T E S O R I V IV E N TI
“LET TIME FLY. YOU MIGHT GET TO AN EXCEPTIONAL PLACE.” YIQING YIN,
HAUTE COUTURE CREATOR, WEARS THE VACHERON CONSTANTIN ÉGÉRIE.
Scoprire, amare, vivere
LA ME RAV IGLI A Un viaggio straordinario alla scoperta dei Tesori Viventi tra luoghi, riti e segreti dei maestri d'arte che ogni giorno perpetuano la tradizione con passione o innovano con coraggio l'alto artigianato. Creazioni straordinarie prendono forma dal talento, dall’intuizione e da mani sapienti che nessuna macchina potrà mai sostituire. di Alberto Cavalli
Nel 1950, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il Giappone era un Paese in gravi difficoltà. Eppure, proprio in quell’anno (tra mille urgenze e drammatiche incertezze) il Parlamento approva una legge che promuove e tutela i detentori di alti saperi artistici e artigianali, come ricorda Tokugo Uchida su queste pagine: i Tesori Nazionali Viventi. Uomini e donne straordinari la cui abilità si trasmette in gesti ieratici e precisi, intensi e imperturbabili, che creano oggetti in grado di esprimere semplicità e bellezza.
all’opera di divulgazione della Michelangelo Foundation, sono diventati un importante vademecum in tutta Europa per valutare la maestria dei contemporanei artefici di meraviglie.
Nel 1979 la Francia usciva scossa dalla crisi energetica che aveva messo in ginocchio un’intera generazione: eppure, tra tensioni sociali e una crescente insofferenza per la tradizione, il Presidente Valéry Giscard d’Estaing pone le basi di quello che oggi è l’Institut National des Métiers d’Art (INMA), prima istituzione in Europa ad assegnare ai migliori artigiani francesi il titolo di Maître d’art. Un’onorificenza in tutto simile a quella giapponese, che esalta un saper fare trasmesso di generazione in generazione, e davvero vitale per definire e preservare l’identità culturale del Paese.
Tesori, artefici, Maestri: sono tante le definizioni che ci possono aiutare a collocare, nella nostra società spesso distratta, i gesti consapevoli e le significative creazioni degli artigiani che ogni giorno celebrano il rito del lavoro “a regola d’arte”, e che con la loro presenza operosa e tenace rendono i luoghi vivi, preziosi, speciali. Incrociando quindi le suggestioni del Genius Loci italiano (e delle sue molteplici declinazioni) con l’esempio del Giappone e della Francia, abbiamo creato un numero di Mestieri d’Arte & Design interamente dedicato ai Tesori Viventi: sfogliarlo è come concedersi un’immersione in un ideale e immaginifico Grand Tour, che da Venezia ci porta sino in Sicilia attraversando da Nord a Sud regioni e territori, ma soprattutto saperi e idee, intuizioni e segreti, speranze e sogni di chi – come i MAM, i Maestri d’Arte e Mestiere selezionati dalla redazione e incontrati dai nostri esperti – esprime ogni giorno il desiderio che il talento faccia ancora e sempre la differenza.
Nel 2016, l’Italia stava ancora lottando con una crescita modesta del PIL e con una difficile crisi economica: ma Franco Cologni rompe gli indugi e insieme a Gualtiero Marchesi crea il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere. Un’iniziativa che viene a colmare una grave lacuna del sistema italiano, e che finalmente rende onore ai magnifici Maestri che tutto il mondo ci invidia. Il titolo di MAM viene assegnato ogni due anni a poche decine di artigiani, selezionati con cura e attenzione da giurie specializzate e analizzati in base agli undici criteri d’eccellenza che la Fondazione Cologni ha distillato; criteri che oggi, grazie
Una differenza che prende vita grazie al potere della mano, strumento conoscitivo per eccellenza prima ancora che supremo utensile: perché come la grande mostra “Homo Faber”, prevista a Venezia per il mese di settembre, opportunamente sottolinea e celebra, vi sarà sempre qualcosa che le mani dell’uomo sapranno fare meglio di qualunque macchina. Come sfogliare un giornale, per esempio, e lasciarsi trasportare nell’intensa bellezza di storie autentiche, che riempiono gli occhi tanto quanto il cuore. Buona lettura! • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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indice 5
N°22 SEMESTRALE DELLA FONDAZIONE COLOGNI
Scoprire, amare, vivere la meraviglia Alberto Cavalli
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L’eccellenza del Sol Levante Tokugo Uchida
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64 MARCELLO VILLA Il segreto della perfezione Virginia Villa
EDITORIALE
68 GIORDANO VIGANÒ Mater Materia Patrizia Sanvitale
KENJI SUDA
72 RENZO SCARPELLI Prodigi della pittura di pietra Neri Torrigiani
Il senso profondo della bellezza Akemi Roy
Kenji Suda, Tesoro Nazionale Vivente giapponese, è l’ultimo rappresentante di una lunga stirpe di ebanisti raffinati. Ha ereditato conoscenze, tecniche e capacità che si traducono in opere pregiate e i cui segreti vengono tramandati alle giovani generazioni con grande devozione.
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QUI: Niomea, 2014.
Vetro soffiato con canne
Il senso profondo di Akemi Roy
a doppio "zanfirico" all’interno, incamiciatura esterna con decorazione stampata a puntinato. PAGINA ACCANTO: Hopi,
2019. Vetro soffiato
della bellezza
con l’uso di murrine denominate "Florencia", disegnate e usate per la prima volta nel 2018.
Magia incandescente
Il disegno di questa murrina è ispirato al giglio, simbolo della città di Firenze.
Dal fuoco nascono opere straordinarie, forme sinuose dai mille colori. Lino Tagliapietra, Maestro muranese del vetro, è riconosciuto nel mondo come il più grande artefice vivente. Un talento inimitabile e fecondo, che spazia tra memoria, magia, tradizione, sperimentazione e capacità di trasferire cuore, tecnica e cultura in una materia emozionante e sublime.
Kenji Suda è nato a Tokyo nel 1954. Per tre generazioni la sua famiglia si è dedicata all’arte del mokkōgei, il termine giapponese per ebanisteria (dove moku significa legno e kōgei si riferisce all’espressione più alta dell’artigianato, quella che in Italia chiamiamo Mestiere d’arte). Nel 2014, all’età di 60 anni, Suda è stato designato Conservatore di un’Importante Proprietà Culturale Intangibile nel campo del mokkōgei, ed è quindi diventato un Tesoro Nazionale Vivente del Giappone. In passato, la lavorazione del legno era considerata un mestiere umile, solitamente associato alla produzione di oggetti di uso comune. Il valore artistico dell’ebanisteria fu riconosciuto per la prima volta a metà dell’era Meiji (1868-1912) grazie a Sōmei Maeda, padre putativo del mokkōgei giapponese, che scoprì i preziosi alberi di gelso che crescevano a Mikurajima, una delle sette Isole Izu. Maeda realizzò delle importanti opere in gelso di Mikurajima, il cui nome in giapponese significa “Raro albero pregiato”, nelle quali infuse l’espressione del suo personale senso estetico. Maeda fu Maestro di Sōgetsu (1877-1950), nonno paterno di Kenji Suda, che era un falegname specializzato in templi e tabernacoli (miyadaiku). Dopo essere stato discepolo di Maeda, Sōgetsu tramandò le autentiche tradizioni del mokkōgei a suo figlio Sōsui, che a sua volta le insegnò al figlio Kenji. Le tecniche ereditate da Suda attraverso il nonno e il padre si sovrappongono alla storia dell’ebanisteria più raffinata. Quando Suda era ancora un ragazzo, la bottega del padre era la sua stanza dei giochi: passava il tempo a osservarlo al lavoro, ascoltando con interesse le vecchie storie d’arte che gli raccontava. Apprendendo attraverso gli occhi e le mani, Suda divenne un artista del mokkōgei in modo del tutto naturale. Si laureò in design di interni e di arredi presso la Tokyo Metropolitan Kōgei High School, e al tempo stesso apprese l’arte della laccatura urushi dalla nonna materna,
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Suik Setten (Le acque della Luna raggiungono il cielo), piccolo cabinet di ippocastano giapponese con decorazione a intarsio, finito in lacca urushi. La bellezza naturale del legno viene esaltata dagli elementi decorativi che Kenji Suda, Tesoro Nazionale Vivente, seleziona con cura (foto di Shunji Tanaka).
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Album Stefania Montani
30 LINO TAGLIAPIETRA Magia incadescente Jean Blanchert 36 EMANUELE BEVILACQUA Telai d’autore Simona Segre Reinach 40 GIAMPAOLO BABETTO Geometrie pure e preziose Alba Cappellieri 46 GIULIO CANDUSSIO La materia dei sogni Paolo Coretti 52 GIUSEPPE RIVADOSSI Architetture dell’anima Marina Jonna 58 PINO GRASSO La passione di padre in figlia Gulia Crivelli 8
di Jean Blanchaert fotografie di Russell Johnson
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78 TONINO NEGRI Tra poesia e mito Ugo La Pietra 84 ALESSANDRO ED ELISABETTA BIANCHI L’incanto della pietra di luna Maria Pilar Lebole 90 DIEGO PERCOSSI PAPI Il Barocco addosso Andrea Tomasi 96 ULDERICO PINFILDI Cristo si è fermato a Napoli Rosa Alba Impronta 102 PLATIMIRO FIORENZA La vocazione al sublime Sofia Catalano 106 GUALTIERO MARCHESI Dove nasce la maestria? Andrea Sinigaglia
LE OPINIONI
12 I nostri tesori Ugo La Pietra
111 ISTITUZIONI INTERNAZIONALI Il valore sostenibile della trasmissione Anne-Sophie Duroyon-Chavanne
14 L’insorgenza dell’archetipo Massimo Bignardi
114 English Version
112 Mani che valgono un tesoro Franco Cologni
QUI: Mistero, mistica
lampada in gres realizzata con la tecnica del colombino e lastre, colorata a freddo, con calce e ocra, finita a cera d’api. Il pezzo è stato tra i 10 finalisti
GEOMETRIE
del Premio Starhotels "La Grande Bellezza" sul tema "Una fonte di luce", 2020 (foto di L. Fantacuzzi – M.G. Forucade).
pure e preziose
PAGINA ACCANTO: Orizzonte,
scultura in gres e smalti ad alta temperatura, 2020 (foto di L. Fantacuzzi – M.G. Forucade).
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Tra poesia e mito La fantasia di Tonino Negri, artista-artigiano della ceramica contemporanea, si nutre di elementi naturali, suggestioni mitologiche e figure arcaiche. Questo poetico immaginario si fonde con una sapiente lavorazione della materia, dando vita a opere iconiche.
di Ugo La Pietra
terminare il fondo fino al vivo
di Alba Cappellieri
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mestieridarte.it DIRETTORE RESPONSABILE
MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE
Alberto Cavalli
è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte
Franco Cologni DIREZIONE ARTISTICA
Lucrezia Russo CONSULENTE EDITORIALE
Ugo La Pietra
Via Lovanio, 5 – 20121 Milano fondazionecologni.it © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.
REDAZIONE
Susanna Ardigò Alessandra de Nitto Lara Lo Calzo Francesco Rossetti
MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE Semestrale – Anno 12 – Numero 22 - Aprile 2021
DIRETTORE EDITORIALE
estro e della sua generosa creatività.
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PUBBLICITÀ E TRAFFICO
Mestieri d'Arte Srl Via Statuto, 10 - 20121 Milano Publisher: Susanna Ardigò
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TESORI VIVENTI
MESTIERI D’ARTE & DESIGN
si avvicina al mondo degli oggetti preziosi da autodidatta, capace di rinnovarsi senza sosta.
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in una continua sfida con se stesso.
Diego Percossi Papi trasforma l’amore per la cultura in mestiere d’arte. Talento naturale,
Istinto, emozione, intuizione sono l’anima del suo
MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE
livello internazionale, esplora anche ambiti diversi e materiali insoliti
Nato e cresciuto nella città della Grande Bellezza,
I.P.
l’oro in gioielli di estrema purezza, essenziali, liberi. Artista riconosciuto a
di Andrea Tomasi
IL BAROCCO ADDOSSO
FONDAZIONE COLOGNI DEI MESTIERI D’ARTE
Forza creativa, magia delle proporzioni, suggestiva precisione. Giampaolo Babetto, orafo padovano, erede di Mario Pinton, trasforma
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IN COPERTINA:
Medusa, opera del Maestro Lino Tagliapietra, 2008. Vetro soffiato e molato con l’inserimento a caldo di elementi decorativi a canne (foto di Francesco Allegretto).
TRADUZIONI
Traduko Giovanna Marchello (editing e adattamento) PRESTAMPA E STAMPA
Grafiche Antiga Spa MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Artigiani della parola
Anne-Sophie Duroyon-Chavanne
Paolo Coretti Massimo Bignardi
Già professore di Storia dell’Arte Contemporanea e Arte Ambientale e Architettura del Paesaggio presso l’Università di Siena, dove ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici, dirige il Museo-Fondo Regionale d’Arte Contemporanea a Baronissi.
Alba Cappellieri
Professore Ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano. Dal 2014, è direttore del Museo del Gioiello, all’interno della Basilica Palladiana di Vicenza, il primo museo italiano dedicato al gioiello.
Architetto, nato nel 1950 a Udine, si occupa del progetto di piccoli teatri, del restauro di edifici storici e del disegno di oggetti legati alla tradizione dell’artigianato italiano. Dal 2009 al 2014 ha promosso e curato il Premio Internazionale Mosaico & Architettura che si è tenuto a Pordenone.
Laureata in Storia dell'Arte e Archeologia Classica presso l'Università Panthéon-Sorbonne, è specializzata nella gestione delle istituzioni e del patrimonio culturale delle imprese. Dopo un'importante carriera presso alcune prestigiose Maison, oggi è Direttrice Generale dell'Institut National des Métiers d'Art, istituzione che promuove e protegge l'eccellenza artigianale francese.
Marina Jonna
Giornalista e architetto ha lavorato in diverse redazioni (La Mia Casa, Casaviva, Panorama.it, Icon Design) con una parentesi come autrice e corrispondente di R101. Dal 2019 collabora come free lance con Interni, Domus, AD, The Good Life, Home Italia e Home USA. Segue anche come design consultant il nuovo inserto sul design di Grazia, oltre a sviluppare progetti di interior design.
Jean Blanchaert Rosa Alba Impronta
Gallerista, curatore, critico d’arte e calligrafo, da più di trent’anni conduce la galleria di famiglia fondata dalla madre Silvia nel 1957 e da sempre specializzata in materiali contemporanei. Dal 2008 è collaboratore fisso del mensile Art e Dossier (Giunti Editore). Nel 2018 è stato curatore della sala Best of Europe di "Homo Faber", alla Fondazione Cini di Venezia.
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Giulia Crivelli
Sofia Catalano
Siciliana di nascita, milanese di adozione. Freelance da sempre, collabora con quotidiani e periodici, spaziando dalla moda alla bellezza, dal lifestyle alla cultura. Ama incondizionatamente gli animali, Leone dalla criniera grigia (ma non per questo spelacchiata!) vive con il leggendario gatto Arancino.
Lavora a Il Sole 24 Ore dal 2000, seguendo soprattutto l’economia della moda e del design. Appassionata di libri ma ancor di più di animali e piante, in un’altra vita vorrebbe fare la veterinaria o la biologa. Ma in questa vita è felice di essere una giornalista e di seguire settori tanto creativi e stimolanti.
Laureata in Giurisprudenza, Rosa Alba Impronta è Consigliere di amministrazione di MAG Spa, una delle più importanti e storiche compagnie italiane di brockeraggio assicurativo. Seguendo le sue principali passioni, ha fondato e presiede la Fondazione Made in Cloister, dove arte contemporanea, artigianato e design si incontrano in uno straordinario progetto culturale di rigenerazione urbana nel cuore di Napoli.
Ugo La Pietra
Artista, architetto, designer e soprattutto ricercatore nella grande area dei sistemi di comunicazione. La sua attività è nota attraverso mostre, pubblicazioni, didattica nelle accademie e nelle università. Le sue opere sono presenti nei più importanti musei internazionali.
I caratteri tipografici fanno parte della collezione della Tipoteca Italiana. (www.tipoteca.it)
Maria Pilar Lebole
Giornalista, dirige la rivista OMA ed è responsabile di Osservatorio dei Mestieri d’Arte per Fondazione CR Firenze. Da oltre venti anni è impegnata nella ricerca e promozione dell’artigianato artistico con iniziative e progetti culturali, tra cui mostre, contest dedicati alle giovani promesse dell’artigianato artistico, esperienze di didattica e di formazione per i mestieri d’arte.
Simona Segre Reinach
Akemi Okumura Roy
Nata a Tokyo, ha vissuto a Lima e Chicago con la sua famiglia, ricevendo un'educazione internazionale. Tornata in Giappone, ha lavorato nella comunicazione ed è stata responsabile delle pubbliche relazioni e della pubblicità di molti importanti marchi della moda e del lusso. Ora vive in Scozia insieme al marito, fotografo britannico, ed è coordinatrice per diversi media giapponesi.
Professoressa associata all’Università di Bologna, dirige la rivista Zonemoda Journal. Ha scritto saggi sulla globalizzazione e sulla curatela della moda, ha curato mostre e allestimenti. La sua più recente pubblicazione è Biki.Visioni francesi per una moda italiana (Rizzoli, 2019).
Andrea Tomasi
Giornalista e content manager, ha lavorato per diversi settimanali italiani. Da tre anni è consulente editoriale della Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship: per loro segue l’organizzazione dell’evento "Homo Faber" ed è il direttore della Homo Faber Guide, una guida online dedicata al meglio dell’artigianato europeo.
Andrea Sinigaglia
Stefania Montani
Giornalista, ha pubblicato tre guide alle botteghe artigiane di Milano e una guida alle botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell'artigianato.
Patrizia Sanvitale
Giornalista, sociologa, autrice di diversi saggi, collabora da sempre con la Fondazione Cologni. Ha vissuto e lavorato a lungo a Los Angeles, prima di stabilirsi a Milano. Le filosofie orientali e le discipline olistiche sono, da sempre, la sua passione segreta.
Laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, ha conseguito un Master in Cultura dell’Alimentazione a Bologna e un MBA presso il MIP. Ha pubblicato: La cucina Piacentina (Tarka, 2016), Gusto Italiano (Plan, 2012) e Il vignaiolo. Mestiere d'arte (Il Saggiatore, 2006). Dal 2004 insegna Storia della Cucina italiana presso ALMA, dove, dal 2013, è direttore generale.
Neri Torrigiani
Virginia Villa
È direttrice della Fondazione Museo del Violino Antonio Stradivari, a Cremona. Ha curato mostre e eventi, spesso in ambito organologico e musicale. Dal 1980 al 2013 è stata Coordinatrice Didattica della Civica Scuola di Liuteria di Milano. È membro del comitato scientifico della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte.
Apre il suo Studio a Firenze nel 1992 concentrandosi nella grafica, il packaging, la comunicazione, l’organizzazione di eventi e la progettazione d’interni collaborando con molte realtà del contemporaneo. È ideatore e organizzatore – con Giorgiana Corsini – della mostra “Artigianato e Palazzo”, insignita nel 2019 del Fiorino d’Oro della Città di Firenze. MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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OPINIONI
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L’artigianato artistico italiano costituisce un valore inestimabile per il nostro Paese. Preservarlo è fondamentale perché l’osmosi tra la cultura del fare e quella del pensare, del progettare e dello
FATTO AD ARTE
sperimentare, rappresenta la strada maestra da percorrere per il futuro.
I nostri tesori Oggi che il design riscopre l’artigianato, il pezzo unico o di piccola serie, con un forte debito nei confronti del “vecchio artigiano”, si accorge dell’esistenza dell’artista-artigiano che riesce a proporre veri pezzi di arte applicata contemporanea. L’artista-artigiano salvaguarda la cultura del fare del passato, attraverso l’esercizio quotidiano della manualità, ma usa anche le nuove tecnologie. È un autore sempre più vicino al meglio che, da tempo, si può trovare nel craft internazionale. Rimane comunque una figura isolata, anche se giorno dopo giorno cresce il suo valore nella scena culturale italiana. Il mondo del design lo guarda con interesse e spesso ammirazione, è evidente dal fatto che le nuove generazioni di progettisti cercano, sempre più spesso, di praticare la strada dell’autoproduzione, ma è pur vero che per la “nostra scuola” è quasi una figura aliena, laddove architettura e design, da sempre, privilegiano la cultura del progetto rispetto alla cultura del fare. Oggi, grazie alle iniziative svolte dai cultori della materia (attraverso mostre e pubblicazioni) e dalla Fondazioni Cologni, i più bravi artisti-artigiani vengono sempre più apprezzati e definiti usando l’appellativo “Tesori Viventi”. Tesori: valori, che devono essere apprezzati e custoditi. Ma i nostri, non pochi, autorevoli artisti-artigiani contemporanei, la cosiddetta eccellenza, che a pieno diritto si confrontano con il craft internazionale, non trovano il favore delle istituzioni (emblematica l’abolizione degli Istituti d’arte). Oggi i nostri “tesori” non vengono sufficientemente apprezzati e valorizzati, è rara la loro presenza nei musei di arte applicata ed è quasi sempre il risultato di donazioni. Le opere dei nostri “tesori” sono spesso confuse con oggetti di design, laddove non è facile distinguere il pezzo fatto a mano da quello realizzato (con stampi) in serie. In Giappone, le opere dei Tesori Viventi raggiungono quotazioni di mercato vertiginose; da noi solo la produzione del lusso sa apprezzare e valorizzare il lavoro di questi artisti-artigiani. Purtroppo l’unico atto, finora messo in campo dalle istituzioni per la valorizzazione e la salvaguardia dell’artigianato artistico, è rivolto alle tradizioni delle varie aree locali (ad esempio per i territori di lavorazione della ceramica) con disciplinari che fissano i canoni della produzione, dell’uso dei materiali e dei decori, dei colori e delle tecniche. L’eccellenza, che è sopravvissuta in una realtà istituzionale e commerciale che l’ha spesso ignorata (se non osteggiata), in compenso ha avuto spesso il sostegno, negli ultimi decenni, dei cultori della materia, sia di ambito progettuale che di ambito teorico-pratico (come Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Enrico Crispolti, Enzo Biffi Gentili, Eduardo Alamaro). Cultori che hanno fatto molto per mantenere viva l’attenzione nel mondo del progetto riguardo questa realtà dai confini incerti (né arte né design), facilmente attraversabili, verso altre aree disciplinari. Cultori che nonostante il grande impegno non sono riusciti a creare il terreno favorevole a un mercato e nemmeno a un collezionismo elitario (rare le presenze nelle manifestazioni internazionali come Basilea e Miami). I nostri sono “Tesori Viventi” che non abitano, se non raramente, i nostri musei, che non partecipano a Biennali di Arte Applicata (inesistenti in Italia), che non sono presenti sul nostro territorio (per abbellire, connotare, dare significato ai luoghi), in una sorta di museo diffuso e che soprattutto non dialogano con le istituzioni. Dobbiamo fare ancora molto! Da qualche anno la Fondazione Cologni si è assunta l’impegno di mettere in risalto attraverso i suoi canali queste nostre eccellenze, che dovrebbero poter avere spazio anche su riviste di settore, dovrebbero essere esaltate da musei e istituzioni, ma soprattutto dovrebbero essere coinvolte in strutture in grado di incentivare la ricerca, dando spazio e opportunità a giovani potenziali artisti-artigiani facendo uso, come modelli autorevoli, dei cosiddetti “Tesori Viventi”. •
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Pablo Picasso, Joan Miró, Josep Llorens i Artigas e Guido Gambone sono stati interpreti, nell’immediato secondo dopoguerra, di una nuova stagione della ceramica PENSIERO STORICO
contemporanea.
L’insorgenza dell’archetipo La furia della guerra aveva smesso di mietere vittime. Il mondo intero riassaporava il fresco vento della pace. Gli artisti rientravano nei loro atelier, riprendendo a “costruire” nuove prospettive. Scriveva Henri Focillon, negli anni tragici della guerra, che «l’arte si fa con le mani. Esse sono lo strumento della creazione, ma prima di tutto l’organo della conoscenza.» Il desiderio di conoscenza dell'ancestrale universo della ceramica, tra il 1946 e il 1956, segna una nuova stagione culturale che vede coinvolti Picasso e Miró, ma anche due significativi interpreti della ceramica contemporanea, Josep Llorens i Artigas e Guido Gambone. La loro è stata un’esperienza vissuta, in piena autonomia, sulle coste di un Mediterraneo che conservava la sacralità del mito: Artigas e Miró a Gallifa nei pressi di Tarragona, Picasso a Vallauris, nelle Alpi Marittime affacciate sulla Costa Azzurra, Guido Gambone a Vietri sul Mare, sulla Costa di Amalfi. Quattro artisti che, nella difficile congiuntura post-bellica, rinnovano il lessico della ceramica, saggiando, come fa il Centauro, avrebbe detto Focillon, «i venti e le fonti». Hanno in comune l’attenzione alle forme e alle figure, assunte dal “territorio” archetipico mediterraneo: il dialogo, imposto dall'azione della mano, è con l'argilla, con le forme, con l’alchimia degli smalti e i colori dei metalli. Le ceramiche di Miró e di Artigas nascono da una profonda amicizia, elemento essenziale per la loro realizzazione. Questa collaborazione, avviata con maggiore intensità dal 1946, nella quale ciascuno dà il meglio di sé, è frutto di un’intesa che fa leva sulla complicità e sull’assoluta libertà. Lo studio di forme primigenie condotto da Artigas, sollecita Miró a esemplificare l’universo dei suoi segni, e il mondo “notturno” nel quale spaziava il suo immaginario scopre l’infinito del bianco. È a Vallauris che, negli stessi anni, Picasso incontra la ceramica: il linguaggio degli oggetti della quotidianità, le forme dettate dai tempi di chi produce stoviglie, la magia del fuoco che rende preziosa la terra, fanno presa sulla sua prorompente immaginazione: le mani donano all’oggetto la forza dell’archetipo e l’arcaica sintesi della figura. Il decoro irrompe per primo nella fabbrica Madoura dei coniugi Ramié, poi, con la complicità del torniante, sarà l’infinita gamma di vasi, con profili di figure portate a galla, dopo un tuffo negli abissi del mito: fauni, ninfe, satiri, pesci, gli stessi che l’anonimo pittore greco dell’VIII secolo a.C. aveva raffigurato, come un dizionario iconografico della fauna marina del Mediterraneo, sulla pancia del cratere del Naufragio di Pithekoussai. A Vietri sul Mare, alle porte della Divina Costiera, Gambone elabora il rinnovamento della ceramica di tradizione, accogliendo i nuovi linguaggi artistici di quei decenni. Nell’immediato secondo dopoguerra, tra il 1948 e il 1950, il lavoro di Gambone insisterà sul dettato plastico, recuperando archetipi, propri del tessuto antropologico dell’area mediterranea e riducendo, in chiave compositiva, la figura in virtù di un processo di astrazione che lo porterà, in breve tempo, a una sintesi immaginativa di grande portata. È quanto testimoniano opere come la Faenzarella, con la quale partecipa al Premio Faenza nel 1949, e Figura femminile, dello stesso anno, esposta alla Biennale di Venezia del 1950, nella sala con Minguzzi e Melotti. •
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L’ECCELLENZA DEL
SOL LEVANTE Conservatori e innovatori delle arti e dell’alto artigianato nipponico, i Tesori Nazionali Viventi del Giappone sono un patrimonio culturale immateriale costituito da abili e raffinati Maestri d’arte, custodi di antiche tecniche e di un sapere a rischio di estinzione.
di Tokugo Uchida
Il Giappone è un Paese in cui la tradizione artigianale, che risale all’era preistorica, è importantissima. Esemplari di terracotta rinvenuti in un sito sono stati datati a 16.500 anni fa, e la più antica lacca mai trovata risale a 12.600 anni fa. Nel corso del tempo, la produzione artigianale è stata coltivata e si è arricchita gradualmente: metodi altamente evoluti di lavorazione dei metalli e della ceramica furono importati dal continente durante il IV e il V secolo, e nell’VIII secolo il Giappone assorbì con entusiasmo le innovative tecniche di fabbricazione artigianale della dinastia Tang in Cina. Oggi, il deposito reale di Shōsōin a Nara ospita 9.000 oggetti di pregiato artigianato risalente a 1.300 anni fa. Si può ben dire che la raffinatezza tecnica della produzione artigianale coltivata dai Tesori Nazionali Viventi abbia le sue radici proprio in questi antichi mestieri dello Shōsōin. Il termine “Tesoro Nazionale Vivente” si riferisce oggi a un individuo che detiene lo status di “conservatore” di un importante patrimonio culturale immateriale, secondo l’elenco ufficiale della legge sulla protezione dei beni culturali; è una definizione resa popolare da un rapporto dei media sulla prima designazione, avvenuta nel 1955. Nel 1950 il Comitato nazionale per la protezione dei beni culturali (l’attuale Agenzia per gli affari culturali del governo del Giappone) ha promulgato una legge che prevedeva la selezione e la protezione di questi “custodi” di beni culturali immateriali, come le più significative arti dello spettacolo e le più importanti tecniche artigianali. Era il periodo in cui il Giappone stava attraversando le turbolenze sociali e economiche del dopoguerra e molte discipline tradizionali erano infatti a rischio di estinzione. 16
La legge mirava pertanto a preservare mestieri come la laccatura urushi, la progettazione e la tintura dei tessuti, la lavorazione della ceramica, dei metalli e così via, specificando sempre quali abilità e competenze rappresentassero un aspetto intangibile e fondamentale. Inizialmente ci si concentrò sui mestieri in declino: i primi conservatori ufficialmente designati secondo la legge erano dunque artigiani esperti in queste pratiche. L’emendamento del 1954 ha invece permesso di includere anche mestieri che erano riconosciuti per il loro significato storico o artistico, anche se non a rischio di estinzione. Secondo il nuovo schema, dunque, le abilità e le tecniche per creare oggetti di alto artigianato – espresso in giapponese come kōgei – sono specificate come importanti proprietà culturali immateriali, e i professionisti che hanno raggiunto alti livelli di maestria artistica sono designati come “detentori” di queste proprietà, per la finezza del loro lavoro e per la competenza dimostrata. Laddove vi siano più individui coinvolti in una specifica cultura immateriale, vengono designati collettivamente. In breve, i Tesori Nazionali Viventi sono i “detentori” ufficiali, o custodi, delle “importanti proprietà culturali immateriali” del Giappone. La designazione dei primi 28 Tesori Nazionali Viventi ebbe luogo nel 1955. Da allora, la selezione e la nomina vengono effettuate quasi annualmente. Poiché questo sistema di designazione ha lo scopo di proteggere il meglio dell’arte tradizionale giapponese attraverso la perpetuazione, i maestri e il loro lavoro non sono necessariamente il focus principale del riconoscimento; è tuttavia chiaro come essi rappresentino l’orgoglio e la gloria della nazione, e quanto siano rispettati
e apprezzati dai giapponesi. Nel giugno 1955, i primi Tesori Nazionali Viventi Gonroku Matsuda (1896-1986), Munemaro Ishiguro (1893-1968), Toyozō Arakawa (1894-1985) e Kiyoshi Unno (1884-1956) si unirono e inaugurarono la Japan Kōgei Association. L’Associazione, insieme all’agenzia governativa nazionale, organizza la “Japan Traditional Kōgei Exhibition”, per promuovere e preservare le abilità e le conoscenze nel kōgei ed elevare il livello artistico del craft. Questo evento è stato organizzato quasi ogni anno dal 1955. Le opere presentate in mostra, così come quelle create da artigiani affiliati, sono riconosciute come dentō kōgei, categoria riservata a opere che incarnano la più raffinata maestria e che possiedono un’elevata qualità estetica. I Tesori Nazionali Viventi sono quindi creatori rappresentativi che infondono sempre nuova vita a settori tradizionali del kōgei come la ceramica, i tessuti e la lacca urushi. La particolarità degli oggetti definiti come dentō kōgei sta nel fatto che hanno principalmente un uso pratico. In generale, dell’arte giapponese si può dire che la gente apprezza la sua bellezza traendo profitto dalla sua utilità, soprattutto quando è collocata in un contesto in cui migliora la vita delle persone – sotto forma di mobili, utensili da scrittura, costumi, attrezzature per la preparazione del tè e così via. L’arte moderna dell’Europa occidentale proclama l’integrità e l’autonomia delle belle arti: i dipinti sono inseriti in una cornice, che rafforza e simboleggia la coesione dell’opera al suo interno e che, come disse Georg Simmel, «esclude tutto ciò che lo circonda.» Una filosofia come questa era sconosciuta all’arte giapponese fino al diciannovesimo secolo. Nelle antiche usanze, i dipinti giapponesi venivano creati per arredare le stanze di una casa con lo scopo di migliorare l’atmosfera estetica dell’ambiente circostante. Il modo in cui le persone nel Giappone premoderno contemplavano i dipinti lo esemplifica: si sceglieva un soggetto che corrispondesse alla stagione in corso o al successivo evento del calendario e lo si appendeva in una nicchia appositamente progettata in una stanza, nota come tokonoma. Inoltre, c’è sempre stata un’affinità sentimentale tra l’ideatore di un’opera e le persone che la ammirano per la sua bellezza. Le opere d’arte giapponese sono create pensando ai loro scopi e ai loro utenti: un artista, nel proprio lavoro, dedica all’utente i propri pensieri di benevolenza e l’utente, a sua volta, riflette il suo apprezzamento verso il creatore dell'opera. Questa affinità emotiva è particolarmente importante nel caso del dentō kōgei, poiché le opere sono stimate sia esteticamente sia per la loro utilità. Cinquantasette artigiani sono al momento designati come Tesori Nazionali Viventi. Per l’edizione 2021 di “Homo Faber”, che avrà luogo a Settembre, dodici di questi maestri saranno presentati come un autentico patrimonio del Giappone. Kazumi Murose (nato nel 1950) è il miglior artigiano e artista della tecnica makie, utilizzata per oggetti laccati urushi
con polvere d’oro e altri metalli: una tradizione che risale all’VIII secolo. È anche un importante collaboratore delle istituzioni culturali nazionali. Isao Ōnishi (nato nel 1944) è un Maestro della laccatura la cui perizia non ha rivali. Kunihiko Moriguchi (nato nel 1941) è un tintore di tessuti e un designer, specializzato nella tecnica di tintura yuzen: ha rivoluzionato questo settore tradizionale attraverso il suo uso innovativo di colori e motivi geometrici. Sonoko Sasaki (nata nel 1939) è una maestra di tsumugi, che eccelle nell’utilizzo di colori di origine vegetale e nella selezione di trame naturali
“Le opere d’arte giapponese sono create
pensando ai loro scopi e ai loro utenti: un artista, nel proprio lavoro, dedica all’utente i propri pensieri di benevolenza e l’utente, a sua volta, nel suo apprezzamento riflette sul creatore dell’opera d’arte.” per il tessuto. Anche Takeshi Kitamura (nato nel 1935) è un Maestro tintore, che ha studiato e fatto rivivere un’antica tecnica. Imaemon Imaizumi XIV (nato nel 1962) è un ceramista che perpetua le più pregiate tecniche giapponesi di invetriatura sovrapposta; la fornace della sua famiglia è in attività dal XVII secolo. Il ceramista Zenzō Fukushima (nato nel 1959) ha inventato uno smalto celadon dal colore squisito, e Jun Isezaki (nato nel 1936) è un Maestro della ceramica Bizen, nota per la sua durezza dovuta alla cottura ad alta temperatura senza smalto. Yukie Ōsumi (nata nel 1945), artigiana del metallo, crea vasi ageminati. Kenji Suda (nato nel 1954) utilizza legni preziosissimi. Noboru Fujinuma (nato nel 1945) si avvale di diverse tecniche di intrecci e assemblaggi del bambù, realizzando opere innovative che hanno modernizzato ed elevato artisticamente questa tecnica. Komao Hayashi (nato nel 1936) dedica la sua arte alla creazione di bambole tradizionali giapponesi che riflettono la sua personalità artistica, da non intendersi come oggetti da bambini. I Tesori Nazionali Viventi possono essere considerati pionieri dell’arte moderna giapponese tanto quanto conservatori del più raffinato artigianato. Questa nozione è sintetizzata nel mio incontro con Kunihiko Moriguchi: gli ho chiesto come si definisse, se artista o artigiano. E lui mi ha risposto: «Sono un artista quando contemplo e un artigiano quando creo.» • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Kenji Suda, Tesoro Nazionale Vivente giapponese, è l’ultimo rappresentante di una lunga stirpe di ebanisti raffinati. Ha ereditato conoscenze, tecniche e capacità che si traducono in opere pregiate e i cui segreti vengono tramandati alle giovani generazioni con grande devozione.
