Enigma Pasolini di Angela Molteni

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Sommario Introduzione, di Roberto Chiesi, p. 4 Prefazione. Il delitto Pasolini e il suo contesto, di Enrico Campofreda, p. 5 Il caso Mattei, un film di Francesco Rosi, p. 11 Un magistrato e la sua inchiesta coraggiosa, p. 14 Petrolio: un romanzo da rileggere, p. 16 Petrolio: recensioni e saggi critici, p. 23 Quattro opere: un realistico “ritratto italiano”, p. 26 Insulti al poeta degli “scandali annunciati”, p. 30 Pasolini fa alcuni nomi, p. 37 La Commissione stragi del 1994, p. 41 Le fonti di Petrolio, p. 43 “Chi tocca Mattei muore”. Con una digressione su dietrologie e complotti, p. 52 Petrolio nella relazione Calia, p. 67 Sviste d'autore. Pagine bianche. “Lampi sull'ENI”, p. 70 Delitto Pasolini: un enigma da sciogliere, p. 80 Pelosi trent'anni dopo: una nuova verità?, p. 88 Un crimine con "amici", p. 91 Sondare il passato per comprendere il presente, p. 94 Illustrazioni fuori testo Fotogrammi dal film Pasolini, un delitto italiano, di Marco Tullio Giordana (1995), p. 101 Documenti, p. 105 Ritratti, p. 109 Cinque postille Mattei e Cefis: sintesi e breve cronologia dell'ENI, p. 112 Pier Paolo Pasolini, Perché il processo, p. 114 La strategia della tensione, p. 117 “Capitalismo, neocapitalismo, globalizzazione”, da Quasi un testamento, di Pier Paolo Pasolini, p. 119 Dall'arringa dell'avvocato di parte civile Guido Calvi al processo per l'assassinio di Pier Paolo Pasolini (1976) , p. 121 Note, p. 134

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La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi Pier Paolo Pasolini

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Introduzione di Roberto Chiesi

Sono ormai molti anni che Angela Molteni si è dedicata anima e corpo a divulgare il pensiero e l'opera di Pier Paolo Pasolini curando un sito internet, pasolini.net, che è il più consultato esistente. È uno sconfinato, eterogeneo vivaio di notizie, interventi, saggi, articoli, estratti, citazioni, animato con dedizione assoluta, passione e sincerità. La passione e la sincerità che si ritrovano anche in queste pagine, nate da un sentimento che accomuna tutti coloro che ammirano l'arte e la personalità di Pasolini: lo sgomento e l'impossibilità di rassegnarsi passivamente al buco nero rappresentato dalla sua morte atroce e mai chiarita fino in fondo nelle sue dinamiche concrete, nella sua verità ultima. Personalmente ho molti dubbi sulle teorie che, per spiegare una morte così terrificante e assurda, ipotizzano vertiginosi complotti politici e costruiscono romanzi gialli talvolta non privi di odiosi risvolti equivoci. Ma credo anche che la realtà di quell'assassinio non possa avere un'unica chiave, una spiegazione univoca. Questo anche perché, come la Molteni illustra in queste pagine, raccogliendo notizie e referti su alcuni “pozzi neri” della recente storia italiana, l'omicidio di Pasolini è accaduto nel cuore dei tragici anni Settanta, che dobbiamo ancora tradurre per comprendere fino in fondo l'orrore di quella omologazione finale, apparentemente pacifica, forse irreversibile, diventata la nostra realtà quotidiana.

Roberto Chiesi Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna

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Prefazione di Enrico Campofreda Il delitto Pasolini e il suo contesto

Se, come chiosano Lo Bianco e Rizza *, il cuore del pasoliniano Petrolio sta tutto “nella denuncia della ramificazione criminale del potere economico in Italia” va ricordato come quel modo d'incarnarlo perpetuava ed esasperava vizi e illegalità del sistema fatti propri anche da Enrico Mattei, il Bonocore del canovaccio pasoliniano. Quest'uomo sparigliando equilibri economici nazionali e internazionali finì vittima di strutture di dominio più solide di quelle che stava costruendo per l'ENI e per sé, strutture che non digerivano affatto la sua lesa maestà. Ma Mattei era assetato di potere personale? Pare lo fosse, alla stregua di chiunque prenda alloggio nelle stanze dei bottoni. Fresco di conflitto mondiale e operazioni di partigianato Mattei non disdegnava i colpi di mano e iniziò a usare ogni strumento per conseguire i propri fini. Fu dipinto come ribelle e autoritario, certamente fu un uomo acuto e scaltro nel ritagliarsi un ruolo e imporre nuove regole ai padroni mondiali dell'oro nero. Se non riuscì a proseguire l'uso spregiudicato del potere, che lo faceva gran corruttore della politica utilizzando i partiti che “si pagano come le corse dei taxi”, probabilmente fu solo perché il suo aereo venne trasformato nella 'palla di fuoco' apparsa nel cielo di Bascapè nell'ottobre del 1962. Incidente così descritto da un unico testimone che presto con denaro sonante venne dissuaso dal riconfermare quella versione. Dava fastidio l'ingegner Mattei e venne eliminato tanto che molti anni dopo Amintore Fanfani, che d'autoritarismo e doppiogiochismo se ne intendeva, ammise come quell'attentato poteva considerarsi il primo gesto terroristico del Belpaese. L'autoritarismo fatto sistema di potere soffoca presto i begl'ideali della Liberazione che riscattano gli anni della dittatura fascista. E poi c'erano partigiani e partigiani, il Johnny di Fenoglio pur badogliano era ben altra cosa da Pacciardi e Cefis. Per decenni, fra Guerra Fredda e lavori sporchi di strutture quali Gladio che supportano ingerenze statunitensi, la vita politica italiana viaggia sul terreno della “legalità illegale”. Uomini come il Cefis-Troya romanzato in Petrolio incarnano un volto di quei progetti che all'inizio degli anni Settanta sostituiscono i tentativi di golpe palese, alla greca

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con militari e carri armati, con un più morbido golpe bianco che, dopo aver creato i presupposti per un totale controllo dell'economia, asserviva l'informazione. La coppia Scalfari e Turani nel librodossier del 1974 Razza padrona **, una delle rare inchieste giornalistiche di denuncia, ne narra le conseguenze. Qui riportiamo solo qualche passo invitando chi ci legge ad approcciare l'intero libro. “C'era perfetta intesa fra Fanfani e Cefis. Il quale ultimo, di suo, ci aggiungeva il fatto che, avendo ormai puntato tutte le carte del suo gioco su una Montedison privata e “privatistica” aspirava a riprendere quella tradizionale leadership dell'imprenditorato che il gruppo di Foro Bonaparte aveva avuto in tutto il periodo tra il 1946 e il 1963. Qualora l'operazione fosse riuscita, i vantaggi politici per Cefis sarebbero stati notevolissimi…” (p. 422). “In quelle condizioni, mentre tutti gli imprenditori sia pubblici che privati tiravano i remi in barca e cercavano di diminuire gli impegni (nel frattempo la Banca d'Italia aveva contingentato il credito e imposto regole di crescente austerità bancaria), la Montedison produsse una di quelle operazioni-lampo per le quali Cefis rimane un insuperato campione: nel giro di pochi mesi, anzi di poche settimane, profittando della generale incertezza s'impadronì della stampa italiana. I modi coi quali l'operazione fu condotta sono degni d'essere ricordati. La passività delle forze politiche, anzi la generale connivenza, testimoniano, se mai ce ne fosse stato bisogno, del grado di decomposizione cui era arrivato il sistema…” (p. 434). “Con l'acquisto del “Corriere della sera” il piano di conquista della stampa si conclude. Nel frattempo infatti la Montedison era anche entrata in possesso, coi consueti prestanome in questo caso domiciliati all'estero, della maggioranza azionaria del quotidiano parafascista “Il Tempo”… A questo punto il quadro della scuderia giornalistica del presidente della Montedison è il seguente. A Torino la “Gazzetta del Popolo” dopo essere servita a spaventare Agnelli, è stata abbandonata e non si sa che fine farà. A Milano il “Corriere” è al 100 per cento di proprietà di Rizzoli il quale l'ha comprato utilizzando un finanziamento senza interesse fornitogli dalle banche della Montedison… A Milano, tramite Caprotti, la Montedison controlla il “Tempo illustrato”. Sempre la Montedison controlla “Il Giornale”… La situazione di Roma è stata già descritta. I due grossi quotidiani di Bologna (“Resto del Carlino”) e di Firenze (“La Nazione”) sono di proprietà di Attilio Monti e con essi il “Giornale d'Italia” di Roma. Anche di Monti sono noti gli intimi legami con Foro Bonaparte…” (p. 452) In quella fase a sinistra, mentre il riformismo d'impronta socialista è ormai annacquato da oltre un decennio di governo e sottogoverno, il disegno riformista del Pci viene piegato alle improduttive alchimie del compromesso storico, e tramonta l'irreale sogno “rivoluzionario” dei gruppi extraparlamentari e di quelli armati. Ciò

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che resta negli anni Ottanta e Novanta punterà a spartire fette di potere locale e nazionale o riproporre avvilenti autoreferenzialità. Pasolini, finché è lasciato in vita, racconta e denuncia tali fenomeni. È costretto a prendere atto delle trasformazioni antropologiche degli italiani, delle belle bandiere lasciate cadere, dell'evaporazione di quella ruralità trovata vent'anni prima nelle borgate romane. Ormai gli amati sottoproletari sono diventati biechi strumenti dell'omologazione che compera corpi e anime. Senza ideologia né passione ogni cosa tende a diventare eguale, si rincorre individualisticamente l'arricchimento, qualche ex ragazzo di vita di Donna Olimpia finisce a far gruppo con gli egoismi criminali della banda della Magliana funzionali solo al sistema. Le disillusioni del poeta sono squillanti proprio in alcuni passi di Petrolio sui “miseri cittadini presi nell'orbita dell'angoscia...” (p. 501) eguali al qualunquismo merceologico che ha amalgamato l'universo giovanile narcotizzato da modelli preconfezionati. Quanto l'edonismo fine a se stesso sia una conseguenza di quello che è stato uno sviluppo malato, portatore non d'un progresso sostenuto da valori, ma d'una folle corsa consumistica divenuta identità sociale, è da tempo sotto gli occhi di tutti. L'enorme diffusione del parassitismo e del clientelismo cresciuti a dismisura, diventano il frutto degenere di trasformazioni forzate in un'economia vissuta non come naturale passaggio dal sistema rurale a quello industriale bensì come squilibrata imposizione che abbandona a sé la campagna per sostenere un boom industriale dal fiato corto. Boom che si consuma in tempo breve per annullarsi (e annullare le capacità produttive del Paese) a vantaggio d'un terziario mellifluo, inefficiente e dedito a sprechi. Scrivono ancora Scalfari e Turani in Razza padrona: “… i gruppi parassitari, gli impieghi improduttivi del reddito, le rendite, lo stato inefficiente e ladro, la classe politica incolta e provinciale” (p. 415). Nei famosi articoli su un “Corriere della sera” non ancora cefisizzato – che il borghese illuminato Ottone gli pubblica e continua ad accettare anche quando le mani della Montedison finiscono su via Solferino – Pasolini attacca il Palazzo degli intrighi e delle ipocrisie in cui alloggiano potentati cattolici e laici, alleati palesi (i liberali di Malagodi e i socialisti di De Martino) oppure occulti come i missini di Nencioni. E ancora il Vaticano affarista di Marcinkus e gli uomini di Cosa Nostra dentro e fuori partiti e istituzioni. Mentre la maggioranza dei “cervelli” intellettuali italici, banchettando su quei deschi, assiste silenziosa o canta le lodi del sistema. Nelle stragi grandi e piccine con cui si governa, che vengono commissionate ai manovali del crimine politici e non, ci possono stare anche esecuzioni affidate a inaffidabili. L'“anarchico” Bertoli, bombarolo alla Questura di Milano, è un omicida arruffone più che un agente dei Servizi. In tanti casi il Palazzo non è così ineffabile come ama apparire. Perciò non c'è da meravigliarsi se i massacratori di Pasolini siano

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balordi di periferia come i conoscenti di Pelosi. I fratelli Borsellino, frequentatori d'una marginale sede missina nei pressi di Casalbruciato, sono fascisti di poco conto se paragonati a Giuseppucci e Abbruciati prossimi al giro degli stragisti Fioravanti e Carminati. Se i killer furono scelti fra costoro senza che si utilizzassero armi, tutto ciò aveva lo scopo di rendere verosimile l'omicidio fra omosessuali. Se invece si trattò di una sorta di Armata Brancaleone fuori dal set, lo potrebbe affermare soltanto Pelosi che da gran bugiardo sicuramente trascinerà l'informazione nella tomba. È comunque un particolare secondario per lo sviluppo degli eventi perché della tragica fine del poeta interessa conoscere più i mandanti degli esecutori. E concentrarsi sulle ragioni d'un delitto preparato da tempo dalla campagna d'odio che – come sottolinea nelle sue riflessioni Angela Molteni, curatrice di quel pozzo di note pasoliniane che è pasolini.net – “si manifestava in molti ambienti e non solo da parte dei fascisti”. Una campagna che riuniva perbenismo clerico-fascista e radicalchic anche di vedute “progressiste” e che fece comprendere alle menti assassine come ormai l'intellettuale fosse isolato. E detestato da diversi notabili e da taluna intellighenzia del Pci. Il partito nel quale ancora si riconosceva. Accuse come quella rivoltagli da Maurizio Ferrara sulla presunta arte “estetizzante” nascondevano ben altri rancori per le denunce della fase corsara con cui infliggeva “a fondo” molto più ficcanti del lirismo critico de Alla bandiera rossa (… Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli). Neppure certa extra sinistra amava Pasolini, forse perché era stato il cantore dell'ambiguo sottoproletariato anziché dell'operaiomassa e questo lo rendeva “disorganico” ai crismi del vetero marxismo-leninismo. La sinistra rimase sgomenta per l'orrendo scempio dell'Idroscalo ma da tempo aveva lasciato solo il poeta a condurre battaglie contro un sistema che lui decriptava secondo codici “corsari” – una di queste è appunto l'individuazione del Nuovo fascismo ch'era un tutt'uno con l'antifascismo – tesi incomprensibile al manicheismo dell'ortodossia politica. Così nel tempo si è consumata la mummificazione di Pasolini di cui parla sempre la Molteni ed è apparso il santino conosciuto nelle celebrazioni del trentennale della morte che è stato riproposto da qualche dirigente ex comunista, ormai non più giovane comunista, di cui Pasolini aveva sponsorizzato l'esordio politico. La puntuale denuncia psichica, culturale, di costume sull'uso coercitivo del sesso nei rapporti di potere, che si esalta nelle condizioni d'oppressione e mancanza di libertà, è stata colta solo parzialmente quale metafora e denuncia della realtà. Molti la leggevano unicamente come l'ossessione del diverso la cui sessualità è turbata dalla condizione impostagli fra l'altro dal

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ruolo di uomo pubblico. Per tacere dell'imprinting cattolico della sua formazione. Su questa corda le polemiche di Nello Ajello attorno a “… l'immenso repertorio di sconcezze...” presenti in Petrolio, cui mirabilmente rispondeva il De Melis, seguivano quelle sul più osteggiato dei film pasoliniani Salò o le 120 giornate di Sodoma, contestato anche a sinistra dal conformismo bacchettone e sessuofobico. L'ambientamento storico della trama nel triste periodo della Repubblica Sociale è una metafora della società oppressiva e funge da diretto trait-d'union col mondo contemporaneo dove la familiarità con violenza e sopraffazione rende complici vittime e carnefici. L'identificazione del sesso come rapporto di potere diventa gesto meccanico e parabola di morte. E quel palcoscenico che riflette la faccia d'una società sconvolta e oppressiva ne costituisce una lucidissima ricostruzione. Nell'imbarbarimento dei valori civili che l'Italia edonistica divulgava creando il substrato del qualunquismo ebete e fascistoide che ora ci affligge, la pratica della violenza legata al sesso, di cui lo stesso omicidio dell'intellettuale avrebbe dovuto mostrare il tragico epilogo, segnava all'epoca altri episodi inquietanti. Sono gli stupri politici rivolti ad artisti militanti come Franca Rame e semplici ragazze alla maniera di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Seviziate da fascisti, ispirati nel primo caso da militari di apparati dello Stato (la Divisione Pastrengo del generale Dalla Chiesa), nel secondo aiutati dalle conoscenze di famiglie della Roma bene che offrono protezione ai rampolli dopo i misfatti. Quelle violenze avevano il valore simbolico d'infliggere alle donne in tumulto contro il maschilismo del sistema, oltre alla punizione, una sorta di freno per l'alzata di testa e la voglia di cambiare. Alla stregua delle bombe nelle piazze, si cercava d'incutere terrore a chi metteva di traverso la passionalità della propria esistenza al dipanarsi del disegno dell'“eversione democratica” che prendeva il posto di quella apertamente golpista. Pasolini capiva e denunciava, perciò si ordinava d'ucciderlo. Gli ostacoli a indagini che andassero oltre la montatura del ragazzetto di vita Pelosi sono stati mille e molte denunce giornalistiche, opere e saggi di riflessione l'hanno evidenziato. L'intellettuale non conobbe la P2 di Gelli, che sostituì quella di Cefis-Troya, per il ritiro di quest'ultimo dopo che il padrino Fanfani s'era bruciato col Referendum sul divorzio. Ma il disegno autoritario senza golpe proseguiva con altri attori: Craxi e il Caf e gli epigoni della Seconda Repubblica così eguale alla Prima, i cui nomi il poeta non poteva fare ma che rientravano apertamente nel panorama del “fascismo del fronte antifascista”. Complice (ah, la subordinazione della vittima al carnefice) o muta è stata la sinistra del cedimento e dell'impotenza che ha (parzialmente) perpetuato sopravvivenze individuali favorendo la decomposizione delle organizzazioni politiche e

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praticando l'eutanasia dei ceti operai a nome dei quali per anni ha continuato a parlare. Qualcuno ha detto, e mi perdoni se non lo cito perché rammento l'essenza del concetto e non l'autore, che “per fare un regime non sono necessari colpo di Stato e dittatura, basta la connivenza dell'opposizione”. Questo Cefis-Troya non riuscì ad attuarlo, ma i suoi odierni epigoni sì.

Enrico Campofreda Giornalista e scrittore

* Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza Profondo nero, Chiarelettere 2009, p. 254. ** Eugenio Scalfari, Giuseppe Turani, Razza padrona, Baldini Castoldi Dalai, 1998.

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Il caso Mattei, un film di Francesco Rosi

«La luna... chissà se ci sarà il petrolio anche lì…» è la frase che il regista Francesco Rosi mette in bocca a Enrico Mattei negli ultimi minuti di vita del Presidente dell' ENI, la sera del 27 ottobre 1962 mentre il suo aereo sorvola le campagne pavesi ed è in prossimità dell'aeroporto milanese di Linate sotto una diffusa turbolenza che insieme al destino già per lui predisposto segneranno la sua drammatica scomparsa. Ho rivisto a distanza di oltre trentacinque anni da quando fu realizzato Il caso Mattei, un esempio di film-inchiesta tra i più intelligenti e documentati, secondo soltanto a mio parere a Le mani sulla città dello stesso Rosi. La forza del film consiste, ancora oggi, nel suscitare dibattito sulla morte e sulla vita del “personaggio Mattei”, coinvolgendo l'opinione pubblica su argomenti del tutto insoliti per uno spettacolo, quali l'assetto e il destino economico di un Paese che è il nostro, i fragili equilibri di potere, l'arroganza di governanti, grandi imprenditori, manager d'assalto [*]. Il film di Rosi è del 1972, dieci anni dopo la scomparsa di Mattei e il silenzio imbarazzato che era calato su un personaggio molto discusso: quello di Rosi è un lavoro fatto di interrogativi anche senza risposta, e non indulge mai al ritratto agiografico del capitano d'industria. Cosa quest'ultima, invece, che non ci ha risparmiato la Rai in una sua recente fiction su Mattei. Il film di Rosi si occupa approfonditamente di altri avvenimenti legati alla morte del Presidente dell' ENI: primo fra tutti, quello del rapimento del giornalista Mauro De Mauro – avvenuto a Palermo il 16 settembre 1970 – al quale lo stesso Rosi aveva chiesto di collaborare alla sceneggiatura, incaricandolo di indagare sulla presenza di Mattei in Sicilia. L'aereo del Presidente dell' ENI precipitò infatti quasi al termine del viaggio di ritorno a Milano (la cui partenza dalla Sicilia era stata spostata dall'aeroporto di Gela a quello di Catania), un “misterioso incidente aereo” – tale fu definito al termine dell'inchiesta seguita al disastro aereo di Bascapè e alla morte di Mattei – che in una inchiesta successiva condotta dal Pm Vincenzo Calia della Procura di Pavia tra il 1994 e il 2003 risultò essere di natura dolosa (il Gip pavese Fabio Lambertucci a sua volta, dopo avere esaminato i risultati dell'inchiesta del Pm aveva emesso un decreto di archiviazione che si richiamava alle conclusioni di Calia). Mauro De Mauro, dopo il rapimento, scomparve nel nulla e il suo corpo non fu mai ritrovato. Più volte, in passato e anche recentemente, si è tentato di individuare il luogo in cui si presumeva fosse stato occultato il suo corpo, ma nessuna ricerca ha dato finora esiti positivi. Oltre al film e a una miriade di libri di contenuto critico e di inchiesta pubblicati nel corso degli oltre quarantacinque anni che ci

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separano dal caso Mattei, vi sono poi le conclusioni di una Commissione di inchiesta istituita dal Parlamento italiano e presieduta da Giovanni Pellegrino, e quelle dell'indagine molto approfondita cui ho fatto cenno, promossa nel 1993 dalla Procura di Pavia. Ed è soprattutto quest'ultima che ha sollecitato la mia attenzione, così come quella di altri commentatori che negli ultimi anni hanno espresso ipotesi, raccolto testimonianze, invocato inchieste, scritto libri. La relazione del Pm di Pavia – che ha provato come dicevo l'origine dolosa di quello che fu liquidato come “incidente aereo” dalle inchieste aperte subito dopo la scomparsa di Mattei –, suggerisce di tentare un'analisi più approfondita di ciò che può essere realmente accaduto anche in relazione ad altre vicende collegate alla tragica fine di Enrico Mattei. «Dall'abbattimento di Bascapè parte una nuova storia d'Italia, più succube dell'alleanza atlantica perché mutilata dell'indipendenza energetica ed economica, o comunque della forza finanziaria che le avrebbe assicurato Mattei. La storia delle stragi di Stato parte da più lontano» [1]. Da qualsiasi lato lo si osservi, il delitto Mattei appare come una delle prime e più grandi azioni di depistaggio e disinformazione nella storia della Repubblica. Non a caso si è scritto che con la morte del fondatore dell' ENI mezza Italia continuò a ricattare per decenni l'altra metà. Per il politologo Giorgio Galli la tragedia di Bascapè si colloca “nell'ambito della strategia della tensione e del patto scellerato mafia-politica che avrebbe portato alla fuga dal carcere del boss Luciano Liggio nel 1969, nell'imminenza della strage di Piazza Fontana [2] e nelle fasi della sua preparazione, e spianato la strada all'affermazione dei corleonesi in Cosa Nostra”. La collaborazione di Cosa Nostra al sabotaggio del Morane Saulnier di Mattei sarebbe arrivata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, che risultò vicino a Graziano Verzotto, il segretario regionale della Dc, responsabile delle relazioni esterne dell' ENI nell'Isola e Presidente dell'Ente Minerario Siciliano (Ems). Verzotto può essere considerato il personaggio emblematico di uno Stato che non distingueva e non distingue più tra criminali e persone oneste, dove impera la collusione tra politici e mafiosi (e perfino poliziotti, magistrati, giornalisti risultano invischiati nelle maglie mafiose) e dove si è praticata una guerra tra bande ciniche, spietate, non meno corrotte e sanguinarie della manovalanza fascista, spesso “in giacca e cravatta”, da considerare alla stessa stregua dei rozzi e pressoché analfabeti “picciotti” che materialmente hanno piazzato le bombe e a cui è stata assegnata licenza di uccidere. Eugenio Cefis, manager dell' ENI dal 1957, era già fuori dall'azienda petrolchimica di Stato quando Mattei morì. Italo Mattei riferì che il fratello Enrico aveva scoperto il doppio gioco di Cefis con i servizi americani e lo avrebbe costretto, per questo e per via di certi altri affari – in particolare per essere stato sorpreso mentre rovistava nella cassaforte di Mattei in cui erano conservati documenti riservati –, alle dimissioni dall' ENI. Cefis risultava legato ai

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servizi italiani ed era amico del generale Giovanni Allavena, fedele a De Lorenzo, poi iscritto alla P 2, direttore del Sifar dall'ottobre '62 fino al giugno '65, coinvolto nel tentato golpe del '64; consegnò nel '67 i fascicoli del Sifar a Licio Gelli e fu costretto per questo a lasciare i servizi. Da un'informazione del giudice Casson del 1995, Giovanni Allavena risulterebbe in un elenco di dodici agenti della Cia italiani.

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Un magistrato e la sua inchiesta coraggiosa

Come accennavo, una grande quantità di informazioni è derivata soprattutto dalla inchiesta condotta presso la Procura di Pavia dal Pubblico ministero Calia, e rappresenta uno stimolo di grande rilievo, uno sprone soprattutto a non rassegnarsi mai. Tra i contenuti della sua relazione, Calia cita anche stralci da Petrolio, l'ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, rimasto incompiuto come altre sue opere: la pièce teatrale Bestia da stile e il trattamento per un nuovo film, Porno-theo-kolossal che lo scrittore-regista avrebbe dovuto realizzare con Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli. Pasolini aveva iniziato a scrivere Petrolio nella «Primavera o Estate del 1972» – proprio l'anno in cui fu presentato il film di Francesco Rosi su Mattei – e aveva continuato a lavorarvi fino al giorno in cui è stato assassinato: «Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola “Petrolio” in un articoletto credo dell'Unità, e solo per aver pensato la parola “Petrolio” come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare alla trama di tale libro. In nemmeno un'ora questa “traccia” era pensata e scritta» [3]. Nel progetto di Pasolini l'opera avrebbe dovuto essere considerata come edizione critica di un testo ricavato da molti manoscritti, concordanti e discordanti, legati da un curatore, che doveva colmare con materiale storico le numerose lacune che presenta un libro rimasto palesemente incompiuto, ma nel quale tutto quello che c'è è molto interessante, spesso entusiasmante. Capolavoro narrativo, che per la prima volta intreccia le tecniche del romanzo con quelle del saggio, Petrolio è una sintesi ammirevole di tutte le tematiche pasoliniane, dal racconto di corpi senz'anima ad analisi politico-ideologico-culturali condotte con le caratteristiche di denuncia e di passione già note nell'opera dello scrittore. La rappresentazione che Pasolini offre di alcuni aspetti socio-politici dei suoi tempi, attraverso Petrolio e le storie di un personaggio fondamentale nel romanzo - Carlo, funzionario dell' ENI, ambiguo, sdoppiato, chiuso in una solitudine che gli è necessaria «perché il mondo sia suo» (p. 314) -, è epica e contemporaneamente lirica, perché è sempre lo sguardo del Pasolini poeta che anima le pagine di Petrolio. Lo scrittore Paolo Volponi - scomparso nel 1994 - riferendosi all'ultimo colloquio avuto con Pier Paolo Pasolini, suo grande amico, a sua volta racconta in una intervista del 1976: «Una volta mi ha detto, e lo ripeto cercando nel ricordo le sue parole: “Mah, io adesso, finito Salò, non farò più cinema, almeno per molti anni. Ho scritto apposta l'Abiura della Trilogia della vita, e non farò più cinema. Voglio rimettermi a scrivere. Anzi, ho ricominciato a scrivere. Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S'intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi

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di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi”. Per questo si era rivolto a me, per avere indicazioni e anche materiale, per esempio sulla vita dell'industria, sulle abitudini e sul linguaggio dei mondi chiusi del potere industriale, per avere schemi organizzativi dei processi aziendali». Mi ha positivamente colpito che sia stato un magistrato – avvezzo all'audizione di testimoni oppure ad analizzare oggettivamente fatti e documenti che possano guidarlo nella ricerca di verità e quindi, almeno professionalmente, estraneo ad ambienti letterari che in qualche modo avrebbero potuto essere condizionati e condizionanti – a considerare, appunto in assoluta autonomia, l'ultima opera letteraria di un intellettuale alla stregua di un vero e proprio documento di denuncia da mettere in relazione alle indagini che stava conducendo: «Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva avanzato sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Tali allusioni sono rintracciabili nella frammentaria stesura del suo ultimo lavoro incompiuto […]» [4]. Più avanti riporterò e commenterò per esteso il riferimento a Pasolini nella relazione conclusiva dell'inchiesta del magistrato della Procura pavese.

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Petrolio: un romanzo da rileggere

Incoraggiata anche dalla relazione di Vincenzo Calia, contenuta nelle oltre 400 cartelle degli atti della sua inchiesta, ho avvertito l'esigenza di rileggere Petrolio. È da parte mia una ulteriore rivisitazione del romanzo pasoliniano ma questa volta non l'ho fatto per ripercorrere le vicende di Carlo Valletti, anzi dei due Carlo (il protagonista, infatti, «è scisso in un Carlo di Polis e in un Carlo di Tetis, che poi corrispondono alle due dimensioni in cui vive l'opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell'intimo, del sessuale» – uno sdoppiamento che lo stesso Pasolini adottò anche in La Divina Mimesis) [5]. Questo Carlo, industriale del petrolio, funzionario dell'ENI, «è metà donna e metà uomo, un androgino che condensa in sé il rispettabile borghese, però di vedute aperte, di sinistra, e quella, atroce, dell'essere simbiotico, orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilità di redenzione» [6]. Non l'ho fatto neppure per ripercorrere le avventure argonautiche (che sono argonautiche solo metaforicamente) o i racconti, come Storia di due padri e di due figli o Storia di un volo cosmico (che fanno parte degli appunti di Petrolio dedicati all'Epochè), pagine perfette e godibilissime nella loro compiutezza. Né per rinnovare lo stupore di leggere un accenno inquietante come questo: «La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una 'Visione'» [7]. La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la “visione” l'abbia avuta proprio Pasolini. Il quale – come scrive Carla Benedetti anche se riferendosi ad altro contesto, quello del Pasolini regista di Medea – mette insieme mitico e realistico facendoli convergere «per esprimere la miseria della convenzione realistica nel separare le cose da quello spessore allucinatorio che è la realtà, e che si può cogliere solo per visioni». Il mio intento nel rileggere Petrolio era soprattutto il tentativo – ché non avrei potuto fare altro che tentare umilmente, e in maniera del tutto soggettiva – di individuare i percorsi dello scrittore per narrarci alcune storie, per catturare la nostra attenzione, per stimolare la capacità di comprensione di coloro che avrebbero letto le sue pagine con molta partecipazione e forse anche con qualche sconcerto. Era in fondo il tipo di cammino compiuto dallo stesso Pasolini nella fase creativa del romanzo: «ristabilire la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero». Per azzardarmi a esplorare l'universo creativo pasoliniano era imprescindibile, intanto, che mi ancorassi saldamente alla realtà, così come concepita da Pasolini, seguendo proprio la sua lezione: «Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos'altro che progettare e scrivere il mio ro-

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manzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà […]» [8]. Dunque, avrei dovuto procurarmi, per esempio, i documenti che lo stesso Pasolini stava utilizzando per realizzare alcune parti del suo libro. E ancora: era indispensabile che mi mettessi in grado di padroneggiare anche il minimo riferimento socioculturale e politico, informandomi su fatti per i quali le mie conoscenze fossero carenti per poterli approfondire e analizzare correttamente. Quest'ultimo compito che mi ero autoassegnata era probabilmente il meno arduo, se non altro per motivi di anagrafe che mi hanno visto attraversare numerose stagioni in cui è vissuto lo stesso Pasolini. Periodi durante i quali ho potuto condividere le analisi, le critiche, le polemiche e le denunce che via via egli formulava nei suoi libri e nei suoi interventi giornalistici: dalla presenza di nazisti e fascisti in Italia prima durante e dopo la seconda guerra mondiale, alla Resistenza infine vincente, alla successiva trasformazione del nostro Paese in una democrazia, anche se in essa sono stati fin dall'inizio troppo presenti corpi estranei, corruzioni e intrighi, scandali e prevaricazioni, oltre a consistenti residui del regime fascista appena abbattuto. Tra l'altro, tutti elementi agevolmente verificabili e comunque storicamente indagati. Di Petrolio riporterò in queste pagine alcuni passaggi che ritengo chiarificatori per acquisire anche circostanze da cui occorre prescindere, così come ricorderò alcuni elementi essenziali o controversi dell'iniziativa giudiziaria che seguì la morte del poeta e gli sviluppi successivi, anche quelli riportati dai mezzi di informazione. Tali elementi - per fare un solo esempio, l'indifferenza o la scarsa attendibilità con cui sono state condotte e trattate alcune indagini riferite ai periodi in cui si verificarono i casi Mattei e De Mauro possono far meglio comprendere analoghi comportamenti degli organi inquirenti (e non solo di quelli) nel caso dell'assassinio di Pasolini. Ciò che mi prefiggo è proprio ricordare, prima di tutto a me stessa, alcune circostanze che concorrano a individuare i motivi e le modalità del vero e proprio massacro che Pasolini ha subito quel 2 novembre 1975 [9]. E soprattutto possano fornire stimoli che consentano di rileggere il più analiticamente possibile non solo Petrolio, ma ciò che riguarda la vita e la morte di Pasolini. Al termine di queste riflessioni vi sono cinque postille, indicate da asterischi nel testo, per un possibile, ulteriore approfondimento. Ringrazio Giovanni Giovannetti. patron di Effigie che, oltre ad avere pubblicato nel suo sito internet (sconfinamenti.splinder.com) l'introvabile libro Questo è Cefis – che, come vedremo, è stato una delle fonti del Petrolio pasoliniano – mi ha fatto pervenire fotocopia del testo della relazione dell'inchiesta condotta da Vincenzo Calia, recuperato presso la Procura della Repubblica di Pavia: oltre quattrocento pagine preziosissime in cui è possibile riscontrare la minu-

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ziosità e la perizia dell'inchiesta del magistrato pavese finalizzata alla ricostruzione della fine di Enrico Mattei; il primo a suggerire una possibile connessione tra i delitti Mattei-De Mauro-Pasolini. Alcune pubblicazioni e articoli apparsi su quotidiani e periodici negli ultimi anni avevano già fatto cenno alle indagini di Vincenzo Calia e ai suoi riferimenti anche a Pasolini e al suo Petrolio. Ma la lettura della sua relazione dà la misura della minuziosità con cui il magistrato ha lavorato e non può lasciare indifferenti coloro che come me hanno sempre prestato attenzione prioritariamente alle opere letterarie e cinematografiche di Pasolini senza tuttavia dimenticare, neppure per un istante, che le modalità e le circostanze angosciose della sua morte costituiscono tuttora un enigma irrisolto. Propongo subito, quasi emblematicamente, due brani tratti da Petrolio che rappresentano una sorta di introduzione al pensiero politico pasoliniano. La prima delle due citazioni dà particolare rilievo al sottile grado di ironia con il quale lo scrittore si rapporta alla spaventosa situazione della società in cui vive. Una ironia spesso amara, osservata di frequente in Pasolini. Mi viene in mente, in particolare, un indimenticabile passaggio del suo film I racconti di Canterbury (1971-72) in cui lo stesso Pasolini impersona Geoffrey Chaucer, lo scrittore e poeta inglese autore di The Canterbury Tales a cui il film si ispira: il sorriso ironico-malizioso di Pasolini/Chaucer sembra proprio accompagnare il brano di Petrolio riprodotto qui di seguito che indaga e descrive il pensiero di Carlo, il personaggio principale di Petrolio, che sta riflettendo sui suoi “appunti-memoriale”: «[…] Avrebbe nominato solo alcuni aspetti o elementi di quel qualcosa di innominabile che era il nuovo Potere reale: avrebbe fatto cioè del nominalismo, magari a carattere e struttura liturgici. Per esempio, a proposito dello sviluppo e del suo rapporto col progresso, chiamato però prudentemente 'sviluppo civile', ecco un brano dei suoi appunti di perfetta osservanza a un 'cursus' di carattere catechistico: […] “Constatati i danni che derivano al paese dalla mancata connessione tra programma di sviluppo civile e programma economico, abbiamo tratto due conclusioni: primo, i partiti che assumono la responsabilità del governo del paese debbono, senza le impazienze dei tempi corti, cercare insieme di definire l'ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un programma di sviluppo civile, il quale deve avere per sommo scopo l'espansione della personalità di ogni cittadino in una società democratica ad alta partecipazione civica e con forti vincoli comunitari, e di conseguenza non può essere un programma a corto respiro. Secondo: in coerenza col programma di sviluppo civile i partiti di governo debbono defi-

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nire il programma economico. Constatate le manchevolezze sinora registrate dalla politica di programmazione economica, ne abbiamo dedotto, che essa oggi, utilizzando tutte le risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane disponibili – e quindi eliminando gli sprechi della inadeguata ricerca, della fuga dei cervelli e di capitali, dell'emigrazione – deve fissare le condizioni per un moderno equilibrato sviluppo...” Dove il lettore è pregato di notare il valore eufemistico degli ablativi assoluti (“Constatati i danni ecc.”, e “Constatate le manchevolezze ecc.”). La dignità linguistica 'ricalcata' con spirito notarile dal latino conferisce alla materia quell'ufficialità che all'esame dei fatti indubbiamente manca loro nel modo più totale. Fuori dall'ablativo assoluto, quei “danni” e quelle “manchevolezze” sono [indubbiamente] criminali; dentro l'ablativo assoluto invece si normalizzano, divengono momenti sia pur deplorevoli di negatività necessaria o inevitabile. L'elemento eufemistico del discorso diventa esplicito nelle espressioni “senza le impazienze dei tempi corti” e “non può essere un programma di corto respiro”. Cioè i fatti criminali possono essere perpetrati ancora. Il lettore è pregato ancora di notare gli 'elenchi', nel più squisito – quasi cantabile – cursus didascalico delle liturgie: “definire l'ispirazione, gli obiettivi, i modi, i tempi di un programma di sviluppo civile”, “tutte le risorse naturali, le capacità tecniche, le energie umane”, e infine “gli sprechi della inadeguata ricerca, della fuga di cervelli e di capitali, dell'emigrazione”: elenchi che hanno il potere liberatorio dell'“Atto di dolore” pronunciato al confessionale, con voce monotona e ufficiale, in quanto che, rendendo nominali i peccati compiuti nel momento 'codificato e ufficiale' del pentimento, li vanifica: e li vanifica, nella fattispecie, attraverso una tecnica mnemonica. Ma soprattutto pregherei il lettore di meditare sulla grande trovata consistente nell'invenzione dell'espressione governativa: “programma di sviluppo civile”, a sostituire l'espressione tipica invece delle sinistre: “progresso”. Qui c'è qualcosa di diabolico. Ossia la fiducia quasi magica nel potere dei nomi, che nasconde: primo, il carattere fascista di uno “sviluppo economico” non includente il “progresso”; secondo, il cambiamento di tale carattere fascista in quanto attuato appunto attraverso uno “sviluppo economico” e non più attraverso la classica violenza conservatrice; terzo, l'abbandono dei valori tradizionali simboleggiati (e non certo solo platonicamente) dalla Chiesa, a vantaggio dell'assunzione di nuovi valori (per esempio l'edonismo derivante dallo “sviluppo economico”) che cambia la realtà del potere da servire. Ma questi concetti nascosti non sono nominati appunto perché lo stile di tale 'esame di coscienza' è perfettamente e unicamente nominalistico!

