Strategia mediatica ed “effetto Bilbao” di Claudio Zecchi
«Cosa accade fra le mura del museo a Bilbao è irrilevante rispetto al richiamo che l'edificio/scultura è capace di generare». (F. Bonami)
Un banner 6x3 m tipico delle pubblicità che oggi troviamo in tutte le città, campeggia fuori da Porta Romana, non solo una delle porte più antiche di Viterbo ma anche il punto di ingresso principale per chi arriva da Roma seguendo i monti Cimini o la Cassia. Il banner installato strategicamente sulle mura adiacenti alla porta, introduce, da un punto di vista comunicativo, alla seconda edizione di “Cantieri d’arte” senza però mai accennare direttamente alla mostra in corso. Una fantomatica collezione “Guggheneim”, che trova nei borghi e nelle strade della città il suo prescelto scenario museale, sarà sotto gli occhi inconsapevoli di un pubblico ignaro dal 22 di settembre all’8 di ottobre. Così recita il banner pubblicitario. L’operazione che OZMO pone in essere prevede la scelta di uno strumento di comunicazione di uso corrente, la scelta di un contenuto altrettanto facile da individuare, la loro destrutturazione e la successiva organizzazione in un altro insieme significante che da origine ad un nuovo organismo dai molteplici strati di senso. Il primo passo prevede l’appropriazione formale – un pvc oversize – di una struttura che induce direttamente il fruitore a pensare si tratti di una pubblicità e di conseguenza la lettura del messaggio lanciato con un lettering altrettanto ben visibile che non può far altro che impressionare chi legge. Successivamente lo sguardo si concentra sul contenuto del messaggio e allora ciò che colpisce immediatamente è il soggetto: la “Guggheneim collection”. A questo punto la comunicazione subisce un ulteriore scarto infatti, se fonicamente il nome suona come quello del prestigioso museo, ortograficamente, con piccole variazioni, esso è completamente stravolto e cioè scritto così come si pronuncia. Infine le linee sott’impresse rimandano direttamente al logo del museo. Perché tutto risulti definitivamente più credibile in basso sono presenti i loghi degli sponsor istituzionali che finanziano il progetto “Cantieri d’arte”. Ora, chi osserva si trova chiaramente in una posizione interlocutoria di duplice matrice, contenutistica e concettuale, da imputare evidentemente al carattere polisemico del lavoro. Nel primo caso gli interrogativi riguardano l’argomento, il soggetto, nel secondo caso il senso di un lavoro che se non fosse segnalato rimarrebbe inosservato e indifferente, poiché uguale a tanti altri che su quello stesso muro vengono affissi, agli occhi di uno spettatore inconscio. E quindi nel primo caso: qual è l’oggetto del messaggio, la prestigiosa collezione “Guggheneim” che qualche abile assessore è riuscito a portare a Viterbo o “Cantieri d’arte” la mostra che è stata effettivamente realizzata? Quali opere dovrà attendersi di visitare il fruitore, quelle che non ci sono provenienti dal “Guggheneim”, o quelle che realmente sono presenti in città nel periodo pubblicizzato dal banner e cioè quelle degli artisti invitati a partecipare a “Cantieri d’arte”? E ancora nel secondo caso: beffa e mera
provocazione o possibilità di riflettere sul senso di una mostra che ha come suo obiettivo quello di utilizzare l’arte contemporanea come strumento e quindi chiave di lettura di una tradizione ancora fortemente presente? In fondo «non si può prescindere la tradizione per una lettura del presente, nemmeno quando si attua un rifiuto, come può essere stato durante le avanguardie artistiche» e questo significa che la rinascita culturale di una città così fortemente caratterizzata non può che passare attraverso la cultura stessa, così come in un’opera concettuale in cui l’arte diventa autoreferenziale, guarda se stessa, ci svela le regole che la governano e riconosce i propri limiti. Ecco perché la scelta del Guggenheim, questa volta scritto correttamente, operata da OZMO non è casuale riferendosi a quella straordinaria rinascita culturale che vide protagonista la città di Bilbao sul finire degli anni Novanta dopo l’apertura (1997) del museo e che oggi viene universalmente riconosciuta come “effetto Bilbao”.
