresentativi che possono controtransferalmente indurre a colmare il sapere sui fatti, interferendo ulteriormente con il processo di formazione del ricordo, inducendo al limite nella vittima la formazione di una falsa memoria. Non voglio ovviamente con queste osservazioni farmi detrattore della figura del testimone – quasi assumendo un atteggiamento ai limiti del negazionismo della Shoah o degli abusi all’infanzia – quanto piuttosto sottolineare che nell’ascolto della vittima di traumi, in particolare se estremi o complessi, si assiste ad una drammatica amplificazione dei margini di incertezza del ricordo, al proliferare delle lacunosità, che talvolta spingono difensivamente i tecnici ad una sorta di apologetica della certezza.
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Memoria, stress e trauma: i contributi delle neuroscienze In ambito neuroscientifico il dibattito sulla memoria non si risolve in un’unica teoria esplicativa. Come fanno notare Axmacher et al. (2010) la questione del modello teorico di riferimento è determinante nel comprendere e valutare il funzionamento e l’efficacia dei ricordi. La memoria è concepita da alcuni secondo un modello d’archiviazione e da altri secondo un modello costruttivo. Se nella prima prospettiva viene attribuita alla memoria un’identità tra eventi codificati e contenuti ricordati, nella seconda il ricordo non è rappresentazione esatta degli eventi esterni, ma il risultato del lavoro di valutazione ed interpretazione degli accadimenti stessi. È chiaro che la validità che siamo disposti a riconoscere alla memoria è diversa a seconda se ci ispiriamo ad uno piuttosto che all’altro dei due approcci: nel modello di archiviazione il ricordo è efficace se ricapitola, ricostruisce in modo puntuale gli aspetti cruciali di un’esperienza, mentre per la teoria costruttiva il ricordo è efficace nel momento in cui permette alla persona, ricordando, di elaborare una narrazione coerente circa il suo passato e di trovare così un adattamento alla realtà. Dal punto di vista tassonomico si è soliti distinguere due sistemi di memoria, supportati da percorsi e strutture cerebrali distinte, anche se spesso interagenti (Squire, 1994; Kandel, 1999): una memoria dichiarativa, che consente di ricordare coscientemente fatti generali o eventi specifici, ed una memoria non-dichiarativa, implicata in tutte le competenze, abitudini, forme di condizionamento semplice e forme di apprendimento non associativo. La memoria dichiarativa, esplicita, costituita da quei ricordi che possono essere evocati coscientemente e verbalizzati, si distingue in memoria semantica ed episodica, riguardante cioè la propria autobiografia relativamente ad eventi specifici, ed implicante una consapevolezza autonoetica. Diversamente la memoria non dichiarativa, implicita, è precoce ed anoetica: essa non presuppone il senso del tempo e del sé, la consapevolezza dell’essere nell’atto di ricordare, la capacità riflessiva su quanto sta avvenendo. Quella procedurale è in sostanza la memoria costitutiva di tutti quei comportamenti appresi, degli schemi emozionali, relazionali, legati alla struttura del carattere, tendenti a ripetersi nel tempo, senza un corrispettivo rappresentazionale. La memoria procedurale viene generalmente suddivisa in due sottotipi: un tipo comporta l’acquisizione di abitudini e abilità, una varietà molto ampia di repertori comportamentali stereotipati ed inconsci, mentre l’altro tipo si riferisce agli specifici adattamenti senso-motori, come ad esempio l’acquisizione dei riflessi condizionati che coinvolgono risposte motorie ad un nuovo evento sensoriale. Dal punto di vista evolutivo la memoria episodica, di eventi specifici sperimentati ad un tempo e ad un punto ben definiti, coscientemente disponibili e socialmente condivisibili, non esiste prima dei 24 mesi e si sviluppa lentamente, mantenendosi difficoltosa nel corso dei primi 5-6 anni di vita. Durante l’età prescolare la memoria autobiografica si fonda su processi di natura emozionale, che sovrastano del tutto o in parte la capacità di memorizzazione episodica. Questa caratteristica funzionale è verosimilmente correlata con l’evidenza secondo la quale lo sviluppo dell’ippocampo – struttura della regione temporale mediale che svolge un ruolo chiave nella elabora-
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zione in forma dichiarativa dei ricordi, sia nel senso della memoria semantica sia episodica – continua nel corso dei primi due anni di vita e non smette mai di integrare tra loro regioni diverse dell’encefalo, apportando così una progressiva trasformazione della capacità mnemonica. È solamente con l’età scolare che la capacità di richiamo degli eventi migliora qualitativamente per effetto dello sviluppo del senso del Sé e del tempo (grazie anche alla progressiva maturazione delle regioni prefrontali). Schematicamente possiamo suddividere così lo sviluppo cronologico della memoria autobiografica: a 16-18 mesi i bambini cominciano a riferire specifiche esperienze precedenti, ma è l’adulto a fornire gran parte del contenuto e dell’impalcatura del racconto; progressivamente diventano più competenti nell’attività di ricordo autobiografico e tra i 2 ed i 3 anni (a seguito dello sviluppo cognitivo globale e del linguaggio) possono arrivare a rendere resoconti del passato personale, peraltro facendo ancora affidamento sulla funzione di scaffolding dell’adulto. In questa fase evolutiva i ricordi autobiografici si costruiscono cioè nel contesto relazionale con il genitore, il quale influenza i ricordi del bambino nella struttura, nei contenuti, dotando di coerenza la stessa struttura narrativa (Fivush e Sales, 2003). Queste caratteristiche di funzionamento cambiano con il progredire dello sviluppo e tra i 3 ed i 6 anni si ha un progresso della memoria semantica, del linguaggio interiorizzato, che – apportando una maggiore consapevolezza di sé e del senso del tempo – determinano un consolidamento della memoria autobiografica ed una maggiore efficienza del ricordo. Tuttavia l’affidabilità della memoria per tutta l’età prescolare risulta ancora ridotta a causa delle limitate capacità cognitivo-linguistiche, della maggiore facilità di dissoluzione delle tracce del ricordo, delle minori conoscenze di base (pochi script) e delle minori capacità attentive, di comprensione. È solamente dall’età di 10 anni che i ricordi cominciano ad acquisire strutturazione, contenuto e organizzazione più efficiente, per raggiungere intorno a 14-15 anni la medesima funzionalità autobiografica che nell’adulto. Relativamente alla neurobiologia della memoria sono diversi i sistemi corticali, sottocorticali coinvolti nei processi di registrazione, immagazzinamento e riproduzione del ricordo. Il talamo, l’amigdala, l’ippocampo e la corteccia pre-frontale sono tutti coinvolti nell’integrazione, interpretazione e memorizzazione delle informazioni sensoriali. In condizioni normali gli input esterocettivi raggiungono il talamo e – attraverso un circuito monosinaptico – l’amigdala, la quale conferisce il significato emotivo alle informazioni in arrivo (la valutazione emotiva dell’input sensoriale precede l’esperienza cosciente); altri segnali neuronali vengono inviati dai nuclei talamici alla neocorteccia, in particolare alle aree sensoriali primarie ed alle aree associative che danno vita alle percezioni. Le informazioni provenienti da queste aree associative vengono a loro volta proiettate sia verso i lobi temporali mediali e l’ippocampo, per la formazione della memoria esplicita, sia verso un agglomerato di altre strutture cerebrali tra cui l’amigdala, il corpo striato ed il cervelletto, responsabili della memoria implicita: le proiezioni attraverso il corpo striato ed il cervelletto mediano alcuni aspetti della memoria procedurale, la cui azione determina l’associazione di rappresentazioni corticali a specifiche abitudini ed abilità, mentre la proiezione verso l’amigdala (regione limbica responsabile dell’associazione dei ricordi con gli stati emotivi) determina una serie di output emozionali in risposta agli input estero-
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cettivi tramite l’asse Ipotalamico-Ipofisi-Surrenale ed il sistema nervoso autonomo (Eichenbaum, 2010). Malgrado le differenze funzionali esistenti tra ippocampo e amigdala, queste strutture – attraverso proiezioni reciproche (Phelps, 2004) – interagiscono integrando tra loro memoria esplicita ed implicita. Per quanto riguarda i sistemi di memoria e lo stress traumatico le ricerche neuroscientifiche hanno rilevato alcuni meccanismi alla base della modulazione dei ricordi e delle prestazioni mnemoniche, fornendo alcune evidenze circa il rapporto intercorrente tra aspetti quantitativi e qualitativi dell’evento traumatico e caratteristiche del ricordo. Sappiamo ad esempio che in condizioni normali gli stimoli in grado di sollecitare delle emozioni si ricordano meglio degli stimoli neutri (cfr. Ogle et al., 2008) e che questo effetto di potenziamento della memoria dichiarativa, di eventi emotivamente importanti, dipende verosimilmente proprio dall’interazione tra ippocampo ed amigdala, ovvero dalla facilitazione da parte di quest’ultima dei processi di memoria ippocampo-dipendenti (cfr. Roozendaal et al., 2009; Axmacher et al., 2010). Tuttavia, nel caso delle emozioni negative intense ed estreme, le cose funzionano diversamente. La situazione traumatica attiva il locus coeruleus – porzione del tronco encefalico coinvolto nelle risposte a stress e panico – la cui scarica noradrenergica genera un’iperattivazione dell’amigdala creando uno stato cerebrale che se da un lato promuove in forma adattiva la conservazione di informazioni mnemoniche degli eventi, dall’altra disabilita la memoria di lavoro e la successiva capacità della persona di ricordare. Nel contempo, la liberazione di cortisolo a seguito del trauma, interferisce con le funzioni mnemoniche, associative, di categorizzazione dell’ippocampo (area ricca di recettori degli ormoni surrenali) a detrimento quindi sia delle capacità d’apprendimento, sia della memoria episodica. Ne consegue che l’informazione carica di significati emotivi forniti dall’amigdala non può essere arricchita dei significati verbali e simbolici, in modo tale che gli eventi non vengono registrati oppure vengono codificati solamente nella loro dimensione affettiva, implicita. Gli eventi traumatici eccedenti rispetto alle capacità di coping della persona, causano quindi la non integrazione dell’esperienza e generano alterazione, elisione o abolizione del ricordo (cfr. Roozendaal et al., 2009). Il contenuto rappresentativo, pur continuando a manifestarsi attraverso immagini intrusive, flashback, resta fuori della portata della coscienza, come se non si trattasse di mancanza di memoria per la situazione traumatica in sé, quanto piuttosto di una non integrazione dei ricordi con processi autorefenziali, autonoetici (cfr. Axmacher et al., 2010). In questi casi si realizza una situazione paradossale: da una parte si assiste ad una forma estrema di ritenzione della memoria, un reliving dell’esperienza e dall’altra una forma altrettanto estrema di oblio, un’amnesia parziale o totale dell’evento. Un ulteriore dato, ricavato da studi di neuroimaging, testimonia che nella situazione traumatica, il flusso di segnali provenienti dagli organi sensoriali subisce un’alterazione a seguito della maggiore attivazione delle regioni dell’emisfero destro deputate alla elaborazione delle emozioni e delle immagini visive, in particolare per la sovra-interpretazione degli input sensoriali conseguente al mancato turn-off della fear response dell’amigdala (Bremner, 2008). Studi condotti per valutare la capacità mnemonica di eventi traumatici in pazienti affetti da disturbo post-traumatico (Rauch et al., 1996), hanno mostrato che durante
