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teatro|danza|Moda brecht dance dal web al teatro
“brecht dance” , dal Webalteatro in scenale storie deGli ultiMi
Antonietta Fulvio
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Sulla piattaforma produzionedalbasso, parte il finanziamento alla realizzazione “ dello spettacolo della compagnia nO il cui debutto è previsto per febbraio”
Nato durante lo stato di pandemia all'interno di "Atlantide" , “Brecht Dance” si pone l’obiettivo di diventare uno spettacolo teatrale e chiede per questo il sostegno di chi ama e crede nel teatro. Un teatro che si occupa della gente e che nel solco della poetica di Brecht dà voce agli ultimi, agli emarginati. Durante il lungo periodo di isolamento dovuto al Covid 19, una comunità di artisti si sono incontrati su piattaforme web, diventate agorà virtuali dove interrogarsi sul senso del proprio lavoro. Partita sul sito produzionidalbasso, la campagna ideata dagli attori Elena Gigliotti, Dario Aita e Daniela Vitale, è finalizzata alla realizzazione dello spettacolo “Brecht Dance” che nasce come una pillola di senso, un’azione artistica in un tempo e uno spazio vivo, del quotidiano; una docu-performance, una terapia urbana collettiva. Perché Brecht? Ce lo spiega l’attrice Elena Gigliotti, formatasi alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova, interprete di Napoletango, con la regia di Giancarlo Sepe, Il mercante di Venezia di Shakespeare, Il bugiardo di Goldoni, La Lezione, di Ionesco, Don Giovanni di Moliere e nell’ Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni con la regia di Valerio Binasco, solo per citare alcune produzioni teatrali, dal 2009 è parte costituente di nO (Dance first. Think later.). Regista e coreografa, l’abbiamo apprezzata anche in tv nella serie televisiva Bang Bang Baby con la regia di MicheleAlaique, e sul grande schermo nei film Il Giorno e la Notte di Daniele Vicari e il prossimo anno la vedremo vestire i panni di Carmen protagonista de L’invenzione della neve di Vittorio Moroni. «Perché Brecht si interessa degli ultimi, ci racconta degli ultimi, di persone che oggi non hanno la possibilità di essere viste ed ascoltate. Intervisteremo anziani, persone senza fissa dimora, detenuti, gente considerata folle al fine di creare uno spazio di condivisione e identificazione con ciò che è apparentemente diverso da noi, incomprensibile.» Il teatro incontrerà storie di varia umanità con un unico filo rosso che, attraverso il linguaggio della parola poetica e della gestualità della danza, affronterà il tema della memoria autobiografica, il presente e la paura, il sogno… attraverso le interviste e le voci di altre persone che racconteranno la loro verità, la loro storia.
«Facendo leggere le poesie di Brecht alle persone daremo al suo metodo un nuovo significato, le parole poetiche lette da una persona comune acquisiscono un valore importantissimo- spiega la stessa Elena Gigliotti che aggiunge - in scena ci sarà una sola performer Daniela Vitale che racconterà queste voci, e interpretandole testimonierà ciò che ha visto, e ascoltato e i suoi occhi saranno gli occhi del pubblico che entreranno nelle vite di queste persone.» La parole “Dance” unita a Brecht acquista un preciso significato «perché il progetto della compagnia nO - spiega l’attrice Daniela Vitale- nasce dalla necessità di lavorare con il corpo in scena e per noi la danza è anche qualcosa di onirico che ci riporta al sogno al di fuori della quotidianità». Nato nel difficile periodo della pandemia, la Compagnia nO si è dato l’obiettivo di riportare il teatro in mezzo alla gente, infatti il progetto è nato per i cortili. Brecht Dance, il cui debutto è previsto per febbraio, è nato per la gente e per questo motivo vuole essere un progetto finanziato a partire dal basso e sulla piattaforma https://www.produzionidalbasso.com/project/brechtdance/ si potrà decidere di sostenerlo liberamente. Il finanziamento è finalizzato alla realizzazione di scene e costumi, del fondo per la circuitazione dello spettacolo e delle ricompense per i sostenitori e le sostenitrici, per il materiale fotografico necessario per un’installazione fotografica nello spazio teatrale da visitare prima dello spettacolo oltre che alla retribuzione in termini di cachet e oneri contributivi delle persone coinvolte nel progetto artistico a difesa del riconoscimento del loro lavoro.