Kenji Suda è nato a Tokyo nel 1954. Per tre generazioni la sua famiglia si è dedicata all’arte del mokkōgei, il termine giapponese per ebanisteria (dove moku significa legno e kōgei si riferisce all’espressione più alta dell’artigianato, quella che in Italia chiamiamo Mestiere d’arte). Nel 2014, all’età di 60 anni, Suda è stato designato Conservatore di un’Importante Proprietà Culturale Intangibile nel campo del mokkōgei, ed è quindi diventato un Tesoro Nazionale Vivente del Giappone. In passato, la lavorazione del legno era considerata un mestiere umile, solitamente associato alla produzione di oggetti di uso comune. Il valore artistico dell’ebanisteria fu riconosciuto per la prima volta a metà dell’era Meiji (1868-1912) grazie a Sōmei Maeda, padre putativo del mokkōgei giapponese, che scoprì i preziosi alberi di gelso che crescevano a Mikurajima, una delle sette Isole Izu. Maeda realizzò delle importanti opere in gelso di Mikurajima, il cui nome in giapponese significa “raro albero pregiato”, nelle quali infuse l’espressione del suo personale senso estetico. Maeda fu Maestro di Sōgetsu (1877-1950), nonno paterno di Kenji Suda, che era un falegname specializzato in templi e tabernacoli (miyadaiku). Dopo essere stato discepolo di Maeda, Sōgetsu tramandò le autentiche tradizioni del mokkōgei a suo figlio Sōsui, che a sua volta le insegnò al figlio Kenji. Le tecniche ereditate da Suda attraverso il nonno e il padre si sovrappongono alla storia dell’ebanisteria più raffinata. Quando Suda era ancora un ragazzo, la bottega del padre era la sua stanza dei giochi: passava il tempo a osservarlo al lavoro, ascoltando con interesse le vecchie storie d’arte che gli raccontava. Apprendendo attraverso gli occhi e le mani, Suda divenne un artista del mokkōgei in modo del tutto naturale. Si laureò in design di interni e di arredi presso la Tokyo Metropolitan Kōgei High School, e al tempo stesso apprese l’arte della laccatura urushi dalla nonna materna,
Il senso profondo di Akemi Roy
della bellezza
Suik Setten (Le acque della Luna raggiungono il cielo), piccolo cabinet di ippocastano giapponese con decorazione a intarsio, finito in lacca urushi. La bellezza naturale del legno viene esaltata dagli elementi decorativi che Kenji Suda, Tesoro Nazionale Vivente, seleziona con cura (foto di Shunji Tanaka).
Shunsai Yamaguchi. Nel 1975, all’età di soli 21 anni, le opere di Suda furono ammesse per la prima volta alla 22ma “Mostra Tradizionale Giapponese di Kōgei”. L’ebanisteria mokkōgei abbraccia una gran varietà di oggetti, tra i quali gli utensili di uso comune come ciotole e attrezzi per la cucina, per la cerimonia del tè, arredi raffinati, piccole scatole e così via. Il legno impiegato dai maestri artigiani proviene da alberi centenari, e viene lasciato essiccare da dieci a vent’anni in un ambiente a temperatura controllata. Suda è specializzato nella creazione di piccole scatole e di elementi di arredo: dei veri e propri capolavori che realizza con l’antica tecnica del sashimono, dove il legno viene assemblato senza l’utilizzo di chiodi. La caratteristica principale del lavoro di Suda, e che ne fa un artista eccezionale, sta nell’abbinare il mokkōgei alle raffinate tecniche della laccatura urushi, dell’intarsio, della lavorazione del metallo e della tintura. Nel suo magico mondo di artigianato d’eccellenza, Suda dedica grande attenzione e maestria al fine di ottenere da ogni elemento un risultato armonico. Suda ha sviluppato il suo inconfondibile stile facendo proprio lo spirito dei mestieri d’arte della tradizione giapponese, e ha contribuito così a tracciare una storia del tutto nuova per il mokkōgei contemporaneo. «Ciò che è importante non è solo la tecnica,» spiega. «Sento di avere instaurato un legame emotivo tra il legno e il mio lavoro. Il legno ha una sua bellezza, che io voglio rispettare e mettere in risalto aggiungendo degli elementi decorativi che provengono dalla mia esperienza. Questo senso estetico rappresenta la vera essenza del kōgei tradizionale giapponese; come Tesori Nazionali Viventi, la nostra missione è di tramandare la sua 20
storia e il senso della bellezza che appartiene al nostro popolo.» Oltre a incastonare conchiglie nelle sue scatole e nei suoi mobili, Suda abbina elementi metallici e borchie, rifinendoli con lacca urushi. Inoltre, realizza personalmente il tessuto con il quale avvolge e protegge le sue opere. Le chiavi che chiudono le scatole sono fatte normalmente da specialisti, ma Suda crea anche queste da solo con la tipica tecnica dell’ibushigin, che conferisce all’argento una patina più delicata e meno lucida. In questo modo, Suda produce tutti gli elementi personalmente, attingendo a una varietà di ambiti professionali. Ciascuna delle sue opere è estremamente elaborata, e richiede molto tempo, cosicché il risultato finale è sempre molto affascinante. Sebbene il mokkōgei giapponese sia noto in tutto il mondo sia per le tecniche sia per gli strumenti, esistono solo pochi maestri esperti nel mestiere, e ancor meno successori. Per Suda è fondamentale poter trasmettere le sue conoscenze alle nuove generazioni. «In questo campo è importante non solo comprendere e interpretare la cultura del mestiere, ma anche metterla in relazione con la propria espressione artistica. In Giappone non ci sono scuole dove apprendere l’ebanisteria, e non ci sono corsi all’università. Per questo è difficile che i giovani possano cominciare a lavorare il legno in modo artistico. Per più di 110 anni la mia famiglia ha tramandato la devozione a questo mestiere che risale ai tempi dei pionieri del mokkōgei. Ciò mi ha permesso di diventare a mia volta un artista in questo campo, e sento che è mio dovere trasmettere ai giovani non solo le competenze e le conoscenze ma anche lo spirito del mokkōgei.» Per questa ragione, ogni due mesi Suda tiene corsi per cinque artisti provenienti da Tokyo, Niigata,
PAGINA ACCANTO: il Maestro esegue
personalmente tutte le operazioni necessarie a dar vita alle sue opere (foto di Rinko Kawauchi/Michelangelo Foundation). QUI: Gli intarsi metallici creano effetti
poetici sulle superfici lignee che Kenji Suda (sotto) rende perfette (foto di Rinko Kawauchi/Michelangelo Foundation).
Gunma, Saitama e Ibaraki. A loro insegna tutte le tecniche di base e affida progetti da realizzare. Due dei suoi studenti hanno già ricevuto premi nel corso di mostre dedicate ai mestieri d’arte. Inoltre impiega il suo tempo a scambi culturali internazionali, tra cui workshops in Nuova Zelanda, Svezia e Danimarca. L’atelier di Suda si trova a Kanra-machi, nella prefettura di Gunma, dove si è trasferito da Tokyo nel 1992, per lavorare in uno studio più grande e in un ambiente ricco di legname. Lo studio è situato su una collina, in cima a una stradina di campagna, dalla quale si gode una spettacolare vista sul paesaggio circostante. Un luogo che emana bellezza e passione, proprio come le sue opere. Suda mi illustra il suo lavoro di precisione usando una piccola pialla che sta nel palmo della sua mano. «Questa pialla apparteneva a mio padre,» racconta. «Purtroppo non ho più molti attrezzi vecchi, perché quelli di mio nonno furono bruciati nel grande terremoto di Kanto, mentre quelli di mio padre andarono distrutti durante il grande bombardamento di Tokyo.» Grazie a questa piccola pialla sopravvissuta, Suda continua a creare nuovi tesori nazionali. Nell’osservarlo al lavoro, mi sento toccata nell'animo da questa lunga storia di famiglia. •
Album di Stefania Montani
Francesco Aiazzi
Anche le ceramiche si rifanno alle
rappresenta la sesta generazione
antiche tradizioni toscane con
di una realtà storica che ha saputo
Colle Val d’Elsa (SI), Località Belvedere ingresso 5, 48/1 aiazzifrancesco.it
terrecotte e sculture lavorate al tornio
conservare l’eleganza dello stile
e modellate a mano. Nei pressi di San
classico del made in Italy unendo
Gimignano, più precisamente a Colle
accorgimenti tecnologici a vantaggio
Val d’Elsa, a metà strada tra Firenze
della funzionalità e del risparmio
e Siena, Aiazzi alterna la lavorazione
energetico. Oltre ad apprendere il
dell’argilla a quella del vetro. Nel
mestiere dal padre Ernesto, abile
suo ampio e luminoso capannone ci
artigiano e designer di barche,
sono torni, tavoli da lavoro, pigmenti
Daniele ha voluto completare la sua
colorati, sacchi di argilla, forni per
formazione andando prima a bottega
la cottura dei manufatti. Francesco
in un altro cantiere e unendo poi alla
si avvale anche del laboratorio della
tradizione di famiglia l’esperienza
vicina Cristalleria Colle Vilca dove
personale da lui acquisita. Bravo
con mole, forge, cannelli e un forno
imprenditore oltre che straordinario
a sua disposizione crea bellissime
Maestro d’ascia, Riva ha rilanciato
forme in vetro. La creatività di questo
l’attività costruendo nuove
eccellente artigiano è vulcanica. I suoi
imbarcazioni per le quali ha utilizzato
sono gesti antichi, pieni di sapere,
tecniche avveniristiche, mantenendo
che danno vita a meravigliosi oggetti
sempre il legno e la manualità come
in vetro, in cristallo e in ceramica.
base di ogni creazione. Tra le barche
Bicchieri, bottiglie, ciotole, brocche,
nate in questo cantiere vi è un
centrotavola, ma anche sculture e
motoscafo a propulsione elettrica,
bassorilievi di grandi dimensioni,
progettato insieme all’architetto
come quelli realizzati per il Vaticano
Germán Frers, in legno riciclabile:
in occasione del Giubileo del 2000.
il primo nel suo genere.
Tutto può essere ordinato su misura
Daniele ha anche riprodotto, grazie
Francesco Aiazzi è uno straordinario
in questa bottega delle meraviglie.
ai disegni e alle stampe dell’epoca,
esempio di figlio d’arte: entrato a
Francesco Aiazzi lavora spesso come
le eleganti vaporine che solcavano le
bottega a soli 10 anni, ha iniziato
libero professionista per diverse
acque lacustri ai primi del Novecento:
a collaborare con suo padre
vetrerie e collabora con l’Università
Carlo, rinomato Maestro vetraio,
di Pisa, l’Istituto Italiano di cultura di
e ad apprendere tutti i segreti del
Grenoble, il Museo del Vetro piegato
mestiere. A 15 anni diventa allievo
di Piegaro, nei pressi di Perugia,
dello scultore fiorentino Aldo Ciolli,
il Museo di Altare presso Savona.
dal quale impara a modellare anche
Nel 2016 è stato insignito del titolo
la ceramica, entrando in contatto
di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere
con molti artisti e facendo tesoro
dalla Fondazione Cologni.
delle diverse tecniche. Senza trascurare la sua prima passione, quella per il vetro: sotto la guida di grandi maestri vetrai quali Dorino Bormioli e Pino Signoretto, Aiazzi si specializza nelle diverse fasi della produzione vetraria, sia
Daniele Riva Maslianico (CO), via Burgo 47 cantiereernestoriva.it
con stampo – a giro e a fermo –
Il Cantiere Ernesto Riva ha radici
sia artisticamente mediante lavori
lontane: è stato fondato nel 1771,
di soffiatura a bocca. Le sue creazioni
a Laglio sul Lago di Como, e da
si ispirano e rimandano a modelli
allora è sempre rimasto in famiglia.
medievali, con una predilezione
Oggi a dirigere l’azienda è Daniele
per i bicchieri soffiati a bocca.
Riva, dinamico cinquantenne che
rivedute e corrette, dotate di
Artigiana della Camera di Commercio
e culture diverse. Una vera linfa
molto più comfort rispetto a quelle
di Como.
per la sua creatività, che insieme
del secolo scorso, sono state ora
La Fondazione Cologni gli ha
all’apprendimento degli usi, dei
adottate da molti albergatori per
conferito il titolo di MAM – Maestro
costumi e delle tradizioni di altre
trasportare i clienti e i turisti sul lago.
d’Arte e Mestiere nel 2020.
civiltà, ha costituito una solida base
Un’idea vincente che contribuisce
per il suo lavoro.
a restituire al lago di Como la sua
Tornata a Milano, sua città di
personalità, così come la presenza della gondola a Venezia. Un capitolo a parte meritano poi i restauri conservativi, eseguiti con sapiente maestria, che riportano
Sveva Camurati Milano, via Caccianino 9 svevacollection.com
origine, Sveva ha aperto nel 2005 un laboratorio per creare monili, dando vita a delle collezioni inusuali, eclettiche, variopinte. Ma il suo laboratorio è anche dove abita,
le imbarcazioni allo splendore
perché Sveva porta spesso con sé
originario. Tra questi anche la
gli “attrezzi del mestiere” per non
gondola lariana Velarca, un piccolo
interrompere la sua vena creativa:
gioiello di casa-barca donato al FAI
le ciotole e le scatole ripiene di perle
dai coniugi Norsa, al quale Riva sta
di vetro, la minuteria di legno e di
lavorando da qualche tempo.
ottone, gli Swarovski, le plastiche
Spiega Daniele Riva: «Nel 2008
colorate, i vetrini satinati, i fili di
alla storica sede di Laglio abbiamo
nylon, di seta e di cotone.
affiancato la nuova struttura di
La creativa artigiana utilizza anche
Maslianico, accanto a Cernobbio,
il filo d’oro zecchino, da lei definito
perché avevamo necessità di
“una matassina fiabesca”, con cui
ampliare gli spazi per la falegnameria,
dà vita ai ricami che costituiscono
il rimessaggio, la verniciatura e
la preziosità delle sue grandi collane
un piazzale per il ricovero delle
dal sapore etnico, delle spille, dei
barche. La produzione del cantiere
lunghi orecchini, degli elaborati
è, oggi come allora, rivolta sia alla
fermagli. Un materiale da lei molto
fabbricazione d’imbarcazioni a vela
amato è la bachelite, particolarmente
e a motore sia alla preziosa opera di
in voga negli anni Trenta, che ha
restauro di barche d’epoca.
la caratteristica di essere molto
La “Sciostra”, sede storica del
resistente e di avere mille sfumature
Cantiere, completamente rinnovata,
di colore. I grandi bijoutier italiani e
è ora la base del nuovo Centro
francesi, in auge a cavallo tra le due
Ricerche per la Nautica a Como.
guerre, ne hanno fatto la regina delle
In questa sede sono tuttora
Sveva Camurati può essere definita
loro collezioni.
conservati i registri di fine Ottocento,
una figlia d’arte: cresciuta nell’atelier
Anche Sveva Camurati completa
contenenti i dettagli delle commesse
della nonna che creava abiti di
spesso le sue creazioni con questa
realizzate e tutti i disegni tecnici:
alta moda e bellissimi ricami, la
resina resistente nel tempo e
fin dalle sue origini il cantiere era
giovanissima Sveva ha iniziato
declinabile in mille differenti nuance.
rivolto alla costruzione di battelli,
ben presto a essere affascinata
Ogni suo pezzo è meticolosamente
lance, vaporine, inglesine, e “lucie”
dalle stoffe, dalle forme, dai
realizzato a mano, perciò sempre
manzoniane, impiegate da pescatori
colori. Soprattutto dai bicchierini
diverso. E se è vero che l’eleganza
o commercianti.»
di perline e di strass con i quali
e l’originalità di un abbigliamento
Un luogo dove cultura, tradizione
venivano realizzati i ricami. Poi le
stanno negli accessori, le collezioni
e innovazione si fondono per creare
scuole di danza e di recitazione,
di questa creatrice eclettica sono
un punto d’incontro per appassionati
gli studi a Parigi e a New York,
qui per dimostrarlo, con la loro
del sailing.
i numerosi viaggi in Paesi lontani,
personalità fuori dal comune.
Nel 2006 Daniele Riva ha vinto
Africa, India, Medio Oriente,
Nel 2020 Sveva Camurati ha ricevuto
il Premio Rosa Camuna di Regione
l’hanno portata ad accumulare uno
il titolo di MAM – Maestro d’Arte e
Lombardia e il Premio Impresa
straordinario bagaglio di esperienze
Mestiere dalla Fondazione Cologni.
Ezio Marinato
di dare al prodotto finito è un’anima,
che risale al 1956 quando, dopo
rappresentata dal gusto, dai profumi,
aver imparato i segreti del mestiere
Cinto Caomaggiore (VE), via Roma 134 panificiomarinato.business.site
forse solo in ultimo dall’estetica. Per
in una nota bottega fiorentina,
me il pane è qualcosa di essenziale:
fonda insieme al fratello Roberto la
deve essere più buono che bello.
Fratelli Peroni. Da allora il laboratorio
L’importante è sentire le farine e i
non ha mai smesso di crescere nel
fermenti utilizzati. Il pane è “libero”:
perfezionamento delle tecniche e in
nessuno nel nostro mestiere ha la
raffinatezza. Piero ha recuperato le
verità assoluta. Perciò è importante
tradizioni cinquecentesche fiorentine
mantenere vivo il fuoco della
della lavorazione del cuoietto
curiosità.»
e della doratura delle pelli conciate
Tra i suoi prodotti più conosciuti
al vegetale, cioè con tannino
ci sono i pani a lievitazione naturale
ricavato dalla corteccia degli alberi,
e i grandi lievitati da ricorrenza,
senza cromo né prodotti chimici,
panettone e colomba, oltre che
biodegradabile e anallergica. Grazie
il panpolenta e i grissini al mais.
allo studio delle antiche tecniche
Oggi Ezio Marinato è anche docente
rinascimentali, unite ad attrezzature
presso scuole alberghiere e di
e strumenti vecchi e nuovi, i Peroni
specializzazione, nonché consulente
sono in grado si realizzare oggetti
di industrie che producono
in pelle con decori e colorazioni
attrezzature e macchine per la
straordinarie, tutto rigorosamente
panificazione. Grazie alla sua dote
a mano. In catalogo ci sono
È uno dei massimi esperti di
di grande comunicatore, svolge
circa mille prodotti, dall’iconico
panificazione in Italia: nel 2002 è
molta attività didattica ed è spesso
portamonete Tacco, realizzato senza
stato nominato campione europeo
ospite di convegni e fiere di settore,
cuciture, alle scatole portagioie con
a Bulle, in Svizzera, e nel 2007
in qualità di esperto in tecniche di
ripiani e cassetti, dagli articoli da
campione mondiale dei panificatori,
panificazione. Dal 2013 insegna al
scrivania a quelli da viaggio, dalle
un titolo conferito a Lione, con una
Master di Cucina Italiana a Vicenza
agende agli album per fotografie,
serie di prodotti presentati tra i quali
ed è visiting professor presso ALMA,
dalle cornici alle scatole, dalle
la baguette, il tipico pane francese.
la Scuola Internazionale di Cucina
borse alle cartelle, dai libri-bar ai
Stiamo parlando di Ezio Marinato,
Italiana e docente in cast alimentari.
portaombrelli. I pezzi prodotti in
artigiano e artista della lievitazione,
Nel 2016 è stato insignito del titolo
questo laboratorio sono conosciuti
che dal 1985 gestisce il panificio
di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere
nel mondo, esposti in eleganti negozi
pasticceria fondato dalla sua famiglia
dalla Fondazione Cologni.
d’Europa, degli Stati Uniti, in Asia e
nel 1924 a Cinto Caomaggiore,
soprattutto in Giappone, dove viene
pochi chilometri da Venezia. Una
accordata grande attenzione alle
passione coltivata e fatta crescere con grande impegno, approfondendo con instancabile spirito di ricerca e di perfezionamento tutte le conoscenze e le tecniche legate alla panificazione.
Fratelli Peroni Firenze, via Marconi 82/r peronifirenze.it
«Anche se è fatto di soli quattro
Estro, passione e grande
elementi, sono innumerevoli i modi
abilità manuale. Sono queste le
in cui si può realizzare un pane,
caratteristiche che contraddistinguono
basti pensare a quante varietà ce ne
i pezzi che prendono vita nel
sono nel mondo. Di qui l’esigenza di
laboratorio artigianale di Piero Peroni,
sperimentare vari tipi di lavorazione,
straordinario Maestro artigiano
con lievito compresso o lievito
che disegna e realizza prodotti di
madre: l’importante è la conoscenza
pelletteria artistica coadiuvato dai
che ci fa decidere cosa vogliamo
figli Marco e Maurizio e da alcuni
ottenere. Quello che si deve cercare
valenti artigiani. La sua è un’attività
rifiniture e alla tracciabilità
per l’arredo e per l’abbigliamento
significativamente nel territorio.
dei prodotti. «Tra i programmi futuri
con motivi decorativi che risalgono
Nel 2004-2005, vincono il Premio
miei e dei miei figli,» confida Piero
al Rinascimento. Disegni raffinati
Donna Impresa della Camera di
«ci sono una scuola di apprendistato
e ricchi di storia che si possono
Commercio; nel 2006, il Premio La
all’interno del nostro laboratorio
ritrovare anche nei dipinti di
Primavera, Concorso Internazionale
e delle visite guidate per gruppi
Leonardo, del Perugino e del
di decorazione tessile di Corciano
interessati a scoprire i segreti di
Ghirlandaio. Grazie alla loro abilità
(PG) e nel 2007, il Premio
questo antico mestiere. E uno
e allo studio continuo delle tecniche,
Creativamente della Provincia di
show-room aperto al pubblico.»
Patrizia e Maria Giovanna hanno
Macerata. Nel 2016 ricevono il titolo
Nel 2007 Piero Peroni ha ricevuto
sperimentato lavorazioni innovative,
d MAM – Maestro d’Arte e Mestiere
il riconoscimento Azienda
oltre che con il lino e il cotone, anche
della Fondazione Cologni.
d’Eccellenza Italiana-Eurispes.
con la pelle, la canapa, la rafia
Nel 2012 quello di Bottega d’Arte
e materiali plastici, collaborando con
dall’Osservatorio dei Mestieri d’Arte
i maggiori stilisti, quali Valentino,
di Firenze. Infine, nel 2020,
Versace, Chanel, Calvin Klein,
la Fondazione Cologni gli ha
Bally, Alexander McQueen, Alberta
conferito il titolo di MAM – Maestro
Ferretti, che si sono affidati al loro
d’Arte e Mestiere.
sapere per realizzare alcuni capi
Baldo Baldinini Viserba di Rimini (RN), via E. Curiel 26/b www.dibaldospirits.com
delle loro collezioni. Ogni anno da questo laboratorio escono anche le
La Tela Macerata, vicolo Vecchio 6 latela.net
stoffe commissionate dal Monastero Benedettino di Santa Cecilia a Roma per la confezione del Pallio, l'indumento liturgico riservato al Papa e agli arcivescovi metropoliti di tutto il mondo. La didattica riveste un ruolo importante: in più di 30 anni di attività La Tela ha organizzato corsi di tessitura a mano in bottega, attività formative per privati e per associazioni culturali pubbliche, diventando un vero riferimento per le scuole primarie e secondarie, ma anche per gli studenti degli istituti professionali e universitari che vogliono approfondire le tecniche della tessitura e conoscere non solo gli intrecci dei materiali, ma anche quelli che legano questo artigianato alla storia del nostro Paese.
Patrizia Ginesi e Maria Giovanna
Nel 2007 a fianco del laboratorio
Varagona sono due imprenditrici
è nato un museo che espone gli
che hanno fondato nel 1986 un
strumenti di lavoro e numerosi reperti
Si potrebbe chiamarlo il “naso” dei
laboratorio nel cuore della loro città,
tessili, ripercorrendo la storia di
cocktail per la sua straordinaria
Macerata. Abilissime nella tessitura
questa antica arte. Nel 1989, ricevono
capacità di individuare gli aromi, gli
a telaio, hanno ripreso le tecniche
il riconoscimento del Lions Club
abbinamenti, le spezie adatte alla
e i modelli dell’antica tradizione
di Macerata per la promozione di
creazione di una miscela alcolica
marchigiana, intrecciando fili con i
attività significativa sul territorio.
perfetta. È stato anche definito “un
liccetti (primo sistema di tessitura
Nel 2000, arriva il riconoscimento
compositore di accordi aromatici
collegato a una macchina che risale
della Regione Marche riservato
che crea spirits ma soprattutto
al XIII secolo), per realizzare tessuti
alle donne che operano
vermouth”, tra i migliori al mondo.
Stiamo parlando di Baldo Baldinini,
nascono dalle sue ricette segrete.
per strumenti a plettro,musicista e
la cui dote olfattiva fuori dal comune
Nel 2020 ha ricevuto il titolo di
liutaio, che perfezionò lo strumento
ha strabiliato il settore del mixology.
MAM – Maestro d’Arte e Mestiere
rendendolo evoluto come lo
Il suo talento si manifesta già
della Fondazione Cologni.
conosciamo noi oggi. Per la sua
nell’infanzia, quando Baldinini scopre
abilità fu addirittura soprannominato
il mondo attraverso i profumi, gli
dai suoi contemporanei, ai primi del
aromi, i colori, con una vera e propria ossessione per la botanica. Baldo inizia a studiare i grandi alchimisti del passato, quali Paracelso e Fioravanti. Dapprima si addentra
Raffaele Calace Napoli, vico San Domenico Maggiore 9 calace.it
Novecento, il “Paganini del mandolino”. Raffaele non è da meno del nonno di cui porta il nome: ha iniziato ad affiancare il padre in bottega a 14 anni, continuando la tradizione di
nell’universo della profumeria,
famiglia, facendo tesoro dei segreti
indagando le essenze più rare,
tramandati di padre in figlio e
soprattutto quelle provenienti da
tenendo alta l’eccellenza della liuteria
terre remote. Il suo quartier generale
Calace. Nel suo laboratorio, affiancato
è la Tenuta Saiano, in Valmarecchia,
da alcuni abili artigiani e dalla figlia
tra la quiete delle colline romagnole.
Annamaria, questo straordinario
Qui con dedizione, curiosità
Maestro liutaio dà vita ai suoi
e un pizzico di follia si dedica
mandolini: sulle sagome madri, alcune
all’estrazione dell’anima più intima
delle quali originali del secolo scorso,
di innumerevoli fiori, frutti, cortecce
vengono sistemate le stecchette con
e radici. Un percorso di conoscenza
il filetto, poi grazie a un sapiente
che trova il suo habitat nel silenzio
lavoro di raspatura, incollatura,
di un laboratorio speciale, l’Olfattorio,
verniciatura, nascono gli strumenti.
come ama definirlo, dove studia,
I tempi tra un’operazione e l’altra
cataloga, scrive a mano le etichette
sono piuttosto lunghi, indispensabili
di ogni singola boccetta.
per la buona riuscita di una cassa
Un’incredibile banca dati di aromi,
armonica. Raffaele Calace confida:
la più grande forse che sia mai
«Il legno con cui è costruito il
esistita, in cui sono custoditi migliaia
mandolino è un materiale povero,
di accordi aromatici di botaniche,
non come quello del violino, ma la
essenze, alcolati, idrolati. Un
lavorazione è lunga e complessa.
laboratorio finalizzato non solo alle
Il segreto della buona riuscita
ricette dei prodotti dell’azienda
sta nella piegatura frontale dello
agricola di Montebello di Torriana,
strumento che mette in trazione le
ma anche al Museo dei Profumi e
fibre della tavola armonica, rendendo
dei Sapori, una futura testimonianza
possibile la varietà di suoni caldi,
di un mondo in via di estinzione. La
bellissimi, scattanti.»
naturalità dei processi di lavorazione
Raffaele Calace è l’erede una
I mandolini Calace sono un punto
è fondamentale per Baldo: non
dinastia leggendaria di liutai che ha
di riferimento per i migliori
utilizza additivi chimici, né coloranti
prodotto i più apprezzati e famosi
concertisti delle orchestre italiane
artificiali, neppure zuccheri bruciati, e
mandolini del mondo. A iniziare
ed europee, una buona parte della
la selezione dei vini, che fungono da
l’attività, costruendo chitarre,
produzione viene esportata in
base per i liquori, è ferrea.
fu Nicola, confinato a Procida nel
Giappone e nella Corea del Sud.
Quello degli accordi aromatici è un
1825 perché aveva cospirato contro
Nel corso della sua attività,
settore che Baldinini conosce ed
i Borboni. Suo figlio Antonio, tornato
Raffaele Calace ha ricevuto più
esplora da oltre vent’anni miscelando
a Napoli dopo il condono elargito
di 20 onorificenze, tra le quali
ingredienti e selezionando la scala
dal nuovo sovrano, iniziò a dedicarsi
69 diplomi internazionali e 20
aromatica più giusta per il prodotto
ai mandolini. Ma fu il nonno omonimo medaglie d’oro. Nel 2016 è stato
finale. Tutti i vini, i liquori, i vermouth
dell’attuale Raffaele, compositore
nominato MAM – Maestro d’Arte
e i nocini in vendita alla Tenuta
di oltre 3.000 pagine di musica
e Mestiere dalla Fondazione Cologni.
FLY YOUR DREAMS.
Big Pilot's Watch Edition
racconto «Il Piccolo Principe», l’opera più famosa
“Le Petit Prince”. Ref. 5010: Concepito in origine
del pilota e scrittore francese Antoine de Saint-
come affidabile strumento di navigazione per avia-
Exupéry. L’immagine del protagonista, il Piccolo
tori, oggi il Big Pilot’s Watch è una leggendaria
Principe, è incisa sul retro. Questo segnatempo
icona di stile. L’imponente diametro di 46 millimetri,
porta al polso non soltanto il fascino dell’aviazione,
il quadrante nel tipico look in stile cockpit e la
ma anche quello della libertà e dell’avventura:
centrali con dispositivo di arresto · Cassa interna in ferro
vistosa corona conica lo rendono immediatamente
sarà quindi il compagno ideale di chi, nella vita,
dolce per la protezione dai campi magnetici · Corona a vite ·
riconoscibile. Con il suo quadrante blu notte questa
preferisce andare sempre per la propria strada.
edizione speciale evoca il firmamento del delicato
IWC . ENGINEERING DRE AMS . SINCE 1868 .
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MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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QUI: Niomea, 2014.
Vetro soffiato con canne a doppio "zanfirico" all’interno, incamiciatura esterna con decorazione stampata a puntinato. PAGINA ACCANTO: Hopi,
2019. Vetro soffiato con l’uso di murrine denominate "Florencia", disegnate e usate per la prima volta nel 2018. Il disegno di questa murrina è ispirato al giglio, simbolo della città di Firenze.