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[La liturgia continua ancora più] avanti, nel programma stilato nel cuore del nostro democristiano nuovo, che, liberatosi da un fascismo, non intende (a parole | almeno in parte!) cadere in un fascismo nuovo, che è innominabile. Stavolta si tratta di un 'esame di coscienza' esercitato all'interno del proprio essere; un''autocritica' il cui oggetto è il 'parassitismo' che è un problema esclusivamente tipico di chi è al potere: per comodità del lettore traspongo la prosa nel suo reale schema di 'cursus' recitabile secondo il modello dell'omelia, o del “Mistero”: Il fenomeno del parassitismo riguarda tutti coloro che di volta in volta, in cambio di un determinato guadagno ricevono beni o servizi che ne valgono assai meno, o addirittura intascano senza ceder nulla e tutto ciò fanno: o sfruttando particolari posizioni di monopolio o quasi monopoliooooo, o tempi difficiliiiii, o altrui bisogni pressantiiiii o ignoranza dei richiedentiiii, o deficiente sorveglianza dei soprastantiiii, o esecuzioni trasandateeeee, o non rispetto di giorni e di orari di lavorooooo, o pratiche fraudolenteeee... A cui viene irresistibile di aggiungere il suggello, recitato [a gran voce], di un “Aaaamen”, che retrodati definitivamente nella formula del rito o nella [semincoscienza] mnemonica questo (...) “Parassitismo”. Idem più avanti: quando viene il momento di protestare la ferma (ma non precipitosa) volontà di assicurare la continuità del progresso economico, non disgiunto da quello civile: Ma contemporaneamente va attuata una politica anticongiunturale fatta di misure contro l'inflazione, atte a ridurre la domanda non necessaria, le voci di deterioramento della bilancia dei pagamenti, l'esuberanza di mezzi monetari in circolazione, la fuga di capitali, le evasioni fiscali, gli squilibri di bilanci pubblici – e fatta altresì di misure per l'aumento o almeno la conservazione del ritmo di produzione, del livello di occupazione, del volume di esportazioni, con il controllo qualitativo e quantitativo del creditooooo, con misure di incentivazione, con la difesa della domanda proveniente

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da ceti di bassi redditiiiii, con agevolazione alla fornitura di prodotti e di servizi per i mercati esteriiiii... “Aaaaamen”. Il cursus della voce recitante i “Misteri” inclina qui nettamente verso inflessioni di “Ritmi” goliardici, e il sentimento del sacrilegio e del fescennino è incombente. Ad ogni modo, his fretus, ossia col suo memoriale in tasca, (...) Carlo fece la sua ricomparsa ufficiale in società in occasione della Mostra dell'Automobile […]» [10]. La seconda citazione da Petrolio è di carattere prettamente socio-antropologico. Pasolini descrive le sensazioni provate e le riflessioni formulate da Carlo, attore principale nel suo ultimo romanzo, che sta osservando una manifestazione fascista, che dà il titolo all'Appunto 126: «[…] Nessuno aveva mai detto – da parte del potere – la verità: cioè che i nuovi valori erano i valori del superfluo, cosa che rendeva superflue, e dunque disperate, le vite. Dunque, si fingeva di non sapere. Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] erano dei miseri cittadini ormai presi nell'orbita dell'angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società “sviluppata” aveva infilato loro in saccoccia. Erano uomini incerti, grigi, impauriti. Nevrotici. I loro visi erano tirati, storti e pallidi. I giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, [stupida] e feroce, stringeva il cuore. Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena. Il loro destino li chiamava a lavori pagati meno peggio che nei decenni precedenti e a [week-end] un po' più borghesi: quella manifestazione era un diversivo a tutto questo. […] In quelle facce di vecchi italiani imbellettati dal benessere, ciò che non era nevrosi era volgarità: folte sopracciglia nere su occhi bolsi, guance [pallide], grassezze repellenti e aggressive, deretani da bestie da soma. […] Quella massa di gente sciamava per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico, anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [11]. Sulla presenza nel nostro paese dei fascisti, quelli di ieri e quelli di oggi, commentava tempo addietro il giornalista e scrittore Enrico Campofreda:

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«La forza intuitiva dell'intellettuale [Pasolini] sta comunque nell'aver compreso meglio dei politici della Sinistra parlamentare ed extraparlamentare che il Nuovo fascismo andava ben oltre le sigle e le pratiche degli stragisti legati al Msi. Il disegno organico d'un Potere palese e occulto, democristiano e malavitoso e poi cangiante nelle formule politiche (centrosinistra e consociativo; Caf; oggi forzitaliota-postfascista) è tuttora in corso. All'interno di molti partiti non si sviluppa più una linea organica, magari con maggioranza e opposizione, bensì un disegno che coinvolge trasversali affarismi e gestione del Potere. Non è qualunquistico affermare che personalismi e affarismo più o meno celati esistono ormai ovunque e seppure fosse una questione personale nessuna Sinistra s'è liberata delle sue “mele marce”. Nei partiti gli uomini degli “affari” e della gestione occulta del potere hanno la meglio sugli uomini della moralità. È questo il Nuovo fascismo che Pasolini temeva e combatteva e che ha ordinato la sua atroce fine» [12].

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Petrolio: recensioni e saggi critici

Dalla sua pubblicazione nel 1992 – e in alcuni casi ancora prima che il volume fosse in libreria, i contenuti di Petrolio hanno originato polemiche contrastanti tra i vari commentatori che l'hanno recensito o tra scrittori che ne hanno fornito un'analisi all'interno di loro lavori. Vale la pena fare qualche cenno su tali saggi critici. Franco Fortini ne parla in chiusura nel suo Attraverso Pasolini (Einaudi, Torino 1993): «[…] quanto al valore del libro, il suo contributo a intendere che cosa è successo, almeno in Italia, fra il 1960 e il 1980, mi pare molto grande, anzi straordinario e severo e perfino necessario; […] Non so se si possa parlare, per Petrolio, di grandezza se non per la dimensione del progetto e del delirio; ma certo sotto l'apparenza di “vera relazione” di un viaggio autobiografico, il suo disegno è di un sapere enciclopedico e proprio per questo, con tersa intuizione, Pasolini ebbe a capire che il suo proposito richiedeva un “non-stile”». Enzo Siciliano, a sua volta, scrive in Vita di Pasolini (Oscar Mondadori, Milano 2005) un breve “Appunto su Petrolio” (2003) in cui tra l'altro dichiara: «[…] Petrolio è dunque, in circa seicento pagine a stampa, il risultato di un lungo lavoro filologico eseguito sotto la guida di Aurelio Roncaglia, un lavoro che pare abbia reso semplice, nei limiti del possibile, la lettura di un testo tormentato da pentimenti, da rotture, anche da vuoti che restano tali. Nel libro, è la crisi italiana, una crisi culturale oltre che politica, a essere con prepotenza in primo piano – con l'esempio cruciale al centro, dell'attentato probabile che costò la vita a Enrico Mattei presidente dell'ENI. Lo sfondo è la società burocratica di Roma, quella che intreccia i propri affari e ricava sostentamento nei luoghi del potere finanziario e statale. È il “Palazzo” che ci si spalanca davanti, con tutti i nomi e i cognomi di sempre, travolto dalla fantasia pasoliniana e divenuto luogo di non troppo romanzesche infamie. […] C'è una rabbia nuova, che ubriaca i fogli del libro incompiuto – sembra quasi renderlo compiuto, misteriosamente compiuto». Si vedrà più avanti, sull'attentato a Mattei cui accenna Siciliano, come si possa oggi essere in grado grazie all'inchiesta Calia che ha raccolto le prove di definirlo un assassinio avvenuto con un attentato. Su Petrolio, vi fu chi scrisse che «L'incompiutezza si palesa sia sotto l'aspetto quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo, ma il carattere frammentario e non rifinito dei materiali non toglie che in essi possano ravvisarsi elementi preziosi per una migliore conoscenza dello scrittore. L'unica chiave possibile di lettura sta in un rifiuto di senso definitivo, che è forse anche l'elemento che più di ogni altro rende le pagine di Petrolio più valide anche per i nostri

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giorni» (Enrico Gatta, “il Resto del Carlino”, 25 ottobre 1992); oppure che «L'articolata e molteplice produzione letteraria e cinematografica pasoliniana e la sua complessa figura intellettuale, torna a imporsi con la forza dei suoi miti, passioni, contraddizioni vitali, mentre appare sempre più chiara di che lacrime grondi e di che sangue la “modernità” da lui impietosamente criticata con tanta preveggenza. Basterà leggere le rubriche giornalistiche degli anni Sessanta, nelle quali Pasolini inizia quella requisitoria sulle violentazioni e adulterazioni di uno sviluppo senza progresso, che impronterà la stagione corsara degli anni Settanta. Un discorso tra disperata regressione e lucida analisi, che appare comunque oggi come una lunga e inascoltata premonizione» (Gian Carlo Ferretti, “Tempo Medico”, 28 ottobre 1992). Nico Naldini, poeta, scrittore, e cugino di Pasolini, rispose positivamente a una intervista di Daniela Pasti di “Repubblica” (27 ottobre 1992) che gli chiedeva se il romanzo incompiuto di Pasolini avrebbe potuto catturare il gradimento dei lettori, e aggiunse: «[piacerà] non solo per le bellissime parti scritte, che probabilmente sarebbero state riscritte magari molte volte come era nel suo modo di lavorare, ma perché con questo libro ci troviamo dentro il laboratorio dell'autore che nelle sue note intavola un dialogo con il lettore. È come visitare un'officina in piena attività». Alcuni commentatori probabilmente non si posero l'interrogativo di quali fossero i temi realmente centrali, forse perché troppo vasto è il panorama di Petrolio, e ben pochi riuscirono a scorgerne le prospettive spesso disagevoli da analizzare, soprattutto per la frammentarietà che il romanzo presenta: oppure, più probabilmente, perché non li vollero individuare. In molte recensioni furono sottolineati soltanto, o prevalentemente, gli aspetti ritenuti erotici nel romanzo fino a definirne “scandalosi” i contenuti. Aldo Busi (che di fatto dichiarò comunque di non averlo letto; molto probabilmente aveva soltanto preso visione di alcuni stralci considerati scabrosi estrapolati dal romanzo pasoliniano e pubblicati con intenti scandalistici, prima dell'uscita del libro, dall'“Espresso”) scrisse su “Paese Sera” del 2 novembre 1992: «Petrolio è volgaruccio, sembra il tema della zia Pina, io non lo compro. È brutto, illeggibile. Quegli stralci, a chiunque appartengano, aggiornano i tormenti e le viltà di una sessualità borghese tutta intrisa di sociologia». Nello Ajello, editorialista di “la Repubblica” ed ex condirettore de “L'Espresso”, fece di più: «[…] un immenso repertorio di sconcezze d'autore, un'enciclopedia di episodi ero-porno-sado-maso”, una “galleria di situazioni omo ed eterosessuali come soltanto dall'autore di Salò o le 120 giornate di Sodoma ci si può aspettare» [13]. Ad Ajello giunse una pronta risposta dalle pagine de “il manifesto” da parte di Federico De Melis: «Ajello ama a tal punto Pasolini da resistere stoicamente alla tentazione di vendette postume. Perché un motivo ci sarebbe. […] "Ajello", sosteneva nel '74 Pasolini, "dà

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dei fatti letterari il resoconto che potrebbe dare una cameriera entrando e uscendo in salotto per servire il tè e ascoltando i discorsi delle signore […] Ciò che conta sono i successi e gli insuccessi, le simpatie e le antipatie, e soprattutto il non venir mai meno a un certo perbenismo […]. Il disprezzo per coloro che non sanno attenersi a queste regole è in Ajello uguale a quello che i fascisti nutrono per gli ‘esaltati’, per i ‘rossi’. Presunzione di sé e riduzione degli altri, anzi, di tutto, dominano il linguaggio, moscio e livido, di questo disprezzo […]” [14]». «Nonostante il tempo trascorso dall'uscita del romanzo a oggi», scrive Simona Consoni nel suo libro Sul “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini. Saggio di critica letteraria - pubblicato nel 2008 da Prospettiva Editrice - contenente una pregevole analisi linguistica che l'autrice compie sull'ultimo romanzo pasoliniano, si deve comunque prendere atto complessivamente del «povero interesse che la critica letteraria ha posto nei confronti di un'opera così complessa ed al contempo folgorante nella struttura e nel contenuto». Dei circa centocinquanta articoli apparsi su organi di stampa, ben pochi si sono occupati di una vera e propria critica letteraria, di analisi linguistica, di contenuti narrativi la cui attenzione a fatti ed evoluzione politica sono evidenti: molti, a mio parere, si sono rifiutati di comprendere quale fosse l'innovazione radicale che Pasolini offriva in questa sua opera - ancorché frammentaria - a partire dalla sua stessa struttura e dal linguaggio utilizzato. Quantitativi scarsi sono stati anche i rilievi critici apparsi in volume (in termini di analisi strutturale, storiografica, politica, sociologica e linguistica) da quando Petrolio fu pubblicato (1992): su oltre centotrenta libri usciti da allora su Pasolini e le sue opere letterarie e cinematografiche, pochissimi hanno avuto come tema Petrolio: nel 1995 uscì A partire da Petrolio. Pasolini interroga la letteratura, a cura di Carla Benedetti e Maria Antonietta Grignani (Longo, Ravenna), una raccolta di saggi di autori diversi; Enrico Capodaglio ha pubblicato con il Mulino (“Strumenti critici”, 1996) Congetture sugli Appunti di Petrolio; ancora la Benedetti ha scritto Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura (Bollati Boringhieri, Torino 1998); Mario Gelardi ha pubblicato con Guida (2006) Idroscalo 93. Morte di Pier Paolo Pasolini, un libro tratto da una sua opera teatrale ispirata al romanzo pasoliniano e al tragico epilogo della vita dello scrittore; il poeta Gianni D'Elia ha pubblicato con Effigie L'eresia di Pasolini (2005) e Il Petrolio delle stragi: postilla a L'eresia di Pasolini (2006); Simona Consoni il già citato Sul “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini. Saggio di critica letteraria (2008); Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza hanno seguito il filone del giornalismo d'inchiesta pubblicando con Chiarelettere (2009) Profondo nero.

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Quattro opere: un realistico “ritratto italiano”

Una delle prime osservazioni derivate dalla rilettura di Petrolio è che nella sua ultima opera narrativa Pasolini ripropone anche le ragioni che hanno ispirato le numerose denunce, le posizioni politiche e le polemiche dei suoi Scritti corsari e Lettere luterane, a partire da quel “Romanzo delle stragi” – apparso con il titolo “Ma cos'è questo golpe?” nel “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974 – nel quale afferma di conoscere gli autori delle stragi funzionali alla “strategia della tensione”, nonché tutti i personaggi in campo economico e politico che avevano stravolto la fisionomia sociopolitica dell'Italia, colpevoli com'erano del perdurante malgoverno italiano: di conoscere dunque quei nomi, pur non avendo le prove dei loro misfatti, enumerati puntigliosamente e come in un crescendo rossiniano dallo scrittore. Scritti Corsari, Lettere luterane, La Divina Mimesis e Petrolio contengono il miglior ritratto mai realizzato anche della società italiana attuale, nonostante siano stati scritti negli anni '70 del Novecento. Per capire il “Pasolini politico” bisogna considerare queste opere come un corpus unico di scritti politici, poiché nelle intenzioni dell'autore tali lavori rispondono a un fine ben preciso, politico appunto, e sono strutturati per dare continuità al suo messaggio, alle sue critiche impietose, ai suoi attacchi al “Palazzo”. «[…] Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero» […] [15]. Vi è in quest'ultimo articolo anche un accenno al “progetto di romanzo”, che può essere interpretato come un riferimento all'opera narrativa che Pasolini stava scrivendo in quegli anni, Petrolio appunto. Ma l'intreccio tra gli scritti di Pasolini è sempre notevole – così come le sue allusioni – anche in un altro dei suoi brani più noti, “L'articolo delle lucciole” [16], al termine del quale Pasolini, senza farne esplicitamente il nome, si riferisce a Cefis – che in quei giorni doveva rappresentare per lui anche una sorta di “ossessione”, e non si fatica a capirne le ragioni – da qualche anno presidente-padrone della Montedison. Procedere per immagini poetiche è stata una delle caratteristiche salienti di Pasolini in tutte le sue opere, da quelle che l'hanno visto nelle vesti specifiche e peculiari del poeta a quelle cui si è dedicato come narratore, saggista e scrittore alle splendide stesure

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delle sceneggiature che hanno dato vita alla sua attività di regista cinematografico. Nel suo articolo del 1° febbraio 1975, Pasolini delinea un prima, un durante e un dopo la scomparsa delle lucciole, a sottolineare le fasi successive di decadenza e di colpevolezza della classe politica espressa in primo luogo dalla Democrazia cristiana, sopraffatta da un fenomeno che non è riuscita a comprendere per tempo: «In Italia c'è un drammatico vuoto di potere. … Il potere reale procede senza di loro. … I democristiani coprono con manovre da automi e i loro sorrisi, il vuoto ... Prima della scomparsa delle lucciole … la continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è stata completa … con una maggioranza assoluta ottenuta attraverso ceti medi e masse contadine gestiti dal Vaticano. … I valori che contavano erano gli stessi: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la moralità. … Uguali nel provincialismo, rozzezza, ignoranza sia delle élites che delle masse». Dopo la scomparsa delle lucciole: «questi valori nazionalizzati e quindi falsificati non contano più … sostituiti da “valori” di un nuovo tipo di società … che poi ha prodotto la prima “unificazione” reale del paese. … Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così … sono divenuti un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale». Ecco, di fronte «a questo disastro ecologico, economico, urbanistico, antropologico … quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore)», conclude Pasolini, «sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola». Ed ecco dunque il poeta che afferma la propria riprovazione nei confronti di Cefis e delle sue spregiudicate manovre che lo condussero alla conquista in un primo tempo dell'ENI, poi del colosso Montedison. Il linguaggio usato in Scritti corsari e Lettere luterane è colto, ma non complicato; Pasolini cerca di essere preciso e chiaro, spiegando sempre con la massima semplicità possibile concetti nuovi e astratti (e anche in questo penso consista la sua grandezza di scrittore), difficili da cogliere nella loro concreta realizzazione. Lo stile punta alla chiarezza del discorso ed evita un linguaggio troppo specialistico. Tutto ciò non esclude che si tratti di testi pieni di nuove idee, che però Pasolini vuole esporre e spiegare con un linguaggio comprensibile o comunque accessibile. I suoi interventi non seguono il classico stile giornalistico, di cui Pasolini evita tratti lessicali e sintattici. Di Petrolio è lo stesso Pasolini che ci dà qualche indicazione di carattere linguistico: «È un romanzo, ma non scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private e anche per la poesia» [17]. Figlio di un rifiuto prematuro e pregiudiziale ad accettare l'appartenenza alla classe borghese, Pasolini ha vissuto sempre uno

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scontro senza compromessi, un conflitto irrisolto contro tutto e tutti: la classe politica, gli intellettuali, il pubblico, la massa. Un «maestro naturale», secondo la definizione di Enzo Golino, che fonde la propria indole pedagogica con una necessità di comunicazione continua e costante nel tempo. L'espressione letteraria prima, quella cinematografica poi, nonché l'esperienza della creazione dei suoi testi teatrali, gli hanno fornito i mezzi per condurre una ineguagliabile battaglia critica che ha in sé anche gli elementi essenziali di un profondo coinvolgimento politico e una accentuata sensibilità pedagogica e didattica. «La sua vicenda biografica era anche quella del povero, ricco di genio e di cultura e di sregolatezza […], entrato di forza a far parte del mondo dei ricchi potenti e beneducati e a orgoglio e orrore della propria genealogia di classe; ma nel senso di non voler sapere […] quali contropartite visibili e invisibili gli sarebbero state richieste, incluso il proprio assassinio […]. Non era solo mancanza di attenzione o penetrazione dei moti profondi della economia e della sociologia […] Era furia metabolica che voleva restituire subito, sulle pagine, ogni informazione» [18]. Carla Benedetti traccia a sua volta un profilo di Pasolini, sostenendo che egli è stato uno dei critici più acuti rispetto alle illusioni della modernità occidentale, delle sue ideologie, delle sue costruzioni e, soprattutto, delle sue distruzioni. «La realtà odierna non ha mai “superato” né i miti né gli strati preilluministici della civiltà. Lo vediamo ogni giorno nella capacità incredibile che la società occidentale dimostra di potersi intrecciare con l'arcaico, con ciò che pretendeva di aver oltrepassato e che invece sopravvive, e su cui oggi vanno a innestarsi nuovi e più terribili poteri. Persino la schiavitù è ricomparsa di colpo, quasi miticamente, nelle strade delle nostre città, nella prostituzione, nel commercio di bambini e di organi, nel lavoro nero. Il mondo occidentale, che alcuni continuano a considerare democratico e avanzato, fondato sui diritti della persona, è un coacervo di tecnologia sofisticata e di violenza brutale, persino sui corpi, soprattutto sui corpi, e sulla vita. […] I suoi contemporanei non lo seguivano su questo. Ma oggi i nuovi movimenti gli danno ragione. La moltitudine che manifesta per le strade e nei social forum si trova in sintonia persino con le armi di Pasolini: insubordinate, dirette, quasi infantili (“col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili” – recita l'esergo di Petrolio). Armi che rifiutano le mediazioni ideologiche a cui le grandi narrazioni del Novecento ci avevano abituati. La situazione nel mondo che si descrive come “globalizzato” è tale da richiedere un'opposizione immediata, mentre il potere si insinua direttamente nella vita degli individui, nel loro spazio vitale, nel bios,

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nell'ambiente, nel clima. Il parresiasta Pasolini, che sceglie il rischio di dire la verità rifiutando di sottomettersi al criterio dell'opportunità politica, ci mostra, con la sua stessa parola, la forza che può esserci in ogni individuo, che è sempre in grado di fare la differenza» [19].

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Insulti al poeta degli “scandali annunciati”

In vita, Pasolini è stato molto odiato: ha subito pestaggi fisici e linciaggi morali. Quasi un record, come le tante rivalutazioni (spesso ipocrite) post mortem, quando l'intento dei più si è indirizzato a ridurne la figura a icona, a esorcizzarlo in qualche modo, a mummificarlo, a farne un santino, oppure a piegarlo a modi altri di osservare e intendere le cose, a strumentalizzarlo. Ciò che mi aveva profondamente allarmato nel 2005, anno in cui si celebravano in Italia e all'estero commemorazioni di Pier Paolo Pasolini in occasione dei trent'anni dalla sua tragica scomparsa (con un numero elevato di appuntamenti, in grandi città e in minuscoli centri), era che parlare di Pasolini significasse prevalentemente descrivere e commentare le modalità del suo assassinio. Ho considerato inversamente proporzionale al valore dell'uomo e dello scrittore porre in primo piano quasi esclusivamente quell'aspetto della sua vicenda umana e artistica. Durante tutta la sua vita, Pasolini era stato insultato da destra, osteggiato dai cattolici, mal sopportato dalla sinistra, anche dai maggiorenti di quel Partito comunista italiano cui aveva aderito nei suoi anni di residenza in Friuli. Una permanenza terminata bruscamente nel 1949, quando Pasolini venne processato (fu il primo processo di una serie sterminata) per essersi appartato a Ramuscello presso Casarsa della Delizia (il paese originario della madre in cui Pier Paolo risiedeva a quell'epoca), il 30 settembre 1949 con alcuni ragazzi. I genitori di quei ragazzi non sporsero alcuna denuncia ma i Carabinieri di Cordovado, venuti a conoscenza di alcune voci fatte circolare ad arte in paese, indagarono su una ipotesi di “corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico”. Conseguenza immediata fu che Pasolini venne sottoposto ad azione giudiziaria: si trattò dell'inizio di una delicata e umiliante trafila fatta di denunce e di processi che cambierà per sempre la sua vita [20]. A quell'epoca, Pasolini – per la sua posizione di intellettuale iscritto al Partito comunista di Casarsa in una “regione bianca” – rappresentava un bersaglio molto appetibile. I democristiani locali – verosimilmente proprio coloro che si erano adoperati per diffondere le suddette voci – si accanirono immediatamente a sfruttare lo scandalo. «Poco prima dell'incidente gli hanno fatto delle intimazioni, non direttamente ma in stile mediato e allusivo, il cui senso è: o lui smette di far politica o subirà le conseguenze della sua condotta morale» – è Nico Naldini, cugino di Pier Paolo Pasolini, che parla. Prima di un qualsiasi accertamento o di una verifica delle accuse, Pasolini venne espulso dal Pci. Ecco quanto riportava l'“Unità” del 29 ottobre 1949: «La federazione del Pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l'espulsione dal partito del Dott. Pier Pao-

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lo Pasolini di Casarsa per indegnità morale. Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». A Roma, dove lo scrittore si trasferì, i libri e in seguito anche i film di Pasolini furono sistematicamente considerati scandali annunciati: Pasolini rappresentò una sorta di bersaglio permanente in un Paese, ieri come oggi, culturalmente arretrato, clericale e bigotto. L'Italia gretta, la stampa rozza e fascistoide non lo tollerava: «… lo chiamavano “Vate delle marrane”, “Omero della feccia”, lo dipingevano empio e infame…» [21]. E ancora: «[…] Il cantore del sordido, del maleodorante, è un giovane squallido con le bozze frontali troppo preminenti e le palpebre avvizzite. Di lui una giornalista sensibile e marxista, che si è prestata a fare da comparsa nel film Accattone, ha scritto su un quotidiano del PC I che è “candido e crudele come un santo”. Dal canto mio, mentre ascolto la sua voce untuosa e carezzevole, mi sorprendo a considerare che, dopo tutto, la storia della tentata rapina al benzinaio del Circeo potrebbe anche essere vera. […] I suoi goffi pantaloni, larghissimi e verdi, nei quali il corpicciuolo ossuto sciacqua e si perde, mi suscitano una strana impressione. Sospetto gravemente che gli ideali, la morale, le passioni del Pasolini siano tutti lì dentro, nelle pieghe dei suoi pantaloni sbrindellati […] La tentazione di sgonfiargli con una pedata quei pantaloni troppo larghi, mettendo scompiglio fra gli ideali che vi si annidano, mi accompagna oltre la soglia del “vate”» [22]. Anche la stampa comunista, rappresentata dall'“Unità”, non risparmiò critiche, se non volgari e violente come quelle riportate nell'articolo appena citato, perlomeno severe nei confronti di Pasolini. Quando nel 1955 venne pubblicato Ragazzi di vita, dalle pagine del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, per esempio, Giovanni Berlinguer si sentì in dovere di fornire il proprio giudizio (29 luglio 1956): «[…] Il linguaggio, le situazioni, i protagonisti, l'ambiente, tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme. E forse certa pubblicità è stata troppo tenera nel definire equivoco un libro fin troppo chiaro, nel trovare senso di pietà e di partecipazione umana ove né pietà né partecipazione umana esistono». Da un'agenzia di stampa facente capo a un raggruppamento politico di ispirazione monarchica, l'Agenzia Fert, giunse una notizia (14 luglio 1960) che riguardava le esortazioni nientemeno che del segretario del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti: «[…] l'on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori cultura e stampa del

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partito l'invito ad andar cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L'iniziativa di Togliatti, che incontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, ed anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l'attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in cui egli si è venuto a trovare fino a provocare l'intervento del magistrato». Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna oltreché apprezzato critico cinematografico, scrive nel 2005 le pagine di presentazione di Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni. L'immagine di Pasolini nelle deformazioni mediatiche – catalogo della mostra con lo stesso titolo promossa a Bologna dal 2 novembre 2005 all'8 gennaio 2006 (e riproposta anche in altre sedi) di cui Chiesi è stato curatore. Si tratta di un saggio che illustra lucidamente ed efficacemente, come del resto la mostra, le vere e proprie persecuzioni riservate a Pasolini soprattutto da parte della carta stampata. Ne riproduco qui di seguito alcuni stralci: «Il magma di articoli, pagine, copertine di giornali, fotografie, schede segnaletiche esposto come un'inquietante cartografia nella mostra […] racconta due storie parallele. La storia della violenta persecuzione diffamatoria che Pier Paolo Pasolini, lungo quasi vent'anni della sua vita, ha subìto da una parte della stampa, poi la crudeltà accanita e gli oltraggi feroci scatenati da quella stessa stampa sulla sua morte e infine alcune mistificazioni orchestrate negli ultimi quindici anni. L'atto che inaugura i drammatici rapporti del poeta con la stampa, è segnato dalla pubblicazione del gelido, succinto articolo de “L'Unità” che annuncia la sua espulsione dal Pci per “indegnità morale” […] Giornali come “Lo Specchio”, “Il Borghese”, “Il Secolo d'Italia”, “Il Camino di Lodi”, “Il Meridiano” e “L'Italiano”, fabbricano un'immagine di Pasolini come bersaglio da colpire attraverso il dileggio, l'umiliazione pubblica, la denigrazione della sua figura e delle sue opere. Quell'immagine si identifica in un giovane pervertito che riflette in tutto e per tutto la fisionomia dei personaggi dei suoi romanzi: come loro, è “di vita”, è “criminale”, “violento”, “capovolto”, “invertito” e così via. Anche i rotocalchi come “Gente” concorrono ad alimentare quell'immagine di Pasolini, ma vi aggiungono delle variazioni: lo scrittore è un “arrampicatore”, “un furbo”, “un opportunista”. Giornali come “Lo Specchio” esaltano, senza mezzi termini, le aggressioni fisiche che vengono perpetrate contro Pasolini, come nel caso del celebre episodio avvenuto al cinema Quattro Fontane di Roma, nel settembre del 1962, dopo una proiezione di Mamma Roma. […] In quella che si configura come una vera e propria guerra, sono quotidiani come “L'Unità”, “Paese sera” e settimanali

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come “Vie nuove” a sostenere (anche se non sempre) la battaglia sollevata da ogni nuova opera del poeta. […] La regia teatrale della tragedia Orgia e lo scandalo del film Teorema, attizzano nuovi triviali attacchi della stampa di destra ed estrema destra, che lo bolla di “pornografo”. Quell'epiteto, in un largo ventaglio di varianti, viene fatto proprio anche da una parte della stampa di sinistra quando lo scrittore-regista realizza la Trilogia della vita e ottiene un immenso successo popolare. Al momento di concludere la Trilogia, Pasolini inizia a scrivere sul “Corriere della sera”, i drammatici articoli “corsari” e “luterani” che ispirano un rinnovato vento denigratorio sui giornali di sinistra come di destra. Nasce l'immagine del Pasolini “nostalgico”, “reazionario”, “confuso”. La tragedia oscura dell'assassinio è il culmine di questo processo di accanimento. I giornali che hanno sempre alluso grevemente al “privato” di Pasolini ora possono scagliarsi con dettagliate descrizioni sulla sua vita intima di “diverso”, che viene vivisezionata senza nessuno scrupolo sull'attendibilità di informazioni, notizie, testimonianze: viene pubblicato tutto ciò che può offrire l'immagine più turpe del poeta per seppellirlo sotto l'effigie definitiva di “violento e perverso corruttore”. L'uscita del film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma è sfruttata per completare l'identificazione fra i “mostri”, personaggi del film, e Pasolini […] Dopo gli anni Ottanta, dopo l'inizio degli anni Novanta, ecco il proliferare di un nuovo fenomeno di mistificazione: quotidiani come “L'Indipendente” e settimanali come “L'Italia”, si affannano a “riabilitare” Pasolini attribuendogli un'identità “reazionaria” sempre più vicina alle frange ideologiche destrorse. […] Non meno mistificante, è anche l'operazione compiuta dalla critica cinematografica italiana che ha fatto del trash la propria bandiera: “riabilitando” il cinema “nazi-porno” assegnano a Salò di Pasolini il ruolo di capostipite di quel sottogenere, come se un'opera non fosse, innanzitutto, stile e linguaggio e la diversità dell'ultimo film pasoliniano da quegli abomini filmici non si misurasse in distanze macroscopiche. Ma questa è soltanto una delle tante conseguenze della moda dell'indifferenziato che costituisce uno dei tratti meno evidenti del degrado culturale della penisola negli anni del berlusconismo. La seconda storia che raccontano indirettamente ma concretamente quei reperti è appunto quel degrado che una parte della stampa ha contribuito ad alimentare con abusi, adulterazioni, mistificazioni e la violenza delle false informazioni. Un degrado che ha trovato la sua espressione più potente e devastante nella televisione. […]». Franco Grattarola, studioso, ricercatore di cinema e costume, tra i fondatori della rivista “Cine 70”, ha pubblicato a sua volta Pasolini. Una vita violentata (Coniglio Editore, Roma 2005). Nel suo lavoro, ha esaminato molti documenti d'epoca - prevalentemente periodici e rotocalchi - e ha scovato negli archivi alcuni scritti grondanti odio e disprezzo per l'uomo Pasolini prima ancora che per la sua opera, redatti anche da rappresentanti della cultura di casa

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nostra come Giovanni Guareschi o Gian Luigi Rondi. Grattarola ha citato tutte le fonti utilizzate con pazienza certosina e ha ricostruito la vita dell'artista attraverso le cronache di molti giornali di destra che osteggiarono Pasolini. Il Borghese e Lo Specchio sono i settimanali più citati, ma vi sono anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale. Ai lettori di “Vie Nuove” – settimanale del Pci i cui scritti sono stati poi raccolti a cura di Gian Carlo Ferretti nel volume Le belle bandiere (Editori Riuniti, Roma 1996) – lo stesso Pasolini confessava ai lettori oltre quarant'anni fa: «Io patisco ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistificazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, irrimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l'interpretazione calcolata della stampa “libera”, una metamorfosi implacabile […]. I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d'occhio il loro significato, per aggiunte e falsificazioni continue, per un'interpretazione denigratoria portata a un grado d'intensità e di ferocia mai viste». E nel suo libro Il sogno del centauro Pasolini dichiarava a Jean Duflot - che è stato poi curatore dell'edizione pubblicata da Editori Riuniti nel 1993: «Sono vent'anni che la stampa italiana, e in primo luogo la stampa scritta, ha contribuito a fare della mia persona un controtipo morale, un proscritto. Non c'è dubbio che a questa messa al bando da parte dell'opinione pubblica abbia contribuito l'omofilia, che mi è stata imputata per tutta la vita come un marchio d'ignominia particolarmente emblematico nel caso che rappresento: il suggello stesso di un abominio umano da cui sarei segnato, e che condannerebbe tutto ciò che io sono, la mia sensibilità, la mia immaginazione, il mio lavoro, la totalità delle mie emozioni, dei miei sentimenti e delle mie azioni a non essere altro se non un camuffamento di questo peccato fondamentale, di un peccato e di una dannazione». Lo scrittore subì innumerevoli denunce e trentatré processi nel corso di ventisette anni; non si sottrasse mai al giudice, al processo. Denunciarlo e processarlo sono stati comportamenti costanti della parte più reazionaria della società italiana che mai apparve disposta ad accettare Pasolini e i suoi lavori, anche se spesso lo scrittore-regista ha riscosso il consenso di una parte di quella società, cioè di molti comunisti e cattolici progressisti. La sua è stata una «vita a microfono aperto», come ha scritto Flavio Santi. Gli attacchi, anche e soprattutto quando si sono manifestati nelle aule

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giudiziarie, hanno rappresentato lo strumento del quale hanno tentato di servirsi tutti coloro che sostanzialmente intendevano contrastare o porre freno a ciò che di nuovo e originale veniva espresso in una stagione nella quale, in ambito sociopolitico oltreché di costume, molto alta era l'ansia di cambiamento di ampie fasce di popolazione. Il poeta aveva compreso fin dagli anni '50 ciò che stava accadendo nel nostro Paese. E, con straordinaria lucidità, preveggenza e una insistenza quasi maniacale non aveva risparmiato attacchi e denunce al potere, non si era stancato di mettere in guardia dai risultati perversi che avrebbero prodotto la “mutazione antropologica” e l'“ansia consumistica” conculcate. Tutta la sua opera artistica, la sua produzione letteraria e saggistica sono tuttora testimonianza della sua lungimiranza e della sua profonda sofferenza per una situazione che vedeva irrimediabilmente compromessa. In questo senso, sono convinta che il patrimonio prezioso che Pasolini ci ha trasmesso è ora più che mai di una attualità, incisività e freschezza stupefacenti. È necessario quindi, oggi addirittura più di ieri, leggere la sua immensa opera, critica e poetica, per comprendere fatti e misfatti – filtrati dalla sua intelligenza e dalla sua sensibilità – succedutisi in questo nostro Paese. In nome di che cosa Pasolini ha fatto tutto questo? Lo dirà con parole fin troppo semplici nella sua deposizione al Tribunale di Venezia, nel processo per Teorema, respingendo la tesi secondo cui l'autore di un film avrebbe obblighi di riserbo a cui sfugge, grazie al pubblico meno vasto e più selezionato, l'autore di un libro: «Non posso tener conto della minor preparazione o capacità a comprendere quello che una proiezione vuol dire, da parte dell'uomo medio, perché in tal caso compirei un'immoralità nei confronti della libertà espressiva, non solo nei miei confronti ma anche nei confronti dello spettatore». Pasolini scrisse su “Paese Sera” l'8 luglio 1974: «[...] Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona […]». «Ma non ci si può certo fermare alle vicende processuali, quasi che il mondo giudiziario fosse in sé concluso, non comunicante con l'esterno. L'atteggiamento della magistratura innesca un gigantesco processo di controllo sociale, di cui le reazioni e gli atteggiamenti della stampa sono la documentazione più evidente. Se manca la sanzione in forma di una condanna penale definitiva, ci sono sanzioni non formali più pesanti di mesi o anni di galera. Pasolini dovrà scontare pene durissime: ci sarà l'aggressione fascista, morale e fisica, contro la quale mai polizia e magistratura muoveran-

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no un dito; c'è, alla fine, la pena di morte, eseguita una notte, dalle parti di Ostia. Una condanna verrà, nell'ultimo processo in cui Pasolini comparirà come protagonista, ma che, alla fine, non obbedirà a regole diverse da quelle puntigliosamente seguite in tutti i processi precedenti. Formalmente l'accusato è Pino Pelosi, l'assassino […].»: così dichiarò Stefano Rodotà nel corso di una intervista televisiva all'indomani dell'omicidio del poeta. Mentre in quegli anni lo sbeffeggiano e gli danno la caccia, e i fascisti Stefano Delle Chiaie e Flavio Campo lo schiaffeggiano non solo metaforicamente, «Pasolini compie una requisitoria che oggi è il suo testamento, indagando il potere dentro il potere e facendone un'autopsia narrativa. Scriveva cose premonitrici, concependo “la verità al di fuori dell'autorità” con il candore dell'innocenza (“difendo una ingenuità di ossesso”). Mentre costruivano ad arte la sua distruzione pubblica, Pasolini colpiva al cuore il Potere, lo raccontava con accanimento forte di verità intellettuale e morale» [23].