chiavi in prestito Martina bruni a casa vuota
A Casa Vuota, in via Quadraro, fino all’8 “ Maia al gennaio 2023 le opere dell’artista e psicoterapeuta calabrese ”
ROMA. Le chiavi prese in prestito non hanno radici, appartengono alle case degli altri e sono viatici per luoghi magici nei quali vigono le regole dell’ospitalità senza appartenenza. Parte da questo assunto “Chiavi in prestito” la mostra di Martina Bruni artista e psicoterapeuta, calabrese di nascita e milanese di adozione, che dal 26 novembre all’8 gennaio abita con le sue opere gli spazi di Casa Vuota. Curata da Francesco Paolo Del Re e Sabino de Nichilo, l’esposizione presenta disegni fatti con i pastelli su carte di piccole dimensioni, attraverso i quali l’artita racconta le stanze nelle quali si trova temporaneamente ad abitare e la relazione che si crea con i suoi ospiti. La ricerca artistica di Martina Bruni è caratterizzata da tratti inquieti, colori accesi e visioni oniriche che trasformano gli spazi e le vite che a essi sono legate. «Chiavi in prestito – racconta l’artista – sono quelle che tengo in tasca da anni, da quando me ne sono andata da casa. Sono una raccolta di traslochi, mobili spostati, arredi dismessi, coperte mostruose e ninnoli. Sono uscita ed entrata da case non mie, tenendomi pezzi di muri sotto le unghie, passando da stanze aperte e letti occupati. Ho soggiornato in case infestate, ho chiuso porte che non si apriranno più, caffè versati in tazze che non mi sono mai appartenute. Ho dormito nelle intercapedini e messo le tende nelle fughe. Non è mai passata la nostalgia di casa, scendendo e salendo dai treni ho praticato rituali di memorie tra comodini e giardini. Non me ne sono mai andata e non sono mai ritornata. Così in questo vagare ho collezionato famiglie transitorie, vissuto affidi condivisi, lottato per camere separate.». «Sono opere su carta di piccolo formato–spiegano i due curatori – tasselli del puzzle di una mostra nella quale addentrarsi di soppiatto, con cautela, illuminando con piccole torce porzioni di buio. Una mostra da ascoltare negli scricchiolii, nel respiro segreto delle stanze, dove spesso la presenza umana è assente e, se c’è, è addormentata e sembra una cosa fra le cose».
La ricerca artistica di Martina Bruni è intimamente legata alle istanze e alle pratiche della tecnica psicologica e del suo lavoro di psicoterapeuta. Il colloquio clinico si rispecchia nel disegno, nella misura in cui l’io dell’artista lascia il posto agli altri. Così avviene nelle stanze dipinte nelle quali Bruni conduce il visitatore della mostra, invitandolo a sbirciare con lei: racconti di un controtransfer, ovvero di quel sentimento che prova il terapeuta verso il suo paziente. L’artista decide di dipingere la sua assenza dalla scena, riservando il ruolo di protagonista della sua ricerca artistica alle stanze altrui, da riallestire come set, con i loro oggetti intimi e quotidiani, per poi disegnarle e reinventarle. La casa resta la stessa, ma il passaggio di Martina, con il suo sguardo fiabesco e onirico, la modifica. Nata a Cosenza nel 1989 Martina Bruni vive a Milano. Disegna prediligendo i pastelli a olio e le opere di piccolo formato. Nel 2021 lo Spazio Martin di Milano ospita una sua personale intitolata Infestante. Tra i progetti recenti si segnalano nel 2022 la partecipazione alla residenza C.F. Contempororaryfire di Cerreto Guidi in Toscana, nel 2021 Walk in Studio a Milano e Rovina di Futuro Arcaico a Bari e a Valona in Albania, nel 2020 Ulisse presso La Galleria di Amantea e la performance pittorica Dafne allo spazio Metodo di Milano. Espone nelle collettive Noccioline organizzate da Yellow, nel 2020 nello studio di Davide Serpetti a Tortoreto e nel 2019 nello studio di Luigi Presicce a Firenze. È del 2019 infine la partecipazione al Simposio di pittura della Fondazione Lac O Le Mon di Lecce.
