Bahar Heidarzade. Le mie pietre sono aquiloni

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Le mie pietre sono

Le mie pietre sono aquiloni Bahar Heidarzade

A cura di Marina Pizziolo e Romano Ravasio

Questa mostra è dedicata a Mahsa Amini e Giulia Cecchettin lontane sorelle. E a tutte le donne vittime di violenza in ogni parte del mondo

In copertina

Bahar Heidarzade, Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024

Progetto grafico

Romano Ravasio

Impaginazione

Francesca Benetti

Redazione

Laura Maggioni

Fotografie e video

Jairo Trimeloni, Irisdesign.it

Video

Paolo Favaro (p. 28)

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

© 2024 EdiXion, Dubai

Tutti i diritti riservati

Finito di stampare nel mese di agosto 2024 a cura di EdiXion, Dubai

Printed in Italy

www.edixion.ae

Le mie pietre sono aquiloni

Bahar Heidarzade

Castello Scaligero, Malcesine 15 maggio – 3 novembre 2024

Mostra a cura di Marina Pizziolo e Romano Ravasio

Con il patrocinio di Fondazione Puzzilli

Apparati Beatrice Bianchi

Traduzioni Isobel Butters

Coordinamento

Livio Concini, Assessore alla Cultura e vice sindaco di Malcesine Ufficio Turismo di Malcesine

Assicurazioni Itas Mutua

EdiXion pubblica libri digitali fatti di idee, non di carta. Sono state stampate solo 200 copie di questo libro e in cambio abbiamo piantato un albero insieme ai bambini di Malcesine. Speriamo che quest’albero cresca con loro, per ricordare che insieme possiamo fare la differenza.

Ringraziamenti

Alice Alese

Giorgia Alese

Associazione LatoUmano

Emanuela Barzoi

Agostino Favaro

Maria Elena Levoni

Daniele Puzzilli

E tutto il personale del Comune di Malcesine che con competenza, efficienza e disponibilità, ha collaborato alla realizzazione e al successo di questa mostra.

Malcesine è lieta di accogliere nel suo Castello le opere dell’artista iraniana Bahar Heidarzade, che da più di dieci anni ha trovato rifugio in Italia.

La mostra vuole stimolare una riflessione sul tema tristemente attuale della violenza contro le donne. “Non per piangere le vittime di ieri, ma per salvare le vittime di domani, con la straordinaria forza della condivisione”. Condividere significa saper vedere e ascoltare la sofferenza di chi ci sta intorno. Significa non voltarsi dall’altra parte, davanti a una richiesta di aiuto. Questo dovrebbe essere parte del nostro impegno civile: come cittadine e cittadini che con orgoglio abitano un Paese libero, ma purtroppo tutt’altro che indenne dalla violenza di genere.

Dal Castello di Malcesine le pietre di Bahar Heidarzade si alzano in un volo simbolico, ponendosi come potente messaggio di speranza e di pace.

Livio Concini

Assessore alla Cultura e vice Sindaco

Con onore “eredito” dalla precedente amministrazione il compito di inaugurare questa mostra dell’artista iraniana Bahar Heidarzade. Questo a dimostrare che le cose belle luccicano e basta, indipendentemente da chi le ha proposte.

Ho percorso un sentiero a ritroso per comprendere tutti i passaggi per realizzarla.

Il tema trattato, quello della violenza di genere, è purtroppo troppo spesso sulle prime pagine dei nostri quotidiani, seppur tale violenza abbia da noi un contesto sociale e culturale diverso da quello dell’artista: violenze subite entro le mura domestiche, ma anche il dolore di pietre metaforiche scagliate contro la donna, limitazioni, obblighi e divieti imposti da una cultura inaccettabile ai giorni nostri. E il tutto deve rimanere chiuso in un silenzio lungo tutta la vita: un vero e proprio macigno da portare su di sé.

Bahar, pur avendo subito queste violenze, ci lancia un messaggio di speranza: trasformando queste pietre in aquiloni che si levano in volo, finalmente liberi da ogni oppressione e sofferenza.

Unione, collaborazione e condivisione del dolore sono le armi per combattere la violenza, di qualsiasi natura essa sia. Pertanto, con l’augurio di un futuro di aquiloni colorati nel cielo di tutto il mondo, dove libertà e rispetto reciproco siano la parola d’ordine, virtualmente taglio il nastro di questa mostra.

Emanuela Barzoi

Consigliere con delega alla Cultura

Comune di Malcesine

9 Le mie pietre sono aquiloni

Marina Pizziolo 15 My stones are kites

Marina Pizziolo

Opere 39 Bahar Heidarzade

Nota biografica, autoritratto, principali mostre

Era una piovosa giornata di novembre quando mi sono ritrovata per la prima volta con Bahar

Heidarzade nel Castello Scaligero di Malcesine. La sua architettura severa era abitata solo dal silenzio e dal freddo. Abbiamo iniziato a parlare del suo lavoro con le pietre, di come per lei fossero il simbolo di quel peso che a volte ci portiamo dentro, spesso fino a farci schiacciare. È stato allora che abbiamo iniziato a sognare un cielo di pietra da far volare via, come un aquilone.

Bahar Heidarzade è una donna esile, ma capace di quella straordinaria forza che è la resilienza. Una forza che l’ha portata ad abbandonare l’Iran, dove la libertà è un miraggio per tutti, ma ancora di più per le donne. Perché una donna viene comunque dopo.

Morale dovrebbe essere ciò che una società libera considera giusto: un saldo timone a cui aggrapparsi per navigare le acque del bene e del male. Troppo spesso, invece, è solo una zavorra, capace di trascinarci negli abissi. In Iran, la Polizia morale è un corpo di uomini armati, liberi di colpire a morte una ragazza, colpevole solo di non avere indossato l’hijab in maniera corretta. Come aveva fatto Mahsa Amini, uccisa nel settembre del 2022. E come hanno fatto altre ragazze e altre donne, prima e dopo di lei. E che per la loro colpa, per quei capelli che non hanno voluto nascondere, sono state insultate, picchiate, imprigionate, stuprate, uccise.

Ma se in Iran la violenza contro le donne assume le proporzioni di un delitto di Stato, in tanti altri Paesi del mondo, compresa l’Italia, si consuma nel privato, nella disgustosa declinazione del diritto che un uomo si arroga di umiliare, far soffrire, uccidere una donna. E di farlo in nome dell’amore. Una bestemmia concettuale, perché l’amore è attenzione ai bisogni dell’altro, dedizione. L’amore è libertà, non controllo.

