Psichiatria maggio agosto 2012

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SOMMARIO

Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza Salute mentale e riabilitazione

Volume 79 N. 2 Maggio-Agosto 2012 SOMMARIO Editoriale: Sviluppo delle prassie: dalla diagnosi alla riabilitazione

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Sezione: disturbi dello sviluppo e disturbi di personalità P. Bailo, A.C. Caucino, Follow up e stabilità della diagnosi dei Disturbi dello Spettro Autistico

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P. Venuti, M. Mastrogiuseppe, S. Cuva, Le competenze comunicative dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico: dal pianto alla comunicazione gestuale

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F. Lasorsa, C. D’Ardia, S. Melogno, Stabilità della diagnosi e profili di sviluppo nei soggetti con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato. Uno studio di follow up

278

E. Longobardi, E. Camillo, F. De Lorenzo, M. Eianti, P. Bernabei, L’interazione tra genitore e bambino con Disturbo dello Spettro Autistico: analisi delle funzioni comunicative

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Sezione: neuropsicologia dello sviluppo e riabilitazione M. Poletti, Funzioni Esecutive in adolescenza: 1. Evidenze neuroradiologiche e neuropsicologiche

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M. Poletti, Funzioni Esecutive in adolescenza: 2. Aspetti psicopatologici

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R.C. Russo, S. Russo, S. Russo, Test per le prassie costruttive su modelli grafici MC2 e MC3

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P. Stievano, M.L. Ferretti, G. Pietrosanti, R. Penge, G. Levi, Profili neuropsicologici nel disturbo linguistico in età prescolare

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SOMMARIO

F. Cardona, A. Pietricola, M.T. Giannini, V. Baglioni, Le stereotipie motorie nei bambini con sviluppo tipico. Un’osservazione naturalistica durante le attività scolastiche

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Sezione: psicopatologia dello sviluppo e salute mentale G.M. Fava Vizziello, N.-P. Nosadini, E. Bisoni, L’osservazione delle dinamiche familiari in bambini con diagnosi di disturbo della personalità borderline

366

A.Tomassini, R. Pollice, R. Ortenzi, S. D’Onofrio, R. Roncone, A. Tosone, M. Casacchia, “Pensare Positivo”: un progetto di promozione del benessere emotivo e sociale nelle scuole superiori

377

S. Cimino, S. Sinesi, G. Monniello, La perdita di un genitore nell’infanzia: uno studio empirico su un campione di pre-adolescenti

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Sezione: epidemiologia clinica e prevenzione C. Barbiero, I. Lonciari, M. Montico, L. Monasta, R. Penge, C. Vio, P.E. Tressoldi, V. Ferluga, A. Bigoni, A. Tullio, M. Carrozzi, L. Ronfani, La prevalenza della dislessia in una popolazione scolastica non selezionata nella Regione Friuli Venezia Giulia

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P. Bastianoni, T. Fratini, F. Zullo, A. Taurino, Il racconto di vita dei Minori Stranieri Non Accompagnati: un’analisi di interviste narrative di un campione dell’Emilia-Romagna

431

Sezione: esperienze M. Cardi, L. Leonardi, C. D’Amico, S. Battista, Le rappresentazioni mentali delle figure di attaccamento in un nuovo test proiettivo per bambini: il “Coffy Test”

447

L. Petrone, S. Ricci, Donne abusanti tra mito e realtà

457

L. Luccherino, S. Pezzica, Sport e ADHD: un Campus Estivo residenziale per adolescenti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività

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Istruzioni per gli Autori

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 243-246

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EDITORIALE Sviluppo delle prassie: dalla diagnosi alla riabilitazione Gabriel Levi

I bambini hanno – specie nei primi anni di vita – delle capacità strumentali e scientifiche straordinarie. Mentre interagiscono con le realtà concrete del loro specifico ambiente, tutti i bambini compiono, in contemporanea, due operazioni: a) inferiscono delle regole generali con cui organizzare il loro comportamento e definire il mondo; b) applicano i loro personali e limitati strumenti sui particolarissimi oggetti e sulle particolarissime situazioni che hanno di fronte. “Regole generali” significa rappresentazioni operative (e falsificabili) del mondo. “Applicazioni particolari” significa utilizzare il mondo così com’è, adattando i propri strumenti. Invenzione delle regole e scoperta degli strumenti? Oppure scoperta delle regole e invenzione degli strumenti? Le scienze cognitive e le neuroscienze hanno considerato la faccenda, ormai da oltre un secolo, da entrambi i punti di vista. Senza mai mettersi d’accordo. Perché il problema è epistemologico e sta a monte: esiste una realtà al di là di quella che ci rappresentiamo con i nostri strumenti di osservazione e di manipolazione? Comunque stiano le cose, i bambini costruiscono i loro modelli di rappresentazione della realtà mentre costruiscono i loro strumenti di intervento sulla realtà. È un’avventura doppiamente straordinaria. Perché le mappe di rilievo e i progetti di costruzione in qualche modo coincidono, o sono correlati punto a punto. E perché lo stesso avviene per gli strumenti di osservazione e per gli strumenti di manipolazione. La questione è, nuovamente, epistemologica: esistono degli strumenti che non siano il prolungamento più o meno sofisticato di quelli del nostro corpo? Esistono delle equazioni sull’universo che non siano anche le equazioni con cui funziona la nostra mente? Queste brevi riflessioni ci introducono ad un problema di valutazione clinica e ad un problema di impostazione riabilitativa, che è necessario affrontare. Come si sviluppano le prassie transitive-strumentali nel bambino? Quali rapporti di correlazione esistono tra l’idea di usare un certo oggetto per un certo fine e le abilità nell’utilizzare correttamente questo oggetto? In quale modo l’ideazione motoria guida il confronto operativo con la realizzazione concreta di un programma? In quale


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modo le specificità concrete di quel prototipo di oggetto, in quella situazione prototipica, portano il bambino ad adattare il suo programma? In quali modi le chiavi funzionali-pragmatiche portano il bambino a capire quello che vuole fare e a realizzarlo? Quali modificazioni motorie rimangono nel programma d’uso dell’oggetto e quali modificazioni motorie devono essere riscoperte volta per volta? Quali regole vengono memorizzate e quali adattamenti devono essere fissati per ogni occasione particolare? Il rapporto tra ideazione ed esecuzione (tra prassie ideative e prassie esecutive), nei modelli classici di sviluppo delle prassie, sembrava e sembra dipendere da: 1. nesso fine-mezzo; 2. nesso abilità motorie-complessità dello strumento; 3. ampiezza e articolazione del programma cinetico; 4. nessi fra meccanismi di feedback e meccanismi di feedforward. Che questi rapporti fossero difficili da comprendere e da simulare in un modello tecnico è dimostrato dalle incertezze di molte annose polemiche: tra prassie ideative e prassie esecutive esiste ed è dimostrabile – semeioticamente – l’intermediazione di prassie ideomotorie? Che cosa si può acquisire per tentativi ed errori, che cosa per imitazione e che cosa si deve acquisire con strategie di problem-solving? Queste domande possono avere una risposta osservando e documentando in parallelo lo sviluppo delle prassie strumentali, in bambini senza problemi e in bambini con diversi problemi neuropsicologici. Lo straordinario è proprio questo: bambini con problemi e bambini senza problemi sono guidati, nell’invenzione degli strumenti d’uso quotidiano, da un’idea iniziale sul significato d’uso dello strumento e da un’idea (un po’ successiva) su cosa vogliono fare con questo strumento. L’oggetto d’uso suggerisce delle intenzioni. Un’intenzionalità in progress suggerisce usi appropriati e usi inventivi degli oggetti. Il punto delicato di questo meccanismo è: • Come si passa dall’idea alla realizzazione d’uso? • Come si organizza un programma sequenziale efficace? • Come si articolano dei subprogrammi in un programma? • Come un programma diventa un albero decisionale aperto? • Come si integrano i movimenti fini, adattandosi alle esigenze dell’oggetto e a quelle dell’azione in corso? Su questi come si gioca lo sviluppo. Sulle atipie di questi subprogrammi e sulle atipie della loro integrazione, si rallenta e si confonde lo sviluppo dei bambini con disturbi neuropsicologici. Eppure anche nello sviluppo atipico dei bambini con ritardo psicomotorio – i piccoli disprattici – esiste una logica: • qualche volta esiste un’intenzione d’uso ma manca la padronanza funzionale dell’oggetto; difettano i meccanismi di adattamento motorio specifici; • qualche volta l’intenzione d’uso e l’ideazione motoria dipendono troppo da una tendenza all’imitazione passiva e approssimativa; difettano i meccanismi di accomodamento motorio-selettivi;


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• qualche volta esiste una difficoltà di differenziazione dei movimenti fini, di sostegno tonico; difetta la saldatura tra meccanismi posturo-cinetici e strategie gestuali prassiche; • qualche volta l’ideazione motoria e la differenziazione dei movimenti fini consentono la selezione di programmi prassici brevi, ma è ristretta la capacità di elaborazione sequenziale; • la maggior parte delle volte i piccoli disprattici riescono ad integrare ideazione motoria, programmazione esecutiva ed elaborazione sequenziale per certi strumenti e per certe azioni, ma sono limitati per strumenti/azioni di maggiore complessità. Una scala di valutazione delle prime prassie strumentali nasce da queste due esigenze: 1. riconoscere un percorso evolutivo nell’apprendimento d’uso degli strumenti e degli oggetti più comuni. Esiste una sequenza evolutiva che corrisponde ad uno sviluppo parallelo dell’ideazione e dell’abilità motoria, un terreno privilegiato per studiare lo sviluppo delle funzioni esecutive, nell’eterno conflitto neurocognitivo tra imitazione automatica e identificazione di regole; 2. riconoscere (una volta fissata una scala di sviluppo) i disturbi molecolari (di ideazione, di programmazione, di controllo sequenziale) che rendono difficile un certo compito, mentre rendono possibile un compito in apparenza simile. Una scala di valutazione delle prime prassie può essere, in definitiva: • un mezzo per avvicinarsi con metodo alla conoscenza delle cose che un bambino può fare mese dopo mese, nei primi anni di vita; • un mezzo per analizzare le prime difficoltà disprattiche, scomponendo i diversi fattori in gioco e studiando tutto come una situazione di intelligente problemsolving; • un mezzo per scoprire il mondo degli oggetti quotidiani come un mondo di rappresentazioni operative, che si possono sempre rendere più facili o più difficili. Fra questo divario di sviluppo si muove l’intelligenza del bambino: rendere facili le azioni che sembrano difficili, ma anche – perché no – rendere difficili le azioni che sembrano facili. La saldatura tra il mondo delle prassie e il mondo del gioco simbolico sta in questa doppia faccia della realtà. Noi siamo, anche, quello che facciamo. Sicuramente scoprirlo insieme ai piccoli disprattici più che una scommessa diagnostica è una scommessa terapeutica. Inventare per crescere. Rivedendo questi appunti sulla valutazione funzionale delle prassie strumentali (e sulla utilità di avere una scala di valutazione, con dei dati normativi) mi sono posto alcuni interrogativi: 1) Come passare da una valutazione funzionale delle prime prassie ad una diagnosi di sviluppo e ad un progetto terapeutico-riabilitativo?


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2) Quali sono le integrazioni neuropsicologiche che si dissociano e quali gli appuntamenti evolutivi che saltano, quando un bambino presenta un disturbo disprattico precoce? 3) Un disturbo disprattico precoce è un disturbo specifico o è un nucleo neuropsicologico che organizza e (si organizza con) le funzioni cognitive superiori? 4) Le difficoltà ad usare il proprio corpo come uno strumento e le difficoltà ad usare gli strumenti (gli oggetti della vita quotidiana) come amplificatori dei sensori e degli effettori che costituiscono il nostro corpo agito e vissuto, sono difficoltà soltanto strumentali? Queste domande sfiorano ed approfondiscono una problematica clinica, ma, allo stesso tempo, trovano una problematica parallela (isomorfa) nei nostri modelli di mente e nei nostri modelli sullo sviluppo della mente. Gli appunti da cui siamo partiti riguardano una fascia di età ben precisa: l’età magica che va dai 16-18 mesi fino ai 5 (5 e mezzo) anni di vita. L’età in cui lo sviluppo delle prassie procede di pari passo con lo sviluppo simbolico, con lo sviluppo del linguaggio e con lo sviluppo delle tecniche di comunicazione. Certamente lo sviluppo delle prassie continua anche dopo questa età ed ha una svolta straordinaria (per i processi della presa di coscienza) nel periodo dai 5.6-8 anni. La possibilità di rappresentare mentalmente le attività prassiche diventa una nuova matrice del pensiero. La possibilità di integrare ed alternare pensiero verbale e pensiero spaziale è, in fondo, la molla ed il moltiplicatore dei processi di meta cognizione. Di questo non è possibile parlare nella presente nota. Rimane il fatto che questo incredibile potenziamento del pensiero multiplo ha i suoi precursori ed organizzatori nella sintesi e nel conflitto tra lo sviluppo prassico e lo sviluppo simbolico. E nel confronto tra competenze prassiche e competenze simboliche con l’organizzazione del linguaggio interiore. La disprassia precoce è il nucleo di molte difficoltà cognitive successive. L’uso intelligente del movimento finalizzato e l’uso intelligente e calibrato degli strumenti costituiscono la base di una mappa mentale: uno spazio virtuale in cui pensare il proprio mondo e le sue trasformazioni. Il gioco simbolico rivoluziona il controllo delle competenze prassiche perché consente di sostituire l’uno con l’altro gli oggetti reali con oggetti mentali. Il linguaggio verbale consente di utilizzare prassie e simboli in una comunicazione interattiva in cui si fanno programmi e si costruiscono regole, con infinite possibilità di controllo e di trasformazioni. In sintesi: pensare un’azione finalizzata (prima di farla o dopo averla fatta) è la prima proposizione della logica. gabriel levi


Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 247-262

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Follow up e stabilità della diagnosi dei Disturbi dello Spettro Autistico Follow up and stability of Autistic Spectrum Disorder Paolo Bailo*, Anna Claudia Caucino*

Summary We undertook a review of the diagnostic stability of ASD in recent studies. After examining the main risks of bias in autistic research we revised two recent meta-analysis matching their conclusions and comparing with the results of two Italian studies. There is evidence that a minority of children will no longer meet diagnostic criteria after a period of follow up. Around 0-9% of the children AD diagnosed in the preschool years moved off the spectrum, while 20% on average of the group with a PDD-NOS diagnosis at three years were not diagnosed with an ASD at follow-up. Among the children moving off the spectrum nearly all keep having significant psychiatric disorder. The predictors of these outcomes have been inquired to find the distinguishing factors in optimal outcome. This review support that PDD-NODS diagnosis is very instable and one needs to be careful when discussing permanence of an ASD diagnosis established before 36 months. This study highlights that ASD diagnosis in preschool children should be re-assessed at a later age. Key words Diagnosis validation – Autistic Spectrum Disorder – Diagnosis stability – Longitudinal studies – Meta-analysis.

Introduzione Tra le sindromi psichiatriche in età evolutiva, i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) rappresentano forse quelli che hanno un maggior impatto sociale per la pervasività dei sintomi, la loro durata, la frequente comorbilità con altri gravi patologie come il Ritardo Mentale e per la prevalenza (fino a 1:150 soggetti secondo Fombonne, 2009). L’impressione di molti genitori e clinici è che quando un bambino riceve una diagnosi di DSA ottiene una diagnosi per la vita. Tuttavia, nella letteratura corrente vi sono studi che supportano tale affermazione ( Jonsdottir et al., 2007; Takeda et al., 2005) e altri che riportano il cambiamento di diagnosi in un sottogruppo di bambini di cui alcuni escono dallo spettro (Daniels et al., 2011; Kleinman et al., 2008; Turner et al., 2007). In questo articolo ci proponiamo di presentare lo stato dell’arte della * SC Neuropsichiatria Infantile Azienda Ospedaliero Universitaria Maggiore della Carità Novara.


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ricerca sul tema della stabilità delle diagnosi di DSA e di trarne alcune indicazione utilizzabili nella clinica. Quando si parla di stabilità della diagnosi dei DSA, in considerazione del fatto che si tratta di uno spettro, sembra opportuno porsi in un’ottica allo stesso tempo dimensionale e categoriale, cioè valutare quanto nel tempo i sintomi si modifichino e se, sulla base di tale cambiamento, la diagnosi del paziente sia ancora collocabile all’interno dei DSA o si imponga la necessità di utilizzare altri riferimenti nosografici. Lo studio della stabilità o meno delle diagnosi di DSA è indispensabile per: 1) offrire una prognosi sempre più affidabile ai genitori costretti a confrontarsi con la diagnosi e a sviluppare efficaci strategie per affrontarla con successo cercando servizi e terapie idonee ( Jonsdottir et al., 2007); 2) selezionare informazioni per i responsabili di servizi sanitari, educativi, socioassistenziali che devono pianificare le spese per offrire risorse e servizi rivolti alle persone con DSA; 3) aiutare i ricercatori a migliorare la comprensione dei DSA individuando sia i sottotipi che possono avere, specie nei primi anni, traiettorie di sviluppo diverse, sia i fattori predittivi (dotazione intellettuale, competenze linguistiche, ecc.), così da ridefinire il futuro sistema diagnostico di classificazione (Woolfenden et al., 2012). Questa considerazione è di particolare attualità se si pensa che prossimamente il DSM-V sostituirà il DSM-IV proponendo criteri diagnostici più restrittivi per i DSA; 4) verificare scientificamente la reale efficacia degli interventi che non può prescindere da precise valutazioni diagnostiche. Eaves e Ho (2004) sostengono che la specifica natura del trattamento e il numero di ore può non essere così importante nel predire i miglioramenti del bambino quanto le caratteristiche del bambino autistico stesso. Problematiche metodologiche nell’organizzazione di ricerche sulla stabilità diagnostica dei DSA Lo studio delle casistiche di pazienti autistici pone notevoli problemi procedurali e organizzativi. Risultano pertanto limitate le ricerche che rispettano quei paradigmi di base necessari a garantire rigore scientifico e replicabilità dei risultati. Quando si confrontano risultati molto discordanti, come emerge dalle ricerche prese in rassegna dal nostro studio, insorge la difficoltà nella valutazione della loro attendibilità. Prima di esporre lo stato della ricerca, cercheremo di esplicitare alcuni di questi problemi che in parte sono comuni all’impostazione di qualsiasi ricerca scientifica, ma per alcuni aspetti sono specifici dello studio dei DSA. Va premesso che non siamo a conoscenza di studi clinici randomizzati controllati veramente attendibili sulla stabilità della diagnosi di DSA (dove, ad esempio, vengono seguiti longitudinalmente due gruppi di pazienti che condividono caratteristiche sufficientemente omogenee salvo essere assegnati in modo casuale a due tipi di trattamento diverso). Sono anche rari gli studi che utilizzano gruppi di controllo (ad es. con ritardo mentale, o disturbi


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del linguaggio). Le migliori ricerche su questo argomento sono gli studi longitudinali prospettici. Innanzitutto, la scarsa precisione nella definizione dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo Non Altrimenti Specificati (PDD-NOS) è da considerarsi uno dei principali motivi dell’instabilità di un certo numero di diagnosi di DSA. Tutta la letteratura degli ultimi anni sembra riconoscersi nel giudizio di Towbin (2005) quando sostiene che i PDD-NOS rimangono un gruppo eterogeneo con criteri diagnostici vaghi che includono tutti i bambini dello spettro autistico che non sono classificati AD (Disturbo Autistico) o AS (Disturbo di Asperger). Sostanzialmente i PDD-NOS sono utilizzati nella prima infanzia come diagnosi di attesa. Una parte dei pazienti di questo sottogruppo emigrerà poi verso gli AD, oppure uscirà dallo Spettro. In molte casistiche, dopo 1-2 anni dalla diagnosi, i PDD-NOS perdono più del 50% dei soggetti loro assegnati. In uno studio population-based condotto in Olanda (Van Daalen et al., 2009) la stabilità dei PDD-NOS era del 54%. Witwer et al. (2008) hanno concluso che i clinici non erano in grado discriminare i 3 sottotipi di ASD (AD, PDD-NOS e AS) basandosi sui criteri del DSM-IV. Per una rassegna più approfondita si rimanda a D’Ardia e Fabrizi (2007). La necessità di giungere a diagnosi sempre più precoci ha evidenziato, poi, alcuni limiti degli strumenti diagnostici. Kleinman et al. (2008) sostengono che bambini con QS (Quoziente di Sviluppo) sotto i 12 mesi o con età cronologica inferiore ai 17 mesi non possono essere diagnosticati come DSA usando i criteri del DSM-IV. Anche ADI e ADOS, i due strumenti di indagine elettivi per l’autismo, sono risultati meno affidabili per specificità e sensibilità nelle diagnosi precoci. Lord et al. (2006) osservano che a 2 anni i bambini con severi ritardi erano sovra-diagnosticati per l’autismo, mentre i bambini che non mostravano ancora comportamenti ripetitivi, oppure avevano migliori funzionamenti adattivi ed elevati QI non verbali, erano sotto-diagnosticati. Inoltre Lord rileva che solo nell’1% dei casi i ricercatori diagnosticavano l’autismo in bambini con punteggi negativi all’ADI e all’ADOS; al contrario, nel 15% dei casi i ricercatori sostenevano che l’autismo non era presente pur essendo ADI e ADOS positive. Sono state create delle revisioni di questi strumenti, l’ADOS-Toddler e la new ADI-R for toddlers and young preschoolers, per minimizzare l’influenza dell’età e del QI (Gotham et al., 2007; Luyster et al., 2009; Kim e Lord, 2012b). La stessa Lord comunque sottolinea la necessità di utilizzare entrambi gli strumenti confrontandoli con la valutazione clinica. Spesso infatti è risultato che l’ADI-R, basata sui report dei genitori, desse risultati piuttosto diversi rispetto all’ADOS e alla valutazione clinica (Kim e Lord, 2012a). Occorre quindi una notevole competenza clinica sull’autismo e una buona conoscenza nell’uso dei test. Vi sono studi che sottolineano la presenza di un certo gap tra la sofisticazione delle valutazioni cliniche nelle ricerche e l’approssimazione delle valutazioni nella pratica quotidiana. Daniels et al. (2011) hanno studiato la stabilità delle diagnosi effettuate nei “community settings” (la medicina di base negli USA) che risultava ben diversa da quella dei “research settings” (centri di ricerca spesso universitari). Ha trovato che l’instabilità aumentava se la diagnosi era fatta da un qualsiasi operatore rispetto a quella effettuata da un team professionale. Alcune ricerche


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(Daniels et al., 2011) hanno evidenziato che la maggior parte dei professionisti nella loro attività non seguiva le “migliori pratiche” e non utilizzava strumenti diagnostici per assegnare le diagnosi. Inoltre la presenza di criteri diagnostici piuttosto vaghi per i PDD-NOS, amplifica ulteriormente la possibilità di errori sistematici nell’elaborazione di dati che utilizzano diagnosi di DSA effettuata da sanitari senza specifica competenza. In molte ricerche, proprio per tener conto del fattore soggettivo nella valutazione diagnostica, oltre ad utilizzare un team multiprofessionale si fa ricorso all’inter-rater reliability, cioè a valutazioni indipendenti da parte di due ricercatori. In questo caso i risultati vengono poi confrontati utilizzando degli indici statistici per decidere sull’accettabilità di eventuali discordanze. Le metanalisi sistematiche dei migliori studi evidenziano comunque notevoli variabilità nella diagnosi persino tra team multidisciplinari che possiedono risorse adeguate e utilizzano i migliori strumenti diagnostici. Si può pensare che, nella routine quotidiana di équipe molto occupate con risorse precarie, la variabilità nella stabilità diagnostica dei DSA sia ancora maggiore. Sarebbe anche opportuno eseguire la valutazione diagnostica all’inizio e alla fine dello studio. La valutazione finale dovrebbe essere effettuata in cieco, cioè da valutatori che non conoscono la diagnosi dei bambini. Nella maggior parte degli studi ciò non avviene perché inevitabilmente i ricercatori hanno delle conoscenze sull’iter diagnostico del bambino o comunque ne vengono informati dai genitori al momento della valutazione. Per sapere quanto le conclusioni di una ricerca si possono estendere alla popolazione generale è indispensabile conoscere se il campione viene da una popolazione di base, ad esempio un determinato distretto sanitario, o è “clinically referred” ossia filtrato in modo arbitrario dalle modalità di reclutamento (a pagamento, utilizzo di un sito di pazienti autistici, invio di pazienti da una clinica dove affluisce una casistica già selezionata, ecc.). Negli USA, paese da cui giungono la maggior parte delle ricerche in questo campo, l’organizzazione sanitaria è molto diversa da quella europea e spesso manca una medicina di base estesa a tutta la popolazione cui far riferimento per raccogliere campioni rappresentativi di determinati gruppi di pazienti. Si sa che la prevalenza dei PDD-NOS è quasi il doppio di quella degli AD nella popolazione generale (secondo Fombonne (2009) il rapporto PDD-NOS/AD è 1,8). Malgrado ciò in tutti gli studi prevalgono gli autismi tipici. Si può ipotizzare che le ricerche indaghino su gruppi di pazienti con DSA con sintomatologia più grave e più precoce e appartenenti a famiglie più motivate nel garantire il rispetto dell’iter diagnostico e dei follow up, col rischio di selezionare sottoclassi di popolazioni autistiche. Van Daalen (2009) osserva che la stabilità della diagnosi negli studi “clinically referred” è più bassa rispetto alle ricerche “population-based” perché di solito, in quest’ultima popolazione, l’età media alla prima valutazione diagnostica è maggiore (e quindi meno esposta a variazioni diagnostiche che con più frequenza si verificano tra i 2 e i 4 anni) e i sintomi sono meno gravi rispetto a quelli dei bambini di campioni “clinically referred” (Turner et al., 2006). Uno studio americano ha evidenziato che la stabilità della diagnosi variava anche in funzione delle sedi geografiche in cui erano fatte le diagnosi stesse: i bambini che vivevano nelle regioni del Sud e dell’Ovest andavano


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più soggetti a cambi di diagnosi rispetto a quelli del Nordest (Daniels et al., 2011). Meledandri (2009) sostiene che più è grande la popolazione indagata, minore è la prevalenza riscontrata di diagnosi di autismo. Secondo l’autore occorre molta cautela nell’estendere a tutti i soggetti con DSA i risultati di studi con casistiche che utilizzano bacini di utenza di dimensioni inferiori a 100.000 unità. Anche rispetto ai follow up occorre tener conto della numerosità dei controlli. Più aumenta la percentuale dei casi che non si presentano al follow up, più si rischia di selezionare una sottopopolazione. Woolfenden et al. (2012), ad esempio, indicano l’80% come soglia per uno studio attendibile. Naturalmente contano anche l’età di inizio del follow up e la sua durata. Molti studi, probabilmente i migliori, sono stati fatti per investigare la stabilità delle diagnosi a 2 anni, per cui potrebbero aver indagato su un particolare gruppo di bambini, quelli in cui l’autismo si evidenziava più precocemente. Da ciò si evince come il campione ideale sia quello che raccoglie tutti i bambini con DSA nati in uno specifico periodo di tempo e viventi in una certa regione al momento dello studio. Il numero dei soggetti della casistica costituisce un’altra variabile importante. Molte ricerche utilizzano campioni con un numero limitato di soggetti al limite della significatività statistica. Va ricordato che diverse ricerche anglosassoni hanno utilizzato casistiche costituite da pazienti di razza caucasica, che appartengono a famiglie di lingua inglese, di livello socio-culturale medio alto, con buona disponibilità economica. Passando ad un altro aspetto, quasi tutti gli studi sottolineano l’influenza del Quoziente Intellettivo (QI) e delle competenze linguistiche alla prima valutazione T0 (tempo 0) sull’esito dei follow up (T1). La valutazione del Quoziente di Sviluppo (QS) o del QI è spesso difficile perché il bambino non partecipa al test o rifiuta certi item o non è verbale. Perciò nello stesso campione alcuni bambini ottengono punteggi attendibili e altri meno. Eaves e Ho (2004) sostengono che bisogna usare molta cautela nell’accettare risultati di studi che impiegano test intellettuali diversi a T0 e a T1. In alcuni studi per indagare lo sviluppo del bambino si utilizzano solo le Scale di Vineland che hanno il limite di basarsi sul report dei genitori (Eaves e Ho, 2004). Meledandri (2009) ricorda che ritardo mentale (RM) e DSA sono entità differenti, però entrambe le condizioni, da un punto di vista statistico, sembrerebbero condividere qualcosa in più della mutua relazione di comorbilità. Il RM sembra essere all’origine di una sotto-popolazione nella quale il rischio relativo di autismo è maggiore. Con l’aumentare dell’età le diagnosi diventano più precise e risentono meno della comorbilità. QI più elevati o funzionamenti migliori si riscontrano infatti nelle diagnosi di autismo effettuate in campioni di grandi dimensioni, nella fascia di età tra i 5 e i 15 anni. Per essere rigoroso dal punto di vista metodologico lo studio deve essere, pertanto, necessariamente prospettico, proprio perché la sintomatologia, come del resto accade in tutti i disturbi dell’età evolutiva, cambia e soprattutto non segue un percorso lineare. Vi sono studi che evidenziano come il paziente sottoposto ad ADI-R nei diversi step della ricerca, attraversa più volte la soglia del cut off per i DSA (Charman et al., 2005). Tendenzialmente i sintomi autistici migliorano con l’età: se si paragonano i


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punteggi dell’ADI di bambini grandi con quelli riscontrati a 4-5 anni (epoca usata per costruire l’algoritmo diagnostico) si osserva un generale miglioramento della sintomatologia (Helt et al., 2008). Gli studi retrospettivi di solito presentano dati incerti ricostruiti per approssimazione sulla base soprattutto dei ricordi dei familiari. In molti studi vengono riportati gli interventi terapeutici nell’ipotesi che possano avere influito sul cambio di diagnosi. Gli interventi sono spesso calcolati in ore settimanali, mentre resta difficile la loro valutazione qualitativa. Inoltre spesso i trattamenti variano nel tempo per cui è difficile dare una valutazione non solo qualitativa, ma anche quantitativa degli stessi. Infine, diversi studi sono stati fatti in epoche passate, riflettendo modalità diverse di diagnosticare i DSA. I criteri del DSM-III erano più severi nel selezionare pazienti autistici rispetto al DSM-IV (Farley et al., 2009). Soprattutto gli studi di follow up dall’infanzia all’età adulta, che sono iniziati 20, 30 anni fa, hanno utilizzato criteri di inclusione più restrittivi di quelli attuali per cui riportano di solito diagnosi più stabili. Turner et al. (2006) ritengono che rispetto al passato siano cambiate in parte le caratteristiche dei bambini inviati in consultazione. Sembrerebbe, cioè, che la maggior sensibilità e conoscenza del disturbo porti a segnalare casi di media o lieve gravità, più suscettibili a grandi miglioramenti. In definitiva i soggetti con DSA costituiscono una popolazione così complessa da valutare e seguire nel tempo che nessun gruppo di ricerca è attualmente in grado di rispettare tutte le indicazioni sopra esposte. D’altra parte meno uno studio rispetta i parametri citati più rischia di giungere a delle conclusioni di scarsa utilità, essendo legate ad un contesto particolare e quindi non generalizzabili. Per lo specialista, pertanto, la conoscenza delle modalità con cui le ricerche sono state effettuate è indispensabile per valutarne l’attendibilità. Dati emergenti dagli studi più significativi Negli ultimi anni sono stati pubblicati una trentina di lavori che hanno portato dati significativi sulla stabilità della diagnosi nei DSA. Per questioni di spazio abbiamo focalizzato l’attenzione sugli studi condotti in età prescolare, tralasciando le sindromi di Asperger (AS) che meriterebbero una pubblicazione a parte. Facciamo riferimento in modo particolare a due recenti metanalisi (Woolfenden et al., 2012; Rondeau et al., 2010) che hanno selezionato i migliori lavori sull’argomento. La metanalisi di Woolfenden è senz’altro la più accurata per qualità di selezione dei lavori presi in esame. Gli autori, per escludere ricerche che contenessero errori sistematici nell’impostazione (rischio di bias), hanno preso in esame solo gli studi pubblicati tra il 1986 e settembre 2010. Gli studi considerati possedevano tutte o almeno alcune di queste caratteristiche: studio prospettico, campione superiore a 30 soggetti e proveniente da una popolazione di base, valutazione diagnostica a T0, rivalutazione diagnostica a T1 in cieco, completamento del follow up (di un anno o più) di almeno l’80% dei pazienti. A dimostrazione della difficoltà di effettuare ricerche


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di estremo rigore scientifico ricordiamo che gli autori hanno precisato di aver trovato sull’argomento unicamente studi longitudinali e nessuna ricerca clinica controllata randomizzata e che solo due, dei 23 studi selezionati, soddisfacevano tutti e 5 i criteri (Sutera et al., 2007; Billstedt et al., 2005), mentre altre 9 ricerche erano a basso rischio di bias per 4 criteri. Rondeau et al. (2010) nella loro metanalisi hanno preso in considerazione le ricerche focalizzate sul confronto tra la stabilità diagnostica dei PDD-NOS e quella degli AD, mentre nello studio di Wollfenden et al. (2012) solo una parte delle ricerche utilizzate prendeva in considerazione i PDD-NOS. Per potere istituire dei confronti tra le due metanalisi, abbiamo assunto le modalità di presentazione dei dati pubblicati da Rondeau et al. (2010) e le abbiamo estese alla metanalisi di Woolfenden et al. (2012). In altre parole, dopo avere ottenuto il numero complessivo dei casi delle varie ricerche prese in esame, abbiamo calcolato le percentuali relative alle conferme o ai mutamenti delle diagnosi. Per ottenere dei dati il più possibile omogenei e confrontabili abbiamo considerato, tra gli studi esaminati da Wollfenden et al. (2012), quelli che iniziavano il follow up prima dei 3 anni. Rondeau et al. (2010) e Woolfenden et al. (2012) hanno utilizzato rispettivamente 8 e 11 studi longitudinali sulla stabilità della diagnosi, di questi 5 erano in comune. Pur consapevoli dei limiti statistici di tale operazione, in quanto le casistiche che vengono assommate hanno caratteristiche diverse per selezione, lunghezza del follow up, rispetto dei criteri sopracitati, si riportano le sintesi delle due metanalisi (cfr. Tabella 1). Dall’analisi dei dati si evidenzia in particolare come i PDD-NOS siano un’entità nosografica piuttosto instabile, a differenza degli AD e come una quota di DA (dal 7 al 9%) e di PDD-NOS dal (18 al 25%) esca dai DSA.

Tabella 1. Stabilità complessiva delle diagnosi cliniche di DSA nelle metanalisi di Woolfenden et al. (2012) e Rondeau et al. (2010). RONDEAU et al. (2010)

WOOLFENDEN et al. (2012)

AD (N= 322) il 76 % resta AD il 15% diviene PDD-NOS il 9% esce dai DSA PDD-NOS (N= 122) il 39% diviene AD il 35% resta PDD-NOS il 25% esce dai DSA

AD (N= 379) il 79% resta AD il 14% diviene PDD-NOS il 7% esce dai DSA PDD-NOS (N= 174) il 23% diviene AD il 59% resta PDD-NOS il 18% esce dai DSA

Una discreta percentuale di bambini da PDD-NOS diviene AD (dal 23 al 39%). L’osservazione successiva a T0 di comportamenti stereotipati, che solitamente appaiono dopo i 30 mesi (Lord, 2006), potrebbe spiegare, almeno in parte, il peggioramento di diagnosi (Kleinman et al., 2008; Sutera et al., 2007). I due studi (Billstedt et al., 2005; Cederlund et al., 2008) selezionati nella metanalisi di Woolfenden et al. (2012) che hanno seguito in follow up, a partire dagli anni ’80, pazienti valutati


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nell’infanzia fino all’età adulta, evidenziano una sostanziale stabilità delle diagnosi sia AD che PDD-NOS effettuate mediamente dopo i 5 anni di età. In particolare 1 caso su 5 si deteriorava in adolescenza, di questi la metà manteneva in modo stabile il deterioramento. Tutti avevano un esito negativo compreso il 10% che possedeva una dotazione intellettiva nella norma. In parziale contrapposizione Helt et al. (2008) riportano che in età adulta i sintomi specifici dell’autismo tendono a migliorare, specie i deficit comunicativi. I comportamenti ristretti e ripetitivi divengono più sottili e complessi. Questo autore ha trovato, in diversi studi sull’esito in età adulta, che una percentuale tra il 10 e il 20% del campione non soddisfa più i criteri per una diagnosi di DSA. Influenza degli interventi terapeutici Nella metanalisi di Woolfenden nessuno dei 5 studi che misuravano l’intervento precoce come possibile fattore predittivo della stabilità diagnostica trovava differenze tra i bambini che mantenevano o meno la diagnosi (Chawarska et al., 2009; Eaves e Ho, 2004; Jonsdottir et al., 2007; Lord et al., 2006; Turner e Stone, 2007). Sallows e Graupner (2005), in un lavoro in cui hanno cercato di replicare i risultati di Lovaas (studiando 2 gruppi omogenei di bambini che si differenziavano solo per il tipo di intervento, ABA il primo e un programma educativo portato avanti dai genitori il secondo), hanno riscontrato che le caratteristiche pretrattamento del soggetto piuttosto che il tipo di trattamento predicevano l’outcome. Questi risultati dimostrano che il trattamento è necessario, ma non sufficiente per acquisire dei buoni risultati finali. Itzchak et al. (2009), confrontando due gruppi di bambini, hanno osservato che l’intervento comportamentale aveva gli stessi risultati di quello basato su programmi educativi meno specifici. Per un approfondimento vedi Linee Guida “Il trattamento dei DSA nei bambini e negli adolescenti” (2011). Caratteristiche dei pazienti che escono dai DSA Kelley et al. (2006) hanno seguito 14 bambini usciti dai DSA, riscontrando come questi bambini conservassero problemi nella comprensione dei verbi di stato mentale, nel linguaggio narrativo, nel ragionare in modo induttivo su cose animate, nella comprensione della teoria della mente di secondo ordine (io penso che tu pensi). Turner et al. (2006) in una casistica di 38 casi di autismo hanno riscontrato che 12 uscivano dai DSA (32%), ma quasi tutti continuavano ad avere problemi di linguaggio (8) e Ritardi di Sviluppo (3). Fattori predittivi Molti studi hanno cercato di definire quali fossero le caratteristiche del bambino con DSA che meglio permettessero di prevedere la sua evoluzione. Eaves e Ho (2004) hanno sottolineato l’importanza del QI o QS verbale e non verbale al momento della diagnosi. Jonsdottir et al. (2006) affermano che la stabilità dei punteggi


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ai test intellettuali generalmente aumenta dopo i 5 anni e che i maggiori cambiamenti nel QI/QS hanno luogo entro i 3 anni. Farley et al. (2009) danno importanza alle abilità comportamentali precoci misurate attraverso le scale di Vineland, osservando che vi possono essere all’interno dei DSA soggetti intelligenti, ma con problemi di adattamento alla vita pratica più gravi rispetto ad altri bambini che possiedono un QI inferiore. Le abilità linguistiche, l’attenzione al linguaggio (Sutera et al., 2007), il linguaggio recettivo (Itzchak et al., 2009) i tentativi di comunicazione non verbale (Charman et al., 2005) sono generalmente indicati come validi predittori così come la risposta all’attenzione congiunta e l’abilità nel gioco funzionale. La gravità dei sintomi iniziali avrebbe un valore scarsamente predittivo, mentre la presenza di comportamenti ripetitivi potrebbe essere un fattore predittivo negativo (Sutera et al., 2007). Turner et al. (2006) hanno osservato che nella sua casistica aveva un miglior esito il gruppo di bambini diagnosticato prima dei 30 mesi rispetto a quello diagnosticato dopo. Mc Govern e Sigman (2005) hanno rilevato che i bambini che, durante gli anni della scuola dell’obbligo, erano maggiormente coinvolti socialmente con coetanei acquisivano più competenze adattative. Tuttavia Sutera et al. (2007), dopo aver preso in considerazione due gruppi di bambini di cui uno usciva dai DSA e, dopo aver rilevato tra le discriminanti anche le competenze motorie, concludono sostenendo che ancora non si è in grado di prevedere con ragionevole certezza l’esito dei bambini con DSA diagnosticati in età precoce e pertanto raccomanda di offrire a tutti questi bambini interventi precoci e intensivi. Alcuni contributi italiani Santocchi et al. (2010) hanno condotto uno studio su 68 bambini con DSA in età prescolare e hanno osservato una stabilità della diagnosi clinica di DSA nell’87% dei bambini. Per poter confrontare i risultati con quelli riportati nelle due metanalisi precedenti (Woolfenden et al., 2012 e Rondeau et al, 2010), abbiamo scomposto i dati sulla base dell’attribuzione a T0 della diagnosi di AD o di PDD-NOS. (cfr. Tabella 2) Come si può vedere i dati sono abbastanza simili a quelli riportati nelle due metanalisi precedentemente prese in considerazione (cfr. Tabella 1). Gli autori sottolineano che la stabilità della diagnosi aumenta progressivamente col crescere dell’età in cui viene formulata, passando dall’81% nei bambini diagnosticati prima dei 36 mesi, all’89% nei bambini diagnosticati fra i 36 e i 47 mesi e infine al 93% nei bambini diagnosticati dopo il compimento del 4° anno. Hanno osservato anche che in più del 50% dei casi l’uscita dalla diagnosi di autismo avviene entro i primi 9 mesi dalla sua formulazione.


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Tabella 2. Stabilità delle diagnosi cliniche di DSA nelle ricerche di Santocchi et al. (2010) e di Bailo e Caucino (2011). SANTOCCHI et al. (2010)

BAILO e CAUCINO (2011)

AD (N= 21) il 90 % resta AD il 10% diviene PDD-NOS PDD-NOS (N= 47) il 15% diviene AD il 66% resta PDD-NOS il 19% esce dai DSA

AD (N= 29) il 97% resta AD il 3% diviene PDD-NOS PDD-NOS (N= 71) il 15% diviene AD il 51% resta PDD-NOS il 34% esce dai DSA AS (N= 8) l’88% resta AS il 12% esce dai DSA

Riportiamo anche gli esiti di una ricerca retrospettiva (Bailo e Caucino, 2011) che abbiamo condotto nel 2009 su tutti i pazienti autistici residenti nella Provincia di Novara nel triennio 2006-2008, raccogliendo una serie di informazioni sulla loro presa in carico, sulla stabilità della diagnosi e sugli interventi riabilitativi. Si tratta di una popolazione diversa rispetto ai precedenti studi che si rivolgevano alla fascia prescolare. Nel nostro campione i 108 pazienti avevano un età che variava tra i 2 e i 17 anni. Abbiamo potuto identificare i soggetti che hanno cambiato diagnosi studiando i dati della rete informatica (NPInet) entro cui vengono riportate le diagnosi secondo l’ICD10 di tutta la popolazione in età evolutiva che afferisce alle SC di NPI della Regione Piemonte. Le diagnosi raramente vengono aggiornate per problemi tecnici e organizzativi. Si è cercato di trasformare la carenza di aggiornamento in un vantaggio per la ricerca: abbiamo confrontato le diagnosi di ingresso così come risultavano da NPInet con quelle attuali, chiedendo a tutti i referenti di fornire una diagnosi aggiornata dei loro pazienti. Lo studio è carente sotto l’aspetto metodologico in quanto non è stato possibile verificare, per tutti i soggetti in modo rigoroso, le modalità con cui le diagnosi in ingresso e in uscita erano state effettuate. D’altra parte si tratta di uno studio che riguarda una popolazione di base che vive in una precisa area geografica (provincia di Novara, popolazione 0-17 anni di circa 50.000 soggetti) in un tempo ben definito (2007-2009). Nel nostro studio (cfr. Tabella 2), così come in quello del gruppo di Pisa, risultano rispettati i rapporti tra AD e PDD-NOS che vedono una netta superiorità di questi ultimi sui primi e viene riscontrata un’elevata stabilità nelle diagnosi di AD. Si conferma, inoltre, la notevole instabilità nella diagnosi di PDDNOS simile a quella risultante nelle due metanalisi citate. Dei 26 pazienti che uscivano dai DSA solo 1 (4%) aveva avuto un’evoluzione del tutto positiva, mentre tutti gli altri risultavano affetti da disturbi psichiatrici o dello sviluppo, in particolare: Ritardo Mentale (50%), Disturbo del Linguaggio (15%), Disturbi Comportamentali (4%) e quadri psicotici (19%). Dalla ricerca emergeva, inoltre, che la percentuale di pazienti con DSA per classi di età aumentava fino ai 4 anni, risultava abbastanza stabile fino agli 11 e poi declinava fino a ridursi della metà. Militerni et al. (2007) hanno pubblicato una ricerca su 59 bambini diagnosticati tra i 18 e i 30 mesi all’interno dei DSA, in particolare 43 avevano una diagnosi di AD e 16 una diagnosi di PDD-NOS. Dopo 5 anni o più, al follow-up, il 72% degli


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AD confermava la diagnosi, il 5% era divenuto AS, il 21% veniva inquadrato come PDD-NOS, il 2% si normalizzava. Per quanto riguarda le diagnosi di PDD-NOS, il 12% diveniva AD, il 19% AS, il 50% veniva riconfermato come PDD-NOS e il 19% presentava un quadro neuropsichico definibile come normale. Tali risultati sono in buona parte sovrapponibili a quelli degli studi sopra riportati e in particolare viene riconfermato che una quota di circa il 20% dei PDD-NOS diagnosticati in età precoce esce dai DSA negli anni successivi. Spostando l’attenzione su un altro studio italiano ricordiamo che Zappella (2010) riporta che molti dei bambini che escono dai DSA sono affetti dalla sindrome dismaturativa. Si tratta di bambini (121 descritti in letteratura) che nel secondo anno presentano regressione specie linguistica, evitamento visivo, stereotipie e tic motori. Zappella (2010) sottolinea che la maggior parte degli studi non tiene conto della genetica, non raccoglie dati sulla storia familiare, ad es. sulla presenza di tic o della Sindrome di Gilles de la Tourette. Nelle famiglie da lui studiate nelle ultime 2 generazioni non c’è ricorrenza di DSA, evidenza di una base genetica totalmente diversa da quella della maggior parte dei DSA dove la ricorrenza di DSA fra fratelli è del 3-6%. Conclusioni Da molte delle ricerche emerge che una quota di pazienti esce dai DSA: le percentuali variano notevolmente. Poiché la maggior parte degli studi presenta nella loro casistica un rapporto numerico DA/PDD-NOS invertito rispetto a quello rilevato nelle indagini epidemiologiche (Fombonne, 2009), sembra più utile considerare la stabilità dei sottogruppi. A questo proposito si osserva che un numero molto limitato di pazienti con AD esce dallo Spettro (tra lo 0-9%) mentre una quota maggiore e più incerta, intorno al 20% dei soggetti con PDD-NOS lascia i DSA. Citiamo 2 studi rigorosi che segnalano percentuali discordanti. Nella ricerca di Lord et al. (2006), che ha seguito 130 bambini tra i 2 e i 9 anni, solo 1 AD su 84 (1%) e 5 PDD-NOS su 46 (11%) abbandonavano i DSA. In quella di Sutera et al. (2007), con follow up dall’età di due a quattro anni, 6 AD su 55 (11%) e 7 PDD-NOS su 18 (39%) ne usciva. L’ampia oscillazione di tali dati sembra dar forza all’invito alla prudenza di Meledandri (2009) quando ci si propone di estendere alla popolazione generale risultati ottenuti con ricerche che utilizzano bacini di utenza inferiori alle 100.000 unità. Altri pazienti pur restando all’interno dei DSA, vanno incontro ad un miglioramento o peggioramento del quadro clinico: il 14% degli AD diventa PDD-NOS, mentre una quota di PDD-NOS intorno al 20 si trasforma in AD. A proposito dei bambini che escono dallo spettro, Helt (2008) suggerisce che vi possono essere più interpretazioni: quei bambini non erano DSA, vi sono bambini che con la sola maturazione biologica si normalizzano, altri DSA abbandonano tale diagnosi grazie al trattamento. Visto che altri bambini con DSA, pur ricevendo i migliori trattamenti non guariscono, ne consegue che è necessaria una combinazione di caratteristiche del bambino e trattamento per assicurare un esito positivo. Questi cambiamenti di diagnosi hanno luogo in gran parte entro i 5 anni (Char-


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man et al., 2005) ma in numero limitato si possono presentare anche negli anni successivi. La maggior instabilità si osserva nelle diagnosi effettuate prima dei 30 mesi (Turner e Stone, 2007). L’esito di queste ricerche sulla stabilità diagnostica ha delle ricadute dal punto di vista clinico. Sarebbe opportuno al momento della comunicazione della diagnosi, specie se il bambino ha un’età inferiore ai 36 mesi, informare la famiglia sulla possibilità di cambiamenti di diagnosi che possono portare ad un miglioramento e all’uscita dallo Spettro, ma anche ad un peggioramento con trasformazione di un quadro di PDD-NOS in AD. Andrebbe pertanto prevista una rivalutazione diagnostica nell’arco di un anno. I bambini con DSA devono essere monitorati nel tempo per assicurarsi che anche gli interventi riabilitativi continuino ad essere adeguati alle loro diagnosi ed abilità. Chi esce dai DSA per lo più conserva problemi come ADHD, ritardo mentale, difficoltà pragmatiche nel linguaggio, goffaggine sociale, ansia sociale, depressione (Turner et al., 2006, 2007; Kelley et al., 2006; Lord et al., 2006; Helt et al., 2008). Ciò conferma la concettualizzazione dell’autismo come un continuum di compromissione che si estende a diverse aree dello sviluppo piuttosto che come una entità categoriale. Raramente i bambini guariscono (1 su 48 in Turner e Stone, 2007). Visto che l’esito dipende sia dalla qualità dell’intervento che dalle caratteristiche del bambino, è molto importante la diagnosi in entrata, essenziale per valutare anche l’efficacia degli interventi. Probabilmente l’ampia variabilità delle percentuali riferite alla stabilità delle diagnosi dipende anche dal rigore con cui vengono fatte le diagnosi. Soprattutto nel caso di bambini non verbali sotto i 3 anni gli specialisti che diagnosticano DSA devono avere molta esperienza nella valutazione clinica e nell’uso appropriato degli strumenti diagnostici. La maggior parte degli studi in questione ha campioni molto ridotti per numero e questo rende problematica la generalizzazione dei risultati. Sono necessarie ricerche policentriche che permettano di studiare un elevato numero di bambini con DSA. Nella Regione Piemonte ad esempio NPInet, archivio informatico che raccoglie i dati di tutta l’utenza in età evolutiva che afferisce ai Servizi di NPI, costituisce un’ottima risorsa per l’impostazione di ricerche ad ampio raggio. In particolare è necessario precisare meglio quali siano le caratteristiche del bambino al momento T0, che potrebbero costituire dei buoni indicatori di esito, permettendo in tal modo di identificare sottogruppi con traiettorie evolutive differenti. Ricordiamo alcune caratteristiche che senz’altro influenzano la prognosi, in assenza di dati certi che certifichino quali siano quelle più rilevanti: il livello del QI/QS verbale e non verbale, le competenze linguistiche specie quelle recettive, le abilità motorie, la presenza di regressioni, le competenze adattative, la presenza di comportamenti ripetitivi, la diagnosi di PDD-NOS piuttosto che di AD, la precocità della diagnosi, le competenze visive, la precocità di inizio del trattamento e la qualità dello stesso, il genere sessuale, ecc. Tutti i ricercatori consigliano interventi intensivi e precoci, ma anche molta cautela nella attribuzione di buoni esiti a specifici interventi senza adeguate verifiche. In un futuro prossimo verranno introdotti per i DSA i nuovi criteri diagnostici


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del DSM V che richiedono la presenza contemporanea di deficit sociali e interessi ristretti e stereotipati; inoltre si propone di abolire le sottocategorie AD, PDD-NOS e AS. Probabilmente introducendo criteri più restrittivi verrà stabilizzata maggiormente la diagnosi di DSA. Il limite potrebbe essere quello di cancellare un sottogruppo molto solido (gli AD) e di perdere una certa quota dei PDD-NOS, col rischio così di ridurre l’attenzione su bambini che potrebbero sviluppare negli anni successivi disturbi che vanno dall’autismo a deficit sociali più lievi. Inoltre i nuovi criteri diagnostici potranno ritardare la diagnosi precoce di autismo per quei bambini in cui i comportamenti ripetitivi e ristretti insorgono dopo i 30 mesi, evento questo che ricorre con una certa frequenza (Saint Georges, 2010). Concludendo, si può affermare che almeno per un ridotto numero di soggetti la diagnosi di DSA non sarà per la vita. Le ricerche non sono ancora state in grado di differenziare le caratteristiche di questo sottogruppo rispetto a quelle della maggior parte dei soggetti con DSA che manterranno tale diagnosi in modo permanente. La correlazione tra gli esiti a cui vanno incontro i due sottogruppi e l’efficacia degli interventi appare senza dubbio molto stretta, ma sono necessarie ancora ulteriori studi per chiarirne i rapporti. Riassunto Presentiamo una review degli studi più recenti sulla stabilità diagnostica dei DSA. Dopo aver esaminato i principali rischi di errore sistematico nella ricerca sull’autismo abbiamo preso in considerazione due recenti metanalisi confrontando le conclusioni riportate con quanto emerge da due ricerche italiane sullo stesso tema. Dalla maggior parte delle indagini risulta che una minoranza di bambini diagnosticati all’interno dei DSA non conferma tale diagnosi al follow up. In particolare tra lo 0-9 % dei bambini diagnosticati prima dei 3 anni come AD esce dai DSA, mentre in media il 20% dei bambini diagnosticati PDD-NOS alla stessa età lascia i DSA. Di questi bambini che cambiano diagnosi quasi nessuno guarisce, infatti continuano a presentare significativi disturbi dello sviluppo. Vengono quindi presi in considerazione alcuni fattori predittivi per cercare di individuare quelli che potrebbero essere correlati ad un esito favorevole. Questo lavoro conferma l’instabilità della diagnosi di PDD-NOS e invita alla cautela quando si affronta il tema della permanenza per tutta la vita di diagnosi di DSA effettuate prima dei 36 mesi. Inoltre si sottolinea l’importanza di rivalutare in epoca prescolare le diagnosi effettuate precocemente. Parole chiave Validazione diagnostica – Disturbi dello Spettro Autistico – Stabilità diagnostica – Studi longitudinali – Metanalisi.

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Le competenze comunicative dei bambini con Disturbo dello Spettro Autistico: dal pianto alla comunicazione gestuale Communicative competence in children with Autism Spectrum Disorders: from crying to gesture Paola Venuti*, Marilina Mastrogiuseppe*, Simone Cuva*

Summary Aim of this paper is to present current research approaches deemed particularly useful for a better understanding of socio-communicative impairments of Autism Spectrum Disorders (ASD). Our focus will be on: (1) “cry studies” whose aim is that of identifying the atipycality of early crying behaviors in children with ASD. Cry, in fact, is considered an early and primary communicative signal, which triggers important interactive behaviors and may represent a precursor of other subsequent impairments, i.e. prosody alterations in spoken language (2) research studies on gesture development in ASD, with a specific focus not only on the yet deeply studied field of Joint attention gestures (notably pointing), but also on a wider array of gesture behaviors, considering besides the quantitative aspect of their production, also qualitative features of their execution. A broader investigation on gesture use in ASD children, in fact, might contribute to a deeper understanding of their sociocommunicative impairments and provide many hints about the implementation of focused interventions Key words Autism – Cry – Gesture.

Introduzione I disturbi dello spettro autistico sono disturbi del neurosviluppo, con esordio nei primi anni di vita e, come indicato nel DSM IV-TR sono caratterizzati clinicamente da compromissioni qualitative delle interazioni sociali, della comunicazione, da un repertorio limitato, stereotipato, ripetitivo di interessi e di attività (APA, 2000; Venuti, 2011). Il DSMIV-TR individua la compromissione della comunicazione come marcata e perdurante tanto da portare ad una significativa riduzione delle capacità verbali e non verbali; indica inoltre che può esservi ritardo, o totale mancanza, dello sviluppo del linguaggio parlato (Criterio A2a). Nei soggetti che parlano, può esservi notevole compromissione della capacità di iniziare o di sostenere una conversazione con altri * Laboratorio di Osservazione, Diagnosi e Formazione, Dipartimento di Scienze della Cognizione e della Formazione, Università di Trento.


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(Criterio A2b), o uso stereotipato o ripetitivo del linguaggio o linguaggio eccentrico (Criterio A2c). Viene indicato che anche quando il linguaggio si sviluppa, l’altezza, l’intonazione, la velocità, il ritmo, o l’enfasi possono essere anomali (per es., il tono di voce può essere monotono o contenere accentuazioni di tipo interrogativo in frasi affermative). Le strutture grammaticali sono spesso immature e includono un uso del linguaggio stereotipato e ripetitivo (per es., ripetizione di parole o frasi indipendentemente dal significato; ripetizione di ritornelli o di spot pubblicitari) o linguaggio metaforico (linguaggio che può essere capito chiaramente solo da coloro che hanno familiarità con lo stile di comunicazione del soggetto). Un’anomalia nella comprensione del linguaggio può essere evidenziata dall’incapacità di capire domande semplici, istruzioni o scherzi. La nuova versione del DSM, che dovrebbe essere pubblicata negli Stati Uniti a maggio 2013, riproponendo una sostanziale revisione dei criteri per la definizione dei disturbi dello spettro autistico, parla di Deficit persistenti nella comunicazione sociale e nelle interazioni sociali e di Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati nelle interazioni sociali, che vanno da una comunicazione verbale e non verbale poveramente integrata, ad anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio corporeo, o deficit nella comprensione e nell’uso della comunicazione non verbale ad una totale mancanza di espressioni facciali o gesti. È quindi sottolineata la compromissione nella comunicazione non-verbale, che nelle sue molteplici forme, è stata ampiamente studiata e dimostrata (Mundy et al., 1986; Wetherby et al., 2007). Emergono, inoltre, due importanti indicazioni che hanno guidato alcune delle linee di ricerca sullo sviluppo comunicativo nell’autismo attive nel nostro laboratorio (Laboratorio di Osservazione, Diagnosi e Formazione, (ODFLab), Università di Trento): 1. Se le caratteristiche di altezza, intonazione, velocità e ritmo del linguaggio risultano alterate, probabilmente queste caratteristiche sono alterate anche in tutte le altre forme di comunicazione verbale che precedono il linguaggio parlato e quindi anche nelle espressioni di pianto e di vocalizzazione. Sull’analisi delle caratteristiche del pianto e del loro modo di essere interpretate dagli adulti abbiamo in corso ricerche sistematiche, la cui sintesi presenteremo nel prossimo paragrafo, basate su dati osservativi (Venuti ed Esposito 2008, 2011) e su sperimentazione utilizzando anche le tecniche fMRI (Esposito e Venuti, 2008; 2009a e 2009b; 2010). 2. Si evidenzia, in particolare nella revisione DSM V, il ruolo determinante delle espressioni di comunicazione non verbale e della gestualità nella diagnosi dell’autismo. Ad oggi, tuttavia, sono ancora relativamente pochi gli studi presenti in letteratura sulla comunicazione gestuale nell’autismo (Camaioni et al., 2003), i quali indagano il gesto principalmente in relazione all’attenzione condivisa e al riferimento sociale (Carpenter et al., 2002; Paparella et al., 2011; Shumway e Wetherby, 2009), trascurando altre funzioni del gesto legate ad esempio allo sviluppo del pensiero simbolico (gesti rappresentativo/iconici) e alla pragmatica della comunicazione (gesti pragmatici e convenzionali) oltre che aspetti legati alla qualità nell’esecuzione dei gesti. In questo ambito abbiamo iniziato da alcuni anni, in collaborazione con Olga Capirci che coordina l’unità di ricerca “Gesture, Language and Developmental Disorders”


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(GLADD) dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR, una serie di ricerche per studiare l’evoluzione della gestualità nei bambini con ASD, concentrandoci oltre che sull’indicazione, argomento molto studiato, sulle altre funzioni del gesto (ad esempio, rappresentativo-iconici, convenzionali, pragmatici) sulla qualità nella loro esecuzione e sull’osservazione delle stesse in un contesto interattivo di scambio di gioco sia con la madre che con il padre. Anche questi dati verranno presentati nei prossimi paragrafi. 1. Anomalie del pianto nei soggetti con ASD Pochissime sono le ricerche sul pianto dei soggetti con disturbo dello spettro autistico nonostante sia noto che il disturbo colpisce le competenze sociali e comunicative e che il pianto possa essere considerato il primo comportamento comunicativo di un bambino nonché una prima struttura sociale dello sviluppo umano. Il pianto del bambino attiva infatti i comportamenti di responsiveness del genitore e ristabilisce una sorta di equilibrio tra i due; in questo senso il pianto del bambino e la risposta del genitore costituiscono la prima forma di linguaggio della nuova relazione diadica; alcuni ricercatori hanno ipotizzato che il pianto del bambino ha sia per il bambino che per l’adulto la funzione di attivare fortemente il sistema nervoso simpatico (LaGasse et al., 2005). Un episodio di pianto è altamente organizzato e si caratterizza come un complesso sistema comunicativo. Quando il sistema funziona in modo ottimale i genitori comprendono il pianto del loro bambino e possono soddisfare i suoi bisogni. Il piangere è quindi una risposta fisiologica, altamente organizzata, costituita da 4 fasi (espirazione, riposo, inspirazione, riposo). L’aria passa attraverso la laringe che contiene le corde vocali e la glottide. Il suono si ottiene per mezzo delle fonazioni prodotte dalla laringe durante la fase espiratoria. Nel pianto abbiamo un alternarsi di fasi inspiratorie durante le quali la glottide è completamente chiusa e fasi espiratorie durante le quali la glottide è completamente aperta. La chiusura e apertura veloce delle corde vocali (tra i 250 e 450 cicli per secondo in un bambino appena nato con sviluppo tipico) dovuta alla pressione dell’area produce una vibrazione che è generalmente percepita come il picco del pianto (LaGasse et al., 2005). Sono state identificate tre modalità di pianto, sulla base delle diverse vibrazioni delle corde vocali e del modo diverso di alternarsi delle fasi di respirazione e di pausa; a ognuna di esse viene attribuito un significato diverso (Wolff, 1969; Golub, 1989; LaGasse et al., 2005). a) pianto base, chiamato anche frequenza fondamentale, che esprime lo stimolo della fame; è caratterizzato da vocalizzazioni ritmiche e ripetitive con cicli di apertura e chiusura delle corde vocali che variano dai 250 ai 450 Hz al secondo; b) alto picco di pianto o iperfonazione (cicli di 1000-2000 Hz al secondo), connotato come pianto di dolore che ha un inizio improvviso, grido iniziale lungo e prolungato trattenimento del respiro; c) pianto turbolento (disfonazione, ossia vibrazione delle corde vocali fastidiosa e


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non armonica) connotato come pianto di rabbia con vocalizzazione forte e prolungata. Queste modalità di pianto sono presenti nei bambini con sviluppo tipico e le forme sono uguali in tutte le culture perciò è stato ipotizzato che è possibile individuare una specifica area cerebrale adibita a questa regolazione (Barr, 1991). In particolare LaGasse et al. (2005) hanno evidenziato che il pianto di un neonato deriva da una stimolazione avversa interna o esterna e che è prodotto dalla coordinazione di diverse regioni cerebrali tra cui la zona tronco-encefalica, l’area mediana e il sistema limbico. La parte più bassa del tronco controlla i muscoli della laringe, mentre il sistema limbico e l’ipotalamo contribuiscono all’inizio del pianto, il mesencefalo alla configurazione del pianto e il sistema di attivazione reticolare nella coordinazione motoria della respirazione e della laringe (Zeskind e Lester, 2001). In effetti, considerata la stretta connessione tra il pianto ed il funzionamento della zona tronco-encefalica e del sistema libico, aree decisamente compromesse nei soggetti con ASD (Amaral, Schumann e Nordahl, 2008; Schulkin, 2008), sarebbe ovvio aspettarsi delle anomalie e irregolarità nel pianto in questi bambini. Va inoltre considerato che nei colloqui anamnestici con genitori che hanno figli con ASD, il pianto assume sempre una notevole importanza ed è descritto come angosciante e difficilmente calmabile. È nato da ciò il nostro interesse a verificare e analizzare la struttura del pianto di un bambino con ASD ed in particolare l’analisi della frequenza fondamentale ossia del picco del pianto di base e la sua evoluzione nel corso dei primi due anni di vita del bambino. Esposito e Venuti (2010), analizzando 450 episodi di pianto di bambini con sviluppo tipico seguiti longitudinalmente dai 5 ai 20 mesi, hanno evidenziato che esistono differenze significative delle frequenze fondamentali nelle tre età. In particolare la f0 dei bambini a 5 mesi aveva una media di 526.89 Hz, e dev. standard di 155.95, la f0 di bambini di 13 mesi aveva una media di 470.96 Hz, con dev. standard di 136.12 e a 20 mesi la media era di 455.61 Hz, con dev.standard di 132.08. Analisi statistiche post-Hoc hanno messo in luce che il pianto dei bambini di 5 mesi aveva una f0 statisticamente più alta di quella dei bambini a 13 e 20 mesi. Si è così evidenziato che la f0 diminuisce nel passaggio dal primo al secondo anno. Nel nostro lavoro abbiamo voluto quindi verificare se questo andamento si manteneva anche nei soggetti con ASD; abbiamo studiato 42 bambini (14 con sviluppo tipico, 14 con autismo e 14 con disabilità intellettiva) durante il primo ed il secondo anno di vita, analizzando i loro filmati familiari, ossia le riprese amatoriali fatte dai genitori prima di avere la diagnosi di autismo. Abbiamo analizzato complessivamente 240 episodi di pianto (80 di ASD; 80 di bambini con sviluppo tipico, 80 di bambini con disabilità intellettiva) della durata media di 24 secondi (dev. standard 9 sec.). Le analisi spettrografiche degli episodi di pianto sono state effettuate utilizzando il software Praat (Boersma e Weenink, 2005). Nello specifico si È utilizzata la LTAS (Long Term Average Spectrum, Lin e Green, 2007) per avere informazioni circa la frequenze in Hz degli episodi di pianto. La LTAS è stato in passato utilizzata per discriminare le caratteristiche del pianto di diversi tipologie di bambini (Lin e Green, 2007; Esposito e Venuti, 2010). Tra le varie frequenze disponibili si è deciso di consi-