Magia incandescente Dal fuoco nascono opere straordinarie, forme sinuose dai mille colori. Lino Tagliapietra, Maestro muranese del vetro, è riconosciuto nel mondo come il più grande artefice vivente. Un talento inimitabile e fecondo, che spazia tra memoria, magia, tradizione, sperimentazione e capacità di trasferire cuore, tecnica e cultura in una materia emozionante e sublime.
di Jean Blanchaert fotografie di Russell Johnson
Da più di mille anni, Fondamenta Vetrai, la strada principale di Murano, quella che costeggia il canale, il Rio dei Vetrai, è abituata a destarsi verso le cinque di mattina. A svegliarla sono i passi dei lavoratori del vetro: garzonetti, garzoni, serventini, serventi, aiuto maestri e Maestri. Camminano leggeri e veloci verso le fornaci dove troveranno il vetro preparato dall’omo de note. Camminano con lo stesso passo degli uomini della corrida, dei banderilleros, dei picadores, dei toreri-matadores quando, a Ronda, in Andalusia, in Spagna, percorrono Calle Virgen de la Paz, diretti alla Plaza de Toros. Anche lì sono le cinque, ma de la tarde. Garcia Lorca ne sapeva qualcosa. Ormai, quasi tutte le arti sono state invase da computer e da robot che riescono a progettare e, in alcuni casi, addirittura a realizzare in 3D opere in tessuto, in legno, in marmo e così via. Questo, col magma bollente del vetro, non è possibile. Il fiume incandescente che esce dalla fornace tiene lontani gli intrusi, come il fuoco i leoni o come i leoni gli uomini. Quando Dio ha creato il mondo non c’erano spettatori. Forse qualche angelo preesistente, ma l’ingresso era severamente vietato ai non addetti ai lavori. Anche a quelli non ancora creati. Fare vetro, a Murano, è un rito ermetico, magico, non somiglia al far vetro delle altre parti del mondo. Senza movimenti sincronici, memorizzati all’infinito, appresi sin da bambino, Maurizio Pollini non avrebbe potuto diventare il sommo pianista che è stato, che è e che sarà. Lo stesso si può dire per Klaus Dibiasi, Giorgio e Tania Cagnotto, i nostri grandi tuffatori. I gesti magici che li hanno portati così in alto, li hanno introiettati in tenera età. Questo discorso vale anche per Lino Tagliapietra, il più grande dei maestri vetrai, diventato un artista conosciuto nei cinque continenti. Fossimo in Giappone, sarebbe un “Tesoro Vivente”. Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte gli ha conferito, nel 2018, il Premio MAM – Maestro d’Arte e Mestiere. Con i suoi sedici quarti di “muranesità”, Lino Tagliapietra è un autentico muranese. Appena finita la Seconda guerra mondiale, nel 1945, a 11 anni, Lino, come la maggior parte dei bambini dell’isola, viene mandato in vetreria. Per i ragazzi d’allora, specialmente per quelli affascinati dagli incantesimi che quest’incredibile materiale suscita, si tratta di un misto fra lavoro e gioco. A furia di lavorare giocosamente, prima dai Toso Maciarea, poi vicino al grande Archimede Seguso, Lino si ritrova, ventenne, già Maestro. Padroneggia tutte le complesse tecniche tradizionali e comincia a sperimentare anche strade nuove. Per fare un paragone 32
musicale, pensiamo a Niccolò Paganini e a Franz Liszt, che sono stati sia esecutori, sia compositori. Il violino ha trascinato Paganini a scrivere partiture incredibili, autentiche sfide per la testa e per le mani. Per Franz Liszt, è stato lo stesso. Soltanto lui, allora, ispirato dal suo pianoforte, riusciva a suonare alla perfezione le sue musiche. Quando guardate i filmati di Lino Tagliapietra in fornace, togliete l’audio e ascoltate i Capricci di Paganini per violino solo oppure la Rapsodia Ungherese di Liszt: sono la colonna sonora del suo lavoro. A Murano, quasi sempre, gli artisti si rivolgono ai Maestri affinché traducano in vetro le loro idee. Maestro e artista devono entrare in una sorta di comunicazione telepatica. Qui il caso è diverso: l’artista Lino Tagliapietra, dopo averci pensato a volte per notti intere, si rivolge all’artigiano Lino Tagliapietra per esprimere un concetto in tre dimensioni. I due, Lino e Lino, prendono appunti direttamente in vetro e spesso questi appunti sono lavori finiti, realizzazione di un sogno che sembrava impossibile. Dalla seconda metà degli anni Settanta, Lino Tagliapietra comincia a girare il mondo proprio come fanno i grandi concertisti. È amato in tutti e cinque i continenti. Ha dato e ha preso: ha estasiato il pubblico con le dimostrazioni della sua maestria, ma è sempre ripartito portando con sé l’anima culturale di ogni paese che, nelle sue mille differenze, si è di volta in volta riversata in ogni sua nuova opera. «Nell’avventura americana, se all’inizio sono stato io a insegnare a Dale Chihuly, poi è stato lui che ha insegnato a me. A Pilchuck, nella scuola di vetro da lui fondata a Seattle, ho avuto anche la bella sorpresa di trovare un mercato che sostiene i giovani.» Nello stemma araldico di Lino Tagliapietra scriverei: professionalità, coraggio, generosità. Nei primi trent’anni di attività, ha la fortuna di vedere all’opera grandi maestri come Mario Grasso, Ottone ed Egidio Ferro, Ovidio Nason, Aldo Bon e di robar co’ l’ocio i segreti di fornasa di questi sommi artisti, che neppure pensavano di esserlo. Dopo aver realizzato migliaia di pezzi per altri, alla fine degli anni Settanta, Lino Tagliapietra ha spiccato il volo. A 45 anni si è esposto al giudizio del pubblico ed è stato subito osannato. Oggi, più di quarant’anni dopo, la forza fisica non è più la stessa, ma i serventi che ha saputo educare, che lui considera «un prolungamento del mio braccio destro e del mio braccio sinistro,» si fanno carico della parte più faticosa del lavoro consentendogli di rincorrere ancora oggi i suoi sogni e, come Michelangelo, di regalarci anche in tarda età opere eccelse. •
Dinosaur, 2011. Opera iconica realizzata con la tecnica di multipli incalmi a canne multicolori, inversione del punto di soffiatura e infine molatura con le tecniche del battuto e dell’inciso per accentuarne l’effetto grafico.
Endeavor, 2009. Altra opera iconica, conosciuta in tutto il mondo, esposta in musei e collezioni private sia come opera singola sia come installazione. Il processo di lavorazione è di grande complessità tecnica: il pezzo viene soffiato, tagliato e infine molato.
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Asola, 2004. Vetro soffiato con l’uso di canne multistratificate al fine di ottenere l’effetto di un’asola, da cui deriva il nome dell'opera.
Telai d’autore di Simona Segre Reinach fotografie di Susanna Pozzoli per Michelangelo Foundation
A Venezia, dalla sfida tra avanguardia e tradizione nascono i sofisticati capolavori di tessitura di Emanuele Bevilacqua. Sugli antichi telai si alternano ricostruzioni storiche, come i velluti del Cremlino, e progetti sperimentali provenienti dalla collaborazione con il mondo dell’arte e della moda.
La Tessitura Luigi Bevilacqua è un organismo vivente. I suoi telai settecenteschi sono “meteoropatici”: messi in tensione da pietra e corde di canapa risentono dell’umidità, dell’alta pressione, delle condizioni atmosferiche di Venezia, la città in cui l’antica arte della seta è fiorita. I telai, tuttavia, sono solo «quattro banali pali in legno,» precisa il nipote del fondatore, Emanuele Bevilacqua, «poi tutto il resto sta in chi li assetta, come si compongono i 16.000 fili, perché tutto si può fare, ma bisogna pensare, ricreare, innovare sempre, raccogliere le sfide.» Se quindi immaginiamo l’archivio Bevilacqua come un insieme di telai antichi messi in funzione da tessitrici esperte per fare e rifare ciò che è stato creato nel passato, siamo sideralmente distanti dal comprendere la dimensione sperimentale e progettuale di Emanuele Bevilacqua. I 17 telai si convertono incessantemente, riproducendo velluti operati su disegni antichi e nuovi. Ricostruzioni storiche – come i 600 metri di velluto cremisi prodotti manualmente per il Palazzo Residenziale di Dresda
identico all’originale settecentesco – si alternano a velluti coloratissimi per progetti d’avanguardia che si tratti di arte, come la collaborazione con Nathalie Du Pasquier, o di moda. È il caso dell’abito Ophélia realizzato per Yiqing Yin: un fondo marino multicolore per un velluto da Haute Couture parigina. Una di quelle sfide che la moda ama porre. Con la moda, del resto, Bevilacqua ha una lunga consuetudine. Dalla storica borsa Bagonghi di Roberta di Camerino ai progetti attuali come la baguette in broccato floreale Hand in Hand di Fendi, dal jacquard per Pier Paolo Piccioli di Valentino al velluto soprarizzo con fili d’oro per la collezione di Dolce&Gabbana presentata nella Valle dei Templi di Agrigento, fino alla Trunk Sublime Bag per Marni. Tiziano Guardini, designer ecologista, ha trovato in Bevilacqua il partner per esplorare lusso e upcycling all’insegna della sostenibilità. «Spesso si parte dalla fine e non dall’inizio,» continua Emanuele. «Per gli arredi in velluto verde e giallo del Cremlino, uno dei progetti più complessi e di maggiore MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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soddisfazione, non esisteva un telaio adatto: è stato creato a partire dal disegno finale, perfezionando i “quattro pali” per ottenere il velluto soprarizzo Grottesche.» A questo punto è opportuno domandarsi quale sia il ruolo della tradizione; in che misura la nobile storia di una tessitura antica abbia a che vedere con quanto viene realizzato nel presente, come si coniughi la storia con il ritmo delle produzioni contemporanee. Ho buoni motivi per pensare che il valore della tradizione, che pure è condizione necessaria, non sia sufficiente. Spesso la “moda dell’archivio” nasconde la complessità esistenziale e le professionalità che rendono un’impresa in grado di competere nel tempo presente. Parte della risposta la si può trovare nel concetto di matrice
intellettuale coniato da Alberto Cavalli, ossia nella capacità di tenere insieme il “saper fare” con la “cultura del fare”, esprimendo contemporaneità e non mera celebrazione. Anche le “due date di nascita” della Tessitura Bevilacqua suggeriscono uno spunto di riflessione. Le prime evidenze dei Bevilacqua risalgono a fine Quattrocento, quando il nome del tessitore Giacomo Bevilacqua compare tra i committenti di un’opera del pittore Giovanni Mansueti. Il Rinascimento – fin troppo spesso evocato per celebrare il made in Italy – qui ha un senso preciso. Esserci, a Venezia, tra il Quattro e il Cinquecento, significa prendere le mosse quando, in Europa, tutto comincia, in termini di antropologia del gusto. L’Ottocento rappresenta l’altro inizio, quello della modernità, con la rivoluzione industriale che, partendo proprio dal tessile, cambia il significato del vestire e dell’arredare. Dal 1874, anno della fondazione ufficiale, Bevilacqua si pone come alternativa impeccabile a un futuro solo meccanico, senza peraltro trascurare quest’ultima opzione. A Conegliano, i telai jacquard sono meccanici, seppure richiedano sempre la mano umana. La circolarità della moda consiste nella capacità di cogliere il presente metabolizzando il passato. È il caso degli abiti realizzati in collaborazione con Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica di Dior, per il “Tiepolo Ball” a Palazzo Labia che riecheggia lo storico “Ballo Beistegui”, emblema della rinascita post-bellica. Ecco che tra tempo reale e tempo simbolico, Emanuele Bevilacqua attinge al “tempo ucronico”, cioè all’immaginario della moda – come teorizzano Caroline Evans e Alessandra Vaccari – alla fantasia e al pensiero innovativo senza i quali non ci è permesso sognare, né godere di ciò che altri hanno sognato e realizzato per noi. •
IN APERTURA: fili di seta rossa.
tessitura del velluto "soprarizzo";
La Tessitura Luigi Bevilacqua
le mani dei maestri separano
impiega ancora oggi antichi telai
con cura i fili rossi dell'ordito per
settecenteschi, via via restaurati.
preparare il telaio jacquard alla tessitura di motivi in broccato;
A LATO: Emanuele Bevilacqua all'interno
il telaio del XVIII secolo utilizzato
dell'atelier fondato dal nonno Luigi,
in origine per la tessitura della seta
erede della splendida storia dei tessuti
qui intreccia velluti, sete e damaschi.
operati veneziani.
Gesti lenti nell'esecuzione: la più abile delle tessitrici non può
PAGINA ACCANTO, DALL’ALTO VERSO
creare più di 30 cm al giorno
IL BASSO: le navette, strumenti per la
di prezioso tessuto.
GEOMETRIE pure e preziose
di Alba Cappellieri
Forza creativa, magia delle proporzioni, suggestiva precisione. Giampaolo Babetto, orafo padovano, erede di Mario Pinton, trasforma l’oro in gioielli di estrema purezza, essenziali, liberi. Artista riconosciuto a livello internazionale, esplora anche ambiti diversi e materiali insoliti in una continua sfida con se stesso.
MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Maestro è colui che plasma la materia con la sua impronta, che trova la bellezza nella verità, che guarda all’ordinario con occhi straordinari. Che non teme la deroga ma con il suo esempio la trasforma e così facendo introduce nuove prospettive. Maestro è chi ha il coraggio di sperimentare e la pazienza di ripetere mille volte lo stesso gesto, chi non perde la passione e l’entusiasmo per il proprio lavoro ed è costantemente mosso dalla curiosità. Maestro è chi non teme nuove visioni e nuovi linguaggi o, secondo la brillante definizione di Gio Ponti, «è un creatore: di idee, verità e bellezza». È chi non si accontenta dello status quo ma guarda avanti, «fino a farsi scoppiare le orbite» come ripeteva Pieter Oud ai suoi studenti. Giampaolo Babetto è un Maestro. Dell’arte orafa, che pratica tra mestiere e progetto, tra tradizione e sperimentazione, riuscendo a conciliare mondi e metodi lontani nei bagliori luminosi dell’oro delle sue creazioni. Uomo dolce e mite, curioso e generoso come le colline di Arquà Petrarca,
l’incantato borgo medioevale dei Colli Euganei, dove vive e lavora. Babetto nasce nel 1947 a Padova, studia all’Istituto d’Arte Pietro Selvatico con Mario Pinton, il fondatore della Scuola di Padova di cui è discepolo e erede. «Stavo ancora frequentando l’Istituto d’arte – afferma – quando ho deciso di provare qualcosa con l’oro. Avevo un disegno che poteva essere tradotto in una spilla e, dalle reazioni e dalle sensazioni che mi dava nel realizzarla, ho capito che sarebbe stato il materiale che avrei usato per tutta la vita, avevo trovato la mia strada.» Nascono così gioielli in cui l’oro è il protagonista assoluto, per la sua potenza sensoriale e cromatica, per la duttilità e malleabilità, come dimostrano i capolavori di Mario Pinton e dei suoi allievi prediletti Giampaolo Babetto e Francesco Pavan. Grazie a loro che negli anni Settanta la Scuola di Padova rappresenta una delle novità più interessanti del panorama orafo italiano, perché centrata sulle attività formative di un gruppo di orafi artisti all’Istituto Pietro Selvatico che, alternandosi nel ruolo
di allievi-docenti hanno promosso un’originale cultura orafa: da Mario Pinton a Giampaolo Babetto e Francesco Pavan, fino alla terza generazione, rappresentata da Stefano Marchetti, Renzo Pasquale, Annamaria Zanella. Anche se oggi, purtroppo, il Selvatico ha cessato di essere un riferimento per il gioiello italiano e Babetto ha portato avanti la sua ricerca in modo del tutto autonomo, eppure, per qualche singolare ragione, è ancora la più potente cassa di risonanza della scuola di Padova nel mondo. Nelle sue mani l’oro diviene materia viva, plastica, liberata dal simbolismo delle gemme, si piega docile alla volontà della geometria, per trasformarsi in un canto d’astrazione. «Ho sempre eliminato ogni tipo di decorazione dai miei gioielli – chiarisce – non tanto per scoprire una geometria o il processo che sta dietro alla forma, quanto perché il mio lavoro non è fatto di apparenze, nasce dall’interno, comunica un’interiorità: la mia.» Negli anni Settanta i sussulti dell’arte cinetica lo entusiasmano e si traducono nelle strutture geometriche di elementi mobili e
IN APERTURA: particolare di un anello
in oro bianco e diamanti, 2003 (foto di Giustino Chemello). PAGINA ACCANTO E SOTTO: Giampaolo
Babetto al lavoro nella quiete del suo atelier orafo ad Arquà Petrarca, dove vive e crea, immerso nel verde dei Colli Euganei. Il suo mestiere richiede calma interiore, concentrazione e armonia con i ritmi della natura (foto di Susanna Pozzoli/ Michelangelo Foundation).
rotanti come lo straordinario anello a lamelle del 1970, cui fecero seguito le lunghe catene, elastiche ed estensibili, composte da elementi modulari, come la collana d’oro giallo a parallelepipedi del 1977. Geometria e modularità si succedono nei quadrati, coni, ellissi e cilindri, in oro, niellati o illuminati dal colore dei pigmenti, delle sue collane, anelli o spille, micro architetture dalle forme scultoree e dai volumi armoniosi, dove i confini tra artigianato e arte sono indistinguibili. «Un mestiere può diventare arte – afferma – quando creatività e manifattura sono entrambe di altissima qualità.» I suoi gioielli sono realizzati rigorosamente a mano e curati in ogni dettaglio, al pari del concetto che li ha generati. «Saper fare è importante come saper suonare uno strumento, danzare, disegnare… Non è fine a se stesso ma va di pari passo con il pensiero e la ricerca artistica.» Babetto conosce il passato e lo filtra nelle sue visioni del futuro, recupera antiche tecniche come il niello, i cui chiaroscuri danno profondità e densità alla superficie aurea, e lavora per sottrazione, eliminando gli orpelli e le decorazioni della gioielleria tradizionale. La ricerca dell’essenza dona alle sue creazioni un’aurea di poesia e di eternità, ricordandoci che, come diceva sant’Agostino, «Dio è nei dettagli». «Mi piacerebbe – ci confessa – che quello che riesco a fare 44
contenesse quel pathos che tutte le opere d’arte importanti fanno sentire, quella tensione speciale che si fa sentire ma non si può spiegare.» È per questo che, dopo l’esperienza didattica all’Istituto Selvatico di Padova e alla Rietveld Academie di Amsterdam e dopo i numerosi riconoscimenti a Monaco, Tokyo e New York dove nel 2003 gli viene assegnato il Premio Career Excellence, il Maestro Babetto decide di esplorare anche ambiti progettuali trasversali, come arredi e vasi, dove la sfida con se stesso e con la materia diventa tensione creativa. «Mi piace spaziare in discipline diverse per non fossilizzarmi in un’unica esperienza e mi piace anche pensare che qualsiasi cosa venga realizzata e di qualsiasi tipo sia sullo stesso piano, e dovrebbe quindi essere concepita con la stessa finalità. Non posso fare a meno di esplorare mondi e territori sconosciuti.» Questa incessante curiosità lo porta a progettare tavoli e arredi ma anche a introdurre nei suoi gioielli materiali insoliti, come l’ebano, la resina, affiancandoli spavaldo alle gemme, convinto, a ragione, che non avrebbero sfigurato. Arte, architettura e gioiello si ritrovano in Babetto, che, come sostiene poeticamente Germano Celant, «aspira a ricucire il nodo tra spirito e materia congiungendo, nel vortice purificatorio dell’oro, maschile e femminile, naturale e artificiale, passato e presente.» •
PAGINA ACCANTO: anello in oro giallo
e niello, 1970 (foto di Lorenzo Trento). QUI: spilla in oro giallo e pigmento,
2007 (foto di Giustino Chemello).
Il soffio dello spirito, opera in legno di corniolo e rame battuto, 2017. La produzione del Maestro Giulio Candussio si esprime attraverso diverse forme d’arte tra cui il mosaico, la scultura lignea e la pittura.
dei sogni L A M AT E R I A
di Paolo Coretti
Con grande spirito di ricerca e sperimentazione, il Maestro fruliano Giulio Candussio trasforma emozioni, elabora ricordi, materializza pensieri. Profondo conoscitore dei risvolti della natura, i suoi mosaici, noti anche per la collaborazione con Bisazza, sono l’incarnazione di sogni e di memorie nitide, intense e ardenti.
Ho conosciuto artisti che facevano mistero delle loro opere e ne parlavano di malavoglia e in modo incomprensibile e poi si ritraevano negli antri della loro vita, che erano disadorni e disordinati. Ne ho conosciuti altri, confusi e disperati, che sembravano precipitati senza colpa tra le cose arruffate della loro bottega e altri ancora, arroganti, pieni di sé, che si pavoneggiavano nelle loro case opulente e non erano capaci di spiegare a un qualsiasi passante il perché della loro arte. Giulio Candussio non è fatto così. Non appartiene a queste – ahimè copiose – schiere di artisti, un po’ superuomini e un po’ vittime della loro pochezza. Ed è buona testimone la sua casa-studio di Spilimbergo, dalla quale emerge – e fin da subito – l’ordine dei materiali e degli strumenti allineati negli scaffali di legno chiaro, il rigore compositivo delle opere, il nitore della luce (quella fisica e quella del pensiero), la trasparenza del suo fare, quasi scientifico, senza segreti e senza inganni, erede di schiettezza antica e di profonda sincerità. Ed è grazie a questo suo essere profondamente sincero che Candussio evita di scivolare nel delirio creativo di tanti artisti. Mediante una sorta di autoanalisi introspettiva, assidua e priva di veli, indaga costantemente sui motivi che hanno dato origine alla sua sensibilità artistica e che hanno acceso quel fuoco che, in maniera implacabile, continua ad ardere e ad alimentare il processo di combustione che rende concreti i suoi pensieri. 48
Nella riscoperta di questi motivi, radicati solidamente nel suo bagaglio culturale e tanto importanti per la sua formazione, ritrova il suo essere uomo di montagna, che ha trascorso l’infanzia felice nei luoghi dove la natura si esprime – il più delle volte – con lunghi silenzi, che ha provato l’asprezza e la tortuosità dei sentieri in salita, che ha visto il greto scosceso dei torrenti e i boschi alti e che, affascinato da queste cose, ha potuto maturare la capacità di riflettere e di andare a fondo nella comprensione della natura e delle sue forme. E che, per questo, ha potuto apprezzare la fatica del salire e convincersi che essa è il mezzo più giusto per raggiungere i cieli più limpidi, che ha potuto accarezzare i sassi che rotolano nei torrenti e scoprire in essi i frammenti di una certa montagna che li ha abbandonati aguzzi e che l’acqua impetuosa ha saputo levigare e, ancora, che ha potuto comprendere la vita che si sprigiona nel bosco, che cresce negli alberi, ospita gli animali e dà lavoro agli uomini che abitano i luoghi in cui il bosco si dirada. Con questi presupposti, è facile comprendere come le opere di Candussio siano fortemente legate alla sua vita vissuta. Ne siano il resto cosciente. Una sorta di autobiografia guidata dalle cose viste e dalle emozioni provate. Con il legno che lui dimostra di conoscere fino all’ultima fibra e che scolpisce scegliendone i pezzi con la cura dei suoi antenati, che lui ama definire artigiani di montagna, costruisce
PAGINA ACCANTO: a sinistra, Tra l’erba
e le foglie; a destra, Qualcosa che si riflette sull’acqua, entrambe tempera grassa e acrilico su carta, 2020. QUI: Skyline (In controluce sulla cresta),
legno di noce, ferro e bronzo, 2014.
50
SOPRA: Riflessi in un occhio d'oro,
PAGINA ACCANTO: a sinistra, Skyline
ferro battuto, 2014; a destra,
mosaico di tessere d'oro colorato
(I solitari sulla rupe), scultura in
Ti guardo e ti parlo, scultura
posate direttamente su malta, 2017.
legno di corniolo, legno di larice e
in legno di tasso, 2014.
forme e paesaggi che appartengono al panorama che vive e resiste nella sua memoria e, in misura ridotta, realizza case, declivi, torrenti e alberi, tanti alberi, in sommità dei quali urlano fasci di fili di ferro, forgiati, battuti e contorti come fossero scossi e piegati dal vento, parola questa che, nella lingua friulana, viene detta semplicemente aiar, aria, proprio come quella che respiriamo. Allo stesso modo, dimostra di conoscere profondamente la forza incandescente e barbarica del ferro, l’inquieta e a volte ingannevole trasparenza del vetro e l’apparente insormontabile durezza della pietra, ma è con il mosaico che meglio mostra la sua capacità espressiva ed è con questa disciplina, il cui linguaggio utilizza in modo speciale, che riesce a comporre un sistema capace di rappresentare quella natura e quelle figure che sono rimaste impresse nel fondo dei suoi occhi e che, di giorno in giorno, si rinnovano e mutano il loro vigore.
Si tratta di un sistema complesso di segni e di colori, tra loro opposti o complementari, mai statici e sempre in vibrazione, come l’erba quando si lascia pettinare dal vento, come le foglie del bosco, come le nuvole che si accumulano e che poi si disfano, come l’acqua dei torrenti che cambia colore di sasso in sasso, come il fuoco. Ed è con questo modo, quasi divisionista, di vedere le cose, mai lasciato al caso, che Candussio affronta il mosaico, disegnando prima gli andamenti e la dinamicità degli elementi, per poi farli diventare texture di segni e di colori, fatti di pietre, paste di vetro, smalti, variamente spezzettati e giustapposti in un rincorrersi di effetti cromatici così affascinanti da portare l’osservatore a convincersi che il mosaico non è solo superficie, non è solo pelle, ma è anche e soprattutto carne, viva e pulsante, come sono vivi e pulsanti i ricordi, i pensieri, ma anche gli incubi e i sogni che, del mosaico, sono ispiratori. • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Architetture
dell’anima di Marina Jonna
Prototipo scenografico realizzato in legno di teak levigato, 2020. Una "scultura domestica" che, nel movimento frontale, cela l’apertura delle ante.
Le opere di Giuseppe Rivadossi sono vere e proprie architetture in scala ridotta, realizzate per creare armonia negli spazi dell’abitare e riconciliare l’uomo con la natura. I suoi mobili sono “creature” nate dall’anima e dalla volontà di valorizzare la nobiltà delle matiere prime.
Giuseppe Rivadossi, scultore e artigiano, inizia a lavorare il legno da ragazzo, trasferendo nelle sue opere la sua visione poetica dell’abitare. Realizzati interamente a mano, con tecniche sopraffine, i suoi arredi si caratterizzano per le lavorazioni a bassorilievo e il rispetto estremo dei materiali che vengono esaltati nelle loro peculiarità naturali. Nascono così mobili, vere e proprie sculture per interni, ma anche, con Habito, ambienti interamente personalizzati che rispecchiano lo stile e il carattere di chi li abita. Un poeta del suo operare, come ama definirsi, perché i suoi mobili raccontano di una continua ricerca di connessione con la nostra stessa essenza, creata attraverso l’immagine, la creatività e la sensibilità. «Parto sempre da un’osservazione che mi è venuta naturale: l’ambiente parla e dice tutto della nostra conoscenza, della nostra cultura, della nostra onestà e del nostro sentire,» racconta Giuseppe Rivadossi. «Se tutto quello che facciamo fosse fatto con una coscienza del vivere e della bellezza della natura e del Creato, ogni cosa avrebbe un segno poetico. Sarebbe il recupero di un linguaggio legato alla vita.» Una riscoperta non solo del concetto di bellezza ma anche dell’essenza del lavoro. «Purtroppo oggi viviamo in una situazione terribile in cui il lavoro è solo in funzione del
mercato: una cosa umiliante per l’uomo perché porta l’individuo a faticare senza senso,» spiega Giuseppe con semplicità e chiarezza. E continua: «Con il progresso tecnologico abbiamo trovato possibilità straordinarie ma le stiamo usando molto male, solo per il business. Questo va contro la natura umana. Tutto quello che facciamo parla, racconta qualcosa. Ma se dice solo “fatti furbo” per conquistare il mercato, contribuiamo alla nostra rovina. Il mio scopo è quello di realizzare ambienti dove l’accoglienza, il senso della riconoscenza, la bellezza siano ancora sentiti e vivi.» Riscoprire dunque un modo di lavorare che ha come finalità quella di riconciliarsi con la natura. «Con questo spirito lavoriamo e abbiamo ritrovato le tecniche che mettono in evidenza il materiale, la struttura, il piacere di abitare in una situazione in cui tutto è fatto con un senso del rispetto, dell’armonia: da lì nascono i nostri lavori,» sottolinea Giuseppe Rivadossi. «Questa è la visione che vogliamo portare avanti in un ambiente dove invece stanno prevalendo le organizzazioni come fatto di mercato, come capacità di imporsi su una piazza. Il lavoro dovrebbe essere un fatto creativo. Oggi siamo in una fase di meccanizzazione non priva d’interesse ma che sta travolgendo l’uomo, annientandolo. Questo non va bene.» «Non c’è umanità. In una grande fabbrica non sai neanche perché e per chi stai facendo un lavoro.» Prosegue il figlio, Emanuele Rivadossi. «Scriveva Raimon Panikkar che il lavoro deve aiutare l’uomo a partecipare al dinamismo dell’Universo. Altrimenti che lavoro è? Che funzione ha realmente? Penso che ognuno dovrebbe avere questo anelito e declinarlo a modo suo.» 54
Ovvero, riversare l’anima all’interno del proprio operare, come sosteneva Osho: «Indipendentemente da ciò che crei, non è importante che tu dipinga o scolpisca, oppure che tu faccia il giardiniere, il calzolaio o il falegname. È importante che ti chieda: sto riversando tutta la mia anima in ciò che creo?» E proprio in questo sta la differenza degli arredi usciti dalla bottega di Rivadossi: raccontano di sentimenti e valori e riescono a entrare in empatia con le persone, parlando di un mondo in cui la connessione con la natura viene espressa attraverso la forma, il materiale e l’anima di chi lo ha realizzato. Onesti, veri, caratterizzati da accurate lavorazioni che si esprimono in ogni dettaglio. Come nella credenza Del Ponto, che descrive tutta la maestria dell’artista bresciano, realizzata come blocco monolitico utilizzando il legno con la fibra verticale, scavata manualmente su entrambi i lati, per mezzo di una sgorbia. Con uno studio ad hoc anche per i chiavistelli progettati e realizzati in acciaio brunito. «Lavorare il legno appartiene alle nostre radici,» racconta Emanuele Rivadossi. «Oggi siamo circondati da materiali che cercano di essere altro: pensiamo alla plastica che imita il legno o la pietra. Una cultura ingannevole che abitua l’uomo a sospettare di ciò che ha di fronte. Il nostro intento è invece quello di suggerire una nostra integrità e coerenza: per questo lavoriamo materie prime “archetipiche” come il legno, il metallo, la pietra e lo facciamo secondo la loro propria natura, con l’obiettivo di valorizzarne l’essenza stessa, di stimolarne le vibrazioni primarie.» Ma alla fine Giuseppe Rivadossi, chiamato da alcuni il poeta del legno e da Vittorio Sgarbi «potenzialmente tra i più grandi architetti di questo secolo», come si definisce? «Semplicemente un onesto lavoratore.» •
PAGINA ACCANTO: a sinistra, Giuseppe
Rivadossi lavora il tavolo Vela; a destra, intaglio a sgorbia su noce italiano (foto di Ottaviano Tomasini). QUI: al centro, Immagine Silente, una
struttura dall’impatto scenografico con ante digradanti.
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SOPRA: madia Celata a quattro ante,
PAGINA ACCANTO: in alto, Arca 1, 2,
Del Ponto realizzato interamente
composta da elementi finestrati a
credenza a due ante dalla forma
a mano in ciliegio italiano.
toro, in noce nazionale. Può essere
evocativa che nasce per proteggere
È scavato su entrambi lati per
realizzata in tiglio di selva, ciliegio
e custodire le cose a noi più care.
mezzo di una sgorbia.
europeo e rovere slavonia.
In basso, il mobile contenitore
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La passione
DI PADRE IN FIGLIA
di Giulia Crivelli fotografie di Laila Pozzo
La figlia del grande Maestro del ricamo Pino Grasso, recentemente scomparso, esalta la continuità e l’unicità dell’attività di famiglia. Anche in tempo di crisi, l’amore per il proprio mestiere e le mani sapienti dell’uomo sono un’arma essenziale per la rinascita.
«Il 2020 è stato l’anno che sappiamo. Ha messo tutti a dura prova, da innumerevoli punti di vista, e sul futuro a breve termine abbiamo poche certezze. Eravamo tutti, persone, aziende, Paesi, credo, impreparati alla tempesta che ci ha colpiti, ma perdere mio papà in un anno così ha significato attraversare la mia tempesta personale all’interno di quella più grande. In qualche modo ho resistito e questo mi ha dato forza. Certo, sono stanca: la passione per il mio lavoro, che ho ereditato proprio da mio padre Pino Grasso e che non ho mai smesso di coltivare, mi aiuta e spero che la nostra azienda e la mia famiglia escano dalla tormenta più consapevoli del loro valore, se non più forti in senso stretto.» Raffaella Grasso sintetizza così il periodo che abbiamo vissuto e stiamo ancora attraversando, sottolineando la continuità che cerca di preservare, tra quello che il padre ha costruito in tanti anni
PAGINA ACCANTO: ideato per la
collezione uomo p/e 2001 di Dolce&Gabbana, questo ricamo è realizzato a tecnica mista, crochet e ago, e ha richiesto circa 320 ore di lavoro di 5 esperte ricamatrici. QUI: dettaglio di lavorazione del
ricamo a rovescio o Lunéville, realizzato con aghi di diverse misure.