chi Guarda possatrovare la vita. “don Fortunato di noto”
Dario Bottaro
Addèvu è il titolo della collettiva allestita a Siracusa negli spazi della Galleria Regionale di Palazzo Bellomo fino al 26 febbraio 2023. Le opere della Galleria dialogano con gli scatti di 15 fotografi ”
Esiste un filo invisibile che fa parte della vita di ciascuno di noi, un filo rosso che in modo imprescindibile ci lega gli uni agli altri, e questo filo ha un luogo di principio: il grembo materno. Germoglio di quella vita che dopo aver preso forma umana viene alla luce in tutta la sua disarmante bellezza, che sconvolge ed entusiasma e ci fa sentire l’immensa potenza del suo mistero. Un mistero che ha principio quando veniamo al mondo e che si evolve con il passare del tempo, si tramuta in sillabe, poi in parole, poi ancora nelle infinite attitudini di ciascun individuo. Il primo luogo dopo il grembo materno in cui si manifesta l’avventura della vita è la “culla” , che è stata scelta appositamente come simbolo dell’infanzia e inizio del percorso espositivo di questa mostra, pensata per riallacciare quel filo rosso e mettere in dialogo, anche attraverso le parole delle poesie scritte da don Fortunato di Noto, le opere della Galleria Regionale di Palazzo Bellomo, con gli scatti di quindici fotografi. Uomini e donne provenienti da ambiti differenti che hanno riflettuto e dialogato con le testimonianze pittoriche e scultoree del passato, scomponendo, ricomponendo e rielaborando le immagini per trarne il loro personale messaggio che consegnano alla comunità, anch’essa luogo fondamentale in cui ogni bambino cresce e si forma diventando uomo. A soste-
Figg. 9, 10, 11, 12, da destra verso sinistra Luca Scamporlino “Aurora di Apollo” , Tiziana Blanco “Anime complici” , Damiano Macca “Coera” , Arianna Consiglio “Vacuum” nere questo scambio di pensieri e rappresentazioni figurative, le parole sensibili e poetiche del sacerdote che da anni, lotta per la difesa dell’infanzia. Quello dell’Associazione Meter di don Fortunato Di Noto – che da anni si occupa della tutela dei minori – è un progetto che fra le sale della Galleria Bellomo, prende vita per affermare l’importanza dei diritti dei bambini e schierarsi apertamente dalla loro parte, a tutela della vita e delle esigenze dei più piccoli e indifesi. E se una culla dall’aspetto consunto, ma affasciante nelle sue forme sinuose e nel suo implicito significato, è il punto di partenza di questo viaggio metaforico, si prosegue con le immagini su tavola delle Madonne in trono col Bambino. Al loro fianco le fotografie di Melo Minnella, “Maternità” (fig. 1) in dialogo con la “Madonna della Speranza” e Giacomo Vespo, “#likestories” (fig. 2) vicino alla “Madonna in trono adorante il bambino e sei angeli oranti” . Due diverse interpretazioni del tema, Minnella – che nella sua lunga carriera
artistica ha ben conosciuto e immortalato gli istanti della quotidianità nel mondo - ci presenta una donna orientale, accovacciata con il figlio sulle gambe e il suo velo a protezione del bambino, è l’essenza stessa dell’essere madre. Manifestazione della cura e della protezione riservata alla creatura, enfatizzate dalla scelta del bianco/nero dello scatto. In quest’immagine così veritiera sembra quasi di scorgere la simbologia della “culla” nella sua forma piramidale, rimembranza di un tempo passato, di un’antropologia custodita nella memoria, ma sempre attuale al sorgere di una vita nuova che si affaccia al mondo. Giacomo Vespo rilegge invece l’opera antica contestualizzandola nel tessuto sociale della sua città, Noto. Ai piedi dell’imponente scalinata della Cattedrale tre ancelle fanno da corona alla gran dama col bimbo in braccio, tutte in abiti settecenteschi a sottolineare l’importanza storica della città-madre del Barocco siciliano. La particolarità dello scatto risiede però nella presenza/assenza delle piccole dame, fisicamente occupanti la scena, ma totalmente estranee a madre e figlio perché assorbite dai loro social media. Una riflessione che dunque pone l’accento sulla pluralità delle vite odierne, impegnate ad “essere ed esistere” nella realtà e nel virtuale che spesso si mescolano fino a confondersi. Alla “Madonna del Soccorso”