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il richiamo del ricordo del trauma, si verifica un aumento dell’attività delle regioni paralimbiche collegate all’amigdala e – dato particolarmente significativo – l’area di Broca si spegne, come se gli aspetti emozionali, sensoriali e comportamentali dell’evento fossero i soli ad essere ricordati e non potessero essere adeguatamente integrati nella forma di rappresentazione linguistica. Questi risultati penso siano coerenti con l’assunto secondo il quale i sopravvissuti a situazioni traumatiche, affetti da PTSD, sono più inclini a risperimentare emotivamente e visivamente l’esperienza traumatica, piuttosto che a fornire un racconto di quanto vissuto (van der Kolk et al., 1996). In un’interessante ricerca condotta da Yovell et al. (2003) su soggetti sopravvissuti ad incidenti ed attentati terroristici, è stato rilevato che sebbene tutti gli individui vittime di traumi presentino brevi, stabili e persistenti gap della memoria coincidenti con il momento di maggiore intensità emotiva, i soggetti con PTSD presentavano più lunghi, progressivi e instabili gap mnemonici. Questo dato spiegherebbe il fatto che, sebbene in tutti i soggetti si verifichi una difficoltà nell’acquisizione della memoria episodica (circostanza riferibile al malfunzionamento stress-indotto del sistema ippocampale), nei pazienti con PTSD si verificherebbe un’amnesia più estesa e duratura. In definitiva, i dati della letteratura sembrano indicare in maniera convergente, che per i soggetti vittime di situazioni traumatiche estreme che sviluppano una chiara sintomatologia post-traumatica, l’evento viene per lo più registrato in forma di stati affettivi, modalità sensomotorie (visive, acustiche, olfattive, cinestesiche) o immagini visive senza tempo. Diversamente, nel caso dei soggetti vittime di one-time trauma, come testimoniano le esperienze della Terr con i bambini di Chowchilla ed i testimoni oculari del disastro del Challenger, le memorie, nonostante possano subire ugualmente delle deformazioni, possono essere più dettagliate, fedeli all’evento (Terr, 1991; 1999). Anche gli studi di neuroimaging sulle modificazioni anatomofunzionali conseguenti a traumi, hanno condotto a risultati significativi: i reduci di guerra e le vittime di traumi infantili (in particolare child sexual abuse) mostrano infatti una diminuzione del volume dell’ippocampo rispetto ai gruppi di controllo, con la conseguente ridotta funzionalità nel trasferire il ricordo alla memoria a lungo termine. Roozendaal et al. (2009) hanno di recente rilevato che stress traumatici intensi, sono responsabili di importanti alterazioni morfologiche che originano inevitabili alterazioni funzionali: da un lato si verifica la riduzione dei dendriti o della densità delle spine dendritiche nell’ippocampo e nella corteccia mediale prefrontale e dall’altro l’incremento delle ramificazioni dendritiche a livello amigdaloideo. Per concludere, pur condividendo alcune perplessità di Ogle e colleghi (2008) secondo i quali è necessaria grande cautela nell’estrapolare e generalizzare alle vittime di abusi sessuali i risultati ottenuti sperimentalmente sulla memoria, non ci sembra certo trascurabile il fatto che la ricerca neuroscientifica indichi nel suo complesso che il ricordo, nei soggetti con evidenti reazioni post-traumatiche, risulti spesso povero o mancante di componenti verbali, corredato di pochi elementi narrativi mentre risulta più organizzato a livello somato-sensoriale. In questa direzione penso vada interpretata l’interessante ricerca della Di Blasio (2001), condotta sulle deposizioni rese in Tribunale da vittime d’abuso sessuale, che presentavano sintomi di PTSD. Secondo
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questo studio – analogamente a quanto rilevato da Bremner (1998) secondo il quale il racconto verbale delle vittime di child sexual abuse è spesso deficitario, in misura direttamente proporzionale alla severità, pervasività del trauma – il racconto dei bambini-vittime, per quanto completo e valido sotto il profilo delle capacità testimoniali, appare più povero di parole, più scarno, meno ricco di aggettivi e di descrizioni rispetto alla norma. Conclusioni I frammenti storico-letterari insieme alle nozioni filosofiche, alle conoscenze psicoanalitiche ed alle evidenze neuroscientifiche prese in considerazione, indicano in modo spesso convergente che la memoria è una funzione complessa, costruttiva, sensibile a molte variabili, dipendente da funzioni percettive, cognitive, linguistiche, relazionali, che, nel caso di traumi complessi, può riportare alterazioni significative. Come abbiamo visto, l’irruzione massiva di stimolazioni non assimilabili dall’apparato psichico a seguito di un trauma può interferire sia con la formazione di una rappresentazione simbolica del fatto, sia con la possibilità di recupero del ricordo stesso. Più il trauma è profondo e diffuso, più sarà probabile che il racconto risulti lacunoso, disorganizzato oppure – dove l’Io abbia mantenuto una relativa integrità funzionale – sia incompleto o impreciso. Se un avvenimento, per ragioni quantitative o qualitative, oltrepassa le capacità di coping dell’individuo, la possibilità di integrare e successivamente recuperare l’esperienza traumatica subisce delle interferenze decisive, al punto che anche ove fosse possibile il recupero della memoria, questo avverrebbe solo grazie ad operazioni di abbellimento, di creazione di senso che alterano in tutto o in parte la ricostruzione mnestica. Per tutte queste ragioni la genuinità di un ricordo in sede psicoforense non può essere legata alla sola capacità performativa della memoria o alla resa estetica del racconto. Sul piano psichico la variabilità degli effetti di un trauma, non permette di concepire la memoria secondo una logica binaria del tipo vero/falso. Un ricordo può essere falso o essere vero; altre volte ancora può risultare vero in alcuni suoi frammenti, mentre altre sue parti possono essere opportunamente, inconsciamente modificate quasi fossero il compromesso raggiunto dall’apparato psichico perché alcune rappresentazioni raggiungano la consapevolezza. Consistenza psicologica del ricordo e consistenza giuridica della testimonianza sono di difficile coniugazione, sono costrutti con assunti epistemici diversi, la cui combinazione in sede processuale non deve mai prescindere dalla consapevolezza del fatto che verità psichica e verità storica sono categorie non sempre conciliabili. Tutto questo non significa che, quando veniamo convocati in qualità di ausiliari del Giudice ad assisterlo nell’esame testimoniale di un minore vittima di abuso, la nostra funzione sia esautorata a causa della differente prospettiva epistemologica rispetto al Magistrato. Nell’incontro col bambino dobbiamo semplicemente tenere a mente i limiti fisiologici del ricordo, le normali lacunosità della memoria ed operare conseguentemente come se ci si muovesse lungo i bordi della lacuna del ricordo e della narrazione, promuovendo proprio questa mancanza quale vertice osservativo e
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d’ascolto3. Solo mantenendo una posizione rispettosa dell’indeterminatezza del ricordo, accettando al limite che qualcosa possa restare indefinito, facendoci vuoti di sapere sul soggetto, circa la memoria storica dei fatti, è possibile fare spazio ad una costruzione, che rimarrà pur sempre costituzionalmente mancante e non sarà mai ricostruzione oggettiva di quanto accaduto al soggetto. Spesso invece si è spinti, non senza collusioni più o meno inconsapevoli tra Magistrato e specialisti della psiche, oltre il mandato peritale conferito. In questi casi l’errore metodologico dell’esperto è già nelle premesse, ovvero tra le righe di quesiti che lasciano spazio ad interpretazioni soggettive o, peggio ancora, convoca esplicitamente l’esperto ad un pronunciamento nel merito dell’attendibilità delle dichiarazioni della giovane vittima. Il parere clinico dell’esperto non deve fare altro che offrire al Giudice un dato poco più che grezzo, che lui e solo lui può opportunamente gestire all’interno della logica processuale. Quella dello “psi” non può che essere e restare funzione di ausiliario nel più generale quadro della funzione cognitiva del processo. Il consulente del Giudice, non può dirimere il dubbio vero/falso relativamente all’attendibilità della testimonianza, ma interagire dialetticamente con chi è chiamato a giudicare, per mettere quest’ultimo in condizione di produrre una teoria su un certo accadimento. Nello svolgimento di questo compito, nel pieno rispetto del relativismo delle spiegazioni dei fenomeni psichici e di un certo loro grado di indeterminazione, le conclusioni dello “psi” non possono che essere probabilistiche, lontane da possibili derive interpretazioniste o dall’adozione di categorie di pensiero dogmatiche. Riassunto A partire dall’analisi della condizione di testimone-vittima di abuso, l’Autore si interroga sulla natura e funzionamento della memoria e sulle caratteristiche performative del ricordo delle vittime di trauma. Vengono esposte alcune notazioni teoricocliniche con riferimento sia alla letteratura psicoanalitica sia a quella neuroscientifica, alla ricerca di evidenze e convergenze utili a chiarire i rapporti intercorrenti tra consistenza giuridica e psicologica della testimonianza ed offrire una maggiore comprensione in tema di rappresentabilità del trauma. Sia la psicoanalisi, sia le neuroscienze indicano che il trauma – provocando l’irruzione massiva di stimolazioni non assimilabili dall’apparato psichico – interferisce con la formazione di una rappresentazione simbolica del fatto e con la sua successiva possibilità di recupero. Più il trauma è profondo e diffuso, più il racconto risulta lacunoso, incompleto, impreciso. L’Autore conclude per queste ragioni che nell’ascolto del bambino è necessario tenere a mente i limiti fisiologici del ricordo, le lacunosità della memoria ed operare conseguentemente mantenendo una posizione rispettosa dell’indeterminatezza del racconto, per fare spazio ad una “costruzione” che rimarrà pur sempre mancante e non sarà mai “ricostruzione oggettiva”, fedele, di quanto accaduto al soggetto. Parole chiave Testimone – Rappresentazione psichica – Trauma – Memoria. 3
Qualcosa di simile a quanto descrive A. Correale (2000) quando, affrontando la questione del limite all’indagine dell’area traumatica nel trattamento delle psicosi, esprime la necessità di “lavorare ai bordi dell’area traumatica”.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 210-227
Chi sono i bambini con difficoltà scolastiche? Diagnosi differenziale e profili di comorbidità. Esperienza semestrale in un ambulatorio di Neuropsichiatria Infantile Who are the children with educational difficulties? Differential diagnosis and comorbidity profiles. Six months experience in an outpatient clinic of Childhood Neuropsychiatry Laura Libernini*, Chiara Lupis*, Myriam Nori*, Federica Reale*, Silvia Perinetti*, Angelo Santamaria Palombo*
Summary The neuropsychiatric diagnosis is often complex because of the developmental nature of disorders in childhood. The specific learning disorder (DSA) exemplifies this complexity for the high frequency of comorbidity and its clinical heterogeneity. The study aims to: 1) investigate the type of care required by the patients of a Childhood Neuropsychiatry III Level Center Ambulatory Service during a semester 2) report the complexity of diagnosis (differential diagnosis / comorbidity) in case of persons with academic difficulties. Results: A third of subjects who required care for scholastic and attention difficulties. Among them, only half of the cases was diagnosed with Specific Learning Disorder (ASD) with or without comorbid psychopathology. The diagnosis of ASD in the absence of comorbidity was more frequent III-IV year of primary school children and the comorbid psychopathology of the sample increased with age. In the remaining half of the subjects have been identified other pathological conditions including intellectual disability, the psychopathological disorder or aspecific delays of academic skills. Conclusions: The data confirm the complexity of diagnosis in childhood; emphasize the different developmental trajectories of the disorders (kind of neuropsychological profile / presence-absence of comorbidities) and stress the need for careful differential diagnosis. Finally, our study emphasizes the dual function of a Childhood Neuropsychiatry Ambulatory Service as both a diagnostic center as epidemiological observatory for monitoring of significant population samples. Key words Learning Disabilities - Comorbidity – Epidemiology – Differential diagnosis – Developmental trajectories – Diagnostic complexity.