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derare la FSP (First Spectral Peak) che è una stima della frequenza fondamentale (f0) dell’intero episodio di pianto. I risultati evidenziano che mentre i soggetti con sviluppo tipico e disabilità intellettiva diminuiscono la frequenza fondamentale tra il 5° ed il 18° mese, i bambini con ASD mantengono la stessa f0 [figura 1]. I risultati di questo lavoro evidenziano che la struttura degli episodi di pianto nei bambini con ASD segue un andamento diverso da quello dei bambini con sviluppo tipico o con altra disabilità e probabilmente ciò potrebbe indurre delle incomprensioni degli adulti che lo ascoltano e potrebbe spiegare la difficoltà, spesso riportata dai genitori nel corso dei colloqui clinici, a calmare e capire il pianto dei loro figli. Lavori di Huffman e colleghi, (1998) hanno messo in luce che generalmente frequenze più alte di pianto sono percepite come negative e angoscianti rispetto ai pianti con frequenze più basse; ciò supporta l’ ipotesi che le frequenze alte del pianto dei bambini con ASD, diverse dalle frequenze degli altri bambini, possano indurre nei caregivers una difficoltà nel comprendere e soddisfare i bisogni espressi con il pianto, conducendo ad uno stato di generale difficoltà di contatto sia il bambino, che non riceve supporto e soddisfacimento da parte dell’adulto, sia lo stesso caregiver che comincia a sentirsi incapace di supportare il bambino. Questa idea, già sostenuta da una precedente ricerca (Esposito e Venuti, 2008) in cui si era chiesto ai genitori di esprimere i loro stati d’animo nel sentire differenti tipi di pianto, è stata confermata in un nuovo lavoro in cui si sono manipolati episodi di pianto modificandone la frequenza fondamentale e chiedendo a chi lo ascolta sensazioni e stati d’animo (Esposito e Venuti, 2010). Gli episodi sono stati manipolati partendo da un pianto base di un bambino di 6 mesi con sviluppo tipico e aumentando o diminuendo sia la frequenza fondamentale che la durata delle pause, ottenendo così dei campioni di pianto alterati che sono stati fatti ascoltare a 100 adulti. I risultati hanno evidenziato che le modificazioni non influiscono sulla percezione dell’età del bambino, percepita sempre correttamente intorno a 5 mesi, ma influiscono notevolmente nel determinare il disagio ed il fastidio che si prova ascoltando il pianto: più è elevata la frequenza più fastidio e disagio viene provato. Questi risultati ottenuti con una metodologia sperimentale e con un maggior controllo delle variabili supportano comunque il dato che il pianto di bambini con ASD per le sue caratteristiche morfologiche e funzionali, determinate probabilmente dalle alterazioni del sistema limbico, risulta fastidioso e di difficile comprensione per i genitori e gli adulti che lo ascoltano. 2. La gestualità nei bambini con ASD I gesti predicono e preparano lo sviluppo comunicativo e linguistico ed hanno un ruolo centrale nella comprensione intersoggettiva (Capirci et al., 2010). Si tratta di forme comportamentali che sfruttano la motricità del bambino, parzialmente trasformandola: attraverso i gesti, infatti, il movimento perde la funzione per cui è nato: non è un movimento strumentale usato per compiere azioni sulla realtà fisica, ma diventa un movimento comunicativo che ha la funzione di influenzare la realtà sociale. I gesti comunicativi assumono fin dall’inizio dello sviluppo ontogenetico un


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ruolo importante nella comunicazione, grazie alla loro relazione privilegiata con il linguaggio. Attraverso l’utilizzo dei gesti il bambino è attivo nella comunicazione, dice senza parlare. I gesti si strutturano lentamente durante i primi anni di vita di un bambino seguendo delle tappe ben delineate (Capirci et al., 2010) – a 9-12 mesi emergono i gesti performativi o deittici: indicare, mostrare, dare, offrire, richiedere; essi esprimono una chiara intenzione comunicativa, richiestiva o dichiarativa, ed il loro significato può essere ricavato in relazione al contesto in cui vengono eseguiti. Tali gesti sono quasi sempre distali e sono solitamente accompagnati dallo sguardo del bambino che si alterna tra l’adulto e l’oggetto; – tra i 12 e i 18 mesi si affermano i gesti referenziali o rappresentativi i quali includono i gesti convenzionali/interattivi, o emblematici, come fare ciao con la mano; scuotere la testa per “si” o “no” e i gesti iconicamente collegati alle azioni abitualmente eseguite dal o col referente (ad esempio portare la mano ai capelli per “pettinare”). Questi gesti non implicano l’uso di un oggetto come nel caso di schemi di gioco simbolico, hanno piuttosto la funzione di simbolizzare un referente o un’azione solitamente eseguita col referente. I bambini con ASD mostrano gravi compromissioni nella comunicazione verbale e non verbale, ed in particolar modo nella produzione di gesti comunicativi. La presenza di deficit nell’utilizzo della gestualità per fini comunicativi è ampiamente affermata dalla letteratura clinica sull’autismo (de Marchena e Eigsti, 2010). Compromissioni nella produzione gestuale sono evidenti dai punteggi in misure diagnostiche quali l’Autism Diagnostic Observation Schedule (Lord et al., 2002) l’Autism Diagnostic Interview (Lord et al., 1994) e l’ M-CHAT (Robin et al., 2001) in cui l’assenza o la scarsa frequenza del gesto è valutata come sintomatica. Nonostante questi dati e l’evidente centralità della comunicazione gestuale nell’autismo (McNeill e Mostofsky, 2012), tale campo di ricerca risulta ad oggi ancora parzialmente inesplorato, con risultati scarsi e spesso contrastanti come emergerà nella rassegna degli studi presentata in questo paragrafo. Ciò è un peccato in quanto a nostro parere la comprensione della comunicazione gestuale nella sua complessità potrebbe contribuire alla maggiore comprensione delle compromissioni socio-comunicative nei bambini con DSA e dare intuizioni su approcci terapeutici potenzialmente differenziati. Lo sviluppo della gestualità nell’autismo segue effettivamente un andamento del tutto peculiare sia rispetto allo sviluppo tipico (Luyster et al., 2007) sia rispetto all’andamento presente in altre popolazioni con sviluppo atipico, come nel caso dei disturbi specifici del linguaggio, della sindrome di Down e della sordità congenita. Nei bambini con queste patologie i gesti costituiscono infatti un’importante via di comunicazione alternativa per compensare i deficit nello sviluppo linguistico (Stefanini et al., 2007; Thal e Tobias, 1992; Capirci et al., 2007). Nel caso dei disturbi dello spettro autistico, invece, le limitazioni nella comunicazione verbale non sono compensate dall’utilizzo del gesto che, al contrario, si dimostra particolarmente povero sia relativamente alla frequenza della sua utilizzazione che alla qualità della sua esecuzione, a conferma dei deficit generalizzati nell’interazione sociale che caratterizzano questi bambini (Wetherby, 2007). I pochi studi presenti in letteratura sulla


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comunicazione gestuale nell’autismo indagano il gesto principalmente in relazione all’attenzione condivisa e al riferimento sociale (Carpenter et al., 2002; Paparella et al., 2011; Shumway e Wetherby, 2009), trascurando altre tipologie di gesti e gli aspetti qualitativi che li caratterizzano. Analizzando lo sviluppo dei gesti, la letteratura riporta che i bambini con autismo raggiungono sì un certo livello di produzione gestuale ma che esso è caratterizzato da azioni ritualizzate e gesti strumentali (Camaioni e Perucchini, 2001) ed è complessivamente ridotto e compromesso rispetto a gruppi di controllo sia con sviluppo tipico che con altri disturbi (Dewey et al., 2007). Uno dei primi studi pilota che ha dedicato grande attenzione allo sviluppo della comunicazione non-verbale in bambini con disturbo dello spettro autistico è stato compiuto da Ricks e Wing nel 1975 i quali notarono come tali forme di comunicazione non venissero utilizzate in maniera naturale. Nel loro studio i bambini utilizzavano gesti molto concreti in cui l’adulto era usato come uno strumento per soddisfare le loro richieste. Inoltre dall’analisi dell’indicazione emerse che la forma richiestiva del gesto era molto più sfruttata di quella dichiarativa. L’uso di gesti sembrava modificarsi poco nel corso dello sviluppo e spesso i tentativi fatti per insegnare loro dei nuovi gesti non sortirono gli effetti sperati. L’elemento forse più interessante che emerge dal loro studio è la mancanza, nei bambini con ASD, dell’uso di gesti come sostituto o accompagnamento del parlato, seppur in presenza di deficit linguistici, differenziandosi così radicalmente rispetto ai bambini sordi o con disturbi specifici del linguaggio. Questo sembra indicare che la gestualità costituisce un elemento chiave ed altamente specifico per la precoce comprensione dell’autismo (Ricks e Wing, 1975). Un successivo studio di Lord (1995) ha sottolineato come il pattern di comunicazione gestuale sembrasse variare in base allo sviluppo cognitivo generale del bambino e alla gravità dei sintomi autistici: più questi sono deficitari e compromessi, maggiori sono le difficoltà comunicative che coinvolgeranno quindi la comunicazione gestuale. Stone e collaboratori (1997) analizzando un gruppo di bambini tra i 2 ed i 3 anni hanno indagato la tipologia dei comportamenti comunicativi non-verbali cercando di distinguere tra funzioni e forme comunicative. I gesti sono stati classificati dal punto di vista qualitativo, trovando che i bambini con ASD, rispetto ai controlli con ritardo dello sviluppo e del linguaggio, utilizzano poco gesti come mostrare oggetti ed indicare, commentano meno e modulano poco lo sguardo. Gesti richiestivi sono invece più frequenti e coinvolgono anche maggiormente l’adulto del quale viene manipolata la mano per esprimere richieste. Le evidenze fin qui riportate ritornano anche in recenti risultati, dai quali emerge che nei bambini con disturbo autistico vi sia una prevalenza di gesti che esprimono funzioni di regolazione comportamentale rispetto a propositi dichiarativi (Maljaars et al., 2011). Davanti all’evidenza che le difficoltà nell’uso dell’indicare dichiarativo non siano dovute a fattori motori, confermata dalla presenza dell’indicazione con funzione richiestiva o del pointing in contesti non comunicativi, come l’indicare per sé utilizzato come un meccanismo attenzionale di auto-direzione (Camaioni et al., 2003), si conferma l’ipotesi che alla base vi sia un deficit nella condivisione dell’attenzione e nella comprensione dell’altro come persona con la quale condividere l’interesse. Questa


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ipotesi è coerente con il dato che l’attenzione condivisa e l’intenzione comunicativa dichiarativa sembrano degli ottimi predittori per il successivo sviluppo linguistico (Tager-Flusberg, 2005). Le ricerche esistenti sono, effettivamente principalmente incentrate sull’analisi di gesti che presuppongono l’attenzione condivisa o il suo deficit, come l’indicazione dichiarativa ed il gesto del mostrare, in cui il gesto costituisce il tramite per lo studio dell’attenzione congiunta e non viene considerato come modalità comunicativa di per sé (Butterworth e Grover, 1990; Paparella et al., 2011). Altre funzioni gestuali legate allo sviluppo del pensiero simbolico (gesti rappresentativo/ iconici) ed alla pragmatica della comunicazione (gesti pragmatici e convenzionali) sono però aspetti tutt’ora trascurati. Dai diversi studi sulla comunicazione gestuale nei bambini con disturbo dello spettro autistico (Camaioni et al., 2003; Colgan et al., 2006), emerge invece l’importanza di un sistema di classificazione globale e completo che possa consentire una dettagliata analisi delle diverse funzioni del gesto e che consenta di descriverne gli aspetti più qualitativi. Le ricerche che abbiamo iniziato ad attivare in collaborazione con il CNR, hanno lo scopo di individuare e studiare gli elementi salienti che caratterizzano la comunicazione gestuale dei bambini con ASD all’interno di scambi interattivi con la madre e all’interno di sedute di tipo clinico riabilitativo. In un primo studio si è indagata la comunicazione gestuale all’interno di contesti di interazione spontanea di gioco madre-bambino attraverso un protocollo osservativo di analisi del gesto (Capirci et al., 2007, 2008). I principali aspetti della comunicazione gestuale indagati dalla griglia di codifica sono: – le tipologie di gesto prodotte dal bambino (ad esempio, deittici, convenzionali, rappresentativi, pragmatici); – le specifiche caratteristiche del gesto di indicare, ovvero le diverse modalità con cui esso viene eseguito (ad esempio, la modalità distale, prossimale, di contatto); – caratteristiche legate alla qualità dei gesti prodotti, come la parte del corpo, lo spazio di esecuzione e la direzione dello sguardo; – le tipologie del gesto prodotte dalla madre; – i richiami d’attenzione utilizzati dalla madre nei confronti del proprio bambino. Questa griglia osservativa è stata applicata all’analisi di 30 interazioni di bambini con ASD con le loro madri. I bambini avevano una età media di 48 mesi. All’interno del campione abbiamo distinto tra bambini con autismo ad alto e basso funzionamento per valutare se ci fossero differenze nella comunicazione gestuale nei bambini con disturbi dello spettro autistico ad alto funzionamento cognitivo confrontati con quelli a basso funzionamento. Allo stesso modo è stata compiuta un’analisi per capire se vi fosse una differenza nella modalità comunicativa materna in relazione allo sviluppo cognitivo del bambino. Infine, è stata esaminata l’ipotesi di correlazioni specifiche tra le modalità di comunicazione gestuale nei due gruppi ed i punteggi delle sottoscale Griffiths e ADOS che misurano lo sviluppo comunicativo, relazionale, cognitivo e motorio. Confrontando i due gruppi in base alla tipologia dei gesti prodotti, è emerso che


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i bambini ad alto funzionamento cognitivo utilizzano un maggior numero di gesti deittici (in particolare, gesti di indicare e gesto del mostrare) e di gesti nominali, mentre i bambini a basso funzionamento presentano una maggior produzione di gesti oppositivi e strumentali. I gesti convenzionali e rappresentativi, si presentano in una frequenza molto bassa nell’intero campione. Considerando gli aspetti che caratterizzano il gesto da un punto di vista più qualitativo, ed analizzando la direzione dello sguardo che accompagna il gesto è emerso che i bambini con un livello di sviluppo più alto usano un numero maggiore di sguardi alternati al partner, e pochi sguardi vaganti. È importante precisare che lo sguardo all’oggetto focus risulta la modalità più utilizzata durante gli episodi gestuali nell’intero campione. Tale risultato conferma le atipie nell’attenzione selettiva caratteristiche dei bambini con disturbo dello spettro autistico sugli oggetti e la scarsa modulazione dimostrata da molti studi sull’eyetracking (Boraston e Blakemore, 2007). Dalle correlazioni tra punteggi nell’ADOS (in particolare la sottoscala del linguaggio) e la produzione gestuale è emerso che il gesto di indicazione viene prodotto maggiormente dai bambini con un minor livello di gravità in quest’area. Il livello di gravità di autismo è quindi un fattore determinante della produzione gestuale. Una correlazione interessante emerge, inoltre, tra le scale Griffiths (in particolare la sottoscala della comunicazione) e la produzione gestuale, per cui quanto più è alto il livello comunicativo quanto più è alto il numero di gesti prodotti, in particolare il gesto del dare e del mostrare. Questa correlazione suggerisce che ad un livello comunicativo generale più sviluppato corrisponde anche una comunicazione gestuale basata su gesti deittici rivolti al partner. Analizzando, inoltre, le strategie comunicative gestuali utilizzate dalle madri durante l’interazione con i propri figli, emerge che le madri dei bambini con un livello di sviluppo più basso tendono ad utilizzare maggiormente gesti di richiesta e gesti del mostrare, quindi gesti che hanno l’obiettivo di richiamare l’attenzione del bambino. Tale risultato, farebbe ipotizzare che la modalità comunicativa materna si adegui al livello di sviluppo generale del figlio. Questo dato è in linea con quanto riportato in letteratura dagli studi che hanno indagato gli stili comunicativi genitoriali in rapporto al livello di sviluppo comunicativo del bambino (Siller e Sigman, 2002, 2008) e con gli studi che indagano la sincronia madre-bambino ed il ruolo della disponibilità emotiva materna in situazioni di gioco nei bambini con sindrome di Down (Venuti et al., 2008). Un secondo tipo di studi è di ambito più clinico e vede l’applicazione della medesima griglia di codifica osservativa dei gesti a sedute di supporto alla genitorialità che hanno assunto negli ultimi anni una rilevanza sempre maggiore nella presa in carico dei bambini con ASD (Vismara et al., 2008), considerato che diversi studi hanno evidenziato come alcune competenze evolutive del bambino autistico, incluse quelle linguistiche, correlino fortemente con gli stili interattivi genitoriali (Siller et al., 2008). Alcuni dei nostri interventi clinici si stanno indirizzando a sedute congiunte terapeuta - genitore - bambino per sintonizzare le modalità di interazione del


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genitore con il livello di sviluppo del bambino rispetto all’acquisizione della capacità di “triangolare” l’attenzione e dei suoi precursori (Mundy, 2007). La strutturazione sia della ricerca che dell’ intervento prevedono: 1) osservazione in un contesto di gioco libero delle modalità spontanee di interazione genitore-bambino (2) incontri specifici di supporto ai genitori centrati sull’attivazione dell’interazione e di scambi reciproci (3) rivalutazione dell’interazione spontanea. Le sedute sono videoregistrate e la loro efficacia è misurata applicando ad esse la griglia di codifica dei gesti presentata prima (Capirci et al., 2007, 2008), presupponendo che un miglioramento nella loro produzione sia di tipo quantitativo che qualitativo. Il lavoro è stato attualmente completato su 3 soggetti (Cuva et al., 2011; Cuva et al., in preparazione; Venuti et al., 2011) con profili di funzionamento differenti (bambino di 26 mesi con disturbo multi sistemico; bambino di 60 mesi con DSA e grave ritardo cognitivo; bambino di 72 mesi con disturbo generalizzato di tipo autistico). È stato possibile registrare un’evoluzione dei gesti comunicativi sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Si è evidenziata, infatti, una crescita significativa del numero di gesti comunicativi distali e l’emergenza dei gesti del mostrare rivolti alla madre, entrambi accompagnati dallo sguardo al partner e da espressioni emotive positive. Attraverso una prima analisi del gesto è stato possibile evidenziare un miglioramento delle competenze gestuali in entrambi i bambini: è aumentato il numero di gesti prodotti e la qualità nell’eseguirli, con particolare riferimento all’accuratezza degli sguardi che li accompagnano, maggiormente alternati tra partner e oggetto alla fine del percorso. Conclusioni La ricerca internazionale, ed i contributi di ricerca da noi presentati, evidenziano come la compromissione comunicativa ed in particolare gli aspetti non verbali, siano un aspetto centrale dei disturbi dello spettro autistico e come sia necessaria lavorare su questo tema nell’ambito degli interventi riabilitativi e terapeutici (Venuti, 2012). Le modalità di lavoro sono ovviamente diverse e legate ovviamente alla precocità della diagnosi. In primo luogo ci sembra che una indicazione importante, che può essere condivisa con pediatri e professionisti delle cura nella prima infanzia, provenga dalle nostre ricerche sul pianto. L’indicazione che emerge è quella di prestare attenzione, o meglio una maggiore attenzione, a cosa riportano i genitori circa il pianto dei loro figli, un pianto inconsolabile e incomprensibile può non essere sempre il frutto di una madre ansiosa e non capace, bensì di un disturbo neurologico del bambino, che va capito e trattato sul piano comportamentale da professionisti esperti in questo ambito. In secondo luogo, ribadendo due aspetti generali, noti ma molto importanti - che lo “spettro autistico” racchiude bambini con caratteristiche molto eterogenee e che l’intervento dovrebbe seguire dei criteri di intensità, precocità e sintonizzazione sulla fase evolutiva (LG SINPIA 2005) - sottolineiamo che una ricerca approfondita sui gesti potrebbe rivelarsi utile per aiutare a discriminare tra i diversi sottotipi di autismo, strutturare protocolli di intervento che facciano leva su alcuni punti di forza


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comuni nei bambini autistici – ad esempio la memoria e la ripetitività – e favorire la messa a punto di protocolli di intervento mirati alla specifica fase evolutiva del bambino, per esempio per lo sviluppo dei gesti di attenzione congiunta nelle prime fasi di presa in carico (Cuva et al., 2011; Cuva et al., in preparazione). Riassunto Quest’articolo ha lo scopo di presentare alcune delle più attuali linee di ricerca nel campo dei disturbi dello spettro autistico, ritenute particolarmente utili per la comprensione delle compromissioni sociocomunicative specifiche di questa popolazione clinica. In particolare si farà riferimento (1) agli studi sulle alterazioni precoci del pianto, inteso come segnale comunicativo precoce e primario, innesco d’importanti configurazioni interattive e potenziale precursore di altre, successive, compromissioni – ad esempio le alterazioni della prosodia del linguaggio parlato (2) agli studi sullo sviluppo della comunicazione gestuale, con il duplice obiettivo da una parte di valutare le attuali prospettive sull’uso di un’ampia gamma di tipologie gestuali nell’autismo oltre a quella, già molto studiata, dei gesti di attenzione congiunta, e dall’altra di considerare, oltre agli aspetti quantitativi della produzione gestuale anche quelli qualitativi della loro esecuzione. Dal nostro punto di vista, infatti, un’indagine più approfondita all’uso dei gesti nei bambini con disturbo dello spettro autistico potrebbe contribuire ad una maggiore comprensione delle compromissioni socio-comunicative e fornire importanti insight per la strutturazione di interventi terapeutici mirati. Parole chiave Autismo – Pianto – Gesti.

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Stabilità della diagnosi e profili di sviluppo nei soggetti con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato. Uno studio di follow up Diagnosis stability and developmental profiles in PDD NOS. A follow up study Francesca Lasorsa*, Caterina D’Ardia*, Sergio Melogno*

Summary PDD NOSs show very varying neurocognitive, developmental and behavioural profiles, but most evidently they produce very different prognoses. International literature recognizes phenotypic variance co-existing within the same Pervasive Developmental Disorder. Few research projects have actually tried to develop proper diagnostic criteria for this category, wich is often considered to be slighter form of autistic disorder. The improvement in autistic symptoms, as pointed out in study results, is at any rate accompanied by a 63% stability in diagnosis. The performance of symptomatic triad shows an improvement in the area of social interaction, whereas atypical behaviours are constant in the areas of communication and stereotyped behaviours. By describing characteristic features evolving overtime, the study of developmental profiles has therefore tried to produce specificity to this diagnostic category. Key words Diagnosis stability – Developmental profiles – PDD NOS.

Premessa All’interno della categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo Non Altrimenti Specificati (DPS NAS) sono inclusi generalmente quei soggetti che presentano atipie nelle aree dello sviluppo della comunicazione, dell’interazione e dell’immaginazione che non possono essere spiegate dal profilo cognitivo e che non sono tali da permettere una diagnosi di autismo classico (DSM-IV-TR, 1994; Levi e D’Ardia, 2006) I DPS NAS evidenziano dati interessanti sia a livello epidemiologico (sono il gruppo con maggiore prevalenza tra tutti i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo - DPS), sia a livello clinico (sono i quadri con maggiore variabilità di presentazione clinica, mobilità e trasformabilità dei sintomi, e con un livello cognitivo meno compromes* Dipartimento

di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.


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so rispetto all’autismo) sia infine, a livello terapeutico (Towbin, 2005). Nonostante all’apparenza i quadri NAS siano “meno gravi” dell’autismo classico, sono a forte rischio di evolvere in forme con forte componente autistica o psicopatologica. Conoscere quali possano essere i tipi clinici, i profili di sviluppo, le caratteristiche personali, le potenzialità spontanee e le variabilità dei comportamenti, permette di programmare interventi basati sui punti di forza e di debolezza e le strategie da adottare (D’Ardia e Fabrizi, 2007; Diomede et al., 2009). Il problema della stabilità della diagnosi dei DPS è stato al centro di numerose ricerche degli ultimi anni e questo per rispondere ad una duplice esigenza: A) Verificare l’accuratezza e la validità della diagnosi effettuata in età precoce. B) Fornire un quadro dettagliato della sintomatologia durante lo sviluppo, attraverso la descrizione dei cambiamenti nelle diverse fasce d’età. Più volte è stato dimostrato, infatti, che una diagnosi precoce e un intervento tempestivo possono condurre ad una miglior prognosi, e quindi ad un miglioramento nel linguaggio, nelle abilità sociali, nel funzionamento adattativo e ad una riduzione dei comportamenti maladattivi (Prizant e Wetherby, 1988; Lord, 1995; Harris e Handleman, 2000), inoltre, la conoscenza dei cambiamenti evolutivi nei bambini con DPS fornisce informazioni sull’assenza o presenza di un determinato sintomo in un determinato periodo evolutivo (Fecteau et al., 2003). Gli studi sulla stabilità della diagnosi dei DPS utilizzano o un approccio prevalentemente categoriale o più di tipo dimensionale. Tra quelli di tipo prevalentemente categoriale, è emersa una buona stabilità della diagnosi di autismo (intorno al 76%) tra i 2 e i 9 anni (Cox et al., 1999; Stone et al., 1999; Charman e Baird, 2002; Moore e Goodson, 2003; Eaves e Ho, 2004; Charman et al., 2005; Lord et al., 2006; Turner et al., 2006; Chawarska et al., 2007; Jonsdottir et al., 2007; Sutera et al., 2007; Turner e Stone, 2007; Kleinman et al., 2008; Mahli e Singhi, 2011), confermata anche dagli studi di follow up effettuati in adolescenza (Billstedt et al., 2005; McGovern e Sigman, 2005) e in età adulta (>16 anni) (Cederlund et al., 2008). Mentre, nel caso dei DPS NAS, è stata osservata oltre ad una minore stabilità (circa il 35% a seconda dei vari studi), la presenza di risultati alquanto discordanti tra le varie ricerche (Stone et al., 1999; Eaves e Ho, 2004; Lord et al., 2006; Turner et al., 2006; Sutera et al., 2007; Turner e Stone, 2007; Kleinman et al., 2008). La maggior parte di questi studi (Stone et al., 1999; Eaves e Ho, 2004; Lord et al., 2006; Turner et al., 2006; Sutera et al., 2007; Turner e Stone, 2007; Kleinman et al., 2008) riporta una percentuale di stabilità della diagnosi di DPS NAS al di sotto del 45%, ma vi sono studi, come quello di Chawarska e collaboratori del 2007, in cui veniva riconfermata la diagnosi di NAS nella totalità dei bambini (appare tuttavia importante sottolineare come questo lavoro nello specifico riguardi un piccolo gruppo di 9 casi). Due ricerche italiane (Militerni et al., 2007; Santocchi et al., 2010) calcolano una “instabilità” della diagnosi di DPS NAS rispettivamente intorno al 50% e al 20%, se tale diagnosi viene posta prima dei 4 anni di età.


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Una meta-analisi condotta da Woolfenden e collaboratori (2012) evidenzia che: se la diagnosi di DPS NAS viene effettuata prima dei 3 anni solo il 22% dei bambini riceve la stessa diagnosi al follow up; mentre, in una percentuale che varia tra 0 al 53%, non riceve più una diagnosi di DPS NAS e, invece, ricevono una diagnosi di autismo tipico (e non più di NAS) un gruppo di bambini che arriva fino a più del 50%. Diversamente con diagnosi effettuate tra i 3 e i 5 anni dal 54% al 73% dei bambini diagnosticati DPS NAS mantengono la stessa diagnosi, dallo 0 al 5% “escono” completamente dai DPS e dal 27 al 41% ricevono una diagnosi di autismo tipico. Infine, sopra i cinque anni la stabilità della diagnosi di DPS NAS cresce fino al 76%. Le discrepanze rilevate nei diversi lavori vengono, in parte, spiegate dalle differenze metodologiche utilizzate nei disegni di ricerca (campioni di età differente, età diverse al momento della prima diagnosi; periodo intercorso tra la prima e la seconda valutazione; strumenti differenti utilizzati per la valutazione; impiego di sistemi nosografici diversi), ma sono anche legate all’ambiguità diagnostica di questa categoria, alla bassa stabilità dei sintomi o a possibili differenze nella risposta al trattamento. La prospettiva dimensionale, d’altro canto, tende a prendere in considerazione le variazioni nel tempo dell’espressività dei sintomi tipici, o dei nuclei sintomatologici (della compromissione dell’interazione sociale, del deficit della comunicazione e le atipie delle attività e degli interessi) al fine di fornire un quadro della sintomatologia sia in termini di gravità sia in termini di qualità durante lo sviluppo. A livello generale si osserva, con l’andamento evolutivo, un miglioramento della sintomatologia autistica, maggiormente riscontrabile nell’area della comunicazione e dell’interazione (Fecteau et al., 2003; Starr et al., 2003; Charman et al., 2005; McGovern e Sigman, 2005; Jonsdottir et al., 2007; Shattuck et al., 2007; Moss et al., 2008; Paul et al., 2008) e poco evidente nell’area dei comportamenti stereotipati ed interessi ristretti (Fecteau et al., 2003; Starr et al., 2003; Charman et al., 2005; Turner e Stone, 2007; Moss et al., 2008). Nonostante l’andamento generale, anche in questo caso i risultati tra le varie ricerche appaiono discordanti, confermando un’estrema variabilità dei quadri patologici. In particolare, studi più recenti, hanno dimostrato come il miglioramento nelle abilità sociali e il calo dei comportamenti stereotipati si osservi solo nei gruppi che modificano la diagnosi (da Disturbo Autistico a DPS NAS) (Sutera et al., 2007; Itzchak et al., 2009). Il lavoro di Paul et al. (2008) evidenzia come ci sia un miglioramento nelle abilità linguistiche dai 2 ai 4 anni. Altre ricerche hanno sottolineato come sembrerebbe esserci un rapporto tra livello di sviluppo, età cronologica e sintomatologia poichè alcuni sintomi sono maggiormente presenti solo in determinate fasce di età o stadi dello sviluppo. Ad esempio, sintomi come l’uso del corpo dell’altro per comunicare o un uso ripetitivo di oggetti sono utili per la diagnosi dei bambini più piccoli, ma sono meno rilevanti per i bambini più grandi, poiché sono raramente trovati in quest’ultimo gruppo. Al contrario, i rituali verbali possono essere osservati solo tra i bambini più grandi e non sono quindi rilevanti per una diagnosi precoce (Fecteau et al., 2003).


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Nello studio di Militerni e collaboratori (2007), gli autori dimostrano come comunicazione e interazione sociale reciproca presentino un’evoluzione positiva, anche se quest’ultima di grado più modesto, mentre un andamento differente da caso a caso è emerso nell’area delle attività e interessi atipici. I punteggi relativi a quest’area, valutati con l’ADOS, in alcuni casi migliorano, in altri peggiorano, per la comparsa di comportamenti atipici non presenti alla prima osservazione e, in altri ancora, sono risultati stazionari, ma con sensibili modifiche dell’espressività della sintomatologia all’interno delle diverse dimensioni considerate. Il lungo follow up di McGovern e Sigman (2005) sottolinea come i comportamenti ripetitivi e gli interessi stereotipati sono meno frequenti in adolescenza, periodo in cui si osserva un miglioramento anche nell’area della socializzazione. Il limite presente nella maggior parte di queste ricerche è stato principalmente la mancanza di differenziazione dei profili evolutivi tra le diverse categorie dei DPS (Autismo, Asperger, DPS NAS), unificando in un unico quadro l’andamento evolutivo di tale patologia attraverso le varie fasce d’età. Inoltre negli studi di letteratura, il gruppo dei DPS NAS è stata sempre meno rappresentato rispetto agli altri quadri DPS, non rispettando così i dati epidemiologici che considerano i DPS NAS come la categoria con una maggiore prevalenza all’interno dei DPS (Autismo con/senza RM: 13 su 10000; DPS NAS 20-26 su 10000) (Fombonne, 2005). Obiettivo Il presente lavoro si propone di indagare la stabilità della diagnosi di DPS NAS posta in età prescolare e di valutare la sintomatologia dei bambini con DPS NAS nelle aree di sviluppo comunicativa/linguistica, interattiva e comportamentale e la loro evoluzione nel tempo. Soggetti e metodi Lo studio è stato condotto su un gruppo di bambini afferiti nel periodo da ottobre 2008 a novembre 2010 al Centro di Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Roma “La Sapienza”, per sospetto DPS e che hanno ricevuto una diagnosi di DPS NAS. Tutti i bambini hanno effettuato una valutazione completa secondo un protocollo per i Disturbi dello Sviluppo che prevede: − Una raccolta anamnestica relativa alla storia clinica del bambino con particolare attenzione alle tappe dello sviluppo della comunicazione verbale e non, delle capacità interattive, simboliche e delle competenze motorio prassiche. − La valutazione della sintomatologia attuale, con particolare attenzione ai quadri di DPS, attraverso l’utilizzo di strumenti standardizzati, e la determinazione dei diversi profili di sviluppo neuropsicologici e neurocognitivi, sempre con strumenti validati. Tali strumenti sono stati selezionati in rapporto all’età, al livello di sviluppo e a particolari indicazioni derivanti dal quadro clinico.


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La sintomatologia DPS è stata valutata attraverso la somministrazione di strumenti standardizzati fra cui l’Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS; Lord et al., 2001), basato sull’osservazione diretta del bambino, l’ADI-R (Lord et al., 1994) e il Social Communication Questionnaire (SCQ; Rutter et al., 2003), basati sulle informazioni fornite dai genitori. Questi strumenti sono stati utilizzati per quantificare la gravità della sintomatologia autistica e in particolare per la valutazione delle competenze interattive e comunicative, delle abilità di gioco e difficoltà comportamentali, anche se al fine della diagnosi è stato considerato il giudizio clinico come “gold standard”, in accordo con i dati presenti in letteratura (Charman e Baird, 2002; Volkmar, Chawarska, Klin, 2005). La valutazione delle competenze cognitive è stata effettuata con la scala Leiter International Performance Scale (Leiter-R; Roid e Miller, 1997) o le scale Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence-Revised (WPPSI; Wechsler, 1990) e Wechsler Intelligence Scale for Children-III edition (WISC-III; Wechsler, 2006) a seconda dell’età e del livello di sviluppo dei bambini. Le competenze comunicativo linguistiche, con particolare attenzione al livello di comprensione verbale raggiunto, di produzione verbale e all’utilizzo di queste funzioni, sono state valutate attraverso la somministrazione di specifiche Scale di sviluppo: – Test di Valutazione del Linguaggio TVL (Cianchetti e Fancello, 1997), per la comprensione verbale; – Test di Valutazione della comprensione morfogrammaticale Rustioni (1994). Le competenze motorio prassiche sono state valutate attraverso il test di integrazione visuo-motoria (VMI, Beery e Buktenica, 2000), e la batteria per la valutazione motoria del bambino (Movement ABC, Henderson e Sugden, 2000) e la Griglia per l’Analisi delle Prassie Transitive (GAP-T, Rampoldi e Ferretti, 2011). Nel corso del periodo considerato sono stati valutati per sospetto DPS 82 bambini (80 maschi e 2 femmine) con un’età media di 63 mesi (min 25 mesi; max 138 mesi). Le diagnosi finali, formulate secondo il DSM-IV-TR, sono state nel 60% dei casi di ASD (DPS NAS 61%; Autismo e Ritardo Mentale Lieve nel 10%; Sdr di Asperger nel 10%; nell’8% dei casi di DPS NAS e Ritardo Mentale Lieve, nell’8% dei casi di Autismo HF e nel restante 2% di Autismo e Ritardo Mentale Medio) nel 34% di altro Disturbo dello Sviluppo e nel restante 5% di Disturbo Psicopatologico. Sono stati considerati come criteri di inclusione nel presente lavoro: – una diagnosi di DPS NAS secondo i criteri diagnostici del DSM-IV-TR (APA, 2000); – un funzionamento cognitivo adeguato (QI uguale o maggiore di 75); – un’età di sviluppo linguistico uguale o superiore a 30 mesi. Questa scelta è stata motivata dalla decisione di comprendere i profili di sviluppo indipendentemente dall’influenza dalle variabili linguistiche e cognitive già ampiamente esaminate in letteratura (Eaves e Ho, 2004; Charman et al., 2005; Howlin, 2005; McGovern e Sigman, 2005; Turner e Stone, 2007; Moss et al., 2008; Paul et al., 2008; Itzchak et al., 2009); – la presenza di una valutazione completa di follow up a distanza di 24 mesi con


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un range di ± 2 mesi, ricorrendo agli stessi criteri diagnostici e agli stessi strumenti utilizzati durante la prima osservazione; – negatività agli accertamenti strumentali (esami metabolici, genetici, PE, EEG di sonno e di veglia, ecc.) previsti dalle linee guida (SINPIA). Il campione finale è costituito da 19 bambini con DPS NAS. Nel restante gruppo di bambini NAS non è stato possibile effettuare il ricontrollo perché non più rintracciabili, perché provenienti da altre regioni e con difficoltà logistiche nell'affrontare uno spostamento o perché il periodo di tempo trascorso tra la prima diagnosi e il controllo sarebbe stato inferiore ai 20 mesi. Sono stati analizzati, per questo studio, i risultati ai test ADOS ed SCQ. Si è scelto di approfondire quanto emerso in questi due test perché congruenti con gli obiettivi del lavoro e perché sono tra loro complementari e utilizzati nei protocolli di diagnosi nazionale e internazionale. In particolare: – Per l’area dell’ interazione sociale reciproca sono stati presi in considerazione i punteggi riportati agli item: contatto oculare, espressioni facciali dirette agli altri, qualità delle aperture sociali e totale interazione sociale reciproca dell’algoritmo ADOS; gioco immaginativo con i coetanei, interesse nei confronti di altri bambini, risposta agli approcci degli altri bambini, gioco di gruppo tra i coetanei del questionario SCQ. – Per l’area della comunicazione sono stati presi in considerazione i punteggi riportati agli item: uso di parole/frasi idiosincratiche/stereotipate, uso dei gesti, totale linguaggio e comunicazione, immaginazione/creatività dell’algoritmo ADOS; imitazione spontanea di azioni, gioco immaginativo, gioco sociale di imitazione del questionario SCQ. – Per l’area dei comportamenti stereotipati ed interessi ristretti sono stati presi in considerazione i punteggi riportati agli item: interessi sensoriali insoliti verso le persone o i materiali di gioco, manierismi delle mani e delle dita e altri manierismi complessi, interesse eccessivo o riferimenti ad oggetti o argomenti insoliti o altamente specifici o comportamenti ripetitivi, compulsioni o rituali dell’algoritmo ADOS; preoccupazioni insolite, interessi circoscritti, rituali verbali, compulsioni/rituali del questionario SCQ. Analisi dei dati Ogni unità statistica è descritta con gli score della scala ADOS (di tipo ordinale) e con le risposte fornite al questionario SCQ compilato dai genitori (con risposta dicotomica assente/presente) rilevati in duplice osservazione seriata nel tempo (T0 e T1). Stante la natura dei parametri utilizzati, le correlazione di ciascuno score dell’ADOS relativo ai due tempi di rilevamento è studiata applicando il coefficiente di correlazione rho di Spearman per ranghi. Per ciascun item del questionario SCQ, le risposte assente/presente ai due di osservazione, vengono inserite in una tabella di contingenza bidimensionale processata col test di concordanza di McNemar.


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L’ipotesi nulla assunta è definita quale assenza di correlazione/associazione fra le due misurazioni temporali per ciascun parametro. Per la discussione dei risultati viene utilizzato un valore di alpha=0.05 per il rigetto dell’ipotesi nulla suddetta. Risultati Alla prima valutazione (T0) il gruppo clinico, dei 19 bambini NAS, aveva un’età compresa tra i 38 e i 135 mesi, con un’età media di 74 mesi (MIN:38; MAX:137; ds= 27). Al momento del follow-up (T1) l’età media è risultata di 95 mesi (MIN:64; MAX:154; ds=27). a) Organizzazione neurocognitiva I risultati mostrano un decremento non significativo del QI tra T0 e T1 (media QI0=88; media QI1=83), dato che può essere spiegato dall’utilizzo a T1 dei test cognitivi WPPSI-R e WISC III, sui quali pesa l’impiego di fattori verbali per la determinazione del funzionamento cognitivo, a differenza della Leiter-r utilizzata in prima valutazione. b) Stabilità diagnosi nosografica Lo studio di follow up effettuato a distanza di due anni ha permesso di rilevare che dei 19 soggetti con un’iniziale diagnosi di DPS NAS, sulla base del giudizio clinico finale, 12 (pari al 63%) continuano a presentare la stessa diagnosi, mentre: − 4 (pari al 21%) mostrano una maggiore definizione del quadro clinico, che induce a formulare una diagnosi di Disturbo Autistico; − 1 soggetto (5%) presenta un quadro clinico riferibile ad un disturbo di Asperger; − 1 soggetto (5%) presenta un’evoluzione migliorativa del quadro clinico, pur confermando la presenza di atipie linguistiche, inquadrabili nell’ambito di un DSL misto; − 1 soggetto (5%) mostra un quadro neuropsicologico definibile “normale” con tratti ansioso/depressivi. In base all'elaborazione statistica dei punteggi ADOS è stato rilevato: – Un generale miglioramento nella sintomatologia sostenuto da una poca concordanza tra i risultati del test ADOS a T0 e a T1 (rho=0,3390; p=.1686). Si osserva infatti uno spostamento dei punteggi da autismo a spettro autistico1 o da spettro autistico a “fuori spettro”, con nessuno spostamento nella direzione opposta (da fuori spettro a spettro autistico e da spettro autistico ad autismo) (Figura 1).

1 Il termine “spettro autistico” utilizzato all’ADOS deve essere inteso come DPS NAS secondo quanto indicato dagli autori.


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Figura 1. Trasformabilità della diagnosi DPS NAS secondo l’algoritmo ADOS.

c) Analisi secondo modello dimensionale L’analisi secondo un’ottica più di tipo dimensionale ha evidenziato all’ADOS e SCQ i seguenti risultati: – Un miglioramento non significativo nell’area comunicativo/linguistica (totale linguaggio e comunicazione ADOS: rho=0,6415; p=.0041) (Figura 2), data da una relativa stabilità nell’uso di parole/frasi idiosincratiche/stereotipate (rho=0,7205; p=.0007). D’altra parte risulta una maggiore acquisizione ed uso dei gesti descrittivi, strumentali e informativi (rho=0,4007; p=.0993) e del gioco immaginativo (rho=0,4183; p=.0947). Questi dati vengono confermati dai risultati ottenuti dalla somministrazione del questionario SCQ in cui si osserva un’acquisizione del gioco immaginativo (χ2=10; p=.0016) e del gioco sociale di imitazione (χ2 =5,44; p=.0196) rispettivamente nel 66% e nel 72% dei casi. Rimane stabile la capacità di imitazione spontanea di azioni (χ2 = 0,142; p=.7055).

Figura 2. Modificabilità dei profili di sviluppo nell’area comunicativo/linguistica.


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– Un miglioramento significativo nell’area dell’interazione sociale reciproca (rho=0,2220; p=.375) (Figura 3), dovuto principalmente ad un maggior uso del contatto oculare che va dal 27% dei casi a T0 al 61% dei casi a T1. La qualità delle aperture sociali (rho=0,4392; p=.0681) e le capacità di dirigere espressioni facciali agli altri al fine di comunicare affetto (rho=0,052; p=.8347) non subiscono variazioni significative. Un netto miglioramento di osserva anche negli item che riguardano le relazioni con i coetanei con punteggi significativi sia riguardo l’interesse nei confronti degli altri bambini (χ2 =14; p=.0002), sia la risposta agli approcci degli altri bambini (χ2 =8; p=.0046), sia la capacità di partecipare ad un gioco di gruppo con i coetanei (χ2 =11; p=.0009).

Figura 3. Modificabilità dei profili di sviluppo nell’area dell’interazione sociale reciproca.

– Un’estrema variabilità nell’area dei comportamenti (rho=0,3275; p=.1994) in cui si assiste ad un calo della presenza degli interessi sensoriali insoliti verso le persone o i materiali di gioco (rho=0,2386; p=.3562) e dei manierismi (rho=0,3275; p=.1994), a fronte di un mantenimento nel tempo di interessi eccessivi, riferimenti ad oggetti o argomenti insoliti o altamente specifici e comportamenti ripetitivi (rho=0,5201; p=.0323) (χ2 =5,44; p=.0196). La poca modificabilità di questi ultimi comportamenti nell’arco dello sviluppo viene riconfermata dai risultati dell’SCQ in cui non si assiste a variabilità per quanto riguarda preoccupazioni insolite (χ2 =2,00; p=.1573), rituali verbali (χ2 =1,28; p=.2568), compulsioni/rituali (χ2 =0,00; p=1). Discussione L’analisi dei dati permette di rilevare una stabilità della diagnosi di DPS NAS, formulata dopo i 3 anni di età, del 63%, con il 26% dei casi che si spostano ver-


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so un’altra categoria all’interno dello spettro autistico e l’11% che, invece, “perde” la diagnosi di DPS. Il dato sulla stabilità conferma i risultati presenti in letteratura: una recente metanalisi di Woolfenden (2012) sulle ricerche effettuate dagli anni 90 ad oggi riporta percentuali che vanno dal 54% al 73% per le diagnosi di DPS NAS effettuate tra i 3 e i 5 anni. Un dato discordante osservato nel campione è rappresentato dalla minore percentuale di soggetti rispetto alle altre ricerche (26% vs 27-41%) che si spostano verso forme più strutturate di Autismo o di Sindrome di Asperger e di conseguenza una più elevata percentuale di soggetti che non presentano più una diagnosi di DPS (11% vs 0-5%). Per quanto riguarda i profili clinici si osserva un generale miglioramento della sintomatologia autistica, congruente con i dati della letteratura (Piven et al., 1999; Fecteau et al., 2003; Starr et al., 2003; Charman et al.,2005; McGovern e Sigman, 2005; Jonsdottir et al., 2007; Shattuck et al., 2007; Moss et al., 2008; Paul et al., 2008). Analizzando nello specifico le tre aree sintomatologiche si evidenzia tuttavia una persistenza di difficoltà linguistiche che si esprime in modo particolare attraverso l’uso di frasi bizzarre, spesso associate in maniera illogica ad alcuni eventi (espressioni idiosincratiche), di ecolalie differite, di inversioni pronominali e di stereotipie verbali. Dunque anche per i bambini DPS NAS, con un buon funzionamento cognitivo e che hanno acquisito il linguaggio dopo i tre anni, si possono osservare dei deficit nelle capacità connesse alle dimensioni pragmatiche del linguaggio e della comunicazione. Tutto ciò si può osservare nella conversazione, nella narrazione e nel linguaggio figurato e dunque nell’utilizzo del linguaggio per interagire e comunicare nelle situazioni quotidiane, risolvendone le molteplici ambiguità. Le difficoltà pragmatiche sembrano quindi parte di una più generale difficoltà nel considerare gli stati mentali degli altri (Surian e Siegal, 2009). In questo gruppo di soggetti si riscontra una presenza di gesti descrittivi, strumentali e informativi, ma il diverso andamento rispetto ad un miglioramento delle abilità linguistiche fa pensare ad una scarsa integrazione tra uso del gesto come azione rappresentativo/simbolica e gli altri canali comunicativi. Sembra dunque che tali gesti mantengano caratteristiche di ecoprassia riferiti ad azioni o eventi particolari, senza riferimento ad un significato simbolico più generale. La capacità di imitazione spontanea di azioni già presente intorno ai tre anni sembra evolversi in questo gruppo nella comparsa del gioco immaginativo e del gioco sociale di imitazione, anche se tali attività rappresentative sembrano oscillare da azioni funzionali di tipo imitativo, più o meno elaborate e utilizzate con modalità stereotipa, a un’eccessiva capacità trasformativa sull’oggetto, trasformazione tuttavia poco riconoscibile dall’altro e quindi poco condivisibile (Diomede et al., 2009). Anche il miglioramento nell’area interattiva, che sembra distinguere maggiormente questo gruppo, è caratterizzato da un diverso andamento delle diverse competenze sottostanti. L’uso del contatto oculare, sebbene appaia più frequentemente, mantiene comunque delle caratteristiche di atipia. Esso infatti viene utilizzato in maniera inusuale quando il bambino tenta di iniziare l’interazione con l’altro o quando le sue espressioni facciali dirette all’interlocutore richiedono di veicolare affetti. Il


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contatto oculare dunque viene utilizzato, ma può rimanere insolito e si accompagna a un deficit nelle capacità di ricavare informazioni mentalistiche dallo sguardo. L’interazione con il coetaneo sembra nascere e manifestarsi sul piano del movimento: si attiva un iniziale scambio con l’altro, una primitiva condivisione del focus attentivo che gli permette di sostenere e partecipare ad un gioco di gruppo, ma con poca evidenza di condivisione di intenzioni, azioni e comunicazioni su di esso (Diomede et al., 2009). In accordo con i dati della letteratura sui DPS (Lam e Aman, 2007) si assiste in questo periodo ad un passaggio dalla stereotipia motoria e prassica, dovuta all’utilizzo atipico di schemi senso/motori e competenze prattognosiche attivate al di fuori dello scambio comunicativo e scarsamente modificabili, ai comportamenti di “alto livello”, come definiti da Turner (1999), in cui vengono inclusi i rituali, le routines rigide, gli interessi selettivi e ripetitivi che per alcuni aspetti possono sovrapporsi a manifestazioni cliniche di tipo ossessivo-compulsivo e che presuppongono un diverso correlato psicopatologico, diffondendosi in “stili negativi di personalità” (Levi e Romani, 1999). Spunti per lavori futuri nascono dai limiti di questo studio e riguardano la mancata distinzione del campione in diverse fasce d’età, che avrebbe permesso un analisi più dettagliata dei sintomi specifici per fasce d’età differenti. In più la considerazione di altre variabili relative alle aree di sviluppo del bambino come la “comprensione verbale” e il livello motorio/prassico avrebbero condotto alla definizione di profili di sviluppo più completi. Conclusioni L’obiettivo di tale lavoro è stato quello di cercare una specificità del quadro clinico DPS NAS attraverso l’analisi delle traiettorie evolutive. I dati hanno supportato questa ipotesi confermando una buona stabilità di tale diagnosi: questo gruppo evolve nel tempo con delle caratteristiche proprie, non spostandosi verso altri quadri clinici. Questa evidenza ci porta a considerare che non si tratta di una diagnosi di esclusione o di attesa e che, anche se ad una prima analisi possano presentarsi come delle forme lievi di autismo, questo gruppo presenta delle caratteristiche che evolvono nel tempo con una loro specificità. Ciò è stato maggiormente evidente nella descrizione dei profili evolutivi: il miglioramento nelle competenze comunicativo/linguistiche e nelle abilità interattive non ha giustificato un’uscita dalla diagnosi. Ciò significa che questi bambini acquisiscono un linguaggio adeguato dal punto di vista morfo-sintattico, lo utilizzano per richiedere e per comunicare bisogni/ necessità, ma tale utilizzo rimane atipico e “bizzarro” se paragonato ad un bambino con sviluppo tipico. Così per il gioco immaginativo: esso viene acquisito e utilizzato in forma rappresentativa, ma permane una componete prevalentemente imitativa e stereotipata. Ciò significa che questi bambini sono interessati all’altro, acquisiscono anche capacità di iniziare spontaneamente un’interazione, ma anche questo aspetto rimane


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più legato all’espressione di una necessità che parte prevalentemente da sé e implica una “cecità mentale” vista come incapacità a comprendere e riflettere sugli stati mentali propri e altrui che limita comunque la reciprocità sociale (Baron-Cohen et al., 1985). Ciò significa che questi bambini passano da una rigidità che si esprime prevalentemente a livello motorio (stereotipie motorie ed ecoprassie) ad una rigidità più cognitiva che si esprime prevalentemente nell’aderenza a routines e a comportamenti ritualizzati. Questa descrizione sembra riproporre, almeno in parte, quello che da Wing e Gould (1979) viene definito il sottotipo “attivo ma bizzarro” e cioè quel gruppo che sviluppa comportamenti sociali ma atipici e unidirezionali. La maggior parte dei bambini descritti da questi autori, pur presentando una storia di ritardo di linguaggio, acquisiva competenze linguistiche, ma la comunicazione era, comunque, orientata al soddisfare i propri bisogni piuttosto che a condividere o commentare qualcosa. Inoltre, la produzione verbale era caratterizzata da numerose frasi ripetitive, stereotipate o limitate a pochi specifici interessi. Altre caratteristiche frequenti in questi individui erano uno sguardo evitante, l’assenza o atipia dei gesti comunicativi e la presenza di goffaggine motoria. Dunque l’attenzione deve essere posta sia sull’acquisizione sia sull’uso di quelle funzioni linguistiche e comunicative più “alte” quali quelle pragmatiche e del linguaggio come regolatore delle emozioni. Secondo Halliday (1975) lo sviluppo del linguaggio, nel bambino, poteva essere definito come lo sviluppo di funzioni comunicative attraverso cui vengono elaborati e differenziati sistemi di significati. Su questo piano lo sviluppo delle regole linguistiche corrispondeva all’acquisizione di strumenti adeguati per esprimere in forma comunicabile, e riproducibile socialmente, i propri contenuti mentali. Ma lo sviluppo delle funzioni comunicative che strutturano il linguaggio è correlato con lo sviluppo delle funzioni e delle rappresentazioni affettive con cui il bambino differenzia i suoi rapporti con gli oggetti. A questo punto ci si può porre un ulteriore quesito: quali funzioni può svolgere nelle vita affettiva del bambino la permanenza di un utilizzo “atipico” del linguaggio? Ulteriori studi di follow up, riguardanti fasce d’età più elevate, appare quindi necessario sia per rispondere a queste domande sia per considerare in quali modi questi profili evolutivi possano influire nello sviluppo dello personalità dei bambini/adolescenti con DPS NAS. Riassunto I DPS NAS si presentano nella clinica con profili neurocognitivi, di sviluppo e comportamentali molto diversi, ma soprattutto con prognosi molto diversa. La letteratura internazionale riconosce l’esistenza di fenotipi differenti all’interno dello stesso Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, ma poche sono le ricerche che hanno cercato di individuare criteri diagnostici propri per questa categoria, considerandola nella maggior parte dei casi come una forma di autismo più lieve. Il miglioramento della sintomatologia autistica nel corso dello sviluppo, evidenziato nei risultati dello studio, si accompagna comunque ad una stabilità di tale diagnosi che si attesta intorno al 63%. L’andamento della


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triade sintomatologica evidenzia un miglioramento nell’area dell’interazione sociale reciproca a fronte di un mantenimento di comportamenti atipici nell’area della comunicazione e dei comportamenti stereotipati. Lo studio dei profili evolutivi ha cercato dunque di conferire specificità a questo quadro clinico, attraverso la descrizione di caratteristiche proprie che evolvono nel tempo. Parole chiave Stabilità diagnostica – Profili di sviluppo – DPS NAS.

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 294-310

L’interazione tra genitore e bambino con Disturbo dello Spettro Autistico: analisi delle funzioni comunicative Interaction between parent and child with Autism Spectrum Disorder: an analysis of communicative functions Emiddia Longobardi°, Eleonora Camillo*, Francesca De Lorenzo°, Marina Eianti**, Paola Bernabei***

Summary This study analyzes the interaction between parent and child with Autism Spectrum Disorder, examining the communicative style of the adult by use of five functions: Tutoring, Didactic, Conversational, Control and Asynchronous. These functions are expression of a different degree of parental responsiveness in terms of ability to adapt to the child’s development level. Nine adult-child dyads participated in the study. The children, affected with ASD (8 M / 1 F), had a chronological age of 52 months, a developmental age of 22 months and IQ of 44. Each adult-child dyad was videotaped during a 15 minute play-session. The results show that the communicative interaction between an adult and a child with ASD is characterized by a diversified use of the five functions examined. Although each parent uses the Tutoring, Didactic and Conversational functions in different ways, the Control function is the most commonly used. Finally, the Asynchronous function turns out to be exceptionally unfrequent, showing on the one hand, the ability of the adult not to act in a dysfunctional way, on the other, possibly denoting a kind of distancing from the child. The individual profiles emerged from the study may be useful for the delineation of therapeutic intervention based on the adult-child interaction. Key words Parent-child interaction – Communicative functions – Autism.

Introduzione Negli ultimi due decenni diversi studi hanno documentato gli aspetti peculiari che delineano il disturbo dello Spettro Autistico (DSA) rispetto sia a una possibile diagnosi precoce (Bernabei, Camaioni, Levi, 1998; Fabrizi et al., 2006), sia ai pattern interattivi che caratterizzano la relazione genitore-bambino (Flippin e Watson, °

Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma.

* Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche, Sapienza Università di Roma,

Polo Pontino. ** Dipartimento di Neuropsichiatria Infantile, ASL Latina, Priverno. *** Sapienza Università di Roma.


L’INTERAZIONE TRA GENITORE E BAMBINO CON DSA

295

2011). Quest’ultimo ambito assume una particolare importanza non solo per la definizione degli aspetti distintivi del disturbo, ma anche per il risvolto applicativo in termini di terapia interattiva come modalità di intervento in questo tipo di patologia (Gulsrud, Jahromi, Kasari, 2010). Considerando il marcato deficit nell’area comunicativo-linguistica e sociale, i bambini con Autismo mostrano una particolare difficoltà nell’interazione triadica alternare lo sguardo tra l’interlocutore e l’oggetto -, non sono in grado di utilizzare l’adulto come riferimento sociale in situazioni ambigue (Mundy et al., 1986), tendono a non produrre i gesti con funzione dichiarativa per condividere l’interesse con l’altro (Camaioni, Perucchini, Muratori, 1997; Dawson et al., 2004), nonchè, di comprendere le richieste di condivisione di attenzione da parte dell’interlocutore (Rozga et al., 2011). Infatti, i comportamenti di attenzione condivisa di questi bambini risultano molto meno frequenti rispetto ai bambini con sviluppo tipico o ai bambini con ritardo mentale, evidenziandone una peculiare compromissione (Mundy et al., 1986; Sigman et al., 1986). Relativamente all’analisi dell’interazione, Watson (1998) ha rilevato che le madri di bambini con autismo sono in grado di orientare la comunicazione verbale verso attività e/o oggetti cui il bambino rivolge l’attenzione in misura equiparabile alle madri di bambini con sviluppo tipico. Tuttavia, rispetto a quest’ultime, tendono a richiamare molto più frequentemente l’attenzione del bambino su oggetti e/o attività verso cui il bambino non mostra interesse. Lo studio di Siller e Sigman (2002) ha indagato la relazione predittiva tra lo stile comunicativo dei genitori e le abilità comunicative dei propri bambini con autismo. Infatti, è emersa una correlazione significativa tra la capacità dei genitori di fornire un input linguistico contingente con l’attività dei bambini e il loro sviluppo linguistico (Rolling e Snow, 1998). Risulta particolarmente efficace in termini di strategia stabilire e/o mantenere l’attenzione su un oggetto/evento all’interno di attività interattive di routine, come nascondere oggetti, ricercare oggetti, o leggere insieme un libro, che servono per creare un contesto ‘fisico’ di condivisione (Siller e Sigman 2008). In questa direzione, anche Charman (2003) ha mostrato il valore predittivo dell’attenzione condivisa con il genitore nei primi anni di vita e il successivo sviluppo linguistico del bambino. Al contrario, il recente studio di Venuti et al. (2012) confrontando lo stile comunicativo materno in tre gruppi di bambini e cioè, con DSA, ritardo mentale e sviluppo tipico, non ha evidenziato alcuna correlazione tra il linguaggio delle madri e le abilità linguistiche dei bambini dei due gruppi clinici. Sebbene non siano emerse differenze significative tra le madri, relativamente all’uso di funzioni comunicative basate su contenuti di tipo affettivo o informativo, un dato distintivo dei bambini con DSA riguarda il frequente uso da parte delle madri del nome proprio del figlio per richiamare la sua attenzione, come indicatore del suo deficit proprio nell’area sociale del comportamento. Diversi studi hanno evidenziato come le madri, pur essendo in grado di adattare il linguaggio e il gioco alle capacità del bambino (Venuti et al., 2012; Flippin e Watson, 2011), possono tuttavia apparire asincroniche nell’interazione con il proprio bambino (Shapiro, Frosch, Arnold, 1987), mostrando cioè difficoltà a reagire e a formulare del-


296

E. LONGOBARDI - E CAMILLO - F. DE LORENZO ET AL.

le richieste in modo contingente ai comportamenti del bambino. Al contrario, Siller e Sigman (2002) hanno mostrato che le madri di bambini con autismo, allo stesso modo delle madri di bambini con sviluppo tipico, sono in grado di sincronizzare i propri comportamenti in funzione dell’attenzione e delle attività manifestate dai propri bambini. Pur focalizzando l’analisi sul comportamento dell’adulto, quale partner più esperto, è necessario considerare come le stesse caratteristiche dei bambini con DSA, possano produrre degli effetti “negativi” sulla relazione, compromettendo la capacità del genitore di saper leggere e interpretare i suoi segnali. In termini di peculiarità, i bambini con autismo sembrano mostrare una maggiore reazione verso le iniziative materne basate sul contatto fisico e sull’uso di atti comunicativi non verbali (DoussardRoosevelt et al., 2003). Lo studio di Dawson et al. (1990) ha rilevato che questi bambini tendono a produrre una quantità di sguardi e sorrisi equiparabile, per frequenza e durata, ai bambini con sviluppo tipico, ma non sono in grado di rispondere in modo contingente ai sorrisi e alle richieste delle madri, mostrando quindi come tale disfunzione possa alterare l’espressione affettiva tra i partner. Lo studio di Gulsrud, Jahromi e Kasari (2010) ha evidenziato che un intervento mirato a promuovere l’attenzione condivisa può avere un esito positivo in termini di co-regolazione delle emozioni nell’interazione genitore-bambino con autismo. Lo scopo del presente studio è esaminare l’interazione genitore-bambino con disturbo dello Spettro Autistico al fine di rilevare quali profili comunicativi possono essere delineati in termini di strategie interattive attribuibili alla specificità del disturbo. In particolare, l’analisi si focalizza su cinque funzioni comunicative (Tutoriale, Didattica, Conversazione, Controllo e Asincronica; cfr. Longobardi, 1992, 1995, 1996, 2006) che evidenziano un diverso grado di responsività dell’adulto nell’interazione con il bambino. Il genitore, in un contesto interattivo gravemente disturbato come quello autistico, può assumere una funzione adattativa, nel favorire e sostenere i minimi spazi comunicativi del bambino, ma può anche costituire un ulteriore elemento disadattativo, se non è in grado di cogliere e attribuire significato ai comportamenti del figlio. Inoltre, viene esaminata anche la modalità comunicativa non verbale per verificare che tipo di corrispondenza possa registrarsi rispetto al canale verbale in base alle singole funzioni analizzate. In questo studio a carattere esplorativo, si intende ricavare una serie di informazioni utili alla messa a punto di un intervento che miri a considerare gli aspetti interattivi nella terapia dei bambini con disturbo dello Spettro Autistico. Metodo Partecipanti Hanno partecipato alla ricerca nove coppie adulto-bambino di cui otto hanno riguardato l’interazione con la madre e una con il padre. Tutti i bambini hanno fatto riferimento al Centro di Neuropsichiatria Infantile di Priverno, Polo Pontino dell’Università Sapienza di Roma e al momento dello studio presentavano una diagnosi di


297

L’INTERAZIONE TRA GENITORE E BAMBINO CON DSA

Autismo secondo i criteri del DSM-IV TR (APA, 2000). Per 8 bambini la diagnosi di Autismo è stata confermata dall’ADOS (Diagnostic Observation Schedule, 2005), mentre per 1 bambino la diagnosi all’ADOS è stata di Spettro Autistico. Le caratteristiche dei bambini sono presentate nella Tabella 1 in cui vengono riportati gli indici di sviluppo derivati dalla somministrazione di una batteria di test diagnostici: Stanford-Binet Intelligence Scale 3rd revision (1968); Wechsler Preschool and Primary Scale of Intelligence Revised (1991); Leiter International Performance Scale – Revised (2002). Sono state utilizzate scale di sviluppo diverse in relazione a: grado di compromissione linguistica, presenza di pur minima attenzione condivisa, tempi di concentrazione, instabilità motoria marcata. I bambini (8 M/1 F) hanno un’età media cronologica (EC) di 52 mesi (range: 35-71), un’età media di sviluppo (ES) di 22 mesi (range: 13-27); le famiglie presentano un livello socio-culturale medio-basso, definito in base al livello di istruzione e scolarità dei genitori (prevalenza di diploma di scuola media inferiore e lavoro dipendente subalterno). Nel riportare i dati dell’ADOS, a scopo puramente descrittivo e analitico, sono stati inseriti in tabella anche i valori degli items che riguardano la qualità del gioco, pur essendo esclusi dalla computazione diagnostica. Tabella 1. Caratteristiche dei bambini esaminati. ADOS Linguaggio e Comunicazione

ADOS Interazione Sociale

ADOS Gioco

48 (SB)

9

13

5

69

27 (SB)

13

16

5

26

61

44 (WPPSI)

6

17

4

27

65

50 (WPPSI)

7

12

4

E

27

71

39 (WPPSI)

3

4

2

6.

F

18

37

50 (WPPSI)

2

1

2

7.

G

16

39

42 (SB)

10

15

6

8.

H

17

38

43 (SB)

10

17

6

9.

I

13

35

50 (Leiter)

11

26

5

Bambini

Età di Sviluppo (mesi)

Età Cronologica (mesi)

1.

A

25

55

2.

B

16

3.

C

4.

D

5.

QI

Procedura Per ciascuna coppia genitore-bambino è stata effettuata una seduta di osservazione audio-videoregistrata in occasione di una valutazione clinica presso il Centro di Neuropsichiatria Infantile. La valutazione si è svolta in tre giorni consecutivi, nel corso dei quali è stata effettuata la valutazione cognitiva, è stato somministrato l’ADOS ed è stata programmata una seduta di gioco video e audio registrata, utilizzando materiale semistrutturato a valenza funzionale e simbolica.