fa da specchio la fotografia di Giuseppe Margani “Eppure sono convinto che c’è una mano invisibile” (fig. 3), titolo tratto da una poesia del bengalese Rabindranath Tagore, vissuto a cavallo fra il XIX e il XX secolo. L’autore, già nell’intitolare il momento immortalato, evoca una forza misteriosa, non solo generatrice di vita, ma anche del suo evolversi, trasformarsi, farsi materia e poi essenza invisibile, codificata nel linguaggio dei sentimenti umani che dinanzi alla fragilità di un bambino si fanno culla, abbraccio e scudo protettivo. Margani – la cui cifra distintiva è l’indagine profonda della quotidianità attraverso l’umano vivere – con il suo bianco/nero crea un contrasto visivo dal forte impatto emotivo. I soggetti qui raffigurati sono un uomo di colore che tiene teneramente in braccio un bimbo biondo e nella fusione delle due figure risiede il messaggio di unità e unicità delle vite umane, oltre che l’implicito richiamo alle tematiche della nostra società sui temi dell’immigrazione, l’integrazione sociale e del diritto alla vita che non è e non deve essere privilegio delle nazioni più sviluppate, bensì fondamento di dignità e rispetto universale di ogni individuo. All’infanzia si lega profondamente l’opera successiva che ritrae una scultura de “La Carità” raffigurata come una donna che tiene in braccio due bambini con le manine
appoggiate ai seni. A riflettere sul tema è Candida Luciano che si autoritrae nello scatto fotografico “Global charity” (fig. 4) dai toni vivaci, ricco di simbolismi contemporanei. L’attenzione per il pianeta e per gli esseri viventi viene rappresentata dai sacchetti biodegradabili con pane e cibo per gli animali, mentre la scritta “no alla guerra” è impressa sul foglio di giornale che avvolge i fiori, richiamo alla delicatezza ed alla fragilità dei bambini e dei più deboli; sullo schermo dello smartphone rivolto verso lo spettatore appare infine un sito tramite cui effettuare donazioni per i popoli colpiti dalla guerra. Questo tema si palesa nell’immagine in bianco/nero del fotografo reporter di guerra Ugo Lucio Borga intitolata “The violence’s shadow” (fig. 5) che dialoga con la “Strage degli innocenti” . Borga fa tesoro della sua esperienza di vita vissuta nei territori colpiti dai conflitti e guerriglie, dove ogni diritto svanisce davanti alla ferocia della violenza. L’essenza del suo messaggio è dunque il ricordare a tutti l’importanza del diritto alla vita, spronando l’opinione pubblica all’intollerabilità della guerra e di ogni forma di sopruso. L’immagine scelta in questo caso è quella di uno specchio frantumato da un proiettile in cui è riflessa l’immagine di un bambino. Il foro dell’arma da fuoco e le innumerevoli crepe nella materia si trasformano in sintesi del dolore provocato dal caos della violenza. Una violenza sorda, che tiene il fiato sospeso e fa tacere, contrapposta alle urla di strazio delle donne che si vedono uccidere i figli sotto i loro stessi occhi, tra le loro stesse mani. La luce caravaggesca è invece la cifra stilistica di Toni Mazzarella che reinterpreta con un tableaux vivant dal titolo “Nascita e passione” (fig. 6) - a metà tra l’antico e il contemporaneo - il soggetto della “Adorazione dei Magi” . Se nell’opera del Bellomo la luce pervade interamente il campo
pittorico esaltando i personaggi, nella fotografia di Mazzarella le figure emergono dal fondo nero, in un dialogo silenzioso che contiene il “Mistero” divino insieme all’incredulità umana. Una riflessione, quella di Mazzarella, che va oltre l’opera stessa, assurgendo a documento teologico della nascita e della morte di Cristo messo in risalto - bambino e risorto - dal drappo rosso che avvolge i soggetti insieme alla giovane donna nelle vesti della Vergine, colei che dall’Incarnazione alla Resurrezione non ha mai lasciato il Figlio. Il giovane in tenuta sportiva si affaccia sulla scena osservando il calice offerto dal sacerdote e ci riporta alla sociale contemporaneità in cui dilagano scetticismo e superficialità dinanzi al tema del sacro. Alle “Teste di puttini” che appartengono ai taccuini di Filippo Paladini, opera grafica a matita nera e sanguigna su carta di indubbia bellezza, fa da specchio la fotografia di Giuseppe Leone intitolata “Gemellini” (fig. 7). Il fotografo - maestro nel catturare attimi di vita quotidiana siciliana e non solo – immortala la spontaneità di due gemelli che si abbracciano e sorridono per strada, innanzi un muro scrostato. L’ambiente e l’immagine riverberano di emozioni fanciullesche facendosi narrazione del quotidiano, riportando la mente a tempi passati, in cui i bambini giocavano per strada e l’ambiente urbano era quasi l’estensione del focolare domestico. Poco più in là, nella sala dedicata al pittore aretuseo Mario Minniti, questo senso di felicità viene interrotto dalla presenza della fotografia di Letizia Battaglia, “La bambina non è mai andata a scuola” . Le monocromie del bianco/nero si contrappongono alle tinte intense del “Martirio di Santa Lucia” , specialmente al vortice creato dal mantello rosso dell’aguzzino. Due immagini che ritraggono due vite interrotte, la martire che offre se stessa per Dio da una parte, la bambina che è costretta ad abbandonare la scuola dall’altra. Due opere il cui fulcro è l’adolescenza. La foto concessa dalla “Fondazione Letizia Bat-