C’è un romanzo scritto dall’irlandese Roddy Doyle, La donna che sbatteva nelle porte, che tutte le ragazze dovrebbero leggere, fino in fondo, anche se è una lettura difficile. Dovrebbe diventare un libro di testo nelle nostre scuole. Perché solo se conosci l’abisso, se sai che esiste e che forme può avere, puoi riuscire a non caderci dentro. Puoi aiutare chi ci è caduta a venirne fuori.

“Lo vidi in faccia. I suoi occhi mi scrutavano tutta la faccia, un pezzettino alla volta, ogni piccolo segno. Era preoccupato. Era scioccato e preoccupato. Mi amava di nuovo. Mi prese per il mento. I miei occhi però li evitò. Non se la sentiva di guardarmi dritta in faccia. Si sentiva in colpa, stava malissimo. E mi amava di nuovo. Che cosa era successo? L’avevo provocato. Ero stata io”.

Bahar Heidarzade ha dovuto abbandonare l’Iran per poter essere libera: se tornasse sarebbe punita con il carcere. Si è dovuta lasciare alle spalle persone e luoghi che amava e che non ha smesso di amare, ma che non potrà più rivedere.

Tra il 2019 e il 2021 Heidarzade ha lavorato a un ciclo di dipinti, che si intitola Dieci anni

Sono i dieci anni che hanno preceduto il suo abbandono dell’Iran. Quando le chiedo cos’è successo in quegli anni non risponde. Il suo silenzio è l’eco di un dolore che non può trovare la strada delle parole: ci sono cose che non possono essere dette. “I miei dipinti sono astratti perché raccontano un momento della mia vita in cui le persone che amavo erano sparite, generando un vuoto che ha finito per allagare la mia anima”, rivela. E sulle superfici tormentate dei suoi dipinti, strati di acrilico, gesso, smalto, olio e cera d’api si sovrappongono nella dolorosa ricerca di un senso negato.

Chi sceglie di andarsene deve imparare a fare i conti con la nostalgia, con quella cesura feroce tra il prima e il dopo. Per Bahar Heidarzade, l’arte è il mastice capace di dare forma ai frammenti del suo passato, taglienti come vetri, facendoli diventare elementi di un mosaico narrativo.

Nel ciclo di dipinti Dieci anni il colore è una sorta di secrezione mentale alla quale l’artista affida la scrittura emotiva della sua storia. Il significato non è esibito in forme dialogiche, è invece presupposto di un gesto che ubbidisce alle esigenze di un racconto privato. Solo il titolo del ciclo allude a un tempo preciso, a una durata, suggerendo l’aderenza alla vicenda personale di Heidarzade, mentre sta solo a chi guarda interpretare le voragini del bianco, il buio del nero, l’urlo del colore. Lo spazio della tela diventa così il luogo della sismografia di un dolore evocato, per poter essere finalmente comunicato, anche se in forme criptiche. Per Heidarzade, il racconto delle sue memorie è una necessità che non diventa mai arrogante racconto di sé. L’indecifrabilità offre, infatti, a ognuno di noi una possibilità di sovrascrittura: perché è solo così che la sua storia può diventare anche la nostra. Ogni dipinto della serie Dieci anni è uno spazio di racconto e di ascolto. I termini originali della narrazione, così come la distanza spaziale e culturale tra il suo Paese e il nostro, non hanno più importanza. D’altra parte, la condivisione è il cardine della ricerca di quest’artista. Trasformare l’esperienza individuale in collettiva è per lei un modo per sublimare la sofferenza, per trasformare il dolore in azione da compiere insieme e, quindi, in potenziale riscatto. Esigenza che trova compiuta espressione nei suoi lavori performativi. I cinque dipinti del ciclo Dieci anni sono la premessa di questa mostra, il doloroso prima che alimenta il coraggio di una nuova storia: eppure sono collocati nella Casermetta veneziana, vicino all’uscita del castello. Perché il passato è premessa e onda che ciclicamente torna a lambire la nostra mente, ma deve sapere lasciare spazio al nuovo.

All’interno del Castello di Malcesine, Bahar Heidarzade ha voluto creare un percorso poetico, con tre interventi che accompagnano il visitatore fino al cuore della mostra: l’installazione immersiva realizzata nella Sala Labia.

Subito dopo essere entrati nel castello, troviamo due alberi. I loro tronchi sono rivestiti d’oro e su quest’oro Heidarzade ha scritto in persiano i versi dell’artista e regista Abbas Kiarostami: “Il vento porterà con sé / i fiori del ciliegio / sino al biancore delle nubi. / È una bandiera di libertà / la mia camicia / sul filo della biancheria, / leggera e libera / dai legami del corpo.” L’oro è il colore della luce, la dimensione del tempo, e il tempo è una struttura mentale, lo spazio abitato dalla cultura. Gli alberi conservano al loro interno il calore del sole che li ha fatti crescere, hanno ricchezza e memoria come ognuno di noi. Rivestendoli d’oro, Heidarzade rende questi due alberi portatori di una storia, che è anche la nostra. Ognuno di noi ha una bellezza nascosta, un “colore d’oro”, come dice Heidarzade. Ed è quel colore-calore che ci dà la forza di andare avanti. Come sanno bene le donne iraniane, che nonostante tutto continuano a lottare per tornare libere, per poter

Bahar Heidarzade

Le mie pietre sono aquiloni #2, 2024

Stone XXL - Malcesine Performance

finalmente sciogliere i loro capelli, gettare via quel velo, sperando che il vento lo faccia volare via “sino al biancore delle nubi”.

Poco più avanti sull’erba, nella corte della Residenza Scaligera, troviamo due grosse pietre dorate. Per Heidarzade, le pietre simboleggiano il peso con cui il passato e le memorie negative gravano su ognuno di noi. L’artista le realizza in cartapesta, partendo da fogli di giornali contenenti inquietanti notizie di cronaca: perché le memorie negative non sono solo quelle personali ma anche quelle collettive, soprattutto da quando il sistema informativo ci fa bersaglio di un flusso ininterrotto di notizie.

Il primo passo per realizzare la cartapesta è immergere la carta nell’acqua. Un gesto che, nella pratica artistica di Heidarzade, ubbidisce sia a un’esigenza tecnica sia a una ritualità legata alla funzione salvifica dell’acqua, comune a molte religioni. Parole e foto drammatiche sbiadiscono, l’inchiostro si scioglie nel grigio, che poi darà alle pietre un colore assolutamente naturale, in contrasto con il loro peso. Infatti, la leggerezza delle pietre fa scattare un corto circuito concettuale tra realtà e apparenza, richiamando il materiale d’origine, quei giornali sporchi di dolore.