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Pasolini fa alcuni nomi

La lucidità di Pasolini nel ricostruire il degrado e l'anomalia italiana non sfuggono a chi abbia letto i suoi articoli apparsi all'epoca sulla stampa quotidiana, e neppure a chi legga oggi i suoi Scritti corsari magari avendo diciotto o vent''anni e quindi una conoscenza soltanto indiretta dei fatti di trenta o quarant'anni prima. Internet, frequentato in larga misura da giovani, offre testimonianze concrete di persone anche giovanissime che lo apprezzano proprio per la sincerità, la profondità, la chiarezza e anche una certa rudezza con cui lanciò le proprie accuse alla classe politica ed economica italiana. Accuse che Pasolini non risparmia neppure nell'opera narrativo-politica Petrolio, in cui lo scrittore si è riferito anche – e perfino nel titolo assegnato a questo suo ultimo romanzo – al “caso Mattei” e alle vicende dell'ente petrolifero italiano, indicando e ricostruendo attraverso molte testimonianze sia la figura del burattinaio principale Eugenio Cefis sia quella dello stesso Enrico Mattei, e ipotizzando che quello di Mattei sia stato un assassinio pianificato da chi voleva prenderne il posto per sovvertirne le politiche economiche. In un articolo del “Corriere” che ho già richiamato, Pasolini dichiarava di conoscere i nomi di coloro che erano oggetto dei suoi attacchi, ma di non avere prove per rendere compiuta la propria pubblica denuncia. Ma in Petrolio, alcuni nomi li scrive in chiaro, eccome, anche se “romanzati”, come nel caso di Enrico Mattei che diventa Enrico Bonocore o Eugenio Cefis che si muta in Aldo Troya. Così come alcuni nomi aveva fatto in un suo articolo pubblicato da “Il Mondo”, elencando anche tutti i motivi per cui occorreva ricorrere a un vero e proprio processo penale nei confronti della classe politica italiana [**]: «[…] credo che mi resterà a lungo impressa nella memoria la prima pagina del “Giorno” del 21 luglio 1975. Era una pagina anche tipograficamente particolare: simmetrica e squadrata come il blocco di scrittura di un manifesto, e, al centro, un'unica immagine anch'essa perfettamente regolare, formata dai riquadri uniti di quattro fotografie di quattro potenti democristiani. Quattro: il numero di De Sade. Parevano infatti le fotografie di quattro giustiziati, scelte dai familiari tra le loro migliori, per essere messe sulla lapide. Ma, al contrario, non si trattava di un avvenimento funebre, bensì di un rilancio, di una resurrezione. Quelle fotografie al centro della monolitica pagina del “Giorno” parevano infatti voler dire allo sbalordito lettore, che quella lì era la vera realtà fisica e umana dei quattro potenti democristiani. Che gli scherzi erano finiti. Che le raggianti risate di chi detiene il potere non sfiguravano più le loro facce. Né le sfigu-

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rava più l'ammiccante furbizia. Il brutto sogno si era dissolto nella chiara luce del mattino. Ed eccoli lì, veri. Seri, dignitosi, senza smorfie, senza ghigno, senza demagogia, senza la bruttura della colpevolezza, senza la vergogna della servilità, senza l'ignoranza provinciale. Si erano rinfilati il doppiopetto e li baciava in fronte il futuro delle persone serie. [Occorre] giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent'anni […] l'Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani (compreso forse per correttezza qualche presidente della Repubblica) dovrebbero essere trascinati […] sul banco degli imputati. […] E quivi accusati di una quantità sterminata di reati, che io enuncio solo moralmente […]: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito di enti come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna […], distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani, […] responsabilità della condizione […] paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità dell'esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari, distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese» [24]. Il 28 agosto 1975, a due mesi dal suo assassinio, Pasolini chiedeva dunque un processo per i potenti democristiani. Era il risultato di una critica serrata e senza sosta al potere in quanto tale più che ai potenti Dc; contro quell'“anarchia del potere” crudamente rappresentata in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l'ultimo film realizzato dallo scrittore-regista. «La Democrazia cristiana non ha fatto altro che celare le vecchie retoriche fasciste in chiave ipocritamente democratica, assumendo però a protezione del proprio smisurato potere le stesse istituzioni create durante il fascismo: la scuola pubblica, l'esercito, la magistratura. […] La Democrazia cristiana è vissuta nella più spaventosa assenza di cultura, ossia nella più totale, degradante ignoranza» [25]. È un attacco alla borghesia, di cui la Dc è espressione; una borghesia ignorante e inetta che nel consumismo (ma non solo) ha il

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suo più saldo strumento di potere. Potevano essere ignorate le vere e proprie denunce di Pasolini, che tra l'altro la stampa dell'epoca criticò ferocemente? Era sufficiente infangare continuamente l'autore di quelle denunce, e le sue opere, oppure occorreva passare a vie di fatto? Quest'ultima una pratica piuttosto diffusa in quei giorni perversi. Molti dei cosiddetti “misteri italiani” sono legati da un sottile ma visibilissimo filo che parte dall'immediato dopoguerra e si allunga fino a improntare di sé la nostra storia recente. Un filo che attraversa realisticamente tutta la storia sottotraccia del nostro Paese negli ultimi sessant'anni, emerge da numerose inchieste e sentenze giudiziarie ed è strettamente collegato anche ai risultati delle Commissioni parlamentari sul terrorismo, la mafia, le stragi. È fuori di dubbio che Pasolini fosse ben cosciente di tutto ciò, anche nel fornire alcuni nomi: non ha usato nei suoi scritti alcuna parola a sproposito. Non ha potuto comunque sapere che almeno uno dei personaggi sui quali esercitò senza remissione la propria critica sarebbe stato realmente processato per i suoi collegamenti con l'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra: «[…] giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo nei confronti di Giulio Andreotti perché risponda delle seguenti imputazioni: a) del reato di cui all'art. 416 c.p., per avere messo a disposizione dell'associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l'influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all'espansione dell'associazione medesima […] e b) del reato di cui all'art. 416 bis CPP., per le stesse imputazioni riguardanti l'art. 416]. […] [Conclusioni del Collegio giudicante, Cassazione] 1) la Corte di Appello ha delineato il concetto di partecipazione nel reato associativo in termini giuridici non condivisibili, ma l'erronea definizione teorica è stata emendata per effetto della successiva ricostruzione dei fatti, da cui essa ha tratto il convincimento di specifiche attività espletate a favore del sodalizio; 2) pure la cessazione di tale partecipazione è stata delineata secondo una prospettazione giuridica non corretta, ma poi anche riguardo ad essa la Corte territoriale ha non irrazionalmente valutato come concreta dimostrazione del necessario recesso un episodio che ha insindacabilmente ritenuto essere di certo avvenuto; 3) gli episodi considerati dalla Corte palermitana come dimostrativi della partecipazione al sodalizio criminoso sono stati accertati in base a valutazioni e apprezzamenti di merito

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espressi con motivazioni non manifestamente irrazionali e prive di fratture logiche o di omissioni determinanti; 4) avendo ritenuto cessata nel 1980 la assunta partecipazione nel sodalizio criminoso, correttamente il giudice di appello è pervenuto alla statuizione definitiva senza considerare e valutare unitariamente il complesso degli episodi articolatisi nel corso dell'intero periodo indicato nei capi d'imputazione; 5) le statuizioni della Corte di Appello concernenti l'insussistenza di una delle circostanze aggravanti contestate e la teorica concedibilità delle circostanze attenuanti generiche non hanno formato oggetto di impugnazione specifica e, quindi, sono passate in giudicato, precludendo qualsiasi ulteriore indagine perché la cessazione della consumazione del reato nel 1980 ne ha determinato la prescrizione […]; 6) al termine di questo articolato “excursus”, il Collegio ritiene di dover riprendere l'osservazione iniziale: i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse; non rientra tra i compiti della Corte di Cassazione, come già reiteratamente precisato, operare una scelta tra le stesse perché tale valutazione richiede l'espletamento di attività non consentite in sede di legittimità. In presenza dell'intervenuta prescrizione, poi, questa Corte ha dovuto limitare le sue valutazioni a verificare se le prove acquisite presentino una evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine alla sussistenza del fatto o all'estraneità allo stesso da parte dell'imputato; 7) ne deriva che, mancando tali estremi, i ricorsi vanno rigettati. Al rigetto del ricorso dell'imputato consegue per il medesimo l'onere delle spese ai sensi dell'art. 616 CPP [26].

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La Commissione Stragi del 1994 [***]

Giovanni Pellegrino, avvocato e già senatore della Repubblica, ha presieduto dal 1994 la Commissione stragi, istituita dal Governo italiano per far luce, o forse più semplicemente per dare un senso, ai più oscuri ed efferati episodi della storia d'Italia, a partire dal 12 dicembre 1969, data in cui una bomba esplodendo all'interno della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, uccise sedici persone. Pellegrino, in un libro-intervista, scritto con due giornalisti, Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri [27] riordina le carte e traccia una bozza della relazione finale. E in tale intervista parla anche di Pasolini: «[Pellegrino] In uno dei suoi Scritti corsari, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 14 novembre 1974, pochi mesi dopo la strage dell'Italicus, Pier Paolo Pasolini affermò di sapere (pur non avendo prove e neppure indizi) che se le stragi del 1969 erano state anticomuniste, quelle del 1974 erano antifasciste. Dal momento che mi pare molto probabile che anche la strage di Brescia sia stata compiuta nel maggio del 1974 da uomini della destra radicale, continuavo a domandarmi che cosa volesse dire Pasolini nel sottolineare la logica antifascista... Oggi ha trovato, finalmente, questa risposta? [Pellegrino] Sì, oggi sono in grado di dare una risposta. Innanzitutto cerchiamo di identificare i diversi obiettivi che avevano i vari protagonisti di quella strategia. L'obiettivo della manovalanza neofascista era quello di provocare allarme, paura, disagio sociale; e quindi di fare in modo che, al dilagare della protesta studentesca e operaia, si reagisse con una risposta d'ordine. Quindi le loro azioni erano funzionali al progetto di un vero e proprio colpo di Stato. A un secondo livello, diciamo degli “istigatori”, probabilmente si pensava, invece, di affidare alla tensione lo stesso ruolo che aveva avuto il “tintinnare delle sciabole” del 1964: favorire, cioè, uno spostamento in senso conservatore dell'asse politico del Paese. [...] Al terzo livello, quello internazionale, c'erano interessi geopolitici volti a tenere comunque l'Italia in una situazione di tensione, di disordine e di instabilità. Il tentativo in direzione del colpo di Stato o dell'intentona, durò abbastanza poco, sostanzialmente dagli attentati del 1969 al fallito golpe Borghese. A livello politico, sia interno sia, soprattutto, internazionale si capì che l'Italia non era la Grecia, che da noi non era importabile il regime dei colonnelli, perché sarebbe scoppiata la guerra civile: un prezzo troppo alto da pagare. Dunque, da quel momento ha inizio una nuova fase, sia pure ovviamente non lineare: quella dello sganciamento

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dalla manovalanza neofascista. Lentamente, gli uomini della destra radicale sono richiamati all'ordine, si comincia a instillare loro l'idea che un piano golpista non può essere attuato fino in fondo, che è necessario fare un passo indietro. E loro reagiscono. Con una serie di attentati in qualche modo di ritorsione che segneranno la loro fine: li lasceranno fare, probabilmente proprio per poterli liquidare. Era questa dunque l'intuizione di Pasolini? [Pellegrino] Sì, secondo me era questa. Era il 1974, come poteva sapere? [Pellegrino] Chissà, forse nel mondo degli emarginati romani, che Pasolini frequentava, un mondo a volte ai confini con la destra eversiva, qualcuno poteva aver parlato. Di sicuro, fu assassinato esattamente un anno dopo aver scritto quelle parole, il 2 novembre 1975, tre giorni prima che iniziasse il processo per il golpe Borghese... Nonostante l'autore materiale dell'omicidio sia stato arrestato e condannato, su quel caso non si è mai riusciti a fare piena luce. Lei oggi è convinto che uno dei possibili moventi di quell'assassinio possa essere proprio quello che Pasolini sapeva e aveva scritto? [Pellegrino] Una cosa è certa: Pasolini era arrivato quasi in tempo reale laddove la Commissione, oggi, è giunta dopo anni e anni di ricerche.» Anche in una intervista del 5 aprile 2009 di Renato Fabiani del “Portale Internet di Poesia e Realtà – La Gru” (lagru.org), Giovanni Pellegrino rispondeva così a una domanda riguardante la ricostruzione degli eventi stragisti in Italia: «[…] manca in Italia un tentativo serio, documentato e credibile di ricostruzione di questo periodo da parte dell'università; tanto che è stata la letteratura spesso a cercare di colmare questo vuoto: si pensi a Petrolio di Pasolini, o a Todo Modo di Sciascia […] [Pellegrino] […] Per ciò che concerne la letteratura non vi è dubbio che in Pasolini vi siano intuizioni storiografiche di eccezionale interesse, soprattutto se si riflette che le stesse erano sostanzialmente contemporanee a vicende italiane, che ai più apparivano misteriose e di cui Pasolini seppe cogliere il senso. In particolare Petrolio è una miniera di intuizioni storiografiche che attendono ancora oggi di essere verificate. Penso ad esempio alla possibilità di vedere in Cefis il precursore di Gelli».

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Le fonti di Petrolio

Le fonti accertate di Petrolio utilizzate da Pasolini per affrontare nel suo libro la questione ENI-Montedison-Mattei-Cefis e i suoi risvolti, sono costituite dai documenti di cui c'è ampia traccia nella cartella presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze che custodisce il manoscritto (e anche una fotocopia), come riferiscono Walter Siti e Silvia De Laude nelle Note e notizie sui testi nel secondo volume di Pasolini. Romanzi e racconti 1962-1975 (Mondadori 1998). Tali fonti consistono in articoli ritagliati da giornali riguardanti la storia di ENI e Montedison, nelle fotocopie di un libro di Giorgio Steimetz, Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente (AMI, Milano 1972) e nelle copie di alcuni discorsi di Eugenio Cefis che, in Petrolio, Pasolini (Appunti 20-30 Storia del problema del petrolio e retroscena, p. 117) dichiara di voler inserire poiché «servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito […] (18 ottobre 1974)». A proposito del libro di Giorgio Steimetz, in un articolo dal titolo Cefis, Pasolini e mio zio Corrado pubblicato dal “manifesto” il 10 novembre 2005 scrive Guglielmo Ragozzino: «Pier Paolo Pasolini ha letto Questo è Cefis? Il magistrato Vincenzo Calia che da Pavia ha riaperto la pratica relativa alla morte di Enrico Mattei ritiene di sì e pensa che il poeta si sia ispirato anche su quel testo per gli appunti segnati con il numero 22 di Petrolio (si è scritto che un'intera parte del testo pasoliniano sarebbe scomparsa). […] Il caso Steimetz era stato rilanciato il 7 agosto del 2005 da Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” […]. Di Stefano commentava una pagina di un libro di Gianni D'Elia, L'eresia di Pasolini (Effigie, 2005) che citava Calia. Poi ne hanno scritto altri giornali, sempre ripetendo la stessa vulgata, fino ad arrivare alla trasmissione televisiva di Carlo Lucarelli Blu notte, poi ripresa nell'articolo Così morì Pasolini, firmato anche da Gianni Borgna sul numero 6/2005 di Micromega. […] Steimetz mostra di sapere molte cose in un universo assai limitato: in un capitolo indica i tanti rivoli del gas metano, i collegamenti, la trama delle società di comodo, le spartizioni che si sviluppano intorno a Cefis, dentro e fuori il mondo dell' ENI. […]. Cefis compare anche direttamente [in Petrolio] in uno schema “Specchietto dell'Impero ENI poi Montedison” che fronteggia un altro schema in testa al quale c'è Monti, l'altro grande boss del petrolio italiano di quegli anni. A fianco dei due nomi ci sono Fanfani vicino a Cefis e Andreotti vicino a Monti […]. L'appunto 22 di Petrolio nelle parti indicate con a, b, c assomiglia molto a capitoli di Steimetz: ci sono le stesse segretarie prestanome, gli stessi fratelli affaccendati, lo stesso giro vorticoso di società che serve a dissimulare e a spartire i profitti petroliferi e del metano […]» [28].

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Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente è una biografia non autorizzata di Eugenio Cefis (1921-2004), dirigente d'azienda e imprenditore, consigliere dell'Agip, presidente dell' ENI nel 1967 e poi presidente della Montedison, nel 1971. L'autore, Giorgio Steimetz – nome dietro il quale si nascondeva il presidente della stessa AMI, Corrado Ragozzino –, descrive Cefis come un temuto e vorace uomo di potere, un burattinaio che trama nell'ombra per ottenere la presidenza dell'ENI e neutralizzare l'azione fortemente indipendente di Mattei per ricondurre l'Italia nell'orbita atlantica, con una politica gradita alle multinazionali angloamericane del petrolio. In un suo scritto, Paolo di Stefano, oltre a compiere un'analisi puntuale delle tesi sostenute dal poeta Gianni D'Elia nel suo libro Il petrolio delle stragi (che afferma: «Le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di Stato» - un testo, quello di D'Elia, utile per avere una prospettiva inedita su tutta la vicenda legata all'assassinio di Pasolini), si riferisce anche alle fonti utilizzate da Pasolini, in particolare al libro Questo è Cefis, e ad altri documenti nei quali il soggetto ricorrente è Eugenio Cefis. Aggiunge Di Stefano: «Si sa che Pasolini tanto fece che riuscì ad averlo, quel libro, come dimostra una lettera del 20 settembre 1974 inviatagli dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in cui si parla delle fotocopie del “libro [...] ritirato”, scrive D'Elia. Le fotocopie di Questo è Cefis sono conservate tra le carte di Petrolio. Nell'archivio pasoliniano del Gabinetto Vieusseux, nella stessa cartella che contiene le fotocopie dello Steimetz, si trovano altri materiali preparatori del romanzo: articoli su Cefis pubblicati dalla rivista dello stesso Fachinelli, “L' erba voglio”; un “Discorso commentato di Cefis all'Accademia militare di Modena”, pronunciato il 23 febbraio 1972; i ciclostilati di altre conferenze dello stesso presidente, addirittura l'originale di una conferenza intitolata “Un caso interessante: la Montedison”, tenuta l'11 marzo 1973 presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine (dello stesso Cefis) mai pronunciate. Infine, diversi ritagli di giornale sui “segreti dell'ENI”. In uno degli appunti progettuali del romanzo Pasolini ci informa dell'intenzione di inserire nel libro il testo integrale dei discorsi di Cefis, che avrebbero dovuto fare da “cerniera” tra una prima e una seconda parte» [29]. A sua volta, Giovanni Giovannetti, fotogiornalista e scrittore, si richiama al libro di Gianni D'Elia – citato anche da Ragozzino – e, oltre a pubblicare tramite sconfinamenti.splinder.com, il suo sito internet, il testo del “libro scomparso” di Steimetz, ci dice che «L'Agenzia [Milano Informazioni] è finanziata da Graziano Verzotto, uomo di Enrico Mattei ed ex presidente dell'Ente minerario siciliano, nonché informatore di Mauro De Mauro, il giornalista de “L'Ora” di Palermo che fu rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Così come era accaduto a Mattei sette anni prima; così come accadrà a

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Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo. Questo è Cefis vive solo pochi mesi, poi sparisce. Dalle due sedi della Biblioteca Centrale spariscono anche le copie d'obbligo: se ne trova ancora traccia nel registro di quella fiorentina, ma il libro non c'è. E si capisce: Steimetz racconta la spregiudicata avventura di uno dei timonieri del pubblico-privato, la mescolanza di poteri tra Stato e potenze occulte. Pier Paolo Pasolini sta lavorando sugli stessi temi e, forse (è il caso di Verzotto), sta utilizzando le stesse fonti; quell'anno comincia a scrivere Petrolio, il grande romanzo incompiuto sul Potere (Einaudi lo pubblicherà postumo nel 1992, 17 anni dopo la sua morte). Un romanzo del quale la critica ha enfatizzato l'aspetto omosessuale – la doppia vita di un ingegnere petrolchimico – mentre la vera sostanza di Petrolio è il “rapporto terribile tra economia e politica, le bombe fasciste e di Stato, la struttura segreta delle società 'brulicanti', come i loro nomi, in beffardi acronimi” (Il Petrolio delle stragi, p. 22), a partire da Cefis, che nel libro è 'Troya'. Il poeta D'Elia ha anche considerato “con una certa sorpresa” che l'ultimo Pasolini “corsaro”, quello che potremmo anche chiamare “il poeta delle stragi”, riprende quasi sicuramente dal colorito pamphlet di Steimetz il suo aggettivo più romanzesco, salgariano, fortunato e connotato, come si può leggere in Questo è Cefis: “come corsari sulla filibusta” (p.64)”. Petrolio è il profetico e incompiuto romanzo-verità sull'Italia del doppio boom: sviluppo e bombe. Bombe stragiste e piduiste. Lo stesso “Stato nello Stato” che ha tolto di mezzo Mattei, De Mauro e lo stesso Pasolini» [30]. Nelle circa trecento pagine di Questo è Cefis Steimetz descrive sia la personalità senza scrupoli di Eugenio Cefis sia l'incredibile rete di aziende grandi e piccole che fanno capo al suo impero. Moltissime pagine sono dedicate all'elenco di centinaia di tali aziende, facenti capo a Cefis per i rapporti fiduciari o di parentela che i responsabili dichiarati ufficialmente nei documenti costitutivi intrattengono con lui: «Le Carte […] riposano ben custodite in capaci e segreti armadi a serratura combinata, al riparo da indiscrezioni, indagini, indebite ingerenze, specialmente del fisco. Ma quale industriale mai giocherebbe a carte scoperte? Meglio intestarle, se occorre, a nomi di paglia, ad innocue persone del seguito, con dipendenza a Vaduz, l'eden degli storni e delle franchigie tributarie». A una parte delle aziende enumerate da Steimetz si riferiscono anche alcuni appunti pasoliniani di Petrolio, dal numero 22, Il cosiddetto impero dei Troya: lui, Troya ai successivi, che portano sempre nel titolo la dizione Il cosiddetto impero dei Troya seguita da specifiche caratteristiche relative a tale impero (pp. 94-108). In essi, Pasolini descrive in dettaglio le aziende suddette, rifacendosi alle pagine di Steimetz e modificando i nomi delle società stesse e delle persone che se ne occupano per conto del Cavaliere del Lavoro Eugenio Cefis: 22a, Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre;

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22b …: altra importante ramificazione; 22c …: le ramificazioni più importanti del fratello Quirino; 22c …: la pulce dice male del pidocchio; 22d …: la ramificazione del pidocchio. [in Petrolio la lettera c dell'appunto è ripetuta, nda].

Giorgio Steimetz prosegue tracciando un profilo di Eugenio Cefis e indicando le fasi salienti della scalata di quest'ultimo all' ENI dopo la scomparsa di Enrico Mattei: «La sua scalata all' ENI è storia recente. Compagno di Mattei e suo vice finché il matelicano ne ebbe abbastanza d'una spina nel fianco, di un cane lupo alle calcagna, d'un ingombrante e troppo abile negoziatore pronto all'ipotesi dello scavalco; […] Se l'ombra di Bascapè non fosse scesa sul grande Presidente del consorzio petrolifero italiano, Cefis avrebbe dovuto cercare altrove l'humus per le sue feconde, fortunate imprese. Invece ecco di nuovo il cividalese al suo antico posto di vice, alle costole stavolta dell'innocuo letterato, mago della statistica, gentiluomo esemplare, Marcello Boldrini. […] Aggredì gli uomini di Mattei, fedelissimi; si liberò degli antichi avversari interni; liquidò rapidamente Boldrini, togliendogli non solo lo scranno presidenziale, ma umiliandolo con l'esclusione persino dal Consiglio di Amministrazione dell'ENI stesso. […] Industriale di Stato e privato ad un tempo; insieme democristiano con chiare disponibilità per altri lidi; non possiede né casa né vettura, ma ha l'una e l'altra; è povero ma ricco: meglio, è ricco ma vuol apparire povero; espropria gli ex-voto dalle chiese ma solo per farli restaurare, abbellendo la saletta d'attesa dello studio privato in via Chiossetto 9 e onora così l'arte, la fede e il gusto (personale); guarda a occidente ma strizza l'occhio magico ad oriente. Giano bifronte o terzino ambivalente di statura internazionale, Cefis è taumaturgo, Cefis è fondatore di S.a.s. (società in accomandita semplice); Cefis è a Pechino o sugli scaloni che hanno bandito il fulgore di michelangiolesche divise; Cefis è mago e mistificatore. […] Una cosa è certa: c'è ancora materia da analizzare. Quello che abbiamo sottoposto a rapido esame è in fondo il bandolo della matassa, ma tocca ad altri dipanarla interamente. Si abbia il coraggio di mettersi all'opera e di andare sino in fondo. […] Meglio ancora, per il credito che merita e per l'inconsistenza di altri tutori, un passo rapido e spietato della Magistratura, perché si faccia luce, finalmente, nei meandri oscuri delle fattorie a conduzione padronale di Eugenio Cefis». In parecchi capitoli di Questo è Cefis l'autore si addentra poi nel mare magnum di speculazioni, malversazioni, evasioni fiscali e comportamenti che si configurano come veri e propri reati: «[…] L'assurda, illegale deviazione dai fini istituzionali dell' ENI; il pubblico denaro sperperato nella gestione (a conduzione familiare) de “Il Giorno”; gli investimenti produttivi e grandiosi (per comprare simpatie, discrezione, silenzio, complicità) con le offerte di pubblicità AGIP e ANIC; le distrazioni capricciose di personale dipendente;

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i pallini del consumismo massificato applicati alla strategia del marketing reclamistico; gli abili ma ingenui sotterfugi delle società immobiliari intestate a fedelissimi capoccioni di turco, come le segretarie-super […]. Il protagonista principe dell'industria di Stato, alla quale sembra relegato mani e piedi, offre […] materia piccante non solo all'attenzione del lettore di rotocalchi e telespettatore fedele, ma anche a qualcuno più in alto, investito di responsabilità che ne portano lo sguardo al di là della semplice curiosità. Il silenzio di questi responsabili non potrebbe configurarsi tacita e volontaria connivenza? È quello che realmente vorremmo chiaramente smentito. […] Cavaliere del Lavoro, presidente dell'ENI, dell'ANIC, della SNAM, dell'AGIP; consigliere della Banca Commerciale Italiana; dottore (non commercialista, comunque) con due uffici privati e una residenza più che rispettabili ed esaltanti; un autista e segreterie particolari; personalità con partecipazioni in diverse Società, italiane e straniere, e con degli stipendi che ancora non risultano versati ai Martinitt o alle Missioni Estere: con tutte queste guarentigie di aristocrazia fiscale, [Cefis] non apparteneva al Gotha dei contribuenti meneghini. […] Il signor Ministro delle Finanze Luigi Preti possiede chiavi e grimaldelli per aprire certe porte sospette, dietro le quali si celano interessi e attività che meritano, col beneficio del dubbio, una severa ispezione. Gli rivolgiamo esplicitamente l'invito, augurandoci che sappia onestamente e cordialmente accoglierlo, di seguire la pista che noi abbiamo appena individuato […]. Al Ministro chiediamo ancora di rivelare cosa si nasconde dietro la cortina fumogena delle esotiche società del Liechtenstein sulla piazza immobiliare di Milano. Potrà anche appurare se i rispettivi bilanci sono affumicati o reali, o soltanto fasulli, come riteniamo noi. D'un malcapitato contribuente borghese o proletario (due termini oggi in via d'elisione reciproca), l'autorità fiscale traccia immediate e rigorose radiografie sui redditi. Non sarebbe quindi perfettamente onesto se il signor Ministro Preti smentisse, cifre alla mano o sulla sua sola parola, un interrogativo fiscale chiamato Cefis Eugenio? […] Ci interessa esclusivamente il fenomeno sociale Eugenio Cefis. Le ragioni sottili e misteriose del suo potere, pieno anche se delimitato per legge e consuetudine; gli interessi privati in atti d'ufficio, deducibili con estrema semplicità logica dal sistema personale di cogestione di altre imprese, sue personali; l'arricchimento ingiustificato raggiunto con le rampe di lancio a lui affidate; il ricorso a innocenti prestanome per mascherare colossali interessi e frodare il fisco; la interferenza politica quotidiana […] Le cosche mafiose, con la elegante andatura di pachidermi, funzionano con precisione cronometrica. Non si sfugge al giro. Nella Giustizia invece abbiamo fiducia: ad essa è stato regolarmente inoltrato il fascicolo, depurando gli alti muretti d'omertà che impediscono la visuale. Sarà un precedente, qualora ottenga soddisfazione. Qualora, cioè, la nostra

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denuncia motivata e collezionata – raggiunga lo scopo (improbabile) di infastidire, nel pieno rispetto della legalità, un gigante come Eugenio Cefis. Schierarglisi contro esige notevole coraggio, di solito non in libera vendita. Ma visto che gli altri non dicono, lo scriviamo noi […] Proprio pulite, quelle mani, [non sono] come lui fa dire, come altri adulatori s'affrettano a celebrare? […] In sintesi: nella misura in cui Eugenio Cefis può giustificare la sua potenza economica di oggi (e tutte le partecipazioni godute in Società), egli potrà liberarsi dall'accusa, abbastanza infamante, di capo mafia, di profittatore senza scrupoli del gas di Stato, essendo partito pressoché nullatenente 25 anni fa. […] Il peculato per distrazione è iscritto come reato nel nostro Codice, e non esige soverchia cultura giuridica per essere inteso. Distrazione (di personale) ne commisero Bazan del Banco di Sicilia ed Ippolito del CNEN (Comitato Nazionale Energia Nucleare), avendo disposto il movimento di certi dipendenti nei singoli enti, per conto degli Istituti, ma nell'interesse esclusivo dei mandanti. Bazan ed Ippolito, per il reato di distrazione di personale finirono in tribunale ed han subìto la galera. Eugenio Cefis non si accontenta di distrarre qualche unità, poniamo dell'ENI, per piazzarla dove lui mantiene interessi (privati) specifici. Cefis ne stacca a decine, da anni e per anni. Sono in molti a saperlo, oltre gli interessati (enti e persone), ma nessuno dice niente, tanto la cosa giova al dipendente, alla ragione sociale dove viene distaccato, al Cefis stesso naturalmente. Che sa di essere perseguibile ma di non correrne il rischio, perché il silenzio è d'oro. I nostri uomini al governo? Sanno benissimo queste ed altre cose: ma non parlano, non lo denunciano, non si oppongono alla trasgressione continuata di una norma di legge. La legge è lui, con i benefici che assicura in partibus infidelium. […] Chiedere la fine della mafia è soltanto un dovere per un cittadino, una forma di deontologia per il giornalista. È quello che domandiamo a gran voce, sicuri di perderci ancora una volta nel coro degli osanna, ma certi, ugualmente, che qualcuno ci ascolta: e annota, e intende, e vuole». Carla Benedetti nel suo Dossier Petrolio analizza ulteriormente ciò che Pasolini aveva in mente scrivendo gli appunti del suo ultimo romanzo: « […] Oggi possiamo capire meglio anche quel Nuovo Potere di cui [Pasolini] parlava. La vulgata su Pasolini ricorda solo la nota tesi sulla distruzione antropologica, riassumendola nello slogan dell'omologazione. Ma l'omologazione fotografa solamente, e in maniera un po' rozza, il risultato dell'azione di quel potere, senza dirci nulla su come esso agisca. Invece la “novità” di questo potere, che Pasolini ha colto in modo più profondo di quanto lasci immaginare quella formula semplificata, sta proprio nel tipo di azione che esso esercita e nel livello che raggiunge: le zone più intime degli individui, i loro desideri, le loro strutture emotive e di pensiero. […] Ma oltre a questo, ci sono altri aspetti del potere che

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Pasolini ha “visto” (tanto che a volte gli si affibbia un nome speciale, chiamandolo “profeta”: definizione infelice). Petrolio, secondo me, è una serie di “visioni del potere”, che aprono una prospettiva non semplificante sui conflitti e sulle lacerazioni provocate dal tardo capitalismo [****], e quindi più radicale di quella che ci hanno consegnato Adorno, Debord, Foucault e altri pensatori del Novecento. Gli altri aspetti del potere che Pasolini mette a fuoco in Petrolio sono: – il nuovo impero (con Roma spostata a New York, come si legge nel San Paolo), che si muove all'insegna del nuovo vello d'oro (il petrolio), il quale non è solo economia ma anche mito (mito della potenza che si estrinseca) e che ha le “fondamenta nel sogno”; – la collusione innocente con il potere. Questa forma di potere di solito resta invisibile, non perché segreta come i complotti che il potere costruisce, ma perché quotidiana, banale. Qualcosa che entra nelle formae mentis, nell'ethos, producendo la sua stessa “innocenza”. Pasolini la chiama infatti “collusione innocente”, ma la potremmo anche chiamare, riprendendo un'espressione di Hannah Arendt, la “banalità del potere”. Può coinvolgere non solo le forze politiche ma anche gli individui, e persino gli intellettuali (“si specializzava in quella particolare scienza italianistica che è la partecipazione al potere”, si legge nell'Appunto 5 di Petrolio, riferito al protagonista); – infine, le “trame” del potere, il “segreto” nel cuore degli stati democratici, e in particolar modo in Italia. Mattei, De Mauro, Feltrinelli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino (li sto elencando senza un criterio, come mi vengono in mente), Rostagno, Ilaria Alpi, D'Antona, Biagi, Michele Landi, tutti i testimoni di Ustica... Una lista impressionante. Bombe, attentati, omicidi, finti suicidi, finti incidenti, finti delitti omosessuali... Spia di una struttura sotterranea di potere che mette i brividi, sottratta non solo ai tribunali ma anche al discorso pubblico. Da ognuno di questi nomi, ai quali dobbiamo aggiungere quello di Pasolini stesso, potrebbe cominciare un romanzo intricatissimo. Il nostro paese potrebbe essere il paradiso per i romanzieri odierni affascinati dai complotti: un serbatoio di “trame” già pronte […]» [31]. Ho già fatto riferimento al Gabinetto Vieusseux di Firenze: nella cartella ove si conservano il manoscritto originale pasoliniano e anche le fotocopie di tale manoscritto – oltre alle fotocopie del libro di Steimetz, ampiamente chiosate e sottolineate –, sono raccolti anche altri materiali relativi a Cefis: in particolare il discorso agli allievi dell'Accademia militare di Modena, tenuto il 23 febbraio 1972, da cui Pasolini era stato particolarmente scosso, al punto che lo cita anche in un intervento alla “Festa dell'Unità” dell'estate 1974: «[…] Dirò subito, e l'avrete già intuito, che la mia tesi è molto più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quel-

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la di Napolitano [32]. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto un'affermazione totalmente eretica o eterodossa. C'è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione estreme il genocidio ad opera della borghesia nei riguardi di determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l'Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia – la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese – hanno subìto questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia. Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. […] I nuovi valori vengono sostituiti a quelli antichi di soppiatto, forse non occorre nemmeno dichiararlo dato che i grandi discorsi ideologici sono pressoché sconosciuti alle masse. La televisione, per fare un esempio su cui tornerò, non ha certo diffuso il discorso di Cefis agli allievi dell'Accademia di Modena. Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, cioè quello del letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema in modo appunto immaginoso, metaforico [33].» In quell'intervento, Pasolini si addentra poi in una descrizione dei “gironi infernali” ai quali si ispira nelle pagine a cui sta lavorando, quelle della Divina Mimesis, una sorta di inferno dantesco nel quale a ciascuna bolgia corrisponde un «determinato modello di vita messo lì dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano rapidamente». Lo scrittore rivela di avere individuato alcuni precisi modelli di comportamento, tra i quali ne pone in evidenza tre: l'edonismo interclassista, «il quale impone ai giovani […] di adeguarsi […] a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali»; la falsa permissività in campo sessuale, al cui modello «il giovane dell'Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante»; l'afasia, vale a dire un modello che prevede la «perdita della capacità linguistica. «[…] o si parla una lingua finta […] oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola […] quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza dire altro». Pasolini prosegue affermando che un tale “genocidio” è stato imposto dalla classe dominante che ha scisso nettamente “progresso” e “sviluppo”, e si chiede se sia concepibile una mostruosità come “uno sviluppo senza progresso”. Pasolini infine conclude:

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«Quello che occorre – ed è qui a mio parere il ruolo del partito comunista e degli intellettuali progressisti – è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e renderne coscienti le masse popolari perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano. Qual è invece lo sviluppo che questo potere vuole? Se volete capirlo meglio, leggete quel discorso di Cefis agli allievi di Modena che citavo prima, e vi troverete una nozione di sviluppo come potere multinazionale – o transnazionale come dicono i sociologhi – fondato fra l'altro su un esercito non più nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale, che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali, naturalmente falsi; ma in realtà di sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa. Mi spiego meglio. È in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani» [34].