taglia” diventa così ricordo di una società patriarcale dove le donne sacrificano la loro vita per farsi carico delle responsabilità per la cura della famiglia e del focolare domestico, ma anche monito per quella contemporanea richiamando l’importanza di essere vigili affinché a nessun bambino venga negato il diritto allo studio ed alla crescita consapevole, pienamente inserito nella società. Il tema della famiglia, ma in tutt’altra accezione, è presentato da Maria Pia Ballarino, la cui sensibilità artistica ha prodotto “Ciatu miu/Lux” (fig. 8), fotografia in bianco e nero scaturita dalla riflessione sull’opera “Sacra Famiglia con San Giovannino” . Se nella tela seicentesca le figure –seppur vicine nello spazio –appaiono come immerse singolarmente in stati d’animo differenti, con un solitario san Giuseppe sullo sfondo, la Vergine immersa in un’estasi che ne rapisce lo sguardo al cielo verso la luce dorata, il piccolo Gesù a contemplare la Croce nel mistero trinitario e san Giovannino a riconoscere la regalità e divinità dell’Infante baciandone con delicatezza il piede, nello scatto della Ballarino è presentata la condizione opposta. La centralità del sentimento della gioia e della giocosità è amplificata dalla monocromia dei bianchi e dei neri che definiscono e dettagliano la fisiognomica di ogni singolo soggetto. Un momento di vita quotidiana vissuto, la gioia della famiglia riunita, la bellezza dei sorrisi e degli sguardi che convergono sulla bambina, parlano con chiarezza dell’emozione condivisa dai protagonisti nell’ammirare l’innata allegria della bimba. Fotografia di dettaglio è invece quella di Luca Scamporlino, specializzato nel “fermare” la potente bellezza del Creato e del paesaggio extra urbano. Con “Aurora di Apollo” (fig. 9), presenta il particolare dello sguardo di un bambino dagli occhi di un azzurro intenso, illuminato dalla luce del sole, traendo questa conclusione fotografica da un oggetto portato alla luce dai depositi della Galleria Bellomo per questa occasione, il “Putto” in bronzo che gioca con una farfalla appoggiata al palmo della mano. Un rimando al periodo neonatale ed al senso della scoperta e dello stupore che appartiene ai più piccoli e che questo sguardo innocente ben ci trasmette. Gioco e spensieratezza si palesano in “Anime complici” (fig. 10), la fotografia in bianco/nero di Tiziana Blanco, affermata fotografa amante della bellezza che si rivela nel quotidiano, ci circonda e ci avvolge. L’immagine, ispirata da un “Pendaglio” in ferro e bronzo, ci consegna una ragazza e un ragazzino che giocano con un gioiello, colti nei loro sorrisi spontanei, immersi in quello che è un luogo di cultura – come si evince dai tanti libri alle loro spalle - per sottolineare il fondamentale diritto allo studio e l’importanza del sapere per formare gli uomini e le donne del domani per una società proiettata al bene comune attraverso la tutela dei singoli. La quotidianità familiare è il centro della riflessione del fotografo freelance Damiano Macca, che dialoga con una “Scena di vita familiare” , gruppo scultoreo in terracotta acroma. La sua “Coera” (fig. 11) ferma l’immagine che è quasi completamente una silouette, dove la gestualità è il veicolo del messaggio. Due genitori che preparano il biberon per il figlio. La madre che teneramente lo tiene in braccio e il padre che prima di dar da mangiare al figlio testa la temperatura del latte facendo cadere qualche goccia sul suo braccio, e quella goccia sospesa nella foto diventa il dettaglio nel quale è racchiuso il senso stesso della fotografia, mutandosi in memoria collettiva e senso della vita. L’assenza e lo sconforto si rendono invece presenti in “Vacuum” (fig. 12), fotografia di Arianna Consiglio che diventa conseguenza dell’opera con cui dialoga, una terracotta policroma raffigurante “Scena di sequestro” . Il gruppo raffigurante personaggi malavitosi, presenta quattro figure, tra cui una donna con un fucile e un sigaro alle labbra che fanno da cornice ad un uomo anziano e un bam-
bino posti al centro, il primo legato a un albero, l’infante seduto e con le manine legate.
