Intervista al Laboratorio Saccardi

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Intervista al Laboratorio Saccardi IL CONTESTO L’edizione 2008 di Cantieri d’Arte si prefigge di affrontare il tema della città nel suo aspetto urbanistico e architettonico, dal punto di vista della visione chiedendo agli artisti una risposta che non sia necessariamente di mimesi ma piuttosto di rappresentazione. Non essendo mai stato prima a Viterbo qual è stato il tuo impatto con la città? Come hai risolto dal punto di vista della percezione il problema del rapporto, che pare senza soluzione di continuità, tra la città medievale all’interno delle mura con la sua struttura articolata e la sua storia e quella contemporanea che si articola al di fuori delle stesse? Viterbo ci è sembrata essere una città piacevole e a misura d’uomo, siamo rimasti colpiti dal profferlo e da altre intuizioni architettoniche della città antica e di tutta la provincia tuscia. Tra la parte antica e quella nuova abbiamo riscontrato le stesse caratteristiche urbanistiche di città simili a Viterbo, i forti contrasti fra palazzine e pietre, fontane giardini e parcheggi, palazzi di concezione moderna e terme papali. Questo dipende dalla crescita demografica, si è il doppio del 1871 (fig. 1) e al posto di estendersi in larghezza si è preferito l’ascesa verso i firmamenti celesti.

(fig. 1) Dovendo lavorare in un luogo fortemente “tipicizzato” (è completamente assente l’asetticità e la neutralità del whitecube) quale è stato il problema del rapporto tra il tuo lavoro e il contesto?


Lavorare in un whitecube non è necessariamente semplice, le gallerie vengono visitate da una categoria di persone che definiremmo ansiolitiche, lavorare in un sottopaggio è molto più stimolante, passa di tutto, tutto il materiale umano che ci rende felici, mamme, anziani indispettiti, scolaresche curiose, lesbiche, e fantasmi. Abbiamo interagito con tantissime persone, una signora che ci invitava a visitare un canile e la nostra amica che chiedeva l’elemosina (fig. 2) una figura di eleganza magica e duratura.

(fig. 2)

LA VISIONE Cantieri d’Arte è un progetto d’arte pubblica che opera nei luoghi più disparati e disomogenei della città. Ciò significa che gli spettatori sono potenzialmente 60.000 (numero degli abitanti di Viterbo), ma che non tutti hanno il medesimo grado di interesse rispetto al lavoro degli artisti. Qual è stato il tuo approccio al lavoro sapendo che la percezione poteva essere, data la natura del progetto, anche distratta? Wikipedia dice che gli abitanti sono 61.473, con tutti loro abbiamo avuto un rapporto di amicizia sincera, aldilà dell’arte, abbiamo cercato di istaurare un dialogo vivo fatto di semplicità e leggerezza. Per evitare che la nostra immagine e il nostro lavoro venissero distratte e fraintese, ci siamo vestiti con abiti semplici e giovanili. Qual è il tuo rapporto con l’immagine? Qual’è il tuo concetto di visione?


La serie dei bastoni (fig. 3) può esplicare il nostro rapporto con l’immagine e con la visione, una crescente voglia di escalation composta, equilibrata, e con una forte carica fiabesca di lotta antica.

(fig. 3)

IL PROGETTO Il vostro è un lavoro di straordinaria complessità. Attraverso l’ironia e la leggerezza siete riusciti a mettere insieme una quantità impressionante di dati che vanno dai riferimenti politico-sociali a quelli più strettamente legati alla storia dell’arte: i baffi sull’immagine di Barak Obama nuova icona della politica mondiale, sono un chiaro riferimento a Duchamp, il teschio intitolato “The end of the golden age” realizzato in diamanti nella sua versione originale mentre da voi con la pastina da cucina, rimanda immediatamente a Damien Hirst, ma anche il suono, in cui alcuni rumori sono contrappuntati da un silenzio paradossalmente più invadente e pieno dei rumori stessi, è un riferimento alla lezione di Cage e infine una serie di immagini casuali riempiono le mura laterali del sottopassaggio. Nonostante tutto, il lavoro risulta nel suo insieme straordinariamente equilibrato come se nessuno degli elementi in gioco possa fare a meno l’uno dell’altro.


Vista la vostra identità di gruppo come vi approcciate ad un lavoro simile senza riuscire mai a perdere di vista il risultato finale? Il nostro modo di agire di solito si lascia molto influenzare da quello che succede attorno, dai lampi che le circostanze fortuite vogliono. Spesso non sappiamo neanche noi cosa verrà fuori alla fine, e questo stato di cose ci da una tensione emotiva giusta per lavorare, è anche un modo di rendere partecipi gli altri, sia gli amici del laboratorio, sia quelli che ne sono subito fuori, siamo dei sincromisticisti e adoperiamo metodi che ci aiutano anche a capire i limiti e a dover mettere continuamente in discussione le nostre scelte individuali. Oltretutto il vostro sembra essere un work in progress espandibile all’infinito. Quando riconoscete una “fine”, una compiutezza al lavoro? Di solito quando ci stanchiamo, ma nel caso specifico non crediamo ci possa essere una fine vera e propria, passerà gente, adolescenti ribelli scriveranno qualcosa, produrranno suoni, il sottopassaggio si evolverà fino a diventare un luogo sacro ed esoterico, e poi a noi piace quando altri finisco o continuano un lavoro iniziato da noi. (fig. 4)

(fig. 4) La frase di Flaiano con la quale concludete il vostro progetto (Tranquilli, il meglio è passato) sembra non essere troppo incoraggiante. Come a dire che le cose migliori si possono solo collocare in un passato rassicurante. Pensate che il passato, la storia e le radici siano ancora depositari di una “verità”, di una saggezza sulla quale ripartire per costruire il futuro? Le pietre e gli oggetti inanimati sanno molto di più di quanto ne sappiano il governo e la società civile, il futuro e il passato sono la stessa cosa, infatti la conclusione del progetto, potrebbe benissimo esserne anche l’inizio, venendo dal lato contemporaneo di piazza Crispi, questo gioco fra passato e futuro ci ha preso particolarmente ed è stato uno dei punti più divertenti del progetto. Fatevi una domanda e datevi una risposta! Di cosa siete pentiti? Di non aver visto il presepe, opera del pittore viterbese del XV secolo Antonio del Massaro, detto il Pastura. (fig. 5)


(fig. 5)


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