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PAGINA ACCANTO: nastro di crinolina
nera, arricciato a mano in pieghe regolari con effetto gorgiera e arricchito con strass Swarovski. Campione studio del 2010 per il bordo di uno stivale Sergio Rossi. A LATO: Pino e Raffaella Grasso con
un campione del 2002 ideato per Gianfranco Ferré. Il ricamo, su organza grigio fumo, ricrea disegni floreali astratti e geometrie grazie a elementi vitrei e cristalli Swarovski.
di lavoro e ciò che lei, ora alla guida dell’azienda artigiana di Milano specializzata in ricami di altissima qualità, immagina per il futuro. La storia dell’atelier inizia nel 1967, quando Pino Grasso, che dall’età di 27 anni aveva scoperto il fascino del ricamo, decise di aprire il suo laboratorio a Milano. Aveva già molte esperienze e scelte di vita alle spalle. «Ci fu un tempo in cui il destino di mio padre era sembrato molto diverso. Dopo il liceo si era iscritto a medicina e per un anno aveva seguito le lezioni,» ricorda Raffaella. «Credo che la fascinazione per chi riesce a curare le malattie e alleviare il dolore delle persone gli sia rimasta per tutta la vita, ma dopo un anno di studi capì che non avrebbe potuto essere un buon medico, che non avrebbe retto l’esposizione al dolore fisico e ai corpi feriti. Così accolse l’offerta di un amico che aveva un laboratorio di ricamo e iniziò a fare pratica e a studiare, tra l’Italia e Parigi.» Nel giugno 2020 Pino Grasso è mancato e Raffaella ha assunto la gestione dell’atelier, oltre alla responsabilità della parte creativa. «Penso che la pandemia ci abbia spinti a guardare all’essenza delle cose, nella vita e nel lavoro. Per questo non ho remore a paragonare il nostro atelier a una grande famiglia: abbiamo circa 20 dipendenti diretti e altri 6 che lavorano da casa. Al di là degli aiuti arrivati dalle istituzioni, abbiamo cercato di darci forza a vicenda e di continuare a lavorare e a farci venire idee anche durante la pandemia. Nel 2020 abbiamo perso circa il 50% del fatturato e ovviamente siamo spaventati per il futuro. Ma abbiamo le armi di sempre: la passione per il nostro lavoro e la consapevolezza della nostra unicità e del know-how tramandato da decenni di persona in persona.» I clienti dell’atelier Pino Grasso sono, da sempre, i più importanti stilisti e Maison dell’alta gamma: con Valentino Garavani il fondatore ebbe tutta la vita un rapporto di amicizia, oltre che di lavoro. Lo stesso vale per i protagonisti della moda italiana e francese dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Poiché gli artigiani parlano una lingua ancora più unica e particolare di quella degli stilisti, Pino Grasso strinse amicizia anche con il concorrente francese per eccellenza, François Lesage, titolare di quella che, persino oggi che è di proprietà di Chanel, resta tra i più famosi atelier di ricamo
al mondo. «Lavoriamo con tutti i grandi brand e negli ultimi vent’anni sono cambiate tante cose, lo sapeva mio padre e posso ovviamente confermarlo. Non è solo la nascita dei due grandi gruppi del lusso, LVMH e Kering: sono diverse le logiche distributive e di comunicazione, stravolte dalla rivoluzione digitale. Ma forse la pervasività della tecnologia è una buona notizia per i lavori manuali e l’alto artigianato. I nostri sono saperi e capacità creative che non si possono insegnare a un computer né possono essere guidati da un algoritmo o da una nuova forma di intelligenza artificiale. Le uniche mani sapienti sono quelle dell’uomo. O meglio, delle donne, quasi sempre, nel nostro settore. Per questo voglio essere ottimista: se usciremo dall’emergenza sanitaria e economica legata alla pandemia, gli atelier come il nostro resteranno unici.» Non è un caso se prima dell’arrivo del Covid, Raffaella e suo padre ricevevano molte richieste di giovani per partecipare ai corsi di formazione e iniziare il (lungo) percorso per imparare l’arte del ricamo. Che richiede creatività, ma anche disciplina, pazienza e la consapevolezza di dover alternare fasi ripetitive a quelle più originali. «Resto convinta che fare il nostro lavoro sia un privilegio e che concentrarsi sull’uso sapiente delle mani sia un’ancora di salvezza, emotiva e persino economica, in tempi di crisi,» è il messaggio finale di Raffaella Grasso, che suo padre Pino – straordinario Maestro, tra i primi MAM identificati dalla Fondazione Cologni – sicuramente sottoscriverebbe. • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Campione realizzato per Valentino tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta: decoro floreale di paillettes perlate a forma di piccolo fiore e a conchiglia, conterie in vetro bianco perlato, conterie tinte color legno, canette bianche satinate, strass Swarovski e filato metallico dorato.
BELLE EPOQUE COLLECTION
DAMIANI.COM MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Il segreto della
PERFEZIONE di Virginia Villa fotografie di Cristian Chiodelli
Trasferimento del modello di decoro dal cartone alla fascia del violino, utilizzando la tecnica dello "spolvero".
Il genio di Stradivari si risveglia nell’estro di Marcello Villa, da quarant’anni autore di capolavori liutari. Musicista e artigiano, interprete dell’antica tradizione della liuteria cremonese, affina conoscenze e capacità che lo rendono un Maestro di riferimento per violinisti e collezionisti di tutto il mondo.
Nella liuteria il concorso tra estetica e funzione, innovazione e tradizione richiede una quotidiana operazione di studio, comprensione e mediazione. La linea che unisce l’oggi alla storia passa attraverso il gesto creativo del Maestro artigiano: una tecnica arcana, un progetto che il tempo ha tramandato con venerazione ispirano nuova bellezza. Il “saper fare”, concreto presidio di conoscenza, porta a sintesi, nell’opera d’arte, idealità e realtà. Così il patrimonio, unico, del genio di Stradivari, Amati, Guarneri, è consapevolmente condiviso. Da 40 anni Marcello Villa costruisce violini, viole e violoncelli a Cremona. La sua bottega-atelier che condivide con il fratello Vittorio, violinista e liutaio, si trova in un palazzo rinascimentale nel centro della città. Gli spazi sono ordinati, gli attrezzi appesi alle pareti, i banchi simili a quelli da falegname, piccole pile di legname diffondono un buon profumo che si fonde a quello delle resine, usate per le vernici. Alle pareti stampe antiche, quadri settecenteschi, disegni di decorazioni, vecchie partiture. Tutto parla di musica e arte, con una propensione per il Barocco. Marcello Villa è diventato Maestro liutaio per passione. Fin da piccolo ascoltava il fratello suonare ed era attratto da quel primo violino che, essendo in prestito, lui non poteva neppure toccare. Inizia egli stesso a suonare. La passione si consolida attraverso lo studio, alimenta curiosità, la determinazione trasforma desideri in progetti. Dopo le scuole medie a Monza, dove è nato, sceglie dunque di frequentare la Scuola Internazionale di Liuteria a Cremona, benché occorra allontanarsi dalla famiglia. Così, appena tredicenne, viene ospitato da uno zio, sacerdote della Congregazione dei Padri MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Violino intarsiato di Marcello Villa, ispirato allo Stradivari Greffuhle del 1709. La montatura barocca è, dal punto di vista organologico, coerente all’epoca dello strumento originale.
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Barnabiti, nel convento annesso all’antichissima Chiesa di San Luca, proprio a due passi dalla vecchia sede della Scuola. Praticamente adottato dai confratelli cresce in convento dedicando il proprio tempo allo studio e al lavoro. Sotto la guida di storici maestri quali Stefano Conia e Giorgio Scolari, dapprima a scuola e poi presso la loro bottega, Marcello prosegue il proprio percorso dove la liuteria non è disgiunta dagli studi musicali. Suona in diverse orchestre e frequenta musicisti provenienti da varie parti del mondo, così può affinare le proprie capacità di artigiano e sviluppare una personale ricerca sulle diverse qualità del suono. Nel suo lavoro si percepisce il senso forte dell’antica tradizione della liuteria cremonese, acquisito attraverso lo studio dei grandi capolavori di Amati, Guarneri e, soprattutto, Stradivari, di cui può ammirare anche disegni, modelli e attrezzi. Quel patrimonio unico è ora conservato ed esposto al Museo del Violino di Cremona, messo a disposizione dei maestri liutai come guida e fonte di ispirazione per le proprie creazioni. La liuteria del Maestro Villa ha radici solide, ma è costantemente nutrita dall’esperienza quotidiana, da approfondimenti nella lavorazione del legno, quali l’intaglio e l’intarsio, che lo hanno portato nel corso degli anni a diventare esperto nella costruzione di strumenti particolari sui modelli dei famosi Stradivari decorati e intarsiati, considerati i gioielli della produzione del più grande liutaio della storia. E ancora una volta i rapporti umani, gli incontri, l’amicizia influiscono positivamente e stimolano la crescita non solo professionale. È la conoscenza dei coniugi Axelrod, collezionisti, proprietari di alcuni tra gli strumenti intarsiati di Stradivari più belli e più rari, che crea le condizioni per un rapporto ravvicinato con questi capolavori, grazie alla commissione di un intero quartetto, copia dell’originale posseduto dalla famiglia. Ora, a testimonianza del mecenatismo degli Axelrod e dell’abilità artigiana di Marcello Villa, questi strumenti sono conservati presso il Museo del Violino, corredati da un video che permette ai visitatori di seguire tutte le fasi della loro esecuzione: i gesti non rivelano il segreto, ma sanno affascinare per maestria, conoscenza, creatività e pazienza. Nel 2016 la Fondazione Cologni conferisce a Marcello Villa il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere: insieme ai numerosi altri riconoscimenti e premi ricevuti nei molti anni di attività, attesta il suo impegno come protagonista dell’alto artigianato italiano. La sua è dunque «una vita spesa per creare ogni giorno le forme del bello ben fatto,» come Franco Cologni, presidente dell’omonima Fondazione, ama ricordare descrivendo i “nostri Maestri”. •
SOPRA: il Maestro Marcello Villa
nella propria bottega, a Cremona. QUI: scultura della testa di un violino
intarsiato. La traccia cava del decoro sarà in seguito colmata con mastice di polvere di ebano e colla "a caldo".
Kit del Legnamè, raffinata interpretazione della cassetta degli attrezzi del falegname. Realizzato in noce canaletto e ulivo, contiene 6 diversi utensili. Gli angoli esterni della scatola presentano intarsi in osso. Il doppiofondo è diviso in scomparti per le viti. Disegnato da Giacomo Moor e realizzato da Giordano Viganò per la mostra “Doppia Firma” del 2016. L'evento è curato annualmente da Michelangelo Foundation, Fondazione Cologni e Living Corriere della Sera per il Salone del Mobile. L'opera ha vinto il Wallpaper Design Award nel 2017 (foto Laila Pozzo/ Doppia Firma).
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Mater Materia di Patrizia Sanvitale
Forte di oltre cinquant’anni d’attività, Giordano Viganò, raffinato ebanista, Maestro dell’intarsio e coraggioso interprete di idee, racconta la sua arte, la sua passione per il legno, le sue ispirazioni e svela il segreto che sta dietro alla ricerca della bellezza e della produzione di oggetti senza tempo.
Un ampio cortile e un bosco di querce tipico della brughiera briantea ci introducono al laboratorio di ebanisteria di Giordano Viganò a Novedrate, nel cuore della Brianza, un ampio spazio molto luminoso dove convivono attrezzature tecniche e tradizionali banchi da falegname che Viganò cura personalmente: «A fine anno li levigo a mano, uno a uno, e li lucido a cera,» racconta con orgoglio. «Hanno più di 50 anni ma, come vede, sembrano nuovi: non ci crede nessuno.» Ebanista eccellente, sperimentatore coraggioso e geniale, curioso e ostinato perfezionista dallo straordinario senso estetico, da più di mezzo secolo Giordano Viganò lavora con incredibile perizia ed estrema finezza legni di grande qualità e altri materiali preziosi, mettendo l’abilità delle sue mani, il suo “saper fare”, non solo al servizio dei propri progetti, ma anche a quello di architetti e design di livello internazionale, le cui idee interpreta in modo superbo. Nascono così scacchiere in ebano con intarsi in materiali ricercati, raffinati tavolini, eleganti pochette in legno e pelli preziose, pregiati set da scrivania in legno e cuoio, con rifiniture in osso. Per Viganò, la grande occasione arriva nel 1976, quando inizia a collaborare con l’architetto Gianfranco Frattini, esponente di spicco del design italiano sin dalla fine degli anni cinquanta. «Un incontro che ha rappresentato una svolta decisiva nel mio MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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lavoro e mi ha portato ad affrontare progetti complessi sotto la direzione di un professionista esigente, in un confronto sempre molto stimolante.» È altrettanto stimolante lavorare con i designer e gli artisti di oggi? «Hanno una minore conoscenza del legno, dei suoi limiti e delle sue caratteristiche, ma non mancano di curiosità e sono affascinati dal lavoro manuale.» Cosa invece chiedono i clienti privati? «Tanto per farle un esempio, tempo fa ho realizzato un mobile per esporre una collezione di terrecotte precolombiane. Mi sono ispirato alle teche museali ed è nato un progetto originale e inedito. In ogni caso, qualunque sia la committenza, ogni rapporto di collaborazione deve essere contraddistinto da principi essenziali, quali la chiarezza, la trasparenza, la serietà e la competenza.» Di quali lavori va più orgoglioso? «Del Tempietto di complice pigrizia, un dondolo-altalena, metafora dell’ozio e del gioco all’aria aperta, realizzato nel 1990 per la fiera “Abitare il tempo” di Verona. Ma anche del Tavolo Bisanzio, in legno di palma, il cui grande piano è composto da un mosaico di più di 2000 tessere: lavorare questa essenza così particolare ha richiesto molto tempo e pazienza. Insieme alla scacchiera Tabula Aurea, il Tavolo Bisanzio è uno dei pezzi di cui vado più orgoglioso.» E come raggiunge l’eccellenza in questo tipo di progetti? 70
«Generalmente parto da uno schizzo dove fisso un’idea che perfeziono con un disegno tecnico – disegno a mano sul tecnigrafo – dove definisco misure, proporzioni e dettagli. Poi realizzo un disegno esecutivo al vero e, se necessario, faccio un campione del prodotto in scala 1:1 con materiali comuni per verificarne le proporzioni, oppure solo di alcune parti per provare incastri e tenuta. Un processo lungo: le cose fatte ad arte richiedono tempo e pazienza.» Poco fa ha accennato al legno di palma. Come seleziona i materiali? «A volte è il materiale stesso che mi ispira una forma o una funzione. Sviluppo un’idea che man mano prende forma e partendo da un semplice schizzo si trasforma poi in oggetto finito. Nascono così mobili, tavoli, complementi, oggetti, cornici, vassoi. In altri casi devo rispondere a un’esigenza precisa di un progetto. In generale tutto ciò che mi circonda e mi emoziona provoca la mia immaginazione e si trasforma in idee.» Il suo mestiere ha radici antiche, come coniuga tradizione e innovazione? «Le nuove tecnologie per la lavorazione del legno e le tecniche tradizionali convivono ormai da tempo e l’innovazione rende più competitivo e contemporaneo il mestiere artigiano. Mi affido a entrambi, anche se è impossibile fare un calcolo di quante sono le macchine e gli utensili per le lavorazioni manuali che faccio realizzare su mie indicazioni.»
Nella sua lunga carriera di ebanista, Giordano Viganò è stato insignito di titoli particolarmente prestigiosi, non ultimo quello di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere su proposta della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. «Il riconoscimento è arrivato del tutto inaspettato nel 2016 e ne sono molto onorato. Sono grato alla Fondazione anche per il grande lavoro che svolge nella valorizzazione dell’alto artigianato e la formazione dei giovani: devono comprendere che la sfida è rendere contemporaneo ciò che si realizza innovando allo stesso tempo sia il processo produttivo (con le tecnologie digitali) sia l’estetica e, a volte, la stessa funzionalità di un prodotto. Certo, ci sono le scuole professionali, ma non c’è dubbio che la formazione vera avvenga sul campo. Al di là del talento, servono umiltà per imparare, curiosità per ricercare, dedizione per perseverare. Bisogna mettersi in gioco con modestia e disponibilità, osservare e sperimentare da vicino tutte le fasi produttive che consentono di perfezionare le proprie abilità e di acquisire competenze.» E lei, a bottega, ha geniali maestri in fieri? «Considero il mestiere artigiano come una vocazione personale che a volte non ha eredi diretti ma è comunque in grado di affascinare e ispirare i giovani per la bellezza e il senso di libertà che produce.» •
PAGINA DI SINISTRA: scacchiera Tabula Aurea
con piano di gioco pieghevole realizzato in legno di palma tagliato lungo la vena e di testa. Cerniere in ebano e dettagli in argento. IN ALTO: tavolo Bisanzio in legno di palma, con
bordo perimetrale in argento. Il piano a mosaico è composto da più di 2.000 tessere di palma tagliata di testa. SOPRA: il Maestro Giordano Viganò. L'abilità
dell'ebanista deriva dalla sapienza delle sue mani.
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Piano di Nero del Belgio (540x180 cm) con decorazioni naturalistiche in stile classico, finemente ornato con pietre dure e semipreziose, 2005. La più grande sfida, in termini di dimensioni, mai realizzata dall'atelier di Renzo Scarpelli (foto di Guido Cozzi).
Prodigi DE L L A
P I T T U R A
di pietra
di Neri Torrigiani Nel cuore di Firenze, nella storica bottega di Renzo Scarpelli, si perpetua il miracolo del “commesso fiorentino”. Ispirati alla tradizione medicea, i mosaici realizzati dal Maestro e dal figlio Leonardo sono opere stupefacenti, apprezzate da un pubblico internazionale e riconosciute come veri e propri tesori.
La bottega di Renzo Scarpelli, in via Ricasoli a Firenze, è meta di pellegrinaggio di oltre 24.000 appassionati l’anno; è poco distante dal Giardino di San Marco dove, alla fine del Quattrocento, Lorenzo il Magnifico allestì la prima Accademia d’Arte d’Europa, presso la quale i talenti in erba – compreso un giovanissimo Michelangelo – potevano studiare le opere e le tecniche artistiche delle collezioni medicee. Proprio alle sculture di Michelangelo fa pensare il volto di Renzo Scarpelli, l’artigiano che più di ogni altro rappresenta adesso nel mondo il “commesso fiorentino”, l’arte preziosa di assemblare in forma artistica i marmi e le pietre policrome che ancora oggi cerca con il martellino e raccoglie, sulle colline fiorentine e nel greto dei ruscelli, con il figlio Leonardo e il nipote Diego. Perché il primo passo per diventare un bravo Maestro – e magari un giorno, come lui stesso, un “tesoro vivente” – è proprio il riconoscere le pietre che verranno poi “tagliate a fette” di 2/3 mm di spessore con gli appositi dischi diamantati (che, quasi senza scarto, polverizzano letteralmente fino al 35% di materia prima che viene poi smaltita seguendo
la normativa più rigorosa) per svelare i loro segreti e suggerire delle composizioni: perché l’abilità dell’artista consiste proprio nel riuscire a ottenere una “pittura di pietra” con le tonalità cromatiche che i materiali offrono in natura, magari facendosi ispirare da essi nella composizione. Per tagliare le singole tessere (o frammenti) si utilizza ancora il tradizionale “archetto” in ciliegio, nocciolo o castagno, che deve essere lasciato in tiro per 5 o 6 anni prima di essere usato; e grazie all’azione della polvere abrasiva con l’acqua e il semplice filo di ferro, crea un taglio molto preciso e inclinato. Premio MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, per ben quattro volte espositore ad “Artigianato e Palazzo” al Giardino Corsini, Renzo Scarpelli inizia come garzone nella bottega del Maestro Fiaschi, che lo manda anche a scuola di pittura: perché chi non sa disegnare potrà solo copiare il passato. E quando restaura lo spazio che ospita adesso la sua bottega, Renzo decide di mostrare i banchi di lavorazione per permettere a tutti di capire come si trasforma un sasso in un quadro, bagnando le lastre di pietra per svelarne le incredibili sfumature di colore, incollando MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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le tessere del mosaico con la stessa colla che adesso tiene assieme tutta la famiglia. Perché oltre alla moglie Gabriella entrambi i figli hanno in mano la gestione della bottega: Leonardo – che probabilmente ha il DNA composto a mo’ di mosaico! – e Catia, che si dedica alla gestione commerciale e alla comunicazione della loro attività. Il lavoro in bottega è ben diviso e bilanciato sulle qualità di ciascuno: Renzo e Leonardo immaginano, dipingono e “macchiano” ogni opera che verrà poi realizzata dalle mani sapienti di Stefano, Pier Paolo e Filippo a cui presto si aggiungerà un settimo elemento, giovane e da formare. La macchiatura è l’operazione più importante per la riuscita dell’opera e rappresenta quel momento in cui vengono disegnati i soggetti, scelte le pietre e i colori per comporre le prime “pennellate”: certe volte si arriva a disegnare
direttamente sulla pietra, creando un puzzle ideale, e così facendo magari si modifica l’idea originale… e certe volte capita che un solo ciottolino sparito possa mettere in subbuglio l’intero laboratorio! La perfezione delle commettiture è alla base della raffinatezza delle botteghe fiorentine. Il segreto è vedere le opere al rovescio, da dietro: vengono montate al contrario (con cera d’api e pece greca in fase di lavorazione e poi con il mastice per renderle indistruttibili) e solo in alcuni casi poi montate su ardesia o cristallo, e rifinite con decine di passaggi di abrasivi sempre più sottili fino ad arrivare alla juta bagnata e alla lucidatura finale con un nonnulla di cera d’api. Alcune opere sembrano delicati acquarelli, altre xilografie espressioniste, tante si rifanno alle composizioni rinascimentali, altre vengono create dall’artista ispirandosi a temi o luoghi reali oppure realizzando disegni di fantasia, fino alla riproduzione delle cartoline che i turisti mandano a casa con un saluto da Firenze. I temi veristi e la tecnica dei Macchiaioli sono certamente perfetti, perché in fondo “la macchia” è come un sasso! Ma ahimè si è interrotta quasi del tutto la realizzazione di piani da tavolo e opere di grandi dimensioni. Si è poi aggiunta una “collezione contemporanea” creata esclusivamente da Leonardo, che si compone di opere astratte e di bellissime riproduzioni “macro” dei cristalli delle stesse pietre che li compongono. La clientela degli Scarpelli è vasta e internazionale: è infatti composta per la maggior parte da stranieri – in particolare americani – che amano la Toscana, e acquistare (o ordinare) un’opera in commesso fiorentino li fa forse sentire eredi dei granduchi medicei. Le opere riportano sempre la firma “Scarpelli” a ceralacca – in alcuni casi eccezionali addirittura una firma di pietra, nascosta nella composizione – e sul retro il numero dei pezzi di cui sono composte e le ore che sono state necessarie per realizzarle. Anche se il prezzo di un’opera di Scarpelli non si calcola con un semplice “coefficiente”: è un tesoro, che dalle mani di un tesoro (vivente) è nata. •
A LATO: il Maestro brucia con un
PAGINA ACCANTO: grandi abilità manuali
soffietto un pezzetto di magnesite
e artistiche sono richieste per la
gialla al fuoco di un fornello. Solo
selezione delle pietre d'importazione,
alcune pietre variano la colorazione
come il diaspro, e la scelta dei materiali
con il calore, in un processo
locali trovati nelle valli toscane, come
irreversibile (foto di Guido Cozzi).
il Gabbro dell'Impruneta o il Verde d'Arno utilizzato per creare i riflessi nell'opera simbolo degli Scarpelli, il Ponte Vecchio (foto di Guido Cozzi).
Nascita di una stella, scenografico vassoio realizzato su design di Pierre Marie da Leonardo Scarpelli in commesso di pietre dure e legno di amaranto, per l'edizione 2017 di "Doppia Firma", presso la Galleria d'Arte Moderna di Milano. L'evento è curato annualmente da Michelangelo Foundation, Fondazione Cologni e Living Corriere della Sera per il Salone del Mobile (foto di Laila Pozzo/Doppia Firma).
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QUI: Mistero, mistica
lampada in gres realizzata con la tecnica del colombino e lastre, colorata a freddo, con calce e ocra, finita a cera d’api. Il pezzo è stato tra i 10 finalisti del Premio Starhotels "La Grande Bellezza" sul tema "Una fonte di luce", 2020 (foto di L. Fantacuzzi – M.G. Forucade). PAGINA ACCANTO: Orizzonte,
scultura in gres e smalti ad alta temperatura, 2020 (foto di L. Fantacuzzi – M.G. Forucade).
Tra poesia e mito La fantasia di Tonino Negri, artista-artigiano della ceramica contemporanea, si nutre di elementi naturali, suggestioni mitologiche e figure arcaiche. Questo poetico immaginario si fonde con una sapiente lavorazione della materia, dando vita a opere iconiche.
di Ugo La Pietra
Tutti sanno della grande tradizione della ceramica sviluppata nel territorio del lodigiano, tradizione che ha lasciato molte testimonianze nel bel museo di Lodi. Ma tra tante esperienze, solo una voce nuova si è fatta conoscere come “tradizione rinnovata”: quella di Tonino Negri. Negri è ormai un Maestro riconosciuto, le sue molteplici presenze nelle mostre internazionali e le sue opere esposte in contesti pubblici, oggetti e sculture, lo dimostrano. Così il lodigiano (Tonino nasce a Lodi nel 1961) in questi ultimi anni si è arricchito dei suoi lavori e del suo ormai famoso laboratorio-bottega. Tonino Negri è un autore che rappresenta al meglio i caratteri dell’artista-artigiano, capace di superare spesso i confini di questo territorio disciplinare; è un creativo che al suo lavoro, rispetto a quello di tanti bravi artisti-artigiani, aggiunge un fattore determinante che lo distingue: una propria poetica. Terra, acqua, fuoco, aria sono i principali elementi che ricorrono come tema e suggestioni nelle sue forme. Forme che si riallacciano a quelle più arcaiche (come le opere che rientrano nella definizione, data dall’autore “terra crea”) o che raccontano personaggi legati ai miti più antichi, come la Mater Matuta della mitologia greco-romana. È proprio questa la caratteristica che distingue il lavoro di Negri, rispetto a quello di altri artisti: il sapersi esprimere nella ceramica contemporanea attraverso i segni delle culture più arcaiche. I suoi viaggi, la sua curiosità, lo hanno portato a sviluppare un immaginario fatto di opere cariche 80
di un lirismo delicato, venato da una sottile ironia, con tratti di vera e propria nostalgia del mondo animale e vegetale. Donne portatrici di acqua, donne-vaso, arche, ma anche tartarughe, pesci, balene, gufi… il suo mondo fantastico dialoga con le forme di contenitori e vasi della grande tradizione ceramica popolare. Ma il suo è un mondo che ormai supera le tipologie e le barriere dell’artigianato di tradizione, per entrare in quello che distingue le rare figure dei Maestri, dove non solo se ne riconosce il linguaggio originale ma anche la grande perizia nella lavorazione della materia. Opere in semirefrattario e ingobbio, in gres e smalto, in semirefrattario e smalti… inoltre sue, e solo sue, sono le raffinate e delicate figure in terracotta, ormai iconiche. Materia, smalti, superfici, colori dimostrano la capacità di lavorazione del Maestro in questa antica arte. Il suo laboratorio, da cui nascono opere riconoscibili per la loro carica poetica e anche per la loro appartenenza alla nostra contemporaneità, è anche un simbolo e un punto di riferimento, nel quale ritroviamo intatta la grande tradizione della “cultura del fare” all’interno della nostra società. Tonino Negri è Maestro, per aver costruito un universo personale e immaginario che stimola la nostra fantasia e ci fa sentire ancora legati all’eredità di quel patrimonio creativo che ancora oggi ci fa conoscere e apprezzare all’interno del craft internazionale contemporaneo. •
PAGINA ACCANTO: il Maestro ritratto
tra le sue opere nell’atelier Terra crea, a Lodi, laboratorio-bottega di arti applicate e ceramica (foto di Davide Tenz). QUI: Pescepallapescepallapescepalla,
scultura in gres e smalti ad alta temperatura, 2019 (foto di L. Fantacuzzi – M.G. Forucade).
QUI: Regale, scultura in gres e smalti
ad alta temperatura, 2020 (foto di Davide Tenz). PAGINA ACCANTO: Trio besuga, scultura
in gres e smalti ad alta temperatura, 2010 (foto di Antonio Mazza).
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Tavolo Nirvana in scagliola marmorizzata con al centro un mandala intarsiato in 167 lastre di selenite retroilluminate. L’opera è stata tra i dieci finalisti del Premio Starhotels "La Grande Bellezza" 2020 (foto di Luca Tornaghi).
L’incanto
della pietra di luna di Maria Pilar Lebole
Nell’Atelier Bianco Bianchi, la magnificenza della scagliola fiorentina si tramanda di generazione in generazione. I fratelli Alessandro ed Elisabetta, eredi del fondatore, realizzano pezzi unici e capolavori destinati a dimore da sogno.
L’eterogeneità delle arti applicate fiorentine vanta lo scrigno del più famoso artista, scagliolista e collezionista della storia contemporanea. Nella bottega di Pontassieve, Comune alle porte di Firenze, diretta oggi dai fratelli Alessandro ed Elisabetta Bianchi che hanno abilmente appreso il mestiere dal padre Bianco, si lavora l’arte “illusoria” della pietra di luna. Bianco Bianchi, nato nel 1920, alla fine degli anni Quaranta lascia il lavoro sicuro da impiegato del Ministero della Difesa per inseguire il sogno di realizzare scagliole, mosso dal grande apprezzamento per i capolavori di Don Enrico Hugford conservati nel Museo dell’Opificio delle Pietre Dure. Per un decennio Bianchi si cimenta nella ricerca della formula più giusta per trasformare quelle meschie in raffinati decori artistici per piani di tavolo e pannelli. È il figlio dello scrittore Giuseppe Prezzolini ad accorgersi di tale maestria e capacità artistica e ne decreta l’immediato successo promuovendo le sue opere in America. Da allora l’impiegato-artigiano decide di dedicare la sua vita alla scagliola avviando la produzione di nuovi oggetti, il restauro di pezzi antichi e l’acquisizione di quella che è considerata la più importante collezione esistente. «Egli rappresenta con tanta maestria, e con tanta verità sulle scagliuole le figure umane, e di animali, anche in copiose storie, e le vedute di edifizi, e di campagne, che i suoi quadri sono divenuti lo stupore non tanto della Toscana, quanto de’ più ragguardevoli forestieri, i quali ne fanno ricerca grandissima e ne hanno già trasportati gran numero nelle più colte province d’Europa.» Così il celebre studioso fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti descriveva nella metà del Settecento l’arte del saper fare di Don Enrico Hugford, il monaco vallombrosano di origine inglese trasferitosi alla fine del Seicento a Firenze alla corte medicea. Questi allargò gli orizzonti della tecnica della scagliola proponendola come un genere pittorico originale e realizzando paesaggi, vedute e ritratti rifiniti con pennellate sovrapposte e lucidati come se fossero ricoperti di vetro. La sua opera ebbe molto successo anche all’estero e soprattutto in Inghilterra grazie al fratello Ignazio, pittore e collezionista d’arte che lo introdusse nel mercato internazionale. Due storie, quella di Hugford e quella di Bianchi, cariche di interesse e di sperimentazione che si assimilano alla stessa passione: una tecnica realizzata con scaglie trasparenti di pietra selenite (da selene, in greco luna), comunemente chiamata “pietra di Luna”, anticamente usata per la sua struttura lucente e cristallina tanto da essere sostituita al vetro. La pietra è reperibile nell’Appennino modenese. Le prime applicazioni tecniche a finto marmo per cornici, lapidi e altari si apprezzano a Carpi, nell’intelvese nella provincia di Como, e quindi nelle 86
Marche, in Toscana e soprattutto a Firenze nel XVIII secolo dove si è concentrato il maggior numero di opere di altissimo valore artistico. Il composto di selenite tritata e miscelata con colla e pigmenti naturali diede origine alla tecnica di lavorazione a stucco per creare imitazioni di marmi e pietre dure con l’ausilio di materiali poveri. Dopo aver realizzato e acquarellato il disegno a mano, lo spolvero consente di riportarne i contorni nella lastra in scagliola e poi procedere alla svuotatura. Quello spazio è pronto per ricevere la meschia fatta di polvere di selenite macinata a talco, acqua di colla e pigmenti colorati. Una volta asciugato il colore, si leviga il piano con la pietra pomice a grana leggerissima eseguendo movimenti rotatori fino alla lisciatura completa. È così che Alessandro ed Elisabetta lavorano a regola d’arte realizzando manufatti in stile antico e con la stessa tecnica artistica appresa dal padre. Innovano la produzione con gusto contemporaneo e attivano collaborazioni con architetti, decoratori e designer per arredare con piani di tavolo a nastri e fiori, o a conchiglie e porfido o in stile neoclassico, la residenza del principe
PAGINA ACCANTO: i fratelli Alessandro
ed Elisabetta Bianchi, titolari dell’Atelier Bianco Bianchi (foto di Carlo Carossio). QUI: l’incisione a bulino sul piano
di ardesia. SOTTO: fase della rifinitura delle lastrine
di selenite per la costruzione del mandala centrale del tavolo Nirvana.
di Galles Carlo d’Inghilterra, il duca di Kent e il sultano del Brunei, oppure per lo stilista Gianni Versace, il famoso tavolo Medusa. L’arte dei Bianchi si apprezza sul mercato del design contemporaneo con i Pinfold, vassoi componibili e impilabili e i Quid, sedute, tavolini ed elementi per basi, esposti al Salone del Mobile di Milano e al MAD di Singapore oppure i pouf dai colori pastello, frutto della ricerca formale della designer creativa Sara Ricciardi o il più recente tavolo in marmo e scagliola Nirvana con il mandala centrale intarsiato da 167 lastre di scagliola trasparente e luminosa, presentato in occasione della prima edizione del Premio Starhotels nell’ambito del progetto “La Grande Bellezza”. È con la stessa passione che il Maestro Alessandro riesce a trasmettere la sua arte al giovane Leonardo, figlio venticinquenne e terza generazione a bottega: padre e figlio si sono resi protagonisti, insieme ad altri eccellenti artigiani, dell’evento “Il Rinascimento e la Rinascita”, la tre giorni di Alta Moda con cui gli stilisti Dolce&Gabbana hanno voluto omaggiare Firenze nel settembre 2020: un momento di rinnovato splendore nel pieno della crisi causata dalla pandemia. • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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SOPRA: piano di tavolo intarsiato in
PAGINA ACCANTO: piano di tavolo intarsiato
scagliola su ardesia, disegno Flowers,
in scagliola su marmo bianco, disegno
Museo di Scienze Naturali di Houston
Barocco Multicolor, Versace Home
(foto di Gianluca Zati).
(foto di Torquato Perissi).