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“Chi tocca Mattei muore”. Con una digressione su dietrologie e complotti

Vincenzo Calia, nella sua inchiesta, dopo aver accertato l'origine dolosa dell'“incidente” di Bascapè, a un certo punto si pone la domanda “Chi ha ucciso Mattei? “Tra le ipotesi formulate, una acquista rilievo particolare ed è quella che conduce a Eugenio Cefis, anche se Calia non riesce a raccogliere le prove definitive, circa la colpevolezza come mandante, di colui che sostituì Mattei alla presidenza dell'ENI. Tra le carte che raccoglieva De Mauro e che Gaetano Verzotto aveva avuto modo di visionare quel nome ricorreva comunque esplicitamente. Dice Verzotto a Calia: «[…] Ho già riferito di avere incontrato Mauro De Mauro, nella sua abitazione, anche qualche giorno prima dell'ultimo incontro del 14 settembre. In quell'occasione ci intrattenemmo nel suo studio e io ebbi occasione di vedere e di leggere per la prima volta la sceneggiatura che De Mauro aveva preparato per Francesco Rosi. Ricordo perfettamente che tale sceneggiatura ricostruiva, in chiave di sabotaggio, la fine di Enrico Mattei e – come ho appena detto – indicava quali responsabili – non ricordo se in maniera assolutamente esplicita o indiretta – Eugenio Cefis e Vito Guarrasi […] [35]». Anche tra le carte che aveva raccolto Pasolini per il suo Petrolio ricorre il nome di Cefis. Il protagonista di Petrolio è Carlo, un ingegnere della borghesia torinese, nato nel 1932, laureatosi a Bologna nel '56; lavora all'ENI. È un “cattolico di sinistra”, è brillante, è un “padrone”. Come ho già ricordato, il personaggio è sdoppiato: il primo è Carlo di Polis, uomo pubblico dominato prevalentemente da una coscienza sociale; si occupa di petrolio e delle vicende politiche ad esso legate. Il secondo è Carlo di Tetis [36], diabolico e dominato dalle pulsioni sessuali. Le due interpretazioni del personaggio sembrano avere vicende separate, ma in realtà si scambiano spesso i ruoli ed è difficile distinguerli; sono un'unica persona, in sostanza, emblema di una contraddittorietà insolubile. Proprio per le attività di Carlo di Tetis, per Petrolio si è parlato a sproposito anche di “scandalo”, come ho cercato di documentare al paragrafo Recensioni e saggi critici (cfr. p. 22). Ha scritto Flavio Santi in una sua recensione a L'eresia di Pasolini [37] che il poeta «sarebbe giunto a delineare il mandante dell'omicidio Mattei: non a immaginarlo su basi puramente fantastiche, ma a ipotizzarlo su basi documentarie. Il tutto starebbe nel capitolo di Petrolio, “Lampi sull'ENI”. Ma il capitolo è scomparso e si è arrivati anche a pensare a un trafugamento dopo la morte del poeta [38]. Sta di fatto che pare Pasolini fosse arrivato a conclusioni analoghe a quelle del giornalista Mauro De Mauro, ucciso proprio

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mentre indagava sul caso Mattei. Quello che D'Elia non dice, perché pasolinianamente “non ne ha le prove”, il sagace lettore lo può però dedurre fra le righe. Si delineerebbe, cioè, un collegamento tra l'omicidio Mattei e l'omicidio Pasolini. Magari attraverso una pista “siciliana”. A Catania venne manomesso il bimotore di Mattei. Siciliani pare fossero gli uomini spuntati la notte del 2 novembre 1975 a massacrare il poeta, secondo le dichiarazioni di Pelosi del novembre 2005. Responsabile per l'ENI in Sicilia, nonché segretario regionale Dc, era Graziano Verzotto, dietro cui c'è la fantomatica casa editrice del libro nero su Cefis. Insomma due omicidi politici legati da inquietanti fili in comune. Fantastoria? L'adagio pasoliniano “Io so. Ma non ho le prove” non è ancora spento e riserverà sorprese per il futuro». In un altro intervento, Flavio Santi si sofferma ancora su quanto scritto da D'Elia: «Chi tocca Mattei muore. Perché scende nel cuore di tenebra dell'Italia, fatto di corruzioni, complicità politiche e industriali (da un appunto del Sismi, Cefis risulta il fondatore della Loggia P2), servizi segreti deviati, golpisti (Cefis fu indicato come finanziatore del fallito golpe Borghese del 1970), stragi di massa usate come strumento politico […] aggiungiamo che negli ultimi anni di vita Cefis si era interessato a società televisive (già in passato aveva tentato di scalare il “Corriere della Sera”, proprio negli anni in cui vi scriveva Pasolini...), e che una delle società della “Edilnord centri residenziali”, già “Edilnord Sas” del socio piduista Berlusconi, si chiamava Cefinvest. Semplici, per quanto inquietanti, casualità? [39]». Quanto ancora al “Chi tocca Mattei muore”, emergono dalla relazione di Vincenzo Calia alcune informazioni e testimonianze significative che si riferiscono sia alla morte di Mattei, sia alla scomparsa di Mauro De Mauro. Si tratta prevalentemente di alcuni stralci di deposizioni, che si riferiscono ad alcuni dei numerosissimi testimoni ascoltati dal Pm pavese. Danno un'idea del clima creatosi intorno a quei due delitti, e delle manovre investigative spesso segnate da depistaggi e annacquamenti. Un clima che purtroppo è stato molto presente anche nelle indagini superficiali, parziali, imprecise, spesso fuorvianti, che hanno segnato il periodo successivo all'assassinio di Pier Paolo Pasolini. «[…] Al momento della morte di Enrico Mattei, Amintore Fanfani era Presidente del consiglio e ministro degli esteri. Quasi venticinque anni dopo, nell'ottobre del 1986, in occasione del congresso dei partigiani cattolici, il senatore Fanfani, allora presidente del Senato (presente anche il senatore Paolo Emilio Taviani, ministro degli interni nell'ottobre 1962), ebbe a dire: “Chissà, forse l'abbattimento dell'aereo di Mattei più di venti anni fa è stato il primo gesto terroristico nel nostro paese, il primo atto della piaga che ci perseguita”. È certamente significativo, e anche inquietante che Fanfani abbia ricordato nel

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1986 la morte di Enrico Mattei utilizzando l'inequivoca espressione “abbattimento dell'aereo di Mattei” […]». Ugo Saito: «[…] sostituto procuratore a Palermo, incaricato dell'inchiesta De Mauro, dichiara: “[…] prima della interruzione delle indagini di cui le ho appena fatto cenno, l'istruttoria era giunta a focalizzare delle responsabilità molto elevate e noi prevedevamo che quando avessimo assunto i provvedimenti opportuni, sarebbe successo un finimondo. Noi con la Polizia ritenevamo infatti, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante relativamente alla morte di Enrico Mattei. Ritenevamo infatti che l'eliminazione di Mattei era da ricondursi a Fanfani il quale era sostenitore di una politica petrolifera antitetica a quella di Aldo Moro [...] Noi ci proponevamo, naturalmente, di trasmettere i relativi atti per competenza alla Procura della Repubblica di Pavia, perché avesse provveduto nei confronti di Fanfani per l'omicidio di Enrico Mattei” […]». Igor Man: «Il giornalista, nel corso di un dibattito televisivo, ha raccontato: “Negli ultimi tempi di vita del povero Mauro De Mauro, lui mi disse 'sai sto facendo un'inchiesta molto importante, molto interessante, che se riesco ad agganciare l'ultimo, mi manca l'ultimo trait-d'union, una certa storia, farà un chiasso, altro che Pulitzer, farò sbancare tutto il mondo'; allora io [...], con l'interesse tipico di noi giornalisti, e poi io gli volevo anche bene, perché è un personaggio un po' bizzarro ma con un cuore immenso, uno sregolato, ma straordinario, 'cos'è, che cosa stai facendo', 'sto ricostruendo il caso Mattei, e ti debbo dire che c'è dentro, ci sono dentro tutti; i politici, gli stranie ri, la Cia e, ahimè, pure la mafia” […]». Marino Loretti: «[…] assunto dalla Snam il 1 settembre 1959 come motorista sui Morane Saulnier e amico di Irnerio Bertuzzi, pilota dell'aereo di Mattei abbattuto a Bascapè, morì il 14 agosto 1969 in località Sassone Acquacetosa di Marino, non lontano da Roma, per un incidente di volo. Durante indagini sulla scomparsa di De Mauro, svolte nel 1995 dall'autorità giudiziaria palermitana, si ritrovò quasi casualmente nei faldoni dell'inchiesta una lettera di Loretti indirizzata a Italo Mattei, fratello di Enrico, in cui Loretti sosteneva di essere a conoscenza di fatti, in parte documentabili, che avrebbero potuto illuminare un percorso non ancora seguito sulla morte del presidente dell' ENI. Da una successiva indagine su Loretti sono emerse una serie di circostanze tali da far ritenere che l'incidente di volo dell'I-TUR I non fosse dipeso da mancanza di carburante, ma dalla presenza di acqua nei serbatoi, verosimilmente per causa dolosa […]».

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Bruno Contrada: «Il commissario [ex membro della Polizia di Stato, poi condannato con sentenza definitiva del 10 maggio 2007 a 10 anni per concorso esterno in associazione di tipo mafioso] – incaricato nel 1970 col collega della squadra mobile Boris Giuliano di condurre le indagini sulla scomparsa di De Mauro – ha reso dichiarazioni di eccezionale rilievo: “La ferma convinzione da parte della Polizia e in particolare del Questore di Palermo della fondatezza della pista Mattei, indusse lo stesso questore a incaricare la squadra politica della Questura di Palermo di svolgere una complessa e vasta azione informativa in ordine alla pista Mattei e precisamente al possibile collegamento tra la morte di Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro”. Del caso, infatti, furono interessati gli alti comandi palermitani ed i migliori investigatori della Polizia [Boris Giuliano – ucciso a Palermo il 21 luglio 1979] e dei Carabinieri [Carlo Alberto Dalla Chiesa – assassinato a sua volta a Palermo il 3 settembre 1982]. Giuliano interpretò l'indagine con molta partecipazione, ben deciso a portarla sino in fondo, incontrando sul suo cammino molti e diversi percorsi tra cui quello mafioso legato anche alla droga, tanti articolati scenari e numerosi possibili moventi. “[…] Improvvisamente – senza apparente ragione – le indagini si arrestarono. Col rapporto del 17 novembre 1970 la squadra mobile abbandonò la 'pista Mattei' e, di fatto, le stesse indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro. […] Ebbi occasione di incontrare in procura Boris Giuliano e siccome i nostri rapporti erano molto cordiali, gli chiesi come procedevano le indagini sulla vicenda De Mauro e come mai, improvvisamente, nessuno pareva più interessarsi a tali investigazioni. Boris Giuliano manifestò il suo stupore per il fatto che io non fossi a conoscenza della circostanza che a 'Villa Boscogrande', un Night Club in località Cardillo, vi era stata una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana. In tale riunione fu impartito l'ordine di 'annacquare' le indagini. […] Giuliano mi precisò anche che era presente il direttore dei servizi segreti, facendomene anche il nome: oggi non sono più certo se si trattasse di Miceli o Santovito. Si trattava comunque di colui che in quel momento era al vertice dei servizi segreti […]”». Francesco Rosi ha riferito a Vincenzo Calia di alcune minacce ricevute all'epoca in cui stava progettando il film Il caso Mattei: «di tali minacce parlò anche rispondendo al giornalista che lo intervistava, nel programma televisivo 'Moviola della storia: il caso Mattei', trasmesso dalla Rai il 30 luglio 1998 […]». Salvatore Palazzolo: «[…] su Candido del 5 novembre 1970, venti giorni dopo la scomparsa di Mauro de Mauro, apparve un articolo, dal titolo Mauro De Mauro: gli assassini di Enrico Mat-

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tei colpiscono ancora: “Ben pochi dubbi sussistono ormai sul fatto che il giornalista palermitano Mauro De Mauro, scomparso misteriosamente nel settembre scorso, sia stato eliminato da elementi della mafia siciliana perché al corrente di alcune rivelazioni di straordinaria importanza sulla morte del presidente dell'ENI, Enrico Mattei, disintegratosi con il suo aereo nel cielo di Bascapè alle ore 18.57 del 27 ottobre 1962. Così come cominciano ad affiorare fondati dubbi che anche il giornalista Salvatore Palazzolo, pure lui siciliano, deceduto in circostanze misteriose in un albergo milanese il 17 luglio 1969, sia rimasto vittima della stessa organizzazione criminale responsabile della scomparsa del De Mauro. Anche Palazzolo, infatti, che aveva condotto indagini sulla morte di Mattei, era venuto a Milano per offrire le conclusioni della sua inchiesta a un settimanale”» [40]. Risulta evidente anche dalle note precedenti contenute nella relazione Calia definire ipotesi da approfondire ulteriormente quelle che individuano nell'assassinio di Pier Paolo Pasolini una possibile variante del “Chi tocca Mattei muore” e che sussistano molti elementi di dubbio sia sugli assassini di Pasolini, sia sui moventi dell'omicidio, sia ancora sui mandanti. Per quanto mi riguarda, in queste pagine intendo dar conto delle ultime ipotesi e testimonianze espresse. Per poter formulare una qualsiasi valutazione, infatti, ritengo utile che si ascoltino anche queste voci, evitando in tal modo che vi siano fraintendimenti, pregiudizi o esclusioni aprioristiche. Sono cosciente dell'attrattiva che esercitano le ipotesi di scrittori e commentatori che, ritengo con onestà intellettuale, non hanno celato i loro punti di vista. E soprattutto non riesco a rimanere indifferente alla lettura della relazione Calia. E aggiungo che, dopo la citazione di Petrolio fatta da quest'ultimo, il magistrato, rispondendo nei mesi successivi alle sollecitazioni di alcuni intervistatori, ha dichiarato che a suo parere sarebbe stato augurabile che venissero svolte ulteriori indagini sull'omicidio di Pasolini, cosa tra l'altro richiesta alla Procura di Roma nell'aprile 2009. Se sono emerse nuove circostanze, nuove testimonianze, nuovi elementi di prova, si dovrebbe chiedere a gran voce che su tali elementi venissero effettuati opportuni riscontri finalizzati a fare chiarezza anche sul piano investigativo e giudiziario su quell'omicidio. Il mio personale convincimento è legato in primo luogo alla sentenza di primo grado al processo a Pino Pelosi: «[…] È vero che esiste in atti la confessione piena dell'imputato, ma tale confessione – nel vigente ordinamento di rito penale fondato sul libero convincimento del giudice sulla base di tutte le risultanze di causa – non esime il Tribunale dal ricercare la verità sostanziale. Anche in presenza di una confessione è sem-

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pre necessario che il collegio giudicante esamini tutti gli elementi acquisiti agli atti per non lasciarsi fuorviare da ciò che viene interessatamente rappresentato ma per controllare se effettivamente ciò che viene ammesso corrisponda in pieno a ciò che è realmente avvenuto. [...] Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo il Pelosi non era solo. Esistono infatti sia prove positive che dimostrano in modo inequivocabile che quanto meno un'altra persona era presente al fatto, sia elementi indiziari univoci e concordanti, desumibili dalle risultanze probatorie e peritali, che confortano tale tesi […]» [41]. Seguono minuziose constatazioni del collegio giudicante rispetto alle circostanze a sostegno della tesi che l'omicidio fosse opera di «Pelosi in concorso con altri rimasti sconosciuti». Il testo della perizia medico-legale del professor Durante di cui darò conto più avanti (le prove della partecipazione di altre persone oltre a Pelosi al massacro di Pasolini secondo me sono principalmente lì) e l'arringa dell'avvocato di parte civile Guido Calvi (quinta postilla a questo mio lavoro) non lasciano alcuno spazio a quella che è stata la versione di Pino Pelosi almeno fino a trent'anni dopo il delitto, cioè alle sue ripetute asserzioni durante il processo, che la responsabilità dell'omicidio fosse soltanto sua. È se vi fu partecipazione plurima al delitto (che è ciò che sostiene dal 2005 anche Pino Pelosi, ma che non è la risultanza definitiva sancita dalla cassazione del processo a suo carico), occorre andare oltre, interrogandoci sui motivi dell'omicidio, e inevitabilmente sui moventi e sui mandanti. Carlo Lucarelli in Così morì Pasolini ricostruisce l'assassinio dello scrittore. Partendo dalle nuove clamorose dichiarazioni di Pino Pelosi del 2005, considerato fino ad allora quale unico responsabile dell'omicidio, e dalla testimonianza di Sergio Citti, ipotizza l'esistenza di un piano premeditato per porre fine alla vita del poeta. «Noi italiani abbiamo due brutti vizi», dichiara Lucarelli in una intervista, «la dietrologia e la voglia di “giallo”, che ci fanno sempre immaginare qualcosa di strano dietro ogni avvenimento. Spesso è un errore, spesso purtroppo no, ma a volte capita che si senta il bisogno di approfondire quello che è successo perché da questo può nascere comunque una riflessione utile e importante. Pier Paolo Pasolini è un poeta, un regista, uno scrittore, un intellettuale di cui sentiamo tutti la mancanza, ma purtroppo è anche un mistero, un “mistero italiano”, e chiedersi qualcosa sulla sua morte significa riflettere su tanti altri temi, altrettanto importanti. Mettere in fila i fatti, rivedere le indagini svolte e soprattutto quelle mai eseguite, anche alla luce dei più recenti avvenimenti e delle ultime interpretazioni, può essere utile e alla fine, come spesso accade, riservare qualche strana sorpresa» [42].

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Lucarelli entra poi nel merito del “Chi tocca Mattei muore”, cioè della relazione di Vincenzo Calia: «[…] Per sbrogliare questa intricata matassa, ci viene in soccorso […] la conclusione dell'inchiesta del giudice Calia, che fornisce, sia pure indirettamente, una possibile chiave di lettura anche di questi fatti. Negli atti conclusivi della sua inchiesta (20 febbraio 2003), Calia dedica ampio spazio alla vicenda della sparizione del giornalista de “L'Ora” Mauro De Mauro. De Mauro fu rapito a Palermo la sera del 16 settembre 1970 davanti alla sua abitazione. Se il suo corpo non fu mai ritrovato e di lui, da quel momento, non si seppe più nulla, ben presto però fu chiaro che il suo rapimento era da collegarsi al “caso Mattei”. […] Il giornalista si era molto appassionato al tema, anche perché otto anni prima proprio lui era stato inviato de “l'Ora” a seguirli “in presa diretta”. E aveva cominciato a sentire un'infinità di testimoni. Fu proprio raccogliendo queste testimonianze che si trovò improvvisamente di fronte a una versione radicalmente diversa dei fatti, a un'altra “verità”. A fornirgliela fu Graziano Verzotto, un senatore democristiano, che in quel momento era presidente dell'Ente minerario siciliano. Al giudice Calia, Verzotto dichiara: “Eugenio Cefis e Vito Guarrasi (un celebre avvocato civilista, consulente dell' ENI e di molte altre società nazionali operanti in Sicilia, quasi sconosciuto alla stampa e all'opinione pubblica, ma al centro di vicende economiche e politiche di rilevanza nazionale) – e il loro entourage – si erano sicuramente avvantaggiati della morte di Mattei: entrambi, infatti, erano stati poco prima della sua morte allontanati dagli incarichi che ricoprivano prima”. E ancora: “Ritengo che il sequestro del giornalista sia intimamente connesso al progetto per la costruzione di un metanodotto tra l'Africa e la Sicilia”. Era nata, infatti, un'accesa disputa tra l'Ems e l'ENI sulla fattibilità e sulla convenienza del controverso metanodotto. “Io avevo ritenuto”, dichiara sempre a Calia Verzotto, “che era mio dovere, quale aderente a una corrente Dc (Gullotti) che si opponeva alla corrente 'fanfaniana' (cui faceva riferimento Eugenio Cefis), nonché quale presidente dell'Ems (come tale direttamente interessato alla realizzazione del metanodotto), dare un fattivo contributo per contrastare chi si opponeva al più volte citato progetto di realizzazione del metanodotto. [...] Tra gli oppositori al progetto [...] si stagliava, naturalmente, il presidente dell'ENI” [Cefis]. La ragione per la quale Verzotto decise di dire queste stesse cose, e molte altre, al giornalista de “L'Ora” fu, appunto, questa. Egli era perfettamente consapevole che il film di Rosi “poteva essere uno strumento per sostenere e alimentare la campagna che l'Ente da me presieduto intendeva portare avanti contro la presidenza dell' ENI e contro coloro che si opponevano alla realizzazione del metanodotto”. E quando De Mauro verrà sequestrato, Verzotto non ci metterà molto a capire che quella è anche un'intimidazione nei suoi confronti, e cercherà di adeguarsi. “Ebbi l'impressione che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spa-

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ventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del metanodotto”. E dunque: dietro a De Mauro, che lavora per il film di Rosi, c'è Verzotto, con le sue informazioni; dietro a Pasolini, che lavora a Petrolio, c'è ancora una volta Verzotto! E a questo contesto che si riferisce Dario Bellezza nel suo libro Il poeta assassinato? “Pasolini”, scrive, “mi disse un giorno, poco prima di morire, che aveva ricevuto dei documenti compromettenti su un notabile Dc “. Per poi concludere: “Per me, ne sono più che convinto, c'è stato un mandante ben preciso che va ricercato fra coloro per i quali Pasolini chiese il processo. Un potente democristiano”. Basta questo per uccidere un uomo come Pier Paolo Pasolini? Forse sì, se è bastato per far tacere per sempre una voce, certo meno temibile, come quella di Mauro De Mauro. E si può aggiungere un'altra riflessione. In Italia raramente gli intellettuali vengono uccisi per quello che sanno. Il muro di gomma, allora come adesso, è così resistente che le informazioni rimbalzano e la “sola puerile voce” non è mai così pericolosa. Diverso è se si diventa, anche inconsapevolmente, armi nelle mani di qualcuno più potente e organizzato, soldati inconsapevoli in una delle tante battaglie oscure che si combattono per il potere […]» [43]. Sui motivi dell'assassinio di Pasolini a mia volta esprimo alcune considerazioni. La persecuzione di Pasolini è stata attuata con modalità diverse: attraverso la stampa, soprattutto quella che faceva capo alle posizioni più reazionarie, che ha contribuito fortemente a ispirare odio nei suoi confronti; con le aggressioni anche fisiche di cui è stato vittima soprattutto a opera di fascisti; con profondi dissensi su molti dei suoi scritti, e anche sui suoi comportamenti privati, espressi anche da alcuni esponenti del partito per cui Pasolini dichiarava il proprio consenso; con le numerosissime denunce nei confronti delle sue pubblicazioni e dei suoi film e i conseguenti procedimenti giudiziari a suo carico. Politicamente poi, gli articoli che Pasolini ha scritto per il “Corriere della Sera” e altri organi di stampa negli ultimi cinque anni della sua vita sono stati a loro volta una accentuazione della sua critica, fuori dai denti, senza ambiguità di sorta nei confronti del potere, del “Palazzo” come lui stesso l'aveva definito. Ciò indubbiamente aveva generato nei confronti di Pasolini ulteriori contrarietà e astio; molto probabilmente, qualcuno aveva cominciato a pensare di “fargliela pagare”. Che cosa, se non un odio smisurato, ha fatto dire a Giulio Andreotti che Pasolini la sua morte “se l'è cercata”? Era politico il discorso di Pasolini sulle gravissime responsabilità di una classe dirigente per la quale lo scrittore chiedeva un processo? Erano prese di posizione politiche le parole di Pasolini che descrivevano le condizioni omologanti, in campo politico e socio-culturale, alle quali tutto un popolo si stava conformando acriticamente? Era politica la sua affermazione che gli italiani vivevano ormai in una “Nuova Preistoria” che perpetrava un vero e proprio genoci-

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dio delle coscienze, degli animi, delle menti? E se ciò che Pasolini sostiene nei suoi scritti giornalistici, nelle sue sceneggiature cinematografiche fino a Salò o le 120 giornate di Sodoma (anzi, fino a quel Porno-theo-kolossal rimasto a livello di trattamento in cui Pasolini descrive una “Città-Utopia che si chiama Gomorra”…) e nei suoi libri fino a Petrolio, è legittimo affermare che il suo è stato un omicidio politico, tragica conseguenza attribuibile a burattinai di una politica degenerata, la stessa che ha prodotto in quegli anni, oltre al malgoverno e alle malversazioni, stragi e tentativi di colpi di stato? Su chi ha avuto la responsabilità maggiore del massacro del poeta, quindi sui mandanti, sospetti sono stati spesso manifestati negli oltre trent'anni che corrono tra l'omicidio di Pier Paolo Pasolini e i giorni nostri. Ora possediamo elementi in più da valutare e su cui riflettere. Uno è quello costituito dal riferimento a Pasolini contenuto nelle carte di Calia: il magistrato, infatti, dopo averci fatto conoscere le testimonianze riguardanti Eugenio Cefis, non casualmente si appella anche a Pasolini, in particolare ai contenuti di Petrolio. Non è in questione il fatto di respingere o di abbracciare alcuna teoria dei complotti. Né di accogliere acriticamente o di costruire romanzi gialli. Si tratta, molto più semplicemente, di prendere atto che vi sono nuovi elementi sui quali indagare che, oggi più di ieri, possono condurre a ciò che dovrebbe interessare tutti: pretendere cioè di far luce in maniera risolutiva sull'assassinio di Pier Paolo Pasolini. D'altronde, dovrebbe essere noto che il nostro Paese si è nutrito a lungo, appunto, di complotti, di insabbiamenti, di reticenze, di connivenze e di trame oscure e segrete che hanno interessato sia eliminazioni fisiche (individuali o stragistiche) sia progetti di colpi di Stato. I misteri d'Italia sono innumerevoli, a partire da quello sul ruolo reale di Salvatore Giuliano, con le sue connessioni mafiose e politiche che facevano capo all'allora ministro Mario Scelba, fino a quelli riguardanti le connessioni del terrorismo anni '70 che insanguinò il nostro Paese. Le stragi di Piazza Fontana, di Brescia, di Bologna e di Ustica, sono tuttora senza colpevoli accertati. Per avere notizia della strage nazifascista di Sant'Anna di Stazzema (12 agosto 1944) e di altri eccidi di quei giorni occorsero cinquant'anni. E la “scoperta” dell'armadio della vergogna in cui erano stati celati molti fascicoli sulle stragi di quell'epoca mise in luce eventi tragici, collusioni tra governi, inammissibili, vergognosi e omertosi opportunismi politici. Il caso Moro è ancora attuale poiché molti aspetti non sono stati del tutto chiariti. Lo stesso caso De Mauro è tuttora oggetto di approfondimenti presso la Procura palermitana. Si dovrebbe farla finita di indagare? O sarebbe forse il caso che gli Archivi di Stato venissero finalmente svincolati dal segreto e, laddove si riscontrassero elementi validi, anche complottistici, le Procure si rimettessero in moto?

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Ritorno alla relazione finale di Vincenzo Calia sul caso Mattei – come ho ricordato, oltre quattrocento cartelle, comprendenti numerose deposizioni di testimoni e alcune consulenze – riguardante l'inchiesta da lui condotta per circa nove anni e conclusa nel 2003, poiché quella indagine è la dimostrazione lampante di come sia possibile riaprire un caso e raggiungere conclusioni che rendano un grande servizio all'accertamento della verità con modalità “scientifiche” che escludano una volta per tutte ipotesi, congetture, supposizioni, ricostruzioni approssimative o parziali, ritrattazioni menzognere più o meno scontate, magari fornendo a supporto informazioni inattendibili o documentate soltanto in parte. Su Mattei, in particolare, Vincenzo Calia ha provato – come ho già riferito – che la sua morte fu dovuta a un'azione di sabotaggio dell'aereo su cui viaggiava, azione che aveva come obiettivo l'assassinio del presidente dell'ENI. Ecco come il magistrato parla delle prove raccolte: «Deve ritenersi […] acquisita la prova che l'aereo a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Irnerio Bertuzzi venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962 […] L'indagine tecnica confortata dalle testimonianze orali e dalle prove documentali […] ha infatti permesso di ritenere inequivocabilmente provato che l'I-Snap [nome in codice dell'aereo, ndr] precipitò a seguito di un'esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi all'interno del velivolo […] Come è già stato dimostrato il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello”. [...] L'indagine a distanza di quarant'anni dal delitto, si è posta come ulteriore obiettivo possibile la ricerca delle responsabilità personali e dirette nella morte del presidente dell'ENI e dei suoi due compagni di viaggio. Le prove orali, documentali e logiche raccolte […] pur avendo consentito di delineare il contesto all'interno del quale maturò il delitto, non permettono l'individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni, pur intensi e plausibili, di per sé inadeguati non soltanto a sostenere richieste di rinvio a giudizio, ma anche a giustificare l'iscrizione di singoli nominativi sul registro degli indagati o a protrarre ulteriormente le investigazioni […] Si dispone, in sostanza di una serie cospicua di indicazioni di responsabilità, non sostenute da fonti di prova concrete e suscettibili – allo stato – di verifica o riscontro. Il giudice per le indagini preliminari avrà pertanto il compito di valutare il materiale raccolto da una prospettiva terza, verificando la condivisibilità della richiesta [...]». Il dettagliatissimo resoconto d'inchiesta di Vincenzo Calia fornisce dunque la certezza che l'aereo di Mattei precipitò per cause do-

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lose (le indagini della polizia scientifica, utilizzando tecniche sofisticate tra le più recenti, fornirono infatti le prove che fossero presenti sulle parti metalliche dell'aereo di Mattei tracce di esplosivo) e acquisisce centinaia di testimonianze condotte dal magistrato allo scopo di dare anche dei nomi agli autori e ai mandanti dell'attentato, obiettivo purtroppo non raggiunto compiutamente poiché, come scrive il magistrato: «Secondo alcuni gli stretti legami di Eugenio Cefis con gli ambienti dell'oltranzismo atlantico, difensori degli interessi politici ed economici che più fieramente avversavano l'azione di Enrico Mattei, hanno probabilmente contribuito ad alimentare generici sospetti sulla non estraneità di Cefis alla morte di Mattei». Calia si sofferma nella sua relazione su colui che sarà il successore di Mattei, Cefis appunto, e raccoglie numerose testimonianze: «Scomparso Mattei, gli succedette l'anziano Marcello Boldrini, affiancato come vicepresidente operativo da Eugenio Cefis, al quale andò invece la presidenza dell'AGIP e delle altre società del gruppo: Cefis assunse pertanto tutti i poteri, assai prima della sua ascesa alla presidenza, nel giugno 1967». Segue una lunga serie di informazioni attraverso le quali Calia delinea un profilo approfondito di Eugenio Cefis, tra cui la sua appartenenza alla loggia P 2, i cui fini evidenti erano di sovversione dell'assetto socio-politico-istituzionale italiano, come accertò la Commissione parlamentare appositamente istituita: a conclusione dei lavori di tale Commissione la P2 fu sciolta con legge del 1982. Scrive ancora Calia: «In un suo articolo, Gianluigi Melega fornisce vari elementi dai quali si evince come intorno a Eugenio Cefis ruotassero molti personaggi iscritti alla loggia massonica P 2: “Albanese Gioacchino (tessera P2 2210). Entra all'ENI nel 1964. Nel 1966 ne esce per fare l'assistente al Ministro delle Partecipazioni Statali, il democristiano di sinistra Carlo Bo. Rientra all' ENI come assistente di Eugenio Cefis con delega alle relazioni esterne e ai rapporti con la stampa. È uno dei tessitori della scalata ENI alla Montedison, poi dell'acquisto del 'Messaggero' e del controllo indiretto del 'Corriere della Sera' ai tempi di Angelone Rizzoli (tessera 1977) e Bruno Tassan Din (tessera 1633), direttore Franco Di Bella (tessera 1887). Dopo l'abbandono di Cefis, Albanese passa per pochi mesi nella direzione dell'impero edilizio di Mario Genchini (tessera 1627), ma con l'arrivo all' ENI di Giorgio Mazzanti presidente (tessera 2111) e di Leonardo Di Donna potentissimo direttore finanziario (tessera 2086) ritorna alla grande come vice presidente dell'Anic”». E sempre a proposito della loggia segreta P 2, in un documento trasmesso dal Sismi e riprodotto nella relazione Calia si legge: «APPUNTO – Notizie acquisite il 20 settembre 1983, da qualificato professionista molto vicino ad elementi iscritti alla Loggia P 2, dei quali non condivide le idee: 1. […]

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2. […] 3. […] 4. La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l'ha gestita sino a quando è rimasto Presidente della MONTEDISON. Da tale periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo ORTOLANI-GELLI, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi violenti (ROVELLI della SIR) contro uomini legati ad ANDREOTTI con il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scandalo dei petroli. 5. […] 6. Alle ore 15.30 di oggi, 21 settembre 1983, ho conversato telefonicamente con la nota fonte di New York che mi ha confermato quanto al precedente appunto, […]. Non ha potuto aggiungere altro per motivi di sicurezza nelle trasmissioni. Sarà disponibile dal 5 ottobre p.v. dovendosi assentare per motivi di lavoro […]». Il 17 settembre 1982 la direzione del Sisde riceveva dal Centro Sisde 1 di Roma un altro appunto sui contatti intervenuti tra Licio Gelli e Eugenio Cefis: l'appunto è trascritto nella relazione Calia ed è riportato qui di seguito: «RISERVATO – APPUNTO 1. Intensi contatti sarebbero intercorsi in SVIZZERA, fino al mese di agosto u.s., tra Licio GELLI ed Eugenio CEFIS, Presidente della MONTEDISON INTERNATION. 2. È probabile che la notizia venga pubblicata da organi di stampa». Vincenzo Calia dà conto anche delle sue indagini approfondite sulla scomparsa di Mauro De Mauro: quest'ultimo tra l'altro si era recato in Sicilia, a Gagliano, dove il 27 ottobre 1962, prima di ripartire diretto a Milano, Mattei era stato accolto da una folla festante. Tenne un discorso alla popolazione, e di tale discorso si parlò molto nel corso delle indagini sulla scomparsa del giornalista palermitano. È stato infatti accertato che, nei giorni precedenti la scomparsa, De Mauro aveva ripetutamente ascoltato la registrazione curata da un cittadino di Gagliano, quasi a sforzarsi di capire frasi o parole non immediatamente intelligibili. Ma si constatò anche che dal quaderno di appunti di De Mauro, rinvenuto nel cassetto della sua scrivania presso la redazione de “L'Ora”, mancavano due pagine, proprio nella sezione relativa al discorso di Gagliano [il corsivo e mio, nda] Di seguito, sempre su De Mauro, ecco quanto scrive Calia: «Si è già riferito che le notizie sulla sciagura di Bascapè scomparvero rapidamente dai giornali nazionali, ma che l'interesse della stampa per la morte di Enrico Mattei si ridestò verso la

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fine del 1970, in particolare quando le indagini sulla scomparsa del giornalista de “L'Ora”, Mauro De Mauro, imboccarono la cosiddetta “pista Mattei”. Si era ritenuto, in altri termini, che il giornalista palermitano fosse stato sequestrato e ucciso per aver scoperto qualcosa di importante circa la morte del presidente dell'ENI. Il regista Francesco Rosi aveva infatti incaricato Mauro De Mauro di collaborare alla sceneggiatura del film Il caso Mattei, ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi dal presidente dell' ENI in Sicilia. L'inchiesta sulla scomparsa di Mauro De Mauro si concluse, peraltro, con un nulla di fatto, nonostante il lungo protrarsi delle indagini e la richiesta di altre investigazioni formulata dal Gip di Palermo ancora nel 1991. La definitiva archiviazione del procedimento (18 agosto 1992) fu motivata anche con la considerazione che De Mauro non poteva aver scoperto nulla di sensazionale intorno alla morte di Enrico Mattei, dal momento che la magistratura di Pavia [44] aveva ritenuto accidentale il disastro di Bascapè». All'inizio del resoconto della sua inchiesta, su De Mauro Vincenzo Calia si esprime anche sulle difformità riscontrate tra i comportamenti della squadra mobile e dei carabinieri, ascoltando e verbalizzando numerosissime testimonianze. Risulta così che nelle inchieste degli anni '70 vi fu un depistaggio delle indagini da parte dei carabinieri. «La lettura delle carte processuali consente di disegnare il quadro nel quale maturò il sequestro di Mauro De Mauro, di tracciare con sufficiente chiarezza i contorni della vicenda e, forse, di formulare ipotesi sui mandanti. Le indagini incidentali, occasionate dalla riapertura del “caso Mattei”, confermano e mettono a fuoco quel quadro, svelando altresì le forti resistenze che impedirono di far luce sulla scomparsa del giornalista. La “pista Mattei” aveva preso corpo sin dalle prime indagini della squadra mobile. Si sviluppò, con dimensioni e clamore imprevisti, per poi dissolversi già ai primi di novembre del 1970. […] I carabinieri, sin dal primo rapporto del 6 ottobre 1970, sostennero che la scomparsa del De Mauro era la reazione della mafia alla imprudente scoperta, da parte del giornalista, di un vasto traffico di stupefacenti tra l'America e la Sicilia. Tale convinzione apodittica fece sì che l'Arma ignorasse o confutasse tutti gli indizi che conducevano verso la “pista Mattei”. Il 21 novembre 1970 l'Arma di Palermo depositò il secondo rapporto. Si ripropose l'inconsistente tesi per cui i vertici di Cosa Nostra avevano sequestrato Mauro De Mauro per evitare rivelazioni su di un vasto traffico di stupefacenti con gli Stati Uniti. Dopo un altro breve rapporto di aggiornamento (28 dicembre 1970), i carabinieri cercarono di rafforzare tale tesi, proponendo l'opinione conforme di Graziano Verzotto, presidente dell'Ente Minerario Siciliano

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(rapporto del 25 settembre 1971). […] L'Arma continuò, invece, a ignorare il personaggio che la polizia e la stampa indicavano ormai come “La testa del serpente” o “Mister X”, che si diceva essere coinvolto nella morte di Enrico Mattei e nella scomparsa di Mauro De Mauro: l'avvocato Vito Guarrasi. Il suo nome – incredibilmente – non appare nei rapporti dei carabinieri. Quei rapporti (tutti, a eccezione del primo) firmati dal capitano Giuseppe Russo rendono oggi palese l'impegno depistante profuso nella vicenda. Lo svelano nuove fonti di prova, orali e documentali. […] Il 4 settembre 1998 Verzotto ha dichiarato: “Ho immediatamente ritenuto che De Mauro fosse stato sequestrato proprio a causa della [...] indagine che egli stava svolgendo sulle responsabilità nella morte di Enrico Mattei. [...] Ho anche detto in un'altra occasione che De Mauro era stato sequestrato perché aveva molestato la mafia che trafficava in droga. Ammetto di avere depistato. Tale depistaggio mi venne suggerito dai Carabinieri e io, anche in ragione dei buoni rapporti che avevo con l'Arma ... decisi di seguire il suggerimento ...”. […] Il 27 maggio 1996 Elda De Mauro aggiunge: “... Dopo la scomparsa di mio marito ho incontrato diverse volte il colonnello Dalla Chiesa, ma l'incontro che più mi ha turbato e offeso ebbe luogo circa dieci giorni dopo il sequestro De Mauro. Si era a casa mia ed era presente anche Aldo Costa, redattore capo de 'L'Ora', morto recentemente. Cogliemmo l'occasione per fare il punto delle indagini e, in particolare, per capire quale era la ragione che poteva aver indotto qualcuno a sequestrare mio marito. Si cercava, in sostanza, di capire a cosa Mauro De Mauro stesse lavorando: egli era in ferie e non aveva quindi in corso alcuna inchiesta per il suo giornale. In quel periodo sono certa che non aveva in cantiere alcun articolo sulle attività della mafia. Egli aveva ricevuto a giugno o luglio l'incarico da Rosi e approfittava appunto delle ferie per portare a termine il lavoro commissionatogli. […] Per tornare all'incontro con Dalla Chiesa, ricordo che io feci presente al colonnello, il quale insisteva nel sostenere che Mauro era stato sequestrato per aver scoperto dove sbarcava la droga destinata alla mafia, che mio marito si occupava da oltre un mese esclusivamente della ricostruzione degli ultimi due giorni di vita di Enrico Mattei. Fu a quel punto che Dalla Chiesa mi disse: 'signora, non insista su questa tesi, perché, se così fosse ci troveremmo dinanzi a un delitto di Stato e io non vado contro lo Stato'. […] Come già esposto, dopo i primi giorni di indagine sulla scomparsa di Mauro De Mauro, la polizia aveva imboccato con convinzione la “pista Mattei”. Sino ai primi giorni del novembre 1970 le indagini procedettero alacremente e […] la vicenda pareva ormai prossima alla soluzione; il questore aveva infatti convocato una conferenza stampa, anticipando ai giornalisti una svolta clamorosa. Vito Guarrasi, evidentemente consapevole di quanto andava maturando a suo carico, si incontrò riservata-

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mente con il colonnello Dalla Chiesa nei primi giorni di novembre del 1970. Improvvisamente – senza apparente ragione – le indagini si arrestarono. Col rapporto del 17 novembre 1970 la squadra mobile abbandonò la “pista Mattei” e, di fatto, le stesse indagini sulla scomparsa di Mauro De Mauro».

