N°15 settembre/ottobre 2012
Pubblicazione Gratuita / Bimestrale / Anno II / Numero 15
L’ARTE DEL RICICLO
di Olga Gambari e Annalisa Russo
Riciclare è una delle parole d’ordine del contemporaneo.
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ecuperare, ritradurre, riflettere, riconvertire. Porre attenzione ai materiali, alle energie, alle cose in generale, dando loro identità e prospettive di vita al di là di un quotidiano onnivoro. E noi con loro, per un cambiamento radicale di sguardo. Nel mondo dell’arte è una modalità che negli ultimi anni è diventata una metodologia, una prassi che si è fatta poetica, frequentata da moltissimi artisti. Aveva iniziato a suo modo Duchamp, e poi Kurt Schwitter con il suo Merzbau, i Nouveau Realist, Daniel Spoerri con le sue tavole imbandite. Ma ci sono tanti altri nomi. Noi abbiamo chiesto un racconto a chi in Italia è stato tra i primi a misurarsi negli anni Novanta: Cuoghi&Corsello da un lato, Enrica Borghi dall’altro. Riciclare è scegliere una via prima che essa diventi una necessità, l’unica possibilità di futuro per il mondo. Questo è. Perché si produce, consuma, induce ai bisogni, scarta e inquina troppo. Probabilmente si è fatto e pensato quasi ormai tutto. Nell’ambito creativo il d’apres, la citazione, il vintage, più o meno lontano nel tempo, imperano. È un turbinare di estetiche, vezzi, frammenti che arrivano dal passato e si rimescolano in nuove composizioni. Nell’arte come nella moda, nel design come nel pensiero. Forse sono anni di crogiouolo per mettere a punto un nuovo modo di essere, vivere e pensare, una nuova condizione di responsabilità individuale e collettiva, in cui il tempo si alimenta con parsimonia e criterio del suo stesso evolversi, sconfiggendo il consumismo e la società dell’immagine. Il nero diventa un colore e un luogo simbolico, dimensione di luce ed energia potenziali ed infiniti, contenitore di materiali che alimentano il futuro. Proprio perché riciclare è un termine trasversale alla società, che può assumere, però, molte sfumature, abbiamo scelto diversi esempi di come si concretizza. In Argentina le fabbriche in fallimento sono state rilevate e riciclate nel concetto stesso dell’imprenditoria dagli operai, con successo. Ed è una notizia. Ci sono luoghi nelle città che rivivono grazie a progetti culturali dal basso, che li ritraducono in altro, come Bunker a Torino. Ci sono città che potevano essere, ma potrebbero ancora farcela, fondendo in una direzione unica il falso oppositivo binomio cultura\tecnologia. Certo, ci vuole sempre condivisione in queste operazioni, cosapevolezza. Ce ne vorrebbe tanta nella politica, sia quella alta sia quella da arena dei talk show televisivi: il riciclo è ancora un tabù in questa dimensione, oppressa dal populismo del nuovo, della trovata. Mentre invece, più che altrove, bisognerebbe imparare dal vissuto, salvare ciò che ha funzionato per utilizzarlo nella progettazione del presente. Si torna sempre al passato, perché è la memoria uno dei valori fondamentali da salvaguardare, imparare dalla Storia –per ora non ci si è mai riusciti-, e quindi porre attenzione alla cultura, alla scuola e all’educazione, alla tv pubblica come cardini di un programma sociale che sia in grado di guardare al futuro, provando a formare dei cittadini liberi, individui di una collettività responsabile. Dobbiamo tutti imparare a essere “riciclatori di vita quotidiana”, a meditare il nostro impatto sull’ambiente che ci circonda e da lì espandere questa riflessione e approccio anche all’umanità che abbiamo attorno, alla memoria, agli istanti e alle piccole cose che incontriamo.
BIMESTRALE / Anno iI / Numero 15 Settembre/Ottobre 2012
Direttore Editoriale Annalisa Russo Direttore Responsabile Olga Gambari Segreteria di Redazione Chiara Lucchino
Copertina SAVERIO TODARO: Piano Regolatore Generale- (Melting Pot) 2004-05, tecnica mista, cm 256x372x40 (particolare), collezione privata
Marketing e relazioni esterne Roberta Camera
Art direction e progetto grafico www.dariobovero.it Hanno collaborato Enrica Borghi, Monica Carocci, Marta Ciccolari Micaldi, Monica Cuoghi, Andrea Gandiglio, Andrea Giorgis, Giulia Marra, Sandro Mele, Stefano Riba, Catterina Seia, Paolo Verri. Contatti
Arte Sera Produzioni Via Lamarmora, 6 - 10128 Torino MAIL: redazione@artesera.it
Stampa SARNUB Spa Pubblicità MAIL: marketing@artesera.it
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storie
IL RACCONTO DEGLI OGGETTI testo di MONICA CUOGHI
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iamo grati a Olga che ci ha chiesto di scrivere il racconto degli oggetti che abbiamo salvato, amato, conservato, ma soprattutto abbiamo fatto vivere nel teatro della nostra esistenza. è stato facile passare dal collages agli oggetti, come un tesoro che si trova sui libri e spesso nell’immondizia; ed ora c’è internet. Ho cominciato ad usare oggetti nelle mie installazioni prima che capissi che li stavo usando. Il primo fu un vetro rotto che composi come dei fiori dentro a una grande ampolla di vetro. Poi una barchetta di ferro veneziana con dentro un ritaglio di una bambina presa da una cartolina e una statua di una tigre bianca, alta un metro, alla quale feci
degli occhi di pongo gialli e blu che ti fissavano grandi, era il 1986. Poi usai le fotografie, prima di Anna Chiavelli poi quelle di Claudio Corsello, dei loro lavori artistici e feci dei collages assieme ai ritagli di foto della mia famiglia. Questa fu la prima collaborazione con Corsello. Il primo lavoro esposto in una mostra importante composto da materiale trovato furono le 8 altalene che installai in un circolo di alti pioppi nella radura interna all’isola Boschina di Mantova, dove nel 1987 abbiamo organizzato la mostra Traviata. Fu un lavoro magico, capii di essere ispirata da un filo sottile che ci collega agli altri uomini e anche al passato e al futuro. Mentre cercavo le catene di ferro arrugginito per costruire le altalene ho comprato
anche una vecchia statuina di ferro che rappresenta un coccodrillo con una maschera da sub, con accanto una presunta tomba: gli ho dipinto la canottiera rosa con il pongo e sulla tomba nera ho messo una stella gialla. Lo misi sul pozzo della villa abbandonata dell’isola che ci ospitava, regalata da Onassis a Maria Callas tanto tempo prima. Non ci siamo mai posti il dubbio se lavorare con materiale riciclato o nuovo: non avevamo coscienza di usare degli oggetti riciclati, erano solo bellissimi e basta. Il primo tesoro nell’immondizia, dove trovammo i nostri personaggi principali - Il Re, Bimbambola, Anima, il Lupo Mannaro, Cappuccetto Rosso, Ombra, il cane- , fu in via del Porto a Bologna, ora c’è il museo Mambo. Siamo sempre rimasti affascinati dai meccanismi delle cose: il lato estetico passava