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di Andrea Tomasi
IL BAROCCO ADDOSSO 90
Nato e cresciuto nella città della Grande Bellezza, Diego Percossi Papi trasforma l’amore per la cultura in mestiere d’arte. Talento naturale, si avvicina al mondo degli oggetti preziosi da autodidatta, capace di rinnovarsi senza sosta. Istinto, emozione, intuizione sono l’anima del suo estro e della sua generosa creatività.
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IN APERTURA: collier de chien
realizzato per il film Emperor (2016) con Adrien Brody. Ametiste, smeraldi, topazi citrini, perle e microperle. A LATO: pendente Contrada di
Valdimontone realizzato per la mostra «La Maestà, le Contrade: Ori di Siena», Palazzo Pubblico, 2015. Ammoniti, granati, citrini, perle. PAGINA ACCANTO: spilla Hippocampus
realizzata per il film Elizabeth the Golden Age (2007) con Kate Blanchet. Rubini, ametiste, zaffiri, smeraldi, tormaline, topazi e perle.
Roma, metà anni Sessanta. Il fermento culturale, gli afflati libertari, quella vita bohémienne che per tanti giovani era la risposta al conservatorismo dei genitori, si danno appuntamento in Piazza Navona. È qui che gli artisti della Capitale si incontrano per disegnare un glorioso nuovo futuro: tra loro, un ventunenne iscritto ad Architettura che agli esami di Statica preferisce la pittura e sogna in grande. «Che anni meravigliosi, di creatività e curiosità,» ricorda oggi Diego Percossi Papi con la malinconia di chi ha vissuto. «Devo ringraziare i miei genitori, furono loro ad avvicinarmi all’arte, alla cultura. Mamma a 8 anni mi regalava i libri di Dostoevskij e Tolstoj, le fiabe russe illustrate da Ivan Bilibin, mi trascinava in giro per musei o corsi di restauro. A tratti mi annoiavo, ma quel bagaglio si sarebbe rivelato fondamentale per la mia formazione professionale.» Come fondamentale fu l’incontro con Turi Spadaro, insegnante d’arte in un liceo: fu lui a introdurre Percossi Papi a quell’universo dei metalli che sarebbe diventato il suo mezzo espressivo. «Mi mise a disposizione il suo studio per compiere delle sperimentazioni: iniziai a prendere confidenza con 92
metalli e smalti completamente da autodidatta, dedicandomi soprattutto alla scultura. Utilizzavo metalli poveri, abbordabili non solo dal punto di vista economico ma anche sotto l’aspetto tecnico, perché io non avevo alcuna nozione, tutto ciò che imparavo lo imparavo sul campo.» L’approdo al gioiello fu una svolta naturale. «A un certo punto, dopo diverse mostre in giro per il mondo, capii che non volevo essere un artista gestito dalle gallerie, sempre sotto la lente della critica, prigioniero dei gusti e delle mode. Il rapporto con i clienti che visitavano l’atelier di Sant’Eustachio mi portò a scegliere il gioiello. Mi affascinava l’idea di creare opere d’arte indossabili e godibili nella vita quotidiana, piuttosto che oggetti statici da appoggiare su un mobile e guardare di tanto in tanto. Cominciai a utilizzare pietre preziose e semipreziose, cammei e miniature, affinai la tecnica degli smalti e del cloisonné sempre da autodidatta, studiando testi antichi, osservando i gioielli romani, etruschi, rinascimentali e barocchi esposti nei musei o raffigurati nei dipinti. Come da bambino, mi perdevo ad ascoltare alla radio i racconti mitologici, così ogni gioiello antico era come se mi raccontasse la sua storia e lasciasse la sua
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impronta dentro di me. E poi c’erano le architetture di chiese, palazzi e monumenti che i miei studi mi aiutavano a leggere meglio, quelle facciate meravigliose ricche di volute e decori. La Roma del Bernini e del Borromini ha guidato e guida tuttora la mia mano.» I gioielli di Percossi Papi abitano rapidamente film e pagine di giornale, l’atelier di Sant’Eustachio diventa un crocevia di clienti e fedelissime. È lì che nel 1989 entra un gruppo di russi al seguito di Mikail Gorbaciov, ai tempi Segretario Generale del Partito Comunista sovietico in visita di Stato. «Cercavano creativi italiani da far collaborare con realtà russe, dopo qualche settimana mi ritrovai su un aereo per San Pietroburgo, ai tempi Leningrado, dove ha sede la Russkie Samotsvety, manifattura gioielliera fondata dagli zar. Prima di mettermi al lavoro chiesi un paio di giorni per scoprire la città, catturarne lo spirito. Visitai Leningrado, i suoi musei, i suoi palazzi e le sue strade, poi mi misi a disegnare. Ricordo ancora il silenzio dei dirigenti della manifattura mentre osservavano i miei schizzi, interrotto dalla designer responsabile che disse compiaciuta: “Assolutamente russo!”. Fu l’inizio di una lunga e feconda collaborazione. Ho sempre pensato che dalla contaminazione di due culture ne nasca una terza, quando faccio riferimento a mondi che non sono i miei non cerco di copiarli, ma li guardo attraverso la mia lente. I disegni che nascono sono la mia fantasia, il mio sogno di quella cultura. Prima di partire mi regalarono un libro su Bilibin, quello stesso illustratore delle fiabe della mia infanzia. Fu una folgorazione, in quell’istante capii il perché del mio amore per gli smalti e per il colore.» E il punto di partenza di ogni creazione di Percossi Papi è proprio il colore. «Il colore è emozione, ci si veste di colori, poi vengono la forma e la funzione. Quando realizzo un nuovo gioiello so che devo mettere in armonia tre elementi: le aspettative e i desideri di chi ha commissionato il lavoro, la mia visione creativa e il rispetto per i materiali, che siano metalli o pietre. Tra i primi, quello che prediligo è senza dubbio il rame, che ha tutte le caratteristiche dell’oro ma è più flessibile. Tra le pietre ho invece una mia personalissima classifica: in cima ci metto la giada, usata dagli albori dei tempi, poi vengono l’opale, i rubini, le agate e gli zaffiri.» È dalla fusione di questi elementi che nascono preziosi unici, in cui è possibile rintracciare distintamente frammenti di una Roma bellissima. «È il messaggio quotidiano che trasmetto ai miei figli Valeria e Giuliano che oggi lavorano con me e mia moglie Maria Teresa: non c'è frutto senza radici, e le mie radici sono indissolubilmente legate a quelle di questa città.» • 94
PAGINA ACCANTO: alcune fasi di
lavorazione, tra cui l'accurata scelta delle gemme e i bozzetti preparatori. QUI: spilla con pendente Uccello di
Fuoco, appartenente alla collezione Russian Tales. Calcedonio, giade, granati, micromosaico di piccole perle naturali, smalti.
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CRISTO si è fermato
A NAPOLI
di Rosa Alba Impronta
Presepe del Pio Monte della Misericordia, esposto sul Sagrato della Chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli, dove la scena è ambientata. L’opera è ispirata a 7 dipinti del Caravaggio (foto di Ugo Pons Salabelle).
Ulderico Pinfildi, grande artista presepiale, scolpisce seguendo la tradizione secolare partenopea che s’impegna a innovare con grande conoscenza tecnica, creando presepi di straordinaria potenza espressiva ambientati tra le vie di Napoli e ispirati allo stile del Caravaggio.
Ulderico Pinfildi è un grande artista presepiale: le sue sono vere opere scultoree realizzate seguendo i canoni del Settecento, epoca d’oro del presepe napoletano. Lavora con conoscenza e rispetto della tradizione ma allo stesso tempo nella sua arte antica c’è contemporaneità: le sue figure sono espressione di un messaggio universale che travalica la rappresentazione. Nel viaggio emozionante alla scoperta del lavoro di questo Maestro emergono subito abilità tecnica, rispetto della tradizione, studio costante e l’immensa passione che porta Ulderico a una instancabile ricerca e tensione verso la perfezione. Il padre era Maestro maiolicaro, nella sua bottega del Vomero produceva fontane in ceramica che abbellivano i palazzi napoletani e anche mani, teste e piedi di pastori destinati a rifornire i presepisti di via San Gregorio Armeno. Proprio in bottega, centro della vita familiare, è cresciuto e si è formato Ulderico, quarto di otto figli: qui appena rientrato da scuola, finiti i compiti, iniziava a modellare, dipingere e scolpire. Non si dedica immediatamente all’arte del presepe, ma si diploma in costruzione aeronautica e diventa pilota per passione; solo successivamente ritorna a modellare i pastori. Inizialmente lo fa in maniera saltuaria producendo per conto di altri presepisti, ma poi capisce che quello è il suo destino e si dedica completamente ai “suoi” pastori aprendo nel 1986 la prima bottega, fino ad arrivare a quella attuale in via San Biagio dei Librai, nel pieno centro storico di Napoli, dove si trasferisce sei anni fa. La città di Napoli ha il più vasto centro storico d’Europa, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1995. Attraversa 27 secoli di storia e ha conservato una straordinaria MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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QUI E SOTTO: il Maestro al lavoro nella
suggestiva bottega in via San Biagio dei Librai, nel cuore di Napoli. Qui nascono i suoi capolavori di scultura e arte presepiale (foto di Antonio Allocca). PAGINA ACCANTO: particolare di uno
degli angeli scolpiti dal Maestro, carichi di espressività (foto di Antonio Allocca).
stratificazione che – partendo dall’antico tracciato viario greco – si esprime in un imponente patrimonio artistico, monumentale e culturale. Proprio nel centro di Napoli i maestri presepisti del Settecento mettono in scena la nascita di Gesù, ambientandola tra i vicoli della città e animandola con i personaggi tipici della tradizione napoletana: nobili, contadini, ballerini di tarantella... Il lavoro di Pinfildi segue fedelmente i canoni: le mani e piedi dei pastori devono essere realizzati in legno, il corpo in fil di ferro e stoppa, la testa in terracotta interamente scolpita a mano con occhi in vetro; i vestiti sono cuciti in seta ricamata per gli abiti più ricchi, in cotone e lino per le figure più umili. Colpisce l’attenzione ai dettagli, l’accuratezza dei particolari ma soprattutto l’espressività straordinaria dei volti. Proprio per i volti dei pastori, il Maestro prende come modelli gli antichi esempi settecenteschi, e risale direttamente alla pittura del Seicento e Settecento. In Caravaggio trova la sua più importante e intensa fonte di ispirazione. E così, seguendo l’idea che i personaggi dei dipinti del Merisi siano presepiali 98
e che il presepe napoletano sia caravaggesco, nasce il presepe a lui dedicato dal titolo: Da sette opere di Caravaggio, donato al Pio Monte della Misericordia e lì tuttora esposto. L’opera, diversa da ogni stereotipo, è inspirata a 7 celebri dipinti del grande artista: San Giuseppe tratto dal Riposo durante la Fuga in Egitto, la Vergine col Bambino dalla Madonna dei Pellegrini, il ragazzo dal Fanciullo con canestro di frutta mentre l’angelo in picchiata, tipicamente caravaggesco, cita il dipinto rubato a Palermo negli anni Sessanta e mai più ritrovato. In questo presepe non poteva mancare la figura di Caravaggio in persona, che Ulderico riprende da Il martirio di San Matteo. Abbiamo parlato della fedeltà del lavoro di Pinfildi alla tecnica presepiale del Settecento, tuttavia a questa egli aggiunge uno stile proprio, contemporaneo, che trascende la rappresentazione classica: ogni opera ha un titolo che sta proprio a comunicare il messaggio di cui i pastori si fanno portatori. Nella natività dal titolo La nascita della speranza vediamo come le due anime, tradizione e contemporaneità, coesistano stupendamente. L’impianto classico della natività viene
completamente rivisitato: la Sacra Famiglia non presenta più il bambino al mondo ma rivolge la propria misericordia nei confronti di un’umanità disperata raffigurata dal mendicante, che in posizione fetale tende speranzoso la mano verso la Sacra Famiglia. La capacità scultorea di Ulderico, affinata dagli studi in anatomia, è evidente in questa figura, in cui spicca la perfezione del corpo umano con i muscoli in tensione magnificamente modellati. Il gruppo di pastori dal titolo Le tre età dell’uomo, dedicato al padre Alfredo, è un’opera a cui è particolarmente legato: anche qui i personaggi rappresentano i tre momenti dell’umanità e al tempo stesso il passaggio da padre in figlio delle conoscenze del mestiere, che si esprime nella circolarità degli sguardi. Ulderico Pinfildi è un artista riconosciuto a livello internazionale, invitato alle mostre più prestigiose a Miami, Strasburgo, Praga, New York, Parigi, Londra e Bruxelles, Mosca e Washington. Le sue opere portano nel mondo il presepe napoletano come altissima espressione artistica di tecnica e cultura, di tradizione e contemporaneità. • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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L’Annunciazione cantata e sognata,
delicatezza degli incarnati, nel
scena di straordinaria poesia, in cui
realismo del canestro di frutta
si esprime tutta la perizia esecutiva
e nei magnifici panneggi delle vesti
e il gusto del Maestro visibile nella
(foto di Ugo Pons Salabelle).
La nascita della speranza, una natività
presepiali per lasciare il posto
carica di simbolismo e di drammaticità
a una potente metafora
che esula dai canoni strettamente
(foto di Ugo Pons Salabelle).
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La vocazione al sublime di Sofia Catalano
Da storie di miti e antiche leggende nasce la vocazione di un artista, erede di una tradizione centenaria. Platimiro Fiorenza racconta il corallo attraverso i suoi pregiati manufatti che spaziano dagli oggetti sacri, ai gioielli, alla borsa impreziosita pensata per la Maison Fendi. 102
PAGINA ACCANTO: Crocifisso in oro,
argento, corallo mediterraneo e madreperla, con incisione a bulino sul retro (foto di Nicola Bulgarella). QUI: rosa in oro e corallo (foto di
Stanislao Savalli).
Potente come un amuleto, prezioso come un tesoro degli abissi. Il corallo è un materiale eclettico che può trasformarsi in un gioiello di rara bellezza o in un’opera d’arte, grazie alle mani sapienti di abili Maestri artigiani. Maestri come Platimiro Fiorenza: classe 1944, trapanese, definito l’ultimo corallaio, è l’erede di una tradizione centenaria di alto artigianato che nella sua famiglia inizia già nel 1921. Nominato MAM – Maestro d’Arte e Mestiere dalla Fondazione Cologni nel 2018, Fiorenza è stato anche inserito nei Registri delle Eredità Immateriali della Sicilia e nell’Elenco dei Tesori Umani Viventi tutelati dall’Unesco. Innumerevoli sono i prestigiosi riconoscimenti che costellano la sua lunga carriera, successi che lusingano e inorgogliscono, ma che non insuperbiscono un uomo che ha fatto della sua passione un mestiere e che si ritiene fortunato. «Quando sono nel mio laboratorio mi estraneo da tutto,» racconta. «Entro in un mondo privilegiato, dialogo con la materia, immagino l’oggetto finito. Nulla può distrarmi in questo piccolo universo ovattato dove è la passione che mi guida.» Modesto come chi non deve dimostrare nulla, il Maestro Platimiro parla con voce pacata e nel suo racconto di sé non nomina mai parole come pazienza, dedizione, fatica, costanza, umiltà… Benché siano doti imprescindibili per il suo mestiere, il Maestro le dà per scontate, da sempre. «Andavo a guardare mio padre in bottega già a 6 anni. Studiavo e ammiravo i movimenti delle sue mani, ma quello che più mi affascinava erano le storie che mi raccontava: miti e leggende, MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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che rimanevano scolpiti nella mia mente e che riecheggiando trasformavano la mia curiosità in passione.» Nella mente del piccolo Platimiro, il mito greco di Perseo che libera Andromeda uccidendo la Medusa diventa una rivelazione: il sangue della testa decapitata si poggia sulle alghe che si trasformano in preziosi coralli scarlatti. Un episodio raffigurato da Giorgio Vasari nel dipinto La Nascita del Corallo, del 1570: uno dei tanti quadri dove l’oro rosso è simbolo di forza, vitalità, vita, protezione. Non a caso in molti altri dipinti, soprattutto del Quattrocento, una collana di corallo o un rametto del prezioso materiale sono al collo del bambino Gesù, a simboleggiare il sangue del sacrificio di Cristo per l’umanità; una presenza simbolica che ritroviamo da Masaccio ad Antonello e Jadobello da Messina a Piero della Francesca, sino ad arrivare alla Pala della Vittoria di Andrea Mantegna (1496), dove sopra il capo della Madonna un grande ramo di corallo simboleggia appunto la vittoria. E la Beata Vergine è infatti anche il soggetto dell’opera più prestigiosa del Maestro Fiorenza, quella Madonna di Trapani in oro e corallo, commissionata dal Vescovo della città siciliana nel 1993 e attualmente esposta ai Musei Vaticani. Un concentrato di tutto quello che è il background di un Maestro corallaio, fatto di passaggi obbligati: disegno, cesello, incastonatura, sbalzi. Percorso formativo indispensabile per chi vuole 104
approcciare questo mestiere ormai raro: «Tanti giovani sono venuti in bottega,» sottolinea Fiorenza. «Ma arrivano tardi, quando non hanno più quella purezza, quella curiosità, quella passione necessaria per imparare il mestiere. Sono demotivati, vorrebbero tutto e subito. Credo che questo tipo di artigianato dovrebbe invece essere materia di studio sin dalle scuole medie, insegnato da maestri che siano competenti ma che siano anche in grado di affascinare e coinvolgere l’allievo, come mio padre ha fatto con me.» Ad aggravare la situazione, oggi, incidono l’inquinamento dei mari e i cambiamenti climatici: l’habitat del corallo è a rischio. «Anche in passato, purtroppo, i fondali sono stati aggrediti da metodi di pesca dissennati, come quella a strascico. Poi sono state introdotte delle regole, ma i nostri tempi ne necessitano di più rigide per evitare che questo straordinario tesoro possa inquinarsi con micro-particelle di plastica o altro.» Un danno incommensurabile e irreversibile che ci priverebbe di una “creatura” interprete di una simbologia millenaria e di manufatti artistici di pregio, che spaziano dagli oggetti sacri ai gioielli, passando magari per una borsa. Questo è infatti il prossimo impegno della gioielleria Rosso Corallo di Platimiro Fiorenza, in collaborazione con la Maison Fendi: una baguette impreziosita da coralli. Icona su icona: passato e futuro, nel segno di un Maestro. •
PAGINA ACCANTO: a sinistra,
il Maestro Platimiro Fiorenza, nella sua bottega di Trapani, sceglie con la massima cura ogni elemento in corallo (foto di Cristina Dione). A destra, spilla in oro, corallo mediterraneo e perline orientali (foto di Stanislao Savalli). QUI: Una collana di corallo,
simbolo di giovinezza e benessere, orna il collo della giovane dama in questo dipinto di Domenico Ghirlandaio realizzato nel 1490 circa. Museu Calouste Gulbenkian, Lisbona (foto di IanDagnall Computing/ Alamy).
Tutte le raffinate creazioni culinarie di Gualtiero Marchesi sono caratterizzate da una grande attenzione alla presentazione estetica. QUI: Capasanta e tartufo. PAGINA ACCANTO: Riso, oro e zafferano,
uno dei piatti simbolo del grande chef. PAGINA SEGUENTE: a sinistra, Dripping
di pesce e, a destra, Uovo al Burri. Immagini tratte dal libro Il cuoco universale di Andrea Grignaffini, Marsilio Editori (foto di Bob Noto).
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Dove nasce la maestria? di Andrea Sinigaglia
A tre anni dalla scomparsa, Gualtiero Marchesi, chef di fama mondiale e inventore della nouvelle cuisine italiana, è vivo nel cuore e nella mente di coloro che hanno avuto il privilegio di essere suoi allievi e di “assaporare” l’essenza della sua maestria.
«No scusate eh! Ma venite qui, sentite che bello! Sentite che roba!» Così spesso e volentieri Gualtiero Marchesi faceva irruzione in ALMA e nelle vite di chi lì si trovava per lavoro, per studio o per destino. E ci leggeva l’ultima citazione che lo aveva colpito. Poteva trattarsi di un’artista, di un filosofo, di un antico scrittore o di un comico. Tutto si fermava e lui, il Maestro, che se l’era prontamente trascritta sul suo quaderno delle citazioni, la leggeva “con bella intonazione” come si diceva una volta; poi ci guardava, il suo volto si illuminava e diceva: «Dai… stupenda!! O no?!» Noi, gli astanti, risucchiati nel suo entusiasmo, letteralmente strappati dalle nostre occupazioni lo guardavamo stralunati e stupiti un po’ perché la nostra mente fino a poco prima
era dedita ad altro, un po’ per il mix di emozioni dato dal ritrovarsi vis à vis con Marchesi senza avere avuto il tempo di metabolizzare il suo essere esattamente lì e tante volte intenti nel decriptare la frase da lui letta ma molto di più il motivo della sua “presa” sul nostro rettore. «Ma capite? Capite?» Incalzava lui. E noi, in gesto semiautomatico del collo annuivamo, non potevamo dire di no… Cosa c’è alla sorgente della maestria? Questo mi piacerebbe documentare brevemente qui e adesso per tratti, per suggestioni in questo articolo dedicato a Gualtiero Marchesi, padre della moderna cucina italiana. Colui che ha fatto la storia della nostra cucina rendendola forbita, aulica e leggibile. Colui che ha dato logica e metodo a un patrimonio che grande si MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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squadernava per tutto lo Stivale e che fino al suo arrivo non aveva avuto un punto di ordine e di sintesi. «L’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia» – eccola una delle sue preferite – la rievocava spesso questa frase di Béla Bartók, compositore ungherese, e mentre la ripeteva con gli occhi profondi ti sfidava su uno dei suoi dogmi più radicati, ovvero che in cucina come nelle altre arti e negli altri mestieri esistono gli esecutori e gli interpreti e poi chi può permettersi il lusso di improvvisare, di essere creativo, ma sono pochi, pochissimi e lo fanno, sempre discretamente, in virtù di una grande esperienza. L’avrò sentito ripetere questa frase centinaia di volte, anche davanti ai nostri studenti, nelle sue lezioni magistrali che partivano spesso da provocazioni così: frasi, aforismi… e la cosa bella era che lui le leggeva come se fosse la prima volta benché le sapesse a memoria, ma il saperle a memoria non costituiva motivo di possesso per Marchesi, non scalfiva l’essenza e la taglienza della parola. Le leggeva e letteralmente le fiondava, come con la fionda fa un Davide baldanzoso contro un Golia un po’ ignorante, le gettava addosso ai suoi interlocutori e poi da lì, da quella crepa nel formalismo di cui spesso può essere vittima l’atto educativo, cominciava a tessere e dipanare di vissuto, il suo. I suoi incontri, i suoi perché, i suoi maestri. Un Maestro che ti parlava dei suoi mentori, come testimoniando che non c’è altra via alla crescita che seguire uno più grande di te. Lui va per la sua strada, tu, se per un soffio hai capito che c’è un valore, il valore, lo segui. La sequela pura, quella che va oltre tutte le pre-condizioni. 108
Come diceva Pasolini, «se qualcuno ti ha educato l’ha fatto innanzitutto col suo essere prima che col suo dire». Questa è una cosa che spesso non è compresa dall’allievo quando guarda il Maestro perché è come se al culmine della traiettoria della didattica sorprendentemente si trovi la pura libertà di uno che ha incarnato così profondamente le regole da non far più uso “né di righe né di quadretti”. Vive il suo credo, lo offre a chi sa coglierlo. Non c’è più merito né metro. Non leziosità, non docimologia e nemmeno impianto. C’è la sete di conoscere e l’attualità dell’avvenimento. Lui era così. Libero e sicuro di una convivenza con l’oggetto della sua ricerca che glielo rendeva familiare e questa familiarità faceva fare un salto di qualità alla sua vis di conoscenza, portandolo a esplorare i mondi altri per ricondurli alla cucina. Dove nasce la maestria? Ci piace pensare, come tante volte ci sollecitava Gualtiero, che nasca innanzitutto dalla curiosità, una curiosità personalissima di un io, che si accorge di dettagli microscopici, si esalta, li mette in uno scenario più ampio, telescopico, li comprende universali e ne sviluppa un metodo che può diventare perfino stile mai dimentico di autoalimentarsi a quella fiammella quasi data per scontata ma che è una grazia del cielo, la curiosità. A tre anni dalla sua scomparsa rimpiangiamo molte cose di lui ma in estrema sintesi ci manca tanto soprattutto la sua presenza, sempre signorile e impeccabile ma al contempo imprevedibile, a volte sorniona e venata di una nuance di alterigia ma unica, unica davvero. Camminando per la scuola, incontrando i ragazzi, si caricava della loro giovinezza, entrava
IN ALTO: I giovani allievi
Reggia di Colorno
IN BASSO: Gualtiero
di ALMA, La Scuola
(Parma) che il Maestro
Marchesi in ALMA, tra
Internazionale di Cucina
Marchesi ha fortemente
i suoi amati studenti
Italiana, situata nella
voluto e diretto.
(foto di ALMA).
in contatto con loro, c’era uno scarto di età grande e a volte il dialogo non era immediato ma lui anche solo facendosi un selfie con loro stabiliva un’empatia, entrava in relazione sebbene amasse ripetere «capisco la modernità per quel tanto che la mia tradizione me lo consente» e sinceramente mi sfugge l’autore. Era verzura la sua, freschezza di uno che continuamente scopre ma soprattutto ri-scopre. Il tutto sempre calato in una ironia di fondo e in una auto ironia dal gusto squisitamente milanese che dava levità, quella leggerezza di cui parla Calvino, al suo studium nel senso antico di questo termine che riconduce alla passione e all’amore per l’oggetto della conoscenza. A proposito di questo, di questa grande italianità che ci porta ad apprezzare il registro della commedia come quello più adatto a tenere viva e in equilibrio gratitudine e complessità, un giorno, al termine di una lezione nella quale avevamo letto parecchie citazioni, visto che la sessione era stata impegnativa, aprì il suo quaderno e anticipando un sorriso disse: «un’ultima cosa ragazzi… “chi ama troppo leggere le citazioni ha un evidente problema col sesso”… Woody Allen.» «Dai stupenda! O no?!» • MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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Opera di relevage-repoussage degli Ateliers Saint-Jacques. Tecnica di lavorazione del metallo a freddo tipicamente francese fiorita nel XVII secolo, il relevage-repoussage permette la creazione di ornamenti architettonici (griglie, ringhiere, cancelli). Bellissimi esempi si trovano nella Reggia di Versailles. Il Maestro Serge Pascal che lavora agli Ateliers Saint-Jacques è il riferimento d’eccellenza in Francia (foto di Edouard Elias/INMA).
ISTITUZIONI INTERNAZIONALI
Il valore sostenibile della trasmissione di Anne-Sophie Duroyon-Chavanne Il patrimonio dei mestieri d’arte rari, protetto in Francia dal Dispositif Maîtres d’art – Élèves, si avvale di iniziative sempre più mirate al rinnovamento della trasmissione del savoir-faire. Per l’INMA la sfida è raggiungere l’eccellenza attraverso la conservazione, lo scambio, la ricerca e l’esigenza di reinventarsi.
Nel 1994, il Ministero della Cultura francese crea il Dispositif Maîtres d’art – Élèves finalizzato alla salvaguardia dei savoir-faire rari, a rischio di scomparsa. Da oltre 25 anni, tale dispositivo individua i professionisti dei mestieri d’arte che esercitano un’attività rilevante per la tecnica e le sue applicazioni, ma i cui gesti non vengono più insegnati. Agli artigiani designati viene conferito il titolo di Maître d’art. Questo riconoscimento pubblico, attribuito a vita, è legato a un dovere di trasmissione che ne definisce pienamente il senso. I Maîtres d’art, una volta nominati, s’impegnano dunque a svelare i segreti del proprio mestiere a un Élève (apprendista). L’atelier, gli strumenti, il network, l’impresa stessa – spesso una piccola struttura artigianale – vengono messi a servizio della trasmissione; per questa ragione il Ministero della Cultura concede a ogni Maître d’art un aiuto finanziario per tutta la durata del programma, cioè 3 anni. Questo sostegno è essenziale, ma si è rivelato insufficiente nel tempo. Così, dal 2012, l’Institut National des Métiers d’Art (INMA) è incaricato di rinnovare e modernizzare il programma. Le sue équipe hanno concepito un metodo originale che permette al Dispositif Maîtres d’art – Élèves di raggiungere pienamente gli obiettivi principali: garantire che il passaggio di conoscenze confidenziali e di tecniche avanzate da un individuo all’altro avvenga serenamente, ma anche sostenere lo sviluppo di nuove identità professionali e creative. Gli Élèves dei Maestri d’Arte sono i futuri virtuosi e imprenditori dell’artigianato artistico: come tali, meritano tutta la nostra attenzione. L’ambizione dell’INMA è quella di aprire loro nuove prospettive e dare accesso a tutte le risorse che possano favorire il successo dei
loro progetti. Il Dispositif Maîtres d’art – Élèves gestisce la trasmissione del sapere all’interno dell’atelier; ma il suo campo d’azione è in realtà molto più ampio e si adatta alle specificità di ogni savoir-faire e delle singole situazioni. Attraverso diverse iniziative incoraggia gli incontri professionali, gli scambi, l’emulazione, la ricerca e l’acquisizione di competenze complementari da parte degli studenti. Un accompagnamento “su misura” per i Maîtres d’art e i loro Élèves è oggi possibile grazie al sostegno della Fondazione Bettencourt Schueller, che dal 2016 è il principale mecenate del programma. Dal 1994 sono stati nominati 141 Maîtres d’art. Sono attivi in tutta la Francia e rappresentano più di un centinaio di specialità: l’eliografia, la plumasserie (l’arte della lavorazione delle piume), l’intarsio di paglia, l’incisione di punzoni tipografici, il relevage-repoussage des métaux (ovvero l’arte della lavorazione artistica del metallo a fini architettonici), la passamaneria, la fabbricazione di organi, la produzione di vetri per l’architettura, l’oreficeria e l’argenteria... Céline Bonnot-Diconne, restauratrice di pelli, Manuel Soirat, tagliatore di pietre preziose, Christine Leclercq, costumista, Judith Kraft, liutaia specializzata in strumenti antichi o Hubert Haberbusch, restauratore di veicoli d’epoca, condividono tutti il titolo di Maître d’art. Ma condividono soprattutto valori e qualità umane singolari che li hanno portati a trasmettere le loro conoscenze senza risparmiarsi, preoccupandosi più del futuro del loro savoir-faire e del loro Élève che della loro stessa posterità. In questo, sono un esempio per la nostra società. La devozione e la tenacia degli apprendisti sono certamente una ricompensa commisurata al loro impegno. Diventare Maîtres d’art richiede coraggio, perché combinare il meglio della tradizione con la necessità di reinventarsi è una sfida particolarmente esigente e complessa. • Il prossimo bando per usufruire del Dispositif Maîtres d’art – Élèves a partire dal 1° gennaio 2023 verrà aperto nell’autunno del 2021 (www.institutmetiersdart.org/metiers-art/maitres-eleves e www.maitredart.fr). L’INMA diventerà l’Agence française des métiers d’art et du patrimoine vivant nel 2021. MESTIERI D’ARTE & DESIGN
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OPINIONI
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Il talento, l'autenticità, il legame con il territorio, la creatività rendono i grandi maestri artigiani dei veri e propri “Tesori Viventi”. Un patrimonio che va protetto, RI-SGUARDO
incentivato con amore e con impegno etico. Perché la bellezza, come l'oro e le gemme, va sempre ricercata e scoperta con metodo ed entusiasmo.