Introduzione Negli ultimi venti anni un’attenzione crescente da parte dei ricercatori è stata riservata all’approfondimento di aspetti quantitativi e qualitativi delle diverse condizioni morbose in psichiatria dell’età evolutiva e della loro conseguente modalità di * Istituto
di Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.
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distribuzione, evoluzione e trasformazione (Levi e Meledandri, 1994; WHO, 2004; U.S. Census, 2005; Levi et al., 2007; Stagi et al., 2011). I dati raccolti ed elaborati hanno permesso un continuo aggiornamento e revisione dei criteri diagnostici (APA, 1994), nonché una riflessione da parte dei clinici riguardo l’accuratezza della diagnosi all’interno di un contesto complesso, in cui il cluster sintomatologico si modifica nel tempo risentendo della specifica fase evolutiva e delle nuove realtà sociali (economiche, demografiche, multietniche). La maggiore sensibilità e specificità diagnostica ha permesso di far emergere e valutare, in modo più accurato, il fenomeno della “comorbidità” tra sintomi e disturbi e all’interno di ogni dimensione patologica. In età evolutiva, infatti, la presenza di casi misti neuropsicologici e psicopatologici condiziona non solo la diagnosi, che può variare a seconda che prevalga l’uno o l’altro disturbo in una specifica fase evolutiva, ma anche la scelta del tipo di intervento riabilitativo che, in alcune occasioni, rischia di non essere puntuale ed efficace causando un investimento inappropriato delle risorse sanitarie pubbliche. La modificabilità clinica rappresenta dunque la norma e non l’eccezione ed il disturbo di solito “cresce” insieme al soggetto e si ridefinisce di volta in volta sulla base delle competenze emergenti, dei passaggi evolutivi e delle caratteristiche individuali e ambientali. Tale complessità si rintraccia nel frequente ricorso a diagnosi di attesa che, se da una parte salvaguardano il paziente da eccessive semplificazioni diagnostiche o premature “etichette” nosografiche, dall’altra rischiano di prolungare l’iter diagnostico posticipando un chiaro inquadramento clinico e un intervento riabilitativo mirato. All’interno di questa cornice il Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) può rappresentare un valido modello esplicativo: il 40% - 70% (Greenbaum et al., 1996) dei soggetti affetti da tale patologia si presenta in comorbidità con altri disturbi, che, nel 24-54% dei casi è di tipo psicopatologico (Rutter, 1976) ed in modo più specifico riguarda disturbi di tipo esternalizzante quali ADHD, Disturbo Oppositivo Provocatorio, Disturbo della Condotta (Knivsberg et al., 2008; Heiervang et al., 2001) o di tipo internalizzante quali Disturbo D’Ansia, Disturbo dell’Umore e Disturbi Somatoformi (Masi, 1999; Kovacs et al., 1991; Goldston et al., 2007). Numerosi sono i dati in letteratura che confermano tali associazioni: già nel 1991 Rourke e Fuerst riportavano una serie di studi in cui si evidenziava l’alta frequenza di sintomi psicopatologici associati (15-25% sintomatologia esternalizzante; 20-25% internalizzante). Più di recente Gadeyne et al. (2004) hanno riscontrato difficoltà di integrazione sociale in un ampio gruppo di dislessici di 7 anni; Backer e Neuhauser (2003), nel loro campione di 77 bambini con dislessia, hanno trovato elevati livelli di sintomi internalizzanti ed esternalizzanti; Bosman e Braams (2005) hanno riscontrato livelli più alti di sintomatologia depressiva in 246 dislessici della scuola primaria olandese. Molto dibattuto, inoltre, è il ruolo svolto dall’ADHD: “organizzatore” del disturbo dell’apprendimento o fattore di rischio per lo sviluppo di un quadro psicopatologico? Willcutt et Pennington (2000) hanno dimostrato che le difficoltà di lettura si associano più di frequente alla disattenzione (sottotipo di ADHD) più che all’iperattività
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e hanno riscontrato un’associazione statisticamente significativa tra disattenzione, disturbo della condotta e difficoltà di lettura. A conferma di ciò gli stessi autori nel 2007 hanno condotto uno studio su gemelli, in cui almeno uno dei due presentava o significative difficoltà di lettura o ADHD o entrambi. Gli autori concludevano che le difficoltà di lettura e i sintomi di ADHD erano maggiormente ereditabili, quando associati nello stesso soggetto, suggerendo un’elevata correlazione genetica tra i due disturbi. In particolare tale associazione risultava significativa per disattenzione e codifica ortografica e meno per altri sintomi quali iperattività ed impulsività. Inoltre numerose ricerche dimostrano che, a prescindere dall’associazione con ADHD, i ragazzi con DSA sono più disattenti e presentano una minore autostima, maggiori problemi interpersonali andando più di frequente incontro ad episodi di bullismo diretto – spintonate, offese, derisioni – e indiretto – minacce, maldicenza, esclusione dal gruppo (Wiener e Schneider, 2002; Kellner et al., 2003; Nabuzoka, 2003; McNamara et al., 2005). Diversi gruppi di ricerca internazionale negli ultimi anni hanno indagato sulle possibili cause di una comorbidità tra DSA e disturbi psicopatologici elaborando alcuni modelli causali (Morgan et al., 2008). Tra questi, quattro, risultano maggiormente accreditati. Il primo modello propone l’idea di nuclei patogenetici comuni (es. deficit attentivo) che inducono problemi sia negli apprendimenti che nel comportamento. Tale modello implica che il legame tra i due disturbi sia casuale (Hinshaw, 1992; Spira et al., 2005). Il secondo suggerisce che le difficoltà negli apprendimenti possano, in seconda istanza, influenzare il vissuto personale dei soggetti e determinare una possibile evoluzione verso un disturbo psicopatologico, a causa dell’impatto che la propria inefficacia scolastica produce sull’immagine di sè (Flaming et al., 2004; Wehby et al., 2003; Kellam et al., 1998). Il terzo introduce la possibilità che problemi di comportamento interferiscano con l’apprendimento attraverso l’impossibilità di accedere ed investire con costanza e regolarità nel percorso scolastico e nelle attività gruppali (Rabiner et al., 2000; Ialongo et al., 1999; Kellam et al., 1991). Il quarto, definito bidirezionale, implica una causalità reciproca tra disturbo di apprendimento e problemi comportamentali: entrambi si potenzierebbero a vicenda inducendo un feedback negativo e una circolarità. In questo caso viene chiamata in causa una disfunzione esecutiva (Stevens et al., 2003): in particolare una difficoltà nella regolazione dei comportamenti finalizzati e nella capacità di pianificazione che determinerebbe problemi più generali di regolazione dei propri comportamenti ed una scarsa persistenza sul compito con ricadute sull’apprendimento. Nel caso in cui il primum movens sia rappresentato da difficoltà specifiche nell’apprendimento scolastico i sentimenti rabbiosi e frustranti ricorrenti conducono ad aggressività, isolamento e scarso investimento scolastico che finiscono col potenziare le difficoltà stesse (McGee et al., 1986). Tale ciclicità complica le modalità di intervento con questi bambini in quanto esse variano in base al timing in cui si va ad agire sul disturbo. Gli autori ne concludono che in alcune fasi della patologia potrebbe essere necessario formulare un intervento multimodale che vada ad agire non solo sulle difficoltà oggettive negli apprendimenti ma anche sugli aspetti comportamentali.
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Sin dai primi studi sulla dislessia, inoltre, viene descritta la sua frequente associazione con un disturbo di linguaggio di tipo fonologico (Pennington e Smith, 1983; Bishop e Snowling, 2004) e con una lieve goffaggine motoria (Geschwind, 1982). Negli anni più recenti quasi tutte le ricerche sul Disturbo di Coordinazione Motoria (Developmental Coordination Disorder - DCD) evidenziano difficoltà nell’apprendimento e nel rendimento scolastico, a volte in modo generico, a volte, invece, riportando la presenza di cadute significative in aree e test relativi alla lettura, alla scrittura ed al calcolo. Studi di prevalenza indicano che almeno il 50% dei bambini con difficoltà di apprendimento presentano un concomitante DCD ( Jongmans et al., 2003). Questi risultati suggeriscono che una co-esistenza di deficit delle abilità di apprendimento e motorie si verifica frequentemente e potrebbe essere spiegata dallo stesso meccanismo patogenetico. Sono stati proposti diversi modelli esplicativi al fine di spiegare la co-occorrenza dei disturbi di sviluppo e la letteratura spazia da approcci che sostengono l’eziologia indipendente di ciascun disturbo (Cruddace et al., 2006) a modelli che attingono ad uno sviluppo cerebrale atipico generalizzato -Atypical Brain Development- ABD (Gilger et al., 2001). Il concetto di ABD è stato proposto come cornice esplicativa dell’eziologia e della reciproca interdipendenza tra i vari disturbi: non si riferisce ad un disturbo specifico, piuttosto è un concetto eziologico di sviluppo cerebrale atipico che può presentare un’espressività eterogenea e manifestarsi in domini comportamentali, emotivi e/o accademici, differenti. Il bambino in cui si verificano in epoca precoce atipie dello sviluppo cerebrale è cioè a rischio di sviluppare un ampio range di difficoltà, ma lo specifico pattern di espressività clinica dipenderà dall’estensione e dalla sede della sottostante anomalia neurologica (Powell et al., 1992). Molteplici fattori genetici ed ambientali interagiscono tra loro, ma mancano di specificità. L’ampia variabilità nell’estensione e nella natura della sottostante anomalia neurologica fa sì che disturbi “puri”, distinti, costituiscano l’eccezione più che la regola. Tuttavia, alcune sindromi hanno la tendenza a presentarsi in comorbidità con sindromi specifiche: i bambini con DCD, per esempio, hanno maggiori probabilità di avere Sindrome di Asperger se presentano comorbidità con ADHD (Kadesjo et al., 1998). Ciò suggerirebbe che il ritardo dello sviluppo neurologico possa avere effetti “semi-specifici” su particolari aspetti di elaborazione delle informazioni. In questo scenario la comorbidità risulta un elemento fondamentale sia al momento della diagnosi che nella programmazione dell’intervento riabilitativo: i disturbi associati si potenziano a vicenda inducendo una circolarità di feedback negativi che vanno a interferire sull’efficacia didattica, sul funzionamento globale e sul benessere soggettivo, aspetti che contribuiscono a rendere il quadro clinico complesso ed ad influenzare l’outcome generale. Come tutti i disturbi di sviluppo, inoltre, anche i DSA sono disturbi stadiali e si presentano con un fenotipo eterogeneo: la variabilità dell’espressività clinica del disturbo sia in termini inter-individuali (gravità, tipo di difficoltà prevalente) che intra-individuali (diversa evoluzione nel corso del tempo), necessita di essere sempre tenuta in considerazione. Un altro elemento importante è rappresentato dal problema della diagnosi differenziale tra DSA e disabilità intellettiva lieve o funzionamento intellettivo limite.