in secondo piano rispetto ai suoi esaltanti meccanismi. Con oggetti trovati costruivamo sculture della serie Selettori. Ad esempio la n.1 era formata da una cassa di legno per le armi che aveva innestato un tergicristallo, che andando avanti e indietro toccava tre viti che azionavano e spegnevano tre circuiti elettrici che terminavano con tre prese. Un altro esempio di scultura selettore fu il baule girarrosto, un antico baule con fissato sopra un girarrosto preso da un forno; girava facendo sentire una radio sintonizzata sulle onde AM posta dentro al baule, ma quando ad un certo punto il girarrosto toccava una molla la radio si spegneva e si metteva in funzione un trapano sempre all’interno del baule. Poi siamo passati agli oggetti con le pompe
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Nella pagina a fianco: Ultima casa di celloffan, 2001 Sopra in senso orario: Argonauta (scultura), 1987 Sindrome di Sthendal (performance con Maurizio Mercu), 1993 Pea Brain di candelabri, 1992 Mooncup Donna hote il nano (fotografia), 1995 Tutte le immagini: courtesy dell’artista
d’acqua come la lavatrice svuotata, l’orso sti delle vicende. Avevamo stanze dedicate che faceva le bolle. Avevamo una grande ai vari materiali o argomenti: la stanza del collezione di televisori raccolti da quando legno, la stanza degli armadi, la stanza del sperimentavamo forme video. Venivano ferro.... impilati formando dei robot giganti, stru- Gli oggetti, le cose, erano come le figurine menti musicali autocostruiti o modificati. che ritagliavo dalle riviste, lo facevo per Così esprimemmo questa passione per loro giorni disponendole tutte sui tavoli, poi al con una performance, La sindrome di Sten- momento giusto le componevo, e così andhal: in un’arena smontavamo, operavamo, collegavamo tv e strumenti musicali, rompendo i tubi catodici, facendo rilevare alle tv le onde luminose degli strumenti, ecc. La Sindrome si fondava proprio sul riciclaggio di tutti i componenti e gli oggetti di un mondo prezioso che stava andando a man che le cose tridimensionali era come se si bassa nel macero. Volevamo tutto il tempo per le nostre spe- raggruppassero per fare scene che volevano rimentazioni, così decidemmo di occupare comunicare qualcosa. le fabbriche per vivere in povertà o in ric- è qui che Quadrupede, un nostro personagchezza a seconda di quello che succedeva, gio dei fumetti, ha preso forma nelle cose, fu come andare ad abitare in uno degli og- gli abbiamo dedicato una mostra: Quadrupede poteva essere due cavalletti con un getti trovati. Le abbiamo fatte rivivere con tutto quello trave sopra, e vedevi il suo musetto, oppure una specie di giraffa con i tubi delle tende che a loro apparteneva, alberi, cespugli, che poteva avere la grandezza adeguata al spacciatori, mobili, spazio, vuoto, pace. Non era un riciclo, ma un rianimare per dare posto che l’ospitava, oppure un armadio altre possibilità e scoprire i loro talenti, e i messo in orizzontale con i piedi riposizionati nella schiena. miei. Anche i mobili erano animati da questo modo di essere e diventavano dei protagoni- * La versione integrale del racconto è
Ci fu tutta una serie di mobili sculture assemblate. La nostra vita nelle fabbriche era una continua installazione, la quotidianità, anche dura, come una performance dove ogni gesto era vissuto nel qui e ora, cercando di essere al massimo della presenza, dell’attenzione, dell’assorbimento emotivo di ciò
non avevamo coscienza di usare degli oggetti riciclati, erano solo bellissimi e basta che accadeva e con noi gli oggetti che influenzano la nostra energia. Trovavamo sempre quello che ci serviva, sia per vivere sia per comporre poesie tridimensionali che ci insegnavano ed emozionavano Eravamo i servitori di questa grande collezione di “cose”, l’energia era rivolta ad essa. Ogni trasloco ci ha però allontanato da molti oggetti: quello che non siamo stati capaci di prendere e di regalare è purtroppo finito nei vortici dell’insensatezza. disponibile sul sito
www.artesera.it
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storie
waste value testo di enrica borghi
(Arman)
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l mio percorso artistico ha delineato due livelli di ricerca: il tema dei “rifiuti” (precisamente nel packaging, essenzialmente plastico) e il tema del femminile. Il packaging rappresenta la produzione industriale e il suo processo estetico relativo alla vendita del prodotto. Il tema del femminile, invece, vuole evidenziare un processo “diversificato” e analitico del “fare” arte. Le prime opere che ho realizzato risalgono all’inizio degli anni Novanta, intrecciando con l’uncinetto sacchetti di plastica tagliati, recuperati dai miei rifiuti quotidiani, ho creato degli abiti da sera. Ogni intreccio raccontava una “memoria”: un supermercato, la pubblicità di un prodotto, una indirizzo, un logo o un cibo. Gli “abiti” sono sempre stati dei diari intimi, frammenti del mio tempo spesi acquistando prodotti per lavare la casa, cucinare e raccontare la quotidianità di un mondo femminile “sotterraneo” e poco patinato. Sono molto interessata agli effetti consumistici e allo “scarto” della società. Esploro il cibo e le bevande “usa e getta” e il loro packaging; i loro colori, la loro consistenza, le loro forme. Nello stesso tempo sono interessata alle avvertenze che accompagnano il prodotto, come
per esempio un testo che spiega il funzionamento di un ferro da stiro oppure del detersivo in polvere per lavare. Da questa analisi è nato il diario intimo: Zapping in love, una casalinga innamorata di Dylan Thomas che raccoglie le sue poesie insieme agli scontrini del supermercato, e mescola in sequenze di pagine una letteratura “alta” a un testo che ha semplicemente lo scopo di dare le informazioni di un prodotto per poi essere immediatamente gettato. Immondizia/valore, utilizzare lo “scarto” è seduzione, fascinazione della loro bellezza e della loro potenzialità estetica. Poi la “magia” di cogliere la loro forza intrinseca per poter essere “riciclati” e manipolati fino ad esasperarli in un mondo simbolico ed immaginifico. Nel 1997 Lea Vergine organizza la mostra: Trash, quando I rifiuti diventano arte presso il Palazzo delle Albere di Trento e mi invita a questa interessantissima collettiva che segnava il percorso storico degli artisti che hanno lavorato con “lo scarto”. In questa occasione ho esposto i miei primi abiti ed il lavoro ha interessato molti curatori e giornalisti. Subito dopo mi hanno chiesto di realizzare un progetto per il Dipartimento Didattico del Castello di Rivoli ed una installazione lumino-