Una rappresentazione forte e al contempo veritiera che porta alla memoria il tempo del brigantaggio, ma anche gli episodi di mafia e violenza che hanno insanguinato la Sicilia, oggi ancora purtroppo attuali se pensiamo alle tante forme di “sequestro” che i mass media giornalmente sottopongono alla nostra attenzione. La violenza domestica sulle donne, quella perpetrata a danno dei bambini nelle strutture dell’infanzia e quelle a discapito degli anziani in alcune RSA, sono l’esempio lampante di come il tema sia di grande attualità.
Arianna Consiglio immortala due sedie vuote catapultate a terra, in bianco/nero, che diventano elementi di una narrazione di silenziosa violenza, di mancanza dei diritti fondamentali.
Sembrerebbe che un momento prima dello scatto fotografico, la scena fosse occupata da persone, mentre nell’istante successivo rimangono solo vuoto, silenzio e dolore. Sullo sfondo della stanza, riflesse nel chiarore proveniente dalla finestra, si scorgono le ombre di due candelabri e d’una sagoma che sembra riflettere su quell’assenza.
L’essenza della presenza materna e protettiva si manifesta invece, nella fotografia in bianco/nero di Michele Pantano, “Luce di vita” (fig. 13) che ritrae una madre con il bimbo in braccio.
Il richiamo è alla “Madonna del Cardillo” di
Domenico Gagini, una delle sculture marmoree più importanti del Rinascimento aretuseo ed esposta presso la galleria Bellomo. A farla da protagonista nell’immagine di Pantano, è la luce che illumina lo sfondo con il Porto
Grande di Siracusa – entro il quale sembrano cullarsi madre e figlio – attraversati da un raggio che ne sfuma i contorni, quasi a fermare l’istante di questo dialogo silenzioso che parla di una nuova vita pronta a sbocciare.
A concludere il percorso espositivo in questo intenso reciproco scambio tra l’arte del passato e l’esperienza fotografica, è lo scatto di Marco Caruso intitolato “Nascerà” (fig. 14). L’opera di riferimento è l’immagine della Natività 34
“Nascera ̀” contenuta nel “Libro d’ore miniato” attorniata dall’elaborata cornice a motivi fitomorfi in cui sono inserite anche immagini del bestiario medievale, in una simbologia che richiama la lotta tra il bene e il male. La fotografia di Caruso è un atto di denuncia contro l’aborto e contro il business per alcune case farmaceutiche che negli ultimi anni hanno incrementato i loro introiti grazie alla “pillola del giorno dopo” . Nella foto viene immortala una giovane seduta a cavalcioni di un muretto con lo sfondo del mare al tramonto. Un gioco di sfumature dai toni caldi del cielo che contrasta con l’azzurro del mare dove l’orizzonte si confonde perdendosi, così come confuso è il gesto – volutamente mosso – della giovane immersa nei suoi pensieri, nella sua solitudine con accanto gli elementi della contemporaneità e il farmaco. L’atmosfera paesaggistica della bellezza del Creato, si fa spazio e territorio di scontro tra la vita e la morte, così come l’immagine – nella sua totalità – si contrappone al significato dell’opera di riferimento, da un lato la Vita, dall’altro la possibilità di decidere di un embrione, principio di una nuova vita, ma di esistenza negata.