298

E. LONGOBARDI - E CAMILLO - F. DE LORENZO ET AL.

La seduta ha avuto una durata complessiva di 50 minuti, ma per rendere omogenee le osservazioni in base alla durata temporale sono stati analizzati 15 minuti consecutivi per ciascuna coppia filmata. Tutte le osservazioni videoregistrate sono state trascritte su appositi protocolli e codificate in modo da consentire una dettagliata e accurata analisi dei comportamenti verbali e non verbali, di entrambi i partner. Misure e Codifica Relativamente allo stile comunicativo materno è stata adottata un’analisi di tipo pragmatico che tiene conto prevalentemente dell’aspetto funzionale del comportamento comunicativo dell’adulto all’interno dell’interazione con il bambino (Longobardi, 1992, 1995, 1996, 2006). Il manuale di codifica utilizzato include una serie di categorie (n° 21) in riferimento ai comportamenti comunicativi sia verbali (enunciati) che non verbali (ad es. gesti) dell’adulto prodotti come iniziative o come risposte ai comportamenti del bambino (vedi Appendice). Le categorie comportamentali previste dal manuale si collocano lungo un continuum; ad un estremo troviamo interventi dell’adulto altamente sincronizzati e ben adattati al focus di attenzione e/o azione del bambino, prodotti con lo scopo di fornire un supporto funzionale all’attività in corso nonché di farla progredire verso livelli più avanzati (funzione Tutoriale); all’altro estremo troviamo interventi dell’adulto scarsamente o affatto sincronizzati con la linea di attenzione e/o azione del bambino, che arrivano fino ad ignorare quest’ultima o a snaturarla (funzione Asincronica). Si assume che le categorie “Ripetizioni, Espansioni/Estensioni, Riformulazioni, Parafrasi, Riferimenti ad una Esperienza Precedentemente Condivisa, Riferimenti al Ruolo di una Routine di Gioco e Complimenti/Incoraggiamenti” soddisfino prevalentemente una funzione Tutoriale; le categorie “Descrizioni/Dimostrazioni, Domande Chiuse, Richieste di Ripetizione, Denominazioni e Correzioni” soddisfino una funzione Didattica (trasmettere informazioni/conoscenze al bambino e/o verificare le conoscenze/abilità di cui già dispone); le categorie “Enunciati con Funzione fatica, Domande Aperte, Commenti/Comportamenti Empatici ed Autorisposte” soddisfino una funzione di Conversazione (promuovere e mantenere lo scambio comunicativo con il bambino); le categorie “Controllo dell’Azione e dell’Attenzione” soddisfino una funzione di Controllo (orientare l’attenzione e/o dirigere/modificare l’azione in cui il bambino è attualmente impegnato). Infine le categorie “Comportamenti Intrusivi, Cambio di Argomento e Risposte Mancate” segnalerebbero un grado più o meno alto di Asincronia degli interventi dell’adulto rispetto al corso attuale dell’attenzione/azione del bambino. Risultati La Tabella 2 riporta l’utilizzo delle funzioni comunicative da parte dei genitori nel corso dell’interazione con il proprio bambino fornendo un quadro dei risultati sia quantitativo che qualitativo dell’analisi dei dati. Infatti, le frequenze assolute e


299

L’INTERAZIONE TRA GENITORE E BAMBINO CON DSA

percentuali delle misure prese in considerazione, consentono di confrontare tra loro i profili comunicativi delle nove coppie esaminate, ma anche di considerare il peso di ogni singola funzione comunicativa all’interno delle singole coppie.

Tabella 2. Funzioni Comunicative utilizzate dai genitori nell’interazione con il bambino. FUNZIONI COMUNICATIVE Tutoriale

Didattica

Conversazione

Controllo

Asincronica

Tot

Genitori

freq.

%

freq.

%

freq.

%

freq.

%

freq.

%

1.

A

58

18,30

59

18,61

117

36,91

83

26,8

1

0,31

317

2.

B

33

9, 76

74

21,89

63

18,64

168

49,7

0

0

338

3.

C

29

9, 38

92

29,77

44

14,24

144

46,6

0

0

309

4.

D

25

7, 22

84

24,28

111

32,08

126

36,42

0

0

346

5.

E

36

9, 97

71

19,68

91

25,21

158

43,7

5

1,38

361

6.

F

16

6, 90

30

12,93

76

32,76

110

47,41

0

0

232

7.

G

7

6, 09

35

30,43

22

19,13

49

42,61

2

1,64

115

8.

H

12

10

16

13,33

41

34,17

51

42,5

0

0

120

9.

I

27

12,38

69

31,63

61

27,98

60

27,52

1

0,46

218

Media

27

11,19

58,89

22,50

69, 55

26,79

105, 45

40,30

0, 89

0, 42

261, 78

DS

15,13

1,68

26,10

7,05

32,24

7,96

46,54

8,50

1,66

0,64

95,18

Come si può notare dalla Tabella 2, una funzione molto utilizzata è quella di Controllo (40,3%), seguita dalla funzione di Conversazione (26,79%), Didattica (22,5%) e Tutoriale (11,19%), e infine la funzione Asincronica (0, 42%). Analizzando ciascun genitore, si può rilevare come in generale prevalga l’uso della funzione di Controllo, tranne per il soggetto B che registra invece un maggior utilizzo della funzione di Conversazione e il soggetto I che utilizza più frequentemente quella Didattica. In tutti i genitori, la funzione Asincronica risulta eccezionalmente bassa o assente. Inoltre, esaminando la produzione totale degli atti comunicativi (SFC) si evidenzia un’ampia variabilità tra i soggetti. Infatti, in media si rilevano 261,78 atti comunicativi con un range che varia tra 115 e 361. In generale, i risultati fanno emergere la varietà della comunicazione attraverso l’utilizzo delle diverse funzioni, sebbene la loro distribuzione in ciascuna coppia genitore-bambino offra la delineazione di singoli profili.


300

E. LONGOBARDI - E CAMILLO - F. DE LORENZO ET AL.

Tabella 3. Atti Comunicativi di Controllo dell’Azione e dell’Attenzione. Controllo dell’Azione

Controllo dell’Attenzione

Genitori

freq.

%

freq.

%

1.

A

58

69,88

25

30,12

2.

B

133

79,17

35

20,83

3.

C

108

75

36

25

4.

D

74

58,73

52

41,27

5.

E

100

63,29

58

36,71

6.

F

79

71,82

31

28,18

7.

G

22

44,9

27

55,1

8.

H

28

54,9

23

45,1

9.

I

51

85

9

15

Media

72, 55

66, 96

32, 89

33,03

DS

36,95

12,67

14,91

12,67

Per approfondire l’analisi della funzione di Controllo, nella Tabella 3 vengono riportati i dati relativi alle due componenti che la caratterizzano, ossia il Controllo dell’Azione e dell’Attenzione. In questo caso si è ritenuto particolarmente interessante e informativo, considerando il deficit dei bambini, scomporre la funzione di Controllo nelle due dimensioni. Come riportato nella Tabella 3, la funzione Controllo dell’Azione si presenta più frequentemente utilizzata (66,96%) rispetto alla funzione Controllo dell’Attenzione (33,03%) ed esaminando i singoli genitori, si registra una netta prevalenza della prima, tranne per il soggetto G in cui prevale il Controllo dell’Attenzione. Questi dati indicano come vi sia una maggiore concentrazione/disposizione da parte dei genitori a far svolgere al bambino una serie di attività, trascurando, invece, la necessità di assicurarsi che il bambino stia prestando attenzione a ciò che si vuole proporre. In tal caso, si evidenzia anche la difficoltà del genitore nel cogliere un aspetto cruciale del deficit del bambino relativamente proprio all’attenzione condivisa. Un ulteriore aspetto esaminato nello stile comunicativo dei genitori ha riguardato la componente non verbale. In particolare, anche la produzione dei gesti è stata codificata in base alle cinque funzioni comunicative considerate. Nella Tabella 4 sono riportati i dati relativi all’uso dei gesti e si può osservare come questi ultimi costituiscano il 17,97% del totale degli atti comunicativi. In particolare, gli atti comunicativi non verbali assolvono prevalentemente una funzione di Controllo (47,98%), sebbene siano utilizzati in maniera rilevante anche con una funzione Didattica (30,53%). Seguono le funzioni di Conversazione (12,45%), Tutoriale (8,75%) e infine, gli atti Asincronici, che come nella modalità verbale, risultano molto infrequenti. In definitiva, si rileva una corrispondenza tra la tipologia delle funzioni comunicative espresse attraverso il canale comunicativo verbale e non verbale. Ci sembra


I

9.

DS

Media

H

8.

E

5.

F

D

4.

G

C

3.

7.

B

2.

6.

A

1.

Genitori

7,33

8, 75

3, 78

3,03

4,88

3,85

3,7

13,33

1,96

7,81

10,94

6,59

25,71

%

2

1

1

2

1

5

7

6

9

freq.

TUTORIALE

11,66

15, 44

18

4

14

0

16

29

35

19

4

freq.

19,54

30, 53

43,9

15,38

51,85

0

31,37

45,31

54,69

20,88

11,43

%

DIDATTICA

3,81

5, 44

6

7

2

2

8

7

2

13

2

freq.

6,97

12,45

14,63

26,92

7,41

13,33

15,69

10,94

3,12

14,28

5,71

%

CONVERSAZIONE

13,16

21, 33

15

14

9

11

25

25

20

53

20

freq.

0,44

0, 22

0

0

1

0

1

0

0

0

0

freq.

1,32

0, 63

0

0

3,7

0

1,96

0

0

0

0

%

ASINCRONICA

23,89

46

41

26

27

15

51

64

64

91

35

SNV

6,4

17, 97

18,81

21,67

23,48

6,46

14,13

18,5

20,71

26,92

11,04

ANV %

SNV (Somma degli atti comunicativi non verbali) ANV (Atti comunicativi non verbali)

14,02

47, 98

36,58

53,85

33,33

73,33

49,02

39,06

31,25

58,24

57,14

%

CONTROLLO

FUNZIONI COMUNICATIVE

Tabella 4. Funzioni degli Atti Comunicativi non Verbali utilizzati dai genitori.

L’INTERAZIONE TRA GENITORE E BAMBINO CON DSA

301


302

E. LONGOBARDI - E CAMILLO - F. DE LORENZO ET AL.

interessante sottolineare il consistente uso dei gesti con una funzione Didattica, in quanto evidenzia l’abilità del genitore di veicolare le informazioni in modo visivo, nel tentativo di rendere più concreto il referente del messaggio e facilitandone così la comprensione da parte del suo interlocutore. Funzioni comunicative e indici di sviluppo del bambino Considerando l’obiettivo di analizzare in che modo lo stile comunicativo dell’adulto possa configurarsi come un’espressione dell’adattamento alle capacità e/o difficoltà del bambino, sono state calcolate le correlazioni di Spearman (rho) tra le diverse funzioni comunicative e gli indici di sviluppo del bambino (Tabella 1). Rispetto al QI sono risultate positive e significative le correlazioni con la funzione Tutoriale (rho 0.73, p=0.02), di Conversazione (0.78, p< 0.01), di Controllo (rho 0.85, p= 0.004) e tendenzialmente significativa con la funzione Didattica (rho 0.65, p= 0.06). Rispetto all’Età di Sviluppo (ES) non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa, anche se per le funzioni Tutoriale, Didattica, di Conversazione e la Somma delle Funzioni Comunicative (SFC) gli indici di correlazione sono risultati rho > 0.50. L’Età Cronologica (EC) correla in misura tendenzialmente significativa con la funzione Tutoriale (rho 0.65, p = 0.06) e con la Somma delle Funzioni Comunicative (rho 0.60, p= 0.09). Prendendo in esame la differenza tra gli indici EC ed ES, risultano tendenzialmente significative le correlazioni con la funzione Tutoriale (rho 0.60, p= 0.08), di Controllo (rho 0.63, p= 0.07), Didattica (rho 0.58, p= 0.10); la Somma delle Funzioni Comunicative (SFC) correla in misura significativa con tale parametro (rho 0.67, p = 0.05) e con la funzione di Conversazione si registra un indice rho 0.52. In generale, pur tenendo conto del numero ridotto dei soggetti esaminati, ci sembra interessante rilevare che la distanza tra l’età cronologica e l’età di sviluppo si presenti come un indice più sensibile rispetto agli stessi analizzati separatamente e che sia maggiormente informativo, considerando la corrispondenza tra le aspettative del genitore e l’effettivo livello di capacità presentato dal bambino. Analizzando le correlazioni tra i punteggi ottenuti nel test ADOS e le funzioni comunicative si sono registrati degli indici negativi tendenzialmente significativi tra le funzioni Tutoriale (rho -0.61, p= 0.08) e di Conversazione (rho -0.57, p= 0.10) e la prestazione dei bambini nella scala del Gioco. In tal caso la direzione dei risultati sembra indicare come un maggiore livello di deficit da parte del bambino induca l’adulto ad utilizzare meno le funzioni comunicative prese in esame. Tale risultato si accorda con quelli ottenuti in altri studi evidenziando una correlazione opposta, in quanto un buon livello di gioco nei bambini con autismo correla positivamente con il grado di responsività comunicativa da parte dei genitori (Kasari et al., 2010; Flippin e Watson, 2011).


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Discussione Il presente studio ha avuto lo scopo di analizzare lo stile comunicativo dei genitori adottato nell’interazione con il proprio bambino con disturbo dello Spettro Autistico. Pur considerando il carattere esplorativo della ricerca, l’esame delle funzioni comunicative ha consentito di delineare una caratterizzazione utile per la pianificazione di un intervento terapeutico basato sull’interazione adulto-bambino (Longobardi e Caselli, 2007). Un primo risultato qualitativo riguarda la tipologia delle funzioni comunicative utilizzate dai genitori (Tutoriale, Didattica, Conversazione, Controllo e Asincronica; Longobardi, 1992), che evidenzia un certo grado di diversificazione dello scambio interattivo-comunicativo anche nel caso del bambino con DSA. Considerando l’aspetto quantitativo, invece, bisogna sottolineare come la funzione di Controllo (40,30%) costituisca l’aspetto prevalente di tale scambio. La funzione di Controllo, avendo la finalità di dirigere il comportamento del bambino, mostra come l’adulto si aspetti e richieda al bambino di adeguarsi a quello che può costituire il suo ‘piano di attività’ nel corso dell’interazione. Tale modalità di comunicazione non costituisce di per sé un aspetto negativo, soprattutto nel caso dei bambini con sviluppo atipico, che necessariamente richiedono di essere maggiormente ‘diretti e/o guidati’ rispetto ai bambini con sviluppo tipico (Longobardi, 2001). I profili interattivo-comunicativi emersi dall’analisi delle nove coppie genitore-bambino esaminate, hanno evidenziato, però, che in alcuni casi l’uso della funzione di Controllo supera il 40% rischiando di assumere un ruolo pervasivo nello scambio con il bambino. In questa direzione, i risultati emersi dalla scomposizione della funzione di Controllo nella dimensione dell’Azione e dell’Attenzione ha offerto un ulteriore spunto di riflessione. Infatti, il minor utilizzo del Controllo dell’Attenzione rispetto all’Azione, indica che il primo potrebbe essere un aspetto da sostenere ed incrementare. Il genitore dovrebbe essere aiutato ad essere più ‘consapevole’ della specifica difficoltà del bambino, sollecitandolo ad assicurarsi che ambedue dirigano l’attenzione e l’interesse su un medesimo oggetto e/o evento e in qualità di partner più esperto, tenda a seguire il suo interlocutore in modo da sostenere e promuovere l’attività contingente. Un altro risultato che ci spinge a una particolare riflessione riguarda l’uso della funzione Asincronica, che è considerata un parametro del livello disfunzionale dell’interazione adulto-bambino (Longobardi, 1992). Gli studi precedenti hanno evidenziato come tale funzione sia alquanto infrequente nel caso dell’interazione madre-bambino con sviluppo tipico (range 0-2%), in cui le condizioni ambientali, socioaffettive e cognitive appaiono sufficienti per sostenere e promuovere lo sviluppo del bambino (Longobardi, 1995, 1996, 2006). Anche nell’interazione madre-bambino con Sindrome di Down l’uso della funzione Asincronica è risultato eccezionalmente basso (0,51%), evidenziando come nel caso di questo disturbo non siano compromesse le abilità socio-comunicative del bambino e pertanto, non viene alterato l’andamento dello scambio interattivo (Longobardi, Caselli, Colombini, 1998). Al contrario, la funzione Asincronica viene usata in misura consistente dalle madri dei bambini con ritardo di linguaggio (16%) segnalando la difficoltà degli adulti a fornire


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un input adeguato a un bambino che presenta un livello cognitivo nella norma ma un’abilità linguistica nettamente inferiore (Bonifacio e Longobardi 2008). Un ulteriore caso di scarso livello di responsività a carico dell’adulto, dovuto però, a fattori di tipo situazionale, deriva dall’analisi dell’interazione della madre con i bambini gemelli (Longobardi, Potente, Devescovi, 2001). Infatti, l’interazione triadica madregemello-gemello richiede un sovra-carico di risorse da parte dell’adulto nell’assicurare che ambedue i bambini usufruiscano di uno scambio interattivo caratterizzato da comportamenti altamente sincronizzati con l’attività contingente all’interno degli episodi di attenzione condivisa (ad es. espansioni, riformulazioni, parafrasi, imitazioni). In questa situazione avviene una sorta di contro-bilanciamento che vede una riduzione della funzione Tutoriale, molto impegnativa per l’adulto, che non comporta, però, per il genitore un aumento dell’utilizzo della funzione Asincronica che altrimenti, segnalerebbe un’alterazione dello scambio comunicativo con i bambini. L’analisi che abbiamo condotto nel presente studio ha evidenziato un utilizzo molto infrequente della funzione Asincronica e questo risultato denota senz’altro un aspetto positivo dell’interazione genitore-bambino con DSA, ma ci spinge altresì, a formulare un’ulteriore riflessione. In un contesto interattivo e relazionale caratterizzato da una progressivo appiattimento dell’uso di strumenti comunicativi, verbali e non verbali, quali il gesto o l’indicazione (Bernabei et al., 2001), il genitore non trova stringhe comunicative sufficientemente articolate con cui interferire e la funzione asincronica non compare perché non si attivano sequenze comunicative in cui l’adulto può inserirsi. Sul piano relazionale, questo comporta una sorta di disorientamento, da parte del genitore, che finisce per non avere aspettattive comunicative sul suo bambino. Si realizza, quindi, una condizione in cui la percezione che l’adulto ha delle capacità del bambino contribuisce a creare un particolare contesto che può essere più o meno adatto a promuovere e sostenere il suo sviluppo (Rescorla, Dahlsgaad, Roberts, 2000) e che, nel caso dei bambini con DSA può assumere una connotazione negativa. La considerazione scaturita dal presente studio è al momento meramente speculativa e richiede un maggiore approfondimento delle dinamiche che regolano il processo comunicativo-interattivo tra adulto e bambino con disturbo dello Spettro Autistico, teso a cogliere tutte quelle caratterizzazioni che si configurano come punti di forza e/o debolezza e possono costituire la base di un intervento adeguato a sostenere ambedue i partner di uno scambio comunicativo. In questa direzione la rilevazione dei gesti da parte dei genitori riflette un buon grado di adeguamento nei confronti dei bambini (Longobardi, Caselli, Iverson, 2007), soprattutto nel caso della funzione Didattica. Infatti, il consistente utilizzo di gesti (31,63%) per trasmettere e/o accertare le informazioni acquisite, evidenzia lo sforzo dell’adulto nel veicolare il significato del messaggio in maniera ‘visiva’ e quindi, di maggiore comprensione per il bambino. Tale caratterizzazione denota un buon livello di responsività dell’adulto nei confronti del bambino. In sintesi, i genitori sembrano attivare strategie diverse di fronte all’isolamento, all’atipia e alla grave immaturità cognitiva dei loro bambini: possono tentare di variare la comunicazione come una sorta di iperstimolazione o possono indirizzare


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la loro comunicazione verso il controllo delle azioni del bambino, consapevoli della difficoltà ad ottenere un’attenzione congiunta sull’oggetto. Possono sollecitare un minimo scambio interattivo attraverso l’uso enfatizzato del gesto, ma possono anche assumere un ruolo che non interferisce, ma nemmeno sollecita le comunicazioni del bambino affetto da DSA. Lo studio esplorativo ha suscitato anche ulteriori interrogativi che andrebbero analizzati in maniera più approfondita, ma che non possono prescindere dal considerare primaria la natura inter-individuale dello sviluppo in qualsiasi condizione abbia corso e con qualsiasi risorse disponibili agli agenti protagonisti. Diversi studi hanno evidenziato come gli interventi volti a incrementare la sincronia nell’interazione genitore-bambino con DSA, producono effetti positivi rilevati dalle prestazioni dei bambini in ambito sociale e linguistico (Alfred, Green Adams, 2004; Green, Adams, Drew et al., 2002; Flippin et al., 2011). Infine, riteniamo che i dati ricavati possano essere validi anche in un’ottica terapeutica. Conoscere lo stile comunicativo della coppia genitore-bambino con DSA, significa aver presenti i punti di debolezza da modificare e quelli di forza da incrementare, nel processo di “adattamento dell’ambiente comunicativo” raccomandato dalle linee guida relative al trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti (SNLG, ISS, 2012) e può rappresentare, inoltre, un pattern di valutazione quantitativa dell’evoluzione (e dell’efficacia) dell’intervento terapeutico, sempre di difficile definizione in ambito clinico. Riassunto Il presente studio analizza l’interazione genitore-bambino con Disturbo dello Spettro Autistico esaminando lo stile comunicativo dell’adulto in base all’utilizzo di cinque funzioni: Tutoriale, Didattica, Conversazionale, di Controllo e Asincronica. Tali funzioni sono espressione di un diverso grado di responsività rispetto alla capacità di adattarsi al livello di sviluppo del bambino. Hanno partecipato allo studio nove coppie adulto-bambino con diagnosi di DSA (8 M/1 F), età cronologica 52 mesi, età di sviluppo di 22 mesi, QI 44. Tutte le coppie sono state osservate durante una seduta di gioco videoregistrata della durata di 15 minuti. I risultati ottenuti evidenziano come l’interazione comunicativa adulto-bambino con DSA sia caratterizzata da un uso diversificato delle cinque funzioni prese in esame. Sebbene, ciascun genitore utilizzi variamente le funzioni Tutoriale, Didattica e di Conversazione, quella di Controllo tende ad essere usata in misura prevalente. Infine, la funzione Asincronica risulta eccezionalmente bassa mostrando, da una parte, l’abilità dell’adulto nel non mettere in atto comportamenti disfunzionali, dall’altra, potrebbe indicare una sorta di distanziamento dal bambino. I singoli profili emersi dallo studio possono essere utili per la definizione di un intervento terapeutico basato sull’interazione adulto-bambino. Parole chiave Interazione genitore-bambino – Funzioni comunicative – Autismo.


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Appendice MANUALE DI CODIFICA (Longobardi, 1992, 1995, 1996, 2006) Le categorie incluse nel manuale di codifica vengono qui di seguito illustrate: FUNZIONE TUTORIALE 1. Ripetizioni: l’adulto ripete, completamente o parzialmente, l’azione e/o l’atto linguistico del bambino con lo scopo di approvare e sostenere il suo comportamento (B «etoo»; A replica «etoo»). 2. Espansioni/Estensioni: l’adulto riproduce il precedente enunciato del bambino, a cui aggiunge degli elementi nuovi in modo da espanderlo e ottenere così un enunciato completo dal punto di vista funzionale e grammaticale; l’adulto riprende l’atto linguistico prodotto dal bambino riformulandolo in una forma grammaticale completa e/o corretta (B dice «baca»; A replica «la barca»). 3. Riformulazioni: l’adulto traduce in parole l’intenzione espressa dal bambino in termini non linguistici (gestuali). (Ad es. B indica il latte; A dice: «vuoi il latte?», accompagnando generalmente l’enunciato con l’indicazione). 4. Parafrasi: l’adulto riproduce lo stesso significato espresso dal bambino utilizzando una forma diversa di espressione (B fa ciao con la mano, A dice «ciao»). 5. Riferimento ad una esperienza precedentemente condivisa: l’adulto richiama all’attenzione del bambino che entrambi in precedenza hanno fatto esperienza di un determinato oggetto e/o evento verso cui si dirige attualmente l’attenzione o l’interesse del bambino (B guarda la foca sul libro; A dice «uh! la foca come quella tua di là nella stanza»). 6. Riferimento al/i ruolo/i di una routine di gioco: parole o frasi che marcano il/i ruolo/i caratteristici di una routine di gioco convenzionale (ad es. «grazie/prego» nel gioco di dare e prendere; «cucù/settette» nel gioco del nascondere/scoprire un oggetto o il proprio volto). 7. Complimenti/incoraggiamenti: riconoscimenti verbali (bravo!) e/o non verbali (battere le mani), che sottolineano il successo ottenuto da B nella risoluzione di un compito (ad es. infilare un blocco in un foro) o nella formulazione di un atto linguistico; incoraggiamenti verbali e non verbali forniti durante le tappe che precedono la soluzione di un compito. FUNZIONE DIDATTICA 8. Descrizioni/dimostrazioni: l’adulto fornisce al bambino informazioni o dimostrazioni relative ad oggetti e/o eventi (ad. es. A mostra a B il funzionamento di un giocattolo). 9. Domande chiuse: domande volte ad accertare le conoscenze del bambino, che prevedono una sola risposta corretta, già nota di norma all’adulto (ad es. A «come fa ciao Andrea?»).


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10. Richieste di ripetizione: l’adulto sollecita il bambino a ripetere un nome con l’obiettivo di impartire un insegnamento linguistico (A dice rivolgendosi a B «dì cocco-dril-lloo»). 11. Denominazioni: l’adulto designa con un nome gli oggetti o gli eventi cui il bambino presta attenzione o è interessato (B prende un fiore di plastica in mano e A dice «il fiore»). 12. Correzioni: l’adulto fornisce la versione corretta del comportamento o dell’enunciato prodotto precedentemente dal bambino (ad es. B infila un cubo nel foro sbagliato; A replica «noo così» e infila correttamente il cubo). FUNZIONE DI CONVERSAZIONE 13. Enunciati con funzione fatica: interventi verbali pronunciati dall’adulto con lo scopo di mantenere aperto il canale di comunicazione («ecco», «eh», «si»). 14. Domande aperte: domande che prevedono la possibilità di diverse risposte alternative (ad es. A «è bello questo giocattolo?»). 15. Commenti/comportamenti empatici: constatazioni e valutazioni di carattere generale prive di intento didattico prodotte anche per consolare, confortare, lodare (ad es. A «oggi ti sei proprio stancato, eh»); comportamenti non verbali di natura propriamente empatica (accarezzare; baciare). 16. Autorisposte: risposte fornite dall’adulto alle proprie domande rivolte al bambino (ad es. A «che cosa c’è lì dentro? I giocattoli»). FUNZIONE DI CONTROLLO 17. Controllo dell’azione: interventi verbali e non verbali, diretti (ordini) o indiretti (espressi in forma interrogativa, ad es. «vuoi mettere a posto?») atti a dirigere e/o modificare l’azione del bambino. 18. Controllo dell’attenzione: interventi verbali e non verbali (ad es. battere le mani) diretti ad orientare l’attenzione del bambino già rivolta verso un oggetto/evento. FUNZIONE ASINCRONICA 19. Comportamenti intrusivi: comportamenti verbali e non verbali che si sovrappongono, in tutto o in parte, a quello che il bambino sta già facendo o dicendo. Ad es. presentazione da parte dell’adulto di una strategia alternativa mentre il bambino è già impegnato in una condotta di risoluzione del compito. 20. Cambio di argomento: comportamenti verbali e non verbali che mirano a cambiare il focus di attenzione attuale o l’attività in corso del bambino (proposta o presentazione di giochi da parte dell’adulto al bambino già impegnato in una attività; enunciati riferiti ad un oggetto e/o evento cui B non si mostra né si è mostrato interessato in precedenza. 21. Risposte mancate: l’adulto ignora il comportamento verbale o non verbale indirizzato dal bambino verso di lei/lui.


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Funzioni Esecutive in adolescenza: 1. Evidenze neuroradiologiche e neuropsicologiche Development of Executive Functions in adolescence: neuroimaging and neuropsychological evidence Michele Poletti*

Summary The brain undergoes a period of marked development during adolescence, due to the processes of synaptic pruning and myelination, improving the efficiency of cortical and cortico-subcortical connectivity. This brain development has a significant impact on cognitive and emotional processing of adolescents. To describe the correlates of adolescent brain maturation it’s here proposed a prefrontal framework that highlights anatomical, functional and developmental differences between executive functions based on the Dorsolateral Prefrontal Cortex and executive functions based on the Orbitofrontal Cortex. Empirical evidence deriving from the neuropsychological approach and from neuroimaging showed that executive functions based on the Orbitofrontal cortex mature earlier than executive functions based on the Dorsolateral Prefrontal cortex. Key words Adolescence – Brain development – Prefrontal framework – Executive Functions.

1. Introduzione L’adolescenza rappresenta un periodo di vita caratterizzato da significativi cambiamenti sia a livello cognitivo sia a livello comportamentale, cambiamenti che portano l’adolescente verso modalità di pensiero e di azione simili a quelle adulte. Negli ultimi due decenni le tecniche di neuroimmagine hanno permesso di individuare quei significativi processi di maturazione cerebrale che sono alla base di tali cambiamenti. La maturazione cerebrale in adolescenza è particolarmente significativa in alcune aree corticali, tra cui la Corteccia Prefrontale, principale correlato neurale delle Funzioni Esecutive, necessarie per la pianificazione e l’esecuzione di comportamenti finalizzati ad un obiettivo. In questo capitolo viene affrontato il tema dello sviluppo cerebrale in adolescenza e come questo si rifletta nella maturazione delle Funzioni Esecutive connesse a differenti regioni della Corteccia Prefrontale. In particolare si esamina come le aree prefrontali deputate ad un’analisi affettiva delle informazioni e le aree prefrontali deputate ad un’analisi cognitiva delle informazioni seguano traiettorie di sviluppo differenti in adolescenza. * Servizio di Neuropsichiatria Infantile, Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche, Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia.


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M. POLETTI

2. Lo sviluppo cerebrale durante l’adolescenza A partire dagli anni ’90 l’indagine dello sviluppo cerebrale con le tecniche di neuroimmagine ha gettato nuova luce sullo sviluppo del cervello dall’infanzia verso l’età adulta. La Risonanza Magnetica (RM) misura la forma e la dimensione delle strutture cerebrali. La Diffusion Tensor Imaging (DTI) permette di valutare quanto distinte aree cerebrali siano connesse tra loro, misurando il grado di mielinizzazione dei tratti di sostanza bianca che le connettono (Asato et al., 2010). La Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) misura l’attivazione cerebrale durante l’esecuzione di un determinato compito cognitivo o comportamentale. Due macro-fenomeni sembrano caratterizzare il cervello durante l’adolescenza. Il primo fenomeno consiste in un incremento lineare della sostanza bianca a causa della continua mielinizzazione degli assoni, processo che aumenta la capacità di conduzione e di comunicazione neurale (Casey et al., 2008). La mielinizzazione riguarda sia tratti di fibre cortico-corticali (che connettono tra loro diverse regioni della corteccia prefrontale e la corteccia prefrontale con altre aree corticali) sia tratti di fibre corticosottocorticali (in particolare di quelle che connettono le regioni prefrontali con le aree limbiche e paralimbiche, quali l’amigdala, il nucleus accumbens e l’ippocampo) (Eluvathingal et al., 2007). Il secondo fenomeno consiste nella maturazione della materia grigia, che segue una curva di sviluppo a U rovesciata. All’inizio dell’adolescenza si ha un nuovo periodo di sinaptogenesi, cioè di proliferazione di nuove sinapsi, dopo quello che caratterizza i primissimi anni di vita. Ciò comporta un aumento della sostanza grigia, che va incontro ad un picco di densità, raggiunto il quale si ha un periodo di stasi. In un momento specifico per ogni area corticale, inizia poi il processo di pruning sinaptico, cioè di sfoltimento delle sinapsi meno utilizzate e attivate dalle esperienze del soggetto (Hensch, 2004; Sur e Rubinstein, 2005). Le diverse aree corticali raggiungono il loro picco di densità di materia grigia a differenti età. I lobi occipitali sembrano essere gli unici a seguire uno sviluppo lineare; i lobi frontali raggiungono il loro picco di crescita a 12 anni per i maschi e 11 anni per le femmine; i lobi parietali raggiungono il loro picco a 12 anni per i maschi e 10 per le femmine; i lobi temporali sono gli ultimi a raggiungere il loro picco, circa a 17 anni per entrambi i sessi (Giedd, 2008). Il processo di pruning sinaptico non si conclude comunque con l’adolescenza ma continua fino alla giovane età adulta, con modalità meno impetuose. La ridefinizione dei circuiti, attraverso la perdita di materia grigia, continua, nel lobo frontale, anche tra i 20 e i 30 anni di età (Sowell et al., 2003), tanto che la corteccia dorsolaterale (DLPFC) è una delle ultime aree corticali a raggiungere lo spessore definitivo (Lenroot e Giedd, 2006). In sintesi, l’eliminazione delle sinapsi ridondanti consente una più efficiente e complessa connessione tra diverse aree prefrontali, ora in grado di attivarsi in modo più stabile, duraturo e sincronizzato (Miller e Cohen, 2001). Allo stesso tempo la mielinizzazione aumenta la velocità di trasmissione degli impulsi nervosi, permettendo anche a regioni cerebrali distanti tra loro di connettersi attraverso ampi circuiti neurali: la comunicazione tra differenti regioni corticali permette quindi la prepa-


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razione di più efficienti piani di azione mentre la comunicazione tra aree corticali e aree sottocorticali permette una migliore modulazione, di tipo top-down, dell’esecuzione dei piani di azione medesimi (Luna e Sweeney, 2004). Lo sviluppo cerebrale in adolescenza consente quindi una migliore integrazione tra diverse aree cerebrali, piuttosto che un semplice aumento della capacità di elaborazione delle singole aree. Queste evidenze empiriche hanno riacceso l’interesse verso lo studio dello sviluppo cognitivo in adolescenza (Durston e Casey, 2006; Kuhn, 2006; Paus, 2005). Quali sono i correlati cognitivi, affettivi e comportamentali di questo prolungato processo di maturazione cerebrale che caratterizza il cervello in adolescenza, in particolare nella Corteccia Prefrontale? Viene di seguito proposto un modello che cerca di rispondere a tale interrogativo distinguendo le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale e le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Orbitofrontale (Poletti, 2009a; 2009b; 2009c; Zelazo e Mueller, 2002). 3. Le Funzioni Esecutive La Corteccia Prefrontale è una delle ultime aree corticali a raggiungere la sua definitiva conformazione durante l’adolescenza, al completamento del processo di pruning sinaptico (Lenroot e Giedd 2006). La Corteccia Prefrontale è coinvolta in numerose funzioni cognitive quali il linguaggio ed il movimento, ma ha un ruolo fondamentale soprattutto per le Funzioni Esecutive. Il termine Funzioni Esecutive è usato come etichetta per descrivere un insieme di processi psicologici necessari per mettere in atto comportamenti adattativi e orientati verso obiettivi futuri (Gilbert e Burgess, 2008). Tale insieme include processi di alto livello, quali la memoria di lavoro, l’attenzione selettiva e sostenuta, lo shifting attentivo, la pianificazione, il problem solving, l’automonitoraggio e la rilevazione di errori, l’inibizione di risposte automatiche, le capacità decisionale e l’autoregolazione (Alvarez e Emory, 2006; Miyake et al., 2000). Questi processi consentono all’individuo di coordinare la attività necessarie al raggiungimento di un obiettivo: formulare intenzioni, sviluppare piani di azione, implementare strategie per la messa in atto di tali piani, monitorare la prestazione e valutarne gli esiti. Le Funzioni Esecutive possono essere distinte in due tipologie sia da un punto di vista anatomico che da un punto di vista funzionale, di seguito esaminati. 3.1. Distinzione Anatomica Per distinguere i differenti disturbi cognitivi e comportamentali seguenti a danni traumatici a diverse porzioni della Corteccia Prefrontale (Stuss e Levine 2002), vengono attualmente distinte le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale e le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale (Ardila, 2008). La Corteccia Prefrontale Dorsolaterale comprende la porzioni laterali delle Aree


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9, 10 e 11 di Broadmann; include inoltre le aree 45, 46 e la parte superiore dell’area 47 (Damasio, 1996). Oltre alla sue connessioni cortico-corticali con la Corteccia Orbitofrontale, la Corteccia Prefrontale Dorsolaterale è connessa con più aree cerebrali che le consentono di giocare un ruolo chiave nell’integrazione di informazioni sensoriali e mnesiche e nella regolazione delle funzioni intellettive e dell’azione. Tali aree includono il talamo, i gangli della base (in particolare la porzione dorsale del nucleo caudato), l’ippocampo e le cortecce associative primarie e secondarie della neocorteccia, tra cui aree temporali posteriori, parietali e occipitali (Fuster, 2002). La Corteccia Orbitofrontale include le regioni orbitali (ventrali) e mediali della Corteccia Prefrontale, in particolare le aree di Broadmann 9, 10, 11, 12, 13, 25 e la porzione inferiore dell’area 47 (Damasio, 1996). La Corteccia Orbitofrontale è parte di un circuito fronto-striatale che ha forti connessioni con l’amigdala, i nuclei della base (in particolare la porzione ventrale del nucleo caudato) e altre strutture del sistema limbico (Chudasama e Robbins, 2006). Grazie a queste connessioni cortico-sottocorticali, la Corteccia Orbitofrontale è predisposta all’integrazione di informazioni cognitive e informazioni affettive e alla regolazione dei comportamenti orientati verso uno scopo (Rolls, 2004). 3.2. Distinzione funzionale Le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale sono state denominate in più modi: alcuni autori le definiscono Funzioni Esecutive “Fredde”, poiché permettono un’elaborazione cognitiva e controllata, quindi lenta, delle informazioni (Zelazo e Mueller, 2002); altri autori le definiscono Funzioni Esecutive “Metacognitive” (Ardila, 2008). Le Funzioni Esecutive “Fredde” permettono un controllo attentivo e deliberato del comportamento, ed includono la memoria di lavoro, la pianificazione, la flessibilità cognitiva, l’inibizione, il problem solving e la generazione di strategie. Tali funzioni vengono valutate dai classici compiti esecutivi, quali il Trail Making Test (Reitan, 1958), il Wisconsin Card Sorting Test (Grant e Berg, 1948), la Torre di Londra (Shallice, 1982) e il test di Stroop (Stroop, 1935). Anche le Funzioni Esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale sono state denominate in più modi: alcuni autori le definiscono Funzioni Esecutive “Calde”, poiché permettono una rapida elaborazione affettiva e automatica delle informazioni (Zelazo e Mueller, 2002); altri autori le definiscono Funzioni Esecutive “Affettive/ Motivazionali” (Ardila, 2008). Le Funzioni Esecutive “Calde” permettono sia un controllo del comportamento basato sulla valutazione delle gratificazioni (rewardprocessing) sia la gestione delle situazioni di rischio. Tra queste funzioni si includono la valutazione delle gratificazioni (quanto uno stimolo è gratificante o premiante per l’individuo), l’apprendimento inverso (la rottura delle associazioni stimolo-rinforzo e la formazione di nuove associazioni) ed i processi decisionali (Hongwanishkul et al., 2005). Tali funzioni sono generalmente valutate da compiti decisionali in condizioni di incertezza, quale per esempio l’Iowa Gambling Task (Bechara et al., 1994) e da compiti di ritardo della gratificazione (Green et al., 1999).


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È importante sottolineare che una chiara distinzione tra Funzioni Esecutive “Calde” e Funzioni Esecutive “Fredde” è possibile solo se il livello di analisi è quello dei rispettivi correlati neurali. Nella realtà clinica i due tipi di Funzioni Esecutive sono più difficilmente scindibili: a livello fenomenico, così come elicitato da compiti esecutivi, è possibile infatti solo parlare di prevalente attività di un tipo di Funzioni Esecutive rispetto all’altro, mai nei termini di presenza/assenza. Infine, è interessante inserire la distinzione anatomica e funzionale tra Funzioni Esecutive “Fredde” e Funzioni Esecutive “Calde” all’interno di un modello evolutivo del processo con cui vengono elaborate le informazioni sociali (Nelson, Leibenluft, McClure e Pine, 2005). Tale modello prevede che gli stimoli sociali vengano elaborati sequenzialmente da tre circuiti neurali distinti: il nodo della detezione, il nodo affettivo ed il nodo cognitivo-regolatore. Il nodo della detezione si occuperebbe di categorizzare lo stimolo come “sociale” e di decifrare le sue proprietà sociali di base. Tale nodo include la corteccia inferiore occipitale e le regioni inferiori della corteccia temporale. Globalmente queste regioni determinano se lo stimolo è o non è animato, se è uno stimolo conspecifico, cosa sta facendo, cosa intende fare, quale è la sua natura (Adolphs, 2001). Categorizzato come sociale e identificate le sue proprietà di base, lo stimolo passa all’esame del nodo affettivo. Il nodo affettivo dipende da regioni che definiscono le caratteristiche di rinforzo o di punizione dello stimolo, ed include l’amigdala, l’ipotalamo e la Corteccia Orbitofrontale. A questo livello lo stimolo viene dotato di significato emotivo, e si determina se vada affrontato o evitato. Si organizzano inoltre risposte fisiologiche autonomiche e viene deciso se dedicarvi attenzione cosciente. Dopo che è stata esaminata la sua eventuale natura sociale e la loro valenza emotiva positiva o negativa, lo stimolo passa infine al vaglio di un sistema più complesso, principalmente basato sul funzionamento della Corteccia Prefrontale, che include i seguenti processi: la percezione e l’inferenza sugli stati mentali altrui, la regolazione o inibizione di comportamenti non adeguati al contesto sociale, quali quelli aggressivi, e infine la generazione di una risposta comportamentale diretta allo scopo e adeguata al contesto sociale in cui si è presentato lo stimolo. Per esempio il volto arrabbiato di un genitore viene prima valutato come stimolo sociale dal nodo della detezione, poi ne vengono definite le caratteristiche di punizione da parte del nodo affettivo; infine il nodo cognitivo-regolatore permette la possibile inferenza dello stato mentale dell’amico e la risposta comportamentale (di approccio - “mi confronto col genitore”- oppure di allontanamento “ è meglio che lo affronti in un’altra occasione). Oppure le attenzioni di una persona con cui abbiamo un rapporto affettivo possono essere categorizzate come stimolo sociale (per esempio un abbraccio o complimenti verbali) dal nodo della detezione, poi la loro connotazione emotiva positiva viene valutata come rinforzante dal nodo affettivo, ed infine il nodo cognitivo-regolatore consente la risposta comportamentale a breve termine (ricambiare l’abbraccio o i complimenti) o a lungo termine (fare in modo che il rapporto affettivo si mantenga nel tempo). In sintesi, le Funzioni Esecutive “Calde” possono essere considerate come parte integrante del nodo affettivo mentre le Funzioni Esecutive “Fredde” possono essere considerate come parte integrante del nodo cognitivo-regolatore.


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4. Sviluppo delle Funzioni Esecutive in adolescenza Lo studio della maturazione delle Funzioni Esecutive in adolescenza ha ripreso nuovo vigore negli ultimi anni in seguito alla scoperta di un protratto sviluppo cerebrale in questa fascia di età. Alla classica valutazione neuropsicologica delle Funzioni Esecutive eseguita con compiti cognitivi e comportamentali, si è recentemente affiancata l’indagine dei correlati neurali di tali funzioni, grazie alle tecniche di neuroimmagine, in primis la fMRI. Si è passati ad esaminare non solo lo sviluppo delle prestazioni nei compiti esecutivi, ma anche quali modifiche avvengono in adolescenza nei circuiti cerebrali che supportano le prestazioni medesime. La maturazione delle Funzioni Esecutive “Fredde” e delle Funzioni Esecutive “Calde” in adolescenza viene di seguito discussa facendo ai contributi dell’approccio neuropsicologico e delle neuroimmagini. 4.1. Sviluppo delle Funzioni Esecutive “Fredde” Lo studio dello sviluppo dall’infanzia all’età adulta delle Funzioni Esecutive “Fredde” può oggi contare su una consistente mole di dati empirici. Le ricerche degli ultimi anni [si vedano per esempio i numeri monografici (26,1: 2004 e 28,2: 2005) di Developmental Neuropsychology e (44,11: 2006) di Neuropsychologia] stanno consolidando quanto già si conosceva (si vedano, per esempio: Davies e Rose, 1999; Korkman, Kemp e Kirk, 2001; Levin et al., 1991; Welsh e Pennington, 1988; Welsh, Pennington e Groisser, 1991) sullo sviluppo di tali funzioni, cioè che queste hanno una lunga maturazione durante l’infanzia e l’adolescenza e che le diverse funzioni raggiungono livelli prestazionali analoghi a quelli degli adulti a diverse età e non contemporaneamente. Un’interpretazione univoca di questi dati è però ancor oggi ostacolata dal fatto che differenti compiti sono utilizzati per misurare le medesime funzioni e che molti studi prendono in esame una singola funzione esecutiva. Sarebbe invece necessario esaminare più funzioni contemporaneamente, in ampi campioni di soggetti, omogenei per età: ciò permetterebbe una valutazione affidabile dei pattern di maturazione dei diversi processi esecutivi e consentirebbe di individuare quelle variabili sottostanti che i diversi compiti esaminati hanno in comune (Huizinga, Dolan e van der Molen, 2006). 4.1.1. Il contributo dell’approccio neuropsicologico La valutazione dello sviluppo delle Funzioni Esecutive “Fredde” in adolescenza si avvale sia dei test esecutivi classici sia di compiti comportamentali. I test esecutivi classici valutano la memoria di lavoro (verbale e visuospaziale), l’abilità di pianificazione (Torre di Londra), la flessibilità cognitiva e l’astrazione (Trail Making Test parte B, Wisconsin Card Sorting Test), l’attenzione selettiva (test di Stroop), la generatività (compiti di fluenza verbale o di fluenza grafica) e la capacità di inibizione di risposte motorie (compiti Go-No-go). Tra i compiti comportamentali, sono


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molto utilizzati i compiti oculomotori, di cui esistono varie tipologie. I movimenti saccadici verso uno stimolo luminoso improvviso permettono di misurare la velocità di elaborazione delle informazioni. I compiti antisaccadici permettono di misurare l’inibizione della risposta, richiedendo ai soggetti sperimentali di sopprimere la tendenza a fare un movimento saccadico verso uno stimolo luminoso improvviso. Infine i compiti oculomotori a risposta ritardata permettono di misurare la memoria di lavoro spaziale, richiedendo ai soggetti sperimentali di compiere movimenti oculari guidati dal ricordo della posizione di uno stimolo visivo precedentemente presentato (Leigh e Zee, 1999). Questi compiti cognitivi e comportamentali, nel loro insieme, permettono di individuare la traiettoria di sviluppo delle Funzioni Esecutive “Fredde”. Per descrivere brevemente tale traiettoria è utile fare riferimento ai risultati di una meta-analisi (Romine e Reynolds, 2005) delle evidenze empiriche sullo sviluppo di tali Funzioni Esecutive, pubblicate tra il 1984 e il 2004 nelle maggiori banche dati elettroniche. Le tendenze generali di sviluppo indicano cambiamenti di marcata entità tra i 5 e gli 11 anni di età. Cambiamenti di minore entità si verificano tra gli 11 e i 14 anni, mentre tra i 14 e i 17 anni i cambiamenti sono nulli per alcuni processi e modesti per altri. Senza addentrarsi nella curva di sviluppo di ogni Funzione Esecutiva, si possono tracciare alcune linee di tendenza generali. 1) A 14-15 anni alcune Funzioni Esecutive, quale per esempio il controllo inibitorio, hanno già raggiunto la loro piena maturità funzionale, mentre altre Funzioni Esecutive, quali per esempio la pianificazione e la fluenza verbale, vanno incontro ad ulteriori modificazioni fino alla giovane età adulta. 2) Nel determinare quando le prestazioni degli adolescenti raggiungano livelli simili a quelle degli adulti in un determinato compito esecutivo, una notevole influenza è giocata dal carico cognitivo. Questo è per esempio il caso della memoria di lavoro: più aumenta il carico cognitivo del compito di memoria di lavoro (nei termini di numero di informazioni e di manipolazione delle informazioni rispetto al loro semplice mantenimento in memoria) più il livello prestazionale simile a quello adulto si sposta dai 15 verso i 18-19 anni (Conklin et al., 2007; Gathercole et al., 2004). 3) All’interno di uno stesso compito esecutivo, è possibile rilevare una possibile discrepanza tra le curve di sviluppo delle prestazioni ottenute con i dati quantitativi e le curve di sviluppo ottenute con dati più qualitativi: cioè l’analisi qualitativa delle prestazioni è in grado di rilevare progressivi miglioramenti delle prestazioni dall’adolescenza all’età adulta, anche quando la prestazione quantitativa appare ormai stabilizzata su livelli adulti. Questo è il caso delle prestazioni in un compito esecutivo di astrazione e flessibilità cognitiva quale il Wisconsin Card Sorting Test, in cui i soggetti devono individuare alcuni criteri con cui poter raggruppare in diversi modi le carte di un mazzo. Una volta associate le carte secondo un determinato criterio, i feedback dell’esaminatore suggeriscono quando cambiare il criterio di associazione. Se il numero di categorie identificate e completate correttamente in questo compito raggiunge un livello massimo già a 11 anni di età e poi si stabilizza, altri parametri continuano a progredire nel tempo: per esempio il tempo di riflessione, intercorso tra un feedback negativo dato dall’esaminatore e la scelta della carta successiva, aumenta con l’età, a testimoniare di una progressiva incremento dell’automonitoraggio del proprio comportamento (Somsen, 2007).


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4.1.2. Il contributo delle neuroimmagini Le neuroimmagini evidenziano come la maturazione delle prestazioni nei test esecutivi in adolescenza sia dovuta a significative modificazioni dei circuiti neurali che le sottendono. Le neuroimmagini funzionali mostrano differenti pattern a carico delle diverse Funzioni Esecutive. Per esempio l’incremento delle prestazioni nei compiti di memoria di lavoro si accompagna sia ad una maggiore attivazione della Corteccia Prefrontale Dorsolaterale sia al reclutamento di circuiti neurali sempre più complessi ed estesi: se nei bambini i compiti di memoria di lavoro, sia con materiale verbale che con materiale visuospaziale, attivano solo la Corteccia Prefrontale di sinistra, a partire dall’adolescenza i medesimi compiti attivano complessi circuiti che connettono la Corteccia Prefrontale Dorsolaterale, aree parietali e cerebellari (Crone et al., 2006; Geier et al., 2009; O’Hare et al. 2008; Thomason et al., 2009). Al contrario, il miglioramento delle prestazioni in compiti di inibizione della risposta si accompagna ad una progressiva riduzione dell’attivazione di complessi circuiti neurali, e alla progressiva maggiore attivazione focale della Corteccia Prefrontale Inferiore (Durston et al., 2002; Tamm et al., 2002). Le neuroimmagini strutturali fornite dalla tecnica DTI mostrano che il miglioramento delle prestazioni in questi compiti è direttamente correlato al grado di mielinizzazione delle fibre nervose che formano i circuiti neurali sottostanti la loro esecuzione (Liston et al., 2005; Nagy et al., 2004). In altri termini, maggiore è la capacità di comunicazione tra due o più strutture cerebrali che sottendono un medesimo compito esecutivo migliori sono le prestazioni. 4.2. Sviluppo delle Funzioni Esecutive “Calde” Negli individui adulti i processi esecutivi più affettivi sono principalmente studiati in relazione all’abilità di prendere decisioni in condizioni di incertezza. Infatti, quando un individuo deve effettuare una scelta, le informazioni sui possibili esiti della scelta medesima devono essere mantenuti in memoria per essere confrontati e integrati con gli stati interni dell’individuo medesimo e con i suoi obiettivi. Questo processo di integrazione genera delle aspettative rispetto agli esiti delle proprie scelte, aspettative che possono essere descritte come rappresentazioni interne delle possibili conseguenze delle proprie azioni: la Corteccia Orbitofrontale riveste un ruolo cruciale nello generazione di queste aspettative rispetto ai risultati delle proprie scelte (Wallis, 2007). 4.2.1. Il contributo dell’approccio neuropsicologico Il test più usato per la valutazione delle capacità decisionali in condizioni di incertezza è l’Iowa Gambling Task, (IGT: Bechara et al., 1994). In questo compito i soggetti devono procedere ad una lunga serie di estrazioni di carte da quattro mazzi disponibili. In seguito ad ogni estrazione, il soggetto viene informato di quanto ha


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vinto o perso con quella scelta. Ogni mazzo presenta diverse combinazioni di vincite e perdite, di diversa entità: scegliendo da due dei quattro mazzi per lungo tempo, si ottiene alla fine una perdita netta nonostante le occasionali vincite; al contrario, orientando la scelta verso gli altri due mazzi si ottiene alla fine una vincita netta, nonostante le occasionali perdite. Monitorando i comportamenti di scelta dei singoli individui in più prove successive, si osserva che gli individui adulti cominciano solitamente a scegliere casualmente da un mazzo piuttosto che da un altro, quindi, gradualmente incrementano le scelte dai mazzi vantaggiosi e diminuiscono le scelte dai mazzi svantaggiosi. Al contrario della maggioranza degli individui adulti, i soggetti con lesioni alla Corteccia Orbitofrontale persistono nello scegliere carte dai mazzi sfavorevoli (Buelow e Suhr, 2009). Se per l’analisi delle prestazioni dei soggetti adulti in compiti decisionali quali l’IGT si dispone di una robusta mole di dati empirici, solo recentemente, invece, si è iniziato ad affrontare lo sviluppo delle Funzioni Esecutive “Calde” nell’infanzia e nell’adolescenza. La somministrazione dell’IGT nei bambini e negli adolescenti mostra un continuo miglioramento delle prestazioni, indicato sia dal crescente numero di carte pescate dai mazzi favorevoli sia dalla progressiva anticipazione del momento in cui da una strategia di scelta casuale si passa ad una strategia di scelta consapevole (Crone e van der Molen, 2004; Hooper, Luciana, Conklin e Yarger, 2004; Overman et al., 2004). Le prestazioni degli adolescenti nei compiti di scelta rimangono di livello inferiore a quelle degli adulti almeno fino ai 12 anni di età, a causa di un bias decisionale a favore di vincite e risultati immediati, a dispetto di possibili vincite future di maggior entità (Crone, Bunge, Latenstein e van der Molen, 2005). Somministrando ad un campione di soggetti, di età compresa tra i 7 e i 15 anni, un compito di scelta analogo all’IGT in cui vengono variate la frequenza e la distanza temporale dei possibili premi e punizioni, emerge infatti che al crescere dell’età aumenta la sensibilità nei confronti di possibili punizioni future, anche in contesti di incertezza. Ma almeno fino agli 11-12 anni di età, solo quando il rischio di ricevere la punizione è molto elevato, questa riceve attenzione, mentre viene facilmente ignorata negli altri casi. Non solo gli adolescenti fino ai 12 anni hanno problemi nel valutare le possibili punizioni, ma almeno fino a 14 anni hanno anche difficoltà nell’anticipare i possibili esiti delle proprie scelte (Crone e van der Molen, 2007). 4.2.2. Il contributo delle neuroimmagini Da pochi anni le neuroimmagini funzionali sono state impiegate per indagare come si modifica, dall’adolescenza all’età adulta, l’attivazione dei circuiti neurali sottostanti i processi decisionali. Anche se non ancora del tutto omogenei tra loro per i diversi compiti utilizzati, questi studi preliminari suggeriscono che gli adolescenti, nella fase di valutazione delle proprie scelte o delle ricompense per le proprie azioni, presentano un’iperattività, rispetto agli adulti, di alcune strutture limbiche quali il nucleo striato ventrale ed il nucleo accumbens (Ernst et al., 2005; Galvan et al., 2006; Geier et al., 2010; van Leijenhorst et al., 2010). L’attivazione di queste strutture, fortemente connesse con la Corteccia Orbitofrontale, indica una accresciuta responsività


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del nodo affettivo di fronte alle ricompense in adolescenza (Yin, Ostlund e Ballerine, 2008). Tale responsività è particolarmente significativa solo per le ricompense di un certo valore, quasi che le ricompense di poco vengano ignorate (Galvan et al., 2006). Tale iperattivazione sembra caratterizzare sia la fase di anticipazione della ricompensa sia la fase di valutazione della ricompensa, una volta che questa si è verificata (Geier et al., 2009b). Al contrario degli adulti, inoltre, gli adolescenti non mostrano una risposta della Corteccia Orbitofrontale in seguito alla mancata ricezione della ricompensa attesa (van Leijenhorst et al., 2009). Discussione e conclusioni In sintesi gli studi sullo sviluppo cerebrale in adolescenza mostrano che i processi di mielinizzazione e pruning sinaptico incidono con tempi diversi sulle strutture del nodo affettivo e del nodo cognitivo-regolatore: le aree cerebrali connesse al nodo affettivo maturano prima di quelle connesse al nodo cognitivo regolatore (Galvan et al., 2006; Rubia et al., 2000). Quanto evidenziato dalle neuroimmagini è anche confermato dalla diversa curva di sviluppo delle prestazioni degli adolescenti in compiti connessi alla Corteccia Orbitofrontale (compiti decisionali) rispetto a quelle in compiti connessi ad altre porzioni della corteccia prefrontale, quale quella Dorsolaterale (per esempio nei compiti di memoria di lavoro). Le prestazioni nei compiti connessi alla Corteccia Orbitofrontale generalmente raggiungono un livello pari a quello adulto con alcuni anni di anticipo rispetto alle prestazioni in compiti sensibili ad altri settori della Corteccia Prefrontale, che continuano a maturare fino alla giovane età adulta (Steinberg, 2008). Le aree prefrontali del nodo cognitivo-regolatore raggiungono un livello funzionale maturo ad un‘età successiva e grazie alla mielinizzazione delle fibre che connettono corteccia prefrontale e strutture sottocorticali delle aree limbiche e paralimbiche (amigdala, nucleus accumbens e ippocampo), le quali progressivamente modulano in modo sempre più efficace le strutture del nodo affettivo, come testimoniato dall’impressione di crescente controllo sui propri impulsi riferita dagli adolescenti (Steinberg et al., 2008). La disparità di tempi maturativi tra nodo affettivo e nodo cognitivo-regolatore determina l’importante conseguenza che, per un certo periodo di tempo, l’attivazione del nodo affettivo non sia adeguatamente controbilanciata da una adeguata capacità di controllo da parte del nodo cognitivoregolatore (Yurgelun-Todd, 2007). A livello macroscopico questo può portare ad una forte attivazione di fronte a stimoli emotigeni o sociali e ad una difficoltà nel modulare le risposte affettive a tali stimoli (Hare et al., 2008). Non a caso è proprio verso i 14 anni di età, che gli adolescenti hanno un picco di sensibilità verso lo stimolo sociale per eccellenza, il gruppo dei pari, sensibilità che gradualmente diminuisce con l’avvicinarsi alla giovane età adulta (Gardner e Steinberg, 2005; Steinberg e Monahan, 2007). A tal proposito è interessante riportare i dati di un recente studio che ha indagato i correlati neurali della resistenza alla pressione dei pari (Grosbras et al., 2007) in pre-adolescenza. I ragazzi con maggiore capacità di resistere all’influenza dei pari, misurata da un questionario, mostrano sia migliori prestazioni in alcune prove di


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controllo esecutivo (test di Stroop e compiti di memoria di lavoro) sia una maggiore attivazione in quelle zone prefrontali dorsolaterali che garantiscono un efficace controllo di tipo top-down sul nodo affettivo. In altri termini, maggiore è l’equilibrio di attivazione tra nodo affettivo e nodo cognitivo-regolatore, maggiore è la capacità dell’adolescente nel resistere all’influenza degli stimoli esterni, in primis quelli sociali. Riassunto Il cervello va incontro ad un periodo di marcato sviluppo durante l’adolescenza, a causa dei processi di mielinizzazione e pruning sinaptico, che migliorano l’efficienza delle connessioni corticali e corticali - sottocorticali. Lo sviluppo cerebrale ha un impatto significativo sullo sviluppo cognitivo ed affettivo degli adolescenti. Per descrivere i correlati dello sviluppo cerebrale in adolescenza viene proposto una cornice teorica che sottolinea le differenze anatomiche, funzionali ed evolutive tra funzioni esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale e funzioni esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale. Le evidenze empiriche derivate dall’approccio neuropsicologico e dalle neuroimmagini mostrano che le funzioni esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale maturano precocemente rispetto alle funzioni esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale. Parole chiave Adolescenza – Sviluppo cerebrale – Corteccia prefrontale – Funzioni esecutive.

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Funzioni Esecutive in adolescenza: 2. Aspetti psicopatologici Development of Executive Functions in adolescence: psychopathological issues Michele Poletti*

Summary The brain undergoes a period of marked development during adolescence, due to the processes of synaptic pruning and myelination, improving the efficiency of cortical and cortico-subcortical connectivity. This brain development has a significant impact on cognitive and emotional processing of adolescents. To describe the correlates of adolescent brain maturation it’s here proposed a prefrontal framework that highlights anatomical, functional and developmental differences between executive functions based on the Dorsolateral Prefrontal Cortex and executive functions based on the Orbitofrontal Cortex. This prefrontal framework is useful to describe also some clinical pictures that affect adolescents. Attention Deficit/Hyperactivity Disorder, taken as prototype of externalizing disorders, is characterized by alterations of both types of executive functions, with differences within clinical subtypes; Major Depression, taken as prototype of internalizing disorder, is characterized by an alteration of executive functions based on the Orbitofrontal Cortex. Key words Adolescence – Brain development – Prefrontal framework – Executive Functions – ADHD – Major Depression.

1. Introduzione Nell’articolo che precede il presente contributo (“Funzioni esecutive in adolescenza: 1. Evidenze neuroradiologiche e neuropsicologiche”) si è analizzato come gli studi sullo sviluppo cerebrale in adolescenza mostrino processi di mielinizzazione e pruning sinaptico che incidono con tempi diversi sulle strutture del nodo affettivo e del nodo cognitivo-regolatore; infatti le aree cerebrali connesse al nodo affettivo maturano prima di quelle connesse al nodo cognitivo regolatore (Galvan et al., 2006; Rubia et al., 2000) e quanto evidenziato dalle neuroimmagini è anche confermato dalla diversa curva di sviluppo delle prestazioni degli adolescenti in compiti connessi alla Corteccia Orbitofrontale (compiti decisionali) rispetto a quelle in compiti connessi ad altre porzioni della corteccia prefrontale, quale quella Dorsolaterale (per * Servizio di Neuropsichiatria Infantile, Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche, Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia.


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esempio nei compiti di memoria di lavoro). Le prestazioni nei compiti connessi alla Corteccia Orbitofrontale generalmente raggiungono un livello pari a quello adulto con alcuni anni di anticipo rispetto alle prestazioni in compiti sensibili ad altri settori della Corteccia Prefrontale, che continuano a maturare fino alla giovane età adulta (Steinberg, 2008). Le aree prefrontali del nodo cognitivo-regolatore raggiungono un livello funzionale maturo ad un‘età successiva e grazie alla mielinizzazione delle fibre che connettono corteccia prefrontale e strutture sottocorticali delle aree limbiche e paralimbiche (amigdala, nucleus accumbens e ippocampo), le quali progressivamente modulano in modo sempre più efficace le strutture del nodo affettivo, come testimoniato dall’impressione di crescente controllo sui propri impulsi riferita dagli adolescenti (Steinberg et al., 2008). La disparità di tempi maturativi tra nodo affettivo e nodo cognitivo-regolatore determina l’importante conseguenza che, per un certo periodo di tempo, l’attivazione del nodo affettivo non sia adeguatamente controbilanciata da una adeguata capacità di controllo da parte del nodo cognitivo-regolatore (Yurgelun-Todd, 2007). A livello macroscopico questo può portare ad una forte attivazione di fronte a stimoli emotigeni o sociali e ad una difficoltà nel modulare le risposte affettive a tali stimoli (Hare et al., 2008). Durante l’adolescenza si apre quindi una finestra temporale di diverso livello di attività tra nodo affettivo e nodo cognitivo-regolatore: l’attivazione del primo è scarsamente controllata dal secondo, fino a che il completamento della maturazione cerebrale non ristabilisce un equilibrio funzionale tra i due sistemi. Questa disparità maturativa tra differenti porzioni della Corteccia Prefrontale e le rispettive connessioni con strutture sottocorticali è ritenuta una delle possibili cause dell’aumentata propensione al rischio degli adolescenti (Galvan et al., 2006). Infatti sia i dati epidemiologici che la comune esperienza quotidiana mostrano come gli adolescenti mettano in atto numerosi comportamenti a rischio (mancato uso delle cinture di sicurezza, guida in stato di ebbrezza, violenza fisica, tentati suicidi, abuso di tabacco, alcol, marijuana e cocaina, condotte sessuali non protette, abbuffate alimentari) che ne innalzano fortemente l’incidenza di morbilità e di mortalità (Steinberg, 2004). Questa propensione all’azione degli adolescenti, poco regolata da un’ancora immatura capacità di giudizio delle possibili conseguenze, potrebbe quindi essere il risultato comportamentale dell’alta eccitabilità del nodo affettivo e dello scarso autocontrollo esercitato dal nodo cognitivo-regolatore (Poletti, 2007; Powell, 2006). Questa relazione è sostenuta da un recente studio che ha dimostrato come in un gruppo di adolescenti, la propensione al mettere in atto comportamenti rischiosi, valutata con un questionario, correli direttamente con l’attivazione di una struttura del nodo affettivo (il nucleo accumbens) nella fase di previsione delle ricompense economiche erogate durante un gioco monetario (Galvan et al., 2007): cioè maggiore è la reattività del nodo affettivo, maggiore è la propensione al rischio degli adolescenti. Se i processi di maturazione cerebrale sono chiamati in causa nella determinazione dei comportamenti a rischio degli adolescenti, questa prospettiva di ricerca si è allargata anche allo studio di alcune psicopatologie che esordiscono spesso in adolescenza (Paus et al., 2008). L’indagine di alcune psicopatologie quali il Disturbo Depressivo e il Disturbo da Deficit d’Attenzione/Iperattività dimostra l’utilità an-


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che in campo clinico della distinzione proposta tra Funzione Esecutive connesse al nodo affettivo (“calde”) e Funzioni Esecutive connesse al nodo cognitivo-regolatore (“fredde”). 2. Depressione La depressione è uno tra i disturbi psicopatologici diagnosticabili già in fase evolutiva, anche se spesso si verifica un ritardo nella diagnosi rispetto all’insorgenza dei primi sintomi affettivi con tonalità depressive; infatti, i criteri diagnostici del DSM-IV TR tengono poco in considerazione le differenti caratteristiche cliniche età-correlate dei disturbi depressivi. A livello epidemiologico, la prevalenza della Depressione Maggiore è stimata tra l’1.8% e in 2.5% in età prepubere e tra il 2.9% e il 4.7% negli adolescenti (SINPIA, 2008). La prevalenza del Disturbo Distimico è stimata tra lo 0.6% e il 4.6% nei bambini e tra l’1.6% e l’8% negli adolescenti. Lo studio epidemiologico PRISMA condotto in Italia su un campione totale di 3418 adolescenti tra i 10 e i 14 anni di età riporta una prevalenza del 6.5% di disturbi emozionali (disturbi dell’umore e disturbi d’ansia) (Frigerio et al., 2009). L’incidenza della sintomatologia sembra aumentare dopo la pubertà e la prevalenza stimata negli adolescenti è simile a quella degli adulti, suggerendo che la depressione degli adulti spesso esordisca in adolescenza. L’indagine neuropsicologica negli adolescenti con disturbo depressivo riporta prestazioni nella norma in compiti esecutivi “freddi” (Favre et al., 2009), mentre alterazioni a livello comportamentale e a livello neurale sono evidenti durante l’esecuzione di compiti esecutivi “caldi”, quali i compiti decisionali. A livello comportamentale gli adolescenti con disturbo depressivo hanno difficoltà nel discriminare le varie opzioni di scelta in base al valore delle ricompense possibili (Forbes et al., 2007). A livello neurale gli adolescenti con disturbo depressivo mostrano una ridotta attività della Corteccia Orbitofrontale (Forbes et al., 2006) e del nucleo striato ventrale (Forbes et al., 2009) durante compiti di scelta con incentivi monetari, sia durante la fase di previsione sia durante la fase di valutazione delle ricompense ottenute (come rassegna Poletti, 2008a). Una ridotta attività neurale del nodo affettivo, in particolare a livello striatale, di fronte a stimoli a valenza positiva, sembra suggerire che gli adolescenti con disturbo depressivo abbiano difficoltà nel valutare quanto uno stimolo possa essere un rinforzo per il soggetto stesso. Tale dato è importante in quanto è in linea con l’ipotesi che l’insorgenza della depressione sia legata ad una riduzione dell’affettività positiva, cioè della capacità di trarre piacere dai risultati delle proprie azioni (Forbes e Dahl, 2005). In modo contro-intuitivo, infatti, la depressione non è tanto connessa ad un incremento patologico dell’affettività negativa, quanto ad una riduzione patologica dell’affettività positiva, che si manifesta nel frequente sintomo dell’anedonia: semplificando, si è depressi non tanto perché si provano più emozioni negative rispetto al normale livello soggettivo, quanto perché non si è più in grado di provare emozioni positive.