Ma qual è il peso reale degli avvenimenti? È esperienza comune che il loro peso è relativo, inversamente proporzionale alla forza con la quale sappiamo affrontarli. Il passato ci può schiacciare oppure può diventare lievito della nostra crescita interiore: oro, ossia luce capace di illuminare il nostro percorso. Al di là dello specifico messaggio, l’oro delle due grandi pietre appoggiate sull’erba introduce nell’austera architettura del castello la magia della scoperta, il senso di un fortunato ritrovamento.

Proseguendo verso la Residenza Scaligera, si incontra un pozzo. L’artista ne ha rivestito le pietre con un tessuto dorato e ha poi inserito nella carrucola una fune, sempre dorata, alla cui estremità ha attaccato una piccola campana. La bocca del pozzo è protetta da una grata in ferro: in fondo si intravede lo specchio nero dell’acqua. Scuotendo la fune, chi si affaccia alla sponda per scrutare l’interno, può far suonare la campana. Heidarzade ha trasformato il pozzo in una macchina dei

Bahar Heidarzade

Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024

Realizzazione installazione immersiva

desideri. Il suono della campana diffonde la voce dei desideri di chi l’aziona, dando vita a un dialogo segreto con gli altri visitatori. Ma il suono della campana non è solo un richiamo festoso, è anche allarme, richiesta d’aiuto. Quell’aiuto che tante donne, vittime di violenza, non riescono a chiedere, chiuse come sono nel silenzio di vetro in cui le ha rinchiuse la paura.

Saliamo verso il torrione che domina il castello. La vista si allarga fino alle montagne che chiudono il lago, a nord, in una sequenza di quinte che incanta. Lasciamo fuori il sole e la luce di questa giornata d’estate ed entriamo nella penombra della Sala Labia, dove Bahar Heidarzade ha realizzato la sua grande installazione immersiva.

Al centro della sala, un video proietta a terra l’immagine dell’artista sdraiata su un tappeto persiano, schiacciata da un’enorme pietra, che però non sembra ferirla. Heidarzade è immobile, ma poi apre gli occhi, sembra guardare qualcuno che si muove attorno a lei. Chiude ancora gli occhi, solo respira. Ma poi muove una mano, l’altra. A tratti sembra abbracciare la pietra che la schiaccia, quasi a tirarla dentro il suo corpo. Le mani si muovono sulla sua superficie in una specie di carezza. Siamo abituate a considerare il nostro corpo un canale di dolore, oltre al quale c’è la vita. Le donne sanno farsi carico del dolore degli altri, più degli altri, perché la natura insegna loro che dare la vita è dolore. Ma solo il dolore della nascita è un atto d’amore. Solo quello.

Il video è ipnotico. Il corpo steso a terra ha la sacralità delle lastre tombali sul pavimento delle chiese medievali. I cavalieri stringono al petto una spada, le donne una croce. Ma la pietra che ci schiaccia possiamo farla rotolare via, insieme.

Sopra il corpo di Heidarzade sono sospese nella sala decine di pietre. I visitatori si muovono sotto quel cielo acceso di colori in un tracciato reso precario dalla percezione del peso mentale di quelle pietre lanciate, ma la cui traiettoria è stata interrotta, per trasformarsi in volo. Ancora mani che lanciano pietre. Ancora donne vittime di atti di violenza. E la cosa si ripeterà fino a quando non avremo imparato ad ascoltare le parole di quelle donne, prima che diventino grido. Solo così potremo fermare quelle pietre, scagliate in nome di qualcosa che non possiamo chiamare amore. E farle rimanere sospese, in volo. Siamo noi, insieme, a poter trasformare quelle pietre in aquiloni. È questo anche il senso della performance Stone XXL, che un video ripropone nella sala. Torna l’elemento del ricordo che assume le sembianze di un macigno, che l’artista e chi si è sentito chiamato a intervenire in suo aiuto ha trasportato per le vie del borgo di Malcesine. La performance di Bahar Heidarzade è la condivisione di una fatica, la partecipazione a una pena, la liberazione collettiva da un dolore. Se siamo insieme, i ricordi non ci possono schiacciare. I ricordi soprattutto quelli delle violenze subite, da noi o dagli altri, devono diventare azione, azione condivisa, per salvare le altre, quei nomi ancora da scrivere.

Ho aiutato anch’io Bahar a portare la sua grande pietra per le vie di Malcesine. Nelle nostre mani quella pietra improvvisamente era diventata vera, accendeva ricordi di fatiche, di dolori passati, di parole amare. Ma al tempo stesso la sua leggerezza era “facciamo-finta-che”, come quando si giocava da bambine. Quello sforzo fatto insieme, passo dopo passo, ci ha reso sorelle, mi ha riempita di speranza. La stessa che ho visto brillare negli occhi delle donne, e degli uomini, che hanno preso il mio posto e hanno camminato con lei. È vero, possiamo trasformare ogni pietra in un aquilone, capace di sollevarci in un volo meraviglioso, misura della nostra conquistata umanità. Un volo che ci porterà oltre le nubi nere della violenza.

Mahsa, Giulia, non vogliamo imparare altri nomi, è una promessa. Questa mostra è per voi.

It was a rainy November day when I first found myself with Bahar Heidarzade in Malcesine’s Castello Scaligero. Only silence and the cold occupied its severe architecture. We started talking about Bahar’s work with stones, how to her they symbolised the weight we sometimes carry inside, often to the point that it becomes overbearing. It was then that we began to dream of a sky of stones that could be flown away, like a kite.

Bahar Heidarzade is slender yet capable of the extraordinary power of resilience. This strength is what led her to leave Iran, where freedom is a mirage for everyone, but even more so for women. Because women always come after.

Morality should be what a free society considers right: a solid rudder to help navigate the waters of good and evil. Too often, however, it is a dead weight that drags us into the abyss. In Iran, the Moral Police is a body of armed men, free to beat a girl to death, guilty only of not having worn the hijab properly. Mahsa Amini, killed in September 2022, is one such example of women and girls who do not want to hide their hair and are insulted, beaten, imprisoned, raped, killed. In Iran, violence against women takes on the dimensions of a state crime. However, in many other countries, including Italy, it takes place in private, where men consider it their right to humiliate, torment and kill women, and to do so in the name of love. It is a conceptual blasphemy because love means dedication and attention to the needs of the other. Love is freedom, not control.

All girls should read the novel by Irish author Roddy Doyle, The Woman Who Walked Into Doors It should become compulsory reading in our schools and read from beginning to end, however hard it might be to stomach. Only if you are aware of the abyss, if you know that it exists and what forms it can take, can you avoid falling in. You can rescue those who have precipitated into it.