Mani che valgono un tesoro Scoprire un tesoro nascosto, magari affrontando pericoli e insidie, è un sogno comune a tutti i bambini: alla preziosità del contenuto dei forzieri si somma la soddisfazione per aver decifrato mappe, scalato vette, solcato mari, interpretato codici segreti, insomma per aver dato prova di intelligenza al fine di non fermarsi di fronte all’evidenza, ma di andare più in profondità. Scoprire un “Tesoro Vivente”, ovvero un grande artigiano, regala le stesse emozioni e prevede le medesime modalità, o quasi: forse non si affrontano le acque tumultuose dei mari tropicali, ma certamente ci si scontra con le idee post-moderne dell’indifferenza, di una burocrazia non sempre efficace, di una tendenza all’omologazione che accomuna le opere dei Maestri a quelle, ben più banali e meno preziose, di una produzione senz’anima. Questa rivista ha voluto aiutarci a scoprire alcuni di questi “Tesori Viventi”, per permetterci di ricordare che il talento e la maestria sono le attitudini necessarie per trasformare elementi comuni in oggetti davvero preziosi e significativi. Ma ci ha anche aiutati a comprendere che dietro alcune definizioni a noi care, come appunto Maestro, ci sono storie vere, esemplari, significative. C’è il lavoro difficile ma necessario di chi si trova a dover valutare, osservare, riconoscere, promuovere, proteggere e sostenere i mestieri d’arte d’eccellenza, che ci si trovi in Giappone, in Francia, in Europa, o nella nostra meravigliosa Italia, da Nord a Sud. Dall’INMA francese all’Associazione giapponese dei Tesori Nazionali Viventi, e includendo naturalmente anche la Fondazione Cologni di Milano e la Michelangelo Foundation di Ginevra, alla base del riconoscimento dei “tesori” dell’artigianato d’arte non può non esserci l’impegno etico e quotidiano a utilizzare strumenti di valutazione adeguati, che possano risultare adatti sia al mondo dei beni culturali, sia a quello delle attività commerciali; perché una valutazione è buona o cattiva se produce o non produce gli effetti di incentivo per i quali è stata introdotta. Incentivare: tra le finalità di questo incessante lavoro di riconoscimento e protezione dei “Tesori Viventi” dei mestieri d’arte vi è proprio la possibilità di fornire un’ispirazione, o appunto un incentivo, a chi Maestro non lo è ancora ma lo vuole diventare. La definizione del titolo di “Maestro”, nelle sue diverse declinazioni, è insomma in linea con la stessa natura ibrida del mestiere d’arte, al contempo legato al mondo della produzione culturale e del patrimonio immateriale, ma anche strettamente connesso al mercato e alla produzione, sia pur di nicchia. Lo testimonia bene il titolo di MAM – Maestro d’Arte e Mestiere, che in Italia assegniamo ogni due anni a una selezione di straordinari artigiani operativi in bottega, in atelier o all’interno di un’impresa: mani che valgono quanto un tesoro, perché alla competenza aggiungono la passione e l’intelligenza emotiva del cuore. E la nostra speranza è che questa celebrazione dei “Tesori Viventi”, questa valutazione serena e oggettiva, sia sempre un valido incentivo per mantenere, migliorare o riscoprire quell’eccellenza artigiana che è alla base del migliore made in Italy e della produzione quotidiana di bellezza che in tutto il mondo si associa all’Italia e alla cultura del craft. •
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ENGLISH VERSION DISCOVER, LOVE, EXPERIENCE THE WONDER Alberto Cavalli In 1950, only a few years after the end of the Second World War, Japan was a nation on its knees. Yet that very year (amidst countless urgent issues and a climate of terrible uncertainty), its Parliament approved a law promoting and safeguarding the holders of fine artistic and artisan skills, which Tokugo Uchida recalls in these pages: the Living National Treasures of Japan. Exceptional men and women whose skills are expressed in hieratical, precise gestures that are as intense as they are unshakeable, and who craft objects that convey simplicity and beauty. In 1979, France was coming out of an energy crisis that had shaken an entire generation to its core. Yet in the midst of social tension and mounting intolerance with all things traditional, President Valéry Giscard d’Estaing laid the foundations for what is now the Institut National des Métiers d’Art, the first of its kind in Europe, to award France’s best artisans the title of Maître d’Art. An accolade very similar to the Japanese one, which recognises a savoir faire handed down from one generation to the next, and which is vital for defining and preserving a country’s cultural identity. In 2016, Italy was still struggling with a modest growth in its GDP and a difficult economic crisis: but Franco Cologni broke the deadlock and, together with Gualtiero Marchesi, created the title of MAM – Master of Arts and Crafts. The initiative was geared towards filling a major shortfall in the Italian system, and one which finally paid tribute to Italy’s exceptional master craftspeople, who are admired the world over. Every two years, the MAM title is awarded to a few dozen artisans, handpicked by specialist juries and analysed according to eleven criteria of excellence distilled by the Fondazione Cologni. Criteria which now, thanks to the promotion of the Michelangelo Foundation, have become a crucial roadmap all over Europe for gauging the mastery of astonishing present-day makers. Treasures, Artificers, Masters: in this age of distraction, these definitions help us classify the mindful gestures and significant creations turned out by artisans who celebrate the daily ritual of “fine craftsmanship”. With their hard work and perseverance, they make for places that are alive, invaluable and special. We have combined the stories of some of Italy’s Genius Loci (and their many interpretations) with the example set by Japan and France to forge this edition of Mestieri d’Arte & Design, which is entirely devoted to Living Treasures. Leafing through it is like being whisked away on a Grand Tour, taking us from Venice to Sicily, crossing regions and territories from North to South. But above all, it reveals knowledge and ideas, insight and secrets, the hopes and dreams of those who – like the Masters of Arts and Crafts picked by the Editors and interviewed by our experts – express the desire to ensure their talent makes the difference every single day. A difference brought to life by the power of the hand, which, more than just the supreme tool, gives us the utmost means of acquiring knowledge. As the great Homo Faber Event - scheduled to be held in Venice in September - highlights and celebrates, there is always something that hands can do better than any machine. Like flicking through a magazine, for example, allowing oneself to be transported by the intense beauty of authentic experiences that reward eyes and hearts alike. Enjoy your reading!
OUR TREASURES Ugo La Pietra In a return that owes a debt of gratitude to the artisan of days gone by, design is rediscovering craftsmanship, the one-off piece or limited edition, and acknowledging the role of the artisan-artist, who is capable of turning out pieces of fully-fledged contemporary applied art. Today’s artisan-artists safeguard the crafting culture of the past with the manual work they carry out each day. Yet they also know how to harness the latest technologies. These makers have been closing in on leading exponents 114
in international craft for some time now. They remain few in number, although their value on the Italian cultural scene grows with each passing day. The design world views them with interest, and often admiration. This has been made apparent by the new generations of designers increasingly travelling the road to self-production. Yet it is also true that in the “Italian school”, they are almost alien figures: architecture and design have long fostered the culture of design over the culture of making. Today, thanks to initiatives (exhibitions and publications) by scholars and thanks to the Fondazioni Cologni, the most talented artisan-artists are increasingly enjoying the limelight and being called “living treasures”. Treasures being something valuable, which should be appreciated and protected. Our contemporary artisan-artists are now considerable in number. Yet this so-called “excellence”, which quite rightly measures up to international craft, does not meet with the favour of the official institutions (a fact underscored by the abolition of Art Institutes in Italy). Today, our “treasures” are not sufficiently appreciated and nurtured. It is rare to find their works in applied art museums: when they are at all displayed, it is almost always the result of donations. The works produced by our “treasures” are often confused with designer objects, where it is not easy to distinguish a piece made by hand from those produced in series using moulds. In Japan, the works of Living Treasures fetch dizzying prices on the market; here in Italy, only the luxury industry truly appreciates and showcases the work of these artisan-artists. Unfortunately, the only action taken so far by official authorities to valorise and safeguard artistic craftsmanship involves traditions from local territories (like in the case of ceramics), with regulations governing production, how materials and decorations are used, along with the colours and techniques. This excellence, which has survived institutional and commercial neglect (when not frustrating it outright) has, however, received support in recent decades from many a scholar, who come from both design-related and theoretical-practical backgrounds, including the likes of Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Enrico Crispolti, Enzo Biffi Gentili and Eduardo Alamaro. They have done far more to keep the design world’s attention on hard-topin-down crafts, which are neither art nor design, and which often spill over into other disciplines. In spite of their boundless commitment, they have not managed to foster a market, nor indeed a collectors elite (with participation in international events such as Basel and Miami occurring only rarely). Ours are “living treasures” who seldom crop up in museums. They do not play a part in Applied Art Biennials (inexistent in Italy), nor indeed are they found in our territories (to embellish or give a feature, a meaning to places) in multicentre exhibitions. Most of all, there is an absence of contact with the official institutions. A great deal of work still needs to be done! For some years now, Fondazione Cologni has been committed to using its channels to place this excellence in the spotlight. It should be featured in trade magazines; it should be showcased by museums and official institutions; and above all, it should be involved in organisations that promote research, giving space and opportunities to budding young artisan-artists who turn to these so-called “living treasures” as role models.
BIRTH OF THE ARCHETYPE Massimo Bignardi The fury of war had ceased reaping victims. The entire world was savouring the fresh winds of peace. Artists were returning to their ateliers, where they resumed work on “building” new perspectives. In the tragic war years, Henri Focillon wrote that “Art is made by the hands. They are the instrument of creation, but even before that they are an organ of knowledge.” Between 1946 and 1956, a desire for knowledge of the ancestral universe of ceramics signalled a new cultural season, which saw the involvement of Picasso and Miró. But it also engaged two important artists of the contemporary
ENGLISH VERSION ceramic scene: Josep Llorens i Artigas and Guido Gambone. Theirs were completely separate experiences on the coasts of a Mediterranean Sea which still preserved the sacred air of legend: Artigas and Miró at Gallifa near Tarragona, Picasso at Vallauris, in the Maritime Alps overlooking the Cote d’Azur, and Guido Gambone at Vietri sul Mare, on the Amalfi Coast. Four artists who, in the difficult post-war years, undertook to renew the language of ceramics. And just like the Centaur, as Focillon himself would have said, they dipped into “the well-springs and the winds” as they went. They all shared an attention for form and figure, acquired from the typically Mediterranean territory: the dialogue imposed by the hand is created with clay and forms, with the alchemy of glazes and the colours of metals. The ceramics made by Miró and Artigas sprang from a profound friendship, which proved vital to their creations. The partnership, which intensified from 1946, saw each giving his very best, and was the result of an accord based upon mutual understanding and the utmost freedom. Artigas studied primordial forms, prompting Miró to represent the universe of his own signs and the “nocturnal” world in which his imagination roamed free, discovering the infinite nature of white. During the same period, Picasso encountered ceramics in Vallauris. The language of day-to-day objects, forms dictated by the times of crockery producers, the magic of fire turning clay into something precious, all gripped his fervid imagination: his hands then imbued the object with all the strength of the archetype, and the archaic synthesis of the figure. Decoration first made its appearance in the Madoura workshop of the Ramiés, a husband-and-wife-team, after which an infinite variety of vases was turned out, with the help of a potter throwing pieces on a wheel. These conjured up forms such as fauns, nymphs, satyrs and fish, plucked from the abyss upon plumbing the depths of legend. They were the very same figures that the anonymous Greek painter of the 8th century B.C. portrayed, like an iconographic dictionary of Mediterranean marine fauna, on the belly of the krater of the shipwreck of Pithekoussai. At Vietri sul Mare, on the very edge of the Divine Coast, Gambone worked on reviewing traditional ceramics using new artistic forms of expression emerging in those decades. In the period straight after the Second World War, between 1948 and 1950, Gambone’s work focused on plastic forms. He retrieved archetypes typical of the Mediterranean’s anthropological fabric, and reduced the composition of the figure using an abstraction process, which allowed him to achieve an imaginative analysis of considerable scope. This is borne out by works such as Faenzerella, with which he participated in Premio Faenza in 1949, and Figura femminile in the same year, exhibited in the hall with Minguzzi and Melotti at the Venice Biennale in 1950.
EXCELLENCE FROM THE LAND OF THE RISING SUN Tokugo Uchida Japan is a country of craftwork. The history of craft in the country goes back to the prehistoric era. The earliest specimens of indigenous crafts include primordial earthenware excavated from a 16,500-year-old ancient site and lacquerware that dates back 12,600 years. Highly technical methods of metalwork and pottery were brought from the continent during the 4th and 5th centuries. In the 8th century, Japan eagerly absorbed sophisticated craft techniques from the Tang dynasty in China, which resulted in many pieces of more artistic crafts. More than 9,000 items of fine artisanal handicraft have been preserved for over 1,300 years at the Shōsōin royal repository in Nara. The technical sophistication cultivated by today’s Living National Treasures can be said to have its historical roots in these ancient treasures of the Shōsōin. “Living National Treasures” refer to preservers of intangible, culturally important practices according to the official list contained in the Act on Protection of Cultural Properties. The term was popularised by a media report on the first designation that took place in 1955. This new legal framework was established in 1950 by the National Committee for the Protection of Cultural Properties (a precursor of present-day Agency for Cultural Affairs of the Government of Japan) to include intangible cultural assets,
such as performing arts and craft techniques, considered to be in decline. Japan was going through a period of post-war social and economic turmoil, and many traditional crafts were at risk of extinction. In terms of artisanal craft, urushi lacquerwork, metalwork, textile fabrication and dyeing, pottery, and other crafts came under the protection of the Act, and preservers designated according to the Act were expert artisans in their respective practices. The Act was amended in 1954 and its scope extended to include crafts that were recognised for their historic or artistic significance even if their artistry was not in danger of extinction. Under the new scheme, the skills and techniques to create craftwork—expressed in Japanese as kōgei—of the listed craft genres are specified as “important intangible cultural properties,” and practitioners who have attained the highest level of mastery of the artistry are designated as “holders” of these properties in recognition of their finesse and expertise in their practices. Where there are several individuals involved in realising a specific intangible culture, they are designated as holders collectively. In short, Living National Treasures are officially designated custodians of the “important intangible cultural properties.” The first designation in 1955 recognized 28 Living National Treasures in the category of kōgei. Though designation takes place almost annually, the designated individuals and their specific work are not the focus of recognition, as the purpose of the system is to protect and leverage the best of Japanese traditional artistry through perpetuation. Nonetheless, Living National Treasures are the nation’s pride and joy, respected and appreciated throughout the country. The Japan Kōgei Association, a nationwide organisation for kōgei practitioners, was inaugurated in June 1955 by first-generation Living National Treasures Matsuda Gonroku (1896-1986), Ishiguro Munemaro (1893-1968), Arakawa Toyozō (1894-1985), and Unno Kiyoshi (1884-1956). The Association held a Japan Traditional Kōgei Exhibition in affiliation with the national government agency in the same year, and this subsequently became an annual event, serving as a platform for fostering and preserving skills and knowledge in kōgei and for elevating their artistic levels. The 69th Exhibition will be held this year. The works presented at the Exhibition, as well as those created by artisans affiliated with the Association, are recognised as dentō kōgei, a category for crafts that possess aesthetic quality as well as inheriting the artistry passed on for centuries. Living National Treasures are thus prominent creators who breathe life into traditional fields of kōgei such as ceramics, textiles, and urushi lacquerwork. The particularity of dentō kōgei is that it is produced primarily for practical use. It is comparable to Japanese art in this sense, where people appreciate its beauty while profiting from its utility. This aspect of Japanese art is at its best when placed in contexts in which it enhances the lives of people—in other words, as it takes the form of furniture, writing utensils, costumes, tea-making equipment, and so on. Western European modern art introduced to Japan a new, philosophical approach to fine art that proclaimed integrity and autonomy. Paintings, for example, are set in a picture frame, which strengthens and symbolises the cohesion of the work within it and, as Georg Simmel (1858-1918) put it, “excludes all that surrounds it.” A hierarchical divide between them started to emerge in the 19th century, elevating social and academic statuses of fine art. The way in which people in pre-modern Japan appreciated Japanese paintings exemplifies this: they chose a painting that matched the current season or upcoming calendrical event and displayed it in a purpose-designed recess in a room, an architectural feature known as tokonoma. Another similarity is in sentimental commune between the creator of the work of art or craft and the people who use it. Artists, through their processes of creation, think of the purpose of their work and the people for whom it is intended, so the resulting work embodies their concern for the user. In turn, the user ponders the creator of this fine work as they are touched by its beauty while handling, regarding, or using it. Dentō kōgei is appreciated both aesthetically and through its utility, and so the aspect of emotional commune is particularly prominent. Today, 57 artisans are designated as Living National Treasures. In the 2021 edition of Homo Faber, which will take place in September, we introduce twelve of them as the most prominent Living National Treasures of Japan. Murose Kazumi (born 1950) is the finest artisan and artist whose expertise is in the makie technique, used to embellish urushi lacquerware with powdered gold and other
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ENGLISH VERSION metals, a tradition that dates back to the 8th century. He is also a prominent contributor to the national cultural administration. Ōnishi Isao (born 1944) is a master of lacquering (application of urushi) whose mastery is next to none. Moriguchi Kunihiko (born 1941) is a textile dyer and a designer using the resist dyeing technique of yuzen, who revolutionised this traditional sector through his innovative use of colours and geometric patterns. Sasaki Sonoko (born 1939) is an artisan of tsumugi (pongee), who excels at leveraging plant-derived dyes and natural textures of the fabric. Kitamura Takeshi (born 1935) is also a dyer, who studied and revived an ancient weaving technique. Imaizumi Imaemon the Fourteenth (born 1962) is a potter who perpetuates and has attained Japan’s finest overglazing techniques for which his family’s 17th-century kiln is renowned. Pottery artisan Fukushima Zenzō (born 1959) invented a celadon glaze that renders an exquisite colour, and Isezaki Jun (born 1936) is a master potter of Bizen ware, a region-specific pottery known for its hardness due to high-temperature firing without glaze. Metalwork artisan Ōsumi Yukie (born 1945) creates vessels by hammering metal strips. Suda Kenji (born 1954) uses precious wood materials in his woodwork items. In bamboo-work, Fujinuma Noboru (born 1945) wields various techniques of weaves and assemblies, realising innovative works that have modernised and elevated bamboo-work to an artistic level. Doll creator Hayashi Komao (born 1936) dedicates his artistry to traditional Japanese dolls that reflect his persona. It should be noted that Japanese dolls are appreciated for their symbolic value, for example, to wish for wellbeing of intended individuals, and they are not toys for children to play with. Living National Treasures can be considered as artists who pioneer modern Japanese art as much as they are preservers of the most refined crafting artistry of Japan. I present an episode that epitomises this notion poignantly. During a conversation with yuzen creator and Living National Treasure Moriguchi, I asked him whether he defined himself as an artist or an artisan. His response was: “I am an artist when I contemplate, and an artisan when I create.”
THE PROFOUND MEANING OF BEAUTY Akemi Okumura Roy Kenji Suda was born in Tokyo in 1954. For three generations his family has been devoted to mokkōgei, the Japanese word for woodcraft (moku means wood, while kōgei refers to the higher, artistic expression of the crafts). In 2014, at the age of 60, Suda was recognised as a holder of an important intangible cultural property for mokkōgei and has thus become a Living National Treasure of Japan. In the past, woodwork was considered a humble craft, generally related to everyday items. The artistic value of woodwork was first acknowledged in the middle of the Meiji era (1868-1912) by Sōmei Maeda, who is known as the founder of Japanese mokkōgei, after he discovered the precious mulberry tress growing in Mikurajima, one of the Izu Seven Islands. Maeda produced exquisite woodworks with Mikurajima mulberry, the name of which means “A Rare Precious Tree” in Japanese, in which he infused the expression of his individual aesthetic sense. Maeda was a mentor to Kenji Suda’s grandfather Sōgetsu (1877-1950), who was a carpenter specialising in shrines and temples (miyadaiku). Sōgetsu worked as a disciple of Maeda and then passed on the true traditions of mokkōgei to his son Sōsui, who in turn passed them on to his son Kenji. The techniques inherited by Suda through his grandfather and father overlap with the history of Japanese fine woodwork. When Suda was a boy, his father’s workplace was his only playground: he used to sit and watch him at work, listening with great interest to the old art stories that his father talked about. Thus Suda naturally became a mokkōgei artist “learning by seeing, touching, and feeling”. Kenji Suda also graduated in interior and furniture design from Tokyo Metropolitan Kōgei High School and at the same time he learned urushi lacquer art from his maternal grandfather, Shunsai Yamaguchi. At the age of 21, in 1975, Suda’s work was accepted for the first time at the 22nd Exhibition of Japanese Traditional Kōgei. Mokkōgei woodcraft embraces a variety of objects, including practical goods like bowls and kitchenware, tea utensils, fine furniture, small boxes, etc. The timber used by mokkōgei master craftspeople comes from trees that are
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at least 100 years old, and which are left to dry and age for 10 to 20 years in a controlled environment. Suda specialises in small boxes and furniture, true masterpieces that he crafts using the ancient Sashimono technique, whereby wood is assembled without using nails. The major feature of Suda’s work, and which makes him a very exceptional artist, is that he combines mokkōgei with the knowledge and high skills of urushi art, inlay, metalwork and dyeing. In all his magical world of craftsmanship, he pays much attention to obtaining the most harmony from each element with outstanding skill. Suda developed his unique style while inheriting the spirit of Japanese traditional crafts, and he has been creating a new history in modern mokkōgei. “The importance is not only the technique,” he explains. “I feel I share an emotional connection to the wood and my work. Wood itself has its own beauty, which I want to respect and enhance by adding decorative elements that come from my knowledge. This aesthetic sense is the true essence of Japanese traditional kōgei: our mission as Living National Treasures is to hand down the history and meaning of the Japanese sense of beauty.” In addition to inlaying his boxes and furniture with shells, combining metal, attaching decorative studs and painting them with urushi lacquer, Suda also crafts the cloth to wrap and protect his works. The keys for the small boxes are usually made by a professional metalworker, but Suda makes them himself and uses the Japanese characteristic technique ibushigin to give the silver a more subdued and less shiny finish. Incorporating a variety of professional fields, Suda thus creates everything himself. Each of his works is extremely elaborate and time-consuming, and the end result is always breathtakingly spellbinding. Although Japanese mokkōgei attracts attention worldwide both in terms of techniques and tools, there are few artisans who master this craft, and even less successors. Suda emphasises the importance of passing on this knowledge to the next generation. “In this field, it is also important to understand and interpret the culture of the craftsmanship, and also to connect to your own expression. In Japan there is no place to learn woodwork or courses at a university. Therefore for the younger generations it is hard to begin woodworking as an artist. For over 110 years, my family has been handing down the steady devotion to this craft from the pioneers of mokkōgei. This has enabled me to become a mokkōgei artist, and I feel it is my duty to pass this knowledge, skill and spirit to the young.” For this reason, every two months Suda holds study sessions for five artists from Tokyo, Niigata, Gunma, Saitama and Ibaraki, teaching the basics while giving them assignments. Two of his students have received Art Crafts Exhibition awards. He also focuses on international cultural exchange, including workshops in New Zealand, Sweden and Denmark. Suda’s workshop is in Kanra-machi, Gunma prefecture, where he moved from Tokyo in 1992 to benefit from a larger space and a good environment for timber. His atelier is located on a hill, at the top of a winding country road, with a great view over the countryside. Inside, everything is very organised with well-maintained tools and timber. Just like Suda’s work, his workshop emanates beauty and passion. Suda demonstrates his precision work by using a tiny plane that fits in the palm of his hand. “This plane belonged to my father,” he tells me. “Unfortunately, there are not many old and good tools left, since my grandfather’s tools were burned in the Great Kanto Earthquake and my father’s were destroyed during the Great Tokyo Air Raid.” With this last surviving plane, Suda’s hands continue to create new national treasures. In looking at him work, I feel that that I have been touched by a very long history.
ALBUM Stefania Montanari Francesco Aiazzi Colle Val d’Elsa (Siena), Località Belvedere entrance 5, 48/1 Francesco Aiazzi is an exceptional example of a man born into his trade. He started working in the workshop with his father Carlo, a renowned master glassmaker, at the early age of 10, learning all the tricks of the glassmaker’s craft. At 15 he became a pupil of Florentine sculptor Aldo Ciolli, who also taught him to model in ceramic and introduced him to many artists, which allowed
ENGLISH VERSION him to pick up many different techniques. But he did not forget his first passion for glass: under the guidance of great master glassmakers such as Dorino Bormioli and Pino Signoretto, Aiazzi went on to specialise in the different stages of glassmaking, be it turned or still-moulded, and artistic hand-blown pieces. His creations are inspired by and recall mediaeval models, with a preference for hand-blown drinking glasses. His ceramic works also hark back to ancient Tuscan traditions, with terracottas and sculptures thrown on the wheel and modelled by hand. Near San Gimignano, at Colle Val d’Elsa, half-way between Florence and Siena, Aiazzi flicks back and forth between clay and glass. His large, airy workshop is home to potter’s wheels, workbenches, coloured pigments, sacks of clay and kilns. Francesco also uses the laboratory of nearby Cristalleria Colle Vilca, where the grindstone, forge, soldering torch and oven are at his disposal to create beautiful forms in glass. The creativity of this outstanding artist is positively volcanic. His techniques are time-honoured, steeped in knowledge, and give rise to incredible pieces made of glass, crystal and ceramic. Glasses, bottles, bowls, jugs and centrepieces, not to mention sculptures and large bas-reliefs, such as those made for the Vatican to mark the 2000 Jubilee. Anything can be ordered to size in this wonderful atelier. Francesco Aiazzi often works with a number of glassworks, and collaborates with Pisa University, the Italian Culture institute of Grenoble, the Glass Museum at Piegaro, near Perugia, and the Glass Art Museum at Altare, near Savona. In 2016, Fondazione Cologni awarded him the title of Master of Arts and Crafts (MAM). aiazzifrancesco.it Daniele Riva Maslianico (Como), Via Burgo, 47 The Ernesto Riva boatyard was founded back in 1771 at Laglio, on Lake Como, and has remained in the family ever since. Today, the company is run by Daniele Riva, a dynamic fifty-year-old who represents the sixth generation of a historical business, which has preserved the elegant style of classic Italian production combining it with technology, for the benefit of functionality and energy saving. In addition to learning the trade from his father Ernesto, a skilled craftsman and boat designer, Daniele also decided to round off his training by working at another boatyard, and later combining the experience he had accrued with his family’s tradition. A talented entrepreneur as well as an exceptionally gifted Master Boatbuilder, Riva breathed new life into the business by building new vessels with futuristic techniques, whilst ensuring wood and craftsmanship remained the basis for each creation. The boats yielded by the boatyard include an electrically-powered speedboat, designed with architect Germán Frers, in recyclable wood: the very first of its kind. Thanks to period drawings and prints, Daniele has also reproduced the elegant steamboats that once ploughed the waters of the lake in the early 20th century: rendered far more comfortable than those used last century, they have now been adopted by many hotel owners to ferry clients and tourists on the lake. A winning idea, and one that is helping give Lake Como a personality of its own, just as the gondola did in Venice. A special mention goes to his conservative restoration work, performed with the utmost skill, to restore boats to their original splendour. They include the Lario-based vessel named Velarca, a gem of a house-boat donated to Italy’s FAI heritage fund by the Norsa spouses, and on which Daniele Riva has been working for some time now. Daniele explains: “In 2008, alongside our headquarters at Laglio, we opened new premises in Maslianico, next to Cernobbio, because we needed more room for carpentry, hard-standing and painting. We also needed a yard for storing boats. Today, as always, production in the boatyard is geared towards sailing and motor vessels, as well as our fine work on restoring historical boats. The ‘Sciostra’, the long-standing seat of the Boatyard, has been completely renovated and is now the base of the new Nautical Research Centre in Como. The premises are still home to late 19th-century registers containing all the details of boats that were made on commission and all the technical drawings:
right from its origins the boatyard built ferries, launches, steamboats, rowing boats and traditional lucie boats used by fishermen or traders.” A place in which culture, tradition and innovation come together to create a meeting point for sailing enthusiasts. In 2006, Daniele Riva won the Rosa Camuna prize awarded by the Lombardy Region, and the Artisan Business Award from Como’s Chamber of Commerce. Fondazione Cologni awarded him the title of Master of Arts and Crafts (MAM) in 2020. cantiereernestoriva.it Sveva Camurati Milano, Via Caccianino 9 Sveva Camurati was raised in the atelier of her grandmother, who created haute couture garments and wonderful embroideries. The young Sveva soon became fascinated by fabrics, silhouettes and colours, particularly by the little jars of pearls and sequins used for the embroideries. Then came dance and acting school, studies in Paris and New York, numerous trips to faraway lands in Africa, India, and the Middle East, which allowed her to accumulate an extraordinary wealth of experience and knowledge of different cultures. All of which fuelled her creativity: together with what she learned about customs and traditions of other civilisations, they formed the foundations of her work. On returning to Milan, her hometown, Sveva opened a jewellery workshop in 2005, breathing life into unusual, eclectic, multifaceted collections. But her atelier is also in her home, where Sveva often brings the tools of her trade so she can carry on creating without interruption. These tools include bowls and boxes full of glass beads, tiny wood and brass pieces, Swarovski crystals, colourful plastic elements, satin-finish glass parts and threads in nylon, silk and cotton. This creative artisan also uses a pure gold thread she describes as being like a “skein of fairy-tale yarn”, which she uses to bring to life exquisite embroideries for her large ethnic-style necklaces, brooches, long earrings and elaborate clasps. She is particularly fond of Bakelite, a material in vogue during the 1930s, which is very resistant and comes in thousands of different hues. The great Italian and French bijoutiers who had their heyday between the two wars made this material the queen of their collections. Sveva Camurati, too, often completes her creations with this hard-wearing resin, which comes in countless different nuances. Each of her pieces is painstakingly made by hand, and is therefore always different. With their altogether uncommon personality, the collections of this eclectic maker are proof that the elegance and originality of an outfit lie in the accessories. In 2020, Sveva Camurati received the Master of Arts and Crafts award (MAM) from Fondazione Cologni. svevacollection.com Ezio Marinato Cinto Caomaggiore (Venice), Via Roma 134 He is one of Italy’s greatest bread making experts: in 2002 he earned the title of European Champion in Bulle, Switzerland, and in 2007 he won the world bread making championship with a title awarded to him in Lyon for the series of products he presented, including the typical French baguette. The man in question is Ezio Marinato, a leavening artisan and artist who, since 1985, has managed the bakery and patisserie that has been in his family since 1924 at Cinto Caomaggiore, just outside Venice. His passion nurtured with true dedication, his knowledge and techniques are the result of tireless research and a quest for perfection. “It might only be made of four ingredients, but there are countless ways of making bread. Just think of how many types there are around the world. Hence my desire to experiment with different baking methods, using compressed yeast or sourdough: what really counts is our understanding, which makes us decide what we want to achieve. We aim to give the finished product a soul of its own, represented by its flavour, its aromas, and last of all its appearance. For me, bread is something essential: it should taste better than it looks. The important thing is to taste the flours and ferments you use. Bread is ‘free’: nobody in our trade knows everything. So it’s important to
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ENGLISH VERSION keep the flame of curiosity burning.” His best-known products include naturally leavened breads and exceptional baked products for special events, such as panettone and colomba, as well as panpolenta and corn flour grissini. Today, Ezio Marinato is also a teacher at catering and specialisation schools, as well as a consultant to industries that produce bread making equipment and machines. His gift for communication has enabled him to do a great deal of training, and he is often a guest speaker at conferences and trade fairs, where he gives talks as an expert in bread making techniques. Since 2013, he has taught on the Masters in Italian Cuisine in Vicenza, and is a visiting professor at ALMA, the International School of Italian Cuisine, as well as lecturing in CAST training courses. In 2016 he was awarded the Master of Arts and Crafts (MAM) by Fondazione Cologni. panificiomarinato.business.site Fratelli Peroni Florence, Via Marconi 82r Verve, passion and incredible skill: these are the characteristics that distinguish the pieces brought to life in the workshop of Piero Peroni, an extraordinary Master Craftsman who designs and makes artistic goods in leather with the help of his sons Marco and Maurizio and several other experienced artisans. His business dates back to 1956 when, after learning the trade in a well-known Florentine atelier, he founded Fratelli Peroni along with his brother Roberto. The atelier hasn’t stopped growing ever since, and has gone on to perfect its elegant techniques. Piero has recuperated Florence’s 16th-century traditions in working cuoietto leather and gilding vegetable-tanned leather, which uses biodegradable, non-allergenic tannin obtained from tree bark, without chrome or other chemicals. Analysis of ancient Renaissance techniques combined with the use of old and new equipment and tools have allowed the Peroni brothers to craft leather items featuring extraordinary decorations and colours, all made entirely by hand. Their catalogue numbers around 1,000 products, from the iconic Tacco purse without stitching to the jewellery box with compartments and drawers, items for writing desks, travel accessories, diaries, photograph albums, frames, boxes, bags, briefcases, book-bars (a small stack of faux books concealing bottle and glasses) and umbrella stands. The items crafted inside this atelier have a reputation that precedes them worldwide. They are displayed in elegant stores in Europe, the US, Asia and above all Japan, where a great deal of importance is attached to finishes and product traceability. “One of the plans my sons and I have,” Piero confides, “is to set up a training school in our workshop and to offer guided tours for groups interested in learning about the secrets of this ancient craft. And a showroom open to the public.” In 2007, Piero Peroni received the Eurispes award for outstanding Italian businesses. In 2012, he was awarded the Bottega d’Arte prize from the Osservatorio Mestieri d’Arte of Florence. Last but not least, in 2020 Fondazione Cologni bestowed on him the title of Master of Arts and Crafts (MAM). peronifirenze.it La Tela Macerata, Vicolo Vecchio 6 Patrizia Ginesi and Maria Giovanna Varagona are two entrepreneurs driven by a passion for outstanding craftsmanship, which prompted them to establish an atelier in their hometown of Macerata in 1986. Thanks to their exceptional skill in loom weaving, they have managed to revive age-old techniques and models from Italy’s Marche region, weaving threads using heddles (with the first weaving programme connected to a machine dating back to the 13th century) to make fabrics for furnishings and clothing with decorative motifs hailing back to Renaissance times. These refined designs are steeped in history, and can be seen in paintings by Leonardo da Vinci, Perugino and Ghirlandaio. Thanks to their skill and constant study of techniques, Patrizia and Maria Giovanna have also been able to experiment with innovative techniques. In addition to working with linen and cotton, they also use leather, hemp, raffia and plastics. Big-name fashion designers such as Valentino, Versace, Chanel, Calvin Klein, Bally, Alexander McQueen and Alberta Ferretti have approached them to make garments for their collections. Each year this atelier also turns out fabrics commissioned by Rome’s Benedictine Monastery of Santa Cecilia
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for making the Pallii, the liturgical garments worn by the Pope and metropolitan archbishops the world over. Education plays an important role in their work: in over thirty years, La Tela has organised hand-weaving courses on its premises, along with training for private individuals and public cultural associations. In the process it has become a reference point for primary and secondary schools, not to mention students at training colleges and universities wishing to learn more about weaving techniques and to understand not only how materials are woven, but also how this craft is interlaced with the history of Italy. In 2007, a museum was created alongside the atelier, exhibiting working tools and many textiles that reflect the history of this time-honoured craft. In 1989, they received an award from the Lions Club of Macerata for promoting an activity of significance in the local area. In 2000, they were presented with an award from the Marche Region for women making significant achievements through work in their local area. In 2004-2005, they won the Donna Impresa award from the Chamber of Commerce, in 2006, the La Primavera award, an International Competition for fabric decoration held in Corciano (Perugia) and in 2007, the Creativamente Prize awarded by the Province of Macerata. In 2016 they were awarded the Master of Arts and Crafts (MAM) by Fondazione Cologni. latela.net Baldo Baldinini Viserba di Rimini (Rimini), Via E. Curiel 26/b One might call him the finest cocktail “nose”, thanks to his exceptional talent for identifying aromas, combinations and the right spices that make up the perfect blend for alcoholic drinks. He has also been called “a composer of aromatic accords, who creates spirits and, above all else, vermouth”, and indeed one of the world’s best. The person in question is Baldo Baldinini, whose olfactory prowess has left the mixology sector speechless. His talent became apparent in his childhood, when Baldinini discovered the world through fragrances, aromas and colours, with a true passion for botany. Baldo started studying the great alchemists of the past, such as Paracelso and Fioravanti. His first forays were into the world of perfumery, in search of the rarest essences, particularly those sourced in distant lands. His headquarters are located at Tenuta Saiano, in Valmarecchia, set amidst the peaceful hills of the Romagna region. With great dedication, curiosity and a smidgen of madness, this is where he delves into the process of extracting intimate essences from countless flowers, fruits, bark and roots. A knowledge process housed amidst the silence of a laboratory, or the Olfattorio, as he likes to call it. This is where he studies, catalogues and hand-labels each individual vial. An incredible databank of aromas, perhaps even the greatest ever, which guards the secrets of thousands of aromatic accords gleaned from botanical sources, essences, alcoholates and hydrolates. His laboratory is not just the place where he devises recipes for products sold by the Montebello farm in Torriana, but also a “museum of fragrances and flavours”, a future testimony of a world that is gradually going extinct. The processes involved are natural, and this is fundamental for Baldo. He does not use any chemical additives or artificial colourings, nor indeed does he use burnt sugar, and the wines used as a base for his liqueurs are chosen with painstaking care. Baldinini has been exploring the field of aromatic accords for over twenty years now, blending ingredients and selecting the best aromatic scale for the finished product. All the wines, liqueurs, vermouths and walnut-based nocino liqueurs on sale at Tenuta Saiano are made to his own secret recipes. In 2020, he was awarded the title of Master of Arts and Crafts (MAM) by Fondazione Cologni. dibaldospirits.com Raffaele Calace Naples, Vico San Domenico Maggiore 9 Raffaele Calace is the heir of a legendary dynasty of luthiers who produced the world’s finest and most famous mandolins. The business was started by Nicola, who made guitars when banished to the island of Procida in 1825 for
ENGLISH VERSION having conspired against the Bourbons. After the new monarch granted him an official pardon, his son Antonio returned to Naples, where he began making mandolins. But it was the grandfather who went by the same name as Raffaele today, a composer of over 3,000 pages of sheet music for instruments played with a plectrum (himself a musician and mandolin maker) who perfected the art. Thus the mandolin developed into the highly evolved instrument we know today. His skill earned him the nickname “Paganini of the mandolin” amongst his early 20th-century peers. Raffaele is just as impressive as the grandfather he was named after: he started working alongside his father in the workshop when he was 14, and continued the family tradition by nurturing the secrets handed down from father to son, ensuring the Calace business remained an outstanding one. In his workshop, alongside skilled craftspeople and his daughter Annamaria, this extraordinary Master Luthier creates his mandolins using moulds, some of which are originals dating back to the last century. The blanks are arranged within the outside strip, and the instruments are built thanks to careful buffing, gluing and varnishing. Considerable time is needed between each of the phases, but this is essential to ensure the resulting soundbox is a good one. Raffeaele Calace reveals that “the wood used to make mandolins is not a fine material like the one used for violins. But the process is a long, complex one. The secret lies in the bending of the front of instrument, which stretches the fibres of the soundboard, resulting in a variety of warm, beautiful, responsive sounds.” Calace mandolins are a benchmark for the finest orchestra musicians throughout Italy and Europe, and a considerable slice of the production is exported to Japan and South Korea. Raffaele Calace has notched up over 20 awards in the course of his career, including 69 international diplomas and 20 gold medals. In 2016 he was awarded the title of Master of Arts and Crafts (MAM) by Fondazione Cologni. calace.it
INCANDESCENT MAGIC Jean Blanchaert For over a thousand years, Fondamenta Vetrai, the main thoroughfare on Murano that runs alongside the Rio dei Vetrai canal, has been accustomed to waking up at five in the morning. Its alarm call is the sound of the footsteps of the glassworkers: shop boys big and small, assistants old and young, apprentices and master craftspeople. They walk with a light, quick pace towards the furnaces where they will find the glass prepared by the night man. They walk with the same gait as the men in a corrida, the banderilleros, picadors and torero-matadors when, in Ronda, in Andalusia, in Spain, they head up Calle Virgen de la Paz towards the Plaza de Toros. It’s five there, too, but “de la tarde”, in the afternoon. Garcia Lorca knew all about it. Virtually every artform has been infiltrated by computers and robots, which can design and, in some cases, even make 3D works in fabric, wood, marble and so on. But this is not possible with red hot glass magma. The incandescent river pouring out of the furnace keeps intruders out, just like fire keeps lions at bay, or as lions keep men at bay. When God created the world, there were no spectators. A few pre-existing angels, perhaps, but it was strictly off limits to anyone not directly involved. Even those yet to be created. Making glass in Murano is a hermetic, magical ritual. It does not resemble glassmaking in other parts of the world. Without the synchronised movements learned by heart from childhood, Maurizio Pollini couldn’t have become the master pianist he was, is and will always be. The same can be said for Klaus Dibiasi, Giorgio and Tania Cagnotto, our great divers. They introjected at a young age the magical movements that have taken them to such great heights. The same also goes for Lino Tagliapietra, the greatest amongst master glassworkers, who has become an artist known on all five continents. If we were in Japan, he would be a “Living Treasure”. In 2018, Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte awarded him the MAM-Master of Arts and Crafts. Lino Tagliapietra is a Murano man through and through. In 1945, when the Second World War had just finished and Lino was only eleven, he was sent to the glassworks, like most of the children on the island. For kids at the time, particularly those fascinated with the
spells woven by this incredible material, it was a combination of work and play. By dint of all this playful work, Lino became a Master Glassworker at the tender age of twenty, first working at Toso Maciarea, then alongside the great Archimede Seguso. He had mastered all the traditional, complex techniques and started experimenting with new ones. To make a musical comparison, Niccolò Paganini and Franz Liszt were both performers and composers. The violin prompted Paganini to write incredible scores, which were a challenge for head and hands alike. The same went for Franz Liszt. At the time, he was the only one who, inspired by his piano, could play his music to perfection. When you watch footage of Lino Tagliapietra in the glassworks, turn off the audio and listen to Paganini’s Capricci for violin, or Liszt’s Hungarian Rhapsody: they are the soundtrack to his work. On Murano, artists turn to the masters to have their ideas transformed into glass. The Master Craftsman and artist have to establish something that resembles telepathic communication. This case is different. Lino Tagliapietra the artist, after mulling things over for nights on end, asks Lino Tagliapietra the craftsman to express a concept in three dimensions. The two of them, Lino and Lino, take notes on the glass itself, and often these notes end up as finished pieces, the fulfilment of what once seemed an impossible dream. From the second half of the 1970s, just like a great concert pianist, Lino Tagliapietra began travelling the world and proved a hit on all five continents. He gave, and he took. He thrilled audiences with demonstrations of his skill, but he always took the cultural soul of each country with him. These many and varied souls, with all their differences, were then applied to each of his new works. “On the American trip, in the beginning it was me teaching Dale Chihuly, but in the end it was him that taught me. At Pilchuck, in the glass school he founded in Seattle, I had the pleasant surprise of finding a market that supports young people.” On Lino Tagliapietra’s coat of arms, I would write: professionalism, courage, generosity. In his first thirty years in the business, he was lucky enough to see the likes of past masters such as Mario Grasso, Ottone and Egidio Ferro, Ovidio Nason and Aldo Bon at work, and to pilfer some of the glassmaking secrets of these outstanding artists who didn’t even realise they were just that. After making thousands of pieces for others, in the late 1970s, Lino Tagliapietra was ready for lift-off. At the age of forty-five, he exposed his works to the judgement of the public, and was instantly acclaimed. Today, more than forty years later, his physical strength is not what it used to be, but the assistants he has trained, and whom he views as “an extension of my left and right arms,” do the heavier work, allowing him to continue to chase his dreams and, like Michelangelo, to give us the gift of outstanding work even late in life.