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Come precedentemente ricordato, in adolescenza si verifica il picco di sensibilità verso gli stimoli sociali, in particolare verso il gruppo dei pari e questa sensibilità porta gli adolescenti a prefigurarsi obiettivi e relative gratificazioni inerenti l’affiliazione e il proprio ruolo nei contesti sociali. La prefigurazione di obiettivi e gratificazioni attiva il nodo affettivo di valutazione delle ricompense, motivando gli adolescenti all’azione. Se tali gratificazioni non vengono però raggiunte, il nodo affettivo può andare incontro ad una temporanea soppressione, risultante in una minore affettività positiva capace di innescare lo stato depressivo (Davey et al., 2008). Tale ipotesi sul meccanismo scatenante la depressione in adolescenza rimane per lo più su un piano speculativo, in quanto la temporanea soppressione del nodo affettivo in seguito al mancato raggiungimento delle gratificazioni prefigurate è stata verificata in studi di laboratorio, per brevi intervalli temporali, e con incentivi concreti, ma non si dispone oggi di misurazioni analoghe per gratificazioni di natura sociale. Infine occorre ricordare la complessità del fenomeno dell’insorgenza di un disturbo dell’umore in adolescenza: se in questo periodo di vita esperienze negative quali la rottura di amicizie, di relazioni intime o l’esclusione dal gruppo sono abbastanza frequenti, perché solo una minoranza, seppur significativa, di adolescenti sviluppano depressione? La soppressione del sistema di valutazione delle gratificazioni si accompagna probabilmente alla presenza di altri fattori di rischio (genetici, ormonali, familiari, ambientali) ed all’assenza di fattori protettivi nell’innescare l’esordio depressivo (Poletti, 2011). 3. Disturbo da deficit d’attenzione/iperattività Il Disturbo da Deficit d’Attenzione/Iperattività (DDAI) viene oggi considerato un disturbo ad eziologia primariamente neurobiologica (Swanson et al., 2007), come suggerito da studi di neuroimmagine, che hanno evidenziato disfunzioni della Corteccia Prefrontale (Shaw e Rabin, 2009). L’approccio neuropsicologico classico nei bambini e negli adolescenti con DDAI ha individuato nel deficit del controllo inibitorio a livello motorio il cuore della disfunzione esecutiva dei soggetti con DDAI (Nigg, 2005). Il controllo inibitorio motorio è una Funzione Esecutiva “Fredda” che permette di bloccare un comportamento già predisposto per essere messo in atto. Numerosi studi neuropsicologici hanno individuato che la curva di sviluppo di tale funzione si conclude intorno ai 14-15 anni, età in cui le prestazioni raggiungono un livello simile a quello degli adulti (Romine e Reynolds, 2005). In realtà studi neuropsicologici più recenti con ampie batterie di test esecutivi mostrano che i soggetti con DDAI presentano profili di funzionamento esecutivo molto eterogenei tra loro (Lijffjt et al., 2005). Per esempio una recente meta analisi (Wilcutt et al., 2005) degli studi neuropsicologici nei soggetti con DDAI, riporta un deficit della memoria di lavoro spaziale, soprattutto nella sua componente di manipolazione delle informazioni, come dato comune di questa popolazione clinica. Per venire a capo dell’eterogeneità delle prestazioni dei soggetti con DDAI si è allora ipotizzato che la disfunzione esecutiva “fredda” (controllo inibitorio motorio, memoria di lavoro), sia connessa al deficit di attenzione ma non alla dimensione iperattività/impulsività: si va cioè nella


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direzione di una diversificazione di tale disturbo in sottotipi (Diamond, 2005). Una migliore descrizione dei deficit cognitivi alla base del DDAI si ottiene, infatti, considerando sia deficit a livello delle Funzioni Esecutive “fredde” sia deficit a livello delle Funzioni Esecutive “calde” (Castellanos et al., 2006). Nei soggetti con DDAI si può riscontrare una doppia dissociazione tra queste tipologie di Funzioni Esecutive e l’associazione tra queste due caratteristiche cliniche è capace di descrivere i deficit di circa il 90% dei soggetti con tale disturbo (Sonuga-Barke, Dalen e Remington, 2003). In particolare i sintomi di inattenzione potrebbero essere connessi ad un deficit delle funzioni esecutive “fredde” (deficit di inibizione motoria e della memoria di lavoro), mentre i sintomi di iperattività/impulsività siano connessi ad un deficit delle Funzioni Esecutive “calde” (tendenza all’avversione per il ritardo evidenziata nei compiti decisionali). Questo approccio predice quindi che alcuni individui con DDAI manifestino un deficit delle Funzioni Esecutive “calde”, alcuni individui manifestino un deficit delle Funzioni Esecutive “fredde”, mentre altri soggetti manifestino entrambi i deficit. Un deficit delle Funzioni Esecutive “calde”, associato ai sintomi di iperattività/impulsività ma non ai sintomi di inattenzione, è stato riportato in numerosi studi con bambini e adolescenti con DDAI, sia in compiti di ritardo della gratificazione (Olson et al., 2007; Scheres et al., 2010) che in compiti decisionali (Toplak et al., 2005) (Poletti, 2008b). 4. Discussione In sintesi l’esame del disturbo depressivo e del DDAI in adolescenza dimostra l’utilità della distinzione proposta tra Funzioni Esecutive “fredde” e Funzioni Esecutive “calde” anche da un punto di vista clinico. In un disturbo internalizzante quale la depressione si riscontra una ridotta attività delle Funzioni Esecutive “calde”; in altre parole il nodo affettivo, in particolare delle sue componenti sottocorticali, risulta ipoattivo di fronte a stimoli positivi: ciò potrebbe causare la difficoltà dei soggetti depressi nel provare emozioni positive. Invece, in un disturbo esternalizzante quale il DDAI, la disfunzione delle Funzioni Esecutive “fredde” si associa ai sintomi di inattenzione, mentre la disfunzione delle Funzioni Esecutive “calde” si associa alla dimensione iperattività/impulsività. In questo caso il nodo affettivo risulta iper-reattivo di fronte a stimoli positivi, spingendo l’individuo verso modalità impulsive e iperattive di comportamento, mentre il nodo cognitivo-regolatore risulta ipoattivo, garantendo una scarsa attenzione e regolazione del comportamento stesso, che risulta quindi frammentario e poco orientato verso scopi specifici. Questo approccio teorico alle Funzioni Esecutive dimostra la sua utilità clinica nella comprensione dei comportamenti a rischio degli adolescenti e di alcune psicopatologie a esordio infantile o adolescenziale quale la depressione e il DDAI, suggerendo la necessità di studiare altre popolazioni cliniche da questo punto di vista. In particolare occorre indagare se differenti tipologie di disturbi di sviluppo siano associati a differenti profili di funzionamento esecutivo. In particolare, sulla base di studi recenti condotti su adolescenti con disturbi di internalizzazione quali ansia (Beesdo


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et al., 2009) e depressione (Monk et al., 2008) e disturbi di esternalizzazione quali il DDAI ed il Disturbo della Condotta (Bjork et al., 2009; Gatzke-Kopp et al., 2009; Herba et al., 2006) è possibile ipotizzare che differenti profili di funzionamento esecutivo caratterizzino queste due macrocategorie di disturbi di sviluppo. Un nodo affettivo iper-reattivo alle stimolazioni negative o minacciose e iporeattivo alle gratificazioni potrebbe essere alla base dei disturbi di internalizzazione; al contrario un nodo affettivo iper-reattivo alle gratificazioni, scarsamente modulato da un ipoattivo nodo cognitivo-regolatore potrebbe essere alla base dei disturbi di esternalizzazione. 5. Conclusioni: implicazioni cliniche L’evidenza empirica di una disfunzione esecutiva associata a numerosi disturbi dello sviluppo, quali il disturbo depressivo e il DDAI, può offrire uno strumento clinico aggiuntivo nella fase di assessment. Per prima cosa la valutazione del livello di disfunzione esecutiva può fornire un’indicazione indiretta del livello di gravità del disturbo. Inoltre questa informazione, se affiancata agli altri dati che il clinico raccoglie nella fase di assessment, può aiutare 1) nella formulazione di una diagnosi; 2) nella predizione della possibile efficacia dei trattamenti psicoterapici o farmacologici (Forbes et al., 2010); 3) nella valutazione degli effetti degli interventi psicoterapici o riabilitativi, alla fine del trattamento medesimo ed nella fase di follow-up successiva. Per esempio, facendo particolare riferimento alle psicopatologie precedentemente esaminate, gli interventi per il disturbo depressivo in adolescenza sono generalmente di tipo psicoterapico o farmacologico, mentre gli interventi per il DDAI in infanzia ed in adolescenza sono generalmente di tipo farmacologico o psicoeducativo. Per quanto riguarda il disturbo depressivo è possibile ipotizzare che un miglioramento del tono dell’umore dovuto alle diverse terapie si accompagni a un miglioramento delle prestazioni nei compiti esecutivi, confermando indirettamente gli effetti benefici dei trattamenti medesimi. Per quanto riguarda il DDAI, la scoperta di difficoltà a carico di specifiche Funzioni Esecutive permette non solo di valutare possibili effetti benefici degli interventi terapeutici, ma suggerisce anche la possibilità di riabilitare direttamente tali funzioni. Alcuni studi mostrano infatti l’efficacia di alcuni interventi riabilitativi intensivi, mirati su specifiche Funzioni Esecutive, sia in bambini sani (Holmes et al., 2009; Thorell et al., 2009) che con DDAI (Klingberg et al., 2005). Particolare efficacia si è dimostrata per la riabilitazione della memoria di lavoro, mentre per altre funzioni i dati sono più contrastanti; è importante sottolineare che in più studi la riabilitazione sulla memoria di lavoro ha prodotto benefici effetti-transfer su altre Funzioni Esecutive non trattate, quali la pianificazione e il controllo inibitorio (Poletti, 2009). Questi risultati, ottenuti principalmente su bambini e non su adolescenti, suggeriscono l’opportunità di intervenire quanto prima anche da un punto di vista riabilitativo cognitivo, ma aprono la possibilità di effettuare trattamenti con questo approccio anche in età successive.


FUNZIONI ESECUTIVE IN ADOLESCENZA: 2. ASPETTI PSICOPATOLOGICI

333

Riassunto Il cervello va incontro ad un periodo di marcato sviluppo durante l’adolescenza, a causa dei processi di mielinizzazione e pruning sinaptico, che migliorano l’efficienza delle connessioni corticali e corticali - sottocorticali. Lo sviluppo cerebrale ha un impatto significativo sullo sviluppo cognitivo ed affettivo degli adolescenti. Per descrivere i correlati dello sviluppo cerebrale in adolescenza viene proposto una cornice teorica che sottolinea le differenze anatomiche, funzionali ed evolutive tra funzioni esecutive connesse alla Corteccia Prefrontale Dorsolaterale e funzioni esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale. Questa cornice teorica si dimostra utile per descrivere alcuni disturbi psicopatologici che carateerizzano l’adolescenza. Il Disturbo da Deficit d’Attenzione/Iperattività, preso come prototipo dei disturbi esternalizzanti, è caratterizzato da alterazioni di entrambe le tipologie di funzioni esecutive, con differenze nei vari sottotipi clinici; al contrario, la depressione maggiore, presa come prototipo dei disturbi internalizzzanti, è caratterizzata da un’alterazione delle funzioni esecutive connesse alla Corteccia Orbitofrontale. Parole chiave Adolescenza – Sviluppo cerebrale – Corteccia prefrontale – Funzioni esecutive – Depressione maggiore – ADHD.

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M. POLETTI

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FUNZIONI ESECUTIVE IN ADOLESCENZA: 2. ASPETTI PSICOPATOLOGICI

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M. POLETTI

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 337-348

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Test per le prassie costruttive su modelli grafici MC2 e MC3 Graphic Praxis Test: MC2 and MC3 Roberto Carlo Russo*, Susanna Russo**, Silvia Russo***

Summary Considering the comprehension and execution difficulties experienced by children aged 4 to 13 in the case of euclidean relations, particularly as far as the Bender and the Rey B figure tests are concerned; considering furthermore that in 4 to 7 year olds no assessment is possible given the complexity of the test and the frequent occurrence in observers of varying evaluations, we were led to study the representative possibilities of some geometric figures. The tests MC2 were in all cases taken willingly, no subject refusing to perform the test. Standardization highlighted a significant evolution in score from 5 to 13 years. The test should be administered from 6 years onwards. Model MC3 deals with skills of comprehension and execution applied to euclidean relations, recognition of partially overlapping figures, their orientation, reciprocal layout and point of contact. Standardization highlighted an effective evolution from 7 years to adulthood. MC3 is advised from 8 years onwards. Key words Praxis – Graphic Praxis - Graphic Praxis Test.

Introduzione In clinica sono utilizzati per l’infanzia vari test per valutare le prassie visuo-costruttive su modello grafico e quelli più noti sono: la figura B di Rey, il test della Bender, le prove della Santucci e altre prove grafiche su modello inserite in test di valutazione globale. Questi test, ci riferiamo in particolare alle prove della Bender e a quella B di Rey, presentano marcate difficoltà esecutive nelle fasce d’età più basse, determinando atteggiamenti di rifiuto o esecuzioni approssimative di scarso impegno per le difficoltà di comprensione e di esecuzione del modello, anche a partire dai 6-7 anni per l’eccessiva complessità data dalla pluralità degli elementi da rappresentare e per l’analisi discriminativa delle figure geometriche parzialmente tra loro sovrapposte. Il test della Santucci per la fascia 4-6 anni è costituito da 8 prove che vengono valutate con un + o un – a seconda della riuscita; non viene dato un punteggio articolato per prova e le prove 5, 7, 8 e 9 sono decisamente inadeguate per il livello evolutivo * Neuropsichiatra infantile, Psicoterapeuta. Docente a Contratto presso presso Univ. di Pavia, Dip. di Clinica Neurol. e Psich., Direttore Scientifico del CSPPNI. ** Neuropsichiatra infantile, Psicoterapeuta. Az. Osp. L. Sacco, UONPIA. *** Psicologa e Psicoterapeuta. Consulente psicologa-psicoterapeuta presso Enti Comunali e Ospedalieri.


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R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

anche per i 6 anni. I test sopracitati propongono un unico modello da applicarsi in una fascia d’età molto ampia (4-8 anni e 4-11 anni) non tenendo in considerazione il processo evolutivo delle modalità di analisi percettiva e di rappresentazione delle figure geometriche. Per realizzare le prove grafiche su modello sono necessarie una adeguata analisi percettiva visiva, la comprensione dei rapporti spaziali del modello, la programmazione e l’esecuzione grafica. Per la capacità di rappresentazione grafica è indispensabile la conquista della funzione simbolica che permette l’analisi dei significanti spaziali degli elementi che costituiscono il modello e il relativo significato rappresentato. La rappresentazione grafica infantile inizia con intuizioni topologiche elementari quali la vicinanza, la separazione, l’inclusione, l’esclusione, la continuità; solo verso i 5 anni (a volte anche prima) si evidenzia l’uso dei rapporti euclidei più semplici (quadrato, triangolo), dopo i 6 anni quelli più complessi (rombo, figure geometriche irregolari), verso gli 8-9 anni la capacità di differenziare le singole forme variamente sovrapposte e verso i 9 anni i rapporti proiettivi. MC21 Il modello MC2 (Figura 1), affronta la comprensione e la capacità esecutiva dei rapporti euclidei, quali i rapporti tra gli angoli e tra le lunghezze, fattori essenziali per la costruzione delle figure geometriche. Oltre alla capacità esecutiva dei rapporti euclidei, viene anche valutato il controllo del segno grafico (tratto tremolante, rientranze, angolature, sovrapposizioni). Il modello è rappresentato dalla Figura 1 costituita da cinque elementi: cerchio, quadrato, triangolo, quadrilatero irregolare e rombo. Le prime tre figure sono di facile rappresentazione, mentre la quarta e la quinta presentano discrete difficoltà; in particolare il quadrilatero irregolare richiede una analisi particolare non essendo una figura geometrica di facile riscontro. Per l’applicazione la figura è di formato A4. Campione Sono stati testati 2715 bambini dai 5 ai 13 anni, a pari numero maschi e femmine, suddivisi per fasce d’età di 12 mesi (Tabella I). La ricerca è stata fatta negli anni 1985-1997 in: Bergamo, Brescia, Caltanissetta, Cantù, Milano, Monza, Varese, Vercelli e relative provincie.

1 Una prima ricerca Test per le prassie grafiche MC2 è stata pubblicata in R.C. Russo (1994), Indagini in Neuropsichiatria Infantile, Milano, Libreria Cortina, pp. 89-98. In questa indagine e nei successivi ampliamenti dei casi, hanno attivamente partecipato: J. Casagrande, L. Cesana, M. Conte, S. D’Oro, G. Marchini, A. Marras, D. Mazzola, T. Pretti, I. Pucci, M. Logora, L. Sala, A. Spadoni. Per specifiche e contatti www.csppi.it russo@csppi.it.


TEST PER LE PRASSIE COSTRUTTIVE SU MODELLI GRAFICI MC2 E MC3

339

Figura 1

Tabella I. Anni

5-6

6-7

7-8

8-9

9 - 10

10 - 11

11 - 12

12 - 13

Casi

100

400

500

515

400

400

300

100

Consegna Sarà indispensabile prima di effettuare la prova favorire un buon rapporto di fiducia con il bambino e presentare il test come un gioco. La consegna da dare è la seguente: “Copia queste figure come meglio sai fare e fa in modo che il tuo disegno sia sotto a quello eguale. Non c’è fretta hai tutto il tempo che vuoi”. Non sono ammessi righelli, compasso e gomma. In caso di richiesta può essere dato un altro foglio. Andrà valutata la resa migliore. Valutazione delle prove La valutazione delle prove è costituita da un punteggio per elemento: cerchio punti 4, quadrato punti 6, triangolo punti 5, quadrilatero irregolare punti 8, rombo


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R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

punti 9; la somma dei singoli punteggi è 32 punti (Figura 2). La valutazione differenziata maschi e femmine è stata fatta solo per le fasce d’età dai 6 agli 11 anni per 100 casi per fascia e ha evidenziato un punteggio medio complessivo per le quattro fasce d’età leggermente superiore nei maschi rispetto alla femmine (28,35 e 28,13). I dati da valutare sono stati scelti dopo una prima sperimentazione, in campioni di 20 casi per fasce d’età dai 5 ai 9 anni, per individuare le difficoltà evidenziate dagli errori più frequenti che sono stati presi in considerazione per la valutazione.

Figura 2. A) CERCHIO: 4 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettata figura circolare irregolare. 1 punto: cerchio chiuso, tolleranza di 1 millimetro. 1 punto: cerchio privo di nette angolature, di rientranze, di sovrapposizioni e di correzioni. B) QUADRATO: 6 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettati quadrilateri irregolari. 1 punto: differenza tra due lati adiacenti inferiore a ¼ del lato maggiore (vedi Griglia 1). 1 punto: assenza di lati debordanti (tolleranza 1 millimetro) o mancanza di unione. 1 punto: assenza di angoli arrotondati o correzioni. 1 punto: assenza di angoli minori di 75° (vedi Griglia 2). C) TRIANGOLO: 5 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettata se formata da tre lati, anche se curvi. 1 punto: assenza di lati debordanti (tolleranza 1 millimetro) o mancanza d’unione. 1 punto: assenza di angoli arrotondati o correzioni. 1 punto: assenza di un angolo maggiore di 90° (vedi Griglia 2). D) QUADRILATERO IRREGOLARE: 8 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettata forma triangolare e poligoni irregolari anche se con 5 lati. 1 punto: presenza di quattro angoli di cui uno ottuso. 1 punto: angolo ottuso compreso tra 115° e 150° (vedi Griglia 2). 1 punto: angolo retto con errore non superiore a ± 5° (vedi Griglia 2). 1 punto: angolo retto con errore non superiore a ± 15° (vedi Griglia 2). 1 punto: assenza di angoli arrotondati o corretti con un quinto lato. 1 punto: assenza di rotazione della figura o rotazione minore di 45°. E) ROMBO: 9 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile,accettato anche un quadrilatero irregolare. 1 punto: incrocio delle diagonali = 90° ± 5° (vedi Griglia 2). 1 punto: incrocio delle diagonali = 90° ± 15° (vedi Griglia 2). 1 punto: presenza di quattro angoli, 2 acuti opposti e due ottusi. 1 punto: diagonale maggiore > della minore + 40% della minore (vedi Griglia 3). 1 punto: semidiagonali < del 60% di tutta la diagonale corrispondente (vedi Griglia 4). 1 punto: assenza di uno o più angoli a 90°. 1 punto: assenza di tratti curvilinei o correzioni o aperture.


341

TEST PER LE PRASSIE COSTRUTTIVE SU MODELLI GRAFICI MC2 E MC3

La valutazione è facilitata da apposite griglie per gli angoli, per la differenza tra i due lati del quadrato, per i rapporti tra le diagonali del rombo e per i rapporti tra le semidiagonali del rombo. Età di applicazione L’età in cui è stata applicata la prova è dai 5 ai 13 anni, ma è risultata più significativa a partire dai 6 anni. La prova è stata utile anche nell’età adulta in particolare per lo studio del recupero delle capacità prassiche negli esiti di coma. Nelle fasce 6-7 e 7-8 anni l’esecuzione del quadrilatero irregolare e del rombo risultano complesse e presentano diversi errori, mentre sono più accettate e significative dagli 8 anni in avanti. Analisi dei dati Il Grafico 1 mostra la distribuzione percentuale della frequenza per classi di valori e per fasce d’età.

MC2 - Frequenza e classi di valori-percentuali MC2 - Frequenza perper et_età e classi di valori - percentuali %

80 60 40 20 0 13- 14

15- 16

17- 18

19- 20

21- 22

23- 24

25- 26

27- 28

29- 30

31- 32

5- 6 anni

7- 8 8

9- 10 9

11- 12 13

6

8

16

8

7

6

7

7

5

0

6- 7 anni

0

0,75

0,5

1,25

3,5

2,75

5,25

6,25

12,75

15,5

22,5

19,25

9,75

7- 8 anni

0

0

0

0,6

0,2

1

2,8

3

6,6

13,4

22,6

30,6

19,2

8- 9 anni

0

0

0

0

0

0,19

0,58

3,88

4,07

8,35

20,39

36,7

25,82

9- 10 anni

0

0

0

0

0

0

0

0,25

2

2,25

10,75

31,75

53

10- 11 anni

0

0

0

0

0

0

0

0

0

1,5

10,75

33,25

54,5

11- 12 anni

0

0

0

0

0

0

0

0

0,33

1,66

6,33

23,66

68

1

3

17

79

12- 13 anni CL ASSI D I V ALO RI

Grafico 1.

5- 6 anni 6- 7 anni 7- 8 anni 8- 9 anni 9- 10 anni 10- 11 anni 11- 12 anni 12- 13 anni


342

R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

MC2 - Grafico di centilaggio

Grafico 2.

Il Grafico 2 mostra la distribuzione del centilaggio per fasce d’età e per classi di valori. La curva relativa alla fascia 5-6 ha un andamento poco significativo, pertanto si ritiene la prova poco attendibile in questa età, anche se un certo numero di soggetti ha dato buone risposte. La distribuzione delle altre curve ha dimostrato la valida progressione evolutiva della prova che stabilizza i valori normali tra i 30 e i 32 punti in circa l’80% dei casi nella fascia 12-13 anni, pertanto si può considerare raggiunta una risposta ottimale a questa età. Conclusioni La prova è sempre stata accettata da tutti i bambini, realizzata in tempi brevi (1-2 minuti), non ha richiesto specifiche rispetto alla consegna data. Per tutti i soggetti il quadrilatero irregolare è quello che ha dato maggiore difficoltà rappresentativa. Visti i risultati la prova MC2 si considera significativa a partire dai 6 anni.


TEST PER LE PRASSIE COSTRUTTIVE SU MODELLI GRAFICI MC2 E MC3

343

MC 32 Il modello MC3 è rappresentato nella Figura 3 costituita da un cerchio, un asse verticale, un triangolo, un rettangolo e due secanti. Il modello indaga la capacità di discriminare le diverse figure parzialmente sovrapposte e i rapporti tra i diversi elementi inseriti nel cerchio e in rapporto all’asse verticale. Per l’applicazione la figura è in formato A4. Figura 3.

MC3

Russo R.C.-1981

2 Una prima ricerca Test per le prassie grafiche MC3, è stata pubblicata in R.C. Russo (1994), Indagini in Neuropsichiatria Infantile, Milano, Libreria Cortina, pp. 99-110. In questa indagine e nei successivi ampliamenti dei casi, hanno attivamente partecipato: E. Alvigini, A. Baldari, N. Bassi, I. Bellini, S. Bernardo, E. Caldera, L. Cesana, A. Favilla, P. Livio, G. Marchini, D. Mazzola, S. Resca, M. Rogora, A. Rubagotti, L. Sala, A. Spadoni, V. Re. Per specifiche e contatti www.csppi. it russo@csppi.it.


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R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

Campione Sono stati testati 2600 bambini dai 7 ai 14 anni e adulti, pari numero maschi e femmine, suddivisi per fasce d’età di 12 mesi (Tabella II). La ricerca è stata fatta negli anni 1985-1999 in: Bergamo, Brescia, Como, Milano e Varese. Tabella II.

Anni Casi

7-8 400

8-9 400

9 - 10 400

10 - 11 400

11 - 12 400

12 - 13 400

13 - 14 100

Adulto 100

Consegna Sarà indispensabile prima di effettuare la prova favorire un buon rapporto di fiducia con il bambino e presentare il test come un gioco. La consegna da dare è la seguente: “Copia queste figure come meglio sai fare. Disegna prima il cerchio, poi la linea verticale, poi il triangolo e poi gli altri elementi. Non c’è fretta hai tutto il tempo che vuoi”. È importante che il bambino comprenda bene la consegna in quanto per una corretta valutazione deve essere rispettato l’ordine di esecuzione. Non sono ammessi righelli, compasso e gomma. In caso di richiesta può essere dato un altro foglio. Andrà valutata la resa migliore. Valutazione delle prove La valutazione delle prove è costituita da un punteggio per elemento: la somma dei singoli punteggi è 31 punti (Figura 4). La valutazione differenziata maschi e femmine è stata fatta solo per le fasce d’età dai 7 agli 11 anni per 100 casi per fascia e ha evidenziato un punteggio medio complessivo per le quattro fasce d’età leggermente superiore nei maschi rispetto alla femmine (28,96 e 28,10). I dati da valutare sono stati scelti dopo una prima sperimentazione, in campioni di 20 casi per fascia d’età dai 7 agli 11 anni, per individuare le difficoltà evidenziate dagli errori più frequenti che sono stati presi in considerazione per la valutazione.

Figura 4. A) CERCHIO: 4 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettata figura circolare anche irregolare. 1 punto: cerchio chiuso, tolleranza 0,5 millimetri. 1 punto: cerchio privo di nette angolature o rientranze o aperture.


TEST PER LE PRASSIE COSTRUTTIVE SU MODELLI GRAFICI MC2 E MC3

345

B) ASSE: 5 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: asse interno al cerchio. 1 punto: asse completo, attraversa tutto il cerchio e il rettangolo. 1 punto: asse a 90° ± 3° (vedi Griglia 1). 1 punto: asse/mediana, accettato errore massimo del 5% del diametro orizzontale (vedi Griglia 2). C) SECANTI: 6 punti 1 punto: presenza di due sole secanti. 1 punto: presenza di una secante. 1 punto: assenza di secante tangente al cerchio. 1 punto: assenza di una secante esterna al cerchio. 1 punto: assenza di due secanti esterne al cerchio. 1 punto: assenza di una o due secanti oltre il quarto inferiore del diametro verticale o presenza di secante incompleta. D) RETTANGOLO: 9 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, accettato anche quadrilatero irregolare. 1 punto: prolungamento del lato sinistro esterna e non tangente al cerchio. 1 punto: rettangolo contatta il triangolo in un solo punto. 1 punto: rettangolo con lato superiore esterno, non tangente o non secante il cerchio. 1 punto: rettangolo col lato destro non tutto esterno o non tutto interno al cerchio. 1 punto: rettangolo col lato destro non sull’asse o alla sua sinistra o assente. 1 punto: rettangolo col lato inferiore non allineato alla base del triangolo o non al di sotto o non tutto interno o non intersecante in due punti il cerchio. 1 punto: rettangolo non fuori dal cerchio o non tutto interno. E) TRIANGOLO: 7 punti 1 punto: presenza della figura. 1 punto: figura riconoscibile, presenza di tre angoli. 1 punto: presenza di due vertici esterni e di uno interno al cerchio. 1 punto: triangolo col lato destro esterno e non tangente al cerchio. 1 punto: triangolo con la base nella metà superiore del cerchio. 1 punto: triangolo col vertice sinistro in contatto con l’asse in un solo punto. 1 punto: triangolo non esterno al cerchio o non tutto interno.

Età di applicazione L’età in cui è stata applicata la prova è dai 7 ai 14 anni e un campione di adulti. La prova si è verificata utile anche nell’età adulta in particolare per lo studio del recupero delle capacità prassiche negli esiti di coma (ricerca non pubblicata). Nelle fasce 6-7 e 7-8 anni l’esecuzione presenta diversi errori di rapporto tra gli elementi. Dopo gli 8 anni la prova diventa più significativa. Analisi dei dati La valutazione è facilitata dalla possibilità di applicare apposite griglie per gli angoli, per la distanza asse/circonferenza. Il Grafico 3 mostra la distribuzione percentuale della frequenza per classi di valori e per fasce d’età.


346

R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

MC3 - Grafico di centilaggio - percentuali %

70 60 50 40 30 20 10 0 7-8ANNI

16--17 0,25

18--19 1

20--21 1,75

22--23 8,5

8-9ANNI

0,25

0,5

1

2

9-10 ANNI

0

0

0,25

2,75

10-11 ANNI

0

0

0,5

1,5

11-12 ANNI

0

0

0

1

12-13 ANNI

0

0

0

13-14 ANNI

0

0

0

0

ADULTI

24--25 23

26-27 35

28--29 24,5

30--31 6

27

37

22

22,25

35

31,5

5,75

16

41,5

34,75

3,5

16

43

36,5

0,25

2,5

14,5

39

43,75

0

0

1

11

38

50

0

0

1

2

34

63

10,25 8

7-8ANNI 8-9ANNI 9-10 ANNI 10-11 ANNI 11-12 ANNI 12-13 ANNI 13-14 ANNI ADULTI

Classi di valori

Grafico 3.

L’analisi della tipologia della frequenza degli errori ha messo in evidenza le maggiori difficoltà di rappresentazione per la parziale sovrapposizione e per il rispetto dei rapporti fra gli elementi. Non si sono evidenziate significative differenze tra la resa dei maschi e quella delle femmine (dati non riportati). La maggior frequenza degli errori è stata per il rettangolo e per il triangolo, per il rettangolo il mancato contatto con il triangolo, per il triangolo il contatto con l’asse e la base nella metà inferiore del cerchio. La prova ha creato notevoli difficoltà in molti bambini nella fascia 7-8 anni nella quale solo il 6% ha quotato un punteggio nell’ultima classe di valori; per contro nella fascia d’età successiva il 22% dei casi ha raggiunto l’ultima classe di valori. Il Grafico 4 esprime le curve del centilaggio necessarie per potere valutare i soggetti da testare. Di norma si considera valido il valore tra il 25° e il 75° percentile.


347

TEST PER LE PRASSIE COSTRUTTIVE SU MODELLI GRAFICI MC2 E MC3

100

MC3 - Grafico di centilaggio

%

75

50

25

0 17

19

21

23

25

27

29

31

PUNTEGGIO 7-8 anni

8-9 anni

9-10 anni

10-11 anni

11-12 anni

12-13 anni

13-14 anni

Adulti

Grafico 4.

Conclusioni La prova è sempre stata accettata da tutti i bambini, realizzata in tempi brevi (1-2 minuti), non ha richiesto specifiche rispetto alla consegna data. Visto i risultati, pur considerando che possa avere valore anche nella fascia 7-8 anni, la prova MC3 si considera più rappresentativa per le difficoltà implicite a partire dagli 8 anni. Riassunto Nell’infanzia vengono usati vari test per valutare le prassie visuo-costruttive su modello grafico e tra le più note vanno menzionate la figura B di Rey, il test della Bender, le prove della Santucci che presentano marcate difficoltà esecutive nelle fasce d’età più basse, determinando atteggiamenti di rifiuto o esecuzioni approssimative di scarso impegno per le difficoltà di comprensione e di esecuzione del modello, anche a partire dai 6-7 anni per l’eccessiva complessità data dalla pluralità degli elementi da rappresentare, l’orientamento spaziale e la difficoltà discriminativa delle figure geometriche parzialmente tra loro sovrapposte. Questi test, inoltre, propongono un unico modello da applicarsi in una fascia d’età molto ampia (4-8 anni per la prova B di Rey, 5-11 anni per le prove della Bender e 4-7 anni per le prove della Santucci) non tenendo in considerazione il processo evolutivo delle modalità di analisi percettiva e di rappresentazione delle figure geometri-


348

R.C. RUSSO - S. RUSSO - S. RUSSO

che. Il modello MC2 affronta il riconoscimento delle diverse figure, la comprensione dei rapporti euclidei e la capacità esecutiva; la standardizzazione ha evidenziato una valida evoluzione dai 6 anni all’adulto. Il modello MC3 affronta il riconoscimento delle figure tra loro parzialmente sovrapposte, il loro orientamento, la reciproca disposizione e i punti di contatto; l’MC3 viene consigliato a partire dagli 8 anni. Parole chiave Prassie – Prassie grafiche – Test prassie grafiche.

Bibliografia Bender L. (1938), A Visual Motor Gelstalt Test and Its Clinical Use, Amer. Orthopsych. Ass., 3. Benton A.L. (1962), The visual retention test as a constructional praxis task, Conf. Neurol., 22: 141-155. Benton A.L., Vogel M.L. (1962), Three dimensional constructional praxis. A clinical test, Archives of Neurology, 7: 347-354. De Negri M. (1967), Le disfunzioni prattognosiche nell’età evolutiva, Inf. Anormale, Quaderno, 10. Di Cagno L., Ravetto F. (1966), Disturbi prattognosici in bambini con danno cerebrale minimo, Estratto di Minerva Pediatrica. Galifret-Granjon N., Santucci H. (1969), Test ricavato da Kohs-Goldstein, in R. Zazzo, Manuale per l’esame psicologico del bambino, vol. 1, parte 2, pp. 299-329, Roma, Ed. Riuniti, 1975. Kohs S.C. (1923), Intelligence measurement. A psychological and statistical study upon the block design-tests, London, Mc Millan. Luria A.R. (1973), Come lavora il cervello, Bologna, Il Mulino, 1977. Rey A. (1968), Épreuves d’intelligence pratique et psychomotricité, Neuchatel, Delachaux-Niestlé. Russo R.C. (1994), Test per le prassie grafiche MC1, MC2 e MC3, in R.C. Russo (1994), Indagini in Neuropsichiatria Infantile, Milano, Libreria Cortina, pp. 99110. Santucci H. (1969), Epreuve graphique d’organisation perceptive pour enfants de 4-6 ans, in R. Zazzo, Manuel pour l’examen psychologique de l’enfant, Roma, Ed. Riuniti, 1975.


Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 349-358

349

Profili neuropsicologici nel disturbo linguistico in età prescolare Neuropsychological Clusters of preschool children with Specific Language Impairment Paolo Stievano*, Maria Letizia Ferretti*, Giorgia Pietrosanti*, Roberta Penge*, Gabriel Levi*

Summary Most of children with Specific Language Impairment (SLI) have a number of associated problems (e.g. attentional or executive impairment, poor motor skills) which are not really considered in the usual classifications. Certain combinations of linguistic and non linguistic impairments could be used as more reliable markers for differentiated among these children. The aim of this study is to evaluate children not only in their language, but even in executive function and motor skills. Participants were 55 children with SLI (mean age: 60 months). Results of neuropsychological assessment lead to 3 Clusters of children with SLI. Key words Neuropsychological Clusters – Specific Language Impairment – Executive functions – Children motor skills.

Introduzione La popolazione dei bambini con disturbo linguistico (linguistic impairment) è caratterizzata da eterogeneità rispetto al tipo di compromissione delle singole componenti del linguaggio (fonologia, semantica, sintassi, pragmatica) e per la presenza di disturbi associati nelle altre aree dello sviluppo neuropsicologico. Infatti, oltre al deficit linguistico sono presenti deficit cognitivi extraverbali: socio cognitivi, nelle funzioni esecutive e nella coordinazione motoria (Bishop, 2002; Hill, 1998, 2001; Ullman, Pierpont, 2005; Stievano et al., 2008). Il deficit linguistico, in questa popolazione clinica, sembra non essere esclusivo e sufficiente per spiegare l’ampia fenomenologia clinica presente. Le difficoltà nel linguaggio possono costituire un motivo di segnalazione per una presa in carico del bambino, ma un’osservazione clinica più approfondita può evidenziare ulteriori deficit di sviluppo. Il profilo evolutivo delle competenze extraverbali di questi bambini può essere valutato in vista di una diagnosi e una presa in carico, che includa interventi specifici e mirati sui deficit individuati. Comprendere le comorbidità nei distur* Dipartimento

di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.


350

P. STIEVANO - M.L. FERRETTI - G. PIETROSANTI - R. PENGE - G. LEVI

bi di linguaggio ha implicazioni per lo studio della genetica, della neuropsicologia e per la prevenzione e il trattamento di questi disturbi (Pennington e Bishop, 2009). L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare la popolazione clinica dei bambini con disturbi di linguaggio, di tipo espressivo, non solo nel loro profilo linguistico, ma anche in altri domini neuropsicologici. L’analisi dei profili di sviluppo delle diverse competenze possono suggerire importanti indicazioni per la comprensione e per la clinica dei disturbi di sviluppo del linguaggio. Soggetti e metodi I bambini sono inclusi nel presente studio in base ai seguenti criteri: – almeno una prova di produzione linguistica con prestazioni deficitarie rispetto ai controlli (< 2 deviazioni standard); – comprensione verbale semantica e sintattica entro i limiti della norma; – livello cognitivo entro i limiti (entro una deviazione standard nel totale dei punteggi di performance o nella scala totale); – assenza di eventi patologici nel periodo pre, peri e postnatale; – assenza di alterazioni neurologiche all’esame neurologico standard, di disturbi emozionali rilevanti e di condizioni particolare svantaggio socio-ambientale. Il numero totale di bambini che soddisfano questi criteri è 55 (35 maschi, 20 femmine). L’età media dei soggetti è 60 mesi (5 anni) con range tra 4,9 e 6,1anni e deviazione standard di 7 mesi. Test somministrati Prove di valutazione dell’area linguistica – PROVE DI VALUTAZIONE DELLA COMPRENSIONE LINGUISTICA (D. Rustioni Metz Lancaster, 1994). La prova consente di determinare in modo accurato le capacità di comprensione di strutture linguistiche semplici e complesse. – TEST DI VOCABOLARIO RECETTIVO – PEABODY (PPVT) (L.M. Dunn e L.M. Dunn, 1981- Standardizzazione italiana G. Stella, C. Pizzioli e P. Tressoldi). È un test che misura la comprensione lessicale del bambino. – SPAN FONEMI. Valuta il numero di fonemi che il bambino è in grado di ripetere in sequenza. – LME - LUNGHEZZA MEDIA DELL’ENUNCIATO (Taeschner, Volterra, 1986). È stato valutato su un campione di linguaggio spontaneo e su un campione di linguaggio tratto da una prova di racconto (circa cinquanta enunciati comprensibili), calcolando il numero totale di parole diviso per il numero totale di enunciati considerati. – PROVA DI RACCONTO ORALE (“Il lupo e i sette capretti”, Penge et al., 2004; Ferretti et al., 2010). La prova consiste nella ripetizione orale del rac-


PROFILI NEUROPSICOLOGICI NEL DISTURBO LINGUISTICO IN ETÀ PRESCOLARE

351

conto precedentemente letto dall’operatore, “Il lupo ed i sette capretti”, tratto dall’omonima favola di Jakob e Wilhelm Grimm e adattato, per quanto riguarda il contenuto e le strutture linguistiche (semantiche, grammaticali e sintattiche), ad un’età compresa tra i 4 ed i 6 anni. Il racconto è conforme alla struttura interna della Grammatica delle Storie di Stein e Glenn. Per l’analisi del testo raccolto viene utilizzato un apposito protocollo che analizza il controllo dei contenuti, la forma sintattica utilizzata e parametri di coerenza e di coesione linguistica. In questo lavoro è stato assunto come indicatore il numero e la completezza dei contenuti riferiti. Prove di valutazione delle funzioni esecutive TEST DI MEMORIA DI LAVORO UDITIVO-VERBALE (Brizzolara, Casalini, Sbrana, Chilosi, Cipriani, 1999). È un test di memoria di lavoro fonologica, definito “uditivo-verbale” in riferimento alla modalità di presentazione del materiale ed alla procedura di risposta richiesta. È una prova di ripetizione di parole che consiste di 60 liste di parole di lunghezza crescente da 2 a 6, divise in 6 gruppi (10 per ogni gruppo, di cui 2 per ogni lunghezza da 2 a 6 parole) sulla base del tipo di parole: bisillabe ad alta frequenza, bisillabe a bassa frequenza, quadrisillabe ad alta frequenza, quadrisillabe a bassa frequenza, bisillabe fonologicamente simili e bisillabe fonologicamente diverse. CARD SORT (D. Fry, P.D. Zelazo, T. Palfai, 1995). È una prova che misura la capacità di set-shifting e di inibizione, senza richiedere una componente linguistica. La prova è basata su immagini che i bambini devono categorizzare per forma o per colore. L’abilità di set-shifting viene valutata attraverso la capacità del bambino di passare da un criterio di categorizzazione ad un altro nel corso del test. GIORNO & NOTTE (NIGHT & DAY) - Adattamento dello “Stroop-like day-night task” (Gerstatd, Hong e Diamond, 1994). È una prova che indaga il controllo sull’impulsività, la capacità di inibizione e la capacità di usare in modo flessibile le regole di un compito; è presente una componente linguistica prevalente nel processo del compito richiesto. TRIPLETTE DI MAGNETI - La prova con i cerchi “Pattern-making task”, adattata da Frith (1971 in Hughes, 1998) e usata come una misura delle funzioni esecutive da Passler, Isaac & Hynd (1985 in Hughes, 1998), valuta la flessibilità attentiva. MEMORIA DI LAVORO VISUOSPAZIALE “SPIN THE POTS / UN GIRO DI BARATTOLI” (Diamond, 1996). È un compito di ricerca visiva che misura la memoria di lavoro (WM) visuo-spaziale. TEST DELLA TORRE DI LONDRA (T.O.L) (Krikorian et al., 1994; Sonuga-Barke et al., 2002). È un test complesso che misura la capacità di pianificazione strategica e coinvolge le funzioni cognitive superiori, come l’attenzione selettiva e l’attenzione sostenuta, necessarie per le abilità di riconoscimento e selezione degli obiettivi e per la valutazione delle risposte appropriate ai feedback.


352

P. STIEVANO - M.L. FERRETTI - G. PIETROSANTI - R. PENGE - G. LEVI

Prove di valutazione dell’area motorio prassica GRIGLIA ANALISI PRASSIE TRANSITIVE – GAP-T (M.L. Ferretti et al., 2007). Lo strumento valuta il grado di sviluppo delle abilità motorioprassiche del bambino, relativamente all’uso di oggetti di vita quotidiana. MOVEMENT ASSESMENT BATTERY FOR CHILDREN - M-ABC (S.E. Henderson, D.A. Sugden, 1992). Il test ha lo scopo di delineare e quantificare il livello di abilità motoria. VMI- DEVELOPMENTAL TEST OF VISUAL- MOTOR INTEGRATION (K.E. Beery, N.A. Buktenika, 1967; adattamento italiano, 2000). Il test valuta la capacità di integrazione delle abilità visive e motorie. È stata effettuata una Cluster Analysis gerarchica sui punteggi standardizzati di tutte le variabili oggetto della ricerca. Dall’analisi del dendrogramma sotto riportato sono stati classificati i soggetti in tre gruppi (clusters). Successivamente è stata effettuata una ulteriore analisi sui tre gruppi di soggetti (cluster k medie) in cui, attraverso una Anova univariata, sono state individuate le variabili significativamente (p<0,05) diverse nei tre clusters.

Viene riportato il dendrogramma di tutti i soggetti classificati in base alle variabili. Dall’analisi visiva del dendrogramma è possibile ipotizzare la presenza di tre gruppi di soggetti. CARATTERISTICHE DEI CLUSTER CLUSTER

NUMERO CASI IN OGNI CLUSTER

%

ETÀ MEDIA (mesi)

SEX M

SEX F

1

15

27,27

60 (5 anni)

8

7

2

12

21,81

60 (5 anni)

8

4

3

28

50,90

60 (5 anni)

19

9

TOTALE

55

100

60 (5 anni)

35

20


PROFILI NEUROPSICOLOGICI NEL DISTURBO LINGUISTICO IN ETÀ PRESCOLARE

353

MEDIE DELLE VARIABILI RISPETTO AI TRE GRUPPI Tabella 1. Funzioni esecutive. MEDIE

MEDIE

D S.

D.S.

MEDIE

D.S.

MEDIE

D.S.

MEDIE

D.S.

MEDIE

D.S

WM VIS

TOL

WM FON

CARD SORT

NIGHT DAY

TRIPLETTE

G_1:1

13,28

2,76

2,92

0,28

13,15

3,48

5,62

0,65

11,15

2,82

23,23

4,69

G_2:2

13,07

3,22

1,80

1,55

10,90

4,72

4,90

2,13

12,80

3,85

20,00

3,86

G_3:3

12,55

3,27

2,50

0,89

13,95

3,62

5,30

1,49

11,20

2,82

21,00

5,68

p <0,05

p <0,05

p <0,05

n. s.

n.s

p <0,05

Rispetto alle funzioni esecutive i tre gruppi definiti dalla cluster analisys si differenziano per tutte le prove somministrate tranne per quelle in cui il materiale di riferimento è prettamente visuo spaziale (memoria di lavoro visuospaziale, triplette di magneti). Tabella 2. Linguaggio.

MEDIE

D.S.

RUSTIONI

MEDIE

D.S.

PEABODY

MEDIE

D.S.

MEDIE

RACCONTO ORALE

LMEMED

D.S

G_1:1

77,146

13,82

84,1

13,47

4,91

0,6

9,81

4,79

G_2:2

77,34

17,64

85,1

13,42

4,84

0,6

9

4,44

G_3:3

79,095

14,89

86,9

10,26

4,69

0,6

8,25

3,3

n.s

n.s

n.s

p <0,05

Rispetto alle abilità linguistiche i soggetti sembrano avere prestazioni omogenee. Sono maggiormente differenziati rispetto alle loro prestazioni nel racconto orale. AREA MOTORIA E PRASSICA

MEDIE

D.S.

MEDIE

D.S.

MEDIE

D.S.

PRASSIE

ABC

VMI

G_1:1

81,077

4,663

7,08

9,962

96

14

G_2:2

74,2

5,116

4,7

7,35

98,6

12,7

G_3:3

81,1

5,524

3,78

4,525

101,1

11,4

p <0,05

p <0,05

n.s.


354

P. STIEVANO - M.L. FERRETTI - G. PIETROSANTI - R. PENGE - G. LEVI

Le prassie e le abilità grosso motorie differenziano i soggetti. Le capacità prassico-costruttive (copia di disegni VMI) sono omogenee nei tre clusters.

Grafico 1. Medie delle variabili che presentano differenze significative nei tre gruppi.

In sintesi dalle analisi effettuate emergono tre gruppi di soggetti con profili di sviluppo differenti all’interno della popolazione esaminata: Gruppo 1 (specific impairment): il deficit linguistico è prevalente; Gruppo 2 (executives functions): la compromissione più evidente è nelle funzioni esecutive (flessibilità, inibizione, pianificazione) e nelle prassie; Gruppo 3 (poor storyteller): la memoria di lavoro fonologica, il racconto orale e le abilità motorie sono le abilità più carenti. Tali considerazioni sono relative ad un confronto tra i soggetti all’interno del campione studiato. L’analisi successiva è relativa al confronto tra i soggetti con disturbo di linguaggio e le prestazioni dei bambini con sviluppo tipico. Vengono di seguito riportati i valori dei punteggi z, ricavati dai valori normativi, per ciascuna variabile che, in maniera significativa, differenzia i clusters. Per la valutazione delle funzioni esecutive i valori normativi di riferimento provengono da un campione di bambini con sviluppo tipico della stessa età di quelli esaminati (Adattamento italiano delle prove sulle funzioni esecutive, Stievano et al., 2010).

wm fon

flessibilità

inibizione

pianificazione

cluster 1

-0,94

0,4

-1,03

-1,26

cluster 2

-1,16

-0,92

-2,46

-1,95

cluster 3

-1,7

0,01

-0,53

-1,74


PROFILI NEUROPSICOLOGICI NEL DISTURBO LINGUISTICO IN ETÀ PRESCOLARE

355

Vengono di seguito riportati i punteggi z dei soggetti del campione clinico nelle variabili relative alle abilità motorie e prassiche: Abilità motorie (ABC)

Prassie

cluster 1

-0,01

0,33

cluster 2

-0.08

0,08

cluster 3

-1.48

0,25

I confronti dei punteggi ottenuti dai soggetti del campione clinico con quelli relativi ai bambini con sviluppo tipico evidenzia che ci sono punteggi patologici nei sottodomini delle Funzioni Esecutive (Inibizione, Pianificazione e Memoria di lavoro fonologica), ma non ci sono deficit nell’area motoria e prassica anche se queste abilità sono meno sviluppate in alcuni soggetti del campione rispetto ad altri e le abilità motorie (ABC) nel cluster 3 sono carenti. Evidenze sono presenti in studi precedenti sulla compromissione delle funzioni motorie e prassiche nei bambini con disturbo di linguaggio (Bishop et al., 2002; Hill, 1998, 2001). Discussione L’individuazione di sottotipi con caratteristiche neuropsicologiche specifiche all’interno della popolazione clinica dei disturbi di linguaggio può costituire, oltre ad un dato conoscitivo dei meccanismi evolutivi e delle interazioni dei processi neuropsicologici, un supporto orientativo nella clinica. In base ai dati in nostro possesso, nei bambini con disturbo linguistico, è auspicabile abbinare all’intervento riabilitativo sul linguaggio sollecitazioni in quelle aree extraverbali valutate come maggiormente compromesse, che possono limitare uno


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P. STIEVANO - M.L. FERRETTI - G. PIETROSANTI - R. PENGE - G. LEVI

sviluppo armonico del bambino. Tutto ciò si dovrebbe tradurre in percorsi di recupero specifici formulati in base ad una valutazione neuropsicologica iniziale. Nei bambini del Cluster 1 (27,2 % del campione) l’intervento riabilitativo dovrebbe essere di natura linguistica e quindi riguardare prevalentemente le abilità linguistiche e comunicative compromesse. Nei bambini del Cluster 2 (21,81% del campione) dovrebbero essere considerate, nella riabilitazione, lo sviluppo delle prassie e delle funzioni esecutive. Sottolineiamo il rischio educativo e comportamentale presente in questi bambini determinato da un deficit delle funzioni esecutive significativo anche rispetto alla popolazione dei bambini con sviluppo tipico. L’opportunità di training specifici sulle funzioni esecutive, anche in età prescolare, è validata da studi specifici (Dowset et al., 2000; Diamond et al., 2007; Eslinger et al., 2008). Ai bambini del Cluster 3 (50,9% del campione), che mostrano maggiori difficoltà nella memoria fonologica e nelle competenze narrative, potrebbero essere proposti stimoli riabilitativi caratterizzati da narrazioni ed attività di memoria di lavoro verbale (Gathercole et al., 2006) Ad esempio possono essere proposti conteggi all’indietro, anagrammi, ripetizione di non parole ecc. Infine, ci sembra interessante confermare l’importanza clinica di alcune prove di valutazione neuropsicologica in età evolutiva: la batteria delle funzioni esecutive e il racconto orale. Questo ultimo strumento, ampiamente utilizzato nella pratica clinica, sia in fase diagnostica che riabilitativa confermerebbe la sua validità nel differenziare le tipologie dei disturbi evolutivi del linguaggio. L’approccio all’utilizzo nella clinica delle funzioni esecutive risulta interessante e dovrebbe subentrare sempre più nella prassi clinica fin dall’età prescolare. Ulteriori considerazioni, per confermare la presenza di clusters neuropsicologici, potranno sorgere da un’analisi che contempli, oltre alle aree indagate, ulteriori indici legati alla familiarità e continuità delle caratteristiche neuropsicologiche nei parenti e un’analisi più approfondita dello sviluppo psicomotorio rispetto alla definizione della lateralità. Un follow up dei bambini afferenti a ciascun sottogruppo consentirà di stabilire l’impatto delle loro caratteristiche studiate sull’apprendimento scolastico e sullo sviluppo in generale. Riassunto I bambini con disturbo del linguaggio possono presentare atipie nello sviluppo anche in altre aree extraverbali: nelle funzioni esecutive, nella coordinazione motoria. Lo scopo del presente lavoro è di valutare i bambini con disturbo di linguaggio, espressivo, attraverso un esame neuropsicologico che prevede, oltre alle prove linguistiche, la valutazione delle funzioni esecutive e delle abilità motorie e prassiche. Il numero dei partecipanti è 55 (35 maschi, 20 femmine; età media 60 mesi – 5 anni). I risultati delle prove somministrate hanno consentito di suddividere il campione della popolazione studiata in 3 raggruppamenti (Clusters) di soggetti distinti per le loro caratteristiche neuropsicologiche. Le implicazioni di tali evidenze possono essere utili per la presa in carico dei bambini. Parole chiave Cluster neuropsicologici - Disturbo specifico di linguaggio - Funzioni esecutive - Abilità di coordinazione motoria nei bambini.


PROFILI NEUROPSICOLOGICI NEL DISTURBO LINGUISTICO IN ETÀ PRESCOLARE

357

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P. STIEVANO - M.L. FERRETTI - G. PIETROSANTI - R. PENGE - G. LEVI

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 359-365

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Le stereotipie motorie nei bambini con sviluppo tipico. Un’osservazione naturalistica durante le attività scolastiche Motor stereotypies in typically developing children. A naturalistic observation during school activities Francesco Cardona*, Azzurra Pietricola*, Maria Teresa Giannini*, Valentina Baglioni*

Summary Stereotypies are an heterogeneous class of behavioural activities observed in different neuropsychiatric disorders as well as in typically developing children, for which their prevalence is not established. To this aim, a naturalistic observation of two groups of typically developing children was performed in two public nurseries schools. Such observation was undertaken during normal school activities by two experienced in movement disorders therapists. The first group consisted of 36 children, 15 males and 21 females, aged between 9 and 30 months: among them six subjects (16.6%) showed motor stereotypies. The second group consisted of 84 children, 45 males and 39 females, aged between 41 and 76 months. In this last group we observed 20 subjects (23.8%) who showed motor stereotypies. Especially, among the 23 children younger than 48 months, 11 (48%) showed stereotypes. The high number of typically developing children displaying motor stereotypies during daily activities confirms the dimensional nature of these behaviours. Key words Motor stereotypies at the school – Typically developing children – Naturalistic observation.

Introduzione Le stereotipie sono una classe etereogenea di comportamenti ripetitivi osservati in diversi disordini neuropsichiatrici (Mahone, Bridges, Prahme, Singer, 2004; Singer, 2009). Tali comportamenti sono annoverati fra i criteri diagnostici per i Disordini dello Spettro Autistico-DSA-(American Psychiatric Association, 2000), ma le stereotipie sono presenti anche in altri soggetti, ad esempio in bambini con deficit sensoriali (visivi o uditivi) o in individui affetti da severi Disturbi dello Sviluppo-DS(Bodfish, Symons, Parker, Lewis, 2000). I comportamenti stereotipati possono essere differenziati in base all’età di insorgenza, al tipo, alla severità, alla frequenza, alla variabilità o sensibilità ai cambiamenti * Dipartimento

di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.


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ambientali. Sono costituiti da patterns comportamentali sia motori che vocali senza alcuna apparente funzione adattiva e spesso presenti con caratteristiche costanti (Willemsen-Swinkels, Buitelaar, Dekker, Van Engeland, 1998; Loh et al., 2007). In uno stesso individuo possono essere presenti differenti sterotipie in concomitanza fra loro (es. stereotipie motorie, vocalizzazioni ripetitive) e queste possono manifestarsi per periodi prolungati, tanto da incidere sul normale sviluppo, sull’apprendimento e sulla socializzazione (Goldman et al., 2009). Le stereotipie sono riscontrabili anche in bambini con sviluppo tipico (Leekam et al., 2007; Freeman, Soltanifar, Baer, 2010). In questi casi generalmente si presentato per periodi di tempo limitati durante la giornata e non compromettono le normali attività quotidiane. Ad oggi gli studi effettuati su questo argomento, soprattutto quelli basati su osservazioni dirette, sono pochi e il tasso di incidenza di questi comportamenti nella popolazione generale è lontano dall’essere stabilito (per una revisione vedi: Muthugovindan e Singer). Il nostro studio è finalizzato alla valutazione dell’incidenza delle stereotipie in bambini con sviluppo tipico durante le normali attività quotidiane. Metodi In questo studio abbiamo effettuato una osservazione naturalistica di due gruppi di bambini con sviluppo tipico. I due campioni sono stati osservati in due scuole pubbliche di Roma, un asilo nido (range di età 9-30 mesi) e una scuola materna (range di età 3-6 anni), durante le comuni attività giornaliere. Entrambe le osservazioni sono state effettuate verso la fine dell’anno scolastico, rispettivamente fra Aprile-Maggio 2009 e Marzo-Maggio 2010. Per tre giorni a settimana, due terapisti con esperienza in disordini del movimento osservavano i bambini durante attività strutturate condotte dai loro insegnanti – due insegnanti per ogni classe – e durante situazioni di gioco libero non strutturato, sia in classe che nel giardino della scuola. I terapisti non interagivano con i bambini durante l’osservazione. Tutti i soggetti inclusi nello studio erano stati valutati dai loro insegnanti come aventi un normale profilo di sviluppo. Inoltre anche durante le osservazioni non sono stati notati comportamenti che suggerivano la presenza di disordini dello sviluppo o disturbi psicopatologici. I bambini che presentavano un ritardo nel linguaggio, difficoltà nell’interazione sociale o nell’area comunicativa sono invece stati esclusi dal protocollo di osservazione. In totale nove di loro non sono stati inclusi nel gruppo d’osservazione. Tutti i soggetti sono stati osservati in maniera randomizzata, in diverse giornate per un tempo di circa quindici minuti ciascuno, e ogni bambino è stato valutato per tre volte da ciascun terapista. La Tabella 1 mostra i principali items del protocollo di osservazione. Le stereotipie motorie sono state definite come movimenti involontari, complessi, coordinati, fissi, ripetitivi, ritmici, non flessibili, con aspetto finalizzato e sopprimibili. Nel nostro studio non abbiamo incluso la raccolta di dati anamnestici o assegnato questionari valutativi ai genitori.


361

LE STEREOTIPIE MOTORIE NEI BAMBINI

Lo studio è stato approvato infine dalle autorità scolastiche e dal preside della scuola. Tabella 1. Protocollo osservazionale delle stereotipie motorie. 1 – Tipo di stereotipia

Gruppo 9-30 mesi

Gruppo 41-76 mesi

(36 bambini)

(84 bambini)

12*

20

1.1.1 - Generale

4

5

1.1.1.1 – Movimenti spaziali(oscillazioni del corpo, saltelli, rotazioni del corpo, flessioni, passo ritmato)

3

5

1.1.1.2 – Posture del corpo (contrazioni, irrigidimento, posture)

1

0

1.1.2 - Segmentali

8

15

1.1.2.1 – Movimenti del volto(stiramenti delle bocca, smorfie facciali)

0

3

1.1.2.2 – Movimenti della testa (oscillazioni e/o scuotimento della testa)

0

0

1.1.2.3 – Movimenti delle braccia (flapping, atteggiamenti delle mani o dita, flessione ed estensione dei polsi)

8

12

1.2 – Stereotipie vocali (ripetizione di suoni, vocalizzazione, frasi o parole non contestuali, risate non contestuali)

0

0

1.3 – Comportamenti autolesivi

0

0

2.1 Si

0

0

2.2 No

12

20

3.1 - Visiva

0

0

3.2 - Uditiva

0

0

3.3 – Altro

0

0

1.1 – Stereotipie motorie

2 – Utilizzo di oggetti

3 – Stimolazione sensoriale

4 – Triggers** 4.1 -Gioco individuale

9

0

4.2 - Eccitazione

3

12

4.3 - Situazioni stressanti

0

3

4.4 – Attività cognitive

0

6

4.5 - Frustrazione/rifiuto

0

0

4.6 – Situzioni annoianti

0

0

4.7 - Deambulazione

0

1

4.8 – Altro

0

0

Note: * Due degli 8 bambini mostravano sterotipie multiple. ** Due dei 20 bambini mostravano stereotipie in differenti situazioni.