sa per la città di Torino. Sono nate: La Regina e Palle di neve. In entrambi i casi ho utilizzato delle bottiglie di plastica di scarto industriale. Ho voluto allontanare e ribaltare il tema del “rifiuto” con un aspetto seduttivo, deformando, assemblando, cucendo tra loro migliaia di bottiglie; la mia ricerca non è solo una semplice denuncia alle problematiche dei rifiuti ma una risposta costruttiva attraverso l’uso del riciclo. Trasformare, rielaborare quello che è destinato all’abbandono è soprattutto interrogarci sù cosa definiamo “inutile” e da buttare. Sempre nel duemila nascono lussuosissimi “bijoux” realizzati con frammenti di plastica, presentati
dentro teche in vetro e protetti da guardie armate... ancora waste/ value! Non poteva mancare il finto magazine Borghi in fashion, un clone delle riviste di moda patinate, un mondo sintetico in cui ri-interpreto e ironizzo con il mondo serie B di oroscopi, ricette di cucina, gioielli lussuosi e pubblicità seduttive. L’opera che avrei voluto realizzare e che mi piacerebbe re-interpretare: Poubelle di Arman del 1965. Una vetrina che espone tutto il nostro scarto, secco e umido accumulato e preziosamente illuminato, a grandi dimensioni in un negozio di via della Spiga a Milano. La mia ricerca si è poi spostata dai materiali plastici alla carta stag-
nola, un materiale altamente seduttivo per il suo aspetto cromatico e tattile ma estremamente complesso da lavorare e modellare, ogni singolo pezzo richiedeva una dedizione assoluta per poter ottenere la tridimensionalità che desideravo. Nel 2005 ho esposto il risultato di questo percorso al MAMAC di Nizza, con la personale EB curata da Jean-Michel Reol. Oggi sono tornata alla plastica, dopo una breve “parentesi biodegradabile”, e sto contemporaneamente esplorando le potenzialità del vetro, materiale che mi costringe ad approcciarmi al lavoro con un nuovo metodo, più rigoroso, una nuova sfida, perchè ogni volta, per me, è un’altra storia.
LA REGINA, 1999, courtesy dell’artista
“In the first Accumulations, I used worthless objects often found at the dump, in the garbage or at junk shops. The objects all had utilitarian functions. The Accumulations were made of similar or identical objects and of different models of objects with the same function.”
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RICICLO E CITTà
ANOTHER BRAIN IN THE WALL testo di paolo verri*
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er troppo tempo ho camminato immaginando una città capace di parlare mille linguaggi e di sapermi trasportare nel futuro per non essere ammaliato da quanto le tecnologie possano oggi trasformare questo sogno in realtà. Una realtà che si tocca sempre più con mano, ma soprattutto che potrà coinvolgere in maniera consapevole anche gli altri quattro sensi. A Londra, sul Millennium Bridge che porta alla Tate Modern, nelle notti olimpiche si potevano ascoltare i racconti più belli dedicati alla capitale letti e registrati da grandi attori internazionali. A Copenhagen, i semafori ci * Paolo Verri è nato a Torino nel 1966. Si è laureato in comunicazione di massa all’Università Cattolica di Milano. Dal 1991 al 1993 ha diretto la casa editrice Pluriverso. Dal 1993 al 1997 è stato direttore del Salone del Libro e del Salone della Musica di Torino. Dal 2000 al 2006 è stato direttore del Piano strategico di Torino, della Fondazione Atrium Torino e dello Sponsor Village di Torino 2006. Dal 2007 al 2010 ha lavorato come direttore per il Comitato Italia 150, con il compito di organizzare i festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia. Scrive e lavora per molte amministrazioni pubbliche italiane e straniere.
spiegano come si stia muovendo il flusso delle biciclette. A Torino ormai da anni le luci d’artista ci hanno fatto riscoprire angoli e emozioni sopite. Ma il bello è ancora tutto da costruire, e da costruire con le nostre informazioni. Perché ciò avvenga tuttavia tutto quello che verrà (ri) costruito nei prossimi anni dovrà contenere la possibilità di essere “attivo”. Immaginate muri non inerti, sui quali i writers non scrivono di notte eludendo assurde guardianie e che non sono ripuliti da costose squadre di imbianchini ma piuttosto “cancellate” come una lavagna o ancor meglio come una scritta digitale; immaginate percorsi alternativi ai flussi di traffico mattutino, intasato dall’assurda usanza di portare i bambini a scuola, su segnalazione di collettività pronte a dire la propria su grandi wall gratuiti. Ma anche migliorare sensibilmente il consumo pubblico di acqua o di aria “raffinata” contribuendo direttamente a rendere più verdi i giardini pubblici, meno inquinata di pulviscolo; ovviamente non lavorando come singoli, ma diventando comunità. Per l’Italia, per le città italiane, la vera sfida delle Smart Cities è questa: essere educati ad essere cittadini. Per troppo tempo c’è stata una dura sfida in atto. La
sfida tra gli amministratori e “gli altri”. Oggi il tempo di questa lotta è concluso. Non esistono più partiti (infatti non sappiamo per chi votare) ma esistono solo soluzioni ai problemi. Non esistono più ideologie (al massimo religioni). Non esistono più artisti ma solo performer. Quindi non potranno più esistere gli erogatori di servizi e i fruitori. Ciascuno di noi dovrà essere consapevole del doppio ruolo che deve rivestire, al contempo produttore di contenuti, analista di flussi, gestore di risorse. Saremo tutti parte di un futuro remoto, fatto di sapienza collettiva. L’opportunità effettiva delle Smart Cities è quella di ridurre definitivamente la distanza tra tecnologia e cultura. Già Platone sapeva che non esiste progresso intellettuale senza techne. Daniele Ciprì, grande regista contemporaneo, ci ammonisce ricordandoci che sappiamo usare troppa poca tecnologia nelle nostre arti. Costruire città intelligenti potrebbe essere una sfida per tutti, né troppo economicista né troppo anti mercato. Uno spazio di coesione e non di conflitto, dove si trova il tempo per fare quello che ci serve nel tempo che possiamo mettere a disposizione. Usando i muri come contenitori di neuroni, e non di mattoni cavi.