Un edificio qualunque di Claudio Zecchi «Tutti sappiamo che l’arte non è verità. L’arte è una bugia che ci fa raggiungere la verità, perlomeno la verità che ci è dato di comprendere». (P. Picasso)
Gli storici e gli storici dell’arte della città di Viterbo danno una clamorosa notizia: «A seguito di un importante campagna di studi sulla città è emersa una straordinaria scoperta: un edificio sito in Via San Pellegrino si fregia di nessuna importanza storicamente rilevante. Il Comune ha già pronta la targa commemorativa: «Un Edificio Qualunque – Questo edificio, progettato da architetto sconosciuto in epoca irrilevante, mai appartenne a persona di spicco. Il complesso non presenta originali soluzioni architettoniche né al suo interno sono conservate opere di rilievo. Non si serba memoria di avvenimenti storicamente significativi verificatisi in questo luogo. Nessun personaggio noto qui nacque, visse o morì, né tuttora vi opera alcun creatore mirabile o sommo poeta». Sembrava tutto perfettamente veritiero fin quando non si è scoperto che si trattava dell’ennesima beffa del duo di artisti contemporanei Eva e Franco Mattes, conosciuti come 0100101110101101.ORG». Potrebbe essere questo lo stralcio di un ipotetico articolo di giornale che la stampa locale pubblicherà nei giorni successivi allo svelamento della targa di “Un Edificio Qualunque”. Il lavoro che gli 01.org hanno realizzato ci costringe ancora una volta a riflettere sull’essenza tendenziosa delle notizie: ogni notizia non è mai completamente vera o falsa, la sua veridicità dipende sempre dal mezzo di diffusione della stessa. Come quando Duchamp mise l’orinatoio in un museo costringendo il pubblico ad accettarlo universalmente come opera d’arte, anche in questo caso, perché la dichiarazione è stata scritta su una targa e ancora di più perché riportata dagli organi di stampa, si accetta che l’edificio in Via S. Pellegrino sia un edificio storicamente irrilevante. La targa è una targa e nient’altro, il senso della dichiarazione di irrilevanza riportata su di essa è una tautologia; oggetto e soggetto coincidono in una formulazione intransitiva che non permette di ricercare significati altri. «Un’opera d’arte non può accontentarsi di essere una rappresentazione: deve essere una presentazione. Un’opera d’arte che rappresenta è sempre falsa. Non può che rappresentare, e sempre convenzionalmente, ciò che proclama di rappresentare. La convenzione può essere relativa agli occhi e alla 1
mente […] L’opera presentativa sfugge ovviamente a questo principio» . Il contenuto va letto e va preso coscienza di quello che è stato scritto senza cercare al di là di una verità che è già pienamente dichiarata: una verità storicamente inattaccabile. 2
Come in altri precedenti lavori, è il caso di “United we stand” , un immaginario colossal hollywoodiano in cui l’Europa assurge a ruolo di salvatrice del mondo in una catastrofe nucleare, anche in questo caso il momento del pronunciamento della notizia coincide con il momento dello svelamento del suo falso; e anche 1
P. Reverdy in F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Einaudi, 2001, p. 33
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United we stand è un immaginario colossal hollywoodiano interpretato da Ewan McGregor e Penelope Cruz. Per
questo lavoro è stato curato una sito nei minimi dettagli, sono state realizzate locandine e annunci pubblicitari, nonché affissioni in tutto il mondo in pieno stile Holliywood. Di conseguenza, tramite una serie di videocamere pronte a cogliere le reazione di un pubblico inconsapevole, è stata monitorata la risposta mediatica.
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nel caso di “Un Edificio Qualunque” come in “Nike Ground” il pubblico è un pubblico inconsapevole allo stesso tempo fruitore e parte dell’opera; anche in questo caso, infine, come nei due precedenti, il lavoro dei due artisti ha una forte matrice provocatoria che vede come proscenio ideale non più i luoghi deputati ufficialmente al riconoscimento istituzionale di un’opera come opera d’arte (gallerie, musei ecc.), ma la città, un luogo qualunque, non meglio identificato, perché è solo lì che si può ottenere la reazione più genuina e autentica: «Se vuoi veramente colpire qualcuno fallo quando meno se lo aspetta, non quando ha pagato un biglietto per farsi colpire». E per colpire gli 01.org si appropriano liberamente di un oggetto già esistente nella sua forma cambiandone il significato originario per comprometterlo, eroderlo, rovesciarlo, decostruirlo, decontestualizzarlo e riorganizzarlo in nuovo complesso significante. Il soggetto di “Un Edificio Qualunque” è si la storia ma non una storia in particolare, la storia di un eroe, la storia di un artista, la storia di una battaglia ma una “Storia” che paradossalmente non commemora nessuno se non se stessa creando così un blackout, un cortocircuito che impone domande aperte che ogni spettatore chiude a proprio modo. Dal punto di vita formale nel lavoro degli 01.org non c’è nulla di originale si tratta ancora una volta di riappropriazione e campionamento di matrici che esistono in un background di informazioni già esistenti e che vengono scambiate e rielaborate continuamente. E’ già stato detto e scritto tutto la cultura è «un enorme e infinito plagio». «L’arte che pretende di essere vera è sicuramente falsa. L’arte che dichiara d’essere falsa è sempre autentica». In questo caso una targa è una targa e può trovarsi ovunque, ma quella targa ha senso di esistere solamente in Via S. Pellegrino perchè l’opera non sta solamente nell’oggetto in se ma nella condivisione della riflessione che essa impone tra chi di essa fruisce e, ancora prima, nella diffusione della notizia per mezzo della stampa locale e cioè dell’unico posto dove è possibile verificarla: Viterbo. L’opera sta nel suo essere notizia solo in quel momento e in nessun altro perché, come ogni performance, essa è e sarà “veritiera” solo nel momento in cui si svela davanti ad un pubblico che, solo in quel momento, reagirà con genuinità ad una beffa organizzata in ogni suo dettaglio.