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F. CARDONA - A. PIETRICOLA - M.T. GIANNINI - V. BAGLIONI

Risultati Il primo gruppo era composto da 36 bambini, 15 maschi e 21 femmine, con un età compresa fra i 9 e 30 mesi (media: 18 mesi). In questo gruppo, abbiamo osservato stereotipie motorie in sei bambini (16.6%) – un maschio e 5 femmine, con un età media di 17 mesi –. Tutti i comportamenti stereotipati erano caratterizzati da movimenti ripetitivi: in particolare sono stati evidenziati movimenti generali quali estensione del tronco e delle braccia, oscillazioni antero-posteriori, rotazioni ed anche movimenti segmentali quali flapping, rotazioni della testa, apertura e chiusura delle mani. Non sono stati osservati comportamenti di stimolazione sensoriale o autolesivi; tutte le stereotipie non comprendevano l’utilizzazione di oggetti. Quattro dei sei bambini mostravano un solo tipo di stereotipia, mentre gli altri due- una coppia di gemelli omogizoti - presentavano quattro diversi tipi di movimenti ripetitivi. In tutto, nove stereotipie sono state osservate di cui tre in situazioni di eccitamento. Le stereotipie sono state osservate in tutti, tranne che in un bambino, in differenti giorni e in differenti sessioni di osservazione. In ogni sessione (15 minuti) ciascun bambino ha mostrato da uno a otto episodi di stereotipie, ognuna non più lunga di 5 secondi. Il secondo gruppo era formato da 84 bambini, 45 maschi e 39 femmine,con un età compresa fra I 41 e 76 mesi (media: 56 mesi). In questo gruppo abbiamo osservato 20 soggetti (23.8%) che mostravano stereotipie motorie (25 bambini e 5 bambine, con un età media di 52 mesi). In particolare, fra i 23 bambini di età inferiore a 48 mesi, 11 (48%) presentavano movimenti stereotipati. Anche in questo gruppo le stereotipie erano esclusivamente motorie: in particolare erano presenti movimenti generali, con oscillazioni antero-posteriori o latero-laterali, ed anche movimenti segmentali, come flapping, apertura e chiusura delle mani, estensione delle dita, battere le mani e movimenti del viso. Non sono stati osservati comportamenti di stimolazione sensoriale o autolesiva; tutte le stereotipie non comprendevano l’utilizzazione di oggetti . Tutti i 20 soggetti osservati presentavano un solo tipo di movimento stereotipato. Dodici stereotipie sono state osservate durante situazioni di sovrastimolazione, nove avvenivano mentre i bambini ascoltavano una storia e una mentre il bambino camminava (2 bambini hanno presentato la stessa stereotipia in differenti occasioni). Tutti eccetto sette bambini hanno eseguito le stereotipie in giorni differenti e in diverse sessioni. In ogni sessione ciascun bambino mostrava da uno a quattro episodi di stereotipia, ognuno compreso fra i 5 e 10 secondi di durata (la stereotipia più lunga è stata osservata durante una situazione stressante). L’accordo tra osservatori è stato ottimo rispetto ai bambini di età 9-30 mesi (Kappa= 1.0) e molto buono per I bambini di età 41-60 mesi (Kappa=0.968). Discussione Questo è uno dei primi studi ossevazionali sulla prevalenza delle stereotipie motorie in un largo campione di bambini con sviluppo tipico. Infatti gli studi precedenti


LE STEREOTIPIE MOTORIE NEI BAMBINI

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erano basati su campioni selezionati di pazienti già diagnosticati, fatta eccezione per uno studio che indagava la frequenza e la struttura dei comportamenti ripetitivi in una largo e rappresentativo gruppo di bambini di circa 2 anni (Leekam et al., 2007). Inoltre, nella maggior parte degli studi sulle stereotipie dei bambini, la descrizione dei movimenti ripetitivi era ottenuta da un’intervista o da questionari compilati dai genitori e dai bambini stessi, o a volte tramite video-registrazioni effettuate a casa (Symons, Sperry, Dropik, Bodfish, 2005; Muthugovindan e Singer, 2009). Ad oggi nessun precedente studio è stato basato sull’osservazione diretta dei comportamenti dei bambini in un setting di attività quotidiane. Il nostro lavoro presenta alcuni limiti: non abbiamo ottenuto dati anamnestici dai genitori o utilizzato questionari per raccogliere informazioni sui comportamenti dei bambini a casa. Inoltre, la valutazione del profilo di sviluppo dei bambini era basato solo sull’opinione degli insegnanti e sull’assenza di segni evidenti di disturbi di sviluppo. Infine, le nostre osservazioni sono durate alcuni mesi, ma non abbiamo effettuato una vera osservazione longitudinale. Per ragioni di privacy, le attività dei bambini non sono state video-registrate; in ogni caso tutti I bambini sono stati osservati da due terapisti con esperienza in disturbi del movimento che risultavano largamente concordi nelle loro valutazioni (Rutter, Caspi, Moffitt, 2005). Il risultato più interessante della nostra osservazione è rappresentato dal cospicuo numero di bambini con sviluppo tipico che mostravano stereotipie motorie durante le attività scolastiche. In particolare, i bambini hanno mostrato comportamenti ripetitivi in differenti situazioni: i più piccoli sembravano avere stereotipie principalmente durante il gioco individuale mentre i più grandi in momenti di sovraeccitazione o durante attività cognitive (es. ascoltando una storia). Infatti nel nostro campione, in accordo anche con i precedenti studi, l’eccitazione è il trigger più frequente, con un prevalenza del 60%. È interessante notare che nessun bambino ha mostrato stereotipie in relazione a situazioni annoianti o in seguito a frustrazioni o rifiuti, mentre nei precedente studi sui bambini con sviluppo tipico le attività annoianti o di daydreaming erano stati evidenziati come frequenti trigger per le stereotipie. In questo caso, il setting delle nostre osservazioni, cioè l’attività scolastica, potrebbe aver introdotto un nuovo bias per evidenziare trigger ambientali. Abbiamo anche osservato l’incidenza delle stereotipie motorie in base al genere, con una prevalenza nei bambini maschi nel nostro campione, anche se le femmine superavano I maschi nel gruppo di età inferiore. Dati simili sono supportati anche da studi precedenti, nei quali le stereotipie motorie sono state individuate come più comuni nei bambini maschi, così come avviene per altri disordini del neuro-sviluppo a insorgenza precoce (Rutter, Caspi, Moffitt, 2003). Un altro importante dato che emerge dalla nostra osservazione è l’alto tasso di stereotipie in bambini di età compresa fra i 41 e 48 mesi. In questo range di età è stato frequentemente evidenziato un altro tipo di movimento ripetitivo costituito dal disturbo da tic (Leckman, Bloch, King, Scahill, 2006); in alcuni casi può risultare difficile differenziare i tic dalle stereotipie, a volte invece è presente una sovrapposizione della sintomatologia. In base ad alcune caratteristiche semeiologiche quali il tipo di movimento, la durata, la frequenza e il momento in cui avvengono, i comportamenti


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F. CARDONA - A. PIETRICOLA - M.T. GIANNINI - V. BAGLIONI

ripetitivi presentati dai nostri bambini sembrano essere maggiormente conformi ad una diagnosi di stereotipia. In particolare la natura stereotipica di questi movimenti è stata valutata in base alla loro persistenza in differenti sessioni e la loro presentazione con pattern costanti. È importante notare che nel nostro gruppo le stereotipie sono maggiormente costituite da movimenti semplici e/o non bizzarri, spesso della durata di solo alcuni secondi e perciò risultano difficili da riconoscere per un osservatore non esperto; infatti questi movimenti non sono stati valutati come “anomali” dagli insegnanti nonostante fossero stati informati sugli obiettivi e sulle caratteristiche comportamentali indagate dal nostro studio. Inoltre, nel campione osservato non abbiamo mai riscontrato né le più comuni stereotipie (ad es. succhiarsi le dita, calciare, arrotolare i capelli, tamburellare) e nemmeno stereotipie motorie complesse. Molti studi suggeriscono che le stereotipie motorie nei bambini con sviluppo tipico non sono distinguibili esclusivamente tramite la loro descrizione clinica da quelle presenti in bambini ASD o con severo DD, ma che spesso vi è una sovrapposizione fra le caratteristiche di questi movimenti. In altri studi invece, alcuni tipi di stereotipia sono stati identificati come suggestivi di ASD (Goldman et al, 2009); inoltre la complessità e la durata dei movimenti, l’utilizzazione di oggetti, le caratteristiche di autolesività o di autostimolazione e la pervasività delle stereotipie sembrano proprie di pazienti con ASD e DD. In conclusione, il nostro studio evidenzia come l’incidenza delle stereotipie nella popolazione generale sia probabilmente sottostimata, in base alla valutazione della presenza di stereotipie motorie in un’alta percentuale di bambini con sviluppo tipico. Ulteriori studi sono necessari per confermare questi dati e per verificare le possibili differenze nell’espressione fenotipica delle stereotipie motorie fra bambini con sviluppo tipico e bambini con ASD o DD, possibilmente utilizzando simili protocolli di valutazione. Riassunto Le stereotipie sono una classe etereogenea di comportamenti ripetitivi osservati in diversi disordini neuropsichiatrici ma anche in bambini con uno sviluppo tipico, nei quali la loro incidenza non è stata ancora ben definita. A tal fine, abbiamo condotto una osservazione naturalistica su due gruppi di bambini con sviluppo tipico effettuata in due scuole materne pubbliche. Tale osservazione è stata svolta durante l’attività scolastica quotidiana da due terapisti specializzati in disturbi del movimento. Il primo gruppo era formato da 36 bambini, 15 maschi e 21 femmine, con età compresa fra I 9 e 30 mesi: fra questi 6 soggetti (16.6%) mostravano stereotipie motorie. Il secondo gruppo era formato da 84 bambini, 45 maschi e 39 femmine, con un’età compresa fra i 41 e 76 mesi. In quest’ultimo gruppo 20 soggetti (23.8%) mostravano stereotipie motorie. In particolare, fra i 23 bambini con età inferiore ai 48 mesi,11 (48%) presentavano stereotipie. L’elevato numero di bambini con sviluppo tipico presentanti stereotipie durante le attività quotidiane conferma la natura dimensionale di questi comportamenti motori. Parole chiave Stereotipie motorie a scuola – Bambini con sviluppo tipico – Osservazione naturalistica.


LE STEREOTIPIE MOTORIE NEI BAMBINI

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366

Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 366-376

L’osservazione delle dinamiche familiari in bambini con diagnosi di disturbo di personalità borderline Observation of family interactions in children with diagnosis of borderline personality disorder Grazia Maria Fava Vizziello*, Nivia-Pilar Nosadini**, Elisa Bisoni**

Summary The aim of this study is to investigate whether the early signs of borderline personality disorders are associated with altered relationships within the family, which may trigger and spread up the development of established psychopathologic disturbances in the minor. To accomplish this goal we used the Lausanne Trilogue Play (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) in a cohort of 24 children and adolescents, on the basis of a dynamic-relational approach. The analysis of the observed scores of the above mentioned clinical procedure showed an impaired capacity of the subjects to share emotional sensitivity and to play the fourth part of the game, related both to impaired conjugality and parental role. The scores of the statistical analysis adopted to evaluate the cohort of the subjects recruited in the present study showed that the parents of the children and adolescents with borderline personality disorders are not able to join to and to support the capacity to play and the related expectations of the minors, leading to abnormalities of familiar relationships. The results of the present study need to be confirmed by further investigations. Nevertheless, we suggest that altered relationships within the family spread far and wide the role of psychopathological developments of minors. On the other hand we believe that the present study provides the rational basis for a new therapeutic approach targeted to correct the disturbances of the relationships within the family. Key words Lousanne Trilogue Play – Personality disorders – Familiar relationships – Resonance – Borderline.

Introduzione Il presente lavoro muove dalla necessità di ampliare il campo di studi sui disturbi di personalità ed approfondire gli indicatori precoci rilevabili in età evolutiva. Data la definizione che il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSMIV-TR, American Psychiatric Association, 2000) fornisce del Disturbo di Personalità, si è soliti collocarne l’esordio nella tarda adolescenza o nella prima età adulta, * Professore **

Psicologa.

Ordinario di Psicopatologia, Facoltà di Psicologia, Università di Padova.


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evidenziando così una certa difficoltà a definire una struttura di personalità in età evolutiva. Riteniamo invece importante trovare nuove modalità di studio specifiche per quest’area della vita, in modo tale da favorire un approccio clinico in grado di identificare aspetti d’insorgenza precoce o, nell’ identificare la comparsa di un tratto o di un comportamento, riuscire a collegarlo ad un futuro esito psicopatologico in modo tale da lavorare in un’ottica di prevenzione e supporto. Secondo i nostri follow-up la prognosi risulta molto differenziata sulla base non tanto della gravità sintomatica ma della collusione e risonanza familiare e scolastica della sintomatologia; in questo senso la prudenza definitoria del DSM-IV (2000) può essere compresa, ma l’utilizzo di nuovi approcci clinici in età evolutiva ci è necessaria per individuare una casistica spesso presentata come monosintomatica. Sarebbe così possibile mettere in atto strategie terapeutiche adeguate; delineare prognosi basate su dati concreti ed individuare le risorse su cui poter contare, uscendo così dalla logica fallimentare dell’intervento sul solo sintomo. L’assunto teorico fondamentale coincide con ciò che autori come P. Kernberg, A.S Weiner e K. Bardenstein (2000) hanno evidenziato come aspetto centrale della psicopatologia dello sviluppo: l’importanza di considerare il processo per cui in ciascuna fase dello sviluppo si formano un’identità e una personalità appropriate a quell’età; ne segue che ignorare che l’identità ha un’evoluzione, e va strutturandosi lungo tutte le fasi della vita, significa ignorare il modo in cui essa può riportare problematiche che si caratterizzeranno in maniera differente a seconda dell’età del soggetto. Date le nuove acquisizioni sullo sviluppo, che mostrano in momenti sempre più precoci l’organizzazione dello psichismo, si può ipotizzare lo sviluppo di un Disturbo di Personalità fin dai primi anni di vita (Bleiberg, 1994) caratterizzato da pattern distorti nell’organizzazione dell’esperienza personale, nei meccanismi adattivi e nell’area relazionale. Le manifestazioni psicopatologiche che oggi il DSM-IV (2000) riporta sotto ai Disturbi di Personalità Borderline risultano limitanti per la clinica dell’età evolutiva mentre i contributi di Palacio-Espasa e Dufour (1995) e di P. Kernberg (1990) hanno pioneristicamente aperto un campo di studi incentrato sulla psicopatologia in età evolutiva e sulla possibilità di effettuare una diagnosi strutturale di personalità e di sue manifestazioni psicopatologiche prima dell’adolescenza. Una prospettiva evolutiva risulta indispensabile al clinico per collocare la problematica portata dal soggetto all’interno di un funzionamento di personalità più ampio (Ammaniti, 2002), e spinge inoltre a considerare il contesto relazionale ed evolutivo all’interno del quale il bambino si sta strutturando come contesto di relazioni indispensabili per la sua sopravvivenza e sviluppo, specifiche per ogni nucleo familiare. In quest’ottica relazionale il vero paziente oggetto dell’osservazione clinica non è quindi il singolo individuo, ma il sistema interattivo che le persone stanno co-costruendo (Sameroff, 2006). La presa in carico del bambino passa attraverso l’incontro del suo nucleo familiare: primo ambiente affettivo e relazionale che diventa il nucleo fondamentale dell’osservazione, determinando il primo punto d’accesso al trattamento. In questo si inserisce l’utilizzo del Lousanne Trilogue Play (LTP) (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) strumento messo a punto dalle autrici per lo studio delle relazioni triadiche che caratterizzano la famiglia, per comprendere come l’essere


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esperito dal bambino nell’incontro con le figure d’accudimento si organizzi successivamente in pattern interattivi specifici. Riteniamo questo strumento una grande risorsa per l’intervento clinico in quanto ci permette di osservare in una situazione di gioco semi-strutturata le dinamiche dei membri della famiglia e ricavarne delle prime informazioni sulle modalità interattive specifiche del singolo nucleo familiare. Obiettivo del lavoro Il presente lavoro si inserisce all’interno di un complesso progetto d’applicazione dell’LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) in ambito clinico svolto presso il Servizio per la Genitorialità e Disturbi Psicopatologici in Età Evolutiva dell’Università di Padova. In tale contesto viene messa in primo piano la valutazione e l’intervento sulla funzione genitoriale, considerata come nucleo strutturante dello sviluppo del bambino nei suoi aspetti adattivi e critici, affiancata ad una visione evolutiva della psicopatologia per la quale la comprensione dei significati dei sintomi muove dalla rete di relazioni familiari e sociali in cui il bambino e le figure di riferimento primarie sono inserite. Ci si è quindi proposti in quest’ottica di somministrare la procedura LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) a ventiquattro famiglie rivoltesi al Servizio e selezionate per problematiche del bambino che potessero far presupporre una possibile futura strutturazione di un disturbo di personalità. La procedura è stata proposta in fase di assessment clinico per avere uno spaccato delle dinamiche familiari specifiche da considerare congiuntamente alle altre informazioni raccolte durante l’iter diagnostico sul minore attraverso i colloqui, disegni, test proiettivi e cognitivi e Adult Attachment Interview proposti ai genitori. Ci proponiamo così di rilevare se, alla sintomatologia del bambino, vadano accostandosi indici relazionali disfunzionali all’interno del nucleo familiare che possano agire da fattore precipitante per la patologia del minore. Soggetti e metodi La procedura LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999), a cui partecipa tutta la famiglia, è suddivisa in quattro configurazioni connesse da transizioni, le quali forniscono ognuna un diverso punto di vista rispetto alle interazioni familiari. Il gioco è costituito da quattro parti, tre del tipo “due più uno” e una del tipo “tre insieme” che analizzeremo in dettaglio. Nel setting di gioco madre, padre e figlio sono collocati nella stanza di registrazione ai vertici di un ideale triangolo equilatero ad una distanza tale fra loro da consentire l’interazione faccia a faccia e il gioco.


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Figura I. Il setting del Lausanne Trilogue Play.

Descrizione delle figure I membri della famiglia si dispongono ai vertici di un ideale triangolo equilatero che viene mantenuto inalterato al variare delle consegne, sul tappetone e sul tavolo, in modo da consentire l’interazione faccia a faccia e il gioco.

La durata complessiva del gioco e i passaggi da una fase all’altra non sono determinati dallo sperimentatore, ma la famiglia è lasciata libera di organizzare la situazione anche se viene invitata a rimanere entro la durata di quindici minuti. Originariamente concepito dal gruppo di Losanna per essere utilizzato con genitori con un figlio nel primo anno di vita, è stato successivamente applicato all’interno del Servizio per la Genitorialità e Disturbi Psicopatologici in Età Evolutiva con alcune modifiche rispetto al setting, alle consegne e alla codifica, in modo da poter estendere il suo utilizzo ad età successive. Queste modifiche sono state necessarie per impostare uno studio di ricerca trasversale rispetto all’età dei soggetti che varia dai due ai diciotto anni di età, senza così snaturare il contesto interattivo della famiglia ma mantenendo una situazione osservativa e una consegna di gioco appropriata per l’età dei figli. Dai due ai cinque anni del figlio si richiede ai membri della famiglia di giocare tutti insieme col lego cercando di comportarsi come fanno di solito a casa; il setting per questo gioco è un tappetone steso a terra sul quale i genitori e i figli si disporranno secondo un’ideale forma di triangolo equilatero. Con bambini dai sei ai dieci anni il gioco consiste nell’organizzare un pic-nic tutti insieme; il setting per questo gioco è composto da un tavolo e delle sedie dove si dispongono i membri della famiglia. Dagli undici ai diciotto anni del minore si richiede invece alla famiglia di


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giocare tutti insieme ed immaginare un weekend in cui i genitori vadano fuori casa; il setting per questo gioco è composto da un tavolo e delle sedie dove si disporranno i membri della famiglia. Le regole applicate a questo gioco, a prescindere dal diverso tipo di consegna, sono le seguenti: nella prima parte uno dei genitori, a loro scelta, gioca con il/i bambino/i mentre l’altro rimane semplicemente ad osservare; nella seconda parte si scambiano i ruoli e sarà il genitore che è rimasto ad osservare che giocherà con il/i bambino/i mentre l’altro osserverà senza intervenire; nella terza parte giocheranno tutti insieme; ed infine, nella quarta e ultima parte i genitori interagiscono tra loro mentre il/i figlio/i rimane/rimangono semplicemente presenti. La procedura LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) è stata codificata tramite uno schema composto da quattro livelli di valutazione, ognuno dei quali formato da variabili osservative. Nella lettura del setting si osserva: la durata del gioco (esprime la durata in secondi di ciascuna delle parti e del totale), la sua organizzazione (esprime la presenza o l’assenza di ciascuna delle parti del gioco) e il partner attivo (quale genitore è nel ruolo di partner attivo nelle prime due parti del gioco). Nella lettura strutturale vengono valutate le seguenti variabili osservative: partecipazione, organizzazione, attenzione focale, contatto affettivo. Le variabili osservative partecipazione, organizzazione, attenzione focale e contatto affettivo sono codificate su scala Likert a tre punti (range 0-2) e vengono valutate per ciascuno dei partecipanti al gioco e per ognuna delle parti del gioco. L’analisi di queste quattro variabili ci permette di osservare l’interazione da diverse prospettive: la partecipazione valuta se tutti i partner sono inclusi nell’interazione; questa funzione deve rimanere stabile dall’inizio alla fine del gioco determinando un episodio unico e molto lungo. L’organizzazione valuta se tutti sono nel proprio ruolo (attivo o in posizione di terzo); le regole che definiscono i ruoli cambiano in ogni parte del gioco formando quattro lunghi episodi e solo quando tutti i partner sono nel proprio ruolo è possibile che si determini il gioco. L’attenzione focale valuta se tutti prestano attenzione allo stesso focus, cioè l’attività di gioco in corso; è necessario che i partner riescano a seguire e a focalizzarsi assieme su ogni singola attività di gioco. Infine il contatto affettivo valuta se tutti sono in contatto con gli altri partecipanti e riescono a stabilire un’intimità emotiva. La codifica procede con la lettura del processo valutando la presenza di transizioni, interferenze e chiusure e la loro qualità nel seguente modo: le transizioni definiscono i momenti di passaggio da una configurazione all’altra; ogni transizione è sempre costituita da un momento di decostruzione della configurazione in atto e dalla successiva costruzione di una nuova configurazione. L’osservazione delle transizioni ci fornisce informazioni molto importanti sul funzionamento familiare, ci permette infatti di verificare la flessibilità dei partner nell’interazione, evidenziando la possibile presenza di aspetti disfunzionali come la contraddittorietà o l’ambivalenza degli scambi, rintracciabile nel confronto tra gli aspetti verbali e non verbali coinvolti. I punteggi vengono assegnati su una scala Likert a quattro punti (1-4), e definiscono quattro tipi di transizione: concordata quando il passaggio da una parte all’altra del gioco viene contrattato per iniziativa del partner attivo, passivo o di entrambi i part-


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ner attraverso segnali di tipo verbale (“vuoi continuare tu? Posso continuare io? Che ne dici passiamo all’altra parte?”) e non verbale (sguardi di intesa, cenni di assenso). Definiamo invece la transizione come sfumata quando il passaggio tra le parti del gioco avviene senza la presenza di segnali verbali, sono tuttavia chiaramente presenti segnali non verbali tra i partner e il passaggio tra le parti rimane chiaro sia nei tempi che nei ruoli di ciascun partner ma non verbalizzato, ad esempio quando la madre in posizione attiva si ritrae con il busto rimanendo in silenzio alcuni secondi consentendo al padre di inserirsi nella posizione di genitore attivo. Viene definita confusa la transizione tra le parti del gioco quando il passaggio avviene in maniera confusa sia nei tempi che nei ruoli dei partner, e le modalità interattive di tipo verbale e non verbale di uno o di entrambi i partner sono contraddittorie, ad esempio quando la madre in posizione attiva si ritrae con il busto ma continua nell’interazione verbale con i bambini o verbalizza la transizione “ora tocca a te” ma continua a rimanere con il busto proteso verso i bambini. Infine definiamo imposta la transizione tra le parti del gioco quando uno dei due partner stabilisce nettamente il passaggio ad un’altra parte senza coinvolgere l’altro partner sia con modalità verbali che non verbali, ad esempio verbalizzando “ora vai avanti tu che io ho finito” “basta ora tocca a te”. Le interferenze definiscono invece i momenti di rottura dell’interazione e sono sempre costituite dalla decostruzione della configurazione in atto. Viene valutata l’assenza o la presenza dell’interferenza e la sua qualità, definita minore quando la decostruzione della configurazione viene risolta attraverso una collaborativa riparazione dell’interazione da parte di uno o più componenti della famiglia, consentendo il proseguimento della configurazione in atto. Definiamo invece un’interferenza come maggiore quando la decostruzione della configurazione viene risolta attraverso una transizione imposta non consentendo il proseguimento della configurazione in atto e causando il passaggio ad una nuova configurazione. Infine valutiamo la chiusura del gioco secondo le modalità con le quali i partecipanti decidono di terminare il gioco. I punteggi vengono assegnati su scala Likert a quattro punti (1-4) e definiscono le seguenti tipologie di chiusura del gioco: concordata, quando la fine del gioco viene contrattata su iniziativa di uno o di entrambi i partner attraverso segnali interattivi di tipo verbale e non verbale. Sfumata quando la fine del gioco avviene senza la presenza di segnali verbali ma sono tuttavia chiaramente presenti segnali non verbali. Confusa quando la fine del gioco avviene in maniera confusiva sia nei tempi che nei ruoli dei partner e le modalità interattive di tipo verbale e non verbale di uno o di entrambi i partner sono contraddittorie. Infine definiamo la chiusura imposta quando la fine del gioco avviene quando uno dei due partner stabilisce nettamente la chiusura del gioco senza coinvolgere l’altro partner sia con modalità verbali che non verbali, oppure la fine del gioco avviene quando a causa dell’incapacità di chiudere il gioco da parte dei partecipanti interviene lo sperimentatore. Questo sistema di codifica si arricchisce ulteriormente con un successivo confronto con le informazioni presenti a livello verbale e soprattutto nelle contraddizioni tra i due aspetti.


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Campione/partecipanti Il disegno di ricerca utilizzato per questo studio è di tipo trasversale in quanto la procedura è stata somministrata a tutte le famiglie durante il bilancio diagnostico, prassi utilizzata all’interno del Servizio. Le ventiquattro famiglie selezionate si sono rivolte al Servizio per problematiche dei propri figli, di età compresa tra i due e i diciotto anni. Abbiamo scelto di selezionare questo specifico campione in quanto il motivo della segnalazione riguardava la difficoltà del bambino/a a regolare i propri affetti, tendenza all’acting-out e problematiche di separazione-individuazione, tutti aspetti strettamente connessi ad una possibile strutturazione patologica di personalità e che andavano manifestandosi nel contesto familiare. Inoltre in tutti i ventiquattro minori è emersa dall’iter diagnostico una funzione intellettiva adeguata, il che ci ha permesso di concentrare la nostra indagine sugli aspetti affettivo/relazionali. La procedura è stata somministrata in fase di assessment, videoregistrata e codificata successivamente da due giudici indipendenti. L’LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) è stato affiancato ai test comunemente utilizzati nell’iter diagnostico: oltre ai colloqui con il singolo e con tutta la famiglia, sono stati somministrati test cognitivi (Scale Bayley, WISC-R e WAIS) e test proiettivi (Rorschach, T.A.T., C.A.T., disegno della famiglia e della figura umana), intervista allo specchio ed infine le Adult Attachment Interview proposte ai genitori per avere a disposizione informazioni rispetto al loro attaccamento e quindi su quali aspetti essi portino come eredità nella relazione coniugale e genitoriale. Data la differenza di età dei figli la procedura LTP è l’unico strumento che è stato presentato a tutte le famiglie a differenza degli altri test utilizzati per il bilancio diagnostico che sono andati differenziandosi a seconda dell’età del soggetto. Discussione dei dati e conclusione Una volta raccolti i dati ed effettuate le codifiche, il dataset è stato organizzato suddividendo le famiglie in base all’età dei figli in tre sottogruppi di otto famiglie ciascuno: 0-5 anni, 6-12 anni e 13-18 anni; la suddivisione in fasce d’età è stata determinata dalle diverse consegne previste dalla procedura. È stata condotta una prima analisi sulla varianza a misure ripetute sui punteggi totali ponderati, con un fattore within: parte della procedura sui quattro livelli. Tale analisi ha evidenziato un effetto significativo del fattore “parte della procedura” (F3,42= 8.061, p<.01), ovvero un decremento dei punteggi delle famiglie nel corso delle quattro parti con un particolare calo tra la terza e la quarta parte del gioco. Sullo stesso campione è stata inoltre condotta un’analisi della varianza a misure ripetute sui punteggi ponderati di ciascuna funzione, con due fattori within: la funzione considerata (4 livelli) e la parte della procedura (4 livelli), si è così riscontrato un effetto significativo del fattore “funzione” (F3,69= 35.105, p<.01); la funzione partecipazione, la più semplice del gioco, ottiene punteggi significativamente più alti


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(p<.05), mentre la funzione contatto affettivo, che implica maggiori competenze, ottiene punteggi significativamente più bassi rispetto alle altre funzioni (p<.05). Inoltre per verificare la consistenza interna delle variabili che costituiscono il sistema di valutazione è stata utilizzata un’analisi delle correlazioni non parametrica (Rho di Spearman) applicata ai punteggi totali di ogni famiglia; è stata così riscontrata una correlazione positiva, statisticamente significativa tra i punteggi delle madri e quelli dei bambini nella seconda (rsp(12)= 0, 583, p< 0,5), terza (rsp(12)= 0,563, p< 0,5) e quarta parte del gioco (rsp(12)= 0, 737, p< 0,5). È stata inoltre riscontrata una correlazione positiva, statisticamente significativa, tra i punteggi dei padri e quelli dei figli nella prima (rsp(12)= 0,458, p< 0,5), terza (rsp(12)= 0,562, p< 0,5) e quarta parte del gioco (rsp(12)= 0,765, p< 0,5). Il primo importante punto evidenziato dalle analisi è inerente all’andamento delle famiglie nelle varie parti della procedura: le analisi sulla varianza condotte sul totale dei punteggi delle famiglie hanno evidenziato un andamento statisticamente significativo tra la terza e la quarta parte del gioco, dove interagiscono i due genitori e il figlio rimane semplicemente presente; in quest’ultima parte del gioco le famiglie ottengono quindi i punteggi più bassi. Teniamo in considerazione che questo dato potrebbe essere connesso ad una difficoltà dei genitori ad interagire come coppia in presenza del bambino, ad una difficoltà del bambino a rimanere in posizione di terzo o ad un’interferenza di variabili di tipo attentivo o motivazionale. Considerato l’impossibilità di ricavarne una spiegazione univoca da generalizzare a tutto il campione risulta però importante evidenziare che il disturbo portato dal figlio si accompagna ad un bassissimo rendimento nella quarta parte della procedura, che richiede un livello alto non solo di co-genitorialità (McHale, 2010) ma anche di organizzazione della coppia. Nonostante questo aspetto non sia specificatamente correlato al disturbo di personalità risulta essere una caratteristica saliente del nostro campione. Alla luce di questo risultato è dunque importante considerare l’importanza di abbinare all’indagine sulla sintomatologia del singolo l’attenzione per aspetti più complessi del funzionamento familiare, in quanto la spesso totale assenza di uno spazio di dialogo, l’ambivalenza dei comportamenti e il frequente disorientamento o debolezza con cui i genitori si trovano ad affrontare le difficoltà in atto comportano la necessità di attuare nell’intervento clinico anche un sostegno alla genitorialità ove le condizioni permettano di farlo. Ci si era inoltre proposti di indagare in base alle funzioni previste dalla procedura quale fosse l’area relazionale in cui le famiglie si dimostrano più carenti. Grazie alle analisi sulla varianza (ANOVA) condotte sui punteggi ottenuti dalle famiglie nelle varie funzioni del gioco, è stato possibile evidenziare che le competenze meno presenti sono quelle inerenti al contatto affettivo: si riscontra dunque un’incapacità dei membri delle famiglie a mantenere un’intimità emotiva durante la procedura, mentre la funzione in cui le famiglie ottengono il punteggio più alto è la partecipazione al gioco. Questo dato sembra essere correlato agli aspetti patologici solitamente connessi al disturbo di personalità borderline (Gabbard, 1992), dove vi è una forte ambivalenza tra il comportamento manifesto e il suo significato, che veicola ad un’analisi più attenta aspetti di aggressività, instabilità emotiva e confusione nei limiti


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(Kernberg, 1984). Evidenziamo infatti che nella procedura le famiglie sono in grado di attenersi precisamente alle regole del gioco proposto ma nell’effettivo svolgimento non riescono a creare uno spazio di piacere dove condividere affetti. Alla luce di questo dato consideriamo che vi possa essere una certa difficoltà a comportarsi in maniera naturale e spigliata in sede di consultazione all’interno di un servizio clinico, aspetto che peraltro è volutamente stemperato proprio dalla proposta di questo tipo di procedura. L’LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) infatti, come semplice gioco familiare richiede ai partecipanti di comportarsi in maniera naturale, come se fossero a casa, senza sottoporli a situazioni stressanti che possano farli sentire esaminati. Rimane quindi un risultato importante il fatto che proprio sulla condivisione delle emozioni tra loro i membri delle famiglie si mostrino in difficoltà, mentre per gli aspetti più strutturali del gioco come la partecipazione o l’organizzazione ottengano punteggi migliori; questo dato risulta estremamente connesso alle conoscenze raggiunte sul disturbo di personalità borderline (Adler, 1985). Infine le alte correlazioni positive statisticamente significative fra i punteggi dei vari membri delle famiglie nelle diverse parti del gioco fanno presupporre che non vi sia un soggetto che va meglio o peggio ma che vi siano modalità familiari disfunzionali che possono agire da cassa di risonanza rispetto alle difficoltà del bambino e per la sua strutturazione psicopatologica. I risultati evidenziano infatti che i punteggi delle madri si correlano positivamente in maniera statisticamente significativa ai punteggi dei figli nella seconda, terza e quarta parte del gioco, e quelli dei padri si correlano allo stesso modo con quelli dei figli nella prima, terza e quarta parte del gioco. Questo dato risulta di grande interesse in quanto ci evidenzia che quando migliorano o peggiorano le performance dei genitori migliorano o peggiorano anche quelle dei figli, e viceversa, aspetto che potrebbe indicare la presenza di un invischiamento familiare o di una difficoltà da parte dei genitori a cooperare o supportare il gioco, creando relazioni disfunzionali rispetto alle esigenze dei figli. Da un punto di vista clinico riteniamo fondamentale l’utilizzo di queste osservazioni per la strutturazione di un intervento mirato a modificare questi aspetti disfunzionali dell’interazione tra i membri della famiglia. L’LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) ci fornisce così importanti risorse ai fini dell’intervento clinico, l’osservazione delle dinamiche familiari ci permette infatti di individuare nuove chiavi d’accesso al sistema familiare rispetto al problema portato, permette inoltre un focus sulla semeiotica positiva attraverso l’individuazione delle risorse presenti nelle specifiche famiglie condividendo successivamente tali aspetti con la famiglia stessa attraverso la procedura video feedback con la quale il clinico ripercorre con la famiglia momenti salienti del gioco grazie all’ausilio della registrazione. Infine è importante sottolineare come tale procedura ci permetta di evidenziare che gli indici precoci di strutturazione psicopatologica si arricchiscano con l’osservazione delle interazioni reali e come sia importante attuare proprio per disturbi strutturali come quelli di personalità un’indagine clinica complessa che non possa prescindere dall’evidenziare possibili fattori di rischio nel nucleo familiare in cui il bambino si sta strutturando. Un importante limite in questo campo d’indagine coincide con l’assenza di un sistema classificatorio universalmente riconosciuto per i disturbi di personalità in età


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infantile che possa facilitare la condivisione e la riflessione su risultati ottenuti. Gli aspetti evidenziati potranno essere ulteriormente approfonditi soprattutto grazie a successivi follow-up che possano permetterci di osservare il decorso di certe situazioni patologiche. Come clinici riteniamo importante individuare nuove modalità con cui aiutare il disagio di queste famiglie e la loro situazione complessa; infatti l’assenza sul territorio italiano di strutture diurne adeguate fa si che questi minori rappresentino un problema spesso affidato unicamente alla scuola, frequentemente in contrasto con la famiglia che ne critica le richieste eccessive. Dobbiamo quindi cercare di contenere queste situazioni trovando le chiavi d’accesso per un trattamento tempestivo ed efficace che riesca a sfruttare le risorse delle famiglie. L’LTP (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warney, 1999) ci permette di attuare questi aspetti anche grazie alla semplicità del compito e l’ausilio del video feedback condotto con i genitori. Auspichiamo quindi ad un ampliamento dei dati della ricerca in questo settore grazie alla disponibilità di campioni numerosi, che permetta così lo sviluppo di nuove riflessioni cliniche di supporto all’intervento terapeutico in età evolutiva. Riassunto Il presente lavoro si propone come obiettivo, nell’ambito di un approccio dinamico-relazionale, di indagare attraverso l’utilizzo clinico del Lausanne Trilogue Play (LTP) (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999) se agli indici precoci di possibile strutturazione di disturbo di personalità borderline, individuati in un campione di ventiquattro bambini ed adolescenti, vadano associandosi delle interazioni disfunzionali all’interno del loro nucleo familiare, che agiscono da fattore precipitante per la strutturazione psicopatologica del minore. Le analisi effettuate sui punteggi della procedura hanno evidenziato una difficoltà delle famiglie a condividere i propri stati emotivi e a condurre la quarta parte del gioco, nella quale sono coinvolti aspetti inerenti sia alla coniugalità che alla genitorialità. Dalle correlazioni rilevate tra i punteggi dei partecipanti emerge inoltre come i genitori non siano in grado di cooperare e di supportare il gioco, e quindi le esigenze del bambino/adolescente, determinando interazioni familiari disfunzionali. A fronte di questi risultati ancora in fieri sembra che determinate modalità familiari disfunzionali possano agire da cassa di risonanza per la strutturazione psicopatologica del minore, ma evidenziano anche come, da un punto di vista clinico, possano permettere la definizione di un intervento mirato a modificare questi aspetti. Parole chiave Lousanne Trilogue Play – Disturbi di personalità – Famiglia – Risonanza – Borderline.

Bibliografia Adler G. (1985), Borderline psychopathology and its treatment, New York, Aronson. Ammaniti M. (a cura di) (2002), Manuale di psicopatologia dell’adolescenza, Milano, Raffaello Cortina Editore. American Psychiatric Association (2000), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Fourth Edition, Text Revision ed.), Washington, DC., Author.


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“Pensare Positivo”: un progetto di promozione del benessere emotivo e sociale nelle scuole superiori “Think Positive”: a project to promote social and emotional wellbeing in secondary schools Annarita Tomassini1,2, Rocco Pollice2,4, Roberta Ortenzi2, Simona D’Onofrio3, Rita Roncone1,4, Adele Tosone3, Massimo Casacchia1,4

Summary Objectives. The aim of the study was to evaluate the effectiveness of an intervention for the Emotional and Social Wellbeing Promotion on students of a State High School of L’Aquila in the year 2010-2011, performed by the operators of the “ Service for Monitoring and early Intervention Looking at the fight against the onset of mental Even psychological youths’ suffering” (SMILE) of the Psychiatry Unit at University of L’Aquila. This Service have a dedicate team to perform prevention and early intervention especially in young people, after the 2009 L’Aquila earthquake. Methods. The project “Think Positive” was held in 7 meetings of three hours each attended by 47 subjects. The assessment of the effectiveness was carried out at the beginning (T0) and the end (T1) of the intervention through the following instrument: Impact Event Scale-Revised (IES-R), General Health Questionnaire-12, Idea Inventory, Brief-Cope and the Toronto Alexithymia Scale - 20 items (TAS-20). Results. The evaluation of the intervention effectiveness found to achieve all objectives with an improvement in all dimensions assessed although with different degrees of significance. As a matter of fact, improvements on “autonomic hyperarousal” of the IES-R and the level of perceived stress were observed. Improvements in emotional competence, with a statistically significant reduction in “absolutist” cognitive style and an increase in “expression” coping style were reported. Discussions. The study shows that psychoeducational and cognitive behavioral group interventions in the school context are a useful instrument to improve the social and emotional wellbeing of young people. These interventions are important for providing young people instrument for the discomfort resulting from the changes they live. The “Think Positive” project, through the use of integrated and multidisciplinary approach methods, has proved useful in strengthening some

1 Dottorato

di ricerca in Medicina Traslazionale, Dipartimento di Medicina della Salute, Università degli Studi L’Aquila; 2 Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per le Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani” (SMILE), Università degli Studi di L’Aquila; 3 Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di L’Aquila; 4 Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura a Direzione Universitaria, Dipartimento di Medicina della Salute, Università degli Studi L’Aquila.


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individual skills, improving the perceived wellbeing, the management of negative emotions and emotional and social skills. Key words Emotional intelligence – Emotions – Problem solving – Social wellbeing – emotional wellbeing.

Introduzione La scuola rappresenta un microcosmo in cui si maturano convinzioni, opinioni, conoscenze, atteggiamenti ed abitudini, che determineranno gran parte dell’evoluzione dell’individuo, nonchè il suo ruolo sociale (Francescato, Mebane, Tomai, 2003). La promozione del benessere tra i giovani nelle scuole è argomento di notevole interesse da parte delle Istituzioni e della Comunità Scientifica. L’importanza di interventi psico-educativi nelle scuole, volti al rafforzamento dei fattori di protezione della salute, è espressa nel documento “Migliorare la salute” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) del 2005: il documento al punto 31 sottolinea l’importanza del “miglioramento dell’ambiente sociale e del sostegno sociale nelle scuole” e della “predisposizione di programmi di formazione per preparare le persone a risolvere i problemi, fornendo loro abilità sociali e la capacità di gestire meglio lo stress” (Commissione delle Comunità Europee, 2005). “Poiché la salute mentale è fortemente determinata nei primi anni di vita, la promozione della salute mentale di bambini e adolescenti è un investimento per il futuro… Un approccio olistico nell’apprendimento può incrementare le competenze sociali, migliorare la capacità di ripresa e ridurre i sintomi di bullismo, ansietà e depressione” (Commissione delle Comunità Europee, 2005). Francescato et al. (2003) evidenziano come l’educazione affettiva costituisce un efficace mezzo di formazione di individui psichicamente sani e, conseguentemente, diventa strumento di prevenzione della malattia mentale. Il riconoscimento e la gestione delle emozioni permettono, infatti, ai giovani di avere un’immagine di sé positiva e realistica e facilitano l’instaurarsi di rapporti gratificanti con gli altri (Francescato et al., 2003). Gli interventi di promozione della salute, per la loro complessità e articolazione, richiedono metodologie di approccio integrate e multidisciplinari, nonché strumenti operativi validati nella loro efficacia (Pellai, Marzorati, 2001; Pellai, 2002). Numerosi studi evidenziano come un’educazione alla salute svolta nella scuola risulti efficace nel ridurre la prevalenza di comportamenti rischiosi per il benessere psicofisico dei giovani (Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). La scuola rappresenta, infatti, un luogo di confronto imprescindibile per qualunque programma sanitario che voglia aiutare a vivere in modo più sano, soddisfacente e produttivo, contribuendo a far acquisire le conoscenze e le abilità necessarie ad evitare comportamenti a rischio (Pellai, Marzorati, 2001; Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). La scuola può, inoltre, permettere lo sviluppo dell’autonomia e dei processi di empowerment, attraverso l’implementazione delle abilità di decision making e di comunicazione efficace, facilitando scelte comportamentali volte a migliorare o mantenere un benessere soggettivo (Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg


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et al., 2003). Essa può promuovere, in particolare, la conoscenza dei comportamenti che hanno rilevanza per la salute, intervenire sulle variabili psicologiche, relazionali, sociali, culturali e ambientali che influenzano i comportamenti a rischio, favorendo l’acquisizione di nuove conoscenze, atteggiamenti e capacità operative (Pellai, 2002). Nell’ultimo decennio sono stati condotti numerosi studi sui fattori di protezione e la prevenzione dei comportamenti a rischio per la salute nell’adolescenza. I dati hanno evidenziato che tra i fattori protettivi hanno maggior rilevanza la capacità di autoregolazione e la percezione di autoefficacia, la capacità di affrontare e risolvere problemi, le abilità sociali e la capacità di provare empatia (Fuligni, 2002; Caprara, Delle Fratte, Steca, 2002) ed il sostegno sociale (Weitzman, Chen, 2005). La maggior parte dei programmi di prevenzione nelle scuole hanno utilizzato l’implementazione di tali fattori come obiettivo primario dell’intervento nelle scuole con miglioramento significativo dei comportamenti rischiosi per la salute, ad esempio l’uso di sostanze psicoattive, del bullismo e del rendimento accademico (Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). Il 6 Aprile 2009 un devastante terremoto ha colpito la città di L’Aquila. L’intera popolazione aquilana è stata costretta a lasciare le proprie case nel giro di qualche minuto. Alla luce dei danni e delle vittime, il sisma dell’Aquila risulta il 5° terremoto più distruttivo in Italia in epoca contemporanea, dopo quello di Messina nel 1908, quello di Avezzano nel 1915, quello dell’Irpinia nel 1980 e quello del Friuli nel 1976. Il bilancio effettivo è stato di 308 morti e 1600 feriti, di cui 200 in condizioni gravissime, ricoverati d’urgenza negli ospedali limitrofi. I 65.000 sfollati sono stati alloggiati momentaneamente in tendopoli, auto ed alberghi lungo la costa adriatica. Alla data del 9 Agosto 2009, la Protezione Civile dichiara la presenza di 48.818 sfollati, di cui 19.973 presso 137 tendopoli (in 5029 tende), 19.149 in alberghi e 9.696 presso case private. A questi vanno aggiunte 273 persone presenti in 9 campi autonomi. Al 14 Novembre 2009 il numero degli sfollati risultava pari a 21.874, di cui 671 in 17 tendopoli, 13.224 presso strutture alberghiere ( di cui 8.832 fuori provincia), 7.979 in case private, 4.764 in Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) e 480 nei Moduli Abitativi Provvisori (M.A.P.). Il ritorno in un luogo profondamente mutato, in case non proprie o provvisorie, in contesti diversi con vicinati sconosciuti, la difficoltà negli spostamenti e il displacement, hanno determinato problemi logistici e/o materiali, nonché uno stato di malessere e disagio psicologico nell’intera popolazione colpita. Numerosi studi in letteratura evidenziano che l’esposizione a catastrofi naturali ed altri traumi individuali o collettivi, può determinare delle conseguenze psicologiche a breve o lungo termine come, ad esempio, lo sviluppo di Disturbo da Stress Post-Traumatico, Disturbi Depressivi, Disturbi d’Ansia, Disturbi del sonno e Disturbo da Dipendenza da sostanze (Ruboins, Bickman,1991; Vetter et al., 2008). La reazione che un individuo può mostrare in seguito all’esposizione ad un trauma, dipende, oltre che dall’entità del trauma (più grave è l’evento traumatico, più la persona sperimenta sentimenti di impotenza, terrore ed angoscia), anche dalle caratteristiche della personalità pre-traumatica, che comprendono le strategie di coping indirette. Esistono, infatti, fattori che incidono negativamente sulla risposta


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fenomenica,con ripercussioni sul piano psicopatologico, e fattori protettivi, che favoriscono la ripresa ed il benessere psicofisico delle persone coinvolte (Giordani Paesani et al., 2010). Pollice et al. hanno, inoltre, dimostrato un marcato incremento dell’abuso di sostanze nei giovani sopravvissuti al terremoto del 2009, in particolare nell’utilizzo di alcool 57%, nicotina 41%, e cannabis 22% (Pollice et al., 2011). Lo studio evidenzia che nessun soggetto ha riferito una riduzione nel consumo di tali sostanze dopo il sisma. Studi precedenti supportano tali dati, dimostrando che nel periodo successivo ad un disastro sia naturale che made-man può essere osservato un aumento delle condotte di abuso di sostanze tra i giovani colpiti (Malhotra, Singh, Chadda, 2005; Kar, 2006). I molteplici fattori di rischio per l’abuso di sostanze nell’adolescenza possono, infatti, presentare una gravità maggiore quando famiglia e comunità hanno subito un grave trauma (Rowe, Liddle, 2008). Nei giovani, inoltre, fattori di rischio legati al trauma sia familiari che individuali, quali la compromessa coesione familiare e lo scarso controllo parentale, la maggior delinquenza adolescenziale, sono stati associati sia all’abuso sostanze che ai sintomi di PTSD (Rowe, La Greca, Alexandersson, 2010). L’uso di sostanze sembra, infine, influenzato dagli stili di coping. La probabilità di sviluppare problemi legati all’uso di sostanze è maggiore nei soggetti che adottano uno stile di coping disadattativo o evitante e minore in coloro che adottano uno stile proattivo (Eftekhari, Turner, Larimer, 2004; Robertson, Xu, Stripling, 2010). Recentemente, uno studio su un’ampia popolazione di adolescenti sopravvissuti al terremoto de L’Aquila riporta, dopo un anno dall’evento sismico, alti tassi di sintomi post-traumatici nei soggetti valutati. Lo studio evidenzia, inoltre, che i giovani aquilani che hanno sperimentato la perdita di un amico o di un parente in seguito all’evento sismico presentavano un tasso più alto di PTSD ed una sintomatologia più grave (Pollice et al., 2012). Sulla base di tali evidenze, la promozione del benessere psicologico negli adolescenti risulta di fondamentale importanza nella città dell’Aquila, considerando gli effetti che il sisma ha sortito inevitabilmente sul contesto urbano e sociale della città, come la distruzione dei principali luoghi di aggregazione o la frammentazione dei nuovi contesti sociali. Nell’ambito dell’interesse scientifico ed educativo relativo alla Promozione del Benessere Emotivo e Sociale nasce, quindi, il progetto “Pensare Positivo”, attraverso una collaborazione tra il “Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per le Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani” (SMILE) dell’Università degli Studi di L’Aquila e l’Istituto Istruzione Statale Superiore (IISS) per Geometri “O.Colecchi”, sviluppato nell’anno scolastico 2010-2011. Tale progetto ha preso forma dopo una serie di interventi effettuati nell’anno precedente con la supervisione del Istituto Superiore di Sanità, nell’ambito della valutazione di un programma di promozione della salute mentale nelle scuole (Mirabella et al., 2010). L’obiettivo del presente studio è quello di valutare l’efficacia dell’intervento di Promozione del Benessere Emotivo e Sociale “Pensare Positivo” effettuato agli studenti dell’Istituto Istruzione Statale Superiore (IISS) per Geometri “O.Colecchi” nell’anno scolastico 2010-2011.


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Materiali e metodi Il progetto “Pensare Positivo” si è svolto in 7 incontri di tre ore ciascuno a cui hanno partecipato 47 alunni (età media 16.83+1.52, 42 maschi e 5 femmine) di due classi (3° e 4° anno) dell’IISS “Colecchi” di L’Aquila (Tabella 1). Gli incontri sono stati condotti da operatori del Servizio SMILE, con il supporto di un manuale teoricopratico per gli studenti e di materiale audiovisivo (diapositive, filmati) elaborati dagli autori. Gli interventi sono stati eseguiti attraverso una strategia comunicativa di tipo interattiva che stimolasse la creatività, ed un atteggiamento “friendly”, utilizzando delle specifiche tecniche quali il role playing, il modelling o simulate, allo scopo di favorire l’acquisizione e la padronanza dei concetti più complessi. Il progetto è stato declinato in diversi interventi, ciascuno con specifiche finalità, quali l’acquisizione delle conoscenze e delle tecniche necessarie al riconoscimento e alla gestione delle emozioni (Albanese, Molina, 2008; Bar-On, Maree, Elias, 2007; Cervi, Bonesso, 2008; Di Pietro, 1992; Di Pietro, 2007) con focus sull’intelligenza emotiva (Chapman, 2009; Goleman, 1996; Goleman, 1998; Franco, Tappatà, 2007); riformulazione di pensieri disfunzionali collegati ad emozioni negative (Di Pietro, 1992; Di Pietro, 2007); acquisizione di tecniche comportamentali per la gestione dell’ansia (Andrews, 2003) e di tecniche di Problem Solving per affrontare e gestire i problemi attraverso la ricerca di soluzioni vantaggiose (Passolunghi, 2006; Passolunghi, 2003; Mayer, Wittrock, 1996; Falloon, Boyd, McGill, 1984); implementazione della comunicazione interpersonale (Knapp, Daly, 2002); acquisizione delle conoscenze su alcool ed altre sostanze di abuso, e su come queste agiscono sull’omeostasi cerebrale, determinando un rischio relativo per l’esordio di problematiche psicologiche o di disturbi psichiatrici (Alger, Nicoll, 2005; Febo, Di Giannantonio, Mammana, 2005; Hunt, Lenton, Witton, 2006); informazione sulle conoscenze scientifiche relative alla contraccezione e malattie sessualmente trasmesse (Veglia, Pellegrini, 2003; Lancia, 1992; Giommi, Perotta, 1994); valutazione e intervento sulle problematiche giovanili legate alle conseguenze dell’evento sismico aquilano (Tabella 1).

Tabella 1. Contenuto degli interventi.


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Al fine di rilevare la condizione sociale ed i cambiamenti percepiti dagli studenti, è stata effettuata una valutazione preliminare. È stato creato, pertanto, un questionario finalizzato a rilevare la presenza nel contesto aquilano nella notte del 6 Aprile 2009, eventuali lesioni fisiche riportate durante la scossa, decesso di amici e parenti, danni riportati alla propria abitazione (classificazione A, B, C, E, F), sistemazione dell’immediato post-terremoto (tendopoli, alberghi, presso parenti o amici) e sistemazione attuale (casa propria, casa in affitto, Progetto CASE, MAP), valutazione dei servizi pubblici (mezzi di trasporto, scuole, negozi, pub, ecc.), compromissione dei rapporti sociali e della salute fisica rispetto al periodo precedente il terremoto, modifiche nelle abitudini relative a tempo libero e hobby. È stato, inoltre, valutato l’utilizzo di sostanze, quali cannabis, alcool e nicotina, prima e dopo il terremoto chiedendo ai ragazzi di definire l’uso di sostanze attraverso una scala analogica “a Termometro con un punteggio da 0 a 10. La valutazione dell’efficacia dell’intervento è stata effettuata attraverso la somministrazione di strumenti di valutazione auto compilati all’inizio (T0) e alla fine (T1) dell’intervento. La presenza di un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) o di sintomi PTSD-like è stata valutata attraverso l’Impact Event Scale-revised (IES-R) (Weiss, Marmar, 1997). Per la valutazione dello stress percepito è stato utilizzato il General Health Questionnaire-12 (GHQ-12) (Goldberg, 1979). Gli stili di pensiero disfunzionali e le strategie di fronteggiamento delle situazioni stressanti sono state valutate rispettivamente con l’Idea Inventory (Di Pietro, 1992) ed il Brief-Cope (Carver, 1997). La valutazione della competenza emotiva ed emozionale è stata valutata con la Toronto Alexithymia Scale – 20 item (TAS-20) (Bagby, Parker; Taylor, 1994). L’Impact Event Scale-revised (IES-R) (Weiss, Marmar, 1997) rappresenta una scala autosomministrata a 22 items che misura la sintomatologia da PTSD. Lo strumento, non diagnostico per il PTSD, è appropriato per misurare la risposta soggettiva a uno specifico traumatico evento nella popolazione, specialmente in termini di Intrusività (pensieri intrusivi, incubi, immagini o sensazioni intrusive, ri-esperienze simil dissociative), di Evitamento (ottundimento delle emozioni-numbing, evitamento di emozioni, situazioni e idee) e di Iperarousal (rabbia, irritabilità, ipervigilanza, difficoltà di concentrazione, estrema reattività), così come di un generale stress soggettivo. Le risposte ad ogni item vanno da 0= per nulla, 1 = un po’, 2= moderatamente, 3= abbastanza spesso, 4= estremamente. Un punteggio totale maggiore di 24 suggerisce la presenza di sintomatologia PTSD mentre un punteggio maggiore di 33 è suggestivo di un PTSD (Weiss, Marmar, 1997). Il General Health Questionnaire-12 (GHQ-12) (Golberg, 1979) è un questionario autosomministrato con una scala Likert-type da 0 a 3 per la valutazione dello stress percepito. Lo strumento è stato ampiamente utilizzato per misurare lo stato di salute mentale soprattutto in relazione allo stress psicologico. Nel presente studio è stata utilizzata la versione ridotta di 12 item. Un punteggio totale maggiore di 15 suggerisce la presenza di “stress”. L’Idea Inventory è un questionario autosomministrato composto da 30 affermazioni, misurate da una scala graduata da “Molto d’accordo”(1), “Parzialmente d’accordo” (2) “Molto in disaccordo” (3). Esso permette di rilevare i vari tipi di stili di


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pensiero disfunzionali: pensiero assolutistico, catastrofico, di intolleranza, di svalutazione globale di sé e degli altri, indispensabilità-bisogni assoluti, generalizzazione (Di Pietro, 1992). Il Brief-Cope (Carver, 1997) è un questionario autosomministrato che misura le strategie di fronteggiamento (coping). È composto da 14 sottoscale: ristrutturazione positiva, distogliere l’attenzione, espressione, uso del supporto strumentale, affrontare operativamente, negazione, religione, umorismo, disimpegno comportamentale, uso del supporto emotivo, uso di sostanze, accettazione, pianificazione, autoaccusa. Contiene 28 items con un punteggio da 1 a 4, da “ non ho mai fatto così” a “ ho fatto quasi sempre così”. Il punteggio più alto è indicativo delle strategie di coping maggiormente utilizzate (Carver, 1997). La Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20) (Bagby, Parker, Taylor, 1994) è un questionario autosomministrato per la valutazione della competenza emotiva ed emozionale, ovvero la capacità di mentalizzare, percepire e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi. Si compone di 20 items, ognuno dei quali è valutato da una scala da 1 (assolutamente non d’accordo) a 5 (assolutamente d’accordo), che permette di identificare 3 fattori: Fattore 1 (difficoltà a identificare i propri sentimenti e a distinguerli dalle sensazioni fisiche); Fattore 2 (difficoltà ad esprimere i propri sentimenti); Fattore 3 (pensiero orientato esternamente). Il punteggio totale è la somma delle risposte a tutti gli items: un punteggio uguale o minore di 51 indica l’assenza di alessitimia, tra 52 e 60 una possibile alessitimia e uguale o maggiore di 61 la presenza di alessitimia (Bagby, Parker, Taylor, 1994). Al termine dei 7 incontri (T1) è stato, infine, valutato il gradimento dell’intervento da parte degli studenti attraverso un Questionario di gradimento. Tale strumento è stato elaborato al fine di invitare gli studenti ad esprimere il loro giudizio sull’utilità (attraverso una scala da “poco utile”, “utile”, “molto utile”) di ogni singolo incontro e l’interesse ad esso relativo (“poco interessante”, “interessante”, “molto interessante”). L’analisi statistica è stata effettuata con il software Statistical Package for Social Science (SPSS). I confronti tra medie sono eseguiti utilizzando il t-test di Student per campioni indipendenti. In caso di variabili categoriche è stato utilizzato il test del X2. Tutte le analisi con un p minore o uguale a 0.05 sono state considerate statisticamente significative. Risultati La valutazione iniziale per rilevare la condizione sociale ed i cambiamenti percepiti dagli studenti in seguito all’evento sismico ha permesso di fotografare la seguente situazione: 44 soggetti dei 47 del campione totale hanno vissuto il terremoto, 2 di essi hanno riportato lesioni per le quali hanno avuto bisogno di rivolgersi al pronto soccorso e 13 hanno riportato un evento luttuoso per il decesso di amici. Nessun soggetto ha sperimentato un lutto familiare come conseguenza diretta del terremoto. In base all’entità del danno subito le abitazioni sono state classificate come A (edificio agibile, piccole lesioni) nel 48,9% (n=23) dei casi, come B (e. temporaneamente


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inagibile) nel 21,3% (n=10), C (e. parzialmente inagibile) ed E (e. inagibile) rispettivamente nel 2,1% (n=1) e nel 27,7% (n=13) dei casi. Nessuna delle abitazioni è stata classificata come F (e. inagibile per cause esterne). Nell’86,3% si trattava di case di proprietà. Nell’immediato post-sisma 17 soggetti (36,2%) hanno vissuto nelle tendopoli della Protezione Civile, la maggior parte per un periodo dai 5 agli 8 mesi, 4 (8,5%) di essi hanno vissuto in una tenda autonoma, 6 (12,8%) in albergo per un periodo medio di 12 mesi, 4 (8,5%) in campeggio per un periodo di 6 mesi, 2 (4,3%) di essi hanno vissuto a casa di amici per circa 3 settimane, 12 (25,5%) in sistemazione autonoma, 2 (4,3%) in altra sistemazione. Al momento della valutazione (aprile 2011) il 53,2% (n=25) era rientrato nell’abitazione del pre-terremoto, l’8,5% (n=4) stimava il rientro a 1 anno, un altro 8,5% (n=4) a 6 mesi, il 2,1% (n=1) a 3 anni mentre il restante 27,7% (n=13) non sapeva fare previsioni. Il 60% dei soggetti viveva in casa di proprietà, il 20% nei locali costruiti nel post-terremoto del ‘Progetto CASE’, il 10% in un’abitazione in affitto e un ulteriore 10% nei cosidetti M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori). Il 55% dei soggetti riferisce di essere molto soddisfatto della sistemazione in cui si trova a vivere e di come siano organizzati i mezzi di trasporto pubblici anche se il 37% di essi avverte la mancanza sia di centri ricreativi giovanili sia di luoghi di svago, bar e pub. Prima del terremoto il 40% dei soggetti giudicava la propria salute come eccellente, situazione che resta invariata anche dopo il sisma (32%). Nessuno dei soggetti si è rivolto a un medico per problemi emotivi: dopo il sisma, un solo soggetto si è rivolto al Medico di Medicina di Base per una sintomatologia ansiosa, senza ricevere alcuna prescrizione. Dopo il terremoto il 60% dei soggetti riferisce di non aver avuto compromissione nei rapporti sociali e la maggior parte di essi definiva le proprie relazioni sociali come ‘aumentate’ (19%) e ‘molto aumentate’ (16%) rispetto al pre-sisma. Tra le attività preferite nel tempo libero dai soggetti valutati prima del terremoto c’era lo sport, le passeggiate nel centro storico ed il relax all’aria aperta. Dopo il terremoto, nell’impossibilità di trascorrere il tempo libero nel centro storico, i soggetti si dedicano comunque allo sport e al relax all’aria aperta, ma è incrementato più del doppio la frequentazione di centri commerciali e, in misura più modesta, anche del cinema. Al momento della valutazione è stato, infine, rilevato un aumento del consumo di cannabis (2,27+1,02 vs 2,95+1,96; t= 2.11, p = 0,03), alcool (3,14+2,78 vs 4,38+3,20; t= 2,00, p= 0,04) e fumo di sigaretta (1,69+2,36 vs 3,36+3,44; t= 2.74, p= 0.007) rispetto al periodo pre-sisma (Figura 1).


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Figura 1. Risultati al Test Analogico per l’uso di sostanze nel pre- e post- sisma (N=47).

Figura 2. Risultati all’Impact Event Scale-R (IES-R) al baseline (T0) e dopo l’intervento (T1) (N=47).

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La valutazione dell’efficacia dell’intervento ha rilevato il raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati con un miglioramento in tutte le dimensioni valutate, con vario grado di significatività. La sintomatologia post traumatica, valutata con la IES-R, ha evidenziato che il punteggio totale al T0 è indicativo della presenza di sintomatologia PTSD in 13 (26,5%) dei soggetti mentre 9 (18,4%) soggetti valutati manifestava un vero e proprio disturbo. Si è osservato una riduzione del punteggio totale in seguito all’intervento (T1) anche se non è presente una differenza statisticamente significativa rispetto al baseline (T0) (24,57+17,4 vs 22,15+11,5; t:0.79, p:0.43) (Figura 2). La valutazione delle dimensioni della IES-R ha rilevato una riduzione non significativa dei punteggi medi di Evitamento ( 9,17+6.7 vs 8,5+6,6; t:0.48, p:0.62) ed Intrusività (7,36+6.1 vs 7.35+1,7; t:0.01, p:0.9). È stata, invece, osservata una riduzione significativa del punteggio alla dimensione Iperarousal in seguito all’intervento (8,04+4,6 vs 6,3+3,2; t:2.13, p:0.03) (Figura 2). Il livello di stress percepito dai soggetti, valutato con il GHQ-12, ha evidenziato una situazione di lieve stress soggettivo al T0 che al termine dell’intervento si è significativamente ridotto (14,74+3,54 vs 12,63+2,98; t:3.13, p:0.002) (Figura 3). La valutazione dei pensieri disfunzionali con l’Idea Inventory ha evidenziato una maggiore rappresentatività di pensieri disfunzionali di tipo Assolutistico, Indispensabilità-bisogni assoluti e Catastrofico (Figura 4). L’analisi dei risultati ha evidenziato, una riduzione statisticamente significativa del solo pensiero Assolutistico dopo l’intervento (2,07+0,42 vs 1,25+0,83; t:6.04, p:0.00).

Figura 3. Risultati al General Health Questionnaire-12 (GHQ-12) al baseline (T0) e dopo l’intervento (T1) (N=47).


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Figura 4. Risultati all’Idea Inventory al baseline (T0) e dopo l’intervento (T1) (N=47).

In seguito all’intervento è stato osservato un miglioramento della competenza emotiva ed emozionale con una riduzione significativa dei punteggi medi della TAS totale (54,95+18,85 vs 48,50+7,86; t:2.16, p:0.03), del Fattore 1 (18,28+6,85 vs 16,19+2,53; t:1.96, p:0.05), del Fattore 2 (14,81+5,03 vs 12,48+4.17; t:2.44, p:0.02) e del Fattore 3 (21,86+6,97 vs 19,83+1,16; t:1.97, p:0.05) (Figura 5). Figura 5. Risultati alla Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20) al baseline (T0) e dopo l’intervento (T1) (N=47).


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La valutazione delle strategie di fronteggiamento delle situazioni stressanti attraverso la Brief-Cope ha evidenziato la prevalenza di stili pro-attivi: pianificazione, affrontare operativamente, accettazione, uso del supporto emotivo, espressione, uso del supporto strumentale (Figura 6). È stato, inoltre, rilevato un aumento statisticamente significativo del punteggio medio dello stile di fronteggiamento Espressione in seguito all’intervento (6,4+1,55 vs 7,9+1,12; t= 5.38, p:0.00) (Figura 6).

Figura 6. Risultati alla Brief-COPE al baseline (T0) e dopo l’intervento (T1) (N=47).