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Petrolio nella relazione Calia

Vincenzo Calia entra infine nel merito di quanto scritto da Pasolini nel suo ultimo romanzo e riferisce, riportando alcuni stralci da Petrolio: «Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva avanzato sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Tali allusioni sono rintracciabili nella frammentaria stesura del suo ultimo lavoro incompiuto (Petrolio, Einaudi, Torino, 1992): il personaggio ivi chiamato Troya potrebbe mascherare Eugenio Cefis, mentre Bonocore sarebbe lo stesso Mattei), la cui unica utilità investigativa [Calia si riferisce evidentemente all'attività investigativa che stava conducendo in quegli anni sul “Caso Mattei”, nda] potrebbe riguardare la ricerca delle fonti utilizzate dall'autore. “[…] Aldo Troya, vicepresidente dell'Eni, è destinato a diventare uno dei personaggi chiave della nostra storia. […] Lui, Troya, è un uomo sui cinquant'anni […]. La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso. […] Il sorriso di Troya è invece un sorriso di complicità, quasi ammiccante: è decisamente un sorriso colpevole. Con esso Troya pare voler dire a chi lo guarda che lui lo sa bene che chi lo guarda lo considera un uomo abbietto e ambizioso, capace di tutto, […] Il linguaggio con cui egli si esprimeva era la sua attività, perciò io, per interpretarlo, dovrei essere un mercialista oltre che un detective. Mi sono arrangiato, ed ecco cosa sono venuto a sapere.[…] Troya emigrato a Milano nel 1943, fu colto non inaspettatamente impreparato alle proprie scelte, a quanto pare, dalla fine del fascismo e dall'inizio della Resistenza. Partecipò infatti alla Resistenza […]. Il capo di quella formazione partigiana era l'attuale presidente dell'Eni, Ernesto Bonocore. […] le madri: una certa Pinetta Sprìngolo di Sacile, per Troya, e una certa Rosa Bonali, di Bescapè (xxx) per Bonocore). […] La cosa che vorrei sottolineare è la seguente: Troya nella formazione partigiana era secondo. E la cosa pareva gli si addicesse magnificamente fin da allora. […]. Sarebbe troppo lungo, e per me, poi, impossibile, seguire tutta la lenta storia (due decenni) di questa accumulazione e di questa espansione. Mi limiterò dunque a dare un panorama, […]. Dunque, Troya è attualmente vicepresidente dell'Eni. Ma questa non è che una posizione ufficiale, premessa per un ulteriore balzo in avanti dovuto non tanto a una volontà ambiziosa quanto all'accumularsi oggettivo e massiccio delle forze guidate da tale volontà. La vera potenza di Troya è per ora nel suo im-

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pero privato, se queste distinzioni sono possibili. […] L'altro fondamento primo dell'impero di Troya era la Società Immobiliari e Partecipazioni (?) […]. Era […] di Cividale, Civitas: la Città del Friuli […]”. Pasolini aveva quindi elencato una lunga serie di società collegate tra loro, e amministrate da persone riconducibili al vicepresidente dell'ENI. Si tratta di alcune delle società elencate da Giorgio Steimetz in Questo è Cefis, l'altra faccia dell'onorato presidente: i nomi di tali società sono stati sostituiti con altri assonanti. Alla 'Immobiliari e Partecipazioni' di Pasolini, corrisponde la 'IN.IM.PAR.' (Iniziative Partecipazioni Immobiliari) di Steimetz. Alla 'Spiritcasauno' e 'Spiritcasadieci' di Pasolini, che devono il nome “al fatto che presentemente Carlo Troya abitava in Via di Santo Spirito, a Milano”, corrispondono, nella realtà, la 'Chiocasauno', 'Chioscasadue', ecc., così chiamate perché Eugenio Cefis abitava in via Chiossetto a Milano. Mentre Steimetz citava la 'GE.DA', poi 'PRO .DE.' (Profili Demografici S.p.A.), 'DA.MA.' (Data Management S.p.A.) e quindi 'SYSTEM-ITALIA' (la stessa società che aveva assunto la figlia del contadino Mario Ronchi [45]), Pasolini le elencava con acronimi assonanti: “[…] 'Am.Da.', 'Amministrazione Dati Spa' […]. La 'Am.Da.' viene incorporata dalla 'Li.De. (Lineamenti Demografici Spa), con oggetto “stampa e spedizione di lettere e corrispondenze, formazione di schedari ecc.”. […] Qualcosa insomma, tecnicamente, come un piccolo Sid […]. Poi la 'Li.De.' si trasferisce (appunto) a Roma […]. E la società prende il nome di 'Da.Off.', Data Office Spa. Ma per poco, perché ben presto […] la società si richiama di nuovo 'Am.Da.'. E a questo punto […] la società ampliandosi, espandendosi, prende il definitivo nome di 'Pattern italiana' […]”. E così via, con altre società, immobiliari, petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità, televisive, ecc. “Appunti 20-30 Storia del problema del petrolio e retroscena *

LAMPI SULL' ENI

Appunti 20-25 circa (antefatti) Le fonti Appunti 25-30 circa (la trama): Appendici gialle […]

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- La signora presso cui c'è il ricevimento è la Signora titolare di un Ente Culturale finanziato (per ragioni di amicizia o parentela) sia da Cefis che da Monti […] * Il racconto che porta al punto di incrocio del salotto della Signora è costituito tutto da notizie e informazioni di affari e parentele ecc. (Appunti 20-30). Ma anche nel punto di incrocio si raccontano (?) fatti di affari, interessi, mene, clientelismo che preparano la II parte In questo preciso momento storico (I BLOCCO POLITICO) Troya (!) sta per essere fatto presidente dell'Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo ('68): bombe attribuite ai fascisti (Restivo lo conosciamo nel salotto della signora F.) Il II BLOCCO POLITICO (app. sarà caratterizzato dal fatto che la stessa persona (Troya) sta per essere fatto presidente della Montedison. Ha bisogno, con la cricca dei politici, di una verginità fascista (bombe attribuite ai fascisti) ** inserire i discorsi di Cefis: i quali servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito […] Mattei lo usa per i contatti coi fascisti (proprio per la sua intaccabilità di antifascista e cattolico di sinistra) I fascisti siciliani ricattano – per questa ragione – Carlo quando è il momento di ammazzare Mattei; e Carlo si fa complice (sia pure solo col silenzio). A proposito della mafia […]” (pagg. 90, 98, 99, 101, 102, 104, 117, 546).»

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Sviste d'autore. Pagine bianche. “Lampi sull'ENI”

Come ha fatto notare Gianni D'Elia [46] quando Pasolini parla di I e II BLOCCO POLITICO cade in contraddizione, commette un errore

del tutto casuale di scrittura, una svista, che è possibile tuttavia superare utilizzando il suo testo successivo e mettendo a confronto le parole utilizzate con quelle dell'articolo Il romanzo delle stragi [47]. Una possibile correzione potrebbe modificare così il testo originario in Petrolio: – nel I BLOCCO POLITICO “[Troya] con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo ('68): bombe attribuite ai fascisti”; le bombe vennero in realtà attribuite agli anarchici Valpreda e Pinelli; – nel II BLOCCO POLITICO “[Troya] Ha bisogno, con la cricca dei politici, di una verginità fascista (bombe attribuite ai fascisti)”: qui la verginità che Troya intende rifarsi è indiscutibilmente antifascista. Si veda anche quanto dice il senatore Giovanni Pellegrino, cfr. p. 40]. Pasolini, inoltre, inserisce nel suo romanzo la seguente annotazione: «Istituire all'interno del paragrafo precedente (128) una sintesi della nuova situazione politica italiana: ossia le ragioni che hanno spinto Cefis dall'ENI alla Montedison, e la conquista della Presidenza dell'Edison con l'aiuto dei fascisti» (?) ecc.» [48]. Una sorta di giustificata ossessione, quella nei confronti di Cefis/Troya, che si affiancava ad altre riflessioni divenute altrettanto ossessionanti per Pasolini che il pomeriggio del 1° novembre 1975, a distanza di qualche ora dalla sua tragica morte, avrebbe suggerito a Furio Colombo il titolo da assegnare all'intervista che stava rilasciando al giornalista della “Stampa”: «Ecco il seme, il senso di tutto. Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”» [49]. Si è visto dunque che Vincenzo Calia ha riportato nella sua lunga e circostanziata relazione l'intero contenuto-sommario delle pagine 117-118 di Petrolio. In tali pagine, il testo è evidentemente una prima stesura, il che spiega ampiamente anche le “sviste d'autore” prima ricordate. Non vi è alcun dubbio che «se Pasolini avesse finito il libro, con la meticolosa pazienza d'elaborazione che

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sempre è stata complementare allo slancio delle sue intuizioni creative» [50] anche questa difformità sarebbe stata superata. Purtroppo, Pasolini quel libro non l'ha potuto mai finire. Nelle pagine appena richiamate sono evidenziati appunti pasoliniani che riguardano ENI, Mattei e Cefis. O, perlomeno, quegli appunti di Petrolio che sono arrivati alla redazione di Einaudi per la pubblicazione nel 1992, diciassette anni dopo la scomparsa di Pasolini. Perché proprio questo è accaduto: che l'ultimo romanzo che Pier Paolo Pasolini non ha potuto terminare rimanesse oscurato per oltre tre lustri. Ciò è avvenuto malgrado vi fossero state sollecitazioni nei confronti di chi era in possesso di quel manoscritto – la cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi – da parte di giornalisti, scrittori e amici di Pasolini che conoscevano l'esistenza del romanzo attraverso la viva voce del suo autore, e che contestavano le dichiarazioni della cugina quando sosteneva che quelle pagine fossero “un segreto”. [51] Nel corso di diciassette anni è evidente che, come penso accada a ciascuno di noi per gli eventi della propria esistenza, anche per un manoscritto inedito si possano verificare fatti e circostanze tra le più disparate. E ciascuno di noi conserva ricordi. Spesso sbiaditi, imperfetti o parziali, i ricordi hanno un posto d'onore nella nostra mente. Ho memoria personale, per esempio, che nel 1975, a indagini in corso per l'omicidio dello scrittore, sul “Corriere della Sera” fu pubblicata una notizia nella quale si riferiva che nella casa all'Eur di Pasolini, in cui il poeta abitava con la madre e la cugina, era stata effettuata una perquisizione. Nel corso di quell'intervento gli agenti avevano sequestrato “carte dello scrittore”. Francamente non posso affermare, a distanza di trentacinque anni, se l'articolo di giornale precisasse natura o contenuti di quelle carte. Ricordo però che successivamente i giornali insistettero anche nel divulgare notizie riguardanti interventi dei servizi segreti nella casa dello scrittore, e non posso affermare né contraddire con certezza assoluta che si trattasse della stessa vicenda segnalata dal “Corriere”, e a cui si richiamarono successivamente altre informazioni giornalistiche. Ora, riletto Petrolio e ripercorsi più volte i paragrafi della Descrizione dei materiali e della Nota filologica di Aurelio Roncaglia all'edizione Einaudi del '92 che elenca (pp. 570 sgg.) anomalie quali imperfezioni, frammentarietà, cancellazioni, passaggi semplicemente abbozzati, pagine incomplete, incongruente numerazione degli appunti (peculiarità da attribuire al fatto che il testo di Petrolio è forzatamente inconcluso) qualcosa non convince, o perlomeno non risulta chiaro, nelle quantità di fogli manoscritti e dattiloscritti enumerate dal filologo e riferite a occasioni diverse in cui lo stesso Roncaglia era stato depositario di blocchi di fotocopie del romanzo

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pasoliniano: parla infatti di 600 pagine redatte da Pasolini, a cui lo stesso scrittore, pressoché con le medesime parole, aveva fatto esplicito riferimento in più di un'intervista (Carlotta Tagliarini, “Il Mondo” 26 dicembre 1974, Luisella Re, “Stampa Sera” 10 gennaio 1975 e Lorenzo Mondo, “La Stampa” 10 gennaio 1975): «Nulla è quanto ho fatto da quando sono nato, in confronto all'opera gigantesca che sto portando avanti: un grosso romanzo di 2000 pagine. Sono arrivato a pagina 600 […]». Ma i fogli dattiloscritti o manoscritti da Pasolini che il professor Roncaglia dichiara di avere ricevuto, dopo la morte dello scrittore, «nella cartella recuperata da Graziella Chiarcossi («che ne depositò una fotocopia presso di me») risultavano 522» (521 ne contò Walter Siti, curatore con Silvia De Laude nel 1998 dei due Meridiani sui romanzi e racconti pasoliniani). Forse sarebbe stato più appropriato scrivere “in possesso” di Graziella Chiarcossi: oppure sarebbe stato opportuno informare “da dove” o “da chi” la cugina di Pasolini avesse “recuperato” la cartella in questione. Roncaglia informa inoltre che «quando nel settembre 1974, Pasolini fece fare, ad uso personale, una fotocopia di quanto scritto sino allora […] i fogli riempiti - alcuni a mano, i più dattiloscritti sempre da lui e con correzioni autografe - risultavano 337». Aggiunge che «Nella fotocopia del '74 mancavano, salvo uno (quello del padre e delle due figlie) tutti i racconti dell'Epochè, gli Appunti 102 e 102a e la Digressione». I racconti dell'Epochè che compaiono in Petrolio (cfr. pp. 589590) alle pagine dalla 399 alla 457 dell'edizione pubblicata da Einaudi sono i seguenti, e quell'unico dichiarato da Roncaglia non mancante è dunque soltanto l'"Appunto 101 Storia di un padre e delle sue due figlie" (pp. 429-435 di Petrolio): Appunto 100 L'Epochè [c'è solo il titolo, la pagina è bianca, nda] Appunto 97 I narratori Appunto 98 L'Epochè: Storia di un uomo e del suo corpo Appunto 98a L'Epochè: Storia della ricostruzione di una storia Appunto 99 L'Epochè: Storia di mille e un personaggio Appunto 100 L'Epochè: Storia di quattro critici e di quattro pittori Appunto 101 L'Epochè: Storia di un padre e delle sue due figlie Appunto 102 L'Epochè: Storia di due padri e di due figli Appunto 102a L'Epochè: Storia di un volo cosmico Appunto 103 L'Epochè: Storia delle stragi Appunto 103a Un incerto punto fermo Al posto dei racconti Zen Appunto 102 L'Epochè: Commenti in salotto [gli appunti 100 e 102 sono elencati due volte nella pubblicazione citata, nda]

Sull'appunto che Roncaglia cita come la "Digressione”, gli appunti in effetti sono tre, come scrivono Walter Siti e Silvia De Laude nelle Note e notizie sui testi nel secondo volume di Pasolini. Ro-

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manzi e racconti 1962-1975 nell'edizione dei Meridiani Mondadori sopra citata: 105 Premessa alla grande Digressione 106a Comincia la grande Digressione 106b Continua la grande Depressione

La parola “Depressione” del 106b - presente nel titolo dell'appunto nella edizione Einaudi (1992) - va dunque letta come “Digressione”. E come tale appare correttamente riportata nel citato volume dei Meridiani (1998), nonché nell'edizione negli Oscar Mondadori (2005) di Petrolio. Inoltre, gli appunti 102 e 102a fanno parte proprio dell'Epoché. Perché Roncaglia li indica come appunti a sé stanti? Purtroppo la parola “mancanti”, nel modo in cui il filologo la utilizza, non è chiara, costringe a una interpretazione. È innegabile, infatti, che possa assumere due opposti significati: quegli appunti non erano stati scritti da Pasolini?, oppure erano stati scritti ma non erano inclusi nella cartella “recuperata” dalla Chiarcossi?, così come è accaduto per «qualche nota datata Chia, agosto 1974, già scritta, dunque, al momento di preparare la fotocopia, ma non ancora acclusa allo scartafaccio del romanzo», circostanza quest'ultima riferita da SitiDe Laude nel volume dei Meridiani citato. Soltanto nelle già citate Note e notizie sui testi dei Meridiani (p. 1995) l'equivoco si scioglie: «Dell'ultimo anno [1975] sono il seguito del romanzo […]; i racconti dell'Epoché (tranne quello che figura al numero 101 (Storia di un padre e delle sue due figlie"); il blocco della “Grande Digressione”, che coincide, nella seconda parte, con gli appunti 105, 106a e 106b […]». Vi è tra l'altro anche una “copia-carbone” di Petrolio, che Pasolini fece a partire da un certo punto del romanzo. Di tale copia (che viene realizzata mediante l'impressione dei caratteri digitati con la tastiera di una macchina da scrivere inserendo nel carrello due fogli intercalati da un foglio di carta carbone) non vi sono ulteriori notizie. Se non, forse, l'insistenza del bibliofilo e senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, di cui parlerò più avanti, nell'indicare in «78 fogli di carta velina le pagine di Petrolio a suo tempo trafugate» e di cui gli era stato offerto l'acquisto da una persona rimasta sconosciuta allo stesso senatore. Si potrebbe ipotizzare allora che i fogli propostigli fossero copie-carbone. E invece, molto probabilmente, si trattava proprio di originali. Pasolini, infatti, scriveva le pagine di Petrolio proprio su carta velina – lo stesso tipo di carta utilizzato per le copie-carbone. Chiunque abbia preso visione degli originali dattiloscritti o manoscritti custoditi al Vieusseux può confermarlo. Ed è tra l'altro per questo motivo che le sorprendenti dichiarazioni di Dell'Utri hanno almeno un elemento di attendibilità. Non è dato sapere infine da alcuna fonte se dopo la morte di Pasolini quella copia in carta carbone sia stata conservata, catalogata, eliminata, oppure abbia avuto un diverso destino.

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Complessivamente, "i conti" comunque non tornano e rimane inspiegato e inspiegabile il fatto che i fogli (quegli stessi dichiarati 337 nel settembre '74 da Roncaglia) fossero 600 nelle affermazioni di Pasolini del mese successivo (ottobre '74), e 522 (o 521) a distanza di un anno esatto, dopo l'assassinio dello scrittore. Un anno in cui Pasolini oltretutto aveva indubbiamente lavorato sodo, com'era suo solito, alla scrittura del suo romanzo. Non c'è da meravigliarsi se qualcuno tenta di addebitare questa "conta anomala" delle cartelle originali di Petrolio a una sorta di "inettitudine" dello stesso Pasolini, se è vero com'è vero che perfino il curatore dei Meridiani pasoliniani, Walter Siti, non ha resistito alla tentazione di rivolgere al poeta una sorta di "insulto raffinato" (secondo la definizione di Marina Belke) costituito dalla postfazione all'intera opera omnia apparsa nel volume conclusivo, il decimo, della pubblicazione. Una postfazione che consiglio di leggere per intero, quanto meno per abituarsi a distinguere – citando ancora la Belke - "un lavoratore di cose letterarie" qual è Siti da uno "scrittore-artista" qual è Pasolini. Intorno alle pagine dattiloscritte e manoscritte da Pasolini vi è stato probabilmente un certo disordine, si è creata confusione. Potrebbe essere accaduto che i fogli di Petrolio non siano stati custoditi con la cura dovuta? È uno degli interrogativi che è legittimo porsi, soprattutto considerando che tra le pagine di un'altra fotocopia del manoscritto pasoliniano, consegnata dalla cugina di Pasolini a una terza persona per motivi di studio, si trovava anche copia di un contratto editoriale stipulato con Einaudi nel 1992 per la pubblicazione di Petrolio. A questo proposito, mi chiedo anche quante fotocopie (o copie in carta carbone) dei fogli originali di Petrolio fossero e siano tuttora in circolazione. È opportuna anche un'ultima, decisiva considerazione. Tra gli appunti che nella pubblicazione a stampa presentano pagine bianche e per i quali dunque è congruente la deduzione (almeno a una prima osservazione e tenendo conto di ciò che spiega Roncaglia) che i rispettivi testi siano da considerare come non ancora scritti da Pasolini [53], un solo appunto dà ampio margine all'ipotesi che alcuni fogli pasoliniani originari siano andati perduti. Sono le pagine contenenti il testo dell'“Appunto 21 Lampi sull'ENI” (p. 93). Che Pasolini abbia scritto un testo relativo a quell'appunto è comprovato da un suo intervento successivo, poiché - come scrive D'Elia nel suo Il Petrolio delle stragi (pp. 16-17) «[…] non si può “rimandare” che a ciò che si è già scritto. Dunque, prova filologica “interna” della mancanza di parti già composte da Pasolini». Una affermazione, quella di Gianni D'Elia, con la quale concordo pienamente, e che è tra l'altro una considerazione dettata da elementare buon senso. E non può essere considerato normale, come alcuni affermano, che in Petrolio, sia pure in corso di scrittura e quindi lontano da una stesura definitiva, Pasolini faccia riferimento a pagine che

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ha intenzione di scrivere ma non ha scritto. Nell'"Appunto 22a" (p. 97) si legge: «Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull'ENI”, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria». [Il neretto è mio, nda]. Pasolini avverte inequivocabilmente il lettore di avere già scritto “Lampi sull'ENI” rinviandolo addirittura alla descrizione delle vicende intervenute tra Mattei (Bonocore) e Cefis (Troya) durante la Resistenza. Subito dopo tale "rimando", Pasolini va oltre, e proprio dando per scontato che il lettore possa essersi rinfrescato la memoria rileggendo il contenuto dell'appunto 21, scrive: «La cosa che vorrei sottolineare è la seguente: Troya nella formazione partigiana era secondo. E la cosa pareva gli si addicesse magnificamente fin da allora. Non vorrei mitizzare: ma Troya non ci teneva a primeggiare per primeggiare. Era qualcosa di più che ambizioso. Non aveva dunque le debolezze degli ambiziosi: la sua vita, il suo aspetto, il suo comportamento erano grigi, o, per meglio dire, ascetici. Lo erano sempre stati. In qualità di ‘secondo’ (vicecomandante o vicepresidente) la sua tendenza ascetica a ‘realizzare’ si attuava molto meglio. Probabilmente egli non lo calcolava, ma si limitava semplicemente ad ammassare e costruire il proprio destino secondo la propria natura. Egli non avanzava, accumulava. Non saliva, si espandeva. [...]» (p. 97). Vincenzo Calia nelle pagine della sua relazione riferisce: «Anche Pier Paolo Pasolini (ucciso a Ostia il 2 novembre 1975) aveva avanzato sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis. Tali allusioni sono rintracciabili nella frammentaria stesura del suo ultimo lavoro incompiuto […]», con quel che segue sulla “Storia del problema del petrolio e retroscena” (Appunti 20-30) che già ho riportato per esteso. Quelle due pagine di Petrolio trascritte da Calia, la 117 e la 118 [52], portano una data, 16 ottobre 1974, apposta dallo stesso Pasolini. Sono uno schema-promemoria riepilogativo che lo scrittore aveva fatto - quasi un anno preciso prima della sua morte - dei suoi appunti riguardanti ENI, Mattei e Cefis. Nell'edizione negli Oscar Mondadori di Petrolio, pubblicata nel 2005 con un apparato note di Silvia De Laude (curatrice dell'edizione e collaboratrice di Walter Siti per l'opera omnia pasoliniana pubblicata nei Meridiani), alla nota 14 è scritto: «[…] l'appunto 21, Lampi sull'ENI, che avrebbe dovuto “rinfrescare la memoria” sul

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passato partigiano dei personaggi Troya e Bonocore, già insieme nella Resistenza, è in realtà solo una pagina bianca con l'indicazione di un titolo». Nelle note a Petrolio non vi è alcun cenno, invece, a Vincenzo Calia e a ciò che su Pasolini e Petrolio è scritto nella relazione relativa alla sua inchiesta. Nella prima pubblicazione del romanzo (Einaudi 1992) e in quella edita nei Meridiani (1998) – quando tra l'altro le intuizioni di Calia erano di là da venire – non si trova alcuna nota redazionale riferita all'appunto 21. Si chiedono Giuseppe Lo Russo e Sandra Rizza nel loro libro Profondo nero (p. 248) pubblicato da Chiarelettere: «Perché è sparito proprio l'appunto 21? Chi aveva interesse a farlo sparire? Nel capitolo scomparso che, almeno a giudicare dal titolo, illumina con lampi di chiarezza l'economia politica delle stragi in Italia, Pasolini racconta dunque “le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore” (alias Mattei), che era con Cefis in Val d'Ossola. Nella finzione letteraria, Pasolini sposta lo scenario sui monti della Brianza e chiarisce il suo pensiero sul “fascismo degli antifascisti” - come poi scrive sul “Corriere della Sera” - le cui origini stanno nel “misto”, nel trasformismo, nel trasversalismo della politica italiana che trae origine proprio dalla matrice, insieme cattolica e comunista, della Resistenza. Non è il “misto” della politica italiana, quel brodo di coltura da cui nasce il “centrismo”, come vocazione alla stabilità a tutti i costi, difesa dagli “opposti estremismi”? Non arriva forse da lì la perversione delle stragi di Stato, o comunque la vocazione italiana al segreto di Stato, alla copertura “istituzionale” della verità?». Sulla sparizione di "Lampi sull'ENI" ha scritto Giulia Moja, studiosa di Pasolini e presenza assidua in pasolini.net: «Non mi risulta che siano stati eseguiti particolari accertamenti. Le prime dichiarazioni della cugina lasciano intuire la possibilità che l’appunto 21 sia stato rubato da ignoti un mese circa dopo il delitto, ma in seguito nega tutto e rassicura “il romanzo è completo, nessun foglio è stato sottratto”. Però se non ricordo male nel settembre '74 (quando il romanzo si aggirava attorno alle 300 cartelle) Pasolini per sicurezza fece fare una fotocopia del plico (vi lavorava molto nella sua casa di Chia e probabilmente temeva che durante gli spostamenti qualche foglio potesse andare perduto). È difficile credere che il preciso ed esigente Pier Paolo abbia conservato originale e fotocopia nel medesimo cassetto, quindi se l'appunto è stato sottratto dal primo plico, avrebbe dovuto essere presente nel secondo. Sull'esistenza della fotocopia non vi sono dubbi, poiché è stata utilizzata proprio durante la pubblicazione di Petrolio (1992) per verificare l'ordine degli appunti stessi. Come fanno allora dei rozzi ladri a rubare esattamente i contenuti dell'appunto 21 sia dall’originale sia dalla copia? Sapevano dell'esistenza delle fotocopie e anche la loro collocazione? Qualcosa non torna, credo più a una sottrazione mirata e volontaria da parte di persone bene informate del contenuto

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compromettente, forse pericoloso, e magari utile per spiegare le ragioni della morte del poeta». Che tutte le edizioni di Petrolio finora realizzate (una di Einaudi e due di Mondadori) abbiano “solo una pagina bianca con l'indicazione di un titolo” - “Appunto 21 Lampi sull' ENI” -, in sé non può stupire. Infatti, chiunque oggi prendesse visione dei manoscritti e relative fotocopie conservati a Firenze potrebbe confermare che quella pagina è bianca, poiché lo scartafaccio di Petrolio all'interno del contenitore a quadretti di cui parlano Walter Siti e Silvia De Laude nelle Note e notizie sui testi, non conteneva più quelle pagine tra i materiali riguardanti il romanzo - dapprima depositato all'Archivio Bonsanti del Gabinetto Vieusseux, trascritto diciassette anni dopo per la stampa da Graziella Chiarcossi e Maria Careri, poi editato da Einaudi (1992) e successivamente da Mondadori (1998 e 2005). Sia i fogli dattiloscritti sia quelli manoscritti da Pasolini in Petrolio - e anche le relative fotocopie - contenenti il testo dell'appunto 21 non potevano e non possono essere più presenti in quel contenitore a quadretti, sia che fossero andate perdute, sia che siano state oggetto di un sequestro, sia che si sia trattato di "sottrazione mirata" come sostiene la Moja, sia che sia avvenuto un furto. Perché vi è stato comunque un furto, forse più di uno. Guido Mazzon, musicista jazz, scrittore e cugino di Pasolini aveva dichiarato a Gianni D'Elia il 24 ottobre 2005, che stava redigendo Il Petrolio delle stragi, di avere ricevuto, giorni dopo la morte del cugino, una telefonata in cui Graziella Chiarcossi accennava al fatto che alcuni ladri erano entrati in casa portando via dei gioielli e delle carte di Pier Paolo. Raggiunto nuovamente il 4 marzo 2010 da Paolo di Stefano, giornalista del “Corriere della Sera”, Mazzon ha confermato: «Nel '75, dopo la tragedia di Pier Paolo, Graziella chiamò mia madre per dirle di quel furto. Quando mia madre me lo riferì, pensai: “Accidenti, con quel che è capitato ci mancava pure questa”. E pensai anche: “Strano però, che senso ha andare a trafugare le carte di un poeta?”. Il mio stato d'animo sul momento fu proprio quello. Avevo 29 anni e ricordo bene la sensazione che ebbi. Poi il particolare del furto mi tornò alla mente leggendo Petrolio e venendo a sapere della parti scomparse. Non riesco a capire come mai mia cugina continui a negare quel fatto. Dopo l'annuncio del ritrovamento, l'ho cercata al telefono, ma senza successo: vorrei chiarire, cercare di ricomporre il ricordo. Mia madre è morta due anni fa e non posso più chiederle conferma, ma quella comunicazione telefonica ci fu e si verificò dopo la morte di Pier Paolo, non potrei dire esattamente quanti giorni dopo». Il 4 marzo 2010 Paolo Di Stefano ha scritto sul “Corriere della Sera”: «[…] la cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi (filologa a sua volta), nega un'evidenza: e cioè che quelle pagine siano esistite. In un'intervista a Paolo Mauri (“la Repubblica” 31 dicembre 2005), affermava: “Sarebbe meglio dire che di quel capito-

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lo è rimasto solo il titolo, come per tanti altri rimasti in bianco” […] Nella stessa intervista la Chiarcossi negava anche che dopo la morte di Pier Paolo si sia mai verificato un furto di carte nella casa dell'EUR in cui viveva con suo cugino. Ricorda invece un'effrazione precedente». Inaspettatamente, il 2 marzo 2010, alcuni quotidiani informano che il collezionista-bibliofilo Marcello Dell'Utri, senatore del Pdl, ha dichiarato di essere in possesso di un manoscritto di Pasolini, che definisce “inedito”, sottratto a suo tempo alle cartelle di Petrolio nello stesso studio dello scrittore: si tratterebbe del capitolo “Lampi sull'ENI”. Anzi, Dell'Utri afferma che il titolo esatto sarebbe “Lampi su ENI”. Quelle che seguono sono soltanto alcune delle svariate dichiarazioni rilasciate dal senatore: «[si tratta di] una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano […] sono esattamente 78 di un totale di circa 200» (“Corriere della Sera”, 2 marzo); «C'è un giallo perché credo che questo capitolo sia stato rubato dallo studio di Pasolini; è un capitolo inquietante per l'ENI, di grande interesse, perché si lega alla storia del Paese, a Eugenio Cefis, alla morte misteriosa di Enrico Mattei e di Pasolini» (“la Repubblica”, 3 marzo). Analoghe dichiarazioni sono state rese da Dell'Utri ad altri quotidiani il 3 e il 9 marzo. Sia che le cartelle attribuite a Pasolini dal senatore – e oggetto di ricettazione poiché, secondo le sue dichiarazioni, provenienti da un furto – siano autentiche, sia che si tratti di una mistificazione di Dell'Utri o di chi ha ideato quest'ultima vicenda, è opportuno un accertamento, e un eventuale successivo provvedimento di sequestro di tali pagine – che costituiscono un corpo di reato – da parte della magistratura, cosa d'altronde puntualmente richiesta dall'avvocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini il 2 marzo, a integrazione della loro iniziativa giudiziaria; lo scorso anno avevano infatti inoltrato alla Procura di Roma richiesta di riapertura delle indagini sul delitto Pasolini. Il 9 aprile 2010 tali indagini sono state riaperte. E il 22 aprile un lancio dell'agenzia di stampa Adnkronos ha annunciato: «Sul caso di Pier Paolo Pasolini tornato all'esame della Procura della Repubblica di Roma per verificare nuove circostanze circa i motivi della sua uccisione, il pubblico ministero Francesco Minisci ha sentito oggi per circa mezz'ora Marcello Dell'Utri. Al centro dell'interrogatorio alcune dichiarazioni fatte tempo fa dal parlamentare circa il suo possesso di un capitolo del libro Petrolio pubblicato dopo la morte dello scrittore. Capitolo scomparso, ma che Dell'Utri afferma, come ha confermato oggi, di aver visto qualche tempo fa. A mostrarglielo una persona che lo aveva avvicinato a Milano in occasione di una mostra su Curzio Malaparte. Dopo l'incontro con il magistrato, Dell'Utri si è fermato a conversare con i giornalisti ai quali ha confermato le dichiarazioni fatte tempo fa e cioè che il capitolo del libro, dattiloscritto su fogli di carta velina e intitolato “Lampi su ENI” gli è stato mostrato, l'ha sfogliato rapidamente no-

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tando correzioni a mano. Dell'Utri ha confermato che la persona che l'aveva avvicinato e di cui non conosce l’identità, probabilmente voleva vendere quel capitolo.» Ha concluso dicendo che la stessa persona, temendo probabilmente il clamore sollevato dalla vicenda, non aveva ripreso alcun contatto con lui. Il Pm Francesco Minisci ha raccolto, dopo le dichiarazioni di Dell'Utri, la testimonianza di Silvio Parrello. Quest'ultimo, sia al processo sia in occasione di indagini svolte in tempi diversi dalla Procura romana (quelle più recenti sono del 2005), non era mai stato ascoltato né dalla magistratura giudicante né da quella inquirente. La stessa sorte era toccata a Sergio Citti, che girò pochi giorni dopo l'uccisione di Pasolini un filmato sul luogo del delitto. Mario Martone filmò a sua volta, tre mesi prima della scomparsa di Sergio Citti avvenuta nell'ottobre 2005, le dichiarazioni di quest'ultimo che, rispondendo a domande dell’avvocato Guido Calvi - già avvocato di parte civile al processo degli anni '70 e ora incaricato dal Comune di Roma, costituitosi parte offesa in questa nuova indagine - descrivevano il filmato del ’75, che rappresenta una testimonianza importante, ripetutamente offerta da Citti e in precedenza non ammessa dalla Procura. Ora il Pm Minisci ha acquisito per l'indagine che anche questo film-documento.