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Si stima infatti che circa il 13,6% (circa 1 bambino su 7) dei soggetti che presentano difficoltà scolastiche, possiedono un funzionamento intellettivo limite (Cornoldi et al., 2007). Nella maggior parte dei casi l’omogeneità del profilo, il valore del QI e la presenza di cadute a carico prevalentemente degli aspetti logici o di integrazione (comprensione del testo, capacità inferenziali, risoluzione di problemi aritmetici), in assenza di cadute specifiche nelle abilità automatizzabili (es. decodifica nel processo di lettura), associate ad una valutazione del funzionamento globale (sociale, scolastico, familiare) dovrebbe condurre agevolmente verso una diagnosi di disabilità. La riflessione sulla diagnosi deve essere attenta a considerare con cura ogni variabile (es. svantaggio socio-culturale, disturbo ansioso-depressivo, ecc). Inoltre nel funzionamento cognitivo limite, le spesso adeguate competenze di letto-scrittura, anche se a volte acquisite più tardivamente, possono indurre insegnanti e genitori a rassicurarsi sulle capacità di apprendimento del bambino e la caduta negli aspetti logici o inferenziali può essere sottovalutata e riconosciuta solo più tardivamente. Questo rende ragione talvolta delle intempestive segnalazioni di questi pazienti, che, all’epoca della valutazione pongono dunque un altro problema: impoverimento cognitivo di un DSA non trattato o diagnosi tardiva? La ricerca epidemiologica mediante un monitoraggio longitudinale di grandi campioni clinici, può fornire informazioni sulle differenti traiettorie evolutive di patologie diverse e quindi facilitare l’individuazione di fattori predittivi/di rischio e protettivi permettendo ad ogni parte in gioco (istituzioni, scuola, insegnanti, genitori, clinici, ecc.) di delineare priorità per l’individuazione, la prevenzione e la riduzione del disagio. Tenere presente l’evoluzione del profilo funzionale e della diagnosi ha dunque importanti ricadute sul piano terapeutico determinando una periodica rimodulazione degli obiettivi riabilitativi nel corso del tempo. Obiettivi Il nostro lavoro si propone di: 1) Indagare il tipo di richiesta assistenziale degli utenti che afferiscono presso un Servizio Ambulatoriale di un Centro di III Livello di Neuropsichiatria Infantile nell’arco di un semestre (osservatorio epidemiologico). 2) Esaminare coloro che tra questi giungono per difficoltà scolastiche e/o attentive valutandone diagnosi, eventuale presenza di comorbidità e distribuzione in base alle classi scolastiche frequentate. Soggetti e metodi È stato preso in esame un campione di 596 pazienti afferiti presso l’Ambulatorio Generale della UOC B di NPI del Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile (Policlinico Umberto I Roma) per effettuare una prima visita, nel periodo compreso tra settembre 2011 e marzo 2012. In base al motivo della consultazione i pazienti sono stati suddivisi nei seguenti gruppi: “Difficoltà emotivo-comportamen-
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tali”; “Problemi dello sviluppo neuropsicologico diversi dalle difficoltà scolastiche” (problemi di linguaggio, coordinazione motoria, comunicativo-relazionali, intellettivi); “Problemi neurologici”; “Difficoltà di apprendimento scolastico e/o difficoltà attentive”; “Altro” intendendo situazioni eterogenee e meno frequenti quali ad esempio traumi, separazioni, lutti e abusi. Ogni paziente giunto in Ambulatorio Generale è stato sottoposto ad una prima visita neuropsichiatrica nel corso della quale veniva effettuata la raccolta anamnestica, una prima osservazione clinica del bambino, l’esame obiettivo e neurologico, la richiesta di esami diagnostici strumentali (es. EEG, esame audiometrico) o di visite specialistiche (otorinolaringoiatrica, oculista) finalizzati ad un primo inquadramento diagnostico. Durante questa fase il clinico stabiliva se indirizzare il paziente verso un’osservazione breve che veniva effettuata nello stesso Ambulatorio o inviarlo presso altri Servizi del Dipartimento. Nel primo caso il bambino veniva sottoposto ad uno specifico protocollo diagnostico a seconda dell’ipotesi formulata in prima visita. Seguiva un colloquio conclusivo di restituzione in cui era comunicata la diagnosi e consegnata una relazione nonchè definito l’eventuale intervento terapeutico o riabilitativo e l’invio per la presa in carico presso il Servizio Territoriale di competenza. Nella seconda ipotesi, per casi più complessi o che necessitavano di procedure diagnostiche non eseguibili in regime ambulatoriale, veniva effettuato un invio diretto ai Servizi di Degenza Diurna o Ordinaria della nostra Struttura. Ciascun soggetto afferito per “difficoltà di apprendimento scolastico e/o attentive” era sottoposto al seguente protocollo: test intellettivi, prove linguistiche e metafonologiche prove scolastiche di lettura, scrittura e calcolo. In presenza di riferiti o emergenti problemi psicopatologici venivano effettuate separatamente interviste semistrutturate con bambino e genitori, osservazione di gioco, test proiettivi, questionari. La diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento è stata posta seguendo i criteri diagnostici definiti dalle Linee Guida Sinpia sui DSA (2005) e della 3°Consensus Conference (3° Consensus Conference DSA/P.A.R.C.C. 2011): • Normodotazione intellettiva. Il quoziente totale (multicomponenziale), oppure il migliore tra i quozienti monocomponenziali rilevati, deve essere non inferiore a 85. In presenza di risultati inferiori a 85 a test monocomponenziali nonverbali (es. scala di Performance alla WISC, scala Leiter, Matrici Progressive o simili), prevedere l’applicazione anche di un test di tipo verbale (almeno 3 subtest della scala Verbale della WISC-III), il cui risultato deve essere non inferiore a 85 (o a 7 nella media dei punteggi ponderati) per soddisfare il criterio di inclusione. Per bambini di età inferiore a 8 anni, per i quali non è scontata l’acquisizione di abilità cognitive generali sufficienti a sostenere gli apprendimenti formali, si verificano entrambi gli ambiti di funzionamento intellettivo (verbale e di performance) per escludere quadri di immaturità globale incompatibile con una diagnosi di DSA. Per questi bambini, è possibile diagnosi solo se anche il più basso dei QI è superiore a 70. • Caduta di almeno due deviazioni standard in una o più delle competenze di lettura, scrittura e/o calcolo rispetto ai valori di riferimento della popolazione
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infantile generale oppure un’età di scrittura, lettura e/o calcolo inferiore di almeno due anni in rapporto all’età cronologica del soggetto e/o all’età mentale, misurata con test psicometrici standardizzati, nonostante un’adeguata scolarizzazione. Risultati e Discussione In base ai motivi della consultazione il campione iniziale di 596 soggetti è stato così distribuito: 204 pazienti (34%) “Difficoltà di apprendimento scolastico e/o attentive”, 161 (27%) “Difficoltà Emotivo-Comportamentali”, 147 (24,7%) “Problemi dello Sviluppo Neuropsicologico diversi dalle difficoltà scolastiche” (problemi di linguaggio, coordinazione motoria, interazione sociale, intellettivi), 68 (11,5%) “Problemi Neurologici”, 16 (2,8%) “Altro” – traumi, separazioni, lutti e abusi – (Tabella 1).
Tabella 1. Motivi della consultazione. Difficoltà di apprendimento - Problemi attentivi
204 (34%)
Problemi Emotivo - Comportamentali
161 (27%)
Problemi dello Sviluppo Neuropsicologico diversi dalle difficoltà scolastiche – problemi di linguaggio – coordinazione motoria – interazione sociale – intellettivi
147 (24.7%)
Problemi Neurologici
68 (11.5%)
Altro (traumi, separazioni, lutti, abuso)
16 (2.8%)
Campione totale
596
Tra i soggetti afferiti in Ambulatorio nel corso dei sei mesi presi in esame, una ridotta percentuale (5.3%) giungeva, per ottenere una “second opinion” riguardo una diagnosi già effettuata in altra sede: in questi casi il clinico si proponeva di visionare gli approfondimenti diagnostici effettuati, integrarli, se necessario con ulteriori accertamenti e stabilire, in base ai dati raccolti, se confermare o modificare la precedente diagnosi (Figura 1). Il campione relativo ai soggetti che afferivano per “difficoltà di apprendimento e/o attentive” appariva così distribuito: 44 bambini (21.6%) frequentavano il I o il II aa di scuola primaria (scuola elementare), 67 (32.8%) il III o IV aa, 50 (24.5%) appartenevano al V aa o al I aa della scuola secondaria di primo grado (scuola media), 33 (16.2%) frequentavano il II o III aa, 10 (4.9%) il secondo ciclo di scuola secon-
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Figura 1. Flow chart Ambulatorio Generale NPI.
daria (scuole superiori). Sul totale dei bambini segnalati per difficoltà scolastiche: 13 (6.3%) erano bambini migranti, 7 (3.4%) erano bambini adottati. In seguito ad un primo inquadramento diagnostico, effettuato in Ambulatorio Generale, solo il 52,4% dei bambini (107), che afferivano per difficoltà scolastiche, presentava realmente un DSA. Nel 12,7% dei casi (26 bambini) le difficoltà scolastiche si inserivano nell’ambito di un Funzionamento Intellettivo Limite, nell’11,3 % (23 bambini) di un Disturbo Psicopatologico “puro”. Nel rimanente 21,6% dei soggetti (44 bambini) le difficoltà di apprendimento risultavano aspecifiche, attribuibili in alcuni casi a Disabilità Intellettiva, in altri a quadri dismaturativi ossia (ritardi nell’acquisizione delle competenze scolastiche in bambini delle prime due classi della scuola primaria). Nel 2% dei casi (4 bambini) non è stata formulata alcuna diagnosi, gli stessi sono stati inviati a domicilio dopo un colloquio di restituzione (Grafico 1). Tra questi ultimi (72 bambini) il 61,2% frequentava il II, III o il IV anno di scuola primaria, il 19,5% il V anno o il I anno del primo ciclo di scuola secondaria, il 15,2 % il II o III anno, il 4,1 % il secondo ciclo di scuola secondaria (Grafico 3). I soggetti che presentavano DSA con comorbidità psicopatologica (35 bambini) frequentavano nel 48,6 % dei casi il II, III o la IV anno di scuola primaria, nel 22,8% il V anno o il I anno del primo ciclo di scuola secondaria e nel 22,8 % il II o III anno, nel 5,8 % il secondo ciclo di scuola secondaria (Grafico 3). Si fa notare che è stato deciso di inserire
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nel gruppo DSA anche una piccola porzione di soggetti del II aa di scuola primaria che per gravità e specificità del quadro non ponevano dubbi riguardo la stabilità dei sintomi e l’orientamento diagnostico.