La valutazione degli incontri effettuata attraverso il Questionario di gradimento ha evidenziato come i ragazzi abbiano apprezzato in misura maggiore gli interventi sulle emozioni e la gestione dell’ansia (l’80,3% lo ha trovato “molto interessante”), sulle sostanze (il 70,5% lo ha valutato “molto interessante”) e sull’educazione sessuale (per il 75,2% risulta “molto interessante”). Discussioni L’intervento effettuato nell’Istituto Scolastico ‘O. Colecchi’ dell’Aquila nel postterremoto si è dimostrato essere un intervento efficace nel migliorare il benessere percepito dei soggetti che ne hanno usufruito. Il punto di forza di tale intervento sembra


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essere l’utilizzo di metodologie di approccio integrate e multidisciplinari, nonché strumenti operativi validati nella loro efficacia (Pellai, Marzorati, 2001; Pellai, 2002; Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). La valutazione della verosimile presenza di sintomatologia post-traumatica al baseline ha evidenziato la presenza di sintomatologia PTSD in 13 (26,5%) dei soggetti mentre 9 (18,4%) soggetti valutati manifestavano un vero e proprio disturbo. Pollice et al. (2012) hanno riportato che, ad un anno dall’evento sismico aquilano, il 30,7% degli studenti delle scuole superiori mostrava dei punteggi alla IES-R compatibili con un PTSD mentre il 31,4% di essi mostrava sintomi di PTSD. La differente stima della frequenza nel disturbo tra i dati da noi riportati e quelli di Pollice et al. (2012) sembrano imputabili alla limitata numerosità (47 vs 475 soggetti) e all’omogeneità del nostro campione. I soggetti valutati nel nostro studio frequentano il terzo ed il quarto anno di un unico istituto scolastico, mentre nello studio di Pollice et al. (2012) il campione è stato reclutato su un’ampia popolazione proveniente dall’ultimo anno di diversi istituti scolastici. La maggior parte dei soggetti del nostro campione è, inoltre, di sesso maschile ed i dati di letteratura riportano differenze di genere nella frequenza di PTSD in seguito a varie esperienze traumatiche, tra cui le catastrofi naturali, con una più alta incidenza del disturbo nel sesso femminile (Bokszczanin, 2007; Olff et al., 2007; Kimerling, 2002). In seguito all’intervento effettuato è stata osservata una riduzione significativa della sola dimensione Iperaraousal mentre non è presente un miglioramento rilevante della sintomatologia globale. Il miglioramento nella dimensione Iperaraousal sembra essere la conseguenza di una migliore gestione dei sintomi ansiosi attraverso l’acquisizione di tecniche comportamentali specifiche (respirazione e rilassamento muscolare) (Andrews, 2003). In accordo con i dati di letteratura che riportano una maggiore percezione dello stress in soggetti esposti a un trauma (Asarnow et al., 1999), i risultati ottenuti mostrano un alto livello di stress percepito nel nostro campione. Al termine dell’intervento si evidenzia, tuttavia, una riduzione significativa dello stress percepito. Tale dato è in linea con i risultati riportati in studi precedenti che hanno mostrato l’efficacia di interventi psicoeducazionali in popolazioni di giovani sopravvissuti a catastrofi naturali nel ridurre lo stress percepito (Giordani Paesani et al., 2010; Shooshtary, Panaghi, Moghadam, 2008). Il nostro studio ha evidenziato che nei giovani soggetti erano prevalentemente presenti stili di fronteggiamento pro-attivi: pianificazione, affrontare operativamente, accettazione, uso del supporto emotivo, espressione, uso del supporto strumentale. Tale dato è in accordo con i dati di letteratura in cui si evidenzia che i soggetti giovani esposti a un trauma utilizzano strategie di coping attivi (Giordani Paesani et al., 2010; Hollifield et al., 2008). In seguito all’intervento è stato, inoltre, rilevato un aumento significativo dello stile di fronteggiamento Espressione. L’implementazione di tale strategia di coping potrebbe essere conseguenza dell’acquisizione di informazioni che hanno reso i soggetti in grado di riconoscere e discriminare un’ampia gamma di emozioni. L’intervento effettuato ha, infatti, previsto che due incontri fossero dedicati all’educazione razionale emotiva ed i contenuti di tali incontri sono stati più volte richiamati negli incontri successivi in linea con quanto definito dalle linee guida


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internazionali (NICE, 2009) e come suggerito dai vari studi sui modelli di intervento di promozione del benessere emotivo in ambito scolastico (Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). La valutazione della competenza emotiva ed emozionale al baseline ha mostrato la presenza di una ‘possibile alessitimia’ (i.e., punteggio medio alla TAS= 54,95) con deficit nelle abilità di mentalizzazione, percezione e descrizione verbale degli stati emotivi propri e altrui. Nei soggetti valutati sono stati, inoltre, rilevati stili di pensiero e/o convinzioni che possono portare ad attribuzioni non appropriate degli eventi esterni o interni con espressione emotiva non sempre adeguata al contesto. Il campione mostrava, infatti, la prevalenza di stili di pensiero di tipo ‘assolutistico’, ‘indispensabilità e bisogni assoluti’ e ‘catastrofico’. Al termine dell’intervento si apprezza un miglioramento significativo della competenza emotiva, sia nella capacità di identificare le proprie emozioni, sia nella espressione sia nell’attribuzione di significati emotivi, con una riduzione della propensione alla tendenza all’utilizzo dello stile di pensiero ‘assolutistico’. Non sono presenti in letteratura studi relativi ad interventi di promozione del benessere emotivo che vadano a valutare la competenza emotiva attraverso gli strumenti da noi utilizzati. Tuttavia, tutti gli studi sulla promozione del benessere emotivo attraverso interventi basati sull’apprendimento emotivo e sociale effettuati in ambito scolastico hanno mostrato un miglioramento delle abilità sociali ed emotive, una riduzione dei comportamenti rischiosi per il benessere psicofisico e un miglioramento dell’apprendimento scolastico (Bond et al., 2004; Bierman et al., 2008; Durlak et al., 2011; Greenberg et al., 2003). Il campione valutato presentava un aumento significativo del consumo di cannabis (15,8%), di alcool (13,8%) e fumo di sigaretta (200%) rispetto al periodo presisma. Tali risultati sono in linea con lo studio di Pollice et al. (2011) che ha mostrato un marcato incremento dell’abuso di sostanze nei giovani sopravvissuti al terremoto aquilano afferenti al servizio ambulatoriale SMILE e con i risultati di altri studi presenti in letteratura (Vetter et al., 2008; Malhotra, Singh, Chadda, 2005; Kar, 2006; Rowe, Liddle, 2008; Rowe, La Greca, Alexandersson, 2010). I limiti del nostro studio sono rappresentati dalla piccola numerosità del campione valutato, dalla mancanza di una valutazione nel periodo precedente al sisma e dalla mancanza di una valutazione a lungo termine per valutare l’efficacia dell’intervento nel tempo. L’assenza di una valutazione nel periodo precedente al terremoto risulta essere il limite maggiore, in quanto, le variabili osservate potrebbero essere state fortemente influenzate dai vissuti soggettivi relativi alla catastrofe. Tale limite è stato, tuttavia, superato attraverso la valutazione della presenza di una sintomatologia riferibile al PTSD (rilevata in 22 soggetti) e dalla valutazione delle variabili esaminate al baseline e dopo l’intervento. Conclusioni La promozione del benessere emotivo e sociale nelle scuole è attualmente una tematica di grande interesse scientifico ed istituzionale e si colloca tra i fattori di


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protezione nell’ambito più generale della prevenzione dei comportamenti a rischio per la salute psicofisica. Gli interventi di promozione del benessere emotivo e sociale nell’ambito della scuola risultano essere uno strumento utile per conoscere le modalità di pensare e di relazionarsi dei giovani, nonché la loro capacità di gestire i propri problemi consentendo, allo stesso tempo, la trasmissione di informazioni scientifiche in un contesto in cui il confronto e la discussione coi pari favoriscono un apprendimento “vivace” e immediato grazie all’utilizzo di metodi interattivi, che sono riconosciuti come strumenti in grado di favorire lo sviluppo di abilità interpersonali (Tobler, 2000). L’intervento effettuato nell’Istituto Scolastico ‘O. Colecchi’ de L’Aquila nel postterremoto dagli operatori del Servizio SMILE nasce con la finalità di promuovere il benessere emotivo e sociale in una popolazione di giovani studenti sopravvissuti ad una catastrofe e di limitare le conseguenze psicopatologiche post traumatiche. La necessità di un intervento atto ad implementare le abilità sociali ed emotive negli adolescenti che hanno esperito eventi di vita negativi è riportata tra le raccomandazioni delle linee guida internazionali (NICE, 2009). Le conseguenze psicologiche delle catastrofi naturali sulla popolazione giovanile possono, infatti, essere gravi e di lunga durata. La presenza di fattori interpersonali, come l’uso di strategie di coping attivo, l’apprendimento di tecniche cognitivo-comportamentali per la gestione della sintomatologia ansiosa, il miglioramento in senso qualitativo delle relazioni sociali, la capacità di adattarsi agli stress e agli eventi negativi, sono stati individuati come fattori di protezione utili nella prevenzione della psicopatologia post-traumatica e dei disturbi psichiatrici in generale in quanto permettono un miglior adattamento psicosociale durante gli eventi stressanti. L’attuazione del progetto “Pensare Positivo” nella scuola attraverso l’utilizzo di metodologie di approccio integrate e multidisciplinari si è dimostrata utile nel rafforzare alcune capacità individuali, nel migliorare il benessere percepito, la gestione delle emozioni negative e le competenze emotive e sociali. Riassunto Obiettivo. L’obiettivo dello studio è valutare l’efficacia di un intervento per la Promozione del Benessere Emotivo e Sociale rivolto agli studenti di un Istituto Statale Superiore di l’Aquila nell’anno 2010-2011, ed effettuato dagli operatori del “Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per le Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani” (SMILE), del Servizio Psichiatrico Universitario di Diagnosi e Cura dell’Università degli Studi di L’Aquila, Unita Operativa dedicata alla prevenzione ed al trattamento precoce nei giovani. L’intervento è stato effettuato per la promozione del benessere nei giovani studenti esposti alle conseguenze del terremoto del 2009. Metodo. Il progetto “Pensare Positivo” si è svolto in 7 incontri di tre ore ciascuno a cui hanno partecipato 47 soggetti. La valutazione dell’efficacia è stata effettuata, all’inizio (T0) e alla fine (T1) dell’intervento, attraverso i seguenti strumenti di valutazione: Impact Event Scale-revised (IES-R), General Health Questionnaire-12, Idea Inventory, Brief-Cope e la Toronto Alexithymia Scale – 20 item (TAS-20). Risultati. La valutazione dell’efficacia dell’intervento ha rilevato il raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati con un


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miglioramento in tutte le dimensioni valutate anche se con vario grado di significatività. In seguito all’intervento risultano, infatti, migliorati la dimensione “iperarousal” della IES-R ed il livello di stress percepito. È stato osservato, inoltre, un miglioramento della competenza emotiva, con una riduzione statisticamente significativa della modalità di pensiero di tipo “Assolutistico” ed un aumento dello stile di coping “Espressione”. Discussioni. Lo studio dimostra che gli interventi psicoeducativi e cognitivo comportamentali di gruppo effettuati nel contesto scolastico sono un utile strumento per migliorare il benessere emotivo e sociale dei giovani. Tali interventi risultano indispensabili per fornire ai giovani validi strumenti per affrontare il disagio conseguente ai cambiamenti che si trovano a vivere. Il progetto “Pensare Positivo” attraverso l’utilizzo di metodologie di approccio integrate e multidisciplinari si è dimostrato utile nel rafforzare alcune capacità individuali, nel migliorare il benessere percepito, la gestione delle emozioni negative e le competenze emotive e sociali. Parole chiave Intelligenza emotiva – Emozione – Problem solving – Benessere sociale – Benessere emotivo. Ringraziamenti Un sentito ringraziamento va a tutto il personale e corpo docenti dell’Istituto Istruzione Statale Superiore (IISS) per Geometri “O. Colecchi”, in particolare al Dirigente Scolastico Prof. Fonzi e alla Prof.ssa Marinelli per aver fortemente voluto e sostenuto il Progetto “Pensare Positivo” e per la loro disponibilità. Un ulteriore ringraziamento agli studenti a cui è stato rivolto l’intervento per l’attiva collaborazione che ha permesso di raggiungere gli obiettivi previsti dal progetto e per la loro sentita gratitudine.

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 396-412

La perdita di un genitore nell’infanzia: uno studio empirico su un campione di pre-adolescenti The loss of parent in childhood: an empirical study on preadolescent sample Silvia Cimino*, Stefania Sinesi*, Gianluigi Monniello**

Summary The international scientific literature agrees in considering the loss of a parent during childhood as a traumatic experience that might bring to a number of consequences during the development. The aim of this study is to evaluate the global psychological functioning of a non-referred sample composed of preadolescents; furthermore the study is aimed to evaluate the impact of the loss of a significant caregiver (mother or father) in childhood. Three specific samples are considered: 1) subjects who had lost a significant caregiver during the first three years of life; 2) subjects who had the same loss experience when they were between three and ten years old; 3) a control sample composed of subjects who didn’t experience any kind of parent’s loss. We have administered three self-report questionnaires: 1) SCL-90-R (Derogatis et al., 1973) to evaluate the psychological functioning; 2) EAT-40 (Garner, Garfinkel, 1979) to evaluate pathological eating behaviors; 3) A-DES (Armstrong et al., 1990) to evaluate dissociative symptoms. The research has shown a significant statistical difference between the two groups who had an experience with loss in the first or in the second childhood and the control group. Furthermore the study had registered a significant statistical difference between the group of subjects who have lost a significant caregiver during the first three years of life and the ones who have lost a significant caregiver between three and ten years of age, showing a disadaptive psychological functioning in different areas in individuals who had an experience of loss in the earlier stages of their lives. Key words Loss of parent during childhood – Preadolescence – Psychological functioning – Eating disorders – Dissociative experience.

Introduzione La letteratura scientifica internazionale concorda sul considerare la perdita di un genitore nell’infanzia un evento altamente traumatico che può portare a numerose conseguenze durante il corso dello sviluppo (Yamamoto et al., 1996). Alcuni studi mostrano come le reazioni di soggetti in età evolutiva di fronte ad * Dipartimento **

di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma. Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, Sapienza Università di Roma.


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eventi traumatici siano modulate dall’età, dalla tipologia di trauma e dal significato che tale esperienza assume per la persona che la sperimenta (Eth, Pynoos, 1985; Furman, 1986). In particolare, gli eventi traumatici vissuti nell’infanzia possono avere un impatto negativo sul funzionamento comportamentale, cognitivo, emozionale e sociale, ma non sempre si manifesta una risposta univoca a tali esperienze: solo una ridotta percentuale di individui che hanno subìto un trauma in età precoce sviluppa sintomi psicopatologici. Molti bambini, infatti, mostrano strategie di risposta adattive e resilienti quando sono esposti ad un evento traumatico ( Jenmorri, 2006; Leckman, Mayes, 2007; Perry, Szalavitz, 2006; Akin-Little et al., 2009). Nonostante le conseguenze cliniche e psicopatologiche collegate all’aver esperito un evento di natura traumatica siano controverse (Cerel et al., 2006), la perdita di un genitore rappresenta una rilevante interferenza evolutiva (Nagera, 1970). Infatti, dai contributi in campo clinico ed empirico emerge come i soggetti che hanno subìto una perdita precoce siano ad alto rischio di sviluppare problemi affettivi e comportamentali, che possono compromettere lo sviluppo sociale, emozionale e psicologico (Carbone, Cimino, 2002; Jenmorri, 2006; Koplewicz, Cloitre, 2006). La perdita di un genitore ha un impatto differente in relazione all’età e al momento evolutivo in cui avviene tale esperienza e vi sono varie risposte che il bambino può manifestare di fronte a tale perdita (Abdelnoor, Hollins, 2004a; Ratnarajah, Schofield, 2007). In particolare, la perdita della madre, evento studiato da alcune ricerche empiriche, ha un effetto differente se avviene nella prima infanzia oppure durante l’adolescenza, a causa del diverso livello di sviluppo emotivo e cognitivo che porta il soggetto a comprendere e a rispondere all’evento con modalità diverse (Lansdown, Benjamin, 1985). Gli studi che hanno preso in considerazione bambini che hanno perso la madre di un’età inferiore ai tre anni evidenziano enuresi notturna (Van Eederwegh, 1982), irritabilità ed impazienza (Cheifetz, Stavrakakis, Lester, 1989). I soggetti che hanno perso la madre dai tre ai sei anni evidenziano sintomi a-specifici che includono regressione nella regolazione degli sfinteri, disturbi del sonno, sintomi somatici ed un incremento dell’ansia da separazione (Kaffman, Elizur, 1979; Christ, 2001). Se la perdita della madre avviene nella seconda infanzia, specificamente dai sette ai dieci anni, possono comparire regressioni in varie aree, sentimento di impotenza, pensiero magico connesso al senso di colpa per avere causato la morte o il desiderio che la persona perduta ritorni. Un’esperienza di perdita materna all’esordio dell’adolescenza si associa ad un regredito funzionamento del linguaggio, come anche difficoltà nella concentrazione e nell’apprendimento (Buirski, Buirski, 1994). Inoltre, nei ragazzi che hanno perso la madre nell’infanzia, sono stati evidenziati comportamenti aggressivi, delinquenziali, problemi scolastici, rabbia, ipocondria, identificazione con il deceduto (Downdey et al., 1999; Downdey, 2000; Draper, Hancock, 2011). Tali comportamenti possono interferire con l’adempimento dei compiti di sviluppo tipici di questa fase evolutiva. Un interessante studio empirico longitudinale sulla perdita della figura paterna, che ha approfondito l’impatto di tale esperienza ha evidenziato l’emergere di disturbi psicologici ed emozionali (Elizur, Kaffman, 1982).


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Ad oggi, non sono presenti nel panorama internazionale contributi che approfondiscono la specifica influenza della perdita del padre e della madre avvenute nell’infanzia. Volendo tracciare uno schematico inquadramento, gli studi mettono in luce come, in alcuni casi, tra i bambini e gli adolescenti esposti alla perdita della madre nell’infanzia si presentino quadri sintomatologici differenti mentre in altre situazioni è possibile verificare una concordanza nella sintomatologia. Specificamente, alcune ricerche mostrano che depressione e senso di colpa sono presenti maggiormente nell’adolescenza rispetto all’età infantile (Cheifetz, Stavrakakis, Lester, 1989; Weller et al., 1991), mentre altri contributi non evidenziano differenze significative nella sintomatologia che si presenta, nella maggior parte dei casi, caratterizzata da stati di ritiro, depressione, disforia, ansia e sintomi somatici come disturbi nella regolazione della propria alimentazione (Van Eerderwegh et al., 1982; Sood et al., 1992). Per quanto riguarda il genere, le ricerche non distinguono l’infanzia dall’adolescenza. Emerge come i soggetti di sesso maschile mostrino maggiormente comportamenti aggressivi e di acting-out rispetto alle femmine (Elizur, Kaffman, 1982; Dowdney et al., 1999) che tendono manifestare sintomi di natura internalizzante (Van Eederwech et al., 1985; Gersten, Beals, Kallgre, 1991). Un filone di ricerca particolarmente significativo riguarda gli studi retrospettivi. In particolare lavori effettuati su pazienti adulti borderline hanno trovato la perdita di un genitore nell’infanzia (Zanarini et al., 1989; Stone, 1990) e mostrano come questa esperienza traumatica eserciti un’importante influenza sul distress individuale percepito durante l’adolescenza (Luecken et al., 2009). Inoltre, studi svolti su pazienti adulti con sintomatologia depressiva hanno messo in luce un’elevata presenza di esperienze di perdita di caregiver significativi durante l’infanzia (Brown, 1961; Beck, Sethi, Tuthill, 1963; Forrest, Fraser, Priest, 1965; Wolfenstein, 1966; Caplan, Douglas, 1969; Birtchnell, 1972; Brown, Harris, Copeland, 1977; Mireaults, Bond, 1992; Noorikhajavi et al., 2007). Altri autori sostengono una mancata associazione della perdita precoce con la psicopatologia adulta e l’importanza di considerare eventuali fattori di protezione associati al lutto, quali la qualità delle cure di altri caregiver di riferimento e la presenza di un adeguato supporto sociale ed affettivo (Harris, Brown, Bifulco, 1986; Tennant, 1988). Un’ulteriore area di ricerca ha messo in luce come, in risposta alla perdita di un genitore durante l’infanzia, la dissociazione rappresenti un meccanismo psichico adattivo, utile a regolare stati emotivi intensi, traumatici, che rischiano di rendere vulnerabile il soggetto. Ma, se utilizzato in modo massivo, tale meccanismo può diventare patologico, impedendo un armonico funzionamento della personalità in via di sviluppo (Perry, Szalavitz, 2006; Steele, Malchiodi, Kuban, 2008). In sintesi, la letteratura scientifica che ha approfondito gli esiti sullo sviluppo della perdita di un genitore in età infantile non ha distinto in dettaglio le fasi specifiche in cui è avvenuta tale esperienza di lutto (ad esempio la prima o la seconda infanzia) e si è concentrata poco sui possibili esiti di questo evento traumatico all’esordio della pubertà, fase evolutiva particolarmente instabile e vulnerabile, in cui il soggetto deve far fronte a una serie di compiti di sviluppo fase-specifici.


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A partire da queste considerazioni teoriche, il nostro studio empirico ha voluto prendere in esame un campione di ragazzi nella prima fase dell’adolescenza che hanno vissuto un’esperienza di perdita di un genitore nell’infanzia cercando di approfondire l’età in cui è stato vissuto tale evento e i possibili esiti sul funzionamento psicologico globale. Obiettivi Il presente contributo di ricerca si è posto l’obiettivo generale di valutare il funzionamento psicologico globale in un campione di pre-adolescenti non referred, studiando l’impatto della perdita di un caregiver significativo (la madre o il padre) avvenuta nell’infanzia sul profilo psicologico attuale. Abbiamo analizzato tre campioni specifici: 1) ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di perdita di un caregiver significativo nei primi tre anni di vita; 2) ragazzi che hanno esperito tale evento dai tre ai dieci anni; 3) un campione di controllo in cui non si sono verificati eventi di perdita di figure significative nell’infanzia. In particolare, questo studio si è proposto, attraverso un confronto tra i tre campioni di ricerca, i seguenti obiettivi specifici: 1. valutare il profilo psicologico e/o psicopatologico di tutti i soggetti, con specifico riferimento all’area dei comportamenti alimentari disadattivi e degli stati dissociativi; 2. valutare l’effetto del genere (maschio-femmina) e della figura significava persa (madre-padre), sulle variabili del funzionamento psicologico indagate. Metodologia Campione Il campione del nostro contributo empirico è composto da N= 117 soggetti reperiti grazie alla collaborazione di Istituti scolastici pubblici e privati del territorio laziale ed è stato suddiviso in tre gruppi di studio: 1) N=38 soggetti che hanno subìto la perdita di un genitore nei primi tre anni di vita (17 maschi; 21 femmine; età media=12.47; d.s.=1.08); 2) N=39 soggetti (18 maschi; 21 femmine; età media=12.41 anni; d.s.= 1.11) che hanno vissuto la perdita di un genitore tra i tre e i dieci anni; 3) N= 40 soggetti (20 maschi; 20 femmine; età media=12.37; ds=1.07) che non hanno subìto alcuna esperienza di perdita genitoriale. Tutte le famiglie dei ragazzi che hanno partecipato allo studio appartengono ad uno status socio-economico medio (Hollingshead, 1975). Inoltre, tutti i ragazzi che hanno partecipato alla ricerca hanno compilato i questionari in forma anonima previo consenso informato da parte delle famiglie. Strumenti Preliminarmente, è stato somministrato ad un campione di oltre 2.000 ragazzi un inventario degli eventi traumatici e stressanti (Giannantonio, 2003-2009), che ha


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permesso di selezionare i soggetti utilizzati nel presente contributo (3.85% della popolazione indagata hanno perso un caregiver significativo nella prima e nella seconda infanzia). Sono stati somministrati ai ragazzi i seguenti questionari self-report: a) La Symptom Checklist-90-R (SCL-90-R; Derogatis, Lipman, Covi et al., 1973) è un questionario self-report che fornisce una misura standardizzata dello status psicologico e/o psicopatologico attuale di un individuo, applicabile a popolazioni normali o psichiatriche di adulti. I punteggi ottenuti sono interpretati sulla base di 9 dimensioni primarie: 1) Somatizzazione, 2) Ossessione compulsione, 3) Sensibilità interpersonale, 4) Depressione, 5) Ansia, 6) Ostilità, 7) Ansia fobica, 8) Ideazione paranoide, 9) Psicoticismo. Inoltre, sulla base di tre Indici Globali (Global Severity Index, Positive Symptom Distress Index, Positive Symptom Total), la SCL-90-R fornisce il livello di gravità e l’ampiezza del distress psicologico individuale relativo alle nove dimensioni primarie misurate. Questo strumento self-report può evidenziare cluster di sintomi associati a specifiche condizioni psicopatologiche (ad es., disturbi affettivi e di personalità). La coerenza interna della versione italiana, testata su un campione di adolescenti e di adulti, è soddisfacente (coefficiente alpha compreso tra 0.70 e 0.96) e il cut-off clinico è risultato pari ad 1 (Prunas et al., 2011). b) L’Eating Attitude Test-40 (EAT-40; Garner, Garfinkel, 1979; Garner et al., 1982) è un questionario utile per la valutazione clinica di comportamenti alimentari disfunzionali. È composto da 40 item con una scelta fra sei risposte per ogni item; fornisce un punteggio totale e tre punteggi parziali suddivisi in tre sottoscale: Digiuno, Bulimia e preoccupazione per il cibo, Controllo orale. Un punteggio totale elevato indica insoddisfazione per la propria immagine corporea, desiderio di magrezza, preoccupazione per l’effetto negativo dei comportamenti alimentari sul peso e rigido auto-controllo sull’alimentazione. Lo strumento presenta una soddisfacente attendibilità (coefficiente alpha da 0.79 a 0.94), è stato validato su un campione di pazienti adulti con diagnosi di anoressia nervosa, ed è spesso utilizzato per rilevare la presenza di disturbi alimentari in popolazioni non-cliniche. Da studi di validazione, il cut-off clinico è risultato pari a 30 (Garner, Garfinkel, 1980; Cuzzolaro, Pertilli, 1988). c) L’Adolescent Dissociative Experiences Scale (A-DES; Armstrong et al., 1997) è un questionario self-report composto da 30 item su scala Likert a 11 punti, somministrato a soggetti tra gli 11 e i 18 anni. Lo strumento indaga quattro aree specifiche: a) Amnesia dissociativa; b) Coinvolgimento immaginativo e assorbimento, c) Influenza passiva, d) Depersonalizzazione e de realizzazione. La A-DES presenta una buona coerenza interna (coefficiente alpha=0.93) e una buona stabilità al test-retest (r = 0,91) (Zoroglu et al., 2002). La A-DES è stata validata su un campione di adolescenti con sviluppo tipico tra i 12 e i 17 anni e il cut-off clinico è risultato pari a 4 (Smith, Carlson, 1996).


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Risultati I risultati saranno esposti in relazione ai due obiettivi specifici delineati. Valutazione del profilo psicologico e/o psicopatologico, con specifico riferimento all’area dei comportamenti alimentari disadattivi e degli stati dissociativi. Per valutare il profilo psicologico e/o psicopatologico sono state condotte analisi della varianza univariate (ANOVA) che hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra i tre campioni sull’andamento dei punteggi ai questionari SCL-90 R, EAT-40 e A-DES (Figura I).

Figura I. Andamento dei punteggi ai questionari SCL-90-R, EAT-40, A-DES nei tre campioni di ricerca.

In particolare, per l’SCL-90-R sono emerse differenze statisticamente significative rispetto al Global Severity Index (F=167,77; p<.01), al Positive Symptom Distress Index (F=24,66; p<.01), al Positive Symptom Total (F=16,40; p<.01) e in relazione alle sottoscale Somatizzazione (F=77,85; p<.01), Ossessione Compulsione (F=22,33; p<.01), Sensibilità interpersonale (F=68,37; p<.01), Depressione (F=290,20; p<.01), Ansia (F=35,36; p<.01), Ostilità (F=41,40; p<.01), Ansia fobica (F=86,81; p<.01), Ideazione paranoide (F=67,87; p<.01) e Psicoticismo (F=100,63; p<0.01). Dai confronti post-hoc è stato evidenziato che il gruppo che ha avuto esperienze di perdita nei primi tre anni di vita presenta punteggi significativamente superiori rispetto al gruppo che ha subìto tali esperienze nella seconda infanzia e al campione di controllo (p<0.05). Inoltre, questi confronti hanno messo in luce come, tra il cam-


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pione che ha sperimentato la perdita tra i tre i dieci anni e il gruppo di controllo sia risultata una differenza statisticamente significativa rispetto al Global Severity Index (F=5,50; p<.05), al Positive Symptom Total (F=35,43 ; p<.01), al Positive Symptom Distress Index (F=44,92; p<.01) e alla Sensibilità interpersonale (F=8,82; p<.05). In particolare, i punteggi della Sensibilità interpersonale e del Global Severity Index sono maggiori nel gruppo di controllo, mentre i punteggi del Positive Symptom Total e del Positive Symptom Distress Index più elevati nel gruppo che ha sperimentato la perdita di un genitore nella seconda infanzia. Nella Figura II sono presentate in dettaglio le differenze tra i tre campioni nelle sottoscale della SCL-90-R e riportato l’andamento dei punteggi ai questionari SCL90-R, EAT-40, A-DES nei tre campioni di ricerca.

Figura II. Andamento dei punteggi nelle sottoscale dell’SCL-90-R nei tre campioni di ricerca.

Per quanto riguarda l’EAT-40, sono emerse differenze statisticamente significative sia nel Punteggio globale (F=112,99; p<.01) sia nelle sottoscale Digiuno (F=90,12; p<.01), Bulimia e preoccupazione per il cibo (F=46,08; p<.01), Controllo orale (F=79,32; p<.01). Dai confronti post-hoc è stato evidenziato che entrambi i gruppi che hanno avuto esperienze di perdita hanno punteggi significativamente superiori rispetto al controllo in tutte le dimensioni indagate (p<0.05); inoltre, il gruppo che ha subìto la perdita nei primi tre anni di vita ha punteggi significativamente superiori rispetto al campione che ha sperimentato tale perdita dai tre ai dieci anni di vita (p<0.05). Nella Figura III sono presentate in dettaglio le differenze tra i tre campioni nelle sottoscale dell’EAT-40.


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Figura III. Andamento dei punteggi nelle sottoscale dell’EAT-40 nei tre campioni di ricerca.

Considerando la valutazione della presenza di possibili stati dissociativi indagati con l’A-DES si è evidenziata, tra i tre campioni di ricerca, una differenza statisticamente significativa nel Punteggio globale (F=4263,14; p<.01) e nei fattori Amnesia Dissociativa (F=1956,39; p<.01), Coinvolgimento immaginativo e assorbimento (F=1144,72; p<.01), Influenza passiva (F=740,32; p<.01) e Depersonalizzazione e derealizzazione (F=2183,80; p<.01). Dai confronti post-hoc è emerso che entrambi i gruppi che hanno avuto esperienze di perdita hanno punteggi significativamente superiori rispetto al controllo in tutte le dimensioni considerate (p<0.05); inoltre, il gruppo che ha subìto la perdita nei primi tre anni di vita ha punteggi significativamente superiori rispetto al campione che ha sperimentato tale perdita dai tre ai dieci anni di vita. Nella Figura IV sono presentate in dettaglio le differenze tra i tre campioni nelle sottoscale della A-DES. È interessante sottolineare come il campione che ha subìto la perdita di un genitore nei primi tre anni di vita mostri punteggi che superano il cut-off clinico per il Global Severity Index, per tutte le sottoscale dell’SCL-90-R, per il Punteggio globale dell’EAT-40 e per il Punteggio globale dell’A-DES. Valutazione dell’effetto del genere (maschio-femmina) e della figura significava persa (madre-padre) sulle variabili del funzionamento psicologico indagate. La valutazione dell’effetto del genere (maschio-femmina) e della figura significava persa (madre-padre) è stata eseguita con un test t di Student tra il campione che ha subìto la perdita nella prima e nella seconda infanzia. È emersa una differenza statisticamente significativa per quanto riguarda maschi e femmine che hanno perso la madre durante i primi tre anni di vita nella sottoscala dell’SCL-90-R Ansia fobica (t=2,26; p<.05) e nel Punteggio globale all’EAT-40 (t=2,89; p<.05), con punteggi più elevati nel sesso femminile.


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Figura IV. Andamento dei punteggi nelle sottoscale dell’A-DES nei tre campioni di ricerca.

Inoltre è emersa una differenza statisticamente significativa tra maschi e femmine che hanno perso il padre nei primi tre anni di vita nel Punteggio globale all’EAT-40 (t=4,1; p<.05) e nel Punteggio globale alla A-DES (t=2,28; p<.05), con punteggi più elevati nel sesso femminile. Infine, si è evidenziato che, indipendentemente dal genere e dall’età in cui si è verificata la perdita, vi è una differenza statisticamente significativa al punteggio globale dell’A-DES (t=7,52; p<.05) tra i soggetti che hanno perso la madre e il padre con punteggi più elevati nelle situazioni di perdita materna. Discussione L’indagine empirica che abbiamo condotto ha cercato di esplorare il funzionamento psicologico e/o psicopatologico in una popolazione di ragazzi che si collocano nella fascia della prima adolescenza e che hanno subìto la perdita di un genitore nella prima e nella seconda infanzia. Ad oggi, la letteratura scientifica in campo nazionale ed internazionale, risulta essere scarsa circa le conseguenze, nella fase della preadolescenza, della perdita di un caregiver durante la prima e la seconda infanzia. La maggior parte dei contributi


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empirici si riferiscono ad un ampio range di età in cui è avvenuta tale perdita, senza specificare l’impatto di questa esperienza all’interno di determinate fasi evolutive. Inoltre, le limitate ricerche longitudinali presenti hanno approfondito le conseguenze della perdita di un caregiver significativo durante la media e la tarda adolescenza piuttosto che soffermarsi sulla prima adolescenza (Akerman, Statham, 2011). È però interessante sottolineare come la prevalenza della perdita di un genitore nell’infanzia, che nel nostro campione si colloca intorno al 3.8% della popolazione indagata, concordi con uno studio americano che ha messo in luce la medesima frequenza di tale evento, sottolineando l’importanza di approfondirne le conseguenze e l’impatto a livello emotivo e sociale (Fauth, Thompson, Penny, 2009). I dati emersi dal nostro contributo empirico mostrano come i soggetti che hanno sperimentato il lutto di un genitore nei primi tre anni di vita presentino un funzionamento psicopatologico in diverse aree, tra cui particolare rilevo assumono i comportamenti alimentari disfunzionali e la sperimentazione di vissuti dissociativi. È proprio questo gruppo di pre-adolescenti che evidenzia un rischio molto significativo di stabilizzarsi all’interno di un funzionamento psicologico disadattivo. Questo dato concorda con i lavori presenti in campo interazionale che hanno messo in luce come, l’evento di predita di un genitore studiato in piccoli campioni provenienti di diversi continenti, si colleghi all’esordio di una vasta gamma di sintomi emozionali e comportamentali che viene descritta come un’alterazione generale del profilo psicologico (Dowdney, 2000; Haine et al., 2008). In questa direzione, un’analisi dell’Office for National Statistics effettuata su un campione tra i 5 e i 16 anni mostra come i soggetti che hanno subìto la perdita di un genitore, senza specificare se nella prima o nella seconda infanzia, presentino un rischio di una volta e mezzo superiore, rispetto coloro che non ha vissuto tale evento, di essere diagnosticati con un qualche disturbo mentale nel corso dello sviluppo (Fauth, Thompson, Penny, 2009). Nonostante sappiamo che la prima fase dell’adolescenza sia un periodo complesso, in cui l’emergere di caratteristiche sintomatiche non indichi necessariamente la presenza di n quadro clinico (come dimostra il nostro dato sulla Sensibilità interpersonale e sul Global Severity Index che sono piuttosto elevati nel gruppo di controllo), in questo specifico campione si presentano punteggi che superano la soglia di cut-off indicando un profilo emotivo particolarmente compromesso. Questo dato ci orienta a considerare l’importanza di interventi tempestivi che possano permettere ai ragazzi di affrontare i compiti di sviluppo propri dell’ingresso verso l’adolescenza, fase in cui si riattivano esperienze traumatiche pregresse che devono essere affrontate ed inserite nella nuova economica psichica del soggetto (Finn, 2003; Frydenberg, Muller, Ivens, 2006; Holland, 2008; Braiden et al., 2009; Searles McClatchey, Vonk, Palardy, 2009; Challen et al., 2010; Rosnera Kruse, Hagl, 2010; Wolpert et al., 2010). Blos (1962), a questo proposito, aveva sottolineato come l’entrata nell’adolescenza porti in primo piano la rielaborazione e il controllo dei traumi infantili, cioè di esperienze che sono state vissute dal soggetto come soverchianti e che devono essere integrate nell’Io. In questo senso sembra che una perdita molto precoce, in una fase della vita in cui il bambino ha enormi difficoltà ad elaborare un evento di lutto, abbia un’influenza molto più negativa sul funzionamento psicologico rispetto allo speri-


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mentare una perdita nella seconda infanzia in cui il soggetto ha a sua disposizione una gamma molto più diversificata di strumenti cognitivi ed affettivi. Può essere interessante mettere in luce come negli adolescenti, l’aver vissuto esperienze di natura traumatica come la perdita di un genitore, possa influenzare la regolazione dell’asse ipotalamo-ipofisaria e interferire con i processi organici che si attivano all’avvento della pubertà (De Bellis et al., 1994; Kaufman et al., 1997; Heim et al., 2000). In particolare, la risposta agli stressors risulta maggiormente disfunzionale nei ragazzi che hanno una storia di esperienze traumatiche precoci, poiché l’attivazione a livello neuroendocrino si presenta già compromessa (Heim et al., 2002). Queste ricerche sembrano in linea con i nostri dati che evidenziano una maggiore compromissione emotiva nei ragazzi che hanno preso un genitore nella prima infanzia. Dal nostro contributo empirico è emerso che le femmine mostrano un’elevata presenza di comportamenti alimentari patologici, di stati fobico-ansiosi e di vissuti dissociativi. Questi dati sono confermati da diversi studi che mettono in luce come le ragazze, già a partire dalla pre-adolescenza, manifestino sintomi di natura prevalentemente internalizzante, a differenza di loro coetanei maschi che esprimono il disagio emotivo attraverso comportamenti aggressivi e di acting-out (Elizur, Kaffman, 1982; Van Eederwech et al., 1985; Gersten et al., 1991; Dowdney et al., 1999; Haine et al., 2008). Questi dati concordano con alcune evidenze empiriche che mettono in luce come i bambini che hanno perso il padre e le bambine che hanno perso la madre siano particolarmente vulnerabili e a rischio per un esordio di sintomi psicopatologici (Abdelnoor, Hollins, 2004a). Ad oggi, inoltre, non sono presenti nel panorama scientifico contributi che approfondiscono l’impatto sia della perdita della madre sia del padre avvenuta nell’infanzia. In questo ambito i nostri dati evidenziano come non vi siano differenze significative tra la perdita della madre e quella del padre nelle variabili del funzionamento psicologico individuale, ad esclusione di un punteggio maggiore per quanto riguarda la dissociazione nei soggetti che hanno subìto la perdita della madre nella prima infanzia. Questo dato sembra evidenziare l’importanza di entrambe le figure di accudimento per lo sviluppo del bambino e la necessità di un ulteriore approfondimento. Il nostro studio, naturalmente incompleto e parziale, presenta diversi punti di debolezza. In primo luogo, non sono stati indagati i possibili fattori di protezione che possono aver contribuito a mitigare gli effetti di un’esperienza così avversa come la perdita di un genitore. Ad esempio, tra di essi va considerata la presenza o meno di un genitore sostitutivo, la possibilità di mantenere viva una “ammirazione giustificata” della figura genitoriale perduta e la persistenza o meno della presenza di un genitore immaginario in sostituzione di quello venuto a mancare (Hanus, 1995). In questa direzione, un’interessante ricerca ha messo in luce come in un campione che ha subìto la perdita di un genitore prima dei sedici anni, si evidenziano sintomi depressivi solo in presenza di un supporto sociale scarso, di difficoltà ad esprimere i propri sentimenti nel contesto familiare e di alti livelli di conflitto e di rabbia (Luecken, 2000). Infatti, quando sono presenti adeguati fattori di protezione, i dati suggeriscono che solo un soggetto su cinque che ha sperimentato la perdita di un genitore nell’infanzia mantenga nel tempo una sintomatologia tale da giustificare un invio ai servizi spe-


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cialistici (Dowdney, 2000). Inoltre, le capacità di far fronte a tale evento si presentano tanto più adeguate quanto maggiore è l’età in cui avviene la perdita e l’attivazione di strategie resilienti e adattive si collega alla presenza di ulteriori figure di accudimento con cui la persona aveva già stabilito forti ed intensi legami (Ratnarajah, Schofield, 2007; Haine et al., 2008). Altri fattori protettivi svolgono un ruolo fondamentale, tra cui le caratteristiche personali, il supporto familiare, la relazione con il caregiver sopravvissuto, diversi fattori sociali ed economici (Luecken, 2000; Mandelco, Peery, 2002; Lin et al., 2004; Haine et al., 2006) così come la comprensione e il senso che il soggetto attribuisce alla morte (Ratnarajah, Schofield, 2007) e la sensazione individuale di autoefficacia (Ribbens McCarthy, 2007a). Inoltre, Harrison e Harrington (2001) hanno messo in luce come l’impatto della perdita sia collegato alla percezione di come questo evento cambierà la propria vita. Ulteriore limite si riferisce all’aver considerato in un unico campione i ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di perdita dai tre ai dieci anni di vita, poiché è ben diverso perdere un genitore a tre anni oppure a dieci. Infine, riteniamo che sarebbe interessante, pensando a future prospettive di ricerca, poter seguire longitudinalmente questo campione fino all’ingresso nell’età adulta per approfondire le eventuali traiettorie di rischio che possono emergere. Infine tale ricerca potrebbe estendersi raccogliendo da un lato i dati relativi al funzionamento del genitore rimasto, quale sostegno all’elaborazione del lutto del bambino o del pre-adolescente, dall’altro ad una casistica che presenta manifestazioni evidenti di sofferenza psichica. Riassunto La letteratura scientifica internazionale concorda sul considerare la perdita di un genitore nell’infanzia un evento altamente traumatico che può portare a numerose conseguenze durante il corso dello sviluppo. Lo scopo del presente studio è di valutare il funzionamento psicologico globale in un campione di pre-adolescenti non referred, indagando l’impatto della perdita di un caregiver significativo (la madre o il padre) avvenuta nell’infanzia sul profilo psicologico attuale. Abbiamo analizzato tre campioni specifici: 1) ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di perdita di un caregiver significativo nei primi tre anni di vita; 2) ragazzi che hanno esperito tale evento dai tre ai dieci anni; 3) un campione di controllo in cui non si sono verificati eventi di perdita di figure significative nell’infanzia. Sono stati somministrati tre strumenti self-report: 1) l’SCL-90-R (Derogatis et al., 1973) per indagare il funzionamento psicologico globale, l’EAT-40 (Garner e Garfinkel, 1979) per studiare l’eventuale presenza di comportamenti alimentari patologici e l’A-DES (Armstrong, Putnam, Carlson, 1990) al fine di indagare l’area dei sintomi dissociativi. La ricerca ha mostrato una differenza statisticamente significativa tra i due gruppi che hanno perso un caregiver nella prima e seconda infanzia e il gruppo di controllo, evidenziando punteggi più elevati in entrambi i campioni che hanno subìto un’esperienza di perdita. Inoltre, si è evidenziata una differenza statisticamente significativa tra il gruppo con perdita di un caregiver nei primi tre anni di vita e il gruppo con perdita dai tre ai dieci anni, indicando un funzionamento psicologico particolarmente


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disadattivo in varie aree nei ragazzi che hanno vissuto la perdita in una fase evolutiva più precoce. Parole chiave Perdita di un genitore nell’infanzia – Preadolescenza – Funzionamento psicologico – Comportamenti alimentari disadattivi – Stati dissociativi.

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 413-430

La prevalenza della dislessia in una popolazione scolastica non selezionata nella Regione Friuli Venezia Giulia Prevalence of dyslexia in a non selected school population in Friuli Venezia Giulia Region Chiara Barbiero1,2, Isabella Lonciari1, Marcella Montico2, Lorenzo Monasta2, Roberta Penge3, Claudio Vio4, Patrizio Emanuele Tressoldi5, Valentina Ferluga1,2, Anna Bigoni1,2, Alessia Tullio1,2, Marco Carrozzi1, Luca Ronfani2*

Summary Data on prevalence of dyslexia in Italy are limited. Available studies show large variability in estimates due to different diagnostic protocols used, types of disorder and age ranges investigated, and limited sample sizes. The objective of this study is to evaluate the prevalence of dyslexia in a non-selected school population of Friuli Venezia Giulia, a Region of North Eastern Italy. A random cluster sample of 94 fourth elementary school classes was selected; 1774 children aged 8-10 years were recruited of which 1528 decided to participate and 1357 were analyzed after applying exclusion criteria. Three consecutive levels of screening were carried out: the first two at school and the last at the Neuropsychiatry Unit of a third level University Hospital. The prevalence of dyslexia in the enrolled population ranged from 3.1% (95% CI 2.24.1%) to 3.2% (95% CI 2.4-4.3) depending on the different criteria adopted. Key words Prevalence – Dyslexia – Epidemiology – Learning disabilities.

Introduzione La dislessia evolutiva, o disturbo specifico di lettura, è definita come una difficoltà a leggere in modo corretto e fluente: il livello acquisito nel processo di decodifica, mi1

S.C.O. di Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica, IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo, Trieste. 2 Servizio di Epidemiologia e Biostatistica, IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo, Trieste. 3 Dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile - UOC NPI B, Università di Roma Sapienza. 4 U.O. C. di Neuropsichiatria Infantile, San Donà di Piave (Ve). 5 Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova. * Per il gruppo di lavoro CENDi (Comitato Epidemiologico nazionale sulla Dislessia).


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surato ai test standardizzati somministrati individualmente, si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell’intelligenza e a un’istruzione scolastica adeguata all’età (DSM 4; WHO, 1993). Inoltre, l’anomalia descritta interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico o con le attività quotidiane che richiedono capacità di lettura. In relazione alla prevalenza del Disturbo, in letteratura sono disponibili evidenze limitate. Ricerche condotte al di fuori dell’ambito italiano riportano dati estremamente variabili (da 5-10% a 17,5%) (Interagency Committee on Learning Disabilities, 1987; Shaywitz, Fletcher, Shaywitz, 1994). Anche i dati disponibili per l’Italia sono limitati e caratterizzati da variabilità. Le prime ricerche relative alla rilevazione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono state realizzate già negli anni ’50 e ’60 (Baldini e Brasca, 1958). Nel 1967, Faglioni et al. (1967) attraverso lo strumento denominato “valutazione psicometrica della dislessia” applicato ad un campione di 969 bambini milanesi, trovano un incidenza di dislessia dell’1,34%. Lo strumento prevedeva una prova collettiva di dettato, di riconoscimento di parola con significato e senza significato, ed una prova individuale di lettura ad alta voce. Ricerche successive condotte in provincia di Padova, che utilizzano la stessa metodologia su popolazioni più ampie, trovano percentuali di dislessia maggiori quali il 3,05% (Bisiacchi, Brotini, Fornari, 1978) e il 4,55% (Sava e Buffardini, 1981). Più di dieci anni dopo, Levi e Piredda (1982) rilevano su 5200 bambini frequentanti la quarta elementare una prevalenza di dislessia del 3,4% e un ritardo di lettura del 5,3%. Nel 1984 Cassini, Ciampalini, Lis (1984) utilizzano gli stessi strumenti di Faglioni et al. (1967) in diverse regioni italiane coinvolgendo 1725 bambini frequentanti la terza elementare. I ricercatori hanno rilevato percentuali di dislessia differenti tra nord (3,5%), centro (5,3%) e sud (6,5). Uno studio realizzato in Sardegna alla fine degli anni 90 ha evidenziato una prevalenza del 5% (Masala, Petretto, Stella, 1998), mentre una ricerca condotta tra il 1991 e il 1999 nell’Isola d’Elba riporta un dato di DSA oscillante tra 0,88 e 1,23% (Coscarella, 2001). Un recente lavoro di Moreno et al. (2005), che coinvolge vari istituti superiori della provincia di Pesaro, rileva una frequenza media del rischio di dislessia del 6,48%, con oscillazioni tra le varie tipologie di scuola. Infine, una ricerca che ha confrontato una popolazione italiana e una statunitense ha rilevato prevalenze di dislessia maggiori nella lingua inglese rispetto a quella italiana, con percentuali che vanno dal 4,5 al 12% negli Stati Uniti e dal 3,6 all’8,5% in Italia (Lindgren, De Renzi, Richman, 1985). Le differenze di prevalenza evidenziate sono in parte spiegate dalle diverse caratteristiche delle due lingue, in quanto nell’italiano, lingua cosiddetta trasparente, è presente una buona corrispondenza tra grafema e fonema, che è invece scarsa nell’inglese, lingua opaca (Landerl, Wimmer, Frith,1997; Demonet, Taylor, Chaix, 2004; Lindgren, De Renzi, Richman, 1985). Dai dati presentati appare chiaro che in Italia non sono attualmente disponibili dati recenti e affidabili relativi alla prevalenza della dislessia. Viste le diverse caratteristiche delle lingue, non ci si può altresì basare su dati raccolti in altri paesi per stimare il dato italiano. Gli studi realizzati in Italia evidenziano una certa variabilità delle stime ottenute che può essere spiegata dai diversi strumenti utilizzati per la diagnosi (parole, testi,


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valutazione QI, ecc.), dal disturbo ricercato (Dislessia vs DSA), dalla numerosità limitata e dal diverso range di età dei soggetti arruolati. Le ricerche realizzate in Italia risentono certamente della indeterminatezza dei criteri diagnostici presente fino a pochi anni fa. Solo a seguito della Consensus Conference di Montecatini (2007) si sono stabilite le prime linee guida in Italia relative alla diagnosi dei DSA; a queste hanno poi fatto seguito altri documenti quali il PARCC (2011) e le indicazioni di consensus fornite dall’Istituto Superiore della Sanità (2011) che hanno definito criteri condivisi per la formulazione della diagnosi. L’assenza di un dato certo di prevalenza può comportare ripercussioni negative sul piano culturale (un fenomeno non misurato tende ad essere sottovalutato/sopravvalutato o misconosciuto), sul piano clinico (risorse insufficienti per la diagnosi e per la riabilitazione), sul piano pedagogico (scarso ascolto nella richiesta di risorse pedagogiche adeguate per numero e qualità). Obiettivo del lavoro Considerando tali premesse, le maggiori associazioni e istituzioni che in Italia si occupano di bambini con DSA hanno costituito un Comitato Epidemiologico Nazionale sulla Dislessia (CENDi) che ha definito metodi e strumenti per la realizzazione di uno studio sulla prevalenza di Dislessia a livello nazionale in una popolazione scolastica non selezionata. In questo lavoro si presenta la metodologia adottata e i risultati di una ricerca pilota condotta nella regione Friuli Venezia Giulia. Soggetti e metodi Studio trasversale con campionamento a cluster realizzato in Friuli Venezia Giulia (FVG). Lo studio è stato approvato dal Comitato Indipendente di Bioetica dell’Istituto per l’Infanzia IRCCS Burlo Garofolo. Campione Criteri di inclusione: sono stati inclusi nello studio bambini frequentanti la 4a classe della scuola primaria (età compresa tra 8 e 10 anni). Tale scelta deriva da una serie di considerazioni: 1) in 4a classe si considerano già risolti eventuali ritardi di apprendimento; 2) la scelta di una fascia di età molto stretta riduce le variabili evolutive da considerare; 3) a quest’età non dovrebbe ancora essere iniziata la fase di compensazione di lettura che potrebbe rendere difficoltosa la rilevazione del disturbo. Criteri di esclusione: sono stati esclusi i bambini con: 1) ritardo mentale attestato da certificazione di handicap legge 104/92; 2) nazionalità non italiana; 3) mancata frequenza scolastica per un periodo tale da creare difficoltà di apprendimento (maggiore di 2 mesi per anno scolastico nel periodo tra la prima e la quarta classe della scuola primaria). Non sono invece stati esclusi i bambini bilingui di nazionalità ita-


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liana, quelli con malattia cronica, dal momento che tali situazioni non interferiscono con una possibile diagnosi di dislessia, e i soggetti con diagnosi di DSA già formulata. Per ottenere un campione rappresentativo di tutto il territorio regionale è stato realizzato un campionamento randomizzato a grappolo (cluster), dove il cluster era rappresentato dalle classi di 4a primaria della Regione. Il campionamento è stato realizzato a partire dalla lista delle scuole e delle classi 4e della scuola primaria, con relativo numero di bambini, che è stata fornita dall’Ufficio Scolastico Regionale del FVG. Complessivamente sono state selezionate attraverso randomizzazione 94 classi quarte della scuola primaria, per un totale di 1774 bambini. Identificazione dei bambini con dislessia/disortografia La ricerca è iniziata nel mese di settembre 2008, quando i bambini si trovavano a frequentare l’inizio della classe quarta della scuola primaria, dopo adeguata informazione sugli scopi della ricerca ai genitori e conseguente firma del modulo di consenso informato. Sono stati realizzati tre livelli di valutazione successivi, i primi due a scuola ad opera di psicologi specificatamente formati a somministrare i test utilizzati per lo studio, il terzo presso un centro di terzo livello in cui fosse presente un reparto di Neuropsichiatria Infantile (IRCCS Burlo Garofolo di Trieste) con psicologi e neuropsichiatri. Il primo livello aveva l’obiettivo di applicare alla popolazione selezionata i criteri di esclusione definiti e di identificare i bambini con difficoltà meritevole di successivo approfondimento. Per evitare discriminazioni, tutti i bambini delle classi campionate sono stati sottoposti alle prove di primo livello e solo successivamente sono stati applicati i criteri di esclusione. Per identificare i bambini con difficoltà sono stati utilizzati i seguenti strumenti: – un breve questionario anamnestico compilato dai genitori contenente alcune domande relative al bambino e alla sua famiglia (lingua parlata in casa, età, lavoro, titolo di studio dei genitori, problemi di salute del bambino, certificazione di handicap e preesistente diagnosi di DSA); – un questionario di rilevazione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, da compilarsi da parte dell’insegnante, contenente domande relative a difficoltà di lettura, scrittura, calcolo e ad alcune difficoltà o comportamenti spesso associati a DSA. Il questionario è stato costruito sulla base dello strumento “RSRDSA Questionario per la rilevazione di difficoltà e disturbi dell’apprendimento” messo a punto dall’Associazione Italiana Dislessia e dal Dipartimento di Scienze Pediatriche dell’Università di Messina, che è stato validato e pubblicato, senza modifiche, dopo l’avvio della presente ricerca (Cappa et al., 2012). Tale strumento, che riguardava l’identificazione di tutti i DSA, è stato ritenuto troppo ampio (52 domande) ai fini del lavoro di screening sulla sola dislessia, e sono state quindi estratte 34 domande specifiche sul disturbo e sulle difficoltà ad esso correlate. Ogni domanda prevedeva come risposta l’attribuzione di uno score da 0 a 3 punti (0=mai; 1=qualche volta; 2=spesso; 3=sempre). In accordo con il CENDi, per l’identificazione dei bambini da avviare al secondo livello si è deciso di considerare come positivi i bambini con: 1) score totale


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del questionario superiore o uguale all’85° percentile (cut-off identificato sul punteggio grezzo=36); 2) score totale del questionario superiore o uguale al 90° percentile per due sottogruppi di domande specificamente orientate alla diagnosi di dislessia. L’accuratezza diagnostica delle 34 domande selezionate e dei due sottogruppi è stata valutata su un campione precedentemente raccolto di 200 bambini (100 con diagnosi di dislessia e 100 controlli senza diagnosi). I cut-off identificati consentivano di classificare correttamente il 91% dei 200 bambini, con una sensibilità dell’82% e una specificità del 100%. L’accuratezza diagnostica del questionario insegnanti è risultata quindi complessivamente buona, vista anche la performance dimostrata in passato da strumenti di screening più complessi (Le Jan et al., 2007); – una prova di dettato di brano tra quelle previste per la classe 4a della scuola primaria dalla Batteria per la valutazione della scrittura e della competenza ortografica per la scuola dell’obbligo (Tressoldi e Cornoldi, 2009), somministrata in classe tramite l’uso di un computer collegato ad adeguato impianto di amplificazione. L’utilizzo della prova di dettato come strumento di screening per le difficoltà di lettura è supportato da studi che evidenziano una forte comorbidità presente tra difficoltà di lettura e ortografiche (Angelelli et al., 2010). Come definito a livello di coordinamento nazionale dello studio, sono stati considerati in difficoltà, e quindi avviati al secondo livello di valutazione, i bambini con un numero di errori al dettato superiore o uguale al 90° percentile che, nella popolazione reclutata in regione, corrispondeva a 16 errori. I bambini eleggibili sulla base dei criteri di inclusione/esclusione definiti e risultati positivi al questionario insegnanti o al dettato sono stati avviati al secondo livello di valutazione. La combinazione di questi due strumenti consentiva di identificare correttamente tutti i bambini con diagnosi già formalizzata di dislessia eccetto uno, che tuttavia aveva appena terminato l’ultimo di una serie di cicli di riabilitazione e dimostrava un deciso miglioramento nelle prestazioni. Tale situazione può spiegarne la mancata identificazione (vedi Figura 1). Considerato che il questionario insegnanti aveva ricevuto una validazione solo parziale e riferita a tutte le 52 domande e non alle 34 estratte, si è deciso, in via cautelativa, di porre agli insegnanti due ulteriori domande specifiche che identificassero i bambini con difficoltà di lettura: 1) quali sono i bambini che leggono più lentamente rispetto ai compagni? 2) quali sono i bambini che commettono più errori nella lettura rispetto ai compagni? La positività anche solo ad uno dei due quesiti avviava il bambino al secondo livello di screening indipendentemente dai risultati di questionario e dettato. Al campione così selezionato è stato aggiunto un gruppo di bambini scelti in maniera casuale tra quelli con prestazioni nella media, in modo da ottenere ulteriori informazioni sui test di screening utilizzati e da evitare un eventuale riconoscimento dei soggetti in difficoltà. Il secondo livello aveva l’obiettivo di selezionare i bambini con difficoltà di lettura ma con adeguate abilità cognitive di base. La valutazione si è nuovamente svolta nelle


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Figura 1. Bambini risultati positivi alla valutazione di primo livello sulla base dei criteri di selezione descritti nel testo. I 12 soggetti con diagnosi nota di dislessia sono indicati con un quadrato bianco.

scuole, a carico degli stessi ricercatori che avevano realizzato il primo livello. Sono state effettuate le seguenti prove individuali di approfondimento: – prove di lettura di parole e di non parole isolate della batteria DDE-2 (Sartori, Job, Tressoldi, 2007), utilizzate per valutare le competenze di lettura in termini di rapidità e correttezza. Le due prove fornivano in tutto 4 punteggi (due per la correttezza e due per la rapidità). Sono stati considerati positivi i soggetti che a) hanno ottenuto un punteggio z inferiore o uguale a -1,8 deviazioni standard dalla media (z-score <-1,8) nella rapidità o un punteggio inferiore o uguale al 5° percentile nella correttezza, in almeno uno dei quattro punteggi, o b) che hanno ottenuto una prestazione inferiore o uguale a -1,5 deviazioni standard dalla media (z-score <-1.5) nella rapidità o un punteggio inferiore o uguale al 10° percentile per correttezza in almeno due dei quattro punteggi; – sub-test Vocabolario e Disegno con Cubi della scala WISC-III (Wechsler, 2006; Orsini e Picone, 2006), per avere una stima delle capacità cognitive del bambino. Tali sub-test sono stati selezionati in quanto maggiormente correlati con il QI del bambino (Wechsler, 2006; Orsini e Picone, 2006). La stima veniva considerata adeguata per soggetti con punteggio ponderato superiore a 7 in almeno uno dei due sub-test.


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I criteri per il secondo livello e i relativi limiti sono stati definiti dal CENDi a partire da quanto stabilito nel corso della Consensus Conference (2007). Le prove e i cut-off selezionati hanno consentito di identificare correttamente tutti i bambini con diagnosi già formalizzata di dislessia eccetto uno, che tuttavia aveva appena terminato l’ultimo di una serie di cicli di riabilitazione e dimostrava un deciso miglioramento nelle prestazioni. Solo i bambini in difficoltà alle prove di lettura e con un punteggio adeguato ai sub-test della scala WISC-III hanno proseguito nella ricerca ed effettuato il terzo livello di valutazione. Il terzo livello di valutazione aveva l’obiettivo di porre ove necessario la diagnosi di dislessia. Si è svolto presso la Neuropsichiatria Infantile dell’IRCCS Burlo Garofolo, identificata come centro di terzo livello regionale. Tutti i bambini sono stati sottoposti alle seguenti valutazioni: a. Scheda anamnestica compilata dai genitori con informazioni relative allo sviluppo del bambino (linguaggio, deambulazione, autonomia, ecc), alla frequenza della scuola dell’infanzia e primaria (capacità di socializzazione e comunicazione, presenza di difficoltà di apprendimento, ecc), ad altri fattori di rilievo accaduti durante lo sviluppo (traumi, patologie o eventi rilevanti) e ai dati scolastici dei genitori e di eventuali fratelli (rendimento scolastico, difficoltà di apprendimento, ecc); b. Colloquio con la famiglia che aveva l’obiettivo di rivedere i dati della scheda anamnestica e approfondire la storia clinica e scolastica; c. Matrici progressive di Raven PM47 (Raven, 2006); d. Prova di lettura MT (velocità e correttezza) (Cornoldi e Colpo, 2004); e. Prove 2, 3, 6 e 7 della “DDE-2 Batteria per la valutazione della Dislessia e della Disortografia Evolutiva-2” (Sartori, Job, Tressoldi, 2007); f. Questionario SDQ per i genitori (Goodman et al., 2003). Per porre la diagnosi di dislessia si sono considerati: – I sei punteggi, tre per il parametro correttezza e tre per il parametro rapidità, derivanti dalle tre prove di lettura: prova MT e prova 2 e 3 della DDE-2; – Due domande presenti nella scheda anamnestica compilata dai genitori al terzo livello di valutazione che evidenziano il riconoscimento della difficoltà di apprendimento: A) presenza di difficoltà specifiche di lettura e/o ortografia fin dall’inizio dell’apprendimento; B) assenza di autonomia nei compiti; – Risposta positiva a otto domande specifiche per decodifica presenti nel questionario insegnanti compilato al primo livello di valutazione (Cappa et al., 2012). Sono state considerate le domande che indagavano difficoltà relative ai parametri correttezza (fa più errori dei compagni, sostituisce, omette, aggiunge o inverte le lettere, inventa le parole, è rapido ma scorretto, ecc...) e rapidità (è più lento dei compagni, ecc.). Combinando i risultati di queste prove, il CENDi ha definito 3 possibili criteri per orientare la diagnosi di dislessia (per ciascun criterio dovevano essere presenti tutte le condizioni):


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Primo criterio: prestazioni deficitarie alle prove di lettura in almeno tre punteggi su sei. La prestazione deficitaria era definita da un punto z inferiore/uguale a -1,8 (rapidità) o un percentile inferiore/uguale al 5° (correttezza) per la prova DDE2 e un punto z inferiore/uguale a -2 (rapidità) o un percentile inferiore/uguale al 5° (correttezza) per la prova MT. Secondo criterio: a) prestazioni deficitarie alle prove di lettura in almeno due punteggi su sei in due prove differenti (la caduta non doveva riguardare due parametri di un’unica prova). La prestazione deficitaria era in questo caso definita da un punto z inferiore/uguale a -1,8 (rapidità) o un percentile inferiore/uguale al 5° (correttezza) per la prova DDE2 e un punto z inferiore/uguale a -2 (rapidità) o un percentile inferiore/uguale al 5° (correttezza) per la prova MT; b) riconoscimento del disturbo da parte del genitore con una risposta positiva ad almeno una delle due domande A e B presenti nell’anamnesi. Terzo criterio: a) prestazione deficitaria alle prove di lettura in almeno tre punteggi su sei. La prestazione deficitaria era in questo caso definita da un punto z compreso tra -1,8 e -1,5 (rapidità: -1,8< z-score≤-1,5) e tra il 5° e il 10° (correttezza: 5°< percentile≤10°) per la prova DDE2 e con un punto z compreso tra -2 e -1,5 (rapidità: -2< z-score≤-1,5) e tra il 5° e il 10° (correttezza: 5°< percentile≤10°) per la prova MT; b) riconoscimento del disturbo da parte del genitore con una risposta positiva ad entrambe le domande A e B presenti nell’anamnesi; c) riconoscimento del disturbo da parte dell’insegnante con risposta positiva ad almeno metà delle domande selezionate dal questionario insegnanti. È stato inoltre identificato un quarto criterio aggiuntivo che identificava unicamente i bambini con difficoltà fonologica: a) prestazione deficitaria in almeno un punteggio alla prova di lettura delle non parole con un punto z inferiore/uguale a -1,8 (rapidità) o un percentile inferiore/uguale al 5° (correttezza); b) riconoscimento del disturbo da parte del genitore con una risposta affermativa ad entrambe le domande A e B presenti nell’anamnesi; c) riconoscimento del disturbo da parte dell’insegnante con risposta positiva ad almeno metà delle domande selezionate dal questionario insegnanti. Dato che il quarto criterio sembrava agli esperti del CENDi più debole rispetto ai precedenti, si è deciso di segnalare a parte i bambini da questo identificati. Inoltre, si è deciso di segnalare a parte eventuali casi di discordanza tra il risultato ottenuto applicando i criteri e il giudizio del clinico (es: bambini che cadevano nei criteri ma in cui il clinico non avrebbe posto diagnosi di dislessia e, viceversa, bambini che non cadevano nei criteri ma in cui il clinico avrebbe posto diagnosi di dislessia). La storia clinica e le valutazioni ai test di questi bambini sono state sottoposte al CENDi per confermare o meno la diagnosi. I bambini identificati dai criteri sono stati sottoposti a ulteriori prove di approfondimento: a) Completamento della scala WISC-III (Wechsler, 2008); b) Prove di matematica (fatti numerici, enumerazione all’indietro, dettato di numeri) tratte dal test ABCA (Lucangeli, Tressoldi, Fiore, 2006); c) Test TMA (Bracken, 2003); d) Questionario “A chi assomiglio” (Tressoldi e Vio, 1996); e) Visita neurologica. Sulla base dei risultati di queste ulteriori valutazioni, dei questionari compilati e


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del colloquio con la famiglia sono stati esclusi dalla rilevazione epidemiologica, in quanto da considerare come non dislessici, i bambini che presentavano i seguenti criteri: a) Ritardo cognitivo (identificabili con punteggi monocomponenziali QIV e QIP della scala WISC-III <85 o, in assenza di questa, punteggio <85 alle Matrici di Raven; b) Patologie o anomalie sensoriali e neurologiche; c) Gravi psicopatologie; d) Situazioni ambientali, sociali o culturali svantaggiose; e) Didattica scadente. I bambini esclusi dallo studio per problemi neuropsichiatrici sono stati affidati ai servizi per ulteriori approfondimenti e per la loro eventuale presa in carico. La procedura relativa al terzo livello di valutazione è sintetizzata nella Figura 2. Campionamento e numerosità campionaria Il campionamento è stato realizzato sulla base degli iscritti alla classe 3a delle scuole statali primarie nella Regione FVG nell’anno scolastico 2007-2008 (9687 bambini), considerando che tale numero non avrebbe subito variazioni di rilievo per gli iscritti alla classe 4a dell’anno successivo. Ipotizzando una prevalenza di dislessia in tale popolazione del 4%, con un possibile errore dell’1% in più o in meno rispetto al valore ipotizzato, è risultato necessario reclutare almeno 1500 bambini per ottenere un campione significativo della popolazione con un livello di confidenza del 95%. Il valore stimato tiene conto anche di una possibile perdita del 10%. Analisi statistica I dati sono presentati come medie e deviazioni standard se continui, come frequenze assolute e percentuali se categorici. La prevalenza di dislessia è definita dal numero di bambini risultati positivi al termine del terzo livello di valutazione (numeratore) rispetto al numero totale di bambini analizzati (denominatore). Nel computo della prevalenza si è deciso di considerare in maniera separata i casi con diagnosi certa (definita dai primi 3 criteri diagnostici) e i casi con diagnosi incerta (definita dal quarto criterio e dalla discordanza tra criteri definiti e giudizio del clinico). Inoltre, in un sottogruppo di bambini che non si sono sottoposti agli accertamenti del terzo livello, la diagnosi di dislessia è stata stimata con l’utilizzo di un modello logistico multivariato. Il modello di previsione è stato creato utilizzando come variabile dipendente la diagnosi di dislessia e come variabili indipendenti i dati disponibili al secondo livello (velocità ed errori prova parole e velocità ed errori prova non parole) per i bambini che hanno completato l’iter per la diagnosi. Per la creazione del modello è stata adottata una procedura stepdown che tratteneva le variabili con p<0,05. Successivamente con l’analisi ROC (Receiver-Operating-Characteristic) si è scelto il cut-off di probabilità con la più alta percentuale di classificati correttamente. Sulla base del modello ottenuto i bambini che non hanno concluso l’iter di diagnosi sono stati classificati come probabili dislessici o non dislessici e i primi sono stati considerati nel computo del dato di prevalenza.