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Nel 2004 gli 01.org hanno insatallato in una delle piazze storiche di Vienna, Karlsplatz, un gigantesco Nike Infobox
che annunciava l’acquisto da parte del colosso multinazionale della stessa piazza che presto avrebbe cambiato il nome in Nike Platz. La città diventava così teatro di una performance iper-reale che aveva come scopo quello di produrre un’allucinazione tesa ad alterare la percezione collettiva della città stessa. La reazione di protesta dei cittadini viennesi e, l’azione legale subito decaduta da parte della Nike, non si sono fatte attendere a lungo. Nike Infobox a Karlsplatz si trovava di fronte allo storico Palazzo della "Secessione Viennese", costruito da Joseph Olbrich nel 1898. All'entrata dell'edificio è riportato a grandi lettere dorate il motto del gruppo: "Ad ogni tempo la sua arte. Ad ogni arte la sua libertà".
INTERVISTA A EVA E FRANCO MATTES di Claudio Zecchi 1 Storia, tradizione, passato da una parte; attuale, presente, nuovo dall’altra. Il contemporaneo diventa a tutti gli effetti uno sguardo preferenziale sulla piattaforma di una tradizione a volte ingombrante che attanaglia la città in un sonno, una stasi, latenti. Quali sono secondo te le potenzialità dell’arte contemporanea come strumento di lettura del nostro passato?
La storia non è data, è da scrivere, è pura fiction, come un romanzo. Per questo non mi interessa la storia del passato ma solo la storia del futuro. Sono sempre stato ossesisonato dall’autostoricizzazione, ossia decidere che posto occupare nella storia e prendermelo senza convenevoli, magari servendosi di qualche trucco e scorciatoia. L’intero movimento della net.art è un ottimo esempio di come la storia possa essere creata e manipolata a tavolino. Quando nel 1995 sostenevo che nell’arco di dieci anni saremmo stati nelle enciclopedie e nei manuali di storia dell’arte la gente credeva scherzassi. Oggi non hai che andare in libreria e verificare.
2 Che tipo di riflessioni ti ha indotto a fare un progetto del genere?
Quando vivevamo a Berlino, nel 1996, avevamo affisso una targa fuori dal portone di casa nostra in cui si diceva che in quell’edificio aveva vissuto il noto Dadaista Berlinese Johannes Baader, ai tempi uno dei nostri artisti preferiti. Siccome l’insegna aveva un aspetto serio, istituzionale, nessuno la mise mai in dubbio. Noi mostravamo agli interessati la stanza dove Baader, nel 1920, aveva edificato il suo Plasto Dio Dada Drama, e raccontavamo sempre nuove versioni della sua storia, che tutti prendevano molto seriamente. Un docente dell’Università arrivò ad inserire questi aneddoti nel suo studio sul Dada berlinese. Questo ci fece capire il “potere dell’apparenza”, come basti un aspetto credibile, in quel caso la targa, a far calare le “difese immunitarie” dell’intelletto, e così trasmettere ogni sorta di messaggio. Chi controlla il presente decide il passato, chi controlla il passato influenza il futuro.
3 Hai mai lavorato su un progetto simile, non in termini formali (site-specific) ma in termini di contenuti? Quale è stato il tuo approccio al lavoro? Quanto cambia l’approccio rispetto ad un lavoro commissionato da una galleria o un museo?