“I saw his face. His eyes were going over my face, every inch, every mark. He was worried. He was shocked and worried. He loved me again. He held my chin. He skipped over my eyes. He couldn’t look straight at me. He felt guilty, dreadful. He loved me again. What happened? I provoked him. I was to blame.”

Bahar Heidarzade had to leave Iran to gain her freedom: if she returned, she would be sent to prison. She had to leave behind people and places she loved and has not stopped loving, but she will never see them again.

Between 2019 and 2021, Heidarzade worked on Ten Years, a cycle of paintings whose title refers to the time that preceded her departure from Iran. When I ask her what happened during those

Marina Pizziolo My

years, she does not reply. Her silence is the echo of a pain that cannot find its way into words: some things cannot be said. “My paintings are abstract because they tell of a moment in my life when the people I loved were gone, generating a void that ended up filling my soul”, she confides. Meanwhile, the tormented surfaces of her paintings, layers of acrylic, plaster, enamel, oil and beeswax overlap in the painful search for a denied meaning.

Those who decide to leave must learn to come to terms with nostalgia, with that fierce break between before and after. For Bahar Heidarzade, art is the paste that shapes the fragments of her past, sharp as glass, turning them into elements of a narrative mosaic.

In the Ten Years cycle, colour is a kind of mental secretion to which the artist entrusts the emotional writing of her story. Meaning is not exhibited in dialogue-based forms but is implied in a gesture that bows to the demands of a private narrative. Only the title alludes to a specific timespan, suggesting a connection to Heidarzade’s personal history, but it is up to the viewer to interpret the chasms of white, the darkness of black, and the scream of colour. The space of the canvas becomes the seismograph of an evoked pain, to be finally communicated, even if in cryptic forms. For Heidarzade, the narration of her memories is a prerequisite that is never arrogant selfdisclosure. In fact, indecipherability offers the chance to overwrite: because only in this way can her story become ours as well. Each painting in the Ten Years series is a space for telling and listening. The original terms of the narrative, as well as the spatial and cultural distance between her country and ours, no longer matter.

There again, sharing is the cornerstone of this artist’s investigation. Transforming individual experience into a collective one is her way of sublimating suffering; turning pain into an action to be performed together offers potential redemption. It fulfils a need that finds full expression in her performance art. The five paintings of the Ten Years cycle are the premise of this exhibition, a painful before that fuels the courage of a new story, and yet they are exhibited in the Venetian Casermetta, near the castle exit. Because the past is the premise and a wave that cyclically returns to lap at our minds, although it needs to be able to leave room for the new.

Bahar Heidarzade has created a poetic pathway inside Malcesine Castle, with three artistic interventions that accompany the visitor to the immersive installation in the Sala Labia, the main focus of the exhibition.

Immediately after entering the castle are two trees. Their trunks are covered in gold on which Heidarzade has written in Persian verses by the artist and film director Abbas Kiarostami: “The wind will carry / the cherry blossoms / away to the white of the clouds. / My shirt / is a flag of freedom / flurrying on the clothesline, / light and liberated / from the body’s bondage” Gold is the colour of light, the dimension of time, and time is a mental structure, a space inhabited by culture. Trees conserve the warmth of the sun that made them grow, they have wealth and memory like each of us. By dressing them in gold, Heidarzade makes them bearers of a history that is also our own. Each of us has a hidden beauty, a “golden colour”, as Heidarzade says. And it is that colour and warmth that give us the strength to go on, as is well understood by the Iranian women, who despite everything continue the fight to regain their freedom. This is what will give them the force to finally let down their hair and throw off their veils, hoping that the wind will blow them up and away “away to the white of the clouds”.

A little further along on the grass of the courtyard of Residenza Scaligera, are two large golden stones. For Heidarzade, the stones symbolise the burdens of the past and its negative memories.

The artist makes these stones out of papier-mâché, using sheets of newspaper reporting disturbing news stories: because bad memories are collective as well as personal, especially since the media targets us with an uninterrupted flow of news.

The first step in making papier-mâché is to dip the paper in water. A gesture that, in Heidarzade’s artistic practice, obeys both a technical requirement and a rituality linked to the redeeming function of water common to many religions. Dramatic words and pictures dissolve, and the ink fades to grey, which then gives the stones a completely natural appearance, despite their weight. Indeed, the unexpected lightness of the stones causes a disconnect, forcing us to recall the source material: those newspapers sullied with pain.

But what is the real weight of those events? It is common experience that their weight is inversely proportional to the strength with which we deal with them. The past can crush us, or it can become a lever for our inner growth: gold, that is, light capable of illuminating our path. Beyond the specific message, the gold of the two large stones lying on the grass introduces the magic of discovery into the austere architecture of the castle, and the sense of a lucky find.

Continuing towards the Residenza Scaligera, we come across a well. The artist has covered its stones with a golden fabric and then inserted a rope, also golden, into the pulley. At the end of this, she has attached a small bell. The mouth of the well is protected by an iron grating: a black mirror of water is visible at the bottom. Anyone jerking the rope as they peer inside can ring the bell. Heidarzade has turned it into a wishing well. The sound spreads the wishes of those who ring it, creating a secret dialogue with other visitors. But the jangle is not only a festive call, it is also an alarm call, a cry for help. That help that so many women, victims of violence, are unable to ask for, locked as they are in the glass silence of fear.

We climb towards the keep overlooking the castle. Captivating scenery extends right across to the mountains surrounding the lake to the north. We leave the sun and light of this summer’s day behind and enter the half-light of the Sala Labia, where Bahar Heidarzade has created her large immersive installation.

In the centre of the room, a video projects an image of the artist lying on a Persian carpet on the floor, crushed by a huge stone that mysteriously does not seem to hurt her. Heidarzade is motionless, but then opens her eyes, apparently looking at someone moving around her. She closes her eyes again, simply breathing. She moves one hand and then the other. At times she seems to embrace the stone crushing her, almost pulling it to her body. Her hands move over its surface in a kind of caress. We are used to considering our bodies as a channel of pain, beyond which there is life. Women are used to taking on the pain of others because nature teaches them that giving life is pain. But only the pain of birth is an act of love. No other. The video is hypnotic. The body lying on the ground has the sacredness of tombstones on the floor of a medieval church. Knights clutching a sword to their chest, women a cross. But together we can roll away the stone that crushes us.

Dozens of stones are suspended in the room above the body of Heidarzade. Visitors move under a sky lit with colours along a path made precarious by the perceived mental weight of the stones hurled, but whose trajectory is stopped in flight. More hands hurling stones and yet more female victims of violence. And it will continue until we learn to listen to the words of those women before they turn to screams. Only then can we stop those stones, hurled in the name of a thing we cannot call love. We must stop the stones in their flight and be the ones who can turn them into kites.