INSPIRING LOOMS Simona Segre Reinach Tessitura Luigi Bevilacqua is a living, breathing organism. Its 18th-century looms are sensitive to the weather: they are kept taut with stones and hemp ropes, because they suffer the effects of humidity, high pressure and the weather in Venice, the city in which the ancient art of silk once flourished. Yet as the founder’s grandson Emanuele Bevilacqua says, the looms are just “four ordinary wooden poles; everything else depends on the person who sets them up, to how the 16,000 threads are composed. Anything can be achieved, but first you need to be able to think, recreate, to do things that are new and to take on challenges.” If we think of Bevilacqua’s archive as a group of antique looms operated by expert weavers to reproduce things created long ago, we are miles away from actually grasping the experimentation and design that goes into Emanuele Bevilacqua’s work. The 17 looms are constantly being converted, reproducing textured velvets to designs both ancient and new. Historical reconstructions – like the 600 metres of crimson velvet made by hand for the Residential Palace of Dresden, identical to the 18th-century original – alternate with colourful velvets produced for cutting-edge projects, whether for art, like the partnership with Nathalie Du Pasquier, or for fashion. Such is the case with the Ophelia dress made for Yiqing Yin: a multi-coloured seabed for a Parisian haute couture velvet. One of those gauntlets that fashion likes to throw down.
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ENGLISH VERSION And indeed Bevilacqua has a long-standing relationship with fashion. From the Bagonghi bag by Roberta di Camerino, which made history, to the present-day projects such as Fendi’s floral brocade day bag called Hand in Hand, from the jacquard for Pier Paolo Piccioli of Valentino to the soprarizzo velvet with gold thread for the Dolce&Gabbana collection presented in the Valley of Temples in Agrigento. Not to mention the Trunk Sublime Bag for Marni. Tiziano Guardini, an ecologically-minded designer, has found in Bevilacqua a partner to explore luxury and upcycling with an end to achieving sustainability. “One often starts from the end, not from the beginning,” Emanuele continues. For the green and yellow velvet furnishings of the Kremlin, one of his most complex projects but also one of the most satisfying of all, a suitable loom did not exist: so it was created starting from the final design, arranging the “four poles” with a new approach to achieve the Grotesque motifs used for the soprarizzo velvet. At this point, one should consider the role of tradition, and to what extent the noble history of antique weaving is linked to products made in the present day. Or how history can be reconciled with the pace of modern-day production. I have reason to believe that the value of tradition, whilst a necessary condition, is not in itself sufficient. Often, “archive fashion” reveals the existential complexity and professionalism that allow a business to compete in modern times. Part of the answer can be found in the intellectual concept coined by Alberto Cavalli: the ability to combine “savoir faire” with the “maker culture”, expressing contemporariness as well as celebration. The “two birthdates” of Tessitura Bevilacqua also offer food for thought. The first traces of the Bevilacqua family date back to the late 15th century, when the name of Weaver Giacomo Bevilacqua was listed amongst those who were commissioned a work by painter Giovanni Mansueti. The Renaissance – all too often held up as an example when celebrating all things Italianmade – is actually meaningful in this instance. Being in Venice, between the 15th and 16th centuries, meant Bevilacqua was taking his cue when the anthropology of taste was just beginning to take shape in Europe. The 19th century represented the second start, that of the modern age, with the industrial revolution which, beginning with textiles, changed the meaning of clothing and furnishings. From 1874, the year of the official foundation, Bevilacqua became a flawless alternative to a purely mechanical future, but without overlooking the latter option. At Conegliano, the jacquard looms are mechanical, although they still require the human touch. The circular nature of fashion consists of the ability to grasp the present whilst metabolising the past. Such is the case with the garments made with Maria Grazia Chiuri–Dior for the Tiepolo Ball at Palazzo Labia, with echoes of the time-honoured Beistegui Dance, an emblem of the post-war rebirth. Between real and symbolic time, Emanuele Bevilacqua draws on alternate history, on the creativity of fashion – as theorised by Caroline Evans and Alessandra Vaccari – imagination and innovation, without which we are unable to dream, nor indeed to enjoy what others have dreamed and crafted for us.
PURE AND PRECIOUS GEOMETRIC SHAPES Alba Cappellieri A Master Craftsperson is someone who gives matter his or her own imprint, someone who finds beauty in truth, someone who sees the ordinary with extraordinary eyes. Someone who isn’t afraid of leaving the beaten track, but whose example transforms that track, introducing new perspectives. A Master Craftsperson is someone with the courage to experiment, and the patience to repeat the same gesture a thousand times over. Someone who never loses passion and enthusiasm for their work, and is constantly driven by curiosity. A Master Craftsperson is someone who is not afraid of new visions and languages or, as Gio Ponti brilliantly summed it up, “a creator: of ideas, truth and beauty”. Someone who is never satisfied with the status quo but instead looks outwards “until your eyes pop”, as Pieter Oud always used to tell his students. Giampaolo Babetto is a master craftsman who makes jewellery. His work is part craft and part design, combining tradition and experimentation, reconciling
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distant worlds and methods in the golden glow of his creations. A gentle, mild-mannered, curious and generous man, just like the hills of Arquà Petrarca, the enchanted mediaeval hamlet in the Colli Euganei area where he lives and works. Babetto was born in 1947 in Padua. He studied at the Pietro Selvatico Art Institute under Mario Pinton, founder of the Padua School of which he is both heir and disciple. “I was still attending the Art Institute,” he says, “when I decided to try my hand at gold. I had a design that could be transformed into a brooch, and the reactions and sensations I felt when I was making it made me realise this was the material I’d use for the rest of my life. That was when I knew where I was heading.”
The result is jewellery in which gold is the star of the show thanks to its sensorial and chromatic power, its flexibility and malleability, as demonstrated by the masterpieces crafted by Mario Pinton and his star pupils, Giampaolo Babetto and Francesco Pavan. And it is thanks to them that in the 1970s, the Padua School became one of the most interesting new arrivals on Italy’s jewellery-making scene. This was because it revolved around the formative experiences of a group of goldsmiths who
were artists at the Pietro Selvatico Art Institute and who, in alternating their roles as pupils and teachers, fostered an original goldsmith culture: from Mario Pinton to Giampaolo Babetto and Francesco Pavan, down to the third generation represented by Stefano Marchetti, Renzo Pasquale and Annamaria Zanella. Whilst the Pietro Selvatico Art Institute is unfortunately no longer a benchmark for Italian jewellery, and Babetto has pursued his research of his own accord, somehow he continues to be the most powerful soundboard for the Padua School worldwide. In his hands, gold comes to life, becoming a plastic material, freed from the symbolism of gemstones, obediently bending to the will of geometry and transforming itself into an ode to abstraction. “I have always done away with any kind of decoration in my jewellery,” he states. “Not so much to discover a geometric shape or the process that lies behind the form, but because my work is not about appearance. It comes from inside, it communicates an innermost essence: mine.” In the 1970s, the shockwaves of kinetic art excited him. He translated them into the geometric structures of mobile, circular elements such as the extraordinary lamellar ring he made in 1970, followed by long, elastic, extendable chains comprised of modular elements, such as the yellow gold chain in parallelepipeds from 1977. Geometrics and modularity alternate in squares, cones, ellipses and cylinders, in gold, niello alloy or illuminated by pigments. Necklaces, rings and brooches are micro architectures with sculptural forms and harmonious volumes, which blur the borderline between craftsmanship and art. “A profession can become an artform,” he says, “when creativity and craftsmanship are both of the very highest quality.” His jewellery is only made by hand with painstaking attention to detail, just like the design process. “Knowing how to make things is as important as knowing how to play an instrument, dance or draw…It’s not an end to itself, but it goes hand in hand with artistic thought and research.”
Babetto knows the past, and he filters it in his visions of the future. He recuperates time-honoured traditions such as niello alloying, the lightand-shade effect of which gives depth and density to the golden surface. He works by subtraction, doing away with the ornaments and decorations of traditional jewellery. The quest for the essence gives his creations an aura of poetry and eternity, reminding us that, as Saint Augustine once said, “God is in the details”. “It would be nice,” he confesses, “if what I made contained that pathos which important artworks make you feel. That special tension you sense, but cannot explain.” For this reason, after his education at Padua’s Pietro Selvatico Art Institute and the Rietveld Academie in Amsterdam, in the wake of countless distinctions in Monaco, Tokyo and New York where he was awarded the Career Excellence prize in 2003, Babetto decided to embark on exploring transversal design
fields, such as furnishings and vases, where he challenges himself and the materials, making for creative tension. “I like to explore different disciplines
so I don’t get stuck in a rut,” he says passionately. “And I also like to think that whatever I make, regardless of the type, it is on the same level, and should be conceived with the same purpose. I can’t help but explore unknown worlds
ENGLISH VERSION and territories.” This tireless curiosity has prompted him to design tables and furnishings, but also to introduce unusual materials into his jewellery, such as ebony and resin, daringly combining them with gemstones in the firm conviction that they look good. And he is right. Art, architecture and jewellery all come together with Babetto who, as Germano Celant poetically puts it, “aspires to repair the rift between spirit and matter, bringing male and female, natural and artificial, past and present, together in the purifying vortex of gold.”
THE STUFF OF DREAMS Paolo Coretti I have come across artists who mystified their work and only spoke about it reluctantly, or incomprehensibly, and would then withdraw in their cave-like existences, looking bare and dishevelled. I have met others who were confused and desperate, who seemed to have descended, through no fault of their own, into the midst of the chaos of their studios. Then there were others who were arrogant and full of themselves, strutting around in their opulent houses and incapable of explaining anything about their art even to a casual passer-by. Giulio Candussio is unlike any of them. He doesn’t fall into any of the – alas abundant - categories of artists who are part supermen, part victims of their own smallness. His studio and home in Spilimbergo bear this out, instantly revealing tidily-kept materials and tools arranged on light wooden shelves. As does his precise approach to composition, the crisp light (physical and mental), the transparency in his almost scientific approach, devoid of secrets or deceit, bequeathed by old-fashioned straight-talking and profound sincerity. It is thanks to his profoundly sincere manner that Candussio avoids slipping into the creative delirium of so many artists. His introspective self-analysis is assiduous and no-holds-barred, and tirelessly investigates the reasons behind his artistic sensitivity, igniting a fire that continues to burn bright and fuelling the combustion process that brings his thoughts to life. In rediscovering motives firmly rooted in his cultural baggage and of vital importance for his development, he has also unearthed his essence as a mountain man who spent a happy childhood in places where nature expresses itself – for the most part – in lengthy silences. A man who has experienced harsh, tortuous uphill paths, seen the craggy riverbed and tall forests and, fascinated by all these things, has developed the ability to reflect and dig deep when it comes to understanding nature and its forms. A man who has, as a result, been able to appreciate the struggle of the uphill climb, and convince himself that it is the right way to reach clearer skies; someone who has caressed the stones tumbling in the rivers and rediscovered that they contain the fragments of a mountain which abandoned them while still sharp, and which impetuous water has since smoothed down. Or indeed a man who understands the life released by the forest, which grows in the trees, houses and animals, and gives work to men who live in places where the forest thins out. Given the circumstances, it is easy to understand how Candussio’s works are closely linked to the course his life has taken, of which they are the conscious remainder. Like an autobiography guided by the things he has seen and the emotions he has felt. He uses wood, which he understands down to its very last fibre, sculpting handpicked pieces with the care of his forebears, whom he likes to call mountain artisans, to build forms and landscapes which belong to the panorama that lives on in his memory. To a lesser extent he makes houses, slopes, streams and trees, lots of trees, on top of which are bundles of twisted, beaten, forged wires that seem to have been shaken and bend by the wind. In the language of Friuli, the word wind is simply called aiar, air, just like the one we breath. In the same way, he reveals a deep-seated understanding of the barbaric, incandescent strength of iron, the restless and at times deceptive transparency of glass, and the seemingly insurmountable hardness of stone. But it is with mosaic that he proves his expressive talent to best effect. With this discipline, the language of which he uses with a special approach, he manages to piece together a system that portrays nature, and figures that have remained
impressed on the backs of his eyes and which, with each passing day, acquire new vigour. This complex system of signs and colours, which are opposite or complementary, are never static, and constantly vibrate, like grass when it is brushed by the wind, like leaves in the forest, like clouds that accumulate before breaking apart, like water in streams which changes colour from one stone to the next, like fire. It is with this almost divisionist way of seeing things (never left to chance) that Candussio tackles the mosaic, designing its patterns and the dynamics of its parts first, before turning them into textures of signs and colours. These are made of stones, glass paste and enamels, all broken up and juxtaposed in a succession of coloured effects so appealing that the observer becomes convinced the mosaic is not just on the surface, a skin, but that it is above all living, breathing flesh, just as the memories are alive and kicking, along with the nightmares and the dreams that inspire the mosaic.
ARCHITECTURE OF THE SOUL Marina Jonna Giuseppe Rivadossi is a sculptor and craftsman who started working with wood as a young man, imbuing his production with his poetic vision of the home. Made entirely by hand and with exquisite mastery, his furnishings feature bas-relief carvings and the greatest respect for the materials, highlighting their natural characteristics. This results in furnishings that are indoor sculptures in their own right, as well as Habito, which represents completely customised interiors reflecting the style and personality of those living in them. He is a poet in his line of work, as he likes to define himself, because his furniture tells the story of an ongoing quest to establish a bond with our innermost essence, achieved through an image, creativity and sensitivity. “I always start with an observation that comes to me spontaneously: our environment speaks reams about our knowledge, our culture, our honesty and what we feel,” says Giuseppe Rivadossi. “If we worked with an awareness of life and of the beauty of Nature and Creation, everything would have poetic meaning. It would be the revival of a language connected to life itself.” A rediscovery not just of the concept of beauty, but of the very essence of work. “Unfortunately, we are living in terrible circumstances, where work is solely dictated by market forces: it’s humiliating for man, because it forces the individual to toil in a meaningless manner,” Giuseppe explains simply and clearly. He goes on: “Technological progress offers incredible potential, but we are using it very badly, only for business. And this goes against human nature. Everything we do has a story to tell. But if the only thing it says is ‘out-smart everyone else’ and conquer the market, we are only going to end up causing our own downfall. What I want is to make welcoming environments with a palpable sense of recognition and beauty.” So it’s all about finding a way to work with the purpose of reconciling oneself with nature. “This is the spirit with which we work, and we have rediscovered techniques that showcase the material, the structure and the pleasure of living in a situation where everything is made with a sense of respect and harmony: that is where our work starts,” stresses Giuseppe Rivadossi. “This is the vision we want to promote at a time when what’s actually prevailing is organisations driven by the market, or by their ability to dominate. Work should be creative. Today we are in a phase of mechanisation: it can be interesting, but it’s overwhelming man and annihilating him. And that’s not a good thing.” “There is no humanity. In a big factory, you don’t even know why you’re working and who you’re doing it for.” His son, Emanuele Rivadossi continues: “Raimon Panikkar once wrote that work should help man play a part in the dynamism of the Universe. Otherwise, what kind of work is it? What purpose does it serve? Nowadays I think we should all have this desire, and interpret it in our way.” Namely by putting your heart and soul into your work, as Osho once said: “Regardless of what you create, it does not matter whether you paint, sculpt, whether you are a gardener, a shoemaker or a carpenter. What matters is asking yourself: am I putting my very soul into what I am creating?” This is precisely the difference with the furnishings leaving the Rivadossi “atelier”:
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ENGLISH VERSION they convey feelings and values, and create empathy with people. They express a world in which the connection with nature is conveyed though the design, the material and the spirit of the person making it. Honest, real, with painstaking workmanship expressed in every detail. An example of this is the Del Ponto sideboard, which conveys all the artist’s skill. It is made of a monolithic block using wood with a vertical grain, hollowed by hand on both sides using a scalpel. Even the bolts are purposely designed and made using burnished steel. “Working with wood means going back to our roots,” explains Emanuele Rivadossi. “Today we are surrounded by materials trying to be something else, like plastic which imitates wood or stone. It is a deceitful culture, which makes man accustomed to being suspicious of whatever he looks at. We aim to suggest our integrity and coherence: that is why we work with ‘archetypal’ raw materials such as wood, metal and stone. We do it in keeping with their nature, aiming to enhance the material in question and stimulate its primary vibrations.” But how does Giuseppe Rivadossi, called the wood poet by some, the man who Vittorio Sgarbi claims to be “potentially one of the greatest architects of the century”, define himself? “Just an honest craftsman.”
RUNNING IN THE FAMILY Giulia Crivelli “We all know how 2020 went. It put everyone under serious strain, from so many different points of view, and we don’t know what the short-term future holds in store. All of us, people, companies, even countries, were unprepared for the storm that hit us. But losing my father in a year like that meant crossing my own personal storm within the larger one. Somehow I pulled through, and that has made me stronger. Of course I feel tired: but my passion for my work, which I inherited from my father, Pino Grasso, and which I have never stopped cultivating, helps me. And I hope that our company and my family will find their way out of this storm with greater awareness of their worth, if not stronger than ever before.” This is how Raffaella Grasso sums up the period we have just been through and which we are still dealing with, underscoring the continuity she tries to preserve in the business her father built up over many years of work, and what she imagines for the future, now that she is at the helm of the Milanbased artisan business. The atelier was established in 1967, when Pino Grasso, who had discovered a fascination for embroidery at the age of 27, decided to open his business in Milan. He had already notched up a wealth of experiences and life choices. “There was a time when my father’s destiny seemed very different. After school he enrolled in medicine, and for a year he attended the lessons,” Raffaella remembers. “I think the fascination for those who can cure illnesses and relieve pain stayed with him his whole life, but after a year he realised he would never be a good doctor, that he wouldn’t be able to withstand exposure to physical pain and injured bodies. So he accepted the offer from a friend who had an embroidery laboratory, and he began to practice and study it between Italy and Paris.” In June 2020, Pino Grasso passed away. Raffaella took over the running of the atelier, as well as the responsibility for the creative side. “I think this pandemic has forced us all to look at the essence of things, in life and at work. So I have no hesitation in saying our atelier is like a big family: we have around 20 direct employees and 6 others working at home. Regardless of the subsidies we have received from the State, we have tried to encourage each other and keep working and coming up with ideas even during the pandemic. In 2020 we lost around 50% of our turnover, and needless to say, we were very worried about the future. But we have the same weapons we’ve always had at our disposal: a passion for our work, and the knowledge of our uniqueness and the knowhow handed down from one person to the next through the decades.” Since the beginning, the clients of Pino Grasso’s atelier have been top-flight designers and fashion houses: the founder was friends with Valentino Garavani his whole life, and he also worked with him. The same goes for the leading lights of Italian and French fashion, from the 1960s to the present day. Given that artisans speak a language which is even more unique and unusual than that of designers, Pino Grasso soon made friends with his French competitor,
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François Lesage, the owner of what remains one of the world’s most famous embroidery ateliers, even now that it belongs to Chanel. “We work with all the big brands. Plenty of things have changed over the past twenty years. My father knew it, and needless to say I can confirm it. It wasn’t just the birth of the two big luxury groups, LVMH and Kering: it was the different approach to distribution and communication, which were upended by the digital revolution. But perhaps the pervasive nature of technology is actually good news for manual work and fine craftsmanship. Our creative knowledge and skill cannot be taught to a computer, nor indeed can they be guided by an algorithm or a new form of artificial intelligence. The only skilled hands are those of man himself. Or rather of women, as is almost always the case in our line of work. That is why I want to be optimistic: if we can leave the medical and economic emergency caused by this pandemic behind us, ateliers like ours will still be unique.” It is no chance that, prior to the arrival of Covid, Raffaella and her father received many requests from young people to take part in training courses and begin the (long) process of learning the art of embroidery. Which calls for creativity, but also discipline, patience and the knowledge of having to alternate repetitive phases with more original ones. “I still believe that doing this work is a privilege, and that focusing on the skilful use of the hands is an emotional and even economic lifesaver during times of crisis.” A final message from Raffaella Grasso, which her father Pino – an exceptional craftsman, and one of the first winners of Fondazione Cologni’s MAM-Master of Arts and Crafts award – would no doubt endorse.
THE SECRET OF PERFECTION Virginia Villa In luthiery, the combination of form and function, of innovation and tradition, calls for analysis, comprehension and mediation on a daily basis. The line connecting the present day with history passes through the Master Craftsperson’s creative gesture: an arcane technique, a project that time has handed down to us with veneration, can inspire new beauty. The tangible know-how that safeguards this expertise brings ideality and reality together in one artwork. In this way, the unique legacy left by the genius of Stradivari, Amati and Guarneri is shared with awareness. Marcello Villa has been making violins, violas and cellos in Cremona for forty years. The workshop he shares with his brother Vittorio, a violinist and luthier, is housed in a Renaissance building in the city centre. The premises are orderly, with tools hanging on the walls and workbenches like those used by carpenters. Small piles of wood give off a pleasant scent, which blends with that of the resins used for varnishes. Old prints hang on the walls with 18th-century paintings, designs of decorations and old scores. Everything expresses music and art, with a leaning towards the Baroque. Marcello Villa became a master luthier out of passion. From an early age he would listen to his brother playing, and he was drawn to that first violin, which he could not even touch, as it was a loan. He then went on to play violin himself. His passion was consolidated by his studies, feeding his curiosity, and his determination turned his dreams into plans. After middle school in Monza, where he was born, he decided to attend Cremona’s International Violinmaking School, in spite of the fact that it meant leaving his family. So it was that, aged just thirteen, he went to stay with an uncle who was a priest of the Congregation of Barnabite Fathers, in the convent next to the ancient church of San Luca, just a stone’s throw from the former School premises. He was practically adopted by the brothers and grew up in the convent, dividing his time between his studies and work. Under the guidance of past masters such as Stefano Conia and Giorgio Scolari, first at school and later in their workshops, Marcello Villa continued his training combining violin making and musical studies. He played with several orchestras and frequented musicians from all over the world, in order to hone his skills and develop his own personal research into the different qualities of sound. His work conveys the strong sense of time-honoured tradition in Cremona’s luthiery, acquired by studying the great masterpieces of Amati, Guarneri and above all Stradivari,
ENGLISH VERSION whose drawings, models and tools he was able to admire. Nowadays, that unique heritage is on show at Cremona’s Violin Museum, and is placed at the disposal of master violin makers as a source of guidance and inspiration for their creations. Marcello’s luthiery has well-grounded roots, but is constantly nurtured by daily experience, by his studies in woodworking such as carving and intarsia. Over the years they have led him to develop expertise in building particular instruments inspired by the models of the famous decorated and inlaid Stradivari, considered the crowning glory of the world’s greatest-ever violinmaker. His human relationships, encounters and friendships also have a positive effect, stimulating his growth inside and outside his work. A meeting with Mr and Mrs Axelrod, collectors who own some of the most beautiful and rarest inlaid Stradivari, laid the groundwork for a constant relationship with these masterpieces thanks to the commission they placed for an entire quartet replicating the original in possession of the family. Those same instruments are now on display at the Violin Museum, bearing witness to the Axelrods’ patronage and Marcello Villa’s skilled craftsmanship, along with a video allowing visitors to see all the phases involved in making them: the gestures might not reveal the secrets, but their mastery, knowledge, creativity and patience are fascinating. In 2016, Fondazione Cologni awarded Marcello Villa the title of Master of Arts and Crafts (MAM): along with many other awards and prizes received in his many years of work, it highlights his commitment as a leading exponent of Fine Italian Craftsmanship. His is thus “a life spent creating beautiful, well-made items each day” as Franco Cologni, chairman of the eponymous Foundation, likes to say in describing “our Masters”.
MATTER AND CREATIVITY Patrizia Sanvitale A large courtyard and an oak woods typical of the kind found in the local moorland lead us into Giordano Viganò’s cabinetmaking workshop at Novedrate, in the heart of Brianza. The large, bright premises house technical equipment alongside traditional carpentry workbenches, which Viganò personally cares for: “At the end of the year, I sand them one by one and polish them with wax,” he explains proudly. “They are more than fifty years old but, as you see, they look new: no one can believe how old they really are.” An outstanding cabinetmaker and a daring, inspired experimenter, he is curious and an obstinate perfectionist with an exceptional sense of aesthetics. For over half a century, Giordano Viganò has been working with extraordinary skill and painstaking attention to detail, using wood of the highest quality and other precious materials. In so doing, he not only places his skilled hands at the service of his own designs, but also those of architects and designers of international standing, interpreting their ideas to superb effect. The result sees ebony chessboards with inlay work in sophisticated materials, refined coffee tables, elegant clutch bags in wood and exquisite leather, and prized wood and leather desk sets with bone detailing. Viganò’s big breakthrough came in 1976, when he first started working with architect Gianfranco Frattini, a star of Italian design since the 1950s. “It was a real turning point for my work, and as a result I had to take on complex projects, under the guidance of a demanding professional. Working with him was always stimulating.” Do you still find it stimulating to work with today’s designers and artists? “They know less about wood, about its limits and its characteristics. But they are never short of curiosity, and they are fascinated by manual work.” What about private clients? What do they ask for? “To give you an example, some time ago I made a display cabinet for a collection of pre-Columbian terracotta figures. I drew on museum showcases for inspiration and the result was an all-new, original project. In any case, regardless of who the customer is, every partnership has to be founded on the same principles of clarity, transparency, reliability and competence.” Which pieces are you proudest of? “The Tempietto di complice pigrizia, a swing chair that was a metaphor for leisure and playing in the open air. I made it in 1990 for the “Abitare il Tempo” fair at Verona. Then there was the Tavolo Bisanzio in palm wood, with a large top comprising a mosaic of more than
2,000 tiles: it took a great deal of time and patience to work with such unusual wood. Together with the Tabula Aurea chessboard, Tavolo Bisanzio is one of the pieces I’m proudest of.” How does one go about achieving excellence in this type of project? “Generally speaking I start off with a sketch to set down an idea, which I then perfect with a technical drawing – drawn by hand on the drafting machine – where I plan sizes, proportions and details. I then make a scale drawing and, if necessary, I produce a sample of the product on a 1:1 scale, using ordinary materials, to check its proportions. Or even just certain parts, to test the joints and see how they hold up. It’s a long process: it takes time and patience to make things skilfully.” You mentioned palm wood. How do you go about choosing the materials? “At times it’s the material itself that brings to mind a particular form or function. I develop an idea, which gradually takes shape: from a simple sketch it eventually turns into a finished object. This is how I make furniture, tables, accessories, objects, frames and trays. Other times I have to meet a specific need for a design. Generally speaking, anything around me that simulates my imagination can provide inspiration.” Your profession has roots that are lost in the mists of time. How do you manage to combine tradition with innovation? “The latest carpentry technologies have been living alongside traditional techniques for some time now. Innovation makes the craftsman’s art more competitive and up-to-date. I use both, although it’s impossible to calculate just how many machines and tools I’ve had made to my own specifications to carry out manual tasks.” During his long career as a cabinetmaker, Giordano Viganò has won topflight awards, including the recent Master of Arts and Crafts, by appointment of the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. “The award came out of the blue in 2016, and I feel truly honoured by it. I’m also grateful to the Foundation for the exceptional work it does to showcase Fine Craftsmanship and train young people: they have to understand that the challenge lies in bringing the production process up to date (using digital technologies), as well as in the appearance and at times even practical aspects of a product. Of course, there are professional schools, but there’s no doubting the fact that training happens in the field. Above and beyond talent, it takes humility to learn, curiosity to research and dedication to persevere. You have to take a gamble, and to do so modestly and willingly. You have to observe and try your hand in each of the phases involved in honing your skills and acquiring competence.” And do you have any rising stars in your workshop? “I view the work of the craftsman as a personal calling. At times it has no direct heirs, but it can still fascinate and inspire youngsters through the beauty and sense of freedom it creates.”