Sì, ad esempio Nike Ground: una performance durata un mese, nella quale si faceva credere che la Nike avesse comprato Karlsplatz, storica piazza di Vienna, per rinonimarla Nikeplatz. Abbiamo installato a Vienna un container ultramoderno di tredici tonnellate, aperto al pubblico, nel quale si poteva ammirare il progetto per un monumento gigantesco a foma di logo della Nike che sarebbe stato costruito nella piazza, abbiamo attivato una linea telefonica dedicata e distribuito migliaia di volantini. Insomma, una campagna pubblicitaria in pieno stile “Corporate”, perfettamente credibile, ma realizzata per fini artistici, che ha scatenato la reazione dei cittadini, dei media e della Nike.
Troppi artisti vogliono scandalizzare, sovvertire e provocare all’interno della riserva protetta dell’arte, e dopo cent’anni di sta roba ne abbiamo veramente piene le palle. È impossibile ottenere una reazione autentica da un pubblico che si reca appositamente in uno spazio preciso e ben connotato per provare delle emozioni. Se vuoi veramente colpire qualcuno fallo quando meno se lo aspetta, non quando ha pagato un biglietto per farsi colpire.
4 Quale è stata la tua reazione alla possibilità di lavorare ad un progetto in una città che non ha nessuna riferimento nel contemporaneo – voglio dire al sistema dell’arte (gallerie, critici, musei, riviste), l’unica fiera che esiste, Vitarte, è ancora troppo giovane e assolutamente incapace di fronteggiare i colossi nazionali – e che vive una situazione di totale decentramento. Stimolo o frustrazione?
Il centro del sistema artistico contemporaneao è New York, che durante le due Guerre mondiali ha sostituito Parigi. Dal punto di vista del sistema dell’arte qualunque città che non sia New York è da considerarsi periferia. Noi preferiamo cercare l’ispirazione e produrre arte non nel centro ma piuttosto nelle periferie del mondo. Ljubljana, ad esempio, con artisti come la NSK, o Bologna, ai tempi di Luther Blissett, sono stati luoghi di enorme ispirazione per noi. Poi, una volta creata l’arte, bisogna fare i conti col centro per promuoverla e venderla, per storicizzarla, ma non bisogna confondere le due fasi: si crea in periferia, e si promuove nel centro. 5 La città diventa in questo caso museo all’aperto; la fruizione anche se poco avvezza all’arte contemporanea sarà molto più ampia rispetto ai luoghi tradizionalmente deputati ad accogliere l’arte se non altro per le dimensioni del progetto. Quello che noi curatori ci aspettiamo è una risposta attiva da parte di un pubblico stimolato da interventi di vario genere non solo in termini formali ma anche di contenuto. Quanto è importante per te il pubblico, che tipo di reazione ti aspetti da parte di questo?
Le nostre opere spesso si rivolgono ad un pubblico casuale, inconsapevole: un colossal in uscita nelle sale, una campagna pubblicitaria “della Nike” particolarmente innovativa, il sito “ufficiale” della Santa Sede o un bizzarro artista Serbo ultra-radicale. Le nostre storie si diffondono attraverso i quotidiani e le riviste, per le strade ed in TV, te ne parla il tuo vicino di casa. Si diffondono con ogni media per diventare moderni miti. Il nostro pubblico non sa di essere parte integrante di un’opera, e quindi reagisce in modo diretto e autentico: non “arte pubblica”, ma il “pubblico come arte”. Solo in una seconda fase esponiamo i frutti di queste performance all’interno degli spazi e dei tempi dell’arte - musei, Biennali, gallerie - rivolgendoci al pubblico dell’arte.
6 Avete dichiarato più volte che il vostro maggior interesse sta nella comunicazione del messaggio “con ogni medium necessario”. Come avviene la scelta di questo? Forma e contenuto procedono sempre di pari passo?
Il messaggio è il messaggio, me ne frego del medium. Abbiamo lavorato con ogni mezzo, dai più elementari, come telefonate, lettere o addirittura il passaparola, ai più sofisticati, come la rete satellitare o Internet. Scegliamo lo strumento in funzione dell’idea.