This is also the meaning of the performance Stone XXL, featured in another video in the room. The element of memory returns, taking the form of a boulder, which the artist and those who felt called to help her carried through the streets of the village of Malcesine. Bahar Heidarzade’s performance is the sharing of a burden, the participation in suffering, and the collective release from pain. If we stand together, memories will not crush us. Memories, especially those of violence suffered, by us or by others, must become a shared action to save other women, whose names are not yet written.

I too helped Bahar carry her large stone through the streets of Malcesine. In our hands the stone suddenly became real, it lit up memories of past labours, past sorrows and bitter words. But at the same time, its lightness was like the “let’s pretend” of childhood. That effort made together, step by step, made us sisters, filled me with hope. The same hope I saw shining in the eyes of the women, and men, who took my place and walked with her.

We can truly turn every stone into a kite that will lift us right into the air, as a measure of the humanity we have achieved. It is a flight that will carry us beyond the black clouds of violence. Mahsa, Giulia, we do not want to learn any more names, we promise. This exhibition is for you.

Opere

Siamo noi, insieme a trasformare le pietre in aquiloni

Bahar Heidarzade

Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024

Installazione immersiva Cartapesta, rete metallica, acrilico e luci led.

Video su parete: composizione video a un canale, 6:42 minuti in loop, proiettore laser e lettore multimediale.

Video su pavimento: composizione video a un canale, 4:49 minuti in loop, proiettore laser e lettore multimediale.

Video su monitor: composizione video a un canale, 6:06 minuti in loop.

Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024
Particolare
Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024
Video della performance Stone XXL - Malcesine
Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024
Video della performance Stone XL
Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #1, 2024
Video su monitor
Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #2, 2024
Resina poliestere e vernice

Intervento site-specific Tessuto, fune e campana

Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #3, 2024

Le mie pietre sono aquiloni #3, 2024

Realizzazione dell’intervento

Bahar Heidarzade

Intervento site-specific

Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #4, 2024
Inchiostro su tessuto

Le mie pietre sono aquiloni #4, 2024

Realizzazione dell’intervento

Bahar Heidarzade
Bahar Heidarzade
Le mie pietre sono aquiloni #5, 2024
Dieci anni, 2019-2021
Tecnica mista su tela
50 x 50 cm l’uno

Bahar Heidarzade

Bahar Heidarzade

Bani Adam, 2021

Performance

Torino, Palazzo Barolo

Bahar Heidarzade

Nota biografica, autoritratto, principali mostre

Biographical notes, self-portraits, main exhibitions

Nota biografica | Biographical note

Bahar Heidarzade nasce a Teheran nel 1981, solo pochi anni dopo la rivoluzione khomeinista, che segna per il popolo iraniano il passaggio da monarchia a repubblica islamica sciita. Trascorre un’infanzia serena con la sua famiglia, plasmando ricordi che diventeranno il futuro fulcro di una coerente ricerca artistica.

Ha solo nove anni quando, con una solenne festa religiosa e conformemente agli insegnamenti del credo islamico, Bahar inizia a portare l’hijab. Ciò che all’inizio rappresenta per lei un segno di maturità e appartenenza alla sua comunità, si trasforma presto nell’emblema di una cultura oppressiva, da cui desidera fuggire a ogni costo. In Iran, la Polizia morale vigila sulle donne, costrette a indossare l’hijab in modo da coprire completamente i capelli. Basta che una ciocca di capelli sia visibile perché la polizia possa tagliarla, ma spesso per questo tipo di infrazioni scattano il carcere o feroci punizioni corporali. Anche Bahar viene arre-

stata per non avere indossato l’hijab in modo corretto.

L’uniforme scolastica femminile, che fino alla rivoluzione del 1979 prevedeva una minigonna, viene trasformata: solo il viso è lasciato scoperto. Ma la repressione non si limita alle donne: agli uomini, che indossano pantaloni corti o camicie senza maniche, viene dipinta la pelle con uno spray di colore nero. Bahar, che da bambina aveva potuto esprimersi liberamente di fronte alla sua famiglia, si trova improvvisamente giudicata da una società a cui sente di non appartenere. Vive con l’incessante timore di uscire dalla sua abitazione senza avere la certezza di potervi fare ritorno.

In Iran, a partire dal 1979, manifestare interesse per qualsiasi forma d’arte è considerato un comportamento sovversivo. Decidere di intraprendere una qualsiasi carriera artistica, nella musica, nella pittura, nel cinema o nel teatro, è una scelta coraggiosa e al contempo limitante, sia per gli uomini sia per le donne.

All’inizio, le severe restrizioni politiche e religiose dell’Iran influenzano profondamente la produzione artistica di Heidarzade, che si trova costretta a confinare la sua creatività all’interno di schemi prefissati. A soli quindici anni comprende di non poter continuare a vivere nel suo Paese: “Ho capito che in Iran non potevo esprimermi attraverso l’arte nel modo in cui volevo, ossia liberamente. Perché l’arte deve essere libera”. Tuttavia, la sua giovane età rappresenta un ostacolo per l’espatrio ed è costretta a proseguire i suoi studi universitari in Iran. Si iscrive alla facoltà di economia dell’Università di Teheran, ma gli studi economici si rivelano subito incompatibili con la sua indole. Passa quindi alla facoltà d’arte, studiando prima grafica e poi pittura.

Nel 2007 l’urgenza di lasciare un Paese che non rispecchia i suoi valori diventa indifferibile e, con il fondamentale sostegno di sua madre, Bahar Heidarzade prende la decisione di intraprendere una nuova vita in India. A differenza

Cuneo,

di molti altri Paesi che l’attraggono, come il Canada, gli Stati Uniti, la Francia o la Germania, la procedura per ottenere un visto per l’India è semplice. Heidarzade, che era già uscita giovanissima dall’Iran per lunghi soggiorni nei Paesi confinanti, lascia definitivamente la sua famiglia e si trasferisce a Bangalore, nell’India meridionale. Lì si confronta con un luogo dove convivono differenze estreme, accettate con disarmante fatalismo. Incontra un ambiente stimolante e una cultura diversa, che l’affascinano profondamente.

Nel 2009, a causa di alcune irregolarità riscontrate nel visto indiano, Bahar è costretta a fare ritorno in Iran e a rimanervi per alcuni mesi, prima di poter richiedere un nuovo permesso di soggiorno. Tuttavia, il fascino esercitato dall’alta qualità dell’insegnamento dell’Accademia di Belle Arti di Yerevan, la capitale armena, la spinge nel frattempo a cambiare i suoi piani. Si trasferisce a Yerevan, una città estremamente povera, ma che percepisce come incredibilmente vitale e libera.