PAINTINGS CAST IN STONE Neri Torrigiani Over 24,000 enthusiasts a year flock to Renzo Scarpelli’s atelier in via Ricasoli, Florence; a mere stone’s throw from the San Marco Gardens where, in the late 15th century, Lorenzo the Magnificent opened Europe’s first Art Academy, in which young talents – including a very young Michelangelo – were able to study the works and artistic techniques of the Medici collections. Indeed, Renzo Scarpelli’s face brings to mind Michelangelo’s sculptures. More than any other, he is now the world’s leading commesso fiorentino (Florentine mosaic) craftsman. This exquisite artform involves assembling marble and multicoloured stones in artistic forms. To this day, he still seeks out his materials with son Leonardo and grandson Diego in Florence’s hills and riverbeds using his little hammer. Because the first step towards becoming a good teacher – and perhaps even a living treasure, as indeed he is – lies in recognising stones that can be “cut into slices” measuring 2/3 mm in thickness. This is achieved using diamond blades (literally pulverising up to 35% of the raw material, with very little waste which is then disposed of in accordance with strict waste disposal regulations). These blades expose their secrets, inspiring compositions: the artist’s skill lies in managing to create a “stone painting” with the natural colours of the materials, perhaps even allowing the hues to inspire the compositions themselves. The traditional “bow” saw in cherry,
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ENGLISH VERSION hazelnut or chestnut wood is still used to cut the individual tiles (or fragments). It must be left to tighten for 5 or 6 years before it can be used. The combined effect of the abrasive powder with water and ordinary wire makes for a highprecision, angled cut. A winner of the Master of Arts and Crafts award and exhibitor at “Artigianato e Palazzo” in Giardino Corsini no less than four times, Renzo Scarpelli started out life as an apprentice in the atelier of master craftsman Fiaschi. The latter also packed him off to painting school, because if you don’t know how to draw, you can only copy the past. When he restored the premises that now house his workshop, Renzo decided to leave his workbenches on display, so that everyone could see how a stone can be turned into a painting. The process involves wetting the slabs of stone to reveal all the incredible shades of colour, and sticking the mosaic tiles down with the same glue which now binds the whole family together. Because it is not only his wife Gabriella who works in the atelier, but both his children run it, too: Leonardo – whose very DNA is probably a mosaic! – and Catia, who manages sales and marketing for their business. Work in the atelier is clearly divided, and balanced to suit the qualities of each person. Renzo and Leonardo imagine, paint and “stain” each artwork, which will then be made by the skilled hands of Stefano, Pier Paolo and Filippo, soon to be joined by a seventh young member, waiting to be trained. The macchiatura, or staining process, is pivotal to ensuring the technique is successful. This is when the subjects are drawn, and the stones and colours chosen for the first “brushstrokes”. At times, the craftsmen draw straight onto the stone, creating a perfect puzzle, and perhaps in the process the original idea is altered… at other times, losing a single pebble can result in the entire workshop being turned upside down! The perfection of the mosaics is the cornerstone of the Florentine ateliers. The secret lies in seeing works inside out, and from behind: they are assembled on the reverse (using beeswax and Greek pitch during the production process, followed by mastic to render them indestructible). In just a few cases, the pieces are mounted on clay or crystal. They are then finished with dozens of increasingly fine abrasive phases, right down to the last stages with wet jute and a final polish with a smidgen of beeswax. Some works look like delicate watercolours, whilst others resemble expressionist xylographies inspired by Renaissance compositions. Others still are created by the artist, who draws on real themes or places, or imagined designs. Some even reproduce the postcards tourists send home with greetings from Florence. The realist themes and the Macchiaioli technique are no doubt flawless – because, after all the “stain” is like a stone! But unfortunately, work on tabletops and large pieces has all but ground to a halt. A “contemporary collection” created exclusively by Leonardo has also been added. It showcases abstract pieces and stunning macro reproductions of crystals found in the same stones used to create them. Scarpelli has a vast and international clientele composed largely of foreigners, particularly Americans, who love Tuscany. And buying (or ordering) an artwork made using the commesso fiorentino mosaic technique perhaps makes them feel like heirs of the Medici Grand Dukes. The works always bear the “Scarpelli” hallmark in sealing wax – in some exceptional cases the signature is in stone itself, hidden within the composition. The back carries the number of pieces of which the artwork is composed, and the number of hours taken to make it. Having said that, the price of a piece by Scarpelli is never calculated with a coefficient alone, for it is a treasure, conceived by the hands of another (living) treasure.
BETWEEN POETRY AND LEGEND Ugo La Pietra Everyone is familiar with the great ceramic tradition that developed in the Lodi area, and which has left a trail of testimonies in Lodi’s beautiful museum. But of the many experiences, only one new voice has made itself heard as a renewed form of that tradition: that of Tonino Negri. Negri is a universally acknowledged master craftsman, a fact borne out by
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his participation in many international exhibitions, together with his objects and sculptures displayed to the public. As a result, the area of Lodi (Tonino was born there in 1961) has, in recent years, been enriched by his works and his now-famous studio-workshop. Tonino Negri is a maker who represents the traits of the artist and artisan to best effect. He has often proven his ability to work beyond the confines of this discipline. He is a creative craftsman who, unlike many other talented artisan-artists, adds a decisive and distinguishing touch to his work, in the form of his own poetry. Earth, water, fire and air are the principal elements inspiring his works. Some hark back to archaic forms (such as the works which Negri defines terra crea, meaning “earth creates”) or which tell the story of characters from ancient legends, such as the Mater Matuta of Greco-Roman mythology. This very feature sets Negri’s work apart from that of other artists: his ability to express himself in contemporary ceramic using the symbols of the most archaic cultures. His travels and his curiosity have allowed him to develop a collective image of works charged with a delicate lyricism and shot through with subtle irony, with traits of actual nostalgia for the animal and plant world. Female water-carriers, woman-vases and arks, not to mention turtles, fish, whales and owls… his fantastical world interacts with the shapes of the vessels and vases of traditional popular ceramics. But his world has also left behind the types and barriers of traditional craftsmanship. Instead, it has entered the sphere that characterises the rare figures of Masters, revealed not only by his original language, but also by his exceptional skill. He turns out works in semi-refractory clay and engobe, in stoneware and glaze, in semi-refractory clay and glazes … then there are his delicate and now iconic terracotta figures: all his, and only his. The materials, glazes, surfaces and colours all reveal his skill when it comes to this ancient artform. His workshop yields pieces with a poetry that makes them recognisable, as does their belonging to our contemporary day and age. It is also a symbol and a benchmark of the great maker culture, which is very much alive and kicking in society today. Tonino Negri is a Master because he has constructed his personal and imaginary universe, which stimulates our imagination. Thanks to this universe, we still feel the bond with a creative legacy that continues to raise Italy’s profile on the international contemporary crafts scene.
THE ENCHANTMENT OF THE MOONSTONE Maria Pilar Lebole Florence’s varied applied arts scene is home to the treasure chest of the most famous scagliola artist and collector of contemporary history. His atelier in Pontassieve, just outside Florence, is now run by siblings Alessandro and Elisabetta Bianchi. They have skilfully acquired the tricks of the trade from their father Bianco in the “illusory” crafting of the moonstone. Born in 1920, towards the end of the 1940s, Bianco Bianchi left his steady desk job with the Ministry of Defence to pursue his dream of crafting scagliola. It was a dream prompted by his admiration of the masterpieces produced by Father Enrico Hugford, now housed in the Museum of the Opificio delle Pietre Dure. Over the course of a decade, Bianchi embarked on a quest to find the best formula for turning the scagliola paste into refined artistic forms to decorate tabletops and panels. The son of writer Giuseppe Prezzolini first noticed his skill and artistic talent, and helped him become an instant hit when he promoted his works in America. From that point onwards, the clerk-come-craftsman decided to dedicate his life to scagliola. He began making new objects, restoring antique pieces and acquiring what was to become the most important collection. “His scagliolas so skilfully and honestly represent human figures and animals as well as rich stories and views of buildings and the countryside that his pictures have become fashionable not so much in Tuscany as among the most important foreigners, who seek them out, and who have already taken a great number to the most cultured provinces of Europe.” In the mid-18th century, this was how renowned Florentine academic Giovanni Targioni Tozzetti described the craftsmanship of Father Enrico Hugford, the Vallombrosa monk
ENGLISH VERSION of English origins who moved to the Medici Court in Florence in the late 17th century. He broadened the horizons of the scagliola technique, proposing it as an original form of painting. He crafted landscapes, scenes and portraits with overlapping brushstrokes before polishing them until they appeared to be covered with glass. His works proved highly successful abroad, too, particularly in England thanks to his brother Ignazio, a painter and art collector who introduced him to the international market. The stories of Hugford and Bianchi are steeped with experimentation and interest in the same passion. The technique uses transparent flakes of selenite (from selene, which in Greek means moon), commonly known as “moonstone” and once used as a replacement for glass, so polished and crystalline was its structure. It is quarried in the Apennines of Modena. Its first technical applications as a fake marble for frames, gravestones and altars proved successful in Carpi, and in Val d’Intelvi, in the province of Como, and later in the Marche, in Tuscany and particularly in late 18th-century Florence, which became a hothouse for the largest number of works of exceptional artistic value. The mixture of selenite, ground and combined with glue and natural pigments, gave rise to the stucco technique used to make imitation marble and semiprecious stones with inexpensive materials. After tracing the drawing by hand and finishing it with watercolours, the dusting defines the contours in the scagliola sheet before they are hollowed out. This space is then ready to receive the mixture of ground selenite powder and talcum, glue water and coloured pigments. Once the colour has dried, the surface is buffed with very fine-grain pumice, using a circular movement, until it becomes perfectly smooth. This is the fine crafting technique used by Alessandro and Elisabetta to make items in an antique style, using the same artistic approach they learned from their father. They bring contemporary innovation to their pieces, and embark on joint ventures with architects, decorators and designers to furnish the homes of the Prince of Wales, the Duke of Kent and the Sultan of Brunei with tabletops adorned with ribbons and flowers, or shells and porphyry in a Neoclassical style. They also produced the renowned Medusa Table for fashion designer Gianni Versace. The art of the Bianchi siblings has proven successful on the contemporary design market with their modular and stackable Pinfold trays and Quid, a set of seats, coffee tables and base elements displayed at the Milan Furniture Fair and Singapore’s MAD Museum, or their paste-colour poufs yielded by the formal research of creative designer Sara Ricciardi. Not to mention the more recent marble and scagliola table named Nirvana, featuring a central mandala inlaid with 167 chips of bright, see-through scagliola, presented to mark the first edition of the Starhotels Award for the “La Grande Bellezza” project. With the same passion master craftsman Alessandro is now passing his know-how on to his twenty-five-year-old son Leonardo, the third generation in the atelier. Together with other outstanding artisans, father and son took part in the three-day Haute Couture event entitled “Il Rinascimento e la Rinascita” (the Renaissance and the Rebirth), which fashion designers Dolce&Gabbana staged in September 2020 to pay homage to Florence with a stunning event right in the midst of the crisis triggered by the pandemic.
BAROQUE INSPIRATIONS Andrea Tomasi Rome in the mid-1960s: the cultural ferment, the libertarian afflatus, the bohemian lifestyle that for many youngsters was the answer to their parents’ conservatism, were all meeting in Piazza Navona. This is where the Capital’s artists came together to map out a glorious new future: their number includes a twenty-year-old Architecture undergraduate, who preferred painting to Statics, and liked to dream big. “They were amazing years full of creativity and curiosity,” Diego Percossi Papi recalls now, with the wistful air of someone who experienced it first-hand. “I have my parents to thank. They introduced me to art and culture. When I was eight, my mother used to give me books by Dostoevsky and Tolstoy, or Russian fairy tales illustrated by Ivan Bilibin. She’d drag me off round museums or to restoration courses. Sometimes I got bored, but it would all prove to be crucial for my professional development.” As indeed was the encounter with high school art teacher Turi Spadaro:
he was the one who introduced Percossi Papi to the universe of metals, which would become his expressive medium. “He allowed me to use his studio to experiment: I taught myself from scratch how to handle metals and enamels, and I particularly focused on sculpture. I used poor metals that weren’t just affordable but also easy to handle, because I had no idea what I was doing, I just picked things up as I went along.” It was only natural that he should start working with jewellery. “At a certain point, after several exhibitions around the world, I realised I didn’t want to be an artist managed by galleries, always being scrutinised by art critics and a slave to tastes and trends. The relationship with customers visiting my atelier in Sant’Eustachio prompted me to choose jewellery. I was fascinated by the idea of creating artwork you could wear and enjoy in day-to-day life, rather than just static objects you put on a sideboard and admire from time to time. I started using precious and semi-precious gemstones, cameos and miniatures. I honed enamel and cloisonné techniques, again teaching myself by studying antique books, and observing Roman, Etruscan, Renaissance and Baroque jewellery in museums or portrayed in paintings. As a child I would always lose myself listening to ancient myths on the radio, so I felt as if every piece of antique jewellery were telling its story, leaving an imprint inside me. Then there was the architecture of churches, buildings and monuments, which my studies allowed me to interpret better. All those incredible facades, crammed with scrolls and decorative motifs. The Rome of Bernini and Borromini guided my hands, and in fact it still does to this day.” Percossi Papi’s jewellery soon began to appear in films and magazines. The Sant’Eustachio workshop became a crossroads for customers and loyal followers. It was here in 1989 that a delegation of Russians headed by Mikhail Gorbachev, the then Secretary General of the Soviet Communist Party on a state visit, came in. “They were looking for Italian artists to work with others in Russia. A few weeks later I found myself on a plane to St Petersburg, which back then was Leningrad, and home to Russkie Samotsvety, a jewellery manufacture founded by the Tsars. Before getting down to work I asked to have a couple of days to myself to roam the city and capture its spirit. I visited Leningrad, its museums, its palaces and streets, then I got down to drawing. I can still recall the directors of the manufacture watching me sketch in silence, interrupted only by the chief designer exclaiming “Absolutely Russian!” with a satisfied voice. It was the start of a long, fruitful venture. I have always thought that when two cultures meet, a third one is born. When I refer to worlds that are not my own, I’m not trying to copy them: I just observe them through my own lens. The designs are the product of my imagination, my dream of that culture. Before leaving, they gave me a book about Bilibin, the same fairy-tale illustrator from my childhood. It was like a flash of inspiration, and in that moment I realised where my love of enamels and colour came from.” The starting point for each Percossi Papi creation is indeed colour. “Colour is exciting, it clothes us in different hues. After that come form and function. When I’m making a new piece of jewellery, I know I need to strike the balance between three elements: the expectations and desires of the person who has ordered it, my own creative vision, and respect for the materials, whether they are metal or stone. Of the former, the one I like best is without doubt copper, which has all the characteristics of gold but is more flexible. I have my personal leader board of stones: jade, used since the dawn of time, comes top. Then there’s opal, rubies, agate and sapphire.” The fusion of these elements results in unique jewellery, which harks back to fragments of a beautiful Rome. “It is the message I try to convey each day to my children Valeria and Giuliano, who now work with me and my wife Maria Teresa: there is no fruit without roots, and my own roots are firmly intertwined with those of this city.”
CHRIST STOPPED IN NAPLES Rosa Alba Impronta Ulderico Pinfildi is a leading nativity artist. His fully-fledged sculptures are made in keeping with 18th-century tenets, the golden age of Neapolitan nativity scenes. He works with knowledge and respect for tradition, but there
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ENGLISH VERSION is also a contemporary touch to his ancient art: his figures express a universal message that goes beyond portrayal. The enthralling journey of discovery into this craftsman’s work instantly reveals Ulderico’s technical skill, respect for tradition, his ongoing studies and an immense passion, which have led him on a tireless quest for perfection. His father was a master majolica craftsman. In his workshop on the Vomero, he turned out ceramic fountains that adorned the palaces of Naples. But he also made hands, heads and feet of shepherds for the nativity scene artisans in via San Gregorio Armeno. This studio, the beating heart of family life, is where Ulderico grew up and learned the trade. The fourth of eight children, he would start modelling, painting and sculpting as soon as he had finished his homework after school. He didn’t immediately dedicate himself to nativity art, but instead graduated in aeronautical construction and became an amateur pilot. Only later did he return to modelling shepherds. At first only occasionally, making them for other nativity scene artisans. But he later realised it was his calling, dedicating himself completely to “his” shepherds. In 1986, he opened the first workshop, before going on to open the present-day atelier in via San Biagio dei Librai, right in the heart of old Naples, where he moved six years ago. The city of Naples has the largest historical centre of any city in Europe, and was declared a UNESCO World Heritage site in 1995. It embraces 27 centuries of history, and has preserved an incredible stratification which – starting from the ancient Greek street layout – is revealed in the city’s awe-inspiring wealth of art, monuments and culture. It was in the centre of Naples that master nativity artisans first staged the birth of Christ, setting it amongst the city’s alleyways and bringing it to life with all the characters typically found in traditional Neapolitan lore, from noblemen to farmers and tarantella dancers... Pinfildi’s work loyally sticks to the rulebook. The hands and feet of the shepherds must be made of wood, the body of wire and tow fabric, the head of terracotta carved entirely by hand, with glass eyes. The garments of the richer figures are made of embroidered silk, of cotton and linen for the humbler ones. The painstaking attention to detail and the incredibly expressive faces are truly striking. For the shepherds’ faces, Pinfildi draws on 18th-century tradition, taken from 17th- and 18th-century paintings. Caravaggio is his most intense, important source of inspiration. This is how, in keeping with the idea that the characters from Merisi’s paintings are nativity scene figures and that the Neapolitan nativity scene stems directly from Caravaggio’s artwork, he created the crib dedicated to the great artist: Da sette opere di Caravaggio (From seven works by Caravaggio), donated to the Pio Monte della Misericordia and still on display there to this day. The work, which is a departure from all stereotypes, is inspired by seven feted works by Caravaggio himself: St Joseph portrayed in Rest on the flight into Egypt, the Virgin with the child from the Madonna of the Pilgrims, the boy from the Boy with a basket of fruit, whilst the nose-diving angel, so typical of Caravaggio, is a reference to the painting stolen in Palermo during the 1960s, never to be found again. Caravaggio himself could not be left out from this nativity: Ulderico used The martyrdom of St Matthew for his inspiration. We have described just how loyal Pinfildi’s work is to 18th-century nativity techniques. Yet he adds a contemporary style of his own, which transcends classic representation: each work has a title that conveys the message which the shepherds bring. In the nativity entitled La nascita della Speranza (The Birth of Hope) we see how two spirits, tradition and contemporariness, live alongside one another to wonderful effect. The classical layout of the nativity scene has been completely overhauled: the Sacred Family is not presenting the baby to the world, but instead displays its mercy for a desperate mankind represented by the beggar who, in a foetal position, holds a hopeful hand out to the Sacred Family. Ulderico’s sculpting skills, honed by his anatomy studies, are clearly apparent in this figure, in which the perfection of the human body, with beautifully modelled, taut muscles, stands out. The group of shepherds entitled Le tre età dell’uomo (The Three Ages of Man), dedicated to his father Alfredo, is a work he is particularly fond of: here, too, the characters represent the three moments of humanity, and at the same time the handing-down of the craft from father
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to son, expressed through the circular looks they exchange. Ulderico Pinfildi is an artist of international standing. He has been invited to the most prestigious exhibitions in Miami, Strasburg, Prague, New York, Paris, London and Brussels, Moscow and Washington. His works carry the Neapolitan nativity scene around the world as an exceptional artistic expression of technique and culture, combining tradition and the contemporary.
A VOCATION FOR THE SUBLIME Sofia Catalano As powerful as an amulet and as precious as a treasure plucked from the depths. Coral is an eclectic material that can be turned into a jewel of rare beauty, or indeed a work of art, thanks to the skilled hands of master craftspeople. Masters such as Platimiro Fiorenza: born in Trapani in 1944 and defined the last master coral carver, he is the heir of an artisan tradition spanning a hundred years, which began in his own family in 1921. Appointed Master of Arts and Crafts by Fondazione Cologni in 2018, he has also been entered into the Register of Intangible Cultural Heritage of Sicily, as well as in the list of Living Human Treasures protected by UNESCO. Throughout his career, he has received countless top-flight awards. Whilst these rewards flatter and make him feel proud, they never render this man, who has turned his passion into a profession, highminded. He considers himself lucky. “When I’m in my atelier, I cut myself off from everything,” he explains. “I step into a privileged world, I communicate with the material, I imagine the finished object. Nothing can distract me when I’m in this peaceful place, where I can let my passion be my guide.” A modest man, as indeed only those who need prove nothing can be, Platimiro is soft-spoken. When talking about himself, he never mentions the words patience, dedication, hard work, persistence or humility. They might be essential for his work, but Platimiro has always taken them as read. “From the age of six, I used to go and watch my father in his workshop. I studied and admired how his hands moved, but what fascinated me more than anything else were his stories: myths and legends that remained impressed in my mind, and their echoes then turned my curiosity into a passion.” In the mind of the young Platimiro, the Greek myth of Perseus killing the Medusa to free Andromeda was a revelation: the blood from the decapitated head touches the seaweed, turning it into precious scarlet coral. It is an episode depicted by Giorgio Vasari in his painting The Birth of Coral in 1570: one of the many paintings where the red gold is portrayed as a symbol of strength, vitality, life and protection. It is no coincidence that in many other paintings, particularly from the 15th century, a coral necklace or a branch of the priceless material are placed around the neck of baby Jesus, representing the blood that Christ sacrificed for mankind. A symbol we find in the works of Masaccio, Antonello and Jacobello da Messina, and Piero della Francesca, not to mention the Pala della Vittoria altarpiece by Andrea Mantegna (1496), in which a large branch of coral representing victory hangs over the head of the Madonna. The Blessed Virgin is also the subject of the most prestigious of Fiorenza’s works: the Madonna of Trapani in gold and coral, commissioned by the city’s Bishop in 1993 and currently on display in the Vatican Museums. It packs in all the elements that constitute the background of a master coral craftsman: drawing, chiselling, setting and embossing. All part of the essential training for those wishing to go into what has become a rare profession. “Many young people have come to my workshop,” Fiorenza stresses, “but too late, when they no longer have the purity, the curiosity, the passion you need to learn the trade. They’re demotivated and want everything on a plate. I believe this kind of craftsmanship should be taught in middle school by skilled craftspeople who can fascinate pupils and get them involved, like my father did with me.” The situation is worsened by sea pollution, excessive amounts of plastic on the seabeds and climate change: coral’s habitat is at risk. “In the past, too, the seabeds were wrecked by senseless fishing techniques, like dragnets. Rules were introduced later, but nowadays we need stricter regulations to prevent this extraordinary treasure from being polluted with micro-particles of plastic or other substances.”
ENGLISH VERSION This immense, irreversible damage would deprive us of a “creature” that interprets a symbolism dating back thousands of years, and the finest artistic items, ranging from sacred objects to pieces of jewellery or even bags. And this is the next challenge which Platimiro Fiorenza’s jewellery atelier, Rosso Corallo, is taking on, in conjunction with Maison Fendi: a baguette diamond adorned with corals. One icon on top of another: the past and future of master craftsmanship.
WHERE DOES MASTERY BEGIN? Andrea Sinigaglia “You’ve just got to hear this! You’re not going to believe it! Amazing!” Bursting into ALMA and the lives of anyone there for work, study or sheer chance, Gualtiero Marchesi would often come out with phrases like this. Then he would read us the latest quote to catch his eye. It could be from an artist, a philosopher, an author from ancient times, or a comedian. Everything stopped as Marchesi, who had already jotted it down in his notebook of quotations, read it aloud for all to hear. Looking up, his expression would brighten as he said: “It’s brilliant, isn’t it?!” Us bystanders were dragged along in the wake of his enthusiasm, torn from our tasks in the process. We would goggle at him in astonishment, partly because until moments before our attention had been focused on something altogether different, and partly at the thrill of suddenly finding ourselves face to face with Marchesi himself, without actually having the time to absorb the fact he was standing there. Sometimes we were trying to work out what he had just said, but more often than not we were just pondering the “grip” the quote had had on our dean. “Do you get it?” he’d continue. And we would nod half-unwittingly… we could hardly have said no. Where does mastery begin? This is what I would like to briefly address with a handful of snippets in this article dedicated to Gualtiero Marchesi, the father of modern Italian cuisine. The man who made history in Italian food, rendering it polished, refined and readable. The man who applied logic and method to a heritage scattered the length and breadth of Italy’s “boot”, and which until he came along, had no order, no overview. “Improvisation requires knowledge of the topic” – this was one of his favourites, in fact he often repeated this phrase of Hungarian composer Béla Bartók, and while saying it, his deep gaze would be challenging you on one of his firmest convictions: that in the kitchen, as with any other profession, there are executors and interpreters, and then there are those who can allow themselves the luxury of improvising and being creative. But they are very few and far between, and they always do so discreetly, with the benefit of extensive experience. I must have heard him repeat that phrase hundreds of times, sometimes in front of our students, in masterclasses, which often began with provocations like that: quotes, aphorisms… the great thing is he used to read them as if for the first time, even though he knew them by heart. But for Marchesi, knowing something by heart did not mean you were in full possession of it; it didn’t even graze the essence, the cutting edge of the word. He would read those words, literally hurling them, like a cocksure David brandishing a catapult against a somewhat ignorant Goliath. He threw them at those he was speaking to and from there, from that crack he made in the formality by which education is often dogged, he would start to weave and unravel the thread of his experience. His encounters, his reasons why, his teachers. A master telling you about his mentors, as if he were explaining that there is no other way to grow but to follow in the footsteps of someone greater than you. While he follows his own path, if you’ve managed to grasp the fact that this is something valuable, the most valuable of all, you follow him. The purest outcome of all, and one that goes beyond all pre-conditions. As Pasolini once said, “If someone has taught you, they have done so first and foremost with what they are, not what they say”. This is something pupils often fail to grasp when they look at their teacher; it is as though, at the end of the educational process, one is surprised to discover the unbridled freedom of a person who has embraced the rules to the point
that he no longer needs to stick to them. He lives out his belief and offers it to anyone capable of understanding it. There is neither merit nor measurement. No affectedness, no testing, no structure even. There is a thirst for knowledge, and the currency of the occurrence. That is just how he was. Free and certain of his ability to live alongside the familiar object of his learning. This familiarity allowed the power of his knowledge to take a qualitative leap, enabling him to explore other worlds he could link to food. Where does mastery begin? We like to think, as Gualtiero often said, that it begins with curiosity, the highly personal curiosity of an individual who notices microscopic details, gets excited, puts them into a broader telescopic scenario, realises they are universal and develops a method that can even become a style. Without ever neglecting to fan the flame of a curiosity that might be taken for granted, but is actually a blessing sent from heaven. Three years after his passing, there are many things we miss about him. Basically, what we miss most of all is his presence, always distinguished and impeccable, but at the same time unpredictable. At times his sly presence was shot through with a touch of snobbery, but it was nonetheless truly unique. Walking around the school, when he met the pupils, their youth would fill him with energy. He established a connection with them. There might have been a big age gap, and at times the dialogue missed the mark. But even just by taking a selfie with them, he could create an empathic relationship. Even though he often liked to say “I understand modernity, as much as my tradition allows me to” (to be honest, I don’t remember who he was quoting), his was the fresh approach of a man who constantly discovers things, but above all else re-discovers them. All against a tongue-in-cheek backdrop, with this distinctly Milanese self-deprecation, which made him seem lighthearted. That same lightness which Calvino discussed in his studium, in the old sense of the word, linked to the passion and love for the object of knowledge. On the subject of Italianness, which makes us see comedy as the best means of striking a balance between gratitude and complexity whilst keeping them alive, at the end of a lesson in which we had read a great number of quotes, seeing that the lesson had been a bit heavy-going, he opened up his notebook and, in anticipation of a smile, said: “One last thing, folks. People who read too many quotes clearly have a problem with sex… Woody Allen. It’s brilliant, isn’t it?!”
THE SUSTAINABLE VALUE OF TRANSMISSION Anne-Sophie Duroyon-Chavanne In 1994, the French Ministry of Culture drafted its Dispositif Maîtres d’art – Élèves, for the purpose of safeguarding rare and endangered skills. For over 25 years now, these regulations have mapped professionals of the métiers d’art strongly engaged in carrying out their technique and its applications, but whose crafts are no longer taught. The appointed artisans are awarded the title of Maître d’art. This public accolade, awarded for life, involves a duty of transmission which is its very definition. Once appointed, Maîtres d’art undertake to reveal the secrets of their trade to an Élève (apprentice). The atelier, the tools, the network, the business itself – often a small artisan enterprise – are placed at the service of transmission. For this reason, the Ministry of Culture gives each Maître d’art a grant for the entire duration of the programme, namely three years. This support is essential, but has proven insufficient over time. For this reason, since 2012, l’Institut National des Métiers d’Art (INMA) has been charged with the task of renewing the programme and bringing it up to date. Its teams have conceived an original means of allowing the Dispositif Maîtres d’art – Élèves to achieve its main goals in full, namely to ensure that the confidential knowledge and advanced techniques can be passed on from one individual to another seamlessly, but also to foster the development of new professional and creative identities. The Élèves of the Maîtres d’art are the future virtuosos and entrepreneurs of artistic craftsmanship, and as such they deserve all our attention. The ambition of the INMA is to open up new perspectives, and give them access to all the resources which can help them achieve success.
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ENGLISH VERSION The Dispositif Maîtres d’art – Élèves handles transmission of knowledge within the atelier, but its sphere of action is in actual fact far greater, and adapts itself to the specific nature of each form of savoir-faire, as well as individual circumstances. It undertakes initiatives that encourage professional encounter, exchange, emulation, research and the acquisition of complementary skills by students. Nowadays, Maîtres d’art and Élèves are accompanied with a “tailormade” process thanks to the support of the Bettencourt Schueller Foundation, which has been the chief patron of the programme since 2016. Since 1994, 141 Maîtres d’art have been nominated. They operate throughout France, and represent more than a hundred specialities: from heliography to plumasserie (the art of working with feathers), straw marquetry, carving typographic punches, relevage-repoussage des métaux (the art of artistic metalwork), passementerie, organ-making, producing glass for architecture, goldsmiths and silversmiths... Céline Bonnot-Diconne, a leather restorer, Manuel Soirat, a gemstone cutter, Christine Leclercq, a costume designer, Judith Kraft, a luthier who specialises in antique instruments and Hubert Haberbusch, who restores period vehicles: all share the title of Maître d’art. But above all else, they share unusual values and human qualities, which have led them to do everything they can to pass their knowledge on, with greater concern for the future of their savoir-faire and their Élèves than their own posterity. In this respect they are an example for our society. The devotion and perseverance of the apprentices is without doubt repayment for their dedication. Becoming Maîtres d’art calls for courage, because combining the best of tradition with the need to reinvent oneself is a particularly demanding, complex challenge. The next call for the Dispositif Maîtres d’art – Élèves from 1 January 2023 will open in Autumn 2021 (www.institut-metiersdart.org/metiers-art/maitres-eleves and www.maitredart.fr) The INMA will become l’Agence française des métiers d’art et du patrimoine vivant in 2021.
HANDS TO BE TREASURED Franco Cologni Every child dreams of discovering a hidden treasure, perhaps after tackling hidden perils: the invaluable contents of the treasure chest combine with the satisfaction of deciphering maps, climbing mountains, sailing across the seas and breaking secret codes, demonstrating intelligence and the ability to look beyond the evidence to something deeper. Discovering a “Living Treasure”, a great craftsperson, gives the same feeling and involves the same work, or almost: one might not need face stormy tropical seas, but it is necessary to fend against post-modern indifference, the obstacles of bureaucracy and a tendency towards homologation, which lumps the pieces yielded by master craftspeople together with less valuable, soulless products. This magazine has helped us unveil some of these living treasures, allowing us to remember that talent and mastery are the altitudes we must aim at in order to turn ordinary elements into truly exquisite, significant objects. But it has also enabled us to understand that behind the definitions we hold dear, such as Master Craftsperson, lie real, exemplary, significant stories. Those who work to evaluate, observe, recognise, promote, protect and support outstanding master craftsmanship face a difficult but necessary task, whether in Japan, France or Europe, or from one end to the other of our own wonderful Italy. From France’s INMA to Japan’s Association of Living National Treasures, including of course Milan’s Fondazione Cologni and the Michelangelo Foundation of Geneva, the acknowledgement of “treasures” of artistic craftsmanship is underpinned by a daily, ethical commitment to use suitable means of evaluation. These should fit the world of cultural assets and businesses alike, because an evaluation is positive or negative if it yields, or fails to yield, the incentivising effect it was designed for in the first place. Incentivising: one of the purposes of this tireless work to identify and protect the “Living Treasures” of master craftsmanship is in fact the chance to offer
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inspiration, or indeed an incentive, to those who aim at, but have yet to reach, the status of Master. The various interpretations of the title of “Master” go hand in hand with the hybrid nature of master craftsmanship itself. For it is tied to the world of cultural production and intangible heritage, but also closely linked to market forces and production, even if only on a niche level. This is borne out by the title of “MAM – Master of Arts and Crafts”, which we award every two years to selected artisans based in workshops, ateliers or businesses: hands worth as much as a treasure, because they combine their skill with passion and the emotive intelligence of the heart. It is our hope that this celebration of the “Living Treasures”, this serene, objective evaluation, will always afford a positive incentive to maintain, improve or rediscover the outstanding craftsmanship that underpins Italy’s finest products, and the daily output of beauty that the whole world associates with Italy and the crafting culture.