Grafico 1. Distribuzione delle diagnosi nel campione afferito per difficoltà di apprendimento scolastico.
Grafico 2. Distribuzione della comorbidità Psicopatologica nel campione dei DSA diagnosticati.
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Grafico 3. DSA “puri” vs DSA con comorbidità Psicopatologica: distribuzione per classe frequentata.
La comorbidità psicopatologica (disturbi internalizzanti e disturbi esternalizzanti) già elevata al momento della diagnosi (48,6% dei bambini DSA al II, III-IV anno di scuola primaria), tendeva ad aumentare con l’età: comparando tutti i DSA al II-III-IV anno di scuola primaria, il 61,2% aveva un DSA “puro” mentre il 48,6% aveva un DSA associato ad un disturbo psicopatologico. Al II-III anno del primo ciclo di scuola secondaria, le percentuali diventano rispettivamente del 15,2% vs 22,8 % (Grafico 3). Questo dato, sembra essere in controtendenza rispetto agli ultimi lavori sull’argomento che vedono una sostanziale stabilità dei quadri di comorbidità - DSA/Disturbi Psicopatologici - nel corso del tempo (Fuerst e Rourke, 1990; 1993; 1995; Tsatsanis et al., 1997) e potrebbe essere giustificato dalla minore numerosità del campione con il crescere dell’età. Nonostante ciò il dato emerso offre alcuni spunti di riflessione: il disturbo psicopatologico segue l’andamento del DSA o costituisce l’espressione diretta dello sviluppo delle competenze autoriflessive in bambini che acquisiscono col trascorrere del tempo una sempre maggiore consapevolezza delle proprie difficoltà nel confronto coi pari? È possibile che l’insorgenza della comorbidità psicopatologica renda più evidente agli operatori scolastici difficoltà anche lievi di apprendimento che in età più precoce non erano state individuate, sostenendo in tal modo la segnalazione? Tra i soggetti nei quali è stata formulata diagnosi di Funzionamento Intellettivo Limite l’11,5% frequentava il I o II anno di scuola primaria, il 27% il III o il IV anno, il 34.7% il V o il I anno di scuola secondaria di primo grado, il 23% il II-III anno, il 3,8% la scuola secondaria di secondo grado (Grafico 4). Tra i soggetti nei quali le difficoltà scolastiche erano ascrivibili ad un disturbo psi-
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Grafico 4. Funzionamento Intellettivo Limite vs Disturbo Psicopatologico “Puro”: distribuzione per classe frequentata.
cocomportamentale il 25% frequentava il I o il II anno di scuola primaria, il 45,8% il III o il IV anno, il 25% il V anno o il I anno della scuola secondaria di primo grado, il 4,2% il II o III anno, mentre non vi erano soggetti afferenti dal secondo ciclo di scuola secondaria (Grafico 4). L’analisi dei risultati suggerisce che nel caso del Disturbo Specifico di Apprendimento la fascia II-III-IV anno di scuola primaria (elementare), si conferma epoca dello sviluppo nella quale la presenza del nucleo neuropsicologico è più delineata, riconoscibile e meglio differenziabile (minor rischio di falsi positivi, confermato dalla minore percentuale di altre diagnosi, quali funzionamento intellettivo limite presente solo nell’11%, ritardi di apprendimento su base dismaturativa in bambini nelle fasi iniziali del ciclo di scuola primaria anche in questo caso pari all’11%). È stato comunque rilevato che, allo stato attuale, anche nella fascia I/II anno di scuola primaria la percentuale di diagnosi di DSA in via di strutturazione è considerevole (36%), mostrando una maggiore capacità della scuola di individuare soggetti a rischio; tuttavia in tale fascia di età, per ogni bambino che riceve diagnosi di DSA, ce n’è un altro segnalato come sospetto che si rivela un semplice ritardo delle acquisizioni scolastiche in assenza di un disturbo specifico (35%). Alla segnalazione “difficoltà scolastiche” non sempre corrisponde un’effettiva diagnosi di DSA, ma, in base all’età in cui i bambini afferiscono presso il nostro ambulatorio, vengono rilevati quadri clinici diversi. Ad esempio, come descritto sopra, la maggior parte dei soggetti appartenenti alle prime due classi della scuola primaria
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mostra un quadro dismaturativo; mentre il 18% dei bambini afferiti per difficoltà scolastiche al quinto anno di scuola primaria e al I di scuola secondaria di primo grado possiede un funzionamento intellettivo limite (34, 7% del campione dei soggetti con tale diagnosi). Questi dati suggeriscono dunque che alcuni soggetti continuano ad afferire tardivamente presso i sevizi specialistici. Le cause da prendere in esame possono essere diverse: riduzione delle competenze cognitive in bambini con disturbo specifico non riconosciuto o trattato con interventi non adeguati, basso livello socio-culturale con scarse stimolazioni ambientali, maggiore evidenza delle difficoltà scolastiche col passaggio in scuola secondaria e quindi con l’incremento delle richieste cognitive, resistenze da parte della famiglia ad effettuare una consultazione specialistica. La diagnosi di Disturbo Psicopatologico “Puro” è stata effettuata in percentuale maggiore (48,8%) nelle classi III-IV di scuola primaria (versus il 4,2% del II-III anno di scuola secondaria di primo grado) (Grafico 4); tale dato suggerisce che nei bambini più piccoli il nucleo psicopatologico si esprime nel contesto scolastico con aspecifiche difficoltà di apprendimento, mentre a partire dalla quinta elementare il quadro psicopatologico è meglio delineato e la segnalazione più specifica, in altre parole al crescere dell’età il Disturbo Psicopatologico viene individuato meglio come tale riducendo il rischio di essere confuso con problematiche di tipo scolastico. Considerazioni conclusive I DSA possono essere definiti come disturbi stadiali, in cui diversi fattori evolutivi possono contribuire a trasformarne progressivamente il quadro sintomatologico e a influenzarne la tipologia dell’intervento terapeutico-riabilitativo e didattico. Dal lavoro descritto emerge che, nei sei mesi presi in esame, dei 204 bambini giunti per difficoltà di apprendimento, solo la metà circa (107 bambini) presentava realmente un DSA. Gli altri si distribuivano all’incirca equamente tra funzionamento cognitivo limite (n.26) in cui le difficoltà scolastiche erano compatibili con il livello intellettivo, disturbi psicopatologici (n.23) in cui il problema scolastico sembrava secondario al problema emotivo e quadri dismaturativi (n.44) in cui le difficoltà di apprendimento apparivano aspecifiche. Tra i 107 bambini che hanno ricevuto una diagnosi di DSA, 1 su 3 circa (35 soggetti) presentava una comorbidità psicopatologica tale da influire sul funzionamento sociale e scolastico. Dai dati presenti in letteratura e dalla propria esperienza clinica, chi si occupa di età evolutiva, sa che la comorbidità costituisce spesso “la regola” più che l’eccezione. Nel caso dei DSA, in linea con alcuni dei modelli causali citati, il nostro studio ci riporta a riflessioni specifiche: come interpretare tale complessità fenotipica? Si tratta di reale comorbidità o sarebbe più corretto parlare di co-occorrenza? Come abbiamo visto, alcuni autori citati (Stevens et al., 2003) ipotizzano la presenza di un meccanismo o di più meccanismi patogenetici comuni ed interconnessi (che si esprimono con una varietà fenotipica eterogenea e composita) alla base di quello che sul piano clinico viene invece interpretato come la compresenza di più
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disturbi: ciò sarebbe anche in accordo con quanti sostengono che manifestazioni cliniche apparentemente diversificate sottendono uno sviluppo cerebrale atipico generalizzato (Gilger et al., 2001) o comunque nuclei patogenetici comuni (Hinshaw, 1992). Le ricadute sul piano clinico del differente modo di concepire la comorbidità non sono irrilevanti ma possono condizionare notevolmente le prassi operative: considerare la comorbidità come la manifestazione articolata e polimorfa di un comune substrato patogenetico piuttosto che come la compresenza casuale di condizioni distinte e tra loro indipendenti determina inevitabilmente un approccio differente nel trattamento riabilitativo. Tutto questo sembra evidenziare i limiti delle classificazioni strettamente nosologiche rispetto alla realtà clinica ed alle esigenze di una diagnosi evolutiva incentrata sulle caratteristiche individuali piuttosto che definita sulla base di categorie nosografiche rigidamente predefinite; del resto è evidente come anche i sistemi di classificazione nosografica sono oggetto frequente di ripensamento e ridefinizione man mano che la letteratura si arricchisce dei dati derivanti dall’esperienza clinica. Nel momento storico attuale, in cui il controllo della spesa pubblica è divenuto più che mai urgente questo dibattito non rappresenta una mera riflessione teorica, ma si inserisce pienamente nell’analisi della ridistribuzione mirata delle risorse e di una stima più attenta delle procedure diagnostiche impiegate e delle figure coinvolte, rendendo più che mai necessaria la presenza di operatori specializzati e competenti nell’età evolutiva per effettuare corretti percorsi di diagnosi differenziale al fine di indirizzare verso un intervento terapeutico-riabilitativo più appropriato. L’analisi dei dati inoltre illustra come circa 1 bambino su tre presenta un significativo disturbo psicopatologico. Intervenire correttamente su questa fascia d’età può equivalere ad un intervento di prevenzione secondaria per lo strutturarsi di disturbi psichiatrici nelle successive fasce d’età. In aggiunta a ciò, nel campione preso in esame, alla diagnosi di DSA non ha mai fatto seguito una certificazioni con richiesta di sostegno didattico, come previsto dalla nuova normativa (Legge 170-2010); in molti casi tuttavia tale decisione clinica ha lasciato alcune questioni aperte: a) Per quali quadri di comorbidità e gradi di gravità del DSA bisogna ancora considerare l’utilità di un sostegno? I bambini con DSA devono essere considerati all’interno di un continuum clinico che comprenda sia casi lievi che gravi sulla base dell’entità del deficit neuropsicologico e valutati in base alla presenza o meno di comorbidità psicopatologica come ulteriore fattore di gravità. Alcuni casi di DSA rappresentano una “urgenza pedagogica” in quanto senza un investimento didattico suppletivo, possono sviluppare una disabilità intellettiva o avere un funzionamento inferiore alle loro reali capacità o sviluppare un rischio psicopatologico socialmente gravoso. b) Come considerare il problema dei migranti e dei bambini con gravi svantaggi culturali? Il rischio che si pone nei confronti di questi bambini è l’attribuzione di diagnosi di DSA o di Disabilità Intellettiva in casi in cui sono presenti in realtà difficoltà aspecifiche di apprendimento (legate a fattori socio-ambientali, linguistici e culturali).