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Figura 2. Tappe per la diagnosi di dislessia al terzo livello.


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Discussione dei dati Sono state selezionate attraverso la randomizzazione a cluster 94 classi della scuola primaria. Complessivamente sono stati contattati 1774 bambini, per 1528 dei quali i genitori hanno fornito il consenso alla partecipazione (vedi Figura 3).

Figura 3. Flow chart dello studio.


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Primo livello: 1496/1528 bambini (32 assenti da scuola alle prove) sono stati sottoposti al primo livello di valutazione completo di cui, dopo avere applicato i criteri di esclusione previsti dal protocollo di studio, 1365 analizzati. Le caratteristiche di questi bambini sono riportate in Tabella 1. Tabella 1. Principali caratteristiche della popolazione reclutata. Variabile

Bambini analizzati (n=1365)

Femmine Maschi

48,6% 51,4%

Lingua parlata in casa: – Italiano – Dialetto – Altro

92,0% 7,7% 0,3%

Bambini bilingui

3,4%

Età della madre, media (ds)

40,1 (4,71)

Età del padre, media (ds)

43,2 (5,44)

Titolo di studio della madre: – nessuno/elementare – media – superiore – laurea

1,4% 30,4% 53,6% 14,6%

Titolo di studio del padre: – elementare – media – superiore – laurea

1,6% 38,0% 47,2% 13,2%

Madri con occupazione

77,4%

Padri con occupazione

98,2%

Bambini con diagnosi di dislessia già formulata

1,0%

Bambini con diagnosi di DSA (dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia) già formulata

2,0%

In particolare, si segnala che 13 bambini di 1365 (1%) presentavano una diagnosi di dislessia precedentemente formulata. 283 bambini sono risultati positivi ad almeno uno dei due test realizzati al primo livello di valutazione (dettato o questionario insegnanti) e sono stati quindi selezionati per il secondo livello. Secondo livello: complessivamente sono stati testati con valutazione individuale 396 bambini (283 identificati come positivi al primo livello, 62 segnalati dall’insegnante grazie alle due ulteriori domande specifiche e 51 scelti casualmente tra quelli con prestazioni nella media). 121 sono risultati positivi ai test realizzati e quindi avviati al terzo livello.


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Terzo livello: è stato possibile realizzare l’approfondimento diagnostico per 93 di 121 bambini identificati. 28 famiglie hanno infatti rifiutato di proseguire gli accertamenti; 5 bambini sono stati esclusi (4 per livello intellettivo basso; 1 caso sociale). Nei restanti 88 bambini, 51 sono risultati non dislessici, 35 hanno ricevuto la diagnosi di dislessia sulla base dei tre criteri principali, 1 veniva identificato dal quarto criterio e 1 cadeva nei criteri, ma il clinico coinvolto nell’accertamento non ha ritenuto di confermare la diagnosi. Il modello sviluppato per stimare la diagnosi di dislessia nei 28 bambini che non hanno ricevuto l’approfondimento di 3° livello ha ritenuto come predittori significativi gli z-score delle sillabe al secondo della prova parole (OR aggiustato 0,13, IC 95% 0,02-0,87) e della prova non parole (OR aggiustato 0,07, IC 95% 0,01 – 0,61), e il numero di errori alla prova non parole (OR aggiustato 1,29-IC 95% 1,11 -1,51). Con le probabilità predette dal modello si è proceduto ad un analisi ROC (ReceiverOperating-Characteristic) che ha riportato un’area sotto la curva di 0,93. Sulla base di questa analisi si è scelto come cut-off di probabilità quello con il maggior numero di osservazioni correttamente classificate (86,2%, sensibilità 70,3%, specificità 98,0%); sono stati così identificati come probabili dislessici 7 bambini su 28. La prevalenza di dislessia in Friuli Venezia Giulia nella popolazione analizzata è risultata quindi essere pari a 3,1% (42/1365) con IC 95% compreso tra 2,2 e 4,1, se si considerano i bambini con diagnosi certa e quelli con diagnosi stimata all’analisi multivariata, e arriva fino a 3,2% (44/1365) con IC 95% compreso tra 2,4-4,3, se si considerano anche i bambini con incertezza diagnostica. Conclusioni Lo studio ha consentito di stimare con precisione la reale prevalenza di dislessia in una popolazione scolastica non selezionata (da 3,1 a 3,2%). Il dato sembra in linea con l’atteso e con le ipotesi formulate prima dell’avvio dello studio. Va peraltro rilevato che, tra i 1365 bambini complessivamente sottoposti a screening, l’1% possedeva una diagnosi di dislessia precedentemente formulata e il 2% una diagnosi di DSA (che includeva dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia). Questo dato è in linea con quanto pubblicato dal MIUR Veneto nell’anno scolastico 2010/2011: la percentuale di alunni con diagnosi di DSA consegnata dai genitori alle scuole, rispetto alla popolazione scolastica complessiva, era dell’1,2% (Gruppo di Lavoro Regionale sui DSA, 2011). Considerata la discrepanza tra la prevalenza di dislessia rilevata al termine dello studio (3,1-3,2%) e la percentuale di bambini in possesso della diagnosi all’inizio della ricerca (1%), emerge che nella popolazione studiata in Friuli Venezia Giulia 2 dislessici su 3 non vedono riconosciuto il loro disturbo durante gli anni della scuola primaria, in un’età in cui questo dovrebbe essere chiaramente identificabile (8-10 anni). La discrepanza evidenziata genera una serie di interrogativi sulle cause, individuabili nelle varie fasi che il bambino attraversa prima di arrivare alla diagnosi e che


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coinvolgono più figure (genitore, insegnante, pediatra, personale sanitario addetto alla diagnosi), che meriterebbero un adeguato approfondimento. Grazie a discussioni collegiali avvenute nell’ambito del CENDi, lo studio ha consentito di sviluppare un algoritmo diagnostico per la dislessia (Figura 2), in grado di combinare le diverse prove disponibili e i cut-off forniti dalla Consensus Conference (2007). In questo modo si è contribuito alla definizione precisa dei criteri diagnostici di dislessia. Lo studio presenta alcuni limiti: vista la numerosità del campione, al primo livello di screening non è stato possibile somministrare ai bambini prove individuali di lettura. Si è quindi ricorso a un questionario per gli insegnanti e a un dettato. Il questionario (Cappa et al., 2012) al momento dell’utilizzo era in corso di validazione e se ne è inoltre utilizzata una versione ridotta, estrapolando le domande relative alla dislessia e alle difficoltà ad essa correlate; l’utilizzo della prova di dettato come strumento di screening per le difficoltà di lettura è supportato da studi che evidenziano una forte comorbidità presente tra difficoltà di lettura e ortografiche (Angelelli et al., 2010). Il fatto di non disporre di strumenti specificatamente validati per uno screening relativo alle difficoltà di lettura può aver comportato il rischio di perdere alcuni bambini con dislessia risultati falsamente negativi ai due strumenti; ciononostante, riteniamo di aver limitato al minimo tale rischio se si considera che: 1) abbiamo combinato i risultati dei due strumenti, identificando i bambini risultati positivi ad almeno uno dei due; 2) per il questionario insegnanti abbiamo scelto un cut-off basso (85° percentile) in modo da includere un numero maggiore di bambini; 3) nonostante i limiti segnalati, grazie ai due strumenti venivano identificati correttamente tutti i bambini con diagnosi già formulata di dislessia eccetto uno, che tuttavia aveva appena terminato l’ultimo di una serie di cicli di riabilitazione e dimostrava un deciso miglioramento nelle prestazioni, cosa che può spiegarne la mancata identificazione; 4) abbiamo dato una seconda possibilità agli insegnanti di segnalare bambini con difficoltà di lettura sulla base di due semplici domande; questo ha permesso di identificare bambini non segnalati dagli strumenti di screening utilizzati per il primo livello e di ampliare ulteriormente il campione da avviare al secondo livello. Lo studio presenta anche punti di forza: la realizzazione di un campionamento randomizzato, a cluster, su tutta la regione e il coinvolgimento di un ampio numero di bambini (circa il 15% della popolazione frequentante la classe 4a della scuola primaria in Regione); l’applicazione rigorosa degli strumenti di screening da parte di personale formato in maniera specifica; lo svolgimento del terzo livello di valutazione (conferma diagnostica) in un’unica sede, con conseguente riduzione della variabilità legata all’operatore, e con il coinvolgimento del neuropsichiatra infantile oltre che dello psicologo; la formulazione della diagnosi di dislessia sulla base di un algoritmo diagnostico univoco e chiaramente definito. In conclusione, questo studio pilota effettuato all’interno di una ricerca nazionale, ha consentito di stimare con precisione la reale prevalenza di dislessia in una popolazione scolastica non selezionata del Friuli Venezia Giulia e di evidenziare che 2 bambini dislessici su 3 non vedono riconosciuto il loro disturbo durante gli anni della scuola primaria. Lo studio ha inoltre dimostrato l’applicabilità sul campo di materiali


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e metodi definiti dal Coordinamento Epidemiologico Nazionale; al momento la rilevazione della prevalenza di dislessia nell’ambito dello studio nazionale è in corso in numerose aree e regioni Italiane (Veneto, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Sardegna, Marche, Umbria). Riassunto In Italia non sono attualmente disponibili dati recenti e affidabili relativi alla prevalenza della dislessia. Gli studi realizzati evidenziano variabilità delle stime ottenute legata ai diversi strumenti utilizzati per la diagnosi, al disturbo ricercato, alla numerosità limitata e al diverso range di età dei soggetti arruolati. Il progetto studio, che fa parte di una rilevazione nazionale più ampia, si è posto l’obiettivo di valutare la reale prevalenza della dislessia nella Regione Friuli Venezia Giulia in un campione rappresentativo non selezionato. Sono state estratte a sorte tra tutte le scuole della regione (campionamento randomizzato a cluster) 94 classi di 4a elementare, con il coinvolgimento iniziale di 1774 bambini, di cui 1528 hanno aderito e 1357 sono stati analizzati una volta applicati i criteri di esclusione previsti dal protocollo. Sono stati realizzati 3 successivi livelli di screening, due condotti a scuola e uno presso un Centro di 3° livello con reparto di Neuropsichiatria infantile. Il dato finale di prevalenza della dislessia in Friuli Venezia Giulia è risultato essere compreso tra 3,1% (IC 95% da 2,2 a 4,1%) e 3,2% (IC 95% da 2,4 a 4,3) a seconda dei diversi criteri adottati. Parole chiave Prevalenza – Dislessia – Epidemiologia – Disturbi specifici dell’apprendimento.

Appendice Gruppo di lavoro CENDi (Comitato Epidemiologico Nazionale sulla Dislessia): Chiara Barbiero e Luca Ronfani (IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo); Marinella Caruso, Associazione Nazionale Unitaria Psicomotricisti e Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva Italiani (ANUPI); Serenella Corbo, Associazione Culturale Pediatri (ACP); Anna Giulia De Cagno, Federazione Logopedisti Italiani (FLI); Isabella Lonciari, Associazione Italiana Dislessia (AID); Massimiliano Parmini, FEDEROTTICA-Associazione Federativa Nazionale Ottici Optometristi (AFNOO); Roberta Penge, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’ Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA); Alessandra Pinton, Società Scientifica Logopedisti Italiani (SSLI); Giovanna Rossini, Associazione Italiana Terapisti della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (AITNE); Claudio Vio, Associazione Italiana Ricerca Psicopatologia dell’Apprendimento (AIRIPA). Coordinamento scientifico dello Studio in Friuli Venezia Giulia: Chiara Barbiero, Marco Carrozzi, Luca Ronfani, Giorgio Tamburlini, IRCCS materno-infantile Burlo Garofolo, Trieste; Isabella Lonciari, IRCCS maternoinfantile Burlo Garofolo e AID, Associazione Italiana Dislessia; Loris Zanier,


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Servizio Epidemiologico, Direzione Centrale Salute Integrazione Sociosanitaria e Politiche Sociali, Friuli Venezia Giulia; Edda Colcergnan e Enzo Burchiellaro, Ufficio Scolastico Regionale del Friuli Venezia Giulia. Finanziamenti Il Progetto ha ricevuto un finanziamento dall’Agenzia Regionale della Sanità del FVG (rif. delibera n. 42 del 08 aprile 2008) e dall’IRCCS Burlo Garofolo nell’ambito dei fondi destinati ai progetti di Ricerca Corrente (RC 63/07 Epidemiologia dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) in una popolazione scolastica non selezionata). Bibliografia American Psychiatric Association (1994), Diagnostic and statistical manual of mental disorders, 4th edn., Washington, DC, American Psychiatric Association. Angelelli P., Notarnicola A., Judica A., Zoccolotti P., Luzzatti C. (2010), Spelling impairments in Italian dyslexic children: phenomenological changes in primary school, Cortex, 46: 1299-1311. Baldini G., Brasca E. (1958), L’apprendimento della lettura e della scrittura: aspetti psicopatologici e considerazioni psicopedagogiche, Infanzia Anormale, 26: 167191. Bisiacchi P., Brotini D., Fornari D. (1978), Indagine sull’incidenza della dislessia in un campione di bambini padovani, Formazione e cambiamento, 1: 3-16. Bracken B.A. (2003), TMA Test di valutazione multidimensionale dell’autostima, Trento, Erickson. Cappa C., Albanesi E., Muzio C., Guglielmino P., Ferraris V., Barbiero C., Ronfani L., Fidi D., Grosso R. Molinas L. e Gagliano A. (2012), Uno strumento per la rilevazione di indicatori di rischio di DSA: il questionario RSRDSA, Dislessia, 1. Cassini A., Ciampalini L., Lis A. (1984), La dislessia in italia. Strumenti di rilevazione ed incidenza in alcune regioni, Età Evolutiva, 18: 66-73. Consensus Conference (2007), Disturbi evolutivi specifici di apprendimento, Milano (documento disponibile all’indirizzo: http://www.lineeguidadsa.it/download_documenti DSA/raccomandazioni_pratica_clinica_DSA 2007.zip; ultima data di accesso 31 gennaio 2012). Cornoldi C., Colpo G. (2004), Prove di lettura MT per la scuola elementare – 2, Firenze, Giunti O.S. Coscarella C. (2001), Epidemiologia dei Deficit Specifici di Apprendimento nel territorio dell’Isola d’Elba, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 68: 7-15. Demonet J.F., Taylor M.J., Chaix Y. (2004), Developmental dyslexia, Lancet, 363: 1451-60. Faglioni P., Gatti B., Paganoni A.M., Robutti A. (1967), La valutazione psicometrica della Dislessia, Infanzia Anormale, 81: 628-661.


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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 431-446

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Il racconto di vita dei Minori Stranieri Non Accompagnati: un’analisi di interviste narrative di un campione dell’Emilia-Romagna The life accounts of Unaccompanied Foreign Minors: analysis of narrative interviews from an Emilia-Romagna sample Paola Bastianoni*, Tommaso Fratini*,* Federico Zullo***, Alessandro Taurino****

Summary The Authors used an approach of Narrative Analysis to analyze the interviews of 20 Unaccompanied Foreign Minors (UFMs), late adolescents, resident in Italy at shelters and residential care centres for minors. The research explores the dimension of the life experience along the subjects account from the past in their homeland, through the experience of the journey, until the present in Italy. The analysis of interviews outlines an articulate profile, in which emerge, along with the factors of risk and vulnerability, resilience and resources guided by the motivation to get focused on the objective of reaching the host country. The greatest difficulties seems dued, in the present, to integration issues into the reality of the new country, evolving over a mode of mental functioning mainly related to a concrete thinking. Key words Unaccompanied Foreign Minors – Life stories – Narrative analysis – Risk factors –Resilience – Concrete thinking.

Introduzione I Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) costituiscono una popolazione gravemente disagiata che approda con sempre maggiore frequenza nel territorio dei paesi occidentali, imponendo l’attenzione degli operatori, della società e delle istituzioni sui possibili percorsi di protezione e sostegno che vanno attivati, consolidati e garantiti. La letteratura sui MSNA nel campo delle scienze umane e sociali è allo stato attuale ancora molto limitata, sfaccettata e poco approfondita, a differenza di quella più generale, con cui essa tende a confondersi, sui minori immigrati o su quelli rifugiati * Professore

associato di Psicologia dinamica e clinica, Dipartimento di Scienze Umane, Università di Ferrara. ** Assegnista di ricerca, Cespro, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Firenze. *** Laureato in Scienze dell’Educazione e Presidente dell’Associazione Agevolando, per il sostegno, tra gli altri, ai giovani delle comunità per minori neomaggiorenni. **** Ricercatore di Psicologia clinica, Dipartimento di Psicologia, Università di Bari.


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e richiedenti asilo nei paesi occidentali (Huemer et al., 2009; Stevens, Vollebergh, 2008; Lustig et al., 2004; Athey, Ahearn, 1991). Sebbene molto sia ancora da chiarire circa il profilo e la condizione psicologica dei MSNA, c’è un sostanziale accordo nella letteratura internazionale nel ritenere questa popolazione ad alto rischio psicopatologico e psicosociale (Derluyn, Broekaert, 2008; Goodman, 2004; Sourander, 1998; Ressler, Boothbay, Steinbock, 1988). Costituiscono importanti fattori di rischio per tali minori i potenziali effetti di conflitti bellici, persecuzioni, violenze subite, povertà e ristrettezze nelle condizioni di vita, oltre alla presenza di possibili modalità di relazione familiare problematiche, deficitarie o carenti nell’esercizio di talune funzioni di cure (Bean et al., 2007; Derluyn, Broekaert, 2005; Thomas et al., 2004). Inoltre, devono essere annoverati tra le condizioni di rischio i potenziali effetti traumatici dell’abbandono della propria terra di origine e della separazione dalla propria famiglia, dell’esperienza del viaggio verso il paese ospitante, spesso densa di insidie e pericoli, e le difficoltà d’inserimento nel nuovo contesto di vita in terra straniera (Derluyn, Broekaert, 2008; Lustig et al., 2004; McKelvey, Webb, 1995; Masser, 1992). Se la letteratura psichiatrica e psicologico-clinico mette in luce una certa presenza in questi soggetti di un’ampia sintomatologia, all’interno della quale un ruolo chiave è giocato dal disturbo post-traumatico da stress (PTSD) (Huemer et al., 2009), oltre ai disturbi d’ansia, dell’umore e da somatizzazione (Fazel, Wheeler, Danesh, 2005; Heptinstall, Sethna ,Taylor, 2004; Silove et al., 1997; Rousseau, 1995), sono molti gli aspetti che tuttavia necessitano ancora di essere chiariti circa la condizione dei MSNA. Sono pochi allo stato attuale gli studi rivolti a valutare indici della loro condizione psicologica globale, della loro modalità di porsi nell’adattamento alla realtà, e del loro grado di benessere percepito (vedi tra questi McCarthy, Marks, 2010; Abunimah, Blower, 2010; Derluyn, Broekaert, Shuyten, 2008; Wiese, Burhorst, 2007; Miller, Rasco, 2004; Ahearn, 2000). Non solo, ma sappiamo ancora poco circa le loro storie personali passate, la loro identità psicologica e le loro rappresentazioni di sé, il loro vissuto e le loro emozioni in gioco nella condizione di profughi e di migranti in terra straniera in condizioni difficili e particolari (si veda Luster et al., 2010; Ni Raghallaigh, Gilligan, 2010; Anagnostopoulos, Vlassopoulos, Lazaratou, 2006; Goodman, 2004; Rousseau et al., 1998). Nella prospettiva di indirizzare/sostenere un intervento residenziale che possa essere considerato riparatorio (Bastianoni, 2000; Bastianoni, Taurino, 2009) rispetto ai molteplici traumi vissuti dai MSNA, è necessario oggi avviare un percorso di conoscenza, di comprensione e di interpretazione, a partire dalle loro storie evolutive, che possa poi consentire di predisporre setting adeguati all’ascolto, alla comprensione e al sostegno psicologico di questa popolazione di minori. Scopo della ricerca In considerazione di queste premesse abbiamo svolto una ricerca qualitativa sui MSNA, basata sulla raccolta e sull’analisi di resoconti narrativi in risposta ad inter-


IL RACCONTO DI VITA DEI MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI

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viste semistrutturate. Abbiamo coinvolto uno specifico gruppo di MSNA accolti in Italia presso comunità residenziali di tipo educativo e centri di accoglienza del territorio dell’Emilia-Romagna. Lo scopo della ricerca è quello di dare risposta a diversi interrogativi importanti: qual è la storia presumibilmente triste che questi minori recano con loro? Di quali istanze e di quali bisogni sono portatori? Quale esperienza di viaggio rischiosa e difficile hanno vissuto e accettato di affrontare per raggiungere il paese ospitante? Quali fattori di rischio e di vulnerabilità, ma anche quali risorse essi denotano e sembrano avere messo in campo? Come vivono il loro presente e come è abbozzata la loro percezione del futuro? E infine, quale modalità di pensiero e di funzionamento mentale prevalente è possibile inferire dal loro racconto su di sé? Le risposte a questi interrogativi sono funzionali a un obiettivo di fondo: accrescere gradualmente la nostra conoscenza dei MSNA, nella prospettiva di interventi riparativi, di cura e di presa in carico più efficaci e maggiormente rispondenti alla natura dei loro bisogni e delle loro caratteristiche psicologiche e sociali. Soggetti I soggetti della ricerca sono 20 MSNA, di età compresa tra i 16 e 18 anni, tutti di sesso maschile, residenti in centri di accoglienza e comunità per minori del territorio dell’Emilia-Romagna. Gli adolescenti intervistati vivono in Italia da un arco di tempo che va da un minimo di 8 mesi a un massimo di quasi 5 anni, in media da 22,5 mesi (d.s: 11,6). I soggetti coinvolti provengono: 1 dall’Egitto, 1 dal Pakistan, 1 dalla Somalia, 3 dal Marocco, 4 dall’Albania, 5 dall’Afghanistan, 5 dal Bangladesh. Metodo Il metodo è basato sulla raccolta e l’analisi di resoconti narrativi in risposta ad interviste semistrutturate. Tali interviste, della durata di circa un’ora, effettuate tutte dal medesimo intervistatore, uno di noi, sono state audioregistrate e trascritte al computer. La lingua dell’intervista era l’italiano, che tutti i soggetti partecipanti hanno dimostrato di padroneggiare bene. Ogni intervista, pensata per dare la possibilità a ciascun soggetto partecipante di raccontare di sé e di esprimersi liberamente, seguiva una traccia opportunamente predisposta imperniata sui seguenti punti: – l’esperienza del passato prima di partire, nella propria famiglia e nel proprio paese di origine; – l’esperienza del viaggio, dalla partenza dal paese di origine fino all’approdo in Italia; – l’esperienza del presente dentro il centro di accoglienza o la comunità residenziale. Questa traccia ha costituito uno schema per suddividere in linea generale le interviste in 3 parti, corrispettive dei punti sopramenzionati.


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La modalità di analisi dei dati ha seguito una procedura di Narrative Analysis (vedi tra gli altri Riessman 1993; Hiles, Ĉermák, 2007), opportunamente integrata con un’analisi del contenuto delle parole di significato emozionale, interpretate alla luce di un modello psicologico misto, basato su premesse riconducibili sia alla teoria dell’attaccamento e alla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali (Bowlby, 1969, 1973, 1980; Fonagy, Target, 1997; Klein, 1932; Bion, 1962; Kernberg, 1976, 1992), sia alla prospettiva sociocostruzionista (ad es. Bruner, 1986) e a quella della psicopatologia evolutiva, particolarmente in riferimento al concetto di Ego Resilience (Rutter, 1990; Cicchetti, 1990). Discussione dei dati L’esperienza del passato prima di partire La prima delle parti salienti dell’intervista verte sul racconto del passato prima del viaggio. Quasi tutti gli intervistati riferiscono di avere interrotto gli studi precocemente. Quasi nessuno ha potuto o ha preferito continuare a studiare oltre il tredicesimo anno di età. La ragione dell’interruzione degli studi sembra legata sia alla necessità di sostenersi economicamente e di aiutare la famiglia, sia alla difficoltà di mantenere interesse e concentrazione per lo studio in condizioni di malessere e precarietà. Tutti i soggetti descrivono in misura variabile la presenza di ristrettezze sociali ed economiche per loro e per il loro nucleo familiare nella loro esperienza di vita nella terra di origine. All’interno delle loro famiglie i minori intervistati lasciano intravedere un clima di relazioni affettive più o meno disagiato, perturbato o con uno sfondo depressivo. Nella maggioranza dei casi tuttavia essi hanno vissuto all’interno della loro famiglia nucleare, la quale sembra essersi fatta carico del loro accudimento e del loro sostentamento economico pur in condizioni di grave disagio e povertà. Altri soggetti intervistati provengono da famiglie disgregate, per la morte o l’abbandono da parte dei genitori. Non hanno uno o entrambi i genitori, o hanno genitori separati. Hanno cercato di far leva sul supporto del genitore affidatario, o di quello rimasto in vita, o di figure sostitutive come zii o fratelli. Hassan (Afghanistan)1: I miei genitori sono morti quando avevo dieci anni, sono morti a causa della guerra. Con i miei fratelli più grandi di me ci siamo trasferiti in Iran. Abbiamo pagato dei trafficanti che ci hanno portati là. È stato un viaggio difficile. In Iran lavoravo in fabbrica, cucivo borse e scarpe, dalle otto di mattina a mezzanotte. Tutti della famiglia dovevamo lavorare, altrimenti non potevamo vivere. Era un lavoro pesante. Non era facile vivere così. Questo ragazzo è fuggito prima in Iran con i fratelli. Poi, impossibilitato a ottenere un 1I

nomi dei soggetti intervistati sono stati sostituiti con altri fittizi, comuni nella lingua e nella cultura del paese di provenienza. Il testo dei frammenti riportati è stato leggermente modificato per correggere alcune imperfezioni e renderlo pienamente comprensibile.


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diritto di soggiorno in quel paese, è scappato di nuovo alla ricerca di un paese dove ricevere asilo e accoglienza. Diverso è il caso di un altro ragazzo afgano, rifugiato politico, che ha ottenuto direttamente asilo in Italia dopo che il padre è stato ucciso in un attentato politico. La storia di un altro ragazzo afgano in particolare, Fuad, è toccante e desta grande interesse nella sua unicità all’interno del gruppo delle interviste. Egli ha perso i genitori nei primi anni di vita, dei quali ha rimosso completamente la memoria. Ha vissuto poi clandestinamente in Iran per tutta la fanciullezza e la prima adolescenza, cresciuto da trafficanti che lo sfruttavano e lo facevano lavorare in cambio di vitto e alloggio in condizioni di grave deprivazione. Egli comunica un vissuto di profonda solitudine, di chi, abbandonato, non hai mai avuto nessuno su cui potere contare e ha dovuto sempre arrangiarsi da solo. Egli riferisce altresì, drammaticamente, del vissuto traumatico della paura cronica, che sempre lo accompagnava, nel timore di essere abbandonato da coloro che lo tiranneggiavano, scoperto ed espulso dal paese in cui viveva. Dichiara a tal proposito di non avere avuto cognizione nel suo passato di che cosa sia la libertà, di che cosa possa significare vivere in un clima di pace sociale che garantisca stabilità, protezione e sicurezza. Ciò è alla base di un quadro di vissuto post-traumatico in cui vi sono sentimenti di persecuzione, accompagnati da sensi di colpa, depressione e sfiducia verso la propria vita e anche il proprio futuro nel paese in cui ora si trova. Fuad (Afghanistan): Io come persona non sono bravo, ho sempre vissuto nella paura, non sono bravo. Tutta la mia vita ti posso dire che sono stato male, malissimo… Ero stato educato come persone di 25, 50 o 100 anni fa. Anch’io ora capisco cosa significa vivere in pace, che cosa è il bene. Quando vivevo in Iran non capivo che cosa è la libertà. Stavo sempre rinchiuso, non potevo uscire, e quando uscivo scappavo, altrimenti mi prendeva la polizia. Potevano rimandarmi in Afghanistan. Bisogno di partire Un passaggio cruciale al termine della prima parte dell’intervista esplorava la decisione di partire, la motivazione alla base della scelta di andare via e di lasciare il proprio paese per raggiungere un paese nuovo e non conosciuto. Quasi tutti i soggetti della ricerca in modo intenzionale e consapevole hanno deciso e pianificato il progetto del viaggio e la scelta del paese da raggiungere. La decisione è maturata in quasi tutti i casi in autonomia, o sulla base del rapporto d’influenza con i fratelli o con il gruppo dei pari, e solo secondariamente è stata negoziata e discussa nel rapporto con i genitori. Un nucleo di tre bisogni fondamentali emerge e si delinea compiutamente. Il primo è quello di vivere in un ambiente e in uno spazio di vita sicuri, stabili, protetti, di fronte all’esperienza di molti di questi adolescenti di avere un passato alle spalle trascorso in condizioni sociali difficili e potenzialmente traumatiche, di povertà, di deprivazione, di ristrettezze familiari, e anche di conflagrazione sociale e di conflitto bellico. Si tratta di esperienze che hanno messo a dura prova il senso di stabilità del Sé e minato il sentimento di sicurezza di base. Aman (Afghanistan): Vivevo rifugiato in Iran con i miei fratelli più grandi, ma poi, un giorno, il Presidente dell’Iran ha detto che gli afgani devono ritornare nel loro paese, che i minorenni come


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me devono andare via dall’Iran. Quelli che sono sposati qui, come i miei fratelli, possono restare, ma quelli come me non possono. Ho preso paura e miei fratelli mi hanno detto: «Va’ pure dove vuoi». Il resoconto qui riportato sembra emblematico della condizione di molti giovani rifugiati politici, costretti a vagare senza una terra che li possa accogliere e dove potere vivere in pace e serenità. Da ciò deriva il vissuto della paura che attacca il senso di sicurezza, il quale è un prerequisito indispensabile per potere pensare e vivere liberamente laddove è presente una condizione di stabilità della vita quotidiana (Emiliani, 2008). Il secondo bisogno è quello, altrettanto importante, di realizzare, attraverso la decisione di partire, un obiettivo concepito come funzionale a una maggiore realizzazione di sé e crescita della persona. A un livello maggiore di inferenza, questo bisogno risponde al modo con cui si presenta in questi soggetti adolescenti la necessità di assolvere al compito della separazioneindividuazione dai genitori e del raggiungimento dell’autonomia. Questo bisogno risponde alla necessità di progettare un futuro, di impegnarsi in un progetto di vita, di combattere una condizione di stallo o di arresto evolutivo. Per arresto evolutivo si intende una situazione di blocco nella crescita o di stagnazione (Erikson, 1968), legata al contatto con fattori avversi nell’ambiente di vita che ostacolano la possibilità di una maturazione e di un’ulteriore sviluppo della personalità, nella direzione del rischio psicopatologico e psicosociale. Mohamed (Egitto): Vado in Italia e trovo un’altra vita, qualcosa di nuovo, nel lavoro, altre cose. Era tanto che ci pensavo. Là dove abitavo, tutte le cose, tutti i giorni erano uguali, sempre uguali, e il lavoro era difficile. Volevo cambiare vita, ero arrabbiato con la mia vita. In questo frammento di un ragazzo egiziano quello che emerge tipicamente è il vissuto di una vita difficile e sempre uguale, qualcosa di più di un semplice vissuto di monotonia: è la percezione e la sensazione di vivere in un presente immodificabile e duro. È un vissuto di costrizione che alla lunga può paralizzare e attaccare la capacità della mente di pensare, e di raggiungere un livello di funzionamento più evoluto su un piano immaginativo. Tale vissuto induce un senso di pessimismo e di alienazione, di impossibilità di avere un futuro. Roman (Albania): Ero sempre nervoso. Perché se non hai niente da fare durante la giornata, e vai in giro con gli amici, sei arrabbiato. Perché non hai un lavoro. Perché non c’è niente, e se non c’è niente non c’è niente da fare, e diventi nervoso. Con due mucche non puoi vivere e aiutare la famiglia. Questo secondo frammento sembra fotografare bene una condizione di rischio evolutivo, una situazione di arresto e di stallo nella crescita che può aprire le porte al rischio psicosociale, e al limite a una carriera e a una traiettoria di sviluppo devianti. Se non c’è niente da fare, se l’ambiente sociale in cui un adolescente vive non può offrire basi di stabilità e sufficienti opportunità sociali e lavorative, non è possibile crescere affettivamente, porsi degli obiettivi rea-


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lizzabili, e mantenere fiducia e speranza per il futuro. La vita in tali condizioni si appiattisce sul presente, un presente che sembra una moratoria procrastinata all’infinito, perché appunto non contiene in sé i presupposti per un futuro auspicabile. Da qui la rabbia e il nervosismo, come reazione a un senso di impotenza, nell’impossibilità di modificare la propria condizione di vita e dare una progettualità alla propria traiettoria di sviluppo. Tuttavia è importante constatare come in molti casi questo compito conviva e si presenti associato con un terzo altro obiettivo e bisogno fondamentale: quello di aiutare i propri genitori. È difficile dire quanto questo compito sia funzionale all’altro, di realizzare l’obiettivo della propria autonomia e della separazione-individuazione, e quanto invece il compito di aiutare i genitori costituisca un’assunzione di responsabilità che significa anche, a livello più profondo, un impedimento e un grave peso di cui farsi carico, in rapporto a una missione da compiere per il bene della famiglia che comporta un vissuto di sacrificio e di espiazione e interferisce con l’obiettivo della propria autonomia. Ujjal (Bangladesh): Quando ho deciso di partire, non volevo in realtà andare via dal Bangladesh, perché non volevo lasciare la mia famiglia. Sapevo che questo viaggio non era facile, e non sapevo quanto tempo dopo avrei ottenuto il permesso di soggiorno. Ma ho lasciato il Bangladesh per forza, perché io volevo aiutare la mia famiglia, perché quello che guadagnava mio padre non è abbastanza per vivere. Noi siamo in tanti, siamo numerosi nella mia famiglia. Mio padre guadagnava poco, pochissimo. Qui emerge nitidamente la necessità di partire per aiutare i genitori e sostenere economicamente la famiglia, nonostante la paura di fronte all’incertezza dell’ignoto e al sentimento di lontananza, di nostalgia, o all’ansia per la separazione dalla famiglia, per un’esperienza in un paese lontano e diverso. Qamil (Albania): «Qui a Valona non c’è un futuro per me», ho detto ai miei genitori. Io sto studiando, ma come penso al futuro vedo che non posso fare niente. Non c’è è una vita bella per me, un domani, per un mio figlio. Qui questa vita non la posso costruire. Sentivo dalla tv che tutti andavano via, molti albanesi andavano in Grecia, venivano in Italia. Quando tornavano, tornavano con i soldi, con delle belle macchine. Pensavo: anch’io! Perché non posso farlo? Un giorno vado là, lavoro, costruisco la mia casa. Quest’ultimo frammento di resoconto condensa molti temi accennati in precedenza: il bisogno di avere un futuro, un domani migliore; il desiderio di imitare e di prendere ad esempio altri conterranei; la speranza, forse illusoria, non solo di migliorare le proprie condizioni di vita, ma di diventare ricchi, di fare molti soldi, di risolvere magicamente una condizione difficile attraverso un riscatto sociale. L’esperienza del viaggio Il racconto del viaggio occupa lo spazio mediamente più consistente nei resoconti, e costituisce il momento più interessante e vivido all’interno delle interviste. Ad eccezione di


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un numero molto esiguo di soggetti (4), tutti gli altri riferiscono di esperienze di viaggio estremamente impegnative, dure, difficili e traumatiche. Tutti questi soggetti hanno accettato di compiere viaggi lunghi, in condizioni di avversità, pericolo, ristrettezza e clandestinità. Questi adolescenti intervistati, vale a dire, erano clandestini, sprovvisti di documenti, e hanno affrontato un viaggio lungo, impegnativo e avventuroso, sfidando la fame, il freddo, il rischio e l’umiliazione di essere scoperti, espulsi o arrestati, in paesi in cui l’immigrazione clandestina è duramente punita e in alcun modo tollerata. Tutto ciò è avvenuto affidando le sorti del proprio destino spesso a trafficanti privi di scrupoli e improntati a una condotta manifestamente delinquenziale a fine di lucro. Se si escludono pochi ragazzi che hanno compiuto il loro viaggio verso l’Italia in aereo, o potendo confidare sull’appoggio di parenti già immigrati nel paese ospitante, o di trafficanti che si sono prestati a fungere da genitori fittizi con documenti falsi, tutti gli altri hanno viaggiato prevalentemente a piedi per chilometri, sulle montagne, o in mare su imbarcazioni di fortuna, in condizioni assolutamente rischiose per la vita. Per chi ha viaggiato a piedi, oltre alla sofferenza della fame si è associato il dolore per il freddo, il congelamento dei piedi, e il rischio di perderli per cancrena in simili condizioni. Aman (Afghanistan): Dall’Iran abbiamo fatto un viaggio lunghissimo, circa 40 km a piedi. Su dalle montagne, senza bere, senza mangiare. C’erano dei trafficanti che sapevano la strada. Li abbiamo pagati. Era freddo perché era ottobre o novembre. I trafficanti prendevano i soldi, ci portavano alla spiaggia, ci dicevano: «Andate in quella direzione», per andare in Grecia. Su un gommone per due persone ci stavamo in sei. Altro tratto di viaggio l’ho fatto nascosto dentro un camion. Molte ore… Si respirava male, a fatica. Non c’era da mangiare. Avevo paura. Mi dicevo: «Non ce la faccio, quando finisce questa storia».

Nei casi estremi, più di un soggetto ha assistito inerme alla morte di propri compagni di sventura, scivolati da burroni delle montagne, senza potere prestare soccorso ed essendo costretto a proseguire il cammino perché minacciato dai trafficanti e in pericolo per la propria stessa vita. Rahim (Bangladesh): Il mio viaggio è stato terribile. Abbiamo attraversato la montagna a cavallo. I poliziotti ci inseguivano, mentre i trafficanti ci minacciavano. Uno di noi è caduto da cavallo, è andato a finire giù dalla montagna. Sicuramente è morto, nessuno è andato a prenderlo. In altri casi sembra avere dominato il quadro la paura di essere scoperti e arrestati dalla forze dell’ordine, come vale ad esempio per i ragazzi albanesi, arrestati in Grecia e costretti a soggiornare in carcere per settimane alla stregua di delinquenti comuni, prima di essere espulsi da quel paese. In altri casi ancora, per coloro che hanno scelto di raggiungere l’Italia lungo la via del mare anziché della montagna, un passaggio obbligato è consistito nel soggiorno al porto di Pa-


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trasso, in Grecia, provando per molti tentativi a nascondersi dentro i camion che trasportano merci verso l’Italia, oppure legati sotto le vetture. Infine, alcuni soggetti riferiscono di essere stati sequestrati dai loro trafficanti, ricattati e tenuti in condizioni di prigionia, fino a quando la loro famiglia non avesse fatto fronte alla cifra in denaro pattuita per il riscatto, in un gioco al rialzo. L’aspetto fortemente traumatico sembra essere stato il vissuto angosciante e catastrofico dell’assoluto rischio per la vita, nelle mani di persone, trafficanti a cui era affidata la propria vita, essenzialmente delinquenziali e imprevedibili. A ciò si accompagna il vissuto persecutorio legato al rischio di essere arrestati da poliziotti e trattati alla stregua di delinquenti comuni. In altre circostanze ancora, i soggetti intervistati riferiscono di avere inserito delle pause di soggiorno tra una tappa e l’altra del loro viaggio, venendo accolti clandestinamente nelle comunità locali dei paesi attraversati, adattandosi a svolgere lavori duri e di fortuna per raccimolare i soldi per il prosieguo del viaggio. Ci si può chiedere quale sia stata la spinta, quali motivazioni abbiano dimostrato, e quali risorse abbiano messo in campo i soggetti per affrontare esperienze di viaggio di tal sorta. La maggior parte di loro dimostra senza ombra di dubbio grandi capacità di resilienza, grandi capacità di ribellarsi alle avversità, di far fronte agli urti adattandosi alle difficoltà, sorrette dalla forte motivazione del valore di un progetto e di un obiettivo voluto e cercato con convinzione. In certi casi è possibile affermare che l’esperienza del viaggio abbia assunto per questi soggetti il significato di una esperienza iniziatica, funzionale al compito evolutivo di realizzare la propria individuazione, configurandosi come una prova superata con successo che ha accresciuto il senso di autoefficacia personale e il sentimento di consistenza e di solidità dell’identità. In altri casi è possibile ipotizzare purtroppo come il rischiare la vita anche inutilmente o incoscientemente, sottoponendosi a gravissime privazioni e umiliazioni, nascondi a ben vedere anche un significato forte di espiazione, di volere probabilmente espiare sensi di colpa connessi a traumi già evidentemente subiti in passato. L’esperienza del viaggio, secondo questa ipotesi, sarebbe una sorta di riattualizzazione e reiterazione di traumi già sperimentati da questi adolescenti nel loro passato nella terra di origine. L’esperienza del presente in comunità Tutti i soggetti, unanimemente, si dichiarano soddisfatti o moderatamente soddisfatti del loro presente attuale dentro il centro di accoglienza o la comunità per minori. Essi sostengono di avere un rapporto sufficientemente buono con gli operatori, gli educatori, e anche con i loro compagni dentro il centro. In generale, anche se è forte in certi momenti la nostalgia per il proprio paese, prevale un senso di fiducia e di soddisfazione per la scelta compiuta. Tutti gli adolescenti intervistati che hanno una famiglia, pur essendo loro stato riconosciuto lo status di minori stranieri non accompagnati, mantengono rapporti con i loro familiari, con i quali hanno contatti epistolari, telefonici o telematici. Gli adolescenti intervistati hanno imparato abbastanza bene e rapidamente la nuova lingua, dichiarano di volersi impegnare nel lavoro, e contemporaneamente molti di loro frequentano delle scuole serali a un livello basso di scolarità. L’obiettivo è quello di prendere un diploma, di avere un contratto come apprendista, di ottenere il mantenimento del permesso di soggiorno anche dopo il diciottesimo anno di età


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e l’uscita dalla comunità per minori, e di guadagnare soldi da donare alla famiglia di origine. Alcuni di loro hanno obiettivi più ambiziosi: cercano un riscatto sociale e sognano un grado maggiore di benessere economico. Quasi nessuno dichiara però di volere proseguire gli studi. Qamil (Albania): Tutto per ora mi va bene e tutto quello che penso un giorno lo realizzerò... perché ho 16 anni, penso tante cose... un giorno non si sa se diventerò qualcuno. Così dimostro che a un albanese che è venuto in Italia il suo progetto è andato bene. Alla fine è diventato il titolare di un’azienda, e così faccio vedere che non tutti gli albanesi sono uguali. Ci sono i cattivi e quelli che sono bravi. Nel presente si delinea una gamma più differenziata di bisogni. In rapporto alla prima parte dell’intervista, incentrata sul riferimento al passato nella terra di origine, bisogni peculiari che sembravano emergere erano quelli di ribellarsi a una condizione di vita opprimente, di aiutare i genitori, di raggiungere il traguardo dell’approdo alla comunità, e di vivere in un ambiente sicuro, stabile e che garantisca protezione. Ora nel presente emergono i bisogni di sentirsi maggiormente accolti, accettati e apprezzati all’interno della comunità residenziale, e il bisogno di realizzare degli obiettivi nel futuro, che testimoniano una maggiore integrazione sociale e un maggior benessere. Zafar (Afghanistan): Z: Voglio lavorare, studiare, fare una famiglia, sono tranquillo adesso. Nuova vita in un nuovo paese. I: Cosa ti piace dell’Italia? Z: Stare tranquillo senza paura di morire. Apparentemente gli adolescenti intervistati, ad eccezione di pochi casi, non sembrano traumatizzati o clinicamente depressi. È difficile tuttavia esprimere un giudizio e valutare gli effetti di condizioni di vita trascorse e di eventi drammatici che potrebbero fare sentire il peso più profondo delle loro conseguenze in un secondo tempo, nel medio lungo periodo, superata la fase dell’adolescenza, quando il passaggio all’età adulta imporrà inevitabilmente gradi maggiori di assunzione di responsabilità e nuovi lutti da elaborare. È tangibile infatti, anche se in un’atmosfera complessivamente positiva e fiduciosa verso il futuro, un senso di costrizione nell’immaginazione, una difficoltà a pensarsi compiutamente fino in fondo in maniera realistica nel futuro. Si tratta di giovani ancora poco integrati con l’ambiente sociale esterno alla comunità, e che sembrano esprimere costellazioni di bisogni diverse dalla normale popolazione adolescenziale. Bisogni narcisistici come quello di essere ammirati e rispecchiati nel gruppo dei pari età, di competere, e di aprirsi a un nucleo diversificato e variegato di esperienze, che sembrano un po’ il marchio di fabbrica dell’attuale popolazione normale adolescenziale nei paesi occidentali, appaiono distanti dallo stile di vita per ora ritirato di questi giovani dentro la comunità, a prevalente ristretto contatto con i loro consimili, coetanei immigrati e rifugiati. Da questo punto di vista un banco di prova si proporrà solo in seguito, quando l’uscita dalla comunità porrà inevitabilmente con più forza la questione del confronto sociale, e met-


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terà questi giovani a contatto con la necessità di uscire da un certo grado di isolamento per integrarsi nell’ambiente sociale più ampio del paese ospitante, sollecitando in loro la necessità di mobilitare un’ulteriore gamma di risorse per adattarsi compiutamente. Capacità di mentalizzazione e pensiero concreto I resoconti delle interviste rivelano nella maggior parte dei casi indici di quello che può essere inteso come un pensiero concreto e un basso livello di capacità di mentalizzazione (Fonagy, Target, 1997). I resoconti cioè mettono in luce una modalità di racconto soprattutto incentrata sulla dimensione dell’azione, sulla narrazione dei fatti ancorata a elementi concreti, mentre più bassa appare la capacità di riflettere sulle proprie esperienze in termini di consapevolezza del vissuto e di stati mentali. Nonostante i soggetti dimostrino di conoscere mediamente abbastanza bene o molto bene la lingua in cui sono state svolte le interviste, l’italiano, sembra emergere una difficoltà a spostarsi dal piano concreto dell’azione a quello della riflessione sul proprio Sé e sulle esperienze emotive. I soggetti, in sostanza, rivelano difficoltà ad esprimere come si sentono adesso, come si sono sentiti nelle esperienze passate oggetto della loro narrazione nel resoconto, e perché si sono sentiti in quel modo. Ferdinand (Albania): I: Cosa ti aspettavi dall’arrivo in Italia? F: Boh… niente. I: Se pensi al tuo futuro come immagini la tua vita? F: Se lavoro vado in Albania, faccio una casa, compro una macchina… diventare famoso! Aprire una discoteca o un pub. I: Cosa ti piace dell’Italia? F: Qui ci sono belle strade, belle macchine, boh… ci sono tante cose che non ci sono in Albania. I: Come ti vedevi? Come stavi prima di partire? F: Non mi piace come stavo, sono meglio adesso… I: Pensa a delle parole per descriverti. F: Boh, se mi fanno un contratto… I: Come ti senti adesso? F: Adesso sono meglio di com’ero in Albania. Adesso sono più grande, più bello, boh…. ho i vestiti più belli che in Albania… bello! Nel frammento riportato, emblematico della condizione di molti soggetti del nostro campione, emergono vari indici di una difficoltà di mentalizzazione: – la difficoltà a dare un nome all’emozione: (“boh”); – la predominanza di stati affettivi globali, in termini di meglio/peggio, bello/brutto, così come di bene/male, buono/cattivo; – la difficoltà a rappresentarsi nel futuro (costrizione nell’immaginazione); – la predominanza della dimensione dell’azione (fare, andare); – l’ancoraggio ad elementi concreti (“compro una macchina”); – la difficoltà a definire come ci si sente.


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Il linguaggio emozionale appare per la maggior parte piatto e poco vivido o evocativo di emozioni. Laddove il linguaggio nei resoconti esce da questo quadro e consente di inferire livelli più elevati di capacità di riflessione ed espressione emozionale, ciò sembra costituire un indice di funzionamento mentale più evoluto, un fattore protettivo, sebbene la presenza di un funzionamento più concreto non escluda a priori capacità di resilienza, di fronteggiare le difficoltà, e di adattarsi al contesto di vita sia nel passato che nel presente.

Conclusioni Diverse e in molteplici direzioni sono le conclusioni che si possono trarre da questa ricerca. Appare rilevante porre l’accento sul fatto che taluni caratteri della condizione emblematica del traumatizzato (i tratti tipici del disturbo postraumatico da stress, PTSD) non sembrano corrispondere a quelli di molti MSNA, così come si è riscontrato nel campione della nostra ricerca. Non tutti gli adolescenti stranieri non accompagnati che pervengono nelle nostre comunità residenziali sono senza famiglia, o hanno alle spalle traumi di visibile portata, come quelli derivanti dalle conseguenze di aver subito o assistito a episodi di violenza nelle relazioni affettive intime o all’interno di conflitti bellici e di conflagrazioni sociali. In molte situazioni è piuttosto il caso di giovani che hanno alle spalle un nucleo familiare relativamente organizzato – ancorché disagiato – all’interno del quale hanno mosso i primi passi in condizioni, pare, di relativa stabilità, che hanno consentito loro di sperimentare i benefici del contesto sociale allargato, dei gruppi coetanei e dell’esperienza scolastica. Anche se è difficile sapere e valutare, non sembra trattarsi di traumi sempre eclatanti, di portata gigantesca. Si tratta, piuttosto, dell’esperienza di tanti microtraumi cumulati e ripetuti, che probabilmente faranno sentire il loro peso nel prosieguo della vita di fronte a ulteriori difficoltà. Sono, infatti, traumi riconducibili al carattere ricorrente di una quotidianità costellata di privazioni e ristrettezze familiari e sociali, di pattern relazionali e dinamiche affettive di scarsa protezione da parte dei genitori e del contesto sociale, che nel loro insieme hanno l’effetto di bloccare lo sviluppo psicologico e l’evoluzione del pensiero alla fissazione concreta, ostacolandone l’accesso a livelli di funzionamento più articolati e immaginativi. È proprio l’ancoraggio al pensiero concreto che sembra costituire il vero ostacolo e il maggiore fattore di vulnerabilità. Ciò non solo per il processo di integrazione nella nuova realtà sociale, ma anche per l’accesso a nuove e migliori condizioni di vita, e a ulteriori spazi per la crescita emotiva e cognitiva e la maturazione della personalità in senso armonico e globale. Se il traguardo di raggiungere l’obiettivo prefissato – l’approdo alla comunità residenziale e al nuovo paese – è stato raggiunto con successo e legittimo orgoglio; se taluni ostacoli nella vita precedente, la cui rimozione era avvertita come un prerequisito imprescindibile per interrompere lo stallo evolutivo, sono stati superati o aggirati, ora c’è tutto un lavoro da fare per rimettere compiutamente in moto il mentale, nel passaggio verso nuove costellazioni peculiari e più evolute di


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bisogni e di compiti evolutivi cui adempiere nella propria agenda di ulteriore maturazione (Ricci Bitti, 1993). C’è la necessità di porsi dei traguardi più difficili, che vadano oltre gli obiettivi concreti (di reperire un lavoro, di ottenere il permesso di soggiorno, di contribuire al sostentamento economico della famiglia di origine, ecc.), per vivere non più ai margini di un tessuto sociale con cui appare difficile integrarsi. C’è il bisogno di fare un uso proficuo delle proprie risorse intellettive non solo per ottenere un diploma e un lavoro sicuro, ma per estendere il raggio della prospettiva temporale, per pensare la vita nella sua complessità. Ciò inevitabilmente impone al ragazzo di doversi confrontare con il dolore del proprio passato e i suoi lasciti nel presente. C’è, infine, il bisogno di acquisire una consapevolezza autentica dei propri diritti e non solo doveri, per giocarsi davvero le proprie carte nella società, e assumere un atteggiamento responsabile nei confronti di se stessi e un ruolo attivo nella direzione da imprimere alla propria vita. Proprio per questi motivi la richiesta che questi giovani sembrano porre alla comunità sembra delinearsi come una richiesta complessa, talora non priva di contraddizioni e ambivalenze, ma comprensibile: essere aiutati nello svolgere una serie di compiti che caratterizzano la loro fase evolutiva e la loro condizione, per acquisire gradualmente una più piena e consapevole autonomia. Il fallimento in questo processo di autonomizzazione sembra ancora una volta l’arresto evolutivo, la passivizzazione, l’atteggiamento parassitario nei confronti della comunità e della società, verso un futuro precario e portatore di nuove sconfitte, disagi e avversità. La capacità di lottare ancora, di mettersi in gioco, di assumersi la responsabilità del proprio futuro da un lato, e il sostegno della comunità residenziale, degli educatori, dei propri coetanei dall’altro sembrano costituire importanti fattori di protezione nel prosieguo del percorso evolutivo. È una sfida aperta per questi soggetti e anche per le società occidentali. Riassunto Gli Autori hanno utilizzato un approccio di Narrative Analysis per analizzare le interviste di 20 Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA), tardo adolescenti, residenti in Italia presso centri di accoglienza e comunità per minori. La ricerca esplora la dimensione del vissuto lungo il racconto dei soggetti dal passato nella propria terra di origine, attraverso l’esperienza del viaggio, fino al presente in Italia. L’analisi delle interviste delinea uno profilo articolato, nel quale emergono, insieme ai fattori di rischio e di vulnerabilità, risorse e capacità di resilienza guidate dalla forte motivazione di ottenere come obiettivo il raggiungimento del paese ospitante. Le maggiori difficoltà sembrano nel presente riconducibili ai problemi d’integrazione nella realtà del nuovo paese, evolvendo rispetto a una modalità di funzionamento mentale prevalentemente legata al pensiero concreto. Parole chiave Minori stranieri non accompagnati – Storie di vita – Analisi narrativa – Fattori di rischio – Resilienza – Pensiero concreto.


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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 447-456

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Le rappresentazioni mentali delle figure di attaccamento in un nuovo test proiettivo per bambini: il “Coffy Test” Mental representation of attachment figures by a new projective test for children: the “Coffy Test” Maurizio Cardi*, Lorenza Leonardi**, Claudia D’Amico**, Stefania Battista*

Summary The most common projective tests for children used in the clinical setting are based on obsolete theories and have no scientific validation. For this reason we have proceeded to build a new projective test, quick and easy to use. The “Coffy Test” explores the mental representations that children have of themselves and of their attachment figures, considered decisive for the mental development of children, with criteria of quantitative evaluation that enable statistical analysis. The results obtained in a reference sample (140 subjects) and the scoring system are described. The resulting data indicate a possible clinical use. Key words Attachment – Childwood – Psychodiagnosis – Projective test – Statistical validation.

Introduzione La psicoanalisi delle relazioni oggettuali e la teoria dell’attaccamento hanno spostato l’attenzione dalle fasi freudiane dello sviluppo psico-sessuale alle dinamiche interpersonali ed allo stile di relazione genitore–figlio, rendendo obsoleti test proiettivi, quali il Blacky Pictures Test, il Patte Noire, il C.A.T. ed altri. Ciò nonostante, questi test proiettivi infantili “storici”, ormai abbandonati negli ambiti di ricerca anche perché privi di sufficiente validazione statistico-scientifica (Granick, 1958; Tressoldi, 2004) sono tuttora usati nei servizi per l’infanzia e l’adolescenza e persino nelle consulenze giudiziarie (Anastasi, 1982), in quanto la maggior parte dei clinici ritiene che presentino, rispetto a test di personalità strutturati, il vantaggio di superare le difese consce del soggetto e, principalmente, di accedere ad informazioni psicologiche importanti, non altrimenti ottenibili e di cui il soggetto stesso non è consapevole (Dosajh, 1996). * **

Neuro-Psichiatra Infantile, A.S.L. Frosinone. Psicologa, A.S.L. Frosinone.


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Anche se l’utilità delle tecniche proiettive consiste nel rilevare indizi, che devono poi essere interpretati sulla base dei riscontri, nel contesto clinico resta comunque l’esigenza di tecniche proiettive adeguatamente validate (Lilienfeld, 2000) ovvero di tecniche proiettive che, consentendo una valutazione quantitativa attraverso sistemi di classificazione e di scoring, superino il criterio puramente qualitativo, spesso giustificato dal numero estremamente ampio (o infinito) di possibili risposte. Sebbene siano stati proposti diversi nuovi test proiettivi per l’infanzia e l’adolescenza (FTT, Roberts 2, ecc.), solo il S.A.T. di Klagsbury e Bowlby (Klagsbury, 1976), nella versione italiana di Attili (Attili, 2001), ha trovato un discreto impiego nei servizi pubblici, sia pure con il limite di considerare solo l’ansia di separazione. Obiettivo del lavoro Ritenendo che siano determinanti, per l’equilibrio psichico del bambino, le rappresentazioni mentali che il soggetto si è formato dei genitori quali figure di attaccamento (Oppenheim, 2010), e che una rapida esplorazione di queste possa fornire elementi su cui orientare il percorso successivo diagnostico-valutativo, si è pensato di costruire un test, per soggetti in età scolare, che, senza pretese di esaustività, fornisse rapidamente alcuni elementi di conoscenza sul funzionamento emotivo e sui vissuti relativi alle figure genitoriali. Al fine di una validazione statistico-scientifica, prima di un suo possibile utilizzo clinico, si è voluto esaminare la gamma di risposte evocate dal test in una popolazione (non selezionata) di riferimento. Soggetti e metodi Il Coffy test è un test proiettivo, per bambini e ragazzi, di entrambi i sessi, di età scolare e pre-adolescenziale (5-14 anni); oggetto di indagine del test sono le rappresentazioni mentali che il bambino ha delle sue relazioni con le figure genitoriali. Il test è costituito da 12 tavole, introdotte da una copertina, che ha lo scopo di presentare il personaggio-sé, il cagnolino Coffy (che viene caratterizzato come dello stesso sesso dell’esaminato, allo scopo di facilitare l’identificazione di questi col personaggio). L’ipotesi di partenza è che un buon funzionamento mentale implichi rappresentazioni mentali coerenti ed integrate, costruite tramite un corretto monitoraggio cognitivo delle emozioni (Liotti, 2001), in particolare delle emozioni riguardanti il legame d’attaccamento (quindi benessere per la vicinanza o tristezza per la separazione), i pericoli reali (quindi paura, inibizione, ostilità), le aspettative di essere protetto, incoraggiato o consolato, ma anche la propensione all’autonomia esplorativa ed infine le relazioni con i pari. Al contrario, distorsioni nel processare queste informazioni indicano aspetti preoccupanti della relazione bambino/genitori in quanto, come afferma la Crittenden,


LE RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLE FIGURE DI ATTACCAMENTO

449

“possono essere considerate il mezzo di sviluppo e di mantenimento della psicopatologia” (Crittenden, 1999). L’attaccamento è qui inteso come processo rappresentazionale (Main, 2008) e in un’accezione estesa, che include anche le funzioni genitoriali di protezione dai pericoli e di promozione dell’autonomia (Grossmann, 1999). Come è noto, la teoria dell’attaccamento riconosce particolare importanza ai vissuti relativi alla separazione dalle figure genitoriali, evocati nel test dalla tavola “separazione” (Coffy e i due genitori), ed alla naturale tendenza del bambino a legarsi all’adulto che se ne prende cura affettuosamente: la vicinanza affettuosa e comprensiva dei genitori, o meglio, l’aspettativa o la rappresentazione mentale che ne ha il bambino, sono invece esplorate dalle tavole “abbraccio” (Coffy abbracciato dalla madre) e “rispecchiamento” (Coffy che parla col padre). L’adulto, essendo più grande e più forte, assicura la protezione dai pericoli: la rappresentazione mentale del pericolo e del ruolo protettivo dei genitori emerge dalle tavole “punizione” (la madre e Coffy minacciato da un uomo) e “aggressività” (il padre e Coffy alle prese con un cane cattivo). Il porsi come figura di riferimento più grande e più forte, ma anche più saggia e più matura, consente all’adulto di esercitare un adeguato ruolo normativo, che secondo Bowlby ha una funzione protettiva da ulteriori pericoli: questi aspetti sono esplorati dalla tavola “educazione” (Coffy rimproverato per aver urinato sul muro) per la gestione degli aspetti relativi al proprio corpo, e dalla tavola “divieto” (Coffy rimproverato per aver scavato una buca) per le regole relative alle azioni. La figura di attaccamento, incoraggia l’attività esplorativa fungendo da base sicura, funzione esplorata dalla tavola “incoraggiamento” (Coffy di fronte al fossato col padre), e da rifugio sicuro, consolando in caso d’incidente: l’attesa del bambino di sostegno risulta dalla tavola “consolazione” (Coffy, ferito, si rivolge alla madre), inoltre la propensione del bambino all’ attività esplorativa, è esplorata dalla tavola “ignoto” (Coffy davanti alla galleria buia). Infine, la relazione con i pari, nel segno della cooperazione o della competizione, sono esplorate dalle tavole “condivisione” (Coffy con altro cagnolino e un osso) e “autonomia” (Coffy gioca con altri cagnolini), tavole in cui è raffigurata la figura genitoriale, considerata l’importanza dello sguardo (di approvazione o meno) dell’adulto (Giacolini, 2007). Le tavole vengono presentate una alla volta, in un ordine prestabilito, chiedendo al soggetto di raccontare ciò che vede rappresentato e poi di rispondere ad alcune domande: su ciò che prova il personaggio-sé, sul comportamento atteso del genitore e sul comportamento seguente del personaggio-sé. Nella prima tavola il personaggio-sé, è presentato da solo, seguono 5 tavole che raffigurano Coffy, insieme al personaggio materno e poi altre 5 tavole, in cui è alle prese con situazioni analoghe ma con il personaggio paterno. I personaggi adulti non vengono presentati, lasciando all’esaminato di riconoscerli o no come figure genitoriali del personaggio-sé, salvo nella dodicesima e ultima tavola, in cui è raffigurata la separazione da entrambi i genitori. Sulla scheda di notazione, per ogni singola tavola, l’esaminatore trascrive nell’immediatezza gli enunciati relativi al racconto spontaneo e alle domande prefissate.


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Dopo numerose revisioni e studi pilota, il “Coffy Test”, nei primi mesi del 2011, previo consenso dei genitori, è stato somministrato a tutti gli alunni (non certificati per il sostegno scolastico) di 6 classi (una classe per ogni anno delle elementari dalla prima alla quinta ed una classe di prima media) di istituti scolastici di Cassino, Frosinone e Ceccano; dopo un anno il test è stato somministrato di nuovo ai bambini già alunni della seconda elementare. Gli enunciati dei soggetti sono stati analizzati per le reazioni emotive evocate e per l’aderenza a quanto effettivamente rappresentato (monitoraggio cognitivo) piuttosto che a stimoli interni. Le risposte, in base alla “lettura cognitiva ed emotiva” della tavola, sono state classificate in 13 categorie, in parte mutuate dal lavoro di Attili (2001) per la versione italiana del SAT. Sono state così riprese le categorie: benessere, ansia, attaccamento, ostilità, mancanza di autostima, angoscia, confusione ed evitamento; mentre la preoccupazione inversa è stata considerata come categoria a se stante. Sono state inoltre aggiunte le categorie: curiosità-autonomia, insuccesso, sessualizzazione e inibizione. Alle risposte dei soggetti è stato attribuito un punteggio secondo una scala Likert: è stata individuata, per ogni singola tavola, la risposta più frequente (“risposta moda”), a questa è stato attribuito il punteggio di +3 per le tavole evocative di situazioni di protezione da parte della figura genitoriale o di +2 per tutte le altre. Se la rispostamoda non è risultata comune ad almeno 2/3 dei soggetti del campione di riferimento, si è cercata anche la seconda risposta in ordine di frequenza, ed a questa è stato attribuito il punteggio di +1. Lo 0 è stato riservato al caso di eventuali risposte non classificabili. Quando una delle categorie di risposta, connotata da un adeguato “esame di realtà” (benessere, curiosità-autonomia, insuccesso, ansia, attaccamento) è risultata evocata da altre tavole è stato attribuito un punteggio di -1. Alle altre categorie di risposta (ostilità, mancanza di autostima, sessualizzazione, inibizione), considerate inconsuete e lievemente patologiche, è stato attribuito un punteggio di –2. Infine alle categorie di risposta (evitamento, confusione, angoscia, preoccupazione inversa), considerate sempre francamente patologiche per l’emergere indistinto di contenuti interni, è stato attribuito un punteggio di –3. Sono stati considerati anche altri fattori: la non-individuazione o meno da parte dei soggetti della figura materna e/o paterna nei personaggi adulti delle tavole, le reazioni con “blocchi” e le reazioni caratterizzate da comportamenti oppositivi, utilizzando lo stesso sistema di scoring, quindi: – un punteggio di –1 per tavola a contare dalla terza reazione (nessun punteggio fino alla seconda reazione), in caso di reazioni di “blocco” (silenzi prolungati o risposte del tipo - “non lo so”) e per eventuali comportamenti oppositivi del personaggio-sé (il cagnolino Coffy) dopo l’intervento della figura genitoriale (il cane adulto), come indagato dalle ultime due domande per ogni tavola; – un punteggio di –2 nel caso di non riconoscimento di una figura genitoriale (materna o paterna) nei personaggi dei cani adulti; – un punteggio di –3 nel caso di non riconoscimento di entrambe le figure genitoriali nei personaggi dei cani adulti.


LE RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLE FIGURE DI ATTACCAMENTO

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Discussione dei dati Il campione di riferimento è risultato costituito da una popolazione di n. 140 soggetti (75 di sesso maschile e 65 di sesso femminile), di età compresa tra 6 anni e 12 anni + 7 mesi (media 8,10 - ds 1,8), che hanno ottenuto (vedi Tavola 1) i seguenti punteggi: mediana +19 (minimo –10 e massimo +27).