TRE SMART CITIES POSSIBILI Matera – Futuro remoto Un luogo che dovrebbe essere senz’auto, senza consumo di acqua e illuminato con il minor dispendio possibile. Un luogo di riflessione permanente sulla storia delle città in cui il cittadino è così preparato da smentire i progetti di cambiamenti imposti dall’alto e anticiparli con buone pratiche diffuse.
Detroit – Presente partecipato Una città da ricostruire da parte di tutti gli americani del Nord. Un luogo dove riportare il grado zero della città alla sua forma primigenia di produzione artigianale diffuso, da cui far rinascere il processo di industrializzazione.
Torino – L’utopia realizzata Prendere la variante 200, la zona dove una volta c’era lo scalo Vanchiglia e immaginare una repubblica senza soldi, basata solo sul baratto dei servizi, senza capi ma gestita in maniera orizzontale, a seconda delle esigenze che sorgono di anno in anno.
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RICICLO E CITTà
bunker. l o s pa z i o . s e c o n d o . u r b e . testo di URBE - Rigenerazione Urbana
nati qua e là a dare respiro e colore, e un vero e proprio bunker sotterraneo risalente alla seconda guerra mondiale, scenografia ideale per performance di light painting e visite guidate.
Fotografie in questa pagina: Garu Garu
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Dall’alto: Il piazzale del Bunker Mattia Lullini dipinge nel salone principale
distanza di dodici mesi dalla Fabbrica di via Foggia 28, l’associazione URBE replica anche quest’estate il suo esperimento di riuso temporaneo: la creatività come motore di rigenerazione urbana al servizio di aree residuali della città. Spostandosi a Barriera di Milano, in una traversa cieca di via Bologna che si chiude su una misteriosa macchia verde che a tanti ricorda Alice nel paese delle meraviglie, URBE dà vita a un progetto dal nome battagliero, non proprio fiabesco: BUNKER. Una volta attraversata la macchia, infatti, i fabbricati dell’ex stabilimento SICMA (Società Italiana di Costruzioni Molle e Affini), sede del progetto, si dispiegano in quel consueto scenario post-industriale torinese, fatto di acciaio, mattoni e cemento, che gli appassionati di architettura o archeologia urbana conoscono bene. Due le sorprese, però, quest’anno: molti spazi verdi, dissemi-
Nata nell’estate del 2011 poco prima di inaugurare il WTC, URBE lavora ormai da un anno sullo spazio urbano favorendone il cambiamento in chiave creativa, il riciclo temporaneo nel segno dell’arte e della sperimentazione. La domanda a cui cerca di rispondere è: nella parentesi tra la vecchia destinazione d’uso e la futura trasformazione del patrimonio urbano esistente, parentesi che spesso coincide con il non utilizzo, è possibile pensare ad alternative temporanee alla chiusura o all’abbandono? Il progetto BUNKER risponde ponendo il tema della rifunzionalizzazione temporanea come questione di interesse collettivo, in grado di restituire alla cittadinanza spazi residuali, creare nuove piazze pubbliche itineranti, rafforzare le relazioni sociali che ristrutturano spontaneamente le aree urbane dismesse e le trasformano in luoghi vissuti. I primi giorni di giugno conosciamo l’architetto Bruno Mastropietro, proprietario degli spazi dell’ex SICMA, con il quale nasce subito un rapporto di attiva collaborazione e condivisione – formalizzata – dell’area. All’inizio dei lavori, lo spazio ha tutte le caratteristiche di un complesso industriale in disuso, difficilmente immaginabile come luogo di aggregazione sociale e artistica. Settimana dopo settimana, però, il Bunker si trasforma da vuoto urbano a luogo, spazio vivo, in cambiamento: URBE si divide i compiti (progettazione, direzione artistica, logistica, comunicazione), includendo il supporto tecnico e gestionale di altre due associazioni torinesi, Reset e Matamatò, e si insedia
in una fabbrica ancora privata, se ne prende cura nel concreto (smantella i materiali superflui, predispone alla somministrazione di cibo e bevande, progetta e realizza gli arredi con materiali di recupero, raccoglie le proposte artistiche e costruisce il cartellone culturale) e ne apre infine le porte al pubblico. Per tre soli mesi, dal 5 luglio al 30 settembre. Catalizzatore di contenuti artistici spontanei e dal carattere spesso informale (dj e live set, performance circensi e teatrali, visual e street art), il Bunker mette in circolo idee e favorisce la contaminazione e lo scambio; accende i riflettori su un’area critica, tradizionalmente a margine ma prossima a un radicale cambiamento (la Variante 200), come l’ex-scalo Vanchiglia. Fino ad agosto, i primi interventi murari e le prime installazioni (Mattia Lullini, Weed, Totò Zingaro, AK, Zorkmade e Mushroom Cloud), di natura spontanea e dalla fresca identità, sono stati il pretesto per presentare lo spazio riqualificato e attivare un fruttuoso circuito di relazioni. Da settembre la proposta artistica si definisce nella forma - più ragionata - di un festival: la seconda edizione della mostra/evento SUB URB ART – Arte urbana in subbuglio, curata da URBE, rimette al centro l’arte e la sperimentazione come propulsori di rigenerazione urbana e si affaccia sulla scena internazionale ospitando creativi del mondo della street art e del light painting (Andreco, Dem, Rim, Gola, Kenor, H101, Phlegm, NeSpoon, 108, Pixel Pancho, Dome, Btoy, Janne Parviainen e Hannu Huhtamo). Per gli aggiornamenti visitate la pagina Facebook bunkertorino, per seguire il bianconiglio avete tempo fino al 30 settembre.