Tornata in Iran con il solo obiettivo di recuperare alcuni documenti, sfogliando un giornale si imbatte però in quella che le appare come un’imperdibile opportunità. L’Ambasciata Italiana a Teheran sta organizzando alcuni corsi per giovani studenti desiderosi di trasferirsi in Italia per continuare il loro percorso accademico. Bahar coglie questa preziosa occasione,

frequenta i corsi di lingua italiana e studia incessantemente per due anni, fino a ottenere la certificazione di cui ha bisogno per lasciare l’Iran. Nel frattempo, riesce a continuare la sua ricerca artistica e a partecipare ad alcune mostre collettive delle quali purtroppo non conserva alcuna documentazione: quando lascia il Paese, infatti, il governo le impone di eliminare ogni testimonianza fotografica. In Italia, Heidarzade cerca una città vicina alle montagne e abbastanza tranquilla, per un nuovo inizio e per lasciarsi alle spalle la frenesia di una città popolosa come Teheran. Nel 2013 decide quindi di stabilirsi a Torino, dove inizia a frequentare i corsi di pittura all’Accademia Albertina, con l’obiettivo di sperimentare nuove tecniche e approfondire la sua conoscenza dell’arte italiana.

Inizialmente si scontra con uno stile artistico figurativo e classico, totalmente distante dalle sue sperimentazioni espressive e astratte. Dopo un periodo di iniziale smarrimento, Heidarzade inizia a tracciare il suo personale percorso artistico, ampliando la ricerca che aveva portato avanti fino a quel momento. Collabora con artisti italiani e internazionali in visita all’Accademia, quali Yannis Markopoulos, Asli Çavuşoğlu, Franko B, Paolo Grassino e Paolo Galetto. Queste esperienze la formano e influenzano, sia personalmente sia professionalmente.

All’Accademia frequenta anche corsi di scultura e decorazione, continuando sempre a esplorare nuovi linguaggi. Viene attratta soprattutto da performance e installazioni, proprio quelle forme di espressione artistica che diventeranno per lei un potente mezzo per narrare la storia del suo popolo. In Italia, infatti, inizia a percepire che la pittura, tecnica che aveva sempre considerato come la più potente e catartica, non è in grado di trasmettere tutta la forza del messaggio sociale e politico che intende comunicare. Sceglie quindi la performance, l’installazione e la fotografia come linguaggi artistici capaci di creare una connessione emotiva più forte con l’osservatore. Oggi Bahar Heidarzade è impegnata artisticamente e politicamente nella creazione di opere che denunciano il regime d’oppressione che vige attualmente in Iran. A causa del messaggio che le sue opere racchiudono, non le è più possibile fare ritorno nel suo Paese, dove verrebbe condannata come dissidente politica.

Bahar Heidarzade was born in Teheran in 1981, just a few years after the Khomeini-led revolution, which was to mark the transition of Iran from a monarchy to a Shia Islamic Republic. A carefree childhood spent with her family would shape memories that became the future focus of a conscious artistic inquiry.

In keeping with the teachings of the Islamic faith,

Bahar Heidarzade

she began wearing a hijab during a solemn religious ceremony, when just nine years old. What she had initially seen as a sign of maturity and belonging to a community soon became emblematic of an oppressive culture, from which she longed to escape at all costs. In Iran, the morality police watch over women, who are forced to wear the hijab so that it covers their hair completely. All it takes is for a lock of hair to be visible for the police to cut it, although these offences often lead to imprisonment or fierce corporal punishment. Bahar too was arrested for not wearing her hijab correctly.

The school uniform for girls, which included a mini skirt until the revolution in 1979, underwent radical changes until only the face was left uncovered. But the repression was not limited to women: men who wore shorts or sleeveless shirts had their skin spray-painted black. Bahar, who as a child had been able to express herself freely with her family, suddenly found herself judged by a society to which she felt she did not belong. She began to live with the incessant fear of leaving home without any certainty of returning.

As of 1979, expressing an interest in any art form is considered subversive behaviour. Deciding to pursue any artistic career, whether music, painting, film or theatre, is both a courageous and a challenging choice for men and women.

Initially, Iran’s severe political and religious restrictions profoundly affected Heidarzade’s artistic production, forcing her to limit her creativity within set patterns. When she was just fifteen years old, she realised she could not continue living in her country: “I realised that in Iran I couldn’t express myself through art the way I wanted to, that is, freely. Because art must be free”. However, being so young made moving abroad difficult and she was forced to continue her university studies in Iran. She enrolled in the Faculty of Economics at the University of Tehran, but the degree course soon proved incompatible with her character. She switched to Art, studying first graphics and then painting.

In 2007, the urge to leave a country that did not reflect her values became irrepressible and, with the crucial support of her mother, Bahar Heidarzade took the decision to embark on a new life in India. Unlike many other countries that attracted her, such as Canada, the United States, France or Germany, the procedure to obtain a visa for India was simple. Heidarzade, already used to long stays in neighbouring countries, left her family for good and moved to Bangalore in southern India. There she was confronted with a place where extremes coexist and are accepted with disarming fatalism. The environment was stimulating, and the culture fascinated her.

In 2009, irregularities with her Indian visa meant Bahar had to return to Iran and stay for a few months before she could apply for a new residence permit. However, her fascination with the high-quality teaching at the Academy of Fine Arts in the Armenian capital Yerevan prompted her to

change her plans and set about moving there. Although the city was extremely poor, she sensed it was remarkably vital and free.

Returning to Iran with the sole aim of retrieving some documents, while leafing through a newspaper she came across what seemed like an unmissable opportunity. The Italian Embassy in Tehran was organising courses for young students wishing to move to Italy to continue their academic career. Bahar seized this precious opportunity, attended Italian language classes and studied incessantly for two years until she obtained the certification she needed to leave Iran. In the meantime, she succeeded in continuing her artistic research, also taking part in group exhibitions of which she unfortunately kept no documentation. When she left the country, the government forced her to get rid of any photographic evidence.

Once in Italy, Heidarzade began to look for somewhere close to the mountains and quiet enough for a new start. She wanted to leave behind the hustle and bustle of a teeming city like Tehran. In 2013, keen to experiment with new techniques and expand her knowledge of Italian art, she decided to settle in Turin, where she began attending painting classes at the Accademia Albertina.