Tavola 1. Grafico distribuzione dei punteggi (140 soggetti).

Trattandosi di dati ordinali, i punteggi sono stati analizzati tramite la statistica non parametrica (Glantz, 1997), l’esattezza dei calcoli più complessi è stata verificata tramite il programma statistico SSPS v.16: i risultati appaiono non influenzati dall’età dei soggetti (al coefficiente di correlazione per ranghi di Spearman, rs =-0,153) o dal genere sessuale dei soggetti (al test per la somma dei ranghi di Wilcoxon-Mann-Whitney, U= 2181,5); inoltre, nel campione considerato, non sono risultate significative le differenze dei punteggi ottenuti dai soggetti nelle due serie di tavole (materna 2-6 / paterna 7-11) raffiguranti i due genitori (al test di Wilcoxon per dati appaiati, W=254). Il controllo della riproducibilità tra operatori (“inter-rater reliability”) è stato effettuato dai primi due autori analizzando gli enunciati indipendentemente uno dall’altro: si è registrata una concordanza nella classificazione delle risposte dell’ 86% al test K di Cohen. La riproducibilità a distanza di tempo (“test-retest reliability”) é stata verificata sottoponendo i 21 bambini della seconda elementare di nuovo al test dopo un anno: si è registrata una concordanza nella classificazione delle risposte dell’73% al test K di Cohen. Sottoponendo all’analisi fattoriale le risposte evocate dalle singole tavole, emergono, alla rotazione con metodo varimax, quattro fattori (vedi Tavola 2):


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Tavola 2. Tabella analisi fattoriale. Rotated Component Matrix component tavole

1

3

vicinanza

2 frustra-zione

allarme

4 indipen-denza

4 condivisione

,886

,037

-,105

-,171

9 autonomia

,986

-,094

-,053

-,061

6 abbraccio

,941

,305

-,030

-,059

11 rispecchiamento

,986

-,071

-,047

-,055

3 educazione

,043

,998

-,031

-,037

8 divieto

,037

,998

-,011

-,006

2 consolazione

,014

,998

-,032

-,030

7 incoraggiamento

-,062

-,064

,969

,049

5 punizione

-,072

,049

,945

-,033

10 aggressività

-,065

-,059

,983

-,001

1 ignoto

-,071

-,105

,192

,864

12 separazione

-,168

,048

-,187

,851

Extraction Method: Principal Component Analysis. Rotation Method: Varimax with Kaiser Normalization. Rotation converged in 4 iterations. Cumulative Variance 93%

– il primo fattore (“vicinanza”) satura le risposte alle tavole che rappresentano esperienze positive di vicinanza di un genitore (Tav. 6 e 11) o di cooperazione ludica con i pari (Tav. 4 e 9); – il secondo fattore (“frustrazione”) satura le risposte alle tavole che mostrano situazioni in cui il personaggio-sé incontra limiti normativi dal genitore (Tav. 3 e 8), ma anche quella (Tav. 2) in cui si voleva rappresentare la consolazione materna ma è risultata più pregnante la ferita narcisistica; – il terzo fattore (“allarme”) satura le risposte alle tavole che raffigurano situazioni di stress per pericoli, per la presenza di personaggi aggressivi (Tav. 5 e 10) o di pericolo fisico per il quale occorre il sostegno paterno (Tav. 7); – il quarto fattore (“indipendenza”) satura le risposte alle tavole dove il personaggio-sé compie esperienze da solo o si separa dai genitori (Tav. 1 e 12). Conclusioni Il Coffy Test non ha come obiettivo la classificazione della tipologia d’attaccamento bensì un rapido esame delle rappresentazioni mentali che il bambino ha delle


LE RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLE FIGURE DI ATTACCAMENTO

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sue figure di attaccamento (e di sé) in situazioni particolarmente significative, ritenendo tali processi alla base del funzionamento psichico globale. Il test si è rivelato interessante per l’abbondanza del materiale proiettivo evocato, che si presta innanzi tutto ad una valutazione interpretativa, proficua per la conoscenza dello status psichico dei soggetti esaminati. In appendice sono riportate alcune risposte, relative a due tavole del test, che esemplificano la valenza indicativa del materiale proiettivo evocato. Almeno in base ai dati finora raccolti, non è possibile utilizzare il Coffy Test per confrontare l’attaccamento del minore verso uno o l’altro genitore, in quanto i risultati suddivisi per le due serie di tavole (con personaggio paterno e con personaggio materno) mostrano un’ampia variabilità. In questa prima fase di validazione del test è stato possibile rilevare che gli enunciati dei test che realizzano punteggi elevati risultano facilmente classificabili, essendo per lo più coerenti e caratterizzati da reazioni emotive chiare; al contrario, gli enunciati dei soggetti che ottengono i punteggi più bassi, sono più difficili da classificare perché spesso costituiti da resoconti incoerenti (poco aderenti al piano di realtà per l’emergere di contenuti interni disturbanti) e da reazioni emotive confuse. Questa differenza è analoga a quella descritta nella letteratura dell’attaccamento tra i modelli operativi interni dei soggetti sicuri e quelli dei soggetti insicuri: i bambini sicuri hanno una capacità di monitoraggio metacognitivo delle emozioni più avanzata dei bambini insicuri che presentano difficoltà nella “lettura” delle emozioni. La valutazione quantitativa del test fornisce un indice della qualità del funzionamento psichico, evidenziando nei punteggi più bassi le difficoltà di “lettura” cognitiva e/o emotiva delle situazioni raffigurate nelle tavole. Il Coffy Test unisce una tecnica proiettiva semplice, basata su situazioni significative, con una griglia di classificazione delle risposte, un sistema per l’attribuzione dei punteggi ed un campione di riferimento, pertanto potrebbe trovare un impiego clinico, da definire con ulteriori studi.

Riassunto I test proiettivi infantili più comunemente usati nei contesti clinici sono basati su teorie superate e sono privi di validazione statistico-scientifica. Per questo motivo abbiamo pensato di costruire un nuovo test, rapido e facile da usare. Il “Coffy Test” indaga le rappresentazioni mentali che i bambini hanno di sé e delle loro figure di attaccamento, considerate determinanti per lo sviluppo psichico del bambino, con criteri di valutazione quantitativa che consentono analisi statistiche. Sono descritti il sistema di scoring ed i risultati ottenuti in un campione di riferimento (140 soggetti). I risultati indicano possibile un uso clinico del test. Parole chiave Attaccamento – Psicodiagnosi – Test proiettivi – Validazione statistica.


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Appendice Esempi di risposte alla Tavola 2 (consolazione):

Figura 1. Tavola n. 2 consolazione.

– “è andato dalla mamma, perché nel tunnel c’era qualcosa che l’ha ferito, piange, si sente male perché si è ferito, è giù di morale” – (Insuccesso); – “cadendo si è fatta male, lo dice alla mamma ed è un po’ impaurita perché i genitori avevano detto che non ci doveva andare” – (Paura); – “si è fatto male e la mamma gli sta a chiedere dove è andato e si è fatto male, Coffy si sente in colpa perché sa che non doveva entrare in quella casa dove si è fatto male” – (Vergogna-Colpa); – “incontra una cagna più grande, che non conosce, e che lo aggredisce, perché sono di razze diverse, Coffy è impaurita, spaventata”– (Ostilità); – “mentre cammina nel tunnel non si è accorto che aveva un chiodo nella zampa nonostante un po’ di dolore, è disperato perché ha paura che forse un pidocchio o zecca che gli è entrato dentro e forse va a bersi il cuore e tutti gli organi vitali invece del sangue” – (Angoscia) .


LE RAPPRESENTAZIONI MENTALI DELLE FIGURE DI ATTACCAMENTO

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Esempi di risposte alla Tavola 11 (rispecchiamento): Figura 2. Tavola n. 11 rispecchiamento.

– “parla col padre ed è contenta perché è riuscita a sconfiggere il cane randagio, il padre le dice che è stata responsabile ed è fiero di lei. Coffy è felice per le belle parole del padre, si sente protetta” – (Benessere); – “il cane amico gli dice che vuole tornare a casa sua, Coffy è dispiaciuta perché lascia il cane amico, lo saluta con tante fusa ma piange molto perché si era affezionata”– (Attaccamento); – “Coffy è dispiaciuto perché è scappato e promette che non scapperà più” – (Insuccesso); – “Coffy sta conoscendo un ragazzo (l’altro cane), è contenta perché le piace” – (Sessualizzazione); – “Coffy ha paura che succederà qualcosa, il padre gli dice di rassicurarsi” – (Angoscia). Bibliografia Anastasi A. (1982), Psychological testing, New York, McMillan. Attili G. (2001), Ansia da separazione e misurazione dell’attaccamento, Milano, UNICOPLI Editore. Crittenden P.M. (1999), Attaccamento in età adulta, Milano,Raffaello Cortina Editore. Dosajh N.L. (1996), Projective tecniques with particular reference to inkblot tests, Journal of Projective Psychology and Mental Health, 3: 59-68.


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M. CARDI - L. LEONARDI - C. D’AMICO - S. BATTISTA

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 457-466

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Donne abusanti tra mito e realtà Female Sexual Offenders between myth and reality Loredana Petrone*, Serafino Ricci**

Summary The phenomenon of “abusing women” is not new, it exist now and ever, hidden between myths and stereotypes that describe traditionally “man as a sexual predator”. Discussing about sexual abuse acted by women means open eyes on unimaginable and unknown conditions, which go intimately to affect the kindness of “soul”. They are the same victims, children and adults, who let to emerge from the shadows of disbelief what has happened to them, beginning to speak, to reach understanding, and finally asking help. Keys words Female Sexual Offenders – Myth – Maternal instinct.

1. Introduzione Il fenomeno dell’abuso sessuale infantile è stato ampiamente riconosciuto in letteratura, soprattutto per quello che concerne il genere maschile (Denov, 2004; Finkelhor, 1984; Grubin, 1998; Mendel, 1995; Turton, 2008), anche perché nell’immaginario collettivo, raramente si associa l’idea di abuso sessuale al mondo femminile (Banning, 1989; Cromer, Goldsmith, 2010). La figura della donna che ci è stata trasmessa dalla storia e dalla cultura dei secoli passati, è quella di persona dedita, per “natura”, alla protezione e alla salvaguardia dei più piccoli. La donna è nutrimento, è cura, è accoglienza, è generosità, è risposta primaria ai bisogni fondamentali dei bambini. Non è culturalmente accettabile che la donna possa essere riconosciuta come autrice del più aberrante degli agiti: l’abuso sessuale verso i minori (Sgroi, Sargent, 1993). La sessualità, il piacere sessuale, la soddisfazione dei propri desideri sessuali: sono tematiche tradizionalmente associate al ruolo maschile. È solo l’uomo capace di perpetrare un abuso, soprattutto se si tratta di una violenza verso un minore. È convinzione comune che le donne siano incapaci di commettere un’aggressione sessuale verso un bambino. Si ha la percezione che esse siano sessualmente passive, ingenue ed inoffensive. È proprio per questo motivo che uno dei principali miti relativi all’abuso al femminile è che esso sia un fenomeno raro. E quando questa eventualità viene presa in considerazione, si minimizza l’accaduto rispetto agli effetti sulla vittima, consi* Professore

a contratto, Sapienza Università di Roma. Professore associato, Dipartimento di Scienze Anatomiche, Istologiche, Medico Legali e dell’Apparato Loco Motore, Sapienza Università di Roma. **


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derati meno dannosi o devastanti di un abuso al maschile (Condy et al., 1987; Denov, 2003a; Denov, 2003b; Gelinas, 1983; Robertiello, 1998; Sgroi, Sargent, 1993). Al contrario in ambito clinico emerge dai pazienti vittime di abuso al femminile che esso rappresenta un attacco ancor più confusivo e destabilizzante per la personalità del bambino e per il suo percorso evolutivo; in quanto, quando si è piccoli, si ha l’aspettativa inconscia che dovrebbe essere la “mamma” la prima persona a prendersi cura del bambino attraverso l’accudimento o la prima a cui rivolgersi nel caso in cui ci si faccia male. Ed è per questa ragione che l’abuso perpetrato da figure femminili è devastante e genera un maggior senso di disperazione rispetto a quando è un uomo a compierlo (Eliott, 1983; Ford, 2006). 2. Diffusione del fenomeno I dati relativi alla diffusione del fenomeno variano in base al disegno di ricerca, alla formulazione dei quesiti dello studio, alle definizioni utilizzate e alla popolazione considerata. Per questa ragione risulta problematico fornire delle percentuali affidabili della frequenza. Alcuni autori sono, però, concordi ad affermare che l’abuso perpetrato da donne rappresenta il 5-7% degli abusi sessuali sui minori (Faller, 1989; Finkelhor et al., 1990; Pierce, Pierce, 1985; Reinhart, 1987; Roane, 1992). Per comprendere la portata degli abusi sessuali ci si riferisce alle le stime di prevalenza e a quelle di incidenza. Le prime considerano il numero di individui (di solito adulti), che dichiarano di essere state vittime di un abuso, almeno una volta in un certo intervallo di tempo; le seconde servono a focalizzare la quantità di crimini registrati in un certo periodo di tempo, di solito, un anno. Tendenzialmente, quindi, si considerano studi self-report, interviste agli autori del reato o alle vittime (maschi o femmine), studi case-report, rapporti giudiziari (Gannon, Rose, 2008). In ambito internazionale, uno studio di particolare rilevanza (Denov, 2003), propone un confronto tra le varie ricerche presenti in letteratura, attraverso l’analisi di 15 studi e rapporti statistici, suddivisi, per comodità di analisi, in due categorie principali: self-report e case-report. Per ogni categoria principale sono state identificate tre popolazioni di studio: a) gli autori del reato sessuale, b) le vittime di sesso maschile e c) le vittime di sesso femminile. Rispetto alla prima popolazione di studio, un confronto tra i self-report e case report evidenzia un tasso di prevalenza dell’abusante donna del 58% e gli studi case report, che evidenziano una prevalenza variabile tra 1.2%-8%. Anche per quanto riguarda la popolazione di vittime di sesso maschile, dal confronto tra i self report e case report emergono risultati molto interessanti, infatti, dall’analisi dei dati emerge un tasso di prevalenza variabile tra il 42-78% per i selfreport, rispetto al 4- 37% dei case report (vedi Tavola 1).


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DONNE ABUSANTI TRA MITO E REALTÀ

Tavola 1. Vittime di sesso maschile (Denov, 2003). Autore

Case Report

Faller (1989) incluse le vittime abusate da uomo e donna assieme

37%

Pierce e Pierce (1985)

4%

Reinhart (1987)

4.2%

Roane (1992)

7.8%

Self Report

Allen (1990)

45%

Fritz, Stoll, Wagner (1981)

60%

Fromuth e Burkhart (1989)

72-78%

Groth (1979)

42%

Mendel (1995) incluse le vittime abusate da uomo e donna assieme

60%

Per la terza popolazione oggetto di studio, le vittime di sesso femminile, la differenza tra self report e case report è meno evidente. Le stime di autovalutazione riportano dei tassi di prevalenza leggermente superiori ai secondi, questi, però, rientrano, se si considerano gli abusi perpetrati da sole donne (e non in presenza di un co-autore uomo), tra le percentuali riferite in letteratura, variabili, cioè, tra l’1% e il 2.1% (vedi Tavola 2).

Tavola 2. Vittime di sesso femminile (Denov, 2003). Autore

Case Report

Faller (1989) incluse le vittime abusate da uomo e donna assieme

18%

Pierce e Pierce (1985)

1%

Reinhart (1987)

2.1%

Self Report

Allen (1990)

6%

Fritz, Stoll, Wagner (1981)

10%

La discrepanza indiscutibile tra gli studi self-report e quelli condotti sui case report, riflette la natura di questi due tipi di modalità di raccolta delle informazioni. I dati ricavati dai case report riflettono la percentuale di coloro che entrano in contatto, per denuncia o per condanna, col sistema giudiziario o col servizio sociale: questi dati potrebbero in parte riflettere i tabù che ruotano intorno a tale fenomeno, dal momento che non tutti gli abusi, soprattutto quelli perpetrati da donne, vengono segnalati ai servizi sociali o giudiziari. Al contrario, attraverso i self-report, è possibile individuare variabili personali che conducono al riconoscimento del fenomeno stesso, favorendo l’esplicitazione, da parte degli intervistati, di un maggior numero di informazioni rispetto alle altre metodologie. Questo accade soprattutto quando si esaminano tematiche molto intime e delicate, quali abusi subiti o agiti.


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L. PETRONE - S. RICCI

3. Esiti clinici degli abusi sessuali perpetrati da donne Studi hanno evidenziato come il 73% di vittime abusate da donne adulte consideri l’esperienza di abuso come sconvolgente e devastante (Dube et al., 2005; Johnson, Shrier, 1987). Gli esiti psicopatologici nelle vittime di tali abusi sono relativi a: abuso di sostanze, autolesionismo, ideazione suicidaria, tentativi di suicidio, depressione e rabbia. Sono stati riscontrati, inoltre, rapporti difficili con le donne, problemi rispetto al concetto di sé e di identità, difficoltà connesse alla sfera sessuale. L’abuso di sostanze sembra essere una strategia di coping comune tra le vittime di abuso sessuale: aiuta a reprimere i ricordi legati all’esperienze traumatica e a fronteggiare le emozioni spiacevoli quali senso di impotenza, bassa autostima, incapacità di fidarsi degli altri, rabbia, dolore (Denov, 2004). Si può presentare un abuso di alcool, droghe, farmaci, che inizia molto precocemente e che poi prosegue in età adulta (Ompad et al., 2005). La rabbia è una manifestazione emotiva riscontrabile in tutte le persone che hanno subito abuso e può condurre a desideri e a fantasie di vendetta verso chi ha tradito la propria fiducia. Non solo, ma secondariamente tale sentimento porta a difficoltà nelle relazioni sociali: le vittime hanno perso completamente la stima e la fiducia degli altri, arrivano ad odiare non solo i propri aguzzini, ma proiettano tale rabbia sulle persone intorno a loro (Denov, 2004). Oltre alle difficoltà nelle relazioni con le donne, spesso le vittime, evidenziano delle problematiche rispetto al proprio senso d’identità e al concetto di sé (Sardijan, Hanks, 1996). Alcune vittime di genere femminile riferiscono come da bambine, in seguito all’abuso, abbiano cercato in tutti i modi di negare la propria identità femminile, per paura di diventare abusanti come la loro perpetratrice. Per altre, tale negazione è presente ancora nell’età adulta, cercando in parte di assumere un aspetto “neutro”. Il 29% delle abusate, cerca di superare il trauma, diventando essa stessa abusante (Denov, 2004). Gli uomini abusati da una donna, invece, avvertono una sensazione di fallimento nel loro essere maschio: l’idea di essere abusati sessualmente da quello che viene tradizionalmente considerato il “sesso debole”, causa enormi disagi e umiliazione, mette in discussione il proprio senso di mascolinità. L’idea spesso presente e persistente negli uomini è che avrebbero dovuto potersi difendere da una donna, che in quanto uomini dovevano essere in grado di poter controllare un suo eventuale atto o comportamento abusivo. Gli uomini abusati dichiarano di vergognarsi di essere stati vittimizzati da una donna tanto da nascondere o negare l’accaduto (Denov, 2004). Altri uomini, invece, sviluppano, soprattutto nella fase adolescenziale, come reazione alla propria esperienza di abuso, un comportamento iper-maschile, per mostrare a sé e agli altri, in particolare alle donne, di essere nonostante tutto un uomo: attività sportive aggressive e competitive, utilizzo di stupefacenti, eccessiva attività sessuale con ragazze più giovani e inesperte, alle quali mostrare le pratiche apprese attraverso l’abuso, per poterne fare un vanto con chi non ha ancora approcciato all’attività sessuale (Lishak, 1994). La sessualità è uno degli aspetti direttamente collegati all’abuso, ma anche alla percezione di se stessi e degli altri a seguito dell’esperienza traumatica. La maggior parte delle vittime, di entrambi i sessi, evidenziano un diverso grado di disagio nell’intimità sessuale (Denov, 2004; Eliott, 1993; Ford, 2006). Infine, la maggior parte delle vittime, di entrambi i


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sessi, riferiscono di provare una certa paura di poter, a loro volta, abusare sessualmente di bambini: in particolare, molti individui manifestano tale ansia nei confronti dei propri stessi figli. La paura di poter diventare abusanti nei confronti dei propri figli da parte delle vittime di abuso infantile perpetrato da una donna, impedisce, talvolta, ai genitori con un passato traumatico, di trascorrere del tempo con i propri bambini: le vittime raccontano di rendersi conto che la paura di abusare i propri figli è talmente grande da evitare apertamente di stare in loro compagnia, pur desiderandolo. Per lo stesso motivo, alcune donne decidono consapevolmente di non avere figli (Denov, 2004; Elliott, 1993; Ford, 2006). 4. Caso clinico Presentazione A. è una donna di 22 anni, nubile. Lavora part-time in un grande magazzino vicino Roma per mantenersi agli studi. La paziente mi è stata inviata in seguito ad un “attacco di panico”, successivo alla paura di essere licenziata. Durante l’età adolescenziale effettua un percorso di sostegno psicologico, in seguito a crisi di ansia e sintomi somatoformi, con una latenza degli abusi sessuali subiti dalla madre affidataria, ma mai denunciati. Anamnesi individuale I suoi racconti sono incentrati sui maltrattamenti subiti sin dalla più tenera età dalla madre naturale. Ricorda con chiarezza che la sua mamma naturale dal parlarle dolcemente e coccolarla, così come fa ogni mamma del mondo, improvvisamente aveva strane crisi, tanto che non riusciva più riconoscerla. La mamma si accaniva contro di lei, facendole e dicendole cose orribili. Ne sono testimonianza le numerose cicatrici, che mostra, presenti sulle braccia, sulla schiena e sulle gambe. Le sembrava, infatti, di vivere in un incubo, tant’è che per sopravvivere aveva imparato, sin da piccolissima, ad immaginare di essere in un’altra casa, con un’altra mamma e con un papà buono e presente, in modo da non provare dolore. Il papà, di contro, non lo ricorda affatto, perché è andato via di casa quando lei era piccolissima. All’età di nove anni scappa di casa, per la prima volta, credendo di potersela cavare da sola, vivendo per strada o dormendo da persone appena incontrate, anche perché era di gran lunga meglio rispetto allo stare con sua madre. Ad 11 anni viene ricoverata in un reparto di Pediatria in seguito ad una sintomatologia somatomorfa acuta. All’età di 12 anni intervengono i Servizi Sociali, collocandola in Casa Famiglia e dispongono per il suo affidamento. Il primo affido, avvenuto quando aveva circa 14 anni, risulta essere un ulteriore fallimento: “La nuova famiglia non aveva niente che non andasse. Il problema ero io: avevo dentro così tanta rabbia, una tale furia che andavo sempre allo scontro ed è per questo che decisero di liberarsi di me”. All’età di 15 anni viene assegnata ad una nuova famiglia. Dopo sei mesi dall’affido, la paziente viene coinvolta in giochi erotici solo dalla madre affidataria, che durano fino all’età di 23 anni quando riuscirà ad andare via di casa. All’età di 17 anni nuovo ricovero ospedaliero


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in Pronto Soccorso in seguito a crisi di ansia con autoaggressività, essendosi sentita responsabile di aver fatto del male alla sua nuova mamma e di averle scombussolato la vita, probabilmente perché è sempre stata “troppo coccolona” con lei, per cui si reputa responsabile se le sono venute in mente certe fantasie. Oltre a ritenersi responsabile degli abusi, teme di non essere creduta qualora ne parlasse, perché nessuno crederebbe al fatto che una mamma, anche se affidataria, possa abusare della propria figlia. A 21 anni ha il suo primo rapporto sessuale con una donna. Inizia una serie di relazioni sentimentali e sessuali di cui la maggior parte con donne più grandi di lei e “problematiche” (di cui lei si prendeva cura). Ha problemi nel lasciarsi andare sentimentalmente. A 22 anni riesce a staccarsi dalla sua famiglia affidataria andando a vivere in un appartamento con altre ragazze. In tale occasione si manifesta il primo episodio bulimico (con condotta di eliminazione). A. ricorda di aver pensato “in effetti è facile fare così, posso mangiare e poi vomitare per non ingrassare”; per lei era importante mantenere il suo peso, ma si abbuffava per riempire il senso di vuoto che avvertiva dentro di sé. Le abbuffate erano vissute come un momento che dedicava a se stessa, una gratificazione subito seguita però dal vomito, vissuto invece con grande senso di colpa. Il DCA dura fino ai 22 anni circa. All’età di 22 anni a causa della paura di essere licenziata ha un attacco di panico che la sconvolge e paralizza. All’attacco di panico seguono evitazioni (luoghi chiusi, scene di morte nei film), paura di morire, di perdere il controllo e di impazzire. Questo periodo è caratterizzato anche da malessere fisico (sensazione costante di avere la febbre, rush cutanei, forti dolori addominali). Inquadramento diagnostico La paziente soddisfa i criteri per la diagnosi di un Disturbo Borderline di Personalità. Nello specifico, emergono un quadro di relazioni interpersonali instabili ed intense in cui la paziente compie sforzi disperati di evitare un abbandono, alterazione dell’identità, impulsività in aree potenzialmente dannose per il soggetto (comportamento sessuale promiscuo, abbuffate), instabilità affettiva dovuta a marcata reattività dell’umore, sentimenti cronici di vuoto, sintomi dissociativi transitori. Gli elementi del nucleo basico del sé risultano essere: – Sé vulnerabile: percezione della paziente di poter essere facilmente sfruttata e raggirata per il suo bisogno di essere amata; – Stato di minaccia: la paziente percepisce se stessa come vulnerabile ed il mondo come minaccioso, pericoloso, abbandonino; – Stato di vuoto e di anestesia emotiva: quando la paziente non tollera la pressione della sua vulnerabilità e del senso di colpa, si distacca da tutto e tutti entrando in uno stato di vuoto che lei descrive come un muro bianco paralizzante. Tale senso di vuoto è percepito dalla paziente come una totale e intollerabile mancanza di scopo, per cui solitamente in questi momenti ha pensieri suicidari o mette in atto comportamenti impulsivi. Trattamento Il primo obiettivo è stato quello di favorire un clima di accoglienza e di fiducia tale da stipulare una buona alleanza terapeutica. Grazie alla alleanza terapeutica sono emersi, per la prima volta, i vissuti di abuso, messi in atto dalla madre affidataria


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verso la paziente “ … lei non mi ha violentata, io sono sempre stata consenziente, tranne qualche volta, in cui non mi sono proprio opposta, ma ho esternato un po’ di titubanza, perché lei era troppo invasiva”. L’accoglienza della storia della paziente, dei suoi vissuti, ha permesso il passaggio al secondo obiettivo. C’è da sottolineare, però, che l’accoglienza di una storia di abuso che vede come protagonista una donna, non è facile per il terapeuta, il cui vissuto emozionale impatta con la costruzione dello stereotipo comune che la donna in quanto “istinto materno” non può abusare di un bambino o un adolescente. Il secondo obiettivo è stato quello di ridurre la sintomatologia ansiosa-depressiva. Strategicamente questo è stato effettuato con la raccolta anamnestica e con la ricostruzione della storia di vita della paziente. Di grande importanza si è rivelata in questa fase una costante validazione emotiva nel condividere lo stato mentale della paziente. L’aumento della consapevolezza della paziente ha provocato un incremento della sua sofferenza. La paziente è arrivata da me “anestetizzata emotivamente” e con le sue strategie per far fronte ai suoi sentimenti di vuoto che, per quanto disfunzionali, le permettevano di fronteggiare il malessere. L’aver preso consapevolezza del suo funzionamento e del suo stato mentale da una parte le ha permesso di sentirsi compresa e meno sola, dall’altra ha accresciuto il suo malessere. Il terzo obiettivo prevedeva l’auto-osservazione e la legittimazione del suo stato mentale ed un aumento della sua consapevolezza sul proprio stato mentale. Le tecniche usate sono state: – Focus sul “qui ed ora”, su aree problematiche emotivamente meno intense (realtà quotidiana della paziente, problemi comportamentali specifici). – Individuazione e denominazione degli stati problematici (per creare un lessico comune) e trattamento in vivo degli stessi con ricostruzione di ABC in seduta per permettere alla paziente di prendere contatto progressivamente con le sue difficoltà attuali e di connettere i comportamenti alle emozioni. – “Riassunto delle puntate precedenti”: utilizzo di promemoria per rievocare le tematiche affrontate nel corso delle sedute al fine di permettere alla paziente di sentirsi all’interno di una relazione stabile e coerente. – Tecniche di validazione, condivisione e accettazione con frequenti momenti di sintesi. Il quarto obiettivo è stato quello di lavorare sulla gestione non regolata del vuoto. Le tecniche utilizzate: – Apprendimento di strategie di coping per superare il momento con attività distraenti (es. rilassamento, preghiera, attività fisica) oppure prendendosi cura di sé stessa con i 5 sensi. In questa fase è stata discussa la possibilità di telefonare alla terapeuta in casi di assoluta emergenza, chiarendo che ricorrere alla terapeuta in momenti di crisi acuta non implica diventare dipendenti da lei o dalla terapia (timore espresso dalla paziente). Infine, è stato condiviso con la paziente il funzionamento degli episodi dissociativi che sperimenta quando avverte il senso di vuoto. A tal fine abbiamo scritto dei promemoria da utilizzare in quei momenti per imparare a “sentire” l’emozione del momento senza lasciarsene sopraffare.


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Esiti Attualmente il percorso si svolge in un clima di fiducia reciproca e collaborazione in una relazione stabile. La paziente è in grado di gestire problemi comportamentali specifici cogliendo il nesso tra i suoi comportamenti e le sue emozioni. Non si sono più manifestati comportamenti impulsivi in quanto è più capace di gestire i momenti di “tempesta emotiva” e la sensazione di vuoto grazie alle strategie di coping apprese e a capacità metacognitive più evolute. Anche le relazioni interpersonali sono lievemente migliorate soprattutto per quanto riguarda il rapporto con l’attuale compagna. Nella fase attuale della terapia stiamo iniziando a lavorare sul concetto di valore personale. Ulteriori obiettivi futuri riguardano la creazione di nuovi schemi di relazione interpersonale e l’analisi della molteplicità delle rappresentazioni del sé per esplorare gradualmente i processi cognitivi ed emotivi che sottendono i comportamenti caotici ed il senso di vulnerabilità personale. 5. Conclusioni In un percorso delicato e difficile quale l’abuso perpetuato da una donna, l’elemento fondamentale risulta essere l’accettazione incondizionata del paziente e della sua verità. Questo momento è un’epifania che consente al paziente di scendere in profondità, in una ricerca personale e una riflessione continua su se stesso, superando quel senso di disorientamento, legato ai miti e agli stereotipi che agiscono per impedire il riconoscimento e la denuncia degli abusi sessuali commessi dalle donne. Spesso le vittime di abuso femminile sono delle persone volubili e non pienamente consapevoli dei propri sentimenti di rabbia, impotenza e paura. Di conseguenza, in situazioni di conflitto interno o esterno la loro esperienza è spesso caratterizzata dalla presa di consapevolezza di non avere nessun controllo sulla propria vita emotiva, fanno ben poco per sfuggire agli stati d’animo negativi che gli impediscono di riconoscere un sentimento positivo dentro e di sviluppare a pieno la propria autoconsapevolezza, intesa come una continua attenzione riflessiva verso la propria esperienza. Il controllo delle emozioni comporta la capacità di domare i propri stati interiori e canalizzare i propri impulsi e le proprie risorse verso mete raggiungibili in modo da potenziare la propria autoefficacia. In alcuni casi le persone non riescono a tradurre in comportamenti efficaci ciò che credono sia giusto fare, in altri termini è come se nonostante possiedano in sé tutte le potenzialità per affrontare situazioni difficili non riescono a metterle in pratica. In questi soggetti sembra che manchi la capacità critica di mettere in atto pensieri autoriflessivi sui propri comportamenti, e questo abbasserebbe il livello delle performance messe in campo. In altri termini il senso di bassa autoefficacia spesso dipende dalla mancanza di senso critico con il quale un individuo è in grado di valutare le proprie risorse interiori e le proprie esperienze di vita. Spesso il senso di vuoto diviene un modo per giustificare la propria solitudine, e la solitudine diventa una dimensione necessaria ad allontanare la possibilità di vivere delle relazioni o dei legami affettivi che potrebbero essere potenzialmente evocativi del proprio senso di inadeguatezza ed impotenza o del timore che possa agire ciò che hanno sperimentato.


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Riassunto Il fenomeno dell’abuso al femminile non è nuovo, esiste da sempre, nascosto dietro miti e stereotipi tradizionali che vogliono solo l’uomo predatore sessuale. Affrontare il tema della donna autrice di abuso sessuale vuol dire aprire gli occhi su condizioni inimmaginabili e sconosciute, che pure vanno a colpire la sensibilità più profonda dell’anima. Sono le stesse vittime, bambini e adulti, che cominciano ad uscire dall’ombra dell’incredulità di quanto è loro accaduto, per poter cominciare a parlare, per poter cominciare a capire, ed infine per chiedere aiuto. Parole chiave Donna abusante – Mito – Istinto materno.

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Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2012), vol. 79: 467-478

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Sport e ADHD: un Campus Estivo residenziale per adolescenti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività Sport and ADHD: a residential Summer Camp for adolescents with Attention Deficit Hyperactivity Disorder Luciano Luccherino*, Sara Pezzica**

Summary The Summer Camps are emerging as a means to increase social support and improve children’s relational attitudes. The aim of this paper is to describe two experiences of a seven days Residential Summer Camp for adolescents with Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD). Participants consisted in 17 males ranging in age from 11 to 16 years and coming from several regions of Italy. The program included training in motor skills and sports ( Judo, Archery, Climbing, Trekking) and recreational activities. Professionals were trained to foster self-esteem, encourage positive relationships and menage conflictual situations. Group therapy sessions were provided to explore and reframe conflict, and to gain insight and self-discovery. Will be reviewed key aspects of sports chosen for the Summer Camp, and the theoretical framework that inspired our choice. Furthermore we will discuss problems encountered in the management of the group and action taken to resolve them. Key words Summer Camp – ADHD – Sport – Psychoeducation.

Introduzione Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD) è un disturbo neurobiologico ad esordio in età infantile caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività motoria, la cui prevalenza in Italia è stimata tra l’1,5% e il 7,1% della popolazione in età scolare (Mugnaini, Masi e Brovedani, 2006; Zuddas, Marzocchi e Osterlaan, 2006). Sul piano neuropsicologico è caratterizzato da un deficit nei processi autoregolativi che comporta una alterata elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali (SINPIA, 2006). Le ricerche di neuropsicologia cognitiva hanno molto spesso riscontrato che bambini con ADHD presentano problemi attentivi soprattutto in compiti che richiedono l’applicazione di processi altamente controllati e in * Neuropsichiatra Infantile, Direttore U.O.C. NPI USL 8 Arezzo, AIDAI Toscana, Dipartimento di Salute Mentale. ** Psicologa Psicoterapeuta, Presidente AIDAI Toscana, Dipartimento di Psicologia Università di Firenze.


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particolare nello svolgimento di compiti prolungati nel tempo o in attività che richiedano una discreta dose di flessibilità cognitiva e uso di strategie (Shallice et al., 2002). I bambini con ADHD hanno un comportamento scarsamente controllato, reagiscono alle stimolazioni ambientali senza una adeguata riflessione. Tali modalità possono essere spiegate con un deficit di inibizione comportamentale (Barkley, 1997), oppure con una difficoltà a sostenere un livello minimo di attesa con necessità di ricompensa immediata (Sonuga-Barke, 1996). Raramente l’ADHD si presenta in forma isolata, più spesso risulta in comorbilità con altri disturbi psichiatrici (Biederman, Newcorn e Sprich, 1991). I disturbi esternalizzanti (Disturbo Oppositivo-Provocatorio ODD, Disturbo della Condotta CD) interessano circa il 40-50% dei bambini con ADHD; i disturbi dello spettro ansioso (Disturbo Ossessivo-Compulsivo OCD, Disturbo d’Ansia Generalizzato GAD) si manifestano in circa il 30% dei casi mentre quelli dell’umore, in particolare il Disturbo Bipolare, si presentano con una frequenza intorno al 10% (Masi et al., 2005). Oltre alle comorbilità sopracitate esistono, come costante corollario dell’ADHD, alcuni importanti correlati disfunzionali nella sfera personale e sociale di questi bambini, che amplificano e sovradimensionano la gravità del disturbo. Si tratta infatti di bambini la cui personalità presenta importanti nuclei di tipo depressivo con abbassamento dell’autostima, sentimenti di inadeguatezza e di incapacità, percezione di sé estremamente negativa con vissuti di colpevolezza e cattiveria; vivono sovente una sorta di emarginazione sociale venendo esclusi dalle attività del gruppo dei pari, hanno un numero esiguo di legami amicali poiché spesso considerati “insopportabili”, la loro carriera scolastica risulta spesso fallimentare sia sul piano del rendimento (anche in considerazione della frequente associazione con un Disturbo dell’Apprendimento) che su quello comportamentale (rapporti, sospensioni). I Summer Camps Numerose sono ormai le esperienze di campi estivi rivolti a bambini e adolescenti con ADHD e altre patologie correlate (DSA, OCD) presenti in altre nazioni, soprattutto negli USA e in Canada. Caratteristica comune a tutti i campi è la strutturazione di attività sportive, ludiche e ricreative con lo scopo di incrementare le abilità sociali, accrescere l’autostima e migliorare il controllo dei comportamenti disturbanti. Le attività proposte e l’organizzazione variano: Camp Buckskin (Minnesota, www.campbuckskin.com) propone un programma della durata complessiva di un mese comprendente il tiro con l’arco e la carabina, il kayak e il nuoto integrati con momenti espressivo-artistici e didattici (arti e mestieri, lettura, studi ambientali) gestite da personale formato, con rapporto adulto/ragazzi di 1/3. Obiettivo dichiarato di Camp Buckskin è migliorare la fiducia dei ragazzi nelle proprie capacità ed aiutarli ad assumere la responsabilità di se stessi. Oltre alle attività sportive viene prestata particolare cura al monitoraggio e sviluppo di competenze trasversali quali ad esempio la capacità di instaurare e mantenere amicizie o di utilizzare


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in modo appropriato le abilità di comunicazione interpersonale. Per ogni ragazzo vengono definiti obiettivi specifici sui quali lavorare in modo non intrusivo durante tutta la giornata. L’idea è infatti quella di utilizzare le occasioni di apprendimento nell’hic et nunc della situazione, direttamente quando se ne verifica la possibilità. Camp Huntington (High Falls, NY; www.camphuntington.com) offre un programma comprendente attività di trekking, nuoto e altri sport unitamente a momenti espressivi con teatro, lavorazione del legno, video e musica. In Canada, nella regione dell’Ontario, si trovano il Camp Kirk (www.campkirk. com), rivolto a bambini tra i 6 e i 13 anni organizzato con attività di tiro con l’arco, arti marziali, arrampicata sportiva e attività pratiche (ceramica) e il Camp Kodiak (www.campkodiak.com) aperto a ragazzi tra i 6 e i 18 anni che propone arrampicata, kayak, nuoto, arti marziali unitamente ad un programma di tutoring individuale o in piccolo gruppo sulle difficoltà di apprendimento. L’intervento più conosciuto e validato da un punto di vista scientifico è il Summer Treatment Program (STP, Pelham e Hoza, 1997), organizzato dal Centro per bambini e famiglie dell’Università di NewYork, Buffalo. Il Campus si svolge nei mesi di luglio-agosto ed ha un durata di 8 settimane interamente dedicate a bambini o adolescenti con diagnosi di ADHD e comorbidità, di età compresa tra 6 e 11 anni o tra 11 e 16 anni. I gruppi sono composti di 15 ragazzi supervisionati da 4 clinici. Il trattamento include l’utilizzo di un sistema a punti personalizzato per ogni membro del gruppo con componenti sia di ricompensa che di costo della risposta, un training di problem solving di gruppo, indicazioni su come gestire le difficoltà di apprendimento, migliorare l’attenzione e l’autostima e un sistema di feedback giornaliero. I piani di trattamento sono continuamente monitorati ed eventualmente modificati. I genitori sono parte integrante del Summer Treatment Program e partecipano a gruppi settimanali di Parent Training finalizzati alla promozione di abilità per la riduzione dei problemi comportamentali e per migliorare le possibilità di generalizzazione dei benefici ottenuti dai bambini nell’STP. Uno studio pilota condotto su 19 adolescenti con ADHD, che hanno partecipato al STP nell’estate del 2009, ha rilevato un moderato livello di miglioramento nei partecipanti al trattamento nelle sei aree obiettivo di intervento: problemi di condotta, devianza diretta all’adulto, funzionamento sociale, disattenzione/disorganizzazione, umore, abilità scolastiche (Sibley et al., 2011). Cambiamenti a breve termine nei comportamenti problematici sono stati riscontrati anche in un STP della durata di tre settimane realizzato in Giappone (Yamashita et al., 2009). Le attività sportive e l’ADHD La frequente condizione di emarginazione sociale legata alla scarsa comprensione, da parte dei coetanei e adulti, di alcuni comportamenti problematici, rappresenta un ulteriore fattore di rischio per lo sviluppo armonico dei ragazzi con ADHD. Al contrario, la condivisione delle proprie difficoltà di autocontrollo e autoregolazione con altre persone e la sperimentazione di comportamenti alternativi socialmente ac-


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cettabili può agire nella direzione opposta, favorendo l’integrazione e aumentando le capacità di socializzazione e di adattamento di questi bambini. In tal senso la pratica del Judo può rappresentare, a nostro parere, un valido supporto e incrementare i fattori di resilienza interni di questi bambini. Il Judo, codificato da Jigoro Kano nel 1882, è una disciplina per la formazione dell’individuo dal punto di vista morale e caratteriale. La parola Judo è composta da due caratteri giapponesi: 柔 (jū, cedevolezza) e 道 (dō, via) e significa quindi via della cedevolezza; insegna dunque che il modo per vincere una forza nemica non è l’opposizione ma il suo contrario, cioè cedervi per sfruttarla e dirigerla per il proprio fine. I principi fondamentali del Judo sono il “Seiryoku zen’yo” cioè il miglior impiego dell’energia fisica e mentale e lo “Jita kyo’ei”, cioè la crescita e il progredire insieme. Nel Judo l’abilità non è al servizio del combattimento ma è il mezzo per giungere alla condizione mentale del “miglior impiego dell’energia”. Il significato intrinseco del Judo presuppone dunque non tanto un antagonismo esasperato nei confronti dell’avversario, quanto il rispetto e l’accettazione del proprio limite nella prospettiva più generale dell’integrazione di parti più deboli di sé. Dal punto di vista neuropsicologico e psicologico, nella pratica del Judo vengono attivate alcune competenze che spesso risultano compromesse nei bambini con ADHD: armonia tra corpo e mente, capacità di autocontrollo e gestione dell’aggressività, senso del rispetto delle regole e dei turni, accettazione della frustrazione, riconoscimento del limite, tensione verso il miglioramento personale, capacità attentive, programmazione motoria, armonizzazione e finalizzazione dello sforzo, modulazione della forza fisica e mentale, rispetto dell’altro (“gli sport di combattimento orientali tendono a ridurre le tendenze violente e a dominarle”; Becker, 1982). In uno studio di Zivin et al. (2001) condotto su 60 ragazzi di scuola secondaria inferiore che presentavano comportamenti problematici, gli insegnanti hanno riscontrato significativi miglioramenti nei livelli di impulsività con riduzione dei comportamenti socialmente inappropriati e maggiore accettazione delle regole in seguito a un ciclo di 30 lezioni di Judo. Più in generale le arti marziali sembrano essere un ausilio per promuovere la concentrazione e ridurre l’impulsività richiedendo ai ragazzi di focalizzarsi intensamente sulla propria attività fisica, seguire comandi verbali e visivi, il tutto in un ambiente in cui la disciplina e il rispetto sono la base portante (Woodward, 2009). Sulla medesima linea di pensiero si collocano altre attività sportive ed educative quali il tiro con l’arco, l’arrampicata sportiva e il trekking. Nel tiro con l’arco (Kyudo “Kyu” arco, “do” via, la Via dell’arco), inteso come pratica non agonistica, ciò che conta è la bellezza, l’eleganza e la fluidità del movimento. Il segreto del Kyudo è racchiuso nella sua disciplina: un buon tiratore è colui che raggiunge mentalmente il bersaglio prima della sua freccia. Per raggiungere questa armonia occorrono concentrazione, libertà di pensiero e controllo motorio. Il colpo perfetto nel Kyudo non è quello che colpisce il centro del bersaglio, ma quello in cui la freccia può dirsi aver raggiunto il centro del bersaglio prima di essere scoccata. La qualità del tiro comprende infatti ben altre qualità d’animo come la cortesia, la pietà, la moralità e la non-aggressivita’. Nel Kyudo, la qualità del tiro è indicata visualiz-


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zando l’atteggiamento e il comportamento. Un buon arciere di Kyudo è una persona che mantiene la compostezza e la tolleranza anche in momenti critici e di grande conflitto. A nostro giudizio, nei bambini ADHD, questa disciplina può stimolare il controllo della successione degli impegni muscolari, il monitoraggio della stabilità dell’intero corpo e favorire il restringimento del focus attentivo. L’arrampicata sportiva è una disciplina “closed”, in cui cioè le condizioni sono relativamente più stabili rispetto ad esempio all’arrampicata alpinistica in cui sia il clima che il percorso possono modificarsi e presentare variabili difficilmente prevedibili. Nel nostro Campus è stata praticata su una parete verticale di circa 4 metri di altezza attrezzata con chiodi e appigli artificiali. La disposizione del percorso di salita era modificata ogni giorno. Venivano in tal modo sollecitate le capacità di risolvere i problemi mediante processi di route finding (ricerca della via), allenando cioè i ragazzi a individuare il percorso migliore di arrampicata (Boschkera, Bakker e Michaelsa, 2002). Nell’arrampicata sportiva sono infatti fondamentali sia i fattori di tipo cinestesico propriocettivo di agilità, equilibrio e movimento finalizzato a uno scopo ben preciso, sia quelli di tipo cognitivo: per scegliere il percorso migliore è fondamentale anticipare la sequenza dei movimenti necessari e successivamente verificarne l’efficacia (conseguenze); durante la salita è necessario mantenere un adeguato livello di attenzione, memorizzare i passaggi e gestire lo sforzo (Sánchez e Torregrosa, 2005). Da un punto di vista emotivo occorre una costante autoregolazione per gestire sia le sensazioni di paura collegate ai passaggi più complessi, sia l’eccitazione e il desiderio di raggiungere velocemente la cima del percorso. Infine, oltre a risorse personali, l’arrampicata attiva anche il senso della fiducia in sé e nell’altro al quale è affidata la propria sicurezza e del quale a propria volta si è responsabili. Gli obiettivi specifici sono stati adattati alle potenzialità di ciascun ragazzo. Il Trekking consiste in un viaggio a piedi verso una destinazione sconosciuta. Con il Trekking il ragazzo ha la possibilità di esplorare e incuriosirsi nella ricerca di nuovi luoghi e sviluppa il senso dell’orientamento. In tale contesto l’allenamento viene inteso come strumento per aumentare la resistenza psicofisica valorizzando i concetti di sforzo e perseveranza. In sintesi occorre fare della fatica una virtù. Il Trekking praticato in gruppo presuppone inoltre la necessità di rispettare il ritmo e il tempo degli altri. Il raggiungimento di un traguardo, che sia l’esecuzione di una buona tecnica nel Judo, di un buon tiro nell’arco, l’afferrare un appiglio lontano nell’arrampicata o il raggiungere una vetta nel Trekking, contribuisce a migliorare la fiducia e la stima in noi stessi e ci rende consapevoli delle nostre potenzialità e possibilità. Il campus estivo “Judo e avventura” L’estate rappresenta un periodo ottimale in cui i ragazzi possono frequentare gruppi di coentanei per praticare attività sportive o per esperienze di tipo ludico. Questo consente ai ragazzi di esercitare più intensivamente le loro abilità sociali nel-


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la relazione con i pari e con gli adulti. Tali esperienze risultano tuttavia non sempre fruibili da parte di ragazzi con ADHD a causa del loro comportamento disturbante che interferisce con i loro processi di socializzazione attivando negli altri risposte di rifiuto o esplusione (Nixon, 2001). Inoltre i comportamenti associati con l’ADHD possono favorire legami di amicizia con coetanei devianti che, a loro volta, possono rinforzare i comportamenti negativi (Bagwell et al., 2001), Il nostro progetto è nato nell’ambito di una riflessione teorico-clinica sulla condizione di isolamento relazionale che i bambini con ADHD sperimentano nel corso della loro crescita (Luccherino e Pezzica, 2009) e si è concretamente realizzato grazie alla sinergia dell’Associazione Italiana Famiglie ADHD (AIFA), l’associazione Il Cerchio e l’Associazione Italiana Disturbi di Attenzione e Iperattività (AIDAI) regione Toscana. Dal 2009 si è svolto annualmente, nel mese di luglio, un Campus estivo denominato “Judo e Avventura” di tipo residenziale rivolto ad adolescenti maschi di età compresa tra 11 e 16 anni con diagnosi certificata di ADHD in terapia presso varie strutture del SSN o private. Programma Giornaliero Il Programma Giornaliero è stato suddiviso in una parte mattutina dedicata alle attività strutturate di Judo, Arrampicata, Tiro con l’Arco, e una parte pomeridiana con escursioni nei boschi, attività ricreative di gruppo (giochi con acqua, caccia al tesoro, giochi di ruolo) e momenti non strutturati in cui i ragazzi potessero auto-organizzarsi in attività di gioco libero. Sono stati inoltre previsti incontri di gruppo con i ragazzi coordinati da due psicoterapeuti al fine di rielaborare le difficoltà incontrate nel percorso di socializzazione e adattamento e permettere l’emergere di potenzialità ancora inespresse. Partecipanti Le prime due edizioni (2009 e 2010) del Campus “Judo e Avventura” hanno coinvolto complessivamente 17 adolescenti maschi. Il campione era costituito: nella prima edizione (2009) da 11 ragazzi con età media di 13,8 anni (range 11,10-14,10) mentre nell’edizione successiva da 11 ragazzi (di cui 5 già presenti nell’edizione precedente) con età media 14,6 (range 12,2-15,10). In entrambe le edizioni i ragazzi provenivano da varie regioni italiane (Grafico 1). Nell’edizione 2009 solo due ragazzi (18%) presentavano un ADHD puro, gli altri nove (82%) ADHD in comorbilità. Tra le patologie in comorbilità il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) era presente nel 55% dei casi, mentre il 33% del campione mostrava un Disturbo dell’Umore. Sei ragazzi (54%) assumevano terapia farmacologica varia (Metilfenidato, Atomoxetina, Stabilizzanti dell’umore e Neurolettici atipici).


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Grafico 1

Nell’edizione 2010 non erano presenti ADHD puri. Il DOP interessava il 54% dei ragazzi, mentre un Disturbo dell’Umore il 27%. Anche in questa edizione il 54% dei ragazzi assumeva una terapia farmacologica varia. L’edizione 2010 si è svolta nella prima settimana di luglio e ha visto la partecipazione di 11 ragazzi. Tra i partecipanti i cinque ragazzi già presenti nell’edizione precedente sono stati reinseriti su loro specifica richiesta; questo rappresenta, a parere di chi scrive, un buon indice del successo dell’iniziativa. È anche opportuno sottolineare come i cinque ragazzi “anziani” hanno mostrato, a distanza di un anno, una migliore gestione dei loro comportamenti problematici. Durante lo svolgimento del Campus due ragazzi hanno concluso l’esperienza anzitempo: in un caso il ragazzo è stato allontanato su decisione dell’equipe degli operatori a causa di gravi comportamenti discontrollati e aggressivi, nell’altro è stata una scelta spontanea del ragazzo perchè consapevole delle proprie difficoltà a gestire la sua componente impulsiva e provocatoria. Per entrambi il Campus è risultato dunque non ancora adeguato alle loro capacità di autocontrollo e fonte di elevati stimoli stressanti. L’incontro di gruppo Un interessante indirizzo di ricerca orientato alla comprensione delle difficoltà di socializzazione dei ragazzi con ADHD ha focalizzato l’attenzione sulle capacità di Social Perspective Taking (SPT), ovvero l’abilità di comprendere le situazioni sociali dal punto di vista di un’altra persona (Selman, 1971). È stato riscontrato che bambini con ADHD possiedono abilità di SPT meno sofisticate nei vari livelli di problem solving di tipo sociale rispetto a bambini che non presentano tale disturbo (Cohen, Kershner, Wehrspann, 1985) e generano un minor numero di strategie sia di tipo cooperativo che di auto-trasformazione (Marton et al., 2009).


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Alcuni autori hanno ipotizzato che il deficit a livello delle abilità di SPT sia un fattore che accomuna ragazzi con ADHD con ragazzi con Disturbo della Condotta (DC) ma con differenze sostanziali nei meccanismi di base (Greene et al., 1996). Secondo Hoza et al. (2005), ragazzi con DC tendono a sovrastimare le intenzioni aggressive da parte dell’altro creando in questo modo relazioni sociali tese, che a loro volta si traducono in un minor numero di possibilità di esercitare le loro SPT e le abilità sociali. D’altra parte anche ragazzi con ADHD possono avere relazioni sociali difficili, ma questo potrebbe essere ricondotto ad un deficit nelle abilità di inibizione sia cognitiva che comportamentale e nel funzionamento esecutivo in generale che li spinge ad agire senza aver avuto il tempo necessario per processare le informazioni sociali, o considerare i pensieri e sentimenti di coloro che li circondano (Barkley, 2006). Si è pertanto ritenuto opportuno fornire ai ragazzi uno spazio all’interno del quale poter pensare la propria esperienza, dare voce ai propri pensieri ed esprimere le proprie emozioni. In tal senso il gruppo si configura come un luogo in cui il vissuto relazionale si modula continuamente attraverso un feedback emotivo tra i partecipanti. Il terzo giorno del Campus, in orario serale, si è tenuto il gruppo dei ragazzi condotto da due facilitatori specializzati nella psicoterapia. I ragazzi sono stati concordi nell’esplicitare la difficoltà a stare insieme senza litigare: “Siamo squadre, si dovrebbe stare insieme invece siamo un branco di persone che si mette in difficoltà”. In particolare hanno descritto interazioni dalle quali emergeva la loro scarsa capacità di interpretare correttamente le intenzioni e atteggiamenti degli altri. La narrazione di singoli episodi ha dunque permesso di circostanziare e rendere maggiormente comprensibile a sé e all’altro i processi sottostanti ai conflitti e ai comportamenti di disturbo presenti nel gruppo. Definire che cosa ci fa arrabbiare relativizza infatti tale emozione, dà la possibilità di collegarla ad un evento o ad una azione piuttosto che attribuirla a caratteristiche stabili dell’altro e permette di attivare processi di pensiero finalizzati alla risoluzioni del conflitto. In altre parole, è differente dire “Paolo mi sta antipatico” piuttosto che “ quando Paolo mi guarda fisso negli occhi mi dà fastidio”. Nella prima situazione non abbiamo strumenti per comprendere o gestire la situazione, l’individuazione della seconda ipotesi all’interno del gruppo ha invece messo in moto pensieri rivolti ad una maggiore comprensione di sé “quando mi guarda fisso mi dà fastidio perchè penso che stia guardando una parte di me che non mi piace e potrebbe prendermi in giro”. Conclusioni L’esperienza clinica e alcune evidenze scientifiche hanno rilevato che i bambini con disturbi del comportamento hanno meno successo in attività sportive e sperimentano sentimenti di bassa autostima in tale ambito. In base allo studio di Amstrong e Drabman (2004) un miglioramento nelle prestazioni sportive aumenta le interazioni sociali positive con i pari e determina un maggior senso di autoefficacia, autostima e felicità nei bambini con ADHD.


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Lo scopo del Campus Estivo non è quello di avviare i ragazzi ad una attività sportiva. Tuttavia praticare le varie attività sportive ha consentito ai ragazzi di confrontarsi tra loro in un clima di accettazione delle difficoltà e di sperimentare alcuni piccoli successi personali che sono di grande importanza per la costruzione di una migliore immagine di sé. I litigi e i momenti conflittuali si sono verificati infatti principalmente al di fuori delle attività sportive o negli intervalli liberi tra le attività, e comunque non hanno mai riguardato le performance sportive dei ragazzi. L’attesa del proprio turno rappresenta un momento di potenziale espressione di comportamenti negativi che possono contribuire a destabilizzare il gruppo e a vanificare i successi ottenuti. Di tutto ciò occorre tenere conto nel momento in cui chiunque si occupi di sport (allenatori, coaches, etc) intenda inserire ragazzi con ADHD all’interno del proprio campo di azione. A nostro parere il valore di questa esperienza risiede non tanto nella possibilità di operare cambiamenti clinici nei ragazzi, vista la troppo breve durata, bensì nella possibilità di operare in un contesto ecologico. Durante l’intero spazio della giornata i ragazzi hanno potuto beneficiare di interventi mirati e costruiti sulle loro reali potenzialità o difficoltà comportamentali. I rinforzi così come le sanzioni sono stati contestuali al comportamento emesso e questo li ha resi più efficaci. Il gruppo degli operatori (Neuropsichiatri Infantili, Psicologi, Educatori Professionali e Allenatori Sportivi) aveva avuto una formazione specifica nell’utilizzo di tecniche finalizzate alla promozione di un’adeguata autostima, alla costruzione di relazioni positive e alla gestione di situazioni di conflitto. La particolare complessità delle dinamiche personali e gruppali dei ragazzi hanno tuttavia costituito un elemento destabilizzante per il personale. L’impulsività e il discontrollo emotivo necessitano di un costante monitoraggio e possono attivare nell’èquipe elevati livelli di ansia collegata ai rischi. Per ovviare a ciò sono state effettuate supervisioni degli operatori che hanno consentito di esplorare i vissuti controtransferali, e di ridefinire le modalità di intervento. L’area di maggiore criticità ha riguardato la gestione dei conflitti. Il mantenimento da parte dei membri dell’èquipe di un atteggiamento fermo e coerente ha permesso di fornire una risposta di contenimento della componente comportamentale del conflitto, gli incontri di gruppo con i ragazzi hanno rappresentato l’ambito in cui esplorare e talvolta chiarire le dinamiche relazionali sottostanti. L’utilizzo di tecniche comportamentali (rinforzo, estinzione, ignoring attivo, programmazione e previsione) è stato inoltre un ausilio importante nella realizzazione di interventi efficaci con i ragazzi. Riassunto I Summer Camp stanno emergendo come mezzo per aumentare il supporto sociale e migliorare le abilità relazionali dei ragazzi. Scopo di questo lavoro è descrivere due esperienze di un campo estivo residenziale della durata di sette giorni per adolescenti con Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività. Hanno partecipato 17 maschi di età compresa tra 11 e 16 anni e provenienti da varie regioni d’Italia. Il programma comprendeva l’allenamento di abilità motorie e sportive ( Judo, Tiro con l’Arco, Arrampicata, Trekking) e attività ricreative. I professionisti sono stati formati per promuovere


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l’autostima, favorire relazioni positive e gestire i conflitti. Sono inoltre stati effettuati incontri terapeutici di gruppo per esplorare e ricontestualizzare le dinamiche conflittuali, e permettere una maggiore visione e comprensione del sé. Saranno esaminati gli aspetti fondamentali degli sport selezionati per il Campo e il quadro teorico che ha ispirato la nostra scelta. Saranno inoltre discussi i problemi incontrati nella gestione del gruppo e le azioni intraprese per risolverli. Parole chiave Campo Estivo – ADHD –Sport – Psicoeducazione.

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Istruzioni per gli Autori

La rivista pubblica ricerche originali, casi clinici di particolare interesse da un punto di vista diagnostico o terapeutico, contributi teorici nel campo della Psicopatologia e della Neuropsicologia dello Sviluppo. La rivista è anche interessata a ricerche di epidemiologia e di prevenzione nell’ambito della Salute Mentale dell’età evolutiva e della Riabilitazione, dalla prima infanzia all’adolescenza. Ogni articolo sarà rivisto da almeno due revisori anonimi. La rivista si impegna a rispondere agli autori entro 90 giorni dal ricevimento del manoscritto. I manoscritti vanno inviati al direttore della rivista Prof. Gabriel Levi, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Redazione, Via dei Sabelli, 108, 00185 Roma. Gli articoli devono essere inviati in tre copie (un originale e due fotocopie) allegando anche la versione dell’articolo (in Word per Windows o Word per Macintosh) in CD-Rom o dischetto. Una copia dell’articolo deve essere inviata via email alla redazione: psichiatra.infanziadole@email.it. L’autore è responsabile che la versione su carta e la versione su supporto elettronico siano uguali. La lunghezza degli articoli inviati dovrebbe essere contenuta in 20 pagine dattiloscritte e, in ogni caso, non deve superare le 24 pagine dattiloscritte. Il formato della pagina del testo deve essere di 30 righe, 60 battute per riga (1800 caratteri, inclusi gli spazi bianchi), con interlinea doppia su foglio A4. Gli articoli dovranno essere così presentati: due pagine di titolo, la prima contenente i nomi per esteso degli autori, la loro affiliazione, l’indirizzo completo con numero di telefono, di fax, email, dell’autore a cui va inviata la corrispondenza; la seconda contenente solo il titolo dell’articolo, in italiano e in inglese. Le pagine devono essere numerate, eccetto la prima di titolo, nel seguente ordine: a) riassunto in italiano e in inglese (250 - 300 parole), b) parole chiave (in italiano e in inglese, fino ad un massimo di cinque), c) testo, d) tavole, e) figure, f ) descrizione delle tavole/figure, g) note, h) bibliografia, i) appendice. Ognuna di queste sezioni deve iniziare su una pagina nuova. Il testo deve essere suddiviso in sezioni: introduzione, obiettivo del lavoro, soggetti e metodi, discussione dei dati e conclusioni. Le tavole, le figure devono avere titoli brevi e descrittivi e devono essere numerate consecutivamente in numeri arabi e richiamate nel testo. La relativa legenda deve essere scritta su un foglio a parte contenente le legende di tutte le tavole/figure. Le figure devono essere pronte per la riproduzione fotografica con i dettagli leggibili chiaramente. In particolare i disegni dovranno essere allegati in originale oppure in file con formato .jpeg o .tiff. La loro collocazione nel testo deve essere indicata dalla frase inserisci qui tavola/figura. Abbreviazioni: devono essere evitate il più possibile; quando necessaria l’abbreviazione deve essere preceduta dalla formulazione per intero la prima volta che la denominazione viene citata nel testo, le volte seguenti può essere sostituita dall’abbreviazione. Ad esempio: Disturbi Generalizzati dello Sviluppo (DGS). I riferimenti bibliografici nel testo devono indicare soltanto il cognome degli autori e l’anno di pubblicazione posto tra parentesi,ad esempio: Rutter (2006); Leslie e Frith (1993); oppure il cognome degli autori tra parentesi seguito da una virgola e dall’anno di pubblicazione, ad esempio: (Goodyer, 2001; Main, Kaplan, Kassidy, 1989). Se gli autori sono più di tre si riporta il cognome del primo autore


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ISTRUZIONI PER GLI AUTORI

seguito dall’abbreviazione et al., ad esempio: Wolkmar et al. ( 2004). Nel caso che vi siano due articoli dello stesso autore con lo stesso anno di pubblicazione questi vanno indicati con le lettere dell’alfabeto in minuscolo a seguire: (Achenbach, 1994a, 1994b). Le citazioni testuali vanno poste tra “virgolette inglesi” e va indicato sempre il numero di pagina (in forma abbreviata: p./pp.). Bibliografia: comprende esclusivamente le voci bibliografiche citate nel testo. Le voci bibliografiche devono essere elencate secondo l’ordine alfabetico degli autori e debbono contenere cognome e iniziale del nome dell’autore (in Maiuscoletto); anno di pubblicazione dell’articolo o del libro, posto tra parentesi. Quando comprende un articolo si riporterà: titolo del lavoro; nome, o abbreviazione internazionale, in corsivo della rivista in cui l’articolo è stato pubblicato; il numero del volume (o fascicolo) della rivista, seguito dopo il segno di due punti dalla pagina iniziale e terminale dell’articolo. Esempi: Bollea G. (1967), Strutturazione oligofrenica e strutturazione psicotica, Infanzia anormale, 52: 601613. Fonagy P., Target M. (1997), Attachment and reflective function: their role in self-organization, Development and Psychopathology, 9, 4:601-613. Osofsky J.D., Kronenberg M., Hammer J.H, Lederman J.C., Katz L., Adams S., Et Al. (2007), The development and evaluation of the intervention model for the Florida Infant Mental Health Pilot Program, Infant Mental Health Journal, 28, 3:259-280. Quando comprende un libro si riporterà: titolo del libro in corsivo, città, casa editrice, anno dell’edizione italiana per i libri tradotti. Esempi: Cicchetti D., Cohen J. (2006), Developmental Psychopathology, Vol. 1, Theory and Methods, 2nd Ed., New York, Wiley. Gabbard G.O. (2000), Psichiatria psicodinamica, Milano, Raffaello Cortina Editore. Quando comprende un capitolo di un libro gli esempi sono i seguenti: Costello E.J., Angold A. (2000), Developmental epidemiology: a framework for developmental psychopathology, in A. Samerof, M. Lewis, S. Miller (Eds), Handbook of Developmental Psychopathology, New York, Plenum Press. Emde R.N., Bingham R.D., Harmon R.J. (1993), Classificazione e processi diagnostici nell’infanzia, in C.H. Zeanah, Manuale di salute mentale infantile, Milano, Masson, 1996. Gli autori dell’articolo riceveranno le prime bozze per la correzione degli errori. In questa fase non sono ammessi cambiamenti dell’articolo che non siano correzioni di errori tipografici. Le bozze corrette dovranno essere restituite alla redazione della rivista dagli autori entro dieci giorni dal loro invio. L’editore si riserva il diritto di modificare il manoscritto per renderlo conforme allo stile della rivista. Le tavole e le figure pubblicate, eccetto le prime cinque, sono a carico degli autori e saranno addebitate al costo. Gli autori che desiderano estratti dei loro articoli possono richiederli all’editore, che invierà loro il prospetto dei costi. Gli autori degli articoli sono responsabili in proprio del rispetto della legge sulla privacy. I manoscritti non corrispondenti alle regole indicate saranno restituiti al mittente. © Copyright Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.


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