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c) Come considerare il problema delle difficoltà di apprendimento dei bambini con Funzionamento Intellettivo Limite? Secondo le ultime indicazioni ministeriali in merito all’integrazione scolastica questi pazienti dovranno essere considerati alla stregua dei DSA (Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012; Circolare n. 8/13 del 06 Marzo 2013). Eppure essi rappresentano una popolazione eterogenea all’interno della quale si possono delineare diversi sottogruppi: alcuni presentano una dissociazione significativa tra competenze linguistiche e logico-spaziali, altri possono essere considerati il risultato di un processo di “impoverimento cognitivo” di un pregresso DSA, infine esiste un gruppo di pazienti nel quale DSA e funzionamento cognitivo limite coesistono. È proprio quest’ultimo gruppo, per la complessità che lo caratterizza, a richiedere considerazioni particolari e differenziate riguardo la presa in carico riabilitativa e didattica. Infine nel nostro lavoro l’ambulatorio generale si pone come osservatorio epidemiologico di Neuropsichiatria Infantile al fine di monitorare campioni significativi di diagnosi all’interno della realtà nazionale italiana e confrontarli con campioni europei. Un osservatorio di questo tipo può permettere di individuare la prevalenza dei Disturbi Neuropsichiatrici nella popolazione infantile e di identificare i soggetti “a rischio” da monitorare nel tempo. Avere una chiara prospettiva delle dimensioni patologiche e delle aree di rischio consente di effettuare una politica sanitaria mirata, ergonomica e preventiva, distribuire le forze in campo in modo adeguato e offrire al paziente un intervento calibrato ed efficace. Riassunto Premessa: La diagnosi neuropsichiatrica risulta spesso complessa per il carattere evolutivo dei disturbi in età evolutiva. Il Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) esemplifica questa complessità per l’elevata frequenza di comorbidità e per l’eterogeneità clinica. Lo studio si propone di: 1) indagare il tipo di richiesta assistenziale degli utenti che afferiscono presso un Servizio Ambulatoriale di un Centro di III Livello di Neuropsichiatria Infantile nell’arco di un semestre 2) segnalare la complessità diagnostica (diagnosi differenziale/comorbidità) nel caso di soggetti che afferiscono per difficoltà scolastiche. Risultati: Coloro che giungono per difficoltà scolastiche e/o attentive rappresentano circa un terzo dell’utenza. Tra questi, solo nella metà dei casi è stato diagnosticato un Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) con o senza comorbidità psicopatologica. La diagnosi di DSA in assenza di comorbidità è stata posta più di frequente nei bambini al III-IV anno di scuola primaria mentre la comorbidità psicopatologica del campione aumenta con l’età. Nella restante metà dei soggetti sono state individuate altre condizioni patologiche tra cui le Disabilità intellettiva, il Disturbo Psicopatologico isolato o quadri dismaturativi. Conclusioni: I dati raccolti confermano la complessità della diagnosi in età evolutiva; sottolineano le diverse traiettorie inter e intraindividuali che il disturbo può assumere (tipo di profilo neuropsicologico/ presenza-assenza di comorbidità) e ribadiscono la necessità di una attenta diagnosi differenziale. Il nostro studio infine sottolinea la duplice funzione di un servizio ambulatoriale di neuropsichiatria infantile sia come polo diagnostico che come osservatorio epidemiologico per il monitoraggio di consistenti campioni di popolazione.
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Parole chiave Disabilià Intellettiva – Epidemiologia – Diagnosi differenziale – Traiettorie di sviluppo – Complessità diagnostica.
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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 228-235
L’Ambulatorio in neuropsichiatria infantile Diagnosis in child and adolescent psychiatry: diagnostic consultation as a basis for rational intervention Valentina Ivancich*
Summary In the field of child and adolescent psychiatry, as in other medical disciplines, a diagnosis is reached through the collection of signs and symptoms, using specific methods, guided by the clinician’s knowledge and dedutive reasoning. The diagnostic consultation, a well-conducted initial contact with the patient operated within a comprehensive developmental framework, saves time and resources while being in the best interests of the patient himself. A developmental diagnosis, however tentative, is reached, successive referrals, if necessary, can be precisely aimed, and, in a number of cases, the initial contact acts in itself as a short consultation with a potentially therapeutic effect on the patient’s problems. This paper stresses the importance of the diagnostic consultation as a paradigmatic clinical procedure within which the psychiatrist can apply basic diagnostic methodology and, even when working alone, reach a global understanding of the patient’s difficulties and a reasonably indicative diagnostic formulation. Key words Diagnosis – Diagnostic consultation – Child psychiatry – Development.
Introduzione L’arte di giungere a una diagnosi clinica attraverso la ricerca e la raccolta di segni e sintomi pertinenti, guidate da un ragionamento clinico deduttivo, ad opera di un medico che vi applica le sue conoscenze, la sua sensibilità clinica e la sua padronanza di metodologie specifiche, è uno dei fondamenti della medicina occidentale. La Neuropsichiatria Infantile è, in questo, una disciplina medica come le altre. Chiaramente, valgono regole particolari, a) per via della natura delle problematiche in esame (la neuropsichiatria infantile è un ambito dove la dimensione neurobiologica si intreccia con altri livelli strutturali, funzionali e interpretativi, quali affettività, emozioni, pensiero, relazionalità etc.); e b) perchè si tratta di età evolutiva: lo sviluppo costituisce un elemento di primo piano. E certo, i segni e i sintomi sono specifici alla disciplina e appartengono a ogni possibile livello di lettura (somatico, comportamentale, evolutivo, affettivo, etc.). Inoltre la definizione di “disturbo” è molto più fluida di quanto avviene perlopiù in medicina somatica classica, e si gioca su diversi piani. Infine, la diagnosi sarà in realtà una formulazione diagnostica articolata * Neuropsichiatra
infantile.
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in più parti. Ma il principio rimane lo stesso: la diagnosi in psichiatria dell’età evolutiva è un atto clinico a cui si giunge attraverso il rilievo di segni e sintomi, tramite metodologie particolari, seguendo un ragionamento che si raffina progressivamente man mano che arrivano i dati a favore o meno delle ipotesi di lavoro. La consultazione ambulatoriale offre un esempio paradigmatico di questa procedura. I. La consultazione ambulatoriale come procedura clinica In psichiatria dell’età evolutiva, esattamente come nelle altre branche della medicina, una solida pratica ambulatoriale ha un ruolo letteralmente fondamentale: costituisce infatti la base, il fondamento di ogni ulteriore atto clinico e presa in carico. Anche in un’ottica di ricerca, d’altra parte, la clinica costituisce un riferimento importante se si vogliono produrre lavori significativi che abbiano un legame con la realtà. Il primo livello di contatto con il paziente, che si potrebbe anche definire “consultazione ambulatoriale”, è da considerarsi un momento privilegiato e potenzialmente decisivo del percorso clinico. Il suo obiettivo è infatti di giungere a una ipotesi diagnostica rigorosa. L’ipotesi diagnostica, a sua volta, permetterà di orientare con una certa precisione, e sulla base di dati oggettivi, gli invii per approfondimenti e presa in carico. Inoltre, in alcuni casi, già la sola consultazione ambulatoriale può acquisire un carattere terapeutico. Perciò, saper “fare ambulatorio” correttamente può far risparmiare tempo e risorse, sia al medico e alla struttura in cui lavora, sia al paziente. Senza dimenticare che esistono situazioni in cui una consultazione ambulatoriale rappresenta in pratica l’unica possibilità per il paziente di essere visitato da uno specialista (emergenze, sedi disagiate, piccole strutture…); rimane di farlo il meglio possibile. Per “fare ambulatorio correttamente” il primo passo consiste nell’applicare alla psichiatria dell’età evolutiva un concetto fondamentale della medicina: operare un ragionamento clinico, fondato su dati oggettivi (informazioni anamnestiche, osservazioni, segni e sintomi) raccolti dal medico nel corso di una o più visite (consultazione ambulatoriale), utilizando la sua sensibilità clinica, le sue conoscenze, e le tecniche del caso. Questo concetto si può benissimo applicare in psichiatria dell’età evolutiva, nel pieno rispetto delle particolarità del campo e della sua complessa interazione di fattori neurobiologici, neuropsicologici, evolutivi, psicoaffettivi. Naturalmente, “dati”, “segni” e “sintomi” sono particolari e caratteristici della psichiatria dell’età evolutiva, così come le metodologie con cui vengono raccolti e il quadro teorico a cui si riferisce il neuropsichiatra per operare il suo ragionamento. Comunque, l’obiettivo della consultazione ambulatoriale è di giungere a una formulazione diagnostica argomentata che costituirà la base per il seguito delle operazioni, se seguito ci dovrà essere. In questo modo eventuali approfondimenti o gli invii in terapia saranno giustificati e mirati; senza precludere successive letture secondo orientamenti teorici o disciplinari particolari. Si procede dal generale verso lo specifico, evitando di perdersi in dettagli prematuramente, ed evitando di perdere tempo. Perdersi nei dettagli frammentando i percorsi diagnostici in una raffica di accertamenti e valutazioni di nicchia, eseguiti da professionalità tecniche diverse, senza (o
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con pochissima) coordinazione o linea direttrice, è infatti una tendenza deplorevole e che pare purtroppo diffondersi. Per fare un esempio estremo: in un servizio specialistico arriva un bambino e subito (o, quando va bene, dopo un rapido colloquio) lo si manda a fare una valutazione del linguaggio dalla terapista della riabilitazione, un livello cognitivo dallo psicologo, un esame neurologico qui, un Rorschach lì… Questo modo di procedere non è utile per il paziente: frammentazione di figure di riferimento, confusione di ruoli, comunicazioni contradditorie, per ottenere (forse) una definizione ipersofisticata del problema che in molti casi non sarà di nessuna utilità (sarebbe sufficiente una diagnosi clinica più elementare, ottenuta con molte meno risorse). Non è un sistema efficace: molte energie, tempo, e risorse vengono impiegati in modo poco mirato, per un risultato spesso ridondante (non serve sempre essere così dettagliati). Non è neppure utile per il medico: produce una massa di informazioni magari sofisticatissime, ma senza struttura, quindi confuse e difficili da sfruttare appieno. E appoggiarsi troppo su valutazioni altrui, se diventa una abitudine, rischia di far perdere al medico ogni sensibilità clinica. La procedura clinica più logica parte da una visione generale del caso, per successivamente addentrarsi nei particolari seguendo un ragionamento sostenuto dai dati rilevati via via. Gli approfondimenti andrebbero richiesti da una unica figura che coordina tutto il procedimento (idealmente lo psichiatra dell’età evolutiva), in maniera mirata e a proposito, cioè giustificando ogni richiesta con una ipotesi che deriva da un ragionamento sostenuto da dati. L’ambulatorio fornisce una cornice per il primo contatto tra medico e paziente, in cui viene rispettato questo modo di procedere. Permette al medico di raccogliere, con varie metodologie, i dati necessari a sostenere il suo ragionamento clinico in vista della formulazione diagnostica che costituirà la base per il seguito della presa in carico. Perciò rappresenta uno strumento fondamentale in psichiatria dell’età evolutiva, offrendo una visione compatta e unitaria del paziente e del suo problema, e costituisce il primo gradino del suo percorso clinico. II. Consultazione ambulatoriale e visione olistica del disturbo in neuropsichiatria infantile Ogni fenomeno proprio della neuropsichiatria infantile è un complesso insieme di aspetti neurologici, neuropsicologici, evolutivi, psicoaffettivi. Questi vengono troppo spesso presentati come contrapposti e escludetisi a vicenda; una visione estremamente riduttiva, perchè è chiaro che si tratta di livelli coesistenti, sovrapposti, e ricchi di interazioni reciproche. A seconda del fenomeno in esame, gli elementi neurobiologici, quelli neuropsicologici, psicoaffettivi, eccetera, avranno un ruolo predominante, maggiore, o minore. Ma vanno tenuti tutti in considerazione, perchè hanno tutti un loro peso potenziale; è dalla visione d’insieme, che si ricava una valida comprensione clinica. Perciò il neuropsichiatra dell’età evolutiva dovrebbe essere formato ad un approccio globale al disturbo (a ogni disturbo) che permetta prima di individuare le probabili