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IL CASO FASINPAT testo di SANDRO MELE*
costruire case e sostenere socialmente persone bisognose. E soprattutto hanno restituito dignità ai lavoratori.
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l movimento delle fabbriche senza padrone rappresenta uno dei movimenti più significativi di lotta al neoliberalismo. Dopo la recessione del 2001 in Argentina molte fabbriche hanno cessato la produzione e la disoccupazione è incrementata notevolmente. Gli operai di alcune fabbriche, spinti
dal bisogno, le hanno occupate, se ne sono riappropriati e hanno intrapreso l’ autogestione. Ne è nata una fonte di economia ancora oggi attiva. Nel 2006 sono stato a Neuquen, una piccola città della Patagonia, ospite della fabbrica di ceramiche autogestita Fasinpat-ex Zanon. Per una settimana all’interno della
fabbrica, ho documentato la vita dei lavoratori, le assemblee, le discussioni, le pause pranzo, il loro lavoro, la loro esistenza all’interno della fabbrica. L’autogestione è una ricchezza collaudata ormai, efficace per l’intera comunità, gli utili ricavati da Fasinpat hanno permesso di creare ambulatori,
Quando arrivai in fabbrica era in corso un’assemblea. Ricordo che gli operai erano molto attenti ad ascoltare una rappresentanza di lavoratori di un’industria vicina, che Fasinpat decise poi all’unanimità di appoggiare. Scattai foto durante l’assemblea; all’inizio ero quasi imbarazzato; mi sembrava di star rubando qualcosa, ma capii presto che era loro intenzione farmi comprendere quella realtà. Nei giorni seguenti mi spiegarono il funzionamento della fabbrica, e confesso che stentavo a crederci: i turni, le mansioni, l’organizzazione generale era completamente gestita e condivisa da tutti i lavoratori. Le pause pranzo erano momenti per me preziosi per raccogliere le testimonianze degli
operai, che spontaneamente si avvicinavano per raccontare la loro esperienza. Esistevano punti di vista anche molto differenti, ma coincidevano nella trama centrale dell’autogestione. Si mostrarono molto uniti, sapendo che l’unione era la loro forza: ciascun operaio aveva la propria responsabilità nella vita della fabbrica. Avevo un’idea ben precisa di quello che volevo creare con il mio lavoro sull’autogestione: raccontare cosa ha dato l’occupazione alla situazione lavorativa e che cosa ha significato per la comunità dei cittadini cui si riferisce, per comprendere se un movimento di questo tipo rappresenti un’alternativa all’economia attuale. E oggi più che mai posso affermare che è forse l’unica risposta sana ed efficace che si possa scegliere e sostenere.
* Sandro Mele è nato a Lecce. Vive e lavora a Roma e ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Il suo lavoro è incentrato sulle attuali dinamiche politiche e sociali. Tra le principali mostre: “Lucha”, 2010 Fondazione Volume, Roma (personale) / “Hear Me Out”, 2011 - Castello Colonna, Genazzano, Roma / “Il caos”, 2009 - Isola di san Servolo, Venezia / “Mediterranean”, 2009 - The road to contemporary art, Roma
M ONIC A C A ROCCI
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riciclo e città
Giovane, internazionale e low cost Un p r o g e t t o d ’ a r t e i talian o a G e n k testo di Stefano Riba*
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l motivo per cui ogni bigliettaio del Belgio sembra volerti dissuadere dall’andare a Genk (con la k) e deve essere rassicurato che non intendi Gent (con la t), è che sa che non ti sta mandando a visitare un gioiello della storia dell’arte e dell’architettura fiamminga. A differenza di “quella con la t”, “quella con la k”è, infatti, una città nata nel 1902 attorno alle sette miniere del campo carbonifero di Kempen. Una città triste, quasi morta dopo la fine dell’attività estrattiva a inizio anni ‘90, ma anche il luogo a cui l’arte sta cercando di dare nuova vita e dignità. E questo i bigliettai del Belgio forse lo ignorano. Genk, infatti, è la sede della nona edizione di Manifesta, la biennale itinerante il cui scopo è interagire con luoghi dalla forte connotazione storica o industriale. È anche il luogo dove si svolge, fino al 29 settembre, Vennestraat. Hidden Places and Identities. Un progetto indipendente, in gran parte
Fin dal nome, il progetto si radica nel contesto urbano e sociale della città (Vennestraat è la via principale di Winterslag, quartiere nato attorno alla miniera omonima) e, come da titolo, indaga i suoi luoghi e le sue identità nascoste. I primi sono il Terril e le Schlammholes, un’enorme collina creata dalla terra di riporto delle perforazioni sotterranee e le paludi nate dall’allagamento, con le acque reflue della miniera, di vaste zone di territorio. Le identità nascoste sono, invece, quelle delle decine di migliaia di immigrati che dal secondo dopoguerra in poi hanno iniziato a stabilirsi qui. Moltissimi di loro sono italiani (sui 65mila abitanti di Genk, gli italiani di nascita o di origine sono oltre 20mila), ma ci sono anche forti comunità greche, turche, marocchine, polacche, spagnole. Tutte sono unite da un’esistenza in bilico. L’idea di una comunità allargata, creata da un lavoro che rendeva tutti uguali (la frase più comune è: “Giù
Vennestraat. Hidden Places and Identities Vennerstraat 127, Genk, Belgium fino al 29 settembre dal venerdì alla domenica www.vennestraatproject.com
autofinanziato, nato dall’idea di due giovani curatrici emigranti, Francesca Berardi (torinese che vive a New York) e Michela Sacchetto (cuneese con base a Bruxelles). Sono state loro a coinvolgere AuroraMeccanica, Fatma Bucak, Ettore Favini, Meryll Hardt, Marguerite Kahrl, Carole Louis, Vittorio Mortarotti, Geraldine Py & Roberto Verde, Karim Rafi, Younes Rahmoun e ZimmerFrei in una mostra, una serie di workshop e installazioni temporanee realizzate tra gli stand del mercato.