The figurative and classical artistic style she found there, however, was far removed from her expressive and abstract experiments. After a period of initial bewilderment, Heidarzade began to chart her own personal course, expanding on the research she had carried out up to that point. She worked with Italian and international artists visiting the Accademia, including Yannis Markopoulos, Asli Çavuşoğlu, Franko B, Paolo Grassino and Paolo Galetto. These experiences shaped her, both personally and professionally.

At the Accademia she also attended classes in sculpture and decoration, always continuing to explore new languages. She was especially attracted to performance and the idea of installations; forms of artistic expression that would become a powerful medium for her to narrate the history of her people. In Italy, she began to realise that painting, a technique she had always viewed as the most powerful and cathartic, was unable to convey the full force of the social and political message she wished to communicate. She opted for performance, installation and photography, seeing these as artistic languages capable of creating a stronger emotional connection with the observer. Today, Bahar Heidarzade is artistically and politically committed to creating works that speak out against the current regime of oppression in Iran. Because of the message her works transmit, she is no longer allowed to return to her country, where she would be considered a dissident.

Autoritratto | Self-portrait

Non ho un ricordo vivido del momento in cui ho deciso di voler fare l’artista, eppure ho sempre saputo che quella sarebbe stata la mia

strada. Sin da bambina, adoravo disegnare e dipingere, il solo contatto con le matite colorate riusciva a infondermi una gioia e una pace che nient’altro riusciva a trasmettermi. L’unica lezione che attendevo con ansia, alle elementari, era quella di arte. A quel tempo suonavo anche la chitarra. Quando andavo a lezione, correvo per le strade nascondendo il mio strumento, con la paura che la polizia potesse fermarmi, poiché non era permesso studiare musica. A un certo punto, però, ho dovuto scegliere tra la musica e la pittura, e ho scelto la pittura. Nonostante gli ostacoli imposti dalla condizione sociale e politica dell’Iran, ho iniziato a percorrere una strada di cui non mi sono mai pentita. Tranne la mia famiglia, in Iran nessuno è mai stato in grado di comprendere la mia scelta. In molti mi dicevano: “L’arte non ti assicurerà un futuro, non ti darà da mangiare”, eppure io sono sempre stata convinta della mia decisione. Prima di tutto, voglio dare da mangiare alla mia anima.

Per me l’arte è come respirare. Credo che un’esistenza senz’arte rimarrebbe asettica, completamente vuota. Chi ha il coraggio di dedicarsi all’arte riesce a vedere la bellezza in ogni cosa: nell’uomo, negli animali, nella natura. E solo attraverso l’arte è possibile amplificare la bellezza, rendendola percepibile a tutti. Le mie opere nascono da un connubio inscindibile tra esperienze passate, ricordi ed emozioni. Ciò che viviamo nel passato si mescola inevitabilmente con quel che siamo nel presente e che saremo nel futuro. Da un lato, i ricordi della mia giovinezza sono il fulcro delle mie performance e installazioni, il cui obiettivo è narrare la condizione sociale e politica del mio Paese, l’Iran; dall’altro, la pittura è espressione essenziale del mio essere, di ciò che penso e ciò che provo. Questa tecnica mi permette di esternare le paure, le preoccupazioni e le angosce che mi affliggono, lasciando in me un vuoto nella sua connotazione più positiva. Mi conduce verso un’esistenza parallela, completamente slegata dalla realtà in cui viviamo.

Il senso più profondo dell’arte per me è racchiuso in un unico, meraviglioso episodio. Un giorno, alcune persone si sono fermate davanti a una mia opera e sono rimaste in silenzio, cercando di coglierne il significato. A un certo punto ho notato che avevano le lacrime agli occhi. Avevano intravisto qualcosa all’interno di ciò che io avevo creato. Poi mi hanno raccontato che avevano vissuto un’emozione straordinariamente forte, che non riuscivano a spiegare. Questa spontanea connessione, quest’emozione, è ciò che per me rappresenta l’arte.

Spero che il mio percorso artistico mi conduca verso un pubblico sempre più vasto, poiché desidero portare la mia arte oltre i confini italiani. Per me è fondamentale che sempre più persone vengano a contatto con le mie opere, poiché sono il mio unico mezzo per diffondere una

maggiore consapevolezza su ciò che sta accadendo in Iran. A lungo mi sono sentita impotente davanti alle ingiustizie che i miei connazionali stanno subendo, troppo lontana per poter partecipare alle rivolte a fianco delle moltissime donne iraniane che hanno il coraggio di sfidare il regime. Non riuscivo a condurre una vita normale, non riuscivo neppure più a dipingere. Nell’arte ho trovato l’unica via possibile per prendere parte alla vita politica della mia nazione, schierandomi personalmente contro il regime politico attuale. L’obiettivo della mia arte è dare voce a tutti coloro che stanno lottando per i propri diritti, sognando un Paese finalmente libero da ogni forma di oppressione.

I don’t have a clear memory of the moment I decided I wanted to be an artist, yet I always knew that would be my destiny. Even as a child, I loved to draw and paint; just the contact with coloured pencils would bring me a joy and peace that nothing else could. The only lesson I looked forward to in primary school was my art class. At that time, I also played the guitar. When I went to class, I’d run through the streets hiding my instrument, afraid the police would stop me because studying music wasn’t allowed. At some point, however, I had to choose between music and painting, and I chose painting. Despite the obstacles imposed by the social and political conditions in Iran, I started on a course I’ve never regretted. No one in Iran other than my family was ever able to understand my choice. Many people said: ‘Art will not secure your future, it will not feed you’, yet I was always convinced of my decision. First of all, I want to feed my soul. To me, art is like breathing. I believe that an existence without art would be aseptic, completely empty. Those with the courage to devote themselves to art can see the beauty in everything: man, animals, nature. And only through art is it possible to amplify beauty, making it perceptible to all. My works arise from an inseparable combination of past experiences, memories and emotions. What we experience in the past inevitably intertwines with what we are in the present and what we will be in the future. On the one hand, the memories of my youth are the focus of my performances and installations, whose aim is to narrate the social and political condition of my country, Iran; on the other hand, painting is an essential expression of my being, of what I think and feel. This technique allows me to externalise the fears, worries and anxieties that plague me, leaving an emptiness in me in its most positive sense. It leads me towards a parallel existence, completely detached from the reality in which we live.