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Delitto Pasolini: un enigma da sciogliere

Voglio ora ricordare sinteticamente alcuni aspetti che caratterizzarono le indagini condotte nel 1975, dopo l'assassinio di Pier Paolo Pasolini, e le sentenze dei processi di primo grado e di appello del 1976. Una documentazione molto più approfondita si trova nella sezione “processi” di pasolini.net, a disposizione di chi voglia maggiormente addentrarsi nella tragica vicenda del delitto che ha tolto a tutti noi una voce essenziale per la cultura e anche per la comprensione della storia del nostro Paese negli ultimi sessant'anni. Le circostanze della morte di Pasolini non sono ad oggi ancora del tutto chiare, ed è per questo motivo che nel corso dei trentacinque anni che ci separano dalla scomparsa dello scrittore-regista sono state avanzate alcune richieste alla Procura competente di Roma che tendevano ad ottenere ulteriori indagini. Il suo omicidio rimane irrisolto, specialmente dopo le ritrattazioni e le rivelazioni di Pino Pelosi (2005 e 2009) e dopo i rilievi suggeriti nel 2004 nella formulazione della sua relazione dal Pm Calia. Nel 1975, le indagini condotte piuttosto superficialmente e con incurie gravi, le contraddizioni nelle deposizioni rese dall'omicida (Pino Pelosi, che confessò e continuò a sostenere per trent'anni di essere stato l'unico colpevole), un intervento dei servizi segreti di cui si vociferò durante le indagini e che ho già ricordato, nessuna attenzione prestata a una denuncia nella quale erano indicate le prime due cifre della targa di un'automobile che avrebbe seguito quella di Pasolini la sera dell'omicidio, e alcuni aspetti contraddittori riscontrati negli atti processuali, sono fattori che – come hanno ripetutamente sottolineato negli anni seguenti, oltre all'avvocato Guido Calvi, gli amici più intimi di Pasolini, in particolare Laura Betti e Sergio Citti –, lasciano aperte le porte a più di un dubbio, specialmente per quanto riguarda la partecipazione di altre persone oltre a Pelosi all'aggressione a Pasolini. Un elemento sostenuto da molti e alla fine accolto anche dai giudici durante il processo di primo grado. Per anni l'opinione pubblica venne tenuta all'oscuro sulle indagini e sui processi. Una disinformazione che dava rilievo soltanto al parere della polizia – parere unico e inconfutabile, costruito tuttavia su luoghi comuni – che lo definì un “delitto tra omosessuali, scaturito in circostanze sordide”. Per quale motivo vi è stato un tale accanimento nel privilegiare una versione a senso unico? Per coprire quali realtà alternative? E con l'avallo, o su mandato, di chi? A quale livello investigativo o politico? Tante, troppe cose non quadrano nella ricostruzione che, al processo, è stata fatta del delitto. Troppi sono stati gli errori e le

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omissioni nelle indagini per convincere che fossero casuali e non nascondessero invece una precisa strategia. Vi sono molte incertezze per quanto riguarda le ore successive al ritrovamento del corpo. Incertezze che si riproposero anche in tribunale: superficialità e pressappochismo delle indagini condotte dalla squadra mobile, interrogatori della polizia, deposizioni alla polizia e al processo contro Pino Pelosi, ricusazione di alcuni testimoni, cambio di avvocati dello stesso Pelosi, totale incuria dei reperti raccolti, lacune nelle perizie sul corpo di Pasolini della difesa di Pelosi. Uno dei reperti, l'Alfa Gt di Pasolini, fu sequestrata a Pelosi dai carabinieri che lo fermarono, in fuga, sul lungomare di Ostia. Almeno, così raccontano le cronache. L'auto, fino alla mattina del 5 novembre, rimase all'aperto, in mezzo al cortile di un garage dell'Arma: senza alcuna sorveglianza e con le portiere aperte. Chiunque avrebbe potuto avervi accesso e manomettere eventuali prove. La pioggia caduta in quei giorni lavò perfino le tracce di sangue che si trovavano sul tetto della vettura, dal lato del passeggero, in corrispondenza con la portiera dell'auto. E ci vollero tre giorni perché gli agenti si accorgessero di un maglione verde macchiato di sangue e di un plantare destro misura 41, entrambi non appartenenti alla vittima, che si trovavano all'interno dell'auto. Domenica 2 novembre, dopo il rinvenimento di un cadavere da parte di una donna, occupante di una delle baracche, quest'ultima chiamò la polizia; gli agenti giunsero a Ostia alle 6,40. Sul luogo del delitto vi era già una piccola folla: abitanti delle baracche, curiosi, ragazzini che giocavano al pallone che in qualche caso rotolò in prossimità del corpo dello scrittore. Nessuno pensò ad allontanarli, né a recintare il luogo ove giaceva Pasolini, subito riconosciuto dagli agenti (poi seguirono i riconoscimenti ufficiali). Quindi eventuali tracce, per esempio quelle delle ruote dell'auto di Pasolini (perché si potesse verificare il reale percorso del mezzo), sono andate perdute dal passaggio reiterato di altre auto e di persone appiedate. Si formò in tal modo una miriade di altre tracce non pertinenti con il delitto. Gli agenti non tracciarono alcun segnale nei punti esatti riferiti al ritrovamento del corpo di Pasolini, né altri in cui erano stati indi viduati alcuni reperti, per esempio le tavolette di legno usate nel corso dell'aggressione. Come già riferito, i carabinieri non si resero nemmeno conto che sul sedile posteriore dell'Alfa Gt di Pasolini si trovassero un maglione verde e un plantare, oggetti non appartenenti a Pasolini, come successivamente testimoniò dinanzi ai giudici la cugina Graziella Chiarcossi [54]. E ancora: nella notte tra il 2 e il 3 novembre la zona non fu sorvegliata; la polizia, infatti, tornò a Ostia soltanto nella tarda matti-

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nata di lunedì 3 per ricostruire il caso, non adottando però cautele di sorta, e quando le tracce dell'omicidio erano ormai inesistenti. Soltanto il mercoledì successivo gli investigatori iniziarono a interrogare gli abitanti delle baracche, nonché i frequentatori del bar presso la Stazione Termini – luogo in cui “Pelosi prima versione” aveva raccontato di essere stato “adescato” da Pasolini. Infine – e ha davvero dell'inammissibile – sul luogo del delitto non fu mai convocato un medico legale. Il corpo di Pasolini, dopo la rimozione, venne lavato prima che la polizia scientifica potesse effettuare gli esami necessari. È possibile che la polizia abbia commesso così tanti e clamorosi errori tutti insieme? O che siano state trascurate le più elementari procedure investigative per un omicidio di tale portata? Oppure ancora: è ipotizzabile che vi sia stato un intervento di qualche autorità, superiore ai poteri degli stessi organismi inquirenti? Dopo una tale, pessima conduzione delle indagini ci si aspetterebbe che il massimo responsabile di tali negligenze venisse quanto meno sospeso dall'incarico. Invece il dottor Ferdinando Masone, capo della squadra mobile di Roma durante le indagini, ha fatto carriera: è diventato questore di Palermo e poi di Roma, e in seguito Capo della Polizia. Ruolo che ha ricoperto fino al 2000, quando è stato promosso ulteriormente, diventando segretario generale del CESIS, il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza, cioè l'ente che coordina l'attività dei servizi segreti ( SISMI e SISDE) in nome del presidente del consiglio. Un altro elemento da considerare è quello riguardante le perizie necroscopiche medico-legali illustrate al tribunale dai periti di parte: quella della difesa di Pelosi, per esempio, era stata sommaria, e non era stata individuata alcuna traccia di pneumatici dell'auto che avevano schiacciato ripetutamente il corpo di Pasolini: lo scrittore era in condizioni gravissime, ma ancora vivo quando quei sormontamenti fecero sì che il suo cuore scoppiasse. La perizia demandata al professor Faustino Durante dagli avvocati di parte civile Guido Calvi e Antonio Marazzita fu invece molto minuziosa ed ebbe un peso determinante nella formulazione della sentenza di primo grado. Il professore dimostrò nel corso del processo come Pasolini fosse stato ridotto a “un grumo di sangue” e che gli oggetti contundenti utilizzati per colpirlo – e non ritrovati sul luogo del delitto – non potevano essere individuati soltanto nel bastone e nelle due tavolette di legno marcito repertate. Il quadro complessivo e incontestabile che se ne ricavò fu quello di un omicidio che per le gravi, numerose e profonde ferite inferte non avrebbe potuto essere commesso dal solo Pino Pelosi, ma attuato con il concorso di altre persone. In particolare, se ne avvalse anche l’avvocato Guido Calvi nella sua arringa, una sintesi della quale è riportata alla quinta postilla (p. 109).

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Qui di seguito si può leggere per sommi capi la relazione di Faustino Durante: i numeri tra parentesi indicano le relative pagine della relazione stessa. «[…] a) Presenza di “materiale ferroso” sulla canottiera, sul capo, sul collo, sulle spalle e sugli arti superiori “specie alle superfici laterali” (pp. 4 e 5). Tale materiale non è presente sulla parte inferiore della canottiera e sui pantaloni. b) Presenza di due larghe e del tutto simili escoriazioni ecchimotiche comprendenti soluzioni di continuo alle regioni frontali laterali (pp. 6, 11, 12, 14). c) Ecchimosi escoriata della regione zigomatica e masseterica di sinistra (p. 5). d) Frattura in due punti della branca orizzontale di sinistra della mandibola e lussazione dell'articolazione temporo-mandibolare di sinistra (pp. 15 e 16). Assenza di lesioni a carico della branca mandibolare di destra. e) La piramide nasale risulta appiattita da sinistra verso destra (p. 11). f ) Lesione trasversale a carico del padiglione auricolare destro (pp. 16, 18). È assente qualsivoglia alterazione cutanea nelle zone superiori al padiglione auricolare stesso. g) Interessamento della regione occipito-parietale destra da “serie duplice soluzioni di continuo lineari pressoché trasversali e parallele tra di loro della lunghezza di cm 2 e cm 4,5 essendo la prima – costituita da tre soluzioni di continuo – localizzata posteriormente alla inserzione del padiglione auricolare destro, la seconda – costituita da quattro soluzioni di continuo – localizzata più medialmente, pressoché sulla linea mediana del capo...”, le lesioni sono “svasate a carico del margine inferiore”, e la svasatura è “più accentuata nel gruppo situato medialmente” (pp. 18, 19). h) Vasta lesione situata superiormente e posteriormente al padiglione auricolare sinistro. Tale lesione è scollata “specie nella parte inferiore” (pp. 23, 24). i) Lesione al padiglione auricolare sinistro. Il padiglione è “ampiamente strappato sul suo impianto” e interessato dalla lesione stessa in corrispondenza del suo “terzo medio superiore” (p. 25). l) Tumefazione della regione latero-cervicale sinistra con escoriazioni seriate “prevalentemente trasversali” (pp. 25, 26). m) Numerose escoriazioni sulle regioni posteriori della spalla sinistra, sulla regione dorsale in posizione o “trasversale” o “obliqua” (p. 28); non infiltrate e non “figurate” (pp. 28 e 29). “Detto complesso si estende sino alla regione lombare essendo più accentuata la infiltrazione emorragica proprio a carico delle lesioni localizzate in questa sede come alla base dell'emitorace sinistro” (p. 29).

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n) Escoriazioni trasversali alla base degli emitoraci, anteriormente, e all'addome (pp. 31, 32, 33). Non infiltrate. o) Escoriazione in corrispondenza della spina iliaca anterosuperiore di sinistra. Tale zona è ecchimotica (p. 33). p) Numerose escoriazioni agli emitoraci, anteriormente, senza infiltrazione (pp. 31, 32, 33, 34). q) Soluzione di continuo al braccio sinistro (pp. 36 e 37). r) “Complesso lesivo a forma di grossolana losanga di cm 6x3 che su di un fondo ecchimotico mostra figurazioni escoriative di colore rosso-grigiastro” (p. 37, dorso avambraccio sinistro). s) Complesso ecchimotico al dorso della mano sinistra con frattura di alcune falangi e lesione da taglio al primo dito (p. 40). t) Frattura dello sterno a livello del III spazio; frattura della IV e V costola di destra lungo la linea emiclaveare, frattura della VII e VIII costola di destra lungo la linea ascellare posteriore; a sinistra frattura della VI e VII costola in due punti; sulla linea emiclaveare e sulla linea ascellare anteriore, frattura dell'VIII e della IX costola sulla linea ascellare anteriore. Complessivamente 10 fratture costali (p. 48). u) Lacerazioni capsulari del fegato lunghe 15 e 7 cm a carico della superficie antero-laterale del lobo destro e della superficie del lobo sinistro (p. 51). v) Assenza di infiltrazioni ematiche delle pareti toraciche, di quelle addominali e di ogni regione degli arti inferiori (p. 51 e altre) […] [55].» Il 14 novembre 1975, intanto, era apparso sul numero 46 dell'“Europeo” un articolo della giornalista Oriana Fallaci, dove si ipotizzava che nel delitto vi fossero una premeditazione e il concorso di ignoti. Ma la giornalista in seguito si rifiutò di citare nel processo i testimoni della sua “contro-inchiesta” e per questo fu anche sanzionata per reticenza. Altri articoli apparvero sul numero del settimanale “L'Europeo” già citato: «[…] i due difensori nominati per primi da Giuseppe Pelosi, incredibile reo confesso del delitto, si dichiarano convinti che le cose non stanno come il ragazzo le ha raccontate ai giudici quando si è accusato. Dicono, prima di essere estromessi dal processo, gli avvocati di Pelosi Tommaso e Vincenzo Spaltro: “Noi concordiamo con le notizie date dall''Europeo' che sul posto del delitto c'erano altre persone. La storia raccontata dalla Fallaci ci persuade in questo senso: noi siamo convinti che Giuseppe Pelosi non è l'assassino, per la semplice ragione che non ha la capacità fisica né psichica di commettere un omicidio. E anche per altri motivi”» [56].

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E ancora: «[…] La gestione del processo sarà politica; sarà la possibile occasione per demolire l'intera figura di Pasolini, per infangare anche il suo impegno nella società italiana, le idee che egli portava avanti. La linea di difesa di Pelosi che ora verrà sostenuta […] mirerà proprio a questo: Pasolini è un mostro corruttore. Pelosi è uno che ha difeso il proprio onore e la propria integrità. È casuale che il paladino di questa tesi sia l'avvocato difensore dei fascisti che ammazzarono la ragazza al Circeo, Rocco Mangia del Foro di Roma?» [57]. Dieci anni dopo, i mezzi di informazione iniziarono a sostenere l'ipotesi della Fallaci, dipingendo Pelosi come ragazzo di vita abitudinario della Stazione Termini, la cui funzione era stata quella di esca per un'azione punitiva della quale si ipotizzarono quali mandanti avversari politici e quali esecutori malavitosi prezzolati. Nel corso del processo emersero ulteriori elementi su Pino Pelosi, l'unica persona che fino al 2005 è stato l'unico reo confesso dell'omicidio e che come tale fu processato e condannato a nove anni e sette mesi di carcere. Molti verbali di audizione sono reperibili nel Dossier delitto Pasolini edito da Kaos (2008) che contiene gli atti del processo ed i testi delle sentenze di primo grado, di appello e di cassazione, l'arringa processuale dell'avvocato di parte civile Guido Calvi [*****], nonché la perizia medico-legale sul corpo di Pasolini del professor Faustino Durante che così si concludeva: «[…] l'esame approfondito di tutti i dati obiettivi (sopralluogo, interrogatori di Pelosi, reperti, bastone, tavola, vesti, lesioni di Pasolini) da una parte smentisce il racconto di Pelosi sulla dinamica di tutta l'aggressione, e dall'altra induce ad avanzare con fondatezza l'ipotesi che Pasolini sia stato vittima dell'aggressione di più persone» [58]. Come ho accennato, la relazione Durante fu talmente circostanziata da consentire al collegio giudicante (Presidente Alfredo Carlo Moro) che emise la sentenza di primo grado il 26 aprile 1976 di concluderla dichiarando Pelosi colpevole del delitto di omicidio volontario in concorso con ignoti («Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo il Pelosi non era solo […]» [59]). Nel dicembre del 1976, però, con sentenza della Corte d'appello intervenuta con estrema e inusuale rapidità, venne confermata la condanna per omicidio volontario nei confronti di Pelosi, ma fu escluso il concorso di altre persone. L'intervento della Corte d'Appello appare suggerito dall'urgenza di evitare nuove indagini, che infatti non furono effettuate. E che non si fecero neppure in anni successivi, ancorché fossero richieste espressamente per la presenza di nuovi elementi che avrebbero

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potuto gettare nuova luce sulle reali dinamiche dell'omicidio. In particolare non venne accolta la richiesta di rendere testimonianza avanzata da Sergio Citti, amico e collega di Pasolini, su una sparizione di bobine dell'ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma (girato da Pasolini nella prima metà del 1975) e su un eventua le incontro dello scrittore con dei malavitosi per trattare la restituzione delle pellicole. La cassazione, infine, confermò la sentenza di appello: «Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull'imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi [...] Che questi elementi possano spiegarsi con la partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare [...] la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato aggredito, sia stato Pelosi ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall'inizio la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall'agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1,67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente di una determinazione a offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d'improvviso...» [60]. Giorgio Galli, per Dossier delitto Pasolini, scrive un pezzo dal titolo Un delitto politico [61] in cui sull'assassinio dello scrittore-regista dice tra l'altro: «[…] L'assassinio di Pier Paolo Pasolini è uno dei molti delitti rimasti impuniti e avvolti nel mistero che costellano la storia politica italiana. Le origini di tali oscuri e irrisolti fatti delittuosi risalgono alla stessa genesi della successione della democrazia rappresentativa al fascismo […]. Il delitto della notte tra l'1 e il 2 novembre, tra il giorno dei Santi e il giorno dei Morti del cruciale 1975 (l'anno del “terremoto elettorale”), si colloca al centro di quella seconda fase, che iniziata appunto con Piazza Fontana e con la “strategia della tensione”, si concluderà virtualmente all'inizio del 1982 […] Pasolini viene ucciso quando trame e complotti sono all'ordine del giorno […] La posizione pubblica di Pasolini fa sospettare un agguato, e subito compare qualche scritta – “Pasolini come Matteotti” – che si collega alle denunce della sinistra contro ipotizzate “trame nere”. […] Qual era l'obiettivo dell'agguato? Personalmente ritengo probabile una delle “causali” suggerite dal Tribunale: si voleva “dare una lezione” a Pasolini, ma non per uno “sgarbo”, bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una “lezione” all'attrice Franca Rame. […]» [62].

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E ancora Giorgio Galli, delineando un profilo di Pino Pelosi, aggiunge: «Pelosi, come risultato dalle perizie e dal comportamento, è un ragazzo rozzo ma scaltro, che per oltre un anno – dal momento dell'omicidio alla sentenza d'appello – non cede di un millimetro dalla sua inattendibile versione […] sgusciando abilmente tra reticenze, bugie e contraddizioni. Va infine rilevato che Pelosi sin dall'inizio cambia avvocato, scegliendo quello che ha difeso i giovani di destra autori di un altro atroce delitto al Circeo (una ragazza massacrata, un'altra gravemente ferita)» [63]. Se Pelosi e gli amici del suo ambiente avevano dunque l'interesse a un Pasolini vivo; se non poteva sfuggire il rischio che si correva uccidendo un uomo di grande notorietà a difesa della cui memoria metà del Paese avrebbe chiesto una punizione esemplare per un assassinio tanto feroce, che cosa poteva indurre un ragazzo diciassettenne a comportarsi come si è comportato, prima e dopo il delitto – sino a vantarsi, appena giunto in carcere come colpevole di un semplice furto d'auto, di aver ucciso Pasolini, e arrivando a mimare le sequenze del delitto per il fotografo di un settimanale? Vi è una sola situazione che può dare una risposta coerente e convincente a tutte queste domande: Pelosi è stato contattato per attirare Pasolini in un agguato: ha avuto una grossa ricompensa per farlo; gli è stato garantito che sarebbe stato adeguatamente protetto e tutelato. […] Questa ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello scopo. Sul “chi” non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri occulti, di servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di finta destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l'imbarazzo della scelta. Pelosi è stato uno strumento […]» [64].

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Pelosi trent'anni dopo: una nuova verità?

Pelosi, com'è noto, ha mantenuto caparbiamente invariata la sua assunzione di responsabilità quale unico colpevole dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini fino al 2005. Anni prima si era assistito, nel corso di una trasmissione televisiva di Franca Leosini alla intervista in carcere di un uomo, pressoché quarantenne, pluri-detenuto, Pelosi appunto, agghiacciante per l'assoluta, cinica indifferenza con cui rispondeva alle domande della giornalista ribadendo le proprie affermazioni quale unico autore dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini. Poi, a sorpresa, Pelosi apparve in televisione il 7 maggio 2005 affermando in una nuova intervista di non essere stato l'autore del delitto Pasolini, e dichiarando che l'omicidio sarebbe stato commesso da altre persone. Lui non c'entrava affatto. Non fece i nomi di questi presunti colpevoli, asserendo soltanto che essi avevano un “accento del Sud”: aggiunse poi, su Pasolini, che era “un uomo gentile”, “che parlava italiano”, e col quale il rapporto orale che aveva avuto si era svolto con quieta naturalezza fino alla conclusione. Solo a quel punto erano apparsi i tre, sgusciando all'improvviso dall´oscurità. In quella trasmissione televisiva “Ombre sul giallo” a cui partecipò, presenti anche gli avvocati di parte civile al processo del 1975, Nino Marazzita e Guido Calvi, Pelosi disse inoltre di aver celato questa sua verità per timore di mettere a rischio l'incolumità della propria famiglia. Nella sentenza di primo grado è riportata in parte la deposizione di Pelosi. Pasolini, concluso un rapporto orale, lo avrebbe inseguito con un paletto trovato a terra, avrebbe voluto “infilarglielo nel sedere o per lo meno lo aveva appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassarmi i pantaloni”, e lo aveva spaventato perché aveva “una faccia da matto”. L'inseguimento era culminato in una colluttazione violentissima: “quindi la fuga in macchina, Pasolini schiantato a terra”, […]. Pelosi poco dopo fu sorpreso da una gazzella dei carabinieri mentre sfrecciava con l'auto di Pasolini sul lungomare di Ostia: risultò privo di tracce di sporco, di sangue, di fango, nella persona e nell'abbigliamento. Un solo piccolo taglio sulla fronte era dovuto alla brusca frenata fatta quando era stato fermato dai carabinieri, e aveva battuto il capo contro il volante. Il racconto del 2005 è di tutt'altro significato. «L´immagine del Pasolini sadico sparisce oggi dalle parole del Pelosi uomo maturo: riappare la persona gentile che conoscevamo. E questo non è di poco conto» [65]. «[…] Pino Pelosi, nella sua nuova versione, non si limita ad accusare i tre sconosciuti. Descrive un vero e proprio agguato che aveva come obiettivo Pier Paolo Pasolini “sporco comunista”. È

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quanto urlavano i tre mentre pestavano selvaggiamente lo scrittore. Gridavano: “sporco comunista”, “fetuso”, “pezzo di merda”. Poi andarono via, in macchina, e [Pelosi] rimase solo. Da questo momento in poi il nuovo racconto coincide con quello conosciuto da tempo. Disperato e impaurito, Pelosi salì sulla macchina, la mise in moto, inavvertitamente passò sopra il corpo di Pasolini agonizzante determinandone la morte. Identica la prima parte della storia. E cioè l'incontro tra il ragazzo di vita e lo scrittore nei pressi della stazione Termini di Roma, la sosta in pizzeria, il viaggio fino all'Idroscalo, quel rapporto sessuale consumato velocemente in macchina […]» [66]. Assieme alla ritrattazione di Pelosi emerge la testimonianza – documentata tra l'altro da un'intervista-deposizione raccolta dall'avvocato Guido Calvi e pubblicata con il titolo Non abbiate paura della verità in “Diario” del 28 ottobre 2005 – di Sergio Citti, amico e collega di Pasolini, su una sparizione delle “pizze” dell'ultimo film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, e su un eventuale incontro con dei malavitosi per ottenerne la restituzione. Ma subito dopo il delitto, nel 1975, la testimonianza di Sergio Citti – che, come ho già ricordato, aveva girato un filmato sul luogo dell'assassinio a Ostia, a pochi giorni dall'omicidio, non fu ammessa dai magistrati. Sergio Citti morirà purtroppo per l'aggravarsi del suo stato di salute l'11 ottobre 2005. Solo qualche giorno prima la Procura di Roma aveva deciso la chiusura di ulteriori indagini richieste a gran voce e sostenuta anche da un appello di Carla Benedetti sottoscritto da centinaia di intellettuali. Vi sono poi altri testimoni non sentiti, come quello intervistato da Furio Colombo per il quotidiano “La Stampa”, a Ostia davanti alle baracche dell'Idroscalo, il 2 novembre 1975: - Il mio cognome si scrive co' due T, Salvitti Ennio. E lei tanto pe' correttezza? - Lavoro per “La Stampa”, mi chiamo Furio Colombo. - “La Stampa”… Agnelli. - Sì, Agnelli. - Lo scriva che è tutto 'no schifo, che erano in tanti, lo hanno massacrato quel poveraccio. Pe' mezz'ora ha gridato mamma, mamma, mamma. Erano quattro, cinque. - Ma lei questo lo ha detto alla polizia?. - Ma che, so' scemo? [67]. «Salvitti Ennio è ancora vivo? Perché in tal caso potrebbe confermare la scena plurale del delitto descritta nella ritrattazione di Pino Pelosi. È un riscontro, come si dice in gergo giuridico. Anche questo, come quello di Sergio Citti, era un indizio trascurabile?» [68]. Trascurabile come quello del maglione verde o

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del plantare trovati all'interno dell'auto di Pasolini e non di proprietà dello scrittore secondo quanto ripetuto nel corso del processo da Graziella Chiarcossi, la quale, qualche ora prima, aveva lavato e ripulito l'interno (e anche il baule) dell'Alfa di Pasolini? Viene dunque sollecitata nel 2005, da Guido Calvi e Antonio Marazzita, avvocati della famiglia Pasolini, a seguito delle nuove dichiarazioni di Pelosi sulla presenza all'Idroscalo di Ostia di altre persone di cui però non ha fatto i nomi, un'ulteriore inchiesta alla Procura di Roma: il Comune di Roma, nelle persone dell'allora sindaco Walter Veltroni e dell'assessore alla Cultura Gianni Borgna, si costituisce parte offesa. Ripropongo un passo della dichiarazione rilasciata a Paolo Di Stefano (“Corriere della Sera”, 7 agosto 2005) da Gianni Borgna, allora Assessore al Comune di Roma. «Noi abbiamo sempre pensato che non si tratta di un omicidio sessuale ma politico. In Italia dietrologia è sinonimo di fantasticheria: invece purtroppo la nostra storia è fatta di misteri. Nel caso di Pasolini si voleva eliminare una voce scomoda, facendo passare il tutto per un delitto sessuale. Il caso Mattei è una possibile chiave. In quei mesi le sue accuse politiche erano diventate sempre più dure e circostanziate, cominciava a fare dei nomi. Bisognerebbe collegare il suo omicidio con Petrolio e con il fatto che proprio in quel periodo Pasolini maneggiava materiale incendiario». La riapertura di indagini ha vita breve e si conclude quattro mesi dopo con un nulla di fatto e una nuova chiusura del procedimento: «È finita in archivio la terza inchiesta sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini. Secondo il Gip del tribunale di Roma non ci sarebbero elementi utili per una diversa ricostruzione del delitto, nessun particolare suscettibile di riscontro. E così ha messo la parola fine alla terza inchiesta sull'omicidio del poeta e scrittore avvenuta il 2 novembre del 1975 all'Idroscalo di Ostia. Con il provvedimento d'archiviazione il Gip ha accolto le richieste del Procuratore capo Giovanni Ferrara, dell'aggiunto Italo Ormanni e del Pm Diana De Martino. […] I magistrati hanno riesaminato la vicenda, ma non hanno trovato riscontri. Anche il medico-legale dell'epoca Giancarlo Umani Ronchi non le ha prese sul serio. Secondo lui le lesioni riportate da Pasolini erano compatibili con l'aggressione provocata da una sola persona.» [69].

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Un crimine con "amici”

L'ipotesi più recente collega il delitto Pasolini alla lotta di potere che prendeva forma in quegli anni nel settore petrolchimico, tra ENI e Montedison, tra Enrico Mattei e Eugenio Cefis. Chi ha fornito elementi per formulare tale ipotesi è il magistrato della Procura di Pavia Vincenzo Calia (ora Procuratore aggiunto a Genova). Alle conclusioni a cui il magistrato è giunto, relative all'ultima inchiesta da lui condotta per chiarire le modalità e le responsabilità della morte di Enrico Mattei, si sono riferiti sia il poeta Gianni D'Elia con il suoi libri L'eresia di Pasolini e Il Petrolio delle stragi. Postille a L'eresia di Pasolini (Effigie, 2005, 2006), sia Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza con il volume Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Un'unica pista all'origine delle stragi di Stato (Chiarelettere, 2009). Lo Bianco e Rizza hanno anche raccolto in un filmato alcune interviste e commenti, tra cui quello di Guido Calvi: «C'è la pista legata a Petrolio che anch'essa appare di qualche interesse perché Pasolini aveva tentato in quel libro di ricostruire un quadro sociale e politico di alcuni eventi, su vicende che… francamente non si sa bene come potesse avere quelle notizie se non attraverso dei documenti che gli avevano fornito proprio quelle informazioni... Ora, mi sembra che ci siano tutti gli elementi per tentare una nuova indagine giudiziaria. Io credo che, per un dovere direi quasi ontologico, si deve consentire che quella morte trovi un momento di verità, trovi dei veri responsabili, una causa vera e non lasciare che Pasolini in questo paese sia oscurato da quella morte». Il documento raccoglie le dichiarazioni di Pino Pelosi (trascritte nel libro di Lo Bianco-Rizza - pp. 279-287), in cui tra l'altro egli afferma: «[…] Quella sera io e Pasolini avevamo un appuntamento al chiosco della stazione. L'avevamo fissato una settimana prima, questo appuntamento, quando c'eravamo visti per la prima volta. […] Una sera mi è capitato di conoscere Pasolini in quel chiosco […] non l'avevo mai visto. E non sapevo nemmeno chi fosse. Che si trattava di Pasolini me lo dissero gli amici che stavano fuori e ci videro parlare. “Ma lo sai che quello è uno famoso?” – mi dissero – “lo sai che con quello se possono fa' 'n sacco de soldi?”. [Ci siamo dati] un appuntamento per il sabato successivo. […] Quella sera c'erano pure Franco e Giuseppe Borsellino […] e quei due stavano tramando qualcosa, qualcosa di brutto, me ne

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sono accorto subito, e perciò gli ho detto chiaro che io non volevo partecipare, non ne volevo sapere nulla». Su quanto specificamente avvenne all'Idroscalo di Ostia, Pelosi dichiara: «[…] Poi io sono uscito dalla macchina, sono andato a urinare vicino alla rete… E in quel momento è spuntata una macchina scura, non so se era un 1300 o un 1500, e una moto. Sono arrivate in tutto cinque persone. A me m'ha bloccato subito uno con la barba, sulla quarantina, m'ha detto: “Fatti i cazzi tua, pederasta” ho preso una bastonata e un cazzotto. Ho visto che trascinavano Pasolini fuori dalla macchina, e lo riempivano di pugni e calci, picchiavano forte. Gridavano, ho sentito le urla, gli dicevano: “Sporco comunista, frocio, carogna”. Ho avuto paura, mi sono allontanato nel buio. Sono tornato quando tutto è finito». Alla domanda degli intervistatori “Dunque, gli aggressori erano cinque. Li conosceva?”, Pelosi risponde: «Due li conoscevo. Erano Franco e Giuseppe Borsellino. Poi c'era questo che mi ha colpito, questo con la barba: non lo conoscevo, ma l'ho visto da vicino che aveva una quarantina d'anni. Gli altri due non so proprio chi fossero. […] [Franco e Giuseppe Borsellino] erano due amici miei. […] Erano due ladri di borgata, come me, ma in quel periodo sia Franco sia Giuseppe erano diventati fascisti, so per certo che bazzicavano la sezione del Msi al Tiburtino, andavano a fare politica. […] Secondo me era una lezione, una punizione, forse dovuta al partito o alla politica. Pasolini stava sul cacchio a qualcuno. Lo massacravano e gli dicevano: “Sporco comunista, sporco frocio”. Se tu uccidi qualcuno in questo modo, o sei pazzo o hai una motivazione forte; siccome questi assassini sono riusciti a sfuggire alla giustizia per trent'anni, pazzi non sono certamente… E quindi avevano una ragione, una ragione importante per fare quello che hanno fatto. E nessuno li ha mai toccati. […] I Borsellino li ho rivisti. Uno, quello più piccolo, l'ho rivisto in carcere, era mezzo strippato, drogato, stava al reparto dei matti. L'altro l'ho visto dopo un sacco di tempo […] era sieropositivo. Non gli ho detto niente. Non me ne fregava niente. Poi è morto». La credibilità di Pelosi – è da dire – è prossima allo zero: anzi, lo era già al momento del processo nel lontano 1976, quando perfino il giudice Moro ribadì che «ha saputo imbastire con estrema abilità una tesi difensiva che occultasse la realtà di ciò che all'idroscalo era effettivamente avvenuto e ha mantenuto tale tesi senza cedimenti lungo tutto l'arco dell'istruttoria e del dibattimento [...]; ha

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mostrato di non lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti ma di saperli prevedere e controllare». Si aggiunge a queste ultime “rivelazioni” di Pelosi l'ulteriore testimonianza a cui ho già fatto brevemente cenno, quella di Silvio Parrello, poeta e pittore che ha un suo studio a Roma in zona Monteverde, quartiere Donna Olimpia (la stessa zona in cui visse Pasolini tra il 1956 e il 1963). A Parrello, amico di Pasolini – che si riferì a lui per farne uno dei protagonisti, col nome di “Pecetto”, del suo romanzo Ragazzi di vita – ho chiesto di esprimere un parere sulle recenti, “presunte nuove rivelazioni” di Pelosi. Quella che segue è la risposta che mi ha dato. Analoghe dichiarazioni Parrello ha rilasciato recentemente in interviste ad alcuni periodici, e nel corso di una trasmissione televisiva, “Chi l'ha visto?” il 19 aprile 2010. «[…] I due Borsellino è sicuro che c'erano, ma ora sono morti, mentre Giuseppe Mastini detto “Johnny lo Zingaro” era lì con loro a massacrare Pasolini, e Pino non lo dice perché Johnny è ancora vivo, ha paura, ed è un suo amico; molto probabilmente il famoso plantare – 41 piede destro – è proprio di Johnny, che lo utilizzava dopo una ferita riportata durante una colluttazione con la polizia. Johnny è attualmente in libertà vigilata, è uscito di recente. Pino però non fa i nomi degli altri che realmente hanno ucciso Pasolini. Sicuramente uno di loro aveva una casetta lì all'Idroscalo. Secondo me c'era l'Alfa di Pasolini, la macchina che nella fuga ha demolito una recinzione lasciando sul reticolato anche del sangue di Pier Paolo, la moto Gilera dei ragazzi che l'avevano rubata qualche giorno prima e una terza macchina targata Catania, auto-civetta dei picciotti mafiosi… La macchina degli aggressori, uscita fuori strada dopo avere investito Pasolini, venne portata nella carrozzeria di Scannella, al Portuense, da Antonio Pinna che il 16 febbraio 1976 scomparve: la sua auto venne poi trovata all'aeroporto di Fiumicino abbandonata, e di Antonio Pinna non si seppe più nulla: scomparso, volatilizzato! Il Pinna, detto “Voilà”, di Donna Olimpia, amico di Pier Paolo fin dagli anni di Ragazzi di vita, era un assiduo frequentatore di Pasolini. Che cosa attingeva Pier Paolo negli incontri col Pinna? Informazioni sulla malavita romana che gli servivano poi come tematiche da utilizzare nei suoi romanzi, e notizie anche sui rapporti tra personaggi politici e alcuni fuorilegge divenuti in seguito brigatisti. Pino Pelosi mente perché è costituzionalmente un bugiardo e conosceva Pier Paolo da vecchia data: si incontravano quando ne avevano bisogno, perché con Pino si poteva fare solo sesso. […]». (12 giugno 2009)

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Sondare il passato per comprendere il presente

Nelle pagine di un suo romanzo-saga, Giuseppe e i suoi fratelli [70] Thomas Mann, scrive: “Senza fondo è il pozzo del passato. Dovremmo forse per questo dirlo insondabile?”. «L'interrogativo è retorico», ha dichiarato Giovanni Pellegrino nel corso di una trasmissione di “Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche” di Rai Educational, «il passato va continuamente sondato: frammenti di verità possono essere aggiunti alle acquisizioni precedenti per completare il quadro ed eventualmente consentirne letture diverse». Le carte dell'inchiesta del magistrato Vincenzo Calia, le prove da lui acquisite sull'attentato a Enrico Mattei, gli atti del processo per individuare gli autori del sequestro di Mauro De Mauro in corso attualmente a Palermo, nuove testimonianze sull'assassinio di Pier Paolo Pasolini (tra cui quella di Pino Pelosi che per la prima volta fa i nomi di alcuni dei suoi complici) permettono anche di mettere insieme alcuni passaggi sondabili della storia italiana dei casi irrisolti verificatisi negli ultimi cinquant'anni: in particolare, quelli riguardanti De Mauro e Pasolini. Alla luce di ciò che hanno scritto Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in Profondo nero, la criminologa Simona Ruffini e l'avvocato Stefano Maccioni avevano presentato nell'aprile 2009 al Procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara, una istanza per chiedere la riapertura delle indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Quello che è stato richiesto agli investigatori, può essere riassunto in due punti, ha spiegato in una conferenza stampa (marzo 2010) l'avvocato Maccioni: «[...] analizzare compiutamente quanto contenuto nelle indagini svolte dal pubblico ministero Vincenzo Calia in relazione alla morte di Enrico Mattei, in particolare quanto emerso con riferimento al manoscritto Petrolio di Pier Paolo Pasolini e al libro Questo è Cefis di Giorgio Steimetz; ovvero la tesi secondo la quale lo scrittore ucciso sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell'omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo Petrolio; ed accertare pertanto se sussista un collegamento tra le uccisioni di Mattei, De Mauro e Pasolini. E inoltre effettuare le necessarie indagini scientifiche sui reperti conservati nel museo criminologico di Roma». Fin dal 1975 e all'epoca del processo del '76, non ho avuto mai alcun dubbio sul concorso di altre persone oltre a Pelosi nell'assassinio di Pasolini, avendo ben presente ciò che avevano sentenziato i giudici in base alle risultanze (deposizioni, perizie) del processo di primo grado. E gran parte dei commentatori condivide questa convinzione. Ma vi è stata, alla metà di quei tormentati anni settanta, anche un'urgenza tutta politica di compiere indagini approssimative e la-

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cunose, di accelerare le conclusioni dei tre gradi di giudizio visto che l'identità della vittima non consentiva in questo caso insabbiamenti clamorosi quali quelli toccati ad altre vicende di quell'epoca. Nella relazione Calia, per esempio – in merito alle indagini sulla morte di Mattei e sulla scomparsa di Mauro De Mauro –, a un certo punto si accenna a una riunione alla quale avevano partecipato i vertici dei servizi segreti e i responsabili della polizia giudiziaria palermitana in cui fu impartito l'ordine di annacquare le indagini: non credo proprio che tale pratica fosse una specifica prerogativa della polizia palermitana. Purtroppo, nella storia dei “misteri d'Italia”, il ricorso ad annacquamenti e depistaggi è stato ed è all'ordine del giorno, così come gli omissis di responsabili, funzionari e cariche anche di prim'ordine dello Stato. Anche il riscontro sull'identità biologica degli aggressori di Pier Paolo Pasolini è ora possibile grazie alle nuove tecniche di indagine che fanno capo ai RIS (Reparti Indagini Scientifiche) dei carabinieri: su tali indagini si è dichiarato disponibile confermandolo in interviste pubblicate da alcuni quotidiani Lorenzo Garofano, già comandante del RIS di Parma. Gli elementi a disposizione dei Pubblici ministeri sono molto più solidi di quelli di cui disponevano in procedimenti precedenti. E aggiungo che poiché Pelosi ha fatto alcuni nomi, mentitore o meno che sia, si potrà tenere conto dei nuovi elementi che comunque le sue dichiarazioni hanno fatto emergere. Le indagini, oltre a ricercare eventuali riscontri a ciò che oggi dichiara Pelosi, potrebbero considerare il fatto che nel suo Petrolio lo scrittore, oltre a svolgere una vera e propria “autopsia” dei rapporti e collusioni di alcuni poteri, si riferisca al caso Mattei, indicando in Eugenio Cefis il responsabile diretto della morte del Presidente dell'ENI, circostanza dichiarata in Petrolio, messa in evidenza da Vincenzo Calia e del tutto sconosciuta sia agli addetti ai lavori sia alla pubblica opinione allorché lo scrittore redigeva gli appunti del suo romanzo. È possibile che dopo gli interventi sulla stampa e la scrittura di Petrolio, stesse diventando troppo rischioso per qualcuno la cui fisionomia è rimasta finora nell'ombra lasciare che la voce di Pasolini si esprimesse ancora. Esattamente come nel caso della sparizione del giornalista Mauro De Mauro. In ogni caso, si potrebbe anzitutto accertare definitivamente che l'omicidio fu compiuto da più soggetti in concorso tra loro. Se sarà provato che l'assassinio avvenne per mano di più persone sarà inevitabile che le nuove indagini si addentrino nel campo minato di motivazioni e mandanti del delitto, fascisti, malavitosi o politici che fossero. Diceva Walter Veltroni nel 2005: «Sono convinto che la morte di Pasolini sia un punto-chiave della vicenda italiana. È giusto, per la memoria di Pier Paolo e per quanto è stato tolto a Roma e al paese, che si faccia luce. Il delitto dell'idroscalo è un mistero, indagato in libri e film. Ora noi chiediamo alla magistratura di andare fino in fondo». Non si tratta, sosteneva Veltroni, di alimentare la retorica