7 I libri ci raccontano sempre di un fatto, un evento, un personaggio che hanno lasciato indelebilmente il segno nel corso del tempo creando uno sconvolgimento dello “status quo”, così nella politica, nelle scienze, nelle arti e in ogni altra disciplina. Il più delle volte i gesti o le imprese di un singolo sono riportati alla mente dei fruitori attraverso la celebrazione dello stesso su una targa: “Qui è nato…eccellente pittore…” oppure: “qui è stata combattuta la battagli di…”. Il vostro lavoro è una targa commemorativa che ha per soggetto la “storia” in senso lato ma che paradossalmente non commemora nessun evento, luogo, o personaggio in particolare lasciando il fruitore in una condizione di straniamento interlocutivo. A questo punto vi chiedo: chi sono per voi i protagonisti della storia, chi fa la storia, cos’è la storia?
Quella che abbiamo fatto affiggere a Viterbo è una onesta targa che dice la verità dal punto di vista della Storia con la “S” maiuscola: vivi in un palazzo insignificante, dove nessuna persona importante è mai vissuta, nessun fatto storico è mai avvenuto e infine nessun individuo famoso vi vive oggi. Non bisognerebbe permettere ai morti d’essere più potenti dei vivi. Dobbiamo imparare a dimenticare il passato, a vivere le nostre vite nel nostro tempo.
8 Mi sembra di capire che il processo di storicizzazione in senso lato non vi interessa, che vivete fortemente il presente lanciando uno sguardo al futuro. In questo modo si riapre la retorica avanguardista per cui, in una furiosa corsa contro il tempo, ciò che è attuale oggi diventa obsoleto domani. In questi termini il processo di storicizzazione diventa immediato. Dite che non bisogna “permettere ai morti di essere più potenti dei vivi”, che “dobbiamo imparare a dimenticare il passato” eppure il passato è per voi un grande serbatoio a cui attingere (Duchamp, Marinetti, Deleuze, Sex Pistols, Psichedelia ecc.) per manipolare, corrompere, erodere, decostruire e ricocostruire come in un campionamento. Non è perlomeno paradossale? E poi: qual è la sottile linea che distingue passato e presente? Esiste un presente continuo per cui alcune forme d’arte sono sempre attuali e quindi presenti?
Sì, è paraddossale. Conosci qualcosa che non lo è? Per me la cultura è un enorme cassetta degli attrezzi da cui attingere. Mi interessa il passato solo per saccheggiarlo. Ho una conoscenza della storia lacunosa e totalmente deformata, tutto quello che so l’ho imparato guardando la televisione: i Sex Pistols, il Wu Tang Clan, il comico americano Andy Kaufman, la cultura Hacker e John Belushi. Ultimamente sono ossessionato dalla serie Jackass. Ingerisco tutte queste informazioni in dosi massicce, sempre sbagliate, e poi vomito tutto quanto nelle nostre opere. Dal 2000 organizziamo un festival annuale chiamato “The Influencers”, al Centro di Cultura Contemporanea di Barcelona, dove invitiamo decine di personaggi provenienti da tutto il mondo a parlare di se stessi: hackers, truffatori televisivi, agitatori culturali, ingegneri robotici sovversivi, preti-performer e chi più ne ha più ne metta. Ogni anno durante la conferenza stampa i giornalisti vogliono capire cosa lega tutti questi
personaggi, quale è il tema del festival, e puntualmente io non so rispondere. Però alla fine del festival, che dura tre giorni, il pubblico è sempre entusiasta. 9 Come in tutti i vostri progetti anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un “falso” e come in “United we stand” anche in questo caso il momento del pronunciamento della notizia coincide con il momento dello svelamento del suo falso. Proprio in quel momento sembra possa nascere una nuova “storia”. Che ruolo gioca la “beffa” nel vostro lavoro? Il falso è la chiave del nostro secolo. Quasi tutto è falso. L’arte che pretende di essere vera è sicuramente falsa. L’arte che dichiara d’essere falsa è sempre autentica. La cultura “non può” essere vera. Per riuscire a immaginare e realizzare queste opere cancelliamo e ignoriamo il nostro gusto e stile e abbracciamo identità sempre diverse, siano esse una multinazionale come la Nike, un produttore cinematografico Hollywoodiano o l’ente Turismo della Città di Viterbo. Lavoriamo ossessivamente a idee ed immagini che normalmente ignoreremmo. Se vuoi dire qualcosa devi indossare una maschera, se vuoi essere onesto allora devi vivere una menzogna. Essere se stessi è sopravvalutato, la gente dice “Sono solo me stesso” come se fosse una sorta di raggiungimento, ma questa non è onestà: è mancanza di immaginazione. È uno dei tanti paradossai della mia vita, l’ho capito una notte, guardando “Vanilla Sky”, con Tom Cruise.