To me the meaning of art at its most profound can be summed up in one wonderful episode. One day, some people stopped before one of my works and remained silent, trying to grasp its meaning. At one point I noticed they had tears in their eyes. They’d glimpsed something deep inside what I’d

created. Then they told me they had experienced an extraordinarily strong emotion, which they couldn’t explain. This spontaneous connection, this emotion, is what art represents to me. I hope my artistic journey will lead me to a wider and wider audience because I want my art to reach beyond the borders of Italy. It is crucial to me that my work comes into contact with more and more people, as it is my only means of spreading awareness about what is happening in Iran. For a long time, I felt powerless before the injustices my compatriots suffer, too far away to be able to participate in the uprisings alongside the many Iranian women who have the courage to challenge the regime. I wasn’t able to lead a normal life, I was no longer even able to paint. Art offered me the only possible way of taking part in the political life of my nation, by speaking out personally against the current political regime. The aim of my art is to give a voice to all those who are fighting for their rights, dreaming of a country finally free of all forms of oppression.

Mostre personali | Solo exhibitions 2023

Cuneo, Castello Reale di Govone, “AVA”. Genova, Centro Internazionale d’Arte Contemporanea MAIIIM, performance “Stone XXL”. Castellucchio, Villa Emma, “La memoria”. Torino, Galleria InGenio Arte Contemporanea, Tea Taramino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Galleria Riccardo Costantini Contemporary, performance “Don’t forget”. 2022

Torino, Galleria InGenio Arte Contemporanea, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Galleria Riccardo Costantini Contemporary, performance “XXL”.

2021

Torino, Galleria Riccardo Costantini Contemporary, performance “Stone XXL”, Torino, Palazzo Barolo, performance “Bani Adam”.

2019

Torino, Università Campus, “Mercoledì bianchi”.

Torino, Officina Arte Contemporanea, “Mondo salato”. 2018

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “Mondo salato”.

Principali mostre collettive | Main group exhibitions 2024

Torino, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, “Ri-connessioni. Arvin Golrokh, Bahar Heidarzade e Ahmad Nejad.”

Torino, Galleria Riccardo Costantini Contemporary, “Feel the slowing of time”. 2023

Genova, Galata Museo del Mare, “Mosaic on paper”.

Rivoli, Casa del Conte, “Donna, vita, libertà”.

Torre Pellice, Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo, “Svelare il presente, arte e impegno”.

Torino, Palazzo Barolo, “Coltivare relazioni”.

2022

Chivasso, Galleria Espositiva Demetrio Cosola di Palazzo Einaudi, “Svelare il presente, arte e impegno”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “Donna, vita, libertà”.

Torino, Complesso della Cavallerizza, “Paratissima Circus”, performance “I miei sogni ballano verso la libertà”.

Torino, Galleria Riccardo Costantini Contemporary, “Annozero più dieci”. 2021

Torino, Complesso della Cavallerizza, “Paratissima Circus”, Galleria Riccardo Costantini Contemporary e Galleria II Fondaco, “Metamorfosi”. Torino, Istituto Superiore di Scienze Religiose, “Vulnerabilis”.

Wuhan, Cina, Galleria Chushang, “Perceive the world through art-small works exhibition of Chinese and Italian artists”.

Cassano delle Murge, Altamura, Gravina in Puglia, Matera, “Biennale d’arte contemporanea della Murgia”.

Torre Pellice, Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo, “Premio del disegno”. Torino, Organizzazione Nazioni Unite, “In unity there is strength”.

Torre Pellice, Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo, “Tempo di sospensione, tempo di resistenza”.

Alba, Museo Diocesano, “Il sacro e la fragilità”. Torino, Galleria Dr Fake Cabinet, “Pella”. 2020

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “ReviviscentiArt”.

Torre Pellice, Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo, “Arte come resistenza”.

2019

Torino, Ex Ditta Gallo Bartolomeo, “Una frisa di metallo”.

Torino, Palazzo Nuovo e Piazza Castello performance “1500+176”.

Bergamasco, Casa Debandi, “Gli spazi di memoria”.

Torino, Biblioteca Nazionale, “Premio Alessandro Marena”.

Venezia, Fondazione Bevilacqua, “Passione bipolare”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “Premio Nazionale delle Arti XIV”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, Festival di Fisad - Padiglione Arte Vivente, “Il futuro e l’acqua”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, Festival di Fisad, “Building a new world”.

Torino, Museo Le Carceri, “Biennale Ars Captiva”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “Lasciato alle spalle”.

Bahar Heidarzade

Don’t forget, 2023

Performance

Torino, Galleria

InGenio Arte

Contemporanea, Tea

Taramino, Fondazione

Sandretto Re

Rebaudengo e Galleria

Riccardo Costantini

Contemporary

Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Sala Azzurra, “Il re”.

Torino, Cavallerizza Reale, “Here4”, “Il re”.

Torino, Tranvia Sassi-Superga, “Concorso Air Land”, performance “Io sé”.

Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Sala Azzurra, “Immaginare il futuro”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, “Ars Captiva”.

Pinerolo, Chiesa di S. Agostino, “#Oasi”.

2018

Torino, Cavallerizza Reale, “Here3”.

Torino, Officina Arte Contemporanea, “Io come me, tu come te”.

Verbania, Villa Giulia, “Wunderkammer”.

Torino, Piazza Castello, “Nel paese dei Lestrigoni”.

Torino, Barriera di Milano, “Un colpo di dadi”.

Torino, Cripta della Chiesa di San Michele Arcangelo, “Inhumare-exhumare”.

Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, Festival “Future is now”.

2017

Torino, Housing Giulia, “VI Biennale delle Scuole d’Arte del Piemonte. Ars Captiva”.

Torino, Galleria del Museo d’Arte Urbana, “Nuova Officina Torinese # cinque”.

Santo Stefano Belbo, Fondazione Cesare Pavese, “Che Figura! Soggetti anti convenzionali

dall’Accademia Albertina”.

Istanbul, Turchia, Elezione alla Triennale.

Torino, Cavallerizza Reale, “Selezione Premio Nazionale delle Arti 2”.

2016

Genova, Spazio46 di Palazzo Ducale, “Al di qua del mare”.

Torino, Mutabilis Arte, “Il tempo e il vissuto tra arte e natura”.

2015

Torino, Eventi Fizad e Ablitart. Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina. 2012

Cotena, Iran, Villaggio verde, performance. Tehran, Iran, Homa Art Gallery.

Ho aiutato anch’io Bahar a portare la sua grande pietra per le vie di Malcesine. Nelle nostre mani quella pietra improvvisamente era diventata vera, accendeva ricordi di fatiche, di dolori passati, di parole amare.

Ma al tempo stesso la sua leggerezza era “facciamo-finta-che”, come quando si giocava da bambine. Quello sforzo fatto insieme, passo dopo passo, ci ha reso sorelle, mi ha riempita di speranza. La stessa speranza che ho visto brillare negli occhi delle donne, e degli uomini, che hanno preso il mio posto e hanno camminato con lei.

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