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del doppio Stato, di evocare il fantasma delle dietrologie, o anche solo di “farsi un'idea” diversa da quella ufficiale: «Come in tutti questi casi, “farsi le idee” è compito degli inquirenti. Io posso dire qual è la mia impressione: le cose non sono andate come ha raccontato Pelosi, se non altro per il fatto che ha cambiato troppe volte versione. È un'impressione diffusa; per questo siamo in molti a chiedere di indagare in profondità su una morte strana, oscura» […] [71]. È lo stesso Veltroni che il 18 marzo 2010 ha rivolto una interrogazione parlamentare al ministro dei Beni culturali e il successivo 22 marzo ha scritto una lettera aperta pubblicata dal “Corriere della Sera” al ministro della Giustizia in cui ha scritto tra l'altro: «[…] Chi poteva avere interesse ad uccidere Pasolini? Sulle colonne di questo giornale aveva scritto meno di un anno prima il famoso articolo “Il romanzo delle stragi”, quello in cui diceva di sapere “i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer o sicari”. […] Non so se queste parole abbiano preoccupato qualcuno, se abbia preoccupato il lavoro che conduceva per la scrittura di Petrolio. Ma erano anni bastardi, non dimentichiamolo. Anni in cui da destra e da sinistra venivano compiuti, come fossero normali, atti inauditi. Ai quali spesso seguivano appelli ben firmati per la libertà dei responsabili. […] Anni nei quali si facevano stragi e si ordivano trame. Non bisogna essere “complottisti” per domandarsi cosa diavolo c'entrasse la banda della Magliana con la scomparsa di una giovane cittadina vaticana o con l'intricata vicenda del Banco Ambrosiano o con il rapimento di Moro. Ma al di là delle convinzioni personali e persino al di là della ricerca di una matrice politica del delitto Pasolini esistono una serie di evidenze sulle quali oggi forse si può fare chiarezza. E non solo perché nel 2005 Pelosi ha ritrattato tutto dichiarando che ad uccidere Pasolini erano stati tre uomini che lui non conosceva. Ha detto molte verità il ragazzo e, dunque, forse nessuna verità. Mi domando che interesse avesse, in quel momento, a riaprire una vicenda per la quale aveva già scontato la pena. Mi domando se forse il tempo passato non avesse rimosso ciò che, negli anni del delitto, gli faceva paura. […] Stiamo ai dati di fatto: il paletto insanguinato, i vestiti, il plantare. Oggi le nuove tecnologie investigative consentono, come è avvenuto per via Poma, di riaprire casi del passato. Anche qui voglio usare parole non mie ma quelle che nascono dalla esperienza di Luciano Garofano, che ha diretto il Reparto Investigazioni Scientifiche di Parma. Garofano è coautore con il biologo Gruppioni e lo scrittore Vinceti di un libro che si è occupato del caso Pasolini. “Oltre alle analisi del Dna che si potrebbero effet-

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tuare su molti reperti (alcuni dei quali mai sufficientemente presi in considerazione: il plantare, il bastone, la tavoletta...), attraverso lo studio delle tracce di sangue e di sudore, le scienze forensi vantano oggi un nuovo, importante alleato... La disponibilità degli abiti di Pasolini ma soprattutto quelli di Pelosi, ci consentirebbe di ottenere importanti informazioni sulla modalità dell'aggressione. Dallo studio delle macchie di sangue ancora presenti, si potrebbe infatti stabilire (e magari confermare) la tipologia di armi usate per colpire, le posizioni reciproche dell'omicida e della vittima e riscontrare quindi la attendibilità della versione fornita allora da Pelosi... Un caso che, come tanti altri enigmi del passato, non possiamo considerare chiuso”. […] Per questo, come per altri fatti della orribile stagione del terrore […] ora si può, si deve continuare a cercare la verità. […] Conviviamo da anni con un numero di ombre insopportabile. Più ne dissiperemo e meglio sarà per tutti noi […] e più ancora della verità giudiziaria credo ci debba oggi interessare la verità storica». Alcuni, anche tra coloro che furono vicinissimi a Pasolini, desidererebbero probabilmente che la si smettesse di sondare il passato, forse perché temono, in fondo, che venga di nuovo disturbata e sconvolta la loro stessa esistenza; altri insistono ancora a ridurre semplicemente la truce esecuzione di Pasolini a “delitto tra omosessuali”. Sono compartecipe dell'angoscia che coglie nel ritornare a parlare della morte atroce di Pier Paolo Pasolini, condivido il dolore dei famigliari per i quali riconsiderare le circostanze di quella morte rinnova anche un dolore al limite dell'insopportabilità. Che non è però soltanto il loro dolore. Pasolini è stato ed è anche uomo pubblico, la cui opera appartiene all'intera umanità e da molti è amata come un bene prezioso, così come è amato il loro autore, quasi fosse un fratello, un amico, un maestro sulla cui tragica morte continuano a gravare dubbi, equivoci, incertezze. Ebbene, chi ama disinteressatamente Pasolini e la grande eredità intellettuale di cui – con la sua poesia, le sue analisi sociopolitiche, i suoi romanzi, i suoi film e i suoi lavori teatrali – egli ha fatto dono a tutti noi, ha anche diritto, a mio parere e se vi è una qualsiasi possibilità, di conoscere la verità sul suo assassinio. Una verità realmente provata e non solo ipotizzata: non si può immaginare la realtà, occorre viverla anche se il riviverla è crudelmente straziante. ***

Di Pier Paolo Pasolini Garzanti ha ripubblicato recentemente in un'apposita collana tutti i titoli più importanti dello scrittore-poetaregista (finora sono apparsi Una vita violenta, Ragazzi di vita, L'o-

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dore dell'India, Scritti corsari, Passione e ideologia, Le ceneri di Gramsci, Il sogno di una cosa e Teorema). Vi sono notizie di stampa che indicano Massimo Ranieri quale protagonista di un film intitolato Pasolini, la verità nascosta diretto da Federico Bruno, al quale ho chiesto di parlarmi del progetto. Quella che segue è la risposta del regista: «Pasolini, la verità nascosta si basa sulla ricerca durata un anno intero e su varie prove e testimonianze raccolte direttamente dalle persone che conobbero Pasolini, oltreché dei fatti che si sono lentamente chiariti nel tempo. Il film ha avuto l'adesione dell'attore Massimo Ranieri che interpreterà Pasolini nell'anno della sua morte, il 1975; sarà girato principalmente a Roma ma alcune scene prevedono anche Torre di Chia dove Pasolini aveva una residenza, Sabaudia dove condivideva una casa con Moravia, Parigi dove Pasolini si recò con Ninetto Davoli una settimana prima di morire, e Stoccolma. Il film è prodotto dalla Horizon Film, una mia società. Oltre a scrivere la sceneggiatura sarò regista e produttore dell'opera. Al film parteciperà un famoso attore tedesco di fama internazionale e un'attrice spagnola. Il lavoro si compone di due parti distinte, una moderna dove una studentessa spagnola, venuta a Roma per incontrare un personaggio che conobbe il poeta in quell'epoca, Gideon Bachmann, visita luoghi pasoliniani, da Ostia passando per altri luoghi della capitale, fino a Casarsa, nel Friuli, dove c'è la tomba del poeta, raccogliendo notizie utili alla sua ricerca per completare la tesi universitaria. L'altra parte, in bianco e nero che si alternerà nel montaggio, ricostruisce la vita di Pasolini nel 1975 nei suoi molteplici interessi: poesia, cinema, pittura, viaggi, fino al giorno della morte. In questa parte si rappresenta anche la criminalità diffusa all'epoca, come fu architettato il tranello per attirare Pasolini e ucciderlo, e si mostrano intrighi politici e connessioni tra organismi dello Stato (servizi segreti) e malavita. Il film ha come obiettivo quello di restituire dignità alla figura del poeta, dignità che è stata pesantemente infangata e che ha avuto come risultato l'aver creato un'immagine negativa della sua persona per ciò che riguarda l'opinione pubblica. Il film vuole anche far riflettere su ciò che diceva e scriveva il poeta sui pericoli di un'Italia che stava andando nella direzione del consumismo e di un capitalismo sfrenato: ciò sarà utile come tema di riflessione per le giovani generazioni che sono vittime e in parte contaminate da quel sistema. Il film vuole stimolare la coscienza politica e la critica di chi ha deciso un destino sbagliato e distruttivo della società. Sarà girato nell'arco del 2010, anno in cui verrà anche distribuito in Italia e in Europa». Concludo con l'esortazione, che faccio mia, dell'amico scrittore e giornalista Enrico Campofreda: «Rileggere Pasolini. Non tanto per ricordarlo: non l'abbiamo mai dimenticato, né per tornare da lui: non s'è verificato alcun abbandono. Riproporlo sì, avvicinare ancora le opere di quel

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grande intellettuale che è stato e che un odioso crimine ha sottratto prematuramente all'Italia e alla cultura internazionale. S'è detto e ripetuto che si è trattato d'un crimine politico, ideologico, culturale; il lavoro cinematografico di Marco Tullio Giordana Pasolini un delitto italiano compie una ricostruzione dei fatti che molto s'approssima alla verità e rammenta le responsabilità dirette, il controverso verdetto del processo e l'omertà del Potere. E la stessa omertà di coloro che, pur non identificandosi col Potere, vedevano nel poeta un uomo estremamente scomodo. Una coscienza critica della società e degli schieramenti politici, nessuno escluso, che era meglio emarginare. Rivisitiamo parole, idee, verità, opinioni di questa mente libera e lirica che, attraverso sensibilità e percezione profonde, ci porta alla comprensione di uomini e cose del vivere quotidiano. Il suo straordinario intuito gli faceva cogliere con un trentennio d'anticipo quella realtà oggi sotto gli occhi di tutti» [72].

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Illustrazioni fuori testo Fotogrammi da Pasolini, un delitto italiano, di M.T. Giordana Documenti Ritratti

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Fotogrammi dal film Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana (1995)

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Idroscalo di Ostia, novembre 1975

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Delitto Pasolini, reperti

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Sopra: Franco e Sergio Citti Sotto: Moravia, Siciliano, Bernardo Bertolucci

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Mattei e Cefis: sintesi e cronologia dell'ENI

La storia del petrolio in Italia nel secondo dopoguerra, e per certi aspetti fino ai nostri giorni, è legata alla figura di Enrico Mattei. All'inizio della guerra Mattei era un piccolo imprenditore di successo, al termine della guerra era il comandante militare di forze partigiane “bianche”. Durante un lungo e pericoloso periodo di clandestinità aveva dimostrato eccezionali capacità di organizzatore, portando i partigiani cattolici da 2.000 a 65.000. All'indomani della Liberazione, il 30 aprile 1945, Mattei fu nominato Commissario Straordinario dell' AGIP. Nelle intenzioni del Governo avrebbe dovuto liquidare la Società, ma Mattei si fece forte della grande importanza del gas metano, poi del petrolio, scoperti a Cavriaga, e di tutte le esplorazioni positive condotte dall' AGIP nella pianura padana. Una volta salvata l'azienda, Mattei guidò l'AGIP alla scoperta di numerosi altri giacimenti e alla metanizzazione del paese. Nel 1953, con l'istituzione dell' ENI, Mattei portò avanti a livello internazionale una spregiudicata e fruttuosa penetrazione dell'Italia nei santuari petroliferi delle grandi multinazionali americane e anglo-olandesi. Questa sfida gli costò la vita. Mattei morì in un attentato il 27 ottobre 1962: l'evento fu classificato come incidente aereo fino agli anni 2000, quando il magistrato di Pavia Vincenzo Calia, a seguito della riapertura dell'inchiesta sulle cause della morte di Mattei, provò che il piccolo aereo a reazione sul quale viaggiava insieme a due altre persone fu sabotato all'aeroporto catanese di Fontanarossa e fatto esplodere con un meccanismo collegato al sistema di apertura del carrello, cosa che avvenne nei cieli di Bascapè, in prossimità dell'aeroporto milanese di Linate. Un “mistero” risolto a metà, quello della morte di Enrico Mattei, poiché – malgrado alcune ipotesi molto realistiche che riconducevano a Eugenio Cefis e alla manovalanza mafiosa – non si sono potuti raccogliere sufficienti elementi giudiziari che avessero valenza di prove. Il gigantesco sforzo dell'industria di Stato sotto la direzione di Mattei può essere racchiuso tra due cifre. Nel 1953 furono estratte in Italia 85.000 tonnellate di petrolio, nel 1961 la cifra aveva raggiunto 1.400.000 tonnellate.

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Cronologia - Anni '50: accordi dovuti a rapporti personali di Mattei instaurati in Marocco, Urss, Libia, Iran, Tunisia, Nigeria, Sudan, Pakistan, Egitto, Cina per bypassare la dipendenza dalle grandi compagnie petrolifere americane (le cosiddette Sette sorelle) - 1957: Cefis entra all'ENI come vicedirettore. Ne esce nel 1960, sospettato di interessi lobbistici e di accordi segreti con le concorrenti americane - 1962: Boldrini succede a Mattei nella presidenza dell' ENI, ma senza un reale potere. Esplode la lottizzazione delle correnti Dc. Il governo reale dell'ENI è in mano a Eugenio Cefis (cattolico di destra, con una visione autoritaria, forse golpista, della politica; fermamente antisindacale; doppiogiochista con la Dc ). Ritornato all'ENI come vicepresidente collabora con le Sette sorelle. L' ENI ne guadagna in forniture dal Medio Oriente e nell'ammissione a consorzi privati per le ricerche nel Mare del Nord. Si chiudono le operazioni in Marocco e in Sudan e si indebolisce la posizione complessiva dell'ENI in Africa - 1965: Rivincita degli ex sostenitori della privatizzazione dell'elettricità. Nasce la Montedison. È l'inizio di un lungo conflitto con l' ENI - 1967: Cefis diventa presidente ENI - 1971: Cefis lascia l'ENI per la Montedison sotto la regia di Mediobanca (Cuccia) e della Banca d'Italia (Carli). È esclusa qualsiasi ingerenza di ENI in Montedison. Raffaele Girotti assume la presidenza dell'ENI. - 1973: Crisi petrolifera (guerra del Kippur) [73]. - 1975: Pietro Sette succede a Girotti - 1977: Eugenio Cefis lascia improvvisamente la vita pubblica per ritirarsi a vita privata in Svizzera e gestire il suo patrimonio personale

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Pier Paolo Pasolini, Perché il processo

In un secondo articolo di cui vi è qui di seguito un estratto (dopo l'articolo già richiamato nel testo - cfr. p. 36 - di cui costituisce una sorta di parte integrante), Pasolini risponde ad alcuni suoi critici che l'avevano attaccato sulla stampa per l'ipotesi di “processo alla Dc” da lui formulata: «[…] I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la “massa”, dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l'unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente). I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai “cultura” è stata più accentratrice che la “cultura” diquesti dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso. […] Un elenco, anche sommario, ma, per quanto é possibile, completo e ragionato, dei fenomeni, cioè delle colpe, non è mai stato fatto. Forse la cosa è considerata insostenibile. Perché, ai capi di imputazione che ho qui sopra elencato, c'è molto altro da aggiungere – sempre a proposito di ciò che gli italiani vogliono consapevolmente sapere. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la

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Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il progetto della “strategia della tensione” (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente). Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda. Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna. Ma gli italiani – e questo è il nodo della questione – vogliono sa pere tutte queste cose insieme: e insieme agli altri potenziali reati col cui elenco ho esordito. Fin che non si sapranno tutte queste cose insieme – e la logica che le connette e le lega in un tutto unico non sarà lasciata alla sola fantasia dei moralisti – la coscienza politica degli italiani non potrà produrre nuova coscienza. Cioè l'Italia non potrà essere governata […]. Ma se (come mi pare evidente, con immedicabile mortificazione) l'opinione pubblica italiana […] non vuole sapere – o si accontenta di sospettare –, il gioco democratico non è formale: è falso. Inoltre se la consapevole volontà di sapere dei cittadini italiani non ha la forza di costringere il potere ad autocriticarsi e a smascherarsi – se non altro secondo il modello americano –, ciò significa che il nostro è un ben povero paese: anzi, diciamo pure, un paese miserabile. Ci sono inoltre delle cose (e a questo punto continuo, più che mai, nel puro spirito della Stoà) che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata. Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos'è con precisione la “condizione umana” – politica e sociale – in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, alle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere. Gli italiani vogliono ancora sapere che cos'è, che limiti ha, che futuro prevede, la “nuova cultura”- in senso antropologico – in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell'ultima generazione). Gli italiani vogliono ancora sapere che cos'è, e come si definisce veramente, il “nuovo tipo di potere” da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna

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a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.). Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos'è e come si definisce il “nuovo modo di produzione” (da cui sono nati quel “nuovo potere” e, quindi, quella “nuova cultura”): se per caso tale “nuovo modo di produzione” – introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità – non produca, per la prima volta nella storia, “rapporti sociali immodificabili”: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità”. Senza sapere che cosa siano questo “nuovo modo di produzione”, questo “nuovo potere” e questa “nuova cultura”, non si può governare: non si possono prendere decisioni politiche (se non quelle che servono a tirare avanti fino al giorno dopo, come fa Moro). I potenti democristiani che ci hanno governato in questi ultimi dieci anni, non hanno saputo neanche porsi il problema di tale “nuovo modo di produzione”, di tale “nuovo potere” e di tale “nuova cultura”, se non nei meandri del loro Palazzo di pazzi: e continuando a credere di servire il potere istituito clericofascista. Ciò li ha portati ai tragici scompensi che hanno ridotto il nostro paese in quello stato, che più volte ho paragonato alle macerie del 1945. È questo il vero reato politico di cui i potenti democristiani si sono resi colpevoli: e per cui meriterebbero di essere trascinati in un'aula di tribunale e processati. Non dico, con questo, che anche altri uomini politici non si siano posti i problemi che non si son posti i sacrestani al potere, o che, come loro, non abbiano saputo risolverli. Anche i comunisti hanno per esempio confuso il tenore di vita dell'operaio con la sua vita, e lo sviluppo col progresso. Ma i comunisti hanno compiuto – se hanno compiuto – degli errori teorici. Essi non erano al governo, non detenevano il potere. Essi non derubavano gli italiani. Sono coloro che si sono assunti delle responsabilità che devono pagare, cari colleghi della “Stampa”, che, sono certo, siete perfettamente d'accordo con me... Un'ultima osservazione che mi sembra, del resto, capitale. L'inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone...), l'inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti... Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io». [74].

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La strategia della tensione

Come risultò dai lavori della Commissione Stragi (“Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”: costituita durante la X Legislatura – legge n. 172 del 17 maggio 1988 – rimase attiva per tredici anni fino al 2001) presieduta da Giovanni Pellegrino che stilò la relazione finale, tra i moventi di tale strategia, soprattutto in Italia e nel quadro della Guerra fredda, vi sarebbe stato quello di influire sul sistema politico italiano, rendendo instabile la democrazia. Vi furono molte ipotesi, che portarono a sospettare i servizi segreti italiani e stranieri di avere avuto un ruolo in tale strategia. Una delle caratteristiche della strategia della tensione era il confezionamento di attentati stragisti congegnati in modo tale da farli apparire ideati ed eseguiti da membri di organizzazioni dell'estrema sinistra o dell'estrema destra, o tramite lo sfruttamento mediatico di attentati effettuati da normali terroristi, servendosi anche di esponenti mafiosi. La strategia della tensione mantiene uno stretto legame con il fenomeno generale del terrorismo di Stato e spesso si serve, oltre che dei servizi, di accordi con le organizzazioni criminali e la loro manovalanza. Uno Stato può decidere di ricorrervi contro i suoi stessi cittadini, a fini repressivi per eliminare gli oppositori, oppure un gruppo politico, o in altri casi per intimidire e far emigrare una popolazione che non desidera. Al di fuori dei loro confini, gli Stati adottano il terrorismo per perseguire obiettivi di politica estera e per ostacolare Stati rivali o nemici. Poiché gli Stati del mondo hanno sottoscritto ufficialmente la carta dei diritti dell'uomo, che implica un totale rifiuto del terrorismo, nessuno di essi può ammettere di utilizzare l'assassinio e i metodi terroristici o stragisti, né di addestrare, armare o comunque aiutare terroristi o gruppi terroristici. In Italia, molti eventi criminosi hanno visto anche la partecipazione attiva della criminalità organizzata o di servizi dello Stato: li si qualificano giornalisticamente “misteri” poiché dal punto di vista giudiziario in gran parte risultano tuttora irrisolti. Ma ciò non toglie che alcuni elementi di verità siano emersi. Nel caso della morte di Enrico Mattei, per esempio, anche se nessuno dubitava che non si trattasse di incidente aereo, sono dovuti passare oltre quarant'anni perché un giudice coraggioso stabilisse che si era trattato in realtà di attentato. Elenco qui di seguito alcuni degli eventi più clamorosi (dal 1969) legati alla strategia della tensione: - 12 dicembre 1969: attentato a Milano, la strage di Piazza Fontana; muoiono 17 persone e 88 vengono ferite.

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- 22 luglio 1970: strage di Gioia Tauro, un ordigno squassa le rotaie nei pressi della stazione di Gioia Tauro causando il deragliamento del Treno del Sole. Muoiono sei persone. - 17 maggio 1973: strage alla Questura di Milano, in cui muoiono 4 persone e altre 46 sono ferite. - 28 maggio 1974: una bomba viene fatta esplodere durante una manifestazione sindacale a Brescia, in Piazza della Loggia: muoiono 8 persone. - 17 giugno 1974: attacco a una sede del Msi a Padova: sono uccise due persone. - 4 agosto 1974: attentato compiuto a San Benedetto Val di Sambro (treno Italicus), in cui muoiono 12 persone e altre 105 restano ferite. - 7 gennaio 1978: strage di Acca Larentia, a Roma: i Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale uccidono due attivisti del Msi. Durante i tafferugli che seguono, un capitano dei Carabinieri uccide un terzo attivista. Durante una manifestazione per commemorare il primo anniversario della strage, un poliziotto uccide un quarto attivista. - 16 marzo 1978: strage di Via Fani: a Roma viene sequestrato Aldo Moro (poi ucciso il 9 maggio successivo), presidente della Democrazia cristiana e rimangono uccisi due carabinieri e tre poliziotti della scorta. - 3 maggio 1979: attacco alla sede Dc del Lazio che provoca la morte di due agenti e il ferimento di un terzo. - 27 giugno 1980: strage di Ustica: un aereo Dc-9 esplode in volo sopra il mare al largo dell'Isola di Ustica. - 2 agosto 1980: strage alla stazione ferroviaria di Bologna, in cui muoiono ottantacinque persone e i feriti sono oltre duecento. - 26 agosto 1982: strage di Salerno: un gruppo terroristico attacca una pattuglia di militari per impossessarsi delle loro armi. Due muoiono nel conflitto a fuoco, un terzo pochi giorni dopo per le ferite riportate. - 23 dicembre 1984: attentato al treno rapido 904, San Benedetto Val di Sambro: perdono la vita diciassette persone e oltre duecentosessanta sono ferite. Negli anni tra il 1969 e il 1984, inoltre, e sempre nell'ambito della strategia della tensione, si contano altre sessanta singole persone assassinate. Vi è anche una serie di stragi di mafia, qui non incluse, anche se spesso (Carlo Alberto Dalla Chiesa, via dei Georgofili a Firenze e via Senato a Milano, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) hanno avuto intenti anche destabilizzanti, caratteristici della strategia della tensione.

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Capitalismo, neocapitalismo, globalizzazione, da Quasi un testamento, di Pier Paolo Pasolini [****]

Quelli che seguono sono due scritti di Pasolini tratti da Quasi un testamento. Il primo è su “capitalismo e neocapitalismo”, nel quale lo scrittore prefigura più che realisticamente quella che oggi conosciamo come globalizzazione, quella stessa che ha condotto attualmente il mondo intero a una gravissima crisi economica i cui esiti non si sono ancora spenti. Il secondo ha come tema il “miglioramento del mondo”. Capitalismo e neocapitalismo «II capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi, rivoluzionariamente, in neocapitalismo. […] potrei dire che la rivoluzione neocapitalistica si pone come competitrice con le forze del mondo che vanno a sinistra. In un certo modo va esso stesso a sinistra. E, fatto strano, andando (a suo modo) a sinistra tende a inglobare tutto ciò che va a sinistra. Davanti a questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo. Perché tutto questo? Perché il neocapitalismo coincide insieme con la completa industrializzazione del mondo e con l'applicazione tecnologica della scienza. Tutto ciò è un prodotto della storia umana: di tutti gli uomini non di questo o quel popolo. E infatti i nazionalismi tendono, in un prossimo futuro, a essere livellati da questo neocapitalismo naturalmente internazionale. Sicché l'unità del mondo (ora appena intuibile) sarà un'unità effettiva di cultura, di forme sociali, di beni e di consumi. Io spero naturalmente che, nella competizione che ho detto, non vinca il neocapitalismo: ma vincano i poveri. Perché io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l'uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d'arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo).»

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Il miglioramento del mondo «Un singolo che faccia qualcosa proponendosi “il miglioramento del mondo” è un cretino. Per la maggior parte, coloro che pubblicamente lavorano «al miglioramento del mondo» finiscono in carcere per truffa. Inoltre il mondo riesce sempre alla fine a integrare gli eretici. Per esempio le beatificazioni e le santificazioni... Ammettete che santifichino Papa Giovanni XXIII: eccolo integrato, messo in un santino e esorcizzato. E non c'è dubbio che Giovanni XXIII abbia contribuito a un possibile miglioramento del mondo. Ma se qualcuno gli avesse chiesto: “Scusi, lei contribuisce al miglioramento del mondo?”, lui l'avrebbe preso in giro, o magari mandato al diavolo, e certamente poi sorridendo avrebbe detto fra sé: “Faccio quello che posso”. In realtà, il mondo non migliora mai. L'idea del miglioramento del mondo è una di quelle idee-alibi con cui si consolano le coscienze infelici o le coscienze ottuse (includo in questa classificazione anche i comunisti quando parlano di “speranza”). Dunque, uno dei modi per essere utili al mondo è dire chiaro e tondo che il mondo non migliorerà mai, e che i suoi miglioramenti sono metastorici, avvengono nel momento in cui qualcuno afferma una cosa reale o compie un atto di coraggio intellettuale o civile. Solo una somma (impossibile) di tali parole o tali atti effettuerebbe un miglioramento concreto del mondo. E sarebbe il paradiso e la morte. Il mondo può peggiorare, invece, questo sì. E per questo che bisogna lottare continuamente: e lottare, poi, per un obiettivo minimo, ossia per la difesa dei diritti civili (quando si siano ottenuti attraverso precedenti lotte). I diritti civili sono infatti eternamente minacciati, eternamente sul punto di venire soppressi. È necessario quindi anche lottare per creare nuovi tipi di società, in cui il programma minimo dei diritti civili sia garantito. Per esempio, una società veramente socialista [75].»

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Dall'arringa dell'avvocato di parte civile Guido Calvi al processo per l'assassinio di Pier Paolo Pasolini (1976)

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[La parte civile ritira la sua costituzione] Le ragioni che inducono la parte civile a ritirare la sua costituzione possono trovare spiegazioni solo ricordando le motivazioni che determinarono inizialmente la scelta di essere partecipi di questo procedimento penale. Certamente più semplice, e anche sostenuta da valide e comprensibili argomentazioni, sarebbe stata la scelta di astenersi dalla costituzione di parte civile. La vita e l'opera di Pasolini sono state arrestate tragicamente e la loro perdita, per i familiari, per gli amici, per il mondo della cultura, non poteva in alcun modo trovare compensi. Né tanto meno poteva esservi proporzione o semplice rapporto tra il dolore e lo sgomento provati e la ricerca di una rivalsa, sia pure processuale, nei confronti di un assassino, così miserevole e abietto nella sua sordida insania. Solamente chi non l'ha mai voluto o potuto conoscere, chi ha odiato lui e la sua cultura, chi lo ha stimato con invidia malcelata, chi ha sperato da sempre che per sempre la sua voce fosse chiusa nel silenzio, ha potuto ricordare e giudicare Pasolini esclusivamente alla luce degli ultimi e drammatici istanti della sua esistenza. Era, dunque, semplice rifiutare quegli ultimi istanti e il giudizio che su essi sarebbe stato espresso. Ma così non è stato. Si è voluto invece essere presenti così come Pasolini avrebbe deciso: «Ho sempre pagato, sono andato disperatamente in fondo a tutto. Ho fatto molti errori, ma certo non ho rimpianti». E ciò perché, scriveva in una poesia del 1969: «Della nostra vita sono insaziabile / perché una cosa unica al mondo non può mai essere esaurita». Senza acrimonia o iattanza, ma con l'umiltà della coscienza che solo Pasolini avrebbe potuto difendere o spiegare appieno se stesso, la parte civile ha scelto di collaborare con la giustizia, solamente perché la verità, o almeno quella parte di verità, alla sua morte, non fosse ancora una volta travolta e mistificata dal risentimento e dalla incomprensione. Abbiamo voluto offrire a voi giudici e alla opinione pubblica i nostri dubbi e le nostre certezze circa quanto accadde la notte del 2 novembre. Abbiamo voluto provare la volontarietà dell'omicidio ed esporre le ragioni che ci inducono a ritenere che Giuseppe Pelosi non fosse solo e che gli elementi obiettivi raccolti in istruttoria possono essere compiutamente valutati solo in presenza di una pluralità di esecutori. In tutto ciò l'attenzione, la serenità, l'obiettività e l'intelligenza di tutto il Tribunale, a cominciare dal suo Presidente, ci sono stati

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di conforto e di aiuto. Riteniamo che, per ora, il nostro compito sia terminato. Vogliamo che Pelosi sia condannato, ma non spetta più a noi chiedere come e in quale misura la pena sia concretata. Abbiamo fatto tutto ciò che ci è stato possibile per dimostrare la responsabilità dell'imputato e dei suoi complici. Tuttavia la pena che sarà irrogata ci è estranea e la sua valutazione preclusa, poiché Pelosi “è” di questo processo, “è” di questo Tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché “è” di un'altra realtà. L'unica ultima richiesta che resta è dettata dalla insoddisfazione per la parzialità della verità accertata. Il Tribunale decide ora su quanto è stato portato a sua conoscenza. Restano i complici ancora ignoti. E questi appartengono a un capi- tolo del processo che altri giudici dovranno riaprire e continuare. Non possiamo ritirare la costituzione di parte civile senza aver dato prima una valutazione, sia pur sintetica, sui punti del processo che reputiamo fondamentali. Tale scelta infatti è legata al momento formale della costituzione stessa considerando quanto eccezionale e dolorosa sia stata la riflessione giudiziaria sulla morte di Pasolini. In altre parole, come abbiamo già scritto, il ritiro della parte civile non attiene all'accertamento delle responsabilità penali del Pelosi, anzi esso avviene proprio perché tale accertamento, a nostro parere, è stato acclarato in modo inequivoco, ed è posto in essere sulla soglia della irrogazione della pena e della richiesta del risarcimento. Di qui la necessità, in questa sede, di puntualizzare il nostro convincimento sui temi della maturità dell'imputato e delle modalità del delitto. […] L'art. 85 CPP dopo aver ribadito e ampliato il principio di stretta legalità secondo cui «nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile», dichiara: «è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere». L'art. 98 CPP , poi, afferma che il minore degli anni 18 è imputabile se nel momento in cui ha commesso il fatto «aveva capacità di intendere e di volere». Il quesito al quale il Tribunale deve rispondere è questo. E questo è anche l'ambito entro il quale i periti possono e debbono operare nel coadiuvare l'attività dei giudici.[…] A nostro avviso, la volontarietà dell'omicidio è stata ampiamente dimostrata, e a sostegno di ciò sono soprattutto le perizie medicolegali, le osservazioni del nostro consulente prof. Faustino Durante, e le stesse incerte e lacunose dichiarazioni del Pelosi. Di ciò tratteremo in altra parte delle nostre conclusioni, ma qui osserviamo che se quella notte del 2 novembre Pasolini fu colpito in prossimità della sua auto, se disperato fuggì sanguinante per oltre 70 metri, se fu inseguito e raggiunto, se qui fu di nuovo colpito, se

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Pelosi tornò indietro, salì sull'auto, ripartì, deviò ampiamente sulla sua sinistra, passò sul corpo martoriato con ambedue le ruote, ebbene tutto ciò non solo prova la volontarietà dell'esecuzione ma sottolinea, nella dilatazione dello spazio temporale, pervicace e reiterata volontà omicida che non poteva essere priva della coscienza di quanto stava accadendo e della intelligenza della reale situazione che stava ponendo in essere. […] Pelosi aveva dunque la capacità di rappresentarsi gli effetti delle sue azioni? A nostro avviso sicuramente sì. Ma Pelosi aveva anche la capacità di esprimere un giudizio etico e sociale su quanto stava commettendo? Qui il discorso è più complesso. Il nostro consulente prof. Luigi Cancrini ha espresso con chiarezza qual è il nostro punto di vista e ad esso ci riportiamo. […] La conclusione alla quale, sulla base delle considerazioni elaborate dal nostro consulente, perveniamo, è che «l'immaturità e il comportamento antisociale in cui esse si esprimono devono essere guardate come il risultato di un processo che coinvolge l'ambiente in cui il ragazzo è cresciuto e la complessiva immaturità delle strutture che ne hanno influenzato lo sviluppo e che non hanno potuto occuparsi altrimenti di lui. Perché nessuno si è preoccupato del fatto che il minore abbandonasse la scuola? Perché nessuno è intervenuto nel momento in cui egli accettava di prostituirsi? Che diritto si ha oggi di chiedergli conto di un singolo gesto che costituisce il tragico epilogo di una storia possibile solo all'interno di una società che pretende di essere matura lasciando che i ragazzi come Pelosi affoghino nella apatia e nella indifferenza delle sue istituzioni?» Ecco le domande dalle quali noi ci siamo mossi e di fronte alle quali, in questa sede, ci fermiamo perché esse ci avviano verso spazi che non sono più patrimonio esclusivo del diritto. [Ricostruzione dell'assassinio] L'istruttoria dibattimentale ha offerto con sufficiente chiarezza un quadro che consente ora una ricostruzione dei tragici fatti in termini assai credibili e vicini alla verità, pur se ci si mosse all'inizio delle indagini tra infinite difficoltà e incertezze. È stata soprattutto la consulenza del prof. Durante che ha permesso una chiarificazione attraverso l'elaborazione logica e induttiva degli elementi non certo abbondanti che la situazione offriva. È nostra profonda convinzione di essere riusciti a fornire al Tribunale elementi di giudizio sufficienti al fine di giungere alle conclusioni indicate circa la volontarietà dell'omicidio e la pluralità degli esecutori. Qui desideriamo riassumere, sia pure sinteticamente e schematicamente, gli elementi che ci hanno condotto a tale convinzione e che nel corso dell'istruttoria dibattimentale hanno trovato ampio riscontro.