eravamo tutti neri. Su tutti minatori”) e permetteva una vita dura ma florida, è venuta meno dalla chiusura dell’ultima miniera nel ‘92. La fine dell’attività estrattiva ha fatto perdere sia il collante sociale che la stabilità economica della città. Il presente è così all’insegna di una crisi che soprattutto i giovani affrontano grazie alle ricche pensioni e indennità di miniera dei propri parenti, sentendosi estranei tanto alla vita sociale e lavorativa belga quanto a quella del Paese di origine. Ed è proprio su questa forma di
* Stefano Riba incontra l’arte come allestitore. Successivamente lavora in musei e gallerie d’arte contemporanea. Ora, oltre le braccia, mette anche un po’ di cervello nei progetti FART gallery e Print About Me
straniamento, sulla memoria del passato e sul senso di comunità che i lavori in mostra riflettono. Una memoria e una comunanza che però non sono andate del tutto perse. Anzi è stato proprio grazie all’aiuto di molte persone comuni che il progetto è stato possibile. Il signor Costa ha prestato i televisori per le video installazioni, il circolo sardo e la missione italiana hanno ospitato gli artisti, ai campi di bocce e ai bar c’è stato chi ha prestato macchine e furgoni per trasportare materiali che erano quasi sempre di recupero o frutto di prestiti o regali. Dall’Italia poi, sono giunti in aiuto due sponsor (Alberto Peola che ha finanziato il lavoro di Fatma Bucak, il GAI che ha sostenuto quello degli AuroraMeccanica), mentre alcuni amici sono arrivati apposta per aiutare nell’allestimento. Così è diventato reale un progetto internazionale realizzato con soli 7.500€ in tasca. Dimostrazione che tutto è possibile quando ci sono buone idee, volontà, passione e spirito di gruppo.
Dall’alto: Ettore Favini - Upside Down (performance sul terril di Winterslag) Fatma Bucak - After a coup d’etat. When my father and his comradere were communist teachers in Eastern Turkey (3 HD Digital Video)
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riciclo e design
recupero di materia il “ n u o v o mi t o ” n e ll ’ a r t e e n e l d e si g n testo di andrea gandiglio*
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uò un rifiuto diventare arte e design? Ricordo ancora l’inaugurazione della mostra Kinder Art alla Triennale Bovisa di Milano, nel 2009. La Ferrero aveva voluto festeggiare, in quell’occasione, i 4 miliardi di ovetti Kinder prodotti in 40 anni, con una call ad artisti di tutto il mondo che fossero rimasti affascinati da questo prodotto di largo consumo, entrato a far parte dell’immaginario collettivo di almeno tre generazioni. La sorpresa che l’ovetto riservò agli organizzatori fu la segnalazione di ben 248 opere, da Mimmo
*Andrea Gandiglio è direttore editoriale di Greenews.info, web magazine dedicato alla sostenibilità ambientale e al “green thinking”, partner di LaStampa.it per gli approfondimenti sui temi ambientali. Nel 2010 fonda l’Associazione Greencommerce, un aggregatore di eco-designer e produttori a basso impatto ambientale, raccontati e distribuiti anche attraverso la piattaforma di e-commerce Greencommerce.it. Dal 2011 dirige il Workshop Nazionale IMAGE – Incontri sul Management della Green Economy.
Rotella ai giovani emergenti. La maggior parte degli artisti non si era concentrata però sull’ovetto di cioccolato, quanto sul barilotto di plastica gialla della sorpresa, riciclato, riusato e reinterpretato nei modi più creativi. La tendenza a recuperare materia, nell’arte e nel design, è ovviamente molto più antica, almeno quanto le esperienze dei futuristi e di Duchamp, nel primo Novecento. I primi con collage e altri assemblaggi, il secondo con i ready-made, come il famoso “Fontana”, l’orinatoio raccattato e decontestualizzato per assurgere a opera d’arte. Ma quelli non erano certo anni in cui ci si ponesse il problema ecologico dell’eccesso di rifiuti e della loro gestione. Nemmeno l’Arte Povera degli anni ’60 raggiunge pienamente questa consapevolezza e, in fondo, utilizza i materiali poveri legno, stracci e rifiuti industriali - come
linguaggio formale, in contrapposizione all’arte precedente, prima ancora che strumento di denuncia ambientale. Solo Pistoletto e Gilardi arriveranno, negli anni più recenti e con esiti diversi, a sviluppare un’evidente sensibilità al tema, che farà dichiarare al primo: “Oggi il nuovo mito è il riciclo, che ha preso il posto del progresso”. Per questo il fenomeno assume, oggi, un significato diverso, con una componente “etica” e di sensibilizzazione del pubblico sulle tematiche ambientali, che va oltre la mera dimensione stilistica. Basti pensare a progetti come Riciclarte (www.riciclarte. it), nato nel 1996, che si pone l’obiettivo, scrivono i curatori, “di essere il punto d’incontro di artisti che fanno del riciclo la base della propria arte, prediligendo l’utilizzo di materiale di recupero per le proprie creazioni”. Oppure il più recente Eco Art Project (www.ecoartproject. org), dove l’aspetto del recupero, pur
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Pagina a fianco: Tom-Sachs - Made in England, Courtesy of Sperone Westewater Gallery In questa pagina, senso orario: Poltrona I’ve bin – Keo project, Design Marco Torchio www.greencommerce.it Poltrona Gomitolo – Le sedie del Torchio, Design Marco Torchio www.greencommerce.it Wood Machine, Alicucio www.greencommerce.it
non essendo esclusivo, è sicuramente dominante sulla totalità di opere selezionate. Quasi sempre questi aggregatori nascono come communities di artisti emergenti, accomunati da una visione (artistica) e da una missione (ecologica). Ma anche artisti molto noti e quotati si sono confrontati, nella più recente storia dell’arte, con il recupero e il riciclo di materia. Ho in mente le opere del provocatorio Tom Sachs, esposte dalla Galleria Sperone Westwater all’Arte Fiera di Bologna nel 2011. “Il bricolage”, ci spiegò allora David Leiber, direttore della galleria newyorkese, “è il cuore del suo lavoro. Sachs cerca delle cose che per molti sono spazzatura, oggetti abbandonati e li recupera per dare loro un’altra forma, una nuova vita“. O, ancora, i capolavori del brasiliano Vik Muniz, stupendamente raccontati nel film “Waste Land” di Lucy Walker, dedicato ai catadores