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radici del problema, esaminando il caso sotto ogni aspetto, salvo poi focalizzare ulteriormante l’attenzione dove necessario, ricorrendo eventualmente (allora sì) a aprocci settoriali e alle raffinate professionalità di tecnici. Lo specialista dovrebbe avere una solida conoscenza della neuropsichiatria infantile nel suo insieme, delle varie prospettive con cui la si è studiata, dei diversi livelli strutturali e funzionali, e dei diversi approcci alla comprensione dei disturbi e alla loro presa in carico. Dovrebbe essere formato alle tecniche e metodologie cliniche elementari, necessarie per rilevare segni e sintomi pertinenti a ognuno dei livelli sopra citati (neurologico, neuropsicologico, psicoaffettivo etc.). Cioè, in sede di formazione dovrebbero essere trasmessi prima di tutto, a tutti quanti, dei principi fondamentali comuni che sottendono la disciplina, e le basi della sua pratica clinica; libero ciascuno di approfondire o coltivare, in un secondo momento, l’approccio teorico o la prospettiva metodologica che gli è più congeniale. Si potrebbe obiettare: in pratica si sta dicendo che il Neuropsichiatra Infantile deve saper fare un pò di tutto. Esatto: è essenziale formare lo specialista al clinical assessment di base nel suo insieme. Deve saper fare e poter fare, da solo, un po’ di tutto; deve poter produrre una formulazione diagnostica esauriente (per quanto preliminare) senza aiuto da nessuno e senza strumenti complessi. È la natura stessa delle problematiche che incontra il neuropsichiatra a rendere indispensabile questa preparazione a largo spettro. Inoltre, in questo modo, il neuropsichiatra infantile potrà fare una consultazione ambulatoriale in qualsiasi condizione, senza battere ciglio. Se il medico ha la fortuna di lavorare dove sono disponibili tests e strumenti, e dove ci sono altre figure professionali, questa conoscenza diffusa della disciplina gli permetterà di coordinarne efficacemenete l’operato, di interpretare adeguatamente i risultati delle indagini (dandogli il giusto peso nel quadro generale), e di trarre le conclusioni del caso. E nelle frequenti circostanze ove non c’è nessun personale di supporto, non starà lì a nascondersi dietro un “non saprei, dobbiamo prima chiedere una valutazione allo psicologo/al terapista”, facendo perdere tempo al paziente e rischiando di “perderlo”, ma sarà in grado di gestire da solo la situazione. Il primo tra i principi fondamentali della neuropsichiatria infantile è anche un fattore di rilievo nella metodologia clinica in questa disciplina. La neuropsichiatria dell’età evolutiva si occupa dei disturbi psichici del bambino e dell’adolescente, quindi dell’essere umano nella sua fase di crescita, dalla nascita all’età adulta (per convenzione identificata con la maggiore età). Nella definizione della disciplina e del suo campo di azione, perciò, il concetto centrale è quello di sviluppo. La comprensione delle dinamiche di sviluppo è parte essenziale del bagaglio del neuropsichiatra infantile; e non si può pensare di avvicinarsi a un disturbo in questo settore senza considerarne la dimensione evolutiva. Questo porta sul piano pratico a diverse conseguenze, che si riflettono nella metodologia, e sulla tecnica in clinica. Per fare un esempio, di fronte a un paziente che vede per la prima volta, un neuropsichiatra infantile ben formato riterrà ovvio come prima cosa chiedere (e chiedersi) “quanti anni ha?”, e di aggiungere subito il corollario “quanti anni sembra avere?”. Infatti sa bene (o dovrebbe saperlo) che senza il riferimento di questi dati ogni ulteriore osservazione non ha alcun senso. Questo non è altrettanto ovvio per chi non ha una formazione specifica. Un bravo
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neuropsichiatra infantile ha chiaro il concetto di vulnerabilità evolutiva, ha presente i “compiti” evolutivi caratteristici di ogni fase; sa quanto sia frequente la comorbilità; conosce bene il fenomeno della patomorfosi, cioè sa che uno stesso disturbo nucleare avrà una espressività sintomatica che in buona parte varia a seconda della età del paziente; e sa anche che, vice versa, un sintomo apparentemente simile si può ritrovare in situazioni cliniche diversissime, e che prende senso solo nel quadro globale del paziente. Per esplorare l’area della psicopatologia verranno impiegate tecniche diverse se il paziente è un bambino di età prescolare, o se invece si tratta di un adolescente. Così la diagnosi, in neuropsichiatria infantile, dovrà comprendere necessariamente una diagnosi di sviluppo oltre alla eventuale diagnosi nosografica, se si vuole una espressione che sia davvero rappresentativa del paziente e del suo disturbo e utile alla comprensione clinica e alla presa in carico. La consultazione ambulatoriale offre un quadro procedurale sufficientemente strutturato per i fini clinici, eppure abbastanza flessibile da adattarsi all’aspetto multisfaccetato della disciplina, alla geometria variabile del suo campo di applicazione (l’età evolutiva), e alla variabilità metodologica e tecnica che ne derivano. III. Cenni di metodologia di una consultazione ambulatoriale in età evolutiva La consultazione ambulatoriale è un protocollo clinico a finalità diagnostiche e di orientamento che costituisce il primo contatto con lo specialista e con l’universo clinico. Si può definire come l’insieme di una prima visita e di qualche visita aggiuntiva, che vengono effettuate dallo stesso Neuropsichiatra Infantile, in una situazione di ambulatorio cioè in genere una modalità facilmente accessibile al pubblico. L’obiettivo della consultazione ambulatoriale è di farsi in tempi brevi un’idea esauriente della natura delle difficoltà del paziente, basandosi sulle informazioni e sulle osservazioni raccolte durante le visite; e di arrivare a una ipotesi diagnostica e a un progetto di intervento che può comprendere invii mirati per approfondimenti o presa in carico. Un altro obiettivo della consultazione, da non dimenticare per strada, è quello di fornire per quanto possibile una risposta, anche se preliminare, alla domanda con cui paziente e familiari sono arrivati. Alcune caratteristiche differenziano la consultazione ambulatoriale da altre forme di contatto con il paziente e la rendono uno strumento clinico di indubbia utilità, sia in termini di risorse e di tempo che, cosa ancora più importante, in termini di efficacia per lo stesso paziente. È una procedura flessibile, che si può applicare con minime modifiche in campi diversi, dalle grandi strutture sanitarie allo studio privato; anche le consulenze in reparto ospedaliero o in P.S. utilizzano metodiche e principi della consultazione ambulatoriale. La prima visita è una tipologia specifica di colloquio clinico che offre un contesto semiformale in cui stabilire un rapporto con genitori e paziente, seguendo uno schema definito che consente tuttavia un certo grado di flessibilità. La prima visita permette la raccolta di informazioni indispensabili per il medico sulle motivazioni per la consultazione, i dati anamnestici, e sulla storia di sviluppo del paziente. Ma allo stesso
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tempo, la prima visita può diventare un colloquio semi-strutturato e una informale seduta di osservazione da cui sarà possibile trarre preziose indicazioni. Ovviamente la conclusione della prima visita costituisce un momento delicato in cui occorre facilitare la transizione con il seguito della consultazione. La prima visita segue una sua precisa metodologia, nella quale tuttavia c’è spazio per esercitare flessibilità quando necessaria. Per esempio, il modello tipico nel quale un paziente viene accompagnato in visita da entrambi i suoi genitori biologici può essere lontano dalla realtà e si possono presentare situazioni particolari, che il medico dovrà affrontare con tatto e capacità di adattamento. Sia la prima visita che tutte le visite successive sono forme di colloquio clinico. Il colloquio clinico, in senso lato, costituisce il quadro in cui si svolge la maggior parte delle forme di contatto con il paziente, incluse le tecniche di valutazione. Ha inoltre una intrinseca valenza diagnostica e terapeutica. Si tratta perciò di uno strumento fondamentale in psichiatria, di cui è utile conoscere i principi generali, oltre che le tecniche specifiche caso per caso. Il medico, in particolare, dovrebbe essere consapevole della possibile incidenza durante un colloquio di fenomeni inconsci quali transfert e controtransfert. Per quanto i principi generali del colloquio siano universalmente validi, in età evolutiva sono necessari diversi adattamenti. Il colloquio deve prendere una forma che sia adatta a ogni fascia di età, e che usi tecniche appropriate alla fase evolutiva, oltre che agli obiettivi desiderati: a seconda delle necessità, infatti il medico sceglierà prove e metodi adatti a valutare quegli specifici elementi che a suo giudizio sono da indagare (assetto neuropsicologico, per esempio). La semeiotica della psichiatria dell’età evolutiva è l’insieme di quelle metodiche e tecniche utilizzabili, durante il colloquio o altre situazioni cliniche, per il rilievo di segni e sintomi. Si può circoscrivere una semeiotica essenziale utilizzabile nell’ottica di una valutazione ambulatoriale in età evolutiva; oltre all’esame neurologico di base, comprende tecniche per la valutazione delle funzioni cognitive e neuropsicologiche, l’esame delle funzioni mentali e la valutazione di aspetti propri della psicopatologia in età evolutiva. Ogni disturbo andrebbe esaminato secondo diversi livelli di analisi (neurologico; neuropsicologico/ cognitivo; psicopatologico), naturalmente applicando caso per caso le tecniche adatte alla fascia di età. Il disegno e il gioco sono strumenti essenziali sia nella valutazione cognitiva e neuropsicologica, sia dell’esame psicopatologico del paziente. Il colloquio con i genitori è una altra componente fondamentale della consultazione in età evolutiva; anche esso pur rientrando nei principi generali del colloquio clinico ha le sue specificità e i propri obiettivi nel contesto della consultazione ambulatoriale, che vanno tenuti sempre presenti. E anche la scuola ha un ruolo di rilievo: nel corso di una consultazione ambulatoriale può essere indicato stabilire dei contatti con gli insegnanti, che talora prenderanno la forma di veri e propri colloqui. Prima visita, visite successive, colloqui con i genitori ed eventualmente anche contatti con la scuola hanno permesso al neuropsichiatra infantile di raccogliere informazioni e osservazioni, orientando l’andamento della consultazione secondo il suo ragionamento clinico, applicando le sue conoscenze, la sua sensibilità clinica e la sua padronanza di metodologie specifiche. La tappa successiva inizia con la preparazione