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La volontarietà dell'omicidio emerge con assoluta certezza da tutti gli elementi di sopralluogo e dalle risultanze stesse della perizia d'ufficio, che possono essere così riassunti: - 1°. La reiterazione dei colpi inferti fin dalla prima fase, che è provata da: 1.1. La camicia inzuppata di sangue. […] 1.2. La presenza di capelli di Pasolini nel tragitto di fuga. […] - 2°. La reiterazione dei colpi inferti nella seconda fase, che è provata da: 2.1. La presenza di sangue e di capelli di Pasolini su tutte e due le superfici larghe e sui margini della tavoletta “Buttinelli” strappata dal cancello avanti al quale fu rinvenuto il corpo di Pasolini. 2.2. La emorragia cerebrale dai periti non attribuita al sormontamento ma ai colpi inferti con mezzi contusivi prima del sormontamento. 2.3. Il calcio ai testicoli: è da precisare che si trattò di un così violento trauma da determinare una infiltrazione di sangue anche nei tessuti profondi come riportato nella perizia d'ufficio. - 3°. Il volontario sormontamento del corpo di Pasolini con le ruote dell'autovettura della stessa vittima è provato da: 3.1. Lo spazio tra il corpo e la rete di recinzione situata sulla carreggiata destra opposta a quella ove fu rinvenuto il corpo era di circa 8 metri. 3.2. La distanza fra l'ultima buca e il corpo di Pasolini era di circa 8 metri. 3.3. I fari accesi: e quindi visibilità piena dello spazio antistante la vettura. 3.4. La velocità non eccessiva del veicolo […] [La presenza di più aggressori] La presenza di più aggressori è comprovata dai seguenti elementi: - 1. Entità delle lesioni preesistenti al sormontamento. 1.1. La certezza sulla genesi contusiva di alcuni gravi complessi lesivi del capo. […] 1.2. Le lesioni fratturative delle falangi (due fratture e una lussazione). […] 1.3. La impossibilità di individuare altre lesioni gravi non dovute al sormontamento, ma verosimiglianza di una loro presenza. Tutti sono d'accordo, compresi i periti d'ufficio e compreso il consulente della difesa, che è pressoché impossibile distinguere altre gravi lesioni non dovute al sormontamento. Orbene: la verosimile loro presenza si basa fondamentalmente sulla constatazione anatomopatologica di una emorragia cerebrale che con certezza non è stata

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prodotta dal sormontamento (cosi affermano gli stessi periti), ma che è molto poco attendibile riferire soltanto al colpo che produsse la lesione ad “H”. […] - 2. La particolare vascolarizzazione arteriosa del cuoio capelluto. […] - 3. Lo scarsissimo imbrattamento dei vestiti di Pelosi con sangue di Pasolini. […] - 4. L'assenza di lesioni sul corpo di Pelosi. Su questo elemento va sottolineato: 1° quanto i periti d'ufficio affermano circa la lesione alla fronte: «Il mezzo lesivo deve aver comunque esercitato la sua efficacia lesiva in ogni caso di modesta entità in senso trasversale»; 2° che i medici della Pubblica sicurezza di Ostia parlarono di ferita da taglio, il che contrasta con l'azione di un bastone mancandovi ecchimosi ed escoriazioni; 3° che la regione frontale fu vista dai periti dopo quattro giorni e anche essi non vi rilevarono infiltrazioni ematiche circostanti. La lesione alla fronte occorre riferirla più verosimilmente a un urto contro il volante […] - 5. L'assenza di sangue di Pasolini all'interno della propria autovettura e sulla portiera di guida. Su questi elementi si può considerare l'opportunità di avanzare una nuova ipotesi mai prima accennata: l'auto non è stata spostata da Pelosi ma da un altro aggressore che ha ideato e posto in essere il sormontamento del corpo di Pasolini; solo successivamente alla guida dell'auto si è messo il Pelosi. Ciò avvalora ancor più l'ipotesi della presenza di altri aggressori. […] Questa ricostruzione […]: 1°) spiega la contraddizione tra l'ingenuità di Pelosi e l'idea di simulare l'investimento che non è affatto un'idea ingenua; 2°) spiega la frase del Pelosi laddove dice di aver smesso di colpire Pasolini perché ormai lo vedeva a terra esanime e quindi lo riteneva morto; e quindi non ha capito neanche perché lo si dovesse sormontare con l'auto; 3°) spiega la presenza di tracce di sangue di Pasolini sulla parte destra del tetto dell'auto proprio in corrispondenza del limite posteriore della portiera di destra (dato obiettivo che nella prima ricostruzione del consulente di parte civile era posto in termini ancora problematici); 4°) spiega l'assenza di sangue di Pasolini all'interno della sua auto dato che trattandosi di più aggressori nessuno di essi era seria-

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mente imbrattato di sangue neanche sulle mani, ma ne poteva avere soltanto qualche traccia per avere toccato i mezzi contundenti; 5°) spiega, infine, l'assenza di grossi imbrattamenti di sangue di Pasolini sui vestiti del Pelosi perché nella dinamica di un'aggressione compiuta da più persone c'è chi sta più vicino, o meglio chi vi partecipa più attivamente, e chi no. Tale ipotesi trova la sua base sugli elementi oggettivi che spiegano incongruenze, lacune e contraddizioni e che tuttavia non si contrappongono alla tesi della volontarietà dell'omicidio. Questa, infatti, attiene all'autore del delitto chiunque esso sia. Se l'omicida è Pelosi questa è soltanto una ipotesi e ferma resta la certezza della sua volontà omicida. Se Pelosi non è invece il solo omicida, la volontarietà va attribuita ad altri e, pur tuttavia, Pelosi resta comunque, e forse in forma ancor più grave, compartecipe lucidamente cosciente dell'omicidio. [La personalità e il mondo ideale di Pasolini] Non possiamo, infine, chiudere queste note senza ricordare la personalità e il mondo ideale di Pasolini, il suo atteggiamento verso il problema della violenza, verso i diseredati, verso i potenti, e che cosa egli è stato nella nostra cultura con le sue opere, le sue tensioni morali, il suo impegno civile. «In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza, né fisica, né morale. Non perché io sia fanaticamente per la nonviolenza. La quale, se è una forma di auto-costrizione ideologica, è anche essa violenza. Non ho mai esercitato nella mia vita alcuna violenza, né fisica né morale, semplicemente perché mi sono affidato alla mia natura, cioè alla mia cultura...» Questa dichiarazione prelude in modo conciso ma significativo a un inedito che Pasolini volle pubblicare nell'ambito di quella anomala ma così indispensabile raccolta pubblicistica Scritti corsari destinata a suggellare la sua composita opera poetica – i più non lo hanno ricordato, ma, dalla letteratura più intima e clandestina al cinema più pubblico e popolare, Pasolini è rimasto saldamente poeta – con la netta impronta del reale e del quotidiano. Un confronto arduo e sofferto, ma sempre a viso aperto, con i fatti, con gli amici, con i nemici, con gli amici-nemici. Monologo o dialogo che fosse, è stato sempre più fitto e serrato, tanto da far della sua vita un apologo, culminato tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre dello scorso anno. In modi che qualcuno ha definito persino “maniacali”, Pasolini si batteva contro la brutale «omologazione totalitaria del mondo»

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oggi in atto – cioè contro quel processo consumistico-edonistico che avrebbe travolto l'individuo sino a trasformarlo in cosa: una povera cosa era infatti il corpo del giovane Antonio Corrado, ucciso a colpi di pistola nella notte fra il 29 e il 30 ottobre 1975 nel quartiere romano di San Lorenzo, vittima inconsapevole di una vendetta fascista, ammazzato al posto di un giovane extraparlamentare di sinistra perché stessa era la via, stessa la barba, stesso il soprabito; due giorni dopo, un'altra efferata violenza avrebbe ridotto anche Pasolini a una cosa senza vita, in quella notte fra il 1° e il 2 novembre cominciata proprio nelle vie di San Lorenzo, percorse a capo chino «perché si vedono facce terribili in giro, prive d'espressione»: la morte, arrivata per mano di un ragazzo-oggetto che forse sa o forse non capirà mai fino a che punto è stato tale. Come dice Jean-Paul Sartre, può darsi che Giuseppe Pelosi guardasse, sebbene con acerba inconsapevolezza, all'omosessualità come a una «tentazione costante e costantemente rinnegata, oggetto del suo odio più profondo», ma forse la sua insicurezza non poteva ancora permettergli di «detestarla in un altro perché in questo modo si ha la possibilità di distogliere lo sguardo da se stessi». Suo padre sì, il suo contesto sì, possedevano questa ottusa e tronfia consapevolezza, e lui avrebbe preso la sua “patente” e la sua “maturità” in questo senso, nel modo più viscerale, senza sapere che ormai la società sembra “tollerare” il diverso, o forse avvertendo con il suo ultimo, definitivo sentimento che Pasolini «aveva capito che era «intollerabile, per un uomo, essere tollerato». È tragicamente singolare ritrovare oggi tutto questo in un articolo scritto da Pasolini più di tre anni fa, il 7 gennaio del 1973, sulle colonne del “Corriere della Sera”: «Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono in faccia, rendendosi laidi come vecchie puttane di una ingiusta iconografia», scriveva lo scomparso, «ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre... Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre... Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani assomigliano sempre più alla faccia di Merlino… » [76]. Un apologo forse incompiuto, ma certo terribilmente concluso nel momento in cui il suo cuore ha cessato di battere, il suo sguardo di svelare, la sua coscienza di fremere. Sì, perché dal 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini ha cessato di esistere, e nei discorsi degli amici, in quelli dei nemici e in quelli degli amici-nemici, si è

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sempre sentita da allora, in modo grave, la sua mancanza, per non parlare di quanto la sua personalità sia assente nell'ingrato epitaffio offerto da questo delitto, e nel troppo intorbidito e controverso ricordo degli ultimi, drammatici momenti della sua vita, raccolti dagli impietosi occhi e orecchie di chi c'era, di chi non c'era, di chi poteva o di chi voleva esserci. Il cadavere di Pasolini è stato divorato dalla nostra società e dal nostro tempo: è questa la nemesi che chiude, come per un'esauribile regola narrativa, l'apologo. Si può ricordare qualcuno che non c'è più e talvolta lo si è fatto senza offesa né tradimento. Per colui che ha lasciato di sé l'impronta marcata della sua opera, poi, ciò sembrerebbe addirittura più semplice visto che ci sono i documenti a parlare in sua vece. Nonostante la incommensurabile e gravosa eredità che egli ci affida, o forse persino a dispetto di questa, Pier Paolo Pasolini ci ha precluso la via del ricordo, e ce ne siamo resi conto fin dal momento del più acuto dolore per la sua scomparsa, davvero profondamente tale perché “perdita e basta”. Sia pure in una interpretazione esoterica, Pasolini è stato più volte definito “un testimone provocatorio”, ma la sublime maledizione non è stata dettata né da un narcisismo del poeta, né dall'estro reclamistico dì un editore: c'era in questa sorta di slogan una verità istintiva, immediata, quasi epidermica, ma profonda e implacabile proprio come lo sono i messaggi stereotipi della pubblicità, che devono prima colpire, poi manipolare le nostre insoddisfazioni. Tutti ricordiamo come Pasolini seppe reperire nell'ineffabile inventiva consumistica dei “Jesus jeans” la crepuscolare parabola di un potere ciclopico, perché «il linguaggio dell'azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè i luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende a espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d'affari assolutamente chiaro». (“Corriere della Sera”, 17 maggio 1973). Nelle due parole “testimone provocatorio” c'è prima un elemento chiave che illumina non tanto la personalità di Pasolini quanto, essenzialmente, il suo rapporto fondamentale con la collettività, poi segue la registrazione “a caldo” di una sensazione rapida, ancora da codificare, che è appunto quel “provocatorio”. Sovente, di un individuo in qualche modo “pubblico” si azzardano legittimi pronostici, e la gara per decifrarne con anticipo i pensieri e le reazioni di fronte a questa o a quella questione può risultare finanche poco vivace. Per Pasolini questo gioco non si metteva in moto; per lui no, oseremmo dire per lui solo. È stata questa sua caratteristica a fargli conquistare sul campo l'aggettivo “provocato-

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rio”, che è un giudizio ottuso ma sincero, disarmante nella misura in cui ognuno potrà leggerlo, positivamente o negativamente, secondo la prospettiva preferita, senza tuttavia mai afferrarlo veramente. Immune come per natura dal tumore conformista (in realtà, questa sua vittoria molto personale è stata sofferta, come ben si può immaginare, poiché solo un lucido, costante e dolente esame della realtà può far sì che le impennate non finiscano prima o poi nella trappola dell'anticonformismo di maniera, o nella retorica del “bastian contrario” con cui si tappa la bocca al dissenziente fino a fargli provare il senso di colpa per la propria “anormalità”, una colpa che quasi sempre prende il sopravvento sui suoi slanci), Pasolini, pur non discostandosi mai da una sua logica ostinatamente vigile, ha sempre generato, con le sue reazioni, stupore. E quest'ultimo dapprima ha coinciso con una diffusa ostilità, che mal celava quella pressoché unanime cecità culturale sempre pronta a sbarrargli il cammino, ma poi la volontà di “resistere alla provocazione” ha via via lasciato il posto a graduali, sempre più estese prese di coscienza, in un Paese che fatalmente proprio nel moltiplicarsi dei disagi e degli stenti vede più chiaramente il proprio cammino. Non è casuale, infatti, che dal 1968 il poeta abbia progressivamente intensificato i suoi interventi, dando sempre maggiore incisività ai suoi bersagli, divenuti tremendamente congrui, e infittendo le schiere degli amici (quei movimenti politici e culturali che della sua presenza hanno sentito il bisogno: tutti coloro che con lui hanno voluto dialogare al di là delle polemiche devianti o persino delle divergenze di fondo) e dei nemici (i depositari o i servi di un potere che prima lo ha disprezzato quale intellettuale e quale omosessuale confinandolo ai margini, poi, comprendendo l'inutile sforzo di rinchiuderlo in un ghetto, ha voluto mostrargli i denti). Né gli uni né gli altri potranno ricordarlo al presente, tuttavia, perché il suo pensiero era in costante divenire e si sottraeva a qualsiasi schema: traeva linfa dalla vita, e ne accettava le più orride beffe, ne condivideva le contraddizioni pesanti da portare. Pasolini non coltivava utopie sorde, e questo tratto così semplice e fermo è stato arduo da accettare per chi lo ha accusato di “voler tornare indietro”, di “rimpiangere il passato”, perché chi l'ha detto o solo pensato non potrà mai confessare, in primo luogo a se stesso, la disperata fragilità del proprio, preventivato futuro. Con la sua presenza, Pasolini era egli stesso l'utopia, in quanto veicolo dialettico di un'era, e di alcune generazioni. Il “testimone” si poteva arrestare solo con la morte. Ora la coscienza pubblica, straziata e straziante, di un'epoca tace, e chi ha tanto invocato il silenzio non può dolersene. Sul “Corriere della Sera”, il 30 gennaio 1975. Pasolini ammoniva sé e noi a questo proposito:

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«... La mia vita sociale in genere dipende totalmente da ciò che è la gente. Dico “gente” a ragion veduta, intendendo ciò che è la società, il popolo, la massa, nel momento in cui viene, esistenzialmente (e magari solo visivamente) a contatto con me. È da questa esperienza esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici...» Dal 2 novembre 1975 la memoria si è dimostrata infatti ingrata, e con lui e con noi: non ha saputo darci i mezzi per farlo rivivere,perché non poteva e mai potrà. Lo abbiamo notato nella lode o nell'infamia di tanti suoi improvvisati biografi, quasi tutti,ciascuno a suo modo, rifugiatisi nella più arida convenzionalità. Sono risbucati fuori anche i rappresentanti di un livore e di una rozzezza che credevamo, peccando di presunzione, estinti. Pasolini li conosceva bene, sono coloro che usano l'aggettivo “squallido” («... cioè l'aggettivo di sempre, sistematicamente, meccanicamente, canagliescamente usato negli articoletti di cronaca di tutta la stampa italiana...»), irriducibili perché anonimi portavoce di quella «Italietta, paese di gendarmi» che il poeta non avrebbe mai dimenticato: «... Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona...» (da '“Paese Sera”, 8 luglio 1974).

Forse l'unico frammento di memoria che potrebbe restituirci, almeno per un attimo. Pier Paolo Pasolini vivo, è il suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma, che egli aveva configurato come un elemento di rottura spontanea con le sue opere precedenti, nell'intento di fondere il “testimone” e “l'artista”, alla ricerca di una leggibilità esplicitamente attuale, fatta di riflessioni ma anche di carne e di sangue. Ma questo film il popolo italiano, considerato “immaturo” dai suoi “tutori”, pare che non possa vederlo e discuterlo. È questo l'ultimo sopruso, l'ultima violenza dell'esistenza-apologo di Pier Paolo Pasolini e, per lo meno in questo caso, il sopruso e la violenza hanno l'inequivocabile, inconfondibile sapore della “ufficialità”. [“Il romanzo delle stragi”] C'è un'altra memoria, però, che terrà in vita Pier Paolo Pasolini.

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È la memoria di una strana Storia, che raramente accede all'“ufficialità” poiché troppo alternativa rispetto a questa, ma non riesce tuttavia a spegnersi negli occhi e nella mente degli uomini che cercano, pensano, sanno, dibattono. Il 14 novembre del 1974, Pasolini scrisse quello che chiamò Il romanzo delle stragi: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). lo so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. lo so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore. che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il

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“progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile...». Infatti, non bisogna necessariamente essere intellettuali e romanzieri per acquisire le stesse consapevolezze che armavano quel giorno la penna di Pasolini, dal momento che milioni di italiani “sanno” e manifestano ogni giorno nelle piazze, nelle fabbriche, nelle scuole, ovunque, un dissenso che è il frutto di questa consapevolezza. Allo stesso modo noi sappiamo chi sono, tra le quinte di questo apologo, i mandanti e gli esecutori “ideali” dell'assassinio di Pasolini, come lo sapeva quella folla di romani che lo ha salutato, con dolore e con rabbia, per l'ultima volta nella camera ardente a Campo de' Fiori. Quella folla così eterogenea, così “romanesca e inattendibile” perché così popolare, sapeva e sa. Ma come noi non ha le prove. Solo qualche indizio [77].» Avv. Guido Calvi

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Note

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[1] Da un'intervista di Andrea Turetta al giornalista Giuseppe Lo Bianco, dal sito internet dell'editore Chiarelettere (chiarelettere.it), 9 aprile 2009. [2] Un altro dei misteri irrisolti del nostro Paese. La strage di piazza Fontana a Milano è del 12 dicembre 1969. [3] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Einaudi 1992, p. 543. [4] Dalla relazione al Gip della Procura di Pavia del Pm Vincenzo Calia. [5] Nella prefazione a La Divina Mimesis (Einaudi, Torino 1975) Pasolini scrive: «… do alle stampe oggi queste pagine come un “documento”, ma anche per fare dispetto ai miei “nemici”: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all'Inferno […] (1975)». Pasolini sceglie come Virgilio il se stesso degli anni Cinquanta - «piccolo poeta civile che ingiallisce con i suoi libri» - e lasciate le tre fiere comincia il suo viaggio in un Inferno neocapitalistico. Sdoppiandosi in Dante e in Virgilio, è ritornato sui nodi polemici del suo inesausto confronto con la letteratura ma anche con la realtà del suo tempo. [6] Federico De Melis, Un romanzo di luce, “il manifesto”, 25 ottobre 1992. [7] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 546. La strage di Bologna (2 agosto 1980) è uno degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia. Alle 10.25, nella sala d'aspetto di Seconda Classe della Stazione di Bologna Centrale un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplode uccidendo ottantacinque persone e ferendone oltre duecento. [8] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 419. [9] Il 2 novembre 1975, una domenica, il corpo martoriato di Pasolini fu trovato in uno spiazzo all'Idroscalo di Ostia. Terminava in modo tragico la vita di uno dei più grandi scrittori e intellettuali italiani del Novecento. [10] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., pp. 527-529. Qui e in tutte le citazioni pasoliniane, frasi o singole parole riportate tra parentesi quadre indicano ciò che nel testo originale lo scrittore contrassegnava (con annotazioni, sottolineature ecc.), molto probabilmente per rivedere e modificare in una successiva stesura quelle espressioni o quei termini. [11] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., pp. 501-503. [12] Enrico Campofreda nel sito internet pasolini.net, agosto 2005. Si tratta di un commento critico all'articolo di Pier Paolo Pasolini, Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo apparso sul “Corriere della Sera” del 24 giugno 1974 con il titolo Il Potere senza volto, poi in Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975. [13] “la Repubblica”, 27 ottobre 1992. [14] Federico De Melis, Brucia il Petrolio di Pasolini, “il manifesto” 28 ottobre 1992. De Melis cita il pesante giudizio, poi raccolto nel volume Einaudi Descrizioni di descrizioni di Pier Paolo Pasolini al saggio di Ajello Lo scrittore e il potere, che Pasolini, definì “un miserabile perbenistico libello”. [15] Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999. Un ampio stralcio del testo dell'articolo di Pier Paolo Pasolini è leggibile nella quinta postilla, Arringa dell'avvocato di parte civile Guido Calvi del 24 aprile 1976 al processo per l'assassinio di Pier Paolo Pasolini (1976) a pp. 120 sgg. Guido Calvi aveva dato voce allo stesso Pasolini nella parte conclusiva della sua arringa. [16] Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere ovvero L'articolo delle lucciole, in Scritti corsari, cit. [17] “Lettera ad Alberto Moravia”, in Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 344.

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[18] Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi 1993. [19] Carla Benedetti, Dossier Petrolio, in “Queer”, supplemento a “Liberazione”, 30 ottobre 2005. [20] Il processo che ne seguì si risolse con una assoluzione (Tribunali di San Vito al Tagliamento, 1950 e di Pordenone, 1952). Il 28 gennaio 1950 Pier Paolo e la madre avevano lasciato il Friuli per trasferirsi a Roma. [21] Roberto Chiesi, responsabile del Centro Studi-Archivio Pasolini presso la Cineteca di Bologna, in “Diario”, 28 ottobre 2005. [22] Claudio Cesaretti, Il “vate” capovolto, in “Il Borghese”, 7 dicembre 1961. La “giornalista marxista” che ha interpretato il ruolo di Nannina in Accattone è Adele Cambria. La tentata rapina al benzinaio Bernardino De Santis, impiegato in un bar-distributore presso S. Felice Circeo, si riferisce a un'aggressione subita dallo stesso De Santis il 18 novembre 1961 da parte di “uno sconosciuto con cappello nero”. Molto romanzesca la versione dell'aggredito: lo sconosciuto dopo aver sorseggiato una Coca-Cola e dopo molte domande, avrebbe calzato un paio di guanti neri, inserito nella pistola un proiettile d'oro e cercato di rapinare l'incasso della giornata. De Santis cerca di reagire e colpisce con un coltello la mano del rapinatore, che fugge non prima di aver minacciato il ragazzo. Il giorno successivo De Santis vede passare sulla strada prospiciente il distributore una Giulietta, in cui riconosce il suo rapinatore, annota la targa che denuncia ai carabi nieri. In quella Giulietta c'è Pier Paolo Pasolini. Il nucleo dei carabinieri di Roma perquisisce l'abitazione e la macchina di Pasolini in cerca della pistola. Interrogato dai Carabinieri, Pasolini ammette di essere entrato nel bar, di aver bevuto una Coca-Cola, di aver fatto alcune domande, ma di essersi poi diretto a San Felice Circeo, dove stava lavorando alla sceneggiatura di Mamma Roma. Il processo si conclude nel 1963 con l'assoluzione piena di Pasolini. [23] Angelo Ferracuti in “Diario” 28 ottobre 2005. [24] Pier Paolo Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., già in “Il Mondo”, 28 agosto 1975; poi in Lettere luterane, Garzanti, Milano 1976. [25] Pier Paolo Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi DC, cit. [26] Giovanni Pellegrino con Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, Segreto di Stato, La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000. [27] Il processo Andreotti si è concluso con la dichiarazione di colpevolezza dell'imputato, da parte della Corte d'appello, fino alla primavera del 1980: è stato cioè riconosciuto colpevole di “un'autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi concretamente ravvisabile fino alla primavera del 1980”, reato tuttavia “estinto per prescrizione” (i virgolettati si riferiscono a passaggi della sentenza di appello del 2 maggio 2003). Ai cittadini italiani si è fatto credere che fosse stato assolto anche in appello, ma all'imputato eccellente era chiaro come ciò non fosse vero, cosicché ha fatto ricorso in cassazione chiedendo l'annullamento della prescrizione e una assoluzione con formula piena. Ma la cassazione (15 ottobre 2004) ha confermato la sentenza di appello e lo ha condannato conseguentemente a pagare le spese processuali. [28] Paolo Di Stefano, Il Petrolio al veleno di Pasolini. Il caso Mattei, i sospetti su Cefis e la morte violenta del poeta, “Corriere della Sera”, 7 agosto 2005. [29] L'appunto di Petrolio cui si riferisce Paolo Di Stefano è a p. 118 dell'edizione Einaudi del romanzo incompiuto di Pasolini; quest'ultimo scrive: « ** inserire i discorsi di Cefis, i quali servono a dividere in due parti il ro-

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manzo in modo perfettamente simmetrico e esplicito […] 16 ottobre 1974», in Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit. [30] Giovanni Giovannetti in sconfinamenti.splinder.com. [31] Carla Benedetti, Dossier Petrolio, cit., 30 ottobre 2005. [32] Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica, a quell'epoca dirigente del Partito comunista italiano, era intervenuto nel pomeriggio di quello stesso giorno alla “Festa dell'“Unità” di Milano criticando a sua volta la pessima direzione del paese da parte della Democrazia cristiana. Ricordo ancora quel discorso, che ascoltai piuttosto sorpresa: Napolitano, infatti, all'interno del Partito comunista italiano faceva parte (insieme a Gerardo Chiaromonte, a Emanuele Macaluso e ad altri) della corrente definita “migliorista” che si rifaceva alle tendenze riformiste di Giorgio Amendola, che prevedevano cioè un graduale allontanamento del Pci dall'ideologia marxista per abbracciare tattiche e strategie riformiste e socialdemocratiche, preferendo il dialogo con partiti più moderati come il Psi e il Psdi, per mettere fuori gioco invece alcuni partiti della Nuova sinistra (tra i quali il più rappresentativo era Democrazia proletaria), che rimanevano fedeli al marxismo ortodosso. In quell'intervento alla “Festa dell'Unità” Napolitano si espresse sorprendentemente con tesi “rivoluzionarie”, lanciando accuse pesanti alla gestione democristiana della cosa pubblica. [33] Il “passo di una mia opera” che Pasolini cita si riferisce alla Divina Mimesis, di cui lo scrittore cominciò a parlare dal 1963. Solo nel '75, l'anno stesso in cui sarà ucciso, decise di dare alle stampe quelle pagine che lui stesso definiva “documento”. Un documento della crisi in cui lui stesso era caduto in quella prima metà degli anni sessanta. E insieme, il tentativo di costruire un romanzo impossibile. Avrebbe voluto un libro scritto a strati, che documentasse come un diario ogni nuova stesura senza cancellare le precedenti. Sarebbe stata l'ultima opera in un italiano non-letterario, una lingua che vivesse di osmosi con i dialetti, il latino, il parlato, fino ad esaurire ogni incrocio possibile. [34] Intervento di Pier Paolo Pasolini pubblicato da “Rinascita” il 27 settembre 1974 e poi, con il titolo Genocidio, in Scritti corsari, cit. [35] Gaetano Verzotto, presidente dell'Ems su raccomandazione del cardinale Ruffini, liquidò l'Ente, e se ne andò all'estero per evitare un mandato di cattura. L'accusa era quella di essere implicato nel crac Sindona. Verzotto riuscì a sfuggire a un attentato nel 1975, e così affermò all'epoca il suo legale Ludovico Corrao: “Siamo convinti di trovarci al centro di una congiura spietata, con obiettivi di giustizia sommaria”. Vito Guarrasi, avvocato e personaggio controverso, per molti legato ad ambienti mafiosi, nei primi mesi del 1960 fu consigliere di Enrico Mattei. La collaborazione fu di breve durata e l'incarico di Guarrasi era già termi nato all'epoca della morte di Mattei (27 ottobre 1962). Fu in seguito consulente di Eugenio Cefis. [36] Tetis significa in greco antico sesso. Da Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti 1972. [37] La recensione di Flavio Santi al libro di Gianni D'Elia, L'eresia di Pasolini, Effigie, 2005 è apparsa in “Liberazione” del 9 ottobre 2005 con il titolo Pasolini: l'omicidio di un poeta necessario. [38] Sulle pagine scomparse di “Lampi sull'ENI” si veda alle pp. 70 sgg. [39] Flavio Santi, L'omicidio di Pier Paolo Pasolini e il cuore di tenebra dell'Italia, in “Liberazione”, 10 maggio 2006. In relazione a un passaggio di questo articolo, un rapporto della Guardia di Finanza indicato nella relazione del pm di Pavia Vincenzo Calia rileva che una delle società della

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“Edilnord centri residenziali” di Umberto Previti (padre di Cesare) – già “Edilnord Sas” di Silvio Berlusconi & C., fondata da quest'ultimo nel 1963, e con sede a Lugano –, si chiama Cefinvest. Da un'ulteriore mia ricerca risulta anche che la Cefinvest SpA. di Lugano è stata in seguito messa in liquidazione, senza che abbia potuto appurare la data in cui ciò era avvenuto. Aggiungo che proprio sul ruolo di Cefinvest e di Aktiengesellschaft für Immobilienanlage in Residenzzentren, entrambe di Lugano, la Guardia di Finanza, che riteneva si trattasse di società off shore collegate alla Edilnord, interrogò Silvio Berlusconi. In particolare, a raccogliere tali dichiarazioni fu un capitano del Nucleo speciale di polizia valutaria. Il suo nome è Massimo Maria Berruti, che negli anni Ottanta lasciò le Fiamme Gialle per mettersi in proprio come commercialista. In seguito Berruti lavorò per conto del gruppo Fininvest-Mediaset. Dal 1996 è deputato al Parlamento italiano, prima in Forza Italia, ora nel Popolo della Libertà (eletto anche nel 2008). Quando si aprirono le inchieste su alcune tangenti alla Guardia di Finanza ad opera della Fininvest, Berruti venne accusato di favoreggia mento, in particolare di aver tentato di depistare le indagini cercando di non far parlare i finanzieri arrestati sul caso riguardante la Fininvest. Processato (1997), venne condannato a 10 mesi di carcere in primo grado, pena successivamente ridotta a 8 mesi di detenzione per favoreggiamento. [40] “ABC” era un settimanale politico, di attualità e di costume di taglio scandalistico. L'argomento fu ripreso, sostenuto e approfondito due anni dopo da Riccardo De Sanctis nel suo libro Delitto al potere. Controinchiesta, La nuova sinistra - Edizioni Samonà e Savelli, Roma, 1972. [41] AA.VV., Dossier delitto Pasolini, Kaos edizioni, Milano 2008. Il libro contiene le sentenze pronunciate nei tre gradi di giudizio, nonché gli inter rogatori di Pino Pelosi da parte della polizia e le sue testimonianze al processo di primo grado. Il volume raccoglie inoltre i documenti riguardanti la cosiddetta controinchiesta dell'“Europeo”. [42] Intervista a Carlo Lucarelli, Teatro Colosseo, Torino, 16 febbraio 2007. [43] Carlo Lucarelli con Gianni Borgna, “Micromega” n. 6, novembre 2005. [44] Con la dizione “la magistratura di Pavia” si intendono i magistrati di Pavia, competenti per territorio sul disastro di Bascapè, che indagarono dal 1962 sull'“incidente aereo” in cui aveva perso la vita Enrico Mattei. [45] Dalla relazione di Vincenzo Calia (2004): «Mario Ronchi era il testimone che fece la prima dichiarazione dopo il disastro aereo del 27 ottobre 1962 ai giornalisti Fabio Mantica e Arnaldo Giuliani del “Corriere della Sera”; l'articolo apparve nell'edizione del giorno successivo e diceva tra l'altro: “[…] l'agricoltore Mario Ronchi, abitante alla cascina Albaredo, aveva terminato da poco la cena quando un rumore come di tuono l'aveva richiamato sull'aia. 'Mi era parso strano quel tuono - ha detto il Ronchi perché anche se pioveva non mi pareva tempo da nubifragio. Così son corso sull'aia e ci sono rimasto, con una paura tremenda. Il cielo era ros so, bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutte attorno. Sulle prime ho pensato ad un incendio, poi ho capito che doveva trattarsi di un aeroplano. Si era incendiato e i pezzi stavano cadendo ora sui prati, sotto l'acqua. Mi sono infilati gli stivaloni, ho afferrato una lampada e sono corso verso il luogo in cui il fuoco era più grande e faceva più paura. Pensavo di poter soccorrere qualcuno, ma mi sbagliavo. I passeggeri erano bruciati, dovevano essere tre o quattro, non si capiva bene. Sono corso subito ad avvertire i carabinieri di Landriano e ho guidato sul posto il

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brigadiere con i suoi uomini...'“». Ma il 29 ottobre, al maresciallo dei carabinieri il Ronchi stravolse del tutto la dichiarazione precedente, affermando di non avere visto e sentito nulla, circostanze peraltro smentite da numerose e consistenti fonti probatorie. È da aggiungere che Giovanna Ronchi, figlia di Mario, fu assunta nel febbraio 1969 dalla “PRO.DE S.p.a.” (poi GE.DA S.p.a.), direttamente riconducibile al presidente della SNAM Eugenio Cefis.” Quelli della SNAM hanno dato a mio papà il compito di tenere pulito il giardino in cambio di un importo che io non conosco”, dichiarò Giovanna Ronchi. [46] Gianni D'Elia, Il Petrolio delle stragi: postilla a L'eresia di Pasolini, Effigie, Milano 2006, pp. 37-38. [47] Pier Paolo Pasolini, Il romanzo delle stragi ovvero Che cos'è questo golpe?, in “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974, poi in Scritti corsari, cit. [48] Pier Paolo Pasolini, Petrolio, cit., p. 526. [49] Intervista di Furio Colombo a Pier Paolo Pasolini pubblicata nell'inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa”, 8 novembre 1975. [50] L'osservazione è di Aurelio Roncaglia, Nota filologica a Pier Paolo Pasolini Petrolio, cit. p. 577. [51] Renzo Paris in “Petrolio”, il vero testamento di Pier Paolo Pasolini, “Liberazione” 4 gennaio 2006 scriveva tra l'altro: «[…] Che meraviglia gli eredi degli scrittori, grandi e piccoli, gli occhiuti custodi delle loro carte! Per lo più sono estranei alla letteratura del defunto, al loro valore, avidi, spesso venali, se non proprio dei minus habens. Tranquilli, la leggenda della stupidità congenita degli eredi, riguarda soltanto quella fetta per così dire incolta, quella che ignora le varianti, preda a volte dei grandi squali dell'inedito. Quando però, e accade raramente, l'erede è colto, allora si mette a controllare pure le virgole del genio e non permette a nessuno di editare alcunché. Nell'intervista di Paolo Mauri a Graziella Chiarcossi apparsa su La Repubblica 31 dicembre 2005, l'erede colta delle carte pasoliniane fa piazza pulita di tutte le nuove interpretazioni sulla morte di quel grande. È come infastidita dal rumore del trentennale della morte, ma ancora di più dai libri usciti. Convegni, mostre, ristampe, tutto inutile ma quello che più la urta è che si torni a parlare della morte e ad almanaccare nuove ipotesi. […] Che poi Petrolio fosse un segreto, come ha riferito la Chiarcossi, ci andrei piano. Moravia lo sapeva e con lui Siciliano, Volponi, il sottoscritto e Dario Bellezza, con il quale abbiamo scherzato sul postumo. E credo altri lo sapessero. Il motivo era semplice. [Pasolini] Voleva creare l'attesa e poi a un certo punto pubblicarlo. Ricordo lo sguardo indagatore quando me lo disse. Era attentissimo al mio volto, voleva conoscere se era qualcosa di vivo quello che stava dicendo o se il suo romanzo postumo a me non interessasse punto. […] Pasolini è stato assassinato nel momento di una sua maturazione, quando era pronto per superare l'odio e giungere alla raffigurazione di una bellezza piena. Era insomma pronto per il suo capolavoro, di cui Petrolio è solo un assaggio. E allora, per coloro che uccidendolo lo hanno mutilato, non può esserci pietà nonché perdono e ben vengano tutti i deliri di chi non si è ancora rassegnato a quella morte e dunque alle ulteriori folgorazioni che il poeta teneva in serbo per noi. [52] Sull'inserimento delle pp. 117-118 (Einaudi) di Petrolio nella relazione del PM Vincenzo Calia, vedi alle pp. 67 sgg. [53] In Petrolio gli appunti che presentano pagine bianche a volte hanno una titolazione, mentre in altri casi riportano in testa soltanto un numero di appunto.

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[54] Al Museo Criminologico di Roma vi sono due teche dedicate al delitto: vi si trovano i reperti di Pasolini (la camicia, gli stivaletti, la tessera da giornalista, gli occhiali ecc.), e quelli di Pelosi (le scarpe, un anello con pietra rossa e la scritta “United States Army” trovato a una cinquantina di metri dal luogo del delitto. “Perso nella colluttazione”, disse Pelosi in una delle sue ricostruzioni). Vi si conservano anche il plantare e il maglione verde. La cugina-testimone è Graziella Chiarcossi. [55] AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. Tratto dalla relazione peritale del professor Faustino Durante (esame necroscopico) [56] L'incredibile reo confesso, di Paolo Berti, in “L'Europeo”, 21 novembre 1975. [57] Pelosi e gli avvocati, di Paolo Berti, in “L'Europeo”, 21 novembre 1975. [58] AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. [59] Dalla sentenza del processo di primo grado al processo a Pino Pelosi per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, aprile 1976, in AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. [60] Dalla sentenza del processo di appello al processo a Pino Pelosi per l'omicidio di Pier Paolo Pasolini, dicembre 1976, in AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. [61] Giorgio Galli, Un delitto politico, in AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. [62] Giovanni Maria Bellu, “I carabinieri ci dissero: stuprate Franca Rame”. E il giudice accusa cinque neofascisti, “la Repubblica”, 10 febbraio 1998. «Furono alcuni ufficiali dei carabinieri a ordinare lo stupro di Franca Rame. L'aveva detto dieci anni fa l'ex neofascista Angelo Izzo, l'ha confermato al giudice istruttore Guido Salvini un esponente di spicco della destra milanese, Biagio Pitarresi». [63] Si tratta dell'avvocato Rocco Mangia, il quale si servì nel processo a Pino Pelosi per l'omicidio di Pasolini della consulenza di Aldo Semerari, accreditato psichiatra forense ed esperto criminologo, contemporaneamente collaboratore dei servizi segreti; più avanti si iscrisse alla P 2. Nei processi fatti ai componenti della Banda della Magliana, Semerari ha fatto perizie psichiatriche “su misura” per agevolare la loro uscita dal carcere: un accordo segreto preso con loro per ottenere finanziamenti per il gruppo di estrema destra che aveva costituito. Ha avuto un ruolo anche in un processo famoso, quello a Braibanti. La sua vocazione al doppiogiochismo lo portò a collaborare anche con Raffaele Cutolo, davanti alla villa del quale Semerari sarà assassinato (e smembrato) nel 1982. [64] Giorgio Galli, Un delitto politico, in AA.VV., Dossier delitto Pasolini, cit. [65] Enzo Siciliano, Polveroni e cattiva coscienza, così il paese mise tutto a tacere, “la Repubblica” 9 maggio 2005. [66] Giovanni Maria Bellu, Pino Pelosi: “Non sono stato io a ucciderlo”, “la Repubblica” 7 maggio 2005. [67] L'intervista è proposta anche nel film di Marco Tullio Giordana Pasolini: un delitto italiano, 1995. [68] Gianni D'Elia, L'eresia di Pasolini, Effigie, Milano 2005. [69] Nota redazionale pubblicata in “Liberazione”, 10 ottobre 2005. [70] Tomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000. [71] Walter Veltroni, intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, 20 giugno 2007. Negli anni '70 Pasolini comincia a prendere parte alla vita della

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Fgci (Federazione Giovanile Comunista Italiana) romana. Va al festival di Villa Borghese del '74, poi a quello del Pincio del '75, dove tiene un dibattito fino alle 2 del mattino con 5 mila persone tra cui, seduto in prima fila accanto a Petroselli, Adornato, Borgna e Veltroni, c'è Fabrizio De Andrè, che ha appena finito il suo primo grande concerto. Nel giugno di quell'anno, Pasolini appoggia la candidatura di Gianni Borgna alle amministrative con un appello pubblicato dall'“Unità” a votare Pci – “il paese pulito nel paese sporco”. [72] Enrico Campofreda, Rileggere Pasolini, in pasolini.net, luglio 2005. [73] La guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur iniziò il 6 ottobre 1973, innescando una crisi petrolifera che durò con alterne vicende fino al 1977. La crisi si risolse in una forte impennata del prezzo del petrolio. [74] Pier Paolo Pasolini, Perché il Processo, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., già in “Corriere della Sera”, 28 settembre 1975; poi in Lettere luterane, Garzanti 1976 (prima pubblicazione postuma). [75] Pier Paolo Pasolini, Quasi un testamento, in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, cit., già in “Gente”, 17 novembre 1975. [76] Mario Merlino è il 'trasformista' ideologico, il personaggio più sordida mente emblematico di tutta la vicenda della strage del 12 dicembre del '69 a Piazza Fontana. [77] Dall'arringa dell'avvocato di parte civile Guido Calvi al processo contro Pino Pelosi per l'assassinio di Pier Paolo Pasolini (1976).

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Pubblicato in proprio l'8 maggio 2010

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