di Jardim Gramacho, i raccoglitori di rifiuti della discarica di Rio de Janeiro, minuziosamente ritratti dall’artista in grandi “set” costruiti con materiali locali di recupero, che scompaiono dopo essere stati immortalati in fotografia. Questa sensibilità artistica è ormai zeitgeist, spirito del tempo odierno, e ha influenzato, a cascata, tanto il design quanto la moda contemporanei. Qui gli esempi sarebbero innumerevoli, ma mi limiterò a indicarne tre, che nel mio ruolo di presidente dell’Associazione Greencommerce (www.greencommerce. it) ho ritenuto particolarmente interessanti e meritevoli di essere selezionati per portarli all’attenzione di un pubblico più ampio. Mi riferisco al giovane e promettente designer siciliano Arcangelo Favata, che ha trasportato a Torino la sua bottega (dal fantasioso nome Alicucio) e realizza artigianalmente giocattoli, sedie
e altri oggetti, con legno rigorosamente di recupero. Si tratta di vere e proprie sinfonie d’antan, dedicate a questo materiale povero e naturale che, a mio avviso, trova la sua massima celebrazione nella porta Klee, un mosaico verticale di piccolissime scaglie di legno, dedicato al maestro tedesco. Diverso l’approccio di Marco Torchio, architetto albese, designer di Le Sedie del Torchio e anima del progetto Keo (www.keoproject.com), che oltre al legno (quello delle barrique dei produttori locali di vino) ricicla anche le vecchie coperte dell’esercito (per farne degli originali cappotti), il cartone (che diventa materiale da allestimento, borsa o sedia) e la plastica delle bottiglie in PET, per trasformarla, a livello industriale, nei carrelli della spesa “di design”, che si possono ammirare in luoghi di culto come i magazzini Eataly di Oscar Farinetti, così come in alcuni punti vendita della grande distribuzione Carrefour.
Last but not least, lo stilista milanese Alessandro Acerra, diventato, con il marchio Hibu, un piccolo classico dell’ecofashion per adulti e bambini, costantemente presente a Pitti Bimbo. Acerra è un predatore, estremamente creativo, degli scarti sartoriali dell’alta moda milanese, che tagliati, ricuciti e affiancati a vecchi canotti gonfiabili di plastica, scatole di soldatini e altre stramberie da mercatino delle pulci, vanno a creare magliette e t-shirt di un’originalità travolgente, vendute nelle scatole di cartone della pizza. Non si tratta più solo di divertissement di personaggi eclettici, questo è ormai il mainstream, nella moda e del design, e ci auguriamo che lo rimanga a lungo.
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riciclo e SOCIETà
RICICLO vs RICICLAGGIO I n t e r v is ta a d A n d r e a Gi o r g is a cura di Olga GAMBARI
Riciclare è un verbo che applicato all’ambito politico oggi suona nella peggiore delle sue accezioni. La società civile si trova di fronte a una classe politica che ha svuotato di senso, valori, ideali e morale l’alta e importante figura del “politico”, cioè colui che lavora all’analisi dei problemi e delle soluzioni, teoriche e pratiche, della società stessa. C’è uno scollamento e un rifiuto tra politica e società, che ha animato un atteggiamento diffuso, che a volte si incarna in una deriva populista, volto a perseguire a tutti i costi il nuovo nella politica rifiutando il passato. Il riciclaggio non sarebbe, invece, una pratica virtuosa, cioè il recupero delle esperienze e delle idee positive del passato, quelle che hanno funzionato, che sono patrimonio conquistato e non andrebbero buttate via ma reimpiegate in un progetto applicato al futuro? Lo abbiamo chiesto a Andrea Giorgis, presidente dell’Assemblea Regionale PD Piemonte e professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino.
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a medesima espressione, a seconda del contesto in cui viene utilizzata, può assumere significati e contenere giudizi di valore diversi, talvolta anche opposti. E’ quanto accade con il verbo riciclare e con l’azione che esso intende descrivere. Per l’articolo 183 lett. u) del Codice dell’ambiente, il riciclaggio, ad esempio, è “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini.” Nell’ambito della tutela dell’ambiente e, in particolare, del trattamento dei rifiuti riciclare significa quindi anzitutto recuperare, riutilizzare materiali di scarto che andrebbero altrimenti sprecati (e che dovrebbero essere smaltiti). Il riciclaggio – secondo il codice dell’ambiente - è una attività fina-
lizzata a “salvaguardare e migliorare le condizioni dell’ambiente e l’utilizzo accorto e razionale delle risorse naturali” (Art.2 Codice dell’ambiente): una attività che si ritiene perciò opportuno e desiderabile che venga compiuta. Per l’art. 648 bis del codice penale il riciclaggio è, invece, l’attività di chi “sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Nell’ambito della tutela penale del principio di legalità, riciclare significa quindi essenzialmente cercare di far apparire leciti (“ripulire”) i profitti di provenienza delittuosa. Il riciclaggio è un’attività che mira a occultare condotte criminose e che finisce con l’alterare le dinamiche concorrenziali e i legit-
timi meccanismi di accumulo della ricchezza: un’attività che si ritiene perciò opportuno e desiderabile che non venga compiuta e che lo Stato, infatti, punisce e cerca di contrastare. Nessuna norma giuridica disciplina espressamente (promuovendo o vietando) il “riciclaggio” delle persone e delle idee nell’ambito della rappresentanza politica e del governo democratico. Tuttavia nell’argomentazione e nell’invettiva politica del nostro tempo l’epiteto di riciclato non suona certo come un complimento. Il cercare di fare in modo che non vada sprecata alcuna competenza acquisita attraverso il tempo e alcuna esperienza personale e ideale, di per sé, dovrebbe infatti essere considerata un’azione opportuna e desiderabile. Ma perché ciò avvenga – se ben si riflette - occorrerebbe anzitutto che l’attività politica e la funzione rappresentativa fossero considerate alla stregua di un’attività non solo lecita, ma necessaria, meritoria e altamente apprezzata. Dove si insinua l’idea che dell’attività politica e della democrazia rappresentativa (che essa vivifica) si possa fare a meno, dove si pensa che la politica e le istituzioni democratiche plurali siano solo un costo inutile se non perfino dannoso, è pressoché inevitabile giungere a considerare chi abbia ricoperto cariche politiche più alla stregua di un rifiuto da smaltire che di una risorsa da utilizzare.