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di una sintesi: la massa di informazioni viene riassunta seguendo dei principi mentali strutturanti che la trasformano in un insieme coerente direttamente utilizzabile ai fini clinici. La sintesi riassume i fatti, e prepara l’espressione di un orientamento diagnostico, o formulazione diagnostica. Questa comprende la diagnosi nosografica, ma non si limita ad essa. Si tratta di una formulazione conclusiva, argomentata (ogni espressione deve essere sostenuta da dati rilevati in consultazione), che esprime inoltre la valutazione del medico sul caso in esame. Durante il colloquio di restituzione, il medico, basandosi sulla sua formulazione diagnostica, comunica al paziente e ai genitori l’esito della consultazione, informandoli di quanto è emerso sulla natura del problema per cui sono venuti, fornendo la diagnosi, e dando loro le indicazioni che ne conseguono. Nella misura del possibile, il colloquio permette anche di rispondere alle domande di genitori e paziente. Occorre considerare che in alcune situazioni, la consultazione ambulatoriale può rivelarsi di per se risolutiva, costituendo così una forma di terapia breve autocontenuta. Ora, per numerosi pazienti e le loro famiglie, la consultazione ambulatoriale potrebbe essere l’unica occasione di contatto con un servizio specialistico di salute mentale in età evolutiva; perciò questa potenzialità terapeutica andrebbe quindi tenuta sempre presente e sfruttata ove possibile. Conclusione La consultazione ambulatoriale è la cornice per il primo contatto tra neuropsichiatra infantile e paziente; permette al medico di raccogliere, con varie metodologie, i dati necessari a sostenere il ragionamento clinico; e si conclude con una formulazione diagnostica, che costituirà la base per il seguito degli eventi (approfondimenti o altro). Costituisce perciò 1) un modello di procedura clinica; 2) una cornice in cui applicare la semeiotica elementare ; 3) uno strumento per una comprensione globale del paziente e del suo disturbo. La consultazione ambulatoriale è un elemento chiave della pratica clinica in neuropsichiatria infantile; una buona pratica ambulatoriale e la formazione degli specialisti alla clinica ambulatoriale contribuiscono perciò alla trasmissione dei principi fondamentali comuni in psichiatria dell’età evolutiva. Riassunto In neuropsichiatria infantile, non diversamente da altri campi della medicina, si arriva a una diagnosi attraverso il rilievo di specifici segni e sintomi, tramite metodologie caratteristiche, seguendo un ragionamento che si raffina progressivamente man mano che arrivano i dati a favore o meno delle ipotesi di lavoro. In questo, la consultazione ambulatoriale, che spesso costituisce il primo contatto con il paziente, è una procedura clinca paradigmatica, da non sottovalutare: permette di giungere ad una ipotesi diagnostica, di orientare con precisione un eventuale invio, e, in alcuni casi, acquista di per sé effetti potenzialmente terapeutici. Tuttavia, questa procedura fondamentale viene insegnata con poca sistematicità e non sempre viene praticata sul campo. Tra i mille rivoli di iperspecializzazione, posizioni di “scuola” talora dogmatiche, invii per terapia o per valutazione non
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sempre dettati da motivazioni razionali, il percorso del paziente può disperdersi.Questo lavoro ricorda l’importanza della consultazione ambulatoriale come modello di procedura clinica, come cornice entro cui applicare le metodologie della semeiotica, e come strumento per la comprensione globale del paziente e del suo disturbo. Vengono discusse le procedure e le tecniche utili per una efficace pratica ambulatoriale: uno strumento diagnostico che permette al clinico, anche quando lavora da solo, di ottenere una diagnosi evolutiva ragionevolmente precisa ed integrata. Parole chiave Ambulatorio – Consultazione diagnostica – Neuropsichiatria infantile – Diagnosi – Sviluppo.
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Errata Corrige
A pag. 343 del volume 79, numero 2, maggio-agosto 2012, nell’articolo di R.C. Russo, S. Russo e S. Russo, “Test per le prassie costruttive su modelli grafici MC2 e MC3”, è stata pubblicata in forma diversa dall’originale la Figura 3, che viene qui ora riprodotta correttamente. Ce ne scusiamo con gli autori ed i lettori. Figura 3.
Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2013), vol. 80: 237-238
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Istruzioni per gli Autori
La rivista pubblica ricerche originali, casi clinici di particolare interesse da un punto di vista diagnostico o terapeutico, contributi teorici nel campo della Psicopatologia e della Neuropsicologia dello Sviluppo. La rivista è anche interessata a ricerche di epidemiologia e di prevenzione nell’ambito della Salute Mentale dell’età evolutiva e della Riabilitazione, dalla prima infanzia all’adolescenza. Ogni articolo sarà rivisto da almeno due revisori anonimi. La rivista si impegna a rispondere agli autori entro 90 giorni dal ricevimento del manoscritto. I manoscritti vanno inviati al direttore della rivista Prof. Gabriel Levi, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Redazione, Via dei Sabelli, 108, 00185 Roma. Gli articoli devono essere inviati in tre copie (un originale e due fotocopie) allegando anche la versione dell’articolo (in Word per Windows o Word per Macintosh) in CD-Rom o dischetto. Una copia dell’articolo deve essere inviata via email alla redazione: psichiatra.infanziadole@email.it. L’autore è responsabile che la versione su carta e la versione su supporto elettronico siano uguali. La lunghezza degli articoli inviati dovrebbe essere contenuta in 20 pagine dattiloscritte e, in ogni caso, non deve superare le 24 pagine dattiloscritte. Il formato della pagina del testo deve essere di 30 righe, 60 battute per riga (1800 caratteri, inclusi gli spazi bianchi), con interlinea doppia su foglio A4. Gli articoli dovranno essere così presentati: due pagine di titolo, la prima contenente i nomi per esteso degli autori, la loro affiliazione, l’indirizzo completo con numero di telefono, di fax, email, dell’autore a cui va inviata la corrispondenza; la seconda contenente solo il titolo dell’articolo, in italiano e in inglese. Le pagine devono essere numerate, eccetto la prima di titolo, nel seguente ordine: a) riassunto in italiano e in inglese (250 - 300 parole), b) parole chiave (in italiano e in inglese, fino ad un massimo di cinque), c) testo, d) tavole, e) figure, f ) descrizione delle tavole/figure, g) note, h) bibliografia, i) appendice. Ognuna di queste sezioni deve iniziare su una pagina nuova. Il testo deve essere suddiviso in sezioni: introduzione, obiettivo del lavoro, soggetti e metodi, discussione dei dati e conclusioni. Le tavole, le figure devono avere titoli brevi e descrittivi e devono essere numerate consecutivamente in numeri arabi e richiamate nel testo. La relativa legenda deve essere scritta su un foglio a parte contenente le legende di tutte le tavole/figure. Le figure devono essere pronte per la riproduzione fotografica con i dettagli leggibili chiaramente. In particolare i disegni dovranno essere allegati in originale oppure in file con formato .jpeg o .tiff. La loro collocazione nel testo deve essere indicata dalla frase inserisci qui tavola/figura. Abbreviazioni: devono essere evitate il più possibile; quando necessaria l’abbreviazione deve essere preceduta dalla formulazione per intero la prima volta che la denominazione viene citata nel testo, le volte seguenti può essere sostituita dall’abbreviazione. Ad esempio: Disturbi Generalizzati dello Sviluppo (DGS). I riferimenti bibliografici nel testo devono indicare soltanto il cognome degli autori e l’anno di pubblicazione posto tra parentesi,ad esempio: Rutter (2006); Leslie e Frith (1993); oppure il cognome degli autori tra parentesi seguito da una virgola e dall’anno di pubblicazione, ad esempio: (Goodyer, 2001; Main, Kaplan, Kassidy, 1989). Se gli autori sono più di tre si riporta il cognome del primo autore
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seguito dall’abbreviazione et al., ad esempio: Wolkmar et al. ( 2004). Nel caso che vi siano due articoli dello stesso autore con lo stesso anno di pubblicazione questi vanno indicati con le lettere dell’alfabeto in minuscolo a seguire: (Achenbach, 1994a, 1994b). Le citazioni testuali vanno poste tra “virgolette inglesi” e va indicato sempre il numero di pagina (in forma abbreviata: p./pp.). Bibliografia: comprende esclusivamente le voci bibliografiche citate nel testo. Le voci bibliografiche devono essere elencate secondo l’ordine alfabetico degli autori e debbono contenere cognome e iniziale del nome dell’autore (in Maiuscoletto); anno di pubblicazione dell’articolo o del libro, posto tra parentesi. Quando comprende un articolo si riporterà: titolo del lavoro; nome, o abbreviazione internazionale, in corsivo della rivista in cui l’articolo è stato pubblicato; il numero del volume (o fascicolo) della rivista, seguito dopo il segno di due punti dalla pagina iniziale e terminale dell’articolo. Esempi: Bollea G. (1967), Strutturazione oligofrenica e strutturazione psicotica, Infanzia anormale, 52: 601613. Fonagy P., Target M. (1997), Attachment and reflective function: their role in self-organization, Development and Psychopathology, 9, 4:601-613. Osofsky J.D., Kronenberg M., Hammer J.H, Lederman J.C., Katz L., Adams S., Et Al. (2007), The development and evaluation of the intervention model for the Florida Infant Mental Health Pilot Program, Infant Mental Health Journal, 28, 3:259-280. Quando comprende un libro si riporterà: titolo del libro in corsivo, città, casa editrice, anno dell’edizione italiana per i libri tradotti. Esempi: Cicchetti D., Cohen J. (2006), Developmental Psychopathology, Vol. 1, Theory and Methods, 2nd Ed., New York, Wiley. Gabbard G.O. (2000), Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina Editore. Quando comprende un capitolo di un libro gli esempi sono i seguenti: Costello E.J., Angold A. (2000), Developmental epidemiology: a framework for developmental psychopathology, in A. Samerof, M. Lewis, S. Miller (Eds), Handbook of Developmental Psychopathology, New York, Plenum Press. Emde R.N., Bingham R.D., Harmon R.J. (1993), Classificazione e processi diagnostici nell’infanzia, in C.H. Zeanah, Manuale di salute mentale infantile, Milano, Masson, 1996. Gli autori dell’articolo riceveranno le prime bozze per la correzione degli errori. In questa fase non sono ammessi cambiamenti dell’articolo che non siano correzioni di errori tipografici. Le bozze corrette dovranno essere restituite alla redazione della rivista dagli autori entro dieci giorni dal loro invio. L’editore si riserva il diritto di modificare il manoscritto per renderlo conforme allo stile della rivista. Le tavole e le figure pubblicate, eccetto le prime cinque, sono a carico degli autori e saranno addebitate al costo. Gli autori che desiderano estratti dei loro articoli possono richiederli all’editore, che invierà loro il prospetto dei costi. Gli autori degli articoli sono responsabili in proprio del rispetto della legge sulla privacy. I manoscritti non corrispondenti alle regole indicate saranno restituiti al mittente. © Copyright Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.
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