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E se la cultura fosse il nuovo welfare? testo di catterina seia*
Una nuova ricetta per il benessere fisico e psicologico: il consumo quotidiano di cultura. Numerosi studi internazionali dimostrano che la cultura fa bene alla salute, non solo psicologica, ma fisica. Nel nostro Paese sono numerose le realtà mediche che hanno sposato questa filosofia e dialogano con l’arte e la creatività per migliorare le condizioni della degenza e contribuire alla guarigione dei pazienti e il sostegno per i propri operatori. Negli ospedali si narra, si compone, si suona, si danza, si fa teatro.
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e fino a qualche anno fa economia e cultura erano considerate un’associazione ossimorica, oggi, proprio nella crisi endemica che abbiamo generato, una nuova consapevolezza è maturata: la cultura è sempre più interconnessa alle variabili macroeconomiche sulle quali si gioca la partita del futuro. In un continente che invecchia e che investe la prevalenza delle risorse sulla salute (la sanità è pari all’80% del budget della Regione Piemonte), la cultura – e non solo come patrimonio di beni culturali- è palesemente intesa come fonte di economia diretta e indiretta per gli effetti che può produrre su dimensioni quali l’innovazione, la coesione e l’inclusione sociale, quindi con un impatto potenziale sul welfare, come indicano le linee guida tracciate dall’Europa per la programmazione verso il 2020. Molte ricerche suffragano questa prospettiva; ma è la recente ricerca - di grande fascino concettuale - , dell’Università IULM di Milano condotta su 1500 soggetti e 15 tipologie di fruizione dal prof. Pier Luigi Sacco con Fondazione Bracco, che prefigura esiti che si potrebbero rivelare rivoluzionari per i policy makers, qualora lo scenario si dimostri fondato: il consumo di cultura, in primis la musica, si riflette nella qualità della vita, nel benessere psicologico percepito (misurato con l’indicatore internazionale dello PGWBI - Psychological General Wellbeing Index). E negli ospedali una trasformazione è in corso: crescono i programmi di ricerca sull’arte come via di conoscenza della malattia, come strumento terapeutico e supporto alla guarigione; ci sono artisti coinvolti nei percorsi di cura; gli ambienti mutano strutturalmente. Molte le esperienze felici del dialogo tra arti e cura: per le strutture, tra gli altri i
nuovi ospedali Meyer di Firenze per i bambini e il dipartimento di emodialisi dell’ospedale di Pistoia nei quali gli artisti hanno interagito con gli architetti nella concezione degli spazi integrando opere site specific; la Casa dei risvegli Luca De Nigris nell’ospedale di Bellaria a Bologna, per creare un ponte tra la società, i pazienti “coma-nauti” e le loro famiglie. Tra queste Fondazione F.O.R.M.A., nata nell’Ospedale Regina Margherita di Torino che ha come missione la “bambinizzazione”, ovvero un’accoglienza rassicurante, una degenza più serena, un ambiente positivo e colorato che i bambini riconoscano e sentano vicino al loro mondo. Su queste basi diversi artisti sono stati invitati a lavorare in corsia, come Elisa Sighicelli e Ferdinando Farina, il gruppo di Paint a Smile, la fondazione svizzera di artisti che intervengono in tutto il mondo per dare nuovi significati agli ambienti di cura per i più piccoli. La Fondazione Medicina a Misura di Donna, nata recentemente da privati e ospitata nel dipartimento di Ginecologia ed Ostetricia dell’Università di Torino, opera di concerto con le istituzioni, in primis il S. Anna, per l’umanizzazione di un ospedale che è un luogo identitario, il “ventre gravido della città” nel quale hanno visto la luce generazioni di torinesi. L’ospedale è uno dei più antichi, grandi e riconosciuti d’Europa per la qualità scientifica, ma in attesa di una Città della Salute che non nasce, soffre di una
inaccettabile decadenza strutturale degli ambienti che può vanificare l’eccellenza medica. Architetti, Ingegneri, artisti del calibro di Michelangelo Pistoletto per le arti, Richard Stoltzman per la musica, istituzioni culturali del territorio quali il Dipartimento educazione del Castello di Rivoli, l’Accademia Albertina delle Belle Arti, Palazzo Madama, la Filarmonica del ‘900 del Teatro Regio di Torino, hanno colto la sfida lanciata dalla Fondazione: uscire dalle estemporanee esperienze felici con le arti per concepire un percorso comune, creare un metodo d’intervento, con effetti misurabili, estensibili in altri contesti per trasformare tangibilmente gli spazi e la mentalità, nel “curare la cura”, coinvolgendo attivamente tutti coloro che animano l’ospedalepazienti, personale e le loro famiglie- e altri soggetti, come le imprese, con i propri dipendenti. Una prima assoluta, mondiale. Vedere per credere: sono passati solo pochi mesi e con azioni partecipate, scale e sale d’attesa sono diventate, a costo zero, giardini attraverso le idee, le pratiche delle arti e la competenza del Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli e la musica. I primi di cento. Quale ruolo determinante nell’inclusione sociale possono agire le istituzioni culturali se aprono le finestre, fanno entrare nuova aria ed entrano nella società. Quale grande legittimazione possibile che può portare ad una nuova sostenibilità, per cultura e salute!
* Catterina Seia, una carriera nel settore bancario dall’80. Con una formazione economico-sociologica dalla finanza diventa responsabile del Learning Center e della Direzione Centrale Comunicazione Integrata di Banca CRT e UniCredit Private Banking. Nel 2004 idea- e conduce fino dicembre 2009 il progetto strategico UniCredit & Art; è promotore di SusaCulture project, leadership development advisor attraverso le arti in UniManagement, siede in diversi comitati scientifici tra i quali Art for business, CulturALI, collabora con Università e testate tra cui Il Giornale dell’Arte.